SARDONIA Maggio 2021

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SARDONIA

Foto dietrichsteinmetz

Ventottesimo Anno / Vingt Huitième Annèe

Maggio 2021/ Mai 2021 Stanis Dessy Francesco Cesare Casula Pietrina Atzori Radici Call for Artists Pietro Babbai Casu ZED-1 Elisa Carta Nick Spatari Necropoli a Ile Rousse La Battaglia di Anghiari Rita Thermes Toshiko Horiuchi Adolfo Ferrai A Innantisi GUNDA Terrapintada Gianluca Medas Forma e poesia nel Jazz Sardana Catalana e Ballo Sardo Stonehenge VS Nuraghi Sant’Efis Martiri gloriosu https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia


Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@gmail. com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale

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uando non ci resta più che invocare il nostro santo patrono, Sant’Efis martiri gloriosu, vuol dire che veramente siamo messi proprio male. Emerge inoltre tra le diverse teorie complottiste ed altre bufale, che lo sviluppo di una pandemia che avrebbe interessato il pianeta intero è qualche cosa che era già stato annunciato da diverse fonti, tra cui naturalmente l’O.M.S. e che queste informazionmi erano state diffuse presso i governanti (sic) dei maggiori Stati sia Europei che Asiatici, Americani, Africani ed Australiani e questo già dal 2015. Ciò non ha assolutamente impedito che i diversi responsabili (sic) si adoperassero alacremente a smantellare le strutture della Sanità Pubblica quando essa esisteva, sopratutto in Europa, eredità della seconda guerra mondiale e delle forze sociali che avevano debellato il nazismo. Nonostante il fatto che gli Stati Uniti non siano dotati di un simile sistema lasciando milioni di cittadini senza copertura delle spese mediche e nonostante il fatto che sia stata una delle nazioni più affette dalla pandemia, sembra che sia paradossalmente il luogo che riesce a riemergere ed a riprendere le attività che avevano cessato a causa del covid-19, meglio di tutti. Purtroppo non siamo in questa situazione ed i governanti (sic) di cui si é dotata la Sardegna ed ancor più l’Italia (ma anche gli altri paesi come la Francia non si sono mostrati più efficaci) dimostrano tutta la loro inefficienza ed incompetenza. Al momento in cui scrivo queste linee la Sardegna é ancora zona Rossa, dopo essere stata l’unica zona Bianca, passando così da un estremo all’atro. La chiusura quasi sistematica della maggior parte degli esercizi commerciali per non parlare dei musei, delle sale di spettacolo, delle palestre e naturalmente dei bar e ristoranti, sta creando un bomba economica a ritardamento che sta già portando sul lastrico numerosi imprenditori sopratutto del mondo dello spettacolo. Malgrado i vaccini, che procedono a rilento (non si capisce perché dopo più di un anno di pandemia), non si riesce a sapere quando e sopratutto come si potrà considerare di essere fuori pericolo e mentre degli incoscienti rifiutano le misure di precauzione e fino al vaccino, altri pretendono l’apertura immediata di tutti gli esercizi commerciali. In questa bolgia di contraddizioni dove esperti autoproclamati affermano tutto ed il contrario di tutto, rifugiarsi nell’Arte è una magra consolazione ma spero che le proposte di questo mese riescano ad aiutarvi a sopportare ed il confinamento e l’impossibilità anche di sportarsi da un paese all’altro per incontrare almeno i propri cari. Spero veramente che questa situazione si risolva comunque rapidamente. A presto. Vittorio E. Pisu


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STANIS DESSY

more e curiosità per tutti gli aspetti del mondo visibile, osservati con uno sguardo distaccato, limpido e oggettivo: si potrebbe riassumere così, in poche parole, il senso della sua pluridecennale ricerca.” Così scrive Marco Magnani in merito alla poetica di Stanis Dessy distinguendone due fasi fondamentali: quella giovanile analitica e spietata e quella più equilibrata e leggera della maturità, ma sempre attraverso un’originale visione personale. Incisore di fama internazionale nonché eclettico artista sperimentatore delle più disparate tecniche, è alla fine del primo decennio del Novecento che realizza le prime opere più eloquenti, totalmente estranee alla visione primitiva agro-pastorale e a quel folklore imperante nell’isola. Prendendo le mosse dal sinuoso linguaggio Liberty, si forma a Roma per attingere ai Valori Plastici, che prevedono il recupero della figurazione classica che da Giotto si estende ai maestri del Rinascimento, soprattutto all’equilibrio della composizione e al senso incantato della sospensione metafisica. È l’epoca dei paesaggi dalla luce nitida e cristallina che scolpisce volumi puri, ma è nel ritratto e nell’autoritratto che si manifesta quella fissità al-

gida e analitica – tipica del Realismo Magico – caratterizzata da un linearismo di matrice secessionista e da cromatismi che virano al viola e all’azzurro. Quando l’artista decide di confrontarsi con la vita popolare sceglie come modelli vecchi mendicanti, ai quali esaspera arti nodosi e tratti somatici, con un’ossessività nell’accentuare rughe, panneggi e deformazioni che nulla ha a che fare con gli stilemi della pittura sarda dell’epoca, come si può constatare nell’impietoso ritratto di Zia Remundica, ottenuto con una violenza espressionistica da Neue Sachlichkeit che inizia a perdere poco dopo con i ritratti della moglie Ada. La mostra del Tribu, STANIS DESSY, MAESTRO DEL COLORE E DELLE TECNICHE, é stata organizzata dall’Associazione Stanislao Dessy e ILISSO Edizioni. All’incontro, curato da Antonello Cuccu, è stata presente Paola Dessy, figlia di Stanis ed essa stessa valente artista, colonna del gruppo avanguardista sassarese degli anni Sessanta/Ottanta, autrice anche di una significativa incursione nelle arti applicate, soprattutto nella ceramica dove costituisce un esempio apripista. (segue pagina 4)

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(segue dalla pagina 3) E stato possibile ammirare diverse opere inedite e godere di un approccio didattico innovativo che, con grande sapienza, affianca alla scansione cronologica una differenziazione per generi artistici, evidenziando l’estrema versatilità e propensione alla sperimentazione dell’artista valorizzate dall’allestimento dell’arch. Antonello Cuccu. Tale scelta permette da una parte di individuare facilmente le due fasi della produzione di Dessy (gli anni della ricerca, dal 1918 al 1928, e quelli della maturità, dal 1930 ) dall’altra di spaziare tra le varie tecniche adottate, con particolare attenzione alla xilografia e calcografia e ai nuclei tematici dell’autoritratto e dei ritratti della moglie Ada e dei figli, elementi che caratterizzano entrambe le fasi trasversalmente. Si segnala inoltre che in mostra è stato esposto un raro dipinto del 1940, la vasta tela “Giustizia”, realizzato e mai collocato nella sala delle Assise del Tribunale di Sassari. Una sala del percorso è dedicata a Paola Dessy, figlia di Stanislao e colonna del gruppo avanguardista sassarese, che a partire dagli anni Sessanta ha concentrato la sua carriera sulla produzione pittorica e sulle arti applicate, in parti-

colare su quella ceramica. Ricordiamo infine che è stato tracciato un affondo monotematico, dal titolo Stanis Dessy, maestro del colore e delle tecniche, che comprende un inquadramento generale dell’artista, curato dalla professoressa Caterina Virdis Limentani. in un percorso che attraversa quasi tutto il Novecento, propone 120 opere, in un allestimento suddiviso per generi artistici (pastello, acquerello, olio, monotipo, disegno, xilografia, tecniche calcografiche, scultura, design) (tra cui alcuni inediti e la grande tela della Giustizia realizzata per il Tribunale di Sassari e mai acquisita), con l’obiettivo di mettere in rilievo la poliedricità dell’artista e la sua inclinazione alla sperimentazione. L’affondo monotematico comprende anche un inquadramento più generale dell’artista, uno dei portabandiera isolani del primo Novecento, privilegiandone il taglio tematico che esula da soggetti regionalisti Un’attitudine rimarcata dalla ricca sezione dedicata alla calcografia, che gli ha permesso di conquistare un ruolo di primo piano e giungere, per dirla con Magnani: “ad una rappresentazione commossa e antiretorica della vita del popolo sardo. Così come nessuno aveva mai fatto. Roberta Vanali


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ino ad ora sono stati pubblicati parecchi lavori riguardanti la bandiera dei “Quattro Mori”, sia divulgativi che scientifici; ma tutti incentrati sulla storia e la descrizione del significato dei “Mori”: dove e quando essi sono nati, cosa rappresentano, come sono arrivati in Sardegna e perché. Com’è noto, il prof. Casula, con la sua innovativa “Dottrina della Statualità” rifugge da questa visione colonialista del nostro passato, ripetuta sempre uguale dal tempo di Giovanni Francesco Fara del XVI secolo, e prende spunto proprio dai “Quattro Mori” per riproporre come primaria

la storia sarda nel contesto nazionale, senza la quale non si conosce e non si capisce come si è formata l’Italia attuale. Francesco Cesare Casùla è nato a Livorno da genitori sardi. Ha frequentato le Scuole elementari e medie nella sua città natale, e il Ginnasio-Liceo ´De Castro´ a Oristano dopo essersi trasferito in Sardegna. Si è laureato in Lettere a Cagliari nel 1959, ed ha subito intrapreso la carriera universitaria sempre nello stesso Ateneo. Nel 1969 ha conseguito la libera docenza in Paleografia e Diplomatica e, nel 1976, l´ordinariato nella materia. Nel 1980 è passato alla

Storia Medievale che ha insegnato fino al 2008. Oltre a svolgere l´attività accademica, è stato a lungo membro del Consiglio Direttivo della Società degli Storici Italiani e della Commissione permanente per i Congressi di Storia della Corona d´Aragona. Dal 1980, per ventotto anni, ha ricoperto l´incarico di direttore dell´Istituto sui rapporti italo-iberici e dell´Istituto di Storia dell´Europa mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), con sede in Cagliari e sezioni a Genova, Torino e Milano. Dal 1985 al 1992 è stato consigliere culturale del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Dal 2001 al 2006 è stato componente la Segreteria tecnica per la Programmazione della Ricerca presso il Ministero dell´Istruzione, Università e Ricerca (MIUR) retto dal ministro Letizia Moratti. La Bandiera dei “Quattro Mori” Francesco Cesare Casula ISBN 9788893612159 Genere Storia Collana Storia della Sardegna Anno 2021 Pagine 96 Formato 21 x 29,7 cm Rilegatura Brossura con alette Immagini / Illustrazioni 82 a colori Lingua Italiano Supporto Cartaceo 15,00 € Carlo Delfino Edizioni www.carlodelfinoeditore.it

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PIETRINA ATZORI

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elice di annunciare che il mio progetto artistico NIGRA SUM SED FORMOSA è tra i finalisti di ‘Radici - Call for Artist’ per far parte dell’Archivio Digitale Nazionale e dell’esposizione collettiva di Futuro Arcaico che avrà luogo a #Bari i primi giorni di giugno 2021. La call Radici parte dal collettivo pugliese ‘Folklore elettrico’, che si occupa di salvaguardare luoghi e patrimoni immateriali dei territori attraverso una rilettura con linguaggi artistici contemporanei. Radici si esprime attraverso progetti di artisti che operano nella: fotografia, video, suono, illustrazione, installazione, multimedialità, mixed media. I lavori raccolti attraverso la call Radici entreranno a far parte dell’Archivio Digitale Nazionale ‘Futuro arcaico’ consultabile sul sito https://futuroarcaico.it , mentre i lavori selezionati parteciperanno anche al Festival in programma a Bari, in altre località italiane che verranno definite e, infine, una selezione, sarà esposta in Albania in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Tirana. NIGRA SUM SED FORMOSA,insieme ad altre opere finaliste è stato selezionato da una giuria tecnica composta da professionisti dei rispettivi ambiti artistici:

Edoardo Winspeare, regista e sceneggiatore Pamela Diamante artista Maria Teresa Salvati curatrice e fondatrice di Slideluck Editorial DEM artista multidisciplinare Mai Mai Mai sound artist Luis Gomez de Teran street artist - Ideazione e direzione artistica: Folklore Elettrico Marco Malasomma e Jime•Ghirlandi - Curatela: Mariateresa Salvati - Partners: Istituto Italiano di Cultura a Tirana Pigment Workroom MAAP Doc Creativity Consorzio IDRIA Archaic Sardinia L’Asilo Napoli Museo Civico Bari Teatro Koreja Accademia del Cinema Ragazzi Enziteto Time Zones - Media Partner Radio Raheem Grata e felice (Foto credit Futuro Arcaico) https://futuroarcaico.it


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“Il rito festivo e il tempo della celebrazione festiva, in quanto tempo alto e solenne, diventa un’interruzione del tempo della vita quotidiana, e in esso è insito lo splendore dell’eterno”. (Byung-Chul Han) ramandare, passare di generazione in generazione il sapere popolare, il folklore, la ricchezza e l’humus culturale e identitario di una comunità. Questo patrimonio è ricco e attivo più che mai. Ma forse non ne sappiamo abbastanza. La società contemporanea, vissuta attraverso la lente della tecnologia, e di realtà e intelligenza artificiali, ha permesso una sorta di copertura di un substrato di realtà che apparentemente appartiene al passato; e sembra prendere distanze nette, nella forma e nella sostanza, rispetto alle tradizioni e i riti religiosi e magici. Nonostante questo però, la scoperta di tali rituali, sembra florida, e forse anche poco conosciuta. Ma che ruolo hanno oggi le tradizioni che continuano ad essere sentite e vissute nella società contemporanea? Perché sentiamo ancora il bisogno di attingere alle nostre radici, siano esse viste nella loro dimensione festiva e rituale del sacro o del profano, e di partecipazione attiva cross-generazionale?

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Qual è la radice del “sapere popolare” e del substrato arcaico della tradizione? La nostra call parte da tutte queste domande. Fino alla fine del diciannovesimo secolo, era comune distinguere tra religione e paganesimo, e tra religione e superstizione. Il concetto di paganesimo era associato alle religioni non Cristiane, inclusi i rituali pubblici; mentre il concetto di superstizione o di magia, era riservato alla descrizione di inter-relazioni invisibili nel mondo, di cui né la scienza, né le religioni ufficiali, o il senso comune, potevano dare risposte. Il filosofo Paolo Rossi racconta del “sapere popolare” usando queste parole bellissime: “Mentre la scienza tende a spiegazioni sempre “parziali”, i sistemi mitici tendono a raggiungere, con i mezzi i più scarsi possibile, una comprensione “totale” dell’universo. […] Il mito non riesce a dare all’uomo, un maggior potere materiale sull’ambiente, gli dà invece l’illusione di comprendere l’universo. Ma si tratta di un’illusione oltremodo ‘importante.” Molta della letteratura e della documentazione in materia di magia e rituali, è spesso associata al Sud. L’attenzione data agli antenati e agli spiriti ancestrali, che si trova più facilmente nelle società e nelle culture (segue pagina 8)

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(segue dalla pagina 7) che hanno mantenuto un pensiero primitivo (come opposto a quello occidentale), ha a che fare con il concetto della continuità della vita stessa, e della sua fine. Ma non solo. Per capire la motivazione della diffusione di riti e magie soprattutto nel Meridione, bisogna andare a scavare nella “precarietà dei beni elementari della vita, nell’incertezza delle prospettive circa il futuro, nella pressione esercitata sugli individui da parte di forze naturali e sociali non controllabili, nella carenza di forme di assistenza sociale, nell’asprezza della fatica nel quadro di una economia agricola arretrata, nell’angustia memoria di comportamenti razionali efficaci con cui fronteggiare realisticamente i momenti critici dell’esistenza”. (Ernesto De Martino, Sud e Magia) Oltre alla natura esistenziale però, la ritualità e la magia, possono anche essere spiegate secondo il pensiero di Lucien Lévy-Bruhl: “la magia sarebbe una forma di pensiero primitivo e pre-logico, basata sulla «legge di partecipazione», che differisce dalla mentalità moderna dell’uomo occidentale, le cui rappresentazioni sono invece dominate dal principio dell’identità personale, rigorosamente distinta dalle altre individualità e dal mondo fisico. Il pensiero magico dei primitivi, al contrario, sarebbe

RADICI CALL caratterizzato da una costante partecipazione collettiva con l’universo, stabilendo legami di affinità tra i fenomeni, o di equivalenza tra un simbolo e l’oggetto a cui si riferisce.” In un momento storico in cui si assiste irrimediabilmente alla perdita di molte certezze, al prevalere del pensiero individualista, alla crisi dei valori umani, alla difficoltà di comprendere l’importanza della connessione col sé, con l’universo e la natura, potrebbero la ritualità e la magia, essere una pratica poetica che consente di connettersi alle radici e all’origine del tutto? E se quindi continuare a tramandare, documentare e interpretare le nostre radici fosse l’ultimo baluardo di salvaguardia della bellezza? Potrebbe questa bellezza legata al sentire, all’importanza dell’essenza spirituale, permetterci di ridisegnare un mondo più connesso e consapevole delle energie che muovono l’universo, e quindi tracciare la strada per “salvarci” dalla devastazione dell’egoismo della contemporaneità? Consapevoli dell’ambizione utopica della nostra teoria, siamo alla ricerca di progetti che rispondano al tema “radici” che, interpretando visioni personali di autori di tutto il mondo, attraverso i linguaggi della Fotografia, Illustrazione, Video, Suono, Installazione,


FOR ARTISTS Mixed Media, contribuiscono alla narrazione e alla mappatura della cultura popolare e magica in Italia, da sud a nord. La selezione delle opere avverrà attraverso la documentazione ricevuta e sarà a cura di una giuria composta da esperti delle diverse discipline: Edoardo Winspeare — Video Regista, attore e sceneggiatore, nato in Austria e cresciuto in Puglia. Ha studiato Lettere all’Università di Firenze e si è diplomato alla Scuola di Cinema di Monaco dove è stato assistente alla regia, operatore alla macchina, montatore e tecnico del suono nella produzione di diversi cortometraggi. Maria Teresa Salvati — Fotografia Fondatrice e direttrice artistica di Slideluck Editorial: piattaforma online e offline per fotografia e multimedia contemporanei, che promuove il cambiamento sociale. DEM — Mixed Media. DEM, come un moderno alchimista, crea personaggi bizzarri, creature surreali, abitanti di uno strato impercettibile della realtà umana. Multiforme ed ironico, le sue opere che spaziano dal wall-painting, all‘illustrazione, alla pittura su tela, si arricchiscono di un linguaggio simbolico che invita ad elaborare un proprio codice d’accesso per questo mondo enigmatico ed arcano. Pamela Diamante — Installazione

Pamela Diamante è un’artista italiana con sede a Bari. Ha conseguito il diploma in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Bari nel 2016. In precedenza, ha lavorato nell’esercito italiano per cinque anni. Nel 2019 ha vinto l’Artists Development Programme della European Investment Bank, nel 2017 il Premio Italia-Argentina del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione GOMEZ — Illustrazione Luis Gomez de Teran nato a Caracas (Venezuela) nel 1980. Ha vissuto a Londra, Berlino e Roma, dove ora risiede. Autodidatta, Gomez realizza opere di un’eccellente qualità artistica, intensamente simboliche e fortemente ispirate dalla pittura barocca, quella che da piccolo ammirava nelle chiese di Roma. MAI MAI MAI — Suono MAI MAI MAI è il progetto audio/video di Toni Cutrone, una messa in musica ed immagini di un viaggio oscuro nella tradizione e nel folclore dell’Italia meridionale e del Mediterraneo. Mai Mai Mai è un’indagine sonora che sviscera l’interrelazione tra riti pagani e cattolicesimo, tra natura e magia nella vita rurale, attraverso la manipolazione di suoni d’archivio e field recordings o collaborazione con musicisti contemporanei (Luca Venitucci, Lino Capra Vaccina).

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erdu Casu è stato uno dei più importanti scrittori e poeti sardi. Apprezzato dal pubblico e dalla critica, fu autore di celebri prediche, intense poesie e suggestivi romanzi. Pietro Casu nacque a Berchidda il 13 Aprile del 1878, settimo figlio di Salvatore e Maria Apeddu. Nella sua vita fu teologo, predicatore e filosofo. Fu inoltre uno scrittore apprezzato dal pubblico e insegnò Lettere presso i seminari di Ozieri e Sassari. Per quanto riguarda la carriera ecclesiastica di Pietro Casu, egli divenne prima parroco di Oschiri e poi di Berchidda, suo paese natale, nel quale rimase fino alla morte, avvenuta il 20 Gennaio del 1954. Berchidda descritta dal Valery nel suo Viaggio in Sardegna: “A sei ore da Terranova, si trova il villaggio di Berchidda, posto ai piedi del Gigantino. Sulla strada si fa sosta alla fontana di Caddos, ameno riposo del viandante, ombreggiata da verdi querce e rinomata per l’abbondanza, la freschezza e la leggerezza delle sue acque. Berchidda, posta sopra un terreno arenoso, con strade molto regolari, conta più di milleduecento abitanti, industriosi, onesti e che son debitori al lavoro della loro agiatezza.

PIETRO CASU

Le donne vi tessono il lino, la lana, e le loro coperte da letto di diversi colori presentano disegni riputati più eleganti di quelli dei paesi vicini. Possiede tre chiese, e la parrocchia, dedicata a San Sebastiano, disadorna, vasta, è un edificio antico.” Pietro “Perdu” Casu è stato uno dei personaggi più importanti di tutto il primo Novecento sardo. In particolare, fu sempre molto apprezzato e rispettato per la sua profonda conoscenza delle tematiche sarde, argomento che affrontò in tantissimi interventi pubblicati nelle più importanti riviste e giornali sardi dell’epoca. Per la sua ampiezza di vedute, l’ambiente ecclesiastico lo criticò, nello specifico per alcuni suoi scritti religiosi considerati non ortodossi ma anche per i suoi romanzi “popolari” e di successo. Pedru Casu e sa limba sarda Pietro Casu fu anche un profondo conoscitore ed amante della Lingua Sarda, che usò spesso nelle sue argute prediche e nei suoi discorsi ufficiali. Pubblicate postume, le sue prediche ebbero larga diffusione orale. Molto celebri sono quelle contenute nel volume intitolato “Preigas”, pubblicato nel 1979, che raccoglie le prediche lasciate manoscritte. Infatti, insieme ad Antonio Sotgiu e a Salvatore Car-


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boni, Pietro Casu deve essere considerato uno dei più importanti autori di “prediche”, vero e proprio genere letterario molto diffuso nei secoli scorsi. (La predica) “ha avuto nell’Isola – come in altre parti d’Italia e d’Europa – a partire dalla fine del Settecento per giungere sino ai primi tre decenni del Novecento, non pochi cultori i quali con la loro instancabile attività hanno influenzato, dove più dove meno, la cultura, scritta ed orale, i modi di sentire e di esprimersi di un vastissimo pubblico, popolare e non di ogni zona storica della Sardegna”. Gigi Sanna , Introduzione a Pulpito, politica e letteratura. Predica e predicatori in lingua sarda. Prediche che sicuramente dovettero avere un grande effetto sul pubblico per l’ottimo uso della lingua sarda, per le capacità comunicative dell’autore e per le numerose citazioni “classiche” che il sacerdote di Berchidda era solito fare. “S’imbriaghera” Tra queste, una delle più conosciute ed apprezzate è “S’imbriaghera”: un’affascinante discorso sui danni prodotti dall’utilizzo smoderato del vino e dei liquori. Un “racconto” ricco di riferimenti poetici e letterari, religiosi e filosofici, ma anche carico di immagini realistiche, a volte ironiche, dei danni prodotti dal troppo bere.

Il Vocabolario Sardo e Sa Divina Cumèdia Come già accennato, Pietro Casu fu un profondo conoscitore e un appassionato studioso della lingua sarda. In particolare, compì importanti ricerche sulla variante logudorese del sardo. Frutto di queste importanti ricerche è un’opera manoscritta, formata da mille e più fogli, che è stata curata da Giulio Paulis e pubblicata nel 2003 dalla casa editrice Ilisso in collaborazione con l’ISRE, col titolo “Vocabolario Sardo Logudorese – Italiano”. Inoltre, Pietro Casu tradusse in sardo numerose poesie italiane e straniere. Egli è ancora celebre per aver realizzato un’accurata e raffinata traduzione in lingua sarda logudorese della Divina Commedia, pubblicata a Ozieri nel 1929 dalla “Editrice F. Niedda e figli” col titolo “Sa Divina Cumedia de Dante in limba salda”. “A su mesu caminu de sa vida m’incontres’in un’addhe a buscu oscura ca sa via ‘eretta fi’peldìda. Cant’a narr’ite fid es cosa dura sa foresta eremita e aspra e folte, ch’in sa mente renova’ sa paura. Tuttavia, Pietro Casu fu conosciuto soprattutto per i suoi romanzi, quasi sempre di carattere edificante, (segue pagina 12)

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(segue dalla pagina 11) che ebbero un discreto successo di critica e pubblico. Tra i suoi romanzi più importanti, veri e propri classici della letteratura di Sardegna in lingua italiana, ricordiamo: Notte sarda La voragine Ghermita al core Notte sarda di Pietro Casu: un romanzo di successo in Italia e all’estero. Pubblicato nel 1910, “Notte sarda” è il romanzo più famoso di Pietro Casu nonché uno dei libri sardi più letti in Italia e all’estero. Alla sua uscita, venne accolto molto positivamente dai critici letterari e tradotto in tedesco. Grazia Deledda elogiò il romanzo e il suo autore che descrisse come uno dei più profondi conoscitori dell’animo dei sardi. Altre positive recensioni arrivarono dal Lipparini sul “Marzocco” (tanto che ne pubblicò un capitolo nella prestigiosa antologia di primavera), nonché dal Papini che ne curò la pubblicazione a puntate nella rivista “La Festa”. “Notte sarda”, che ebbe diverse edizioni (le prime già nel 1924 e nel 1927), sarebbe dovuto essere il primo volume di una trilogia tutta sarda. Pietro Casu però riuscì a compiere il progetto solo in parte, pubblicando “Aurora sarda” nel 1922, mentre il terzo volume dal titolo “Meriggio sar-

do” non vide mai la luce. Negli ultimi anni sono usciti diversi lavori, a cura di Giuseppe Ruju e pubblicati dalla casa editrice “Della Torre” di Cagliari, che permettono di conoscere la vita e l’attività poetica di Babbai Pedru (così lo chiamavano i suoi parrocchiani) in maniera più accurata: Lettere in versi ad artisti, poeti e amici Due poemetti: Su resuscitadu e Sa cantada de sa cuba Versos de Sardigna Il 28 gennaio 2000 muore a Berchidda, a 76 anni. Un suo amico-allievo, don Giuseppe Ruju, gli dedicherà una serie di studi, nel primo dei quali lo paragona a Grazia Deledda e come linguista a Max Leopold Wagner: concludendo che in tutti e due i campi il sacerdote berchiddese è stato il migliore. I suoi romanzi (di impianto che potremo chiamare deleddiano, nonostante la pretesa dei critici di farli apparire romanzi d’impegno «civile» a petto di quelli della scrittrice nuorese) sono stati sempre guardati con sospetto dalle autorità ecclesiastiche, che non vedono di buon occhio la presenza di sentimenti «laici» come l’amore. Pipius.com Video della Divina Commedia tradotta da Pietro Casu, Canto V dell’Inferno: www.youtube.com/watch?v=VYYirbCG93Q


MARCO ZEDONE D

iviso tra l’Italia e il resto del mondo, Marco Burresi (Firenze, 1977), in arte ZED1, è un artista che riesce a passare con disinvoltura dalla parete alla tela alla realizzazione di lavori di grafica per brand e pubblicità. Quando la sua creatività si manifesta sulla parete, però, emerge tutta la sua vena creativa. Ha sempre usato la tecnica a spray, a cui oggi ha affiancato rulli, vernici e pennelli, che gli permettono di ottenere nuance simili ad acquerelli. Ama la sperimentazione, la sua tecnica può essere repentina, schizzata, non finita, ma anche attenta al dettaglio. Burattini, elfi, clown, personaggi immaginari popolano i lavori di ZED1, al limite tra l’onirico e il surreale, in un’atmosfera sognante e melanconica. Ci racconti le esperienze che hai sviluppato di recente, come, ad esempio, quella del Festival Veregra a Montegranaro, con la realizzazione di Un viaggio per le stelle? Il 2017 è stato un anno movimentato, ho avuto la fortuna di viaggiare molto dipingendo i muri di varie città del mondo come Miami, Denver, San Francisco, Fortaleza in Brasile, Béja in Tunisia e Saint-Paul in Réunion. Quindi nell’ultimo anno ho preferito stare più vici-

Amici ma sopratutto follower! DISEGNI A GRATIS! Ho deciso di fare dei disegni che raccontassero questo momento storico, una fotografia di come i vari Dpcm stiano uccidendo alcuni mestieri, in particolare quelli artistici e culturali di cui poco si sente parlare e a cui voglio dar voce. Le immagini sono liberamente scaricabili per 20 giorni seguendo il link riportato qui sotto, potete stamparle per divulgarle il più possibile , appenderle in casa o in strada. Basta che non le utilizziate per finalità commerciali. Zed1 Fate girare! Link:

https://bit.ly/3a9HD6y

no a casa, dipingendo principalmente in Italia. Il Veregra Street è un festival delle arti di strada che, nell’ultima settimana di giugno, anima le strade di Montegranaro con spettacoli di ballo, di giocoleria, con concerti, cibo e teatro. Nella mia città natale si svolge il Mercantia [a Certaldo, N.d.R.], un festival simile che negli anni ha influenzato molto la nascita dei miei personaggi, ispirati a delle marionette. Da dove trae origine questa passione? La prima “marionetta umanoide” che ho dipinto fu un Pinocchio ingarbugliato nei propri fili, rimasto vittima delle proprie scelte. Avevo visto un bravissimo marionettista durante Mercantia e avevo voluto provare a dipingerne uno. Probabilmente i ragazzi del Veregra Street, vedendo i miei dipinti sui muri, avranno intuito qualcosa e mi hanno subito contattato proponendomi il progetto. Ho visionato la foto dell’edificio, dove era evidenziata la porzione di muro che avrei dovuto dipingere. Li ho raggiunti per un sopralluogo e quando ho visto dal vivo il cinema-teatro me ne sono innamorato e ho chiesto di poter dipingere tutta la struttura. Loro sono stati d’accordo. (segue pagina 14)

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(segue da pagina 13) Era diverso tempo che avevo in mente il tema del “Viaggio tra le stelle”, ma non ero ancora riuscito a trovare il contesto giusto dove realizzarlo. Quando ho visto la struttura architettonica de “La perla”, ho capito che si trattava di un teatro dove spesso si svolgono saggi di danza e ho dunque deciso di riprendere in mano l’idea e di trasformarla in una storia. Ai ragazzi del Veregra il bozzetto è piaciuto subito. Come si è sviluppato il progetto? Fra temporali e ritardi vari, c’è voluto circa un mese per dipingere l’intera parete ed è stato davvero stancante. Un disegno così grosso su di un muro molto in vista in un paese come Montegranaro è stata una scelta coraggiosa, che ha diviso la città tra chi non lo riteneva necessario e a chi invece piaceva. Dei ragazzi del posto sono venuti a darmi una mano e così sono riuscito a completarlo. Ho trovato subito feeling coi “committenti” e mi è piaciuto molto come si è sviluppato questo progetto, c’è stata una bella sinergia. Nonostante tutti i problemi, penso che Un viaggio per le stelle sia uno dei muri più importanti che ho realizzato fino a questo momento, sia per contenuto che per dimensioni.

Personalmente sono rimasta molto colpita dalla forza espressiva e sognante delle tue opere, e mi chiedo, anzi ti chiedo come è scoccata la scintilla che ti ha fatto iniziare e, a oggi, proseguire in questa attività. Ho iniziato a dipingere in strada facendo writing all’inizio degli Anni Novanta. Nella mia crew ero specializzato negli sfondi, perché avevo una buona mano per il figurativo. Con il tempo il lettering del mio nome ha iniziato a non bastarmi più, sentivo l’esigenza di narrare storie che, con le sole lettere, non potevo raccontare. Il figurativo è un linguaggio più ampio e diretto che mi consente di far arrivare meglio i miei messaggi alle persone. Dipingere il Pinocchio di cui parlavo prima credo sia stata la prima vera svolta che ho avuto. Mi piaceva molto il gioco delle “articolazioni impossibili” che oggi accompagna tutta la mia produzione artistica, dando un fascino surreale ai miei lavori. I miei personaggi mi piacciono, anche perché mi conferiscono una sorta di “licenza di uccidere”, ovvero di trattare argomenti forti facendoli percepire sempre come fiabeschi. C’è quindi una componente autobiografica? Le storie nel tempo sono cambiate, questo penso sia


normale perché sono sempre molto introspettive e variano al variare del mio umore. ùUso l’arte un po’ come terapia, perché tutte le volte che mi succede un brutto evento, tento di esorcizzarlo in un’immagine delicata e la cosa più bella che mi può capitare è che altri si rivedano nei miei racconti. ùMi piace che quando riguardo i miei lavori, ripercorro i passi della mia vita e li rivivo come fosse un diario scritto sui muri. Com’è lo stato della Street Art oggi in Italia, rispetto all’estero, secondo te? Cosa si potrebbe fare in più (o diversamente)? In Italia sono cambiate molte cose rispetto a prima, quando tutto questo era molto meno accettato. Comunque restano poche le città illuminate che rispettano e agevolano questo genere di pratiche artistiche e sono quasi sempre piccoli paesi. Quello che all’estero sicuramente funziona meglio è un sistema di norme più snelle e veloci, che consentono la realizzazione di murales in tempi umani. In Italia, al contrario, la burocrazia rallenta molto i lavori e se non si trova un ente pubblico determinato è difficile venirne a capo. Di recente hai partecipato all’opening patrocinato dal Comune di Firenze dal titolo Art can change the wor-

ld: in che modo può succedere? Art can change the world era un opening organizzato dai ragazzi della Street Levels Gallery di Firenze in collaborazione con la Florence Biennale, con il patrocinio del Comune di Firenze. Era una mostra collettiva dove, oltre alle tele esposte, ho realizzato la performance Second Skin su un cubo di 3 metri x 2 per lato. Il Second Skin è una tecnica dove a un disegno realizzato direttamente sul muro viene applicato un secondo strato sul quale, con l’ausilio di varie tecniche, viene realizzata una “seconda pelle”. In questo modo col passare del tempo, grazie agli agenti atmosferici o all’intervento diretto dell’uomo, lo strato superficiale si deteriorerà rivelando lo strato sottostante. In quell’occasione ho dipinto alcuni passaggi fondamentali nella vita di un artista di strada. Non so se l’arte può cambiare il mondo, ma il mio di certo l’ha cambiato. Come definisci il tuo stile? Nel corso degli anni sono cambiate le tecniche che utilizzi? Non saprei dare un nome al mio stile, sicuramente è fortemente ispirato al Surrealismo, portato su un piano illustrativo. I primi anni usavo sempre gli spray come da migliore tradizione, (segue pagina 16)

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Foto matteocognini

(segue da pagina 15) poi invecchiando ho scoperto la gioia di usare rulli, pennelli e vernici. Ma non ho mai perso l’abitudine alle bombolette. In occasione di Art can change the world ho dipinto a spray dopo tanto tempo e ho avuto modo di sperimentare alcune nuove tecniche che adesso sto tentando di riprodurre su altri supporti. Recentemente ho iniziato a fare anche attacchinaggio di poster per le strade di Firenze e mi diverte molto. Mi ricorda quando, da ragazzo, dipingevo in strada con la mia crew e ho riscoperto quel senso adrenalinico che negli anni un po’ si perde. In generale, comunque, adoro sperimentare continuamente con varie tecniche e materiali. Anche adesso sto portando avanti dei progetti legati alla scultura, che mi stanno regalando nuovi stimoli. Il punto più alto in cui sei stato (metaforico e non). Il punto più alto nel quale sono stato penso sia in Belgio, sulla cima di una torretta dei pompieri dipingendo un muro. Mentre il punto metaforico non saprei, magari lo devo ancora raggiungere. Come prende forma il processo creativo? La scelta del soggetto da realizzare è frutto di un lavoro metodico o l’intuizione è improvvisa e ti lasci guidare? Moltissime volte improv-

viso e mi piace creare sul momento, cogliendo ispirazione dalle persone, dal luogo o dagli avvenimenti che mi ci hanno portato. Altre volte ho idee già abbozzate in cerca del muro giusto e altre volte ancora gli organizzatori mi suggeriscono tematiche care sulle quali costruire le mie storie. In ogni caso, ho sempre bisogno di avere libertà di manovra nell’intervento che mi dia modo di affrontare le tematiche come vorrei, oltre che di sfruttare il muro al meglio. Cos’è la creatività? Tre aggettivi per descriverla. Citando Amici miei, “è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione“. Cosa farai domani? A partire da questo mese di settembre, dipingerò due muri, uno a Torino e l’altro a Santander nei Paesi Baschi. Poi sarà tutto in divenire, ma sicuramente tornerò negli States. In ogni caso ho in serbo diverse belle sorprese. Alessia Tommasini https://www.artribune.com/arti-visive/street-urban-art/2018/09/intervista-zed1/


Foto elisacarta

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NICK SPATARI

Foto calabria.gazzettadelsud

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o si può definire un artista epico. Già il suo corpo di gigante aveva in sé il concetto stesso dell’eroe: come se creare opere grandi, con un concetto di immenso, fosse scritto in modo inesorabile nel suo destino. Un titano capace di farsi beffe anche della sordità, che lo aveva colpito da bambino a causa dell’esplosione di una bomba durante la seconda guerra mondiale. Nik Spatari, scomparso il 25 agosto dell’anno scorso, oggi avrebbe compiuto 92 anni e la Fondazione Musaba (Museo Santa Barbara) di Mammola (Reggio Calabria) continua i suoi progetti, con la presenza, storica e attiva, della sua compagna Hiske Maas, a cominciare da quello, l’Eroe del Sagra, che in sé contiene l’epica di cui accennavo, una sorta di rappresentazione degli antichi abitanti della Calabria (che prima dei coloni greci, erano già un esempio di civiltà) e anche di sé stesso, Don Chisciotte concreto, che ha saputo realizzare, combattendo i tanti nemici che spesso l’arte si crea, quando è lontana da mercati e da interessi economici. Si tratta di una scultura in legno, tridimensionale, policroma e alta 13 metri, che ricorda la storica battaglia del Sagra (presso l’odierno Torbido), avvenuta nel V secolo a.C., in cui gli ateniesi, che volevano conquistare Locri,

furono sconfitti dai guerrieri locali. «Concettualmente e idealmente – mi spiegò Spatari, che ha lasciato il progetto esecutivo – è una rivisitazione dei Bronzi di Riace, è il terzo bronzo». La sua capacità di pensare e di creare in grande - ma sempre legato alla Calabria, dove era tornato dopo le lunghe permanenze a Parigi e Milano - derivava anche dalla scoperta, che spiegava d’aver fatto negli archivi della Sorbona, dell’origine dell’identità calabrese. Ad aprirgli quelle porte erano stati artisti e letterati amici quali Sartre, Cocteau, Le Corbusier, Picasso ed Ernst. «Vorrei che tutti scoprissero – diceva – quello che la mia ricerca ha svelato: l’origine italica e non greca del nostro sapere, essere, creare storia, fare arte, vivere». Così la sua capacità pittorica di raccontare la Calabria minima, quella familiare, densa di tradizioni e anche di fatti di cronaca, si è trasformata nel ritorno a casa, sul promontorio di Santa Barbara, nella rappresentazione - architettonica, scultorea e musiva – di quell’epica che portava dentro fin da bambino. Non a caso rifiutava, per quanto fosse vero, la definizione di autodidatta, ma non perché aveva lavorato nello studio di Le Corbusier o perché Cocteau lo aveva fatto diventare celebre staccando una sua tela


esposta in mostra e lasciando nella cornice un biglietto di ringraziamento. «Piuttosto che autodidatta – mi raccontò -, direi che la mia visione naturale fin dalla tenera età è innata». Il padre capì che questo bambino aveva qualcosa di speciale e chiese consiglio a D’Annunzio, con il quale aveva partecipato all’impresa di Fiume. Il Vate gli raccomandò di assecondare Nik, che già a 9 anni divenne celebre vincendo un premio internazionale. Spatari guardava con diffidenza alla definizione di “artista rinascimentale d’avanguardia” che gli era stata data, ma l’accettava. Era, ed è, un modo per sottolineare la sua capacità di progettare e creare oversize, ma con una lungimiranza che si allontanava dalla classicità delle forme e dei moduli compositivi per arrivare – ecco che torna il concetto – a un’epicità odierna, che racconta storie bibliche e classiche con un costante richiamo al pensiero contemporaneo, da artista in perenne ricerca e capace di esprimere sentimenti. Vediamo, per esempio, il “Sogno di Giacobbe”, sulla volta e sull’abside dell’ex chiesa di Santa Barbara, dedicato ai “sognatori” Campanella e Buonarroti. Un’opera lunga 14 metri, larga 6 e alta 9, fatta con 16 vele e realizzata con una tecnica personalissima: le figure

sono ritagliate su fogli di legno leggero, poi dipinte e quindi applicate come rilievi sospesi nell’aria. E Giacobbe, non si può sbagliare, è proprio Spatari, che qui sublima sogni e progetti di una vita. Attenzione, però, Musaba non è solo una celebrazione del suo creatore: è un posto dove si studia e si impara, dove molti altri artisti hanno lasciato il loro contributo creativo, dove l’arte moderna si coniuga perfettamente con la natura e l’archeologia. Uno di quei posti che ovunque sono considerati centri d’eccellenza. Qui, invece, tutto è stato costruito con fondi privati, con la passione e la manualità di chi ha inventato dalle macerie. Sembra che adesso la Regione mostri un concreto interesse di intervento. Si vedrà. Del passato rimane una storia che in qualche modo ricorda quella odierna di Mimmo Lucano, fatta di persecuzioni giudiziarie che, involontariamente, sembravano fare il gioco di chi sul territorio preferiva un altro tipo di cultura, quella dei ricatti e delle minacce. Ha vinto l’Arte e non poteva essere altrimenti, ma questa vittoria va preservata nel tempo: è sempre il momento dell’Eroe del Sagra, per la Calabria e per tutto il Meridione. Vincenzo Bonaventura https://calabria.gazzettadelsud.it/articoli/cultura/2021/04/16/spatari

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Foto Pascal

Druelle (INRAP)

na necropoli di età romana, del III-IV secolo dopo Cristo, è stata scoperta in Corsica, nei pressi della cittadina di L’Île-Rousse, nel nord dell’isola: ad annunciare il ritrovamento è stato l’Institut national de recherches archéologiques préventives (INRAP). La necropoli è emersa da uno scavo di archeologia preventiva realizzato in previsione di alcuni progetti immobiliari nel centro del borgo. La scoperta è importante perché prima di questo ritrovamento non si registravano scoperte significative in quest’area della Corsica: i ritrovamenti nei pressi di L’Île-Rousse erano rari e frammentari, e di conseguenza questa necropoli di dimensioni ragguardevoli per il contesto potrebbe far pensare che ci fossero insediamenti rilevanti nell’area. Gli esami condotti nella primavera del 2019 avevano rivelato la presenza di una decina di sepolture antiche, non intaccate dalle numerose modifiche urbanistiche che L’Île-Rousse ha subito a partire dall’Ottocento: la cittadina fu fondata infatti nel 1758 da Pasquale Paoli, eroe dell’indipendenza corsa, in una zona dove fino al Settecento erano registrate solo poche case di pescatori. La necropoli, in particolare, si trova davanti alla chiesa dell’Immacolata Concezione: il sito è stato ampiamente scavato a partire dal febbraio scorso, e le ricer-

che condotte su di una superficie di seicento metri quadri hanno dimostrato che le sepolture sono molto diverse tra loro (alcune fosse sono scavate direttamente nella roccia), altre invece sono realizzate in terracotta, coperte con le tegole che i romani chiamavano imbrices, “embrici”. Inoltre sono state rinvenute anche inumazioni in anfore, utilizzate dunque a mo’ di urne per contenere i resti dei defunti. L’inumazione in anfora era riservata soprattutto ai bambini, ma in alcuni casi è stato riscontrato questo uso anche per gli adulti (venivano usate anfore molto grandi, adatte a contenere un corpo umano). Si tratta di anfore per lo più di produzione africana, molto diffuse in Corsica tra il IV e il VII secolo: venivano adoperate per il trasporto e la conservazione di vino, olio e salamoia importati da Cartagine e dall’odierna Tunisia. Sono in tutto una quarantina le tombe scoperte: il rinvenimento, fa sapere l’INRAP, “fa riscrivere il passato antico di L’Île-Rousse e, più in generale, della costa occidentale della Corsica. Gli esempi conosciuti sull’isola di queste inumazioni sono spesso associati a edifici di culto, come per i siti di Mariana o di Sant’Amanza. Qui, nessun edificio è stato al momento scoperto, ma non è da escludere una sua esistenza nel contesto immediato dell’area funeraria interessata dallo scavo archeologico”.


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ell’ottobre del 1503, la Repubblica di Firenze commissionò a Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519) la realizzazione di un grande affresco che avrebbe dovuto decorare una delle pareti del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, sul tema della battaglia di Anghiari. Sulla parete opposta, Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 - Roma, 1564) avrebbe invece dipinto un’altra scena di guerra, la battaglia di Cascina. Si trattava di un incarico di grande prestigio e di elevato valore simbolico: la Repubblica intendeva infatti celebrare gli eventi che avevano sancito il trionfo di Firenze sui suoi nemici, e intendeva farlo nell’ambiente più grande (54 metri di lunghezza per 23 di larghezza e 18 di altezza) e più prestigioso della sede del potere cittadino, il Salone dei Cinquecento, all’epoca il “Salone del Maggior Consiglio”, ovvero il locale dove si tenevano le sedute del Maggior Consiglio della Repubblica, istituzione composta da cinquecento cittadini fiorentini (una sorta di Parlamento) e fondata negli anni in cui il potere era de facto detenuto da Girolamo Savonarola, che commissionò anche la realizzazione dell’ambiente, costruito tra il 1495 e il 1496, in soli sette mesi, su progetto di Simone del Pollaiolo detto il Cronaca e Francesco di Domenico. L’idea di far decorare la sala con gli episodi delle

Foto Targetti

Sankey

battaglie vinte in passato dai fiorentini era stata del gonfaloniere della Repubblica (ovvero la massima carica dello Stato), Pier Soderini, che chiamò pertanto l’affermato Leonardo e l’emergente Michelangelo, separati da ventitré anni d’età.

Nel 1503, Leonardo da Vinci fu incaricato dalla Repubblica di Firenze di dipingere un grandioso affresco raffigurante la Battaglia di Anghiari in Palazzo Vecchio. Quell’opera non sarebbe mai stata realizzata.

Si trattava di un’operazione estremamente impegnativa, date le dimensioni dell’ambiente e la novità del soggetto, tanto che alla fine né Leonardo né Michelangelo riuscirono a portare a termine l’impresa: il primo perché fallì nel tentativo di sperimentare, come si vedrà, una particolare tecnica realizzativa, il secondo perché abbandonò il progetto prima di portarlo a termine, lasciando Firenze per trasferirsi a Roma. La battaglia che toccò a Leonardo fu combattuta il 29 giugno del 1440 ad Anghiari, vicino ad Arezzo, tra l’esercito di Firenze, comandato da Micheletto Attendolo (Cotignola, 1370 circa – Pozzolo Formigaro, 1463), Pietro Giampaolo Orsini (? - Monte San Savino, 1443) e Ludovico Scarampo Mezzarota (Venezia, 1401 - Roma, 1465), e quello di Milano, guidato dall’umbro Niccolò Piccinino (Perugia, 1386 - Milano, 1444), capitano di ventura al soldo del duca di Milano, Filippo Maria Visconti. L’episodio si colloca nel quadro dell’espansionismo (segue pagina 22)

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Foto galleria degli uffizi

LA BATTAGLIA DI ANGHIARI

(segue dalla pagina 21) milanese nell’Italia centrale: cadute le mire milanesi su Brescia e Verona (il ducato non riuscì a conquistare la prima e perse la seconda per mano di Venezia), Visconti si risolse di attaccare la Toscana con lo scopo principale di indebolire i veneziani, alleati dei fiorentini. L’esercito di Piccinino partì nel mese di febbraio: dopo aver ottenuto il passaggio dai territori dei Malatesta nel cesenate, i milanesi puntarono sull’Appennino, arrivando nel Mugello il 10 aprile dopo aver saccheggiato e sottoposto a violenze diversi borghi lungo il cammino. Nel frattempo, i fiorentini, allarmati, avevano stretto un accordo con Venezia in vista di un possibile scontro, e poco dopo un aiuto arrivò anche dallo Stato Pontificio: i tre schieramenti (i fiorentini guidati da Orsini, i veneziani da Attendolo e i pontifici da Scarampo Mezzarota) all’inizio dell’estate erano dunque pronti per lo scontro con le forze milanesi, che avvenne all’alba del 29 giugno. Ad avvistare l’esercito di Piccinino fu Attendolo che venne a trovarsi alla testa dello schieramento, seguito dalle due ali, con a sinistra i fiorentini e a destra le forze inviate dal papa. Le forze fiorentine riuscirono a stringere i milanesi nei pressi del ponte che

attraversava il torrente prima di Anghiari: la mossa tattica si rivelò vincente perché i milanesi, trovandosi in uno spazio angusto, non riuscirono ad avere la meglio sui fiorentini nonostante la violenza delle loro cariche, vennero accerchiati dai nemici e, a fine giornata, furono costretti a battere in ritirata. La vittoria fiorentina fu decisiva perché segnò la fine delle ambizioni milanesi sull’Italia centrale. Il momento su cui si concentrò l’attenzione di Leonardo da Vinci è quello della lotta per lo stendardo, descritto nei dettagli dalle fonti: “Il Capitano nostro”, scrisse Neri di Gino Capponi nei suoi Commentari riferendosi a Pietro Giampaolo Orsini, “corse dall’altro lato con circa 400 cavalli, andò ad assaltare lo stendardo inimico, e presolo, e furono rotti”. Il giorno dopo la battaglia, i commissari di Firenze, Gino Capponi e Bernardo de’ Medici, scrissero un dispaccio in cui si legge che “gli stendardi abiamo qui e per lo aportatore ve li manderemo senon che vorremo si perdessero”. E poi ancora, la lotta è ben descritta anche dal notaio Giusto di Anghiari nel suo Diario: “Fu grandissima vittoria, e tolsaro loro gli stendardi. Fecisene gran festa e meritamente perché fu la salute di Toscana. Scampò Niccolò Piccino con circa 1500 cavalli in lo Borgo e la notte medesima si fuggì e passò l’Alpi


con gran suo danno e vergogna”. Leonardo scelse di rappresentare la feroce battaglia tra i capi degli schieramenti a cavallo per entrare in possesso del vessillo dell’esercito milanese: non ci sono noti gli originali leonardiani, ma soltanto copie o derivazioni, la più famosa delle quali è sicuramente la Tavola Doria, recentemente attribuita, pur senza consenso unanime, a Francesco Morandini detto il Poppi (Poppi, 1544 Firenze, 1597), uno dei maggiori artisti del secondo Cinquecento in Toscana. Meno noti, ma non meno importanti, sono due disegni forse tratti dal cartone originale (che purtroppo al momento non ci è noto): uno conservato nelle collezioni dei Reali dei Paesi Bassi all’Aia (forse è la versione più vicina all’originale di Leonardo) e uno custodito al Louvre, opera di un anonimo ma ritoccata nel Seicento da Pieter Paul Rubens. Da queste derivazioni possiamo farci un’idea di come Leonardo avesse immaginato la scena: a sinistra, il condottiero Francesco Piccinino (Perugia, 1407 circa - Milano, 1449), figlio di Niccolò, che doveva essere raffigurato subito al suo fianco, entrambi colti in espressioni di brutalità e violenza, con le bocche spalancate in urla animalesche e gli occhi colti in espressioni inferocite. A fianco, il patriarca di Aquileia, Ludovico Scaram-

po Mezzarota, e il nobile abruzzese Pietro Giampaolo Orsini, in atteggiamento più tranquillo e con indosso due elmi che incarnano valori simbolici: Mezzarota, in particolare, indossa un elmo decorato con un drago (che secondo lo storico dell’arte Frank Zöllner, insigne leonardista che si è occupato per molto tempo della Battaglia di Anghiari, è simbolo di valore militare e prudenza), mentre Orsini indossa un elmo corinzio come quello che portava la dea Atena. Al contrario, Francesco Piccinino doveva avere l’armatura decorata con corna caprine, allusione al demonio. In Niccolò Piccinino si è voluto invece vedere un ritratto di Marte, il dio della guerra, ma non per esaltarlo, bensì per mettere in rilievo i tratti negativi che nel Rinascimento erano associati a questa divinità (una poesia dell’umanista Lorenzo Spirito Gualtieri, del 1489, lo descrive così: “Sopra un cavallo un forte cavaliere / E tucte le sue arme erano di fuoco / Nel viso pieno d’una ira e di uno sdegno / Che faceva tremare tucto quello loco”): Marte, nella sua dimensione di dio vendicativo, malvagio e traditore, nella mentalità dell’epoca ben si prestava a essere il nume cui erano associati quei capitani di ventura altrettanto violenti (segue pagina 24)

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Foto lelouvre paris

(segue dalla pagina 23) e disposti a cambiare casacca con estrema facilità. La scena feroce doveva essere chiusa in basso da due soldati che combattevano a mani nude, esempi di quella rozza soldataglia che nel Rinascimento si univa alle schiere dei capitani di ventura spesso male armata, o disarmata, e motivata quasi esclusivamente dalla possibilità di mettere a segno saccheggi e violenze lungo le marce. Un ruolo non di secondo piano era riservato ai cavalli, caratterizzati (lo vediamo dalle derivazioni) da espressioni atterrite: Leonardo, da animalista, probabilmente voleva esprimere il suo documentato dissenso nei confronti della guerra proprio attraverso le figure dei due animali (“Leonardo”, ha scritto Louis Godart, “ha reso mirabilmente lo stato d’animo degli animali impegnati nella lotta. Gli occhi dei due cavalli costretti dai loro cavalieri a scontrarsi e annientarsi a vicenda guardano spaventati i due uomini che si sbranano tra le loro gambe. Ho l’impressione che il maestro abbia voluto esprimere tutta l’avversione di questi animali per lo scontro nel quale la rabbia e la follia degli uomini li hanno trascinati”). L’opera non doveva infatti essere scevra di implicazioni politiche e

allegoriche. Nel primo caso, la Battaglia di Anghiari doveva essere una celebrazione della forza e della virtù di Firenze, in grado di soggiogare un nemico bestiale poco interessato alla gloria (Leonardo aveva infatti intenzione di raffigurare Francesco Piccinino nell’atto di fuggire: il giovane umbro fu un capitano di ventura poco abile, noto anche per essere stato sconfitto con disonore dai veneziani a Mezzano nel 1446), e incline alla violenza. Lo si sarebbe notato anche per l’opposizione tra la ragione incarnata dalla dea Atena dell’elmo di Orsini, e la malvagità di Marte che avrebbe trovato la sua personificazione in Niccolò Piccinino. “I fiorentini”, ha scritto Godart riprendendo la tesi di Zöllner sul messaggio politico dell’opera, “si identificavano con l’Atena vittoriosa grazie a una condotta di guerra prudente. Questo ulteriore elemento tende a rafforzare l’antitesi tra due dei cavalieri [...]. Mentre Francesco Piccinino ha un elmo decorato con corna caprine che sottolineano il carattere bestiale e diabolico del personaggio, Pietro Giampaolo Orsini indossa un elmo la cui visiera ricorda la dea dell’intelligenza”. Del resto, ha scritto ancora Godart, Leonardo “sapeva di dover realizzare un’opera dal forte impatto politico. Si trattava di mostrare attraverso la raffigurazio-


ne della Battaglia di Anghiari il trionfo di una Firenze riflessiva, forte dei suoi diritti e delle sue istituzioni, su un esercito di mercenari brutali e spietati”. Vale infine la pena notare come Leonardo abbia anche voluto ammantare l’opera d’una propria idea personale, il suo rifiuto e il suo odio nei confronti della guerra, da lui definita una “pazzia bestialissima” nel suo Trattato della pittura. E la Battaglia di Anghiari diventa pertanto, scrive Godart, “una denuncia implacabile della guerra”. Così del resto l’artista scriveva nel Corpus degli studi anatomici: “pensa esser cosa nefandissima il torre la vita all’omo [...], e non volere che la tua ira o malignità distrugga una tanta vita, che veramente chi nolla stima nolla merita”. La guerra, secondo Leonardo, diventava un male necessario solo se necessaria per conquistare la libertà: “per mantenere il dono principal di natura, cioè libertà, trovo modo da offendere e difendere in stando assediati da li ambiziosi tiranni”, scrisse in una nota che troviamo nel manoscritto Ashburnham. Cosa rimane della Battaglia di Anghiari? “Addi 6 di giugno 1505 in venerdi al tocho delle 13 ore cominciai a colorire in palazo nel qual punto del posare il pennelo si guastò il tempo e sonò a banco richiedendo li omini a ragone.

Il cartone si straccò l’acqua si versò e rupesi il vaso dell’acqua che si portava e subito si guastò il tempo e piovve insino a sera acqua grandissima e stette il tempo come notte”. Questa la descrizione dell’inizio dei lavori, in una nota scritta da Leonardo: l’impresa non cominciò davvero sotto i migliori auspici, e infatti la Battaglia di Anghiari, come detto sopra, non fu mai realizzata. Si è a lungo ritenuto che Leonardo avesse voluto sperimentare, per il suo murale, la tecnica dell’encausto, da adoperare in luogo del tradizionale affresco. La tecnica prevedeva la realizzazione dell’opera sull’intonaco secco, e la conseguente asciugatura mediante il calore sprigionato da pentoloni alimentati a legna. Questo è il racconto fornito dall’Anonimo Magliabechiano sull’esito fallimentare dell’esperimento di Leonardo: “più basso il fuoco aggiunse e seccolla [la pittura, ndr], ma lassù in alto, per la distanza grande, non si aggiunse il calore e la materia colò”. Così invece Giorgio Vasari nelle Vite: “Et imaginandosi di volere a olio colorire in muro, fece una composizione d’una mistura sì grossa, per lo incollato del muro, che continuando a dipingere in detta sala, cominciò a colare, (segue pagina 26)

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Foto Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

(segue dalla pagina 25) di maniera che in breve tempo abbandonò quello”. Sulla scorta di queste narrazioni, si è pensato che il calore dei pentoloni non fosse stato abbastanza elevato da poter asciugare la parte alta del dipinto, col risultato che la porzione più elevata sarebbe colata rovinando tutto il lavoro. In realtà, secondo una recente ipotesi dello storico dell’arte Roberto Bellucci, le cose sarebbero andate diversamente: l’encausto prevedeva infatti l’uso delle cere (e non dell’olio), che si sarebbero sciolte comunque se esposte a una fonte di calore diretta. Il calore, infatti, serviva semmai per scaldare il supporto al fine di far aderire meglio i colori sciolti nella cera, secondo la descrizione della tecnica fornita da Plinio il Vecchio (era infatti già impiegata nella Roma antica). Se Leonardo avesse scelto di lavorare con l’encausto, semmai i problemi si sarebbero verificati nella parte alta. Secondo Bellucci è dunque molto più probabile che i colori scelti da Leonardo fossero incompatibili con il supporto: possiamo avvalorare questa ipotesi anche stando a un’osservazione dell’umanista Paolo Giovio (Como, 1483 - Firenze, 1552), che scrisse, nella sua biografia di Leonardo da Vinci redatta tra il

1523 e il 1527, che “nella sala del Consiglio della Signoria fiorentina rimane una battaglia e vittoria sui milanesi, magnifica ma sventuratamente incompiuta a causa di un difetto dell’intonaco che rigettava con singolare ostinazione i colori sciolti in olio di noce”. I nuovi studi condotti nel 2020 da un’équipe guidata da Cecilia Frosinini, esperta di Leonardo da Vinci e direttrice del dipartimento Restauro pitture murali dell’Opificio delle Pietre Dure, sono infine giunti alla conclusione che l’artista non abbia mai dipinto niente nel Salone dei Cinquecento: semplicemente, ebbe problemi nella preparazione del supporto, e abbandonò la sua idea. Cosa rimane dunque di sua mano? Soltanto pochi studi: ce ne sono alcuni con la posizione dei cavalieri e la composizione della mischia, conservati alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, e poi abbiamo un disegno con alcuni cavalieri con stendardi alla Royal Library di Windsor, un foglio con studi per i due cavalieri di destra custodito agli Uffizi, e infine due fogli al Museo di Belle Arti di Budapest, ovvero uno studio di una testa di cavaliere, e lo studio autografo più famoso per la Battaglia di Anghiari, quello per la testa di Niccolò Piccinino. Non ci sono rimasti, purtroppo, studi sulla composizione definitiva: il disegno che più si avvicina è


Foto Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

quello del foglio 215 delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, dimostrazione eccezionale, ha scritto Annalisa Perissa Torrini, “dell’incredibile capacità grafica di Leonardo nel riuscire a concentrare la turbinosa mischia della battaglia, sapendola rendere con pochi tratti concitati, come in una miniatura, ma di sicuro effetto realistico”. Qui, nella metà superiore del foglio, troviamo una mischia tra i combattenti a cavallo che, scrive ancora Perissa Torrini, “è tracciata con segno estremamente rapido, che traduce l’immediatezza dell’idea con grande sicurezza, sapendo ottenere l’effetto delle due masse aggrovigliate e contrapposte dei combattenti in movimento vorticoso e caotico mediante un forte contrasto chiaroscurale. Nelle figure di pedoni, al contrario, il segno è volutamente spezzato, senza ombreggiature, nell’intento precipuo di studiare i vari movimenti dei fanti, piegati in affondo, ripresi di fianco, con torsioni ardite dei busti e concentrati nello sforzo di colpire l’avversario con la maggior forza possibile”. Sono riflessi di quanto Leonardo da Vinci scriveva nel Trattato della pittura: “I combattenti, quanto più saranno infra la turbolenza, tanto meno si vedranno e meno differenza sarà da loro lumi alle loro ombre”. Nella parte inferiore del foglio è invece raffigurata

un’altra mischia, ma più numerosa: è la più affollata tra quelle note. Altrettanto importante è lo studio per la testa di Niccolò Piccinino, che rappresenta, quasi sicuramente, l’immagine di come doveva essere il condottiero umbro nel dipinto ultimato, così come l’altro disegno di Budapest, probabilmente lo studio quasi definitivo della testa di Pietro Giampaolo Orsini. Secondo la studiosa Carmen Bambach, per quest’ultimo disegno Leonardo “ha dapprima tracciato i contorni della testa, in maniera grossolana, quindi ha modellato le ombre con tratti paralleli, con il suo caratteristico modo di disegnare dall’angolo in basso a destra verso quello in alto a sinistra. Poi ha strofinato i tratti per ottenere un effetto di continuità, e per rinforzare i contorni ha calcato abbastanza forte col gessetto sulla carta”. Sono fogli di altissima qualità, dove vediamo le teste di due dei protagonisti al loro massimo grado di elaborazione, e su cui non ci sono dubbi seri in merito all’autografia leonardiana. Sono però tutto ciò che ci rimane della Battaglia di Anghiari tra ciò che Leonardo realizzò di sua mano: tutto il resto è noto da copie. Spinti dall’idea che Leonardo avesse provato a dipingere su parete la Battaglia di Anghiari, (segue pagina 28)

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Foto L’Aia collezione dei Reali dei Paesi Bassi

(segue dalla pagina 27) molti si sono domandati che fine avessero fatto gli eventuali resti del murale: le ultime notizie sulle forniture per l’opera risalgono al 31 ottobre del 1505, e il 30 maggio 1506 l’artista aveva già lasciato Firenze per tornare a Milano. Leonardo sarebbe rientrato a Firenze solo tra il 1507 e il 1508, ma senza completare l’opera. Nel 1510 il cronista Francesco Albertini, nel descrivere la “Sala Grande Nuova del Consiglio Maggiore”, affermava che vi si trovavano “una tavola di fra Filippo, li cavalli di Leonardo Vinci et li disegni di Michelangelo” (anche se non è detto che “li cavalli” fossero quelli dipinti sul muro: potrebbe infatti trattarsi della tavola con la composizione finita che Leonardo preparò prima dell’impresa nella Sala del Papa in Santa Maria Novella). Ma esiste un documento del 23 febbraio del 1513 che attesta un pagamento a un falegname, Francesco di Cappello, per “armare le fighure dipinte nella Sala grande della guardia, di mano di Lionardo da Vinci”. E poi, negli anni Venti Giovio riferiva, nel brano sopra riportato, che nella Sala del Connsiglio si trovava la “battaglia e vittoria sui milanesi, magnifica ma sventuratamente incompiuta”. È però probabile che tutti questi testi si riferiscano

al cartone o alla tavola eseguita nella Sala del Papa, e non a un eventuale frammento, tanto che, peraltro, Vasari nelle sue Vite non fa alcun riferimento a eventuali resti dell’opera. Come è noto, sulla parete che avrebbe dovuto accogliere la Battaglia di Anghiari, Giorgio Vasari eseguì i magnifici affreschi, dipinti tra il 1562 e il 1565, che ancora oggi si possono ammirare nel Salone dei Cinquecento, e che raffigurano anch’essi scene di battaglie vinte dai fiorentini. E se Vasari, nelle sue Vite (la seconda edizione, la giuntina, è del 1568), non cita eventuali frammenti leonardiani, è altamente probabile che già quando dovette lavorare sull’opera niente si conservasse di quanto tentato dal vinciano nella sala. Eppure, nonostante non ci fosse alcuna evidenza che nel Salone dei Cinquecento fosse sopravvissuto qualcosa di Leonardo, nel 2007 fu dato il via a una campagna d’indagini, guidata dall’ingegnere Maurizio Seracini, fondatore del Center of Interdisciplinary Science for Art, Architecture and Archaeology dell’Università di San Diego in California, che aveva l’obiettivo di riportare alla luce la Battaglia di Anghiari. Secondo Seracini, Vasari avrebbe agito in modo da conservare il dipinto di Leonardo dietro il suo affresco, quello raffigurante la Battaglia di Scannagallo.


La campagna cominciò dapprima con studi non invasivi, dopodiché, nel 2011, si passò alla fase operativa: nell’agosto di quell’anno furono installati i ponteggi per consentire al team di Seracini di sondare la parete attraverso dei radar che avrebbero dovuto rilevare l’intercapedine che, secondo Seracini, nascondeva il dipinto di Leonardo (nell’ottobre l’affresco di Vasari fu effettivamente bucato, con un enorme strascico di polemiche e la contrarietà unanime della comunità scientifica). L’ingegnere basava la sua idea sulla presenza di questa intercapedine dietro all’affresco, e sulla presenza di alcuni stendardi con la scritta “Cerca trova”, malamente interpretato come un invito di Vasari a cercare l’opera di Leonardo, ma in realtà (e molto più semplicemente) un riferimento a un episodio della storia fiorentina legato alla battaglia raffigurata, come è stato spiegato ampiamente anche su queste pagine da Federico Giannini all’epoca dei fatti. Seracini prelevò alcuni campioni di colore, estratti bucando l’opera di Vasari, e si convinse di aver trovato i pigmenti “di Leonardo” (in realtà, all’epoca tutti gli artisti usavano gli stessi colori: non esistevano artisti che adoperavano pigmenti in esclusiva). L’Opificio delle Pietre Dure chiese di poter studiare i frammenti estratti, ma non li ricevette mai: si è poi

scoperto che non erano materiali pittorici, ma elementi comuni nelle murature del tempo. Ad ogni modo, nel 2012 le ricerche si conclusero e a nessuno è più venuto in mente di tirar fuori dalla parete del Salone dei Cinquecento l’opera di Leonardo. Che fine ha fatto dunque l’opera? La parola “fine” sulla questione è arrivata nell’ottobre del 2020. “Non c’è nessuna Battaglia di Anghiari sotto il dipinto del Vasari nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio”: questa la dichiarazione di Cecilia Frosinini, a seguito di un convegno i cui risultati sono stati pubblicati nel libro “La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci”. I nuovi studi, come ricordato sopra, sono giunti alla conclusione che Leonardo non dipinse mai la battaglia sul muro della sala, nonostante sia provata e documentata l’esistenza dei cartoni. Purtroppo, la preparazione del muro non andò per il verso giusto, la Battaglia di Anghiari non fu mai dipinta, e per anni si è cercato di tirar fuori dal Salone dei Cinquecento un’opera inesistente. finestrasullarte.info

Bibliografia essenziale Roberta Barsanti, Gianluca Belli, Emanuela Ferretti e Cecilia Frosinini (a cura di), La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Dalla configurazione architettonica all’apparato decorativo, Ol-

schki, 2019 Gabriele Mazzi (a cura di), Arte di governo e la battaglia di Anghiari. Da Leonardo da Vinci alla serie gioviana degli Uffizi, catalogo della mostra (Anghiari, Museo della Battaglia e di Anghiari, dal 1° settembre 2019 al 12 gennaio 2020), S-EriPrint Editore, 2019 Louis Alexander Waldman, La Tavola Doria. Francesco Morandini, detto il Poppi, copista della Battaglia di Anghiari di Leonardo in Alberta Piroci Branciaroli, Nel segno di Leonardo. La Tavola Doria dagli Uffizi al Castello di Poppi, catalogo della mostra (Poppi, Castello, dal 7 luglio al 7 ottobre 2018), Polistampa, 2018 Cristina Acidini, Marco Ciatti (a cura di), La Tavola Doria tra storia e mito, atti della giornata di studio (Firenze, Salone Magliabechiano della Biblioteca degli Uffizi, 22 maggio 2014), Edifir, 2015 Marco Versiero, “Trovo modo da offendere e difendere”: la concezione della guerra nel pensiero politico di Leonardo in Cromohs, 19 (2014), Firenze University Press, pp. 63-78 Louis Godart, La Tavola Doria. Sulle tracce di Leonardo e della “Battaglia di Anghiari” attraverso uno straordinario ritrovamento, Mondadori, 2012 Carmen C. Bambach (a cura di), Leonardo Da Vinci: Master Draftsman, catalogo della mostra (New York, The Metropolitan Museum of Art, dal 22 gennaio al 30 marzo 2003), The Metropolitan Museum ed., 2003 Frank Zöllner, La Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci fra mitologia e politica, XXXVII Lettura Vinciana (18 aprile 1997), Giunti, 1998 Frank Zöllner, Rubens Reworks Leonardo: ’The Fight for the Standard’ in Achademia Leonardi Vinci, 4 (1991), Giunti, pp. 177-190

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Foto cagliaripost

ita Thermes fin dagli esordi si rivela un’eccellente disegnatrice dalla profonda sensibilità e dall’acuto senso dell’umorismo. La linea pura ed essenziale trattiene il colore dato in punta di pennello dalle tonalità talvolta contrastanti che conferiscono ulteriore drammaticità alle scene di vita quotidiana. Al dolore ed allo strazio per la miseria del tempo, l’artista alterna momenti ironici quasi per dare tregua a quella dolorosa umanità sarda. Dipinge i personaggi della Cagliari del tempo che presenterà alla Galleria Paladino – i quali echi si riscontrano nella caricatura di Tarquinio Sini “Personaggi cagliaritani” (fatta di giovani ragazze che passeggiano per la Via Roma sotto l’attento sguardo dei militari in libera uscita ma anche la tormentata vita del dopoguerra, i laceri picioccheddus de crobu, le vecchiette curve e chiuse nei loro consunti mantelli, la disperazione fino allo spasimo palesata dai profondi occhi scuri delle madri alle quali non è dato da sfamare i propri figli). Rita Thermes svela l’anima di una Sardegna che nella sua drammaticità non si discosta da quella narrata da Grazia Deledda. Acuta e pungente rivela un’intensa capacità di penetrazione psicologica

RITA THERMES Rita Thermes (Cagliari 1923 – 2006) L’artista, di origine sarda, giunge a Roma nell’immediato dopoguerra, insieme ad Emilio Lussu, e nel 1959 partecipa alla IX Quadriennale romana, dove presenta tre dipinti: “Filiazione del vivente”, “L’uno e il molteplice”, “Capriccio”. Nella seconda metà degli anni Cinquanta collabora come illustratrice alla rivista «Lavoro». Alla metà degli anni Novanta torna a vivere in Sardegna. Sue opere appartengono alla collezione della Galleria Comunale d’Arte di Cagliari.

dei suoi personaggi, perlopiù bambini e ragazzi colti in momenti di vita quotidiana, con un verismo sempre sorretto dalla sinuosità del tratto, che sembrano uscire dai fotogrammi neorealisti di Sciuscià o Ladri di biciclette. Essi sgorgano dalla necessità interiore di denunciare la tragicità della guerra che ha messo in ginocchio un’isola già votata al degrado ed alla sofferenza, un’accusa all’umanità indifferente ad una realtà che patisce la miseria.” (...) Non si conosce la data precisa del primo incontro di Rita con Kokoschka, che avverrà nella sua abitazione a Vilelnueve nel 1967, ma ben documentata è la mostra-duetto con Klaus Brunner organizzatale dall’artista ad Amburgo, inaugurata il 10 giugno 1970 e presentata in catalogo da Heinz Spielmann. Per l’occasione Rita presentò trentun opere, tra cui il ritratto di Schulz, ma le evoluzioni stilistiche oramai sono notevoli. La figura inizia a disgregarsi, perde i tratti di contorno e assume una consistenza data dalla stratificazione della materia che sembra pulsare e ribollire. Anche le tematiche cambiano, alla rappresentazione della realtà l’artista coniuga l’elemento mitologico e si avvicina al linguaggio della Scuola Romana (...) Roberta Vanali


TOSHIKO HORIUCHI

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uesto è il suo primo parco giochi per bambini fatto all’uncinetto (nel mondo!) si trova all’Hakone Open Air Museum (Giappone). L’idea venne da una mostra che fece durante la quale due bambini si gettarono sulla loro scultura e cominciarono ad arrampicarsi su di essa, il che le fece guardare il suo lavoro in modo diverso, lo vide molto più vivo. E il bianco è diventato colore! Meraviglioso ! Toshiko Horiuchi è nata in Giappone nel 1940, ma si è presto trasferita con la sua famiglia nella Manciuria occupata dal Giappone durante la seconda guerra mondiale. Quando l’Unione Sovietica prese il controllo della regione nel 1945, Horiushi e la sua famiglia furono costretti a fuggire e alla fine tornarono in Giappone. Ha frequentato il Tama Fine Art Institute in Giappone e poi ha studiato alla Cranbrook Academy of Art in Michigan, dove ha ricevuto il suo MFA. Ha lavorato per Boris Kroll Tissus, un’azienda di design tessile a New York. Ha poi insegnato nelle università degli Stati Uniti e del Giappone, tra cui il Columbia University Teachers College, la Haystack Mountain School of Crafts, l’Università della Georgia e il Kyoto Junior College of Art. Il lavoro di Horiuchi MacAdam è spesso descritto

come “fiber art”, che divenne una forma d’arte riconosciuta negli anni ‘70. In queste opere, Horiuchi MacAdam ha stabilito la sua affinità per il lavoro su larga scala, differenziandosi da molti altri artisti tessili e di fibre dell’epoca. Ha focalizzato il suo lavoro sulla creazione di spazi di gioco tessili per i bambini dopo aver visto i bambini arrampicarsi su una scultura tessile tridimensionale che stava esponendo. Dopo questa scoperta, ha cominciato a notare la mancanza di parchi e campi da gioco a Tokyo, dove viveva all’epoca. Nel 1971, ha creato la sua prima opera per bambini, che è stata poi donata a un asilo di Tokyo progettato da Hatsue Yamada. Nel 1990, MacAdam ha formato una società con suo marito, Charles MacAdam, chiamata Interplay Design and Manufacturing. Gli spazi di gioco tessili di MacAdams sono ora installati in varie località del mondo, tra cui Spagna, Singapore, Shanghai, Nuova Zelanda e Seoul. Nel creare i suoi primi lavori, MacAdam ha usato un materiale giapponese chiamato Vinylon, un prodotto durevole ma inferiore al nylon che ha usato nei suoi lavori successivi, che lei stessa lavora all’uncinetto e tinge nel suo studio di Bridgetown. (segue pagina 32)

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(segue dalla pagina 31) Le strutture playcape di MacAdam sono quasi interamente fatte a mano, con l’aggiunta di elementi annodati meccanicamente in alcuni pezzi. Nel 1979, MacAdam ha collaborato con Fumiaki Takano, un architetto del paesaggio, per creare uno spazio di gioco su larga scala per un nuovo parco nazionale a Okinawa.

trasporto prodotti alimentari tipici sardi

http://tanukiwo.free.fr/ piwigo/galleries/Japon/ hakone/DSC01772.JPG

verso Parigi

Foto adolfoferrai

Tra le sue realizzazioni : Parco giochi per bambini nella città di Sapporo Meraviglia a maglia, parco giochi del museo all’aperto di Hakone “Floating Cube Atmosphere”, Museo Nazionale d’Arte Moderna di Kyoto La sala principale del Nonoichi City Cultural Center espone una grande tenda creata dall’artista chiamata “Luminous”. Nel 2013, MacAdam, insieme a Charles MacAdam e al designer strutturale Norihide Imagawa, installa Harmonic Motion per “Enel Contemporanea 2013” al Museo d’Arte Contemporanea Roma a Roma

https://nezumi.fandom. com/fr/wiki/Toshiko_ Horiuchi https://sociedadedospoetasamigos.blogspot.com/2015/02/ toshiko-horiuchi-artista-textil-japonesa.html

Adolfo Ferrai

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a nostra tipologia di trasporto consente non solo di garantire l’integrità dei prodotti trasportati con consegne dirette, dal mittente al destinatario senza tappe intermedie e manipolazioni di terzi ma garantiamo la catena del freddo per i prodotti deperibili freschi che può avvenire solo con l’ausilio di un gruppo frigorifero a norma ATP che garantisce la temperatura controllata dal ritiro alla consegna, questo oltre la sanificazione è la pulizia degli ambienti dove vengono stivate le merci alimentari. Col viaggio appena concluso, in un anno di pandemia sono state svolte circa 1600 consegne, è nonostante il nostro servizio vista la sua tipologia sia potenziale veicolo di contagio è nonostante abbiamo effettuato consegne anche a destinatari positivi, siamo sempre riusciti fino ad oggi a lavorare in sicurezza salvaguardando la cosa più importante, la salute di tutti i nostri clienti. Grazie per la vostra fiducia, è gran motivo di orgoglio. Per tutte le informazioni sul servizio, per conoscere le date di partenza, per le prenotazioni è per effettuare gli ordini dei prodotti alimentari e necessario contattare il nr 3476201394, una persona è a vostra disposizione, se non dovreste trovarla sul momento sarà Lei a ricontattarvi. Con la clientela preferiamo avere esclusivamente un rapporto via telefonica chiaro e diretto. Grazie.


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n albero in campo bianco. In apparenza potrebbe non significare nulla, eppure questo è stato il simbolo sotto il quale il Giudice Mariano IV d’Arborea e, a sua volta, sua figlia la Giudicessa Eleonora guidarono il popolo sardo in una lotta per la libertà contro gli oppressori catalani, i quali imposero alla Sardegna il vessillo dei quattro mori. Lo stesso stemma arborense avrebbe dovuto svettare sulla Torre di San Pancrazio a Cagliari per mano di Johanes Sart, compito affidatogli da Mariano IV con la potente espressione “Non ami dunque i sardi? […] infine, metti la bandiera sulla torre di San Pancrazio e poi grida «Viva i Sardi!»” Mi presento, io sono Francesco e sono un giovanissimo. Come tutti i miei coetanei, quasi mai ho incontrato la storia sarda nel mio percorso scolastico, poiché troppe volte tacciata di essere poco importante, “poco sostanziosa” mi dicevano. La curiosità di conoscere la storia della terra, della Natzione che mi ha cresciuto era troppa però, più forte di chi sperava che rimanesse sepolta nel passato. Dalla lettura delle vite dei nostri antigus una certezza è emersa: nonostante tutte le dominazioni; nonostante la volontà da parte di chi regna di privarci della nostra

ECCO PERCHE CHI AMA LA SARDEGNA SVENTOLA LA BANDIERA DI ELEONORA

Francesco Ledda https://ainnantis.home.blog/

Tel. 346 044 2357

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coscienza, nonostante lo sfruttamento economico e psicologico subito dal nostro popolo, ci sono sempre stati dei sardi che a testa alta hanno saputo amare questa terra. Nella nostra storia c’è stato un momento in cui chi voleva il bene della propria terra aveva un simbolo. Chi aspirava alla libertà e all’emancipazione, chi desiderava mostrarsi come una Natzione capace di dialogare con il resto del mondo aveva una voce. Una voce, una bandiera, un simbolo, così forte che la sua esibizione fu proibita dai regnanti esteri che controllavano l’Isola. Quesro simbolo, che donava forza ai sardi, era l’albero in campo bianco. Simbolo coi suoi colori delle lotte e i sacrifici di chi ci ha preceduto. Da giovane sardo, non ho potuto fare a meno di trarre forza da questa bandiera. Per questo, oggi, so che sventolare quella bandiera significa ridare memoria a chi ha amato quest’Isola e ha dato la sua vita per essa; so che, viceversa, chi ama questa Natzione e crede in un futuro di rinascita sventola questa bandiera. Chi porta questo simbolo dà un messaggio chiaro: l’essere parte di una Natzione, il possedere delle forti radici e l’essere pronto per il proprio futuro. (segue pagina 34)

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Foto viktorkossakovsky

(segue dalla pagina 33) Nel mio futuro voglio essere il primo a scorgere ed esaltare le ricchezze della mia terra per farle fiorire in un percorso di emancipazione, pace, creatività e innovazione, affinché io possa vedere questa terra libera e non più popolata da un senso di inferiorità e di schizofrenica insicurezza, voluto da chi si vede come regione di uno stato che ci tratta come pezzenti da sempre, convinto che i Sardi e la Sardegna non ce la potranno mai fare. Per questo, io e noi giovani indipendentisti, come chiunque ami veramente la Sardegna, crediamo in questo simbolo, perché sappiamo quanto noi sardi abbiamo da dimostrare e da dare in questo mondo. Questo sarà possibile solo quando tutti avranno la coscienza di far parte di una grande e ricchissima comunità, la Natzione Sarda. Francesco https://www.facebook. com/ainnantis A innantis! è un’associazione politico-culturale che vuole essere il luogo di incontro, di conoscenza, di scambio e di elaborazione culturale fra donne e uomini di Sardegna. #arborense #cultura #tradizioni #arte #informazione #Sardegna #natzione #indipendentzia #ainnantis #territorio #isola #indipendence #identità #comunità #futuro #sardinianoestitalia #bellezza

GUNDA

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a gente non vuole guardare polli, maiali e mucche, ecco perché mi sono detto, ‘No no, farò quello che non vuoi vedere’”. Nel documentario del regista russo Victor Kossakovsky “Gunda”, presentato in questi giorni al Festival del Cinema di Berlino, troviamo un messaggio semplicissimo: se conosci gli animali che solitamente consideri cibo, comprendi chiaramente che non dovrebbero essere considerati tali e smetti di mangiarli. Che cosa è “Gunda” o meglio “chi è” “Gunda” è un documentario di 90 minuti in bianco e nero girato dal regista russo presso una fattoria in Norvegia. Per alcuni mesi la troupe ha seguito una scrofa, “Gunda” che è stata immediatamente riconosciuta dal regista come perfetta protagonista del suo progetto: “Abbiamo Meryl Streep. Questa è quella giusta, ha un’espressione così potente. L’abbiamo trovata” ha spiegato di aver pensato Kossakovsky in un’intervista rilasciata a Berlino al giornale online IndiWire. L’obiettivo del documentario, completamente senza musica o effetti speciali ma solo con rumori ambientali, è quello di mostrare la vita, le emozioni e la “routine” degli animali che solitamente consideriamo far parte della categoria “da reddito” ossia, più semplicemente, “da piatto”.


Il regista ha spiegato di non voler passare dal canale emotivo dello shock: niente macellazioni, niente sangue, niente violenza ma solo perché di questi documentari ce ne sono davvero già molti. E allora ecco che la strada è mostrare la verità: le attenzioni di una madre, Gunda appunto, per i suoi cuccioli, la loro socialità, il modo di interagire non solo fra di loro ma anche con altri animali della fattoria come polli e mucche, anche loro co-protagonisti dei 90 minuti. Che cosa c’entra Joaquin Phoenix? Il documentario è stato rilanciato da moltissimi media internazionali soprattutto a causa della presenza nei i titoli di testa del nome dell’attore premio Oscar Joaquin Phoenix come produttore esecutivo, ma il progetto, va detto, era partito senza di lui. Sono stati i collaboratori e gli amici del regista Kossakovsky a spingerlo a mandare il film a Phoenix dopo aver ascoltato le sue parole al discorso di ringraziamento alla cerimonia delle statuette dorate. “Dice esattamente quello che dici sempre tu – hanno detto gli amici al regista russo – fagli vedere il film!”. Phoenix ha visto il documentario e ha immediatamente deciso di sostenerlo dopo averlo apprezzato moltissimo: “La sua reazione è stata incredibile” ha spiegato il regista.

Questa collaborazione è chiaro che ha come obiettivo quello più importante, ossia garantire al film la massima copertura mediatica e la massima diffusione possibile. Le reazioni al documentario Le recensioni, anche se poche, dedicate al film del regista russo autore nel 2018 di un altro documentario “muto” ma dedicato alla potenza e alla bellezza dell’acqua, “Aquarela”, sono tutte buone. Il documentario viene definito potente, ipnotico e fonte di grande riflessione. Il regista, che dice di essere stato probabilmente “il primo vegetariano della Russia sovietica” dopo la sua amicizia con un maiale nella fattoria di famiglia (poi ucciso per le “feste” di Natale), ha lavorato sulla semplicità e su un messaggio chiaro: “Gli esseri umani non dovrebbero mangiare gli animali” come ha ribadito in un’intervista. Si racconta anche che più della metà del team che ha lavorato alla realizzazione del documentario abbia scelto, alla fine delle riprese, di non mangiare più carne.

Federica Giordani vedi il video vimeo.com/391958174

https://www.vegolosi.it/ news/gunda-il-film-prodotto-da-joaquin-phoenix-mostra-quello-che-non-sappiamo-sugli-animali-trailer/

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Foto terrapintada

ttiva dal 1996, riunisce Simonetta Marongiu ai due fratelli Carzedda, Robert e Giulia. Ha sede in un ex mulino frumentario nel centro di Bitti: vocazione al pane quotidiano non distante dall’argilla e dai forni per la cottura. Il segno di Terrapintada marchia un lavoro che trae origine da concetti stratificati nella cultura popolare, internazionale e profonda, dalla Bottega declinati su differenti ambiti di ricerca: linearità di forma e colore, geometria e metafora, per un vivere volutamente sobrio, rigorosamente contemporaneo; decoro disegnato e narrativo per quanti invece prediligono un vivere più pacatamente tradizionale; l’azzardo radicale, libera sperimentazione affrontata per rispondere a precise richieste di vario contenuto. La linea di manufatti chiamata Settanta è linea di confine. Essa segna il raggelamento del decoro pittorico nella forma. Con Settanta Terrapintada gioca a rubare spazio al linguaggio e al prodotto industriale, lo supera, lo arricchisce di quanto in quello manca: il dubbio, l’errore, il disassamento millimetrico. Il decoro è rigorosa geometria, superfici affinate e sottili, colori ricercati. Il controllo del progetto regna assoluto. La bottega schiaccia l’acceleratore, presentando

il manufatto in speculari supporti grafici, non tralasciando l’adeguato packaging e, soprattutto, ora, il nome del manufatto si fa inglese. Con questi lavori, spesso modulari e variazione di un unico tema, la Sardegna e Bitti diventano stretti: l’Isola non deve e non può avere confini. L’azzardo tecnico è il sogno del trio Terrapintada, e la loro manualità in questi esiti pretende un decoro di pura astrazione, una morfologia che sola cede al segno ortografico ideogrammatico, in cui il meno e la linearità sono sostanza. Terrapintada è inoltre polo di creatività che da spazio a collaborazioni con artisti, designer, architetti, ospitando anche mostre temporanee e vivaci momenti di aggregazione culturale. Antonello Cuccu

Terrapintada di Robert Carzedda

laboratorio/show room: BITTI, via Brigata Sassari 74 – (NU) show room: OROSEI, via Nazionale 3 – (NU) (apertura stagionale da aprile a settembre)

vedi il video vimeo.com/363301639

T +39 0784 414072 E info@terrapintada.com www.terrapintada.com


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17 aprile del 1921 venne fondato il Partito Sardo d’Azione. In occasione del centenario, domenica 18 aprile alle 9.30 su Rai3 andrà in onda “Bator Moros”, un documentario di Gianluca Medas. Bator Moros è un racconto in sardo campidanese del percorso di nascita dello storico partito sardo; dagli anni di guerra in trincea, in cui i soldati della Brigata Sassari svilupparono la forte consapevolezza di una necessità di cambiamento, fino alla nascita di un movimento politico unito nell’Italia del Dopoguerra. Con le musiche del duo Nicola Agus-Filippo Medas e gli interventi dei professori Aldo Borghesi, Salvatore Cubeddu e Marco Pignotti. La produzione Rai è a cura di Stefania Martis. Marco Pignotti, docente di Storia contemporanea alla Facoltà Di Studi Umanistici - Lingue Cagliari, é stato intervistato nell’ambito del documentario “Bator Moros” di Gianluca Medas. Gianluca Medas, regista del documentario, é figlio di Mario Medas e con lui fondatore della compagnia “Figli d’arte Medas”, la più antica famiglia d’arte sarda, Gianluca Medas, dal 1985, tiene in vita, anche innovando in temi e in mezzi. Di particolare importanza è il progetto Paddori, l’ipotesi di una maschera sarda tradizionale, che coin-

Foto radiosardegna

GIANLUCA MEDAS

Sos bator moros: S’orìgine de su sìmbulu de sa bandera sarda est galu ogetu de dibata dae parte de sos istudiosos. Si narat chi s’istemma est istadu criadu dae su re Perdu I de Aragone pro tzelebrare sa vitòria de Alcoraz de su 1096 (sa rughe ruja cun isfundo biancu de Santu Ghiorghi cun sas concas segadas de sos bator prìntzipes moros mortos in batalla e connota comente “sa rughe de Alcoraz”), ma non totus sunt de acordu cun custa interpretatzione. Sa prima forma documentada est su sigillu de su 1281 impreadu in sa cantzilleria reale de Pedru III de Aragone. In su Stemmariu de Gerle (fine sec. IV ?), unu manuscritu costoidu in sa Biblioteca reale de Bruxelles, pro sa prima borta si bident sos bator moros ligados in carchi manera a sa Sardigna. In sos documentos sardos su sìmbulu s’atzapat pro sa prima borta in su “Capitols de Cort del Stament militar de Serdenya” imprentadu in su 1591. In sos sèculos sa positzione de sa benda càmbiat in onni manera e isparesset puru. In su 1952 sos bator moros cun sos ogros bendados faghent parte de s’istendardu ufitziale de sa Regione Autònoma de sa Sardigna (decretu de su Presidente de sa Repùblica de su 5/7/1952. Sa forma de como, impreada pro sa bandera sarda, est istada istabilia cun una lege regionale n° 10 de su 15 de abrile 1999.

volge, tra gli altri, anche Fabio Mangolini, docente di Commedia dell’Arte all’Accademia di Recitazione di Madrid, e Donato Sartori, del Centro Internazionale delle Maschere. Tra le manifestazioni da lui organizzate, la rassegna Famiglie d’Arte, con l’intento di valorizzare la tradizione popolare, e il Festival della Storia. Dal 1989 si dedica ai Contos, narrazioni su canovaccio, con più di un migliaio di repliche. In particolare, dal 1999, ogni anno, nel cortile del Comune di Cagliari, durante la festa di Sant’Efisio mette in scena la narrazione Su Contu de Sant’Efis. Dal 1998 collabora con la Fondazione Dessì per la realizzazione di spettacoli tratti dalle opere dello scrittore villacidrese Giuseppe Dessì. Nel 1999 ha curato un intervento artistico-letterario alla premiazione del “Premio Nazionale Alghero Donna di Letteratura e Giornalismo”. Diverse le collaborazioni e i progetti nel mondo della televisione, del cinema e dell’editoria, tra cui quelle con Danilo Dolci, Otello Sarzi, Enzo Favata, Bepi Vigna, Donato Sartori, Ferruccio Soleri, Giovanni Muriello, Giulio Angioni, Elio e Le Storie Tese e i Fratelli Mancuso. Come attore cinematografico ha partecipato al film Per Sofia (2010), di Ilaria Paganelli.

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a diverse settimane in tv è arrivata una vera e propria boccata d’aria, incredibile ma è così. Si tratta del format proposto da Stefano Bollani e Valentina Cenni sulla RAI, godibile e intelligente allo stesso tempo. Venti minuti di musica, racconti e aneddoti con ospiti della musica pop, del mondo del teatro e del jazz. È così che ‘Via dei Matti numero zero’, questo il nome del programma, mi ha portato a condividere un bellissimo ricordo con voi, fatto di musica, concerti e prime volte. Voglio raccontarvi la storia di come ho conosciuto Stefano Bollani, e di come uno dei migliori musicisti al mondo sia diventato Enrico non suonava a Cagliari da diverso tempo e in negli anni protagonista di accordo con Giorgio Murtas (ideatore della manifestadiversi cartelloni ed edizione), decidemmo di chiamare questo grande artista. zioni di Forma e Poesia All’epoca i musicisti erano nostri interlocutori diretti, nel Jazz. raramente si aveva a che fare con management o boEra il 1998, e si ci si apoking, si contrattava direttamente con chi saliva sul palprestava a organizzare una co. nuova edizione della rasCosì sentii Rava per telefono. segna Forma e Poesia nel In verità ero abbastanza emozionato, conversavo con Jazz. Tel.+39 070 6492893 uno dei più grandi musicisti europei direttamente al teA quei tempi la manifestalefono, un vero privilegio. zione si svolgeva nel pic- info@formaepoesianeljazz.com Enrico mi chiese notizie di questa rassegna, così gli raccolo ma accogliente Tecontai la storia e i presupposti della manifestazione, e Forma e Poesia nel Jazz atro Alkestis di via Loru: alla fine accettò di venire a Cagliari. 80 posti a sedere in un Alla fine della contrattazione mi impose una sola condiambiente intimo, in cui si zione: che nella formazione ci fosse oltre ad Ares Tavopoteva ascoltare e vedere lazzi (un altro grande mito), un giovane musicista a cui buona musica in presa dilui teneva particolarmente, il suo nome Stefano Bollani. retta, con amplificazione Fu così che sentii suonare per la prima volta in Sarderidotta veramente al migna, con due concerti a Cagliari e San Gavino, Stefano nimo. Bollani nella formazione di Enrico Rava. L’anno decidemmo di All’epoca, oltre a coordinare il Festival, mi occupavo chiamare come stella deldirettamente anche dei trasferimenti degli artisti, porla rassegna Enrico Rava, tandoli dall’aeroporto ai concerti o a cena o ancora in uno dei più apprezzati jazHotel, tutte situazioni che mi davano modo di dialogare zisti italiani (ancora lo è). direttamente con loro.

Forma e Poesia

nel jazz @formaepoesiajazz


Forma e poesia nel jazz

Ricordo benissimo il giorno della partenza del trio e il viaggio per l’aeroporto di Cagliari. Con Stefano parlammo a lungo, scoprimmo una passione in comune per la musica brasiliana e per il cabaret. Tra le tante chiacchiere mi parlò di una cantante italiana molto brava, che a breve avrebbe pubblicato un disco e me la caldeggiò vivamente, si trattava di Barbara Casini. Qualche settimana dopo mi inviò una cassetta, da un lato le registrazioni di Barbara Casini con “Todo o Amor”, dall’altro una registrazione della sua formazione “L’orchestra del Titanic”. Mi innamorai e mi entusiasmai immediatamente di quella musica visionaria. Chiamai subito Bollani e gli chiesi disponibilità per un concerto in Sardegna a Settembre, con il suo progetto. Quello di settembre fu il primo di una lunga serie di presenze al nostro Festival Forma e Poesia nel Jazz. Quella di settembre fu la vera prima volta in concerto di Stefano Bollani in Sardegna, artista che da lì a poco sarebbe diventato una delle più grandi stelle del jazz internazionale. Con questo bel ricordo iniziamo il primo di una serie di racconti legati al nostro Festival, tutto questo in attesa di concerti e di un ritorno in futuro di Stefano Bollani nel nostro cartellone.

http://www.formaepoesianeljazz.com/

Dal 1997 il nostro impegno in musica La Cooperativa Forma e Poesia nel Jazz è attiva nell’ambito dell’organizzazione e della realizzazione di festival e iniziative culturali. La sua presenza nel territorio è documentata e comprovata da: 20 edizioni del festival Forma e Poesia nel Jazz, che rappresenta uno degli appuntamenti più consolidati e apprezzati, anche da critica e addetti ai lavori nel panorama jazzistico sardo, come certifica il lungo elenco di musicisti che hanno dato lustro alle sue varie stagioni numerosi eventi e rassegne, che hanno rappresentato una preziosa vetrina sia per la scena comica che per il gospel e per produzioni teatrali di maggior seguito I numeri eccellenti che riesce ad ottenere in termini di presenza di pubblico e gradimento, coproduzioni e partnership e, più in generale, di forte impatto e partecipazione del territorio, che derivano da ricerca, passione e sperimentazione di linguaggi e proposte Sempre aperta alle collaborazioni, è attiva all’interno di reti e partenariati. Attenta ai temi dell’ambiente e in dialogo con le realtà dell’enogastronomia locale, per offrire contenuti vivibili ed eventi sostenibili! Il team (segue pagina 40 )

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Foto la Sardana de les bruixes (la sardana delle streghe) di Salvador Dalí.

SARDANA CATALANA E BALLO SARDO

(segue dalla pagina 39) Nicola Spiga Inizia la sua esperienza lavorativa con la Compagnia Is Mascareddas dal 1991 al 1995, mentre dal 1996 al 1997 è coordinatore organizzativo della compagnia Origamundi e dal 1996 al 2012 diventa Presidente della Associazione Shannara, di cui è stato direttore artistico e organizzativo per i seguenti progetti: Forma e poesia nel jazz, Sardinia Gospel Festival, Premio Crepapelle, Concerti al Tramonto, Flamencos, Comici e Comici. Inoltre è stato direttore artistico di Jazz & Wine (2008/2009). Dal 2013 ad oggi è direttore artistico della società cooperativa Forma e Poesia nel Jazz. Andrea Spiga Segretario di produzione, si occupa della logistica e della preparazione del progetto, dei contatti con il service, dei viaggi vitto e alloggio degli artisti. Riccardo Sgualdini Dal 2002 si occupa dell’Ufficio stampa della manifestazione. E’ uno degli uffici stampa più attivi della Sardegna e tra i migliori d’Italia. Tra gli altri segue l’ufficio stampa di festival isolani importanti come Time in jazz e Dromos Nicola Meloni Creatore grafico storico della manifestazione “Forma e Poesia nel Jazz”. Tra i lavori da annoverare, ha realizzato il progetto grafico Capodanno a Cagliari 2012 e insegna grafica visiva all’Università di Francoforte.

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rendo spunto dalla notizia di pochi giorni fa del fatto che la Catalogna vuole chiedere l’introduzione del ballo nazionale catalano, la Sardana, tra i “Beni Intangibili Patrimonio dell’Umanità”, per fare alcune riflessioni. La Sardana ha origini antichissime. Il primo documento scritto che parla di tale ballo é il Liber Consulatus dell’archivio Municipale di Olot del 1552, si trata di una proibizione di tale ballo in quanto “disonesto”. Anche altri testi coevi parlano della sardana come un ballo demoniaco, offensivo e perturbatore delle cerimonie sacre. Evidentemente si tratta di una danza che non ha alcun punto di contatto con la morale cattolica. Tra gli scritti dell’inquisizione, ne troviamo vari che la associano alla stregoneria, negli interrogatori degli inquisitori si parlava di adorazione del demonio tramite streghe e stregoni che ballavano la sardana a volte attorno a un menhir pagano. La caccia alle streghe avviene precisamente quando la Chiesa Cattolica si impegna più seriamente nell’eliminazione di tutti i residui del paganesimo. L’origine pagana del ballo é ipotizzata anche dallo storico catalano José Pella i Forgas, secondo cui la Sardana avrebbe una base di religioni pre-romane, in relazione con il culto degli astri e soprattutto con il solstizio d’estate. Le sardane più antiche si componevano di 24 tempi, come


le ore del giorno. I primi otto lenti e pesanti simbolizzerebbero le ore notturne, i sedici seguenti, più rapidi e animati farebbero riferimento alla vitalità e alla luce delle lunghe giornate estive. Il fatto che che le sardane sempre inizino e terminino girando verso sinistra è visto come un riferimento al moto apparente antiorario delle stelle intorno alla stella polare. Ci sono anche prove meno circostanziali e più reali di un’origine antichissima della Sardana, per esempio un frammento di un vaso ibero proveniente dalla località valenziana di Llíria, datato al III - II sec. A.C. Quindi vengono a cadere le supposizioni che vedevano in questo ballo un’origine recente (alcuni autori parlavano addirittura di 200 anni fa). La Sardana ha analogie evidentissime con il ballo sardo, analogie che sono riflesse anche nel nome stesso del ballo. Fino a pochi anni fa si indicava il periodo della conquista Aragonese della Sardegna come possibile periodo di contatto/esportazione del ballo dalla Catalogna alla Sardegna o viceversa il periodo della conquista Aragonese della Sardegna. Cioè i catalano/aragonesi avrebbero portato in catalogna il ballo sardo (o in Sardegna la sardana) solo dopo il 1323-26 quindi dopo il primo quarto del XIV sec. Peccato che in Sardegna si conoscano varie rappresentazioni medioevali del ballo sardo anteriori a questa data, come per esempio la duecentesca rappresentazione nel

fianco meridionale della chiesa di San Pietro Apostolo a Zuri (fraz. Di Ghilarza), realizzata da Anselmo da Como nel 1291. La Storica dell’arte medievista Maria Cristina Cannas vede una rappresentazione del ballo sardo anche nell’architrave della Chiesa di San Michele Arcangelo di Siddi, datata alla fine del XII sec. (altri studiosi vedono in questo insieme di figure la caduta di Lucifero, il personaggio capovolto, Gesù e Santi). Infine troviamo una terza rappresentazione nella base della semicolonna dell’abside della Chiesa di San Lussorio di Fordongianus, i cui rilievi sono datati alla metà del XII. Queste immagini confermano la presenza del ballo sardo in Sardegna in data anteriore alla conquista aragonese, quindi tale ballo non può assolutamente essere stato importato dagli aragonesi in quel periodo. Né tantomeno può essere stato esportato dai Sardi, in quanto il vaso di Llíria testimonia che era già presente nel II-III sec. A.C. Per cui quando sarebbe avvenuto questo famigerato contatto pre-medioevale tra i due popoli? Già immagino che la prossima ipotesi darà “portata dai soldati di provenienza iberica durante l’occupazione romana della Sardegna, come già si era proposto per la scrittura astiforme. Peccato che in Sardegna il “ballu tondu” esistesse da millenni prima, come testimonia la scodella emisferica (segue pagina 42)

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Foto lestradelviaggio

STONEHENGE VS NURAGHI

(segue dalla pagina 41) rinvenuta a Monte d’Accoddi e datata al IV millennio A.C. Vogliamo finalmente ammettere che tra Sardegna e Catalogna c’erano già contatti perlomeno dall’età del bronzo, se proprio non vogliamo prendere in considerazione i 6 (ora 9) frammenti di ossidiana proveniente dal Monte Arci rinvenuti nella regione iberica in siti di epoca neolitica? Chiudo queste note con una breve considerazione. La Catalogna ha sempre tenuto in grandissima considerazione far catalogare la propia cultura tra i Beni Patrimonio dell’Umanità, vi sono ben 6 monumenti o gruppi di siti tra i beni materiali e 4 manifestazioni culturali tra i beni immateriali e il turismo locale ne trae un grandissimo profitto. Se i catalani avessero beni con la maestosità e l’antichità dei nostri nuraghi, tombe di giganti, domus de janas e pozzi sacri, sarebbero inclusi della lista dell’Unesco già da anni. Solo da noi quando qualcuno si rimbocca le maniche per far ottenere questo prestigioso riconoscimento alla storia e cultura della nostra terra, viene attaccato su tutti i fronti, soprattutto dalla classe intellettuale, classe che dovrebbe essere quella che dovrebbe dimostrare un maggiore interesse perché alla Sardegna arrivino finalmente questi meritati riconoscimenti. Valeria Putzu via Alagon 09122 Cagliari, http://www.nurnet.net/

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iti e le leggende, da che mondo è mondo, sono stati sempre un complemento inscindibile o il “sale” della storia, dei cui fatti sono spesso un’enfatizzazione; ma nessuno si è mai scandalizzato per le vicende degli Orazi e Curiazi, per le fatiche di Ercole o per le beghe degli dei o degli eroi greci o romani. Solo in Sardegna non si può neanche proferire la parola mito, perché tutti ti saltano addosso gridando allo scandalo. Si prenda ad esempio un sito come Stonehenge, “mitizzato” come calendario solare. Eppure questa nomea costituisce una semplice presunzione, come confermato dagli archeologi dell’English Heritage, organismo pubblico che gestisce il patrimonio culturale inglese, i quali dichiaravano testualmente che “senza tutti questi lavori Stonehenge avrebbe un aspetto molto diverso. Pochissime pietre sono ancora esattamente nel posto dove furono erette millenni fa”. Il fatto è che in Inghilterra non sono così schizzinosi come da noi e comprendono bene quale interesse mediatico derivi dall’interpretare quel circolo megalitico come calendario solare e non si scandalizzano neanche quando in occasione del solstizio il sito si riempie di visitatori, druidi e figuranti compresi E soprattutto gli inglesi sono consapevoli dei benefici che ne conseguono sotto il profilo turistico; ciò che a noi inte-


ressa poco o niente, perché potendo fortunatamente contare su un’economia florida, non ci passa neanche per l’anticamera del cervello l’idea di mischiare storia e turismo. Per quanto invece riguarda il mitico regno di Atlante, non vedo perché non potesse esistere davvero una terra felice con caratteristiche simili a quelle elencate da Platone. Che poi si chiamasse Atlantide o il paese dell’eterna nutella poco importa, ma affermare apoditticamente che un posto del genere non fosse mai esistito, credo costituisca quantomeno un peccato di presunzione. Se mi è permesso un consiglio, darei un’occhiata agli studi del professor Francesco Cucca (del dipartimento di scienze biomediche dell’Università di Sassari, genetista e ricercatore CNR), che portano alla conclusione che da circa 40.000 or sono e quantomeno sino all’età del bronzo la nostra isola era stata la meta turistica più gettonata, sia dalle popolazioni che fuggivano dai ghiacci che lambivano la costa ligure e sia, in seguito, dai popoli africani e medio orientali, afflitti dalla carestia e dalla sete, che giunti in Sardegna si erano accorti di essere capitati nel paese del bengodi, ricco d’acqua, di foreste, di frutti, di metalli, di pesci, di molluschi e di animali per niente pericolosi ma tutti commestibili. Consiglierei anche una riflessione su quanto è scritto negli antichi testi egizi, quando si parla dell’isola dei beati posta nel bell’occidente, l’isola della creazione da cui si narra provenissero i loro primi re stellari.

Personalmente non voglio affermare che si trattasse della Sardegna, ma non ho neanche elementi per asserire il contrario, anzi… D’altro canto l’Università spagnola di Huelva, quella americana di Hartford ed uno stuolo stratosferico di studiosi, hanno speso vagonate di soldi alla ricerca di Atlantide e Tartesso al largo di Cadice, nell’ambito di un vasto ed impegnativo programma, seguito passo dopo passo da National Geographic e diffuso in tutto il mondo dalle reti Sky. Delle due l’una: o sono tutti ingenui e creduloni e noi i più “toghi” di tutti o altrimenti c’è qualcosa che non quadra ed allora urge un serio e sereno esame di coscienza. Ed a questo proposito calza ancora una volta, alla perfezione, il pensiero di Antonio Simon Mossa, che prima della sua prematura scomparsa così scriveva: “Non credo affatto che noi Sardi abbiamo una qualsiasi idea della storia di questo paese. Non abbiamo mai fatto cose positive per la nostra terra. Abbiamo la testa piena delle “glorie romane” di “pace romana” di “giustizia romana” e di tutto quanto spiegano malamente le cosiddette scuole umanistiche. Di quest’isola non ne sappiamo niente. La nostra storia è stata fatta da altri. La nostra personalità non è minimamente intervenuta. La nostra ignoranza è la causa del disprezzo verso tutto ciò che è nostro”. Giorgio Valdès http://www.nurnet.net/

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Foto marinocao

SANT’EFIS MARTIRI GLORIOSU

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fisio, Efis in lingua sarda (Elia, 250 – Nora, 15 gennaio 303) è stato un martire cristiano sotto Diocleziano, venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Il suo culto è molto diffuso nel Sud della Sardegna, l’isola dove subì il martirio. Nacque ad Elia, alle porte di Antiochia in Asia minore, nel 250 d.C. da madre pagana e padre cristiano. Perduto il padre in giovane età, la madre lo educò ai culti orientali. Questa formazione lo portò ad arruolarsi nell’esercito imperiale e, di conseguenza, a combattere i cristiani, perseguitati da Diocleziano. La svolta nella sua vita avvenne, secondo la tradizione, dopo essersi trasferito in Italia al seguito dell’esercito. Durante una notte gli apparve una croce che risplendeva fra le nuvole: mentre contemplava questo straordinario fenomeno, la voce di Gesù dal cielo gli rimproverò la sua persecuzione. Dopo questa visione il giovane soldato si convertì e lasciò l’esercito; giunto a Gaeta si fece battezzare. Decise quindi di annunciare il Vangelo ai pagani. Avendo saputo che in Sardegna il paganesimo era ancora diffuso, andò nell’isola a predicare. Da Cagliari scrisse addirittura una lettera all’im-

peratore invitandolo a convertirsi alla fede cristiana. Diocleziano, sbigottito, ordinò la sua condanna a morte. Imprigionato, fu crudelmente torturato. In quell’occasione avvenne un prodigio: le ferite si rimarginarono completamente e spontaneamente. La notizia del prodigio corse presso la popolazione, provocando una conversione di massa al cristianesimo. Efisio fu messo a morte sul patibolo a Nora (circa 40 km da Cagliari) il 15 gennaio 303. Prima di morire invocò la protezione divina sul popolo sardo. Efisio viene venerato a Cagliari, nella chiesa stampacina a lui intitolata, e in particolare a Pula, nella chiesetta romanica costruita sulla spiaggia di Nora dove, secondo la tradizione, il santo subì il martirio per decapitazione. Festeggiamenti in onore di sant’Efisio si tengono principalmente due volte all’anno: il 15 gennaio, giorno in cui la Chiesa cattolica ne ha fissato sul calendario la Memoria Liturgica, ed il 1º maggio, la festa grande, quando la statua del santo viene portata in processione fino a Nora per sciogliere un voto fattogli dalla municipalità nel 1656 affinché liberasse Cagliari dalla peste.


In altre due occasioni il simulacro del santo viene portato in processione per le vie cittadine: la sera del Giovedì santo, nella tradizionale visita a sette chiese storiche; e il giorno di Pasquetta, quando la statua viene portata sino alla cattedrale per sciogliere un altro voto, quello risalente al 1793, quando la città venne bombardata dalle navi da guerra della Francia rivoluzionaria. Tutti gli eventi legati al culto di sant’Efisio a Cagliari e a Pula vedono protagonista l’Arciconfraternita del Gonfalone e di sant’Efisio Martire, con sede nella chiesa di Stampace, preposta principalmente alla promozione della devozione al santo. Il 12 maggio 2011 le reliquie di sant’Efisio vengono finalmente consegnate alla città di Cagliari nel corso di una solenne celebrazione eucaristica. Sino a questo momento erano custodite a Pisa. La Festa di sant’Efisio martire (sant’Efis su martiri gloriosu) che si svolge a Cagliari e a Pula è una delle feste più importanti della Sardegna, e una tra le processioni a piedi più lunghe d’Europa. La festa cade il 1º Maggio. Da Cagliari la statua del santo viene trasportata verso Pula passando attraverso Capoterra, Sarroch e Villa San Pietro. Da Pula viene poi condotta a Nora dove si trova l’antica chiesa che prende nome del Santo.

Fotografia estratta dal filmato che mostra lo scioglimento del voto nel maggio 1943 Vedi qui il video https://youtu.be/ nPb6MkwS_xU

Dopo due giorni di preghiere la Statua riparte alla volta di Cagliari accompagnata in processione dai fedeli dopo aver percorso a piedi circa 80 km. Nel 1656, dopo la terribile ondata di peste che sconvolse la città di Cagliari, la cerimonia in onore del santo si perpetua ogni anno assummendo i fasti che a tutt’oggi si possono osservare. Durante l’epidemia di peste, sempre nel 1656 i consiglieri cagliaritani legarono la città al Voto perpetuo di celebrare annualmente Sant’Efisio per ringraziarlo della salute ritrovata e fu scelto il mese di maggio proprio perché simbolo di rigenerazione della natura. Il santo è molto venerato a Pisa, dove lo si festeggia solennemente il 13 novembre. Fino a non molto tempo fa, le reliquie venivano esposte in occasione della Domenica in Albis. L’altare detto “di San Ranieri”, nel duomo, era originariamente dedicato ai santi Efisio e Potito: venne consacrato nel 1119 da papa Callisto II. In esso sono presenti due sculture marmoree, opera di Battista Lorenzi, che rappresentano appunto i due santi. Anche nel cimitero monumentale si ricorda il martire sardo: alcuni affreschi di Spinello Aretino, realizzati tra il 1390 e il 1391, raffigurano varie scene della vita di Efisio. wikipedia.org

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el panorama della produzione artistica medievale della Sardegna, e in particolar modo nel campo della pittura, spicca la scarsità di illustrazioni relative al racconto della vita dei santi. Tale scarsità diventa vera e propria assenza se si considerano le vite dei santi martiri sardi Saturnino, Antioco, Efisio, Lussorio, Gavino e Simplicio, nei confronti dei quali il culto era assai vivo nell’isola. Negli stessi santuari sardi di Cagliari, Sant’Antioco, Nora, Fordongia-nus, Porto Torres e Olbia, sorti presso i luoghi di martirio, nulla della decorazione figurativa pervenutaci consente di ricostruire la presenza di un racconto agiografico per immagini relativo ai santi lì venerati. Sebbene tale silenzio delle rappresentazioni figurative sia certo sorprendente, è però anche necessario ricordare che la complessiva esiguità di testimonianze figurative prodotte in Sardegna (o giunte nell’isola) fra isecoli V e XIV induce ad usare grande cautela prima di leggere tale dato negativo come la spia di una mancata volontà di rappresentare per immagini i racconti agiografici dei santi locali. Certo è che nelle testimonianze pittoriche giunte fino a noi vi è una netta preponderanza di rappresentazioni ‘iconiche’ dei santi, ovverosia di raffigurazioni di santi aureolati,a figura intera, in piedi, spesso corredati da iscrizioni che ne specificanol’identità, oppu-

Sant’Efisio: il culto, la leggenda e le immagini nel Medioevo, fra la Sardegna e Pisa. Alberto Virdis

L’agiografia sarda antica e medievale: testi e contesti Atti del Convegno di Studi (Cagliari, dicembre 2015) Antonio Piras e Danila Artizzu

re isolati dal resto della decorazione pittorica per mezzo di cornici, come se si trattasse di icone trasposte sulla superficie muraria, laddove, invece, le scene narrative presenti nei cicli di immagini prodotti nell’isola sono più di frequente dedicate al racconto della vita di Cristo. Così, per esempio, avviene nella chiesa rupestre di Sant’Andrea Priu,presso Bonorva, nell’ambiente denominato Tomba del Capo, la camera maggiore di un complesso di domus de janas di età neo-eneolitica, rifunzionalizzato in età cristiana come chiesa e decorato in età alto medievale con un ciclo pittorico che comprende, nella metà destra dell’ambiente piùinterno, una teoria di santi aureolati, corredati da iscrizioni latine che qualificano molti di essi come apostoli. Secoli più tardi, in età giudicale, l’abside della chiesa abbaziale della San-tissima Trinità di Saccargia fu decorata con un ciclo pittorico su più registri,realizzato nella seconda metà del XII secolo, nella cui parte mediana si trova una teoria di santi a figura intera ai lati della Vergine orante che occupala posizione centrale. Sempre a Saccargia, all’estremità sinistra del registro inferiore, si può ancora riconoscere una figura di santo, solo parzialmente visibile al giorno d’oggi, ai piedi del quale si inginocchia un’altra figura. Ledue immagini, interpretate solitamente come San Benedetto e l’abate ca-maldolese di Saccargia che si prostra ai suoi piedi, sono comunque avulse dal contesto narrativo adiacente, relativo ad un ciclo della Passione di Cristo.


Si conservano inoltre diversi lacerti di affreschi con figure ‘iconiche’ tali le figure di S. Biagio e S. Benedetto ai lati di S. Cristoforo presso la chiesa di S. Lorenzo a Silanus e dell’immagine con due santi vescovi nella basilica di San Simplicio a Olbia, oggi staccate e collocate presso l’abside. Nel XIV secolo, nella cappella del castello di Serravalle a Bosa, oggi intitolata a Nostra Signora de sos Regnos Altos, diverse figure di santi compongono la decorazione a fresco; fra queste, una teoria di santi e sante lungo la parete destra, alcuni santi francescani dipinti sulla parete sinistra e infine, lungo la controfacciata, le immagini ‘iconiche’ di S. Cristoforo, S.Martino e il povero, S. Giorgio e il drago, S. Costantino e S. Elena ai due lati della Vera Croce, a comporre un mosaico di figure di santi non legate da un unico contesto narrativo. L’elenco (che potrebbe continuare ed includere anche esempi tratti dalla produzione scultorea) deve di necessità concludersi con la menzione dell’unica testimonianza artistica di un racconto per immagini della vita di due santi, Nicola e Francesco, al centro delle tavole che compongono la Pala di Ottana, realizzata da un pittore giottesco fra il 1339 e il 1334. Se quindi, complessivamente, nella produzione artistica del Medioevosardo si deve constatare una netta preferenza verso le immagini ‘iconiche’ dei santi (con modi che proseguiranno anche in età post-medievale,come attesta-

Camposanto Monumentale di Pisa. Spinello Aretino, Sant’Efisio condotto davanti al tribunale a Cagliari,torturato e condotto al martirio (Foto di Kaho Mitsuki, licenza Creative Commons, fonte: https://goo.gl/ CdJPJh)

no i pannelli con figure di santi addossati ai pilastri cilindrici della basilica di S. Maria del Regno ad Ardara) è pur vero che niente, allo stato attuale delle ricerche, esclude che potesse esistere in passato, nei santuari martiriali dell’isola, qualche raffigurazione narrativa dedicata all’illustrazione del racconto agiografico non conservatasi fino ai giorni nostri; non rimane però alcuna traccia di tali rappresentazioni neanche nelle testimonianze storiche e letterarie dei secoli successivi. Per trovare un ciclo di immagini dedicate ad un santo martire della tradizione cultuale sarda è necessario spostarsi a Pisa, nel Camposanto monumentale, dove negli anni 1390-91 fu affidato al pittore Spinello Aretino dagli Operai del Duomo, Parasone Grasso e Colo di Salmulis, il compito di affrescare la porzione della parete Sud compresa fra le due porte d’accesso, con Storiedella Vita e della Passione dei Santi martiri Efisio e Potito, le cui spoglie, a quel tempo, si trovavano nel duomo della città tirrenica. Già il Vasari ebbe modo di apprezzare il lavoro del pittore suo concittadino, consegnandoci, nella Vita di Spinello Aretino, una preziosa testimonianza proprio delle pitture che illustrano la vita e la passione di S. Efisio nel Camposanto pisano, all’epoca molto più leggibili e complete che ai giorni nostri

www.academia.edu/32955812/ Sant_Efisio_il_culto_la_leggenda_e_le_immagini_nel_Medioevo_fra_la_Sardegna_e_Pisa

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