SARDONIA Novembre 2019

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SARDONIA

Ventiseiesimo Anno / Vingt Sixième Annèe Novembre 2019 /Novembre2019

Foto Sardegna News/Fonni

Cagliari Je t’aime Biennale Romana Anna Cabras Brundo Angela Caremi Carthago Cristoforo Colombo Pelle dal fico d’india Il sensazionalismo che uccide Pompei Il dito, il gladiatore, la luna Maria Lai Lab Home Gallery L’Imperfetto Rosanna Rossi Museo del Bisso Pettinau ed il golf Giovanni Antonio Porcheddu Razzismo Antisardo Mont’e Prama La megalopoli dei veleni Mizen Fine Arts Gallery Antonello Verachi Torranci in su gunnu

https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia


Cagliari JeT’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@ gmail.com https://vimeo.com/channels/icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/cagliarijetaime

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SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale

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ome ogni anno nel mese di ottobre, e forse ancora di più quest’anno, ci sembrava di essere ancora in estate, ricorderete la copertina di Sardonia del mese scorso, ma finalmente l’autunno finisce sempre per arrivare.. Certo, vedendo i nubifragi che imperversano nel continente, per non parlare della Francia, possiamo considerarci veramente fortunati, senza parlare di tutti gli altri aspetti della vita che rendono la quotidianeità in Sardegna così piacevole. Ricordando naturalmente tutte le altre attività, come quelle che descriviamo in queste pagine, sia artistiche che gastronomiche, e questo mese di novembre anche essenzialmente archeologiche, perché abbiamo dedicato un largo spazio a tre interventi abbastanza lunghi ma estremamente importanti che dovrebbero aiutarci ad avere una visione un po più chiara su quello che può e dovrebbe essere l’archelogia in generale, con tutte le conseguenze politiche e sociali che ne derivano, e l’archeologia sarda in particolare, terreno dove tutte le caratteristiche dell’anima sarda sia in bene che in male, si rivelano particolarmente attive. Come capita sempre, ci ritroviamo a fare la parte bella a quelle figure femminili, sia ancora viventi ed attive, sia ormai passate alla storia, che ci hanno più impressionato, anche se lo spazio per portare avanti le imprese degli artisti, poeti ed ingegneri sardi non ci manca mai. Ricordiamoci che le prime pitture rupestri che risalgono a più di sessantamila anni fà sono state realizzate, a più dell’ottantacinque per cento, da mani femminili, non é quindi sorpendente che tanti talenti si rivelino ancora ai nostri occhi sbalorditi ed compiaciuti. Troverete anche in questo mensile qualche informazione su degli artisti sardi che espongono a Parigi, Ruben Mureddu e Chiara Murru pour ne pas les nommer, insieme ad una curiosa proposta storicamente, almeno sembra, documentata, che vorrebbe che Cristoforo Colombe sia nato a Sanluri, perché no in fin dei conti, questa cittadina ha dato i natali a tanti illustri personaggi ed é stata luogo di avvenimenti storici fondamentali per la Sardegna. Un breve accenno a Tonino Casula, uno dei più importanti artisti sardi di cui potrete d’altra parte consultare le numerose interviste che Sardonia gli ha consacrato su https://www.vimeo.com/groups/sardonia. Non manca la nostra proposta gastronomica con l’invito a visitare il ristorante barbaricino L’Imperfetto che vi accoglie in Castello, senza dimenticare l’invito a partecipare alla préselezione per la XIIIma Biennale di Roma, organizzata dalla dottoressa Giulia Obino, che si svolgerà a dicembre a Cagliari in un luogo prestigioso, di cui non possiamo ancora rivelare il nome. Nel frattempo potete sempre approffitare delle belle giornate ancora estive per visitare al Bar de Il Lido di Cagliari, la mostra «La Spiaggia del Poetto» e trovare il suo pendant alla Libreria Sulis nella via omonima. Senza dimenticare la mostra delle opere di Rosanna Rossi a Milano fino al 5 novembre e quella su Cartagine a Roma fino a marzo 2020. Un pensiero speciale alla pelle realizzata a partire dai fichi d’india, vegetazione particolarmente diffusa in Sardegna, che sapientemente sfruttata potrebbe creare occupazione, risorse, benessere e creatività. Aspettando quindi gli stivali, le borse ed i mantelli di pelle di fichi d’india (senza spine) vi invito ad approfittare dell’autunno in Barbagia come ogni anno ricco di opportunità. Vittorio E. Pisu

XIII Biennale ROMA 2020 Mostra Internazionale

Pittura Scultura Fotografia

SELEZIONI REGIONALI

per la Sardegna

Iscrizioni aperte fino al

15 Novembre 2019 Le selezioni si terranno

a Cagliari nel mese di dicembre biennaleroma@libero.it +39 328 028 1883

ortes De Janas ArtExpò”, un’esposizione che ha visto coinvolti importanti artisti del panorama regionale in concomitanza con la Sartiglia oristanese. L’ideazione e il coordinamento sono stati assicurati da Giulia Obino, con la collaborazione di Morsi d’Arte e Traffic Art Oristano. Il percorso espositivo si snoda va tra le antiche sale di un monastero restaurato risalente al 1750. nel pieno centro di Oristano, nella via della discesa alla stella, con la possibilità di vedere gli antichi sotterranei di una Oristano antica sconosciuta ai più. Ma les attività artistiche e culturali di Giulia Obino non si fermano certo qui. Di ritorno dall’Inghilterra, dove ha trascorso gli ultimi quindici anni, si è impegnata tra le altre attività, a riunire un certo numero di artisti sardi e farli partecipare alla Biennale Romana del 2020, ormai alla sua tredicesima edizione. Nel frattempo aveva organizzato una mostra a Villanovaforru per presentare i disegni e le caricature di Nicolò Atzeni di cui ci ha detto : “Nicolò Atzeni, nativo di Ortueri, ha una grande padronanza della tecnica dell’acquarello e riesce a trasformare le immagini in poesia. Ama ritrarre le persone miti e semplici e le sue non sono solo pennellate di colore ma vere e proprie analisi della personalità di colui che è stato ritratto. Nicolò Atzeni, attento scrutatore dell’animo umano, nei suoi passionali ritratti e attraverso il segno della matita prima e la stesura

delle velature di acquarello successive, ci mostra lo spirito dei sardi nelle loro molteplici ed autentiche espressioni. Un articolato percorso di studio ed analisi di tanti soggetti sardi”. Per quello che riguarda la Biennale Romana ricordiamo che il CIAC promuove, nella continuità di una linea già intrapresa da diversi anni, occasioni di incontro tra esperienze artistiche diverse. In questa ottica si inserisce la Biennale d’Arte di Roma. L’incontro-confronto di queste diverse esperienze artistiche costituisce un momento culturale di notevole interesse, che caratterizza peculiarmente la manifestazione. Ciò consente di individuare le attuali linee della ricerca artistica nel campo plastico e pittorico. Tutte le opere presenti costituiscono la testimonianaza tangibile di una linea analitica di ricerca alla produzione artistica contemporanea, sostenuta dalla esigenza di una verifica critica dei mezzi di rappresentazioni e di espressione. La manifestazione inoltre tende a mettere in evidenza i deiversi livelli di articolazione dei linguaggi visivi. Questa Biennale costituisce perciò un momento culturale particolarmente forte e significativo raggiungendo con artisti provenienti da più di 30 nazioni un elevato livello mondiale. Siamo sicuri che i numerosi artisti sardi che parteciperanno a questa importante manifestazione internazionale mostreranno la vivacità e la prodduttività artistiche sarde che si sono da sempre illustrate in questo campo. V.E. Pisu

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ANNA CABRAS BRUNDO ANGELA CAREMI

Nel 1958, all’età di 39 anni partecipa alla sua prima mostra collettiva assieme al gruppo di artisti denominato “Studio 58” e dei Transazionali, ma ben presto se ne distacca per diversità di vedute e di obbiettivi. Sempre nel 1958, provocata da un collega che le contesta di saper fare solo “facce”, realizza per la prima volta un nudo di donna di grandezza naturale pur senza aver a disposizione una modella. Tra le opere eseguite per enti pubblici si segnala il busto del pittore-incisore Felice Melis Marini per il Gabinetto delle Stampe all’Università di Cagliari realizzato nel 1952; nel 1957 per lo Stadio Amsicora le viene ordinato il busto del fondatore Guido Costa; per il Comune di Cagliari i sindaci Giuseppe Brotzu, Gavino Dessì Deliperi, Luigi Crespellani; la Provincia di Cagliariacquista sue opere e il busto di Emilio Lussu; l’Istituto Cambosu le com-

missiona la Madonna di Bonaria in grandezza naturale; per il Seminario di Cagliari realizza il busto di papa Paolo VI; per l’Episcopio il busto di papa Giovanni Paolo II; per la Cittadella dei Musei il busto di Giuseppe Peretti. Inoltre realizza bassorilievi per la chiesa San Luca in Margine Rosso, nel 1977 realizza la via Crucis per il Santuario di Sant’Ignazio da Laconi a Cagliari e all’età di 72 anni per la cripta della chiesa cagliaritana di San Lucifero modella un notevole bassorilievo raffigurante il Santo e l’antica chiesa. Sperimenta altri soggetti quali il paesaggio, la natura morta, i fiori e studi di nudo. Questi ultimi vengono realizzati presso l’accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia dove partecipa ai corsi d’arte figurativa per un arco di tempo di 15 anni a partire del 1974. Muore nel maggio del 2008. (www.wikipedia.org)

NON SOLO MUSE Arte al femminile Opere di

ANNA CABRAS BRUNDO a cura di MARTA CINCOTTI SIMONE MEREU CANEPA

dal 12 Ottobre 2019 al 30 Novembre 2019 ex I.S.O.L.A. Via Santa Croce, 39 Cagliari Castello Conferenze https://www.facebook.com/ events/769398300164125

LIBRERIA MORBIDA DI UNA RACCONTASTORIE

SCULTURE TESSILI ED ALTRI TEATRINI LAB HOME GALLERY Via E. d’Arborea, 48 San Sperate

https://vimeo.com/366029990

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PhotoGiulia Baita

nna Cabras Brundo nasce a Cagliari nel 1919 da Erminio Brundo e Marta Garbati. Fin da piccola ha sempre dimostrato una particolare predisposizione per il disegno e per la matematica. Autodidatta, all’età di 16 anni aveva già realizzato la sua prima scultura raffigurante il nonno Domenico Garbati, successivamente il suo autoritratto oltre a diversi disegni magistrali. Nel 1936 frequenta lo studio dello scultore Francesco Ciusa che si accorge immediatamente delle doti della giovane artista apprezzandone le innate capacità prospettiche, la istintiva conoscenza dell’anatomia umana e la destrezza nel disegno. Abbandonato quindi il corso dopo soli due mesi su consiglio dello stesso Ciusa che riteneva di non avere nulla da insegnarle, la Brundo continua a lavorare e disegnare seguendo solo il suo istinto e non le mode del tempo. Ritrattista sensibile e autentica riesce con facilità e successo a cogliere non solo le sembianze fisiche, ma l’essenza e l’anima del modello. Anna Cabras Brundo con il busto del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga realizzato del 1988 Nel mese di dicembre del 1942 sposa Mario Cabras, da cui nascono nell’arco di 5 anni dal 1943 al 1948 i quattro figli, Sandro, Paolo, Elisabetta e Carla. In questi anni immediatamente successivi della Seconda Guerra Mondiale si dedica principalmente alla famiglia, senza però dimenticare la sua arte utilizzando come modelli i suoi figli.

ucio da quando ero bambina,ma non facevo vestiti da bambola, non ho mai avuto una bambola. Disegnavo con ago e filo. Le stoffe, consapevoli diquesto, sono entrate nella mia vita sconvolgendola: hanno riempito lacamera da letto, la cucina, il salotto - ops! io non ho un salotto -, il bagno, la credenza, il freezer per combattere le tarme, il cassettone,lo scaffale, la cassapanca; hanno spodestato libri, piatti, creme di bellezza, lavatrici, sedie. Ebbene, di loro conosco tutto: le trame, gli orditi, ne conosco gli odori. Potrei riconoscere un tessuto dall’odore; l’odore delle loro piante: quello del cotone è lieve, si sente appena appena e sa di confetto, quello del lino è un profumo; conoscete i fiorellini azzurri della pianta di lino? Ecco,immaginatelo. Di erba, di erba dico, sa la canapa, forte robusta: ti spacca le dita quando la cuci. E la lana, quella vera, sa di caprone, non si può confondere. Alcune, invece, hanno un buon odore di muffettina mista a cipria, buon segno! Arrivano da solai o cantine. Sono le più vecchie, scolorite, stropicciate,rammendate, vecchie e superbe! Loro lo sanno di essere le mie preferite. Ma quelle sintetiche sentono di profumo triste, perché loro non hanno come mamma una pianta o una pecora e sono troppo giovani

per essere state in solaio... né confetto né erba né cipria! Io non faccio niente. Loro, sotto i miei occhi si trasformano, diventano libri, libri di entomologia, libri di poesia,di racconti, libri di botanica, libro per dormire in collina, Libro sulla libertà di non farsi mai la doccia, sui Pensieri diversi…e poi teatrini, teatrini burattino con i fili, teatrini mosci,teatrini libro, teatrino dei pesci, ma anche orti per la coltivazionedelle stoffe, per la coltivazione dell’alfabeto, orto per coltivarei pensieri. E le collane? Collana con maiali per la Quarenghi, collana per laMaga Circe, collana Topo topo senza scopo dopo te cosa vien dopo?, per la Maria Lai, per la Bourgeois, collana con una Preguntas di Neruda, un’altra collana per la Giusi Quarenghi con la riproduzione dei suoi libri, collana bosco con 150 alberi, collana con incendio a casa di B., e di certo non può mancare la collana con la con le stoffe del Diavolo (Pastoureau). Ein fine molti, tanti papillons per il Signor GiorgioLucini. Le ali alle libellule le faccio con l’organza. Angela Caremi Questo raccontava Angela Caremi che abbiamo incontrato al Lab Home Gallery di Pietrina Atzori a San Sperate, dove siamo già stati diverse volte ed abbiamo realizzato dei filmati che vi permetteranno di conoscere meglio le artiste come Angela Caremi. Da non perdere assolutamente. Trovate tutto su https://www.vimeo.com/ groups/sardonia

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la sua superficie di oltre 200 ettari e che diverrà a tutti gli effetti una città dotata di edifici da spettacolo e lussuose abitazioni private, famose ovunque per la ricchezza dei loro mosaici policromi di cui si avranno in mostra alcuni straordinari esemplari; si conclude quindi con testimonianze del nascente cristianesimo, di cui Cartagine è in seguito diventata il centro propulsore, e con un’appendice sulla riscoperta della città alla luce dell’immaginario moderno e contemporaneo. A cura di Alfonsina Russo, Direttore del Parco archeologico del Colosseo, Francesca Guarneri, Paolo Xella e José Ángel Zamora López, con Martina Almonte e Federica Rinaldi Promosso da Parco archeologico del Colosseo Organizzazione Electa

CARTHAGO Il mito immortale a cura di Alfonsina Russo

TONINO CASULA Centro Scuola Pirandello presenta Legittima Difesa Rassegna Arte Contemporanea

#3CASU-CASULA

dal Venerdì 27 settembre 2019 alla Domenica 29 marzo 2020

Giovanni Casu Tonino Casula

Colosseo – Foro Romano Largo della Salara Vecchia 5/6 00186 Roma parcocolosseo.it

Centro Scuola Pirandello Via Nazario Sauro 9 09124 Cagliari https://vimeo.com/367334287

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Photo Radio X

Photo Parco Colosseo

a prima grande mostra interamente dedicata alla storia di una delle città più potenti e affascinanti del mondo antico. L’esposizione è allestita nei monumentali spazi del Colosseo e del Foro Romano con oltre quattrocento reperti, provenienti dalle più prestigiose istituzioni museali italiane e straniere, grazie a prestiti straordinari, tra cui i musei nazionali di Cartagine e del Bardo di Tunisi, dal Libano dal museo nazionale di Beirut, dalla Spagna dai musei archeologici nazionali di Madrid e di Cartagena. L’esposizione lega le vicende delle due grandi potenze del mondo antico – Cartagine e Roma – lungo un percorso narrativo che si snoda dalla fondazione dell’Oriente fenicio passando per la storia della città e dei suoi abitanti, l’espansione nel Mediterraneo e la ricchezza degli scambi commerciali e culturali nella fase che va dalle guerre puniche all’età augustea, sino a giungere alla complessità del processo di romanizzazione che ha portato Roma ad annientare, nella battaglia delle Egadi (241 a.C.), quella che era ormai divenuta l’unica temibile rivale per il controllo del mare. E proprio dalle Egadi provengono reperti mai esposti prima, risultato delle campagne di ricerca condotte dalla Soprintendenza del Mare siciliana. Il percorso prosegue con la rifondazione della nuova Colonia Iulia Concordia Carthago che per tutta l’età imperiale si distinguerà per

el 1958 partecipa al Gruppo ‘58 di Cagliari (di cui fanno parte, tra gli altri, Mauro Staccioli e Gaetano Brundu). Dal 1963, con l’aiuto della psichiatra Nereide Rudas, comincia a interessarsi di percettologia e di psicologia - gestaltica prima e transazionale poi - orientando la sua produzione artistica verso sperimentazioni affini alla Optical art di quegli anni. La nascita del suo interesse per le teorie della percezione, rimasto costante nel corso degli anni, è strettamente legata alle operazioni agli occhi a cui si sottopone, tra il ‘63 e il ‘64, per risolvere alcuni gravi problemi di vista (ectopia e ambliopia). All’inizio del 1966 è tra i fondatori e animatori del Gruppo Transazionale di Cagliari, sotto la guida di Corrado Maltese (docente all’Università di Cagliari dal ‘57 al ‘69). Da questo periodo, fino ad oggi, sperimenta l’astrazione geometrica nelle “più varie forme percepibili e suscettibili di produrre otticamente indeterminatezza, inganno e ambiguità”(Corrado Maltese). Ha partecipato a numerose colletti-

ve, tra cui Quadriennali romane e Triennali milanesi. Dal 1966 al 1972 esegue opere murarie a Monastir, Settimo San Pietro, Selargius, Serrenti, Pirri (Scuola elementare E. Toti). Nel 1966 entra a far parte del Centro Di Cultura Democratica e nel ‘69 del Centro Arti Visive di Cagliari. Nel 1973 è ospite del Rijkscentrum Frans Masereel di Kasterlee (Belgio). Nel 1981 avvia, con Gaetano Brundu, il Centro Internazionale Sperimentazione Arti Visive di Villasimius (CA). Nel 1988, dopo aver abbandonato la pittura, realizza le sue prime opere di Computer graphics. Nel 1993 elabora al computer le prime animazioni e, negli anni seguenti, le Diafanie (video realizzati con la proiezione alternata su un unico spazio, gestita da due proiettori di diapositive, di immagini elaborate al computer) e i Cortronici 2D, “cortometraggi elettronici bidimensionali” realizzati al computer e orientati verso il cinema astratto, che dal 2005 diventano tridimensionali: i Cortronici 3D, da vedere con occhiali anaglifi rosso ciano o (nel formato “side by side”) collegando il computer a un televisore 3D. Ha collaborato con riviste (Rinascita Sarda) e giornali (Unione Sarda), realizzato programmi radiofonici (per la Rai: Il frullarte, Con la colla e col coltello, Cioè, Bloc notes; per Radio 24 ore: Arte 24), e televisivi (per la Rai: Made in Sardinia, Classidra, L’altro occhio di Polifemo), oltre a documentari e interviste ad artisti e storici dell’arte (tra cui Gaetano Brundu, Aldo Contini, Gillo Dorfles, Maria Lai, Ermanno Leinardi, Angelo Liberati, Costantino Nivola, Rosanna Rossi, Giò Pomodoro, Pinuccio Sciola, Marisa Volpi). Il 24 aprile 2013 è in Argentina per un incontro (a cura dell’Istituto Italiano di Cultura) con studenti e professori della “Facultad de Artes” UNC di Còrdova. Ha pubblicato saggi di divulgazione e didattica (Einaudi)

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CRISTOFORO COLOMBO PELLE DAL FICO D’INDIA

Foto Lopez Cazarez

Foto vISTANET

o sapevate? Secondo una studiosa spagnola Cristoforo Colombo era sardo e nacque a Sanluri L’eclatante ipotesi punta a smantellare la tesi che vuole Colombo nato a Genova nel 1451 e sostiene che il vero nome “Cristoforo da Siena e Alagon” figlio di Salvatore da Siena Piccolomini e Isabella Alagon D’Arborea. Secondo la sua tesi - confutata dagli storici sardi - Colombo nacque proprio nel castello di Sanluri da una nobile famiglia sardo-genovese nel 1436 e trascorse la giovinezza tra Oristano, Tortolì e Castelsardo a studiare la scienza e la nautica. Secondo la clamorosa teoria della studiosa spagnola Marisa Azuara, il grande navigatore, non avrebbe origini genovesi, bensì sarde. Da sempre la provenienza e l’esatto luogo della sua nascita sono state al centro di controversie, rivendicazioni e polemiche. C’è chi riteneva fosse catalano, chi galiziano, chi portoghese. L’affascinante ipotesi della studiosa aragonese è contenuta nel libro “Christovar Colon. Màs grande que la leyenda”, in questo discusso volume la Azuara, ricostruisce la storia e la genealogia della famiglia Colombo fino ad affermare che egli nacque in Sardegna. A fornire questa interpretazione sui misteriosi natali dello scopritore delle Americhe, sono anni di ricerche negli archivi storici di Cagliari, Oristano e Torino, a quello della Corona d’Aragona, all’archivio Simon Guillot di Alghero e a quello siciliano. La base documentale è dell’associazione Araldica e genealogica di Sardegna. «Da parte di suo padre – scrive la Azuara – era il secondo figlio del Grande ammiraglio di Sardegna

ed era imparentato con i Piccolomini e i Chigi di Siena, con i Todeschini Piccolomini Aragona dell’Umbria, con i Visconti di Milano e con gli Spinola di Firenze. Riguardo sua madre, discendeva dagli Alagon di Saragozza, dei mitici giudici sardi Mariano ed Eleonora d’Arborea e del sardo genovese Brancaleone Doria». Il risultato cui arriva la Azuara è dovuto al fatto che la maggior parte degli studi svolti finora non avrebbero tenuto conto che nel XV secolo la Corona di Aragona era uno Stato sovrano che si estendeva per il Principato di Catalogna e i regni di Aragona, Maiorca, Valencia, Sicilia, Corsica, Napoli e, per l’appunto, quello di Sardegna. La studiosa spagnola ritiene che nel XV secolo erano chiamati genovesi sia gli abitanti del Genovesado (Ducato di Ginevra, Piemonte e Repubblica di Genova), sia coloro che vivevano nelle terre conquistate. L’ipotesi di Marisa Azuara in

Spagna, e non solo, suscita grande interesse. Tra le numerose località che rivendicano l’origine locale di Cristoforo Colombo, naturalmente Genova, dove sembra però che la sua sedicente casa natale sia stata designata qualche secolo dopo la sua scomparsa, senza dimenticare la Corsica, dove a Calvi esiste anche un’altra dimora considerata quella della sua nascita e residenza, non bisogna però dimenticare che Cristoforo Colombo, nella sua ricerca di uno sponsor e finanziatore della sua impresa si finse di volta in volta portoghese presso i reali di quello stato, spagnolo presso la corte madrilena, producendo numerosi documenti che attestavano delle sue presunte e conclamate origini al fine di ottenere finanziamenti e sostegno che gli sarebbero certamente rifiutati nel caso in cui non si fosse trattato di un connazionale e di un soggetto dei regnanti ai quali rivolgeva le sue domande. E quindi un po difficile di districarsi in mezzo a questa profusione di case e di documenti originali, ma ci siamo sentiti leggermente onorati di questa attribuzione della sua nascita ad una cittadina del Campidano. Vittorio E. Pisu ed altri

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na coppia di giovani di Guadalajara, in Messico, ha creato la prima alternativa vegetale alla pelle realizzata dalle foglie di fico d’India e presenterà la straordinaria innovazione a Lineapelle, manifestazione milanese che si sta svolgendo a Milano in questi giorni. Adrián López e Marte Cazárez hanno portato avanti sperimentazioni per due anni per riuscire a creare un’alternativa alla pelle che fosse ecostostenibile ed etica e che contemporanemente garantisse resistenza e traspirabilità. Per trovare il materiale adatto, i due giovani si sono ispirati a realtà simili che realizzano alternative alla pelle partendo dalle bucce di mela e dall’ananas. L’idea di sfruttare il fico d’India è arrivata quasi per caso: i due stavano riflettendo su come questa pianta fosse ampiamente utilizzata in cosmesi per la produzione di shampoo e creme, quando si sono detti “Se il fico d’India è buono per la pelle, perché non usarlo per creare la pelle?”. Inoltre il fico d’India è molto diffuso in Messico, come spiega uno dei due ideatori del nuovo tessuto:

“Il Messico ha il potenziale per innovare e il cactus è il simbolo del paese. Molte persone ci hanno detto che eravamo pazzi! Perfino i nostri ingegneri ci hanno detto che non si poteva fare. Abbiamo detto come no? Siamo in Messico, siamo messicani, quale materia prima abbonda qui? Il cactus qui cresce da solo, senza bisogno di grandi quantità d’acqua. È lì che abbiamo iniziato a testare il fico d’india e, dopo diversi test, siamo stati in grado di realizzare un materiale resistente “, ha spiegato Adrián. Dopo diversi fallimenti, i due giovani messicani sono riusciti a produrre un materiale simile alla pelle per consistenza e texture, economico e soprattutto vegan friendly. Ora il loro tessuto è pronto a sostituire la pelle animale

e la similpelle sintetica per realizzare numerosi oggetti. “Un abitino, una borsa, una cintura, un cinturino per orologio, una piccola libreria, una poltrona. Qualunque pelle può essere sostituita da questo tessuto; la pelle animale o la pelle sintetica possono essere sostituite da quelle vegetali, sostenendo l’ecosistema”, ha dichiarato Marte Cazárez. La nuova alternativa vegetale alla pelle, che ha un prezzo di circa 25 dollari al metro, potrebbe dunque sostituire quelle animali e sintetiche. Oltre a rispondere alla domanda dei consumatori che non intendono acquistare oggetti realizzati con pelle animale, l’impiego del nuovo tessuto vegetale porterebbe anche benefici ai produttori locali che coltivano fichi d’India. Visti i numerosi vantaggi di questo innovativo tessuto, ci auguriamo che questa soluzione venga adottata presto dalle aziende che oggi lavorano pellame o che producono oggetti in pelle. Un’altra ricercatrice messicana ha creato plastica biodegradabile dal succo dei cactus e possiamo anche citare altre creazione come quella di Wineleather: pelle vegan tutta italiana dagli scarti della produzione di vino, oppure anche Muskin, la pelle 100% vegetale fatta con i funghi Senza dimenticare naturalmente la pelle vegetale che si ricava dalle banane! Dato che i famosi fichi d’india, appunto provenienti dal Messico, si sono cosi bene ambientati in Sardegna, pensiamo che questa sarebbe un’opportunità da sfruttare. Tatiana Maselli

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Foto Valentina Porcheddu

IL SENSAZIONALISMO CHE UCCIDE POMPEI

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acendo leva sull’eccezionalità dei reperti si cancellano i progressi della disciplina, riportandola al tempo in cui si andava a caccia di «tesori» Un affresco splatter che mostra la fase finale di un combattimento tra gladiatori è la nuova «spettacolare» scoperta effettuata a Pompei nell’ambito dei lavori di messa in sicurezza che coinvolgono i fronti di scavo della Regio V. Il rinvenimento è stato presentato in esclusiva sul Venerdì di Repubblica dell’11 ottobre da Massimo Osanna, alla guida del Parco archeologico di Pompei dal 4 gennaio 2016 e riconfermato nel maggio scorso da Alberto Bonisoli (dal 2014 Osanna aveva ricoperto l’incarico di Soprintendente speciale delle aree archeologiche di Pompei, Ercolano e Stabia). Non sfugge che la data scelta per presentare l’ultimo «trofeo» del Grande progetto Pompei coincida con l’apertura al pubblico della mostra Pompei e Santorini. L’eternità in un giorno, fino al 6 gennaio alle Scuderie del Quirinale, curata dallo stesso Osanna con il direttore dell’Eforia delle Antichità delle Cicladi Demetrios Athanasoulis. AMPLIFICATA dall’evento romano, la notizia ha fatto rapidamente il giro

del mondo e le foto del dipinto, compresa quella ormai rituale del direttore del parco archeologico in posa dinnanzi all’opera d’arte, impazza su media e piattaforme social. L’affresco, perfettamente conservato e dall’inconsueta forma trapezoidale (1,12 mt x 1,5 mt), adornava il modesto sottoscala di un ambiente solo parzialmente riportato alla luce e ubicato nei pressi dello slargo tra il vicolo dei Balconi e il vicolo delle Nozze d’Argento. Uno sfondo bianco incorniciato da una banda rossa ospita la scena di combattimento: il gladiatore in posizione stante che impugna il gladio è un Mirmillone appartenente alla categoria degli Scutati, mentre l’altro – rappresentato nell’atto di soccombere all’attacco, con lo scudo a terra – è un Trace della corporazione dei Parmularii. Secondo quanto dichiarato da Osanna, l’edificio deve essere identificato con un thermopolium (luogo di ristorazione rapida) o con una vera e propria taberna frequentata da gladiatori. D’altra parte, precisa l’archeologo e docente dell’Università Federico II di Napoli, a poca distanza si trova la caserma utilizzata dai lottatori per gli allenamenti, la quale ha restituito centoventi iscrizioni a tema gladiatorio.

La particolarità dell’affresco risiederebbe non solo nell’originale raffigurazione (certo non l’unica a Pompei) ma anche nell’iperrealismo dei dettagli, come il sangue che zampilla dal polso e dal petto del gladiatore vinto imbrattandogli gli schinieri. L’attenzione viene richiamata anche sull’indice alzato dal Trace, un gesto noto nel repertorio iconografico del mondo anfiteatrale, che Osanna liquida tuttavia come «un tocco di umorismo» da parte dell’artista, il quale avrebbe ammiccato a più solenni atti imperiali. Malgrado la scoperta sia stata rivelata tramite una strategia comunicativa che mira al sensazionalismo – si pensi al clamore suscitato dagli affreschi raffiguranti Leda e il Cigno o Arianna abbandonata a Nasso da Teseo riemersi tra agosto e novembre del 2018 o al recupero recente di uno scrigno colmo di monili e amuleti nella Casa del Giardino – la squadra che ha dissotterrato il dipinto lo considera di rozza fattura. A questo imbarazzante giudizio fa eco una stampa che si crogiola nella spettacolarizzazione dell’archeologia e contribuisce ad alimentarla. Un’abitudine studiata a tavolino, che facendo leva sull’eccezionalità di reperti e monumenti, cancella i progressi effettuati dalla disciplina archeologica dalla seconda metà del XX secolo in poi, riportandola al tempo in cui antiquari e appassionati andavano a caccia di «tesori». Pratica categoricamente negata da Osanna ma che di fatto si riflette nella macchina commerciale, ludica e politica della «sua» Pompei, non

più oppressa da crolli e scioperi degli addetti alla sorveglianza ma terreno fertilissimo da cui raccogliere, secondo un preciso calendario di opportunità, i frutti di un generoso passato. Lo stupore e l’emozionalità instillate nel pubblico attraverso la propaganda trionfale e a tratti melodrammatica dei risultati del Grande Progetto Pompei – concepito per la tutela e la valorizzazione dell’area archeologica e finanziato dall’Unione Europea per un importo complessivo di 105 milioni di euro – pone in secondo piano le acquisizioni della scienza, senza le quali non è possibile comprendere e ricostruire con il dovuto rigore la storia delle città vesuviane. Il fascino esercitato dall’infausto destino di Pompei, seppellita con Ercolano, Stabia e Oplontis dall’eruzione vulcanica del 79 d.C., e la compassione provata per i corpi «imprigionati» negli strati di lapillo non deve condurre a una sorta di voyeurismo fine a se stesso. Emblematico, a questo proposito, il caso dello scheletro del «fuggiasco» ritrovato nel maggio del 2018 a ridosso di un imponente masso e le cui immagini scenografiche sono state date in pasto alla stampa quando lo scavo era ancora in corso. Nell’immediato si parlò di morte per schiacciamento di un individuo di oltre trent’anni, probabilmente claudicante. Il prosieguo delle indagini permise di recuperare anche il cranio del defunto e di ipotizzare una morte per soffocamento sulla base dell’apertura della mandibola (teoria tuttavia contestata da alcuni antropologi). Una saga noir ricca di colpi di scena, insomma, che mal si concilia però con i tempi di «maturazione» dello studio dei contesti archeologici da parte degli specialisti. Eccessiva enfasi venne data anche al rinvenimento, esattamente un anno fa, di un’iscrizione a carboncino, suscettibile di spostare la data dell’eruzione dall’estate all’autunno del 79 d.C.: «Il 17 ottobre lui indulse al cibo in modo smodato» è la traduzione della scritta proposta dall’archeologo ed esperto di graffiti Antonio Varone, la quale – se corretta e nonostante la mancata menzione dell’anno – andrebbe ad arricchire e non a risolvere un intenso dibattito iniziato alla fine del Settecento e che chiama in causa sia le fonti letterarie (prima fra tutte, la nota epistola di Plinio il Giovane) e un vasto elenco di resti carbonizzati quali frutti, piante e tessuti. La chiusura «col botto» del Grande Progetto Pompei (avviato nel 2012) lascia un sito fragilizzato, che se da una parte si conferma riserva privilegiata di dati per gli studiosi, dall’altra viene venduto quale attrazione turistica al pari di un luna park, dove in futuro si potrà acquistare una bottiglietta piena di lapilli, degno souvenir della più redditizia catastrofe dell’antichità. Valentina Porcheddu Il Manifesto

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e polemiche e gli apprezzamenti suscitati da un recente articolo sul Manifesto della collega archeologa e brillante giornalista Valentina Porcheddu, mi inducono a condividere alcuni disordinati pensieri con i miei lettori. Questa esigenza, che di solito cerco di contenere, nasce in primo luogo dal senso di disorientamento che ho percepito leggendo le sue parole e alcuni dei commenti che ne sono derivati. Nulla di strano, visto che per le sue caratteristiche eccezionali l’archeologia vesuviana tende a destare sentimenti opposti di repulsione e affezione, odio e amore. O, almeno, questo accade ogniqualvolta Pompei viene elevata a paradigma e metro di valutazione per definire la rilevanza di una determinata scoperta. Ogni archeologo sa bene che le “piccole Pompei” si nascondono quasi ovunque dietro l’angolo di una semplicistica sintesi giornalistica, nel cavo di una fognatura urbana o sotto il tell di una sperduta provincia irachena. Eppure, viene quasi da dire, che è sempre meglio una “piccola Pompei” che una “misteriosa Atlantide”, altro paradigma giornalisticamente abusato, spesso associato a presunte scoperte che le “kaste” accademiche o ministeriali si guardano attentamente dal condividere con le masse o, nei casi migliori, perseverano scioccamente nell’ignorare. Le metafore atlantidee e pompeiane rendono a mio avviso piuttosto bene il senso della questione e mi aiutano forse a spiegare, in primis a me stesso, il perché di quell’iniziale smarrimento. L’articolo di Valentina ha un titolo forte ed evocativo, com’è prassi nel giornalismo analogico e ancor più in quello digitale per far sì che un “prodotto” catturi l’attenzione del lettore e ambisca ad essere letto: “Il sensazionalismo che uccide Pompei”. Il titolista - che, come sappiamo, a volte opera in modo indipendente

dal giornalista (le “piccole Pompei” nascono così) - ha in questo caso egregiamente compiuto il suo lavoro, rubricando con il colore del sangue la parola “sensazionalismo” e accompagnandola nella riga seguente con il verbo “uccide”. Cosa vi è, infatti, di più efficace giornalisticamente e a sua volta sensazionalistico di un omicidio se oltretutto è perpetrato ai danni di Pompei? Un paradigma indiziario che rende evidente sin dalla prima lettura il succo sanguineo del discorso e che ha destato anche in me un iniziale senso di approvazione, ulteriormente confermato dal proseguimento della lettura. Ma a questo primo apprezzamento sono quasi da subito subentrate riflessioni ed emozioni di carattere diametralmente opposto. Qual è il confine tra l’etica professionale di un archeologo e le tecniche della comunicazione? Possono rispondere alle medesime regole che viaggiano con tempi e su binari diversi? È corretto condividere col grande pubblico una scoperta archeologica anche se il rischio è quello di scadere nel sensazionalismo o di veicolare contenuti scientificamente errati perché non si è avuto modo per approfondirli? Lo so, mentre state ragionando anche voi su questi interrogativi, alcuni si sono soffermati sull’“ho” e cominciano a porre in questione – ma probabilmente già lo stavano facendo sin dal principio della lettura – la competenza dell’interlocutore sulla base delle loro conoscenze e dei loro parametri di giudizio. Ecco, il fulcro del problema sta forse proprio nella capacità di sospendere il giudizio e provare a valutare la questione al di fuori dei parametri ai quali siamo professionalmente abituati e nel far questo chiamo naturalmente in causa la categoria degli archeologi cui, mio malgrado, appartengo. Il succo della comunicazione è proprio questo da quando l’Aretino ci ha insegnato a modulare il nostro linguaggio (segue alla pagina 12)

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offrono spesso informazioni sufficientemente attendibili per proporre un’ipotesi fondata sull’interpretazione di una iconografia, anche in assenza di informazioni dettagliate sul contesto e di riscontri autoptici. E di questo qualunque comunicatore, commentatore o direttore dovrebbe sempre essere bene avvertito, assumendosi l’onere dell’argomentazione che propone, seppure filtrata attraverso la sintesi di un giornalista. Purché sia rispettato l’obbligo morale di dar conto tempestivamente di una scoperta che, interessando un bene pubblico ed essendo il più delle volte effettuata grazie a risorse pubbliche, dal “pubblico” nasce e al “pubblico” deve tornare, senza che quest’ultimo, per esserne edotto, debba essere costretto a inseguirla tra le pagine e nel gergo di una pubblicazione [altro termine che al pubblico ci riconduce] scientifica. Ci sarà sempre poi il tempo per puntualizzarla, correggerla e introiettarla. Come di fatto è avvenuto anche per gli errori commessi da paludati accademici del nostro più o meno recente passato. La ricerca scientifica è ovviamente più simile a una littorina che a un jet. Non vi può quasi mai essere certezza sull’orario di arrivo, anche se a guidarla è un Fiorelli, un Maiuri o un Osanna. Cos’è quindi più giusto fare? Limitare la divulgazione delle scoperte ai modi e ai luoghi propri della ricerca scientifica o correre il rischio di anticiparle attraverso i media di massa? E, qualora sia quest’ultima la scelta, è bene costellarle di dubbi e puntualizzazioni o proporle nel modo più accattivante e sensazionalistico possibile, facendo sì che possano attrarre maggiormente l’attenzione del pubblico? Chiunque abbia avuto a che fare

con un giornalista professionista o un giornalista stagista sa bene che la prima strada è quella più difficile da percorrere, anche perché subentra un tipo diverso di professionalità che, con gli strumenti a sua disposizione, difficilmente ha spazio per dubbi e precisazioni ed è costretto a regole e dinamiche comunicative difficilmente soggette a possibilità di revisione da parte della sua fonte. Ma vi è un’altra questione da considerare legata all’etica professionale, almeno per quel che concerne il tema di cui stiamo disquisendo, quello della comunicazione, visto che non ritengo sia opportuno né corretto chiamare in causa in questo discorso problematiche di tipo gestionale e/o amministrativo. Guidare Pompei comporta infatti delle responsabilità notevoli sul piano della comunicazione che non sempre possono essere ignorate per questioni legate alla prudenza o all’opportunità scientifica. Che lo si voglia o meno, sin dalla sua scoperta “comunicare Pompei” significa “comunicare l’archeologia”. Un sito che è, suo malgrado, paradigma di un’intera disciplina non può rimanere nascosto ma sarà sempre sotto gli occhi di tutti, nel bene o nel male. Il concetto di “patrimonio dell’umanità” significa anche questo ed è quasi inevitabile che un patrimonio in quanto tale, sia soggetto ad essere “consumato” in quanto auspicabilmente fruito da tutti, nella sua dimensione materiale così come in quella immateriale, dai “passi” di chi quotidianamente lo attraversa e dai “post” di chi quotidianamente ne discorre. Non si può impedire che se ne parli ma si deve anzi incoraggiare a parlarne. E come è inevitabile che sia, ciò potrà avvenire anche al di fuori delle regole del confronto scientifico, perché non è dato a tutti essere “pompeianisti” ma a tutti dovrebbe essere consentito sentirsi “pompeiani”. “Ich bin ein Pompeianer” verrebbe da dire, perché un sito come quello di Pompei è necessariamente di tutti e una tragedia come quella di Pompei, nella sua dimensione storica così come in quella umana, anch’essa è di tutti. Non vedo quindi nulla di strano nel fatto che chi ha la responsabilità di un sito come questo si sforzi in ogni modo di comuni-

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(segue dalla pagina 11) in relazione all’interlocutore e agli obiettivi della comunicazione. Se lo scopo è raggiungere il massimo risultato possibile, se lo scopo è quello di promuovere l’inaugurazione di una mostra alle Scuderie del Quirinale, se lo scopo è quello di veicolare ancor più di quanto non lo sia già il nome di Pompei, allora la strategia comunicativa è senza dubbio vincente perché, nel bene o nel male, stiamo tutti parlando di Pompei e, nel bene o nel male, stiamo tutti parlando della mostra del Quirinale. Nel bene o nel male stiamo parlando anche dell’affresco del gladiatore e del significato del suo dito, qualunque esso sia. Gli archeologi più avvertiti avranno così l’occasione di cimentarsi nella palestra dell’erudizione per sconfessare, fonti alla mano, le tesi veicolate dalla stampa e per ricondurre nei limiti dell’agone scientifico il sensazionalismo che le aveva accompagnate. Nel fare questo avranno agito nel rispetto della propria etica professionale, rimettendo in ordine ciò che la comunicazione aveva scomposto e riconducendolo nell’alveo della dottrina. Almeno fino a quando nuove tesi e nuove scoperte non aggiungeranno acqua al mulino della conoscenza, smentendo o confermando le nostre attuali convinzioni. Così è e così è stato da sempre e sempre sarà. C’è solo da chiedersi se sia opportuno o meno farlo sulla base di semplici anticipazioni giornalistiche e in assenza di pubblicazioni che consentano allo scopritore di rendere conto delle sue tesi e offrano al contempo alla critica gli strumenti opportuni per sconfessarle o farle proprie, secondo criteri metodologicamente corretti e scientificamente verificabili. Ma è vero pure che un buon video o una buona foto di un affresco

IL DITO IL GLADIATORE E LA LUNA carlo. Sfruttando tutti i canali e i meccanismi possibili della comunicazione. Avendo il coraggio di uscire dalle mura di un’aula universitaria per avvicinarsi alle persone nelle praterie di instagram o facebook. Non credo vi sia nulla di male. Anche se il rischio è naturalmente quello di essere criticati o fraintesi, di cadere nei meccanismi della sintesi o del narcisismo mediatico o di identificare se stessi con l’oggetto del proprio racconto. D’altronde, il codice etico dei musei prescrive che un direttore sia l’interprete della missione e dell’identità dell’istituto che gli viene pro tempore affidato. È dunque necessario, se non eticamente doveroso, che vi sia qualcuno che abbia il coraggio di farsi interprete dell’identità di un sito come Pompei. Ma nel fare questo si corre naturalmente il rischio di cadere nel sensazionalismo e di essere per questo biasimati. Soprattutto quando la politica entra in gioco e mescola se stessa con l’immagine di un sito come quello di Pompei. Ma come si può evitare tutto questo? Per il suo primo secolo e mezzo di storia Pompei è stato il teatro di scavi concessi a notabili e monarchi che, oltre a poter vantare l’opportunità di “tastare” e “frugare” il suolo della città sepolta, recavano con loro come souvenir il frutto di quelle esplora-

zioni o, nel migliore dei casi, legavano il proprio nome alla domus che era stata scavata durante la loro presenza. L’uso politico di un sito come Pompei vi è sempre stato, così come vi è sempre stato il biasimo dei benpensanti rispetto a quella che agli occhi di molti continua ad apparire come una risibile contaminazione o un’inaccettabile profanazione. Ma che vi sia politica dove vi sono persone o interessi pubblici non è affatto strano e una realtà milionaria e di dimensione sovranazionale come il “Grande Progetto Pompei” non può fare a meno di nutrirsi di tale visibilità mediatica, nel “male” del crollo di un muro o nel “bene” della scoperta di un affresco più o meno dozzinale. È il rovescio della medaglia di una realtà la cui conoscenza può contribuire molto al benessere della nostra disciplina e di chi ambisce a perseguirla come professione. Conoscere l’archeologia attraverso Pompei è sempre meglio che confonderla, come spesso accade nei cantieri, con la geologia o con l’architettura. Quanti di noi si sono sentiti rivol-

tare lo stomaco sentendosi appellati dall’ingegnere di turno come geologo e architetto? Vi è troppo poco spazio ancora nella coscienza collettiva per gli archeologi ed è bene che attraverso Pompei e l’archeologo che la dirige si trasmetta un po’ più di consapevolezza in merito alla funzione sociale e scientifica della nostra disciplina. Anche se si possono non condividere o non comprendere i modi in cui tale trasmissione ha luogo. E sono fiero che questo ruolo sia affidato a un archeologo/professore universitario e non a un comunicatore di professione perché, con tutto il rispetto per Alberto Angela, se continueremo a delegare ad altri la divulgazione del nostro sapere ben poco spazio rimarrà per chi si applica professionalmente nella sua trasmissione. Certo, vi è una professionalità anche nella divulgazione ed è giusto che un giornalista e paleontologo come Angela possa da par suo comunicare Pompei o quanto ritiene giusto comunicare. Ma cerchiamo di non essere i primi a mortificare noi stessi. Ce lo insegna la storia stessa dell’archeo (segue pagina 14)

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1746 per licenziarne i primi esiti soltanto nel 1756 (anche se la data contraffatta di edizione era il 1752). Cinque grossi tomi del “Prodromo delle antichità d’Ercolano” che nulla o quasi dicevano della città sepolta ma si dilungavano in inutili profluvi di erudizione sulle imprese di Eracle. La delusione del Re – che di quei volumi avrebbe voluto avvalersi come omaggio per i suoi pari – fu palpabile, così come lo fu la delusione del mondo intellettuale costretto ad attendere anni per conoscere quello che ancora per lungo tempo sarebbe stato considerato come proprietà allodiale della corona e non come un bene collettivo. A quasi trecento anni di distanza è facile schierarsi dalla parte di Venuti, ma è forse più difficile riflettere sul senso profondo di una storia che ci coinvolge potenzialmente tutti, perché tutti, consapevoli o meno, siamo proprietari e responsabili di questo patrimonio e della sua trasmissione. Resta tuttavia ancora un’ultima inquietudine aperta e irrisolta, quella relativa alla possibilità paventata in chiusura da Valentina di vendere i lapilli di Pompei ai turisti. Non saprei esprimermi al riguardo né in positivo né in negativo, poiché la proposta necessita di un supplemento di riflessione e va confrontata con l’istinto naturale al possesso di un passato che, per qualche motivo radicato nella nostra essenza umana, alcuni sentono la necessità di acquisire anche materialmente, esercitando su di esso una qualche forma di controllo esclusivo ed esclusivizzante: il turista con la pietruzza, l’archeologo con il frutto dei “suoi” scavi, il direttore del museo con i beni custoditi nelle “sue” vetrine e nei “suoi” depositi. Si tratta forse del medesimo paradosso innescato dall’intuizione

di Piero Manzoni che racchiuse – o finse di racchiudere – in una scatoletta di Pandora la sua merda di artista. Siamo di fronte, senza dubbio, a una tragedia umana che ci tocca nel cuore nel momento stesso in cui ci specchiamo in quell’umanità fragile ed effimera, destinata a rimanere imprigionata per l’eternità nei suoi ultimi attimi tra la vita e la morte in un guscio di gesso. È dunque lecito essere colti dai medesimi dubbi morali che provoca in noi la contemplazione di una mummia nella vetrina di un museo. Ma la morte addomesticata è una cosa e la morte improvvisamente e inavvertitamente subita è un’altra; e forse anche in questa contrapposizione si racchiude tutto il suo fascino perverso e seducente. Il varco nel tempo aperto dalla tragedia pompeiana potrebbe, attraverso quella terra, acquisire nuovi significati collettivi, come l’acqua di Lourdes o i souvenir di tanti santuari di ogni religione che, grazie al solo contatto con il sacro, trasformano la materia in reliquia e, attraverso quest’ultima, veicolano o tentano di veicolare il loro messaggio. Ma su questo punto, come dicevo, è opportuno sospendere il giudizio e dare la parola all’uomo con la casa in Abruzzo di guzzantiana memoria, opportunamente citato nei commenti a questo post. #IostoconVenuti Quasi dimenticavo lo spoiler: alla fine si scopre che Rey è frutto di una relazione extraconiugale tra Leia e Chewbecca….. Valentino Nizzo

Archeologo senza frontiere Precedentemente Direttore à Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Ha lavorato a Archaeology Precedentemente funzionario archeologo à MiBACT Ha lavorato a Museo archeologico nazionale di Ferrara Precedentemente Post-doc à Istituto Italiano di Scienze Umane (Firenze) Ha lavorato a à Sapienza Università di Roma Studi : Archeologia à La Sapienza Roma Studi: Dottorato in Etruscologia à Sapienza University of Rome Studi Liceo Classico Socrate De Todi

facebook.com/valentino,nizzo

Foto Doriana Goracci

(segue dalla pagina 13) logia vesuviana. Marcello Venuti fu il primo a intuire nel 1738 l’identità di Ercolano. Era partito quattro anni prima al seguito di Carlo di Borbone in cerca di fortuna e di maggiori opportunità rispetto a quelle che sembrava riservargli la patria Cortona. E queste opportunità si presentarono sotto la forma di una epigrafe frammentaria in fondo a un pozzo. La scoperta rimase nella storia e la carriera di Venuti ebbe una improvvisa impennata. Ma non fu prudente e volle subito condividerla con i suoi amici toscani che, com’era prassi nell’incipiente illuminismo, la divulgarono subito attraverso i giornali eruditi del tempo sottraendo al monarca il privilegio di farsene munifico interprete. Così, dopo appena due anni, il cortonese intuì di non essere più gradito e fu costretto a ritornare in patria. Nel frattempo gli anni passarono e passarono i decenni, a quella di Ercolano seguirono le scoperte di Pompei e di Stabia ma a quasi nessuno era concesso di darne conto, poiché sia il frutto di quegli scavi che la loro divulgazione dovevano rimanere prerogativa del Re, un po’ come nelle attuali regole di concessione. In pochi erano infatti ammessi nelle stanze del palazzo reale di Portici adattate a museo e nessuno, senza autorizzazione regale, poteva trarre disegni di ciò che vi era esposto. Gli antiquari del tempo, incluso il celebre Winckelmann, erano costretti a un notevole sforzo mnemonico se volevano trattarne nei loro scritti. Alla fine si decise di affidarne la pubblicazione all’accademico ritenuto più illustre e influente, Monsignor Ottavio Antonio Bayardi, governatore di Benevento, che cominciò ad attendere a quest’opera monumentale nel

MARIA LAI I TENENDO PER MANO IL SOLE a cura di Luigia Lonardelli Bartolomeo Pietromarchi, in collaborazione con l’Archivio Maria Lai e con la Fondazione Stazione dell’Arte

19 Giugno 2019 - 12 Gennaio 2020 MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo

Via Guido Reni 4A

00196 Roma

https://youtu.be/G3wA3Wg5js

n occasione del centenario della nascita, il MAXXI dedica una grande mostra a Maria Lai (1919-2013), tra le voci più singolari dell’arte italiana contemporanea, i cui lavori sono stati recentemente esposti a Documenta 14 e alla Biennale di Venezia 2017. Un necessario tributo a una grande artista che ha saputo creare, in anticipo sulle ultime ricerche di arte relazionale, un linguaggio capace di coniugare sensibilità, tradizioni locali e codici globali. Tenendo per mano il sole è il titolo della mostra e della prima Fiaba cucita realizzata. Sia nel titolo che nell’opera sono presenti molti degli elementi tipici della ricerca di Lai: il suo interesse per la poesia, il linguaggio e la parola; la cosmogonia delle sue geografie evocata dal sole; la vocazione pedagogica del “tenere per mano”. Non una classica retrospettiva, ma piuttosto un racconto che non si attiene a vincoli pura-

mente cronologici e asseconda un percorso biografico e artistico peculiare, caratterizzato da discorsi e intuizioni apparentemente lasciati in sospeso per poi essere ripresi molti anni più tardi. Attraverso un’ampia selezione di opere, in buona parte inedite, la mostra presenta il poliedrico mondo di Maria Lai e la fitta stratificazione di idee e suggestioni che ha caratterizzato il suo immaginario. Il percorso si snoda attraverso cinque sezioni, che prendono il nome da citazioni o titoli di opere di Lai, mentre nel sottotitolo vengono descritte modalità tipiche della sua ricerca; ogni sezione è accompagnata dalla voce di Maria Lai attraverso un montaggio di materiali inediti realizzati dal regista Francesco Casu. C’è anche un’ultima, ideale, sezione, che documenta le opere di arte ambientale realizzate nel territorio e in particolare in Ogliastra. https://www.maxxi.art/events

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Foto Romilda Puligheddu

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ietrina Atzori è una Creativa Textil che si esprime, prevalentemente, con il Feltro, con la Tintura naturale, con i tessuti, le fibre vegetali, e materiale tessile di recupero. Le sue opere tendono verso forme, colori, consistenze e funzioni a riflettere lo spirito dei luoghi che abita. Presente anche a“Verona Tessile”, le sue istallazioni realizzate per l’occasione insieme a Sheila Rocchegiani (“strati-Layers”) hanno suscitato grande interesse per la peculiarità delle proposte: qualcosa di unico, con una eco ricca di significati che vale la pena di fermarsi ad ascoltare. Pietrina ci dice : “Le cose che realizzo non sono mai premeditate, nascono da una suggestione e dal cuore. La ricerca e la sperimentazione vengono sempre dopo. È capitato così anche per il chimono esposto a Verona. Volevo immedesimarmi nella vita di un pescatore giapponese che ha bisogno di cucire un abito per coprirsi e a questo scopo utilizza tutto, ogni singolo pezzetto di stoffa. Volevo conoscere ed entrare nel presente di una storia, sentire il sapore e il dolore del passato in contrasto con la condizione di abbondanza, di superfluità del consumismo, che caratterizza la nostra epoca. Alla base di ogni mia esperienza ci sono i concetti di “sacralità” e “parsimonia” di cui ti dicevo prima, oggi sicuramente in controtendenza. E poi c’è il concetto di “valore”: valore delle cose e valore del lavoro. E perciò anche il “rispetto” a 360° per tutto ciò che facciamo e che ha una ricaduta nella comunità in cui viviamo.”

LAB HOME GALLERY L’IMPERFETTO Pietrina ha un’intensa attività creativa e nello stesso tempo con la messa in opera del Lab Home Gallery ha incominciato ad invitare ad esporre numerosi artisti, donne ed uomini, sia che operino nel campo dell’arte tessile, come ultimamente Monica Gorza con l’intallazione “Ceratonia nell’isola del vento” ma anche Aldo Larosa, fotografo con il quale è avvenuta una vera contaminazione. Insieme alla sua complice, Rosaria Straffalaci, le fotografie minimaliste di Aldo Larosa sono state investite dalle creazioni ricamate e tessute ed hanno dato luogo anche alla realizzazione di un filmato da parte di Alessandra Cecchetti. Ultimamente la mostra “Librerie morbide di una raccontastorie” ci ha presentato le opere tessili di Angela Caremi. Non bisogna dimenticare inoltre la partecipazione di musicisti e compositori che hanno alliettato le mostre con le loro

melodie, protraendo spesso la manifestazione fino alle ore piccole. Insomma il Lab Home Gallery é una vera fucina creativa, dove periodicamente artisti di tutte le provenienze e di tutte le discipline si confrontano amichevolmente. Non dimentichiamo naturalmente il viaggio del filo di lana della pecora nera di Arbus, che ha percorso 3500 chilometri attraverso l’Italia, consegnando ai Sindaci di 42 città, il prezioso filo di lana, legando così la penisola e le isole in un solo abbraccio. Numerose sono le sorprese che ci prepara Pietrina e siamo tutti veramente ansiosi di scoprirle, in questa città particolarmente marcata dall’espressione artistica e culturale, sia attraverso i suoi murales oppure il Giardino sonoro di Pinuccio Sciola, ma anche attraverso tutte le manifestazioni anche teatrali nonché musicali, e sopratutto pittoriche scultoree e fotografiche che periodicamente vi si svolgono. Per seguire le attività di Pietrina Atzori, l’indirizzo del suo blog è pietrina-atzori.blogspot.com e l’indirizzo della sua pagina Facebook https://www.facebook.com/pietrina.atzori/ Via Eleonora d’Arborea, 48 San Sperate

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Nuovi Orari dal 1° Ottobre Lunedì chiuso Martedì 13:00 - 14:30 / 20:00 - 23:00 Mercoledì 13:00 - 14:30 / 20:00 - 23:00 Giovedì 13:00 - 14:30 / 20:00 - 23:00 Venerdì13:00 - 14:30 / 20:00 - 23:00 Sabato 13:00 - 14:30 / 20:00 - 23:00

Domenica 13:00 15:00 Via dei Genovesi 111

09124 Cagliari

070 461 9909

E-mail:l.imperfetto@tiscali.it vedi anche https://vimeo.com/301311714

arlare di un ristorante é sempre molto soggettivo, sopratutto di un ristorante che propone a Cagliari, una cucina barbaricina. Avendo conosciuto fin dall’inizio la cucina che Romilda Filigheddu ci propone, posso dire che il locale merita assolutamente il viaggio, come si dice in una guida d’oltralpe. Non solo i piatti tipici della cucina barbaricina ci sono presentati nella loro essenza tradizionale, ma un’attenzione particolare é stata portata ad adattarli alla vita cittadina, così le ricette non sono confite in una immemoriale tradizione inamovibile, ma squisitamente interpretate per i nostri palati forse un pochettino blasé. Non posso che raccomandarvi di provare la maggior parte delle ricette che uno staff particolarmente performante, simpatico e dinamico, attento alla clientela e prevenendone i minimi desideri gastronomici

propone nello spazio del ristorante che è stato recentemente ampliato e rinnovato, per dare una maggiore ampiezza, non solo alla cucina ma alla sala che accoglie, all’interno di uno storico palazzo cagliaritano, caratterizzato dalle sue volte ed arcate in pietra. Personalmente ho apprezzato i culurgiones, che come quasi tutte le ricette che sembrano semplici di realizzazione, richiedono in effetti una cura ed un tour de main particolarmente esperto. Un’altra particolarità é la tagliata di manzo, con funghi di carne e scaglie di pecorino, di cui si può sciegliere la cottura direttamente al tavolo, ma non dimentichiamoci dell’ Involtino di pancetta, melanzane e caprino fresco, su stracciatella di mozzarella e sfoglia al peperone rosso, oppure delle Animelle marinate nel Vermouth. Per non parlare dei cannoli di carasau, una vera delizia. Da sottolineare anche che i piatti vengono finiti con Luhente, non solo un olio, una storia d’amore... Come dessert metti la dolcezza delle carote in un tortino, con una copertura di cioccolato fondente allo zenzero e per finire una crema al vermouth Macchia. Romilda accoglie inoltre sui muri del suo ristorante le opere pittoriche di diveri artisti sia barbaricini che cagliaritani, e questa scela partecipa alla piacevolezza dell’allestimento del locale e, ciliegina sulla torta, allietta lo sguardo insieme al palato. Una selezione di vini particolarmente scelti vi aspetta. Non esitate, é comunque consigliato telefonare per prenotare un tavolo. Vittorio E. Pisu

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teoria di tele ad olio 40 per 40 centimetri. La sua difesa, i suoi pedoni, in una scacchiera che li conta a multipli di tre, non di otto. Le inedite “Sonatine”, presentate allo Spazio Pirandello di Cagliari, che apre con questa mostra ad una nuova stagione espositiva, mantengono intatti, pur in un formato ridotto, potenza e dinamismo dei grandi formati. È ancora una conferma della pittura come trascendenza. Piccole tele che sortiscono quel particolare stupore subitaneo tipico delle tavole delle annunciazioni. Fremito di vita dirompente, là, pervasivo, qui. Rossi, col suo lavorio condotto “con ardore da mistica”, come ha scritto Lea Vergine, domina tutto quel fluido scambio di toni e forme morbide, migrando da una tela all’altra, ingannando l’occhio di chi guarda, che, credendo di essere in quella prima, è già in quella dopo. È già in quella successiva, la sua mano, la sua conoscenza, il suo dominio cromatico. E noi, spettatori incantati, siamo ancora lì, in quella prima, a chiederci come faccia, questa artista, ad essere, allo stesso tempo, così imperturbabile nel micro-gesto e così capace di dominio della materia colore, che carica o depotenzia a seconda della rotta che ha deciso. Sono tele aperte, che accolgono quello che viene prima e che viene dopo. Ed ecco Vibrazioni Sottili che a Milano ci presenta ancora un altro aspetto della sua opera poliedrica e estremamente libera nella sua espressione che ha esplorato i più diversi metodi plastici, inventandone sovente alcuni e sfruttando fino in fondo non solo le capacità aggregative e significanti dei più svariati materiali, utensili ed oggetti del quotidiano, ma spingendo fino al parossismo le possibilità pittoriche, cromatiche e spaziali di una semplicissima tavola. Candida Hofer

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l compito e il dovere di una galleria è anche quello di pensare alla storia, di lavorare a progetti che abbiano una logica di analisi critico-storica del percorso di un artista, affermandone, con il suo riassunto e la sua analisi, la forza e la qualità sincera della ricerca. Nella sua sede milanese la Prometeo Gallery di Ida Pisani con Vibrazioni Sottili opera proprio in questo senso consegnandoci un’ampia antologica dedicata a Rosanna Rossi (1937) di cui, per questa prima personale in galleria, si vuole sottolineare il suo processo di riscoperta e studio. Del resto nei due piani della galleria, l’ampiezza degli ambienti e la loro suddivisione in sale diverse agevola un allestimento ricco e suggestivo che guida l’osservatore in un percorso di lettura dell’esperienza poetica di Rossi davvero coinvolgente e immersivo: qui si incontrano i diversi esiti di una sensibilità votata alla sperimentazione continua e al contino rinnovamento del dettato pittorico. Uno degli aspetti di maggior interesse di questa mostra sta proprio nel rendere fluida e pulsante l’interpretazione della materia e del colore operata da Rossi e di conseguenza, grazie all’attenta scelta delle opere, dalle piccole carte ai grandi dipinti, si passa continuamente dalla logica rigorosa alla libertà formale che segnano la sua gestualità, inseguendo il ritmo palpitante delle sue impronte segniche e delle sue forme lineari. Dagli anni Settanta, infatti, la ricerca non figurale lascia intravedere un orizzonte di senso in cui la pittura, germinando sempre da una sensibilità personale e soggettiva, autonoma e indipendente, recepisce la volontà di essere spunto e rimando, luogo a procedere, di una conoscenza e di una coscienza universali. L’armonia con cui Rossi innerva di invisibili energie tanto il sofisticato cromatismo, quanto gli spessori fisici dei materiali, accentua proprio la sua straordinaria coerenza che rimanda all’arte il compito (dovere) di essere ispirazione concettuale e intellettuale, prima che semplice gesto

FotoRosanna Rossi

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opo Mare di Ferro al MACC Museo d’Arte Contemporanea di Calasetta, presentato da Efisio Carbone e Legittima Difesa a Cagliari alla Rassegna d’Arte Contemporanea del Centro Scuola Pirandello, mostra curata da Raffaella Venturi che così commentò l’esposizione dei lavori di Rosanna Rossi che inaugurava il suo ciclo Legittima Difesa : Come ti difendi? Difendo il mio fare mutando le dimensioni. Da cosa ti difendi? Mi difendo dall’inutilità del mio esistere senza la pittura. Sostiene Calvino che “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. La pittura di Rosanna Rossi è un classico. Non ha mai finito di dipingere quel che ha da dipingere. Un calcolatissimo fronte di variazioni su colore, forme, segni, formati – ma anche su materiali, i più inimmaginabili, i guanti gialli da cucina, per esempio – assimilabili alle variazioni in musica, Lully, Bach, Handel. È dare ordine, ritmo, poesia al suo racconto interiore, che interessa a questa artista contemporanea e classica, racconto che custodisce e domina dentro di sé col suo compassato stare sulla vita quotidiana, non rivolta ai ricordi, semmai concentrata nella difesa dall’opprimente presente, in una resistenza che diventa modello per un vivere femminile con la fierezza di essere femminile: coraggioso, autoironico, generoso. Rossi transustanzia il suo racconto interiore in colta pittura, che attraversa i cieli di Tiepolo e arriva alla luce dei neon di Dan Flavin. Capace, anche, di un rigore assoluto, da mare e teatri di Hiroshi Sugimoto. Ad un certo punto della sua storia personale - una grande, alta narrazione a parte – Rossi lascia definitivamente le ampie dimensioni e si difende con una lunga

ROSANNA ROSSI Vibrazioni Sottili fino al 5 Novembre 2019

Proseguendo e sistematizzando il processo di riscoperta dell’artista sarda e della sua opera prodotta nel corso di una carriera creativa di oltre sessant’anni improntata alla sperimentazione continua. Titolo suggerito da Alfredo Cramerotti, che interviene ad accompagnare la mostra con un testo critico, per proporre una lettura ispirata all’idea di ritmo come la sempre viva e necessaria contraddizione tra il rigore delle strutture e il flusso della vita.

Prometeo gallery di Ida Pisani Via Giovanni Ventura 6 Milano www.prometeogallery.com

fisico. L’opera si propone come strumento, come porta che introduce ad uno spazio poetico in cui abbandonare l’ispirazione e recepire nuove visioni che arricchiscono la nostra esperienza e il nostro animo. Il suo sguardo si rivolge al mondo, ma in prima battuta si volge proprio alla dimensione intima, profonda, nascosta dell’animo umano: qui sonda magnetismi particolari, articola un nuovo lessico della sensibilità che rimanda alla condivisione del pronunciamento del dipinto che, mai chiuso, si propone come luogo di incontro e di nuovi stimoli dello spirito e dell’intelletto. Questa esposizione, attentamente studiata e calibrata nella proposta, nel filo conduttore che lega lavori e cilci di opere che rimandano a diverse fasi della ricerca di Rosanna Ros-

si, risponde perfettamente alla linea di proposte della galleria che, negli anni, ha sempre voluto storicizzare la voce di artisti di grande valore e impegno, la cui testimonianza ha un risvolto etico-sociale. In questo caso ci riporta al cuore vivo e pulsante di una protagonista di primo piano dell’arte italiana del secolo scorso il cui insegnamento prosegue ancora oggi e, di più, proprio nell’attualità del nostro presente, forse, ha assolve al suo impegno maggiore, risvegliando in noi le sopite capacità immaginative e la rinnovata coscienza del riconoscimento della bellezza. Matteo Galbiati Orari: da lunedì a venerdì 11.00-13.00 e 14.00-19.00; sabato su appuntamento Info: +39 02 83538236 info@prometeogallery.com www.prometeogallery.com

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Foto Nelly Dietzel

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MUSEO DEL BISSO mare. Il Maestro non è un artista né un artigiano: quello che tesse non è suo perché appartiene a tutti e quindi non può essere venduto o comprato. Nell’acquisire la maestria Chiara Vigo ha accettato sotto giuramento di servire e proteggere mare e terra, ai quali la sua arte è profondamente legata, nonché di vivere di offerte. “Zia Chiara”, come si fa chiamare dai numerosi bambini in visita, regala un filo di bisso che sembra oro e insegna la sua arte a chi è disposto a sacrificarsi per impararla, come lei ha fatto con sua nonna Leonilde. Nelle sue circa 70 tele - molte conservate a Sant’Antioco, alcune esposte in musei come il Museum der Kulturen di Basilea o il Museo Nazionale delle Arti di Roma - si riconoscono disegni tramandati di generazione in generazione: leoni a difesa delle donne, pavoncelle a difesa della pace, alberi della vita, emozioni di terra e acqua, lune e navicelle nuragiche. Tutti dal significato simbolico. Sono realizzate su un antichissimo telaio manuale con ordito di lino e trama di bisso tessuta con le unghie. Oggi tutto questo è minacciato ma potete partecipare al suo salvataggio.

SOS MUSEO DEL BISSO Progetto di raccolta fondi per l’acquisto del locale sito in via Regina Margherita n°168 a Sant’Antioco (SU); L’obbiettivo è raccogliere 85.000,00 euro Il progetto è promosso dall’associazione IL FILO DELL’ACQUA, nata dalla scuola degli allievi del Maestro Chiara Vigo

PETTINAU ED IL GOLF V

Federazione Italiana Golf Viale Tiziano, 74 – 00196 Roma

http://www.federgolf.it

COME POSSO CONTRIBUIRE AL PROGETTO? donando sulla pagina sos museo del nostro sito, presentando un’iniziativa che promuova il progetto e che testimoni il coinvolgimento della cittadinanza e di chiunque desideri nei confronti dello stesso progetto. ovviamente, un buon aiuto è anche semplicemente parlarne con i tuoi amici e familiari, invitandoli a donare e a condividere il loro gesto.

COME FACCIO A DONARE?

attraverso la pagina sos museo può donare con carta di credito, paypal, e mediante bonifico a favore dell’associazione il filo dell’acqua, causale donazione sos museo del bisso, sul conto bancario

it67 v033 5901 6001 0000 0073998

Foto Rosaria Straffalaci

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hiara Vigo è un Maestro di tessitura antica che mantiene vive conoscenze ereditate per trasmissione diretta e familiare, un patrimonio materiale ed immateriale che passa di Maestro in Maestro da molte generazioni. Chiara Vigo utilizza solo gli ultimi 5 centimetri dei circa 40 di bioccolo che ciascun esemplare adulto di Pinna Nobilis produce: 300 grammi di fibra grezza una volta cardata (pettinata con un cardo a spilli, così da togliere le impurità) e dissalata, si riduce a 30 grammi di bisso che danno 12 metri di “seta del mare”. Ma il processo di lavorazione è molto lungo: il bioccolo deve rimanere per 25 giorni in acqua dolce, cambiando l’acqua ogni 3 ore, poi si bagna con succo di limone per sbiondarlo, lo si passa in un mix segreto di 15 alghe che lo rende elastico e si ritorce con un fuso di ginepro (la torsione deve essere a S per il ricamo, a Z per la tessitura con le unghie nel lino). Il bisso marino non si deteriora, non viene attaccato dagli insetti, ha un’ottima capacità di coibentazione ed è più sottile di un capello, ma mille volte più resistente. Nei secoli il bisso marino ha sempre rappresentato uno status symbol: di vesti in seta del mare si coprivano sacerdoti e re, e nelle occasioni speciali veniva tinto di rosso, per tingere la seta del mare di porpora, Chiara Vigo utilizza delle conchiglie ma senza uccidere gli animali ed inoltre conosce 124 colorazioni che derivano da piante e fiori, Il Maestro condivide le sue conoscenze, gratuitamente, con tante persone e in tanti modi diversi, attraverso laboratori e presentazioni, progetti di ricerca con le Università, incontri con le scolaresche, panni di nozze e vestine da battesimo, nonché la donazione delle sue opere a città e musei, italiani e internazionali. Dal 2005 innumerevoli visitatori da tutto il mondo si sono recati in Sardegna per visitare il museo del bisso: il ‘museo vivente’ del Maestro Chiara Vigo, per ascoltarla ed ammirare la sua collezione di lavori, nonché vederla all’opera nel creare la seta del

Circolo Golf Is Molas Loc. Is Molas 09010 Pula, Cagliari Sardegna - Italy Tel: +39 070 9241006 ismolasgolf@ismolas.it

alentina e Luca Pettinau si confermano Campioni Sardi 2019; con la Costa Smeralda come sfondo, ospiti dei superbi quanto ostici green del Pevero Golf Club, si è conclusa la sentita edizione 2019 dei Campionati Sardi Individuali, che ha visto ai tee di partenza i migliori 108 golfisti sardi. Il più importante appuntamento della stagione federale conferma i verdetti dell’anno precedente e laurea Campioni Sardi i fratelli Luca e Valentina Pettinau. Dopo un sabato fortemente influenzato dal vento, la seconda giornata ha visto un miglioramento complessivo degli score. Nella classifica femminile Valentina Pettinau (Is Molas) chiude con 175 colpi totali (89 sabato, 86 domenica), davanti a Emanuela Piccinini con 194 colpi e Tina Gilardoni Buganza con 197 colpi entrambe del Pevero. Tra gli uomini si impone nuovamente Luca Pettinau (Is Molas) con 155 colpi (76 sabato, 79 domenica) sul gruppetto del Pevero: secondoGian Mario Azara con 160 colpi, Mirko Carola e Marco Desini con 166 colpi. Sesto Mattia Congiu (Is Molas) con 167 colpi. Nelle categorie giovanili: primo tra i cadetti Mario Marigo (Is Molas) con 176 colpi (90 sabato e 86 domenica); tra i ragazzi

vince Claudio Mudu (Is Molas) con 183 colpi (94 sabato, 89 domenica); si impone tra i baby Giovanni Arrica (Is Molas) con 210 colpi (100 sabato e 110 domenica). Ma già nel 2018, con l’assegnazione del titolo di Campione Sardo Individuale 2018, si concludeva la stagione federale e iniziava il percorso di avvicinamento del Golf Sardo alla Ryder Cup 2022, in cui la Sardegna sarà protagonista. La famiglia Pettinau sbanca Is Arenas: a Luca il titolo maschile, a Valentina Pettinau il titolo femminile, sintetizzando la due giorni di Campionati, nell’ottobre del 2018. Sulle buche di Is Arenas Golf Country Club a Narbolia, si è vista una battaglia sino all’ultimo colpo tra Luca Pettinau e Francesco Vincis: al termine della due giorni di gara, Pettinau e Vincis avevano chiuso con 157 colpi. Si è dovuti ricorrere allo spareggio al crepuscolo tra i due, alla 18° buca, per vedere Luca Pettinau laurearsi nuovo Campione Sardo. E nel 2016, l’Unione Sarda, con la penna di Clara Mulas, celebrava già i nostri due campioni in questo modo : “ I fratelli Luca e Valentina Pettinau, insieme con Marco Meloni con Manfredi Alessi, sono i primi ammessi al campionato sardo federale a coppie. A sancire il loro accesso la vittoria, al Sa Tanca Golf Club, del trofeo regionale a coppie, propedeutico alla competizione principale che si terrà il 16 e 17 aprile all’Is Molas Golf Club. I due giovani fratelli, cresciuti proprio nel circolo di Flumini di Quartu, si sono imposti nella classifica Lorda, con 38 punti. Dopo tanti successi siamo quindi chiaramente nel percorso di avvinameto alla Ryder Cup 2022 che si giocherà a Roma dal 30 settembre al 2 ottobre, del 2022, queste le date della 44^ edizione del terzo evento sportivo più importante al mondo dopo Olimpiadi e mondiali di calcio, in scena, tra poco meno di tre anni, al Marco Simone Golf & Country Club di Guidonia Montecelio. In bocca al lupo ai nostri simpatici campioni Valentina e Luca Pettinau. Vittorio E. Pisu

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GIOVANNI A. PORCHEDDU RAZZISMO ANTISARDO

I risultati della felice intuizione dell’ingegner Porcheddu furono sensazionali. Nel 1901 la neonata Impresa Porcheddu realizzò i silos granari del porto di Genova; tra il 1903 e il 1912, lavorò al cantiere del campanile di San Marco a Venezia, crollato l’anno precedente; collaborò con molte imprese edili milanesi e torinesi e nel 1906 si dedicò alla realizzazione dello stabilimento della Eternit a Casale Monferrato progettato da Pietro Fenoglio. Nel 1910 a Torino eseguì i lavori per la realizzazione dello Stadium, il più grande stadio d’Italia costruito realizzato in soli dieci mesi; sempre a Torino nel 1922 fu autore del progetto strutturale dello stabilimento Fiat Lingotto. Fu anche il progettista del viadotto, inaugurato nel 1915, tra le stazioni di Bari Centrale e Bari Scalo sulla ferrovia Bari-Matera. Il capolavoro di Porcheddu è considerato il Ponte Risorgimento sul fiume Tevere a Roma, realizzato nel 1911 in occasione dei festeggiamenti del Cinquantenario dell’Unità d’Italia; l’opera, consistente in una sola arcata di 100

metri di corda e 10 metri di freccia, di arditissima concezione, fu completata in soli sedici mesi di lavoro ed è proprio in occasione della sua inaugurazione che re Vittorio Emanuele III donò a Porcheddu l’appellativo di «re del cemento armato». Il 17 aprile 1911, giorno dell’inaugurazione del Ponte Risorgimento a Roma, gli osservatori presenti erano scettici sulla capacità di tenuta della struttura, una volta liberata dalle impalcature di sostegno. Porcheddu, al contrario, era talmente certo dell’efficacia e dell’affidabilità della nuova tecnica che volle assistere all’eliminazione dell’impalcatura in legno, su una barchetta posizionata proprio al di sotto dell’arcata del ponte, insieme ai suoi due figli minori, Giuseppe e Ambrogia. Nel 1912 Giovanni Antonio Porcheddu ottenne il titolo di Cavaliere del Lavoro insieme a una targa in bronzo modellata dall’artista piemontese Leonardo Bistolfi. Giovanni Porcheddu realizzò opere grandiose in tutta Italia, fra cui la ricostruzione del campanile della basilica di San Marco di Venezia (che era crollato nel 1902). Grazie al prezioso lavoro della Delegazione FAI di Cagliari e della D.ssa Paola Meloni, é stato possibile conoscere le soluzioni che oggi, grazie anche a Giovanni Porcheddu, ingiustamente trascurato e ignoto ai più (in primis nella nostra isola), è possibile realizzare col cemento.

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lfredo Niceforo (Castiglione di Sicilia, 23 gennaio 1876 – Roma, 10 marzo 1960) è stato un criminologo e antropologo italiano di scuola lombrosiana. Presidente della Società Italiana di Antropologia, della Società Italiana di Criminologia e dal 1920 in poi membro del Consiglio superiore di Statistica di cui anche diverrà presidente. Assunse la presidenza della Società italiana di economia demografia e statistica e divenne membro del Comitato direttivo del Consiglio Nazionale delle Ricerche per la Sezione di Biologia. Dal 1910, e ininterrottamente sino al 1953, fu incaricato dell’insegnamento di Criminologia nella Scuola giuridico-criminale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, fondata e diretta da Enrico Ferri. Fu anche componente del Comitato scientifico di direzione del «Barometro economico» e assunse la Direzione dei «Quaderni della Nutrizione», della «Rivista italiana di Sociologia», della «Rivista di Psicologia». A partire dal 1923 fu membro della Commissione statistica del Comitato di Igiene della Società delle Nazioni a Ginevra e dal 1925 membro del Comitato di Direzione, per l’Italia, de l’«Institut international d’Anthropologie». Fu ancora Socio straniero corrispondente della Società di Antropologia di Parigi, della Società di Antropologia del Portogallo, della Società di Morfologia umana di Parigi, dell’Istituto tedesco di Sociologia (Hannover), della Società hobbesiana di

dita - biologica, psicologica e sociologica - del normale essere umano. In “La delinquenza in Sardegna” (1897), Niceforo mise infatti in relazione i fenomeni criminosi dell’isola con alcune abitudini culturali e comportamentali prettamente mediterranee, rintracciate analizzando la musica, le canzoni, le tradizioni, il folclore locale, fino alla conformazione delle stesse aree del territorio. In “L’Italia barbara contemporanea” (1898), Alfredo Niceforo pubblicò l’abbozzo di una fisiologia dell’Italia meridionale, sostenendo con la verità dei fatti, quindi in contrasto con qualsiasi spiritualismo o misticismo, l’esistenza in Sardegna, Sicilia e nel Mezzogiorno di tre popoli primitivi, portatori di una civiltà barbara diversa da quella settentrionale. Il libro di Niceforo può considerarsi il manifesto di una cultura positivista che negli anni successivi all’unificazione d’Italia (1860), cercava una risposta ai problemi di divario economico e culturale che l’unificazione lasciava drammaticamente insoluti. Al mito unitario risorgimentale dell’Italia “unita” si sostituivano i nascenti federalismi, al centro delle riflessioni teoriche di Niceforo. Questi, infatti, elaborò la teoria delle due diverse civiltà, una al Nord e un’altra al Sud, in base alla quale egli intendeva giustificare il suo progetto di ampio decentramento. Uno dei primi scienziati sociali empirici in Italia, Niceforo applicò l’indagine statistica al fine di scoprire delle regolarità nel comportamento sociale. Da questi studi, emerse la teoria secondo cui le persone di ogni società esibivano alcune caratteristiche costanti, definite “residui”, una delle quali costituita dalla diversità tra gli individui. Nell’elaborare la sua teoria del doppio ego dell’uomo, Niceforo sostennè che l’ego profondo spesso eludeva con successo i tentativi dell’io superiore di controllarlo. Questa visione venne spiegata dettagliatamente in una delle sue opere finali “L’Ego Profondo e le sue maschere” (1949). Dal 1897 al 1953 diede alla stampa 55 libri, dal 1927 al 1952, circa 215 memorie.

Foto vistanet.it

Foto cronache nuoresi

os’hanno in comune Ittiri e il campanile di S. Marco a Venezia? La risposta è nella foto. Questo signore con paglietta anni ’20 e sguardo reso più intenso dalle folte sopracciglia nere è Giovanni Antonio Porcheddu, uno dei più grandi ingegni sardi di tutti i tempi. Nato a Ittiri il 26 giugno 1860 e rimasto orfano di entrambi i genitori, dopo essere stato allevato da alcuni stretti parenti, si trasferì a Sassari, ove conseguì la licenza tecnica inferiore, pagandosi gli studi lavorando come muratore. Successivamente, grazie ad un sussidio dell’amministrazione provinciale e il contributo dei parenti, si diplomò all’istituto tecnico superiore di Sassari. Ottenuta, quindi, un’ulteriore borsa di studio, lasciò la Sardegna per frequentare i corsi di Ingegneria civile, prima all’Università di Pisa e poi al prestigioso Politecnico di Torino, ove si laureò a trent’anni, nel 1890. Rientrato in Sardegna, Porcheddu fu assunto dall’amministrazione delle miniere, ma tornò nuovamente a Torino per conseguire, nel 1892, una terza laurea in ingegneria mineraria. A Torino si sposò con Amalia Dainesi, dalla quale ebbe sette figli di cui il più famoso è Giuseppe Porcheddu. Nel 1895 aprì uno primo studio tecnico in società con l’ingegner Ferrero. A Porcheddu si deve la felice intuizione di apprezzare sin da subito la validità del «Systéme Hennebique», ovvero il conglomerato cementizio armato internamente con profilati di ferro disposti e rafforzati con apposite staffe. L’utilizzo di questa tecnica, che prese il nome di «cemento armato», fu ideato e brevettato nel 1892 dall’ingegnere francese François Hennebique e Porcheddu, contrariamente al parere del suo socio Ferrero, ottenne già nello stesso anno la concessione esclusiva per l’applicazione del brevetto in Italia.

Filosofia e Scienze sociali (Karlsruhe), della Società cecoslovacca Masaryk di Sociologia. Membro corrispondente della Società internazionale di Sociologia (con sede a Parigi), Socio corrispondente dell’American Academy of political and social Science; Socio del Research Committee dell’Associazione internazionale di Sociologia (Oslo). Alfredo Niceforo postulò la teoria secondo cui ogni persona avesse un “io profondo” antisociale , i cui impulsi subconsci rappresentavano un ritorno all’era precivilizzata. Ad accompagnare questo ego e tentare di tenere sotto controllo la sua delinquenza latente, vi era un “ego superiore” costituito dall’interazione sociale dell’uomo. Questa teoria, pubblicata nel 1902, aveva alcune somiglianze con le scoperte della psicoanalisi fatte nello stesso periodo Inizialmente, Alfredo Niceforo fu influenzato dal criminologo italiano Cesare Lombroso (1835-1909), il quale aveva teorizzato l’esistenza di un tipo criminale, identificabile con determinate caratteristiche fisiche. Niceforo arrivò a credere, tuttavia, che il crimine potesse essere compreso solo attraverso un’indagine approfon-

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Il georadar non fornisce certezze, ma indizi e probabilità. Non è detto che l’anomalia riscontrata corrisponda ai nostri desiderata: potremmo infatti imbatterci, ad esempio, anche in semplici cavità del terreno o massi erratici che lo strumento rileva come anomalie nel sottosuolo. Il georadar non mostra le strutture e non le data. L’immaginazione dunque può accendersi davanti a chiazze incomprensibili e far viaggiare lontano nel tempo, e talora anche lontano dalla realtà. In assenza di scavi, sottoterra può esservi tutto e il contrario di tutto. Ma questo tutto si scontra poi con la cronologia: conviene subito richiamare un testo fondamentale quanto il suo autore, Robert Tykot: Radiocarbon dating and absolute chronology in Sardina and CorsicA. La questione sul sito di Mont’e Prama è una brace sempre pronta ad infiammarsi. La ragione risiede principalmente nell’incertezza dello status del patrimonio culturale nel nostro paese oltre che nelle esasperanti fazioni in cui si frammenta la società italiana e sarda, e non ci si riferisce soltanto al patrimonio archeologico ma anche, ad es., a quello archivistico, per toccare un tema che purtroppo non ha lo stesso risalto mediatico e politico di Mont’e Prama. Parte dei social insorge, denunciando, ex multis: lo stallo nella prosecuzione degli scavi, interrotti da circa 2 anni; il silenzio che si sarebbe nuovamente rimpossessato del “sito più importante della Sardegna” (rimando ad un link istituzionale per una sintetica storia del sito e degli scavi); l’autorizzazione all’impianto di un vigneto in un’area prospiciente gli scavi, episodio rimarcato dallo stesso docente; l’incompetenza degli archeologi. Così, come di consueto sui temi che riguardano l’archeologia in Sardegna (ma, in verità, non solo in questo campo), ci si accapiglia

malamente. Su Facebook compare un commento del MIBACT che definisce il georadar una truffa, cui segue una nota di smentita da parte del medesimo Ente, che lo definisce un commento individuale da parte di una dipendente che, senza autorizzazione, ha speso il nome dell’istituzione. Interviene il Ministro. Interviene il Comune interessato. Si parla di nuovo della collocazione ideale dei materiali rinvenuti nel sito (scissi tra Museo Archeologico Nazionale di Cagliari e Civico Museo Marongiu di Cabras). Il Presidente della Regione è accusato dall’opposizione di non aver ancora accreditato dei fondi stanziati dal governo regionale precedente per il Comune interessato. Gli archeologi esprimono la loro, alcuni giornalisti e scrittori che da tempo denunciano quelle che ritengono essere una serie di gravi inadempienze da parte della P.A., in particolare da parte degli archeologi della Soprintendenza, ribattono e non di rado si arriva agli insulti. Addetti ai lavori, divulgatori, appassionati, esperti e sedicenti tali litigano tutti insieme. È bene precisare che gli avvenimenti ora richiamati sono soltanto la parte più recente di una complessa vicenda che richiederebbe un apposito ed approfondito saggio di diritto amministrativo e dei beni culturali. I Sardi si dividono, come da copione millenario, in numerose correnti che si odiano tra loro, i famosi “cantoni” nuragici: storie di cantonate. Ma parliamo del sito più importante (o forse più mediatico) della Sardegna. Il Sito di Mont’e Prama L’area archeologica di Mont’e Prama è sita nella Penisola del Sinis, territorio del Comune di Cabras (OR), costa centro-occidentale della Regione a Statuto Speciale della Sardegna, Italia. A seguito del rinvenimento fortuito di frammenti statuari nei primi anni ’70, vengono compiuti nel 1975, nel 1979 e nel biennio 2014-2016 e 2017-2018 vari interventi tra scavi archeologici sistematici, saggi e interventi di recupero. Riassumendo in estrema sintesi e con un pizzico di semplificazione: si tratta di un’area funeraria di cultura nuragica, risalente ad un periodo compreso prevalentemente tra l’Età del Bronzo Finale (facies della ceramica c.d. grigio-cenere, sec. XII-X a.C., Pre o Protogeometrico) e la Prima Età del Ferro (facies della ceramica grigio-cenere, IX-metà/seconda

MONT’E PRAMA

Foto Google Earth

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urante un convegno, un professore ordinario di geofisica annuncia ai presenti che le prospezioni da lui effettuate con lo strumento del georadar presso l’area archeologica di Mont’e Prama dimostrano l’esistenza di una megalopoli di 16 ettari, che viene definita “la Pompei della Sardegna”. Già in passato si era parlato addirittura della rilevazione di possibili imponenti strutture e manufatti nelle aree contermini al sito. Una probabilità ma non una certezza. Il professore era stato in precedenza coinvolto nelle operazioni di scavo e ricerca presso il sito in questione ma aveva abbandonato il progetto per alcune tensioni con la Soprintendenza, sfociate in poche ma significative dichiarazioni – da ambo le parti – dal tono recriminatorio e forse anticipatorio della vicenda in epigrafe. Sempre in sede di presentazione dei risultati degli studi compiuti negli ultimi anni con il georadar, il medesimo docente cita inoltre alcuni graffiti di un santuario ipogeico al di sotto di chiesa cristiana, non lontano dal sito, che raffigurerebbero un vulcano, associabile a Pompei e all’eruzione del Vesuvio, e la potenziale presenza di strutture sommerse nel vicinissimo Stagno di Cabras. Perplessità esprimono gli archeologi, sia a mezzo stampa sia sui social poiché, effettivamente, il georadar è uno strumento in grado di rilevare anomalie nel terreno, ma senza la possibilità di stabilire con certezza la tipologia e la cronologia di queste, in assenza di uno scavo (tra le tante immagini esemplificative fornite dal georadar, cito due articoli in nota a disposizione del lettore). In estrema sintesi, il georadar è uno strumento importante ma ausiliario che suggerisce all’archeologo dove può essere utile estendere l’area di scavo oppure effettuare un saggio che possa aiutare nella comprensione di un contesto.

metà dell’VIII sec. a.C., di tipo Geometrico ma con persistenze della tradizione ceramica precedente). Di recente, tali acquisizioni sono però state meglio precisate dalla dottrina archeologica. Durante quest’ultima Età, il sito divenne oggetto di una monumentalizzazione, che – probabilmente ma si lascia il beneficio del dubbio – non dovette andare oltre il terminus della metà dell’VIII sec. (stante l’assenza di rinvenimenti ceramici ascrivibili alla facies dell’Orientalizzante Antico in tutta la Penisola del Sinis). Vennero innalzate un gruppo di statue antropomorfe in calcare, commercialmente ed affettuosamente conosciute come “i Giganti”, rappresentanti pugili, arcieri, guerrieri armati di spada e scudo (stilisticamente corrispondenti alla bronzistica figurata nuragica), accompagnate da c.d. modelli di nuraghe e betili, questi ultimi stilisticamente affini a quelli prospicienti le c.d. Tombe di Giganti, cioè sepolcri collettivi – forse familiari – databili a partire dall’Età del Bronzo Medio. Le sculture sono state rinvenute frammentarie, in una discarica punica formatasi intorno al IV sec. a.C. La datazione al carbonio dei resti umani contenuti nelle tombe conferma l’inquadramento cronologico sopra accennato, con due importanti eccezioni discusse dagli archeologici. Strutture contermini alla necropoli sono state parzialmente indagate.

Tralasciamo le frequentazioni del sito successive alla fase punica per non complicare il quadro. Tra la metà e la fine del VII sec. a.C., dunque circa un secolo dopo il terminus proposto per la monumentalizzazione (attenzione, cento anni, in storia, non sono pochi) si registra la trasformazione dell’emporio commerciale e scalo portuale strategico di Tharros, alcuni km a Sud di Mont’e Prama (forse già in precedenza “gestito” da una compartecipazione di élites nuragiche e genti levantine, questi ultimi – prevalentemente imprenditori commerciali ed armatori – secondo dinamiche già ampiamente messe in luce dagli archeologi in alcuni contesti isolani di scavo) in una realtà urbana di cultura fenicia, consacrata dal suo pomerium. Le mutue relazioni tra Oriente (anche semitico) e Sardegna (con scambi culturali e commerciali da una parte all’altra del Mediterraneo) non si riducono all’Età del Ferro, e non è mai stata un mistero, ma necessita soltanto costanza di studi anche interdisciplinari, con umiltà e prudenza, senza pregiudizi di alcun tipo.

Il sito desta grande interesse da un punto di vista in primis archeologico (definizione delle facies, indagini stratigrafiche, metodologie etc.), antropologico, di storia dell’arte (comparazioni con la statuaria etrusca, italica centromeridionale, greca continentale etc.), di storia della Sardegna in generale e forse anche di storia giuridica della Sardegna pre-romana, stante il fatto che le numerose tombe a pozzetto individuale sembrerebbero attestare, per questa fase, l’emergere ed il consolidarsi di una aristocrazia locale, con sviluppi forse simili (ma mai analoghi) e comparabili con la fase monarchica della Roma del periodo Orientalizzante ed Arcaico dei re. Considerata l’assenza di fonti storiografiche scritte coeve, in particolare con riguardo all’assetto giuridico-amministrativo, molte considerazioni che possiamo fare sono deducibili, in via presuntiva, da un’analisi dei contesti insediativi e dei rinvenimenti di cultura materiale correttamente disposti nella loro sede cronologica. Le precisazioni cronologiche sono vitali: se si fa indagine storiografica (archeologica, storica, storico-giuridica, archivistica etc.), e più in generale in qualunque disciplina scientifica che ambisca a questo riconoscimento, la cronologia al pari della matematica non può essere un’opinione. Può essere oggetto di correzione, ma mai di sottovalutazione. La complessità del sito richiede dunque prudenza estrema. La sua collocazione – in quanto necropoli ai piedi di collina – e gli elementi distintivi non costituiscono affatto un unicum, rappresentando un tipico marcatore territoriale dell’Età del Bronzo Finale e della Prima Età del Ferro: a titolo meramente esemplificativo, si possono citare le necropoli anche monumentali dell’Età del Ferro in Italia (Etruria, Daunia, Sodacavalli, etc.), talune delle quali caratterizzate dall’innalzamento di stele, betili o menhir, e statue antropomorfe (segue pagina 26 )

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le dei nuraghi complessi al betilo. Ciò potrebbe essere rappresentativo di una ideologia religiosa sicuramente sconosciuta nella fase precedente, in un mix di simbologia solare di tradizione mediterranea occidentale con altra di ispirazione mediterranea orientale in sincretismo tra loro. E, rispetto all’Età precedente (Bronzo Recente), la perdita della funzione giuridico-amministrativa del nuraghe corrispose ad una riduzione degli abitati per sinecismo, concentrandosi presso snodi viari naturali o in prossimità di siti strategici per la gestione del territorio nel nuovo assetto amministrativo. L’abitato o gli abitati di riferimento della necropoli ad oggi non li conosciamo ma potrebbero essere dislocati lungo gli assi viari naturali, considerato che non si può parlare, per questa fase, di contesti urbani, ma protourbani, taluni dei quali di notevoli dimensioni (Procaxius/Sa Pedrera, S’Archeddu de sa Canna). Ogni metro quadrato del Sinis contiene una stratificazione verticale od orizzontale ascrivibile a tutte le fasi di antropizzazione della Penisola, dal Neolitico Medio (cultura di Bonuighinu, datazione calibrata[22] intorno al 4800-4300 a.C., la cui straordinaria necropoli di tombe a pozzetto, di orizzonte Neolitico Medio-Superiore, presso il sito di Cuccuru is Arrius, dalla quale proviene la famosa statuina femminile, ad oggi non fa quasi più notizia) sino all’età contemporanea. https://www.museocabras.it/esposizione/cuccuru-is-arrius/ Chi osserva attentamente le carte di distribuzione degli insediamenti si renderà conto che o si considera l’intera Penisola del Sinis come una “Pompei”, ed allora anche tutta la Sardegna con le migliaia di siti archeologici di varie epoche distribuiti in tutta l’Isola, oppure si deve smettere di utilizzare impropriamente termini tipici del sensazionalismo mediatico e non della scienza.

Sono attualmente oggetto di dibattito, non solo tra gli archeologi, la cronologia della necropoli di Mont’e Prama e la possibilità di una sovrapposizione cronologica tra l’ultima fase di Mont’e Prama e la prima fase delle inumazioni fenicie a Tharros; la spiegazione del perché la civiltà nuragica nel Sinis (sottolineo, nel Sinis) abbia perso progressivamente i suoi caratteri distintivi; la spiegazione del perché si siano rinvenuti (durante scavi ottocenteschi) bronzi nuragici in contesti funerari fenicio-punici di Tharros (presso o in prossimità dell’ingresso di sepolture fenicio-puniche); la questione del rapporto tra nuragici e fenici/levantini nel Sinis; la questione del DNA dei Sardi nell’ottica dei suddetti punti. Identità culturale, trasformazioni sociali e rivendicazioni politiche: storia e pseudo-storia La questione sembra assumere i toni aspri e velenosi di un dibattito politico ed identitario, talora negazionista della Storia, talora poco consapevole (per non dire a scapito) non soltanto della metodologia archeologica, ma anche del metodo scientifico in generale. Mont’e Prama si erge al centro di una questione identitaria e politica. Taluni lamentano il mancato riconoscimento della propria storia, lamentano un’identità negata. La Storia è utile per interpretare il presente, ma non è corretto farne un’interpretazione politica per cambiare uno o più fatti riguardanti ad es. la società, la lingua, la scrittura, ed altri aspetti di una complessa e variegata civiltà come quella sarda. C’è tanta voglia di rivalsa nazionalistica in Sardegna, perché si percepiscono le ingiustizie patite nel corso dei millenni, ma questa Storia dovrebbe insegnare ai Sardi anche quali sono state le cause del colonialismo, ed individuare correttamente le soluzioni per i problemi attuali. Se contravveniamo a questa regola, o non stiamo facendo Storia (e allora va benissimo una chiacchierata informale e divertente) oppure stiamo giocando ad un gioco virtuale di strategia in cui possiamo prenderci la libertà di far scontrare Babilonesi contro Vichinghi. Bisogna distinguere necessariamente la narrazione scientifica dalla narrazione di fantasia perché, rispetto alla prima, quest’ultima non è basata su un metodo rigoroso su cui si fondano le teorie da dimostrare ricavate da un procedimento che unisce le acquisizioni della logica greca (e poi greco-romana) a quelle del metodo scientifico formulato nel Seicento. Il pregiudizio, poi, è sempre sbagliato: non si può pretendere a tutti i costi che la propria

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(segue dalla pagina 25) come segnacoli delle tombe sottostanti. Ancora qualche appunto di archeologica e storia della Sardegna non guasterà. I nuraghi (sopra richiamati in rapporto ai modellini statuari rinvenuti) sono costruzioni megalitiche dell’Età del Bronzo Medio/Recente della Sardegna. Splendidi esempi di architettura, rappresentano senza dubbio un unicum nel Mediterraneo occidentale. Essi denotano non solo l’avanzatissimo livello di conoscenze ingegneristiche raggiunto dai Sardi ma sono sicuramente i testimoni di una complessa organizzazione sociale che, nel Sinis, raggiunse uno dei massimi livelli, con un’occupazione capillare del territorio in cui la collina di Mont’e Prama rappresentò per secoli soltanto un’appendice di uno sfaccettato sistema giuridico-amministrativo, forse già assai gerarchizzato, con un modello organizzativo teso ad “imbrigliare” il territorio per sfruttare al massimo le risorse (aree agricole, saline, bacini idrici ricchi di pesce, aree di legnatico, cave, approdi portuali naturali) come risulta evidente dal censimento e dagli studi (spesso pioneristici) compiuti negli anni ’80 e ’90 dagli archeologi Salvatore Sebis, Gianni Tore ed Alfonso Stiglitz, pubblicati in riviste scientifiche o volumi ben noti a chi svolge ricerca storica in maniera seria e completa. Sappiamo che durante l’Età del Bronzo Finale non si costruiscono più nuraghi: il sistema sociale e giuridico precedente collassò per ragioni ancora da accertare pienamente. Il nuraghe (anzi, il sistema incentrato sui nuraghi) perse la sua funzione originaria, e talora divenne luogo di culto: la sua stessa rappresentazione divenne oggetto di culto ed idealizzazione nei gruppi scultorei dei modelli di nuraghe e dei betili del contesto di Mont’e Prama, in cui sembra evidente l’assimilazione della torre centra-

teoria o idea prevalga sulla realtà di fatto, se il contesto e gli indizi dicono il contrario, né si possono fabbricare “prove” se la realtà non corrisponde al proprio desiderio. Conviene da subito citare a questo proposito, introducendo la questione identitaria, uno storico medievale, Régis Boyer, e le sue belle considerazioni apparse su una monografia di carattere divulgativo “La vita quotidiana dei Vichinghi (800-1050), in cui l’autore demolisce alcuni luoghi comuni e spiega al lettore medio le ragioni della trasformazione dei Vichinghi : il vichingo cessa di essere tale nel momento in cui accetta il battesimo. In ogni caso, l’osservatore non può che restare stupefatto per la facilità e soprattutto la rapidità con la quale i vichinghi seppero adattarsi alle nuove condizioni. Nel corso di due o tre generazioni non erano più scandinavi, ma, ad esempio, normanni di Normandia o russi[23] La biologia e l’antropologia danno conto anzitutto della costante trasformazione dell’essere umano, e questo è uno dei punti cruciali da comprendere. In tema di trasformazioni, ad esempio, taluni dei nostri nonni hanno continuato a vestire in costume tradizionale sardo sino agli anni ’60, dismesso il quale non può dirsi che sia venuta totalmente meno la loro identità. Sicuramente, una parte importante si è affievolita in conseguenza delle trasformazioni sociali

vissute. Possiamo dibattere anche aspramente sul motivo che ha portato i nostri anziani a dismettere il costume e, in numerosi paesi della Sardegna, ad abbandonare la lingua. Esemplificative di questo clima confuso e convulso, in cui la storia viene trasformata mediante il ricorso improvvisato o strumentalizzato ad altre discipline, sono ad es. le rivendicazioni pseudostoriche – ma in verità politiche – che assumono la forma di una tesi secondo cui si sostiene che sia il latino a derivare dal sardo. Il linguista riderà davanti a tesi simili, scarsamente fondate e sostenibili, ma il fatto che simili procedimenti “logici” non siano isolati è significativo di un atteggiamento che sta dilagando: il revisionismo e la reinterpretazione storica per fini politici volta a creare, a tutti i costi, una nuova storia, anzi una narrazione quasi letteraria, talora con fini politici talaltra con fini autocelebrativi insiti nel sensazionalismo. Una fanta-storia che viaggia insieme alla fanta-archeologia o con una fantasiosa esegesi documen-

tale. Una narrazione che ricorre a termini propri del sensazionalismo per dotarsi di tono ma anche clamore mediatico. Questo procedimento è controproducente per la causa sarda, che va perseguita in primo luogo a livello di cambiamento di certi aspetti errati ed atavici della società sarda stessa. Le trasformazioni culturali, il quadro di instabilità politica, la mancanza di riforme strutturali e, soprattutto, inutile negarlo, la mala gestione della res publica tanto a livello nazionale che locale hanno contribuito ad inasprire la questione identitaria (e l’insicurezza economica) dei Sardi, portando ora gli stessi a cercare un rifugio e a (ri)scoprire le proprie origini (giustamente), valorizzare o concorrere a valorizzarle con attività divulgativa (libertà garantita dalla Costituzione repubblicana seppur con alcuni limiti di opportunità che si diranno a breve). In campo divulgativo, sono apprezzabili ed interessanti anche per l’archeologia ufficiale gli studi archeo-sperimentali di vari studiosi indipendenti o appassionati che tendono a sensibilizzare e far avvicinare gli individui alla propria storia e alle proprie radici. Questa riscoperta e consapevolezza delle proprie origini, tra le varie tematiche affrontate nel film “L’uomo che comprò la luna” del regista Paolo Zucca, come reazione alla presa di distanza dalla propria cultura insita talora nel comportamento dei Sardi, non è affatto un male, a patto che sia diretta alla ricerca di una verità storica non sfalsata da sensazionalismi o revisioni politiche del momento. Ma i Sardi che si interrogano sul perché l’isola stia andando incontro ad un inesorabile spopolamento a fronte di risorse potenzialmente sfruttabili, tendono talora a sovrapporre storia e fanta-storia (col rischio di una pericolosa ed irreversibile confusione), ed al contempo vanno costruendo la megalopoli (segue pagina 28)

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nel quadro dei rapporti culturali e commerciali del Mediterraneo antico, ma a volte nega questa capacità quando si tratta di valutare l’apporto culturale levantino o berbero. Ci intriga il vichingo che si adatta culturalmente e linguisticamente alla mutata realtà geografica e storica nella quale si trova a vivere, magari pur perdendo rilevanti parti della propria originaria cultura, mentre il Sardo, lo stesso Sardo che commercia con il Mediterraneo Occidentale ed Orientale, innegabilmente dovette acquisire elementi allogeni che, alla fine, portarono ad una sua progressiva trasformazione. Gli avvenimenti storici portano il Sardo medio contemporaneo a modificare moltissimi aspetti della propria cultura per sopravvivere ai cambiamenti, senza modificare l’essenza della propria identità. Costituisce un’operazione storica scorretta rinnegare la cultura sarda del periodo fenicio, punico (con apporti genetici e culturali berberi, iberici ed altri), romano, romano-cristiano (e dunque, ancora il Nord-Africa, Libia, Egitto, Bisanzio etc.), in quanto rileviamo una dominazione straniera, per poi riaffermare la sardità durante il periodo dei Giudicati. La dominazione romana nelle province non portò mai alla soppressione del diritto e delle identità provinciali. Un inumato del periodo romano acquisisce elementi di cultura latina ma è un Sardo del periodo romano, è un Sardo dunque che merita di essere studiato perché spesso mantiene elementi culturali fondamentali per comprendere le civiltà precedenti, stesse considerazioni valgono per la fase fenicia e punica. I Giudicati, e tutte le nostre ancestrali tradizioni, sono il prodotto di una lunga stratificazione in una società sarda non omogenea, e sono elementi della specificità dei Sardi. Dobbiamo tenere presente questo se intendiamo criticare la realtà multiculturale antica e al contem-

po affermare la bellezza della diversità di canti, riti, costumi e tradizioni popolari isolane, perché sono il primo conseguenza dell’altro. È analoga la questione dell’utilizzo dei recenti studi genetici per rilanciare ora un’ipotesi ora un’altra, che merita qualche precisazione per chiudere l’argomento sulla crisi di identità. La complessità del DNA di ciascuno di noi, la nostra ancestry di Sardi, indica una stratificazione genetica che ha avuto inizio (almeno) nel Paleolitico Superiore, presumibilmente con gruppi di cacciatori-raccoglitori (la cui provenienza è assai dibattuta), sebbene l’impronta caratterizzante il genoma sardo sembra sia ascrivibile al Neolitico Recente, cioè con la cultura di Ozieri ed in conseguenza di un probabile boom demografico collegato al consolidarsi dell’agricoltura. Gli studi genetici indicano una importante componente anatolica nei Sardi. Questo combacia con l’opinione di quegli studiosi che vedono nel Neolitico europeo e sardo un fenomeno socioculturale collegato ad una migrazione di agricoltori provenienti dall’Asia Minore. Infatti, in Asia Minore, durante il Neolitico, si sarebbe originato l’aplogruppo H, diffusosi poi in tutta Europa e Sardegna proprio a partire dall’Anatolia. Tanto ci sarebbe da dire sulle relazioni genetiche con gli Iberi, con i Baschi, con gli Irlandesi del periodo Neolitico, poiché i recenti studi mostrano le relazioni genetiche tra questi popoli e i Sardi. Possiamo ricordare che, nell’Irlanda pre-celtica, il DNA di un individuo sepolto in una necropoli del neolitico irlandese mostra interessanti affinità genetiche con Sardi e Iberi antichi. Impossibile soffermarsi pure sugli aplogruppi specifici sardi (SSH), ed impossibile illustrare anche per sommi capi l’avvincente storia (genetica e non) degli antichi Iberi, gruppo umano del paleolitico europeo. Alcuni studi hanno messo in luce una componente delle Steppe, per alcuni riconducibile ad un’espansione di gruppi umani asiatici durante l’Età del Bronzo, ma altri studi hanno ulteriormente suggerito il collegamento tra cultura del Vaso campaniforme e gruppi umani siberiani o dell’estremo Oriente. Siamo dunque sicuramente eredi di una civiltà plurimillenaria, importante ed assai variegata, nella misura in cui accettiamo la stratificazione culturale e genetica della nostra storia, accettando finalmente di essere Sardi nella misura che la storia ha testimoniato, e provando a correggere i difetti atavici che tanto piacciono a chi loda la divisione triba-

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(segue dalla pagina 27)del veleno, una città di rancori sociali che riemerge dal fango degli insulti sotto i quali sta scomparendo la solidarietà tra Sardi, ammesso che sia mai esistita dalle origini. In maniera analoga ai Vichinghi, come rileva Régis Boyer, che sfata l’immagine stereotipata del vichingo distruttore, privo di intelligenza e dedito soltanto a massacri, bisogna sfatare il mito dell’isolamento dei Sardi, che viene citato a volte a sproposito oppure negato quando si tratta di analizzare, ovviamente da un punto di vista politico, contesti come quello di Mont’e Prama. Perché, se storiografia, archeologia e società nei Paesi Scandinavi ammettono che i propri avi, i vichinghi, si sono trasformati in altri popoli una volta mutati certi aspetti della loro cultura a contatto con altre popolazioni, non si può fare altrettanto in Sardegna, dove esempi di interazione ed adattamento sono presenti da epoche assai remote della storia europea? Ed in verità, lo scarso interesse dei libri di storia per culture importanti e cruciali per la storia del Mediterraneo e dell’Europa non colpisce purtroppo soltanto la cultura nuragica e, perché dimenticarla, quella prenuragica. Una riscrittura della storia deve seguire i parametri oggettivi del metodo scientifico che permettano di distinguere narrazione storica accurata (comprensiva anche delle diverse teorie su uno stesso punto, se scientificamente argomentate) da una narrazione fantastica o dal romanzo storico. I Sardi partecipano di elementi di persistenza tipici dell’essere isolani (tradizioni ancestrali, rispetto di antiche norme e consuetudini, talora resistenza all’innovazione) come pure possiedono una capacità sorprendente di adattamento, trasformazione e di attitudine al raggiungimento di una eccellenza in vari ambiti e che li ha resi famosi nel mondo. Qualcuno talora parla della capacità di adeguamento dei Sardi

le esasperata per poi esaltare la storia sarda. Unità e solidarietà non significano annientamento della differenza. Ricordo infatti, se proprio vogliamo fare dietrologie e storie coi “se” e coi “ma”, che questo atteggiamento è la causa degli insuccessi militari che hanno portato gli eserciti stranieri ad invadere l’isola con successo. Mont’e Prama è fondamentale per la comprensione della civiltà nuragica del Bronzo Finale/Primo Ferro ma non può diventare, neppure per legittimi fini identitari ed economici, il sito con priorità assoluta rispetto a migliaia di altri ascrivibili a epoche assai distanti tra loro, a pena di condannare insediamenti neolitici, domus de janas, dolmen, chiese paleocristiane, necropoli puniche, città punico-romane, nuraghi semplici e complessi che sono tutti insieme parte della nostra storia. Talora in Italia, scavi bloccati, siti non ancora scavati o non valorizzati non dipendono sempre da comportamenti ritenuti come dolosi della P.A. ma dalla limitatezza dei fondi stanziati o da procedure amministrative complesse a garanzia di tutti gli interessi, pubblici, privati e diffusi, coinvolti nel procedimento. La libertà di ricerca scientifica: i criteri caratterizzanti l’attività scientifica ed il dialogo interdisciplinare. Tutto quanto detto sin qui deve ora essere

considerato alla luce del diritto costituzionale, in particolare dell’art. 33 Cost. Ricordiamo innanzitutto che l’art. 9 Cost. sancisce che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica. L’art. 21 Cost. riconosce e garantisce la libertà di manifestazione del pensiero, attraverso la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo con i limiti stabiliti dalla costituzione e dal diritto penale. Tale diritto si articola nella possibilità riconosciuta agli individui di esprimersi liberamente, di utilizzare ogni mezzo tecnico per diffondere il proprio pensiero, di informarsi ed essere informati, di riportare fedelmente le posizioni altrui o chiederne preventivamente l’autorizzazione alla pubblicazione. Nei limiti costituzionali, che ricostruiamo in via interpretativa, e di cui le leggi penali sono espressione, ritroviamo l’onorabilità, l’identità, l’intimità e la riservatezza, la sicurezza della Nazione, il buon costume. Secondo l’art. 33 Cost., l’arte e la scienza sono libere e ne sono liberi l’insegnamento. Il principio di

libertà di arti e scienze consacrato nella Carta costituzionale, che possiamo anche leggere in relazione all’art. 21 Cost. (ma al primo si riconoscono ulteriori profili di specificità giuridica rispetto al secondo), è il prodotto di una reazione a forme di autoritarismo e censura che, specie a partire dall’Inquisizione, hanno portato alla messa all’indice di opere scientifiche e/o d’arte reputate eretiche o immorali, per arrivare alla rimozione dal posto di lavoro, sotto il fascismo, di insegnanti reputati dissidenti rispetto al credo di regime. Quindi, è sacrosanto il diritto di svolgere attività di studi e ricerca indipendenti, è sacrosanto il diritto di esprimere il proprio pensiero (scientifico e non) e di divulgarlo nei limiti stabiliti dalla Costituzione e dalle leggi penali. È del pari sacrosanto il diritto di ritenere un’opinione altrui, scientifica o non scientifica che sia, come condivisibile o meno, e la Carta costituzionale dà diritto di dissentire da un partito o da uno scienziato, senza che siano stabiliti strumenti coercitivi per reprimere il dissenso, sempre se espresso in maniera compatibile con la Costituzione e il diritto penale. L’art. 33 Cost. consacra anche il diritto di informarsi scientificamente. Però, è anche vero che occorre operare una distinzione ermeneutica (cioè, interpretativa) tra i due articoli della Costituzione: pensiero e scienza sono strettamente collegati, ma la nozione di scienza stabilisce un qualcosa di diverso e specifico: si tratta di una attività volta alla scoperta di una determinata verità scientifica o ipotesi (natura e cronologia di un sito archeologico; analisi di un campione di sentenze di una certa Corte volto a valutare lo status o la natura giuridica di un determinato istituto giuridico; analisi di un fondo archivistico volto a valutare certi avvenimenti, documenti o dati bibliografici di una certa persona in un certo luogo etc.), e questa verità (segue pagina 30)

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MONT’E PRAMA LA MEGALOPOLI DEI VELENI

(segue dalla pagina 29) scientifica o ipotesi viene comunicata dopo che è stata preventivamente accertata con un procedimento logico-scientifico che tiene conto di leggi in parte specifiche di una certa disciplina (es. geologia, diritto, archeologia, paleografia, chimica, fisica) in parte comuni a tutte le discipline (premessa, obiettivi di ricerca e domande di ricerca, metodologia, affidabilità dell’oggetto di analisi, analisi e descrizione della realtà, enucleazione di ipotesi interpretative). La libertà di scienza consacrata dalla carta costituzionale dunque respinge una imposizione che vada ad incidere sugli elementi sopra descritti come comuni a tutte le scienze, magari con il fine di imporre una certa visione del mondo. Questo non significa che non si debba rispettare il principio delle competenze maturate durante un corso di studi e una specializzazione: laurea, dottorato, esperienza lavorativa, pubblicazioni scientifiche in un determinato ambito sono un indice di affidabilità e garanzia dello scienziato

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che comunica il proprio pensiero (sempre che utilizzi il metodo comune sopra descritto). Nessuno può essere esentato dal rispetto del metodo scientifico, se intende fare scienza. Ed è sicuramente compatibile con quanto detto, l’interdisciplinarietà negli studi, che talora viene vista come una minaccia ed invasione di campi altrui ma che, se ben attuata, costituisce un arricchimento non soltanto individuale per un certo scienziato ma anche un valore aggiunto per la comprensione di un determinato campo a patto che lo studioso intraprenda un serio ed onesto processo di apprendimento funzionale alla scientificità del suo lavoro. Il dialogo fisiologico tra discipline non deve essere confuso con l’appropriazione improvvisata. Un ragionamento impostato su un rigido metodo scientifico nel senso sopra descritto (affidabilità delle fonti, materiale probatorio) è un primo e importante passo per il riconoscimento della scientificità del ragionamento stesso. Ed è proprio il problema dell’interpretazione del contenuto del

diritto di cui all’art. 33 Cost. che, se inteso in chiave estesa o espansiva, rischia di incrinare il rapporto tra libertà di ricerca scientifica e verità scientifica che deve fondare un settore scientifico, e questo confine è dato in primis: a) dal principio di competenza acquisita mediante i propri studi scientifici (stando attenti all’ulteriore principio di univocità negli studi, che potrebbe risultare un bavaglio arbitrario anche all’interno di un medesimo settore se si porta alle estreme conseguenze il principio di ultra-settorializzazione delle competenze); ma, in via dirimente, soprattutto b) dal rispetto del metodo scientifico nella dimostrazione di una determinata tesi. È infatti necessario, da un lato, limitare l’eccesso di interpretazione espansiva dell’art. 33 Cost. in modo che resti ben distinta la differenza tra ciò che scienza è rispetto a ciò che scienza non è (scienza e pseudo-scienza debbono essere tenute distinte), senza cadere in una totale limitazione della libertà di ricerca che possa imbavagliare teorie innovative perché magari scomode (anche da un punto di vista politico) per la comunità scientifica globale (ricordiamo il processo a Galileo), la quale non deve assurgere o farci cadere nella tentazione di considerarla un comitato scientifico con potere di giurisdizione indiscutibile e unico detentore della verità scientifica. Allora, l’elemento dirimente non potrà che

essere, in primo luogo, l’applicazione rigida del metodo scientifico, tenendo fermo il principio di competenza degli studi compiuti nonché quello di coerenza degli stessi, da intendersi in maniera temperata, aperta cioè all’interdisciplinarietà e alla possibilità di crescita professionale dello scienziato che aspiri ad incrementare la propria preparazione nella sua attività di ricerca. E la pubblicazione dei risultati della propria ricerca è un diritto, ma anche un dovere. Tale ragionamento non va dunque confuso con le eventuali disfunzioni a livello individuale o amministrativo che possono accadere e che i cittadini o gli altri soggetti legittimati dall’ordinamento sono tenuti a denunciare in quanto portatori di diritti soggettivi o interessi legittimi alla legalità e correttezza dell’azione amministrativa dei Comuni, delle Regioni, delle Soprintendenze. Questi aspetti non rientrano nel campo di applicazione dell’art. 33 Cost. quanto in quello delle norme sulla P.A. sancite dalla Costituzione e dalle principali leggi ordinarie ed amministrative: tali problematiche non consentono agli individui, spesso scarsamente informati, di procedere al linciaggio, attuato tramite social, della generalità degli scienziati additati in maniera sommaria come oppressori e conniventi di un sistema improntato all’occultamento di una verità ritenuta scomoda.

La creazione di una categoria contro la quale scagliarsi ben ricorderebbe tristi vicende proprie dei regimi totalitari. Sempre nell’ottica del diritto va letta la questione del vigneto, prima di procedere a sommari giudizi. L’apposizione di un vincolo deve rispondere ai principi dell’azione amministrativa e alla normativa in materia, questo perché ci sono voluti secoli prima che si passasse dalla concezione dell’onnipotenza della pubblica amministrazione alla nascita della giurisdizione amministrativa, alla creazione della categoria degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi nel processo amministrativo, alla enucleazione dei principi di efficienza, imparzialità e cooperazione con il privato in modo che si muovesse dalla concezione del cittadino-suddito al cittadino-parte attiva nei procedimenti amministrativi che lo riguardano, come quello di esproprio ad esempio. È in base a tutti questi principi, posti a garanzia del singolo, che si contempera il difficile rapporto tra interessi pubblici e privati.

La certezza di ciò che giace sottoterra viene raggiunta soltanto con lo scavo archeologico. In conclusione, un divertente commento apparso nei giorni scorsi sui social ci mette in guardia dai pericoli dei giudizi sommari. Mont’e Prama di Cabras testimonia numerose Età, successive a quelle del Bronzo e del Ferro: Età della Plastica, Età dell’Odio Avanzato, facies del bronzo contemporaneo, suddivise territorialmente in cantoni e cantonati.

Diego Serra è storico e comparatore legale, LL.B. in Storia del diritto, LL.M. in diritto costituzionale, Ph.D. in diritto comparato dell’Università di Genova, ex tutor di diritto romano e storia del diritto ed ex studente della Scuola di Archivisti, collaboratore volontario del dott. Sebis, ispettore onorario per la Soprintendenza Archeologica della Provincia di Oristano (OR, Italia). http://zweilawyer.com/2019/10/07/

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ANTONELLO VERACHI

Foto Gesine Arps

Giancarlo LEPORE : nativo di Avellino, è scultore, insegnante e organizzatore culturale, promotore di un progetto che si sviluppa sul territorio con relazioni internazionali, coinvolgendo artisti, associazioni e gallerie. Ruben MUREDDU: vive e lavora ad Alghero, in Sardegna, pittore . Completa l’Accademia di Belle Arti con una tesi sul rapporto tra espressione creativa e componente psichiatrica dal titolo: “Esperienza e ritorno. Art and Psychiatry “. Chiara MURRU: Professoressa, attrice e regista di Spazio T, una delle realtà teatrali più attive della Sardegna. Vincitrice del premio: Miglior regista al Fringe Festival di Roma 2012. Presenta inoltre uno spettacolo ispirato al titolo della mostra “Amico”. Gesine ARPS, attraverso le sue immagini spesso popolate da pesci fantastici che ci guidano in un incredibile universo artistico, catturando e attirando, ci invita a una dimostrazione di affetto per i suoi cari amici. È la storia dell’amore reciproco, un omaggio all’amicizia oltre il tempo e lo spazio. Gesine Arps è nata ad Hannover, in Germania, il 3 novembre 1964, è la seconda figlia di Helmut Arps e Helga Arps née Ficher. Ha frequentato la scuola sperimentale “Glockseeschule” nella sua città natale. Incoraggiata dalla madre a intraprendere una carriera artistica, iniziò a esporre in tenera età in varie mostre collettive ad Hannover.

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A vent’anni lasciò la sua terra natale per stabilirsi ad Urbino, dove terminò gli studi artistici nella sezione Ceramica della Accademia Raffaello, con il professor Paolo Sgarzini. Nel 1990 incontra lo stilista Piero Guidi, per il quale crea il design della serie Magic Circus. Durante il soggiorno “italiano”, le opportunità espositive non mancano, nemmeno all’estero, mentre si succedono reciprocamente. a ritmo costante, eventi artistici in Italia. È in questo momento, nel 1994, che l’artista compie la sua ricerca espressiva, non solo dedicata alla pittura ma, sperimentando vari mezzi e forme espressive, realizzando anche spettacoli e installazioni con i materiali più insoliti Nel 1990 incontra suo marito, l’architetto Alessandro Campilongo. Si uniscono nel 2007 e vivono con i loro due figli nelle Marche. Dal 2010 collabora con la Selective Art Gallery (Mizen Fine Art) di Parigi ed espone in tutto il mondo. Mizen Fine Art Gallery

Foto Rosaria Straffalaci

MI significa in francese “ami”. In italiano la seconda persona del verbo “amare” nella forma imperativa e presente, anche gli ami utilizzati nella pesca per pescare per i pesci. Incontra i suoi amici artisti impegnati in un percorso intenso:

Official Newsletter of Mizen Fine Art Group

AMI

La Libreria UBIK

L’uomo coi baffi di vetro di Antonello Verachi presenta Fabio Marcello

INVITATION ARTISTIQUE DE GESINE ARPS

Mercoledi 18 Settembre 2019

16 - 30 Novembre 2019

Proiezione del video realizzato da

MIZEN Fine Art Gallery

Dafne Turillazzi con Gerardo Ferrara lettura Andrea Andrillo musica Aperitivo cruelty free

contactparis@mizenfineart.com

Via Sidney Sonnino 186 A Cagliari Tel. +39 070 351 4374

INAUGURATION le samedi 16 Novembre 2019 à 18h

57 Quai des Grands Augustins / 9 rue Dauphine 75006 Ouverture : Du lundi au samedi de 10h30 à 19h30 Métro: Pont- Neuf/Odeon tel: 01.40.46.66.70

U

n evento, alla presenza dell’autore, coordinato dal giornalista Fabio Marcello con la partecipazione dell’eclettico Gerardo Ferrara (voce) e del cantautore Andrea Andrillo (musiche). Si tratta di un evento che, in maniera amichevole ed estemporanea, dona forma e suggestioni alla poetica dello scrittore. Una raccolta di versi che frantuma ogni codice e metrica per raggiungere in modo inespugnabile il cuore dei lettori. Poesie che trattengono il pianto di città devastate, sotto l’occhio vigile e positivo di speranze per un futuro desiderato di condivisione ed uguaglianza, leggerezza e creatività rivoluzionaria. Parole che attingono a visioni diurne, in cui l’emozione si fonde con l’esistenza stessa, in un paesaggio umano in cui ogni personaggio è portavoce astratto di attese, pienezza nei sentimenti, vicende da dipanare in una continua ricerca di nuovi porti per salpare altrove. Poesie quindi dove il punto o le virgole sono solo piccole tappe dove respirare profondamente … per continuare l’imprevedibile viaggio dell’esistenza, a volte battuto dal sole, altre dal freddo dell’inquietudine, altre ancora dall’euforia di purezze ritrovate. La scrittura di Antonello Verachi si muove a rimbalzo dal personale al collettivo, in una

sala di specchi dove chiunque può riconoscere qualcosa di se, oltre ogni giudizio. “L’uomo coi baffi di vetro” è un piccolo puzzle senza incastri, un gioco aperto per il lettore, un ottimo compagno di viaggio per sondare l’alchimia dell’anima. Tra visioni, squarci realistici, surrealismo, grande ironia ed insolita comicità, la raccolta di poesie sboccia nel campo dell’editoria nazionale come un fiore di loto, che già custodisce nel frutto i semi per nuove nascite sul filo della parola. Antonello Verachi è nato a Nuoro nel 1970 e attualmente risiede a Cagliari. Dopo studi umanistici e filosofici presso l’università Cattolica di Milano, da anni studia con passione la produzione letteraria e musicale contemporanea. Ha partecipato a diversi eventi teatrali, reading, rassegne e trasmissioni televisive dedicate alla letteratura e performing art ed è vicepresidente dell’Associazione Culturale NudiCrudi impegnata sul fronte dello spettacolo dal vivo. Dal 1999 ha pubblicato: Preghiera alla Natura, Libroitaliano, Ragusa 1999 Tutto scorre – il delirio della Fenice, Libroitaliano, Ragusa 2002 Risate dal cavo scoperto, Tipografia artigiana Musanti 2006 Argomenti – rassegna antologica del linguaggio poetico contemporaneo, ISMECA, Bologna 2007 Vetroresina e altri materiali, Editoria & Stampa 2008 Dopo la stagione delle piogge, Giemme Edizioni 2009 L’Uomo Coi Baffi Di Vetro , Ensemble Edizioni 2019 La presentazione é stata introdotta da un breve video realizzato da Dafne Turillazzi, che accosta estratti delle poesie di Antonello Verachi ad immagini dirette da David Lynch. Un tributo sentito e pieno di gratitudine ad un regista che in modo sublime destruttura la narrazione per condurci nell’irregolarità dei sogni e dell’inconscio. https://cagliari.ubiklibri.it/

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Premetto che, data la marginale rilevanza del dato fonetico e la pressoché generale familiarità dei sardi con l’espressione di cui si parla, rinuncio alla trascrizione in caratteri fonetici. La traslitterazione nell’alfabeto fonetico italiano cerca di riprodurre quella che è la forma del Sardo del Sulcis. In su cunnu o torradinci in su cunnu. E’ il peggiore insulto che si possa fare a un sardo e in sardo. Letteralmente significa “Torna nella vagina” o “Tornatene dentro la vagina”, intendendo “in quella di tua madre che ti ha partorito”. E, infatti, si ritrova anche la forma intera Torrànci in su cunn e màmma tua “torna nella vagina di tua madre”. Più esplicitamente si sente anche Torrànci in su cunnu chi ti nd’ari scavuàu a fòrasa “Tornatene nella vagina che ti ha buttato fuori (al mondo)”, o addirittura torrànci de abùi ndi se’ bessìu “Tornatene là da dove sei uscito”. E numerose ancora, sono le varianti. In altro modo è da interpretarsi il vario e ricco inventario di invettive con la parola cunnu: cunn ‘e mamma tua, cunn ‘e iaia tua, cunn ‘e tzia tua, cunn ‘e Giùdasa, cunn ‘e Pio nòno, cunn ‘e Gesugìistu, cunn e Maumètu. Laddove sottesa è la maledizione “(maledetto) il ventre di tua madre (che ti ha generato)”, “maledetto il ventre di tua nonna che ha generato tua madre, o tuo padre, i quali a loro volta ti hanno generato”, “maledetto il ventre di tua zia” (“che certamente avrà generato altri della tua genìa “). Che la maledizione sia da intendersi così lo confermano le forme ampie cunn ‘e mamma tua chi t ‘a fattu, cunnu chi t’adi ingeneràu, dove si esplicita, appunto, la maledizione al ventre “che ti ha generato”. Nè è difficile ricondurre le maledizioni a Giuda, a Pio IX a Gesucristo, a Maometto al senso “Maledetto il ventre che ha generato...” volta per volta Pio IX, Gesù Cristo, Giuda. ecc”.

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Come cercheremo di dimostrare, anche con l’aiuto dell’archeologia, il terribile invito del ritorno nel ventre materno è un augurio di morte, ma, attenzione, non è un augurio di non essere mai nato, ma l’augurio proprio di addivenire, da parte del destinatario dell’invettiva, alla morte, e anzitempo. Si sa quanto sia comune in bambini fino ai quattro, cinque anni, il desiderio, in certi periodi di stress, di stanchezza, di insicurezza, il desiderio di non volere crescere, il desiderio di tornare a uno stato di assoluta protezione quale è quello che solo il ventre materno offre, ma in uno stato da vivi. Il che, in certi casi fa pensare che il bambino abbia un qualche ricordo della felice protezione, del calore del ventre materno. Più di una donna ci ha raccontato di come il proprio bambino chiedesse di “ritornare nella pancia”. Quindi non è questo che si augura con Torrànci in su cunnu. Per convincerci dell’altra valenza dobbiamo fare ricorso, come dicevamo, all’archeologia. Oltre alle spirali, nei numerosi monumenti del Neolitico in Sardegna (e non solo), si trovano anche la testa del toro con le corna, quindi il cosiddetto Dio Toro, il partner della Magna Mater. Della Grande Madre mediterranea si hanno numerose rappresentazioni plastiche, statuette più o meno stilizzate. Del partner maschile si hanno menhirs, betili e rappresentazioni a graffio o le monumentali rappresentazioni fornite dalle cosiddette “tombe dei giganti”o da siti quale “Romanzesu” che, con il suo recinto litico, ricorda con evidenza, il membro maschile ma anche “altro”. Che la Grande Madre fosse la più importante divinità dei sardi del Neolitico, raffigurata in numerose statue, più o meno naturalistiche, più o meno stilizzate, è cosa certa. Meno convincente l’attribuzione delle rappresentazioni a graffio nelle domus de janas e delle tombe dei giganti a rappresentazione del toro cornuto. Certo, nel grande corridoio coperto

delle tombe dei giganti, con anteposto una parete di lastre di pietre che disegnano una concavità rispetto al corpo coperto, si può leggere una testa di toro con le corna. Contro la simbologia taurina si è autorevolmente pronunciata Marija Gimbutas (Il linguaggio della Dea. Mito e cultura della Dea Madre nell’Europa Neolitica Ed. Longanesi & C, 1990) che invece legge nelle dette raffigurazioni, la rappresentazione dell’apparato genitale femminile. Se si confrontano le illustrazioni riportate nella pubblicazione di questa studiosa, non si farà fatica a prendere in considerazione l’ipotesi e a considerarla, se non convincente, degna di attenta riflessione. Lasciando da parte le articolate argomentazioni a favore di tale interpretazione, si permetta una banale considerazione: come mai di una divinità così importante quale sarebbe stato il Dio Toro, non sono rimaste che dubbie stilizzazioni e rappresentazioni, mentre della Magna Mater esistono numerose raffigurazioni plastiche? Si potrebbe pensare, tornando alle formule esecrative, che il senso sia quello di un augurio a non essere mai nato. Ma dobbiamo respingere anche questa supposizione in quanto, insistiamo, l’augurio è proprio quello di morire nel modo migliore, augurio fatto a persona vivente. E dicevamo, sono l’archeologia e l’osservazione linguistica che ci confermano in questa nostra supposizione. Intanto, i simboli di cui parliamo – rappresentino essi corna di toro o l’apparato genitale femminile interno, li troviamo nelle domus de janas e nelle tombe dei giganti, quindi nei monumenti funerari. Queste ultime, di per sé, costituiscono una rappresentazione plastica di tale simbologia. Banale ricordare che è di pressoché tutte le culture primitive (ma non estraneo al sentire dei moderni) l’idea della morte come ricongiungimento con la natura, con la Madre Terra che ci ha generato e che ci accoglie di nuovo, alla fine del nostro ciclo vitale, nel suo ventre materno (ad una nuova vita ndr) Quindi, la morte come ritorno entro la terra. Bene, torniamo a “Torranci in su cunnu”. Un rilevamento linguistico in comune di Santadi, purtroppo, unica testimonianza che sono riuscito a trovare, sembra dare la conferma che abbia ragione la Gimbutas a riconoscere l’apparato genitale femminile sia nelle raffigurazioni nelle domus de Janas, sia nella forma delle tombe dei giganti. Dovendo preparare delle lezioni per un Master all’Università di Cagliari e riascoltando i nastri

Foto Bibi Pinna S’Ena ‘e Thomes Dorgali

T

orrànci in su cunnu.

TORRANCI IN SU CUNNU

da me registrati in una campagna di rilevamenti fatti nel 1984, in territorio del Sulcis, sono incappato in un’intervista a un uomo di 96 anni di Santadi. Peraltro, proprio questa intervista, molto breve, non l’avevo mai utilizzata per i miei studi fonetici e fonologici in ragione della cattiva qualità del suono, sia perché pessima era la pronuncia dell’anziano, sia perché non sempre l’intervistato rispondeva a tono. Di conseguenza, mi ero limitato a condurre un discorso libero su quanto a lui piacesse, e tra le altre cose si era sbizzarrito nell’elencarmi insulti, bestemmie, invettive ecc. Tra le numerose varietà, riguardanti “su cunnu”, che mi aveva snocciolato e che in parte sono riportate qui sopra, una mi era completamente sfuggita e al momento non mi aveva, evidentemente colpito, forse proprio per la scarsa attenzione che avevo posto a questo informatore e per la scarsa attenzione che la mia ricerca poneva all’aspetto lessicale. Torradìnc in su cunn (..) perda. La pessima qualità della registrazione e della pronuncia, peraltro offuscata anche da un raschiarsi della gola, possono avvalorare una realizzazione torradìnc in su cunn e pèrda, “tornatene nella vagina di pietra”. Ma si potrebbe anche sentire un Torradinci in su cunn e sa perda (tornatene nella vagina della pietra). Anche l’ascolto proposto ad altri amici fonetisti non ha fornito altre possibili decifrazioni.

Dopo qualche tempo, proprio riflettendo sulla bellissima pubblicazione della Gimbutas, mi ha colto improvvisa una fantasia, o meglio un’associazione di idee. “E se l’eventuale vagina di pietra (ammesso di avere decifrato correttamente la frase del vecchio) fosse la domu de janas o la tomba dei giganti, o entrambe le cose? Alla prima occasione che mi è stata data di tornare in Sardegna, pur non contando di trovare ancora in vita il mio informatore, dopo 20 anni, volevo, mediante domande dirette e indirette, provare ad avere conferme alla supposizione. Ho trovato l’unico figlio vivente del mio informatore, più che ottantenne, purtroppo non molto presente, sordo, e con fortissime difficoltà articolatorie . Avrei voluto fargli elencare le invettive in cui compare la parola cunnu che lui conoscesse, ma intanto non riuscivo a fargli capire ciò che io desideravo e, in ogni caso, era quasi una tortura farlo parlare. Non mi restava che procedere con riferimenti diretti all’invettiva sentita dalla voce del padre e, così, gli ho fatto sentire a tutto volume, la parte dove il padre parlava di “su cunn ‘e

sa pèrda” se così era da intendersi. Gli ho chiesto se lui conosceva l’espressione su cunn ‘e ssa pèrda. Metodologicamente la cosa non è molto corretta, ma la condizione dell’informatore non permetteva altro. Lui assentiva. Gli ho ripetuto in sardo: suo padre diceva “su cunn’e sa perda”, lei lo ha mai sentito?” Lui continuava ad assentire. Gli ho chiesto “cos`è su cunn e sa perda?”. La persona ha accennato a un luogo lontano, ma non sapeva spiegare di più. Il figlio che assisteva senza interesse alla conversazione, quasi contrariato perché aspettava che me ne andassi, perché potesse finalmente sbrigare una qualche faccenda, mi disse che non ne avrei cavato nulla, e mi faceva capire che, poverino, il padre non era del tutto in sé “Léi ca non di òga suppa”, “Badi che non ne cava nulla”. Ma, alle mie insistenze, e con l’aiuto di questo figlio, ho capito che il vecchio voleva accompagnarmi in un qualche punto della campagna. Con la mia auto, indicandomi, quando necessario, dove dirigermi, siamo arrivati alla frazione di Terresòli e ai piedi di un poggio, in un punto in cui non si poteva proseguire in auto, mi indicava una direzione. L’uomo non era in grado di fare più di pochi passi. Quindi impossibile farsi guidare. Di più non ne ho cavato. Ma, di fatto, in quella direzione è la località “Barràncu mannu” dove si trova una tomba dei giganti. Procuratomi una polaroid, il giorno dopo ho fotografato la tomba dei giganti e sono tornato dall’informatore che, evidentemente, aveva ancora una vista bastante a fargli riconoscere l’oggetto e alla mia domanda se quello fosse su cunn’e sa perda rispondeva con convinzione di sì. Tutto ciò non lo si ritiene assolutamente probatorio. Certo è che dovrebbe essere uno stimolo per i ricercatori a indagare in tal senso, in altre parti della Sardegna, sia quanto all’aspetto linguistico che antropologico in generale. Marco Piras: Meggen, Luzern März 2006

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