Sardonia Novembre 2021

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SARDONIA Ventottesimo Anno / Vingt Huitième Annèe

Foto marinafedericapatteri

Novembre2021/ November 2021

Valentina Pettinau La Rivoluzione Russa 1917 La Gira Zapatista in Europa Edina Altara Fin de Regne alle Barbados Plautilla Bricci La bomba inesplosa Achille Perilli Francesca Anedda / Nino Etzi A.Boogert Alexander Archipenko Voci dalla Laguna Essere Umane Einstein & Ralph Morse Marina Abramovic Rhythme O Collezione Olnick Spanu Cuccuru is Arrius Epurazione razziale universitaria Alluvioni Anton Stadler https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia


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Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@ gmail.com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Controllo qualità Prof.ssa Dolores Mancosu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale

vedi i video vimeo.com/637692037 vimeo.com/638154373 vimeo.com/638400741 vimeo.com/638451115

uesto mese di ottobre ha visto la mostra dei modelli sartoriali di Marinella Staico, di cui potete vdere i quatro filmati realizzati all’occasione dei due giorni, che si ripeteranno il sabato 30 ottobre, mentre lo stesso giorno due delle ultime mostre curate insieme a Terra Battuta saranno esposte ad Oristano all’Arrubiu Artt Gallery Café di Chiara Cossu che aveva già ospitato le opere di Laura Zidda nel mese di Luglio. In novembre avremo il piacere di presentarvi le opere pittoriche di Michelle Pisapia nei locali dell’Agenzia Onali, in via Santa Margherita 6, a due passi dalla Piazza Yenne, dove vi aspetteremo fino al 5 dicembre previa prenotazione. Questo autunno si annuncia particolarmente ricco di avvenimenti e, malgrado le sporadiche ed abbastanza minoritarie proteste dei no vax e no green pass, ci stiamo avvicinando ad una situazione di controllo della pandemia, alfine di ritrovare una maggior libertà di movimento e d’azione. Anche se alcune categorie, ieri osannate oggi dimenticate, non hanno mais smesso di adoperarsi, nonostante la scarsa considerazione nella quale sono tenuti ed i miserevoli stipendi che gli sono corrisposti nonostante le promesse, al momento del lockdown, di revalorizzazioni ed altri bonifici che non sono ancora arrivvati. Ma anche gli artisti non hanno smesso di lavorare, comme i curatori d’Arte e tutti coloro che si adoperano sia attraverso la custodia delle opere del passato, sia alla presentazione di quelle contemporanee che si tratti di Arti Plastiche, di Musica, d’Opera, di Teatro, eccetera., a mantenere viva ed attiva la presenza dell’espressione artistica sotto tutte le sue forme nel nostro quotidiano spesso e volentieri malmenato dalle disgrazie sia naturali che sociali che periodicamente ci affligono. In questo numero troverete come d’abitudine una scelta eccessivamente eccletica non solo di artisti sia donne che uomini, ma anche di alcuni episodi del passato che l’attuaslità rimette in luce, ricordandoci che spesso e volentieri abbiamo la memoria corta se non dichiaratamente labile. Comunque sia abbiamo la speranza di vedere, con la fine di questo anno, anche la fine di una situazione di costrizione, di impedimento, di clausura, di chiusura, che ci ha particolarmente afflitto e che auspichiamo di vedere finita al più presto. Chissà se le lezioni che avremo dovuto imparare durante questo periodo, che fu anche un periodo di riflessione al nostro futuro ed al modo di affrontarlo, di oranizzarlo, di desiderarlo altro e migliore, saranno comprese ed applicate. In questa notte di Halloween, festa celtica ed assolutamente europea, ben che la mercantilizzazione all’americana abbia voluto trasformarla, si celebra la permeabilità tra il regno dei vivi e quello dei trapassati, alfine che appunto non si abbia paura della morte non come un fine in se ma come l’inizio di una nuova avventura sotto altre forme.Con il 1mo novembre auguro a tutti nomi dei santi buon onomastico. V.E.Pisu


Foto courtesyvalentinapettinau

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VALENTINA PETTINAU S

ette titoli nelle ultime otto edizioni del campionato individuale regionale. Dal 2014, con la sola parentesi del 2015, Valentina Pettinau è la regina del golf sardo. Dove domina con la naturalezza di chi, lo swing, ce l’ha nel sangue. La carriera. Figlia d’arte (mamma Nicoletta Pintor e papà Andrea sono appassionati giocatori), ventidue anni, ha preso in mano la prima mazza quando ne aveva quattro. “Li seguivo in tutti i campi, per me è stato normale iniziare a giocare”. Il resto è venuto con al-

lenamenti, tornei, sfide in famiglia anche con il fratello Luca. Come a inizio ottobre, quando hanno rischiato di laurearsi insieme campioni sardi assoluti, a Narbolia. Lei è rimasta sul trono, dopo aver respinto l’attacco di Brigitte Latif. Il fratello invece si è piazzato terzo, ma chiudendo il primo giro in parità con Francesco Vincis. “Ci piace giocare insieme e contro, sia tra noi che con i nostri genitori”, ha ribadito la campionessa sarda, “ci divertiamo, è una bella occasione per stare insieme”. Il futuro. La prossima sfida, al

Pevero Golf Club, sarà il campionato sardo a squadre. Ma nel suo orizzonte, c’è il professionismo. Oggi lavora nel suo circolo di appartenenza, l’Is Molas Golf Club, ma l’obiettivo come giocatrice è abbassare l’attuale handicap di 5,4. “Per migliorarlo, conto di partecipare presto a gare nella penisola, utili anche a fare esperienza”, osserva, “una volta diventata proette, potrò realizzare anche il sogno di giocare nello storico percorso di St Andrews, in Scozia. E chissà, magari scontrarmi con il mio mito, la giocatrice statunitense Michelle Wie West”. Clara Mulas

Golf & Country club di Is Arenas ha ospitato i Campionati regionali sardi as-

soluti. Sono novanta i giocatori partecipanti, il numero massimo consentito dalla federazione, tra cui l’ex calciatore di Chelsea e Cagliari Gianfranco Zola, e i campioni in carica Valentina Pettinau e Francesco Vincis, entrambi in forza al Golf Club Is Molas. Il campo a 18 buche, par 72, disegnato dall’architetto Robert Von Hagge, é considerato a livello internazionale come miglior campo sardo dalla guida Rolex. Un riconoscimento che premia l’impegno dello staff del club narboliese, presieduto da Piero Maria Pellò e gestito, nella parte operativa e ricettiva, da Silvia Pellò. «Riconoscimenti così importanti – sottolinea Silvia Pellò – si ottengono solo grazie all’impegno di tutti, compresi i manutentori narboliesi capitanati dal green-keep Igor Bertola, e agli investimenti effettuati nel tempo dalla famiglia Pellò». Da annotare l’importante connubio ormai consolidato tra gli imprenditori locali, del settore agroalimentare e vinicolo, che, con i prodotti delle loro aziende, contribuiscono alla destagionalizzazione del turismo. (segue pagina 4)

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Foto lumsanews

(segue da pagina 3) I golfisti infatti, oltre ad apprezzare le qualità tecniche dell’impianto, amano le bellezze senza eguali del territorio, ricco di emergenze archeologiche e di valenze produttive. «I nostri clienti, dice Silvia Pellò, apprezzano in modo particolare la cucina locale, composta esclusivamente da prodotti genuini a chilometro zero. Come l’olio, il vino e i liquori, che acquistano prima di far rientro nei loro luoghi di residenza». «Tutto questo è possibile grazie a una qualificata sinergia con il territorio, sottolinea Silvia Pellò, senza dubbio la chiave del successo di qualsivoglia iniziativa imprenditoriale. Il nostro club, in collaborazione con l’assessorato regionale al Turismo, anche quest’anno parteciperà alla fiera mondiale del golf, in programma nel Wales a fine mese. L’obiettivo è quello di riuscire, insieme agli altri golf club sardi, a portare nuovi turisti internazionali in Sardegna. L’occasione ce la darà la Ryder Cup che si svolgerà a Roma nel 2023. Sta a noi saper cogliere quel momento per proporre a spettatori e giocatori di venire a giocare nei nostri campi». Piero Marongiu www.lanuovasardegna. it/ www.unionesarda.it/

LA RIVOLUZION E

rano le tre del mattino. Sulla Nevskij tutti i lampioni a gas erano accesi [...]. La città era calma, calma come forse non era stata mai nel corso della sua storia; in quella notte non fu commesso un delitto, non un furto...», con queste parole il giornalista statunitense John Reed descriveva le ultime ore della Rivoluzione russa che precedettero la cosiddetta Rivoluzione d’Ottobre, il cui momento clou fu l’assalto al Palazzo d’Inverno. Si chiudevano quel giorno e in quel luogo quelli che lo stesso Reed, testimone degli eventi, definì “i dieci giorni che sconvolsero il mondo” (titolo del suo celebre reportage pubblicato nel 1919). L’epilogo di quei giorni drammatici avvenne a Pietrogrado, che di lì a qualche anno sarebbe diventata Leningrado e poi di nuovo San Pietroburgo, nel 1991, come alla sua fondazione, nel 1703. Tutto accadde tra il 25 e il 26 ottobre 1917 - secondo il calendario giuliano usato in Russia, in anticipo sul nostro di 13 giorni: gli eventi di quei giorni determinarono la nascita della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, nucleo di quella che nel 1922 sarebbe stata l’URSS, l’Unione delle Repubbliche


NE RUSSA 1917 Socialiste Sovietiche. Momento topico nella genesi della rivoluzione era stato l’arrivo, il 3 aprile 1917, di un treno speciale alla stazione Finlandia di Pietrogrado: una carrozza con quasi tutti i portelloni e i finestrini sigillati, anche per evitare sguardi indiscreti, passata alle cronache come vagone piombato. A bordo c’era Vladimir Lenin, carismatico capo del partito bolscevico e teorico del comunismo. Di ritorno in patria dopo anni di esilio, era determinato ad assumere la guida della scena politica russa, come scriveva nelle sue “tesi di aprile”. In quelle pagine Lenin

teorizzava la necessità di dare una svolta proletaria al processo rivoluzionario in corso nel Paese. Prima di quell’ottobre c’era infatti stata la Rivoluzione di febbraio, con altri protagonisti ed esiti altrettanto rilevanti: una rivolta di matrice socialista che aveva, tra l’altro, scalzato lo zar Nicola II. A dettare i bruschi cambiamenti del 1917 fu in primo luogo il dramma della Grande guerra, in cui i russi erano impegnati contro Germania, Austria-Ungheria, Impero ottomano e Bulgaria. Il Paese era da tempo allo stremo, e sempre più voci chiedevano l’uscita

dal conflitto. Ma Nicola II se ne era infischiato, abituato come altri zar a esercitare un potere assoluto, senza ascoltare la voce del popolo. Suo nonno, Alessandro II, nel 1861 aveva abolito la servitù della gleba, ma la Russia era rimasta arretrata e sul finire del secolo il malcontento popolare aveva trovato sfogo nella nascita di vari gruppi politici, marxisti e non. Uno di questi era il Partito operaio socialdemocratico russo. Nato nel 1898, nel 1903 si divise in due fazioni: i bolscevichi (maggioritari) e i menscevichi. I primi contestavano ai secondi un’eccessiva moderazione e un retaggio borghese. Attorno ai bolscevichi si coagulò presto la classe operaia e, in parte, quella contadina, dando vita ai primi Soviet, ovvero i consigli di lavoratori, impregnati di spirito sovversivo. Con la Rivoluzione di Ottobre e la presa del Palazzo d’Inverno, sede del governo provvisorio, si imposero definitivamente i bolscevichi. ---------Articolo liberamente tratto da Ottobre rosso, di Matteo Liberti, su Focus Storia 133 (novembre 2017), disponibile in digitale.

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Foto dinamopress,it

LA GIRA ZAPATISTA IN EUROPA

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chi si è dedicata a quest’impresa, a chi ne ha curato la risposta collettiva, a chi ci si è arrovellato da ottobre, a chi ha risposto alle chiamate, a chi ha organizzato formazioni e spunti di confronto, a chi ha realizzato tutte le opere e le buonissime cene a sostegno di questo viaggio, a chi non si è perso un minuto di assemblea, a chi si è fomentata, a chi ha ascoltato, a chi ha condiviso ricordi di viaggi lontani e vicini, a chi ha intrecciato il suo percorso di lotta con questo grande evento, a chi continua a fare domande, a chi si è sentito stimolato, a chi ha gestito i social media da Vigo a Madrid, passando per il resto del Vecchio Continente, a chi ha scritto e declamato in mille forme la notizia di questo arrivo imminente, a chi in ogni festival degli ultimi mesi ha visto e sentito la parola EZLN o lo slogan La Gira Zapatista Va: Il momento è arrivato. Cura, solidarietà e supporto hanno portato diverse delegazioni dalla Germania, dalla penisola iberica, dalla Francia, dalla Grecia, dalla Svizzera e, chiaramente dall’Italia, a raggiungere l’Austria per costruire assieme allə compagnə della città e del coordinamento Zapalotta, un’accoglienza calorosa e sicura a chi ha intrapreso el Viaje por la Vida. La FAZ, ossia la Fuerza Aerea Zapatista, è plana-

ta nel cuore dell’Europa che non si arrende. Due le delegazioni che si sono ricongiunte dopo uno spiacevole rallentamento causato dalla burocrazia durante lo scalo serale, che ha costretto il secondo gruppo a cambiare volo (un saluto carissimo alla compagnia aerea che ha deciso di far partire un aereo mezzo vuoto incurante delle emissioni di carburante inutilmente sparate nella nostra affaticata atmosfera). Nonostante tutto però, l’ex capitale dell’Impero asburgico è stata invasa da zapatistə di tutte le età e colori sotto la sicura guida del Comando Polomitas composto da Amado, Cintho, Veronica, Chuy e Cintia (non sappiamo se abbiano ottenuto già a Vienna ciò che li ha spinti a intraprendere questo viaggio, quindi teniamo presente di preparare adeguate scorte di Popcorn). Un’importante componente della delegazione è costituita dalle circa 40 miliziane della sezione Ixchel-Ramona, tra cui le due giovanissime Vip Defensa ed Esperanza (che a quanto si dice in giro avrebbero lasciato la coordinazione del Comando Palomitas ad Amado per unirsi al gruppo delle miliziane e giocare a calcio con le altre squadre femminili d’Europa, quindi, compagne, tiriamo su quei polpacci). Al fianco, o dietro, il gruppo di Escucha y Palabra composto da zapatistə «la cui esistenza e memo-


ria copre la storia della nostra lotta dagli anni prima della sollevazione fino all’inizio del Viaggio per la Vita», delegato a visitare i 28 luoghi ospiti-invitanti di questo piccolo continente, tra cui l’Italia dove incontreranno in Sardegna il sindaco di Villanovaforru Maurizio Onnis *, per valutare man mano lo sviluppo dell’invasione assieme al gruppo di Coordinamento del Viaje, guidato dal Subcomandante Moises (lo sapevamo, ma è stato lo stesso un gran colpo) nominato dal 2005, l’anno della pubblicazione della Sesta Dichiarazione della Selva Locandona, responsabile degli affari internazionali-intergalattici. «È con la nostra ribellione e resistenza che continuiamo a governare come popolo. Non vogliamo uccidere, non vogliamo morire. Il problema è che non ci danno l’opportunità di fare ciò che pensiamo come donne e uomini. E questo è quello che facciamo da 28 anni, non stiamo sparando, non stiamo uccidendo, né vogliamo morire, vogliamo la vita». La Gira Zapatista è cominciata «grazie al fatto che c’erano dei nostri compagni caduti nella guerra all’alba del 1994, quando siamo usciti a combattere contro il malgoverno». Si è scelto di intraprendere questa impresa perché «sappiamo che ci sono indigeni poveri in altri paesi

Nell’anno 501 dall’inizio della resistenza indigena (che alcune ancora leggono come “l’inizio della dominazione spagnola” in quella geografia chiamata Messico), a quasi un anno dall’annuncio dell’invasione, circa 170 zapatista sono atterrate in Europa. vedi il video youtu.be/Z7TFHgn-TQg

del mondo e anche nelle città. Crediamo che i nostri fratelli di città e di campagna sappiano cos’è lo sfruttamento del capitalismo, ma vediamo cosa ha fatto il capitalismo, ed è il problema della vita e della natura». La natura e il lavoro della terra sono gli elementi centrali dell’intervento del Sup «perché è ciò che ci dà veramente la vita. Per noi zapatisti è urgente fare qualcosa perché i cattivi leader non faranno nulla. Il cambiamento che i poveri nel mondo vogliono è un cambiamento reale, non nel modo in cui lo vogliono i cattivi governanti e i ricchi… Il capitalismo ha portato distruzione con l’estrazione mineraria. I governanti non faranno nulla perché sono complici. Sono loro che acconsentono a compiere la distruzione». Che ogni città, territorio, rete, si organizzi secondo suo modo, anche se il cammino non è tracciato, perché «i nostri compagni caduti ci hanno detto che un giorno avremmo dovuto parlare con i fratelli del mondo, ma non sapevamo che saremmo arrivati a Vienna, ed ora eccoci qui, a Vienna, la capitale dell’Austria. E così andremo in altri posti dove ci inviteranno come ci hanno invitato qui, che sappiamo è stata una grande fatica ma è così per chi vuole combattere».(segue pagina 8)

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Foto dinamopress.it

(segue dalla pagina 7) Senza fretta, ma senza pausa, proseguiranno le fasi organizzative di questo Viaggio che firmando la Declaracion por La Vida di gennaio, abbiamo scelto di sostenere… anche interagendo con ciò che continua ad accadere in Messico e nel mondo, dove prosegue imperterrita la guerra silenziosa, fatta di attacchi e sparizioni a danno delle comunità indigene, delle donne, dell’ambiente. Mentre ieri si è svolta una manifestazione femminista assieme alle compagne zapatiste, indetta dal collettivo Reclaim the Space, contro il femminicidio, in risposta ad un doppio assassinio avvenuto nella stessa Vienna lunedì, parallelamente è di poche ore fa la notizia del sequestro di Sergio e José Antonio, due zapatisti della Giunta del Buon Governo Patria Nueva, Caracol 10 “Floreciendo La Semilla Rebelde”. Dal Messico autonomo e dalla Vienna invasa ci arriva una chiara indicazione: tra il 17 e il 19 settembre tutta Slumil K’ajxemk’op, come è stata ribattezzata l’Europa indomita dal basso e a sinistra, esiga la loro liberazione e domenica pubblichi tra le 19 e le 20 una foto della propria manifestazione con gli hashtag #AparicionConVidaZapatistas #DondeEstaSergio #DondeEstaJose. Settembre 2021, Vienna, Austria, Lapaz Italia

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a Corona de Logu ha incontrato un pezzetto del foltissimo gruppo di zapatisti che in queste settimane gira l’Europa per diffondere la conoscenza dell’esperienza messicana. Per la precisione, abbiamo incontrato sei donne, impegnate in un tour di diversi giorni in Sardegna. Delle molte cose che potrei sottolineare, metto a fuoco questa. L’intero appuntamento è stato introdotto dal loro racconto. Un racconto lungo, circostanziato, memorizzato, nel quale le donne si sono date il cambio, che riprende le vicende dello zapatismo dal “tempo dei nonni” per condurlo al presente. Soprattutto, un racconto orale. Il punto, ovviamente, non è la maggiore o minore precisione degli elementi del racconto. È la sua volontà di modellare un’identità di popolo, sfrondandola del superfluo, conservando l’essenziale, costruendola sulla memoria, tramandandola nel tempo. Per ciò stesso, qualcosa che fonda una mitologia collettiva. La “storia”, fatta in questo modo, si sgancia volutamente dal documento scritto e ripudia la ricostruzione dell’esperto, ma diventa comunque “storia ufficiale”. La loro storia ufficiale, in contrapposizione a quella dello Stato e dei circoli di potere. Il pensiero, naturalmente, corre alla situazione dei sardi. Siamo oggetto di una storia ufficiale che ci è stata cucita addosso. E la nostra “vera” storia? Orale o scritta che sia, quando e come sapremo affermarla davanti al mondo? Maurizio Onnis

https://www.facebook.com/maurizio.onnis.3


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dina Altara nasce e cresce a Sassari in una famiglia borghese. Autodidatta in campo artistico (la sua educazione e quella delle sorelle, non era andata oltre la scuola normale), Altara coltiva sin dall’infanzia una manualità duttile e sensibile, che la porta a preferire ai giocattoli tradizionali la carta ritagliata, i colori, gli scampoli di stoffa, di cui fa materia per piccole e ingegnose invenzioni, figure, oggetti, racconti. La passione spontanea per l’ornamento si intreccia in lei alla predilezione colta per l’artigianato barocco e rococò, per le «buone cose di pessimo gusto» del non lontano

Foto ainnantis

EDINA ALTARA Ottocento, la pratica casalinga del bricolage si accompagna alla dimestichezza con le forme del design contemporaneo. Nel 1917 Edina Altara espone presso la Mostra della Società degli Amici dell’Arte” di Torino, dove ha l’onore di vedere acquistato dal re Vittorio Emanuele III il collage “Nella terra degli intrepidi sardi” (noto anche con il titolo “Jesus salvadelu”), ora al Quirinale. L’inizio promettente si scontra con la realtà difficile dell’essere un’artista donna, durante i primi anni del Novecento. Il mondo dell’arte, all’epoca, è un club per soli uomini e l’incredulità nei confronti del talento di una giovane donna tra-

spare dalle penne dei critici. Raffaello Giolli, che pure è fra i suoi sostenitori, la descrive come una “donna-bambina dall’ingenuità maliziosa dei sui piccoli bambini di carta“. Ancora nel 1917 Edina partecipa alla prima “Mostra sarda al caffè Cova”, un’esposizione importante per tutti gli autori isolani che promuovevano e creavano uno stile “primitivo” sardo in un’ottica nazionale. èì+Il critico Vittorio Pica, in un articolo su Emporium, affida il successo di Edina alla sua giovane età e alla “leggiadria della sua snella personuccia e per la luminosità dei suoi occhi neri“. La tecnica del collage, ufficialmente “nata” nel

1912 da Braque e Picasso, è lo strumento prediletto dell’artista. Fu utilizzata anche dai movimenti e avanguardie quali il Futurismo, il Dadaismo e il Costruttivismo. Edina ne fa un uso personalissimo: le figure della sua infanzia si mescolano con la sua immaginazione dando luogo a lavori fuori dall’ordinario. Il collage, a volte, rimanda a un atto creativo quasi “scultoreo”, come se si potesse parlare di piani di carta sovrapposti. D’altra parte le sue bambole di carta altro non erano che piccole statue con cui giocare. La pittura, invece, è esplorata a partire dagli anni Quaranta. Sceglie i colori a olio e dipinge sui cristalli, sugli specchi e sulla masonite. Il ductus pittorico, pastoso e vibrante, raffigura scene mitologiche, religiose e di filastrocche popolari. Contemporaneamente lavora come illustratrice di riviste femminili e di moda e per pubblicazioni dedicate al mondo dell’infanzia, come Il Giornalino della Domenica. L’inizio della guerra non aiuta l’apertura dell’Atelier di moda di Edina, che nel frattempo inizia una piccola impresa con le sue sorelle, Lavinia e Iride. Le sorelle producono una serie di ceramiche con la tecnica a spolvero. (segue pagina 10)

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Foto ainnantis

(segue dalla pagina 9) Edina Altara, ormai stabilitasi a Milano, collabora con Gio Ponti, sia come illustratrice e scrittrice per le riviste “Bellezza” e “Stile” (per il quale scrisse tre articoli) e sia come artista chiamata a collaborare con i suoi progetti di arrei e interni. Uno fra molti esempi è un cassettone con cristalli di Giò Ponti che è dipinto da Edina Altra, l’opera è inclusa nella IX Triennale di Milano. Battuta all’asta, nel 2019, per una cifra da capogiro. La collaborazione fra lei e Gio Ponti è così felice che l’architetto, nel 1952, le dedica un articolo “Opere d’arte nella ‘casa di fantasia’ e la pittrice cantastorie”, all’interno della rivista Domus. Dopo il trascorso milanese Edina Altara rientra nell’isola. Più tardi toccherà a Maria Lai, artista vicina a Edina, con cui condivideva la lotta artistica in un club per soli uomini. Assiste alla morte di Iride e Lavinia, alle quali era molto legata. Da quel momento inizia un gioco crudele e, come in un sortilegio, l’oblio incanterà la sua mente appropriandosi della sua lucidità. Sarà proprio questo squilibrio che la porterà a cambiare diversi istituti fino al 1983, anno in cui morirà in una casa di riposo a Lanusei. vedi https://issuu.com/ vittorio.e.pisu/docs/sartinostramaggio2020

FIN DE REGNE A N

el giro di poche settimane Elisabetta II non sarà più la regina di Barbados. La piccola nazione caraibica aveva deciso già lo scorso anno, con un referendum, di abolire la monarchia e diventare una repubblica. Ora il cambiamento costituzionale sta per diventare realtà. Nei giorni scorsi gli abitanti dell’isola (meno di 300 mila) hanno eletto per la prima volta un presidente, scegliendo una donna: Sandra Mason, 72 anni, che era già stata la prima donna a servire nella Corte d’Appello dell’isola e ricopriva dal 2018 l’incarico di governatore generale. Manson presterà giuramento il 30 novembre prossimo, nel giorno del 55esimo anniversario dell’indipendenza di Barbados dal Regno Unito. Da quel momento The Queen non avrà più alcun ruolo nell’isola di Rihanna. «È ora di lasciarsi alle spalle il passato coloniale», aveva detto l’anno scorso la prima ministra della piccola nazione caraibica, Mia Mottley, annunciando che da novembre 2021 il paese sarebbe diventato una repubblica. Barbados, colonia inglese fino al 1966, fa parte del Commonwealth, ovvero quei paesi che avevano fatto parte dell’Impero Britannico e che – seppur oggi


indipendenti – hanno mantenuto legami più o meno formali con la corona inglese. Queen Elizabeth, sebbene non sia coinvolta negli affari quotidiani del governo di Barbados, aveva comunque un ruolo istituzionale. E poteva fra l’altro nominare il governatore generale, cioè la persona incaricata di rappresentare la corona britannica a Barbados. Il ruolo è stato in passato assunto anche dal duca di Windsor, cioè quell’Edoardo VIII che abdicò al trono per amore di Wallis Simpson. Fra una manciata di settimane, però, Sua Maestà perderà uno dei suoi gioielli caraibici. E non sarà il primo: era già diventata Repubblica la Guyana nel 1970, seguita da Trinidad e Tobago nel 1976 e dalla Dominica nel 1978. Dell’addio alla corona britannica si discuteva pubblicamente, a Barbados, dal lontano 1998. Per la regina 95enne vedersi soffiare il «posto» da una presidente, dunque, non deve essere uno shock. Tanto più che continua a rimanere capo dello stato di mezza dozzina di ex-colonie britanniche. Ma adesso ci si chiede se anche altri Paesi seguiranno la strada di Barbados: a partire dalla Giamaica. Di smetterla di avere il sovrano di Londra come capo dello Stato parlano con insistenza anche i movimen-

Foto di @slowfood

ALLE BARBADOS

ti repubblicani a Ottawa, Canberra e Wellington. Voci, non confermate, avevano ipotizzato che Elisabetta, avrebbe lasciato spazio al figlio al compimento dei 95 anni. È stato l’ufficio dello stesso principe Carlo a smentire la notizia. «Non c’è nessun cambiamento in programma in base all’età, che siano i 95 anni o altro» hanno confermato all’Huffington Post dai palazzi reali. Nessuna reggenza dunque per l’erede al trono come avevano ipotizzato i tabloid britannici. Un anno e mezzo, per prendere il posto della madre Elisabetta II, sul trono dal 1952. L’avvicendamento era fissato per l’aprile del 2021 al compimento dei 95 anni della regina. Le voci, già circolanti da tempo e partite con la pubblicazione del libro “Charles At Seventy”, si erano intensificate dopo il caso Epstein che ha coinvolto il duca di York, il secondo figlio maschio, e il preferito, di sua maestà. Carlo e il figlio William hanno avuto un ruolo determinante nell’allontanamento del principe Andrea dalla vita pubblica a seguito dello scandalo. Ne è dimostrazione la foto con tutti i rappresentanti dei paesi membri della Nato di un paio di giorni fa. C’era anche Carlo, ma la regina è sempre lei. https://www.vanityfair.it/

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Foto ilfiletdiolimpiamelis

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16 agosto 1616 venne battezzata, nella parrocchia romana di San Lorenzo in Lucina, Plautilla Bricci, terzogenita di Giovanni e Chiara Recupita. Il padre, figlio del materazzaro Giovan Battista, era di origini liguri, mentre la mamma napoletane. Per circa un trentennio Plautilla e la sua famiglia vissero «in strata babuino», dove Giovanni esercitava con successo l’attività di pittore, maestro di musica e commediografo. Plautilla, come pure il fratello minore Basilio, ereditò dal padre la vocazione alla professione artistica, divenendo una delle artiste donne più importanti dell’intera storia dell’arte moderna. Le fonti la ricordano per essere stata «architectura et pictura celebris», accademica di San Luca e per aver esercitato, prima nel mondo occidentale, l’arte maschile dell’architettura. L’importanza del suo ruolo nella Roma del XVII secolo è confermata dai committenti per i quali lavorò, che la decretarono indiscussa protagonista della cultura artistica accanto a personalità come Bernini, Pietro Cortona, Carlo Maratta e molti altri. La famiglia Barberini, il Capitolo Vaticano, la corona di Francia, Elpidio Benedetti, i canonici e le canonichesse lateranensi

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e le monache benedettine di Santa Maria della Concezione in Campo Marzio sono alcune delle figure principali per le quali la Bricci eseguì alcuni dei suoi più rilevanti e significativi lavori. Ad indirizzarla all’arte fu molto probabilmente proprio il padre, Giovanni Bricci, già pittore e scrittore, che ad un certo punto decise di affidare la promettente ragazzina al celebre Giuseppe Cesari, ovvero Il Cavaliere d’Arpino, allora tra i più famosi pittori di Roma. Cesari fu anche il maestro di grandi artisti, quali Guido Reni, Artemisia Gentileschi e Caravaggio. La storia della sua prima opera nota rientra nel cliché di genere. Secondo l’incisore Pietro Bombelli la Madonna con Bambino, dipinta per la chiesa dei carmelitani di Monte Santo a Roma, fu associata a un avvenimento miracoloso. Dopo aver terminato il piccolo Gesù e il busto della Vergine, Plautilla, che Bombelli dice “giovinetta”, non riusciva a lavorare sul volto della Madonna. Stanca e mortificata, pensò di andare a riposare e, una volta sveglia, trovò l’opera completata per mano divina. Tale fu lo stupore e lo smarrimento che la famiglia decise di donare alla nuova chiesa del Carmine l’immagine, che nel 1659 fu coronata dal Capitolo di San Pietro.


LA BRICCI

Nei primi anni Quaranta Plautilla lavorò per Antonio degli Effetti che la cita, insieme a molti altri artisti, nel Discorso sullo Studiolo di pittura nella Galleria della Ricchezza. Per il palazzo romano del famoso umanista e erudito, ben inserito nella corte dei Barberini, l’artista realizza, con la collaborazione di altri, un grande mobile da collezione, o stipo, descritto anche da Giovan Pietro Bellori nella sua Nota delli Musei (1665). Non è ancora chiara la strategia politica che permise alla Bricci il privilegio di poter progettare e realizzare la cappella dedicata a San Luigi IX nella chiesa della nazione francese a Roma. Plautilla veniva chiamata a formalizzare con l’architettura e la pittura una delle pagine più controverse e turbolente della storia contemporanea, rendendo manifesto il ruolo simbolico che essa sosteneva nei rapporti diplomatici tra la corona e il papato. Trionfo di marmi policromi, stucchi dorati, bianchi e colorati, la cappella è un piccolo manifesto della cultura barocca romana, analoga per fasto e creatività alle coeve realizzazioni berniniane o borrominiane, che trova nella pala raffigurante San Luigi tra la Fede e la Storia la gloriosa celebrazione della nazione francese. Il re santo troneggia in primo piano, solleva con la

mano destra lo scettro e regge con la sinistra la Croce; alle sue spalle si assiepano soldati che sventolano la bandiera della corona francese e quella dei crociati. Nella parte superiore, angeli e cherubini offrono la palma del martirio al Princeps Clarissimus et Magnus, il difensore della fede all’epoca dei crociati e novello protettore dell’ortodossia cattolica contro l’avanzata protestante-calvinista. Che la scelta di affidare a Plautilla, una donna, un lavoro fondamentale per la nuova politica filopapale della Francia può giustificarsi solo con l’intervento della sovrana Anna d’Austria, benefattrice e sostenitrice di artiste e della creatività femminile, e desiderosa di continuare nella chiesa romana l’opera di matronato iniziata e promossa da Maria de’ Medici al momento della costruzione della stessa chiesa. Nel 1663 Elpidio Benedetti la incarica di progettare e seguire i lavori della sua villa, che sarebbe sorta sulla Aurelia Antica, subito dopo Porta San Pancrazio. Distrutta nell’assedio del 1849, la villa rappresentava un unicum nell’architettura civile romana. La forma allungata, con i lati minori prospettanti l’uno sull’Aurelia e, l’altro, verso il Vaticano, le fece assumere l’appellativo de Il Vascello, nome che presto passò a definire (segue pagina 14)

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Foto vascello o villa benedetta

(segue dalla pagina 13) anche il toponimo di tutta l’area. Secondo una tradizione letteraria creata dalla stesso Benedetti nel suo libercolo Villa Benedetta, pubblicato con lo pseudonimo di Matteo Mayer nel 1677, l’architetto del complesso sarebbe stato Basilio Bricci. Le guide di Roma del Seicento e Settecento riportano anche, o solo, il nome di Plautilla, accompagnato spesso da attributi di encomio. Un documento conservato all’Archivio di Stato di Roma riporta fedelmente il testo di un’iscrizione fatta incidere in una lastra murata insieme alla posa della prima pietra della villa. Essa riferisce: “JANI TEMPLO/ PROPTER BELLUM INTER QUIRITES ET GALLO / RESERATO / ELPIDIUS ABBAS DE BENEDICTIS ROMANUS/ IN GALLIS DEGENS/ DOMUM IN URBIS JANICULO QUIETI EXTRUXIT/ PLAUTILLA BRICCIA/ ARCHITECTURA ET PICTURA CELEBRIS/ PRIMUM LAPIDEM POSUIT/ ANNO SALUTIS MDCLXIII”, e inconfutabilmente attribuisce la maternità della villa «edificata a similitudine di un vascello sopra uno scoglio» alla Bricci. Esistono sette disegni della pianta e dell’alzato dell’edificio, la cui analisi rivela la suggestione da modelli oltremontani,

Il Vascello

suggeriti e concordati con il committente che amava dilettarsi di architettura. «Plautilla disegnò e costruì Villa Benedetta sul Gianicolo per Elpidio Benedetti. Ma dopo la morte dell’abate, la villa ebbe molti proprietari e perse il nome originario. Nell’Ottocento la chiamavano ormai Villa del Vascello e si era smarrito ogni ricordo del legame con l’architettrice e con Benedetti. Nel corso dell’assedio dei francesi alla Repubblica romana nel 1849, al Vascello si asserragliarono i difensori, giovani volontari venuti da tutta Italia. Il Vascello diventò il simbolo della Resistenza del sogno rivoluzionario, di democrazia e libertà. I francesi lo distrussero a cannonate, un piano dopo l’altro. Alla fine, rimasero un muro e una montagna di macerie. Mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto se la Repubblica romana avesse vinto. Come quello di Plautilla, fu un sogno, ma avrebbe cambiato la storia. Nel romanzo, proprio per la forza simbolica di quell’edificio, ho unito la storia della costruzione della villa e la sua distruzione». (da un’intervista a Melania Mazzucco, autrice del best-seller “L’Architettrice”, Einaudi.)


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Nel 1692 alla morte del fratello Basilio, Plautilla ormai molto anziana e che non si era mai sposata, entrò nel Monastero di Santa Margherita a Trastevere, dove morì il 13 dicembre 1705. Il Libro dei Morti la annota come “Plautilla Signora Romana”. In bilico tra classicismo e barocco, il successo di Plautilla Bricci si può comprendere tenendo in considerazione sia gli stimoli e i modelli culturali che provenivano d’Oltralpe, sia i cambiamenti pedagogici, le mutate condizioni economiche del tempo, nonché la nascita e lo sviluppo di una nuova forma di famiglia. La storia delle donne, delle donne inserite in un ambiente culturale e produttivo, non è, infatti, solo la storia di un’idea da relegare in un settore particolare della storiografia artistica, ma è da ricollegare, in un fittissimo intreccio interdisciplinare, con la storia delle idee politiche, con la storia della famiglia, e della relazione tra i sessi all’interno della famiglia, con l’economia e con la religione. Plautilla ne è un esempio. Seppe muoversi tra la protezione del padre e il sostegno dei suoi committenti; non si sposò e non ebbe figli; visse del suo lavoro, per il quale ebbe anche delle discrete soddisfazioni economiche; creò un modello che, sfortunatamente, gli eventi storici non permisero di sviluppare.

lautilla Bricci condivide con le sue colleghe Artemisia Gentileschi, Virginia da Vezzo, Anna Maria Vaiani, Maddalena Corvina, Giovanna Garzoni, non solo la frequentazione di accademie, ma anche lo svolgersi e lo sviluppo della storia dell’arte. Figlia del pittore, drammaturgo e musicista romano Giovanni Briccio, fu avviata dal padre alla carriera di disegnatrice, pittrice e architetta. Nonostante le poche notizie sulla sua vita, è considerata l’unica donna italiana della sua epoca (e, probabilmente, di tutto l’Occidente) a cui siano attribuite realizzazioni architettoniche. A Roma le sono attribuite Villa del Vascello presso Porta San Pancrazio e la cappella di San Luigi nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Tra le sue opere pittoriche: Madonna con bambino, olio su tela, 163340 circa, Roma, Santa Maria in Montesanto; Presentazione del Sacro Cuore di Gesù al Padre Eterno, tempera su tela, Città del Vaticano, Musei Vaticani; Nascita di San Giovanni Battista, olio su tela, 1675, Poggio Mirteto, chiesa di san Giovanni Battista.

Il Vascello

Melania G. Mazzucco, L’architettrice, Torino, Einaudi, 2019. Sabina Minardi, In giro per Roma con Plautilla, la prima architettrice di L’Espresso, 2 febbraio 2020

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Foto sepulveda

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a leggenda metropolitana narra che in un villaggio dei Paesi Baschi ci fu una bomba che atterrò ma non esplose mai. La bomba è rimasta incastrata nel mezzo della piazza centrale del piccolo villaggio. Gli abitanti del villaggio, sorpresi e spaventati, non osavano spostarlo, né tantomeno disarmarlo. Rimase lì per anni durante il governo di Franco come simbolo di sobrietà. Rappresenta la morte, il potere del regime e la punizione per chiunque si ribelli. Un giorno di primavera, al mattino, Julen si stancò del dettaglio del paesaggio che abbagliava la piazza. Cercò degli attrezzi, chiese aiuto che non trovò, e decise di smontare e rimuovere il manufatto. Per le prime ore ha lavorato da solo, sotto lo sguardo lontano dei suoi concittadini. A mezzogiorno aveva l’aiuto dei suoi amici, perché se devi morire di qualcosa, devi morire con i tuoi amici. A metà pomeriggio tutta la città era in piazza, in attesa e collaborando come meglio potevano. Prima di sera l’avevano smontato, messo su un carro e deciso che l’avrebbero portato nella città vicina, dove si trovava la sede municipale della regione. Ma la parte interessante della storia era quello che hanno trovato all’interno della testata, cioè la punta o testa della bomba; la parte che viaggia sul lato inferiore quando una bomba viene sganciata e tiene il detonatore. Lì, insieme a fili e pezzi di metallo, hanno trovato un foglio

La Bomba inesplosa

Una leggenda per ricordare i lavoratori tedeschi che hanno rischiato la loro vita sabotando le bombe lanciate dagli aerei durante la guerra civile spagnola e lasciando note di incoraggiamento ai repubblicani.

scritto a mano contenente solo poche parole. Pensavano che potesse indicare il luogo in cui era stato fatto, i suoi componenti, o alcune istruzioni per l’uso, ma suscitava comunque la curiosità della gente. Non era chiaramente in basco, spagnolo o inglese. Era apparentemente tedesco. Nel villaggio c’era solo una persona che sapeva decifrare la scrittura: Mirentxu, che da bambina, a causa del lavoro di suo padre, aveva passato alcuni anni ad Amburgo. Mirentxu era naturalmente in piazza. Le è stato chiesto di prendere il giornale. Ci ha messo qualche secondo, non più di mezzo minuto. Ha organizzato le parole nella sua mente, la grammatica, e per rompere la suspense ha detto, guardando tutti i suoi vicini (che allo stesso tempo la guardavano in silenzio): “Salute. Da un lavoratore tedesco che non uccide i lavoratori”. Nessuno si è mosso dalla piazza per le ore successive. Hanno discusso, congetturato e interpretato il manoscritto in mille modi. Infine, prima di mezzanotte, il popolo ha deciso all’unanimità che la bomba non sarebbe andata via, anzi, sarebbe tornata al suo posto. Da quel momento in poi, la bomba nella piazza cominciò a simboleggiare la resistenza, la fine della paura e il potere di un popolo consapevole della classe. Tutto questo come regalo di un operaio tedesco che, nel bel mezzo della dittatura nazista, ha messo in gioco la sua vita, e ha fatto capire che né la paura né il regime potevano fargli uccidere i lavoratori. Andrés Delgado. https://www.facebook.com/DavidEjaTouch


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chille Perilli è stato uno dei protagonisti della scena artistica italiana del dopoguerra. Nato a Roma nel 1927, ha seguito gli sviluppi dell’arte italiana fino alla fine degli anni 50, abbracciando i movimenti che via via si sono succeduti, dall’Astrattismo, all’Informale. All’inizio degli anni sessanta, in coincidenza con un profondo rinnovamento del clima artistico, non solo italiano, che vede nella città di Roma uno dei centri artistici più dinamici, imbocca con decisione la propria strada che percorre senza tentennamenti fino a 16 ottobre scorso, quando si è spento all’età di 94 anni. La sua poetica si fonda sui principi dell’automatismo surrealista, teorizzato nella Parigi degli anni venti ma ancora attuale nell’immediato dopoguerra, che Perilli conosce durante numerosi soggiorni nella capitale francese. Sono anni fervidi di incontri non solo con artisti, ma anche con intellettuali del calibro di Giorgio Manganelli, di Pierre Restany e degli scrittori del gruppo 63, di cui fa parte, tra gli altri, anche Umberto Eco. Secondo i principi del Surrealismo, la ragione deve ritirarsi e lasciar libera espressione all’inconscio. La tela è uno spazio sul quale l’artista lascia fluire liberamente il segno e il colore. Si tratta in sostanza di una scrittura immediata, priva di filtri e di controlli razionali, che prescinde da ogni alfabeto precostituito ma che curiosamente si inscrive in riquadri geometrici di diversi

Si è spento lo scorso 16 ottobre scorso

Achille Perilli uno dei protagonisti della scena artistica italiana del dopoguerra. Nelle angolature di geometrie “parlanti”, il suo è stato un percorso variegato e coerente

colori un po’ come avviene nel linguaggio dei fumetti. Per questo motivo è stata più volte richiamata l’assonanza fra le tele di Perilli e le vignette illustrate, assonanza che si rivela efficace ma superficiale, per il semplice fatto che è del tutto assente – nelle opere di Perilli – la volontà di illustrare qualcosa. Credo anche che uno dei motivi di maggior fascino della sua opera risieda proprio in questo paradosso: da un lato abbiamo un’organizzazione precisa della tela, definita mediante riquadri colorati che richiamano la pagina stampata, dall’altro viene negata ogni precisa finalità linguistica e comunicativa. Anche i titoli contribuiscono non poco a questa ambiguità: Fanno infatti riferimento a fatti e azioni concrete, di cui è difficile scorgere traccia all’interno del quadro. La ricerca di Achille Perilli non è stata solitaria, ma ha trovato un compagno di strada fedele in Gastone Novelli, che ha condiviso molte delle stesse tematiche. Anche se non si è trattato né di un sodalizio stretto come quello tra Picasso e Braque, né tantomeno di un magistero come quello esercitato da De Chirico su Carrà, è indubitabile che il loro cammino si è svolto in parallelo almeno fino al 1968, anno in cui Novelli viene a mancare. È sintomatico che proprio a partire da questo anno anche il linguaggio di Perilli segni una svolta precisa. È l’anno della celebre Biennale di Venezia del 1968, quando entrambi gli artisti, per protestare contro l’irruzione della polizia ai Giardini, (segue pagina 18)

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Fotto verbumpress.it

FRANCESCA ANEDDA NINO ETZI

(segue dalla pagina 17) rivolgono le proprie tele contro la parete in un gesto di aperta polemica. Proprio alla fine degli anni sessanta si inizia ad avvertire un clima diverso, dominato dal rigore minimalista. Perilli abbandona la corsività e la velocità del gesto a favore di un ritorno alla geometria. Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che si tratti di un pentimento tardivo, di una rivincita della ragione. Anche i quadri successivi al 1970, pur essendo costruiti con elementi geometrici, rimangono creazioni libere e fantastiche, sospese come sono nel vuoto. La prospettiva appare applicata in modo volutamente eterodosso, contraddetta dal colore squillante e vivace che ribalta in primo piano i volumi deformando e piegando le fragili scatole prospettiche. Altro che ritorno alla geometria, qui domina il gioco e la fantasia, come d’altra parte nelle creazioni degli anni precedenti. Si potrebbe persino pensare che Perilli voglia dileggiare lo spettatore. Prima delle scritte incomprensibili, coronate da titoli che sembrano degli epigrammi, poi delle prospettive rinascimentali in equilibrio precario, insomma: gioco e ironia, ma sempre in un tono pacato ed elegante, senza estremismi e polemiche: Non sono sicuro che tutta la sua opera, a dire il vero un po’ ripetitiva, possa passare alla storia, ma certo i suoi quadri non smetteranno di rallegrarci, facendo al contempo riflettere. Dietro un’apparente facilità, nascondono un pensiero tutt’altro che banale, sempre che si sia disposti ad ascoltarlo. Matteo Lampertico

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uando parlo con Nino o guardo le sue opere entro in contatto con una Sardegna che affonda le radici lontano, nel profondo di una cultura antica, ma le cui foglie sembrano toccare i cieli di un futuro che sta arrivando ma non è ancora qui. Nella sua casa a Sinnai, paese situato nelle colline sopra Cagliari, faccio sempre (con una scusa o con un’altra) un giro tra le stanze arredate con opere d’arte sue e di altri grandi artisti sardi, per poi scendere nel laboratorio dove gli occhi si riempiono di bellezza e il naso del profumo inebriante del legno di ginepro. Quando si entra a casa di Nino il tempo si ferma e i pensieri e le preoccupazioni della vita restano fuori dal cancello. Tutto si fa gioco, curiosità e incanto. Ci sediamo nel cortile, al fresco degli alberi di limone, e iniziamo a conversare accompagnati da un bicchiere di Vermentino (presentato rigorosamente dentro ad una bottiglia di aceto) e da quelle delizie di un tempo che Nino sa preparare ad arte, come le mandole tostate e salate, la pancia di maiale bollita e condita in foglie di mirto o il gateau di mandorle e miele di montagna. Si parla di arte, di storie di un passato che io non ho conosciuto e di progetti futuri.


Vorrei oggi condividere con voi le nostre chiacchiere che raccontano di un artista e del suo rapporto con la materia. Nino Etzi, classe 1946, scultore autodidatta poco interessato al falso luccichio di gran parte del mondo dell’arte contemporanea, solitario ma aperto all’incontro e allo scambio intellettuale. Le sue opere variano per materiali, colori, idee, linee e soggetti ma la costante che le riunisce tutte credo sia la ricerca della “musicalità della forma”. Come Nino stesso mi spiega, infatti, il suo lavoro artistico si focalizza maggiormente sul trasmettere emozioni e messaggi attraverso l’estetica, mentre il soggetto diventa spesso solamente un pretesto. La linea è sempre essenziale, semplice, come la materia con la quale instaura un dialogo intimo, valorizzandone le caratteristiche naturali come i nodi del legno, le spaccature naturali della pietra, la forma dell’osso, le pieghe della carta. Nino, come hai iniziato ad interessarti alla scultura? Da bambino a Natale non ricevevo regali, per cui mi sono adattato a farmeli da me. Quando avevo 8 o 10 anni ho iniziato, con dei coltellini vecchi e arrugginiti, ad intagliare la corteccia di pino e poi di sughero per realizzare delle piccole maschere.

MAESTRALE Sinistri lamenti passano tra le pietre e i rami scarniti dal maestrale impietoso. Sono i lamenti di una solitudine secolare. Sono le imprecazioni di una voce non ascoltata. Di un essere vinto ma non sottomesso. Oggi escono pure dalle fabbriche abbandonate e dagli scheletri anneriti dai roghi. …e il maestrale, sordo, prosegue imperterrito il suo cammino. Traduzione di Nino Etzi

Quando mi sono stufato ho iniziato a lavorare il legno, molto più duro. Ricordo che la mia prima opera fu il calcio di un fucile, tratto da una doga di botte. Hai studiato scultura o lavorato in qualche bottega? No, sono autodidatta. Ho studiato alle professionali, ma avevo un professore bravissimo di disegno che mi ha insegnato tantissimo, professor Gianeri. Era parente di Enrico Gianeri, noto Gec, caricaturista e vignettista satirico nonché il primo studioso italiano della storia della caricatura e della grafica umoristico-satirica. In seguito ho lavorato come tipografo, facevo il linotipista quindi mi occupavo della composizione dei testi (libri, giornali, riviste) e dell’impaginazione tipografica. Credo che questo lavoro, nonostante fosse poco creativo e con mille limiti, sia stato molto istruttivo, la mia arte ne ha giovato tantissimo. Guardando le opere nel tuo studio si nota un interesse curioso per il riuso. Tutto il materiale che scolpisco e lavoro è di recupero, non soltanto le opere più evidenti, create dall’assemblaggio di oggetti visibili. Le sculture in osso sono ricavate da scarti di macelleria, il legno da tronchi secchi e anche la pietra è per lo più materiale trovato (segue pagina 20)

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(segue dalla pagina 19) gettato in campagna e proveniente dai ruderi delle vecchie case campidanesi distrutte negli anni ’60. Porto a casa quello che trovo, poi al momento buono decido che farne. Non parto da un progetto predefinito in mente, a me interessa la materia per poi elaborarla con comodo.

Foto cagliariartmagazine

Che rapporto hai con la materia? Io ricerco costantemente un dialogo con essa, in particolar modo con il legno che credo sia il più difficile da lavorare. Al legno ho tolto l’anima. Ho scavato cercando di arrivare al suo Io, l’ho spolpato fino all’osso, togliendo tutto il superfluo fino a lasciargli l’indispensabile. È come se scavassi nell’uomo per togliere tutta la futilità e arrivando alla sua essenza. Tra i tipi di legno che lavoro, il ginepro è il peggiore. Il ginepro è una materia selvatica, egoista, che non dialoga con te. Tu devi carpirne i segreti, devi assecondare le sue movenze. Devi scenderci a patti, c’è poco da fare, altrimenti ti imbroglia! Se fai un’azione contro la sua natura, si vendica! Mi è capitato spesso che, a lavoro quasi finito, bastava un colpo di scalpello o di coltello in più perché si rompesse, perdendo così tutta l’opera.

Tra le mie opere preferite, realizzate da Nino Etzi, c’è Maestrale, una scultura in ginepro la cui forma e il profumo mi trasportano in un attimo nelle spiagge sarde del sud Sardegna dove sono cresciuta. Ho deciso quindi di scattarne una foto proprio lì, tra i ginepri secolari, l’elicriso, la sabbia e il mare cristallino e di accompagnarla ad una poesia che lo scultore sinnaese ha dedicato a quel vento che spira forte da nord ovest sulla nostra terra. *Francesca Anedda, storico dell’arte SU MAESTRALI S’intendint chescias chi passant intra mesu is forras e is cambus spruppaus de su maestrali impiedosu. Funti is chescias de una solitudini secolari. Funti is frastimus de una boxi non ascurtàda. De un essiri bintu ma non sottomittiu. Oi ‘ndi ‘essint puru de is fabbricas abbandonadas e de is ischeletrus nieddus de is narbonis. … e su maestrali, surdu, sodigat a sulai. Poesia di Nino Etzi Per vedere le opere e i nuovi progetti di Nino Etzi, seguite i suoi canali social: Facebook – https://www.facebook.com/nino.etzi Instagram – https://www.instagram.com/nino.etzi


Foto wukipedia

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el 1692, un artista conosciuto solo come “A. Boogert” scrisse un libro in olandese sulla miscelazione degli acquerelli. Il principio sembra abbastanza semplice, ma il prodotto finale è quasi insondabile nei suoi dettagli e nella sua portata. Boogert non parlava solo dell’uso dei colori nella pittura, ma spiegava come creare le sfumature, mescolando il colore con l’aggiunta di una, due o tre parti di acqua. Detta così sembra una sciocchezza ma il “Traité des couleurs servant à la peinture à l’eau” “Klaer lightende Spiegel der Verfkonst” con quasi 800 pagine interamente scritte a mano (e dipinte),è probabilmente la più completa guida sui colori mai esistita quel tempo. Completamente scritto a mano e senza i nomi di fantasia (niente Marsala o Radiant Orchids qui!) Secondo lo storico medievale Erik Kwakkel, che ha trovato il manoscritto in una biblioteca in Provenza, in Francia, e che è riuscito a tradurre parte dell’introduzione, il “libro dei colori” è concepito come una guida didattica. “L’ironia è che c’era solo una copia, che probabilmente è stata vista da pochissimi occhi. Mentre questo libro colorato viene presentato per

L’intero libro può essere visto in alta risoluzione qui: https://bibliotheque-numerique.citedulivre-aix.com/ viewer/35315/?offset=#page=108&viewer=picture&o=bookmarks&n=0&q=

la prima volta a un pubblico più ampio (6 maggio 2014) e non ci sono pubblicazioni olandesi dedicate ad esso, da quando ho postato ho scoperto che è conosciuto da almeno un altro studioso olandese. È attualmente in fase di studio e sarà incluso in uno studio di dottorato che sarà completato nel 2015 all’Università di Amsterdam. Mentre è fantastico che blog come The Colossal 1) e Gizmodo (2) lo abbiano raccolto, è importante sapere che non sono stato io a “scoprire” il manoscritto. L’ho semplicemente messo sul podio più grande che merita, attraverso questo blog. È difficile non confrontare queste centinaia di pagine di colori con il suo equivalente contemporaneo, la Pantone Color Guide, pubblicata per la prima volta nel 1963. Il libro è attualmente conservato nella Bibliothèque Méjanes di Aix-en-Provence, Francia”. Erik Kwakkel https://erikkwak k e l . t u m b l r. c o m / post/84254152801 1) https://www.thisiscolossal.com/2014/05/color-book/ 2 https://gizmodo.com/ who-painted-this300-year-old-guidebook-to-every-imagin-1572088939

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Foto wikipedia

lexander Archipenko (1887 Kiev – 1964 New York) può essere considerato a tutti gli effetti uno dei padri della scultura moderna. Il suo ruolo e la sua importanza sono già stati ampiamente riconosciuti e le sue opere sono in tutti i principali musei europei e statunitensi. Eppure, a causa del provincialismo che purtroppo contraddistingue ancora la cultura italiana, i suoi lavori sono ancora poco conosciuti nel nostro paese. Anche per questo motivo ho deciso di dedicare una mostra a questo scultore nativo dell’Ucraina ma naturalizzato in America. Ho voluto non solo far conoscere le sue straordinarie creazioni, ma anche riannodare i fili che lo legano all’Italia, dove ebbe modo di esporre per l’ultima volta nel 1963, prima a Palazzo Barberini a Roma ed in seguito al Centro S.Fedele di Milano. I primi artisti italiani a visitare lo studio di Archipenko a Parigi furono “les Italiens de Paris”, ovvero quegli artisti emigrati nella città francese nei primi anni del XX secolo, ed in particolare Gino Severini ed Alberto Magnelli che come vedremo ebbe un ruolo fondamentale in questa vicenda. Ma anche Boccioni, giunto a Parigi nel 1912, si precipita subito nello

ALEXANDER A

Il collezionista di talento non cavalca il mercato, lo anticipa. L’Italia purtroppo a volte è vittima del suo provincialismo, e si lascia scappare autentiche perle.

studio dello scultore, e le sue opere di poco successive (forme e forze di una bottiglia) lo stanno a testimoniare. Archipenko, come lo scultore italiano, aveva cercato di infondere energia e dinaminsmo nel rigido linguaggio cubista. La sua influenza si riscontra anche nei dipinti coevi di Alberto Magnelli che convince lo zio Alessandro ad acquistare in blocco alcuni dei capolavori dello scultore. Mi riferisco ad opere come Boxers, Medrano I e Carroussel Pierrot che oggi costituiscono il vanto del museo Guggenheim. Non appena arrivate a Firenze, suscitano l’ammirazione di Ardengo Soffi-

ci, Carlo Carrà e Giorgio De Chirico. Maria Elena Versari, che ha curato il catalogo della mostra, ha potuto rindividuare precise corrispondenze fra le creazioni di questi artisti italiani e le sculture di Archipenko acquistate da Magnelli. Anche il manichino concepito da De Chirico durante il soggiorno ferrarese sembra almeno in parte inspirato alle idee dello scultore ucraino, le cui opere vengono esposte anche nel 1914 presso la galleria Sprovieri di Roma. La sua fama raggiunge il suo apice nel 1920, quando gli viene dedicata una sala personale alla Biennale di Venezia. Gli artisti di avanguar-


ARCHIPENKO dia, a cominciare da Depero, Prampolini, Fillia, Mino Rosso, Thayat, rimangono affascinati dall’audacia e dallo sperimentalismo delle sue opere, mentre la critica più tradizionale si scaglia contro le aberrazioni dell’arte moderna. Fra le opere presenti in mostra, spiccano alcune fra le più celebri sculture dell’artista, come il già citato Boxers del 1914 e Figura panneggiata del 1911. Come anche per le sculture di Boccioni, la maggior parte dei bronzi sono successivi alla loro concezione per il semplice fatto che mancavano i mezzi economici per gettare in bronzo i modelli in terracotta. Non per questo sono meno pregiati per musei e collezionisti. Accanto a queste sculture, è possibile seguire il percorso creativo dell’artista grazie ad alcuni pregevoli lavori su carta, che bene esemplificano le sue ricerche, indirizzate verso un profondo rinnovamento della figura umana, interpretata secondo i canoni del cubismo ma animata da una nuova energia. Ma l’aspetto che più sorprende è la capacità di rinnovare la scultura mediante materiali e tecniche completamente nuove. Mi riferisco all’uso del ferro e del vetro, e dell’alluminio – mai prima utilizzato – ed anche l’introduzione del colore nella scultura che tradizionalmente era

monocroma. Fra le opere più interessanti, due altorilievi dipinti, nuova sintesi fra pittura e scultura. Non stupisce che alcune di queste intuizioni siano state fatte proprie dagli artisti italiani che in quegli stessi anni cercano, prima con il Futurismo e poi con la Metafisica, di scrollarsi dalle spalle il peso della tradizione. Archipenko da questo punto di vista costituiva un modello insuperabile, una qualità che possiamo riconoscergli ancora oggi. Matteo Lampertico

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leksandr Porfyrovyč Archypenko (in ucraino: Олександр Порфирович А р х и п е н ко ? , angl. Olexandr Porfyrovych Arkhypenko; Kiev, 30 maggio 1887 – New York, 25 febbraio 1964) è stato uno scultore ucraino. Studia scultura a Kiev e a Mosca; nel 1908 si trasferisce a Parigi. Nel 1914 mette a punto un’originale ricerca artistica, detta “Archipentura”, che combinando insieme lamine colorate di materiali diversi ad un motore elettrico, dà un effetto di movimento alla superficie del quadro. Nel 1921 si trasferisce a Berlino. Nel 1923 si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti. wikipedia

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oci dalla Laguna raccoglie gli scatti che la fotografa Marina Federica Patteri ha dedicato alla Laguna di Santa Gilla, area umida di grande interesse storico e naturalistico del sud della Sardegna. Le fotografie, realizzate in differenti periodi dell’anno, mostrano la peculiare bellezza dell’ambiente lagunare. Un ambiente dagli infiniti colori che mutano nel volgere di pochi istanti e con essi il paesaggio circostante. Non mancano le testimonianze della presenza umana; a partire dalla pesca, espressione di una cultura lagunare le cui origini affondano nella notte dei tempi. Tali elementi, sommandosi, diventano le voci che parlano della Laguna e ne raccontano l’incanto, l’incombente degrado, l’identità. Il volume si caratterizza per la sua doppia natura: da un lato la raccolta fotografica, dall’altro l’articolato dispositivo multimediale che, attraverso di particolari QR-code generati dinamicamente, consente l’accesso on-line a contenuti extra. La consultazione risulterà quindi un’esperienza immersiva e multidimensionale, nella quale le immagini saranno accompagnate da approfondimenti storiografici, notizie, musiche, poesie. vedi il video youtu.be/_8pAg2-_QBg

S VOCI DALLA LAGUNA

Libro fotografico di Marina Federica Patteri testi di Michele Demontis e Maria Francesca Puddu Edizioni Kappabit

econdo appuntamento del ciclo itinerante di esposizioni del progetto fotografico “Voci dalla Laguna”, lungo i Comuni bagnati dalle acque di Santa Gilla. Dopo l’esposizione inaugurale di Cagliari la mostra sarà visitabile gratuitamente a Capoterra, nella Casa Melis, dal 5 al 7 novembre. La mostra sarà aperta venerdì 5 novembre alle ore 17.00, mentre sabato, sempre alla stessa ora, vi sarà la presentazione del volume del volume fotografico “Voci dalla Laguna” ( edizioni Kappabit https://amzn. to/3sWFUKk), a cura della poetessa Carmen Salis. Le immagini di “Voci dalla Laguna”, raccontano il fascino di un luogo senza tempo in costante e precario equilibrio tra bellezza e degrado. Immagine dopo immagine, il visitatore avrà modo di vivere idealmente una giornata sulle rive dalla laguna che inizia alle prime luci dell’alba nell’imboccatura della Scafa per concludersi la notte dinnanzi a un paesaggio suggestivo e al contempo malinconico.>> L’evento e realizzato grazie alla collaborazione tra La Casa di Prometeo, l’Ente Concerti Città d’Iglesias e le Edizioni Kappabit, con il patrocinio dei Comuni di Cagliari, Capoterra ed Elmas. Ingresso gratuito. w w w . f a c e b o o k . c o m / e v e n t s/621027758907766/?ref=newsfeed


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ono stati due anni intensi e complicati nei quali, da fotografa, mi sono dedicata con tutta la dedizione di cui ero capace alla scoperta della Laguna di Santa Gilla. Due anni di attese, contemplazioni, stupori e fortunate intuizioni che solo in piccola parte possono restituire la complessità di questo meraviglioso angolo di mondo incastonato nel sud della Sardegna. Finalmente è arrivato il momento di condividere il risultato fotografico di questo lavoro che tanto ha significato per me. Sono dorgalese di nascita e cagliaritana d’adozione. Attraverso la fotografica amo raccontare luoghi naturali, ambienti urbani, persone sono raccontati me gli elementi poetici in essi presenti. Tra i progetti che ho realizzato vi sono “Approdi Mediterranei”, “Villaggio Pescatori”, “Cagliari, fantastiche realtà” , frutto del mio amore per le suggestioni mediterranee presenti nelle realtà urbane della Sardegna. Per chi ne avesse piacere, i miei lavori sono visionabili nel sito www.marinafederica.com.

rogetto ideato da Marina Federica Patteri per la valorizzazione e la salvaguardia dell’area umida. “Voci dalla Laguna è un progetto multidisciplinare che unisce da un lato l’arte nelle sue innumerevoli declinazioni e dall’altro un tema di grande attualità qual è il tema dell’ambiente e della natura”. Oltre Cagliari, ”Voci della Laguna” toccherà Elmas, Capoterra e Assemini. Le immagini, raccolte nell’arco di due anni da Marina Federica Patteri, descrivono la laguna di Santa Gilla dal punto di vista dell’incanto e della poesia dei suoi paesaggi. Negli scatti l’area lagunare è mostrata da vari punti e in differenti momenti della giornata. Accanto alla narrazione della poesia vi è quella del degrado e dell’antropizzazione incontrollata dell’area. Insomma, “Voci dalla Laguna” rappresenta una vera e propria “narrazione artistica”, ha puntualizzato l’autrice. Obiettivo? “raccontare la bellezza e la poesia di un luogo dimenticato. Allo stesso tempo, appello alla necessità di rilanciare questa straordinaria area umida di 1.300 ettari, situata alle porte di Cagliari che a partire dall’VIII secolo a.c. ha ospitato sulle sue rive insediamenti, porti e città”.comunecagliari.it

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ESSERE UMANE

Foto essereumane

Sezione Prima DOROTHEA LANGE TINA MODOTTI GERDA TARO GISELE FREUND LEE MILLER LISETTE MODEL BERENICE ABBOTT MARGARET BOURKE WHITE EVE ARNOLD INGE MORATH RUTH ORKIN Sezione Seconda CLAUDIA ANDUJAR DIANE ARBUS LETIZIA BATTAGLIA “Essere umane” LISETTA CARMI Le grandi fotografe CARLA CERATI raccontano il mondo GRACIELA ITURBIDE PAOLA MATTIOLI un percorso per SUSAN MEISELAS immagini dedicato alle DAYANITA SINGH grandi fotografe donne Sezione Terza curato da SILVIA CAMPORESI Walter Guadagnini CAO FEI inaugurato ai CRISTINA DE MIDDEL Musei di SHADI GHADIRIAN San Domenico JITKA HANZLOVA a Forlì NANNA HEITMANN e visitabile fino al ANNIE LEIBOVITZ 30 gennaio 2022 ZANELE MUHOLI vedi il video SHOBHA https://youtu.be/ NEWSHA TAVAKOLIAN

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ra le 314 fotografie in mostra, si possono segnalare le leggendarie immagini di Lee Miller nella vasca da bagno di Hitler, la strepitosa serie delle maschere di Inge Morath, realizzata con Saul Steinberg, gli iconici volti dei contadini durante la Grande Depressione di Dorothea Lange, il sorprendente servizio di Eve Arnold su una sfilata di moda ad Harlem negli anni Cinquanta e i rivoluzionari scatti di Annie Leibovitz per una epocale edizione del Calendario Pirelli. Un viaggio per immagini nell’evoluzione del linguaggio fotografico mondiale, con una specifica attenzione allo “sguardo femminile”, a partire dagli anni Trenta del Novecento, quando grazie all’affermazione delle prime riviste illustrate la fotografia è diventata il principale linguaggio della comunicazione contemporanea. In mostra, dunque, sarà possibile seguire questa evoluzione attraverso i grandi reportage di guerra e i cambiamenti dei costumi sociali, la ricostruzione post-bellica e le questioni di genere, l’affermarsi della società dei consumi e l’osservazione del ruolo della donna nei paesi extra-occidentali. L’idea guida è stata, infatti, quella di allestire una mostra senza precedenti in Italia e non solo, dedicata al lavoro delle autrici che, dagli anni ’30 alla contem-


Aperture straordinarie: 24 e 31 dicembre dalle 9.30 alle 13.30. 1° gennaio 2021 dalle 14.30 alle 19. 8, 26 dicembre e 6 gennaio dalle 9.30 alle 19. Prenotazione non obbligatoria L’accesso alla mostra non è soggetto ad obbligo di prenotazione. Prenotazione Gruppi Inviare una mail a prenotazioni.essereumane@gmail.com oppure telefonare dal martedì al venerdì dalle 9:30 alle 13:30 al +39 347 2576108 poraneità, hanno interpretato la fotografia come strumento di indagine e di riflessione, con registri espressivi talvolta poetici, in altri casi più crudi, sui grandi temi che hanno attraversato la società nei diversi segmenti temporali del XX e degli inizi del XXI secolo. La selezione ampia per quantità e qualità di nomi e di opere che è stata operata in questo caso (30 autrici e 314 opere), fa si che “Essere Umane” si candidi ad essere la prima e la più importante in Italia e non solo, come ricognizione di ampio respiro internazionale e di valore storico, artistico e culturale.

Musei San Domenico Piazza Guido da Montefeltro 12 47121 Forlì (FC) Dal 18 Settembre 2021 al 30 Gennaio 2022 Orari della mostra: Da Martedi a Domenica Dalle 9.30 alle 19:00 (La biglietteria chiude 1 ora prima) Chiusura: tutti i lunedì e il 25 dicembre ad eccezione del 1 novembre, 27 dicembre e del 3 gennaio

Visite guidate in libera aggregazione Ogni domenica, fino al termine della mostra, alle ore 16 una guida accompagnerà coloro che lo desiderano attraverso gli scatti delle grandi fotografe che hanno segnato la storia di questa arte. Chi vorrà partecipare dovrà presentarsi in cassa almeno 15 minuti prima dell’orario di visita previsto e, oltre al costo del biglietto al quale ha diritto, dovrà corrispondere 5€ in aggiunta per il servizio di visita guidata in mostra.

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Foto ralphmorse

EINSTEIN & RALPH MORSE

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e questa foto potesse parlare racconterebbe la storia di un giorno di primavera. Era il 18 aprile del 1955, Ralph Morse lavorava per Life e non appena fu informato della morte di Albert Einstein si fiondò a Princeton. Il fotografo arrivò all’obitorio ma, come sempre quando succede qualcosa di grosso, era tutto un brulicare di giornalisti e avventori curiosi. Non potendo farsi largo tra la folla, si diresse all’Institute of Advanced Study, dove lo scienziato aveva il suo studio. Secondo quanto raccontato da Morse a Life non fu difficile entrare: gli bastò offrire una bottiglia di scotch al guardiano dell’istituto, che in cambio chiuse un occhio. Una volta nell’ufficio, Morse scattò alcune foto alla scrivania. Una di queste fu l’unica pubblicata il giorno successivo sulla rivista. Le scartoffie e gli effetti personali di Einstein erano lì, proprio come lo scienziato le aveva lasciate. Dopo l’ufficio Morse si spostò al cimitero, dove però «stavano scavando almeno una ventina di tombe!» ha raccontato a Ben Cosgrove, «allora mi rivolsi a un gruppo di tizi intenti a scavare, offrii loro una bottiglia e chiesi se sapevano

qualche cosa. Uno di loro mi disse che Einstein sarebbe stato cremato di lì a venti minuti a Trenton! Lasciai loro le altre bottiglie di scotch che avevo, saltai in macchina e arrivai a Trenton poco prima della famiglia». Il fotografo riuscì così ad anticipare i movimenti del feretro e a raccogliere scatti tra l’ospedale, il crematorio e la casa di Einstein dove la famiglia e gli amici si raccolsero dopo la cerimonia funebre. Tornò a New York con un’esclusiva incredibile che però non fu mai pubblicata. Hans Albert, il figlio dello scienziato, aveva infatti chiamato in redazione chiedendo che le fotografie di Morse non fossero pubblicate per rispetto della privacy. E così fu. Ralph Morse riuscì a vedere le sue foto pubblicate 59 anni dopo, poco prima di morire. Soltanto nel marzo 2014 infatti Life ha pubblicato una selezione di quelle foto (che potete scorrere nella gallery più in alto). Morse è deceduto a dicembre del 2014 all’età di 97 anni. https://www.focus.it/cultura/storia/le-foto-inedite-del-giorno-della-morte-di-einstein


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alph Theodore Morse (23 ottobre 1917 - 7 dicembre 2014) è stato un fotografo dello staff della rivista Life. Ha fotografato alcune delle immagini più viste della seconda guerra mondiale, del programma spaziale degli Stati Uniti e degli eventi sportivi, ed è stato celebrato per le sue fotografie a esposizione multipla. Il successo di Morse come improvvisatore lo portò ad essere considerato lo specialista in fotografia tecnica della rivista Life. L’ex direttore editoriale George P. Hunt dichiarò che “Se l’attrezzatura di cui aveva bisogno non esisteva, [Morse] la costruiva.” Durante i suoi trent’anni a Life, Morse coprì incarichi che includevano scienza, teatro, mode e notizie sport. Quando fu assunto per la prima volta da Life e inviato a fotografare la seconda guerra mondiale, era il più giovane corrispondente di guerra. Le sue immagini documentarono i teatri pacifico ed europeo della guerra e la ricostruzione post-bellica dell’Europa. Morse fu il fotografo civile alla firma della resa dei tedeschi al generale Dwight Eisenhower. Fu il fotografo senior dello staff all’epoca in cui Life cessò la pubblicazione settimanale.

Morse ha fotografato il programma spaziale della NASA dal suo inizio, un incarico che è durato più a lungo di Life come rivista settimanale. Il 6 novembre 2009 LIFE. com ha presentato una retrospettiva fotografica del Progetto Mercury, il primo programma americano di volo spaziale umano. La maggior parte di questa collezione di foto è accreditata a Morse, in quanto era stato assegnato in esclusiva da Life per coprire il programma spaziale. Nel corso dei primi decenni del programma spaziale, Morse è diventato un insider della NASA, fornendogli un accesso privilegiato che ha contribuito a produrre alcune delle immagini più iconiche dei progetti della NASA. Il 15 luglio 2009, LIFE. com ha pubblicato una galleria fotografica di foto mai viste prima che Morse ha scattato a Buzz Aldrin, Michael Collins e Neil Armstrong nei giorni prima della loro missione Apollo. Nella galleria, Morse parla con Life dell’Apollo 11 e degli astronauti che per primi sbarcarono sulla luna. Morse credeva che le foto prestassero una comprensione unica del mondo in cui viviamo. Il fotografo Jim McNitt, che lavorò con Morse in diversi incarichi per la rivista Time negli anni ‘70, (segue pagina 30)

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Foto ralphmorse

(segue dalla pagina 29) lo descrisse come un estroverso amante del divertimento che era felice di fare da mentore a un aspirante fotoreporter. “Guardare Ralph pianificare i suoi scatti, rispondere ai redattori e trattare con soggetti riluttanti con umorismo fuori mano mi ha insegnato cose che non potevo imparare nelle riviste fotografiche o nei workshop”, ha detto McNitt. L’ex direttore di Life George P. Hunt ha proclamato di Morse: “Se Life potesse permettersi un solo fotografo, dovrebbe essere Ralph Morse.” Ralph Morse aveva radici umili. Nato a Manhattan e cresciuto nella zona del Bronx a New York City, viveva con la madre e la sorella in un appartamento dove il reddito era di 25 dollari a settimana. A quindici anni iniziò a lavorare in un negozio di droga consegnando ordini ogni pomeriggio, e in una soda fountain ogni sera fino alle 23:00, preparando soda e panini per il pubblico. Alla DeWitt Clinton High School, si unì al giornale della scuola e fu uno studente appassionato di giornalismo. Aspirando a diventare cameraman di un cinegiornale, ma non avendo i 1.000 dollari necessari per iscriversi al sindacato, Morse entrò invece gratuitamente al City College di New York e seguì tutte le lezioni of-

ferte di fotografia. Successivamente, Morse cercò le agenzie di fotografia nell’annuario commerciale chiamato Manhattan Redbook. Iniziando da “A”, andò porta a porta visitando tutti gli indirizzi fino ad essere finalmente assunto alla lettera “P” dal Paul Parker Studio. Paul Parker era un fotografo sociale con clienti come l’United Fund e la Croce Rossa, un tipo di fotografia di grande interesse per Morse. Paul Parker aveva una capacità molto affascinante di muovere le luci. Morse rimase con Parker per quasi un anno fino a quando non sentì parlare di un lavoro di sistemazione di luci per George Karger, un banchiere tedesco diventato fotografo che lavorava come freelance attraverso la Pix Publishing, un’agenzia di New York che vendeva immagini in tutto il mondo. Guadagnando 6 dollari a settimana, Morse lavorò con Karger per sei mesi, al che Morse si rese conto di aver imparato tutto ciò che Karger aveva da offrire. Poi si trovò un lavoro da Harper’s Bazaar. Morse rimase da Harper’s solo per un giorno, perché non riusciva a capire come fare foto che non significavano nulla per nessuno al di fuori dell’industria della moda. Essendo qualched’uno che consegnava quotidianamente le foto alla Pix, Morse fu prontamente assunto


per lavorare nella loro camera oscura. Il primo fine settimana come stampatore, Morse passò una giornata con gli amici a Jones Beach a Long Island. Non possedendo una macchina fotografica, Morse prese in prestito una Contax 35mm dal suo amico Cornell Capa, anch’egli stampatore nel laboratorio editoriale della Pix, nonché fratello del fotografo di Life Robert Capa. Sulla spiaggia, Morse si imbatté in un padre che lanciava in aria il suo bambino e lo riacchiapava al volo. Immortalando padre e figlio sulla pellicola, Morse portò immediatamente le immagini a Leon Daniel, l’editore della Pix. Daniel proclamò che la Pix avrebbe potuto vendere la foto quel pomeriggio stesso. Infatti, nel giro di un’ora, Daniel aveva venduto la foto allo Houston Chronicle e poi la vendette a una ventina di altre pubblicazioni nel mondo nel corso della settimana successiva. Morse continuò a lavorare nella camera oscura e a scattare foto ogni fine settimana. Morse attribuisce a Leon Daniel il merito di essere la persona che lo incoraggiò definitivamente a diventare un fotografo professionista, in quanto fu Daniel a esortare Morse a scattare foto e lasciare che Pix le

vendesse, notando che un tale accordo sarebbe stato più redditizio sia dal punto di vista esperienziale che finanziario. Morse si comprò la sua prima attrezzatura fotografica e cominciò a comprare il New York Times ogni giorno per selezionare gli eventi da fotografare, creando immagini che Daniel vendeva immediatamente. Dei tre proprietari della Pix, uno era un socio silenzioso, Alfred Eisenstaedt, un fotografo che aveva lasciato l’Associated Press in Germania per unirsi al nuovo staff della rivista Life a New York City. Eisenstaedt osservò con cura le immagini di Morse mentre incoraggiava Wilson Hicks, il picture editor di Life, a incontrare il giovane esordiente alla Pix. Dopo settimane di assillo da parte di Eisenstaedt, Hicks cedette e chiese di incontrare Morse. Al loro primo incontro, Hicks diede a Morse il suo primo incarico. Per nulla sicuro di come avrebbe fatto a soddisfare le richieste del più importante editore fotografico degli Stati Uniti, Morse superò la sua paura con l’entusiasmo. Tra la sua attrezzatura e quella di Capa, Morse riuscì a coprire la recitazione dello scrittore Thornton Wilder a Broadway nel suo spettacolo Our Town. Il successo di questo incarico (segue pagina 32)

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Foto ralphmorse

(segue dalla pagina 31) gli valse un secondo servizio (catturare su pellicola donne che comprano cappelli per i loro mariti nel seminterrato dei grandi magazzini Gimbels) che si rivelò essere il primo servizio fotografico di Morse pubblicato da Life. Come risultato, Hicks offrì a Morse un contratto per lavorare per Life un giorno alla settimana restando alla Pix, il che equivaleva a circa dieci giorni al mese di lavoro per Life fino all’inizio della seconda guerra mondiale. A 24 anni, Morse era il più giovane corrispondente di guerra quando Life lo assunse a tempo pieno nel 1942 e lo mandò nel teatro del Pacifico della seconda guerra mondiale. Imparò subito che non tutte le sue foto sarebbero finite sulla stampa, dato che il suo primo incarico in guerra si rivelò essere una missione segreta. La copertura di guerra era il massimo dell’addestramento sul lavoro, dovendo imparare sul posto prodezze come la discesa di scale di corda carico sia della temuta da combattimento che dell’ attrezzatura fotografica per accompagnare le truppe dalla nave alla terraferma. Sbarcando con i marines a Guadalcanal, le macchine fotografiche di Morse registrarono il primo attacco anfibio americano nel Pacifico.

Il capitano della USS Vincennes (CA-44), la nave della Marina su cui Morse era arrivato, fece in modo che il suo film venisse consegnato a Washington D.C., poiché tali immagini dovevano essere controllate prima di essere stampate. Sfortunatamente la Vincennes fu silurata quella notte nella battaglia dell’isola di Savo. Il film e l’attrezzatura di Morse affondarono con la nave, mentre lui nuotò per tutta la notte in mezzo ai cacciatorpedinieri che lanciavano bombe di profondità sui sottomarini, spaventando fortunatamente gli squali e i barracuda. Senza macchine fotografiche né vestiti, Morse fece un patto segreto con il comando navale per tornare brevemente a Life a New York per riattrezzarsi, ma gli fu imposto di non raccontare nessun dettaglio della battaglia navale, nessuna spiegazione di come avesse perso la sua attrezzatura. A sua insaputa, fu seguito dall’intelligence della Marina per confermare che aveva mantenuto la sua parola. A Guadalcanal cresceva una giungla così fitta che accompagnare il movimento notturno delle truppe era rischioso se si perdeva di vista il piede del soldato che stavate seguendo. Durante una pattuglia diurna, Morse si imbatté in un


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carro armato giapponese bruciato in una radura con un teschio e un elmetto sul parafango. La rivista Life e i giornali di tutto il paese pubblicarono la foto di Morse; risultò essere la prima foto horror rilasciata dalla censura della seconda guerra mondiale. Morse lasciò il Pacifico non solo con un impiego come fotografo da parte del Segretario della Marina degli Stati Uniti, ma anche afflitto dalla malaria. Dopo essere guarito in un ospedale di New York City, fu riassegnato a fotografare l’esercito del generale George Patton che attraversava la Francia. Fece la storia più completa possibile di un soldato ferito, obbligando il chirurgo generale dell’esercito a certificarlo anche lui come ferito, in modo da conoscere tutti i mezzi di trasporto, le stazioni di primo soccorso e gli ospedali come il suo commilitone. Perlustrando il campo di battaglia tra i bombardamenti dell’artiglieria, vide un infermiere mentre veniva colpito a entrambe le braccia. Morse fu testimone di tutti gli interventi chirurgici, gli diede da mangiare ed andò fino a versare la penicillina sulle sue ferite. Le foto di questo soldato sofferente e delle sue braccia ingessate, considerate un modello di fotogiornalismo efficace, sono le immagini comununemente usate per descrivere i feriti della seconda guerra mondiale.

Morse fu testimone dell’invasione in Normandia, dei raid aerei a Verdun, della parata del generale Charles de Gaulle a Parigi e del processo di Hermann Göring a Norimberga. Accompagnò un francese, sia in treno che in autostop, dal campo di concentramento tedesco dove era stato imprigionato, fino alla tavola con i membri della sua famiglia da cui era stato allontanato per quattro anni. Fu il fotoreporter civile presente alla firma della resa dei tedeschi a Reims. Un decennio dopo aver fotografato la ricostruzione post-bellica dell’Europa, Morse ricevette il suo prossimo singolare incarico: documentare i preparativi americani per esplorare lo spazio esterno. Parlò con i redattori scientifici e gestionali di Life, raccomandando che un reporter e un fotografo andassero ovunque e facessero tutto ciò in cui gli astronauti erano impegnati. I redattori scelsero Morse per il lavoro, dando il via a un incarico trentennale e a un’amicizia che durò tutta la vita tra Morse, gli astronauti e le loro famiglie. Dopo anni passati a seguire gli astronauti mentre si allenavano (volando in assenza di peso, immergendosi sott’acqua, studiando le rocce, sopravvivendo all’attreversamento di deserti e giungle)(seguepagina 34)

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Foto ralphmorse

(segue dalla pagina 33) Morse fu definito dall’astronauta della capsula Mercury, John Glenn come l’ottavo astronauta. La fotografia convenzionale era sufficiente all’inizio della copertura del programma spaziale da parte di Morse, che iniziò come un’introduzione ai lettori di Life degli astronauti stessi e delle loro famiglie; tuttavia, man mano che il programma cresceva in complessità dal Progetto Mercury a Gemini all’Apollo, Morse doveva escogitare nuovi modi per catturare soggetti mai fotografati prima. Illustrò soggetti che nessuno aveva mai visto. Studiò per raccogliere le conoscenze necessarie alfine di realizzare la fotografia desiderata. Inventò le sue tecniche immagine per immaginie per il lancio di un razzo. Fotografava con doppie esposizioni, scattava con fotocamere a infrarossi, si affidava a rilevatori di movimento. Poiché fotografava con telecamere a distanza, i risultati erano drammatici perché le telecamere erano vicine ai razzi. Posizionò un uomo di un metro e ottanta accanto a un missile di trentasette piani per mostrarne la scala. L’attrezzatura che Morse utilizzò per mostrare il programma spaziale gli servì anche per altri suoi incarichi. Quando fotografò i Brooklyn Dodgers nelle

World Series del 1955, portò allo stadio una macchina fotografica che aveva utilizzato per il seguire un missile. Avvertendo Jackie Robinson che avrebbe cercato di cogliere il lancio, Morse attrezzò la macchina fotografica con un interruttore a pedale impostato per sparare cento piedi di pellicola a dieci fotogrammi al secondo. Con la sua telecamera a mano puntata sull’outfield, Morse azionò il pulsante a pedale non appena sentì l’energia svilupparsi tra Robinson e il lanciatore. Quando Robinson fece il suo dash, la telecamera di Morse era già in funzione. Anni prima, la foto di Nat Fein, vincitrice del premio Pulitzer, che immortalava la schiena di Babe Ruth, Morse inginocchiato, fotografava Ruth diffronte. Mentre si rivolgeva al pubblico, visibilmente indebolito dal cancro, Ruth si appoggiava alla sua mazza come una stampella. Morse scelse di illustrare l’umore cupo dell’addio dell’eroe morente utilizzando la pellicola a colori, nonostante fosse nuova e ancora lenta nella riproduzione. L’inquadratura degli occhi abbattuti di Ruth, con gli spalti dei tifosi sullo sfondo, fu realizzata con toni di colore smorzati.


Quando Morse fu incaricato di produrre una foto che mostrasse in un’unica immagine il 715° home run di Hank Aaron, lui e il collega fotografo di Life, Henry Groskinsky, progettarono un’esposizione multipla del lancio, insieme a Aaron che batteva il fuoricampo, toccava ogni base e si congratulava con i suoi compagni di squadra nel dugout. Per realizzare questa fotografia, usarono un banco ottico 4 X 5 con strisce di carta nera montate su un vetro davanti all’obiettivo. Man mano che Aaron si avvicinava a ciascuno dei luoghi da fotografare, una sezione della copertura nera veniva sollevata dal vetro, permettendo di effettuare un’esposizione. Tecnicamente simile, nel coprire la corsa dei cento metri al Madison Square Garden di New York, Morse voleva mettere la partenza, la metà e l’arrivo della corsa nella stessa immagine. Riuscì a piazzare dei cavi sotto la pista, ma non c’era posto per collocare le telecamere. Morse fece costruire una scatola sospesa sotto il balcone in cui montò la sua attrezzatura. Il suo assistente fece scattare le luci agli intervalli richiesti, e Morse realizzò la fotografia. Morse documentò anche delle scoperte nel campo della medicina.

Morse ha vinto trenta premi per la sua fotografia. Ha ricevuto nel 1995 il Joseph A. Sprague Memorial Award. Secondo la National Press Photographers Association, questo premio è il più alto onore nel campo del fotogiornalismo. Morse è stato il destinatario del 2010 Briton Hadden Life-Time Achievement Award per le sue fotografie della seconda guerra mondiale

In risposta al decreto del Surgeon General degli Stati Uniti che specificava che il fumo causava il cancro ai polmoni, Morse ottenne di conoscere, dall’American Cancer Society, il numero esatto di sigarette giornaliere che provocano il cancro. Morse posò i mozziconi fumati su una lastra di vetro e scattò una foto. Poi sovrappose sulla stessa lastra fotografica una modella che si stagliava contro lo sfondo nero, soffiando il fumo dalla bocca. Proprio come con gli astronauti, le amicizie con i medici che fotografava aprì a Morse porte che sarebbero state chiuse ad altri. Per illustrare un articolo sullo scisma tra due cardiochirurghi di Houston, i dottori Michael DeBakey e Denton Cooley, Morse fotografò ciascuno di loro da solo contro lo stesso sfondo scuro, presumibilmente sconosciuto all’altro, sullo stesso fotogramma della pellicola. La doppia esposizione dei medici in duello schiena contro schiena divenne una copertina della rivista Life. In precedenza, quando fotografò per la prima volta il dottor Cooley mentre trapiantava cuori umani, Morse chiese se qualcuno avesse mai visto il suo stesso cuore. Morse trovò il cuore di un paziente recentemente rimosso e fotografò l’uomo che vedeva il proprio cuore. (segue pagina 36)

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MARINA ABRAMOVIC RHYTHM 0

Foto thevision

(segue dalla pagina 35) La sua precedente esperienza con il dottor DeBakey avvenne quando il bisogno di trapianti superò il numero di cuori di cadavere disponibili. Quando DeBakey stava per mettere per la prima volta un ventricolo sinistro artificiale nella cavità toracica di un uomo morente, Morse chiese di essere presente. DeBakey spiegò che l’American Medical Association non avrebbe permesso la presenza di un estraneo in sala operatoria. La fotografia fu fatta quando DeBakey assunse Morse come membro temporaneo dello staff dell’ospedale per un dollaro. Nell’accordo, DeBakey ottenne la proprietà delle foto, e Life ebbe il diritto di pubblicarle. Morse e la defunta Ruth Zizmor Morse vissero a Parigi dopo la seconda guerra mondiale. In seguito si stabilirono nel nord del New Jersey, dove crebbero i loro tre figli, Alan, Bob e Don, dato che il lavoro di Morse aveva come base il Time-Life Building di New York City. Morse si ritirò nel sud della Florida dove gli piaceva andare in barca a vela, passare il tempo con la sua compagna Barbara Ohlstein, i suoi sei nipoti e i suoi quattro pronipoti. È morto il 7 dicembre 2014 a Delray Beach, in Florida. wikipedia.org

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ella seconda metà del Novecento, alcuni psicologi e sociologi realizzarono esperimenti volti a dimostrare quanto l’uomo fosse naturalmente predisposto a compiere atti crudeli sui propri simili in condizioni favorevoli e quanto il sentimento di compassione fosse più debole del sadismo e della crudeltà fisica e psicologica. Nel 1971, lo psicologo statunitense Philip Zimbardo dimostrò, con un esperimento divenuto famoso, che l’individuo, messo nelle condizioni di poter prevaricare l’altro, non esita a farlo e si rende responsabile di azioni anche molto violente. Circa un decennio prima, un altro psicologo statunitense, Stanley Milgram, dimostrò come l’uomo fosse capace di infierire crudelmente su qualcuno solo al fine di obbedire all’ordine di una figura autoritaria. Negli anni Settanta, però, non fu solo la psicologia a indagare il rapporto dell’uomo con la violenza. Anche l’arte, con le sue potenzialità espressive e un uso del corpo e dello spazio innovativi e provocatori, ha permesso di scavare nei recessi umani per coglierne le miserie celate e quella che sembra essere una spontanea predisposizione alla prevaricazione. In particolar modo Marina Abramović, artista serba naturalizzata statunitense, è giunta a risultati sconvolgenti, che l’hanno consacrata regina assoluta della perfor-


ming art. Nel 1974, nella galleria studio Morra a Napoli, Marina Abramović mise a rischio la propria incolumità per dar vita a una performance che si trasformò in un vero e proprio esperimento sociologico, volto a dimostrare il livello di spietatezza che l’essere umano è in grado di raggiungere nei confronti dei propri simili, laddove abbia la possibilità di infierire impunemente. La performance fu allestita così: Abramović si posizionò immobile al centro di una sala della galleria – come fosse un manichino – e mantenne questa stessa posizione per sei ore consecutive. Accanto a sé, in sala, l’artista aveva predisposto 72 oggetti diversi, tra i quali molti oggetti finalizzati a procurare piacere psicologico e sensoriale come fiori, piume, acqua, pane, un profumo, una rosa, e del miele. D’altro canto, furono inseriti tra questi oggetti anche strumenti capaci di procurare dolore, e potenzialmente pericolosi e letali; tra questi spiccavano un coltello da cucina, un coltello tascabile, una sega, uno scalpello, delle catene, un’ascia e perfino una pistola con proiettili. Nella sala in cui si svolse la performance, Marina Abramović aveva apposto un cartello con le istruzioni che i partecipanti avrebbero dovuto seguire.

COME UNA PERFORMANCE DI MARINA ABRAMOVIC DIMOSTRÒ CHE L’ESSERE UMANO È PER NATURA CRUDELE E VIOLENTO GIULIA DI BELLA https://thevision. com/cultura/ marina-abramovic-rhythm-0/

Il cartello recitava: “Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate. Io sono l’oggetto. Mi assumo completamente la responsabilità di quello che faccio. Durata: 6 ore, dalle 20:00 alle 2:00”. Abramović mise il pubblico nelle condizioni di sentirsi libero di agire su di lei nella massima libertà, di utilizzarla come un oggetto senza timore delle conseguenze (non solo etiche o morali, ma anche penali) che un comportamento violento o abusante avrebbe comportato. L’artista sacrificò sé stessa e il proprio corpo per alcune ore, accettando qualunque cosa le venisse fatta affinché l’esperimento andasse a buon fine. Il mezzo artistico divenne quindi strumento di osservazione scientifica del comportamento dell’uomo di fronte alla reificazione di un altro individuo (una donna, in questo caso). In quella circostanza, Abramović dichiarò che il pubblico avrebbe potuto anche decidere di ucciderla e lei avrebbe comunque accettato inerme l’esito della performance che si rivelò sconvolgente. Durante le prime ore dell’esperimento il pubblico non assunse comportamenti crudeli, ma si mostrò al contrario esitante di fronte al corpo immobile(seguepag.38)

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Foto wikipedia

(segue dalla pagina 37) di Abramović. Alcuni si avvicinarono all’artista per osservarla, altri iniziarono a farle delle carezze a mani nude, altri ancora la sfiorarono con una piuma e presero a farle il solletico. Poi la situazione degenerò e ai danni della performer serba furono perpetrati atti di estrema violenza e crudeltà inaudita. “Inizialmente erano pacifici e timidi”, avrebbe raccontato Abramović, “ma rapidamente è iniziata un’escalation di violenza”. Quando si capì che Abramović non avrebbe davvero reagito ad alcuna azione lesiva nei suoi confronti, ma che sarebbe rimasta inerme subendo qualunque vessazione, il pubblico iniziò a mostrare la sua inclinazione ad assumere comportamenti sadici. Alcuni presero a tagliarle tutti i vestiti che aveva indosso e la lasciarono completamente nuda, altri la spinsero, la trasportarono da un luogo all’altro della sala procurandole vistosi tagli sulla pelle. Più il tempo passava, più le azioni si facevano gratuitamente crudeli: qualcuno le conficcò le spine della rosa nella carne, qualcuno succhiò il sangue dalle sue ferite, altri assistevano passivamente mentre il volto dell’artista si rigava di lacrime. Ma il pubblico fu capace di compiere anche abusi sessuali: Abramović fu

legata e palpata da uomini che sfogarono sul suo corpo i propri impulsi sessuali. L’apice della spietatezza si raggiunse quando qualcuno mise in mano all’artista una pistola carica e gliela puntò contro la gola; fu in quell’istante che, di fronte al pericolo concreto che Abramović perdesse la vita, il gallerista si avventò sulla scena, prese la pistola e la lanciò fuori dalla finestra. Allo scadere delle sei ore venne annunciato che la performance era conclusa. In quel preciso istante Marina Abramović, ormai devastata nel corpo e nella mente, non solo gravemente ferita ma anche mortificata dagli abusi subiti, prese a camminare per tutta la sala andando incontro al pubblico. E mentre incedeva verso i propri aguzzini, coloro che le avevano procurato un male fisico e psicologico del tutto gratuito reagirono in un modo che dimostrò tutta la viltà e la pochezza umana, incapace di assumersi le proprie responsabilità. Alla vista di Abramović che “prendeva vita”, che da oggetto tornava essere umano, il pubblico arretrò spaventato, si mise quasi in fuga, evitò in tutti i modi di incrociare lo sguardo dell’artista o di avere un contatto ravvicinato con lei. Nessuno ebbe il coraggio di guardare negli occhi se-


renamente la donna che, poco prima, era stata vittima di abusi e azioni altamente crudeli, perpetrate nella consapevolezza dell’impunità. A questo proposito, la stessa Abramović dichiarò: “Quello che ho imparato è che se ti affidi e ti abbandoni al pubblico, può arrivare a ucciderti. Mi sono sentita davvero violata, si è creata un’atmosfera aggressiva. Dopo sei ore, come pianificato, mi alzai e iniziai a camminare verso la gente. Tutti scapparono via per sfuggire il confronto vero e proprio. È stata la pièce più pesante che abbia mai fatto, perché ero totalmente fuori controllo”. Alla stregua di un esperimento sociologico, la performance realizzata da Marina Abramović dimostrò un dato inquietante, ossia che l’uomo è portato ad accanirsi con una violenza inaudita e illimitata su chiunque si trovi in una posizione di subalternità. In quella circostanza l’artista, una delle più provocatrici e anticonformiste del nostro secolo, rischiò la vita per mostrare come chiunque possa rendersi artefice di abusi e atti di prevaricazione, nei confronti di chi sembra più debole o incapace di difendersi. Inoltre, Abramović ebbe modo di dimostrare anche la codardia dell’uomo e la vergogna che questo prova di fronte ai propri comportamenti vessatori, sadici e abusanti; l’individuo è naturalmente predisposto a

https://thevision. com/cultura/ marina-abramovic-rhythm-0/

trattare gli altri come oggetti se ne ha l’occasione, ma poi non ha il coraggio di incrociare lo sguardo della propria vittima, di guardare gli effetti del male che lui stesso ha compiuto. La performance rientrò in una serie di sei esperimenti del 1974, volti a indagare il rapporto e le tensioni tra il concetto di abbandono e quello di controllo nell’ambito delle relazioni umane. Abramović, che nel corso della sua ricerca artistica si è sempre spinta oltre il limite del politicamente corretto, nel caso di “Rhythm 0” (questo il nome della performance alla galleria Studio Morra) ha davvero sconvolto il mondo intero, sia per i rischi a cui si è esposta, sia per i risultati ottenuti. Abramović ha usato il mezzo artistico per entrare in contatto con la parte più autentica e insidiosa dell’animo umano; nel farlo non ha utilizzato filtri e non si è posta limiti ma, come nel 1974, ha spogliato l’individuo di tutti i suoi orpelli e delle sue maschere, mettendolo di fronte a uno specchio invisibile e rivelando la crudeltà che lui stesso si rifiuta di vedere. Per questo motivo e per le nuove consapevolezze che ci ha aiutato a sviluppare, quella di Marina Abramović è ad oggi uno degli esempi di arte contemporanea capace di raccontare al meglio non solo chi siamo, ma chi ci vergogniamo di essere.

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T

ra i boschi di Cold Spring, lungo l’Hudson a un’ora da New York, sorge un semplice edificio, una ex fabbrica candida con una ala di cemento nello stile brutalista. Si chiama Magazzino Italian Art, é il traguardo di un percorso di arte, condivisione e amore. Queste tre semplici parole, ma con rilevanti significati, ci possono guidare nella storia che ha portato Giorgio Spanu e sua moglie Nancy Olnick a realizzare un luogo unico che promuove l’arte, la cultura e la lingua italiana nella Grande Mela. «Sono nato a Iglesias per la precisione a Masua, proprio sotto il Pan di Zucchero» racconta Giorgio Spanu, con il nitido italiano dell’accento isolano che non si è disciolto nelle strade del mondo che ha percorso. «Ho lasciato la Sardegna negli anni ’70. Certo il mondo delle miniere del Sulcis non poteva offrirmi quello che desideravo, anche se, come per tutti i sardi, l’isola è sempre nel mio cuore e mi sento profondamente sardo. Tra le cose della mia collezione un posto speciale lo hanno i cestini che mia madre intrecciava. Una costante presenza delle mie radici. Aggiungo che leggo ogni giorno La Nuova Sardegna sul web, dalla prima all’ultima pagina, so tutto sull’isola. Così scegliendo altre opportunità, dopo la laurea in ve-

COLLEZIONE O terinaria, professione che non ho mai praticato, sono arrivato in Francia, dove ho lavorato nel marketing e nella comunicazione visiva per aziende importanti». Sono gli anni in cui la Francia investe nelle immagini digitali unica in Europa a fare concorrenza agli Usa. Questo aggiunge un particolare al ritratto dell’imprenditore: il segno dell’innovazione, della comprensione dell’attualità, l’atteggiamento creativo che spesso accomuna l’arte del fare alla creazione artistica. E aggiunge una quarta parola come segnale del tragitto: profezia. «Certo, io sono profondamente convinto che gli artisti abbiano la capacità di cogliere prima degli altri i mutamenti. Magari sono particolari che possono apparire marginali, ma che si rivelano in seguito essenziali. Come imprenditore è la mia filosofia: curiosità e creatività, per questo all’epoca acquistai uno dei primissimi pc dell’Ibm. È per questo che ci occupiamo di arte contemporanea, siamo interessati allo sviluppo lineare delle idee, alla comprensione del domani attraverso il gesto artistico. Comunque volevo percorrere altre strade, ero giovane, vendetti l’azienda, feci qualche soldino e arrivai negli Usa. Dove avvenne la svolta più importante della mia vita: conobbi Nancy».


Le informazioni carpite agli amici, raccontano che Giorgio non conosceva Nancy ma che un’amica comune insistè per farli incontrare. Nancy si presentò a cena nella sua casa di New York con una bottiglia di un grande vino italiano: Ruché dì Scarpa. «Nancy è un’americana innamorata dell’Italia, di cui ama e conosce profondamente l’arte e la cultura e parla molto bene l’italiano. Proprio in questi giorni festeggiamo l’anniversario, era il 2 di ottobre di 29 anni fa, ricorda Giorgio Spanu. Eravamo trentenni con delusioni alle spalle e tanta voglia di ricominciare in un modo migliore. Tutto il mio percorso è legato a questo incontro. É stato il momento in cui ho scoperto l’amore, ti confesso che non abbiamo mai comprato un’opera, un oggetto da soli. Ogni cosa è il frutto germogliato da quella sera. Nancy ama il design italiano e ha un occhio straordinario. Si andava da nella galleria Fifty/50 per scovare pezzi di Gio Ponti, Tobia Scarpa, Guido Gambone. La svolta avvenne su un volo che ci portava in Italia, sul magazine Ulisse trovammo un articolo che parlava dei vetri di Murano. Da lì cominciò la nostra collezione ma inizio anche tutta una serie di eventi, conoscenze e amicizie che

Foto olnickspanu

OLNICK SPANU

ci portò fino a Magazzino Italia». La collezione Olnick Spanu di Vetri di Murano è stata protagonista di diverse esposizioni e confermata come una delle più interessanti del mondo, un corto di Anton Giulio e Siretta Onofri con le musiche di Ludovico Einaudi la racconta. Collezionare significa cercare, trovare e incontrare. «I nostri viaggi alla ricerca di mobili e vetri ci portarono a passare diverse estati a Venezia. Con parecchio dispiacere dei nostri tre figli, che si annoiavano parecchio. Pensavano che il Lido fosse l’unica spiaggia italiana, ricorda sorridendo Giorgio Spanu. Ma ci fecero incontrare Sauro Bocchi, un gallerista che ci guidò nel mondo dell’arte contemporanea italiana. Con lui cominciò l’avventura al Castello di Rivoli di Torino. Fummo stregati dalle opere di Jannis Kounellis e Michelangelo Pistoletto e dagli altri esponenti dell’ “Arte povera” degli anni Sessanta. Alcune di quelle opere adesso fanno parte della collezione di Magazzino Italia, come gli “Stracci italiani” di Pistoletto o “Amore e Pische” di Giulio Paolini, e poi “Mappa” di Alighiero Boetti». In questa instancabile ricerca saltano fuori gli incontri. L’architetto Gae Aulenti, (segue pagina 42)

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Foto olnickspanu

(segue dalla pagina 41) i designer e grafici Massimo e Lella Vignelli. «Massimo e Lella partecipavano ai barbecue che organizzavamo nella semplice casa di legno di Spring. Un giorno ci dissero: “questo posto è magnifico, dovete costruire qui la vostra casa”, così ci fece vedere un libro sull’opera di Alberto Campo Baeza. L’architetto spagnolo maestro della purezza stilistica, fu nostro ospite e con i nastri che usavano i giardinieri cominciò sul prato a tracciare la pianta della nostra futura casa. Dopo poco arrivò il progetto, era semplice e bellissimo, una casa di cristallo inadatta però a conservare una collezione d’arte». L’idea è ancora nell’aria, stabile ma non concreta. «L’impulso arriva dall’artista Giorgio Vigna, racconta Giorgio. Per l’anniversario avevo regalato a Nancy una preziosa perla nera di Tahiti, era bellissima, un vero peccato incastonarla. Fino a quando ci imbattemmo nelle opere di Vigna, tra cui una piccola gabbia che conteneva una pietra preziosa, ecco la soluzione!». Così anche Giorgio Vigna entra a far parte della creativa cerchia di amicizie. «Esatto fu nostro ospite nella casa di legno, mentre andava avanti il cantiere della nuova abitazione.

Rimase bloccato con la moglie per un black out e cominciò a esplorare la proprietà di 27 ettari imbattendosi in un grande serbatoio di cemento abbandonato che avevo fatto ricoprire per sicurezza, “è un basamento ideale per una scultura, ne voglio realizzare una”. Detto così sembrava un po’ azzardato, ma decidemmo di farlo. Tornò in Italia e dopo poco arrivò la scultura. Ecco quello fu il momento in cui nacque l’idea di arte site specific nel nostro parco». Dall’arte in giardino all’idea della galleria sotto casa. «L’idea c’era, la collezione cresceva e la meravigliosa casa progettata da Campo Baeza era uno spazio aperto sul parco, tante vetrate e poche pareti. Però costruire una galleria, un museo qui nel nostro terreno era troppo complicato. Convenimmo con i vicini di casa che il traffico i parcheggi avrebbero infranto la tranquillità del quartiere. E ci mettemmo a cercare. Quello che trovammo poco distante dalla casa era una ex fabbrica dove si costruivano i pc per l’esercito. Ma fu anche uno dei primi centri di raccolta degli agricoltori della zona. Aveva una storia e sembrava l’ideale, c’era lo spazio e il parcheggio e affidammo il progetto a un giovane


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assistente di Campo Baeza: Miguel Quismondo». La collezione trova casa, ma trova anche il suo senso, perché spesso l’arte viene intesa come investimento, chiusa nei forzieri o, anche, ostentata come certificazione di potenza finanziaria. Qui c’è l’altra, magica, parola: condivisione. «Fin dai primi giorni il progetto prese la forma che speravamo, prima di tutto architettonica perché assecondare il progetto visionario di Miguel ha creato un’opera riconosciuta come funzionale e bellissima. A pochi giorni dall’inaugurazione ci chiedemmo: Verrà qualcuno? Arrivò tantissima gente, 2000 persone, tanti giovani e il numero è sempre cresciuto. Posso dire che l’obiettivo di Magazzino Italian Art è stato raggiunto. Far conoscere l’arte italiana di oggi, l’Italia non è solo Rinascimento e Barocco, come sostiene Vittorio Calabrese direttore del museo che ha creato lo staff di 15 persone che cura Magazzino. Oggi possiamo annunciare l’ampliamento col nuovo padiglione». Sin dall’apertura nel 2017 Magazzino ha commissionato nuove opere agli artisti inoltre, organizza un festival cinematografico e di arti performative. Stefania Vatieri https://www.lanuovasardegna.it/

rano delle piccole abitazioni costruite direttamente sulla sabbia della spiaggia, che servivano da ricovero per i pescatori e i loro attrezzi da lavoro. La loro origine è antichissima, infatti queste costruzioni per molti aspetti sono simili alle capanne che costituivano il villaggio intorno al nuraghe. D’altra parte nella Penisola del Sinis, l’uomo si è insediato prestissimo, fin dal neolitico, lo testimoniano le tombe ipogeiche del villaggio di Cuccuru is Arrius. Sebbene la gente del posto le chiamasse “Is barraccas”, le capanne di falasco erano tutt’altro che baracche. Erano solide e interamente biodegradabili. La pianta rettangolare, la struttura retta da 4 grandi pali verticali che affondavano per un metro e mezzo nella sabbia, e altrettanti orizzontali, il tetto spiovente e le pareti realizzate con un intelaiatura di canne e giunco sulla quale si fissavano i fasci di falasco erano delle abitazioni sane e assolutamente ecologiche, perché non serviva malta né cemento né tanto meno eternit. La scelta del falasco come materiale per rivestire le capanne non era dovuta solo al fatto che essendo una pianta palustre cresceva abbondante nella Penisola del Sinis, ma anche alle sue caratteristiche. Il falasco, “Su cuccùri”, in inverno, con la pioggia si dilatava (segue pagina 44)

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Foto vistanet.it

(segue dalla pagina 43) chiudendo tutti gli spazi tra una fascio e l’altro impedendo alla pioggia di penetrare all’interno, mentre in estate essiccandosi si restringeva creando la circolazione dell’aria, in modo che quella calda andasse verso l’alto a la fresca rimanesse in basso. Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 lungo la spiaggia ne furono ricostruite tante, forse troppe e i proprietari le utilizzavano come case per le vacanze, ma prive dei servizi igienici. Un po’ come è accaduto al Poetto con i casotti. Molte finirono incendiate, spesso dolosamente, le altre demolite per decisione dell’amministrazione comunale. Naturalmente la causa della loro demolizione è la gelosia e l’invidia generate dal constatare che delle persone con dei mezzi modesti riescono a creare semplicemente tanta felicità. Quelle ancora esistenti sono pochissime. Sarebbe stato più giusto, salvarne un certo numero e renderle visitabili, perché rappresentano una testimonianza della vita dei pescatori, e la dimostrazione che l’uomo anticamente sapeva convivere con la natura, sfruttarla senza danneggiarla. Forse c’è ancora tempo per provare a ricreare un piccolo villaggio prima che i depositari delle tecniche di costruzione che conoscono tutti i segreti del falasco scompaiano anche loro.

Erano abitazioni temporanee dei pescatori, costruite nel pieno rispetto della natura. Negli anni ‘80 sulla spiaggia di San Giovanni di Sinis c’era un vero e proprio villaggio che serviva anche per salvaguardare l’arenile ma, come i casotti del Poetto, intorno al 1986, vennero demolite perché i proprietari le usavano come seconde case

CUCCURU I

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er chi non lo ha mai visitato, il Sinis è una regione geografica localizzata nell’area centro occidentale della Sardegna (più o meno quella che ruota intorno allo stagno di Cabras) e termina sul mare con una piccola e stretta penisola. Quando avrete il piacere di esplorarlo, sarete sicuramente affascinati dai suoi profumi inconfondibili di macchia mediterranea e dai suoi molteplici paesaggi. Infatti, dal punto di vista morfologico, si caratterizza per una grande varietà di ambienti. Sono presenti piccole colline, altopiani basaltici, spiagge per la maggior parte sabbiose, promontori a picco sul mare e zone lagunari, come lo stagno di Cabras e quello di Mistras. Questa molteplicità ha favorito fin dal Neolitico Medio (V millennio a.C.) l’insediamento dell’uomo. In quel periodo, le zone privilegiate per l’abitazione erano senza dubbio le zone lagunari, come testimoniato da uno dei siti più antichi sorti in quest’area: il villaggio di Cuccuru is Arrius. Cuccuru is Arrius (o Cuccuru s’Arriu) è noto in letteratura sin dalla fine dell’Ottocento, quando Tito Zanardelli, in seguito ad una ricognizione di superficie, prelevò 1796 reperti, per lo più in ossidiana, e li donò al Museo Etnografico Luigi Pigorini a Roma, dove sono ancora conservati.


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IS ARRIUS

L’area è stata poi oggetto di altre indagini condotte da Enrico Atzeni negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso e, poi, tra il 1976 ed il 1980 dalla Soprintendenza archeologica di Cagliari e Oristano, in collaborazione con l’Università di Cagliari e sotto la direzione di Vincenzo Santoni. Questi ultimi interventi furono realizzati parallelamente alla creazione del canale e furono essenziali per raccogliere le importanti testimonianze archeologiche, che altrimenti sarebbero andate perdute. Gli scavi permisero il rinvenimento di un’area frequentata dal Neolitico Medio I (cultura di Bonu Ighinu, 4800-4300 a.C.) sino all’età romano imperiale (I-III secolo d.C.), con una fase di abbandono tra il III-II millennio a.C. Per quanto riguarda la fase neolitica si ricordano una necropoli ed un villaggio. Al nuragico invece risale ad esempio un tempio a pozzo, collocato in un’area sacra frequentata anche in età punica e romana. Si può quindi facilmente dedurre che la distruzione delle capanne di falasco, la cui origine risale quindi agli albori dell’occupazione del Sinis costituisce non solo la manifestazione dell’ignoranza la più crassa ma chiaramente un crimine di distruzione delle vestigia di una civiltà plurimillenaria. vistanet.it

uattro docenti di origine ebrea vengono allontanati dall’insegnamento nelle Università sarde, così come diversi studenti. Il Ministero dell’Educazione Nazionale chiede al Rettore dell’Università di Sassari se sono ebrei i professori Sergio Costa e Antonio Segni (futuro presidente della Repubblica italiana). A Cagliari è rettore della “Regia Università” il celeberrimo Giuseppe Brotzu, scienziato, medico e farmacologo, che nel secondo dopoguerra fu anche presidente della Regione e sindaco di Cagliari il quale, non soltanto si pregiò di fornire al prefetto l’elenco dei «professori di razza israelita» in forza all’ateneo, ma addirittura (con la stessa solerzia che metteva nella ricerca dei battericidi) pensò di segnalare anche il nome di un docente (tale Carlo Maiorca, straordinario di Diritto privato), sul quale non aveva indicazioni precise, tuttavia rilevava «qualche elemento di dubbio nel cognome della madre». Un imbarazzante eccesso di zelo riportato su una lettera da lui firmata nel pieno della campagna antisemita che la propaganda mussoliniana aveva già avviato da qualche mese. Il documento choc, conservato nell’Archivio di Stato di Cagliari, è stato rinvenuto e pubblicato di recente nel volume “Le leggi razziali in Sardegna”, curato da Alessandro Matta. L’ ateneo sassarese non sarà da meno di quello cagliaritano, (segue pagina 46)

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Foto nuovasardegna

(segue dalla pagina 45) infatti in risposta al ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai (che diramò a tutte le autorità una circolare nella quale si chiedeva di trasmettere a Roma l’elenco del personale di razza ebraica) il rettore Carlo Gastaldi allegò il prospetto ministeriale debitamente compilato, nel quale figuravano tre docenti di razza ebraica per parte di padre: Michelangelo Ottolenghi, Emilio Morpurgo e Franco Ottolenghi, gli ultimi due di religione cattolica. Insomma il rettore sassarese Carlo Gastaldi non si comportò molto diversamente dal suo omologo cagliaritano: nell’informare il ministero attraverso una lettera sottolineò infatti «con zelo burocratico e fascista» che Morpurgo e Franco Ottolenghi risultavano comunque «di discendenza dalla razza ebraica» e pertanto chiese di essere avvertito con urgenza se vi fossero stati provvedimenti da adottare nei loro riguardi. Il tono della comunicazione rettorale corrispondeva, sia pure con qualche compiacimento, al clima di caccia alle streghe cresciuto in Italia negli ultimi anni così come in una provincia come quella sassarese dove la questione della presenza ebraica non aveva alcuna rilevanza storica recente. Non fu casuale se in quegli stessi giorni lo stesso Gastaldi dovette smentire per telegramma la falsa notizia secondo la quale i professori Sergio Costa e Antonio Segni, futuro presidente della Repubblica italiana, sareb-

I docenti di origine ebrea vengono allontanati dalle Università sarde Quattro docenti di origine ebrea allontanati dall’insegnamento così come diversi studenti.

bero stati di “razza ebraica”. Ma anche in Sardegna la persecuzione non risparmiò chi, pur essendo di religione ebraica, aveva aderito al Pnf. È il caso della professoressa Zaira Coen Righi, docente di Scienze al liceo classico “Azuni” di Sassari, che sarda non era ma viveva in città con il marito, lo scienziato Italo Righi, morto nel ‘38. «Era iscritta al partito e all’Associazione fascista della scuola, ricorda Alessandro Matta, ricopriva incarichi nelle organizzazioni femminili e partecipava alle attività del Fascio sassarese. Ma tutto questo non bastò a evitarle un destino atroce. Allontanata dall’istituto, vedova e senza più un soldo, raggiunse a Firenze la sorella Ione. A denunciarle ai nazisti nel

1944 fu, in cambio di denaro, il portiere dello stabile nel quale abitavano. Subito arrestate finirono su un convoglio piombato diretto ad Auschwitz. Lo stesso su cui viaggiarono i sopravvissuti Piero Terracina e Nedo Fiano. Le sorelle Coen, 65 e 61 anni, appena sbarcate all’inferno non vennero ritenute idonee al lavoro e furono spedite nelle camere a gas». Ornella Demuru Una lapide ricorda Zaira nel cimitero di Sassari. Fonti: La Nuova Sardegna, con brani di Alessandro Matta Manlio Brigaglia, Cronologia della Sardegna contemporanea


ALLUVIONI

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anni fa il 26 ottobre 1946: una terribile alluvione mise in ginocchio l’hinterland cagliaritano, Elmas e Sestu in particolare. Gli anziani che vissero quella notte, passata alla memoria come “Sa notti de s’unda” (la notte dell’onda), ricordano ancora oggi l’incredibile scenario di devastazione causato dall’esondazione del Rio Matzeu. In alcuni punti, in via Sestu a Elmas per esempio, l’acqua raggiunse i 4 metri d’altezza. L”alluvione causò la morte di 21 persone e danni ingentissimi, in particolare decine e decine di case distrutte dall’acqua. Le persone rimaste senza un tetto furono circa 900, 600 a Elmas e 300 a Sestu. Oggi a Elmas si è svolta la cerimonia di commemorazione organizzata dalla Consulta degli anziani. Presente anche la sindaca appena eletta Maria Laura Orrù. Nel 2012 il Comune di Sestu realizzò un piccolo documentario in cui gli anziani del paese raccontarono ciò che accadde il 26 ottobre 1946. vedi il video https://youtu.be/-X12KwyIrZs https://www.vistanet.it/cagliari/2021/10/26/accadde-oggi-26-ottobre-1946-sa-notti-de-sunda-lalluvione-che-devasto-elmas-e-sestu/

Foto vistanet.it

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ra il 22 ottobre 2008, esattamente 13 anni fa, quando la furia degli elementi si scatenò senza pietà su Capoterra. Nelle prime ore del mattino un violentissimo temporale si abbattè sulla Sardegna ed in particolare sui monti di Capoterra, rovesciando violentemente nel fiume Rio San Girolamo cinque milioni di metri cubi d’acqua e una massa imponente di detriti. Il Rio San Girolamo travolse case ed auto, molte delle quali trascinate fino in mare: il paesaggio fu completamente trasformato e purtroppo ben 4 persone persero la vita. Fango, massi e tronchi d’albero vennero scaraventati a valle, distruggendo strade e ponti nei comuni limitrofi. A Poggio dei Pini, uno dei comuni più colpiti dall’inondazione insieme a Capoterra, Pirri, Sestu ed Elmas, si è arrivati a 372 millimetri di acqua in tre ore, pari al picco massimo raggiunto dall’uragano Katrina tre anni prima. Le strade delle città, completamente allagate, furono chiuse e per le prime ore le comunicazioni furono interrotte. La ferita lasciata dall’alluvione è ancora profonda: non solo per quello che era successo ma anche per ciò che sarebbe potuto davvero succedere. (segue pagina 48)

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Foto blogLive.it

(segue dalla pagina 47) Gli abitanti continuano ad avere paura ogniqualvolta piove un po’ più del normale, anche perché, a distanza di 11 anni, ben poco è stato fatto per mettere in sicurezza il territorio. Inoltre il letto del fiume oggi, come allora, non è stato affatto bonificato. Tra i soccorsi schierati ci furono carabinieri, vigili del fuoco, arrivati anche da alcune regioni del centro Italia come Toscana e Lazio, polizia, guardia di finanza, esercito, marina militare, enti forestali. Neanche Cagliari venne risparmiata dalla furia delle piogge e del vento: nella zona del porto si registrarono non pochi danni per via di una tromba d’aria arrivata dal mare. Il fenomeno vorticoso, accaduto attorno alle 9 del mattino, fu capace di capovolgere un bus e soprattutto fece danni anche alla grande nave da crociera “Navigator of The Seas” attraccata nel porto. Il tornado fu così violento da rompere le funi degli ormeggi, con vetri in frantumi su diversi balconi ed alle piscine sui ponti superiori. L’oscillazione della nave dalla banchina rese inutilizzabili le passerelle. Non ci furono altri particolari danni su Cagliari: una volta superato il porto, la tromba d’aria andò completamente a dissolversi spostandosi verso la vicina zona di Viale la Plaia e la ferrovia.

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egolarmente e sempre più frequentemente le precipitazioni particolarmente abbondanti si moltiplicano, accompagnate da tornados ed altre trombe d’aria. Nel Mediterraneo la temperatura del mare aumenta, già da una ventina d’anni ha raggiunto quella dei Caraibi, cioé 26 gradi in estate, e come questa temperatura si prolunga durante i primi mesi autunnali, entra in conflitto con le masse d’aria fredda e fornisce loro l’eneregia necessaria a scatenare dei nubifragi che deversano in poche ore l’equivalente di mesi normali di piovosità. Eppure sembriamo non solo incapaci di capire ma sopratutto di prendere le disposizioni ed i provvedimenti necessari per arginare gli effetti partcolarmente nefasti di tali calamità naturali ben prevedibili per altro, senza parlare della manutenzione regolare particolarmente assente, il dilagare dell’asfalto su tutte le superfici carrozzabili e la costruzione di sempre nuove abitazioni ed attività industriali ed artigianali nel letto stesso degli antichi ruscelli e fiumi, dulcis in fundo, nonostante l’esistenza di somme ingenti tendenti a finanziare le opere necessarie a contenere e ridurre gli effetti di tali alluvioni, queste rimagono inultilizzate sia per pigrizia congenita e disinteresse manifesto senza contare naturalmente sulle piccole beghe sordidamente politico politicanti che tanto piacciono in questo nostro paese. Aspettando la prossima catastrofe. Vittorio E. Pisu


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Foto robertavanali

nton Stadler (Bruck an der Leitha, 28 giugno 1753 – Vienna, 15 giugno 1812) è stato un clarinettista ed esecutore di clarinetto di bassetto austriaco. Suonò col fratello più giovane Johann (1755 - 1804) nell’orchestra del Burgtheater di Vienna. Era famoso per il suo bel modo di suonare: dominava ottimamente il registro grave dello strumento, sia sul clarinetto che sul clarinetto di bassetto. Questa predilezione per il registro grave portò ad una fruttuosa collaborazione con il costruttore Theodor Lotz: Stadler volle ampliare l’estensione dei suoi strumenti in Si bemolle e La di una terza verso il grave, toccando il Do. Per questo strumento eccezionale (noto oggi come clarinetto di bassetto) Wolfgang Amadeus Mozart scrisse il Quintetto per clarinetto ed archi in La maggiore KV 581, detto anche “Quintetto Stadler”, ed il Concerto per clarinetto KV 622. Ci furono da sempre voci sul fatto che l’amicizia di Stadler con Mozart fosse dettata da opportunismo. Secondo quel che si dice, avrebbe dato in pegno le opere scritte per lui. Queste voci non furono però mai confermate da fonti certe. L’unica certezza è che, al momento della morte di Mozart, Stadler aveva con lui 500 fiorini di debito (e non si sa se furono mai ripagati). Stadler aveva anche 162 fiorini di debito con il costruttore Theodor Lotz per due clarinetti di bassetto, soldi che Stadler non pagò mai. wikipedia

ANTON STADLER L’

Associazione Culturale Anton Stadler è un organismo professionistico operante in campo musicale, artistico e culturale nel territorio del Sulcis Iglesiente. Attiva da oltre 19 anni, è riconosciuta e sostenuta stabilmente dalla Regione Autonoma della Sardegna e dagli enti locali che, di volta in volta, ospitano gli spettacoli organizzati e distribuiti dall’associazione. Fin dalla sua istituzione, nel 1998, la sua mission è costituita dalla promozione e valorizzazione della musica in tutte le sue forme e generi. Ciò è reso possibile, da un lato, attraverso l’attività concertistica, l’organizzazione di importanti rasse-

gne, e laboratori didattici; dall’altro, attraverso la produzione di spettacoli ideati dall’Associazione, distribuiti stabilmente nel territorio nazionale ed europeo. L’associazione, infatti, ogni anno presenta al pubblico prestigiosi festival dedicati alla musica, nuove produzioni firmate “Anton Stadler”, spettacoli di compagnie ospiti ed importanti eventi musicali, contribuendo a creare, nell’insieme, un’offerta artistica e culturale di grande valore per l’intero territorio del Sulcis Iglesiente. Guidata dal direttore artistico Fabio Furia, l’Associazione, nel corso della sua intensa attività, ha stretto importanti collabo-

razioni con Enti Pubblici, quali la Provincia di Carbonia Iglesias e i Comuni del territorio, nonché con le fondazioni e i teatri, come ad esempio la Fondazione Teatro Lirico di Cagliari ed il Teatro Centrale di Carbonia, riuscendo in tal modo a divenire un collettore strategico fra le realtà imprenditoriali locali, le organizzazioni no profit e le altre associazioni culturali. Associazione Culturale ANTON STADLER Via XX Settembre 84 09016 Iglesias Tel: +39 342 580 5156 Tel. +39 349 583 1504 associazioneantonstadler.it/ infoantonstadler@gmail.com


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