SARDONIA
Ventisettesimo anno /Vingtseptième Année
Aprile 2020
ANTONIO GRAMSCI SA DIE DE SA SARDIGNA IL FILO ROSSO MIA MADRE HA PARTORITO MIO PADRE SALTO DI QUIRRA PONE SA BANDERA SARDA IN FORAS DAE SU BALCONE Supplemento all’édizione di “SARDONIA “Aprile 2020
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Cagliari Je T’aime
Oggi, 27 aprile, ricorre l’anniversario del decesso di uno dei personaggi sardi che ha , Programma di creazione più di ogni altro, posto il suo di Esposizioni e marchio sul secolo e, Manifestazioni Artistiche se giudico dall’interesse che nella città di Cagliari ancora oggi suscita in tanti a cura di paesi , al diffuori Marie-Amélie Anquetil dell’Italia, sicuramente Conservateur anche sul secolo attuale. du Musée du Prieuré Rileggere in diagonale la sua Directrice de la revue biografia e le qualche citazio“Ici, Là bas et Ailleurs” ni che abbiamo conservato di un testo già molto lungo da Espace d’exposition consultare, ci fa capire a che Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs punto dobbiamo ancora imparare da Antonio Gramsci. 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers Domani è anche la ricorrenza della celebrazione de Sa Die marieamelieanquetil@gmail.com de Sa Sardigna, in memoria https://vimeo.com/channels/ dei moti che, nel 1794 icilabasetailleurs portarono alla cacciata, Vittorio E. Pisu anche se molto provvisoria, Fondateur et dei Savoia dall’isola. Président des associations Prendendo lo spunto dalla SARDONIA France manifestazione “Il filo rosso” SARDONIA Italia ho voluto riunire qui, créée en 1993 su questo suppleòento di domiciliée c/o Sardonia del mese di Aprile, UNISVERS particolarmente segnato da Elena Cillocu una pandemia e dal confinavia Ozieri 55 mento di tutta la popolazione, 09127 Cagliari non solo qui in Italia, ma vittorio.e.pisu@email.it anche in ben altri paesi, che http://www.facebook.com/ se hanno voluto all’inizio sardonia italia minimizzare o prendere sotto https://vimeo.com/groups/ gamba gli effetti di questa sardonia infezione, si sono dovuti arrendere all’evidenza. https://vimeo.com/channels/ Sembra che ci avviciniamo cagliarijetaime alla fine di questo confinaSARDONIA mento, che molti tra di noi Pubblicazione hanno trovato insopportabile. dell’associazione omonima Non vorrei fare paragoni o Direttore Vittorio E. Pisu parallelismi tra questa Pubblicazione Speciale clausura forzata e la cattività Aprile 2020 particolarmente penibile del grande sardo. in collaborazione con Vi lascio tirare le conclusioni che più vi soddisfano. Ho voluto completare queste pagine con un testo del signor Mario Pili che ci parla del problema delle servitù militari particolarmente nocive in Sardegna se non addirittura criminali e la parola non é troppo forte. Per finire la nostra consorella Palazzi A Venezia ci ha concesso la riproduzione di un articolo che ha pubblicato sul suo supplemento di Aprile e che tratta delle origini dell’umanità e dell’avvento tardivo del patriarcato. Per finire possiamo esporre sia delle opere d’Arte che la Maquette, Conception Graphique bandiera sarda di cui preferiet Mise en Page sco sicuramente l’albero sraL’Expérience du Futur dicato di Eleonora d’Arborea. Augurandovi una buona une production lettura, una fine della clausura UNISVERS in buoina salute ed un’estate Commission Paritaire piacevole e spensierata. ISSN en cours Grazie per l’attenzione. Diffusion digitale Vittorio E. Pisu
PALAZZI A VENEZIA Publication périodique d’Arts et de culture urbaine de l’association homonyme régie par la Loi de1901 Correspondance palazziavenezia@gmail.com https://www.facebook.com/ Palazzi-A-Venezia https://www.vimeo.com/ channels/palazziavenezia
ntonio Gramsci, nome completo, così come registrato nell’atto di battesimo, Antonio Sebastiano Francesco Gramsci[1] (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937), è stato un politico, filosofo, politologo, giornalista, linguista e critico letterario italiano. Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, divenendone segretario e leader dal 1924 al 1927, ma nel 1926 venne ristretto dal regime fascista nel carcere di Turi. Nel 1934, in seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nei suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista, Gramsci analizzò la struttura culturale e politica della società. Elaborò in particolare il concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l’obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne. li antenati paterni di Antonio Gramsci erano originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero essere giunti in Italia fin dal XVI secolo, durante la diaspora albanese causata dall’invasione turca. Documenti d’archivio attestano che nel Settecento il trisavolo Gennaro Gramsci, sposato con Domenica Blajotta, possedeva a Plataci, comunità ‘’arbëreshë’’ del distretto di Castrovillari, delle terre poi ereditate da Nicola Gramsci (17691824). Questi sposò Maria Francesca Fabbricatore, e dal loro matrimonio nacque a Plataci Gennaro Gramsci (1812-1873), che intraprese la carriera militare nella gendarmeria del Regno di Napoli e, quando era di stanza a Gaeta, sposò Teresa Gonzales, figlia di un avvocato napoletano di origini spagnole. Il loro secondo figlio fu Francesco (1860-1937), il padre di Antonio Gramsci. Francesco era studente in legge quando morì il padre; dovendo trovare subito un lavoro, nel 1881 partì per la Sardegna per impiegarsi nell’Ufficio del registro di Ghilarza. In questo paese, che allora contava circa 2.200 abitanti, conobbe Giuseppina Marcias (1861-1932), figlia di un esattore delle imposte e proprietario di alcune terre. La sposò nel 1883, malgrado l’opposizione dei familiari, rimasti in Campania, che consideravano i Marcias una famiglia di rango inferiore alla propria dal punto di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva studiato fino alla terza elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro (1884-1965) e, dopo che Francesco Gramsci fu trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta (1887-1962), Emma (1889-1920). Antonio Gramsci nasce ad Ales secondo il registro delle nascite dello stato civile del comune il 22 gennaio 1891 e registrato con i nomi di Antonio, Francesco; secondo il registro dei battesimi della parrocchia di San Pietro e Paolo nasce il giorno dopo, il 23 gennaio 1891, e viene registrato con i nomi di Antonio, Sebastiano, Francesco. Sette mesi dopo la nascita di Antonio, Francesco Gramsci fu trasferito, come gerente dell’Ufficio del Registro, a Sorgono e qui nacquero gli altri figli, Mario (1893-1945), Teresina (18951976) e Carlo (1897-1968). Antonio a due anni si ammalò del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli impedì una normale crescita: adulto, Gramsci non supererà il metro e mezzo di altezza; i genitori pensavano che la sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e anche Antonio rimase convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute delicata: a quattro anni, soffrendo di emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai medici, tanto che la madre comprò la bara e il vestito per la sepoltura. Il padre Francesco fu arrestato il 9 agosto 1898, con l’accusa di peculato, concussione e falsità in atti, e il 27 ottobre 1900 venne condannato al minimo della pena con l’attenuante del «lieve valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta; priva del sostegno dello stipendio del padre, la famiglia Gramsci trascorse anni di estrema miseria, che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo camicie. (segue alla pagina 10)
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“Che cosa mi ha salvato dal diventar completamente un cencio inamidato? L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante di tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione: “Al mare i continentali!”. Quante volte ho ripetuto queste parole”. Antonio Gramsci
sere alla fine repressi dalle forze lealiste, ingrossatesi in seguito alla stipulazione del trattato di pace sottoscritto da Napoleone e Vittorio Amedeo III.[13] L’esperimento rivoluzionario sardo giunse così al termine, e l’isola rimase sotto la giurisdizione sabauda;[14][15] a breve sarebbe subentrato un nuovo viceré[16]. A esso seguì un periodo di restaurazione aristocratica e monarchica,[17] culminato nella Fusione perfetta del 1847, che non riuscì a spegnere altri spontanei focolai di ribellione occorsi tra il 1802 e il 1821, fra cui la cosiddetta “congiura di Palabanda” cagliaritana del 1812[18] e la rivolta algherese del 1821.[19] Note 1^ Legge Regionale 14 settembre 1993, n. 44
Foto wikipedia
SA DIE DE SA SARDIGNA S
a die de sa Sardigna (AFI: sa ˈði.e ðe za zaɾˈdiɲɲa; in sassarese La dì di la Sardhigna, in gallurese La dì di la Saldigna, in algherese lo dia de la Sardenya, in italiano Il giorno della Sardegna) è una giornata di festività istituita dal Consiglio regionale della Sardegna con la Legge Regionale 14 settembre 1993, n. 44, nominandola Giornata del popolo sardo.[1] La festività vuole ricordare la sommossa dei vespri sardi del 28 aprile 1794 che costrinse alla fuga da Cagliari il viceré Vincenzo Balbiano e i funzionari sabaudi, in seguito al rifiuto di soddisfare le richieste dell’allora Regno di Sardegna per riservare ai sardi le cariche pubbliche, un Consiglio di Stato a Cagliari, vicino alla sede del viceré e l’istituzione a Torino di un Ministero per gli affari della Sardegna. Domato il grosso della rivolta, alcune richieste furono accolte nel 1796. In occasione della festività, diversamente dalla festa del santo patrono, gli uffici pubblici dell’isola rimangono aperti, mentre chiudono le scuole. Serpeggiando sempre più il malcontento nei confronti
dell’amministrazione diretta piemontese,[2][3][4] negli ultimi decenni del Settecento si creò un movimento di ribellione che attraversò tutta l’isola, in prossimità con gli eventi rivoluzionari francesi e i fermenti sorti in varie parti d’Europa (Irlanda, Polonia, Belgio, Ungheria, Tirolo). Nel 1793 una flotta francese tentò di impadronirsi dell’isola lungo due linee, l’una nel Cagliaritano[5] e l’altra nei pressi dell’arcipelago della Maddalena, guidata dall’allora giovane ufficiale Napoleone Bonaparte,[6] riparato in Francia continentale in seguito all’insurrezione paolina appoggiata dagli inglesi. I Sardi opposero però resistenza e, riuscendo a sventare tale piano, cominciò a montare nell’opinione pubblica un sentimento di rivalsa nei confronti della Corona sabauda per la difesa del Regno. I Sardi chiesero così che fosse loro riservata gran parte degli impieghi civili e militari e un’autonomia maggiore rispetto alle decisioni della classe dirigente locale.[7] Al perentorio rifiuto da parte del governo piemontese di accogliere qualsiasi richiesta,[8][9] la borghesia cittadina organizzò così con l’aiuto
del resto della popolazione il moto insurrezionale. L’episodio finale che condusse alla contestazione fu l’arresto ordinato dal viceré di due capi del cosiddetto “partito patriottico”, gli avvocati cagliaritani Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor. Il 28 aprile 1794 (data nota come sa die de s’aciappa,[10] ossia “il giorno della cattura”) la popolazione inferocita allontanò dalla città tutti i 514 funzionari continentali, compreso il viceré Balbiano, che nel mese di maggio di quell’anno furono imbarcati con la forza e cacciati via dall’isola. Incoraggiati dalle vicende cagliaritane, le popolazioni di Sassari e Alghero fecero altrettanto, coinvolgendo poi il resto dell’isola nell’entroterra rurale.[11] La Sardegna diventò, così, il primo paese europeo a promuovere una propria rivoluzione seguendo l’esempio francese, senza che questa risultasse un fenomeno d’importazione esterno, trasferito altrove militarmente.[12] I moti antifeudali furono successivamente guidati per altri due anni da Giovanni Maria Angioy, alto magistrato del Regno di Sardegna, salvo es-
2^ «L’avversione della Nazione Sarda contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili e irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione.» Tommaso Napoli, Relazione ragionata della sollevazione di Cagliari e del Regno di Sardegna contro i Piemontesi 3^ «L’avversione contro i Piemontesi non era ormai una questione di impieghi, come già durante l’ultimo periodo della signoria spagnola e come hanno fatto credere i dispacci del viceré Balbiano e la richiesta degli stamenti. I sardi volevano liberarsene non solo perché essi simboleggiavano un dominio anacronistico, avverso all’autonomia e contrario allo stesso progresso dell’Isola ma pure e forse soprattutto, per esserne ormai insopportabile l’alterigia e la sprezzante invadenza.» Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Editore Mursia, Milano, 1971, pp.793 (segue alla pagina 8)
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OPERE D’ARTE NEL GIARDINO O SUL BALCONE
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’evento “Il filo rosso” si svolgerà il 28 aprile, Sa die de sa Sardigna. “La rivoluzione del filo rosso” è iniziativa immaginata e nata lungo la scia del progetto curatoriale “Vita, arte, pandemia e prossimità” che ha invitato gli artisti di Berlino a esporre le proprie opere in casa. Una grande, variegata e diffusa esposizione d’arte della durata di 48 ore. Da Berlino all’Isola, dove l’invito è stato recepito dall’associazione “Il filo rosso”, ensemble tutto al femminile che guarda alla promozione sociale e culturale nata nel 2018 e orientata alla valorizzazione di attività di carattere artistico-culturali. «Tutti gli artisti sardi sono invitati a esporre utilizzando come location gli spazi delle abitazioni in cui stanno trascorrendo la quarantena: balconi e terrazzi, i giardini sono i luoghi visibili, in maniera virtuale, sulla pagina Facebook dell’evento
e, di persona, da chi uscirà di casa per recarsi a lavoro o eventualmente fare la spesa». La data scelta per dare forma a quella che l’associazione definisce una piccola grande rivoluzione artistica e pacifica è il 28 aprile, Sa Die de sa Sardigna. Spazio quindi ad ogni forma d’arte: pittura, scultura, installazioni, performance, fotografia e altro ancora. Tutte le opere resteranno esposte per 48 ore. Gli artisti hanno dovuto dare la loro adesione compilando un apposito modello e inviandolo poi ad uno degli indirizzi email indicati dall’organizzazione dell’evento spanustefaniamaria@gmail. com, identitadanimo@gmail. com e lellamuresu@live.it. Le foto rappresentanti i vari lavori situati nel luogo di installazione scelto, corredati dall’indicazione di autore, titolo, anno di realizzazione e localizzazione geografica, dovranno essere inviate via email entro il 28 aprile alle 13. (g.d.) La Nuova Sardegna
IL FILO ROSSO
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https://www.facebook.com/ events/260667201640515/
ulla scia il progetto curatoriale “Vita, arte, pandemia e prossimità”, che ha invitato gli artisti di Berlino a esporre le proprie opere ai balconi di casa, per 48 ore, grazie all’unione dei cuori di tre donne, Stefania Spanu, Antonella Muresu e Monica Serra e con l’appoggio dell’Associazione culturale “Il Filo Rosso”; un associazione di promozione sociale e culturale tutta al femminile nata nel 2018 nel Paese di Ossi, con lo scopo di promuovere attività artistico-culturali. La data scelta per fare questa piccola grande rivoluzione, guidati da quel filo rosso che lega tutti gli artisti, è una data significativa per i sardi, il 28 aprile Sa die de sa Sardigna, la festa del popolo sardo che ricorda i “Vespri Sardi”, cioè l’insurrezione popolare del 28 aprile 1794. Al progetto hanno aderito 65 artisti sardi. Si va dai 5 anni di Michele Lapolla ai 10 di Matilde Loriga per arrivare ai 75 dell’espositore più grande. Tanti i nomi che operano in campo artistico da svariati anni e tanti quelli nuovi, pronti a
28 APRILE 2020 dare forma ad estro e sensibilità fra installazioni, dipinti, sculture, illustrazioni, fotografie, fiber art e poesia. Il filo rosso che lega le varie anime del progetto collega tutte le province isolane, supera il Tirreno arrivando a Milano, Bologna, Roma, Varese e si spinge anche oltre confine sino alla Svizzera, Londra e la Spagna. Uno degli artisti realizzerà l’opera in collaborazione con l’unico bimbo che abita nel suo palazzo. Verrà calato dal balcone un disegno con cui il bambino interagirà: un modo per rendere partecipi i più piccoli. “Una cosa che vorremmo sottolineare – dice l’organizzatrice – è che per l’evento non è stata fatta alcuna selezione delle opere, ma è stato rivolto un invito aperto e libero agli artisti sardi. L’obiettivo non era operare una valutazione dei progetti ma creare invece un forte spirito di aggregazione. Il tutto è fatto per alleggerire un po’ le menti in questo periodo cupo grazie alla bellezza dell’arte. Le opere resteranno esposte per 48 ore.
Pro Sa Die de sa Sardigna COMITATO “ Sa die de sa Sardigna”, c/o Fondazione Sardinia, piazza Santo Sepolcro, 5 Cagliari COMUNICATO STAMPA Celebreremo la festa del Popolo sardo, “sa Die de sa Sardigna 2020” chiusi nelle nostre case. Il Comitato, nell’augurare ai Sardi ogni soddisfazione e benessere, propone di diffondere nei propri siti (fb, instagramm, twitter, telegram, tictoc, …) l’allegato “MESSAGGIO PER SA DIE”, che abbiamo reso disponibile in italiano, campidanese ed in logudorese già nei social di decine di cittadini e che continua a venire riprodotto ed inviato (arrivano nuovi testi in nuorese, gallurese, algherese, bainzinu di P. Torres, ollolaese, ….. all’indirizzo indicato (www.fondazionesardinia.eu).
STEFANIA SPANU
ANTONELLA MURESU MONICA SERRA
Nata a Sassari il 4/12/1979, vivo e lavoro a Sorso. Diplomata in “Arte del Tessuto” all’Istituto Statale d’Arte di Sassari nel 1998, laureata nel 2003 in “Pittura” all’Accademia di Belle Arti di Sassari. Qualifica professionale “Tecnico del Restauro di opere d’arte” nel 2004 presso il Centro regionale per la formazione professionale di Sassari. I miei lavori prendono spunto dallo studio delle forme del corpo umano e della muscolatura, e subiscono il fascino della tradizione tessile della mia terra, la Sardegna, con l’intreccio di trama e ordito, che fondendosi creano movimento e spazio, in una mescolanza di colori che rimandano alla passionalità del rosso in contrasto con il nero. Testo Critico di Marta Pettinau, dalla mostra “In Tandem; Amore-Odio”. Nei lavori di Stefania Spanu passionalità e violenza innescano un corto circuito che si traduce in segni di colore graffiato, che tagliano e attraversano con impeto lo spazio compositivo.
“Oggetti nascosti è il nome delle mie opere, nascono per rappresentare una parte di me. La realizzazione delle opere che rivesto ha arricchito la mia personalità ricca di disordini e colori, che rappresento attraverso l’unione di stoffe con differenti tessuti e colori. Attraverso una meticolosa operazione di assemblage ricopro gli oggetti di uno strato di piccoli scampoli di stoffa, donando alle cose una nuova pelle, una morbida consistenza che fa dimenticare la durezza originaria e privo gli oggetti della loro funzione donando loro un nuovo profilo formale. In questi anni ho suddiviso i lavori in oggetti rigidi, oggetti morbidi, oggetti instabili. Dopo aver rivestito diversi oggetti, dopo aver ricoperto di stoffa le cose per essere coccolate dal calore di essa, per nasconderle, quasi per non essere riconosciute, ho deciso di non rivestire più l’esterno delle cose ma l’interno. Sotto un cubo bianco di grandi dimensioni si nasconde La stanza, arricchita internamente dal solito strato di stoffa che distingue i lavori contiene, una sedia, un tavolo, una pianta (oggetti instabili).“
Sembra quasi una contraddizione che questo elemento, indomabile per sua natura, venga utilizzato da Monica Serra per dar vita a sperimentazioni artistiche e generare opere uniche nella loro molteplicità di forme, colori e materiali. L’opera d’Arte non solo é frutto dell’abilitè, ma nasce anche dalla passione che spinge l’artista a sentirsi demiurgo del suo operato, come un tutt’uno tra mano, mente e spirito. L’attrazione per i liquidi e per il colore hanno condotto Monica Serra verso questa ricerca artistica che affonda le radici nella tecnica decorativa delle carte marmorizzate, ma che é riuscita a reinterpretare e personalizzare in risultati a dir poco sorprendenti. Tutto nasce dalla possibilità di lavorare diverse tipologie di sostanze, quali solventi, oli, acrilici e smalti, facendoli venire a contatto con la superficie liquida, da lì generare infiniti giochi visivi. L’acqua é all’origine di ogni sua creazione e si unisce all’intensità de puro colore in danze turbinose, grazie ai suoi movimenti continui ed imprevedibili. Galassie pittoriche.
giovaniartisti.it/stefania-spanu
olbianova.it/tag/antonella-muresu/
monicaserraartist.it/chi-sono/
Questo testo ed eventuali improvvisazioni de ‘istima’ per la festa e per la Sardegna accompagneranno l’esposizione della bandiera sarda ai balconi (per chi le possiede) e virtuale nei social media. Con una novità: in alcuni punti cruciali della città metropolitana di Cagliari (in genere presso le rotonde) dei grappoli di bandiere sarde, dal mattino alla sera del 28 aprile. In questi giorni, S’Innu de su patriota sardu a sos feudatarios’, il nostro inno nazionale, troverà lo spazio che merita, collegato alla bandiera nelle suonerie dei social e presentato in tutte le scuole della Sardegna attraverso la piattaforma della direzione scolastica regionale contattata dal Comitato e dall’ l’ISTASAC. Con la loro collaborazione abbiamo registrato i cinque atti in cui Luciano Carta ha raccolto la drammatizzazione dell’inno, la quale, con le spiegazioni storiche, consentiranno ai ragazzi di rileggere la vicenda storica che celebriamo con sa Die. Intanto, a Sassari, grazie alla costante attiva presenza di Federico Francioni e della Cooperativa teatrale “S’Arza” di Romano Foddai, sono stati promossi alcune iniziative online con la distribuzione di diversi video con la problematiche generali e locali di sa Die de sa Sardigna.
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Oggi, in quello che è il giorno della liberazione dell’Italia dal fascismo, invito alla lettura di questo pezzo scritto da Mauro Pili e pubblicato sull’Unione Sarda. Un articolo che parla del poligono interforze di Quirra e del fascismo italiano che, invece, la Sardegna subisce ogni giorno da parte di questa repubblica rimasta fascista nel concreto. Una terra venduta e avvelenata per giochi e sperimentazioni di guerra agli eserciti di mezzo mondo. E tutto ciò che subiamo non sono favole da complottisti o invenzioni vittimistiche, ma è realtà secretata per legge con il segreto di stato, sono atti compiuti ogni giorni dalle forze armate con la palese distruzione dell’ambiente, con “l’esplosione” delle patologie tumorali nei centri abitati che insistono attorno alle servitù militari, nel bombardamento e nella distruzione, peraltro dimostrata nelle aule dei tribunali, di villaggi nuragici e di altri siti archeologici, nella dimensione della superficie che la nostra isola è costretta a dare ai nostri occupanti. Perché nessuno sappia quel che succede in Sardegna, ciò che è avvenuto, e che continua e continuerà ad avvenire, si inventano teoremi, si bloccano processi, si corrompono i periti, si modificano le leggi e, nel mentre, di fronte a questo disastro immane, migliaia di “guide indiane”, riconoscenti e accondiscendenti, si rendono complici consapevoli di questa tragedia, accontentandosi di vivacchiare grazie alle elemosine elargite, in forma di indennizzi o attraverso qualche lavoro, dal ministero della difesa. “Non è un caso che Emilio Lussu abbia ambientato qui, in questi anfratti selvaggi di natura inesplorata, nelle terre più segrete e povere della Sardegna, il suo mitologico racconto sul Cinghiale del Diavolo, bianco e irraggiungibile. Quel venticello venuto da sud che cancellava le tracce inconfondibili del passaggio di quella imprendibile furia era per i cacciatori di Armungia lo Spirito Maligno di Monte Cardiga. Un paradiso terrestre, sedotto e devastato, abbandonato alla malasorte del silenzio. - L’incontro misterioso L’appuntamento al capolinea, poco prima della stradina che da Perdasdefogu ti immette in quei viottoli negati persino dal satellite, è con un signore che
DEU SEU PARTIGIAN si dice militare, aeronautica per la precisione. I fari della sua Panda sono in posizione di riposo. Attendono un cenno, come d’intesa. Ti aspetti un uomo con lo sguardo forgiato nelle patrie caserme, e invece ti ritrovi un padre di famiglia. Canuto quanto basta per aver posato almeno un piede oltre la soglia dei sessanta. Pacato nei modi, sincero nello sguardo. Non ha molto tempo. Ha fretta di sgranare come un rosario la memoria della sua vita. Non sono venuto solo, accenna. Con me ho portato un mio compagno di sventura. Sguardo rotante, nessuno si intravede. Precisa: è venuto con l’anima, con il pensiero. Mi ha detto di raccontare tutto e di consegnare tutti i documenti che abbiamo. Il nodo in gola diventa scorsoio. I suoi occhi si fanno lucidi. Racconta: in realtà non sapevamo cosa ci facevano fare. Dirò tutto, dai nomi alle mansioni di ognuno. La nostra coscienza ci impone di parlare. Molti di noi sono stati interrogati. Abbiamo fornito dettagli, par-
ticolari, episodi di ogni giorno in quell’inferno. Ora abbiamo paura. Di quel processo (quello di Quirra) ci hanno detto che non se ne farà niente. Il dramma incede nelle sue poche sillabe. Ho il dovere di parlare. Chiedo solo di proteggere la mia identità, per la mia famiglia. Per raccontare certe storie, però, non bastano commozione e lacrime, come quelle che si affacciano sul proscenio di Monte Cardiga. Siamo in Sardegna, tra Escalaplano, Perdasdefogu e Villaputzu, cuore pulsante dell’industria delle armi e dei bombardamenti di Stato e della Nato. Non si arrende, il maresciallo in pensione. Ho le prove di quello che ci facevano fare. Domanda: bastano le fotografie delle esplosioni ciclopiche che si elevavano come bombe atomiche sopra le nostre teste e i vicini centri abitati? Silenzio. Incredulità. Racconti che appaiono surreali, suggestioni. Poi, però, la chiave di volta è nella prova documentale, quella che inchioda. Sprona l’interlocutore a cre-
dergli, si rivolge allo Spirito Maligno perché non spazzi via ancora una volta la verità. Abbiamo i fotogrammi di quello che ci facevano fare. I dispacci delle convocazioni. I percorsi, i pernottamenti nella locanda di Jerzu. Abbiamo tutto. Avvolte nel cellophane ci sono le sequenze di quei giorni, dal 1990 al 2010, vissuti nel cuore dell’opera devastatrice di un territorio che soffre povertà e abbandono, in nome e per conto dell’interesse superiore, sempre quello degli altri. Per anni si era sentito parlare di questi fantomatici brillamenti, esercitazioni, come amavano definirle i vertici militari. Nessuno, però, le aveva mai immortalate da vicino. Tanto vicino da poterle impressionare in un negativo. E ora, invece, quei fotogrammi sono scolpiti nello sconcerto, dinanzi a quelle nubi cariche di ogni maledizione che per decenni si sono posate, peggio dello Spirito Maligno, sulle teste di bambini e adulti, pastori e militari. Le prove del disastro Sono le prove regina di quelle maledette esercitazioni-smaltimento che dovevano restare per sempre segrete e invio-
Foto Ivan Dessi di Stefano
NU DE SA TERRA MIA labili dentro il filo spinato di Quirra, il Salto di Quirra, il poligono di Perdasdefogu. Una pagina buia nel libro nero del ministero della Difesa e delle servitù militari in Sardegna. E, invece, ora si affacciano dirompenti nel proscenio di una verità offesa, in una terra baciata dal Creato e divelta dall’uomo. Si aprono gli scrigni di Stato. I documenti che pubblichiamo sono la prova di come la Sardegna è stata violentata come se non ci fosse un domani. Le carte arrivano dai caveau della Base militare di Perdasdefogu. Una Ritmo verdolina, con targa dell’aeronautica militare, fa da battistrada negli impervi cunicoli di Monte Cardiga, dove le poste di caccia grossa rendevano ardua ogni battuta al cinghiale. Seguono due campagnole, un camion gigante con a bordo due contenitori M409 per W/H. Tradotto, war head , testate di guerra. Seguono un camion gru e un Ducato con pochi uomini per l’operazione segreta. La missione è scritta in un dispaccio del comando della Prima Brigata aerea dell’aeronautica: verificare la fattibili-
tà della distruzione, mediante esplosione, delle testate di guerra dei missili T45 Nike. I missili bomba dell’americana Hercules, quelli piazzati dalla Nato come scudo aereo in Occidente, capaci di colpire un bersaglio a 30 chilometri dal suolo, con una gittata di 140 chilometri. Gli americani ne hanno prodotto di due tipi, uno con la testata di guerra convenzionale e uno con quella nucleare. Nelle scoscese stradine si inerpicano due testate convenzionali: T- 45 HE da 502 chilogrammi, 270 chili di esplosivo a frammentazione HBX-6 M17. Ordini di servizio La missiva riporta confessioni sincere quanto disarmanti: «Il continuo accantonamento presso gli arsenali dell’aeronautica militare di materiale esplosivo relativo al sistema Nike sia perché scartato da modifica che inefficiente ha indotto a studiare una soluzione che ne permettesse la distruzione». Dove, se non in Sardegna? Il 4 marzo del 1994 - raccontano i documenti tenuti segreti - è il giorno prescelto per la prova. La colonna marciante sotto scorta armata, dopo un’ora e
mezza di tormentato viaggio in strade malsane, raggiunge il luogo prescelto. Non servirà l’escavatore, che pure avevano portato al seguito. Si opta per la soluzione naturale : un canalone roccioso che il comandante in capo ha l’ardire di definire «già esistente e idoneo all’uso». Come se i canaloni di Monte Cardiga non fossero le vie di fuga dei cinghiali, ma invece luoghi “idonei” a micidiali esplosioni da guerra atlantica. La testata di guerra viene adagiata sul fondo del canalone. Un insieme di micce a lenta combustione, dieci chilogrammi di esplosivo Tnt e diversi detonatori faranno il resto. Dopo 13 minuti il boato. La fine del mondo. Un’esplosione devastante che si infrange con il sommovimento tellurico sulle pareti rocciose di quel pertugio in mezzo ai monti cari a Lussu. Missione compiuta Le conclusioni sono nero su bianco: «Il positivo svolgimento dell’operazione ha confermato la possibilità di distruggere con le stesse modalità e nello stesso luogo altre 41 testate di guerra dei missili Nike».
Oltre 11mila chili di esplosivo. Una catastrofe ambientale senza precedenti, nascosta e fuorilegge. La discarica Sardegna è un ricettacolo universale, Quirra il luogo prescelto. Ogni arsenale d’Italia, Nato compresa, che deve smaltire bombe, missili, munizioni, nuove o vecchie, sa che le può spedire in Sardegna. Da Vizzini, arsenale aereo, non si disdegna la cloaca esplosiva della Sardegna. Anzi, migliaia di tonnellate di ogni genere di esplosivi lasciano il suolo siculo, raggiungono Livorno, vengono imbarcate su navi dedicate, arrivano a Olbia e poi via dritte a Serrenti, arsenale predistruzione, prima dell’invio a Perdas per il giorno prescelto. Un dispaccio archiviato con il lucchetto delle cose che non si devono sapere racconta un fatto agghiacciante. Cinquanta fusti di Napalm, il micidiale veleno usato dagli americani in Vietnam, devono essere smaltiti. Nelle intercettazioni telefoniche della procura di Lanusei si scoprirà che arriveranno in Sardegna. E poi l’ultimo sconvolgente fatto inedito. È il 18 giugno 1999. Zona torri, il punto più alto del poligono, dove prima si lanciavano missili e razzi. Le ruspe hanno scavato a fondo per l’ennesimo carico da smaltire. Buche di 40 metri di lunghezza e 20 di larghezza, una decina di profondità. E dentro, 120 cariche per Napalm. Come se niente fosse, insieme a 476.317 cartucce e 38 testate di guerra AIM-9B. Lo stupro reiterato Tutto questo per almeno trent’anni, sino ai giorni nostri. L’ultimo verbale venuto alla luce è del 1° febbraio 2008. Una montagna di bombe da distruggere nella zona Torri: 64 bombe LBR500, 7988 bombe a mano, 35 bombe MK82, quattro bombe MK 83. Ora in quell’altopiano dove prima sorgeva il sole c’è il deserto. Non cresce più niente. Il lentischio ha ceduto i suoi spazi alla terra abrasa, ridotta a suolo lunare. Polvere e inquinamento. Letale, come quelle nubi cariche di nanoparticelle sospinte ovunque dal vento di Sardegna. E la colpa non è dello Spirito Maligno del Cinghia (segue alla pagina 9)
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utti noi abbiamo appreso la storia delle origini dell’umanità sui banchi di scuola. Uomini pelosi ricoperti di pellicce di animali e armati di clave o di lance rudimentali, dediti alla caccia. Donne accovacciate accanto al fuoco, intente a cucinare. prima nomadi, poi poco per volta stanziali, fino alla formazione di piccoli villaggi fatti di capanne, ecc. ecc. L’uomo delle caverne, appunto. Peccato che probab ilmente sia tutto da rifare, o meglio da (ri)raccontare. Per secoli infatti gli studi archeologici e preistorici sono stati monopolio esclusivo di esperti di sesso maschile, che si sono sempre trovati concordi, salvo rare eccezioni, con la medesima lettura dei reperti e la conseguente ricostruzione della realtà preistorica, relegando incongruenze e contraddizioni sotto l’ombrello degli “insondabili misteri del passato”. Tutto questo fino a circa 50 anni fa, quando cioè questi illustri signori hanno cominciato ad essere affiancati dalle prime donne archeologhe, nonché antropologhe, storiche, linguiste, esperte di religioni, filosofe, ecc. Ed è così cominciata ad emergere una realtà completamente diversa. Per esempio la presenza, anzi l’abbondanza di statuette femminili, una diversa dall’altra ma con alcune caratteristiche simili e costanti, risalenti a un periodo che va dal paleolitico medio (musteriano, 120.000/40.000 anni fa) agli ultimi millenni prima di Cristo, in tutta l’area del mediterraneo: dalla Siberia all’Asia, fino alla Cina e al Giappone e nel continente sud-americano. Praticamente in tutte le terre emerse. L’abbondanza di questi ritrovamenti così antichi è tale da far ipotizzare che all’epoca ci fossero più statuette che esseri umani. Tuttavia, non esiste l’equivalente rappresentazione maschile dell’umanità fino all’apogeo della cultura ellenica. Come mai, dunque, venivano rappresentatesolo le donne, e con tale impressionante dedizione? E che ruolo avevano quindi gli uomini in queste antichissime società ?
MIA MADRE HA PAR
Negli ultimi 30 anni sono state realizzate moltissime ricerche su questo argomento, da studiose ed esperte delle accademie di mezzo mondo. Tuttavia i risultati ottenuti hanno dovuto scontrarsi con la ferrea omertà della cultura patriarcale imperante, ben decisa a non cedere neanche di un millimetro il suo potere.
volutamente la parola “matriarcato” perché sarebbe fuorviante, in quanto contrapposizione di idee e principi legati al modello patriarcale. Di conseguenza, si preferisce usare l’aggettivo “matrifocale”, o “matrilineare” per definire il lunghissimo periodo in cui l’umanità è stata governata da principi femminili.
IL PATRIARCATO COME FORMA MOLTO RECENTE DI ORGANIZZAZIONE Ma perché il patriarcato si dovrebbe sentire minacciato da simili scoperte archeologiche? Semplice: perché queste hanno dimostrato che la cultura patriarcale è relativamente recente, comincia ad emergere cioè solo intorno al 5000 a. c., e impiega poi ben tre millenni per stabilizzarsi definitivamente. In altre parole,se l’età dell’umanità fosse rappresentata dal quadrante di un orologio, il patriarcato non occuperebbe che gli ultimi cinque minuti. Ma quello che spaventa di più, probabilmente, la mentalità’ fallocratica è che gli ultimi millenni di potere sono stati preceduti da decine di migliaia di anni di civiltà basate sulla centralità femminile. Attenzione: non è utilizzata
COME FUNZIONAVANO LE SOCIETA’ “MATRIFOCALI?” Non possiamo qui riassumere in poche righe tutti i valori e le caratteristiche di queste civiltà, ma vorremmo almeno riassumerne i tratti singolari: Nelle civiltà preistoriche femminili, anche dette civiltà antiche, non esistevano la famiglia, la proprietà privata, la gerarchia, la guerra. La divinità era femminile, identificata con la Madre Terra e la maternità in generale. Non c’era separazione tra il sacro e il profano, anzi meglio sarebbe dire che il concetto di profano era sconosciuto: tutto ciò che accadeva sulla terra era sacro, e per tanto onorato come tale. La società era organizzata in piccoli clan che avevano come referente per tutte le questioni pubbliche e private la donna
più anziana. Tutte le decisioni venivano prese collettivamente da gruppi di donne che allevavano anche i figli. Le donne erano: sacerdotesse, guaritrici, raccoglitrici di erbe per l’alimentazione e per la cura, cuoche (ovvero chimiche che studiavano la combinazione degli alimenti), inventrici (l’ago è una delle più antiche invenzioni dell’umanità), artigiane (ovvero artiste: le anfore e i primi utensili sono tutti a forma di donna, o ispirati alle forme femminili, all’idea materna di ‘contenere, proteggere, conservare’) custodi della memoria e delle tradizioni.
LE INVENTRICI DELLA PREISTORIA Alle donne della preistoria si devono alcune tra le più importanti invenzioni dell’umanità, tutt’oggi fondamentali per la sopravvivenza del nostra specie: l’agricoltura (furono le raccoglitrici le prime esperte di vegetazione, che capirono il rapporto tra seme e germoglio, che scoprirono come, dove e quando seminare per poter raccogliere: la marra, primo aratro della nostra civiltà, fu invenzione e strumento femminile per antonomasia); la
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RTORITO MIO PADRE conservazione degli alimenti (cottura, essicazione, ecc. e tutti i procedimenti per creare delle riserve di cibo); l’allevamento del bestiame (furono sempre le donne ad addomesticare i primi animali selvatici, attaccandosi i cuccioli al seno, si fecero amici i lupi, i tori, gli agnelli, ecc.); l’abbigliamento (cucendo insieme pelli di animali); il fuoco (se non abbiamo la certezza che sia stata una donna a scoprire come conservarlo, ci sono molte probabilità chi sia stata una donna a scoprire come utilizzarlo per cucinare, e di conseguenza per fondere, per rendere resistente l’argilla, ecc. Del resto, erano vestali le custodi del ‘fuoco sacro’…). Tutto questo non è frutto della fantasia di qualche femminista invasata, bensì un brevissimo riassunto dei risultati di centinaia di ricerche serissime, scientificamente documentate e accademicamente riconosciute. (per una prima ricerca bibliografica consiglio www. universitadelledonne.it alla voce mito/religioni). IL RUOLO DEGLI UOMINI E gli uomini cosa facevano nel frattempo? Di sicuro cacciavano, ma anche qui, non da soli.
La caccia, non potendo contare su armi elaborate, non era un’attività solitaria nella preistoria e dunque doveva per forza essere un evento collettivo, al quale con ogni probabilità partecipavano anche le donne. A riprova della presenza femminile anche nelle foreste infestate dalle fiere, le tante dee della caccia sopravvissute nelle culture patriarcali. Poi probabilmente gli uomini avevano anche altre mansioni, ma sempre in qualche modo subordinate al femminile. Questi sistemi di civiltà matrifocali hanno cominciato a entrare in crisi intorno al 5000 a.c., secondo un’evoluzione non-lineare e un andamento a macchia di leopardo, per essere poi definitivamente soppiantati dal modello patriarcale intorno al 2000 a.c. Ci sono voluti ben 3000 anni affinché il processo di transazione si completasse, non senza rigurgiti e resistenze in alcuni casi strenue e accanite. Che cosa è successo durante quei 3000 anni, in pratica che cosa ha causato questo ribaltamento del potere, sarebbe un interessante campo di studi che certamente sarà investigato nei prossimi decenni. IL DECLINO DELLE SO-
CIETA’ A MATRICE FEMMINILE In questo caso, ci limiteremo a suggerire alcune ipotesi. Innanzitutto: se le cose stanno così, se il patriarcato cioè è stato preceduto da decine di migliaia di anni di cultura femminile, e se il potere sacro e inviolabile della Grande Madre è stato strappato con rabbia e violenza da una minoranza sottomessa e frustrata dopo alcuni millenni di lotte, questo spiegherebbe l’accanimento con cui il nuovo potere abbia sistematicamente represso e discriminato il genere femminile nei secoli successivi e fino ai nostri giorni, di come abbia ostinatamente cercato di precludergli qualunque accesso alla cultura, al sapere, al lavoro, all’arte, alla libertà di movimento e di pensiero, come abbia fatto in modo di gestirne la sessualità, appropriarsi della sua capacità riproduttiva, e sottometterlo in tutti i modi possibili e immaginabili. Francamente una determinazione altrimenti difficile da comprendere, se non con la folle e inconscia paura di riperdere ciò che era stato così faticosamente conquistato, e con la segreta e terrorizzata consapevolezza di quello che
il femminile avrebbe potuto fare se fosse stato lasciato libero di muoversi e di esprimersi. Secondariamente, sembrano anche più comprensibili le diffuse difficoltà relazionali che tutt’oggi esistono tra uomini e donne: forse sono il retaggio di quei 3000 anni di lotte feroci per il potere? Concludiamo con una riflessione: l’avvento del patriarcato, seguito dalle tre grandi religioni monoteistiche, tra le tante conseguenze che ha avuto, ha depredato l’umanità di un aspetto fondamentale per l’equilibrio globale: la sacralià’ del principio femminile, il rispetto per quella Madre Terra da cui la nostra sopravvivenza dipende, e il riconoscimento della sua generosità. Alcuni millenni di patriarcato, sventolando la bandiera della mascolinizzazione di dio, hanno portato nel mondo guerre e distruzioni di ogni sorta, il bieco sfruttamento delle risorse, la disumanizzazione dei suoi abitanti, la perdita dei principi e della speranza. Una fine ingloriosa sembra aspettarci dietro l’angolo. Forse sarebbe il caso di riaprire le porte e i cuori alla Grande Madre, violata dagli uomini e dimenticata dalle coscienze…
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Johann Jacob Bachofen (1815-1887)- Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, 2 voll., a cura di Giulio Schiavoni, Giulio Einaudi editore, Torino 1988. UBERTO PESTALOZZA (rettore Università di Milano) L’ETERNO FEMMINEO MEDITERRANEO 1966 MARJA GIMBUTAS, (Università della California, Los Angeles) IL LINGUAGGIO DELLA DEA/LE DEE VIVENTI 1994 MERILIN STONE (Università di New York, Buffalo) – QUANDO DIO ERA UNA DONNA TILDE GIANI GALLINO (Università di Torino) LE GRANDI MADRI LUCIANA PERCOVICH (Libera Università delle Donne, Milano) OSCURE MADRI SPLENDENTI SARA MORACE - Origine donna: dal matrismo al patriarcato – L’origine femminile dell’umanità. Dialoghi, lezioni, articoli, (a cura Dario Renzi Sara Morace ) MARGARET R. EHREMBERG Donne nella preistoria. HEIDE GOETTNER ABENDROTH “Le società matriarcali Studi sulle culture indigene del mondo”, un testo monumentale sulle comunità matriarcali tutt’oggi esistenti nel mondo, messe in relazione ai modelli originari preistorici. Il tomo, 700 pagine, ne contiene 40 di bibliografia. Ma l’elenco di studiose a livello internazionale che hanno contribuito alla scoperta e alla ricerca sulle civiltà antiche sarebbe lunghissimo: Chandra Talpade Mohanty, Bell Hooks, Andrea Smith, Angela Davis, Anne McClintock, Pat Armstrong, Saba Mahmood, Sandra Harding, Patricia Hill Collins, Joan Scott, Linda Alcoff, Sonali Shah, Laura Maria Augustin..solo per nominarne qualcuna. Un articolo interessante: http://www.centrostudilaruna. it/il-femminino-sacro-e-la-ricerca-dellunita-perduta.html Il titolo “Mia madre ha partorito mio padre”, è ripreso dall’aforisma di Mansur Al-Hallaj, martire sufi morto nel 922 d.C.
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UN PARADISO DISTRUTTO DALLE BOMBE
(segue dalla pagina 7) Insulti e teorie razziste Frana la teoria malsana e maldestra del generale comandante di Quirra, che alla radiotelevisione svizzera dichiarava: «... cominciassero a fare studi genetici e che non lo vogliono dire che qui sono tutti parenti. Si chiamano tutti Carta e Lai, si sposano tra cugini, fratelli. Però non si può dire se no si offendono i sardi ». In realtà si offende la verità contro gli insulti razzisti di un generale di Stato che più di altri sapeva quanto era successo dentro quel poligono. E se lo ha dimenticato glielo ricorda un grande investigatore come il capo della squadra mobile di Nuoro Fabrizio Mustaro. Uno abituato a scovare criminali incalliti, a mettere a soqquadro le criminalità organizzate. Fiordalisi si fida di lui. Vengono interrogate centinaia di persone. Pastori, militari, padri e madri di figli nati con malformazioni maledette, dipendenti del cuore pulsante privato del regno militare governato dalla Vitrociset. Il risultato è sconvolgente. La squadra mobile mette nero su bianco 167 nomi, data di nascita e per molti quella di decesso. A fianco del mesto elenco, le cause della dipartita. Mario, nato a Villaputzu, dipendente Vitrociset, deceduto, affetto da Leucemia. Peppina, nata a San Vito, residente a Quirra, frazione di Villaputzu, deceduta, affetta da Linfoma. Roberto, ex militare, deceduto, Linfoma di Hodgkin. Giovanni, nato a Perdasdefogu, deceduto, carcinoma gastrico. Attilio, nato a Perdasdefogu, deceduto, mesotelioma pleurico. Giovanni, nato a Perdasdefogu deceduto, carcinoma. L’elenco è infinito. Sono tutti nel raggio d’azione del poligono. I pastori e i militari sono i più colpiti, ma la malattia non risparmia civili e bambini. Chi potrà mai dire che quelle morti hanno un diretto nesso causale con quelle sostanze maledette disperse ovunque nell’aria, dalle nanoparticelle ai metalli pesanti? Tutte morti destinate a scomparire nel sospetto, affossate nel dimenticatoio del menefreghismo. Sino a quando, però, non entrano in scena due personaggi: il professor Lodi Rizzini e la professoressa Antonietta Gatti.
Il primo ha la faccia del luminare, brillante, deciso, un vulcano d’uomo determinato come pochi a scoprire la verità. Capace di commuoversi come un bambino mentre urla la sua verità al processo in corso a Lanusei. La seconda tiene a bada per dodici ore gli avvocati di Stato che puntano a minare la credibilità dei suoi studi. Non ci riusciranno, lei che parla con la comunità scientifica mondiale afferma che ogni morte ha una carta d’identità. Convincono Fiordalisi alla riesumazione dei pastori deceduti dopo una vita dentro il poligono. Lo chiedono i familiari. E lo suggerisce il capo della squadra mobile. L’esito è spietato. Lodi Rizzini e il suo collega Marco Grandi, il 5 marzo del 2012 scrivono: «La quantità di torio 232 presente nelle tibie dei pastori riesumati ha un andamento crescente con l’età dei deceduti che risultano avere esercitato attività di pastorizia all’interno del poligono di Perdasdefogu. La comparazione con altri decessi fa emergere la differenza: più stavi dentro il poligo-
no e più era elevato il livello di sostanze letali nell’organismo umano. Analisi e certezze Per la prima volta si aveva la scientifica certezza di poter individuare l’elemento scatenante del decesso. Scatta il sequestro dei registri d’arma. Obiettivo: individuare tutte le sostanze generate dalle esplosioni e contenute nelle armi usate dagli eserciti di mezzo mondo. Il 26 febbraio del 2011 l’irruzione degli uomini della squadra mobile in un magazzino defilato dentro la base. Nome in codice del locale: F21. Al suo interno quattro casse piene di materiali radioattivi senza alcuna indicazione sulla devastante pericolosità. Solo la spettrometria gamma segnala la presenza di Uranio 238, Trizio e Radio 226. I sistemi di arma contenevano, secondo uno studio sfuggito di mano alla Nato, di tutto e di più. Antonietta Gatti lo aveva già stabilito. La Procura le aveva recapitato due agnelli nati e morti nella zona del Salto di Quirra. Uno tetralogico (con le orecchie al posto degli occhi), l’altro con la linea dell’addome
non formata. Nei due animali sono stati trovati «corpi estranei di origine esogena». Feti mai esposti all’inquinamento ambientale. «La madre ha trasmesso attraverso la circolazione fetale questi detriti che aveva nel suo sangue. Sono stati identificati come detriti di metalli pesanti, antimonio, antimoniocobalto, acciaio, ferro, piombo, zinco, zirconia, ecc. Elementi che non hanno niente a che vedere con la natura». Il processo va avanti, le speranze sono al lumicino. La prescrizione incombe, gli affari militari sulla testa della Sardegna, però, non si fermano. Dentro Quirra i soldi scorrono da sempre a fiumi, dai paradisi fiscali agli eserciti di mezzo mondo che pagano milioni per testare le armi più devastanti. Una storia di generali e carriere private nate e cresciute tra i lentischi di Monte Cardiga e i Panama Papers. Mario Pili L’Unione Sarda h t t p s : / / w w w. f a c e b o o k . com/andrea.caboni.39/posts/10222307208338040
Foto wikipedia (segue dalla pagina 2) Proprio per le sue delicate condizioni di salute Antonio cominciò a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse nel 1903 con il massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al ginnasio. Il 31 gennaio 1904 Francesco Gramsci, grazie a un’amnistia, anticipò di tre mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in un’assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in conciliatura e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del catasto, dove lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli abituali sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel Ginnasio comunale di Santu Lussurgiu, a 18 chilometri da Ghilarza. Con tale preparazione un poco avventurosa, riuscì tuttavia a prendere la licenza ginnasiale a Oristano nell’estate del 1908 e a iscriversi al Liceo classico Giovanni Maria Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un appartamento in via Principe Amedeo 24, poi, l’anno dopo, in corso Vittorio Emanuele 149, insieme con
il fratello Gennaro, il quale, terminato il servizio di leva a Torino, lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio del capoluogo sardo. A scuola, mostrò uno spiccato interesse per le discipline umanistiche e per lo studio della storia, anche perché il cattivo insegnamento ricevuto in matematica gli fece perdere l’interesse per la materia. Il fratello Gennaro, che era tornato in Sardegna militante socialista, ai primi del 1911 divenne cassiere della Camera del lavoro e segretario della sezione socialista di Cagliari: «Una grande quantità di materiale propagandistico, libri, giornali, opuscoli, finiva a casa. Nino, che il più delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche un’uscita di pochi momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e quei giornali». Leggeva anche i romanzi popolari di Carolina Invernizio, di Anton Giulio Barrili e quelli di Grazia Deledda, ma questi ultimi non li apprezzava, considerando folkloristica la visione che della Sardegna aveva la scrittrice sarda Alla fine della seconda classe liceale, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì il professor Raffa Garzia, radicale
e anticlericale, direttore de L’Unione Sarda, quotidiano legato alle istanze sarde, rappresentate, in Parlamento da Francesco Cocco-Ortu. Gramsci instaurò con il Garzia un buon rapporto, che andava oltre il naturale discepolato: invitato ogni tanto a visitare la redazione del giornale, ricevette nell’estate del 1910 la tessera di giornalista, con l’invito a «inviare tutte le notizie di pubblico interesse»: e il 25 luglio Gramsci ebbe la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo scritto pubblico, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore.La sua concezione socialista, qui chiaramente espressa, va unita, in questo periodo, all’adesione all’indipendentismo sardo, nel quale egli esprimeva, insieme con la denuncia delle condizioni di arretratezza dell’isola e delle disuguaglianze sociali, l’ostilità verso le classi privilegiate del continente, fra le quali venivano compresi, secondo una polemica mentalità di origine contadina, gli stessi operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i lavoratori salariati. Poco dopo Gramsci conoscerà da vicino la realtà operaia di
una grande città del Nord: nell’estate del 1911, il conseguimento della licenza liceale con una buona votazione gli prospetta la possibilità di continuare gli studi all’Università. Nell’autunno del 1911, il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso, riservato a tutti gli studenti poveri licenziati dai Licei del Regno. Il 27 ottobre 1911 conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo posto è uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti. Si iscrive alla Facoltà di Lettere, ma le settanta lire al mese non bastano nemmeno per le spese di prima necessità. Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da parte sua, non se la passava di certo molto meglio. L’Università degli Studi di Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Luigi Einaudi, Francesco Ruffini, Vincenzo Manzini, Pietro Toesca, Achille Loria, Gioele Solari e poi il giovane linguista Matteo Bartoli, che si legò di amicizia con Gramsci, come fece anche l’incaricato di letteratura italiana Umberto Cosmo, contro il quale, nel 1920, indirizzò però un articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia «serbo del Cosmo un ricordo pieno di affetto e direi di venerazione [...] era e credo sia tuttora di una grande sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che è propria dei grandi eruditi e studiosi» . Gramsci si ritrovò a casa per le elezioni politiche del 26 ottobre 1913, dopo la fine della guerra italo-turca contro l’Impero ottomano per la conquista della Libia; votavano per la prima volta anche gli analfabeti, ma la corruzione e le intimidazioni erano le stesse delle elezioni precedenti. In Sardegna, il timore che l’allargamento della base elettorale favorisse i socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico da battere. In quest’obiettivo, “sardisti” e “non-sardisti” si trovarono d’accordo e deposero le vecchie polemiche. Gramsci scrisse di quest’esperienza elettorale al compagno di studi Angelo Tasca, giovane dirigente socialista torinese, (segue pagina 12)
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(segue dalla pagina 11) Tornò a Torino ai primi di novembre del 1913, andando ad affittare una stanza all’ultimo piano del palazzo di via San Massimo 14, oggi Monumento nazionale; dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito socialista. Prese anche lezioni private di filosofia dal professore Annibale Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi [...] voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione [...] come fa il pensare a far agire [...] come le idee diventano forze pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della palla di piombo [come il Sud Italia era generalmente considerato nel Nord] che aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista». L’iscrizione al partito gli permise di superare in parte un lungo periodo di solitudine: ora frequentava i giovani compagni di partito, fra i quali erano Tasca, Togliatti, Terracini: «uscivamo spesso dalle riunioni di partito [...] mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci [...] continuavamo le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti risate, di galoppate nel regno dell’impossibile e del sogno». Nell’Italia che ha dichiarato la propria neutralità nella Prima guerra mondiale in corso (neutralità affermata anche dal Partito socialista) scrive per la prima volta sul settimanale socialista torinese Il Grido del Popolo, il 31 ottobre 1914, l’articolo Neutralità attiva e operante in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull’Avanti! di Mussolini “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante”, senza però poter comprendere quale svolta politica stesse preparando l’allora importante e popolare esponente socialista. Sostenne il 13 aprile 1915
quello che sarà, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo esame all’Università; il suo impegno politico si fece crescente con l’entrata in guerra dell’Italia e con il suo ingresso nella redazione torinese dell’Avanti!. Dal 1916 Gramsci trascorse gran parte delle sue giornate all’ultimo piano nel palazzo dell’Alleanza Cooperativa Torinese al numero 12 di corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre stanze, erano situate la sezione giovanile del partito socialista e le redazioni de Il Grido del Popolo e del foglio piemontese dell’Avanti!, che comprendeva la rubrica della cronaca torinese,. Dirà più tardi di aver scritto in dieci anni di giornalismo «tante righe da poter costituire quindici o venti volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano morire dopo la giornata» e di aver contribuito «molto prima di Adriano Tilgher» a rendere popolare il teatro di Pirandello: «ho scritto sul Pirandello, dal 1915 al 1920, tanto da mettere insieme un volumetto di duecento pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: il Pirandello era
o sopportato amabilmente o apertamente deriso». Della commedia di Pirandello “Pensaci, Giacomino!” scrisse che «è tutto uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più che in una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la caratteristica dell’arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia, più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che osserva la vita con l’occhio fisico del letterato, più che con l’occhio simpatico dell’uomo artista e la deforma per un’abitudine ironica che è l’abitudine professionale più che visione sincera e spontanea», mentre considerò Liolà «il prodotto migliore dell’energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso [...] troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in una palude retorica di
una moralità inconsciamente predicatoria, e di molta verbosità inutile». Severo fu invece il giudizio sul “Così è (se vi pare)”: dalla tesi - pseudologistica - che la verità in sé non esista, Pirandello «non ha saputo trarre dramma [...] e neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice fatto di letteratura [...] puro e semplice aggregato di parole che non creano né una verità né un’immagine [...] il vero dramma l’autore l’ha solo adombrato, l’ha accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l’intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine della dimostrazione logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città futura, uscito l’11 febbraio 1917. Qui mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti
Foto wikipedia di Croce, superiori perfino a quelli dovuti a Marx. Nel marzo 1917 lo zar di Russia Nicola II è facilmente rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee, che chiedono pane e la fine dell’autocrazia: viene instaurato un moderato governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani «borghesi» sostengono che si tratta dell’avviamento di un processo di democratizzazione in Russia, sull’esempio della grande Rivoluzione francese, mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è [...] un atto proletario ed essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista [...] i rivoluzionari socialisti non possono essere giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che gli organismi borghesi [...] non facciano essi del giacobinismo». Con il ritorno in Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza.
Gramsci è convinto che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo». Gramsci nega esplicitamente la necessità dell’esistenza di condizioni obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi «sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale». Anche in Italia la guerra interminabile, costata già centinaia di migliaia di morti e di mutilati, la penuria dei generi alimentari, la sconfitta di Caporetto e la stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a Torino sfociarono, il 23 agosto 1917, in un’autentica sommossa spontanea duramente repressa dal governo In conseguenza dell’emergenza venutasi a creare, la direzione della Sezione socialista torinese venne assunta da un
comitato di dodici persone, del quale fece parte anche Gramsci, il quale rimane l’unico redattore de Il Grido del Popolo che cesserà le pubblicazioni il 19 ottobre 1918. I bolscevichi avevano preso il potere in Russia il 7 novembre 1917, ma per settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate, finché il 24 novembre l’edizione nazionale dell’Avanti! uscì con un editoriale dal titolo “La rivoluzione contro il Capitale”, firmato da Gramsci: «La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologia più che di fatti [...] essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della
Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico [...] se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche». Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti torinesi del partito, dal 5 dicembre 1918 Gramsci lavorò unicamente all’edizione piemontese dell’Avanti!, che allora si stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni giovani colleghi: Giuseppe Amoretti, Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice Platone; ma egli e altri giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano ormai esprimere, dopo l’esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove nell’attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione nazionale del partito: «L’unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell’ardente vita di quei mesi dopo l’armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Il 1º maggio 1919 uscì il primo numero dell’Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e animatore della rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all’inizio «il programma fu l’assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi concreti» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per “cultura” intendeva “ricordare”, non intendeva “pensare”, e intendeva “ricordare” cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio [...] fu una rassegna di cultura astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l’Ordine nuovo nei suoi primi numeri...».(segue pagina 14)
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(segue dalla pagina 13) Gramsci intendeva invece definirlo su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all’ordine del giorno la necessità d’introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica, sull’esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna [...] il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l’idea dell’Ordine nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della “libertà” proletaria. L’Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, “il giornale dei Consigli di fabbrica”; gli operai amarono l’Ordine nuovo [...] perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell’Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: “Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?”». Diversamente dalle Commissioni interne, già esistenti all’interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel settembre 1919, alla FIAT furono eletti i primi Consigli. La Confindustria, nella sua Conferenza nazionale del marzo 1920, espresse chiaramente «la necessità che la borghesia del lavoro attinga in se stessa [...] il mezzo per un’energica azione contro deviazioni e illusioni» e il 20 marzo i tre maggiori industriali torinesi, Olivetti, De Benedetti e Agnelli fecero presente al prefetto Taddei la loro volontà di ricorrere all’arma della serrata delle fabbriche contro «l’indisciplina e le continue esorbitanti pretese degli operai». Così quando in occasione di una controversia sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l’Associazione degli
industriali metalmeccanici rispose il 29 marzo con la serrata di tutte le fabbriche torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino il 15 aprile, mentre il governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l’Italia, almeno nei maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d’aprile gli operai furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla. Lo sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l’isolamento in cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i lavoratori torinesi; l’8 maggio Gramsci pubblicò sull’Ordine Nuovo una sua relazione che denunciava l’inefficienza e l’inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione dell’«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari ter-
rieri, appoggiati dallo Stato, Gramsci rilevava che «le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell’attuale periodo [...] il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un’opinione sua da esprimere [...] il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese [...]». Rilevò la mancanza di omogeneità nella composizione del partito, in cui continuavano a essere presenti riformisti e «opportunisti», contrari agli indirizzi della III Internazionale. Non solo: «mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel giornale, [...] se il Partito non realizza l’unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un
mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze anarchiche [...]». Occorre pertanto, secondo Gramsci, che il Partito socialista acquisti «una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l’avvenire della società comunista [...] i non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito [...] per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie [...] le sezioni devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti [...] l’esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato [...] è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet [...] il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito [...]». La risoluzione dell’Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti l’allonta-
Foto wikipedia namento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista Italiano. Infatti, a dispetto dell’approvazione e dell’avallo ottenuto dagli ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso dell’Internazionale, i vecchi dirigenti del partito erano riluttanti di fronte alla svolta politica e sociale realizzatasi nel dopoguerra. In Italia, le rivendicazioni salariali, rese necessarie dall’elevato indice d’inflazione, non trovavano accoglienza presso gli industriali. All’inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d’Italia erano occupate da mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale; alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell’ufficio di Giovanni Agnelli prese possesso l’operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario. Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell’assemblea milanese che vide riuniti i dirigenti del Par-
tito socialista e della Camera del Lavoro, questi ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito, che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l’agitazione: la proposta estrema dell’allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Quell’esperienza dimostrò tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto l’impreparazione degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali occorrevano organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII Congresso del Partito socialista, Gramsci scrisse che «la costituzione del Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l’opera nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili, liberati dall’assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare contro i riformisti e gli opportunisti, noi potremo dedicarci interamente al lavoro positivo, all’espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione, di risveglio
delle coscienze e delle volontà». Nell’ottobre 1920 si riunì a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e Amadeo Bordiga, Luigi Repossi, Bruno Fortichiari, Gramsci, Nicola Bombacci, Francesco Misiano e Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito Socialista. La scissione si realizzò il 21 gennaio 1921, nel Teatro San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d’Italia, sezione italiana dell’Internazionale». Dal 1º gennaio 1921 Gramsci diresse l’Ordine nuovo, divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste e Il Comunista di Roma, quest’ultimo diretto da Togliatti. Alla fine di maggio partì per Mosca, designato a rappresentare il Partito italiano nell’esecutivo dell’Internazionale comunista. Vi arrivò già malato e nell’estate fu ricoverato in un sanatorio per malattie nervose di Mosca. Qui conobbe una degente russa, Eugenia Schucht, membro del Partito, figlia di Apollon Schucht, dirigente del Pcus e
amico personale di Lenin, una violinista che aveva vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di lei, la sorella Giulia (Julka) (1896-1980) che, anch’ella violinista, aveva abitato diversi anni a Roma diplomandosi al Liceo musicale romano. Giulia, ventiseienne, è bella, alta, ha un aspetto romantico; Gramsci ne è conquistato. Si sposano nel 1923 e avranno due figli, Delio, nato il 10 agosto 1924, e Giuliano, nato il 30 agosto 1926. Il figlio di quest’ultimo (nato nel 1965), porta il nome del nonno, vive a Mosca e pratica la musica medievale. Giulia diverrà nel 1924 membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico. A differenza di Bordiga, tutto inteso a salvaguardare la «purezza» programmatica del partito, e perciò contrario a qualunque iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato, Gramsci guardava anche a obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili utilizzando le contraddizioni presenti negli strati sociali e le forze che potevano rappresentare elementi di rottura, come il movimento sindacale cattolico di Guido Miglioli e l’intellettualità progressista liberale di cui Piero Gobetti è allora tra i maggiori rappresentanti. Tuttavia nei suoi scritti fino al 1926 ribadisce che l’obiettivo finale era la eliminazione dello stato borghese e la dittatura del proletariato e anche nei suoi scritti successivi non si riscontrano critiche al regime sovietico. Nel III Congresso dell’Internazionale comunista, di fronte al riflusso dell’ondata rivoluzionaria rappresentata dalle sconfitte delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria, si decise la tattica del fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la maggioranza dei dirigenti comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di Roma, base programmatica del II Congresso del Partito, tenuto a Roma nel marzo del 1922. Gramsci vi aderì ma scrisse di aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse erano presentate come una opinione per il Quarto Congresso [dell’Internazionale comunista] e non come un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo (segue pagina 16)
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(segue dalla pagina 15) questa concessione [...] senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento». Nel IV Congresso dell’Internazionale, tenutosi dal 5 novembre al 5 dicembre 1922, di fronte all’avvento al potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu posta con ancora maggior forza la necessità di fondersi con corrente socialista degli internazionalisti, capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di costituire un nuovo Esecutivo, mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario a ogni accordo. Lo stesso Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia nel febbraio 1923 e, in settembre, a Milano, furono incarcerati anche i rappresentanti del nuovo Esecutivo: Gramsci restò così il massimo dirigente del Partito e nel novembre del 1923 si trasferì a Vienna per seguire più da vicino la situazione italiana. Fu allora che egli ritenne necessario rompere con la politica di Bordiga: «Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all’assurdo ci obbliga [...] a prospettarci il problema di costruire il partito ed il centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Il 12 febbraio 1924 uscì a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista l’Unità e dal primo marzo la nuova serie del quindicinale l’Ordine nuovo. Il titolo del giornale, da lui scelto, venne giustificato dalla necessità dell’«unità di tutta la classe operaia intorno al partito, unità degli operai e dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo». Alle elezioni del 6 aprile venne eletto deputato al parlamento, potendo così rientrare a Roma, protetto dall’immunità parlamentare, il 12 maggio 1924. Quello stesso mese, nei dintorni di Como, si tenne un convegno illegale dei dirigenti delle Federazioni comuniste italiane. Il 10 giugno un gruppo di fascisti rapì e uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti; sembrò allora che il fascismo stesse per crollare per l’indignazione morale che in quei giorni percorse il Paese, ma non fu così; l’opposizione parlamentare scelse la linea sterile di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione dell’Aventino: i liberali speravano in
un appoggio della Monarchia, che non venne, i cattolici erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e questi ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. Gramsci avanzò al «Comitato dei sedici» - il nucleo dirigente dei gruppi aventiniani - la proposta di proclamare lo sciopero generale che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal «Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo Gramsci, non aveva alcuna volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione». Malgrado le divisioni dell’opposizione antifascista, Gramsci credeva che la caduta del regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L’aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda [...] il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di
ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia [...] La disgregazione sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona industriale [...] Di qui l’inaudita campagna di minacce contro le opposizioni e l’assassinio del deputato unitario [...]» «Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alla storia nell’ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che nell’ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi». S’ingannava, perché l’inerzia dell’opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i fascisti riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una delle tante
viene aggredito anche Gobetti. Il 20 ottobre Gramsci propose vanamente che l’opposizione aventiniana si costituisca in «Antiparlamento», in modo da segnare nettamente la distanza e svuotare di significato un Parlamento di soli fascisti; il 26 partì per la Sardegna, per intervenire al Congresso regionale del partito e per rivedere i famigliari. Il 27 dicembre 1924 il quotidiano di Giovanni Amendola Il Mondo pubblicò le dichiarazioni di Cesare Rossi, già capo ufficio stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l’approvazione o per la complicità del duce» e il 3 gennaio 1925 Mussolini, in un discorso rimasto famoso, a confermare quella testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il via a una nuova azione repressiva. In febbraio Gramsci andò a Mosca, per stare con la moglie e conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia a maggio, il 16 tenne il suo primo (e uni-
Foto wikipedia co) discorso in Parlamento, davanti all’ex compagno di partito Mussolini, ora Primo ministro, che aveva descritto l’anno prima come un capo che «è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero [...] Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. [...] Mussolini [...] è il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica». Con il pretesto di colpire la Massoneria, il governo aveva predisposto un disegno di legge per disciplinare l’attività di associazioni, enti e istituti: continuamente interrotto, Gramsci respinse il pretesto che il governo si era dato, «perché la Massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa
legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine». Concluse: «Voi potete conquistare lo Stato, potete modificare i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere sulle condizioni obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin oggi più diffuso nel campo dell’organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi». Dal 20 al 26 gennaio 1926 si svolse clandestinamente a Lione il III Congresso del Partito. Secondo Gramsci il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga, l’espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l’espressione
della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana» che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria, una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del Nord e i contadini del Mezzogiorno. Tornato a Roma, ebbe il tempo di passare alcuni mesi con la famiglia, le squadre fasciste, superato da tempo lo smarrimento provocato dal delitto Matteotti, avevano piena libertà d’azione e non era prudente coinvolgere i familiari in loro possibili aggressioni; il 4 ottobre, a Firenze, era stato ucciso l’ex-deputato socialista Gaetano Pilati, la stessa casa di Gramsci era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre gli esponenti dell’opposizione antifascista prendevano la via dell’emigrazione - Gobetti, che muore il 6 febbraio 1926, venticinquenne, a Parigi, in conseguenza delle bastonate squadriste, Amendola, Salvemini - un processo farsa condannava a una pena simbolica gli assassini di Mat-
teotti, difesi dal capo-squadrista Roberto Farinacci. La moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio Giuliano, lasciò l’Italia il 7 agosto e il mese dopo fu la volta della cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio Delio: Gramsci non l’avrebbe più rivisto. Elaborando temi già affrontati nelle Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò a scrivere un saggio sulla questione meridionale, intitolato “Alcuni temi sulla quistione meridionale”. La società meridionale, secondo Gramsci, è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come impiegati statali: costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta contribuiscono alla formazione dell’intellettualità nazionale, con personalità del valore di Benedetto Croce e di Giustino Fortunato e sono, con quelli, i principali e più raffinati sostenitori della conservazione di questo blocco agrario. Croce e Fortunato sono, per Gramsci, «i reazionari più operosi della penisola», «le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della reazione italiana». Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe la formazione di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le due classi estreme, favorendo così l’alleanza dei contadini poveri con il proletariato urbano. Tuttavia Gramsci non aveva un’opinione positiva sui contadini, nel 1926 scrisse: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l’operaio industriale, rappresentato dal nostro partito» In Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata da Trotskij, Zinov’ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un solo paese» (segue pagina 18)
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(segue dalla pagina 17) che porterebbe all’involuzione del movimento rivoluzionario. Il dissidio, che porta all’esclusione di Zinov’ev dall’Ufficio politico del Partito sovietico, si era fatto sempre più aspro con la costituzione in frazione della minoranza e si era esteso anche all’interno del Partito comunista tedesco, provocando una scissione. Il 18 ottobre 1926 il New York Times, forse su ispirazione di Lev Trotsky, pubblicava il testamento di Lenin, con i suoi noti rilievi sul carattere di Stalin e sul pericolo rappresentato dal troppo potere che la carica di segretario del Partito gli concedeva. Su incarico dell’Ufficio politico, Gramsci scrisse a metà ottobre una lettera al Comitato centrale del Partito sovietico. Egli si mostra preoccupato per «l’acutezza delle polemiche» che potrebbero portare a una scissione che «può avere le più gravi ripercussioni, non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i principi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie formali». Nel merito del fondamento del contrasto - la contraddizione di un proletariato formalmente «dominante» in URSS, ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe «dominata». Gramsci concludeva esortando all’unità: «I compagni Zinov’ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione [...] sono stati tra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell’attuale situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato centrale del partito comunista dell’URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta a evitare le misure eccessive. L’untà del nostro partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali».
Togliatti, allora a Mosca quale rappresentante italiano all’Internazionale, criticò le ultime considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d’ora in poi l’unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai difficilmente realizzata in modo continuo». Non ci sarà tempo e occasione per approfondire la questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, il 31 ottobre 1926, Mussolini subì a Bologna un attentato che costituì il pretesto per l’eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia: il 5 novembre il governo sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. L’8 novembre, in violazione dell’immunità parlamentare, Gramsci venne arrestato nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il giorno successivo fu dichiarato decaduto, insieme agli altri deputati aventiniani. Dopo un periodo di confino a Ustica, dove ritrovò, tra gli al-
tri, Bordiga, il 7 febbraio 1927 fu detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Qui ricevette, in agosto, la visita del fratello Mario, le cui scelte politiche erano state opposte alle sue - già federale di Varese, ora si occupava di commercio - e, soprattutto, quella della cognata Tatiana, la persona che si manterrà sempre, per quanto possibile, in contatto con lui. L’istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà a montare su di lui accuse credibili: fu anche fatto avvicinare da due agenti provocatori ma senza successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda, iniziò finalmente a Roma il 28 maggio 1928; Mussolini aveva istituito il 1º febbraio 1927 il Tribunale Speciale Fascista. Gramsci è accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò concluse la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: «Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per venti anni»; e infatti Gramsci, il 4 giugno, venne condanna-
to a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione; il 19 luglio raggiunse il carcere di Turi, in provincia di Bari. Fin da quando si trovava in carcere a Milano, Gramsci era intenzionato a occuparsi «intensamente e sistematicamente di qualche soggetto» che lo «assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore». L’8 febbraio 1929, nel carcere di Turi, il detenuto 7.047 ottenne finalmente l’occorrente per scrivere e iniziò la stesura dei suoi Quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di 16 argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora svolti solo in parte. Caratteristico era il suo modo di lavorare: quasi tutti i giorni, per alcune ore, camminando all’interno della cella, rifletteva sulle frasi da scrivere e poi si chinava sul tavolino, scrivendo senza sedersi, un ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare. A fare da tramite tra Gramsci e il mondo esterno, e in particolare con Piero Sraffa e tramite questi col Pcus e il PCd’I, fu la cognata Tatiana Schucht, essendo la moglie di Gramsci tornata in Unione Sovietica.
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credere che il sentimento di essere personalmente isolato mi getti nella disperazione [...] io non ho mai sentito il bisogno di un apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia vita [...] tanto meno oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato un più alto grado di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi sentivo quasi orgoglioso di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la meschinità, l’aridità, la grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà». Quando la madre morì, il 30 dicembre 1932, i familiari preferirono non informarlo; il 7 marzo 1933 ebbe una seconda grave crisi, con allucinazioni e deliri. Eppure lo stesso codice penale dell’epoca, all’art. 176, prevedeva la concessione della libertà condizionata ai carcerati in gravi condizioni di salute. A Parigi si costituì un comitato, di cui fecero parte, fra gli altri, Romain Rolland e Henri Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri detenuti politici, ma solo il 19 novembre Gramsci venne trasferito nell’infermeria del carcere di Civitavecchia e poi, il 7 dicembre, nella clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in camera e all’esterno. Il 25 ottobre 1934 Mussolini accolse finalmente la richiesta di libertà condizionata, ma Gramsci non rimase libero nei suoi movimenti, tanto che gli fu impedito di andare a curarsi altrove, perché il governo temeva una sua fuga all’estero; solo il 24 agosto 1935 poté essere trasferito nella clinica “Quisisana” di Roma, dove giunse in gravi condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e all’arteriosclerosi soffriva di ipertensione e di gotta. Il 21 aprile 1937 Gramsci passò dalla libertà condizionata alla piena libertà, ma era ormai in gravissime condizioni: morì all’alba del 27 aprile, a quarantasei anni, di emorragia cerebrale, nella stessa clinica Quisisana. Il giorno seguente la cremazione si svolsero i funerali, cui parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana: le ceneri, inumate nel cimitero del Verano, furono trasferite l’anno seguente nel Cimitero acattolico di Roma, nel Campo Cestio.
Intanto, il VI Congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi a Mosca dal luglio al settembre 1928, aveva stabilito l’impossibilità di accordi con la socialdemocrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso fascismo. Era la tesi di Stalin il quale, liquidata l’opposizione di Trockij, eliminava anche l’influenza di Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra di Trockij, era rimasto il suo principale oppositore da destra. Il Partito comunista d’Italia si adeguò alle scelte dell’Internazionale, espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma con l’accusa di trotskismo, prima, il 30 marzo del 1930, Bordiga, poi, il 9 giugno, fu la volta di Alfonso Leonetti, Pietro Tresso e Paolo Ravazzoli. Gramsci teneva, durante l’ora d’aria, dei “colloqui-lezioni” con i compagni di partito: non esistono dirette testimonianze delle opinioni espresse da Gramsci riguardo alla «svolta» politica del movimento comunista, ma può costituire un indiretto riferimento un rapporto che un suo compagno di carcere, Athos Lisa, amnistiato nel 1933, inviò subito al Centro estero comunista.
Secondo quella relazione, Gramsci riferì la teoria della necessità dell’alleanza fra operai del Nord e contadini meridionali che già stava elaborando nei suoi Quaderni: «L’azione per la conquista degli alleati diviene per il proletariato cosa estremamente delicata e difficile. D’altra parte, senza la conquista di questi alleati, è precluso al proletariato ogni serio movimento rivoluzionario». Qui s’intende che il proletariato - la classe operaia - debba allearsi con i contadini e la piccola borghesia. «La lotta per la conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi [...] il primo passo è quello che li porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L’inutilità della Monarchia è ormai compresa da tutti i lavoratori [...] a questo obiettivo deve improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d’ordine della Costituente». Ma l’azione del partito «deve essere intesa a svalutare tutti i programmi di riforma pacifica
dimostrando alla classe lavoratrice come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria». È in questo periodo che Gramsci venne a contatto con Sandro Pertini, esponente del PSI e detenuto anch’egli alla Casa Penale di Turi. I due, nonostante i pensieri politici differenti, divennero grandi amici e Pertini, anche dopo la scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le tristi condizioni di salute che lo stroncavano. Dal 1931 Gramsci, oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall’infanzia, fu colpito da arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cercò di reagire alla detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni politiche, filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute continuarono a peggiorare e in agosto ebbe un’improvvisa e grave emorragia. Anche la moglie Giulia, in Russia, era sofferente di una seria forma di depressione e rare erano le sue lettere al marito che, all’oscuro dei motivi dei suoi lunghi silenzi, sentiva crescere intorno a sé il senso di un opprimente isolamento. Scriveva alla cognata: «Non
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(segue dalla pagina 3) 4^ <<Che qualcosa bollisse in pentola, in Sardegna, poteva essere compreso fin dal 1780. Molte delle recriminazioni contro il governo piemontese erano ormai più che mature, con una casistica di atti, fatti, circostanze a sostenerle, tanto per la classe aristocratica, quanto per le altre componenti sociali.>> Onnis, Omar (2015). La Sardegna e i sardi nel tempo, Arkadia, Cagliari, p.149 5^ Tommaso Napoli, Relazione di quanto è avvenuto dalla comparsa della flotta francese in Cagliari sino alla totale ritirata di essa nel 1793/94 6^ La Maddalena, 22/25 February 1793, Military Subjects 7^ Scrive Girolamo Sotgiu in merito alla stretta dipendenza politica e burocratica del viceré rispetto allo stato centrale, imposta attraverso precise istruzioni: “Le istruzioni non tracciavano un indirizzo generale di governo al quale attenersi negli affari dell’isola, ma fissavano, con minuziosa pedanteria, compiti e incombenze, che facevano del viceré un burocrate esecutore di ordini al quale veniva rigorosamente delimitata, per non dire vietata, la possibilità di un’autonoma iniziativa. Il viceré non aveva cioè una funzione politica da assolvere, ma compiti burocratici da espletare. Tutto il potere era concentrato a Torino e il viceré era un semplice missus, al quale non era consentito di andare oltre disposizioni assai rigide. Perché la funzione viceregia fosse ulteriormente appiattita, le prerogative venivano diminuite rispetto a quelle dei viceré spagnoli, anche se, per prudenza, di questo fatto non era data pubblica cognizione.” Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Editore La Terza, Roma-Bari, 1984, pp.25 8^ «Il significato fu chiaro: più che un’umiliazione ai membri degli stamenti, doveva considerarsi un monito per i sardi, ai quali non era concesso di chiedere più di quanto ricevevano dall’iniziativa del sovrano e cioè nulla.» Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Editore Mursia, Milano, 1971, pp.793
9^ “Arrivò la risposta negativa del re alle Cinque Domande, e non alla delegazione stamentaria mandata a Torino, ma direttamente alle autorità sabaude sull’isola: uno sgarbo inaccettabile oltre che una delusione concreta.” Onnis, Omar (2015). La Sardegna e i sardi nel tempo, Arkadia, Cagliari, p.151
È un tratto peculiare, quasi sempre trascurato, della nostra stagione rivoluzionaria.” Onnis, Omar (2015). La Sardegna e i sardi nel tempo, Arkadia, Cagliari, p.152 13^ Onnis, Omar (2015). La Sardegna e i sardi nel tempo, Arkadia, Cagliari, p.153
10^ Sa dì de s´acciappa Dramma storico in due tempi 14^ “La Sardegna usciva dale sette quadri, Piero Marcialis, la sua stagione rivoluziona1996, Condaghes ria debole e privata della sua parte più attiva, dinamica e 11^ Onnis, Omar (2015). culturalmente aperta della La Sardegna e i sardi nel tem- sua classe dirigente. po, Arkadia, Cagliari, p.151 La sua condizione si ridusse a quella di possedimento ol12^ “Mentre a Parigi si ghi- tremarino, in mano a una digliottinava Robespierre e il nastia sabauda che non aveva governo repubblicano pren- certo maturato alcuna buona deva una piega più moderata, ragione per amarla più di la Sardegna era in piena rivo- quanto l’avesse mai amata in luzione. passato.” Primo paese europeo a segui- Onnis, Omar (2015). re l’esempio della Francia, La Sardegna e i sardi nel temperaltro dopo averne respinto po, Arkadia, Cagliari, pp.155le avance militari. 156 La rivoluzione in Sardegna, insomma, non era un fenome- 15^ De La Calle, Luis (2015). no d’importazione. Nationalist violence in po[...] Le rivoluzioni altrove stware Europe, pp.188, Camfurono suscitate dall’arrivo bridge delle armi francesi e da esse 16^ Cristiano Zepponi, protette (come la rivoluzione I vespri sardi, storia di un’innapoletana del 1799). surrezione, InStoria, 2009.
17^ “La Sardegna usciva malconcia dalla sua rivoluzione. Decapitata e dispersa la classe dirigente che aveva guidato il tentativo di cambiamento, sul campo rimanevano le strutture istituzionali del Regno e una classe dominante votata alla fedeltà interessata al regime sabaudo.” Onnis, Omar (2015). La Sardegna e i sardi nel tempo, Arkadia, Cagliari, p.162 18^ La rivolta contro il Re in una Sardegna oppressa dalla fame, La Nuova Sardegna. 19^ Joan Armanguè i Herrero (2006). Represa i exercici de la consciència lingüística a l’Alguer (ss.XVIII-XX). Els fets històrics: del Regne de Sardenya al Regne d’Itàlia, Arxiu de Tradicions de l’Alguer, Cagliari https://it.wikipedia.org/wiki/ Sa_die_de_sa_Sardigna https://icalendario.it/feste/ sa-die-sardigna https://www.galluraoggi.it/ cronaca/sa-die-de-sa-sardigna-mostra-balconi-casegiardini-65-artisti-sardi-25-aprile-2020/