Supplemento all’édizione di “SARDONIA“ Gennaio 2023 S’ARTI NOSTRA Foto robyanedda Nanni Zedda Architetto Is Mirrionis Pavela Romaniska Le colonne d’Ercole Antonio Saba Oneirism Antonio Atza Manca Spazio Genna Maria Villanovaforru Manu Invisibile Luigi Liolio e l’epatta Roby Anedda Annelise Atzori Ziryab il merlo nero Giovanni detto Jo Coda Degas ritorno a Napoli Edith Gabrielli al VIVE Paula Modersohn Becker
S’Arti Nostra Programma Televisivo OnLine di Diffusione d’Arte Contemporanea a cura di Vittorio E. Pisu
Prolungamento editoriale
Pubblicazione irregolare supplemento del mensile Sardonia
Vittorio E. Pisu Redattore Capo Direttore Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/cagliarijetaime
SARDONIA
Pubblicazione dell’associazione omonima Partecipa alla redazione Luisanna Napoli Angelo custode Dolores Mancosu
Supplemento al numero del Gennaio 2023 in collaborazione con PALAZZI A VENEZIA Publication périodique d’Arts et de culture urbaine Correspondance palazziavenezia@gmail.com https://www.facebook.com/ Palazzi-A-Venezia https://www.vimeo.com/ channels/palazziavenezia Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS vimeo.com/unisvers Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale
nche durante il gennaio 2023 nel ristorante più emblematico di Cagliari, situato nella Piazza Yenne, centre non si può più centrale della movida cagliaritana, già rifugio antiaereo durante la IInda Guerra Mondiale, poi pasticcieria rinomata ed oggi ristorante riconosciuto tra i primi 100 migliori ristoranti italiani, trentacinque viste di Cagliari linoleografate da Vittorio E. Pisu che potrete contemplare degustando una cucina sopraffina servita con professionalità ed eleganza. Tel.: +39 070 094 9981
uesto numero di S’Arti Nostra vuole iniziare l’anno 2023 con delle proposte, come al solito, eccletique e touche à tout, comme il suo fratello maggiore, il mensile Sardonia di cui si vuole un supplemento ed il prolungamento editoriale delle trasmissioni televisive omonime.
La sua cuginetta francese (Palazzi A Venezia) con la quale collabora spesso e volentieri, gli ha proposto alcuni articoli che aveva publicato in questi utimi mesi, come quello che ci narra la vita del Merlo nero Ziryab e tutte le sue invenzioni di comportamento e di etichetta che abbiamo conservato fino ai giorni nostri, ignorando per lo più l’esistenza di un personaggio che ha talmente influito sul nostro comportamento senza che ce ne rendessimo conto.
E come spesso accade, ignorando gli eventi storici che hanno costruito la nostra cultura, ci immaginiamo di esserne i soli autori mentre tantissimo dobbiamo ad altri, sopratutto alle bibliotheque sia ebree che arabe che migrando in Italia alla metà del XVsimo secolo e prima dell’editto che nel 1492 scacciò i loro proprietari dalla Spagna, contribuirono fondamentalmente alla ricchezza del Rinascimento italiano fino a svelarci autori greci che i copisti medioevali avevano ignorato volontariamente.
Abbiamo anche deciso di consacrare quattro pagine a Roby Anedda, fotografo cagliaritano scomparso recentement, di cui avevamo portato le sue opere ad essere esposte sia all’Abbazia du Moncel che a Parigi a Saint Germain des Près ed a Il Fico*. Con l’intenzione di organizzare un’esposizione a Cagliari delle sue opere, due delle quali sono state esposte ad Oristano nella mostra “Collettiva di Fotografia” che sarà visibile all’Associazione Remo Branca in febbraio, nell’attesa di un’ evento a Cagliari stessa.
Un lungo e documentato articolo ci descrive invece la gestazione del calendario gregoriano, in effetti l’opera di un calabrese, Luigi Lioli, e non quella del papa Gregorio XIII.
La complessità della modificazione del calendario, con la soppressione di ben 13 giorni, ci ha invogliato a riportare quasi in estenso i ragionamenti e le opposizioni che tale modifica calendaria installò in Occidente.
In Russia ed in Gracia, i cattolici ortodossi continuano ad utilizzare il calendario giuliano, con il risultato che il loro Natale viene celebrato il 7 gennaio ed il capodanno il 14 dello stesso mese.
Tra i talenti sia isolani che d’altrove non potevamo mancare di invitarvi a visitare la mostra di Antonio Saba a Dubai e la mostra Degas a Napoli, mentre approfittiamo di un intervista alla talentuosissima Annelise Atzori, nata in Germania ma sarda di spirito che lascia il suo genio spaziare dalla pittura alla moda, senza parlare della realizzazione cinematografica e della scenografia.
Luisanna Napoli ci aveva suggerito di parlare di Paula Modershon Becker e volentieri abbiamo ripreso un articolo della nostra cugina francese, pubblicato nel dicembre scorso.
Rimpiangiamo di non poter essere presenti ad ogni mostra di Manca Spazio ma ne parliamo spesso e volentieri prima di incontrare la sua direttrice a Cagliari al Temporary Storing della Fondazione per l’Arte Bartoli Felter, il 19 gennaio prossimo, e naturalmente commemoriamo la scomparsa del rimpianto architetto Nanni Zedda, insieme ad un articolo sulle origini urbanistiche del quartiere de Is Mirrionis a Cagliari.
Non manca mai un cenno all’archeologia sarda ed a uno dei più interessanti musei del Campidano, Genna Maria a Villanovaforru di cui riportiamo gli eventi, citando i numerosi interventi del sindaco Maurizio Onnis che speriamo intervistare tra breve.
Una menzione particolare a Giovanni detto Jo Coda che ultimamente miete successi, più che meritati, in quasi tutti i festival cinematografici ai quali partecipa ed una citazione di Manu Invisibile che ci consola con le sue opere, degli infami scarabocchi con i quali degli analfabeti totali e pseudo artisti (sic) si ingegnano deturpare i muri delle città e dei paesi, dove per altro sussiste un altro, e più meritevole senza dubbio, esempio di Street Art.
Sperando che i malanni che ci affligono, tra stracico pandemico e operazioni speciali (sic) in Ucraina, cessino al più presto, facendoci capire che delegare la produzione non solo delle derrate agricole fondamentali ma anche e sopratutto delle produzioni industriali in paesi con salari di fame e protezione sociale zero é proprio un’idea che solo un banchiere può avere.
Augurandoci quindi una presa di coscienza e non solo rispetto alla deteriorazione del clima, voglio credere in un felice anno nuovo ed in un’attenzione maggiore alla produzione artistica, la sua diffusione, fruizione e conservazione per il futuro.
Gradite i miei migliori auguri.
Vittorio E. Pisu
A Q S’ARTI NOSTRA 2 Dopo l’Arrubiu Art Gallery Cafè (Oristano) ritrovate la Collettiva di Fotografia Associazione Remo Branca Via Roma 68 09016 Iglesias Febbraio 2023 Vedi il catalogo https://issuu.com/vittorio.e.pisu/ docs/catalogocollettivait *il fico 31, rue Coquillière 75001 Paris Tel.: +33 (0)1 44 82 55 23 reservations@ilficoparis.com www.ilficoparis.com
All’età di 89 anni è scomparso l’architetto cagliaritano Giovanni Zedda, decano dell’architettura sarda.
Noto a tutti come Nanni, Zedda scompare a 89 anni lasciando vuoto e dolore tra familiari e amici, ma anche «un’enorme eredità culturale di cui tutta l’Isola deve andare orgogliosa”(tiene a sottolineare Michele Casciu, presidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Cagliari e provincia).
Se l’esempio e la dedizione avessero un volto sarebbe sicuramente quello di Nanni.
In questi anni ho avuto modo di interpellarlo e di ascoltare i suoi consigli.
Una presenza attiva e competente, ma che non ha disdegnato di mettersi in gioco come “studente” quando abbiamo organizzato il corso sui Piani del Colore.
Un’umiltà che non offuscava certo la sua risolutezza quando c’era bisogno.
Possiamo essere fieri di averlo conosciuto e mancherà a tutti noi».
L’ultimo riconoscimento, nel settembre 2020, era stato proprio il premio alla Carriera per i suoi 50 anni di iscrizione al suo amato Ordine, di cui è stato anche presidente per due mandati tra gli anni Novanta e i Duemila nonché presidente del Consiglio di Disciplina: «Le sue doti umane e professionali
hanno contribuito alla valorizzazione della figura dell’architetto nella nostra società in ambito nazionale e internazionale» gli fa eco Teresa De Montis, attuale Presidente della Federazione degli Ordini APPC della Sardegna, allora alla guida dell’Ordine cagliaritano: «A lui va tutta la mia gratitudine per aver messo a disposizione mia e dell’Ordine, con enorme generosità e grande professionalità, tutta la competenza di un professionista di altissimo livello».
La folgorazione per la professione di architetto, per Zedda arriva quando, tra il ’46 e il ’48, visita una mostra allestita a Cagliari, dedicata agli edifici del grande Frank Lloyd Wright.
Quegli esempi di architettura organica gli instillano la passione e il desiderio che lo porteranno a laurearsi all’Università La Sapienza di Roma.
In quel periodo trascorso tra la Capitale e Cagliari entra a far parte del “Gruppo di Iniziativa”, movimento artistico e di avanguardia nato dalle macerie di “Studio ’58”, che promuoveva l’impegno democratico e autonomistico della cultura in Sardegna.
Qui conosce e stringe una profonda amicizia con Primo Pantoli e Gaetano Brundu con i quali opera in maniera determinante per la nascita della pittura contemporanea nell’Isola.
Tra le frequentazioni di Zedda si annovera anche quella con Peppino Fiori che nel 1970 è testimone delle sue nozze con la compagna di tutta la vita Giovanna Ravasio.
«Oltre a lei, oggi lascia i figli Maria Paola e Roberto con la moglie Rossella e la piccola Beatrice a cui va il cordoglio di tutti i colleghi» conclude Casciu.
Chi era Nanni Zedda Con la sua famiglia è costretto all’età di 10 anni ad abbandonare Cagliari bombardata per trasferirsi a Tiana.
È proprio qui che i suoi occhi di bambino scoprono e rimangono affascinati dal rapporto tra le architetture e la natura.
Ed è qui che con tutta probabilità nasce anche la sua passione più grande, quella per la montagna e l’Himalaya dove alla tenera età di 80 anni si cimenta in uno dei trekking più affascinanti al mondo. Ma è soprattutto il tempo che da bambino ha trascorso a osservare come gli animali organizzano i loro spazi a far nascere in lui le prime idee sulla concezione “dell’abitare”.
Dopo un periodo di collaborazione presso lo studio dell’Arch. Sacripanti, indirizza la sua attività nella progettazione di opere pubbliche.
Tra queste sono sicuramente da menzionare la Casa del Portuale di Dovadola (1970), che inaugura una fase importante della sua car-
S’ARTI
ARCHITETTO
GIOVANNI ZEDDA
riera, commissionata dal Ministero della Marina Mercantile, il gruppo di edifici del Porto Industriale di Oristano (1974-75) e la Casa dello Studente di Oristano (1976-77). Tra i concorsi internazionali partecipa con Paolo Marconi, Paolo Portoghesi, Vittorio Gigliotti al Concorso per il Teatro Lirico di Cagliari.
Il progetto viene pubblicato nelle più importanti riviste nazionali e internazionali tra cui L’Architecture d’Aujourd’hui, e in testi miliari quali L’Architettura Pratica di Pasquale Carbonara.
Nel 1987 progetta il restauro del Palazzo del Municipio di Cagliari, di cui dirige i lavori. In seguito a tale esperienza torna definitivamente nel capoluogo sardo dove prosegue la sua ricerca sui materiali ristrutturando Palazzo Amat in Piazza Indipendenza e gli edifici di via Canelles nel quartiere di Castello, oltre al Municipio di Belvì. A Roma negli anni Ottanta progetta e segue il restauro di edifici storici tra cui un palazzo in via del Governo Vecchio.
In ambito urbanistico, progetta il Piano di recupero del quartiere Stampace Alto di Cagliari.
Nel 2005 fonda con il figlio Roberto Zedda e con un nucleo stretto di collaboratori “G.R. Zedda Associati”, con cui realizza in anni recenti il Centro Servizi per le Imprese di Selargius, il restauro del Complesso ex Ina a Bengasi, la predisposizione del restauro degli edifici del complesso minerario di Monteponi, oltre a diversi edifici scolastici tra cui, ultimo, il complesso scolastico di Villasimius. Con il figlio, si occupa del restauro del Castello medievale Massimo ad Arsoli.
I suoi lavori sono pubblicati su testi e riviste nazionali e internazionali come Casabella, L’Architecture d’au jourd’hui, L’Architettura cronaca e storia di Bruno Zevi, L’Architettura Pratica di Pasquale Carbonara, L’Industria delle costruzioni, Progettare, il Trattato di restauro architettonico di Giovanni Carbonara. Tra gli anni Novanta e i Duemila è stato presidente dell’Ordine degli Architetti della Sardegna per due mandati.
Tra i premi e i riconoscimenti si ricordano la Medaglia d’oro al Premio Internazionale S. Valentino e la Menzione speciale dell’Istituto Romano dei Beni Stabili e se gli si domanda qual è secondo lui l’opera architettonica più importante al mondo, dopo una vita passata a progettare edifici risponde sicuro: «Il Palazzo del Potala, uno dei grandi monasteri buddisti presenti a Lhasa, capitale del Tibet, perché sintetizza in maniera perfetta il rapporto tra uomo, architettura e natura».
www.cagliaripad.it/580296/architettura-sarda-in-lutto-e-morto-il-decano-nanni-zedda/
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NOSTRA 3
Foto nicolamonari
Cagliari, metà anni Cinquanta: un buco nero tra la piazza d’Armi e quella di San Michele.
Dentro quel catino, un’area vasta di oggi, due toponimi Is Cornalias e Is Mirrionis, località indefinite, i confini segnati con i solchi dei cavalli ancora attaccati all’aratro, poco prima di essere cancellati dall’inevitabile espansione edilizia.
Si svuotavano i centri storici, si allargava la periferia.
Il destino di quei posti era già scritto al plurale perché nel tempo sarebbero diventati tante altre cose, prima di assumere la fisionomia di quartieri autonomi.
La toponomastica non sembrò assegnargli miglior sorte. Le strade prenderanno i nomi di località del bacino minerario occidentale: Monteponi, Montevecchio, Serbariu, Ingurtosu, Nebida, Buggerru, luoghi non proprio di villeggiatura, neppure dopo la dura fatica nelle viscere del Sulcis.
Se nella città rappresentavano già zone di confine, niente di meglio che il nome di gloriose trincee della Grande Guerra: dei Razzi, delle Frasche o dei gloriosi e sanguinosi assalti al Monte Acuto, Santo e Sabotino.
Se i punti cardinali dal vecchio poligono di tiro piemontese dove arrivava solo il filobus della linea numero 5, erano un Tuvu Mannu non del tutto spianato, ed alle ardite strutture dell’Albergo dello Studente alto come un grattacielo, di fronte stavano solo le antenne della stazione radio della Marina Militare di San Michele che svettavano sull’omonimo castello.
Si potevano ammirare i Diavoli Rossi della pattuglia acrobatica nazionale quando ci passavano in mezzo, al massimo si poteva immaginare Pirri più distaccata, tranne che per la festa fuori porta de Santa Maria Crara.
Infatti, saranno le chiese a delineare la sua mappa: Sant’Eusebio prima in un garage delle case INA CASA, quelle del piano Fanfani.
Rimaneva San Michele ancora una chiesa di campagna prima di diventare Medaglia Miracolosa che già si dava da fare Padre Abo col suo affollato oratorio.
Saint Tropez che non sta nella Costa Azzurra ma poco più giù di via Cadello, come il mitico bar.
Poi verranno San Pietro e Paolo, Beato Massimiliano Kolbe
CAGLIARI
Cagliari 1945: dall’alto del colle di Tuvixeddu il signor Giuseppe Deiana fotografa le casermette di Is Mirrionis, destinate poi ad essere trasformate in ospedale (l’attuale Santissima Trinità).
La zona, coltivata a vigne e frutteti, presto sarà interessata da un’imponente azione edilizia. Sullo sfondo il colle di San Michele. La foto è tratta dal sito della parrocchia di Sant’Eusebio.
Ogni occasione è buona per ragionare della città: a patto però che non si parli sempre e solamente dei lavori al Poetto o della movida alla Marina. Grazie a Mario Salis (caro amico e collaboratore di Cagliari Globalist) per questo suo bel contributo che ridà respiro storico a vicende collocate spesso (per non dire sempre) unicamente nel freddo contesto della cronaca.
che già esistevano i Saveriani. Mulinu Becciu, attraverso un sentiero stretto dove i ragazzini facevano il bagno nei vasconi per l’irrigazione dei campi. Ma prima dei quartieri le strade, somiglianti ad autentiche contrade: via Quirra, via Seruci, Via Podgora, Is Maglias anche se si voleva indicare via Emilia, le palestre di pugilato. Via Timavo non sarà mai citata nel Gazzettino Sardo e per tanto tempo ancora nei TG ma chi passava da quelle parti si trovava di fronte una corte dei miracoli a cielo aperto, da far impallidire la proverbiale Ausonia dell’ippodromo del Poetto, demolita subito per l’imbarazzo di una città che rinasceva anche se oggi non regge alla vergogna dell’ex Ospedale Marino o di quel che resta.
Via Is Mirrionis la raggiungevano gli universitari della FUCI portando beni di conforto là dove bambini seminudi razzolavano insieme ad ingorde galline.
E dire che a pochi passi prima che la caserma di artiglieria diventasse ospedaletto, aveva suonato l’orchestra di Glenn Miller di Moonlight Sereneade e con la sua voce già inconfondibile di “Eri piccola così” lo stesso Fred Buscaglione.
Dopo l’INAPLI e più di recente l’Agenzia Regionale del Lavoro.
Poi quando si dice: il destino!
In via Flumentepido alle elementari di Santu Perdixeddu, murata per non essere occupata dai senza tetto di oggi, i bambini comprarono la bandiera tricolore per la scuola dove le maestrine siciliane ed i colleghi calabresi prima dell’inizio delle lezioni facevano cantare l’inno di Mameli e quello di Garibaldi dove si scopron le tombe per gli eroi martiri, senza dimenticare il Va’ Pensiero.
Il suo vasto seminterrato ospitava il refettorio che in poco tempo diventava cinematografo per le simpatiche canaglie, Stanlio e Ollio e Gianni e Pinotto.
La biblioteca era silenziosa per andare a copiare le ricerche, sorvegliata da supplenti de Sa Duchessa, intenti anche loro senza fiatare a preparare esami.
Sezioni di partito, dove si fermò Enrico Berlinguer, popolate da attivisti appassionati fecero dimenticare d’inverno il fango nelle strade, insieme all’altro paio di scarpe per raggiungere appena presentabili il capolinea del tram di piazza San Michele, non immaginan-
do che presto sarebbe diventata la città nuova.
Problemi molti, disagio sociale anche, e senza giri di parole, delinquenza: come gli interventi dei questurini dal Commissariato del vicino cinema Astoria a bordo del capiente pulmino FIAT 1100 103 Savio della Celere, che si riempiva subito di passeggeri abituali. Poi la droga, un’altra brutta storia, che sembra non finire mai.
Di mattina presto in sella a nugoli di Lambrette e Vespe maestranze verso il porto, operai comunali, meccanici, manovali, commessi di via Manno fino a via Garibaldi, tutti orgogliosi dei figli che studiavano e sudavano nei campi polverosi di calcio in parrocchia.
Lì nasceranno le prime mosse per una scuola popolare.
Perfino un prete operaio, un altro che promuoverà dei campi di lavoro e lui stesso andrà missionario in Kenya.
Perché da quelle parti il cuore non ha mai smesso di battere. Tante speranze, sacrifici ma anche sogni che si realizzano. Diventeranno insegnanti, impiegati dello Stato, professionisti, operai specializzati, docenti universitari, perfino giornalisti.
Non sapendo mai se il corag-
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Foto giuseppedeiana
“Is Mirrionis, storia di un quartiere oltre i luoghi comuni”, di Mario Salis
gio è partire o restare, pochi vi abitano ancora ma nessuno ha dimenticato quel quartiere al plurale, come la solidarietà verso chi non ce l’ha fatta o si è perso.
Timavo è un fiume definito affascinante, reso misterioso per i suoi fenomeni carsici, sorprendente in profondità come in superficie.
Un po’ come la vita di tutti i giorni con le sue angosce ed i suoi drammi che mettono a dura prova la speranza. In una società interconnessa il digitale ha soppiantato l’arte tipografica, anelito romantico ed eroico della libertà come quella dell’informazione.
Tuttavia sopravvivono gli stereotipi, una sorta di abuso delle banalità come quelle dei luoghi comuni su un quartiere e le sue persone.
La stereotipia era un processo tipografico di ristampa, impiegato per la riedizione delle storie che lasciano il segno.
Forse mancano lettori nuovi, però dal video alla pagina il tempo deve essere quello giusto.
È la bellezza della stampa!
Mario Salis
https://www.vitobiolchini. it/2015/06/01/is-mirrionis-storia-di-un-quartiere-oltre-i-luoghi-comuni-di-mario-salis/
Lo parlano poche decine di persone nel territorio del Comune di Isili ed è a forte rischio di estinzione.
Si tratta di una lingua usata storicamente dai venditori ambulanti di rame (i “ramai”) di origini straniere tradizionalmente radicati nel fiorente comune del Sarcidano.
Ha origini gitane, albanesi o greche o del gergo della malavita, nonché ovviamente di numerosi apporti sardi.
Similitudini si ravvisano con il gergo dei calderai di Tramonti nel Friuli e con i dialetti dei calderai Camminanti siciliani (Baccagghiu), ed è accomunabile ai dialetti arbresh calabresi, in realtà originari dei comuni albanesi della Calabria.
Secondo alcune teorie potrebbe essere stato portato da popolazioni ebraiche deportate nell’Isola durante la dominazione spagnola.
PAVELA ROMANISKA
Lo sapevate? In un paese della Sardegna si parla il “Romaniska”, antico gergo dei ramai La lingua più rara ancora oggi parlata in Sardegna è il Romaniska (o Pavela Romaniska o Arbareska), un gergo alloglotto ma che con il tempo ha preso molto dal sardo.
La Sardegna è una delle regioni europee con la più alta densità di lingue parlate.
Idiomi autonomi l’uno dall’altro che si sono incontrati nell’Isola al centro del Mediterraneo. Oltre alle diverse varianti del sardo, il logudorese e il campidanese (con sottovarianti annesse), ci sono poi le lingue sardo-corse, il sassarese e il gallurese, linguisticamente separate da quelle parlate nel resto dell’Isola.
Ci sono poi le lingue “alloglotte”, ovvero di derivazione forestiera.
E’ il caso del catalano parlato ad Alghero e del carlofortino, dialetto ligure parlato nell’Isola di San Pietro e a Calasetta.
Ma la lingua più rara ancora oggi parlata in Sardegna è il Romaniska (o Pavela Romaniska o Arbareska, iun sardo campidanese arromanisca), un gergo alloglotto ma che con il tempo ha preso molto dal sardo.
Escludendo le infiltrazioni del sardo, si possono distinguere alcuni termini di origine zingarica (romanes), dall’italiano “furbesco” della malavita, dall’albanese e dal neogreco: dai dialetti zingarici dei Rom (Romanes): “daddu” da “dad” (padre), “dadda” (madre), “gitarreri” da sp.”gitano” (stagnino), “Romaniska/Romanisku” da “Rom”, “romanò” (uomo, zingaro), “barungu/barungari” (mucchio/ammucchiare), “bengis” (diavolo), “bengu” (caprone), “carigna” (stella), “gagu/ agagu” (patto non mantenuto, sleale), “gauteddu” (ragazzino), “lenta/allenta” (acqua), “lucèzu” (fuoco, fiamma), “okjeri” (asino), “romerari/arremerari” (rubare), “rumeradori/arremadori” (ladro), “zingarra” (coltello, arma da taglio); dall’albanese: “arbareska” da “arbarishte” (lingua), “drughi” da “drogë” (legno), “grebbis” da “kripë” (sale), “krocozu/ grucozu” da “grurë” (grano), “tiasu” da “djate” (formaggio), “arrèga” (villaggio, paese), “dossu” (maiale), “fruskura” (mosca), “garitsa” (volpe); dal neogreco: “calliu”/”callia” da “καλος” (bello/bella), “cresìa” da “κρασί” (vino), “su-villacciu” da “φυλακή” (prigione), “scalliu” (brutto), “gera/gerazza” (prostituta); di origine ignota: “affrogiari” (parlare), “alluscari” (guardare), “aucciari” (andare), “cramoccia” (testa), “fangosa” (scarpa), “juta” (ragazza), “maggeri” (grande), “manguru” (pene), “millau” (denaro, soldi), “minga” (donna), “scocculeri” (carabiniere o guardia), “scramocciau” (pazzo), “sghinzu” (appetito), “spatillari” (fuggire).
Luisanna Napoli
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Foto automobilclubd’italia
i chiamo Usai Antonio, nato ad Assemini (Ca) il 13/10/1957 ed ivi residente.
Forse sarò monotono, ma anch’io vorrei dire la mia sulle colonne d’Ercole e precisamente sul posizionamento delle colonne, che il giornalista ed autore del libro ”Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta” Sergio Frau colloca al canale di Sicilia.
Leggendo libri di storici antichi si capisce, in effetti, che le colonne d’Ercole fino alla fine del IV sec. a.C. erano al canale di Sicilia e non a Gibilterra. Ma c’è un libro, su tutti, nel quale in un capitolo che si titola ”descrizione geografica della terra”, è descritta perfettamente e chiaramente la prima posizione delle colonne d’Ercole.
Il libro si titola ”trattato SUL COSMO PER ALESSANDRO, attribuito ad Aristotele”, di Giovanni Reale.
Anche Sergio Frau, prima di me, ha attinto a questo libro per le sue ricerche, solo che per Frau, Aristotele le colonne le mette prima al canale di Sicilia (Aristotele dice che, attraversate le colonne d’Ercole, ci sono le due Sirti), poi subito dopo, Frau le fa piazzare ad Aristotele a Gibilterra, perché non sa spiegarsi, almeno così si capisce, cosa ci facciano certi mari al di là delle colonne, e anche a causa dei confini che Aristotele da alla Libia.
Possibile che Aristotele si sia contraddetto mettendo le colonne prima al canale e poi le abbia tolte per metterle a Gibilterra?
No, infatti le cose stanno diversamente.
Non ricordo quante volte ho letto la descrizione geografica che Aristotele fa della terra; ma ogni volta che la leggevo oltre che confermarmi ulteriormente che le colonne d’Ercole non sono assolutamente a Gibilterra ma al canale di Sicilia in tutta la descrizione geografica, si capisce chiaramente come, nella sua mente, Aristotele vedeva il mondo che lo circondava; e si può anche intravedere che questo “trattato” Aristotele l’ha scritto stando in Grecia, quasi sicuramente nella penisola calcidica dove é nato, perchè cita la grande Sirte prima della piccola, il mare Sardo prima del mare di Galazia (che bagna Marsiglia, conquistata dai greci focei intorno al 600 a.C., la quale si trova nella Celtica che per Erodoto è abitata, oltre le colonne
Le Colonne d’Ercole nell’ecumene di Aristotele
Antonio Usai
Bibliografia:
– Sergio Frau “le Colonne d’Ercole un’inchiesta” ed. Nur Neon srl Roma 2002;
– Giovanni Reale-A.P.Bos: ”il trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele” ed.Vita e Pensiero Milano1995;
– Lucio Pepe ”Aristotele Meteorologia” libro 2 cap I 354 ed. Bompiani Milano 2003;
– Luigi Annibaletto “Erodoto Storie” II, par.33 storie III par.115 ed. Oscar Mondatori Cles (Tn)1985;
– Roberto Nicolai “Polibio Storie” libro XXXIV par.6 ed. Newton Roma1998;
– Platone Opere complete vol.6° Timeo par. 25e ed.Laterza Bari 2003.
d’Ercole, dai Celti, che sono vicini dei Cinesii i quali abitano la regione più a occidente dell’Europa, cioè la Spagna), l’Adriatico prima del Siciliano, il mare di Panfilia prima del Siriano e l’Egeo prima del Mirto.
Di questa sua visione del mondo ne ho fatto due cartine che ho allegato a questo mio scritto.
E per essere più sicuro di tutto questo, ho portato il testo Aristotelico, solo la versione in greco, a una professoressa di latino e greco antico, la quale molto gentilmente me l’ha tradotto e la sua traduzione, che è più letterale, rispecchia quella di G. Reale ad eccezione di quel <te kaì> menzionato anche da Frau, che la professoressa traduce in “e anche”, anziché in “o” come fa G. Reale.
Esempio: “io mi chiamo Usai e anche Antonio” e non “Usai o Antonio”.
Quindi “Atlantico e anche Oceano” per la professoressa, “Atlantico o Oceano” per Giovanni Reale.
Ma questa piccola divergenza é ininfluente al fine della descrizione geografica della terra che inizio, prima della mia versione della stessa, citando una tesi in cui credo fortemente: “le fonti antiche
hanno sempre ragione, e hanno torto coloro che alterano i testi a favore delle loro immaginarie teorie”.
Tutta la descrizione dipende da poche e semplici parole, 4 nella traduzione di G. Reale, 6 in quella della professoressa alla quale avevo portato il testo in greco: “All’interno verso Occidente, facendosi strada con uno stretto passaggio alle cosiddette Colonne d’Ercole, l’Oceano penetra nel mare interno…”(G.Reale) “Al di qua, invece, verso Occidente,….”(professoressa). Queste semplicissime parole, su cui tutti sorvolano, dicono chiaramente, categoricamente, senza ombra di dubbio che le colonne d’Ercole non sono a Gibilterra, perché stando a Gibilterra come si riuscirebbe a entrare nel Mediterraneo andando verso Occidente? Da Gibilterra si entra verso Oriente.
Dove sono allora le colonne? Lo dice Aristotele stesso (anche Frau): “All’interno verso Occidente (verso la sponda occidentale) facendosi strada con uno stretto passaggio alle cosiddette colonne d’Ercole, l’Oceano penetra nel mare interno come in un porto, e allargandosi a poco a poco si estende, abbracciando grandi golfi collegati l’uno con l’al-
tro, ora sboccando in strette aperture, ora nuovamente allargandosi.
Orbene, in primo luogo, si dice che, dalla parte destra per chi entra attraverso le colonne d’Ercole, forma due golfi, che costituiscono le cosiddette Sirti, delle quali l’una è denominata Grande e l’altra Piccola”, cioé al canale di Sicilia. Subito dopo, per Frau, tutto si biforca; invece : “Dall’altra parte (oltre le colonne) non forma più golfi simili a questi e forma invece tre mari, ossia il mare di Sardegna, il mare di Galizia (o di Gallia) e l’Adriatico…”?!?
Cosa ci fa l’Adriatico qui? Certo sembrerebbe che Aristotele abbia fatto un errore mettendolo al di là delle colonne, ma Aristotele, se leggiamo attentamente non lo sta mettendo al di là, infatti il testo recita: “Orbene, in primo luogo, si dice che, dalla parte destra, per chi entra (nel mare interno) attraverso le colonne d’Ercole …” ci fa capire che nel mare interno si può entrare anche da un’altra parte, e cioè dallo stretto di Messina. Bisogna ricordare che lo stesso Aristotele in ”Meteorologia” 354a quando recita:”Ancora, dal momento che molti mari non sono comunicanti fra loro … “ è sottinteso che
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altri mari lo sono.
Infatti, sempre in Meteorologia, continua dicendo che: “il mar Rosso è in collegamento tramite un piccolo passaggio (tra il Mar Rosso ed il Goldo di Aden) con il mare al di là delle colonne”…
E continua dicendo: “E’ evidente che il mare scorre negli stretti, quando la sua massa viene ristretta da grandi in piccoli spazi dalla terra intorno”.
Quindi: “..forma (oceano) invece tre mari, ossia il mare di Sardegna, il mare di Galazia e (tramite lo stretto di Messina) l’Adriatico, e, subito appresso, situato in senso obliquo, il mare di Sicilia..” e tutto il resto.
Ora parlerò dei mari al di qua e al di là delle colonne; il mare al di qua é chiamato interno e come fa capire la parola stessa e lo stesso Aristotele, é un mare chiuso (ovvio non del tutto); mentre il mare al di là, l’esterno, per l’autore é un mare aperto, e lo si capisce chiaramente quando dice: “Il mare che sta all’esterno della terra abitata si chiama Atlantico o Oceano, e ci bagna tutto intorno. All’interno verso Occidente … le due Sirti”.
Moltissimo quando recita: “Successivamente, poco al di là degli Sciti e della regione
Celtica rinserra la terra abitabile fino al goldo di Galazia e le colonne d’Ercole, di cui abbiamo detto sopra, al di là delle quali l’Oceano circonda la terra”.
E si capisce moltissimo, che é un mare aperto, anche dalla traduzione della professoressa, cito: “il mare al di là dell’ecumene (terra abitata), il quale scorre attorno a noi, è chiamato Atlantico e anche Oceano.
Al di qua, invece, verso Occidente … le due Sirti”.
Ed ecco che ancora una volta quelle 4 o 6 semplicissime parole sono determinanti per la descrizione geografica di Aristotele.
Questo vuol dire che per Aristotele la Libia finisce alle colonne d’Ercole del canale di Sicilia,oltre le quali (e adesso davvero verso Occidente, verso l’America) non ci sono, o meglio non in quella posizione che conosciamo, la Tunisia, l’Algeria e il Marocco, ma solo l’Atlantico te kaì Oceano che tutto circonda e che forma (verso oriente) i 3 mari e tutto il resto.
Quindi é chiarissimo quando scrive: “la Libia è quella regione che si estende dall’istmo Arabico (o dal Nilo) fino alle colonne d’Ercole”. Addirittura l’Iberia Aristote-
le la cita una sola volta e non certo come sede delle colonne.
E infine quando dice: “l’Europa è quella terra che ha come confini tutt’intorno le colonne d’Ercole, le insenature del Ponto, il mare d’Ircania nel punto…” sta dicendo che l’Europa é al di qua e al di là delle colonne (tutt’intorno le colonne d’Ercole) più il Ponto ecc.
Tutto inizia e tutto finisce in un mondo tutto e solo greco. E per finire mi sia consentito dire “..e aveva un’isola innanzi a quella bocca, che si chiama, come voi dite, colonne d’Ercole.” (Platone-Timeo)
E così, sia nel mare Atlantico chiuso di Platone, sia nell’Oceano Atlantico, dove la mettono la maggior parte degli studiosi moderni, ma purtroppo per loro nell’Atlantico di questo Aristotele, al di là delle colonne d’Ercole c’é sempre un’isola: la mia Sardegna. Antonio Usai
https://www.archeomedia. net/antonio-usai-le-colonne-dercole-nellecumene-di-aristotele/
https://pierluigimontalbano. blogspot.com/2011/06/aristotele-e-le-colonne-dercole
uando ho visto per la prima volta il lavoro di Antonio sono stato immediatamente attratto dal suo stile fotografico ispiratore.
Antonio ha stile di composizione che cattura la storia completa e l’emozione di ogni scena. e l’emozione di ogni scena.
ritengo che la fotografia debba avere la capacità indipendente di ritrarre ricordi senza tempo. È stato il talento unico di Antonio, di Antonio, la sua guida e la sua passione per la fotografia che mi hanno incoraggiato a che mi hanno incoraggiato a intraprendere un viaggio emozionante nel mondo della fotografia.
Sarò per sempre grato e riconoscente per aver avuto il piacere di lavorare con Antonio”.
SHEIKHA LATIFA BINT MOHAMMED BIN RASHED AL MAKTOUM
’onirismo di Antonio Saba ha debuttato al River City Bangkok Photographers’ Gallery nel 2018, con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia in Thailandia, ed è stata replicata nel 2019 nella stessa sede.
La mostra è stata da allora ripensata e aggiornata, arrivando alla versione finale che sarà completata dall’artista in questa estate.
ndare a caccia di bellezza, questa è la missione del fotografo Antonio Saba.
Sembra semplice, detto in questi termini.
Ma è davvero così?
Pensiamoci bene. C’è un punto punto cruciale da considerare: quale bellezza?
Nell’epoca attuale è difficile continuare a concepirla come qualcosa di unico e incontrovertibile.
È successo per molto tempo, nelle vicende millenarie dell’umanità, fino a quando il pensiero filosofico ha mantenuto una forte vocazione idealistica. Oggi, però, gli idealismi non sono più di moda e restano come una di quelle convenzioni tautologiche, “il bello è bello”, di fronte alle quali si immagina che nessuno si opponga, dando per scontato che che tali convenzioni siano ovvie per se stesse senza bisogno di alcuna dimostrazione.
Ma sappiamo bene che, nel tempo, la bellezza non è sempre stata la stessa, cambiando con il cambiamento della mentalità (segue pagina 8)
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(segue dalla pagina 7)
(è noto che Raffaello Sanzio detestava l’arte gotica, considerandola una barbarie rispetto a quella greco-romana), né viene percepita allo stesso modo in tutte le culture del mondo (il Cantico dei Cantici, che gli antichi ebrei ebrei consideravano la poesia più alta che potesse esistere, esprime la bellezza femminile attraverso una serie di metafore (denti come pecore bagnate, collo come una torre con mille trofei appesi) a cui persone provenienti da altre parti del mondo non erano in grado di riconoscere gli stessi significati).
Questo significa essenzialmente che la bellezza non è un valore assoluto, ma un valore relativo, è sempre legata al contesto specifico che la concepisce come tale, certamente ideologico e spirituale (nel caso del classicista Raffaello, del Rinascimento italiano durante il passaggio dal Quattrocento al Cinquecento), ma anche materiale (nel caso della civiltà ebraica all’epoca di Salomone, la pecora pelosa doveva essere considerata, era considerata qualcosa di nobile e prezioso).
Inoltre, le fotografie di Saba illustrano al meglio il concetto della relatività della bellezza. Si riferiscono a idee di bellezza che, anche se considerate vicine, non sono coincidenti, perché ognuna di esse si riferisce a una situazione diversa.
C’è, per esempio, la bellezza del paesaggio, quando Saba fotografa luoghi di tutto il mondo, naturali o urbanizzati, tra terre glaciali o soffocanti, metropoli futuristiche o paesi ai margini della modernità. rappresentati da personaggi che non sono arbitrari, ma che rispondono a un modo di originare l’immagine, statico, pulito, dotato di un nodo che spesso abbraccia l’aura metafisica e il tecnicamente impeccabile.
Vittorio Sgarbi
L’imagination est la reine de la vérité, et la possibilité est l’une des régions de la vérité. Charles Baudelaire
a fotografia è nata come rappresentazione accurata ma meccanica della realtà che ha gradualmente spinto la pittura (che era un mezzo più figurativo), a diventare sempre
Foto alfaromeovirtualclub.it
SABA DUBAI E.A.U.
più astratta.
Nel XX secolo, grazie anche allo sviluppo di nuove tecnologie che hanno creato infinite possibilità di manipolazione delle immagini, la fotografia si è trasformata in una forma d’arte: Diventa un mezzo nuovo e in rapida evoluzione, in grado di trasformare, decodificare e interpretare la realtà.
Oggi, dal momento che le immagini possono catturare ciò che le parole da sole non possono catturare, milioni di cellulari, fotocamere e satelliti riprendono e filmano continuamente il mondo che ci circonda, la fotografia è diventata il mezzo di comunicazione più diffuso.
Nell’era moderna e visiva, le foto false e le immagini originali si fondono l’una con l’altra, demolendo la realtà, abbattendo i confini tra mondo reale e mondo virtuale e creando un flusso continuo di immagini, per lo più insignificanti, come afferma Italo Calvino.
Osservando l’evoluzione della fotografia, Vittorio Sgarbi afferma che “La riproduzione esatta è un’altra cosa e la riproduzione precisa è garantita dall’alta tecnologia”, per cui è logico pensare che
“il resto” (ovvero le immagini che non sono riproduzioni precise della realtà) sia arte.
La poesia e l’opera di Saba si sviluppano in questo dibattito culturale e cercano una “terza via”, che è la “fotografia di scena”: un modo colto ed espressivo di creare immagini che resistano alle tentazioni del realismo preconfezionato di Photoshop.
La fotografia di scena è un modo non oggettivo di rappresentare il mondo visibile.
La messa in scena si riferisce a elaborare l’illusione della favola o “fabula”.
Saba rifiuta la mimesi e la realtà così com’è.
Non gli interessa l’ordinario, ma all’ordinario preferisce lo straordinario.
Non cerca immagini scioccanti né segue le notizie per essere al posto giusto al momento giusto, pronto a fotografare un evento straordinario.
Come i protagonisti del film “Fino alla fine del mondo”, Saba cerca di ritrarre le immagini che si sono depositate nel suo subconscio.
Renata Cristina Mazzantini https://www.dropbox. com/s/7p0szhkqwl91pib/ SABA_Dubai%20exhibit%202022%20image%20 def.pdf?dl=0
Antonio Saba è un fotografo italiano con sede a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti.
In una carriera di oltre 30 anni, ha girato il mondo scattando fotografie di architettura, lifestyle e allestimento per i principali marchi e riviste di lusso del mondo.
Che si tratti di incarichi commerciali o personali, Antonio è ossessionato dalla ricerca della bellezza in tutte le sue forme visive, che gli conferisce uno stile molto riconoscibile in tutte le fotografie che realizza.
Antonio è anche consulente personale per tutte le questioni di fotografia di un importante membro della famiglia reale di Dubai.
I suoi lavori più significativi degli ultimi anni sono ora presentati in un libro da tavolo dal titolo “Antonio Saba, Chasing Beauty”, curato dal noto critico d’arte Vittorio Sgarbi.
Tre delle sue opere più recenti sono state acquisite per la collezione permanente del Museo Civico di Cagliari, in Italia.
Mostre personali e premi: Nel 2019, Antonio Saba ha ricevuto 4 menzioni d’onore per le sue fotografie
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ANTONIO
The Tower of Babel, The Woman and the Catfish at the gIngerbread House, The Ballerina’s Rehearsal, An Ordinary Day in Miramare. nella categoria fine art all’International Photography di New York.
“Antonio Saba. Onirismo, paesaggi onirici in mostra”: Bangkok, River City Bangkok Photographers’ Gallery, da novembre 2018 a gennaio 2019. E di nuovo da ottobre 2019 a novembre 2019.
“Tokyo Landscape”, evento ufficiale del “Festival del Film di Roma 2010” esposto al Museo d’Arte Moderna.
“Carlo Bilotti” a Roma.
“Visionarya Industrya” è stata esposta a Cagliari, nel Ghetto degli Ebrei, nel 2003, e a Vilnius, in Lituania, nel 2004.
La visione di Antonio Saba delle fabbriche alimentari lituane”, esposta nel 2006 a Vilnius, Klaipeda, Kaunas e Rokiskio in Lituania.
“La Bellezza della Fisica” esposta a Cagliari, presso la Cittadella dei Musei nel 2005.
Foundry è uno spazio d’arte ibrido e progressista fondato come risposta alla scena culturale in evoluzione negli Emirati Arabi Uniti. Si tratta di un nuovo ciclo di attività creative che comprende uno spazio di lavoro aperto e collaborativo, uno studio podcast, una micro biblioteca, una caffetteria e spazi espositivi circostanti.
L’ambiente innovativo di Foundry è uno spazio di possibilità e e offre alla comunità di Dubai, e a tutte le comunità locali, l’opportunità di prosperare, connettersi, comunicare ed esporre.
Lo spazio offre un programma completo di eventi, commissioni, workshop, conferenze e proiezioni di film e offre un’ampia gamma d’opere d’arte contemporanea e un’ampia gamma di programmi culturali alla comunità di Dubai, degli Emirati Arabi Uniti e della regione.
Boulevard Crescent, Boulevard Sceicco Mohammed bin Rashid
https://www.mutualart.com/ Gallery/Foundry-Downtown-Dubai/ https://www.foundry.downtowndubai.ae/
ANTONIO ATZA MANCA SPAZIO
ntonio Atza (Bauladu 1925 – Bosa 2009), straordinario colorista, è annoverato tra i maestri dell’arte sarda del secondo Novecento.
Inziò presto a dipingere e dopo il ginnasio frequentò l’istituto d’arte di Sassari seguendo gli insegnamenti di Dessy, Fara e Figari. Completati gli studi si dedicò all’insegnamento e alla ricerca artistica.
Le prime opere furono ritratti di personaggi di Bosa, dove trascorse parte dell’infanzia.
Nel 1957, in occasione della prima edizione del Premio Sardegna, strinse amicizia con Mauro Manca, a cui si deve l’introduzione di molte novità artistiche nell’isola.
L’anno successivo fu creata l’associazione Studio 58 con la quale Atza entrò in contatto.
Sempre al 1958 risale la sua prima opera futurista, l’Autoritratto, ma già l’anno seguente i suoi dipinti a soggetto ferroviario si avvicinano allo stile neorealista.
Nel 1960 in occasione di una mostra allestita da Studio 58 Atza espose le Sabbie, serie di polimaterici su tela; allo stesso anno risalgono Blues, serie di opere astratte in cui compaiono delle simbologie assimilabili al mare e al sogno.
La sua ricerca artistica si aprì alle esperienze della pop art creando linguaggi innovativi e surreali con l’utilizzo di plastiche colorate.
Negli anni ’70 si dedicò a paesaggi classicheggianti e surreali come Modificazioni e Rifugi per gabbiani.
È considerato uno di pittori più rappresentativi della pittura contemporanea sarda.
I suoi dipinti, ricercati e ambìti da collezionisti o da semplici amatori, sono presenti nelle principali raccolte museali dell’Isola. A Bosa, sua cittadina adottiva, l’artista ha legato un’importante raccolta di suoi lavori, qui interamente documentata.
L’esatta definizione della personalità artistica di Atza ha reso evidente la portata culturale della sua innovazione – si ricordino i cicli Sabbie, Blues, Aquiloni –, che ha spinto la ricerca ben al di là del mero pregio estetico.
La monografia propone una ricca selezione di opere, riassuntiva di ogni aspetto della produzione: la costante variazione delle soluzioni espressive, la qualità dei risultati mai disgiunti dalla piacevolezza dei dipinti riprodotti.
Il volume si giova infine di un ricco repertorio di apparati relativi agli scritti sul lavoro dell’artista, con una dettagliata cronologia biobibliografica.
www.ilisso.it/antonio-atza/ 9 S’ARTI NOSTRA 9 A
www.antoniosaba.com instagram : antoniosaba_photo
el XX secolo Bauladu
diede i natali al pittore Antonio Atza, annoverato tra i maestri più apprezzati dell’arte sarda del secondo Novecento. Il suo amore per l’arte lo mette in contatto con i fermenti avanguardistici internazionali di Mosca, Leningrado, Parigi, Londra e Madrid, dai quali trae continua ispirazione. L’aula consiliare a lui dedicata, conserva cinque delle opere più rappresentative del suo percorso creativo: un viaggio nel tempo tra innovazioni artistiche e il paesaggismo più classico.
Anche lo spazio esterno, adiacente al Municipio, omaggia il pittore bauladese: l’ombra della pergola ferrigna proietta sulla muratura un intreccio di fili e di forme che richiamano l’arte di Antonio Atza e rimandano ulteriormente ad alcuni dei più importanti artisti isolani del secolo scorso, come Maria Lai.
Antonio Atza, sardo di adozione bosana ha sviluppato un’attività artistica variegata. I suoi dipinti raccolgono immagini di Bosa, ritratti di uomini e donne sarde e di paesaggi sardi che resteranno citati anche nelle più recenti raffigurazioni surrealistiche. Quest’ultime sono senz’altro quelle che destano maggiore curiosità: si tratta di immagini che richiamano alcune raffigurazioni di de Chirico e che mostrano il più delle volte ossa che si trasformano in fiori e foglie sospese in aria o appoggiate su mensole.
Importanti le opere “Sabbie” e “Blues” realizzate con diversi materiali quali sabbie e cartapesta, che lo hanno reso famoso.
La Pinacoteca Atza si trova a Bosa, nel corso Vittorio Emanuele II di fronte alla Casa Deriu, nei locali della ex Biblioteca comunale.
Al suo interno si trovano le opere donate dal pittore Antonio Atza alla Città di Bosa.
L’esposizione, suddivisa in diverse sale, permette di conoscere il percorso dell’artista dalle primissime esecuzioni realistiche, alla fase surrealista che lo ha consacrato tra i protagonisti del dopoguerra.
La pinacoteca costituisce la più significativa esposizione delle opere di Atza con le famose “Sabbie” dipinte alla fine degli anni cinquanta, i “Blues” dei primi anni sessanta e le opere di chiara
Foto mancaspazio
ispirazione futurista, come l’”Autoritratto” e i “Venditori di brocche” che assieme agli “Aquiloni” descrivono la portata culturale della sua innovazione artistica.
Il museo permette la conoscenza di un artista annoverato tra i maestri dell’arte sarda del secondo Novecento.
I suoi dipinti sono infatti presenti nei principali musei dell’isola e sono ricercati e ambiti dai collezionisti. Uno spazio è dedicato alle opere dei vari artisti con i quali Antonio Atza aveva stretto rapporti di amicizia: Stanis Dessy, Giovanni Thermes e Giovanni Pisano.
Con la generosa donazione al comune di Bosa lo scopo di Antonio Atza è stato quello di un caloroso riconoscimento verso quella “città sul fiume” che fu musa ispiratrice e fonte di ricordi indelebili fin dall’infanzia...
Il nucleo di opere, costituito da 96 pezzi, consta di 55 dipinti realizzati dall’artista e 41 pezzi donati o scambiati con alcuni autori sardi e non, tra i quali figurano Michele Cascella, Antonio Corriga, Carmelo Floris, Mauro Manca, Ernesto Treccani, Emilio Scanavino e Stanis Dessì. Quest’ultimo, grande amico di Atza, aveva l’abitudine di
omaggiarlo di alcune opere in occasione delle festività natalizie, in mostra possiamo ammirare tre incisioni, tra cui una xilografia del 1934, un acquerello e due ritratti di Antonio Atza realizzati dal vero e donati all’artista.
Carmelo Floris, oltre ad avergli insegnato la tecnica del monotipo, gli mise a disposizione i suoi strumenti di stampa.
Della sua produzione in mostra due acqueforti realizzate negli anni ’50, “I giocatori” e “La bettola”.
Interessante il ciclo d’incisioni “I segni dello zodiaco”, ideato da Renzo Margonari e stampato da Renzo Sommaruga, nel quale ogni artista partecipante realizzò il proprio segno zodiacale.
Quest’ultimo, come il ritratto eseguito a biro da Dessy, si trovava nella sua camera da letto, ad indicare il profondo affetto che legava l’artista ai suoi compagni d’avventura.
Uno di questi fu Nino Dore, che in cambio di un olio, realizzato nel 1960, scelse uno dei “Blues” di Atza.
Al corpus dell’artista appartengono alcune opere polimateriche portate a compimento tra gli anni ’50 e i primi anni ’60, di cui fanno parte “Sabbie”, nel quale esprime le bel-
lezze dei fondali marini e le scogliere del litorale bosano. Un autoritratto del 1958 documenta la fase futurista del pittore, mentre “Lidia dormiente” indica l’influenza di Voillard nella sua opera. Negli anni ’70 si dedica ai paesaggi classicheggianti e surreali tra i quali “Modificazioni” e “Rifugi per gabbiani”.
Al termine dei lavori di ristrutturazione, la mostra permanente troverà la sua collocazione definitiva nell’ex Convento dei Carmelitani. Della raccolta fanno parte alcune opere di Calvi, Cascella, Vallazza, Mosconi, Margonari, Contini, Corriga, Beccheroni, Crippa, Girardello, Sommaruga, Tomiolo, Abacuc, Lucarelli, Floris, Motzo, Zanon, Piras, Pisano, Thermes, Dessy, Manca, Masu, Pagnacco, Pala e Renink. Limonata e Zanzare
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Manca
Antonio Atza fino al 28 gennaio 2023
Spazio Via della Pietà 11 08100 NUORO Tel.:+39 351 866 8410 mancaspazio@gmail.com mancaspazio.com/
l Museo Archeologico
Idi “Genna Maria” si trova nel centro storico del piccolo paese di Villanovaforru, di circa 700 abitanti, centro abitato della regione storica della Marmilla. Per arrivarci, percorrendo la S.S. 131 “Carlo Felice” al chilometro 50 circa, si prosegue per la Strada Provinciale 52, che si inerpica per circa 6 Km, con leggere curve, attraversando un paesaggio ondulato di coltivi a cereali, oliveti e vigneti.
Il Museo Archeologico di Genna Maria è posizionato in un’elegante palazzina ottocentesca, utilizzata anticamente come “Monte di soccorso”.
In esso sono esposti i reperti rinvenuti nell’omonimo complesso nuragico, rispettando le associazioni originarie che arredavano e rendevano funzionali i vari ambienti del villaggio.
Le vetrine espongono un vasto repertorio di vasi, strumenti litici e metallici riferibili alle attività legate alla sussistenza della comunità stanziata sulla collina. L’esposizione documenta il fermento delle attività quotidiane legate all’agricoltura e all’allevamento nonché alla caccia di una piccola comunità rurale del X-IX sec. a.
Nel piano superiore sono esposti i reperti provenienti dai siti del territorio della Marmilla compresi in un arco di tempo che va dal Neolitico all’età Bizantina.
La scelta espositiva dei reperti esalta il rapporto tra gli oggetti d’uso e gli ambienti di rinvenimento, ricostruendo la vita all’interno di un’abitazione di tremila anni fa.
Tra i reperti fittili più significativi gli strumenti di dominio del fuoco quali fornelli portatili, portabraci, alari, coppe di cottura sostitutive del forno.
Le brocchette askoidi si confrontano con reperti analoghi rinvenuti nella Toscana marittima, a Creta e (frammentari) in altre località del Mediterraneo (Cartagine) e della Costa Atlantica (Cadice).
Servizi
Visite guidate al Parco archeologico e per i gruppi su prenotazione al Museo, ai laboratori tecnici (grafico, restauro ceramico, restauro osteologico).
Sono presenti le audio guide anche in lingua straniera.
Non vi sono barriere architettoniche ed esiste un percorso tattile con reperti fuori e dentro vetrina. All’interno del Museo sono utilizzabili e consultabili alcune postazioni multimediali, inoltre è presente un bookshop.
Il Complesso Nuragico di “Genna Maria” è all’interno di un parco alberato, ubicato sulla sommità di una collina a 408 m. s. l. m. a circa un km dal paese di Villanovaforru. In posizione eccezionalmente dominante, con un campo visivo che consente di spaziare senza soluzione di continuità dal Golfo di Cagliari a quello di Oristano, si può facilmente raggiungere a piedi tramite sentieri sterrati e in parte lastricati.
L’Unità Introduttiva agli scavi è fornita di pannelli che illustrano le caratteristiche del complesso nuragico messo in luce dagli scavi sulla sommità della collina.
Il complesso nuragico è costituito da un nuraghe complesso trilobato circondato da un antemurale turrito costruiti e utilizzati in funzione di controllo del territorio fra il Bronzo Medio ed il Bronzo Finale (XV-XI sec. a.C.).
Un episodio di distruzione avvenuto intorno al X sec. a. C. riduce il bastione trilobato alle dimensioni attuali che superano di circa 7 metri di elevato.
Lo stesso antemurale viene scapitozzato e ridotto ad un alzato di pochi filari.
Nel IX sec. a.C. la collina viene rioccupata da un insediamento di capanne che vengono costrui-
te al di sopra dei livelli delle antiche rovine.
Gli scavi di queste capanne hanno documentato un violento incendio e la loro conseguente distruzione avvenuta intorno alla fine del IX sec. a.C..
Tale evento ha causato la completa sepoltura e sigillatura dei reperti di cultura materiale delle abitazioni, reperti che, grazie allo scavo scientifico sono giunti fino a noi raccontandoci la storia della vita quotidiana di una popolazione nuragica dell’Età del Ferro.
l museo archeologico di Villanovaforru ha appena compiuto 40 anni e la ricorrenza è coincisa con l’apertura di due torri del nuraghe e di un nuovo settore del villaggio di “Genna Maria”, che ha rivelato interessanti ambienti, tra i quali una cucina comunitaria composta da vari focolari e un laboratorio per la vinificazione. Il museo ospita in questo periodo, due esposizioni dedicate al quarantennale, in cui fa bella mostra lo spettacolare plastico della tomba dei giganti “Sa domu de s’Orcu”, realizzato in scala 1:15.
Altro particolare sito è il villaggio di “Pinn’e Maiolu”, caratterizzato da una serie di canalette che rivelano la gestione dell’acqua e che ha appena ricevuto dalla Regione, un nuovo finanziamento per il proseguo delle ricerche Visiteremo tutti questi siti, in una giornata ricca di sorprese e rivelazioni
Domenica 29 Gennaio 2023 Programma
- h. 10.00: Visita guidata al nuraghe e al villaggio di Genna Maria
- h. 11.00: Visita guidata al museo archeologico e alla mostra “Un paese al museo” - h. 12.00: Visita alla mostra “Ripercorrendo il museo Genna Maria. I documenti d’archivio”
- h. 15.30: Visita guidata al villaggio nuragico di “Pinn’e Maiolu”
Costi e prenotazioni
10 Euro adulti, 7 Euro ragazzi dai 6 ai 18 anni
museo@comune.villanovaforru.ca.it / 070 9300050 / 333 1760216 (anche whatsapp)
Per la pausa pranzo, il ristorante “Le Strutture” propone un menù turistico (331 6232073)
11 S’ARTI NOSTRA 11 Museo Archeologico Genna Maria Piazza Costituzione 4 09020 Villanovaforru (CA) Tel.:+39 070 930 0050 www.gennamaria.it
Photo lanuovasardegna
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iscoprire il passato e tutelarlo: è questo “Il futuro della memoria”, la nuova opera dell’artista mascherato Manu Invisible apparsa a Elmas sulle pareti del mercato civico.
Si intitola “No Filter” il murale realizzato sulle mura esterne della struttura.
Tra i particolari spiccano i pescatori e i fenicotteri, presenze storiche della laguna masese.
“C’è una connessione tra l’idea di bello e quella di bene, suggerita dalla radice etimologica latina: bellus “bello”, nel cui diminutivo: “bonus”, troviamo ancora l’antico significato, tutto da riscoprire –spiega l’artista -.
Perché si sa, il concetto di bellezza nell’epoca dell’apparire, spoglia il suo significato di contenuto interiore, per dare maggior risalto a quelle che sono le qualità esteriori.
Questa è una tendenza ovviamente; e come in ogni “moda” ci si può distinguere, facendo la differenza, riscoprendo il passato e tutelandolo”.
L’opera rientra all’interno di un progetto culturale presentato dall’Associazione A.DOC.
– ASSOCIAZIONE DOCENTI di cui il Comune di Elmas è partner.
Il Progetto ha l’obiettivo di valorizzare la memoria storica dei piccoli centri e di alcune periferie cittadine della provincia del Sud Sardegna.
Il murale ha quindi questo obiettivo: trasferire alle future generazioni con un messaggio moderno, la storia della nostra comunità, perché è importante conoscere le proprie radici per vivere al meglio il futuro.
“Si tratta di un’iniziativa totalmente a carico dell’Associazione, che non costerà nulla alle casse comunali, ma che darà grande lustro e visibilità al nostro paese commenta la sindaca Maria laura Orrù -.
È solo l’ultimo esempio di collaborazione virtuosa tra il nostro Comune e il mondo del terzo settore che ha contrassegnato fin dall’inizio la nostra amministrazione comunale.
Poter ospitare nel nostro territorio l’opera di un artista famoso e celebrato anche al di fuori dei confini nazionali come Manu Invisible è un grande risultato di cui tutti dobbiamo essere fieri. Ringrazio tutte/i coloro che si stanno mostrando interessati al nostro territorio
Siamo molto soddisfatti e felici di aver collaborato a questo importante progetto, la realizzazione di questo importante
murale a firma di Manu Invisible raffigura perfettamente le tradizioni e le peculiarità della nostra cittadina.
Elmas si affaccia infatti su un’incantevole specchio d’acqua lagunare dall’alto valore ambientale.
I pescatori che tutte le mattine animano la laguna di Giliacquas per noi sono un valore aggiunto di storia e tradizione così come il complesso dove svetta la chiesa di Santa Caterina che appartiene al Dna dei masesi”.
A Elmas si è scelto di ricordare uno dei pilastri dell’economia lagunare di tanti anni fa, in particolare il borgo di Giliacquas, dove l’attività ittica faceva reddito per tante famiglie.
Elmas infatti era un piccolo villaggio di agricoltori e pescatori.
Molti anni dopo l’avvento dell’industria e l’aumento del traffico passeggeri dall’aeroporto Cagliari-Elmas avrebbe cambiato urbanistica ed economia di un Comune che ha oggi ha quasi 10mila abitanti ma che non vuole perdere memorie e ricordi del suo passato.
E che rivive grazie a un murale colorato di rosa, come i tramonti e i fenicotteri della laguna.
Manu Invisible intraprende il suo percorso artistico agli inizi del XXI secolo in Sardegna, si stanzia a Milano e successivamente porta a termine diversi lavori in ambito internazionale.
Provenendo dal mondo dei Graffiti, mantiene l’approccio urbano di tale disciplina, la sua arte si differenzia nell’ambito della Street Art per la scelta di inserire parole dall’alto valore simbolico, in contesti urbani fatiscenti e strade a scorrimento veloce.
Manu Invisible indossa un vestito nero con tracce di pittura di diversi colori, è un artista mascherato, lo differenzia una maschera nero lucido dalle forme taglienti, ispirata alla geometria e alla notte.
Diplomato al Liceo Artistico, in seguito ha svolto diverse mostre presso, lo Spazio Galileo di Milano e portato a termine un opera murale sulla facciata del Liceo Carnot Jean Bertin in Francia.
Ha svolto dei corsi privati di affresco, entrambi a Firenze, uno presso l’Accademia del Giglio, l’altro presso la Bottega del Bon Fresco del Maestro Massimo Callossi Il 4 Aprile 2016, davanti alla Corte di Cassazione viene prosciolto in formula definiti-
va, dopo esser stato già assolto in primo e secondo grado presso il Tribunale di Milano, nel quale si è riconosciuto il valore artistico del suo intervento.
Nel 2018 porta a termine un Affresco Tradizionale a 360° lungo le pareti dell’Aula Magna Capitini dell’Università di Cagliari.
Manu Invisible ha fatto parte a diversi progetti, portati a termine con passione, la stessa che lo accompagna sin dall’inizio del suo percorso.
Eccone un elenco significativo:
“Genera Energia” per E-Distribuzione Quartucciu 2022 “Con$um€” Calvi 2021
“Cambiamento” per Oasi del cervo e della luna [Uta] 2021 “Sequenza”, “Potenziale” e “Disciplina” per Adidas, Wiko e Key Gallery [Milano] 2020
“Spirit” Università Roma Tre 2020
“Futuro” Artwork e testimonial per IED Cagliari 2019 “Appartenenza” e “Sguardi” murales per il Museo Archeologico Nazionale [Cagliari] 2018.
www.manuinvisible.com/it/ www.castedduonline.it/a-elmas-un-murale-di-manu-invisible-sulla-memoria-storica/
S’ARTI NOSTRA 12 R
Foto giornalia
MANU
INVISIBILE
Foto wikipefia.org
Luigi Lilio nacque a Cirò nel 1510 e morì a Roma nel 1576.
Si rese immortale progettando la riforma del calendario, una rivoluzione ADOTTATA DA TUTTO IL MONDO, eseguita nel 1582 sotto il Pontefice Gregorio XIII.
Ma chiaramente pochi lo sanno, perchè i libri di storia parlano di Gregorio XIII e non di Lilio.
Lilio si pose il problema astronomico-confessionale quando il Consiglio di Nicea stabilì che la Pasqua sarebbe stata celebrata la prima domenica dopo il plenilunio di primavera.
Dai suoi calcoli l’anno risultò essere di 365 gg 5 ore 49 min e 12 secondi.
Dovette correggere la data e dal 4 ottobre si passò al 15.
In generale la semplicissima regola delle intercalazioni adottata dalla riforma liliana è la seguente: ogni anno non divisibile per quattro sarà anno comune di 365 giorni e sarà bisestile di 366 giorni se il suo numero è divisibile per quattro.
Fanno eccezione alla regola gli anni secolari i quali, benché abbiano il numero divisibile per quattro, non sono bisestili. Per essi si adotta una regola si-
mile, ovvero: ogni anno secolare il cui numero del secolo, non considerando i due zeri, non sia divisibile per quattro sarà comune; sarà bisestile se è divisibile per quattro.
Per evitare dunque che si producessero accumuli di errori futuri, fu decretato che si cancellassero 3 giorni ogni 400 anni, mantenendo la regola giuliana dell’introduzione di un anno bisestile ogni 4 anni, ma gli anni secolari, che nel calendario giuliano erano tutti bisestili, divennero comuni tranne quelli divisibili per quattro, che rimasero bisestili. Seguendo queste indicazioni, sono stati bisestili per esempio gli anni 1980, 1984; non sono stati e non saranno bisestili gli anni 1800, 1900, 2200 etc.; sono stati e saranno bisestili gli anni 1600, 2000, 2400, 2800 etc.
In quanto allo spostamento dell’equinozio di primavera dovuto al calendario giuliano, Lilio, per recuperare i giorni perduti e per ricondurre l’equinozio di primavera alla data del 21 marzo, propose di eliminare dal calendario dieci giorni; questa correzione poteva essere apportata fin dall’inizio dell’adozione del nuovo calendario o gradualmente nel periodo compreso tra il 1584 e il 1620.
Entrambe le soluzioni sono riportate nel Compendium. Fu Clavio, sulla base delle proposte di Lilio, a suggerire di passare dal 4 al 15 ottobre 1582.
Le correzioni di Lilio non sono limitate alla sincronizzazione dell’anno civile con l’anno astronomico di quel tempo, bensì i suoi calcoli offrono un potentissimo strumento che permette di adattare il suo calendario a qualsiasi variazione dell’anno tropico.
Risolto il problema dell’anno calendaristico, non così semplice era il rimedio di correggere l’altro errore del calendario che consisteva nella retrodatazione dei noviluni.
È la parte più interessante della riforma perché lo scopo fondamentale dei riformatori era che, nello stabilire l’epoca della Pasqua, non venisse tradita l’intenzione dei padri niceni, cioè che la Pasqua cristiana si celebrasse nella prima domenica dopo il plenilunio che seguiva l’equinozio di primavera.
Lilio pensò di rivedere il ciclo Metonico ed elaborò un metodo per evitare che le lunazioni scivolassero di un giorno ogni 312,5 anni.
Mediante due equazioni (solare e lunare) propone un originale ed efficace ciclo delle epatte che permette di stabilire
LUIGI LILIO E L’EPATTA
la data della Pasqua di qualsiasi anno nel corso dei secoli. In breve, con la riforma liliana furono eliminati dieci giorni dal calendario giuliano e solo gli anni secolari divisibili per quattro rimasero bisestili.
Il ciclo Metonico per la determinazione della Pasqua venne invece sostituito con il ciclo delle epatte.
L’epatta (dal greco: ἐπακταὶ ἡμέραι epaktài hēmèrai = giorni aggiunti; in latino: epactae dies) dell’anno è il numero di giorni da aggiungere alla data dell’ultimo novilunio dell’anno precedente per completare l’anno solare.
Nel calendario gregoriano si definisce l’epatta come l’età della Luna al 1º gennaio espressa in trentesimi di lunazione.
Le epatte sono usate per trovare l’età della luna in qualsiasi giorno dell’anno a partire dalla data nel comune calendario solare.
In particolare compaiono nel calcolo della prima lunazione di primavera e quindi nel calcolo della Pasqua.
Nonostante il dettato del secondo canone della riforma gregoriana citata, le epatte in questo calendario non possono più essere definite precisamente come giorni.
Luigi Lilio modificò la semplice relazione di Metone con le correzioni centenarie delle epatte di un’unità: un’”equazione solare” che diminuisce l’epatta per gli anni in cui il calendario gregoriano abolisce i giorni bisestili (3 volte ogni 400 anni), un’”equazione lunare” che aumenta l’epatta 8 volte ogni 2500 anni.
Nel calendario gregoriano, ci sono 30 valori possibili per l’epatta. Le epatte sono sempre calcolate con il quoziente del divisore 30, e indicano sempre la luna nuova.
Pertanto le epatte sono trentesimi di una lunazione (tithi). Una lunazione è più breve di 30 giorni, quindi l’unità dell’epatta vale meno di un giorno. Può essere notato che Lilio ricorse alle “equazioni solari” per riportare in sincronia il calendario lunare con il calendario giuliano; le “equazioni lunari” servirebbero dunque a correggere nel lungo periodo l’approssimativa relazione metonica fra l’anno giuliano e la lunazione media.
Tuttavia, le “equazioni lunari” sono usate all’inizio degli anni gregoriani e non degli anni giuliani.
L’epatta gregoriana si ripete con un periodo di 5.700.000 anni. (segue pagina 14)
S’ARTI NOSTRA 13
(segue dallam pagina 13)
uigi Giglio, in latino Aloysius Lilius (Cirò, 1510 – Roma, 1574), è stato un medico, astronomo e matematico italiano.
Fu l’ideatore della riforma del calendario gregoriano.
Nel 2012 la Regione Calabria ha istituito la Giornata del Calendario in memoria di Luigi Lilio fissandola per il 21 marzo di ogni anno.
Luigi Lilio (Luigi Giglio) nacque, come vuole la tradizione, nel 1510 a Psycròn, oggi Cirò, un ricco feudo che faceva parte della Calabria Latina.
I dati biografici di Luigi Lilio sono incerti perché i registri anagrafici dell’archivio comunale di Cirò risalgono al 1809, mentre quelli parrocchiali, che sono i più antichi, risalgono al Seicento.
Infatti, fu allora che i parroci iniziarono a registrare gli atti di nascita, battesimo, cresima e morte come stabilito dal Concilio di Trento (1545 – 1563).
Nel bassorilievo del mausoleo della Basilica Vaticana in Roma, dedicato a Gregorio XIII, Antonio Lilio genuflesso porge al pontefice il libro del nuovo calendario illustrazione qui a lato)
Luigi Lilio ebbe almeno un fratello, Antonio, con cui condivise l’interesse per gli studi scientifici.
Sono poche le vicende note della sua esistenza, tanto che in passato ne è stata persino messa in dubbio l’origine calabrese.
A dissipare ogni dubbio riguardante il fatto che Cirò dette i natali a Luigi Lilio, è sufficiente leggere quanto scrisse nel 1603 il gesuita tedesco Cristoforo Clavio, matematico e membro della commissione istituita da Gregorio XIII per studiare la riforma del calendario:
“E magari fosse ancora vivo Aloysius Lilius Hypsichronaeus uomo più che degno di immortalità, che fu il principale autore di una correzione tanto valida e risplendette sugli altri grazie alle cose da lui scoperte.”
Hypsichronaeus citato da Clavio significa da Cirò o cirotano, perché Hypsichròn nel 1500 era il nome da cui è derivata la parola Cirò: Ypsicròn, Psicrò, Psigrò, Zigrò, Zirò, Cirò.
Altra prova inconfutabile che Cirò dette i natali a Lilio è fornita dall’umanista Gian Teseo Casoppero nella lettera che nel 1535 scrive all’amico Girolamo Tigano in cui indica tra le famiglie primarie di Cirò la
famiglia Giglio e, ancora, in un’altra lettera che invia allo stesso Luigi Lilio nella quale lo prega di porgere un saluto ai compaesani che dimoravano in Napoli: “nostratibus omnibus qui Neapoli degunt ex me salutem dicas”.
Secondo la tradizione Lilio ricevette a Cirò una solida educazione umanistica da Casoppero, ma molto probabilmente iniziò gli studi sotto la guida dello zio materno di Casoppero, il decano Antonio Spoletino.
Solo supposizioni possono essere fatte per gli anni della prima gioventù, poiché le uniche notizie certe risalgono agli anni Trenta del XVI secolo. Dalla lettera sopra citata, datata 28 gennaio 1532, a lui indirizzata da Gian Teseo Casoppero, si apprende che Lilio non era più in Calabria, ma a Napoli, dove stava conducendo degli studi superiori di medicina, dato che Juan Salon, nel suo De Romani calendarii nova emendatione, ac Paschalis solennitatis reductione del 1576, lo qualifica come medico, oltre che come matematico:
“Aloisius Lilius Medicus execellentissimus & Mathematicus haud vulgaris Alfonsum Regem in anni quantitate imitates, cyclum magnum.” Nella Città partenopea era al
servizio dei Carafa, non essendo sufficienti le sostanze paterne per sostenersi agli studi. Appresa la notizia, Casoppero, che evidentemente aveva avuto modo di apprezzarne le precoci doti scientifiche, gli inviò una lettera nella quale, con tono garbato ma deciso, ammonisce Lilio e gli consiglia di dedicarsi solo agli studi.
La lettera, datata Psycrò, V Kalendas februarii MDXXXII, rappresenta uno dei due soli documenti che attestano l’esistenza in vita di Luigi Lilio.
Vi si legge: De nova ecclesiastici calendarii, pro legitimo Paschalis celebrationis tempore, restituendi forma, libellulus, Alexandrei Picolominei, Senis: apud Lucam Bonettum, 1578. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze MAGL. 1.6.630.
“Gian Teseo Casoppero a Luigi Lilio dice salute.
Non approvo affatto o Luigi, che tu faccia e l’uomo di studi e l’uomo di corte.
Infatti l’animo occupato a due cariche non può adempirne alcuna.
Ma, se tu costretto dalla necessità insuperabile imprendesti di servire nell’Aula Baronale, perché le sostanze paterne non basterebbero a sostentarti per attendere unicamente alle lettere, sii cauto a non inciam-
pare nelle reti della seduzione per non avertene tardi a pentire, e fa di tutto per sottrarti quanto più presto puoi dagli amplessi di lei; poiché non potrai giammai dall’Aula ritrarre vera felicità, ed il tempo che nella stessa consumerai sarà perduto, e non potrai più rinfrancarlo.
Sarà tua cura dare esca agli uomini e scoprire sempre qualcosa di nuovo, in modo che, col favore di Mercurio, tu possa procurarti alquanto denaro e vendere a buon prezzo l’arte tua, essendo padrone di te stesso; ciò che ridonderà in tua gran lode e gloria, come colui che occupato onestamente vivrà o con niuno, o col minimo dispendio del tuo patrimonio famigliare. Conservati e porgi da parte mia, un saluto a tutti i nostri compaesani che dimorano a Napoli.
Da Psycro 28 gennaio 1532” Conseguita la laurea in medicina, Luigi Lilio si trasferisce a Roma dove, con l’esperienza scientifica maturata a Napoli, concepì e maturò la riforma del calendario.
In mancanza di documenti certi non sappiamo nulla della vita di Lilio a Roma, al contrario, sulla base di un’inoppugnabile fonte documentaria, sappiamo che Lilio nel 1552 si trovava a Perugia.
S’ARTI NOSTRA 14
Foto wikipedia.org
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Sebbene nessun atto dell’Università di Perugia dimostri che Lilio sia stato docente in quello Studio, una lettera autografa datata 25 settembre 1552 e indirizzata dal cardinale Marcello Cervini a Guglielmo Sirleto, attesta che in quel periodo “messer Aluigi Gigli” era lettore di medicina presso lo Studio perugino.
Con l’intento di assicurare a Lilio un aumento di stipendio, che sarebbe stato concesso ai migliori lettori dello Studio perugino, il cardinale Marcello Cervini pregava Guglielmo Sirleto di intervenire personalmente presso il cardinale Girolamo Dandini, potente esponente della Chiesa.
Il primo a dare notizie di questa lettera, e a indicare il posto dove poteva essere trovata, è il tedesco Josef Schmid, autore di una pubblicazione fondamentale sulla riforma.
Ma come riferisce lo studioso August Ziggelaar, la lettera non esisteva nel luogo indicato:
“He taught medicine at The University of Perugia in 1552 according to Schmid, who refers to Bib.Vat., Cod. Vat. Lat., 6179, 25, but I did not find this at the indicate place”.
Nella lettera ritrovata da F. Vizza, ricercatore del C.N.R., e trascritta dallo storico Gio-
“Messer Guglielmo carissimo. So stato alquanto pensando se dovevo scrivere questa lettera alla Signoria Ill.ma mia Dandini e a voi che gliela leggerete, et finalmente mi so risoluto per esser voi †…† informato di messer Aluigi Gigli, lettor di medicina in Perugia, et raccomandare di che io la servirò, di indrizarla a voi come a quello che potrete dar più particolare informatione a Sua Signoria Reverendissima di lui che non haria fatto io con una semplice lettera. Visitarete adonque prima Sua Signoria Reverendissima in nome mio et appresso li direte che havendo io inteso com’ella ha preso già protettione del detto messer Aluigi, secondo il solito della cortesia sua, non posso fare di non rendergliene grazie aiutando una persona così dotta et dabene, come voi sapete che è questa, la quale, per quanto intendo, è molto grata a tutto quello Studio.
Et perciò, dandone informatione a Sua Signoria Reverendissima, la pregherete in mio nome a voler continuare di aiutarlo particolarmente in lo agumento da farsi in breve di certa quantità di danari, qual par che s’abbia a distribuir tra quelli lettori, che seran più conosciuti e haranno maggior
favore.
La onde se Sua Signoria Reverendissima si degnarà continuar d’interporre l’opra sua acciò che messere Aluigi non venga scordato, oltra che farà cosa degna di lui, io ancora la riterrò molto grata.
Et con questo fine basate le manj santamente in nome mio a Sua Signoria Reverendissima.
Che nostro Signore Dio vi conservi in sua gratia. Data Ab†...† alli 25 di settembre MDLII”. M. Card.lis Sanctae Ecclesiae
Le due lettere riportate, quella firmata da Giano Teseo Casoppero e quest’ultima da Marcello Cervini, sono gli unici documenti che riportano notizie certe sulla vita dello scienziato cirotano.
In assenza di queste due lettere si potrebbe persino affermare che Lilio non sia mai esistito se non nell’immaginazione di suo fratello Antonio.
Anche gli ultimi anni della vita di Luigi Lilio sono un mistero. Sappiamo soltanto che morì, in data imprecisata, prima dell’attuazione della riforma, lasciando al fratello Antonio la cura di divulgare il suo lavoro.
In assenza di dati certi molti studiosi concordano nell’affermare che la morte lo colse a Roma nel 1576.
Si può, invece, ipotizzare con buone probabilità che la morte lo colse prima del 1574, anno in cui sembra già essere scomparso.
Infatti, è nel 1574 che Alessandro Piccolomini ebbe modo di farsi illustrare l’ipotesi di riforma non da Luigi, ma da Antonio.
Questa circostanza induce a pensare che Luigi fosse già morto, ma non sappiamo dove. Il cratere Lilius sulla Luna prende il suo nome.
La Commissione Pontificia per la riforma.
Papa Gregorio XIII subito dopo il suo insediamento si impegnò ad attuare i decreti varati dalle varie sezioni del Concilio di Trento.
Egli, al fine di mantenere in tutte le nazioni cristiane l’armonia nella celebrazione della Pasqua e di tutte le feste mobili che ne discendono, aveva premura di riformare il vecchio calendario giuliano esclusivamente per il ripristino dell’accordo tra la data della Pasqua e i dettami del Concilio di Nicea. Nominò pertanto una Commissione, costituita non solo da studiosi italici, col mandato di valutare e approvare un progetto di riforma.
Il 14 settembre del 1580 la Commissione presenta al papa il resoconto dei lavori dal titolo: “Ratio corrigendi fastos confirmata et nomine omnium, qui ad Calendarii correctionem delecti sunt, oblata Sanctissimo Domino nostro. Gregorio XIII”.
Viene riportato il testo trascritto dall’originale conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat., 3685, 1-10. Nel rapporto finale che la Commissione invia al papa (“Ratio corrigendi fastos”), datato 14 settembre 1580, oltre al cardinale Guglielmo Sirleto che la presiedeva, sono riportati i nomi di otto membri: Vincenzo di Lauro, di Tropea, astronomo e medico, vescovo di Mondovì e consigliere teologico; Cristoforo Clavio, gesuita tedesco, matematico, professore nel Collegio Romano; Pedro Chacòn, teologo spagnolo, esperto in patristica e storico della chiesa che assiste la Commissione per le feste mobili e il martirologio; Ignazio Nehemet, patriarca di Antiochia di Siria, esperto della cronologia ecclesiastica, della liturgia e dei riti delle chiese orientali e occidentali; Antonio Lilio, dottore di medicina e delle arti, fratello di Luigi Lilio; Leonardo Abel, di Malta, interprete di lingue orientali e testimone della presenza e fir-
S’ARTI NOSTRA 15
vann Murano si legge:
Foto wikipedia.org
CHRISTOPHER CLAVIUS
ma di Ignazio Nehemet; Serafino Olivari, (segue pagina 16) (segue dalla pagina 15)
francese di Lione, Uditore di Rota, consigliere giuridico; Ignazio Danti, frate domenicano di Perugia, vescovo di Alatri, cartografo, matematico e astronomo.
Fra i rappresentanti della Commissione non figura Luigi Lilio perché non più in vita.
Tutti, tranne Antonio Lilio che doveva essere una figura di grande levatura nel campo astronomico-matematico, appartenevano al clero.
Durante le numerose sessioni che si tennero a Roma, altri esperti diedero il loro contributo al dibattito sulla riforma.
Tra questi figurano: Tommaso Giglio, vescovo di Sora e tesoriere del papa, presiedette la Commissione, ma per scarsa capacità fu sostituito da Sirleto; lo spagnolo Juan Salon dei francescani osservanti, presidente della Congregazione delle feste mobili; Giovanni Battista Gabio, professore di greco alla Sapienza; Giuseppe Moleto di Messina al quale fu affidato il compito di rielaborare le tavole del Calendario.
La Commissione esaminò diversi progetti di riforma presentati da Pietro Pitati di Verona, Basilio Lupi e Antonio Lupi di Firenze, Giustino Ristori, Giovanni Tolosani di Colle di Val d’Elsa, Filippo Fantoni, Giovanni Padovani e Juan Salon.
Queste proposte furono respinte e l’attenzione si concentrò su un ingegnoso progetto di riforma del calendario che era stato elaborato da Luigi Lilio. Il progetto, presentato dal fratello Antonio, permetteva di mantenere l’equinozio di primavera in una data fissa e certa, il 21 marzo, e consentiva di determinare con precisione la data della Pasqua.
La Commissione accetta definitivamente il lavoro di Lilio che il 5 gennaio 1578 venne stampato in forma di Compendium e spedito dal papa alla comunità scientifica ed ai Principi cristiani, affinché esprimessero un preciso parere.
Un ruolo importantissimo fu assunto da Vincenzo di Lauro, eccellentissimo medico e matematico, calabrese di Tropea che, secondo alcuni, coordinò i lavori della Commissione prima di Sirleto.
Compendium novae rationis restituendi Kaledarium. Romae Apud haeredes Antonij Bladij impressores camerales, 1577. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, MAGL.12.6.59
Antonio Lilio svolse un ruolo
Foto mirellamibelli
da protagonista promuovendo ed esponendo dettagliatamente alla Commissione il lavoro del fratello Luigi.
Ma il suo ruolo non si limitò solo a questo e l’apporto da lui dato alla riforma del calendario fu di fondamentale importanza.
Lo si deduce dalle significative parole del vescovo senese Alessandro Piccolomini che, durante il suo soggiorno a Roma nel 1574, discute a lungo della riforma con Antonio Lilio, divenuto suo amico. Piccolomini afferma che i due fratelli scrissero insieme la riforma: “..molto spesso ebbi modo di parlare con l’esimio dott. Antonio Lilio, fratello di Aloisio Lilio; uomo anch’egli assai esperto in questo tipo di studi; proprio questi fu suo socio nella composizione del libro in cui è contenuta la nuova forma di calendario..” e dal manoscritto è stato ricavato il Compendium che conosciamo “..Certamente del libro di lui questo compendio è stato fatto, trasmesso a noi dalla tua serenissima altezza...”.
Un mese dopo aver decretato la riforma, il papa con il Breve del 3 aprile 1582, per compensarlo del lavoro svolto, concede ad Antonio e ai suoi eredi il diritto esclusivo a pubblicare il calendario per un periodo di
dieci anni.
Nel “Lunario Novo secondo la nuova riforma” stampato nel 1582 da Vincenzo Accolti, uno dei primi esemplari di calendari stampati in Roma dopo la riforma, si osserva in calce la firma autografa di Antonio Lilio e l’autorizzazione pontificia “et permissu Ant(oni) Lilij”. Il Breve venne successivamente revocato dal papa il 20 settembre 1582 per ritardi nelle consegne, non essendo Antonio in grado di far fronte alla crescente richiesta di copie che gli pervenivano.
Tolti i diritti ad Antonio la stampa divenne libera. Una testimonianza significativa del ruolo svolto da Antonio è la sua immagine scolpita nel bassorilievo del monumento dedicato a Gregorio XIII situato nella basilica di San Pietro, nel quale Antonio Lilio, genuflesso, porge al pontefice il libro del nuovo calendario.
Il nuovo calendario di Luigi Lilio
Bolla papale Inter gravissimas contenuta nell’opera di Cristoforo Clavio “Romani calendarij a Gregorio XIII P.M. restituti explicatio”. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, MAGL.5.1.117.
Il 1º marzo 1582 il testo venne affisso alle porte della Basilica di S. Pietro, alle porte del-
la Cancelleria Vaticana e nella piazza Campo dei Fiori. Le vicende biografiche di Luigi Lilio sono purtroppo oscure. Persino la sua opera di riforma del calendario è incerta nei particolari poiché il manoscritto autografo, che racchiudeva i suoi calcoli, non è stato mai stampato ed è scomparso senza lasciare traccia.
Resta solo un breve opuscolo, il Compendium, che è una breve sintesi delle sue proposte. L’opera, il cui titolo per esteso è “Compendium novae rationis restituendi kalendarium”, riporta i punti essenziali del manoscritto di Lilio; Chacòn non descrive la maniera in cui Lilio ha definito il suo metodo di riforma, né chiarisce i miglioramenti apportati dalla Commissione alla riforma. Il Compendium venne stampato a Roma nel 1577 nell’officina tipografica gestita dagli eredi di Antonio Blasio “Impressores camerales”, a cura di Guglielmo Sirleto, cardinale di San Lorenzo in Panisperna. Numerose copie del Compendium furono inviate ai Principi cristiani e alle Università e Accademie più rinomate con l’invito di esaminarlo, correggerlo o approvarlo.
Gli esperti in matematica ed astronomia esaminarono (segue pagina 21)
S’ARTI NOSTRA 16
JOHANNES KEPLER
THICO BRAHE
Mi chiamo Roberto Anedda, sono nato 61 anni fa a Cagliari e fin da neonato sono stato circondato da pellicole e negativi.
Mio papà Giuseppe per tutti Peppuccio era appassionato di cinematografia amatoriale, i suoi 8 mm e i super 8 sono uno splendido ricordo di come eravamo dal 57 in poi, mio Zio Osvaldo era invece un foto amatore, aveva la passione per le diapositive e i paesaggi e mi ha lasciato in eredità la sua passione, una Contax e una Rolley, anche l’altro zio era un fotografo, Zio Eraclio lo faceva per professione, anche lui mi ha lasciato gli insegnamenti in camera oscura e una Rolley .
Ho iniziato presto a scattare, a 7 anni per natale mi regalarono una valigetta di James Bond, c’era dentro tutto quello che un bambino poteva desiderare, una pistola con le cartucce, le manette, una lente per vedere le impronte, un orologio con tante lancette ma ... la cosa veramente fantastica in quella valigetta era una perfetta copia di una macchina fotografica, la copia di una biottica famosa, la rolley biottica, un giocattolo, ma perfettamente funzionante se ci mettevi dentro
la pellicola 6x6, ho ancora le foto scattate con quel meraviglioso giocattolo che accese la scintilla del piccolo fotografo in me, la utilizzai fino ai 10 anni la portai anche in campeggio a Villasimius nel 70 ho le foto con mio papà insieme a Sig. Aldo Pizzi uno che di foto ne ha fatto tante, tutte quelle del Cagliari con lo scudetto al petto e quelle degli anni prima in serie B, anche lui ha contribuito alla mia formazione fotografica, tanti caffè e sempre pronto a fiondarsi ovunque per farci partecipi dell’avvenimento attraverso una foto, la foto sul quotidiano, magari in prima pagina o in cronaca, anche lui è mancato presto mi sarebbe piaciuto avere un suo parere sui miei scatti, la vita è malvagia a volte e ci porta via le persone care ma a volte ci offre delle possibilità o delle opportunità inaspettate, ad esempio la prematura scomparsa di mio Zio Osvaldo e la lungimiranza di mio Zio Eraclio mi fecero inaspettatamente sentire tra le dita il dolce metallo prezioso di cui era fatta una Contax antagonista ad armi pari della Leica, una fuoriserie per l’epoca, metallo pesante, meccanica precisa e ottica Zeiss perfetta, i primi rullini sviluppati e stampati in
laboratori a pagamento, sacrificando le mance per i buoni voti a scuola in ingranditori e attrezzi vari trasformai la cantina di casa in camera oscura imparando a sviluppare la pellicola e a stampare, un hobby costoso allora, tutte le paghette finivano lì, in quella camera oscura con la luce rossa, carta, sviluppi e fissaggi, non mi sono mai pentito di un solo centesimo speso ho ancora qualche stampa che mi fa stare bene quando la guardo, magari con lo sfondo un po’ giallino, ma dopo più di 30 anni ci può stare, d’altronde anche la barba ultimamente si è un po’ ingiallita. Dopo un periodo abbastanza lungo di pausa dovuto a varie vicissitudini personali ho ripreso a scattare dal 2012, ho due nuove compagne di viaggio, una Canon 60D e una 6D che mi accompagnano nel percorso alla ricerca di emozioni per ritrovare la passione un po’ sopita dalla lunga inattività. Ho iniziato a riscoprire la mia amata terra cercando di catturare il suo spirito essenziale e le sue tradizioni, ma non solo, un punto di vista alternativo a tutto quello che mi circonda ogni volta che mi capita a tiro di click.
Roby Anedda
ROBY ANEDDA
Il catalogo delle’esposizione Collettiva di Fotografia eé consultabile in italiano con testi in francese qui https://issuu.com/vittorio.e.pisu/ docs/catalogocollettivait
Solo dopo la sua morte mi sono reso conto di quanto poco conoscessi Roberto Anedda, detto Roby.
L’ho incontrato per la prima volta in occasione della seconda mostra della serie «Cagliari je t’aime», che l’associazione «Ici, là-bas et ailleurs», in collaborazione con l’associazione Sardonia, aveva organizzato al Lazzaretto di Cagliari, con le opere di Sophie Sainrapt, artista francese appena rientrata dalla Cina dove aveva presentato opere diverse da quelle della mostra dal titolo « Ode à Hieronymus Bosch» et «Traces de femmes» nudi femminili in fondo alla sala degli archi in uno spazio più intimo e quasi segreto quasi un «inferno» di vaticana memoria.
Come di consueto Roby era venuto a fotografare l’evento e una delle sue immagini che la rappresentavano, piacque moltissimo a Sophie Sainrapt che, come spesso accade con le donne e ancor più con gli artisti, non ha mai trovato le foto di suo gusto, ma questa volta ne fu talmente entusiasta da acquistargliene una stampa all’epoca della sua mostra a Parigi. Ma procediamo con ordine. A Marie-Amélie ed a me era stato chiesto di partecipare all’allestimento di una mostra, intitolata «Le Merveilleux», all’Abbaye du Moncel con Léon Attila Cheyssial e Bernard Chatain (vedi https://issuu.com/vittorio.e.pisu/docs/ moncel5) dove sono state esposte sei sue fotografie dall’8 settembre al 15 ottobre 2017, in attesa della mostra che stavamo organizzando al Centre d’Art Paris Aubervilliers, dall’8 al 15 dicembre 2017, dove Roby Anedda e la sua compagna sono stati ospitati per qualche giorno al momento dell’inaugurazione, di cui potete vedere il filmato (vedi link a fine testo)
Foto ici, là-bas et ailleurs
Poi, avendo saputo per caso che un nostro amico (Rémy Hardt, che ringraziamo) che gestiva una galleria a Saint Germain des Prés aveva un buco nel suo programma nel periodo natalizio, gli abbiamo proposto di ospitare le foto di Roby che aveva avuto modo di vedere durante la mostra; lui ha gentilmente accettato ed è stato un grande successo di pubblico e di critica. Jean Turco, fotografo di fama internazionale, non solo ha gentilmente visitato la mostra al momento dell’inaugurazione, ma ha anche espresso commenti molto lusinghieri sul lavoro di Roby, paragonandolo a quello di Robert Capa. (segue a pagina 20)
Photo robyanedda
Roby Anedda Fotografia di Angela Zanda
Si può anche vedere il filmato realizzato in occasione dell’inaugurazione (link alla fine del testo) in cui Pascal Aubier, noto antropologo, cineasta, produttore e autore letterario, si prodiga in elogi per la mostra e per la Sardegna, che ha conosciuto all’epoca dell’espèosizione delle opere della moglie Sophie Sainrapt, la cui foto è stata esposta insieme a quelle che rappresentano i vari aspetti dei Carnevali in Sardegna e da lui acquistata.
In seguito, essendo un habitué del ristorante Il Fico (33, rue Coquillière Paris Les Halles) un vero e proprio tempio della gastronomia sarda, gestito da Graziella e Nicola Pisu (non siamo parenti ma apprezzatissimi collezionisti e grandi amici), gli ho proposto di esporre le foto nel loro ristorante per sottolinearne le profonde caratteristiche già affermate nella loro cucina.
Naturalmente hanno accettato di buon grado e così ancora una volta le immagini della Sartiglia, del Carrasegare di Lula e di altri sono state presentate a un pubblico curioso e interessato.
Infine, non ricordo come sono venuto a conoscenza di alcune delle foto che Roby ha scattato durante il suo soggiorno in Cina, forse perché ne ha pubblicate alcune sulla sua pagina Facebook, infatti mi sono proposto di pubblicarle sulle pagine di Sardonia di aprile, maggio e giugno 2020 (vedi https://issuu. com/vittorio.e.pisu/docs/ardoniaaprile2020/18 e numeri successivi) per un totale di 18 immagini in cui ha fissato diversi aspetti del suo soggiorno cinese, realizzato durante la sua partecipazione a una Cooperazione Internazionale nel novembre 1986.
Ho anche insistito perché scrivesse i commenti, cosa che ha fatto all’inizio di malumore, ma poi ci ha preso gusto.
Infine, avendo preso l’abitudine di organizzare mostre presso l’Arrubiu Art Gallery Cafè di Oristano, e dopo lo straordinario successo dell’esposizione delle opere di Salvatore Atzeni, insieme a Chiara Cossu abbiamo deciso di invitare alcuni fotografi, anche il gigante della fotografia, Jean Turco, che è stato così gentile da partecipare con tre delle sue emblematiche foto di nature morte e altri fotografi miei amici, tra cui Sophie Goullieux, Yan-
nick Perrin, Benjamin Audour e Jean Sebastian, di cui «Ici, là bas et ailleurs» aveva appena presentato una serie di immagini scattate a Berlino nel 2008, che hanno accettato con entusiasmo, insieme a fotografi sardi come Marina Federica Patteri, Antonella Marini, Giulio Barrocu, la stessa Chiara Cossu e Dolores Mancosu, che ha proposto Fabrizio Schirru, Marco Sodini, Roberto Orlandini, Ignazio Pani e naturalmente Roby Anedda, per una Collettiva di Fotografia che si chiuderà con la presentazione del catalogo, rimandata, a causa di alcuni problemi di stampa, al 15 gennaio, ma per essere poi esposta tra le mura dell’Associazione Remo Branca di Iglesias e naturalmente nel capoluogo sardo, Cagliari, e, ci auguriamo, nella sala degli archi del noto Lazzaretto Non ho l’abitudine di fare domande e aspetto che siano le persone che incontro a raccontarmi, se ne hanno voglia, le storie della loro vita, ed è per questo che so così poco della vita di Roby Anedda, di cui apprezzo molto il lavoro fotografico e, con Marie-Amélie Anquetil e anche Rémy Hardt, Graziella e Nicola Pisu, abbiamo cercato
di sostenerlo e presentarlo al nostro pubblico.
La sua morte così inaspettata e prematura, se così si può dire, è terribile.
Mi dispiace molto, soprattutto perché, rivedendo i film realizzati all’epoca delle inaugurazioni, ho sentito Roby parlare di una possibile mostra che avrebbe dovuto tenersi nel 2018 ma di cui non ho trovato traccia.
Per questo motivo, a seguito di un articolo pubblicato sulla rivista Nemesis, ho contattato la sua direttrice Dott.ssa Francesca Mulas Fiori, che è anche consigliera della Commissione Cultura del Comune di Cagliari, proponendole di ospitare la mostra Collettiva di Fotografia, ampliandola con altre fotografie di Roby Anedda, oppure di organizzare una mostra antologica delle sue fotografie in un luogo e in una data da concordare.
Mi ha subito assicurato il suo appoggio e la sua intenzione di informare non solo la Commissione Cultura, presieduta dalla Dott.ssa Enrica Anedda Endrich, ma anche lo stesso Assessore alla Cultura, nella persona della Dott.ssa Maria Dolores Picciau, che speriamo vivamente risponda fa-
vorevolmente alla proposta. Mi è sembrato ovvio dedicare la pagina centrale del supplemento Palazzi A Venezia a Roby Anedda, che accoglie altri fotografi di cui ammiro e rispetto il lavoro.
Mi rendo conto che non è molto, ma penso d’altra parte che i giornali che abbiamo pubblicato in occasione di ogni evento organizzato, così come i filmati realizzati per l’occasione e le interviste agli artisti, costituiscono sicuramente un documento, che ci permette di rivivere quei pochi momenti e di non dimenticare chi ci ha lasciato così prematuramente.
L’unica consolazione è vedere come la morte di Roby Anedda abbia provocato non solo una partecipazione davvero notevole di un pubblico molto numeroso ai suoi funerali, ma anche numerosi articoli di stampa sia presso i quotidiani e le riviste locali che altrove in Italia ed anche all’estero. Per favore, mandaci qualche foto del paradiso in cui ti trovi sicuramente Roby.
Grazie. Vittorio E. Pisu per vedere i video vimeo.com/233081460 vimeo.com/247475637 vimeo.com/249137999
Photo robyanedda
( segue da pagina 17)
Il catalogo dell’esposizione Collettiva di Fotografia é consultabile in francese con testi in inglese qui https://issuu.com/vittorio.e.pisu/ docs/cataloguephotofr
(segue dalla pagina 16) il Compendium ed inviarono i loro commenti alle rispettive Università e Sovrani; questi ultimi li rispedirono al papa insieme alle loro dichiarazioni. Come raccomandato dalla Commissione, papa Gregorio XIII, con la bolla Inter gravissimas pastoralis offici nostri curas, promulgò il nuovo calendario il 24 febbraio 1582.
In generale la semplicissima regola delle intercalazioni adottata dalla riforma liliana è la seguente: ogni anno non divisibile per quattro sarà anno comune di 365 giorni e sarà bisestile di 366 giorni se il suo numero è divisibile per quattro.
Fanno eccezione alla regola gli anni secolari i quali, benché abbiano il numero divisibile per quattro, non sono bisestili. Per essi si adotta una regola simile, ovvero: ogni anno secolare il cui numero del secolo, non considerando i due zeri, non sia divisibile per quattro sarà comune; sarà bisestile se è divisibile per quattro.
Per evitare dunque che si producessero accumuli di errori futuri, fu decretato che si cancellassero 3 giorni ogni 400 anni, mantenendo la regola giuliana dell’introduzione di un anno bisestile ogni 4 anni,
ma gli anni secolari, che nel calendario giuliano erano tutti bisestili, divennero comuni tranne quelli divisibili per quattro, che rimasero bisestili. Seguendo queste indicazioni, sono stati bisestili per esempio gli anni 1980, 1984; non sono stati e non saranno bisestili gli anni 1800, 1900, 2100 etc.; sono stati e saranno bisestili gli anni 1600, 2000, 2400, 2800 etc.
In quanto allo spostamento dell’equinozio di primavera dovuto al calendario giuliano, Lilio, per recuperare i giorni perduti e per ricondurre l’equinozio di primavera alla data del 21 marzo, propose di eliminare dal calendario dieci giorni; questa correzione poteva essere apportata fin dall’inizio dell’adozione del nuovo calendario o gradualmente nel periodo compreso tra il 1584 e il 1620.
Entrambe le soluzioni sono riportate nel Compendium.
Fu Clavio, sulla base delle proposte di Lilio, a suggerire di passare dal 4 al 15 ottobre 1582.
Le correzioni di Lilio non sono limitate alla sincronizzazione dell’anno civile con l’anno astronomico di quel tempo, bensì i suoi calcoli offrono un potentissimo strumento che permette di adattare il suo ca-
lendario a qualsiasi variazione dell’anno tropico.
Risolto il problema dell’anno calendaristico, non così semplice era il rimedio di correggere l’altro errore del calendario che consisteva nella retrodatazione dei noviluni.
È la parte più interessante della riforma perché lo scopo fondamentale dei riformatori era che, nello stabilire l’epoca della Pasqua, non venisse tradita l’intenzione dei padri niceni, cioè che la Pasqua cristiana si celebrasse nella prima domenica dopo il plenilunio che seguiva l’equinozio di primavera.
Lilio pensò di rivedere il ciclo Metonico ed elaborò un metodo per evitare che le lunazioni scivolassero di un giorno ogni 312,5 anni.
Mediante due equazioni (solare e lunare) propone un originale ed efficace ciclo delle epatte che permette di stabilire la data della Pasqua di qualsiasi anno nel corso dei secoli.
In breve, con la riforma liliana furono eliminati dieci giorni dal calendario giuliano e solo gli anni secolari divisibili per quattro rimasero bisestili.
Il ciclo Metonico per la determinazione della Pasqua venne invece sostituito con il ciclo delle epatte.
Mentre il nuovo calendario fa-
ceva il suo corso e cominciava ad affermarsi in diversi paesi, studiosi di astronomia e matematica dichiaravano in merito opinioni diverse, fortemente condizionate non tanto da principi di ordine scientifico, ma da motivazioni personali o convinzioni religiose.
Di particolare importanza fu, infatti, il differente approccio al magistero ecclesiastico degli astronomi di fede Protestante o Cattolica che portò ad una violenta e feroce polemica tra i più illustri studiosi dell’epoca e che proseguì per decenni. Molti furono gli attacchi rivolti al papa.
L’astronomo Michael Maestlin, professore di teologia, astronomia e matematica a Tubinga, uno degli insegnanti di Giovanni Keplero, nel suo lavoro “Ausfuehrlicher Bericht von dem allgemeinen Kalendar” nega alla Chiesa il diritto e l’autorità di riformare il calendario.
L’astronomo tedesco Sethus Calvisius, favorevole ad una riforma del calendario, nel suo “Elenchus calendarii gregoriani” confuta le tesi di Maestlin, ritenendole prive di significato.
Maestlin in un’altra opera, più prettamente scientifica “Alterum Examen”, dichiarò che la riforma avrebbe dovuto aderi-
re più strettamente ai veri movimenti del Sole e della Luna e criticò aspramente il metodo di calcolo delle epatte le quali, se non corrette, avrebbero portato ad errori macroscopici nel calendario che si pretendeva di riformare.
Esibendo calcoli sull’esatta durata dell’anno egli si convinse, sbagliando, che Lilio avesse preso come riferimento le Tavole pruteniche.
D’altra parte egli stesso avevaadoperato le Tavole pruteniche per dimostrare che la regola di Lilio, basata sugli anni bisestili, avrebbe col tempo portato l’equinozio di primavera al 20 marzo contraddicendo le regole imposte dal Concilio di Nicea.
Per queste affermazioni, non validate dal necessario rigore scientifico, fu fortemente contraddetto dal gesuita Antonio Possevino il quale dimostrò che i calcoli di Lilio erano basati sulle Tavole alfonsine e non su quelle Pruteniche.
Paulus Fabricius, su richiesta di Ludwig Philip, preparò per l’imperatore Rodolfo II un commento in cui denunciava la pochezza del lavoro di Maestlin.
Nel 1583 compone un calendario proponendo all’imperatore di emendarlo a partire dal 1600, ma la sua proposta non ebbe seguito.
Altri astronomi e matematici, come Giuseppe Giusto Scaligero, Georgius Germanus e François Viète, accettarono il principio di una necessaria riforma del calendario in accordo alle regole dettate dal Concilio di Nicea, ma non si limitarono ad esprimere il loro giudizio critico e pubblicarono soluzioni alternative al calendario liliano.
Il francese Scaligero di origine italiana fu uno dei più famosi studiosi che non approvarono la riforma liliana e sollevò pesanti obiezioni sia alle parti civili che ecclesiastiche del nuovo calendario.
Sostenne, infatti, che le nuove regole per gli anni bisestili non avrebbero garantito il mantenimento costante della data dell’equinozio di primavera al 21 marzo.
A tale proposito occorre ricordare che i calcoli di Lilio tengono conto delle fluttuazioni della data dell’equinozio che può variare persino di qualche giorno, ma le correzioni apportate dai suoi calcoli riescono a mantenere la data fissa dell’equinozio di primavera al 21 marzo per molti secoli a venire.
(segue pagina 22)
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dalla mpagina 21)
Scaligero, nonostante la contrarietà e le critiche mosse alla riforma, si avvalse del nuovo calendario per completare il suo ambizioso progetto che prevedeva la creazione di una nuova cronologia degli eventi storici in conformità alle regole astronomiche.
Nel 1583 pubblicò Opus de emendatione tempore nel quale introdusse la cronologia come scienza.
In Germania, e non solo, i protestanti rifiutarono la riforma con forza e veemenza. James Heerbrand, professore di teologia a Tubinga, presentò le sue obiezioni nel Disputatio de adiaphoris et calendario gregoriano.
Egli fu persino più sprezzante di Scaligero e accusò il papa, da lui definito “Il Calendarista”, di essere “l’Anticristo” che aveva creduto di poter mutare il tempo, ingannando i veri cristiani a celebrare le festività religiose in giorni volutamente sbagliati.
Nettamente contrari alla riforma furono alcuni matematici di Praga che rifiutarono persino di aiutare il vescovo a calcolare le nuove date delle feste mobili.
Altri dotti protestanti dichiararono che la riforma era contro natura e a tale proposito risulta significativo un pamphlet anonimo dal titolo “Bawrenklag uber des romischen papstes Gregorii XIII newen calendar”, dove viene riportato che i contadini, con il nuovo calendario, non sapevano più quando arare o seminare i campi e gli uccelli smarriti non sapevano più quando cantare o emigrare.
In un altro scritto polemico, i cui principali autori furono Maestlin e il teologo Osiander, si argomentava che il papa avesse rubato dieci giorni dalla vita di ciascuno.
D’altro canto, i Cattolici rispondevano con altre assurdità come la dichiarazione che a Gorizia un albero di nocciole, in accordo con la riforma papale voluta da Dio, aveva anticipato la fioritura di 10 giorni.
François Viète, calvinista poi convertito al cattolicesimo, considerato uno dei padri dell’algebra moderna, non si limitò a criticare la riforma, ma elaborò delle modifiche e fu così insolente da inserirle in una copia della bolla Inter gravissimas, con l’intenzione di far credere che quella fosse la versione ufficiale del nuovo calendario, generando confusione tra quanti si apprestavano a comprendere la riforma.
Modificò il II Canone (allegato alla bolla Inter gravissimas insieme agli altri cinque Canoni) apportando correzioni al ciclo delle epatte.
Non era d’accordo con il calcolo della Pasqua eseguito in base alle direttive della Commissione e nel suo “Variorum de rebus mathematicis responsorum liber VIII” del 1593 ed in seguito nel 1600, con l’opera “Relatio kalendarii vere Gregoriani ad ecclesiasticos doctores exhibita Pontefici Maximi Clementi VIII”, espone le sue critiche alla riforma sostenendo di aver trovato la giusta correlazione tra l’anno lunare e l’anno solare.
La risposta di Clavio non si fece attendere e trovò spazio nell’ultimo capitolo dell’Explicatio in cui si legge: ”Viète sarà presto dimenticato. Non importa cosa abbia detto di me”. Viète risponde scrivendo “Adversus Cristophorum Clavium expostulatio” in cui riporta il suo sprezzante giudizio su Clavio: “Da lungo tempo io accuso Clavio di aver corrotto il calendario romano (...) Ma che razza di matematico è colui che introduce una falsa fase lunare nell’equazione delle epatte (...) Contro la falsa fase lunare di Clavio io riporto quindi la vera fase lunare liliana e gregoriana (...).
Io dimostrerò che tu sei un falso matematico (se davvero tu sei un matematico) e un falso teologo (se davvero tu sei un teologo).”.
È importante sottolineare che Viète usa l’espressione vera fase lunare liliana, lasciando intendere che fu Clavio a modificare, ma sicuramente non migliorandolo, il ciclo delle epatte ideato da Lilio.
La controversia Clavio-Viète era fondamentalmente assurda e molto probabilmente Viète aveva perso il senso della realtà se davvero aveva pensato che il papa avrebbe modificato la riforma accogliendo le sue proposte che, solo dall’anno 109.500 d.C. o addirittura dopo, avrebbero portato una qualche utilità nel calcolo della Pasqua.
Nel 1500 gli astronomi non avevano nessuna idea di come la lunghezza dell’anno e del giorno solare potesse variare. Nonostante ciò Clavio e Viète discutevano su cicli che comprendevano ordini di grandezza di 165 milioni di anni e di 2 miliardi di mesi lunari.
In base alle attuali conoscenze fisico-astronomiche, oggi sappiamo che col tempo la Luna si allontana dalla Terra (ca. 3 cm ogni anno) e la velocità di rotazione terrestre decresce; di conseguenza i mesi lunari
e i giorni solari si allungano rendendo inutile una pianificazione del calendario nell’arco temporale superiore a qualche migliaio di anni.
La prima difesa del calendario fu pubblicata nel 1585 ad opera del gesuita Johannes Busaeus, le cui argomentazioni, dirette principalmente contro le posizioni del teologo Heerbrand, vertono sulla correttezza scientifica e soprattutto interpretativa della riforma rispetto alle direttive del Concilio di Nicea.
Ruolo di notevole rilievo e valore storico ebbe Clavio al quale fu affidato il compito di difendere il calendario.
Nel 1588 scrisse una dettagliata replica alle tesi di Maestlin dal titolo “Novi calendarii romani apologia adversus Michaelem Maestlinum Gaeppingensem” in cui spiega la motivazione della scelta del valore dell’anno medio piuttosto del valore assoluto non ancora noto con precisione.
Lo stesso Clavio scrive in seguito un lavoro in cui elenca i motivi per cui era impossibile intercalare gli anni col metodo suggerito da Scaligero. Scaligero risponde in maniera oltraggiosa e offensiva, confutando le argomentazioni di Clavio. Benché Clavio avanzasse nuovamente motivazioni
oggettive a favore della riforma, la discussione tra i due degenera nell’offesa personale, poiché Scaligero replica alle argomentazioni di Clavio definendolo “ubriacone e grasso panciuto tedesco.
L’opera definitiva di Clavio a difesa della riforma arriva nel 1603 con Romani calendarij a Gregorio XIII P. M. restituti explicatio. Tycho Brahe e Giovanni Keplero, gli astronomi più autorevoli del tempo, nonostante fossero protestanti, fattore che indubbiamente limitava le loro pubbliche dichiarazioni, considerarono la riforma elaborata da Lilio perfetta da un punto di vista scientifico. Keplero lasciò un articolo, pubblicato dopo la sua morte, nel quale presenta le sue argomentazioni in forma di dialogo tra un cancelliere protestante, un predicatore cattolico e un esperto matematico. La frase finale di questo dialogo è illuminante: ”La Pasqua è una festa e non un pianeta. Tu non puoi determinarla con giorni, ore, minuti e secondi.”
L’opinione di Brahe è nota grazie a due lettere nelle quali l’autore afferma che le critiche mosse dagli astronomi contrari alla riforma erano dettate non da rigore scientifico ma da avversione verso il pontefice. wikipedia.org
(segue
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IIlaria Solazzo, giornalista pubblicista e blogger, ha intervistato l’Artista Annelise Atzori per parlare con Lei di una delle sue molteplici qualità…
La sua collezione di abiti è un labirinto dell’anima.
Ogni sua creazione presenta una serie di sfumature che caratterizzano l’animo umano.
L’anima è vista come un vero labirinto, come un dedalo da esplorare e da cui lasciarsi sorprendere, a volte anche spaventare (perché in ogni labirinto che si rispetti si nasconde un minotauro).
Ci sono emozioni come la gioia, l’amore, la paura, l’invidia.
Ma c’è anche qualcosa di più: come l’ossessione, il naufragio, l’ottimismo, la gratitudine e l’oscurità.
L’utilizzo di materiali molto diversi combinati tra loro sono in perfetto stile Atzori.
Apprezzata dagli addetti ai lavori per le collezioni dai tagli estremamente precisi e dalle forme lineari, Annelise Atzori, si presenta a noi con lo stesso garbo, la stessa semplicità e lo stesso rigore delle sue creazioni.
Nata in Germania, ma di origini sarde è residente a Sanluri Stato.
Annelise Atzori è un’artista a 360 gradi.
La sua fama è internazionale. Pittrice, scultrice, stilista, grafica, poetessa, mosaicista, e non solo,
diplomatasi all’Accademia di Belle Arti, vanta esposizioni in tutto il mondo: dal Canada all’Inghilterra, da New York al Brasile, passando per l’Italia e le sale del Vaticano e del Quirinale.
Quando è nata la tua passione per la moda?
“Da adolescente personalizzavo tutti i miei abiti.
Il mio primo successo è stato a 16 anni: ho aiutato un negozio di abbigliamento a vendere le sue rimanenze di magazzino, reinventando stili e forme.
A 25 anni una persona mi ha fermato per strada per chiedermi da dove venissero i vestiti che indossavo, erano mie creazioni, così ho avuto il mio primo ordine, poi 10, 100, 1000…
Da quel momento ho iniziato a creare, cucire e ricevere le clienti”.
I tuoi abiti sono realizzati su misura, sono come opere d’arte, per quale motivo hai fatto questa scelta?
“Perché è il mio stile e ciò che mi piace! Adoro quando le persone possono giocare con i propri abiti, creando modelli unici. Quando si personalizza è come se si creasse un legame tra i clienti e i loro vestiti.
È l’opposto del fast fashion”.
La pandemia, dal marzo 2020, ha cambiato il mondo della moda.
Pensi che questa crisi ci abbia insegnato anche qualcosa di positivo?
“Lo spero. L’unico aspetto positi-
vo di questa crisi è il fatto che la gente sta acquisendo consapevolezza dei pericoli del fast fashion sull’ambiente ed è pronta a cambiare il proprio modo di consumare.
Durante il lockdown, ci siamo accorti che il nostro guardaroba era pieno di abiti che non usavamo.
Il futuro della moda è: comprare meno, comprare meglio ed essere consci di ciò che si compra. Sono molte le possibilità di riutilizzare materie prime o vecchi vestiti per dare vita a qualcosa di nuovo”.
Tra i tuoi capi più amati, ci sono senza dubbio quelli dipinti a mano. Raccontaci…
“Abiti dall’anima delicata e contemporanea.
Li realizzo in un luogo discreto, ma prezioso… uno scrigno in cui i sogni di molte donne si fanno tessuto, diventando realtà”.
Mixi il fascino dell’artigianalità ai tempi moderni, per rispondere alle esigenze di una società rinnovata e in continua evoluzione: cosa vogliono le donne oggi?
“La donna di oggi penso sia un pianeta multiforme da rispettare. C’è un elemento importante, che nasce all’interno di me stessa per poi diventare il motore delle mie creazioni ossia, l’idea che ogni donna abbia bisogno di calore armonia e bellezza.
Tante volte penso che le donne, pur seguendo le tendenze della moda, non siano sempre così sod-
ANNELISE ATZORI
disfatte; ed è per questo che con le mie creazioni, cerco di fare in modo che ogni singola donna crei il suo canone di bellezza.
Cercando di fare venire fuori la sua unicità. È a questo punto che nasce il concetto di creatività e, anche, la capacità di mettersi in ascolto.
Importante, poi, è saper coordinare l’artigianalità con la modernità”.
Qual è la sfida più difficile quando si lavora con la creatività?
“Mia cara Ilaria, essere creativi è una cosa bellissima e difficilissima, allo stesso tempo.
Significa vivere e rivivere nella propria anima, nella propria interiorità, la natura, il mondo, le persone che ti circondano, la cultura in cui vivi.
E poi, all’improvviso, ci sono un cielo azzurro con sfumature di colore particolari, un paesaggio, un animale, una poesia o una frase che ti fanno scattare una scintilla interiore.
Da lì parte l’idea”. Usi solo materiali pregiati?
“Sì”.
Chi sono i tuoi clienti VIP?
“La lista è interminabile.
Posso sicuramente dirti che ho realizzato per la “Ondamovie film” una cravatta ‘speciale’ e, ad esempio, per il mio amico attore e cliente Luis Fernandez De Eribe molte giacche e vari completi unici al mondo”.
La tua ultima collezione è un omaggio all’arte: quella pittorica, però.
Da dove l’idea di far dipingere a mano i tessuti?
“Da parte mia c’è un amore sfrenato per i fiori, soprattutto per la rosa che da sempre è l’emblema della “Atzori creation”.
Ho dato vita a questa novità della pittura dei tessuti a mano, una tecnica molto particolare. La pittura, nel corso dell’anno, mi permette di creare diverse capsule che abbiano alle spalle una fiaba, cioè un significato.
Il titolo, che ti svelo, in esclusiva, è “La fiaba in una bolla”.
Cosa ti aspetti dal futuro adesso?
“Vivo con onestà e mettendoci il cuore in tutto. Mi aspetto che avendo seminato amore possa ricevere rispetto e stima da parte di chi mi segue con attenzione da anni”.
Un saluto a tutti i nostri lettori…
”Mi piace concludere questa intervista con una frase che è il mio motto quando mi fermo a pensare a quello che c’è stato e a quello che vorrei ci fosse e magari sale un po’ di ansia, un po’ di preoccupazione: “Credi con fermezza nei tuoi sogni e si avvereranno. Mira alla luna, male che vada avrai camminato dolcemente tra le stelle»”.
https://www.metamagazine.it/ annelise-atzori-lartista-multiforme-ci-parla-delle-sue-creazioni/
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e mangiate asparagi, o iniziate il pasto con una zuppa e lo concludete con il dessert, o usate il dentifricio, o portate i capelli con la frangia, lo dovete a uno dei più grandi musicisti della storia.
Era conosciuto come Ziryab, un termine colloquiale arabo (o persiano) che si traduce come «merlo».
Visse nella Spagna medievale più di mille anni fa.
Era uno schiavo liberato che fece molto bene, affascinando per primo la corte reale di Cordova con le sue canzoni.
Fondò una scuola di musica la cui fama sopravvisse più di 500 anni dopo la sua morte.
Ibn Hayyan di Cordova, uno dei più grandi storici della Spagna araba, nella sua monumentale opera Al Muqtabas (L’essenziale) afferma che Ziryab conosceva a memoria migliaia di canzoni e rivoluzionò la concezione dello strumento musicale che divenne il liuto.
Diffuse un nuovo stile musicale in tutto il Mediterraneo, influenzando i trovatori e i menestrelli e influenzando il corso della musica europea.
Fu anche l’arbitro della sua generazione in materia di gusto, stile e maniere, ed ebbe un’enorme influenza sulla società europea medievale.
Come si vestivano le persone, cosa mangiavano e come lo facevano, come portavano i capelli, quale musica apprezzavano...
Tutti sono stati influenzati da Ziryab.
Se non avete mai sentito parlare di questo straordinario artista, non c’è da stupirsi.
Con le vicissitudini della storia, il suo nome è scomparso dalla memoria pubblica del mondo occidentale.
Ma i cambiamenti che ha portato in Europa fanno parte della realtà che conosciamo oggi. Uno dei motivi per cui Ziryab è sconosciuto nel mondo occidentale è che parlava arabo e faceva parte della corte reale dell’impero arabo in Spagna.
I musulmani provenienti dall’Arabia e dal Nord Africa dominarono la Spagna e la Francia meridionale dal 711 al 1492.
L’ultimo residuo del dominio arabo nella Penisola Iberica, il Regno di Granada, fu conquistato dagli eserciti del re Ferdinando e della regina Isabella nello stesso anno in cui Cristoforo Colomba salpò per il Nuovo Mondo.
Gli arabi chiamarono il loro dominio iberico Al Andalus, un riferimento diretto ai Van-
dali, che occuparono la penisola nel VII secolo e la cui eredità era ancora diffusa quando le forze musulmane arrivarono nell’VIII secolo.
Il nome sopravvive oggi nel nome della provincia meridionale spagnola dell’Andalusia.
Al suo apice, Al Andalusia visse un’età d’oro della civiltà che fu invidiata da tutta l’Europa e aprì la strada al successivo Rinascimento europeo.
Musulmani, cristiani ed ebrei interagirono in una convivencia, una «convivenza» di tolleranza e cooperazione senza precedenti per l’epoca.
Le influenze della Spagna araba si diffusero in Francia e in tutta Europa, e da lì nelle Americhe. È in questo contesto che le conquiste di Ziryab sono entrate a far parte della cultura occidentale.
Le imprese di Ziryab non sono state dimenticate nel mondo arabo ed è grazie agli storici di quest’ultimo che conosciamo la sua vita e i suoi successi. Come afferma lo storico arabo del XVII secolo Al Maqqari nel suo Nafh Attib (Brezza profumata), «non c’è mai stato, né prima né dopo di lui, un uomo della sua professione che fosse più generalmente amato e ammirato». Ziryab, il famoso poeta della Spagna islamica, si chia-
mava infatti Abu al-Hassan Ali ibn Nafi ed era nato intorno all’anno 789 nell’attuale Iraq, probabilmente nella sua capitale, Baghdad. Secondo alcuni storici arabi, si trattava di uno schiavo liberato, probabilmente un paggio o un servitore personale, la cui famiglia aveva servito al-Mahdi, il califfo o sovrano dell’impero abbaside con sede a Baghdad, dal 775 fino alla sua morte, avvenuta nel 785.
All’epoca, molti musicisti di spicco erano schiavi o liberti, alcuni di origine africana, altri provenienti dall’Europa o dal Medio Oriente (compresi Kurdistan e Persia). Gli storici non concordano sul fatto che Ziryab fosse africana, persiana o curda.
Secondo Ibn Hayyan, ‘Ali Ibn Nafi’ era soprannominato Zyriab (l’uccello nero) a causa della sua carnagione estremamente scura, della chiarezza della sua voce e della «dolcezza del suo carattere».
Zyriab studiò musica con il famoso cantante e musicista della corte reale Ishaq Al Maoussili o Isacco di Mosul. Ishaq, il cui padre Ibrahim è ancora più famoso, e Ziryab sono i tre artisti conosciuti come i pionieri della musica araba.
Baghdad era allora un centro mondiale di cultura, arte e scienza.
Il suo sovrano più famoso fu Haroun Al Rashid, che era succeduto al califfo Al Mahdi. Haroun era un amante della musica e portava a palazzo molti cantanti e musicisti per intrattenere i suoi ospiti. Ishaq, in qualità di capo musicista di Haroun, addestrò un certo numero di studenti a suonare la musica, tra cui l’uccello nero Zyriab.
Zyriab era intelligente e aveva un buon orecchio; al di fuori delle lezioni, imparava di nascosto le canzoni del suo maestro, che si diceva fossero complesse e difficili anche per un intenditore.
Ishaq non si rese conto di quanto Ziryab avesse imparato finché Harun stesso non chiese di ascoltare il giovane musicista. Nel resoconto di Ibn Hayyan (come riportato da Al Maqqari), Ishaq disse al Califfo: «Sì, ho sentito cose belle da Ziryab, melodie chiare ed emozionanti, soprattutto alcune mie interpretazioni piuttosto insolite. Gli ho insegnato queste canzoni perché le ritenevo particolarmente adatte al suo talento.» Ziryab fu convocato e cantò per Haroun Al Rashid. In seguito, quando il Califfo gli rivolse la parola, Ziryab rispose «con grazia, con un vero fascino di modi».
S
Zyriab Le « merle noir » musulman qui a introduit l’art de vivre en occident et dans le monde. Extrait de l’article de Robert W. Lebling Jr. paru en anglais aux pages 24 à 33 de l’édition imprimée de juillet/août 2003 de Saudi Aramco World. Traduit par Ilham Nouara.
Photo palazzofortuny
Foto blog.iodonna.it
Haroun gli chiese del suo talento e Zyriab rispose: «Posso cantare ciò che gli altri cantanti conoscono, ma la maggior parte del mio repertorio consiste in canzoni che possono essere eseguite solo davanti a un califfo come Vostra Maestà. Altri cantanti non conoscono queste composizioni.
Se Vostra Maestà lo permette, vi canterò ciò che nessun orecchio umano ha mai sentito prima.»
Haroun alzò le sopracciglia e ordinò che il liuto del Maestro Ishaq fosse consegnato a Ziryab.
Il liuto arabo o Oud, modello del liuto europeo e parente della chitarra, era uno strumento con quattro file di corde, un corpo a forma di mezza pera e un manico curvo senza tasti. Ziryab rifiutò rispettosamente lo strumento.
«Ho portato il mio liuto», ha detto, «che ho fatto io stesso, spogliando il legno e lavorandolo, perché nessun altro strumento mi soddisfaceva. L’ho lasciato al cancello del palazzo e, con il vostro permesso, lo manderò a prendere». Haroun prese il liuto e lo esaminò. Sembrava lo strumento di Ishaq Al Maoussili «Perché non suoni il liuto del tuo maestro?», chiese il Califfo.
«Se il Califfo vuole che can-
ti nello stile del mio maestro, userò il suo liuto. Ma per cantare nel mio stile ho bisogno di questo strumento.»
«Per me si assomigliano», ha detto Haroun.
«A prima vista, sì», disse Ziryab, «ma anche se il legno e le dimensioni sono le stesse, il peso non lo è.
Il mio liuto pesa circa un terzo in meno di quello di Ishaq e le mie corde sono fatte di seta non filata in acqua calda, che le indebolisce.
Il basso e la terza corda sono fatti di budello di leone, più morbido e sonoro di quello di qualsiasi altro animale. Queste corde sono più forti di tutte le altre e resistono meglio ai colpi del plettro».
Il plettro di Ziryab era un artiglio d’aquila affilato, anziché il solito pezzo di legno intagliato.
Aveva anche aggiunto una quinta fila di corde allo strumento. Haroun era soddisfatto. Ordinò a Ziryab di suonare e il giovane iniziò una canzone che aveva composto lui stesso.
Il Califfo rimase molto colpito.
Si rivolse ad Al Mausili e disse: «Se pensassi che stai nascondendo le straordinarie capacità di quest’uomo, ti punirei per non avermi parlato di lui.
Continua l’istruzione fino al
completamento.
Per quanto mi riguarda, voglio contribuire al suo sviluppo». Ziryab aveva apparentemente nascosto i suoi migliori talenti al suo stesso insegnante Quando Ishaq rimase finalmente solo con il suo allievo, si infuriò per essere stato ingannato.
Disse francamente che era geloso dell’abilità di Ziryab e temeva che l’allievo avrebbe presto sostituito il maestro a favore del califfo.
«Non potrei perdonare questo a nessuno, nemmeno a mio figlio», ha detto Ishaq.
«Se non ti amassi ancora un po’, non esiterei a ucciderti, qualunque siano le conseguenze.
Ecco la tua scelta: lascia Baghdad, allontanati da qui e giura che non ti sentirò mai più. Se lo farete, vi darò abbastanza denaro per soddisfare le vostre esigenze. Ma se decidi di restare e di farmi un dispetto, ti avverto che rischierò la mia vita e tutto ciò che possiedo per schiacciarti. Fate la vostra scelta!». Ziryab non esitò, prese il denaro e lasciò la capitale abbaside. Ishaq spiegò l’assenza del suo protetto dicendo che Ziryab era mentalmente squilibrato e aveva lasciato Baghdad furioso per non aver ricevuto un dono dal califfo.
ZIRYAB IL MERLO NERO
«Il giovane è posseduto», ha detto Ishaq a Haroun Al Rashid. «È soggetto a scatti di frenesia che sono orribili da vedere Egli ritiene che i jinn parlino con lui e ispirino la sua musica.
È talmente vanitoso da credere che il suo talento non abbia eguali al mondo. Non so dove sia ora. Siate grato, Vostra Maestà, che se ne sia andato.»
C’era un fondo di verità nel racconto di Ishaq: secondo Ibn Hayyan e altri, Ziryab credeva di sentire in sogno i canti dei jinn, gli esseri spirituali della tradizione islamica e araba. Si svegliava da un sogno nel cuore della notte e chiamava a raccolta i propri allievi, insegnando loro le melodie che aveva sentito in sogno.
Come nota Reinhart Dozy in Storia dei musulmani di Spagna, «nessuno meglio di Ishaq sapeva che non c’era alcuna follia in questo. Quale vero artista, infatti, che creda o meno ai folletti, non ha avuto momenti in cui è stato in preda a emozioni difficili da definire, assaporando il soprannaturale?
Ziryab e la sua famiglia fuggirono da Baghdad verso l’Egitto e attraversarono il Nord Africa fino a Kairouan, nell’attuale Tunisia, sede della dinastia degli Aghlabidi di Ziyad Allah I. Lì fu accolto dalla corte reale. Ma non aveva intenzione di rimanere a Kairouan; il suo sguardo era rivolto alla Spagna.
Sotto gli Omayyadi, Cordova stava rapidamente diventando un gioiello culturale in grado di rivaleggiare con Baghdad, e Ziryad pensava che Cordova potesse essere un luogo adatto al suo talento.
Ziryab scrisse ad Al Hakam, sovrano dell’Emirato di Al Andalusia, e offrì le sue capacità musicali.
Al Hakam, entusiasta della prospettiva di aggiungere un musicista di Baghdad alla sua corte, rispose invitando Ziryab a visitare Cordova. Egli offrì al musicista un’ottima retribuzione. Ziryab e la sua famiglia hanno fatto i bagagli e si sono diretti verso lo Stretto di Gibilterra, dove si sono imbarcati su una nave diretta ad Algeciras, in Spagna.
Quando Ziryab arrivò in Spagna nell’anno 822, fu sconvolto dall’apprendere che Al Hakam era morto.
Devastato, il giovane musicista si preparava a ritornare in Nord Africa.
(segue a pag. 24)
Ma grazie alla raccomandazione di Abu Nasr Mansour, un musicista ebreo della corte reale di Cordova, il figlio e successore di Al Hakam, Abdurrahman II, rinnovò l’invito a Ziryab.
Dopo aver incontrato il 33enne prodigio di Baghdad, Abdurrahman II, coetaneo del suo ospite, gli ha fatto un’interessante proposta.
Ziryab avrebbe ricevuto un salario di 200 monete d’oro al mese, con bonus di 500 monete d’oro a metà estate e a Capodanno e di 1000 per ciascuna delle due principali festività islamiche.
Ogni anno avrebbe ricevuto 200 moggi di orzo e 100 moggi di grano.
Avrebbe ricevuto un modesto palazzo a Cordova e diverse ville con terreni agricoli produttivi in campagna.
Naturalmente Ziryab accettò l’offerta e da un giorno all’altro divenne un membro benestante dell’alta borghesia terriera della Spagna islamica.
Assumendo il giovane musicista, Abdurrahman II volle portare cultura e raffinatezza nel rozzo paese di Al Andalusia, il selvaggio ovest del mondo arabo, poco prima terra gotica e «barbara», lontana dai centri civilizzati di Damasco e Baghdad.
La famiglia omayyade del sovrano era venuta in esilio da Damasco, dove aveva governato un impero islamico per diverse centinaia di anni.
Ora il potere apparteneva agli Abbasidi a Baghdad e la città era diventata una calamita per scienziati, artisti e studiosi di ogni tipo.
In realtà, Abdurrahman II offrì a Ziryab un lavoro prima ancora di chiederle di esibirsi.
E quando finalmente ascoltò le canzoni di Ziryab, i contemporanei raccontano che il sovrano ne fu così affascinato che non avrebbe mai ascoltato un altro cantante.
Da quel giorno, Abdurrahman II e Ziryab furono stretti confidenti e si incontravano spesso per discutere di poesia, storia e di tutte le arti e le scienze.
Ziryab fu una sorta di ministro della cultura del regno andaluso.
Uno dei suoi primi progetti fu quello di fondare una scuola di musica chiamata Dar Almadaniyat (Casa dell’Istruzione Civica), che aprì le porte non solo ai figli e alle figlie di talento delle classi superiori, ma anche agli intrattenitori di corte delle classi inferiori.
A differenza dei conservatori
più rigidi di Baghdad, la scuola di Ziryab incoraggiava la sperimentazione di stili e strumenti musicali.
Mentre l’accademia insegnava gli stili e le canzoni di fama mondiale della corte di Baghdad, Ziryab iniziò presto a introdurre le proprie innovazioni e si affermò come, nelle parole dell’Enciclopedia dell’Islam, «il fondatore delle tradizioni musicali della Spagna islamica».
Tra le altre cose, introdusse il Tenbur, uno strumento tipicamente curdo (Ziryab stesso si dichiarava curdo) che è l’antenato di tutti i tipi di liuto con manici diversi.
Questo tipo di Tenbur si trova in tutto il mondo, a Napoli si chiamava «Calascione» ed era in voga tra il 1500 e il 1800, nei Balcani si chiama «tamburizza», in Sud America «colachen», in Persia a tre corde «setar» e in India «sitar» e «saz» in Turchia.
Ha creato le regole per l’esecuzione della «nuba», un’importante forma di musica araba andalusa che sopravvive oggi nella musica classica del Nord Africa, conosciuta come malouf in Libya, in Tunisieaet ed all’est dell’Algérie, e semplicemente come musica andalusa più ad ovest in Marocco. Ziryab ha creato 24 nuba, uno
per ogni ora del giorno, come i ragas classici dell’India.
La forma nuba divenne molto popolare nella comunità cristiana spagnola ed ebbe una marcata influenza sullo sviluppo della musica europea medievale.
L’aggiunta di una quinta coppia di corde al liuto ha conferito allo strumento una maggiore finezza espressiva e una maggiore gamma.
Come scrisse lo storico della musica Julian Ribera negli anni Venti, era opinione comune che i quattro ordini di corde del liuto medievale corrispondessero ai quattro umori del corpo.
La prima coppia era gialla, simbolo della bile; la seconda era rossa per il sangue; la terza bianca per il catarro; la quarta, la coppia dei bassi, era nera per la malinconia.
Si dice che Ziryab abbia dato un’anima al liuto aggiungendo un’altra coppia di corde rosse tra la seconda e la terza fila.
Ziryab ha aumentato la sensibilità del liuto suonando lo strumento con un artiglio o una piuma d’aquila flessibile, anziché con il tradizionale plettro di legno.
Questa innovazione si diffuse rapidamente e presto nessun musicista esperto di Cordova avrebbe pensato di toccare le corde del suo liuto con il legno.
Si dice che Ziryab conoscesse a memoria le parole e le melodie di 10.000 canzoni.
Anche se questa affermazione è probabilmente esagerata, la sua memoria era certamente prodigiosa.
Secondo Ibn Hayyan e Al Maqqari, era anche un eccellente poeta, uno studente di astronomia e geografia e un brillante conversatore.
Discuteva spesso dei costumi e delle maniere delle nazioni di tutto il mondo conosciuto e parlava a lungo dell’alta civiltà che aveva sede a Baghdad.
Con la crescita della sua popolarità in Andalusia, crebbe anche la sua influenza.
I suoi suggerimenti e le sue raccomandazioni divennero la moda popolare.
Molte delle sue nuove idee migrarono gradualmente nella terra dei Franchi, in Francia, Germania, Italia settentrionale e oltre.
Ziryab amava il cibo ben preparato quasi quanto la musica. Ha rivoluzionato l’arte di mangiare in Spagna in un modo che continua ancora oggi.
Prima di Ziryab, la cucina spagnola era semplice, persino rozza, ereditata dai Visigoti, successori dei Vandali, e dalle usanze locali.
Vassoi di cibi diversi erano accatastati, tutti insieme, su tavo-
(segue
da pagina 25)
Photo naseershamma
li di legno spogli.
Le buone maniere a tavola erano inesistenti. Una vasta gamma di alimenti era disponibile in Al Andalusia carni, pesce e pollame, verdure, formaggi, zuppe e dolci.
Ziryab li ha combinati in ricette fantasiose, molte delle quali originarie di Baghdad.
Uno di questi piatti, composto da polpette di carne e piccoli pezzi triangolari di pasta fritti in olio di coriandolo, divenne noto come taqliyat Ziryab, o piatto fritto di Ziryab; anche molti altri piatti portavano il suo nome.
Ha deliziato i commensali di corte elevando un’umile erba primaverile chiamata asparago allo status di verdura da tavola.
Ziryab sviluppò una serie di deliziosi dessert, tra cui un’indimenticabile delizia di noci e miele che viene servita ancora oggi nella città di Saragozza.
Nella sua città d’adozione, Córdoba, il musicista-gourmet è ricordato oggi in un antico piatto di fagioli arrostiti e salati chiamato ziriabí.
Tale è la resistenza della reputazione dell’uccello nero che ancora oggi in Algeria, dove l’influenza andalusa continua ad essere presente, il dolce arabo all’arancia noto come zalabia, sotto forma di spirale di pasta fritta imbevuta di scirop-
po di zafferano, è considerato da molti algerini che ha preso questo nome per ricordare il nome di Ziryab, un’affermazione impossibile da confermare o confutare.
Una versione indiana di zalabia, jalebi, risale al XV secolo in India, ma non prima, e potrebbe essere stata presa in prestito dagli arabi e in ultima analisi da Ziryab.
Con la benedizione dell’emiro, Ziryab decretò che le cene a palazzo sarebbero state servite in una sequenza fissa, iniziando con zuppe o brodi, proseguendo con pesce, pollame o carni e terminando con frutta, dolci e ciotole di pistacchi e altre noci. Questo stile di presentazione, inedito persino a Baghdad o a Damasco, continuò a crescere in popolarità, diffondendosi tra le classi alte e mercantili, poi tra i cristiani e gli ebrei e persino tra i contadini.
Alla fine questa usanza divenne la regola in tutta Europa. L’espressione inglese «soup of nuts», che indica un sontuoso pasto a più portate, risale alle innovazioni di Ziryab alla tavola andalusa.
Vestendo il normale tavolo da pranzo in legno con tovaglie e altri materiali, Ziryab ha insegnato agli artigiani locali come produrre copritavolo in tessuti lavorati e montati.
Sostituì le pesanti coppe d’oro e d’argento delle classi superiori ereditate dai Goti e dai Romani con un cristallo delicato e finemente lavorato.
Riprogettò l’ingombrante cucchiaio da minestra in legno, sostituendolo con un modello meglio cesellato e più leggero. Ziryab ha rivolto la sua attenzione anche alla cura della persona e alla moda.
Sviluppò il primo dentifricio d’Europa (ma non possiamo dire esattamente quali fossero i suoi ingredienti).
Ha reso popolare la rasatura per gli uomini e ha stabilito nuove tendenze nei tagli di capelli.
Prima di Ziryab, i reali e i nobili lavavano i loro abiti con acqua di rose; per migliorare il processo di pulizia, introdusse l’uso del sale.
Per le donne, Zyriab ha aperto un salone di bellezza/scuola di cosmetologia non lontano dall’Alcazar, il palazzo dell’Emiro.
Ha creato acconciature audaci per l’epoca.
Le donne spagnole tradizionalmente portavano i capelli con la riga in mezzo e coprivano le orecchie, con una lunga treccia lungo la schiena.
Ziryab ha introdotto un taglio di capelli più corto e pieno, con frange sulla fronte e orecchie aperte.
Bibliografia
Lilia Zaouali, L’islam a tavola.
Dal Medioevo a oggi, Economica Laterza, 2007 Lemma «Ziryab» (H.G. Farmer-[E. Neubauer]), su: Enciclopedia dell’Islam, 2a edizione.
Reinhart Dozy, Storia dei musulmani di Spagna, Leyda, E.J. Brill, 1932.
Évariste Lévi-Provençal, Storia della Spagna musulmana, Parigi-Leida, G.-P. Maisonneuve-E.J. Brill, 1950
Ha insegnato il modellamento delle sopracciglia e l’uso dei depilatori per rimuovere i peli del corpo.
Ha introdotto nuovi profumi e cosmetici.
Alcuni dei consigli di moda di Ziryab sono stati presi in prestito dai circoli sociali d’élite di Baghdad, allora la città più cosmopolita del mondo. Altri sono stati stravolti dalle usanze locali andaluse.
La maggior parte di questi consigli si diffuse semplicemente perché Ziryab li propugnava; era una celebrità e le persone acquisivano uno status semplicemente imitandolo.
In qualità di arbitro dell’abbigliamento di corte, decretò il primo calendario stagionale della moda in Spagna.
In primavera, uomini e donne dovevano indossare colori vivaci nelle loro tuniche, camicie, bluse e abiti di cotone e lino.
Ziryab ha introdotto capi di seta colorati per completare i tessuti tradizionali.
In estate, gli abiti bianchi erano la regola.
Quando il tempo diventava freddo, Ziryab consigliava di indossare lunghi cappotti foderati di pelliccia, che erano di gran moda in Al Andalusia.
Ziryab esercitò una grande influenza alla corte dell’Amir, anche nelle decisioni politiche e amministrative.
Ad Abdurrahman II si attribuisce il merito di aver organizzato le «norme dello Stato» in Andalusia, trasformandolo da un modello romano-vescovile a uno stabilito secondo le linee abbasidi. Ziryab avrebbe avuto un ruolo importante in questo processo.
Ziryab portò astrologi dall’India e medici ebrei dal Nord Africa e dall’Iraq.
Gli astrologi erano istruiti in astronomia e Ziryab incoraggiò la diffusione di questa conoscenza.
Gli indiani sapevano anche giocare a scacchi e Ziryab li fece insegnare ai membri della corte reale, e da lì si diffuse in tutta la penisola.
Non sorprende che l’influenza globale di Ziryab susciti la gelosia e il risentimento degli altri cortigiani di Cordova.
Due famosi poeti dell’epoca, Ibn Habib e Al Ghazzal, scrissero versi di scherno contro di lui.
Al Ghazzal, un importante satirico andaluso, probabilmente considerava Baghdadi Ziryab un intruso di alto livello.
Ziryab, tuttavia, mantenne l’amicizia e il sostegno dell’Amir, (segue a pagina 26)
Foto prolocovillanovaforru
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e questo era tutto ciò che contava.
Abdurrahman II morì intorno all’852 e il suo straordinario innovatore Ziryab lo seguì circa cinque anni dopo.
I figli di Ziryab mantennero in vita le sue invenzioni musicali, assicurandone la diffusione in tutta Europa. Ognuno dei suoi otto figli e due figlie ha poi intrapreso una carriera musicale, ma non tutti sono diventati delle celebrità.
Il cantante più popolare era il figlio di Ziryab, Ubaid Allah, anche se suo fratello Qasim aveva una voce migliore.
Il successivo talento fu Abdurrahman, il primo dei figli a prendere le redini della scuola di musica dopo la morte del padre, ma si dice che la sua arroganza sia stata la causa della sua rovina, poiché finì per allontanare tutti, secondo Ibn Hayyan.
Le figlie di Ziryab erano abili musiciste. Il miglior artista fu Hamduna, la cui fama portò al matrimonio con il visir del regno.
La migliore insegnante fu sua sorella Ulayya, l’ultima sopravvissuta tra i figli di Ziryab, che ereditò la maggior parte dei clienti musicali del padre.
Con l’uscita di scena di Abdurrahman II e Ziryab, Cordova divenne una capitale culturale e una sede del sapere.
Quando un altro Abdurrahman, il terzo, salì al potere nel 912, la città era diventata il centro intellettuale d’Europa.
Come ha detto lo storico James Cleugh di Cordoba, la Spagna del mondo moderno, «non c’era nulla di simile, a quel tempo, nel resto d’Europa».
Le migliori menti di questo continente hanno guardato alla Spagna per tutto ciò che più chiaramente differenzia un essere umano da una tigre.
Alla fine del primo millennio, studenti provenienti dalla Francia, dall’Inghilterra e dal resto d’Europa affluirono a Cordova per studiare scienze, medicina e filosofia e per usufruire della grande biblioteca comunale, con i suoi 600.000 volumi.
Quando sono tornati in patria, hanno portato con sé non solo la conoscenza, ma anche l’arte, la musica, la cucina, la moda e la morale.
L’Europa fu inondata da nuove idee e costumi e, tra i molti flussi che si riversarono a nord dalla penisola iberica, più di uno fu incanalato da Ziryab.
La sposa nel vento
resentato recentemente (con una breve uscita in sala) “La sposa nel vento”, ultimo capitolo della trilogia di Giovanni Coda sul tema della violenza di genere.
Il nuovo film del regista e video-artista sardo è l’ennesima dimostrazione della sua arte sperimentale, un cinema-danza che ibrida i linguaggi.
Stavolta guarda in faccia il tema della violenza di genere, un mostro potente che va combattuto con tutte le arti possibili…
Giovanni Coda, con il suo cinema-danza sperimentale, nel corso negli anni sta toccando i nervi scoperti della società italiana, gli angoli ciechi, quegli spazi che nessuno vuole vedere perché troppo scomodi. Quindi conviene rimuoverli dallo sguardo.
Coda li riporta davanti agli occhi, convocandoci al confronto con essi: basti guardare il suo percorso nel tempo per realizzarlo in modo evidente.
to all’eutanasia, passando per la vicenda di Piergiorgio Welby per affermare l’umanità di una “buona morte”.
Adesso, con il suo nuovo film “La sposa nel vento”, guarda negli occhi il tema del femminicidio.
Il cinquantottenne sardo Jo Coda è da anni sceneggiatore, regista, fotografo, autore di installazioni fotografiche nei maggiori musei internazionali.
Il suo lavoro lo chiamiamo “cinema” per convenzione, ma è molto di più e altro: l’ultimo titolo lo ribadisce.
La sposa nel vento è un film di 80 minuti che si sviluppa all’insegna dell’ibridazione dei linguaggi: troviamo interviste e testimonianze frontali di donne vittime della violenza maschile, anche commosse e struggenti, che vengono alternate a innesti di finzione, sequenze di teatro filmato e balletto.
L’una come feticcio del cinema fluido di Ozpetek (e non solo, naturalmente), l’altro uno dei maggiori interpreti italiani esplosi negli ultimi anni, entrambi – uomo e donna – a portare il loro contributo in questo canto contro la violenza.
Dalla tela sincretica emerge in trasparenza una realtà dolorosa: le evocazioni femminili sono dure, quasi insopportabili, per esempio una donna sarda racconta che il suo aguzzino la chiamava “aliga”, immondizia, “mentre io i rifiuti li raccolgo, li divido anche, faccio la raccolta differenziata”.
Così il regista spiega l’urgenza del film: “Assistiamo ancora oggi all’annientamento fisico e simbolico dell’Essere Femminile, con una frequenza e brutalità che ha oltrepassato il livello dell’emergenza”.
Osama
Derraji per Essere e sapere
GIOVANNI JO CODA
Ha raccontato l’Olocausto dei gay ne “Il rosa nudo”, storia vera di un uomo arrestato e deportato perché omosessuale; la violenza del bullismo in “Bullied to Death”; con Mark’s Diary perfino la sessualità dei disabili, vero e grande tabù; in “Storia di una lacrima” il dirit-
C’è la sposa nel vento che danza, col suo vestito bianco, formando un movimento sinuoso e misterioso che diviene metafora della violenza di genere, simbolo del femminile che non si arrende, che si dibatte nelle spire del dramma a cui vuole sfuggire.
E poi ci sono gli attori, a leggere testi e recitare poesie, i principali sono Serra Yilmaz e Lorenzo Balducci.
Da qui la necessità di metterlo in scena, ingaggiando una battaglia che si combatte con linguaggi diversi, perché il nemico è potente e non basta una sola arte per combatterlo.
Così si fondono arti diverse: il cinema e il ballo, il documentario e lo sperimentale, e anche il passato e il presente si mettono insieme per contrastare l’orrore.
Prodotto da Movie Factory di Francesco Montini, con il contributo della Regione Sardegna
P Foto giorgiorusso
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e il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission e del Comune di Quartu Sant’Elena, “La sposa nel vento”, come tutti i film di Jo Coda, si pone a distanza siderale dalla consuetudine del cinema italiano, lancia un messaggio diverso e lo fa con una lingua unica e peculiare.
Chi ha orecchie per intendere, e occhi per guardare, può seguire il ritmo della danza.
Giovanni Coda detto Jo Nasce il 19 gennaio 1964 a Cagliari.
Dopo gli studi all’Università di Cagliari si trasferisce in Spagna per seguire il Master in Fotografia dell’Idep – Escuela de Fotografía IDEP de Barcelona.
Dal 1996 dirige il V-art (Festival Internazionale Immagine d’Autore) e nel 2005 cura la Rassegna audiovisiva del Festival di Musica Elettroacustica Confluencias di Huelva, Spagna.
Ha al suo attivo installazioni di fotografia e videoarte in musei e gallerie di varie città tra cui Venezia (Biennale della videoarte), Tokyo (Ayoama University), Londra (Watermans Arts Centre), Parigi (Maison d’Italie), Madrid (Museo del Rejna Sofia), Milano (Biennale della Videoarte), Roma (Teatro Vittorio, Macro Asilo). Nel 2013 esordisce con il suo
primo lungometraggio “Il rosa nudo”, proiettato in anteprima nazionale all’edizione 2013 del Torino GLBT Film Festival.
Dal 2020 è consigliere e giurato dell’Advisory Council del Social Justice Film Festival & Institute di Seattle.
Filmografia Regista
Lungometraggi
Il rosa nudo (2013)
Bullied to Death (2016)
Mark’s Diary (2019)
Histoire d’une larme (2020)
La sposa nel vento (2022)
Cortometraggi
Ne Varietur (1991, 50’)
Il Lampadario (1994, 50’)
P-salm (1995, 5’)
L’attesa (1995, 45’)[2]
L’ombra del ricordo (1996, 45’)[3][4]
Heaven Heaven (1997, 15’)
InTollerance (1998, 1’)
Il passeggero (1998)[5]
Ombre (1998,15’)
Lìmites (1999, 10’)
Drawing (2000, 5’)
Serafina (2002, 18’)[6]
X-Vision (2002, 45’)
Diario (2002, 10’)
Inferno I (2002, 50’)
Other Body (2003, 30’)
Viaggio Per Caso (2003, 5’)
TVSet (2003, 5’)
Dentro una maschera (2003, 13’)
Inferno II (2003, 50’)
Jean (2003, 15’)
Paisaje de Guerra (2003, 25’) WarDerLand (2004, 15’)
Inferno III (2004, 50’)
The Body (2004, 45’)
TVBody (2005, 15’)
It Won’t Stop (2005, 7’)
Il Trucco e l’Anima (2005, 30’)
One TV Hour (2005, 65’)
Solo (2005, 25’)
Soul Waters (2006, 15’)
Big Talk (2005, 65’)[7]
The Box Man (2008, 15’)
I racconti del mare (2009, 15’) Cosa ti darò (2009, 20’) Anime (2010, 20’)
Teresa (2011, 15’)
Brightness (2012, 22’)[8]
Xavier Note
^ Social Justice Film Festival and Institute Advisory Council.. Consultato il 6 Marzo 2022.
^ Premio Miglior Cortometraggio Italiano, Migliore Fotografia e Miglior Montaggio al Festival Cinema Nikelodeon Spoleto 1995
^ Premio Fuji – Alia per il Miglior Cortometraggio Italiano al Festival di Arezzo Cittadella del Cinema Indipendente 1996.
^ Premio per la Miglior Fotografia Cinematografica al Madonie Film Festival 1996 di Palermo.
^ Il Passeggero (consultato in data 22-02-2014)
^ Premio Speciale della Giuria
Festival del Cortometraggio Cagliari in Corto.
^ Big Talk - L’amor que desune (consultato in data 22-02-2014)
^ Brightness Archiviato il 16 febbraio 2015 in Internet Archive. (consultato in data 2202-2014)
Bibliografia
Il videoartista cagliaritano autore cult del cinema indipendente, La Nuova Sardegna (consultato in data 25-06-2016);
Il Corpo di Coda , Cinemecum (consultato in data 22-092013);
Il rosa nudo, La Repubblica.it -TrovaCinema (consultato in data 19-06-2013);
Maria Grosso, Florence Queer Festival. Liberatori, ironici, di inafferrabile sensualità, Alias supplemento de Il Manifesto, 02-11-2013 (consultato in data 06-01-2014);
“Il rosa nudo” di Giovanni Coda vince al Social Justice Film Festival di Seattle, cinemaitaliano.info (consultato in data 18-11-2013);
Marco Cocco, Giovanni Coda e i 25 anni di carriera, L’Unione Sarda (consultato in data 1003-2019);
Andrea Minuz e Guido Vitiello (a cura di), Il rosa nudo: per una memoria dell’omocausto. Sulle orme di Pierre Seel,, in La Shoah nel cinema italiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013, pp. 196-198, ISBN 97888-498-3871-8.
“Mark’s Diary”, il film di Giovanni Coda su amore e disabilità, Il Messaggero (consultato in data 10-03-2019);
Elisabetta Randaccio, I colpi di Coda, Sardinia Post (consultato in data 10-03-2019);
Incontro con il cinema sardo a Roma: Giovanni Coda, Centro Sperimentale di Cinematografia (consultato in data 17-032019);
Giovanni Coda. Exposition, Artecracy (consultato in data 17-03-2019);
Giovanni Coda, la forza delle immagini. Il regista protagonista con “Twenty five” alla Pinacoteca “Contini” di Oristano, La Nuova Sardegna (consultato in data 17-03-2019);
Mark’s Diary al Macro Asilo, Exibart (consultato in data 1003-2019);
Monografica Giovanni Coda –Mark’s Diary[collegamento interrotto], Museo Macro, (consultato in data 10-03-2019);
Giovanni Coda | Video Exposition II Parte, Museo Macro, (consultato in data 10-032019);
FUORI NORMA - Focus su Giovanni Coda, Cinemaitaliano.info, (consultato in data 1003-2019);
egas torna a Napoli, la prima volta dopo oltre cent’anni.
Prodotta da Navigare srl e patrocinata dal Comune di Napoli, la mostra è curata dall’esperto e collezionista d’arte Vincenzo Sanfo e si articola in tre aree tematiche.
È noto che il pittore e scultore Edgar Degas (1834 – 1917) coltivò sin dalla giovinezza uno stretto rapporto con l’Italia e con Napoli eppure mai, fino ad oggi, la città ha ospitato una mostra a lui dedicata. Il nonno René Hilaire De Gas, nobile francese, che al tempo della rivoluzione mutò il suo cognome con il meno aristrocatico Degas, fu costretto a lasciare la Francia e a rifugiarsi a Napoli.
Qui svolse con profitto la professione di banchiere e agente di cambio.
Sposò Giovanna Teresa Freppa, originaria di Livorno, dalla quale ebbe sette figli, quattro maschi Auguste, Henri, Eduard ed Achille e tre femmine Rosa, Laura e Fanny.
I quattro maschi con l’età adulta si trasferirono in Francia mentre le femmine rimasero a Napoli sposando rampolli della nobiltà Napoletana; il solo Auguste in tarda età tornò a Napoli dove morì e fu sepolto.
Auguste, il padre di Edgar, anch’egli banchiere a Parigi, sposò Celestine Musson, una americana di origine francese, dalla quale ebbe cinque figli: il primogenito Edgar nato a Parigi il 19/7/1834, e poi Achille, Therese, Marguerite, René.
La sola Therese nacque a Napoli nel 1840 e, dopo il decesso prematuro della madre nel 1847, vi si trasferì definitivamente dove fu allevata dalle zie.
Insieme vivranno a Napoli, in Palazzo Pignatelli di Monteleone, dimora storica acquistata da Hilaire per la famiglia: qui cresceranno i figli, tra cui il padre di Edgar.
Il nipote si recherà spesso in città a trovare suo nonno, dedicandosi alla pittura e apprezzando l’Italia per il suo grande potenziale artistico.
Per la prima volta in assoluto, dal 14 gennaio fino al 10 aprile, “Degas, il ritorno a Napoli” celebra finalmente quel legame, con una selezione di quasi 200 opere originali (154 tra dipinti e disegni e 34 fotografie), tra cui i monotipi di Maison Tellier e di Famille Cardinal, disegni, studi preparatori, litografie e xilografie, acqueforti, rarissime fotografie scattate da
Degas, e anche tre sue pregiate statuette in bronzo in un percorso espositivo volto a creare i presupposti per una futura indagine, ancor più esaustiva, sul periodo napoletano di uno dei più interessanti esponenti dell’Impressionismo. Esposta nella Sala del Refettorio del Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore, a pochi passi da Palazzo Pignatelli di Monteleone, residenza del nonno paterno e di parte della famiglia, meglio conosciuto come Palazzo Degas, la mostra é prodotta da Navigare srl e patrocinata dal Comune di Napoli, la mostra è curata dall’esperto e collezionista d’arte Vincenzo Sanfo, e si articola in tre aree tematiche..
La prima, riferita agli anni giovanili di Degas, ricostruisce le atmosfere della Napoli di fine Ottocento, attraverso immagini storiche e l’analisi del ritratto del nonno Hilaire De Gas, primo importante dipinto realizzato a Napoli dal futuro pittore impressionista, e quello della famiglia Bellelli, suoi parenti, proposti in mostra in una riproduzione multimediale.
Con la seconda sezione, dedicata ai temi ditintivi dell’arte di Degas: ballerine, prostitute, cavalli da corsa e café-chant-
ant della Belle Époque, l’esposizione entra nel vivo con una galleria di disegni, studi preparatori, numerose incisioni tra monotipi, litografie e xilografie, e tre sculture in bronzo.
Tali opere risultano fondamentali per comprendere a pieno l’arte del “pittore delle ballerine”.
L’attenzione alla forma e al segno, che si realizza attraverso lo studio, l’imitazione dei grandi maestri della pittura italiana oltre che del neoclassicista Ingres, insieme all’esercizio del disegno, lo accompagneranno fino alla morte.
Il disegno, per Degas, rivela molto meglio della pittura la vera personalità di un artista.
Anche quando entrerà nel gruppo degli Impressionisti e si dedicherà al colore, Degas non abbandonerà questa convinzione.
Accanto alla produzione di disegni e incisioni dell’artista, rappresentata dalle serie La maison Tellier e La Famille Cardinal e, in facsimile, dal Carnet di disegni per Ludovic Halévy, spiccano in questa esposizione numerosi altri celebri artisti tra cui Pablo Picasso (acquaforte Degas e Desboutin, serie La Celestine) e Jules Pascin (disegni a inchiostro Maison Close).
La terza area tematica riguarda aspetti più mondani della vita di Degas, le sue frequentazioni con altri artisti e gli anni più tormentati della sua esistenza minata dalla cecità. In questa parte della mostra, sono esposte opere pittoriche e grafiche di artisti napoletani, come Filippo Palizzi, conosciuto alla Reale Accademia di Belle Arti di Napoli, con il quale Degas condivise il dissenso per l’insegnamento accademico.
L’area ospita anche altri illustri artisti come Domenico Morelli, Frank Boggs, Giuseppe Canova, Ferdinando Pappacena e Édouard Manet, con il prezioso olio su cartoncino Vase de fleure.
Infine, trentaquattro fotografie realizzate da Degas, provenienti dalla Bibliothèque National de France, evidenziano l’interesse di Degas per la recente invenzione quale strumento di studio per il movimento del corpo umano e dei cavalli, accolta favorevolmente da molti Impressionisti.
G.Del Gaudio
https://www.historypage.it/ edgar-degas-e-napoli/ https://www.cronachedellacampania.it/2023/01/ mostre-degas-torna-a-napoli-la-prima-volta-dopo-oltre-centanni/
D
Degas il ritorno a Napoli dal 14 gennaio 2023 sino al 10 aprile 2023 Realizzato dalla società Scabec della Regione Campania per la promozione turistica della Campania. Biglietteria sul posto, e online con ticketone.it. Info e prenotazioni prenotazioni@navigaresrl.com con orario continuato, giorni feriali dalle ore 9:30 alle 19:30 mentre sabato, la domenica e festivi dalle 9:30 alle 20:30. Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore Vico San Domenico Maggiore 80134 Napoli Tel. : +39 081 008 3901 https://www.fanpage.it/ https://museosandomenicomaggiore.it/ Foto cronachedellacampania.it
EDITH GABRIELLI AL VIVE
Dal 17 gennaio 2023 prende il via la nuova edizione della rassegna “Al centro di Roma”, ideata da Edith Gabrielli, direttrice dell’Istituto VIVE - Vittoriano e Palazzo Venezia.
La riforma promossa nel 2019 dal ministro Franceschini ha tripartito il Polo Museale del Lazio, diretto dal 2015 da Edith Gabrielli, in Direzione regionale musei Lazio, Direzione musei statali della città di Roma e in istituto autonomo Vittoriano e Palazzo Venezia.
Dal 2 novembre, a seguito di una selezione internazionale, Edith Gabrielli dirige quest’ultima nuova realtà museale italiana, mentre per le altre due componenti territoriali dell’ex Polo museale del Lazio è in atto al momento la selezione dei nuovi direttori.
La rassegna “Al centro di Roma” prevede un fitto programma di conferenze per ampliare l’offerta culturale del VIVE e contribuire al rilancio dell’area di piazza Venezia come luogo di incontro e socialità.
Quaranta gli appuntamenti: da gennaio a dicembre, il pubblico ha l’occasione di incontrare e ascoltare protagonisti del mondo della storia, dell’arte, dell’architettura, dell’archeo-
logia e della musica.
Le conferenze di docenti universitari, professionisti e grandi specialisti si svolgono nella Sala del Refettorio di Palazzo Venezia.
La rassegna “Al centro di Roma” si articolerà in cinque cicli di incontri: Da Roma al mondo.
Racconti di un passato che vive, a cura di Francesco Benigno, ordinario di Storia Moderna della Scuola Normale Superiore di Pisa; Dal VIVE alla città: storia delle arti a Roma dal Quattrocento al Novecento, cura di Silvia Ginzburg ordinario di Storia dell’Arte Moderna all’Università di Roma Tre; Architettura nel Disegno per immaginare e costruire l’habitus che risiede nella mente dell’architetto, a cura di Orazio Carpenzano, preside della Facoltà di Architettura “Sapienza” Università di Roma; Passioni private. Vivere circondati dalla bellezza.
Contesti del collezionismo a dialogo con antiquari ed esperti, a cura di Costantino D’Orazio, storico dell’arte e in collaborazione con l’Associazione Antiquari d’Italia e “Una piazza, tante storie”, a cura di Edith Gabrielli, direttrice VIVE - Vittoriano e Palazzo Venezia,
Il Giornale dell’Arte ha raccolto alcune dichiarazioni della direttrice:
L’autonomia conferita al nuovo istituto costituito da Vittoriano e Palazzo Venezia darà nuovo slancio a due musei «dalle potenzialità enormi», secondo le parole del ministro Dario Franceschini: quale sarà il loro futuro?
Il futuro passa attraverso il programma di lavoro che ho sottoposto alla commissione d’esame. Un vaglio tecnico importante. Ricordo i nomi dei commissari: Maria Luisa Catoni, Caterina Bon Valsassina, Miguel Falomir, Gabriele Finaldi e Christian Greco. Il programma prevede una fase di tutela e una di valorizzazione concatenate e interdipendenti.
Perché, a chi e quando è sorta chiara questa esigenza di far di due istituzioni così diverse un’unica entità amministrativa?
Dopo aver diretto dal 2015 al 2020 il Polo Museale del Lazio posso ragionevolmente affermare che la disciplina museologica, quando correttamente intesa e declinata, consente di tenere positivamente uniti più istituti, anche molto diversi l’uno dall’altro.
Il Complesso monumentale del Vittoriano, noto anche
martedì 17 gennaio: Umbertini in toga. Roma e Pompei nell’immaginazione ottocentesca con Carlo Sisi giovedì 26 gennaio: Nilde Iotti e Tina Anselmi: le donne che hanno fatto la Repubblica con Silvia Salvatici giovedì 2 febbraio: Architetture di invenzione con Carmelo Baglivo giovedì 9 febbraio: Donne di Roma, donne a Roma. Il rione Pigna e le sue protagoniste (secc. XVI-XIX) con Marina Formica Giovedì 16 febbraio: Arti decorative nella Roma neoclassica con Alessandra Di Castro e Francesco Leone giovedì 23 febbraio, ore 18.00: Una pittura moderna e dolorosa, arsa e splendente con Barbara Cinelli giovedì 2 marzo: Quel testimone inascoltato. Il racconto non creduto della Shoah con Umberto Gentiloni Silveri giovedì 9 marzo: FÓRME PRÒSSIME con Beniamino Servino martedì 14 marzo: Venezia a Roma. Il palazzo di San Marco tra magnificenza, erudizione e collezionismo con Linda Borean giovedì 23 marzo, ore 18.00: Mobili del Settecento per i Chigi con Alvar Gonzáles-Palacios giovedì 30 marzo: Dopo Craxi e Mani Pulite. Esiste davvero una seconda Repubblica? con Simona Colarizi Gli incontri inizieranno alle ore 18:00 e sono ad ingresso gratuito.
come Altare della patria, dedicato a Vittorio Emanuele II di Savoia primo re d’Italia, è costituito da distinti settori museali dedicati alla celebrazione del Risorgimento.
È possibile immaginare una veicolazione di questi contenuti identitari secondo modalità più attuali?
Guardi, in realtà nel Vittoriano questo già accade da diverso tempo.
Se per «modalità più attuali» intende il mondo del web, qualche mese addietro da direttore del Polo ho affidato la comunicazione online del sito alla Vergani&Gasco, una delle ditte italiane più note del settore. Una parte del successo del monumento si deve anche a questo.
Il Vittoriano è attraversato, grazie anche all’attrattiva delle terrazze panoramiche, da 3 milioni di visitatori l’anno. Palazzo Venezia, museo tra i più belli (con capolavori dall’Alto Medioevo al ’700) ma anche tra i meno noti della città, ne conta circa mezzo milione. Entrambi gli istituti sono cresciuti molto durante l’ultimo quinquennio. I motivi sono diversi: per Palazzo Venezia è stato importante liberare il giardino interno dalle auto: non a caso parliamo di «giardino ritrovato». Esiste comunque una strategia comune, che possiamo suddividere in tre punti. Uno: stare a sentire con attenzione reale quel che il pubblico, anzi i pubblici desiderano dal monumento. Due: trasformare quella richiesta in un’esperienza speciale, magari unica. Tre: creare le condizioni per il «passa parola» e il successivo ritorno del visitatore.
Il VIVE sorge a piazza Venezia, nel cuore di Roma, ed è composto dal Monumento a Vittorio Emanuele II, noto anche come Vittoriano appunto o Altare della Patria, compresi la Terrazza panoramica, il Museo Centrale del Risorgimento e l’Ala Fori Imperiali, e Palazzo Venezia, con il suo Museo.
Il VIVE gestisce anche la Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, sia la sede principale di Palazzo Venezia, sia la sede distaccata, a pochi passi, nel Palazzo del Collegio Romano, ora sede centrale del Ministero della Cultura, in attesa del trasferimento a Palazzo San Felice, messo a disposizione dalla Presidenza della Repubblica.
https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/edith-gabrielli-le-idee-buone-non-scadono-/
GLI INCONTRI DA GENNAIO A MARZO
a Madre con bambino in braccio, nudo II (a destra) di Paula Modersohn-Becker, dipinta nell’autunno del 1906, è una rappresentazione sorprendentemente schietta del corpo post-partum.
La madre guarda con un’espressione che suggerisce allo stesso tempo divertimento e sfinimento, mentre il bambino gioca con la frutta - simbolo di fertilità - tra le sue braccia.
In un altro dipinto dello stesso anno, Modersohn-Becker si immagina incinta in Autoritratto nel sesto giorno di nozze, uno degli autoritratti più radicali mai realizzati.
Ma l’artista morirà, a soli 31 anni, un anno dopo per complicazioni legate alla nascita del suo primo figlio: i suoi straordinari e non idealizzati ritratti di donne e ragazze testimoniano una vita vissuta all’insegna della propria visione artistica e di principi morali spesso in contrasto con le aspettative della società.
È a Worpswede, un piccolo villaggio a 15 miglia a nord della casa di famiglia a Brema, che Paula Becker si è innamorata del colore e delle sue possibilità nella pittura.
Dopo aver studiato arte a Londra e a Berlino, nel 1898 venne a vivere e a lavorare accanto a una colonia di artisti che avevano fatto di questa comunità rurale la loro casa, tra cui il futuro marito Otto Modersohn e Ottilie Reylaender, le cui opere compaiono anche in Making Modernism.
L’occhio di Becker viene immediatamente catturato dalla luce mutevole, dalle foreste verdi e dai canali riflettenti, e dalle persone - sia i suoi colleghi artisti che i contadini e gli abitanti dei villaggi che dipinge quotidianamente.
“Dipingere persone è davvero meglio che dipingere paesaggi”, ha deciso.
Le sue opere di Worpswede sono spesso incentrate sulle donne - che camminano nei boschi, si prendono cura dei bambini e degli animalirappresentate con una forza che nasce da una reale empatia.
L’artista trascorse gran parte
PAULA MODERSOHN BECKER
della sua vita a Worpswede, con diversi soggiorni prolungati a Parigi, dove trascorse ore a disegnare al Louvre (esaminando gli Antichi Maestri e l’arte greca ed egizia) e a sviluppare la sua gamma tecnica all’Ecole des Beaux Arts.
Scopre le opere di Van Gogh, Cézanne e Gauguin, il cui uso del colore la aiuta a formare la propria tavolozza.
Fu particolarmente colpita dall’opera di Rodin, che considerava il più grande artista vivente: passeggiando tra le sue creazioni nel suo studio (che aveva incantato anche Kollwitz), riteneva che “le notevoli figure oniriche che getta sulla carta sono l’espressione più singolare della sua arte”.
Nel suo diario, Becker scrive di voler esprimere “la dolce vibrazione delle cose”: pensando alle forme delle anti-
che sculture greche di teste e ai ritratti delle mummie del Fayum, da cui trae ispirazione per alcuni dei suoi autoritratti, scrive che “una grande semplicità di forme è qualcosa di meraviglioso”.
I suoi sfondi sono spesso appiattiti, i suoi soggetti sono al centro dell’attenzione; le sue opere sono impregnate di una palpabile intimità che smentisce la loro accurata composizione (“il sentimento personale”, scrive, “è la cosa principale”).
Per tutta la sua vita adulta, Modersohn-Becker ha lottato per conciliare la sua spinta professionale con le sue relazioni personali, la sua visione artistica con le aspettative prevalenti su di lei come donna e moglie.
La delusione per il suo matrimonio e la rottura dell’intensa relazione con la scultrice Clara Westhoff e con il
marito della Westhoff, il poeta Rainer Maria Rilke, portarono Modersohn-Becker a lasciare temporaneamente Worpswede e Otto per una “nuova vita” a Parigi nel marzo 1906.
È qui che ha prodotto alcuni dei suoi lavori più espressivi, attingendo al suo turbamento emotivo per creare potenti autoritratti e una serie di notevoli dipinti di donne - incinte, che allattano, che invecchiano.
“Vorrei rendere l’estasi, la pienezza, l’eccitazione del colore, la potenza”, scriveva nel 1907, anno della sua morte.
Era un’artista che dipingeva la vita come la viveva: con rischi e sperimentazioni, rifiutando di compromettere la sua integrità fino alla fine.
Francesca Wade
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