S'Arti Nostra Maggio 2021

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Il palazzo E.N.E.L. ex S.E.S Gianluigi (Gigi) Ghò Architettura a Cagliari? Tremasa Olimpia Melis Italia L’impegno politico di un artista rivoluzionario Il cambiamento climatico é ciò che mangi Renata Viganò Combattenti Partigiane Liliana Cavani Kofa Kofa Filippo Grandulli Cecilia Payne Gaposchkin Supplemento all’édizione di “SARDONIA“ Maggio 2021

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S’Arti Nostra

Programma Televisivo OnLine di Diffusione d’Arte Contemporanea a cura di

Demetra Puddu

Redattrice Artistica Anima la trasmissione “S’Arti Nostra” Collabora a Artis Aes Laureata in Lettere (curriculum moderno) à Università degli Studi di Cagliari Conservatorio Pierluigi da Palestrina di Cagliari Liceo Linguistico I.T.A.S. “Grazia Deledda” Cagliari demetra.uddup@gmail.com

Vittorio E. Pisu Redattore Capo

Direttore Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima

Supplemento al numero del Maggio 2021 in collaborazione con PALAZZI A VENEZIA

Publication périodique d’Arts et de culture urbaine Correspondance palazziavenezia@gmail.com https://www.facebook.com/ Palazzi-A-Venezia https://www.vimeo.com/ channels/palazziavenezia Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS vimeo.com&unisvers Commission Paritaire

ISSN en cours Diffusion digitale

Meglio una Donna Silvia Sbardella vedi i vidéo vimeo.com/525041872 vimeo.com/526409773 vimeo.com/526751320

uesto primo maggio, benché privo della tradizione sfilata di costumi sardi per lo scioglimento del voto fatto a Sant’Efisio, ci porta comunque una buona notizia annunciandoci la fine della zona rossa e il declassamento in zona arancione per le due prossime settimane almeno. Permettendoci quindi non solo una più grande libertà di movimento ma anche la possibilità di visitare mostre ed altre manifestazioni artistiche. Purtroppo i teatri rimangono chiusi, e dovrei dire anche, i pochissimi che esistono ancora a Cagliari che, tra incendi partigiani e bombardamenti alleati ne perse per strada un certo numero. Ultimamente la demolizione dell’Alfieri, dopo una lunga battaglia amministrattiva, uno dei pochi rimasti tra i cinema teatri ancora in funzione, ultimo di una lunga lista che la decadenza delle frequentazioni in città e forse anche la creazione di multisale periferiche resero inutili e troppo onerosi per poter essere mantenuti in funzione, ha messo la parola fine ad una lunga agonia. Alcuni di questi cinema, vedi via Roma, via Alghero, via Garibaldi, via Grazia Deledda, furomo trasformati in locali commerciali, anche se ultimamente la pandemia imperamte ha chiuso anche quelle attività. Quando le trasmissioni televisive si diffusero il cinema rispose con la creazione del Cinemascope, del Tood-A-O, ultimamente anche del cinema in 3D, ma la proliferazione dei tablet et degli smart phone ne hanno segnato, almeno qui a Cagliari, la morte certa. Ricordo con nostalgia le proiezioni all’aperto a Marina Piccola durante le stagioni estive degli anni ottanta, ormai un lontano ricordo, Eppure in altre contrade stanno rinascndo finanche i drive-in d’americana memoria, con la colonna sonora sincronizzata su di un canale radio in modo da usufruire del suono dello schermo attraverso l’apparecchio radio della vettura. La copertina di questo numero presenta una bella immagine del Palazzo dell’ENEL ex SES che ultimamente ha suscitato una certa polemica sulle pagine Facebook dedicate a Cagliari, da alcuni nostalgici delle sue memorie, con degli interventi a volte particolarmente violenti e naturalmente giustificati unicamente da un preteso gusto personale. E’ vero che ultimamente e sopratutto sui social media, possiamo riscontrare che meno si conosce un argomento, più ci si sente in dovere di esprimere un giudizio e guai a contestarlo anche nelle maniere più garbate, come se il fatto di esternare la propria opinione (sic) su di un social media, la scolpisse immediatamente nel marmo della perennità. Ringrazio sopratutto il signor Foddai per una sua nota descrivendo tutte le differenze stilistiche che contraddistinguono la successione di costruzione che costituiscono la facciata mare della via Roma ed anche per avermi fatto scoprire il piano regolatore della ricostruzione, a firma dell’Umberto Principe di Piemonte, approvato in seguito dalla municipalità cagliaritana nel maggio del 1947, che può ancora oggi essere assolutamente consultato via online e che presenta anche le piante urbanistiche delle diverse zone di Cagliari che avrebbero dovuto essere trasformate successivamente alle distruzioni causate dai bombardamenti alleati ed approfittando appunto di certi vuoti rubani così creati per dare un volto nuovo e più moderno alla città tutta intera. Una delle proposte che mi hanno più colpito é quella che prevedeva di prolungare le arcate caratteristiche della via Roma, lungo tutto il Viale Colombo arrivando fino alla piazza ai piedi della Basilica di Bonaria, piazza ancora oggi particolarmente informe e senza nessun elemento che le possa dare una caratteritica di spazio urbano, e destinata oggi ad informe e disordinato parcheggio. Non riesco a capire che cosa sia successo, quali inerzie solerti si siano messe in movimento per impedire assolutamente la realizzazione di una tale misura. D’altra parte mentre alcuni deprecano l’esistenza stessa del Palazzo dell’ENEL trattandolo di “orribile, osceno e fino a schifoso” non ho mai letto nessun post che rimpianga la distruzione del Mercato Centrale nel Largo Carlo felice, per essere rimpiazzato da due immobili particolarmenti insulsi ma sedi di banche. Naturalmente questa demolizione non era prevista nel piano di ricostruzione. Così uno dei monumenti di cui oggi si potrebbe essere legittimamente orgogliosi, testimone di un glorioso ed industrioso passato della nostra città, a quell’epoca assolutamente al passo coi tempi e sincrono con le più importanti città italiane, è andato perduto per sempre, di quest’epoca rimangono solo il Municipio e la terrazza del Bastione San Remy, ma ho letto alcuni post che rimpiangono le mura pisane e la loro trasformazione lungo il Terrapieno. Così invece di mettere a profitto l’epoca post bellica per dare alla città un volto più adatto ai tempi ed alle sue trasformazioni, come numerose città europee, che avevano subito lo stesso genere di danni durante il conflitto, hanno saputo fare utilizzando gli architetti e gli urbanisti più in voga del momento, lo sviluppo di Cagliari si é fatto nel più grand disordine, con costruzioni di una banalità affligente, costruite naturalmente “In Economia” comportando ancora oggi le caratteristriche foniche e termiche le più scadenti che si possano immaginare e sopra tutto distribuite sul territorio senza nessuna regola, utilizzando spesso e volentieri unicamente la divisione in parcelle già agricole, senza alcuna coerenza viaria fondando quindi le condizioni per una circolazioone caotica e disordinata, peggiorata dalla più grande densita automobilistica d’Italia, seconda solo ad una cittadina come Cosenza. Questo numero vi propone anche altri soggetti di riflessione sia politici, in occasione dall’anniversario della celebrazione della Liberazione il 25 aprile, che anche lui suscita un certo numero di commenti, e come ne abbiamo ormai l’abituidne sin dal primo numero, sottolinea le tristi sorti riservate spesso e volentieri alle donne, che siano esse artiste, scienziate, partigiane combattenti o semplicemente rappresentanti dell’altra metà del cielo, per parafrasare il grande timoniere, ormai dimenticato. Sperando che anche questo label aranciane sparisca al iù presto per permetterci di ritrovare le nostre abitudini sopratutto in vista dell’estate che speriamo non si presenti confinata ed impedita di esprimersi secondo tutte le sue possibilità, vi ricordiamo la nostra serie di mostre “Meglio una Donna” che, dopo Silvia Sbardella e le sue sculture, presenterà dal venerdi 7 maggio alla domenica 9 maggio compresa, dalle 18 alle 21, le fotografie ed i filmati di Chiara Cossu nel locale di Terra Battuta, via San Domenico 10 a Cagliari Villanova, vi speriamo numerosi nel rispetto delle norme di sicurezza sanitaria, cioè mascherina, distanza e assenza di assembramento. Augurandovi una buona lettura vi diamo appuntamento al giugno prossimo. Vittorio E. Pisu

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PALAZZO ENEL ex SES

le e medie ditte specializzate assecondarono le esigenze compositive degli architetti, soprattutto di quelli più prestigiosi, per riuscire a ritagliare nuovi spazi per la carpenteria metallica nel cantiere prevalentemente latero-cementizio. Sebbene concepito per essere prodotto da un processo industriale, il curtain wall “all’italiana” fu invece realizzato come un prototipo, un oggetto d’eccezione talvolta talmente originale da richiedere la tutela di un brevetto. Il Palazzo della Società Elettrica Sarda di Cagliari è un esempio rilevante di questa particolare interazione tra progettista e ditte specializzate che rappresenta una peculiarità della facciata continua in Italia. L’autore è l’ingegnere e architetto milanese Gigi Ghò che per alcuni anni fece parte del gruppo STAR, studi tecnici e artistici, fondato da Giò Ponti1 nel 1944. A differenza di alcune pubblicazioni che si soffermano sugli aspetti compositivi e distributivi di questo edificio (come per esempio “Architettura a Cagliari”, scritto dallo stesso Ghò sulla rivista “Casa e Turismo” o “Sede della Società Elettrica Sarda” pubblicato su Edilizia Moderna, questo articolo è incentrato sulla soluzione di facciata e su come la considerazione di tutti i parametri, ambientali, meccanici e psicologici, abbia permesso l’introduzione di una spazialità nuova in un contesto mediterraneo nel quale si affidava quasi esclusivamente alla massività il compito di difendere dal caldo e dal forte vento di maestrale gli ambienti interni. Nel 1956 il presidente della Società Elettrica Sarda, Raimondo Orrù, affidò a Gigi Ghò il progetto del palazzo per gli uffici di Cagliari, richiedendo un complesso funzionale e flessibile a eventuali ampliamenti e cambi di destinazione d’uso, capace al contempo di configurarsi come un’opera d’eccezione, un’icona della capacità produttiva e innovativa della Società. Dallo studio del vasto materiale documentario conservato in tre archivi diversi, l’Archivio dell’Enel Comunicazione Sardegna a Cagliari, l’Archivio Angelo Omodeo a Napoli e l’Archivio Privato di Gigi Ghò a Milano, è emerso con chiarezza l’approccio dell’autore al progetto, il suo alto professionismo, la sua costanza. quasi (segue a pagina 4)

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palazzo dell’Enel di Cagliari, progettato nel 1956 dall’ingegnere e architetto Gigi Ghò e inaugurato nel 1961, si configura come l’esito di una riuscita ricerca di equilibrio tra il linguaggio architettonico riconducibile alla scuola di Giò Ponti e la nuova tecnologia delle facciate che furono realizzate in Italia tra i primi anni cinquanta e la metà degli anni sessanta. Gli apporti innovativi più interessanti si concentrano nel fronte principale dell’edificio, un piccolo grattacielo di tredici piani che si affaccia verso il porto e fa da sfondo a una delle arterie più importanti della città. L’archetipo del curtain wall internazionale, composto da elementi prefabbricati in metallo e vetro, viene qui reinterpretato attraverso una parete composta da un esile e slanciato telaio in calcestruzzo lasciato a vista e da un sistema di frangisole in alluminio lega e poliestere che proteggono la parete più interna, concepita inizialmente come una vetrata a tutta altezza ma infine risolta nei primi piani con una finestra a nastro e negli ultimi con l’alternanza di aperture alte quanto l’interpiano e pan-

nelli in muratura. La capacità espressiva della invenzione strutturale viene affidata ad alcune soluzioni di dettaglio che rivelano l’attitudine dell’autore alla sperimentazione tecnica e formale. I montanti verticali convergono a due a due in cinque originali “faticoni” a forcella ancorati alla base con una cerniera lasciata a vista. Mentre in sommità il telaio cede il passo alla copertura, una sottile struttura “in foglio” realizzata in cemento armato, un origami composto dalla successione di falde che suppliscono all’assenza del timpano con la loro resistenza per forma e con la presenza di un corpo centrale di irrigidimento. L’esito è un curtain wall all’italiana la cui singolarità, come precisa Sergio Poretti, risiede nel fatto che non costituisce una trama superficiale indefinita, ma diventa componente di una figura architettonica compiuta che conserva la natura di parete con la sua concretezza materica e figurativa. Giuseppina Monni, Paolo Sanjust, Antonello Sanna DICAAR, Università degli studi di Cagliari https://www.archiviogigigho. com/

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ra i primi anni cinquanta e la metà degli anni sessanta, lo stimolo della ricostruzione e il boom economico contribuirono a introdurre in Italia un elemento di novità, la tecnologia delle facciate applicate a piccoli grattacieli che generalmente accolgono funzioni pubbliche o uffici. Si tratta delle superfici in curtain wall di cui Joseph Paxton con il Crystal Palace del 1851 fu il precursore. Con Henri Cole egli non solo sperimentò la genesi di un luogo pubblico basato sul rapporto di continuità tra spazio interno e spazio esterno ma introdusse un approccio nuovo al progetto, incentrato sulla connessione tra architettura e tecnologia, tra aspetti costruttivi e criteri ambientali. Come spiega Sergio Poretti, la diffusione del curtain wall su scala internazionale fu agevolata sia dalla sua forza simbolica che dalla facilità con cui il pannello leggero di metallo e vetro, integralmente prefabbricato e montato a secco, si inseriva perfettamente nei processi evolutivi diventando soprattutto in America uno dei settori trainanti dell’industrializzazione edilizia. All’opposto, in Italia le picco-

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(seugue dalla pagina 3) maniacale” nel ricercare la soluzione più elegante ed economica con il disegno di molteplici ipotesi di dettaglio e la verifica della loro validità tecnica e pratica attraverso la costruzione del modello o la produzione di campioni. Più di un centinaio di disegni a china, numerose immagini di cantiere e una fitta corrispondenza tra il progettista e gli altri protagonisti hanno permesso di ricostruire con cura la storia del progetto e la storia della costruzione di questo piccolo “grattacielo” inaugurato nel 1961. Esso sorge al fianco del Palazzo Tirso (1926) e per la sua edificazione nel settembre del 1957 furono demoliti tutti i vecchi fabbricati che occupavano il lotto. Il desiderio di creare spazi pienamente rispondenti alle esigenze degli utenti, l’elaborazione di strategie ambientali e tecniche volte a garantire il maggior comfort possibile, la ricerca di un rassicurante rapporto di continuità tra ambiente architettonico e paesaggio e le finalità propagandistiche della committenza furono i motivi ispiratori del progetto. Nella relazione preliminare Ghò illustrò due soluzioni: una composizione di due volumi alti formanti un quadro «dinamico» per una maggiore libertà di prospettive parziali; una composizione più «statica» dovuta all’elementare accostamento di un volume alto su Piazza Deffenu e uno più basso che si sviluppa a L e si allinea sul fronte sud di Piazza Amendola e lungo una strada secondaria all’epoca prevista dal Piano di Ricostruzione. Fu scelta quest’ultima ipotesi poiché l’accurato studio delle visuali dal Bastione di San Remy e da Piazza Margherita rivelò che nella prima soluzione la sagoma dell’edificio interrompeva la linea dell’orizzonte in contrasto con il vincolo panoramico richiesto dalla Soprintendenza per le aree di notevole interesse pubblico. Il volume basso è articolato su cinque piani interamente dedicati agli uffici e ha l’ingresso principale su Piazza Amendola e uno sulla strada secondaria, mentre il volume alto è una “torre” di tredici piani (anziché i quindici previsti inizialmente da Ghò) che ha l’accesso sull’antistante Piazza Deffenu ed è servita da una scala, un blocco ascensori e un sistema di impianti indipendente.

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a committenza decise infatti di dedicare la “torre” ad uffici dal 1° al 5° piano e ad abitazioni da cedere in affitto dal 6° al 13° per un trarre guadagno immediato dagli spazi non ancora necessari all’azienda. Il seminterrato e il livello rialzato erano comuni ai due volumi: il primo è destinato ai vari impianti di condizionamento, riscaldamento e idraulici mentre il secondo comprende l’atrio d’ingresso su Piazza Deffenu, il salone al pubblico con accesso su Piazza Amendola, il locale per il centro meccanografico, gli uffici contabili, un negozio e l’alloggio del portiere. Il progetto fu approvato il 7 agosto del 1957 dalla commissione edilizia del Comune e poco dopo ottenne anche il consenso della Soprintendenza. Furono quindi affidati all’impresa ICOS di Milano lo studio diagnostico del terreno e i lavori di fondazione, poiché la notevole profondità in cui si trovava lo strato resistente (10-12 metri) richiese l’uso di pali trivellati, gettati in situ e collegati alla sovrastante gabbia strutturale in cemento armato da plinti di grande su-

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perficie che ne accorpano anche 9-12 unità. I lavori di costruzione furono affidati alla Società Italiana per Condotte Acqua (SICA) che vinse la gara d’appalto a cui parteciparono imprese di grosso calibro come la Ferrobeton, la Cogego, la SO.GE. NE e l’IRC. Il cantiere, la cui direzione fu affidata all’ing. Flaminio Della Chiesa, fu avviato il 5 settembre 1958, e i lavori terminarono nel dicembre del 1960. Su richiesta di Ghò il progetto delle strutture fu commissionato all’ing. Gaetano Angilella, ma poiché egli non riuscì a trovare un accordo con l’impresa che riteneva necessario l’apporto di alcune varianti ai calcoli dei carichi, nel 1958 la stazione appaltante affidò la supervisione del progetto al prof. ing. Angelo Berio, peraltro già incaricato di collaudare le strutture durante tutte le fasi della costruzione. Come precisò in una lettera, per dare longilineità all’edificio Ghò portò fuori i pilastri che, ancorati a cinque “faticoni a forcella” (fig.3) lasciati a vista, si rastremano dalla base alla sommità (gli spessori delle pilastrate partono da 40 cm dal primo piano e perdono 2cm

di spessore ad ogni piano in modo uniforme, sicché al 12° piano ed anche al 13° hanno uno spessore di 18 cm). Emergono così un certo manierismo della struttura e la ricerca di equilibrio tra la volontà di esprimere la consistenza tettonica dell’ossatura portante in cemento armato, plasmabile e monolitica a un tempo, e l’astratta geometria dell’insieme che sposta il progetto della facciata nel mondo del disegno industriale. Nella relazione che affianca il progetto preliminare 8, Ghò definì infatti il fronte su Piazza Deffenu “la parte dominante per importanza architettonica e per sostanza” in quanto sfondo prospettico sulla via principale della città e affaccio su Piazza Deffenu (fig.1), la cui notevole ampiezza favoriva lo sviluppo di un’altezza d’eccezione. D’altro canto l’esposizione degli uffici a ovest rappresentava per Ghò un problema da risolvere tecnicamente accentuando l’espressione architettonica piuttosto che la composizione volumetrica, dando ancor più vita all’“apertura pubblicitaria” dell’edificio e superando quella che per uffi-


ci era l’“architettura del necessario”. Egli infatti affidò questo compito al curtain wall che concepì come una parete formata dalla vetrata a tutta altezza arretrata rispetto al filo interno dei pilastri e dalla “facciata che sta al di fuori”, disegnata dal telaio strutturale e dal sistema di frangisole che egli definì “il motivo architettonico”. Un ballatoio di 40 cm separa la “pelle esterna” da quella interna e permette la manutenzione di entrambe. L’ing. Buttiglione che seguì il progetto e la costruzione dell’edificio per conto della SES appuntò a più riprese che il ballatoio era troppo esiguo per permettere la manutenzione e la pulizia degli schermi e soprattutto che non riteneva possibile che questa soluzione di facciata fosse in grado di proteggere gli ambienti interni dal forte caldo mediterraneo e dal vento di maestrale. Sul tetto del Palazzo Tirso furono quindi costruite due camere chiuse su tre lati da pareti inmuratura munite di intercapedine riempita con materiali coibenti e aperte sul quarto lato rivolto a ponente: una prendeva luce e calore da una vetrata a tutta altezza,

l’altra da un infisso per finestre di dimensioni normali (larghezza 0.80), ed entrambe erano protette da un sistema di frangisole esterno. Su un diagramma furono riportate le temperature massime e minime rilevate in cinque diverse ore del giorno, all’interno e all’esterno delle due camere, e risultò che tra loro differivano solo di un grado. Si proseguì inoltre a registrare le variazioni di temperatura con e senza schermi e risultò che il valore massimo raggiunto all’esterno aveva un’incidenza molto attenuata all’interno. L’efficienza dei frangisole fu così sperimentalmente dimostrata. Ciò nonostante la committenza chiese a Ghò di non utilizzare la vetrata a tutta altezza sul fronte che si affaccia su Piazza Deffenu: nei piani dedicati agli uffici (dal 1° al 5°) furono realizzate finestre a nastro, nei piani con abitazioni (dal 6° al 13°) le aperture alte quanto l’interpiano si alternano ai pannelli in muratura. Il compito di alleggerire la matericità della facciata così acquisita fu affidato al colore che Ghò considerava “parte integrante dell’architettura in

armonia per accentuare determinati effetti, a contrasto per rafforzare momenti a sé o pause o per far risaltare vuoti o pieni”. I pilastri di facciata e gli schermi frangisole furono realizzati in grigio opaco, la parete sottofinestra per enfatizzare in prospettiva la profondità fu rivestita esternamente con tesserine 2x2 di colore “verde riflessato blu”, e infine “la costa e il sotto” della copertura in giallo leggermente citrino per dare un “senso di allontanamento” .Il sistema di brise-soleil appropriato all’orientamento, resistente al vento di maestrale (100 km/ora) nel periodo invernale e garante al contempo della massima permeabilità visiva è composto da una parte inferiore fissa, che funge anche da parapetto ed è zancata alla soletta del solaio, e da uno schermo superiore che si apre a bilico orizzontale in tre posizioni: orizzontale, verticale e 45°. Per scegliere i materiali più appropriati per questo dettaglio costruttivo, Ghò chiese alle ditte più importanti del momento di produrre, attenendosi scrupolosamente al disegno da lui elaborato, un preventivo e un campione di frangisole utilizzando, a se-

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conda della loro specializzazione, il legno, l’eternit, il cemento decorativo, l’alluminio lega e il poliestere per le alette; il ferro, l’alluminio lega e il cemento decorativo per il telaio. Alle stesse ditte, sulla base di un semplice abaco, fu inoltre richiesto anche un preventivo e un campione di infisso per le finestre a nastro degli uffici, lasciando loro il compito di definire la soluzione di dettaglio e le modalità di apertura: a due ante, a ghigliottina o a bilico. La ditta Alsco Malugani di Milano creò un campione di infisso in alluminio lega e uno schermo frangisole con montanti di acciaio rivestiti di materiale plastico e alette romboidali in poliestere sagomato; la Curtisa Merlo di Bologna, nota per aver realizzato le vetrate della Torre Velasca e buona parte di quelle del grattacielo Pirelli, propose invece per i serramenti un campione di legno pino di Svezia con apertura normale o a ribalta e un frangisole in legno Pitch-pine; la ditta Feal (Fonderie elettriche alluminio e leghe) di Milano, che fornì gli infissi dell’edificio per uffici e negozi in via Torino a Roma di A. Libera, L. Calini, E. Montuori (1955-1960), produsse un campione di serramento a saliscendi in alluminio lega e uno di frangisole con lo stesso materiale. A una piccola ditta locale fu invece commissionato il campione di un frangisole con telaio e alette in cemento decorativo, o in alternativa quello di un graticcio a nido d’ape di semplice montaggio Una delle soluzioni più interessanti fu prodotta dalla Società Incisa di Milano che propose di realizzare le alette con un innovativo plastoglass. Le ditte Fratelli Greppi di Donato, Cantieri Milanesi e Feal di Milano apportarono alcune modifiche al disegno di dettaglio di Ghò. Le prime due intervennero sopratutto sulla sezione a T del telaio, mentre la Feal sostituì le alette a sezione romboidale con lamelle in lega leggera dal profilo più slanciato. L’incarico fu però affidato alla ditta Greppi che realizzò i frangisole di tutte le facciate del complesso con alette in poliestere e telaio in alluminio lega. Utilizzando quest’ultimo materiale, la Greppi si aggiudicò anche la produzione delle finestre a nastro per gli uffici, (segue pagina 6)


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(segue da pagina 5) alternando elementi fissi con elementi apribili a ghigliottina. Mentre i serramenti dei piani per abitazioni (dal 6°al 13°) furono realizzati in legno pino di Svezia dalla falegnameria PIAT di Cagliari. Poiché all’interno delle camere realizzate sul palazzo Tirso furono comunque rilevate in entrambi i casi temperature troppo alte per un soggiorno confortevole (28 e 29 gradi), l’edificio fu dotato anche di un impianto di condizionamento estivo e invernale per gli uffici e di un impianto di riscaldamento per le abitazioni, entrambi realizzati dalla ditta milanese Dell’Orto & Chieragatti che a Roma aveva firmato il progetto degli impianti dell’ENI e quello della Camera dei Deputati. L’impianto di condizionamento dell’aria implicò l’installazione di due gruppi frigoriferi prefabbricati da 500.000 frig/ ora complessivi che richiedevano 120 mc/ora di acqua a 24°C e servivano i condizionatori distribuiti modularmente per ottenere una maggiore uniformità delle condizioni di temperatura e di umidità degli ambienti e permettere al contempo la maggiore libertà di spostamento dei divisori interni. Poiché le falde di acqua dolce erano troppo vicine alle strutture di fondazione, l’acqua necessaria per refrigerare l’aria fu prelevata dal mare con un’opera di presa e una condotta di adduzione in cemento lunga 1km che aveva lo sbocco in una vasca in calcestruzzo realizzata nel seminterrato dell’edificio. Si trattava di un sistema innovativo ed efficiente dal punto di vista energetico poiché basato sulla naturale stabilità termica dell’acqua del mare. Era infatti sufficiente variare la temperatura dell’acqua solo di 5°C. I condizionatori furono “mascherati” all’interno dei mobiletti di legno modularmente definiti e posti a complemento della parete sottofinestra, realizzata con un “tavolato in lastre di Beton Cell” da 10 cm, ossia blocchi di calcestruzzo cellulare aerato con notevole potere isolante e acustico. L’ampiezza degli spazi interni e la flessibilità distributiva furono affidate alle pareti mobili progettate sulla base del modulo 1.20 m che offriva il vantaggio di rispondere anche ai dimensionamenti modulari di serie dei pannelli per l’isola-

mento acustico e delle lampade fluorescenti che illuminavano gli spazi interni. L’altro aspetto che contraddistingue il curtain wall su Piazza Deffenu e lo inserisce in un filone di ricerca chiaramente moderno è la sua compiutezza compositiva. Si tratta di un modo schiettamente italiano di intendere l’edificio come un oggetto di design che ha un inizio nell’attacco a terra, uno sviluppo nella facciata, una conclusione nell’elemento di copertura. Ghò risolse quest’ultimo in modo quasi teatrale avvalendosi di una sottile struttura “in foglio” in cemento armato realizzata in opera, un origami composto dalla successione serrata di tetti a due falde sottili (8 cm), che suppliscono all’assenza del timpano con la loro resistenza per forma e con la presenza di un travone centrale portante il colmo del tetto che poggia sui quattro pilastri di spina. Poiché presentano una maggiore resistenza agli sforzi orizzontali, le falde di luce minore furono disposte alle estremità a chiusura della composizione; le forze agenti concentrate sugli appoggi “fittizi” sono infatti proporzionali alla lunghezza ed all’inclina-

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zione delle lastre stesse. Uno strato isolante di vermiculite di 5 cm e un foglio in alluminio fissato su strato di cartonfeltro proteggono l’estradosso della copertura. La collaborazione con le ditte specializzate nei serramenti e negli impianti, l’uso di materiali innovativi, lo studio attento volto a creare all’interno le condizioni ambientali più confortevoli, la padronanza dell’intero processo produttivo comprese le istanze dell’efficienza energetica, raccontano l’urgenza etica di Ghò, la sua ferma volontà di ritagliare sempre uno spazio da dedicare alla sperimentazione dell’architettura e all’introduzione di elementi innovativi che lui amava definire quei “pensieri strani” necessari per dare nuovi impulsi al progresso dell’edilizia. Negli anni successivi all’inaugurazione l’edificio non ha subito modifiche sostanziali. Come previsto in sede di progetto, la crescita della Società Elettrica Sarda ha richiesto via via la trasformazione degli appartamenti compresi tra il 6° e il 13° piano in uffici. Anche la terrazza, inizialmente suddivisa in piccoli spazi al sevizio degli alloggi, è stata chiusa da vetrate a tutta altez-

za che ripercorrono in sommità il profilo irregolare della copertura. La flessibilità della distribuzione interna ha inoltre agevolato la demolizione delle suddivisioni interne a favore di ampi open space. Sebbene sia stato l’esito di soluzioni tecniche per molti aspetti sperimentali e innovative, questo “piccolo grattacielo” ha dimostrato una notevole resilienza all’azione del tempo. Tuttavia l’atmosfera alcalina e la mancanza di una manutenzione ordinaria hanno favorito il degrado dei serramenti esterni, la corrosione dei frangisole e i fenomeni fessurativi delle strutture in cemento armato a vista, soprattutto nella facciata su Piazza Deffenu, maggiormente soggetta alla forte azione del vento e all’aggressione degli agenti atmosferici. Nei primi anni del 2000 tutti i serramenti esterni in legno e in ferro della facciata sono stati sostituiti con infissi in PVC. Le strutture metalliche che sorreggono il sistema di frangisole sono invece deteriorate sia nei cardini di fissaggio al pavimento e al soffitto, sia nei perni che sostengono gli


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ianluigi Gho’ (19151998) è stato un ingegnere e architetto italiano. Attivo nel secondo dopoguerra, ha progettato e costruito numerosi edifici per abitazioni, terziari ed industriali. Le sue opere sono citate nei principali studi dedicati al razionalismo milanese e all’architettura moderna negli anni della ricostruzione. Ha lavorato con alcune importanti figure della cultura progettuale italiana come Aldo Favini e Gio Ponti, col quale ha stretto un duraturo e sincero rapporto di amicizia. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta ha collaborato con diversi artisti, tra cui Lucio Fontana, Fausto Melotti ed Eugenio Tavolara. Gianluigi Gho’, detto Gigi, nasce a Milano il 19 dicembre del 1915. Il padre, attivo nel settore dell’edilizia, lo avvicina allo studio delle costruzioni. Si iscrive al Politecnico di Milano dove consegue la laurea in Ingegneria Civile nel 1940. Nello stesso anno viene chiamato nell’esercito, dal quale si congeda nel 1944. Tornato a Milano, avvia la professione nello studio di Gio Ponti, con il quale maturerà un rapporto di amicizia che durerà per tutta la vita. ​Nel 1946 apre il proprio studio, che si sposterà ben presto al piano rialzato di via San Marco 33, all’interno di un edificio da lui stesso progettato per la Società Torcitura Borgomanero. Nel 1948, sempre presso il Politecnico di Milano, consegue anche la laurea in architettura. Nel corso della sua attività professionale progetta e costruisce molte opere la cui spiccata modernità è sottolineata da libri e riviste dell’epoca: Piero Bottoni, nella sua nota “Antologia di Edifici Moderni in Milano” edita nel 1954, segnala il già citato complesso di via Solferino 40 e via San Marco 33. Lo stesso Gio Ponti, prima sulla rivista “Domus” e poi nel libro “Milano Oggi”, pubblica fotografie e articoli dedicati ai condomini milanesi di via Sant’Antonio Maria Zaccaria 3, piazza della Repubblica 12 e via Legnano 4-6-8. Villani E., (2007) Altre monografie, come ad esempio quelle a cura di RoIncontro con Gigi Ghò: intervista. berto Aloi, Carlo Perogalli e In: Palazzo Enel (1957 -1961), tesi di Master Universitario di II li- Agnoldomenico Pica, uscite pochi anni dopo e dedicate vello in Recupero e Conservazione, alla nuova architettura moderUniversità di Cagliari. na di Milano(segue pagina 8)

schermi mobili. E in molti casi il congegno di manovra che permetteva la rotazione è danneggiato. Dai documenti emerge inoltre che, in seguito al verificarsi poco dopo il montaggio dei frangisole del cedimento di alcune lamelle a causa dell’azione del vento, la Ditta Greppi puntualizzò che era assolutamente necessario svolgere con cura le operazioni di fissaggio e ottemperare scrupolosamente alle norme di manutenzione ordinaria e straordinaria da loro indicate per infissi e parasole, nonché ingrassare costantemente i congegni di manovra esposti all’esterno. Per far fronte all’eccezionale aggressività dell’atmosfera di Cagliari, la Ditta Greppi prescrisse inoltre l’uso della Duco Montecatini, una vernice protettiva trasparente appositamente testata dalla I.S.L.M. per creava un velo protettivo sugli elementi in lega leggera. Per quanto riguarda il cemento armato, il distacco dei copriferri, la corrosione delle armature e la successiva carbonatazione interessano i bordi perimetrali della struttura di copertura, i punti di raccordo fra travi e pilastri, le aree

in prossimità dell’innesto dei frangisole e dei discendenti. I loggiati presentano molte fessurazioni soprattutto in prossimità dell’innesto dei montanti di ferro e dei gocciolatoi ricavati nell’intradosso del solaio. Questo processo ha prodotto in alcuni casi importanti lesioni nei pavimenti che hanno ulteriormente agevolato le infiltrazioni d’acqua e di conseguenza la corrosione delle armature. «In Italia è indubbiamente Giò Ponti il numero uno dei professionisti che ha condotto in questo secolo lo spirito razionalista. Non solo dal punto di vista architettonico visto che Ponti era un grande artista. Per la mia vita professionale fu indubbiamente importante in quanto mi ha insegnato molto nel periodo della mia pratica professionale». Al termine dell’intervista Ghò preciso: «Ovviamente uno studio quasi maniacale del particolare mi permetteva di consegnare al committente un’opera completa, senza imprevisti, capace di rispecchiare sia le sue esigenze di fruitore sia la mia personalità di architetto». «In quegli anni si aveva largo

spazio per la sperimentazione progettuale. Strutture sottili, strutture a foglio, grandi impianti statici in c.a. e tanto altro. Per quanto mi riguarda i “pensieri strani” non sono altro che idee progettuali talmente innovative, ossia non ancora sperimentate da altri professionisti, che al momento mi stimolavano ad una ricerca tecnica più che formale solo che rappresentavano talmente tanto una novità che non sapevo neppure io se sarei stato in grado di portare a termine tale percorso progettuale. (...) I miei pensieri strani rappresentavano la fase finale di un progetto di più ampio respiro dove trovavo necessario aggiungere elementi nuovi per nuovi impulsi al progresso dell’edilizia.» La superficie totale coperta dell’edificio è di 1600 mq; la superficie del corpo alto è di 600 mq; l’altezza totale del corpo alto dal piano di campagna è di 56 metri mentre quella del corpo basso è di 26 m; il volume fuori terra del corpo alto è di 3.800 mc; mentre quello del corpo basso è di 18.000 mc; cemento utilizzato 2800 tonnellate; ferro 633 tonnellate; pali 260; giornate lavorative 70.000, Archivio Angelo Omodeo, Napoli

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Photo alinari

(segue dalla pagina 7) segnalano sue architetture. Durante gli anni Cinquanta, nel solco tracciato dal Movimento per l’Arte Concreta che auspicava la collaborazione tra artisti e architetti per una “sintesi delle arti”, lavora assieme a figure del calibro di Lucio Fontana e Fausto Melotti – oggi considerati tra i più importanti artisti italiani dell’epoca – le cui opere impreziosiscono l’atrio del già citato condominio milanese di via Sant’Antonio. Anche in tempi più recenti le opere di Gigi Gho’ (a testimonianza dell’interesse che studiosi, professionisti e accademici rivolgono verso il suo lavoro) continuano ad essere citate a margine delle vicende del razionalismo italiano. I suoi edifici vengono evidenziati nei principali studi monografici dedicati all’architettura milanese del Novecento, come M. Grandi, A. Pracchi, “Milano. Guida all’architettura moderna”, Zanichelli, Bologna 1980, M. Boriani, C. Morandi, A. Rossari, “Milano Contemporanea”, Designers riuniti, Torino 1986, F. Irace, “Milano Moderna”, Federico Motta, Milano 1996 e G. Gramigna, S. Mazza, “Milano. Un secolo di architettura milanese dal Cordusio alla Bicocca”, Hoepli, Milano 2001. ​ Infine il prestigioso volume edito da Taschen nel 2017 intitolato “Ingressi di Milano / Entryways of Milan” e dedicato agli atrii milanesi riporta alcuni scatti fotografici dei condomini progettati da Gigi Gho’ all’interno di un’ampia rassegna di celebri opere di Ponti, Muzio, Caccia Dominioni, Portaluppi ed altri noti maestri della scuola milanese. Foto Al di fuori del territorio lombardo, tra le sue architetture di maggior rilievo, si possono citare la Sede per la Società Elettrica Sarda (1957-1961, Cagliari) – impreziosita da un’opera dell’artista sardo Eugenio Tavolara –, l’Istituto San Marco oggi Accademia della Guardia di Finanza (1960-1972, Bergamo) o l’ex-Stabilimento Kodak (1975, Marcianise). Prima della sua scomparsa, avvenuta il 23 giugno del 1998, viene pubblicata una selezione di suoi lavori nel volume a cura di Jolanda Ventura intitolato “Gigi Gho’, progetti e architetture 1950-1995” che costituisce fino ad oggi l’unico resoconto organico della sua attività professionale. https://www.archiviogigigho.com/

ARCHITETTURA A CAGLIARI? L

vedi anche https://old.comune. cagliari.it/portale/it/ at18_dett_pianif_urbanist.

a pubblicazione della fotografia del palazzo della S.E.S., oggi E.N.E.L., su di una pagina di Facebook intitolata “Cagliari, un viaggio nella memoria”, ha suscitato alcune reazioni particolarmente violente, anche se limitate in numero, dove abbondano le frasi tipo “un pugno nell’occhio”, “fuori dal contesto””un obrobrio”(sic), “osceno”, eccetera. Voglio ringraziare qui il signor Roberto Foddai che mi ha gentilmente fornito l’indirizzo esatto del sito degli archivi dell’architetto Gianluigi detto Gigi Ghò, che mi ha permesso di recuperare il testo delle pagine precedenti. Riporto anche un’altra osservazione, estremamente pertinente del signor Foddai: “Facendo un giro in via Roma, partendo dalla stazione ferroviaria, abbiamo: - Palazzo Vivanet, di fine ‘800 (1890), in stile neogotico; questo si integra col contesto? Cagliari è mai stata una città gotica? No. - Palazzo Civico, inizio ‘900, stile liberty. Questo si armonizza col contesto? Forse no, visto che è totalmente diverso da tutto ciò che ha attorno. - La Rinascente, anni 30 del

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‘900, in stile neo-rinascimentale. Si è integrata con i palazzi citati poco più su? Non mi risulta. - Poi si trova la palazzata, cioè una serie di edifici eclettici sempre di fine ‘800 inizio ‘900. - Ad un certo punto becchiamo un edificio che spunta per il suo essere totalmente distante rispetto a tutto ciò che abbiamo visto finora. E non sto parlando del palazzo del Consiglio Regionale, ma della facciata della Chiesa di S. Francesco, che è dei primi del ‘900 ed è neoclassica. Non mi pare di leggere commenti scandalizzati ad ogni piè sospinto sul fatto che si sia demolita la facciata Seicentesca e la si sia sostituita con una Neoclassica (in ritardo netto sui tempi del Neoclassicismo). Però il ritorno al passato, anche se non rispetta un generico ideale di contesto, va bene; le colonnine di marmo corinzie ci rasserenano l’anima vero? Però non si osi andare contro il contesto in maniera più moderna, quello no eh; che non si osi usare il cemento o soluzioni particolari. Quello è scandalo, quello è schifo. E’ molto divertente notare

come tra il Palazzo dell’Enel (1940-1960 circa) e la facciata di San Francesco di Paola (1930) non ci siano neanche 30 anni di differenza. E l’edificio con la facciata “strana” per i propri tempi non è di certo quello dell’Enel.” Aggiungerei che nell’ultimo tratto della via Roma, a lato di quello che oggi é il Palazzo della Regione Autonoma della Sardegna che rimpiazza una serie di immobili distrutti dai bombardamenti del 1943, persiste una costruzione che non rispetta l’allineamento della strada, avanzandosi di qualche metro, impedendo il prolungamento della passeggiata coperta dalle arcate che riprende per altro subito dopo. Stranamente questa costruzione che non presenta nessun carattere nè storico, nè stilistico né particolarmente degno di interesse per una qualsiasi ragione, non è mais stato demolito per permettere una normale e necessaria continuità delle arcate della via Roma. Questa situazione che perdura ancora e penso che rimarrà ancora inalterata, non suscita sdegno, non fa nascere epiteti quali “schifo” ed altre amenità, ci si può interrogare su quali Santi in Paradiso impe-


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discano una azione urbanistica sopratutto normale e che qualsiasi amministrazione comunale avrebbe già eseguito da tempo. Ma non molto lontano il Mercato Centrale sito nel Largo Carlo Felice, una costruzione particolarmente unica in Sardegna e che si può paragonare alle Halles di Parigi (anche esse purtroppo distrutte all’inizio degli anni settanta) di cui una parte era chiamata addirittura il Partenone a causa delle sue imponenti colonne doriche, malgrado l’esser scampato ai bombardamenti é stato prontamente raso al suolo e rimpiazzato da due costruzioni di cui ci si chiede chi abbia potuto immaginare tanta mediocrità, ma si tratta di due sedi bancarie che forse avranno voluto cercare di farsi dimenticare e non dare troppo nell’occhio. Da quella parte nessuna recriminazione, nessun obbrobrio, nessun osceno, nessun schifo. Ite Missa est. Eppure esiste un Piano redatto a norma del D.Lgs. Luogotenenziale 1° marzo 1945 n. 154, recante norme per i piani di ricostruzione degli abitati danneggiati dalla guerra, approvato dalla Giunta comunale con deliberazione 29 ottobre 1945

n. 1612, resa esecutiva dal Prefetto il 24 dicembre 1945. Successivamente modificato in data 10 dicembre 1946 e definitivamente approvato in data 31 luglio 1947, a firma di Umberto di Savoia, Principe di Piemonte, Luogotenente Generale del Regno, esaminando il quale si può constatare che nonostante le importanti modifiche alla trama viaria ed alla struttura edilizia stessa della città, il Mercato Centrale era assolutamente conservato nel Largo, mentre si approfittava delle numerose distruzioni per allargare diverse strade e ridisegnare assolutamente la città dandogli un volto sicuramente più moderno ed adatto ai tempi futuri. Ma allora che cosa é successo? Perché questo piano non é stato realizzato ? Quali sono stati gli interessi pubblici e privati che hanno agito con solerte inerzia per impedire queste trasformazioni? Così a partire dagli anni ‘50 la costruzione la più disordinata e priva di una qualsiasi logica se non quella del profitto immediato a nome di una pretesa ed imperiosa necessità pubblica si è sviluppata come una metastasi sul territorio, ancora oggi la circolazione principale

avviene nella via Roma a tal punto che la soluzione proposta per rimediare a questo ingorgo permanente é quella di scavare un tunnel, prima sotto la via Roma stessa ed oggi addirittura sotto il porto stesso. Nel frattempo una Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna, appare piuttosto ad eclipsi, ignorando certe costruzioni, per esempio quelle che hanno sostituito l’ex Stazione delle Ferrovie Complementari tra Viale Bonaria e Viale Armando Diaz per citarne una, e nello stesso tempo manifestandosi nel modo più intransigente ed esigendo il ripristino di situazioni già distrutte nel 1880 del chiostro San Francesco, ma che ultimamente, dopo aver servito da deposito, officina meccanica ed altre utilizzazioni disonoranti, un privato vorrebbe trasformare e per altro incominciato con i lavori, in un Centro d’Arte Contemporanea. Difficile da spiegare. Sarebbe faticoso ed inutile di annoverare le numerose disgrazie architettoniche che costellano il territorio metropolitano, senza parlare di certe occasioni mancate in modo

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www.ibs.it/libri/autori/gianni-loddo

clamoroso e generate da gelosie degne di un cortile di scuola materna. Ma non potrebbe essere altrimenti se, quando si esamina il periodo storico durante il quale la dominazione spagnola si esercitò sull’isola e lo si paragona a quello che fu realizzato nello stesso momento, durato comunque quasi trecentocinquanta anni, nel continente italiano, per non andare troppo lontano, qui non si trova niente, ah scusate, dimenticavo le novantadue torri saracene lungo le coste. Ancora oggi in Sardegna sono visibili e praticabili 120 (centoventi) chiese di stile romanico che i Pisani, durante un periodo comparativamente breve, realizzarono per non parlare delle stesse mura del Castello di Cagliari, dove si può assolutamente distinguere l’apporto aragonese di evidente scarsa fattura dalla costruzione originaria pisana. Non credo che questi secoli abbiano appunto sostenuto una diffusione della cultura in modo tale da permettere una capacità di apprezziazione da parte di una gran parte della popolazione che appunto non riesce a vedere niente nel Palazzo dell’ENEL (ex SES). Già dal momento della sua inaugurazione avevo riconosciuto nella sua facciata uno dei temi che deve avere sicuramente, consciamente o inconsciamente ispirato l’architetto Gialuigi detto Gigi (ancora un Gigi mitico) Ghò. Essendo nato in questa città, che naturalmente amo e vorrei arricchita da più di Architettura, avendo vissuto ed esercitato la professione di architetto a Parigi ed avendo visitato qualche paese dall’India agli Stati Uniti, passando dal Marocco, il Belgio, il Kenya, la Germania, l’Olanda, la Svizzera e la Polonia, ho potuto ammirare non solo le soluzioni architettoniche dei secoli passati ma sopratutto quelle che sono nate in seguito al conflitto mondiale 39-45 e mi dispiace che quelli che hanno governato e governano Cagliari non siano stati capaci di utilizzare una tale occasione, dopo essere stata particolarmente distrutta, per realizzare un piano urbanistico per altro esistente e dettagliato, ormai abbandonato e dimenticato mentre stranamente la città continua a voltare le spalle al Mediterraneo, lasciando tutto il lungo mare inutilizzato ed ancora ingombro sia di servitù militari che di macerie ormai più che settantenni. Vittorio E. Pisu


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La mappa nei dettagli si può consultare sul sito www.depositonazionale.it CNAPI ( carta aree potenzialmente idonee per il sito di stoccaggio).

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rogetto TREMASA, Un reportage per raccontare i centri inseriti nella Cnapi, la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito unico di scorie nucleari. Tremasa sono le tre regioni storiche della Sardegna in cui sono state individuate le 14 aree potenzialmente idonee per il sito di stoccaggio di rifiuti radioattivi: TRExenta, MArmilla, SArcidano. Tremasa è un progetto multimediale che unisce vari linguaggi comunicativi; trova casa nel social visivo per definizione Instagram e nel più classico Facebook. Alessandra e Maurizio, fotografi Sardi impegnati da anni nel Reportage sociale, con la loro sensibilità e il loro forte senso di appartenenza al territorio, hanno deciso di offrire attraverso le loro fotografie una prospettiva differente, uno spunto di riflessione per la costruzione di un futuro diverso e sostenibile. Daranno un volto ed una voce alle persone ed alle aziende che sorgono nei territori coinvolti dalla CNAPI, faranno conoscere le storie che in essi sono racchiuse, come ispirazione per un modello di cre-

TRE MA SA

Foto tremasa

remasa o Tremas, la sensazione di tremore è la stessa. La stessa sensazione di quando in una mattina di gennaio, sfogliando le notizie sul giornale scopri che a meno di un chilometro da casa tua, dalla tua azienda, dal luogo dove tu e generazioni prima della tua hanno creduto, speso lacrime, soddisfazione e sorrisi, probabilmente sarà creato un sito di stoccaggio nazionale di rifiuti radioattivi. Una scossa che mette in dubbio tutte le tue certezze, ti mette alla prova per l’ennesima volta insieme alla tua terra; quella terra che non ti ha mai lasciato solo, che ti ha fatto disperare e allo stesso tempo sentire libero. Nel tremore c’è paura, stordimento, confusione; quella stessa confusione che un attimo dopo si trasforma in scossa, una scossa vitale che diventa reazione e orgoglio, voglia di difendere un territorio di cui sei stato custode per anni. “Tremasa” non è solo una sensazione, un risveglio e una reazione. Sono i luoghi coinvolti nelle 14 aree individuate dal CNAPI: TRExenta, MArmilla, SArcidano, tre regioni storiche della Sardegna. In questa scossa veniamo coinvolti anche noi, Alessandra e Maurizio, fotografi Sardi impegnati da anni nel Reportage sociale, con la nostra sensibilità e forte senso di appartenenza al territorio. Il progetto fotografico #tremasa mira ad utilizzare la scelta della CNAPI come espediente per tracciare attraverso le immagini una carta Sarda potenzialmente idonea alla Bellezza che già ospita e protegge. L’intento è di creare uno spunto di riflessione per uno sviluppo futuro sostenibile, economicamente e ambientalmente, per tutta l’isola. Crediamo fortemente esista un modello di crescita più consono e compatibile con le nostre realtà e specificità. Abbiamo deciso di dar voce alle persone e alle aziende che si ritrovano direttamente coinvolte in questa scelta, di far conoscere i territori e le storie che in essi sono racchiuse, come ispirazione per un discorso più ampio di visione futura. Alessandra Cridar Fotografia www.alessandracecchetto.it Maurizio Olla Fotografia www.maurizioolla.com/ https://www.facebook.com/ tremasareportage/

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scita più consono e compatibile con le realtà e specificità sarde. Molte delle aziende che racconteranno si occupano di agricoltura e produzione biologica, custodiscono e proteggono i saperi e le tradizioni. La Sogin, con il nulla osta del ministero dello Sviluppo economico e del ministero dell’Ambiente, ha pubblicato la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (CNAPI). Nel progetto preliminare e in tutti i documenti correlati alla realizzazione del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi e del Parco Tecnologico, sono state individuate 67 aree che soddisfano i criteri. Sono sette le regioni: Piemonte con 8 aree tra le province di Torino e Alessandria (Caluso, Mazzè, Rondissone, Carmagnola, Alessandria, Quargento, Bosco Marengo) Toscana-Lazio con 24 aree tra Siena, Grosseto e Viterbo (che comprendono Pienza, Campagnatico, Ischia e Montalto di Castro, Canino, Tuscania, Tarquinia, Vignanello, Gallese, Corchiano) Basilicata-Puglia con 17 aree tra Potenza, Matera, Bari, Taranto (Genzano, Irsina, Acerenza, Oppido Lucano,

Gravina, Altamura, Matera, Laterza, Bernalda, Montalbano, Montescaglioso. Le isole : Sardegna (14 aree) Siapiccia, Albagiara, Assolo, Usellus, Mogorella, Villa Sant’Antonio, Nuragus, Nurri, Genuri, Setzu, Turri, Pauli Arbarei, Tuili, Ussaramanna, Gergei, Las Plassas, Villmar, Mandas, Siurgus Donigala, Segariu, Guasila e Ortacesus. Sicilia, 4 aree nelle province di Trapani, Palermo, Caltanissetta (Trapani, Calatafimi, Segesta, Castellana, Petralia, Butera). Il deposito nazionale e il Parco tecnologico saranno costruiti in un’area di circa 150 ettari, di cui 110 dedicati al deposito e 40 al Parco. Il deposito avrà “una struttura a matrioska”; all’interno ci saranno “90 costruzioni in calcestruzzo armato, dette celle”, in cui “verranno collocati grandi contenitori in calcestruzzo speciale, i moduli, che racchiuderanno a loro volta i contenitori metallici con all’interno i rifiuti radioattivi già condizionati”. In totale saranno “circa 78 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media attività” a essere ospitati. https://www.cagliaripost.com/


Foto ilfiletdiolimpiamelis.com

OLIMPIA MELIS O

limpia Melis (18871975) fa parte di una famiglia di creativi che ha lasciato un’impronta nella storia dell’imprenditoria e dell’arte sarda. Alcuni dei suoi fratelli, Melkiorre decoratore e ceramista, Federico ceramista, e Pino pittore e illustratore, autore tra l’altro di alcune tavole sul Giornalino della Domenica di Vamba, hanno guadagnato notorietà e compaiono in numerose mostre e rassegne. Dal canto suo Olimpia a partire dagli anni ’10 del secolo scorso organizzò a Bosa un’industria di Filet, con alcune centinaia di operaie, che all’apice del successo esportava i lavori sia in Europa che a New York. Questa attività non aveva solo una valenza commerciale, ma la signora Olimpia era riuscita a renderne il carattere artistico, portando il filet a soddisfare nuove richieste d’arredo, come tendaggi, giroletto, tovaglie e bordure, secondo i dettami dell’allora emergente Art déco. “Le scuole di filet Gli anni tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, come si è già fatto cenno, furono quelli in cui si andò affermando un chiaro interes-

se alla creazione delle scuole di ricamo ed alla promozione di strutture, che in qualche modo, favorissero le attività artigianali di tipo esclusivamente femminile. Anche la Sardegna venne coinvolta nello sviluppo di questo genere di strutture e vide il sorgere di scuole per lo più organizzate come laboratori artigianali, che specializzarono le loro attività tecniche definite, come nel caso del filet. La prima scuola di filet documentata fu quella che nel 1905 venne creata da Antonietta Delogu a Macomer … La scuola, che chiuse per problemi d’incompatibilità con l’amministrazione locale, operò fino al 1927… Ovviamente anche nella vicina Bosa, che aveva tutti i presupposti perché queste attività si sviluppassero con una maggiore consistenza, cominciarono a fiorire laboratori simili più o meno con le stesse modalità e obiettivi. Infatti a Bosa, quasi contemporaneamente alla scuola di Antonietta Delogu, iniziò ad operare, intorno agli anni Dieci, con una numerosa schiera di lavoranti, la signora Olimpia Peralta Melis; era sorella dei più famosi Mel-

chiorre, Federico, Pino: artisti sardi che si cimentarono nella pittura, ceramica e miniatura. La Melis riuscì ad unire all’estro artistico la tradizionale vocazione di famiglia al commercio. Olimpia Melis nacque a Bosa il primo Aprile del 1887, da Salvatore Melis e Giuseppina Masia; il padre, figlio di un Melchiorre Melis, proveniva da Alghero ed era un agiato commerciante di tessuti. Olimpia sposò nell’aprile del 1911 Lorenzo Peralta, ma, pur divenendo madre di tre figli ed avendo la possibilità di condurre una vita agiata, mal si rassegnò a rivestire solo ruoli di moglie e madre. La creatività e capacità imprenditoriale, evidentemente presenti entrambe nel suo carattere, si manifestarono in quelle attività che la videro, in seguito, a rappresentare uno degli aspetti artistici e imprenditoriali più interessanti della Sardegna del tempo. I lavori della sua scuola laboratorio parteciparono spesso alle varie mostre nazionali e internazionali che, in quel periodo, si susseguivano con una certa regolarità. Nel 1924 la Melis venne insignita, alla Mostra Inter-

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«Il ruolo di Olimpia non è solo quello di individuare, elencare e far riprodurre motivi dell’antico, ma di un vero e proprio art director, di un’imprenditrice intelligente capace di estrapolare e ricomporre i vari motivi del filet. La finalizzazione della struttura alle diverse destinazioni d’uso la porterà all’invenzione di nuove funzioni e applicazioni di quest’arte, come l’impreziosimento della sovraccoperta da letto o gli inserti nei tendaggi… Il processo che anima le composizioni di Olimpia, che legge ed elabora con attento rigore i motivi tradizionali sardi, è lo stesso che anche altri artisti isolani a lei contemporanei applicano proprio nei primi decenni del secolo…avendo come prodotto finale un risultato di contaminazione» (C’era un fiume e nel fiume il mare, catalogo della mostra “I fratelli Melis”, C.SABA, Cagliari 1996)

nazionale di Bruxelles, della grande croce e medaglia d’oro; nello stesso anno a Parigi ebbe il gran prix, medaglia d’oro e coppa d’onore. La stessa Amministrazione comunale del tempo vide in lei un punto di riferimento a cui rivolgersi in occasione delle Fiere Campionarie di Milano del 1928, 1929, 1934. La Melis diede vita a diversi laboratori, prima nella sua abitazione nel Corso Vittorio Emanuele, Sa Piatta, presso la Cattedrale, poi nella nuova casa nella Piazza Monumento. Collaborò artisticamente con i fratelli, soprattutto con Melchiorre, che disegnò appositamente per lei, non solo le pubblicità del suo laboratorio per gli anni 1920, 1922, 1924, ma anche bozzetti per il filet; in seguito collaborò anche con altri artisti come Aldo Contini. In quegli anni si accentuarono gli aspetti innovativi, che alcuni autori definirono di “contaminazione”, a seguito dell’introduzione di moduli e tecniche che esulavano da quelli della tradizione sarda. Fu in quel periodo, in coincidenza dell’avvento del Liberty e del Decò, che s’iniziarono a modificare le destinazioni d’uso del filet e si prese ad impiegarlo, oltre che nell’arredamento domestico e nei corredi, anche nei capi d’abbigliamento, in cui, eseguito con filati pregiati di seta e lino, veniva utilizzato come inserto o bordura per arricchire le linee semplici della nuova moda charleston, che si andava affermando. Il laboratorio Melis con molta probabilità riforniva case di moda del Continente ed aveva punti di vendita, non solo a Roma, al n. 24 del Lungo Tevere Mellini, ma anche al numero 303 nella 53 Strada a New York e teneva rapporti commerciali con la ditta Gritti di Lugano. La Melis fu una donna dal carattere certamente volitivo e non cesserà di lavorare fin quasi alla fine; infatti le Biennali dell’Artigianato Sardo la vedranno ancora presente negli anni 1960-62-66-68. Il laboratorio di Olimpia Melis non era il solo presente a Bosa, anche se indubbiamente era quello per il quale lavoravano il maggior numero di donne; ne erano presenti altri Estratto dall’opuscolo “il filet” di Claudia Bellini, U.N.L.A. Centro di Cultura Popolare, Bosa, 2004. ilfiletdiolimpiamelis.com


ITALIA D

Foto strettoweb

i questo coronimo nessuno è mai riuscito a trovare l’etimologia. L’insuccesso è dovuto alle gracili prospettive di ogni ricerca sinora effettuata. Si concorda soltanto che il nome fosse appartenuto in origine all’estrema parte della Calabria, quella affacciata allo stretto di Messina. Italίa è denominazione erodotea. Italόi erano chiamati dai Greci gli abitanti dell’estremo lembo calabrese, si dice in relazione ai vitelli. Ma l’etimo, presentato in tal modo, è logicamente inaccettabile, poiché i vitelli erano allevati ovunque, e gli stessi Ebrei appena fuoriusciti dall’Egitto si erano costruiti un vitello d’oro, che venerarono in onore di Iside. I vitelli erano il prodotto sacro di questa dea, rappresentata come una vacca. Non giova affatto affermare che la parola “Italia” non sarebbe altro che il prestito linguistico dell’osco viteliù, poi accattato dai Greci che a loro volta lo passarono ai Romani dopo che la “v” era decaduta. Anche questo modo di trattare l’etimo denuncia scarsa acribia, sino a che non si chiarisce il significato dello stesso termine osco e sino a che non la si smette di trasferire da una regione all’altra dei termini irrisolti, quasi fosse un gioco di rimpallo. Viene tramandata anche la leggenda di un arcaico re Italo, mai dimostrato e comunque di per sé già eponimo, ossia nome derivato da un popolo, pertanto assunto come epiteto seriore rispetto ad un già esistente radicale ital-. In ogni modo, correggendo la prospettiva storica siamo in grado di risolvere il problema. Dobbiamo legare il nome Itàlia ai pirati. Infatti è notissimo che, ovunque ci fosse uno stretto di mare, ovunque le navi commerciali dovessero passare nel tratto di mare più breve, più economico, proprio lì la storia dell’umanità insegna che s’insediarono sempre e comunque dei pirati. Successe nei Dardanelli, e non fu un caso che Troia prosperò per tale attività, generando infine una guerra epocale con i Greci che avevano bisogno di penetrare nel Ponto Eusino. Successe nel Canale d’Otranto, dove poi la flotta romana fu costretta a far piazza pulita.

Successe quasi ovunque nel Mediterraneo, dove ci fossero condizioni geografiche propizie. Dione Cassio ne parla abbondantemente (XXXVI,21,1-3). La prima operazione ostativa dei Romani avvenne nell’isola di Creta con Lucio Fabio Labeone nel 189 a.C.; nell’area cilicica con Marco Antonio Oratore nel 102 a.C.; con Quinto Bruzzio Sura durante la prima Guerra Mitridatica. I pirati stavano anche lungo le rotte di cabotaggio, e infestarono pure le coste della Pamphylia. È celebre la guerra di Pompeo, che li sterminò definitivamente. Ma anche Giulio Cesare aveva dato man forte a cancellare questo fenomeno. Sembra del tutto ovvio che millenni prima, in epoca protostorica, i pirati infestassero anche lo Stretto di Messina. In tal caso, tutto si chiarisce, poiché Itàlia ha origine dall’egizio åth (leggi ith-) ‘to seize, steal, snatch away, conquer, capture, plunder, carry off, transfer, remove; afferrare, rubare, strappare, conquistare, catturare, saccheggiare, portare via, trasferire, rimuovere’ + ar (leggi al, poiché ar riguarda soltanto le leggi fonetiche egizie) ‘to strangle, strangolare’.

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È del tutto ovvio apporre l’idea dello “strangolamento” ad uno stretto di mare come quello fra Scilla e Cariddi, per il quale nacque pure la leggenda di due mostri che catturavano i veleggianti (episodio primamente narrato nell’Odissea). Pertanto in tempi arcaici Ithàr-ia (col suffisso -ia squisitamente italico ma anche greco) fu il nome dello stretto di Messina, che inizialmente ebbe la lugubre nomea di ‘Stretto dei pirati’, i quali evidentemente stazionavano dove poi sorse Reggio Calabria. Quel territorio dirimpetto a Messina ebbe la sorte di tramandare il fortunato nome Itàlia, che poi Roma espanse a tutta la Penisola. Salvatore Dedola S.Dedola (Sassari, 28 novembre 1939) è un linguista, filologo e divulgatore scientifico italiano, il cui maggiore contributo deriva dal riesame delle origini delle lingue delle antiche civiltà del Mediterraneo ed in particolare di quella sarda. Si è laureato in glottologia con una tesi sulla lingua gotica. Inizialmente si è formato alla scuola romanza e indo-europeista di Max Leopold Wagner e del germanista Paolo Ramat. Ha fatto studi di archeologia formandosi alla scuola di Gio-

vanni Lilliu. Dedola ha esordito come scrittore di ambiente, producendo libri sull’agriturismo e sui percorsi naturalistici e culturali delle aree montane della Sardegna. Queste esperienze lo hanno portato allo studio della toponomastica sarda dapprima nell’ottica della filologia romanza. In seguito ne ha approfondito le origini arcaiche preromane portandolo ad applicarsi allo studio comparato delle grammatiche e dei dizionari semitici, abbinato all’uso già acquisito delle grammatiche e dei vocabolari indo-europei e romanzi. Secondo l’autore i suoi studi della lingua sarda lo hanno allontanato dall’approccio fondato sulla pregiudiziale latina, portandolo ad estendere così le sue fonti alle grammatiche ed i lessici delle altre lingue mediterranee, comprendendo quindi le lingue romanze, indoeuropee, semitiche, la lingua sumera e quella egizia. Con questo vasto approccio culturale è infine giunto alle sue opere linguistiche sulla lingua sarda prelatina in particolare al suo Nuovo dizionario etimolo A lui è dovuta una delle più recenti traduzioni della Stele di Nora wikipedia.org


Foto artspaces.kunstmatrix “Era il 1961. L’idea base era sostanzialmente gramsciana: una nuova cultura poteva nascere soltanto da una radicale trasformazione della società. La lotta politica era lo strumento. Erano i tempi dello scontro frontale per il futuro assetto del mondo e della nostra stessa vita e noi volevamo legare l’opera a segnali non ambigui e i nuovi linguaggi a chiare indicazioni di lettura politica.” 1 alla fine degli anni Cinquanta le esperienze artistiche di Primo Pantoli sono legate a doppio filo a quell’impegno politico che trova la sua massima espressione nel “Gruppo di Iniziativa”, fondato insieme a Brundu, Staccioli e Mazzarelli, che determina una rivoluzione culturale in Sardegna mossa da una feroce critica nei confronti della borghesia che origina da un impeto ribellistico ma al contempo romantico. Militante nel PCI e nella CGIL collabora come illustratore satirico per “Sardegna Oggi” e “Rinascita Sarda” e come pubblicista per “L’Unità”. Inizia ad occuparsi dell’elaborazione di manifesti politici e di allestimenti scenografici

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per manifestazioni e comizi in piazza 2, con l’obiettivo di una comunicazione chiara e diretta attraverso linguaggi espressivi, che dal figurativo giungono all’astrazione formale, privati di qualunque elemento decorativo, contribuendo allo svecchiamento di quell’immagine drammatica e ripetitiva che si rifaceva alla supremazia di falce e martello. Elabora una cifra stilistica inconfondibile dove alla forte valenza espressionista coniuga l’ideologia marxista e la filosofia sartriana di formazione. “La pittura mi serve per gridare”, tiene a precisare l’artista. E’ l’epoca in cui compaiono gli inserimenti di parole urlate, che tanto si accostano alla produzione grafica, per sconfinare talvolta in ambito fumettistico secondo la lezione di Lichtenstein. E’ il 25 aprile del 1964 quando insieme a Gaetano Brundu dà il via alla battaglia politica a suon di grafica: nasce il primo manifesto ideato per la Mostra Omaggio alla Resistenza Antifascista, in perfetta antitesi col realismo socialista dell’epoca per una lettura grafica antidogmatica, che si traduce nel tentativo istituzio-

nale di modificare il comune percepire l’immagine politica del partito e del sindacato della sinistra sarda. 3 Dopo pochi anni il gruppo si divide per confluire nel “Centro di Cultura Democratica” che riunisce artisti, intellettuali e democratici: il dibattito continuo, anche la polemica, ne facevano un centro di lavoro che non puntava tutto sulla pittura, ma anche su un impegno politico, sociale e culturale.4 Negli anni Settanta l’asprezza del tratto subisce un’edulcorazione notevole, le forme si fanno più fluide e liriche per arrivare agli anni Ottanta, periodo in cui la natura entra a far parte del suo linguaggio raggiungendo il culmine della contemplazione. E’ il periodo più produttivo per l’elaborazione dei manifesti, ne realizza, infatti, la maggior parte dando spazio ad una comunicazione ludica in dialogo con l’ambiente che assume una connotazione surreale (come avviene per il manifesto del 1984 per la Seconda Conferenza Regionale sulla Scuola) da ricercarsi nella testa di uno scolaro fatta di tanti piccoli mattoni e nei curiosi personaggi che si accalcano per arrampicarsi al filo di

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L’IMPEGNO POLITICO DI UN ARTISTA RIVOLUZIONARIO Note 1 R. Vanali, L’antipittura di un provocatore intervista a Primo Pantoli in “Ziqqurat”, 2004, pp. 39/40. 2 P. Sorbello, Il Manifesto Politico in Sardegna, Tesi per l’Istituto Europeo di Design, Cagliari 18 giugno 1997. 3 P. Sorbello, Il Manifesto politico in Sardegna, www.primopantoli.it/Menu. php?menu=1938, Web, Cagliari, novembre 2000. 4 A. Gatto, Qui Sardegna. Le ragioni ideali di un’arte diversa in “Paese Sera”, Roma, 8 agosto 1981. 5 A. Cara, Nel vortice della solitudine presentazione della cartella calcografica “Warm War”, Cagliari 2006.

un aquilone individuabili nel manifesto della Festa del Primo Maggio dello stesso anno a Carloforte. Non mancano incastri di linee, sovrapposizioni di piani e motivi geometrici dai colori squillanti che, tra astratto e concreto, si ritrovano, tra gli altri, nel manifesto della Conferenza della CGIL del 1983 e in quello del Congresso Regionale del 1984 per le Autonomie e i Poteri Locali. Paradossalmente il discorso cambia quando si tratta di promuovere rappresentazioni teatrali poiché riprende quel tratto espressionistico graffiante, che contorce le forme e le rende spigolose, proveniente dalle esperienze calcografiche che tanto sono congeniali a ricalcare i tratti di figure inquietanti, costrette a vagare nel vortice di una società feroce sempre più piegata su se stessa: quelli di Pantoli non sono i mostri dei sogni, sortiti dall’analisi dell’inconscio alla ricerca di una identità, o almeno non solo quelli, nella sua opera sono presenti i mostri della società, quelli reali che ci circondano e costringono alla dipendenza di regole premeditate ed a ruoli prefissati.5 Roberta Vanali Roberta Vanali è critica e curatrice d’arte contemporanea. Ha studiato Lettere Moderne con indirizzo Artistico all’Università di Cagliari. Per undici anni è stata Redattrice Capo per la rivista Exibart e dalla sua fondazione collabora con Artribune, per la quale cura due rubriche: Laboratorio Illustratori e Opera Prima. Per il portale “Sardegna Soprattutto” cura, invece, la rubrica “Studio d’Artista”. Orientata alla promozione della giovane arte con una tendenza ultima a sviluppare ambiti come illustrazione e street art, ha scritto oltre 500 articoli e curato circa 150 mostre per gallerie, musei, centri comunali e indipendenti. Tra le ultime: la doppia mostra di Carol Rama in Sardegna, L’illustrazione contemporanea in Sardegna, Archival Print. I fotografi della Magnum. Nel 2006 ha diretto la Galleria Studio 20 a Cagliari. Ha ideato e curato la galleria online Little Room Gallery (2010-13). Ha co-curato le mostre del Museo MACC (2015-17), per il quale nel 2018 è stata curatrice. Ha scritto saggi e testi critici per numerosi cataloghi e pubblicazioni. Il cinema è l’altra sua grande passione.


Foto francescoamadori

C’è una cosa assai abusata e assai ignorata, che si chiama metodo induttivo. Filosoficamente parlando è il procedimento che partendo da singoli casi particolari cerca di stabilire una legge universale. Restando un pochino più terra terra, ovvero non volendo assolutamente stabilire leggi o regole, ma formandosi una semplice visione del mondo (come quella associata alle scelte politiche, relazionali, di consumo, giudizi sul prossimo eccetera), pare di gran moda al giorno d’oggi da un lato l’induzione generalizzata, dall’altro contemporaneamente ignorarne le evidenti conseguenze. Ovvero: da esperienze e conoscenze molto circostanziate e ristrette, da comportamenti individuali, si costruisce un’idea di mondo e si contribuisce alla sua trasformazione (spesso in negativo), ma poi di fronte a queste negatività ci si rifiuta di riconoscere come del tutto consequenziale il proprio contributo. Butto cartacce per la strada perché dal mio punto di vista che sarà mai un pezzettino minuscolo di spazzatura, ma poi di fronte al degrado ambientale indotto dalle montagne di rifiuti mi scordo di averci partecipato attivamente, accusando altri, non meglio identificati, colpevoli dello scempio. Il caso più comune di questo tipo di atteggiamento è quello del traffico automobilistico: si esce di casa salendo automaticamente in macchina, senza mai riflettere sul fatto che non si tratta di un destino ineluttabile, ma di una serie di scelte che dovrebbero essere consape-

IL CAMBIAMENTO CLIMATICO E CIO CHE MANGI

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ipropongo una riflessione importante che nessuno ha cagato così la ripropongo paro paro cambiando unicamente la fotografia allegata perché fa più colpo e magari qualcuno si spinge anche a leggere, la fotografia da me proposta riproduce l’opera di una scultrice presente al GNAM due anni fa, si tratta di sculture fatte on la pelle di animali macellati, rimodellata in modo da ricostruire fedelmente la forma dell’animale che ricopriva, buona lettura : Il cambiamento climatico è ciò che mangi Marilyn B. Style / 5 Marzo 2016 salad_field.

voli. Poi, bloccati nell’ingorgo insieme a tutti quelli che hanno fatto esattamente come noi, rifiutiamo di riconoscerci parte del problema: è sempre tutta « colpa degli altri». Curioso, che il metodo induttivo, sistematicamente analizzato e noto sin dai tempi di Socrate, duemilacinquecento anni fa, venga ancora vissuto così, in forme visceralmente animali. È buono, fa bene, il problema è un altro Anche quell’ultimo tentativo di massa di sintetizzare atteggiamenti variamente induttivi e deduttivi, riassunto nel noto slogan «il personale è politico», pare abbia fallito il colpo. Perché il percorso funziona solo nella direzione dal particolare al generale: ciò che ci aggrada o che siamo abituati a fare, diventa caratterizzante le categorie generali. Magari superficialmente in un primo tempo, poi in modo più profondo, sino al punto in cui anche le scelte politiche generali finiscono per essere una specie di prolungamento personale, cosa da cui discende in modo ov-

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vio il frazionismo, la cosiddetta balcanizzazione di partiti e gruppetti, il localismo ambientalista, l’agire per progetti privi della cornice di una qualsivoglia strategia, almeno diversa da quella del perseguimento di un obiettivo assai limitato. Come col traffico, anche la dieta dei singoli individui deriva da scelte, di solito abbastanza consapevoli di quel che si mette nel piatto e in bocca. Dopo le varie campagne internazionali, dopo la grande Expo dedicata all’alimentazione del mondo, pur tra varie distorsioni mediatiche e di mercato, cuochi e lobbies agro-industriali, qualche consapevolezza dovrebbe essere ormai filtrata, sul ruolo delle filiere produttive e di distribuzione. Lamentiamo il degrado climatico, quello del territorio, i problemi di salute e sociali indotti dall’alimentazione, ma mai e poi mai consideriamo adeguatamente il nostro, piccolo ma fondamentale contributo. E invece. Il tuo boccone vale il doppio Invece succede che certi nostri innocui o addirittura sedicenti virtuosi com-

portamenti alimentari, oltre al corpo alimentano anche cose terrificanti, le emissioni che provocano scioglimenti della calotta polare, alluvioni, tempeste, siccità, migrazioni di massa dalle zone più colpite, emergenze umanitarie.La bistecchina che la zia o la maestra ci hanno insegnato a mangiare fino all’ultimo boccone, la salsiccia che, ci dicono, nella valle tal dei tali è l’anima del territorio, affonda praticamente le radici nella storia e nella società. Ecco, la bistecchina e la salsiccia fuori dalla nostra soggettiva percezione sono invece i proiettili sparati nell’inerme corpaccione del pianeta. Nessuna retorica, nessuna immagine splatter, solo la realtà, inquadrata senza le mitiche fette di prosciutto davanti agli occhi. Chi segue i precetti dietetici della zia, consuma i suoi 100 grammi di carne al giorno, più o meno, visto in media familiare e amicale. Per farlo ricorre, sempre in media, proprio a quel settore agro-industriale che gli garantisce rifornimento, direttamente o indirettamente, di materie prime e sistemi di


Foto climaticchange

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trasformazione e distribuzione. Quella filiera è responsabile di quote gigantesche di emissioni, superiori al traffico, all’energia da fonti fossili. Sollevate un istante la bocca dal fiero pasto, per dire che non è vero, che voi mangiate solo il pollo genuino ruspante di nonna Papera? Balle: è solo che non volete ragionare, siete delle bestie. Un vegano, quel tizio che sfottete a ogni piè sospinto, e che a volte ammettiamolo un po’ se lo merita perché pare ideologico, di emissioni mediamente ne produce meno della metà di voi. Capito? Altro che quei tagli del 10% sognati sull’arco di una generazione! Il 50% via, in un colpo solo, niente più cambiamento climatico insomma, o quasi, piantandola con la vostra maledetta braciolina della zia, che vi farà pure venire l’infarto da tanto che fa bene. Ma andate avanti a sfottere, il problema è un altro, ci vuole il nuovo paradigma eccetera. Almeno leggete l’allegato. Francesco Amadori

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a produzione di alimenti di origine animale è associata a maggiori emissioni di gas serra (GHG) rispetto agli alimenti di origine vegetale. L’obiettivo di questo studio è stato quello di stimare la differenza nelle emissioni di gas serra nella dieta tra auto-selezionati mangiatori di carne, mangiatori di pesce, vegetariani e vegani nel Regno Unito. I soggetti erano partecipanti allo studio di coorte EPICOxford. Le diete di 2,041 vegani, 15,751 vegetariani, 8,123 mangiatori di pesce e 29,589 mangiatori di carne di età 20-79 sono stati valutati utilizzando un questionario di frequenza alimentare convalidato. Parametri comparabili di emissioni di gas serra sono stati sviluppati per i codici alimentari sottostanti utilizzando un set di dati di emissioni di gas serra per 94 prodotti alimentari nel Regno Unito, con una ponderazione per il potenziale di riscaldamento globale di ogni gas componente. Le emissioni medie di gas serra associate a una dieta standard di 2.000 kcal sono

state stimate per tutti i soggetti. L’ANOVA è stata utilizzata per stimare le emissioni medie di gas serra per gruppo di dieta aggiustata per sesso ed età. Le emissioni medie aggiustate per età e sesso (intervallo di confidenza al 95%) di GHG in chilogrammi di equivalenti di anidride carbonica al giorno (kgCO2e/ giorno) erano 7.19 (7.16, 7.22) per i grandi mangiatori di carne ( > = 100 g/d), 5.63 (5. 61, 5.65) per i mangiatori medi di carne (50-99 g/d), 4.67 (4.65, 4.70) per i mangiatori bassi di carne ( < 50 g/d), 3.91 (3.88, 3.94) per i mangiatori di pesce, 3.81 (3.79, 3.83) per i vegetariani e 2.89 (2.83, 2.94) per i vegani. In conclusione, le emissioni di gas serra della dieta nei mangiatori di carne autoselezionati sono circa il doppio di quelle dei vegani. È probabile che la riduzione del consumo di carne porti a una riduzione delle emissioni di gas serra nella dieta. AA.VV., Dietary greenhouse gas emissions of meat-eaters, fish-eaters, vegetarians and vegans, Climatic Change, Vol. 125, n. 2, luglio 2014

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cibo che consumiamo ha un grande impatto sul nostro ambiente. L’impatto varia significativamente tra le diverse diete. Lo scopo di questa revisione sistematica è quello di affrontare la domanda: quale dieta ha il minor impatto ambientale sul nostro pianeta? Un confronto tra una dieta vegana, vegetariana e onnivora. Questa revisione sistematica si basa su 16 studi e 18 recensioni. Quattro database bibliografici elettronici, PubMed, Medline, Scopus e Web of Science sono stati utilizzati per condurre una ricerca sistematica della letteratura basata su criteri di inclusione ed esclusione fissi. La durata degli studi variava da 7 giorni a 27 anni. I risultati della nostra revisione suggeriscono che la dieta vegana è la dieta ottimale per l’ambiente perché, tra tutte le diete confrontate, la sua produzione comporta il minor livello di emissioni di gas serra. Inoltre, gli studi recensiti indicano la possibilità di ottenere lo stesso impatto ambientale della dieta vegana, senza escludere i gruppi alimentari di carne e latticini, ma piuttosto, riducendoli in modo sostanziale.


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Foto renataviganò

e “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò, l’unico romanzo della Resistenza scritto da una donna, l’Agnese del titolo diventa partigiana quasi senza rendersene conto. Dopo la firma dell’Armistizio l’8 settembre 1943, i tedeschi irrompono in casa della lavandaia Agnese per catturare il marito Palita, un militante comunista quasi del tutto infermo. Un giorno dei compagni la vanno a trovare per chiederle di trasportare la “roba da scoppiare” nei cesti del bucato: l’Agnese diventa una staffetta, trasporta le armi e fa le calze per i partigiani. Ma non si limita a questo. Una sera, presa da un impeto di rabbia contro il soldato che uccide la sua gatta per divertimento, fa “quella cosa”: mentre dorme, ruba il suo mitra e glielo scaglia in testa, uccidendolo. Da quel momento, l’Agnese entra a far parte a tutti gli effetti di una brigata, dandosi alla macchia e partecipando alle azioni. Quella de “L’Agnese va a morire” e della sua autrice Renata Viganò, che prese parte alla Liberazione come staffetta e infermiera, è la storia di tantissime donne non politicizzate che, toccate in prima persona dagli eventi che seguirono l’Armistizio, decisero di compiere questa scelta estremamente difficile e radicale. Tuttavia, il sacrificio di queste donne è rimasto per lungo tempo ai margini della corposa storiografia dedicata alla Resistenza, che spesso si è concentrata solo sull’eroica e archetipica figura del partigiano giovane e maschio. Viganò ci racconta invece di una donna matura, goffa, molto pragmatica, lontana da ogni romanticismo ideologico, e lo fa nel 1949, pochissimi anni dopo la Liberazione. Eppure, nonostante la nostra memoria letteraria disponga di questo incredibile personaggio che va oltre ogni aspettativa, se parliamo di Resistenza pensiamo subito al partigiano Johnny o a Pin de “Il sentiero dei nidi di ragno”, e non a un’Agnese. Le partigiane erano e sono considerate come delle aiutanti degli uomini, principalmente perché il loro lavoro nella Resistenza, come racconta bene il romanzo, fu soprattutto quello che la teoria femminista chiama lavoro

RENATA VIGANO’ riproduttivo e di cura: cucinare, lavare, curare le ferite, dispensare affetto e compagnia, organizzare la parte “burocratica” delle missioni. Questo contributo è considerato minore rispetto a quello di chi invece imbracciava il fucile. Tuttavia, si tratta di un duplice pregiudizio: da un lato, si ignora completamente che molte di queste donne a un certo punto presero effettivamente parte ad attentati e agguati; dall’altro si considera il lavoro riproduttivo come qualcosa di accessorio e non di essenziale come invece è avere vestiti puliti e rammendati, mangiare bene, dormire, trasportare di nascosto armi e munizioni e riceve cure mediche in una situazione di clandestinità. Le donne erano l’unico ponte tra la macchia e la vita civile, anche grazie al ruolo che ricoprivano nella società di allora: insospettabili, considerate incapaci di commettere violenza e deputate alla cura della casa. Questo significava poter eludere facilmente i controlli e disporre della tessera annonaria, una fonte di cibo imprescindibile in tempo di guerra.

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Come scrive Pino Casamassima in “Bandite! Brigantesse e partigiane – Il ruolo delle donne col fucile in spalla”, “Sebbene la guerra sottoponga il concetto di politica a tensioni fortissime, pochi fra i protagonisti sembrano capaci di vedere nelle pratiche delle donne qualcosa di diverso dal prolungamento dei ruoli di assistenza e di cura, espansi al di fuori del privato in deroga alla ‘naturale’ divisione degli spazi”. C’era quindi anche un problema interno alla Resistenza e connesso al maschilismo della società italiana di allora, non estraneo ai partiti di sinistra. Comunisti e socialisti non volevano estendere il suffragio alle donne per paura che, per natura, avrebbero votato quello che diceva loro il prete: non ci deve quindi stupire se, nella maggior parte dei casi, vennero escluse da qualsiasi processo decisionale all’interno delle brigate e degli organismi di autogoverno. Le donne diventarono così le maggiori esponenti di quella che lo storico francese Jacques Sémelin ha chiamato “Resistenza civile”, cioè tutte quelle pratiche di lotta

messe in atto dai civili che non prevedevano l’uso della violenza, ma del coraggio, dell’astuzia e della capacità di influenzare gli altri. Una “guerra senz’armi”, come l’hanno chiamata Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone in un saggio sulla storia della Resistenza femminile in Piemonte. Questo non fu il destino di tutte le partigiane, ovviamente. L’Anpi riconosce 35mila “partigiane combattenti” (a fronte di 150mila uomini), che hanno ottenuto il ruolo di tenenti, sottotenenti o al massimo maggiori, e 20mila “patriote”, con compiti di supporto, assistenza e organizzazione. Le donne decorate con la Medaglia d’oro al valor militare sono 19, di cui 15 alla memoria e 4 in vita; gli uomini con questa onorificenza sono 572. Ma secondo la storica Simona Lunadei, questo si spiegherebbe anche col fatto che molte donne si rifiutarono di chiedere un riconoscimento a guerra terminata: molte, come il personaggio di Renata Viganò, sentivano solo di aver fatto quello che andava fatto.


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Foto la donna nella resistenza

onostante il contributo alla Resistenza, però, già in occasione dei grandi festeggiamenti per la liberazione, il 25 aprile 1945, si assiste a un chiaro tentativo di minimizzare il ruolo delle donne: le grandi aspettative di emancipazione devono essere messe da parte. Saranno riprese alla metà degli anni sessanta anche attraverso uno storico documentario di Liliana Cavani prodotto dalla Rai: “La donna nella resistenza”. E’ l’inizio di una riscoperta che incrocerà inevitabilmente i movimenti di liberazione e di emancipazione delle donne degli anni successivi. Per il ventennale della Liberazione, nel 1965, Liliana Cavani realizza per la Rai un documentario sulla partecipazione femminile alla lotta contro nazisti e fascisti. Ne emerge una delle inchieste più belle della storia della nostra televisione: “La donna nella Resistenza”. “La TV di Liliana Cavani” in onda mercoledì 4 novembre alle 22.10 su Rai Storia la ripropone al pubblico di oggi quasi integralmente, in tutta la sua forza e la sua modernità. Senza voler dimostrare alcuna tesi e senza diaframmi ideologici, la carrellata delle donne intervistate restituisce una dimensione “normale” dell’impegno antifascista, anche nella scelta estrema di “prendere le armi”. Sono donne pienamente inserite nella società e nella vita civile, madri di famiglia, lavoratrici, che raccontano le motivazioni delle loro scelte e le esperienze drammatiche di cui sono state testimoni o hanno vissuto sulla propria pelle. Liliana Cavani, insieme a Massimo Bernardini, torna con la memoria all’incontro con quelle donne del ‘65, mentre il professor Giovanni De Luna inquadra il lavoro della Cavani nel difficile percorso di memoria della Resistenza, tra consapevolezza e rimozione, in un paese come l’Italia in cui “fare i conti con la memoria” non è mai stato facile. https://www.rai.it/ufficiostampa/La-TV-di-Liliana-Cavani

PARTIGIANE COMBATTENTI Oltre a quelle che si trovarono a combattere per caso”, per senso del dovere o per seguire mariti, fidanzati e talvolta figli, ci furono anche donne già impegnate in politica o nelle associazioni comuniste e cattoliche che pretesero un ruolo più attivo all’interno dei nuclei partigiani. Da queste esperienze nacquero i Gruppi di difesa della donna (Gdd), un’associazione comunista e femminista fondata da Lina Fibbi, Pina Palumbo e Ada Gobetti, che partecipò a molte azioni di sabotaggio e lotta armata, e l’Unione donne italiane di sinistra (Udi). Anche molte donne cattoliche parteciparono alla Resistenza, mettendo a frutto le esperienze maturate nella Gioventù femminile di Azione Cattolica (come ad esempio la futura ministra della Sanità Tina Anselmi). Se questi gruppi nacquero con l’esplicito obiettivo di aiutare gli uomini impegnati nella Liberazione, già dal 1944 si organizzarono in maniera più autonoma e, oltre a partecipare attivamente alle azioni, fornirono supporto alle vedove, alle contadine o alle madri lavoratrici.

Nel 1944 l’Udi fondò anche il proprio giornale clandestino, “Noi donne”, in cui si discuteva di politica e del ruolo della donna, si commemoravano le cadute e si riportavano le notizie sulle lotte femminili. I Gdd organizzarono anche numerosi scioperi e manifestazioni, su esempio della “rivolta del pane” del 16 ottobre 1941, quando un gruppo di donne parmensi assaltò un furgone della Barilla per ridistribuire il pane alla popolazione. Di alcune figure straordinarie si ricordano ancora gli atti coraggiosi: Mimma Bandiera, la partigiana bolognese che, una volta catturata, resistette per sette giorni alle torture senza mai tradire i propri compagni. O Carla Capponi, dei Gruppi di azione patriottica (Gap) romani, che prese parte all’attentato di via Rasella. Quest’ultima ci ha lasciato un’autobiografia molto importante per capire il ruolo delle donne nella Resistenza, “Con cuore di donna”. Capponi racconta la difficoltà nello stabilire un rapporto paritario con i compagni del Gap, la loro riluttanza a consegnarle un’arma (che infat-

ti dovrà rubare a un soldato fascista su un autobus affollato), ma anche il vantaggio di essere una bella ragazza in grado di distrarre fascisti e tedeschi, unito alla costante minaccia della violenza sessuale. Che fossero staffette o dinamitarde, lavandaie o tiratrici scelte, senza le donne non si sarebbe compiuta la Liberazione. “Non consideratemi diversamente da un soldato che va su un campo di battaglia”, dice una delle tante testimonianze che compongono “La donna nella Resistenza”, documentario del 1965 di Liliana Cavani. Il loro contributo, al pari delle altre “Resistenze dimenticate”, come quella degli Internati militari italiani o quella creola e jugoslava, non può e non deve essere archiviato come qualcosa di marginale. In un momento in cui la memoria della Liberazione è sempre più osteggiata, in cui il 25 aprile viene considerata una festa “divisiva”, non possiamo permetterci il lusso di una memoria parziale. Segui Jennifer su The Vision | Facebook

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vedi il video La donna nella resistenza https://youtu.be/j7p7v504j6M


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Foto alchetron

erché nel 1965 decise di dedicare un suo documentario al tema della donna nella Resistenza e cosa ha significato per lei raccogliere la testimonianza di tante protagoniste di quella stagione? Da bambina ho sentito spesso parlare in casa (mio nonno materno era stato un totale antifascista) delle partigiane. Mia zia Libera ha fatto la “staffetta” da giovanissima. Ho voluto approfondire l’argomento. E così ho voluto filmare le testimonianze di autentiche partigiane che spesso hanno pagato fortemente quella scelta. Era necessario fare quel documentario. Nel dopoguerra pochi si sono veramente interessati alle partigiane. Mi spiace dire che la stessa ANPI non ha fatto quanto poteva, penso, per rendere di dominio pubblico il sacrificio delle partigiane (per esempio questo documentario non ha circolato molto). Un conto è vederle interpretate (ma raramente) in un film, diverso e più efficace ascoltare le esperienze reali e dirette. È stato fatto troppo poco, quasi niente, diciamolo. Che senso ha riflettere sull’esperienza delle donne nella Resistenza oggi, al tempo della crisi e della sfiducia dilagante? A mio parere ha un grande senso. Loro hanno preso sul serio la necessità di affrontare anche di mettere in pericolo la vita per collaborare alla caduta della dittatura della guerra e dell’ingiustizia. I tempi certo sono cambiati, ma lo sviluppo democratico ed economico del nostro Paese è troppo bloccato da corporazioni e burocrazie che attraversano più o meno tutti i partiti e impediscono lo sviluppo necessario in tutti i settori del lavoro, dell’economia, e della cultura. Lo sviluppo democratico è bloccato dagli interessi di pochi. Il coraggio delle donne in questo caso non può fare molto. Le donne in politica in posti strategici sono rare. È mancata la risposta di parità vera da parte della politica del dopoguerra da destra come da sinistra. Le partigiane si sacrificarono (invano?) per quella che una partigiana (Ada Gobetti) chiamò l’urgenza di una palingenesi sociale che consi-

LILIANA CAVANI derasse i diritti delle cittadine uguali a quelli dei cittadini. Abbiamo conquistato la Costituzione repubblicana specialmente grazie alla battaglia e spesso al sacrificio di decine di migliaia di ragazze e di ragazzi. Eppure ancora oggi la Costituzione non viene pienamente applicata, e insieme si ripetono tentativi di modificarla sovente in modo sostanziale. Cos’è che non funziona? La nostra Costituzione è bella come dice lei, ma non viene applicata riguardo la parità dei diritti delle donne. Ha fatto e fa difetto la cultura generale che è rimasta troppo ancorata al maschilismo tradizionale. L’educazione in famiglia e a scuola non è stata all’altezza dei tempi rispetto ad altri Paesi dell’Occidente. Si può affermare che il sacrificio delle partigiane non è stato ricompensato come sarebbe stato giusto. L’ignoranza che si è lasciata crescere pesa oggi moltissimo sul Paese. Infatti decine di migliaia di intelligenze sono andate perdute. Il cinema italiano del dopoguerra ha anche rappresentato, spesso con straordinaria efficacia, il tempo della Re-

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sistenza, la tragedia del conflitto, il dramma della miseria di quegli anni e di quelli della ricostruzione. Oggi però si stenta a ritrovare un analogo filone artistico, nel quale si interpretino le problematiche, i disagi e spesso le sofferenze di un popolo stremato dalla crisi di un Paese in declino. Perché? A mio modo di vedere tanto cinema sulla Resistenza non è stato fatto e neanche dei lager si è parlato molto in Italia se si esclude il film di Gillo Pontecorvo. Vicino a Carpi c’era un lager importante dal quale partivano le vittime verso la Germania (ci passò anche Primo Levi e Focherini, un cattolico di Carpi che salvò un centinaio di ebrei prima di essere preso e che fu poi nominato “giusto” e anche beatificato recentemente). Nell’immediato dopoguerra il lager di Fossoli fu prestato a Don Zeno con i suoi ragazzi (un posto infelice direi) così i segni del suo significato andarono subito perduti. Io sono cresciuta lì e non ho mai sentito parlare del campo di Fossoli (solo da grande) e comunque non se ne parlò abbastanza. Direi che la cultura della Resi-

stenza è stata esaltata (giustamente) dal Pci, ma dentro le sue strutture e secondo direttive precise. La Resistenza non fu solo dei “comunisti”, ci furono anche tanti cattolici, come ho scoperto in seguito. Cristiani e comunisti nel tempo lungo e oscuro della Guerra Fredda non hanno collaborato evidentemente a concepire una visione di Resistenza Nazionale e farne quindi un argomento di comune valore da tramandare con il meritato e dovuto orgoglio. Qual è l’attualità dell’antifascismo? L’antifascismo non può essere che “sempre attuale” perché è sempre attuale la necessità di lottare contro ogni dittatura che sempre nasce dall’ignoranza diffusa.

Le parole della regista Liliana Cavani. Partigiane : un sacrificio non ancora ricompensato. a cura di G.P. https://anpi.it/media/uploads/patria_70/pag54-55. pdf


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iliana Cavani nasce a Carpi, in provincia di Modena. Suo padre è un architetto mantovano, sua madre un’appassionata di cinema che porta la figlia al cinema tutte le domeniche. Si laurea in Lettere Antiche a Bologna nel 1959. Negli anni dell’università fonda a Carpi, con alcuni amici, un cineclub che le permette di vedere e di far vedere i capolavori della storia del cinema che non arrivano nel paese. Dopo la laurea, a Roma, frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia, corso di regia. Ottiene il diploma con i corti “Incontro di notte” e “La battaglia”, con cui vince il “Ciak d’oro” che il Centro conferisce al migliore corto di fine corso. Mentre frequenta la scuola di cinematografia, Liliana Cavani vince un concorso Rai che la inserisce in un gruppo di funzionari (Angelo Guglielmi, Sergio Silva, Angelo Romanò e Pier Emilio Gennarini) animati dal desiderio di raccontare agli italiani, attraverso i documentari, la storia contemporanea e la realtà sociale del Paese. Firma così lavori che vanno

dalla “Storia del Terzo Reich” (1962) a “La donna nella Resistenza” (1965). Subito dopo realizza “Francesco di Assisi”, il primo film prodotto dalla Rai, con Lou Castel della cui forza espressiva Cavani era rimasta colpita ancor prima dell’uscita de “I pugni in tasca” di Marco Bellocchio. Tra gli attori anche Mino Bellei, Riccardo Cucciolla, Marco Bellocchio. Lo stile del film è aspro e forte, caratterizzato da un linguaggio già sperimentato nelle inchieste. II film ottiene un grande successo, ma scatena altresì molte reazioni (compresa un’interpellanza parlamentare del MSI), soprattutto per il modo del tutto originale di rappresentare il santo. II film partecipa al Festival di Venezia fuori concorso nel 1966. Nel 1968 Liliana Cavani dirige “Galileo”, con cui mette a fuoco il conflitto seicentesco tra scienza e religione; tema capitale al centro di un dibattito mai risolto del tutto. Lo scienziato Galileo pensa che la verità debba essere dimostrata dal metodo sperimentale, mentre la Chiesa impone viceversa il credo bi-

blico. La sua certezza porta Galileo a credere di poter convincere il clero all’evidenza; si inganna e così finisce nelle mani dell’lnquisizione. II film è censurato dalla Rai perché considerato anticlericale. Non fu mai trasmesso. Tra gli interpreti, Cyril Cusack protagonista (attore irlandese fondatore del famoso Abbey Theatre di Dublino), Lou Castel, Giulio Brogi, Paolo Graziosi. Presentato in concorso a Venezia, Galileo ebbe successo, e trovò un distributore, la Cineriz. Nel 1969 porta sullo schermo “I cannibali” prodotto dalla Euro Cinematografica. Se “Francesco d’Assisi” fu considerato anticipatore dei tempi della contestazione del ’68 “I cannibali” ne fu un’esplicita espressione. Ispirato all’Antigone di Sofocle, il film racconta la lotta di una ragazza contro I’autorità che impedisce di seppellire i corpi dei ribelli uccisi dalla polizia, affinché servano da monito per i cittadini. La coraggiosa ragazza, unica ribelle in una città piegata dalla dittatura, è aiutata soltanto da un giovane che parla una

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lingua sconosciuta. L’esempio dei due giovani verrà presto seguito da altri coraggiosi. I “cannibali” sono i giovani che - dichiara la regista - “rifiutano la civiltà se essa deve essere quella del regime vigente”. II film pone infatti con forza e passione il conflitto tra pietà e legge, ed è radicato nel contesto storico e politico di quegli anni nei quali veniva posto da più parti il tema della “umanizzazione” del potere. Tra gli interpreti Britt Eckland, Pierre Cleménti, Thomas Milian, lo scrittore Francesco Leonetti. Nel 1971 dirige “L’ospite”, un film sul disagio mentale in cui si racconta la storia di una donna ricoverata in un manicomio che, una volta uscita, cerca invano di inserirsi nella società. Film “pre-riforma” Basaglia raccontato con un’impronta da cinema-verità. “L’ospite” vuole cogliere il disagio estremo di un’istituzione che somiglia non poco ai lager. Tra gli interpreti Lucia Bosè protagonista, Peter Gonzales e Glauco Mauri. II film realizzato con un budget minimo fu invitato a Venezia fuori concorso. Nel 1972 si appassiona ad un testo classico della letteratura tibetana, “Milarepa, mistico del X secolo”. II film mette in scena con rigore I’estraneità di una cultura diversa dalla nostra e che tuttavia coincide nel bisogno universale di chiarire la propria ragion d’essere. L’esperienza mistica di Milarepa raccontata nel film, è un viaggio nella mente che coinvolge il protagonista, uno studente che immagina se stesso nei panni dell’avventuroso eremita. II film ipotizza che i travagli del giovane Milarepa siano in gran parte gli stessi che si agitano nell’animo di un giovane occidentale, combattuto tra ricerca di sapere e ricerca di potere. Con “II portiere di notte” (1973) Liliana Cavani si concentra sull’indagine dell’ambiguo rapporto tra vittima e carnefice. La rottura dello schema del racconto tradizionale cinematografico, che in genere non ammette che il protagonista possa essere un nazista, un “eroe” del male, ha provocato al film polemiche infinite, soprattutto in Francia. (segue pagina 20)


(segue dalla pagina 19) In Italia viceversa il motivo dello “scandalo” è stato, al solito, fondato su questioni di sesso, nonostante il film avesse avuto il sostegno di importanti critici. II film indaga l’ambiguità della natura umana; in generale nel rapporto tra il Furher e i suoi fanatici devoti, e in particolare nel mistero del rapporto tra vittima e carnefice. Ambientato a Vienna nel 1954, il film ha come protagonista un ex nazista portiere d’albergo, che ritrova casualmente Lucia, una vittima sopravvissuta al lager, con la quale aveva avuto una relazione sadomaso. II rapporto riprende, ma Lucia nel frattempo è diventata una testimone pericolosa della quale altri nazisti vogliono liberarsi. II film, al centro di continui dibattiti, ebbe un grande successo di pubblico in Italia e all’estero, dando alla regista una notevole fama internazionale. Gli attori sono Dirk Bogarde, Charlotte Rampling, Philippe Leroy, Gabriele Ferzetti. Nel 1977 termina “Al di là del bene e del male”. II film racconta le ultime vicende della vita di Nietzsche focalizzandosi sul suo rapporto sentimentale con Lou Andreas-Salomè. Nella Roma di fine Ottocento, Paul Rèe incontra Lou e vuole sposarla, ma Lou, una russa moderna e curiosa, è in Europa per studiare e fare esperienza. Suggerisce un ménage a trois che comprenda I’amico Nietzsche. Un chiaro rifiuto della morale borghese destinato però a fallire. Nietzsche impazzisce, Paul si scopre omosessuale e soltanto Lou riuscirà a vivere la sua vita e a soddisfare le sue esigenze intellettuali all’insegna di un convinto protofemminismo. II film fece molto discutere ed ebbe problemi di censura in Italia a causa di alcune scene ritenute “spinte”. Gli attori sono Dominique Sanda, Erland Josephson, Robert Powell. Nel corso degli anni, a partire dal 1979, anno nel quale inaugura il Maggio Fiorentino con Wozzeck, realizza la regia di diverse opere liriche per teatri italiani ed europei. Nel 1980 termina per la Gaumont il film “La pelle”. Nella Napoli del 1944 lo scrittore Curzio Malaparte, inter-

prete al servizio del generale americano Cork, ha il compito di fare da guida nella città alla moglie di un senatore americano. E’ un viaggio “infernale” attraverso una città in preda alle necessità primarie, in cui per la fame si fa mercato di tutto. Liberamente ispirato al romanzo di Malaparte, il film vuole essere la fotografia del degrado di una città prima sconvolta dalla guerriglia, e poi occupata. L’idea centrale è la dimostrazione che da sempre a perdere le guerre sono soprattutto donne e bambini. Tra gli interpreti Marcello Mastroianni, Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Carlo Giuffrè, Peppino Barra oltre ad un vasto numero di attori napoletani. II film ha un grande successo di pubblico (vince il “Biglietto d’Oro”) e va in concorso a Cannes. Nel 1985 la regista dirige “Interno berlinese” ispirato al romanzo di Junichiro Tanizachi, “La croce buddista”. Con questo film Liliana Cavani termina quella che lei considera la “trilogia tedesca”, intendendo tre lavori fondati su quel Novecento germanico che ha impregnato a fondo la

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cultura d’Europa. Ambientato nella Berlino del 1938, alle soglie della guerra, il film racconta la storia di una coppia che viene irretita dalla giovane figlia dell’ambasciatore giapponese e trascinata in un triangolo sessuale perverso e misterioso. Cifre, gesti e simboli di culture diverse (Germania e Giappone) che si attraggono perché tenacemente resistenti alla modernità. II film è presentato in concorso al Festival di Berlino. Nel 1989 si conclude il film “Francesco”. La regista realizza il desiderio di tornare sulle tracce di quel personaggio che non aveva mai dimenticato. L’intento è quello di “andare più a fondo -(dichiara la regista) nell’analisi di un’esperienza umana così speciale nella sua specificità tanto inattuale da essere sempre attuale”. II protagonista è Mickey Rourke con Helena Bonham Carter. II film ha successo di pubblico e va in concorso a Cannes. “Dove siete? Io sono qui” del 1993 entra nel difficile mondo dell’handicap. La regista racconta, attraverso la storia di due giovani sordo-

muti, che comunicare senza parole può significare altra ricchezza. Gli interpreti sono Chiara Caselli, Gaetano Carotenuto, Anna Buonaiuto, Valeria D’Obici. II film è presentato fuori concorso a Venezia. Dal 1996 al 1998 è consigliere di amministrazione della Rai. Nel 2001 riceve a Roma la Laurea Honoris Causa dall’Università LUMSA (Libera Università Maria SS. Assunta). Nel 2002 dirige “II gioco di Ripley” (Ripley’s Game). II film viene proposto a Liliana Cavani dalla compagnia americana Fine-Line ed è tratto dal romanzo di Patricia Highsmith. Ripley è un personaggio dotato di puro cinismo, ma ricco di leggerezza e di amore per le cose belle - oggetti o case per ottenere le quali non bada a scrupoli. Privo di “fisime” moralistiche, si aggira per il mondo “come se questo fosse lì che aspetta soltanto di essere goduto da chi ha I’abilità di afferrare”. Tra gli interpreti John Malkovich, Lena Heady, Ray Winstone, Dougray Scott, Chiara Caselli. Ha avuto particolare successo in Inghilterra.


Liliana Cavani Il Castoro Cinema, n. 21 Ciriaco Tiso La Nuova Italia Firenze - 1975

Fotografia: Massimiliano Frau

Produzioni Cortometraggi Incontro di notte (1961) La battaglia (1962) Clarisse (2012)

E’ stato presentato fuori concorso a Venezia. Dall’incontro con Claudia Mori nascono tre lavori per Rai Fiction: nel 2005 “De Gasperi. L’uomo della speranza”, dedicato allo statista democristiano, nel 2008 “Einstein” biografia del grande scienziato e infine “Troppo amore “(2011) sulla violenza contro le donne. Nel 2009 ha fatto parte della giuria della 66ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Nel 2012 la 56ª edizione del Premio Cinematografico David di Donatello le assegna il David Speciale alla carriera per celebrare oltre cinquant’anni di lavoro e di vita nel cinema. Nel 2012 torna al cortometraggio con “Clarisse”, intervista realizzata in una comunità di suore di clausura, presentato fuori concorso alla 69ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove si aggiudica il Premio Speciale “Pasinetti”. Nel 2014 con “Francesco” Liliana Cavani torna per la terza volta nella sua carriera cinematografica e televisiva a rileggere la figura di Francesco d’Assisi in una produzione Rai Fiction, Ciao Ragazzi!,

in collaborazione con Bayerisher Rundfunk. La fiction ripercorre i tre periodi fondamentali della vicenda umana di Francesco, in un arco narrativo unificato non solo dallo sviluppo del protagonista, ma anche dall’esperienza di due importanti seguaci: Chiara ed Elia, con il secondo che ricopre anche, in diversi momenti il ruolo di antagonista. L’attore polacco Mateusz Kosciukiewicz è Francesco, Sara Serraiocco e Vinicio Marchioni sono Chiara ed Elia. La colonna sonora è di Mauro Pagani. Il 27 novembre 2015 le viene conferita la Cittadinanza Onoraria di Assisi. Nel 2017 firma la sua prima regia teatrale con “Filumena Marturano”, interpreti Jeppy Gleijeses e Mariangela D’Abbraccio. Nel 2018 continua la sua attività teatrale con la regia de “Il piacere dell’onestà”, di Luigi Pirandello, interpreti Jeppy Gleijeses e Vanessa Gravina. Durante il 75° Festival del Cinema di Venezia riceve il Premio Robert Bresson 2018, riconoscimento conferito dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e dalla Rivista del Cinematografo. “Il portiere di not-

te”, restaurato dalla Cineteca Nazionale con Istituto Luce - Cinecittà, viene presentato nella sezione “Classici”. Al Teatro La Scala di Milano, firma la regia dell’Opera “Ali Babà e i 40 ladroni di Luigi Cherubini”, in scena dal 1 al 27 Settembre 2018. Alla Berlinale 2019 Liliana Cavani consegna il Premio alla carriera a Charlotte Rampling.

Bibliografia Liliana Cavani. Ogni possibile viaggio Francesca Brignoli Una regione piena di cinema Liliana Cavani. Giacomo Martini, Piera Raimondi Cominesi, Davide Zanza Lo sguardo e il labirinto. Liliana Cavani. Roberto Festi, Odoardo Semellini Fondo Liliana Cavani Il cinema di Liliana Cavani Gaetana Marrone Invito al cinema di Liliana Cavani Francesco Buscemi Il cinema di Liliana Cavani. Atti del Convegno. Carpi, Primo Goldoni Lo sguardo libero: il cinema di Liliana Cavani Luca Gasparini, Paola Tallarigo La Casa Usher

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Documentari La vita militare (1961) Gente di teatro (1961) Storia del Terzo Reich (1961) Età di Stalin (1962) L’uomo della burocrazia (1963) Assalto al consumatore (1963) La casa in Italia (1964) Gesù mio fratello (1964) Il giorno della pace (1965) La donna nella Resistenza (1965) Philippe Pétain. Processo a Vichy (1965) Lungometraggi Francesco d’Assisi (1966) Galileo (1968) I cannibali (1969) L’ospite (1971) Milarepa (1973) Il portiere di notte (1974) Al di là del bene e del male (1977) La pelle (1980) Oltre la porta (1982) Interno berlinese (1985) Francesco (1989) Dove siete? Io sono qui (1993) Ripley’s Game (Il gioco di Ripley) (2002) De Gasperi. L’uomo della speranza (2005) Einstein (2008) Troppo amore (2011) Francesco (2014) Regie d’opera Wozzeck (Firenze, 1979) Iphigenie en Tauride (Parigi, 1984) Médée (Parigi, 1986) La Traviata (Milano, 1990) Cardillac (Firenze, 1991) Jenufa (Firenze, 1993) La Vestale (Milano, 1993) La cena delle beffe (Zurigo, 1995) Cavalleria rusticana (Ravenna, 1996) Manon Lescaut (Milano, 1998) Pagliacci (Ravenna, 1998) Orfeo e Euridice (Zurigo, 2000) Un ballo in maschera (Milano, 2001) Werther (Bologna, 2004) Alceste (Parma, 2005) Macbeth (Parma, 2006)prosa Filumena Marturano (Roma, 2017) Il piacere dell’onestà (Roma, 2018) Sceneggiature Il caso Liuzzo (1969) Lettere dall’interno Racconto per un film su Simone Weil (1973) http://www.lilianacavani.it/ https://www.rai.it/ufficiostampa/ assets/template/us-articolo.html?ssiPath=/articoli/2020/11/La-TV-di-Liliana-Cavani-Un-romanzo-di formazione


10 years ago all began in Berlin in an abandoned hospital.... after painting all my life with different medium I tried for the first time a spray....thx to my future husband

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Fotografia: fabriziodessì

ofa si esprime con l’Aerosol Art e con la pittura su tela. Il suo interesse per l’arte si sviluppa molto presto, appassionandosi al disegno con i manga giapponesi. In famiglia è suo nonno, pittore e amante dell’Impressionismo, a trasmetterle l’interesse per le arti visive. Frequenta corsi di cartoonist. Durante la carriera lavorativa nel mondo del marketing, del management e dell’economia, la quale le permette di comunicare (parla 5 lingue) e lavorare con persone di tutto il mondo, coltiva i suoi interessi artistici. Finché arriva a Berlino nel 2011. Il forte impatto con l’arte contemporanea e urbana di questa città la porta a dipingere per la prima volta con una bomboletta e influenzata dalla corrente di post graffitismo, si immerge nel mondo della Street Art. In quegli anni nel Nord Europa la Street Art sta prendendo definitivamente piede e Kofa assorbe l’influenza di street artists provenienti da tutto il mondo: Maclaim, Herakut, Miss Van e Etam Cru, i quali la fanno avvicinare alla rappresentazione della figura femminile. Nel 2015 si trasferisce in Sardegna e diventa una full time artist. Prende ispirazione da temi di attualità mondiale, dall’Impressionismo e dalla multiculturalità dei paesi in cui ha vissuto, lavorato e viaggiato. Oggi ritrae sopratutto donne, aggiungendo gesti, simboli e colori di diverse culture e tradizioni, dando ai suoi dipinti un linguaggio di intima intonazione. Le sue opere murali si trovano in diversi centri della Sardegna con una grande concentrazione a Cagliari e nel Campidano. E poi in Abruzzo, Malta, Svizzera (Berna) e Germania (Berlino). “The world runs fast and we do not have time to find out about moods, emotions, feelings, gestural expressions of those we meet on our way, little gestures that say a thousand words … but where the time has come to stop and to observe who is facing us? A reflection on superficiality, on the path of life ….. past present and future.” Kofa https://urbankofa.com/

KOFA KOFA

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a bella notizia è che finalmente anche Cagliari riesce a realizzare progetti di riqualificazione di quartieri disagiati attraverso l’arte, più precisamente la street art. A distanza di una settimana dal “palazzo” di Tellas anch’esso scelto in una zona popolare, arriva Santa Teresa - Pirri“Is Murusu de Santa Teresa”, un progetto rivolto al quartiere di Santa Teresa di Pirri finanziato dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Cagliari.

vedi il video https:// youtu.be/m7Hi3yMf46s

A fare da direttore artistico è stato lo street artist cagliaritano ManuInvisible da cui parte l’idea di realizzare dei murales sulle facciate dei palazzi del quartiere popolare. Il concetto di base è quello di utilizzare l’arte per finalità sociali e come strumento di riqualificazione di spazi e luoghi. La sua proposta è stata colta da qualcuno che non è nuovo a questo blog, cioè Urban Center Cagliari di cui si é parlato a proposito della Galleria del Sale e dello Smart Cityness. Urban Center Cagliari non è solo a organizzare l’evento, ma opera in partnership con la fondazione Domus De Luna.

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A proposito di quest’ultima ricorderete l’Exmè, una struttura a supporto di ragazzi provenienti da realtà disagiate di cui si parlò tempo fa. Ebbene, proprio lì ha ruotato l’evento. Al suo interno, infatti, i ragazzi del rione sono stati coinvolti in laboratori e hanno potuto assistere alla realizzazione delle opere. E stata una sorta di punto di appoggio / centro propulsore visto che le quattro facciate che sono state realizzate dagli street artist si trovano nelle vicinanze. Sette street artis x quattro facciate x due settimane di lavoro fanno “Is Murusu de Santa Teresa“, un progetto che, sull’esempio romano di Tor Marancia e San Basilio, o napoletano di Ponticelli o siciliano di diversi quartieri popolari, punta alla riqualificazione, attraverso l’arte, di un quartiere popolare scarsamente conosciuto dagli stessi cagliaritani e che da anni vive in condizioni di disagio. Ma parliamo di loro, gli artisti. Oltre a ManuInvisible, fra i locali Warpix-Duo, Davide Medda e Kofa. Da fuori Frode da Milano e Dzia dal Belgio.

Davide Medda & Kofa a Cagliari per “Is Murusu de Santa Teresa“. In che modo l’opera simboleggia la rinascita? Colori, trame che ricordano i cesti e i lavori sardi, e una bambina che guarda al futuro, questa la rinascita per Davide Medda e Kofa, due artisti che arrivano da Gesturi. Tradizione e futuro che devono mischiarsi per riuscire a ridare il colore che permea la facciata in una serie di geometrie che richiamano le antiche usanze della Sardegna. La bambina, con le mani che vanno a mimare un binocolo, guarda lontano, verso la rinascita del quartiere. Kofa é nata a Berna, Svizzera. Attualmente vive in Italia, Dipinge con varie tecniche, ma dal 2011 lo spray diventa il media da lei più usato, il muro la tela preferita. Nei lavori si possono trovare da ritratti a rappresentazioni tradizionali, però il suo soggetto preferito per esprimere i suoi concetti rimane la donna, raffigurata in istantanee, in attimi che parlano di viaggi e di vita quotidiana. http://Instagram.com/urbankofa


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MODA AL VILLAGGIO ASPRONI L

o sfondo è di quelli che non ti aspetti se pensi alle passerelle sfavillanti dell’alta moda, ma l’impatto è davvero forte: nere silhouette si muovono tra le rovine del villaggio minerario Asproni, un borgo “immerso tra le verdi colline del Sulcis Iglesiente oggetto di un importante intervento di recupero”, racconta all’ANSA lo stilista sardo Filippo Grandulli che ha scelto questo luogo per la sua nuova collezione autunno-inverno 2021/22 riuscendo a mettere insieme 40 professionisti per realizzare un fashion film di 10 minuti e mezzo. Tema e titolo della collezione rappresentano bene lo stato d’animo di questo periodo in piena pandemia: “Su Feli”, ovvero la rabbia. “Ma esprime anche (sottolinea il designer di moda cagliaritano) quella voglia di rivalsa e di ripresa di quanti si son trovati con un progetto fermo da due anni e hanno dovuto reprimere la propria creatività per via dell’emergenza Covid”. Riflettori accesi dunque sul villaggio Asproni di Gonnesa, in località Seddas Moddizis.

“Uno scenario surreale (confessa Grandulli)esempio di architettura mineraria tra le verdi colline del Sulcis Iglesiente”. Tra gli storici edifici, la chiesa, gli uffici della direzione, la villa, la scuola per i figli dei minatori, sui tacchi ricoperti da copriscarpe le donne di Grandulli incedono in un’ atmosfera onirica e mistica, animano il villaggio con i loro abiti total black da cui affiora il candore delle camicie. La collezione è una visione non didascalica dell’austerità dell’antica donna sarda, che il designer noto per prediligere il colore nero nelle sue collezioni, ha messo su carta per il prossimo autunno inverno. Modelli originali arricchiti di volta in volta di tessuti stampati con grafiche in sovrapposizione che richiamano antichi monili, bottoni, spille. I cestini sardi realizzati in carta da Angela Boeddu diventano cappelli, cascate di fiori inghirlandano gli orecchini neri prodotti da Furighedda e rivestiti in broccato. Preziosi dettagli anche sullo scollo delle maglie, su cui brillano frammenti di fedi sarde e altri ornamenti di oro o argento. Filippo Grandulli gioca sul

non finito con ricami lasciati a metà, gioielli logorati per dare il senso della precarietà. Al progetto, da una idea di Daniele Coppi, ha lavorato uno staff di 40 professionisti sardi. Sulle note del brano “Bellu” composto dalla dj Marascia il rito della sfilata si compie, dando forma alla voglia di ripartire, di rimettere a posto i pezzi, ricucire gli strappi di un tempo lungo e sospeso, sottratto all’ arte, alla cultura, alla creatività. FILIPPO GRANDULLI (1983) è nato a Napoli ma vive a Cagliari, dove vive e lavora. Nel 2001 studia scenografia e costume a Bologna presso l’Accademia delle Arti. Nel 2007 torna a Cagliari dove inizia una nuova collaborazione entrando nel mondo del teatro come scenografo e costumista. Si perfeziona poi in sartoria grazie ad alcuni corsi e scuole private. Oggi lavora a diversi progetti artistici, ma soprattutto si concentra sulla moda come designer di abiti unici e su misura. Dal 2013 disegna la sua collezione. ANSA www.filippograndulli.it

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vedi il video https://youtu.be/-47SrzsX9eo

ituato a poca distanza dalla città di Iglesias, sopra le colline da cui si vede in lontananza il mare, il Villaggio fu edificato tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento per volontà dell’Ing. Giorgio Asproni nelle vicinanze della miniera di cui lo stesso Asproni era divenuto proprietario e nella quale per i successivi quarant’anni avrebbe investito il notevole patrimonio di famiglia. La storia del Villaggio è stata dunque sin dall’inizio strettamente legata alla storia della miniera e la vita del Villaggio, a cui Asproni non fece mancare nulla e in cui lui stesso visse con tutta la famiglia, si è intrecciata per decenni alla vita del suo fondatore, riuscendo a sopravvivergli per altri 30 anni dopo la morte, avvenuta nel 1936. Nell’autunno del 2020 il progetto e l’opera del Dr Lorefice hanno finalmente ripreso slancio attraverso il Progetto VIL.MIN.AS. (non a caso acronimo di Villaggio Minerario Asproni). Per volontà delle sue due sorelle, la Società omonima ha raccolto infatti la sua eredità con rinnovato impegno, entusiasmo e passione, muovendosi in 4 direzioni: Ricerca, studio e raccolta delle fonti storiche Pulizia e bonifica degli spazi verdi Ripristino degli spazi destinati alla socialità Recupero degli edifici del Borgo Minerario E’ così iniziata (e ancora oggi prosegue) la ricerca dei documenti sul Borgo e la sua Miniera presso gli Archivi Storici di Iglesias; è contestualmente partita l’opera di pulizia dei tanti spazi verdi presenti nel Villaggio, finalmente liberati dalle macerie e stanno rivedendo la luce gli spazi destinati un tempo alla socialità come il cortile delle scuole elementari, il cui selciato in pietra è riemerso dopo decenni di abbandono. L’obiettivo è e resta quello di bonificare, recuperare e valorizzare anche a fini turistico/ ambientali, l’intero Borgo Minerario affinché possa riprendere a raccontare la sua storia ed essere stabilmente riconosciuto come “Luogo della Memoria”, tanto caro alla Collettività del Sulcis Iglesiente. https://www.villaggiominerarioasproni.it/il-villaggio/


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ecilia nasce il 10 maggio 1900 a Wendover, a pochi chilometri da Londra. Quando ha 12 anni, la mamma decide di spostarsi a Londra per garantire ai figli un’istruzione di primo livello. Cecilia inizia a frequentare il St.Mary’s College, una scuola religiosa in cui Cecilia non trova molti stimoli e deve coltivare da sé i suoi interessi, soprattutto in campo scientifico, lo fa leggendo i Principia di Newton... Il primo gennaio 1925 consegue il dottorato di ricerca, prima donna ad Harvard, con una tesi intitolata “Atmosfere stellari”, un lavoro che sarà definito dall’astrofisico Otto Struve come “il lavoro più brillante mai scritto in astronomia”. Cecilia, applicando metodi di analisi innovativi che aveva approfondito da sola, calcolava l’abbondanza degli elementi chimici delle stelle dall’osservazione del loro spettro, dimostrando che le stelle sono formate principalmente da idrogeno ed elio. A quell’epoca, gli astrofisici erano convinti che le stelle fossero formate principalmente da atomi pesanti, gli stessi presenti nella crosta terreste (alluminio, ferro, silicio…). Non potevano certo accettare che una ragazzina poco più che ventenne arrivata dall’Europa sconvolgesse le loro certezze sostenendo che il Sole e le stelle fossero formato al 98% da idrogeno! Così il professor Henry Norris Russel (proprio quello che dà il nome al noto diagramma di classificazione delle stelle, il diagramma Hertzsprung-Russell), durante la fase di revisione della tesi, la convinse a rivedere le conclusioni del lavoro ed a non pubblicarlo. Cecilia aveva trasformato un Universo composto da metalli pesanti, in un Universo leggero e gassoso: una nuova rivoluzione copernicana! Che però le fu negata. Nel 1929 lo stesso Russel avrebbe validato le ricerche di Cecilia, pubblicando un lavoro in cui affermava che le stelle fossero costituite prevalentemente da idrogeno ed elio, citando Cecilia Payne solo marginalmente. Inizialmente lavorò come assistente di Shapley, sottopagata rispetto ai colleghi uomini, in un ruolo che non era ufficialmente riconosciuto dall’università. Soltanto anni dopo Shapley sarebbe riuscito a ottenere per la sua assistente il riconoscimento del ruolo e del titolo di astronomo da parte dell’accademia.

Cecilia, oltre alle sue ricerche osservative, teneva diversi corsi all’Università di Harvard, nessuno dei quali però inserito nella lista ufficiale dei docenti. Solo nel 1956, Cecilia divenne ufficialmente professoressa ad Harvard e Direttore del Dipartimento di Astronomia, prima donna a ricoprire un ruolo così importante nella rinomata università americana. Resterà in carica fino al 1965, quando si ritira. Nel 1933 tornò in Europa per una visita ai principali osservatori. A Göttingen incontrò l’astronomo Sergei Gaposchkin, di origine russa, che stava tentando di fuggire dalla Germania nazista, dove la vita per uno scienziato russo stava diventando assai complicata. Nel marzo del 1934 Cecilia e Sergei si sposarono. Negli ultimi anni di vita scrisse un’autobiografia; il capitolo 22 si intitola “Sull’essere una donna”, qui Cecilia scrisse: “Essere una donna è stato un grande svantaggio. È un racconto di salari bassi, mancanza di status, progressione lenta. Ma ho raggiunto vette che non avrei mai osato immaginare 50 anni fa, neanche nei miei sogni. È stato un caso di sopravvivenza, di persistenza accanita”. E il capitolo si conclude così: “I giovani, e specialmente le giovani donne, spesso mi chiedono un consiglio. Eccolo, valeat quantum. Non intraprendete una carriera scientifica alla ricerca di fama o di soldi. Ci sono modi più semplici ed efficaci per questo. Intraprendete [una carriera scientifica] solo se null’altro vi può soddisfare, perché probabilmente non riceverete null’altro in cambio. Il vostro premio sarà l’ampliarsi dell’orizzonte durante la scalata. E se raggiungerete questa ricompensa, non chiederete altro”. Cecilia seppe trovare la sua ricompensa. TAGS: N-Q, Vita da genio, Payne Gaposkin

CECILIA PAYNE GAPOSCHKIN

“Dalla sua morte nel 1979, la donna che ha scoperto di cosa è fatto l’universo non ha nemmeno ricevuto una targa commemorativa. I suoi necrologi sui giornali non menzionano la sua più grande scoperta. […] Ogni studente delle superiori sa che Isaac Newton ha scoperto la gravità, che Charles Darwin ha scoperto l’evoluzione e che Albert Einstein ha scoperto la relatività del tempo. Ma quando si tratta della composizione del nostro universo, i libri di testo dicono semplicemente che l’atomo più abbondante nell’universo è l’idrogeno. E nessuno si chiede mai come lo sappiamo. “ osí parla Jeremy Knowles, discutendo della totale mancanza di riconoscimento che Cecilia Payne riscuote, ancora oggi, per la sua scoperta rivoluzionaria. La madre di Cecilia Payne le rifiutó i soldi per la sua istruzione universitaria, ma lei vinse una borsa di studio per Cambridge, dove completó i suoi studi, ma l’Universitá non le conferí una laurea perché era una donna (iniziarono a riconoscere le lauree alle donne solo nel 1948). Decise quindi di lasciar perdere e si trasferí negli Stati Uniti per lavorare ad Harvard. Cecilia Payne è stata la prima persona in assoluto a guadagnarsi un dottorato di ricerca in astronomia al Radcliffe College, con quello che Otto Strauve definì “la tesi di dottorato piú brillante mai scritta in astronomia. “ Non solo ha scoperto di cosa è fatto l’universo, ma ha anche scoperto di cosa è fatto il sole, mentre Henry Norris Russell, un collega astronomo, cui di solito viene accreditata la scoperta, è giunto alle sue conclusioni quattro anni dopo Payne, dopo averle detto di non pubblicarle. Cecilia Payne è la ragione per cui sappiamo praticamente tutto ció che sappiamo sulle stelle variabili (stelle la cui luminosità, vista dalla Terra, oscilla). Letteralmente qualunque studio sulle stelle variabili si basa sul suo lavoro. Cecilia Payne è stata la prima donna ad essere promossa a professore ordinario ad Harvard, e le viene spesso riconosciuto di aver aperto la strada alle donne nel dipartimento di scienze di Harvard e in astronomia, oltre ad aver ispirato intere generazioni di donne a intraprendere la scienza. Queste le sue parole:”La ricompensa del giovane scienziato è l’emozione profonda di essere la prima persona nella storia del mondo a vedere o capire qualcosa. Niente può essere paragonato a questa esperienza”. Nel 1925 si laureò in astronomia ad Harvard con la tesi “Stellar Atmospheres, A Contribution to the Observational Study of High Temperature in the Reversing Layers of Stars”. es, A Contribution to the Observational Study of High Temperature in the Reversing Layers of Stars”. L’astronomo Otto Struve la definì “Indubbiamente la più brillante tesi di laurea mai scritta in astronomia”: applicando la teoria della ionizzazione di Meghnad Saha, trovò una stretta correlazione tra la classe spettrale delle stelle e la loro temperatura. Durante un viaggio in Europa nel 1933, Cecilia Payne incontrò l’astrofisico russo Sergei Gaposhkin, che sposò l’anno successivo negli Stati Uniti d’America. Ebbero tre figli, Edward, Katherine e Peter. L’asteroide 2039 Payne-Gaposchkin prende il suo nome. Le è stata dedicata anche una patera (struttura geologica costituita da una struttura crateriforme) sul pianeta Venere. testo porposto da Angela Demontis

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