Incoerenze e "buchi neri" della sinistra

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Vittorio Moioli

Incoerenze e “buchi neri� della sinistra Annotazioni e riflessioni critiche sulla storia del movimento operaio

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Vittorio Moioli

Incoerenze e “buchi neri� della sinistra Annotazioni e riflessioni critiche sulla storia del movimento operaio

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Indice Parte seconda Commenti e osservazioni su alcune fasi storiche e su alcuni teorici della sinistra Capitolo 1° Nascita della sinistra e prime forme organizzative del movimento operaio Capitolo 2° L’elaborazione marx-engelsiana Capitolo 3° I revisionismi della teoria marx-engelsiana Capitolo 4° La costruzione del socialismo in un’economia semi-asiatica Capitolo 5° La mancata rivoluzione in Occidente e l’avvento del fascismo Capitolo 6° La degenerazione staliniana Capitolo 7° Gramsci e la rivoluzione in Occidente Capitolo 8° Resistenza, via italiana al socialismo e boom economico Capitolo 9° Dalla contestazione studentesca e operaia alla crisi del sistema politico Capitolo 10° Il crollo del socialismo reale Parte terza Considerazioni sulla crisi della sinistra Capitolo 11° La sinisra e il fallimento della strategia leninista Capitolo 12° E’ davvero morta la teoria marxiana? Capitolo 13° La rivoluzione continua del capitale Capitolo 14° Potenza, “virtù” e iniquità del capitale Capitolo 15° L’incapacità della sinistra di far leva sulle contraddizioni del capitalismo Capitolo 16° Le condizioni per l’alternativa al capitalismo Capitolo 17° Il nodo cruciale del “general intellect” Capitolo 18° La crisi dello Stato e della democrazia Capitolo 19° La sinistra e lo Stato Capitolo 20° L’organizzazione politica ieri e oggi

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Annotazioni conclusive

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Appendice

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“Le difficoltà non stanno nella forza dell’avversario, nella resistenza della società borghese… la difficoltà sta nel proletariato stesso, nella sua immaturità, o piuttosto nell’immaturità dei suoi capi, dei partiti socialisti”. Rosa Luxemburg

Parte seconda

Commenti e osservazioni su alcune fasi storiche e su alcuni teorici della sinistra

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Capitolo 1°

Nascita della sinistra e prime forme organizzative del movimento operaio 1.1 – La sinistra, figlia del giacobinismo Tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800, l’Europa viene sconvolta da tre rivoluzioni le cui origini sono da far risalire al rinascimento: in Inghilterra ha svolgimento la rivoluzione industriale, in Germania quella filosofica, in Francia quella politica. A ognuno di questi epocali avvenimenti corrisponde una precisa scuola di pensiero: le nuove teorie economiche fanno capo ad Adam Smith, la nuova filosofia ha come fondamento la dialettica di Friedrich Hegel, l’avvento della repubblica vanta come fautori i rivoluzionari borghesi francesi. Sono questi i tempi della comparsa della “manifattura” e della realizzazione di uno straordinario sviluppo del commercio, conseguente alla scoperta di nuove terre e di nuovi mercati. Per poter produrre in modo nuovo, diventa necessario abbattere le rigidità del vecchio sistema feudale, occorre superare l’economia contadina e abolire i dazi che rappresentano un ostacolo alla circolazione delle merci prodotte. L’abbattimento di questi ostacoli, a sua volta, comporta la modificazione delle legislazioni vigenti e il superamento delle istituzioni ereditate dal vecchio ordine sociale. Accade così, almeno nei Paesi più sviluppati, che la borghesia, originaria dei Comuni (dei burgus medievali), discendente da villani e da servi della gleba di ogni genere, fino a quel momento ceto oppresso, tributario della nobiltà feudale, attraverso una lotta incessante, strappa all’aristocrazia, soppiantandola, un posto di comando dopo l’altro fino a prendere completo possesso del potere. E sull’onda della graduale trasformazione dell’ordine economico indotto dalla rivoluzione industriale, essa procede a un ribaltamento delle condizioni e anche degli stessi modi di pensare. Prima ancora che la borghesia francese liquidasse la monarchia, nel continente americano si era verificata la rivolta delle colonie dalla quale sono poi nati gli Stati Uniti d’America. Se è giusto che i fondatori di questo nuovo Paese vengano considerati i pionieri della democrazia politica, torna utile tener presente che la rivoluzione del “nuovo mondo”, nonostante la sua indubbia importanza, non è riuscita ad assumere storicamente quel carattere di universalità che è proprio della rivoluzione francese. Solo i principi di libertà, uguaglianza e fraternità vengono avvertiti e vissuti come principi assoluti, cosmopolitici, emancipatori di tutti gli uomini, indistintamente dalle etnie e dalle condizioni sociali, e proprio per questa loro caratteristica vengono affermati una volta per sempre. La stessa tradizione liberale inglese, prodotto della rivoluzione del 1688-89, poiché non ha messo in discussione l’istituto della schiavitù nelle colonie, e pur essendosi battuta contro il potere assoluto del re, non ha riconosciuto l’idea di popolo, inteso come insieme di soggetti con eguali diritti. Per questa ragione ha assunto storicamente un’importanza minore rispetto alla rivoluzione francese. Solo la “presa della Bastiglia”, dunque, ha costituito il simbolo del sopravvento della borghesia sul regime feudale. Ed è proprio in questa storica circostanza che la nuova classe emergente si è dimostrata al mondo come forza egemone nella lotta contro il vecchio sistema aristocratico e, tramite la sua rivoluzione economica e quella del pensiero, ha compiuto un passo da gigante nel progresso dell’umanità. Mentre il sistema feudale e aristocratico fondava la sua visione del mondo sulle verità rivelate da dio, e il potere monarchico risultava intrecciato con quello ecclesiastico, la borghesia è stata portatrice di verità laiche e razionali, all’insegna appunto di valori quali la liberté, l’egalité e la fraternité. Socialmente la nuova classe emergente è composta da commercianti e industriali in fieri, ma vanta la pretesa di essere la rappresentante di tutte le classi oppresse ed è in nome anche di queste classi, del proletariato e dei contadini in primo luogo, che essa “fa la rivoluzione”. I rivoluzionari francesi non prevedono e non dichiarano affatto di perseguire l’ordine capitalistico, essi si propongono di affermare universalmente i diritti dell’uomo. In questo spirito, come recita la 7


“Dèclaration” del 1789, proclamano che “resistere all’oppressione dei governanti non è solo un diritto, ma un dovere”. Essi dimostrano pertanto di non avere piena consapevolezza del loro compito storico, ma di essere sospinti nel loro agire soprattutto dai processi storici. La rivoluzione francese concentra comunque nel suo arsenale spirituale, e nella sua prassi, le più importanti conquiste dell’esperienza umana, della scienza e della coscienza sociale europea. Essa sintetizza i risultati della Riforma e dell’Illuminismo. Nessuna delle rivoluzioni che l’hanno preceduta si è mai spinta fino alle sue altezze morali. Nessuna di queste aveva mai proclamato ideali democratici tanto nobili. Parte integrante della preparazione ideale della rivoluzione francese è infatti la rivendicazione della felicità, un’aspirazione che era già presente nei “diritti inalienabili” proclamati dai rivoluzionari americani, quali appunto “la Vita, la Libertà ed il Perseguimento della Felicità”, ma solo ora essa viene affermata con la dovuta determinazione. Quella francese è stata una durissima rivoluzione anche sul piano culturale. Non per caso, nel suo corso, vengono distrutti, giacché considerati “inutili”, una gran massa di libri ecclesiastici (messali, libri di devozione, ma non solo) confiscati ai conventi. In considerazione di questa sua caratteristica che indubbiamente la rende ricca di nuovi valori e di una moderna visione del mondo, è però da notare che nessuna altra rivoluzione aveva mai riscontrato un così palese divario tra le attese suscitate e la realtà degli accadimenti. La contraddizione tra la Dichiarazione che riconosce i diritti “egoisti” del singolo e insieme persegue una politica di assistenza sociale di portata comunitaria veicolata dallo Stato, e pure tra la piena affermazione della proprietà privata e la sua messa in discussione attraverso tutta una serie di misure tendenti a limitarla in vista dell’interesse generale, non sfugge allo stesso Marx nonostante egli considerasse la rivoluzione francese uno straordinario evento del progresso umano. La tanto proclamata libertà, infatti, nella pratica, si rivela ben presto limitata. Il dominio della ragione appare idealizzato, le solennità della giustizia e dell’uguaglianza ridotte a paragrafo di legge, la nobiltà della morale e della coscienza contaminata dall’ipocrisia, la sacra fede negli ideali ridotta a fariseismo. In sostanza, le attese del popolo vengono tradite. Se è vero che essa si presenta come una rivoluzione popolare non solo per le sue aspirazioni, ma anche per l’ampia e attiva partecipazione delle masse, la sua direzione è esclusiva prerogativa della borghesia, rivelandosi in contraddizione con lo stesso spirito che l’ha animata e con i suoi stessi principi. Le masse popolari, per esempio, aspirano non solo alla parità politica, ma anche a una parità sociale e sono convinte che la rivoluzione possa soddisfare questa loro esigenza, ma questo non avviene. Nel compiere il suo disegno rivoluzionario la borghesia ha ovviamente bisogno di avere degli alleati, anzi dei validi combattenti per la sua causa. A prendere le armi e a battersi sulle barricate non sono però i rispettabili mercanti o gli eloquenti professori che predicano i nuovi ideali, ma proprio le classi popolari; salvo qualche eccezione, a scorrere nelle battaglie non è il sangue borghese, ma quello della plebe. E questo sta anche a spiegare che senza il decisivo apporto del popolo nessuna rivoluzione borghese avrebbe potuto avere successo. Conquistato il potere, la borghesia non si dimostra perciò in grado, né tanto meno intenzionata, di soddisfare le esigenze e le aspettative del popolo. La condizione dei proletari continua a essere quello di sempre, cioè di esseri sfruttati e produttori di prole, come li aveva classificati Servio Tullio nel 6° secolo a.C.. La borghesia ha come obiettivo l’esclusiva liberazione di se stessa e il modello di società al quale dà vita risulta formato ancora da classi sociali in antagonismo tra di loro. E’ questa una contraddizione che inevitabilmente è destinata a emergere e ad esplodere assai presto. Non trascorre infatti molto tempo dalla rivoluzione del 1789 che il proletariato, rappresentato nel parlamento repubblicano dalla componente dei giacobini, si rende conto che le sue aspettative non possono essere esaudite. E mentre constata che a trionfare sono gli interessi della nuova classe dominante e che il suo ruolo continua a essere subalterno, prende coscienza del vero significato che

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assumono i termini di “nazione” e di “stato”, cioè dei due assunti rivoluzionari che, di fatto, risultano funzionali solo alla vincente borghesia escludendo di nuovo dal potere i ceti popolari. In sostanza, rispetto al vecchio sistema feudale, mentre le condizioni di vita del nuovo ceto borghese risultano cambiati, per coloro che stanno ai gradini inferiori della scala sociale rimangono pressoché identiche al passato. Alla conquista dell’eguaglianza civile e giuridica non ha fatto seguito l’eguaglianza sociale ed economica. La constatazione della disparità tra propositi e conquiste reali non provoca però automaticamente e immediatamente un conflitto aperto. Il processo di acquisizione di una coscienza politica da parte del proletariato e la conquista di una propria autonoma organizzazione, richiedono tempo e pazienza. Trascorrerà infatti più di mezzo secolo dall’assalto alla Bastiglia prima che le classi subalterne prendano atto della insanabile contraddizione di interessi di cui è portatrice la rivoluzione dell’89. E solo quando essa diverrà evidente, il proletariato si presenterà in veste di protagonista politico in proprio. La sua riscossa avverrà nel corso dei moti del 1848 e le dimensioni di quel sommovimento saranno tanto vaste da scuotere l’intera Europa. E’ proprio a partire dai moti quarantotteschi che decolla quel processo di acquisizione da parte della classe operaia di una coscienza critica e di una sua azione conseguente che si esplicitano nei primi tentativi di sperimentazione di una propria organizzazione sociale e politica. Così come il proletariato è il prodotto del capitale e non è separabile da esso, la sinistra è una costola della borghesia. Essa ha origine dall’ala giacobina dei rivoluzionari borghesi francesi. L’idea della politica come conflitto fra “sinistra” e “destra” nasce proprio in Francia, alle Assemblee rappresentative della nascente repubblica, allorquando i deputati sono chiamati a prendere posto ai lati del tavolo della presidenza. Essi si dispongono in due distinti gruppi: alla destra si schierano i conservatori, alla sinistra i democratici e i progressisti. Da questo preciso momento i due termini assumono un significato simbolico: destra sta a significare attaccamento a una struttura gerarchica e al godimento di privilegi; sinistra, all’opposto, esprime desiderio d’infrangere quella stessa struttura di potere e di lottare per l’eguaglianza e la giustizia sociale. C’è chi ha sostenuto che la sinistra sarebbe figlia della massoneria, dal momento che è dalle logge massoniche del Settecento che originano le grandi correnti del pensiero politico contemporaneo, quali il liberalismo, il repubblicanesimo, la democrazia cristiana e il socialismo. In effetti, nella seconda metà dell’Ottocento, numerosi esponenti del filone anarco-repubblicano della sinistra, compresi Bakunin e Proudhon, furono affiliati alla massoneria; e pure i due generi di Marx, Lafargue e Longuet, risulta fossero iscritti alle logge. Fra gli italiani illustri, sono da considerare aderenti alla massoneria, tra gli altri, Giuseppe Garibaldi, Arturo Labriola e Andrea Costa. Nel campo socialista, la componente riformista e la direzione del movimento sindacale sono rimasti massoni fino alla prima guerra mondiale, mentre ai tempi nostri sono rimasti tali molti dirigenti dell’Internazionale socialista, soprattutto belgi e francesi. Nel campo comunista, invece, l’incompatibilità dell’appartenenza a tale organizzazione è stata fatta scattare nel 1922. Se è dunque vero che alcuni assertori delle idee socialiste hanno aderito alle logge massoniche, è un dato di fatto indubitabile, che i termini “sinistra” e “destra” sono produzione esclusiva degli scontri parigini all’indomani della rivoluzione dell’89. La sinistra è dunque da considerarsi figlia del giacobinismo e non già della massoneria. Del resto, non è un caso che il socialismo abbia rappresentato nel tempo e continui ancora oggi a rappresentare in sé la coniugazione dei valori che sono stati propri della rivoluzione francese, quelli cioè della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità. 1.2 – Le utopie dei primi comunisti e socialisti Ben presto il regime giacobino si viene a trovare in un vuoto sociale che sarà la causa della sua caduta. A decretarne la sconfitta non è solamente la sua incapacità di governare rispettando i

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principi proclamati durante la rivoluzione e ad articolare quindi le nuove istituzioni secondo il loro dettato, ma anzitutto è la sua stessa incapacità di stabilire un rapporto positivo con il popolo. Non è un caso, del resto, che Robespierre si trovi obbligato a ricorrere prima al “Governo di salute pubblica” e poi al “Terrore” da lui inteso quale mezzo per conseguire “una giustizia rapida, severa e inflessibile” e per ”purificare la Virtù della direzione rivoluzionaria”. Di fatto, queste creature istituzionali non sono altro che il segno dell’impossibilità di governare con mezzi democratici la situazione che si è venuta determinando dopo la presa del potere e, soprattutto, di rispondere alle incalzanti aspettative dei ceti popolari. Va notato che è proprio nel periodo del “Terrore” che si assiste al sopravvento di uomini privi di principi politici e morali e che trovano spazio massacri, vendette, pratiche lucrose, tresche e persino orge. E pensare che sia Kant che Hegel hanno sostenuto che il “Terrore” ha avuto una funzione emancipatrice e liberatrice! E’ pur vero, d’altra parte, che la Vandea è da considerarsi una delle più eloquenti testimonianze di questo insieme di difficoltà la quale ha avuto connotazioni secessioniste e indipendentiste. Le popolazioni di quella regione erano soffocate dalla politica di accentramento burocratico-militare che perdurava dall’antico regime, una politica a cui i giacobini non hanno potuto rinunciare. La concessione dell’indipendenza o anche solo dell’autonomia avrebbe comporttato infatti una controrivoluzione. Ed è proprio una tale situazione di incongruenze, di incoerenze e di caos che provoca il “Termidoro”, cioè l’esecuzione dello stesso Robespierre e di Saint-Just, la costituzione del Direttorio e anche la conseguente abolizione del suffragio universale. Alcuni storici hanno considerato il processo involutivo della rivoluzione francese come una regola della storia: quando troppo grande diventa il solco fra maturità dei bisogni popolari e l’opacità del sistema politico – secondo loro - diviene inevitabile un ribaltamento dei “poteri”. Sta di fatto che ogni rivoluzione avviene in tempi accelerati, nel giro di pochi anni brucia interessi, comportamenti, modi di pensare consolidati nel corso di secoli e i cambiamenti che ne conseguono sono spesso tanto violenti da favorire irrigidimenti e degenerazioni ingovernabili con metodi democratici e domabili solo attraverso un regime autoritario. Non devono pertanto meravigliare né i fallimenti di Robespierre, né la piega che il processo rivoluzionario francese prende a fine secolo con il sopravvento di Napoleone Bonaparte, il quale trasforma le guerre di liberazione in guerre di conquista e muta la lotta rivoluzionaria della borghesia contro il feudalesimo in una nuova e moderna forma di asservimento di popoli. L’originario spirito rivoluzionario che era messianico di liberazione degenera appunto in “bonapartismo imperiale” e il Paese che ha proclamato i principi di libertè, egalitè e fraternitè si trasforma in una potenza coloniale. A denunciare i giacobini di tradimento della rivoluzione e a scagliarsi contro il “Termidoro” ci prova Francois-Noel Babeuf, considerato il capostipite dei comunisti utopisti. Egli si rivolta contro il nuovo potere in nome dell’uguaglianza e dichiarandosi interprete degli interessi del popolo che si sente tradito dalla borghesia, dà vita alla “Congiura degli uguali”. Rilancia così con forza le idee democratiche e i principi che hanno ispirato la rivoluzione, e si dice convinto che “l’uguaglianza non fu altro che una bella e sterile finzione della legge” e che “la rivoluzione francese non è che l’avanguardia di un’altra rivoluzione più grande, più solenne: l’ultima rivoluzione”. Per questo egli viene giustiziato. Una corrente di comunismo utopistico è presente in Francia fin dai primi anni del XVIII secolo e ha come principale esponente l’abate Meslier. Più avanti nel tempo a rappresentare questa corrente di pensiero sono gli illuministi Gabriel Bonnot de Mably e Morelly. In genere gli aderenti a tali concezioni sono di estrazione aristocratica e il loro “comunismo radicale” ha un carattere elitario e idealistico. Tra la fine del 18° secolo e l’inizio del 19°, in alcuni Paesi d’Europa si afferma anche una corrente di socialismo utopistico che, unitamente alle idee romantiche di comunismo, rappresenta il punto più alto cui poteva giungere a quel tempo il pensiero razionalistico.

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Il socialismo utopistico è caratterizzato da due grandi correnti, e precisamente dall’utopismo dell’antichità classica, rappresentato da Tommaso Moro, il quale pensa il presente in funzione dell’avvenire contrapponendo alla società esistente un progetto alternativo, e da Tommaso Campanella; e poi dalla filosofia francese, da Jean-Jacques Rousseau anzitutto, il quale è un acerrimo nemico dei potenti e dei ricchi e si scaglia contro il capitalismo in formazione esaltando la giustizia sociale e l’indipendenza dell’uomo. Durante la rivoluzione francese l’utopia si fonde con un mito assolutamente nuovo, quello appunto della rivoluzione, che risulta totalmente sconosciuto al pensiero politico classico. Secondo Lévi-Straus, l’epoca dell’illuminismo è un’età calda per la produzione di utopie. Se sino alla fine del Settecento l’uomo si collegava all’idea di isole perfette, collocate nello spazio, le quali non avevano alcun rapporto con la realtà se non quello di rappresentare il contrario di essa, con la fine di quel secolo l’utopia si sposta dallo spazio geografico al tempo e viene sostenuto che pensare a società future perfette, o migliori, è possibile. Per di più, si crede che le grandi trasformazioni siano iscritte quasi geneticamente nelle cose. Il comunismo utopistico di Babeuf non fonda ovviamente sul cambiamento del sistema di produzione, ma si limita a prescrivere una ripartizione della ricchezza, il cambiamento invocato fa leva cioè sul consumo. Egli è contro la proprietà privata, sostiene l’abolizione dell’eredità e lotta per l’uguaglianza sostanziale detestando quella formale. Scrive infatti: “Non più proprietà privata della terra: la terra non è di nessuno. Noi reclamiamo, vogliamo il godimento comune dei frutti della terra: i frutti appartengono a tutti. Dichiariamo di non poter ulteriormente permettere che la grande maggioranza degli uomini lavori e sudi al servizio e per il piacere di una piccola minoranza”. Un’utopia la sua che è in sintonia con uno dei massimi capi della rivoluzione francese, LouisAntoine-Leon Saint-Just, il quale redarguisce il popolo dicendo: “Non tollerate che ci sia nello Stato un solo povero e infelice…” La filosofia di quel tempo, del resto, porta con sé dal passato una forte eredità di comunitarismo e, in alcuni casi, l’idea che una società senza proprietà privata sia sotto certi aspetti più naturale di quella in cui essa è riconosciuta e protetta, e ad ogni buon conto le sia storicamente anteriore. Si consideri che agli inizi della loro storia negli Stati Uniti, Paese che poi diventerà la roccaforte del capitalismo mondiale, da parte dei primi immigrati europei vengono fatti degli esperimenti di agricoltura comunista. La colonia di Jamestown come pure quella di Plymouth, e i primi insediamenti nell’America del Nord, vengono fondati nei primi decenni del 1600 su principi comunisti ispirati da convinzioni religiose. Poiché però tutti rischiano il fallimento, dal momento che molti dei membri non eseguono la loro giusta parte di lavoro, dopo qualche anno passano alla proprietà privata continuando così a sopravvivere. Nei primi decenni dell’Ottocento non solo in Francia, ma anche in Inghilterra e negli stessi Stati Uniti si registra una fiorente presenza di utopisti, sia sul fronte teorico che su quello pratico. E’ l’epoca in cui emergono due interpretazioni di questa corrente di pensiero: mentre negli ambienti del proletariato, per definire questo movimento, si ricorre al termine “comunismo”, sottintendendo l’esistenza di un programma sociale, negli ambienti borghesi si preferisce usare il termine “socialismo” che sta invece a sottolineare un carattere più analitico e critico rispetto a quello programmatico. In Italia, l’utopismo ha scarsa rilevanza e mantiene un carattere prevalentemente provinciale. Suo principale rappresentante è Filippo Buonarroti, fedele amico di Babeuf. E’ da rilevare che il pensiero utopistico risulta particolarmente radicato nell’ideologia cristiana. Nei primi decenni dell’Ottocento il filosofo francese Claude-Henry Saint-Simon scrive un testo intitolato non a caso “Nuovo cristianesimo”. La sua dottrina combatte la povertà e la disparità sociale e respinge decisamente i principi di libertà e di uguaglianza propugnati dalla rivoluzione francese in quanto li giudica individualistici e tendenti a portare alla concorrenza e all’anarchia economica. E’ proprio alla scuola di Saint-Simon che si fanno risalire concetti come “lo

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sfruttamento dell’uomo sull’uomo” e “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro”. I saint-simoniani si preoccupano comunque più della regolamentazione collettiva dell’industria e meno della proprietà cooperativa della ricchezza. Tra i più importanti utopisti di fede cristiana, o comunque da essa influenzati, sono da ricordare il prete Felicitè Robert Lemannais il quale si lamenta perché “dopo 18 secoli di cristianesimo viviamo ancora nel sistema pagano”. Egli predica contro le imposte statali e contro la delega e insiste sui doveri ricordando che “il diritto di rifiutare l’imposta, correlativo al diritto d’accettarla, è incontestabile. E’ stato riconosciuto in Inghilterra sotto Carlo I, in Francia sotto la restaurazione; lo si riconosce adesso in Spagna”. Sono ancora da ricordare Alphonse Constant, che redige la Bibbia della libertà interpretando a modo suo i vangeli, e Richard Lahautiére, che scrive: “Se dio esiste egli deve pur maledire e dannare tutti questi pretesi rappresentanti che predicano il cielo e derubano la terra…. Avere al di là dei propri bisogni è appropriarsi dei beni del proprio vicino”. Come i cristiani delle origini, la maggior parte di loro (ma così sarà anche per quelli che vivranno nell’epoca precedente la prima guerra mondiale), ripongono le loro speranze in una grande palingenesi apocalittica, cioè in una resurrezione la quale dovrebbe avere l’effetto di cancellare tutti i mali sociali e instaurare una società più giusta e felice. Loro caratteristica comune è quella di mettere al centro delle loro analisi e delle loro azioni il momento sociale subordinando ad esso quello politico. Ma anche utopisti comunisti come Etienne Cabet e Wilhelm Weitling mettono in relazione le loro tesi con la religione. Il primo considera Cristo il massimo apostolo del comunismo, mentre il secondo fa risalire il comunismo al cristianesimo primitivo. A dire di quest’ultimo, fino al secolo dell’era cristiana i seguaci di Cristo, eredi dei suoi insegnamenti, sarebbero vissuti in comunanza di beni. Condizione per essere accettati nella comunità cristiana sarebbe stata la vendita dei beni di chi veniva accolto e la spartizione del ricavato tra i poveri. Weitling è convinto che “se si aspira a raggiungere lo stato di una felicità generale, si deve volere che ciascuno abbia e goda di quanto ha bisogno e nulla più”. E ricorda come Gesù Cristo abbia detto ai suoi: “Voi non dovete credere che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma la spada (Matteo, capo X, 34)”; “Anche Gesù era un comunista, insegnava il principio della comunanza e la necessità di questo principio. Gli spartani vissero per 500 anni in comunità di beni”. Nel continente europeo a ispirarsi al comunismo sono anche i “rappiti” e i “separatisti”. Gli utopisti credono nell’ineluttabilità del progresso e sono influenzati dal razionalismo: la ragione fornisce la base di ogni azione umana per cui “la superstizione, l’ingiustizia, il privilegio e l’oppressione (devono) essere soppiantati dalla verità eterna, dalla giustizia eterna, dall’eguaglianza fondata sulla natura, dai diritti inalienabili dell’uomo”. Il socialismo utopistico non é dunque scientifico e proprio per questa ragione alla prova della storia si rivelerà fallimentare. Esso è però denso di una carica morale straordinaria. Gli utopisti operano perché l’uomo sia felice; manifestano un profondo senso dell’uguaglianza e della giustizia sociale; si dedicano alla causa al punto di andare in carcere e morire per essa. Louis Auguste Blanqui, per esempio, dei 76 anni che ha vissuto ne ha trascorsi 36 in carcere. Accanto ai “sognatori” esistono anche gli utopisti pratico-teorici tra i quali merita di essere ricordato in primis Robert Owen. Nel giro di qualche anno egli riesce a trasformare una popolazione inglese di 2.500 persone in una perfetta colonia modello. Si tratta di un’esperienza che ripeterà nel continente americano con la realizzazione della famosa colonia comunista di New Harmony. Owen mostra forte ostilità verso i tre grandi ostacoli che considera un impedimento alla riforma sociale e cioè la proprietà privata, la religione e la forma del matrimonio. Anche Charles Fourier sperimenta nel concreto la sua teoria dell’armonia universale. L’organizzazione sociale cui dà vita è la “falange”, una società di circa 1.800 persone che abitano il “falansterio” dove l’esistenza è comunitaria e dove vige l’armonia degli interessi di tutti. Anche lui

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identifica la condizione umana primitiva con l’Eden e lotta insistentemente per l’emancipazione della donna, causa per la quale è ostinatamente impegnata l’operaia Flora Tristan. Non va poi dimenticato Louis Blanc che si batte per la creazione di un ministero del progresso il quale organizzi una rete di “opifici sociali”, cioè di stabilimenti industriali collettivistici, sostenuti dallo Stato. Esperienze fondate sulla comunità dei beni sono presenti anche in America per iniziativa degli shakers. Lo stesso Cabet lancia nel 1847 un progetto per la costruzione di una colonia comunista in America. Sul fronte dei diritti si distinguono invece, fra gli altri, Albert Laponneraye che stende una dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, nella quale il diritto di proprietà viene limitato all’obbligo del rispetto dei diritti altrui e il governo viene concepito come opera e proprietà del popolo, mentre i funzionari pubblici vengono considerati suoi commessi. Victor Considérand, che esprime diffidenza nei confronti dei politici e delle istituzioni, sostenendo che “coloro i quali cercano la felicità sociale attraverso la politica e le trasformazioni costituzionali inseguono una chimera e sognano un’utopia”. Poi August Becker, che critica a fondo la funzione della religione, ritenendo che sia “passato il tempo in cui ci si faceva prescrivere dal cielo le istruzioni e, ad onore di dio, ci si cingeva i fianchi con un cilicio. Non rinunciare, ma godere è la parola del giorno” e che “nella parola danaro sta il maledetto incantesimo che ha ingannato il popolo sulla sua felicità”. Alla vigilia del ’48, sotto la bandiera del socialismo, si aggregano due diverse categorie di personaggi: da un lato, ci stanno i seguaci dei vari movimenti utopistici presenti soprattutto in Inghilterra e in Francia, ormai ridotti però a semplici sette in fase di rapida estinzione; dall’altro, ci sono i molteplici dulcarama sociali che si propongono di guarire le miserie dell’umanità senza fare alcun male né al capitale né al profitto. Le grandi utopie educative, che vengono intese come una forza che controbilancia il potere alienante e disumanizzante dello “spirito commerciale”, di fatto si rivelano nel tempo completamente inefficaci ad arginare la diffusione dell’alienazione e della reificazione che il capitalismo impone in tutte le sfere dell’esistenza umana. A causa della loro debolezza teorica e politica, dopo il fallimento dei moti del ’48, diversi appartenenti alla corrente del socialismo utopistico, specie coloro che fanno parte della setta dei saint-simoniani, diventano apostoli dell’industrializzazione e si dedicano a un imprenditorialismo avventuroso e dinamico, diventando capitani di industria e soprattutto costruttori di mezzi di comunicazione. Anche se la critica dei sostenitori del socialismo utopistico è rivolta in particolare alla produzione di merci e al ruolo del denaro, la loro concezione rimane nel complesso oggettivamente entro i limiti dell’orizzonte borghese, per quanto soggettivamente essa neghi alcune caratteristiche essenziali del capitalismo. Il socialismo utopistico – osserva Lenin – rendeva oggetto di critica la società capitalistica, “la condannava, la malediceva, sognava di distruggerla e fantasticava di un regime migliore”, e contemporaneamente voleva convincere i “ricchi dell’immoralità dello sfruttamento”… non dava una spiegazione dell’“essenza della schiavitù del salariato sotto il capitalismo”, né portava alla luce le “leggi dello sviluppo”, né infine, individuava la “forza sociale capace di divenire la creatrice di una nuova società”. Gli utopisti progettano, infatti, un superamento dell’ordine costituito della società tramite un sistema di rapporti nella forma di un modello largamente immaginario, cioè come un postulato morale piuttosto che come una necessità inerente alle contraddizioni della struttura esistente della società. Il loro socialismo viene presentato come alternativa ai pericoli di decadenza della civiltà insiti in uno sviluppo incontrollato delle forze produttive e assume la connotazione programmatica di appellativo generico per tutte le aspirazioni a una società organizzata su un modello associazionistico o cooperativo, ossia sulla proprietà cooperativa anziché privata. 13


Dal punto di vista teorico, l’utopismo risulta incompatibile con la dialettica della concezione marxiana dal momento che questa non assegna affatto un potere esclusivo a un particolare fattore sociale, ma presuppone la reciprocità dialettica di tutti i fattori. Solo Louis Auguste Blanqui si distingue dalla generalità dei pensatori di quest’epoca, dal momento che la sua dottrina sulla lotta di classe si approssima al pensiero marxiano e abbozza un socialismo scientifico. E’ comunque significativo il fatto che a formare la parte essenziale delle concezioni di questi precursori del comunismo e del socialismo siano le utopie educative orientate verso il “lavoratore”. Perché il socialismo utopistico lasci il posto al socialismo scientifico, cioè al marxismo, il movimento operaio dovrà fare i conti, oltre che con la sua eredità e con i suoi strascichi, anche con il proudhonismo e il bakuninismo. Pierre-Joseph Proudhon è un filosofo e politico francese che lotta a fondo contro la proprietà e i proprietari ed è fautore, assieme al russo Bakunin, dell’anarchismo. Per lui “la proprietà è un furto” e in alternativa al progetto politico egli teorizza l’autogestione operaia. Agisce perciò contro il comunismo e contro lo “Stato autoritario”. Definisce il suffragio universale “il mezzo più sicuro per far mentire il popolo”. E’ da notare che egli è stato membro dell’Assemblea nazionale. Per poter concedere il credito gratuito fonda una banca, la “Banca del Popolo”, che però fallisce. Di fatto, egli si espone a tutte le privazioni per combattere l’ordine sociale esistente. Nonostante questa sua dedizione, finisce per rivolgere una sterile critica moralistica alla società borghese. Proudhon - a detta di Bakunin - rimane per tutta la vita un incorreggibile idealista che si lascia influenzare ora dalla Bibbia, ora dal diritto romano. Anche Michail Aleksandrovic Bakunin, sempre pronto a ingolfarsi in ogni sorta di congiura dentro e fuori l’Internazionale, è in perenne contrasto con Marx che, in opposizione all’anarchia, sostiene la necessità dell’organizzazione quale fondamento di un qualsiasi ordine. Seppure gli anarchici, al pari del fondatore del socialismo scientifico, rifiutino lo Stato come strumento di oppressione nelle mani di una classe dominante e mirino a sostituirlo con “l’organizzazione delle forze produttive e dei servizi economici”, essi rifiutano qualsiasi forma di statualità, seppure provvisoria. E su questo terreno il contrasto è radicale. In una lettera indirizzata a Herwegh, a riguardo dell’”avversario” tedesco, Marx appunto, Bakunin scrive: “In una parola, menzogne e idiozie, idiozie e menzogne. In questa compagnia non c’è alcuna possibilità di respirare liberamente. Io me ne tengo lontano e ho dichiarato fermissimamente che non vado nella loro Associazione operaia comunista e non voglio avere niente a che fare con essa”. I contadini e i sottoproletari apparivano ai suoi occhi come le vere forze motrici della rivoluzione. Anche la sua esistenza, oltre che da anni di carcere, è segnata da momenti di vera e propria miseria: ci sono giorni, infatti, in cui Bakunin non ha in tasca più di cinque centesimi e non può procurarsi nemmeno una tazza di tè. E’ il caso di ricordare che l’anarchismo, così come è avvenuto per il marxismo, ogni qualvolta è stato dato per morto e sepolto è puntualmente risorto. Perché sorgano le prime forme di organizzazione politica bisognerà comunque attendere proprio il passaggio dal socialismo utopistico al socialismo scientifico. 1.3 - La travagliata conquista dell’autonomia politica Datare le tappe del processo evolutivo che caratterizza il movimento operaio è cosa assai complicata. Si ritiene che il socialismo assuma per la prima volta la forma di movimento sociale solo dopo la guerra civile inglese, cioè alla metà del XVII secolo. Prima di allora, sempre in Inghilterra, Gerrard Winstanley, che è da considerarsi uno dei più grandi pensatori socialisti dei Paesi di lingua inglese, aveva dato vita al movimento dei Diggers (scavatori) che rappresenta la più antica espressione pratica di socialismo.

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In Francia, le prime forme organizzative di socialismo rivoluzionario appaiono tra la fine del ‘700 e i primi dell’800 e sono opera di nuclei piccolo-borghesi e di plebei che appoggiano la dittatura giacobina e che successivamente, come abbiamo visto, rimangono delusi per le mancate riforme. Il primo significativo movimento organizzato di lavoratori si realizza nel 1838 in Inghilterra, cioè proprio nel Paese dove ha luogo la rivoluzione industriale: si tratta del movimento cartista. Sempre oltre Manica, nel periodo successivo, trova sviluppo il socialismo cristiano di Charles Kingsley e Frederik Denison Maurice. L’affermazione del socialismo come proposizione politica a diffusione più ampia, cioè a livello continentale, avviene negli anni ‘40 dell’Ottocento. Le formazioni politiche che prendono corpo in questo periodo, però, non si propongono ancora progetti rivoluzionari. A seguito del procedere dell’industrializzazione, nei Paesi progrediti si registra una crescita notevole dell’occupazione e, con il conseguente incremento dei salari, aumenta la prosperità per l’insieme delle classi sociali. La diffusione di questo relativo benessere, come ebbero a commentare gli stessi rivoluzionari del tempo, “per la lunga prosperità, le masse debbono essere cadute in profondo letargo”. Considerata comunque la debole capacità di lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro, sia del movimento dei lavoratori della campagna sia di quello degli emergenti operai di fabbrica, fino almeno alla metà del secolo, l’azione a favore di riforme sociali assume un carattere sporadico e non si dimostra in grado di conseguire alcun risultato di rilievo. La prima organizzazione politica di operai a carattere internazionale sorge nel 1847 a Londra e si tratta della “Lega dei comunisti” la quale rappresenta la voltura della “Lega dei giusti”, fondata dai socialisti utopisti rivoluzionari francesi. Essa viene diretta da Marx e da Engels fino al 1852. La “Lega dei comunisti” ha come suo fondamentale obiettivo la fondazione di associazioni culturali di operai il cui compito è quello di garantire la diffusione della propaganda politica e una loro estensione organizzativa. La funzione delle associazioni che ad essa fanno riferimento consiste nel destinare un giorno alla settimana alla discussione politica e un altro ai trattenimenti sociali (dal canto alla recitazione). Laddove è possibile vengono istituite biblioteche sociali e scuole per l’istruzione elementare degli operai. Per la propaganda politica viene scelta la forma dei banchetti, o pranzi collettivi, allo scopo di sfuggire ai controlli polizieschi sulle pubbliche riunioni. A dire di Engels, la “Lega” è dapprima “poco più che una sezione tedesca delle società segrete francesi”. Essa emana una serie di rivendicazioni che propugnano la repubblica una e indivisibile, il suffragio democratico, l’istruzione universale gratuita, l’armamento del popolo, una imposta progressiva sul reddito, limitazioni del diritto di successione, la proprietà statale di banche, ferrovie, canali, miniere, ecc. e anche un’agricoltura su grande scala, scientifica e collettivizzata. A giudizio di Antonio Labriola la “Lega dei comunisti” ha rappresentato “un partito, che nel suo largo ambito, aveva già nell’animo, negli intenti e nell’azione la prima Internazionale dei lavoratori”. E’ proprio su commissione della “Lega dei comunisti” che Marx e Engels stendono il “Manifesto del partito comunista” il quale, pubblicato nel ’48, costituisce il più importante documento della storia del socialismo. Joseph Alois Schumpeter lo ha definito “un panegirico delle realizzazioni borghesi, senza paralleli nella letteratura economica”. Il “Manifesto” non contiene nessun pensiero che Marx e Engels non avessero già espresso nei loro scritti precedenti, non rivela in sostanza nulla di nuovo, ma si limita a riassumere la concezione del mondo dei suoi autori. Esso rompe definitivamente con il socialismo utopistico e con quello animato da quei filantropi che intendono raggiungere i loro scopi rivoluzionari con mezzi pacifici e concilianti facendo appello a tutta la società senza alcuna distinzione. Le proposizioni più importanti in esso contenute sono: l’abolizione della proprietà terriera, una imposta progressiva sui redditi, l’abolizione dell’eredità, l’accentramento del credito nelle mani dello Stato per mezzo di una banca nazionale, l’accentramento dei mezzi di trasporto, la moltiplicazione delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, l’uguale obbligo di lavoro

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per tutti, una educazione pubblica e gratuita, l’abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche alle condizioni di quel tempo. Questo documento, per la prima volta, dà alla classe operaia la coscienza di se stessa, la rende classe in sé e per sé, le indica il cammino che deve percorrere adeguando i suoi obiettivi concreti e la sua azione alla situazione del tempo. Esso ha però una circolazione limitatissima e solo dopo la rivoluzione russa del 1917 diventerà una sorta di breviario diffuso in milioni di copie ai quattro angoli della Terra. E’ dunque con le lotte di metà ‘800, le quali contribuiscono alla distruzione dei residui feudali e, involontariamente, favoriscono il consolidamento del potere della borghesia e del dominio del capitale, che prende avvio il processo di maturazione delle classi lavoratrici e popolari. Tocqueville sostiene nei suoi “Ricordi” che la rivoluzione del ’48 ha un carattere sostanzialmente socialista dal momento che sono già fortemente presenti nel movimento “le teorie economiche e politiche“ che pretendono di far “credere che le miserie umane siano opera delle leggi e non della provvidenza, e che si potrebbe sopprimere la povertà cambiando l’ordinamento sociale”. Sta di fatto, che seppure a ritmo lento e in modo contraddittorio, proprio in forza di quelle lotte e con il maturare di una coscienza di classe anche per merito dell’opera della Lega dei comunisti, il proletariato incomincia a conseguire i primi significativi risultati sul piano politico-organizzativo. Nel momento in cui si libera dai condizionamenti della borghesia e imbocca la strada che conduce alla sua autonomia, il nascente movimento s’imbatte però in una nuova deludente sconfitta. Nello scontro con il potere, la cui massima espressione è rappresentata dalla “Santa Alleanza” che rappresenta il patto di solidarietà tra gli ordinamenti borghesi più potenti d’Europa, esso si trova avverse le masse contadine. Queste, infatti, quando non assumono un ruolo di spettatrici passive, aiutano attivamente le autorità costituite nel reprimere la rivolta che si sprigiona nei centri urbani. Alla fine, dunque, a trarne vantaggio è ancora la borghesia. Dopo il ’48, la rivoluzione francese, presa nel suo complesso, viene messa in stato d’accusa dalle prime organizzazioni del proletariato per aver sacrificato la libertà sull’altare dell’uguaglianza formale. Nel corso dei primi decenni della seconda metà dell’Ottocento, parallelamente all’estendersi del capitalismo in tutto il mondo, anche le organizzazioni del movimento operaio fanno finalmente registrare uno sviluppo sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo. E’ infatti attraverso la realizzazione delle prime forme di organizzazione politica che i movimenti di natura sociale dei lavoratori, impegnati a rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro, incominciano ad affrontare i problemi della modernizzazione, dei diritti di proprietà e della giustizia economica; in sostanza, si occupano di politica. Il processo di politicizzazione del movimento operaio si sviluppa però con difficoltà, anche perché i gruppi e i partiti politici della piccola borghesia hanno la pretesa che la classe operaia rinunci ad ogni posizione rivoluzionaria, dimenticando in questo modo che essa stessa, per battere l’aristocrazia, ha dovuto fare la rivoluzione. Lo sganciamento della classe operaia dalla tutela della borghesia liberale avviene soprattutto in forza del crescere della consapevolezza internazionalista dei sindacati operai e a seguito degli scioperi nelle grandi città. Nei confronti dei proprietari di capitale che controllano l’assegnazione dei posti di lavoro, in seno al movimento operaio si manifestano però due linee di comportamento: una ritiene si debba puntare sulla eliminazione dei capitalisti, l’altra crede nell’utilità di una trattativa con loro. Mentre la prima sospinge l’attività del movimento verso il conseguimento del socialismo, la seconda favorisce la formazione dei sindacati operai. Il movimento manifesta così, sin dalla sua infanzia, l’esistenza in se stesso di una contraddizione che lo accompagnerà nei secoli e che tutt’oggi appare ancora insuperata. Già all’indomani degli insuccessi del 1848, il movimento politico e quello sindacale procedono in modo separato e, successivamente, pure nelle fasi più idilliache, l’azione sindacale continuerà a risultare separata dall’attività politica.

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Anche a causa di questa separazione, con lo sviluppo dell’industria si afferma una tendenza all’economismo, cioè da una parte del movimento all’azione politica viene privilegiata l’azione rivendicativa. Il trade-unionismo in Inghilterra, il lassallismo in Germania e il proudhonismo in Francia rappresentano proprio questa tendenza a racchiudere l’iniziativa del movimento operaio organizzato entro la cornice del rivendicazionismo che oltretutto si rivela un sistema chiuso in rigidi confini nazionali. Il sindacalismo, l’economismo, la lotta per il miglioramento della semplice situazione economica, lo sviluppo delle tendenze apolitiche, l’indifferenza per le parole d’ordine rivoluzionarie, sono tutti fenomeni che contrassegnano dunque non solo il Paese capostipite dello sviluppo della manifattura, cioè l’Inghilterra, ma l’insieme di tutti quei Paesi nei quali il procedere dell’industrializzazione porta a un rapido aumento della massa degli operai qualificati con salari elevati e alla formazione di un’aristocrazia operaia che tende appunto a identificarsi con questi movimenti. In Italia opera il mazzinianesimo che è una formazione dalle caratteristiche differenti dalle esperienze che contrassegnano i Paesi che hanno conosciuto una massiccia industrializzazione. Esso è pur sempre un’espressione della borghesia e si presenta con atteggiamenti marcatamente antisocialisti. Dal momento che questo genere di movimenti fondano la loro azione sull’autonomia organizzativa del movimento operaio, Marx entra ben presto in conflitto con loro. Uno dei suoi acerrimi avversari in questo scontro di orientamenti è rappresentato da Ferdinand Lassalle, capo dell’Associazione generale tedesca degli operai, con il quale egli era peraltro legato da rapporti di amicizia. Lassalle è convinto della positiva funzione dello Stato monarchico prussiano nella realizzazione delle riforme democratiche nell’interesse della classe operaia, e questo suo atteggiamento genera quella tendenza al riformismo che avrà poi il sopravvento nella socialdemocrazia tedesca. Di Lassalle, Marx e Engels respingono con assoluta intransigenza l’idealismo filosofico e le semplificazioni economiche, non meno che la strategia e la tattica politica, nelle quali essi sospettano si nasconda qualcosa di più che una semplice concessione nei confronti del “bonapartismo” di Bismarck. All’inizio del decennio 1860-70 il termine “marxismo” risulta ancora ben lontano dall’essere nato, mentre ad avere influenza tra la classe operaia continuano ad essere le sette socialiste o semisocialiste. E’ solo verso la fine del decennio che il concetto di “marxismo” si diffonde e assume il significato di una consapevolezza del carattere storicamente determinato dell’economia capitalistica e della formazione nel suo seno di una tendenza antagonistica destinata a spingere in direzione del socialismo. E questa consapevolezza è merito della Prima Internazionale che viene fondata nel 1864. Voluta e diretta da Marx ed Engels, è difatti questa associazione a dare impulso allo sviluppo dell’organizzazione sindacale e politica del movimento su scala continentale e a farle conseguire un’autonomia di pensiero e di azione. La Prima Internazionale è nei fatti la pietra miliare dell’esperienza organizzativa del movimento operaio e della sua capacità di elaborazione politica e strategica. L’elogio della fraternità espresso nell’Indirizzo inaugurale, esprime la necessità di collegarsi a quanti nel mondo intero hanno bisogno della pace, dello sviluppo industriale, della libertà e della felicità. Marx ed Engels ripongono molta fiducia nell’internazionalismo della classe operaia e lo ritengono una tendenza obiettiva del movimento operaio. Essi si prodigano affinché il Consiglio generale non emetta “decreti in questioni di fede e di morale”, ma si sforzi di indirizzare “verso lo stesso obiettivo finale” il movimento della classe operaia, sulla base di una previsione che si rivelerà esatta e cioè: “Con la divisione del lavoro l’operaio è soltanto un ammennicolo, e senza la solidarietà tra gli operai il libero commercio genererà una servitù industriale che sarà ancora più implacabile e più fatale per l’umanità di quella che i nostri padri hanno distrutto nei grandi giorni della rivoluzione francese ”.

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Lo statuto e il programma dell’Internazionale incontrano però da subito serie difficoltà dal momento che esistono posizioni assai diverse tra i suoi stessi fondatori e aderenti. Le teorie di Marx e di Engels – come si è ricordato – non costituiscono ancora la concezione dominante nel movimento operaio e socialista, mentre grande seguito hanno le concezioni di Blanqui, di Proudhon e di Bakunin. Proprio perché tanto complessa è la situazione, appena iniziato il lavoro di propaganda, Marx ed Engels entrano in grave conflitto con la classe operaia europea, proprio con quel soggetto cioè che prima di ogni altro avrebbe dovuto accettare i principi dell’Internazionale. Mentre avevano interpretato la ripresa degli incontri e dei contatti tra lavoratori francesi e operai inglesi, circostanza che aveva reso possibile la costituzione dell’Internazionale, come la premessa della fuoriuscita del movimento operaio dalle angustie dei confini nazionali, liberandosi così degli involucri settari entro cui sono rimaste confinate le sue prime esperienze, ora essi sono costretti a ricredersi. Non è che siano stati degli ingenui. Nell’Indirizzo inaugurale, difatti, Marx, mentre sostiene che l’Inghilterra è l’unico Paese nel quale la lotta di classe e l’organizzazione della classe operaia hanno raggiunto con le trade-unions un certo livello di maturità, non manca di precisare criticamente che agli inglesi manca “lo spirito della generalizzazione” e “la passione rivoluzionaria”. In effetti, le Trade Unions, che in Europa si ritiene siano organizzazioni proletarie politicamente mature, secondo un rapporto del Consiglio generale dell’Internazionale, difficilmente potrebbero garantire un contributo alla causa dal momento che i loro membri, ad eccezione di pochi, non sanno nulla di politica. A dire dello stesso Engels, con i cartisti non possono esserci divergenze teoriche, proprio perché non hanno alcuna teoria. La consapevolezza delle difficoltà che avrebbero incontrato, dunque, non mancava di certo ai due capi dell’Internazionale. Del resto, Marx ha sempre insistito sulla necessità di preservare all’Associazione il suo carattere di organizzazione basata su di una unità articolata, piuttosto che sulle differenze della cui esistenza si rendeva ben conto. Mentre i due autori del “Manifesto” si fanno assertori di alleanze sociali e politiche, una consistente parte degli affiliati all’Internazionale opera in direzione di uno splendido isolamento della classe operaia e delle sue organizzazioni; mentre loro si dichiarano a favore di un intervento in tutte le questioni decisive del loro tempo, molte organizzazioni limitano la loro azione alla semplice rivendicazione di migliori condizioni di vita e di lavoro degli operai. Nei primi e negli ultimi anni di esistenza della Prima Internazionale i socialdemocratici tedeschi dimostrano addirittura scarso interesse verso la stessa associazione. Marx ed Engels si sono sempre comportati con umanità e hanno sempre garantito solidarietà agli emigranti, cioè agli esuli politici che in buona parte facevano riferimento all’Internazionale, ma con loro sul piano politico raramente si sono trovati d’accordo. Essi hanno condiviso le loro sofferenze, ma non le loro illusioni; hanno sacrificato per loro anche l’ultimo centesimo, ma non le più piccole briciole delle loro convinzioni. L’emigrazione, del resto, e non solo quella tedesca, ma quella internazionale, ha rappresentato dal punto di vista politico una massa confusa di soggetti, e la Prima Internazionale, che è durata poco più di un decennio, fino al ’76, ha indubbiamente risentito molto di questa caratteristica dei suoi fautori e aderenti. Nel corso della sua esistenza il lavoro che viene svolto da Marx e da Engels si concentra in due direzioni: la ricerca delle basi di un comune programma di azione e la sua articolazione mediante i partiti politici della classe operaia. Nonostante le molteplici difficoltà, è proprio all’indomani della costituzione della Prima Internazionale che si vengono diffondendo i partiti politici del movimento operaio. A partire dalla Germania, la loro proliferazione investe quasi tutti i Paesi europei. Quelli in cui l’organizzazione del movimento operaio ha una maggiore estensione sono la Francia e la Gran Bretagna, ma il primo partito in assoluto a essere realizzato è quello di Germania, nel 1869. Solamente dopo nascono quelli di Spagna, Austria, Usa, Boemia, Francia e Danimarca. Le prime esperienze di aggregazione politica sorgono, muoiono e rinascono rapidamente. Molte di esse si limitano a proclamare la propria esistenza e poi si sciolgono; altre si scompongono, si 18


contrastano, si riunificano, spariscono, e poi si ripropongono, magari in forme differenti e sotto nuove sigle. Nel 1871, nel corso di una Conferenza svoltasi a Londra, Marx afferma che in Germania “l’Internazionale ha preso uno sviluppo straordinario sotto il nome di Partito socialdemocratico”. Questo corso positivo avrà però breve durata trattandosi di una eccezione dal momento che la vita dell’Internazionale e delle organizzazioni proletarie di quel tempo è contrassegnata da innumerevoli tristi esperienze. Difatti, se nel 1875 il grande partito del proletariato tedesco marcia ufficialmente ancora sotto il vessillo della lotta rivoluzionaria, nel 1891, al congresso di Erfurt, comincia a sdoppiarsi nelle sue diverse tendenze subendo l’influenza del socialdemocratico Georg von Vollmar e dei suoi sostenitori; dal 1891al 1898 registra una profonda divisione di orientamenti e nel 1899 giunge alla rottura, allorquando una sua parte piuttosto cospicua si lascia sedurre dalle parole d’ordine bernsteiniane e abbandona le posizioni rivoluzionarie per abbracciare il riformismo. Un evento importante di questa fase storica è senza dubbio costituito dall’esperienza della Comune di Parigi i cui artefici non sono affatto marxisti, ma sono blanquisti, proudhoniani e anarchici. Nei confronti di questo straordinario avvenimento, che rappresenta dopo quella di Spartaco la prima esperienza di governo da parte degli oppressi, Marx, pur essendo pienamente solidale con i comunardi, esprime verso la loro azione riserve e perplessità. In seguito modificherà opinione e individuerà anzi in quell’esperienza un esempio di come procedere all’estinzione dello Stato dopo la presa del potere da parte della classe operaia. Dopo appena un settantina di giorni dalla sua costituzione, la Comune di Parigi viene barbaramente repressa dalla borghesia. E’ solo con l’avvento della scheda elettorale, e dunque dopo che il movimento fa leva sulla forza del consenso, che i lavoratori rilanciano la loro offensiva per una legislazione sociale e per il riconoscimento di una maggior dose di democrazia. Ma anche questa strada risulterà lunga da percorrere e non sempre garantirà gli esiti sperati. Negli anni ‘80, quando i socialisti siedono nei parlamenti di Francia, Belgio e Germania, in Inghilterra ci sono solo una mezza dozzina di cosiddetti “Lib-Lab”, lavoratori eletti nelle liste del partito liberale. Gli operai inglesi, rispetto ai loro colleghi continentali, tardano a creare un proprio partito politico nonostante vantino una notevole forza sindacale. Non meraviglia pertanto il fatto che se mentre sul continente i sindacati sono spesso guidati e a volte creati dai partiti socialisti, in Inghilterra saranno proprio i sindacati a creare e guidare il partito laburista, e questo avviene nel 1888 in Scozia e successivamente nel Yorkshire e nel Lancashire. In Francia, fino al 1889, il Partito operaio non è in realtà che una modesta setta messianica la quale conta solo qualche centinaio di “evangelizzatori”. All’epoca del suo apogeo – nell’ultimo decennio del secolo - il guesdismo (da Mathieu-Basile Guesde, fondatore del partito) attenua la sua ideologia e il suo vocabolario rivoluzionario e internazionalista, sceglie la via del riformismo elettorale e parlamentare e si abbandona a un patriottismo che sconfina talvolta nello sciovinismo. Non a caso i guesdisti rifuggono dagli studi teorici, mentre sono portati al pragmatismo. Essi non riescono peraltro a costruire rapidamente l’ossatura dell’unità socialista che si realizzerà solo più tari, nel 1905. In Italia, il processo organizzativo del movimento operaio ha inizio con la costituzione delle Società di mutuo soccorso il cui primo congresso si celebra nel 1853 in Piemonte. Nel “Manifesto” l’Italia viene esclusa dall’elenco dei Paesi nei quali i comunisti sono chiamati a precisare il loro atteggiamento verso gli altri partiti e solo sedici anni dopo, in occasione della costituzione della Prima Internazionale, viene indicata, insieme a Inghilterra, Francia e Germania, come uno dei Paesi in cui si viene profilando la tendenza della classe operaia a organizzarsi come forza politica autonoma. Del resto, da noi, si è potuto leggere il “Manifesto”, tradotto in lingua in italiana, solo 24 anni dopo la sua stesura e già questo spiega il perché nel “bel Paese” si sono verificate differenti interpretazioni della lotta per l’emancipazione e, in pari tempo, si è registrata una scarsa conoscenza nello stesso movimento delle teorie marxiane. La stessa traduzione in italiano, e così pure in francese, dell’Indirizzo inaugurale della Prima Internazionale risale agli inizi del Novecento. 19


Per assistere a un embrione di partito politico, occorre aspettare gli inizi degli anni ‘80, quando si formano il Partito rivoluzionario di Romagna, guidato dall’anarchico Andrea Costa, e il Partito operaio dei milanesi Enrico Bignami e Osvaldo Gnocchi Viani. E’ appunto da queste due formazioni che prende corpo, nel ‘92, il Partito socialista dei lavoratori italiani, poi semplicemente Psi. La nascita dell’organizzazione politica nel nostro Paese avviene dunque a distanza di più di quaranta anni dalla redazione del “Manifesto”. Prima di quello italiano nascono, oltre a quelli già richiamati, i partiti di Belgio, Norvegia, Svizzera, Svezia, Giappone, Olanda, Ungheria, Bulgaria e Australia. Rispetto ad altri Paesi europei, il Psi nasce dunque in ritardo, e ciò è dovuto anche al più lento sviluppo economico che si registra nella nostra penisola e anche al ritardato processo di unificazione nazionale. C’è chi tiene a sottolineare il trauma delle trasformazioni che hanno contraddistinto questa fase storica e a rammentarci che mentre le campagne tedesche hanno impiegato cento anni a passare dal tardo medioevo al mondo moderno, in Italia questo processo di transizione è avvenuto in tempi molto concentrati, cioè in soli pochi anni. E anche questo fatto ha certamente contribuito a complicare il cammino evolutivo del proletariato. Capofila del processo di unificazione del Paese è il Piemonte il quale risulta essere la regione più industrializzata e quella in cui esiste la classe politica più avveduta, Cavour prima di tutti. Intento principale di questa classe politica non è però quello di equilibrare lo sviluppo della futura nazione, bensì di abbattere dazi e barriere e di allargare i commerci, compreso quello della stessa forza lavoro, attraverso le migrazioni, facendo così forte il Nord e indebolendo conseguentemente le regioni meridionali del Paese. Principale movente del processo di unificazione, infatti, è la formazione di un mercato adeguato alle esigenze del capitalismo che sta mettendo le basi nel Settentrione. Avviene così che nel corso di soli 15 anni, dal 1861 al 1876, i piemontesi creano un mercato unico, eliminano le molte monete che circolano nella penisola e danno corso a una moneta unica, privatizzano i beni della Chiesa e dei demani preunitari, cioè terre, terme, miniere, acciaierie, cantieri, filande, fabbriche di porcellana. Costruiscono poi nuove infrastrutture e dotano il Paese di nuovi servizi, dai trasporti alle poste, privilegiando sempre le regioni del Nord; pagano però i debiti e pareggiano il bilancio anche con il concorso del Sud. Ereditando una popolazione divisa da tradizioni culturali disomogenee e gravata dall’80% di analfabeti (saranno ancora il 50% nel 1900) lo Stato italiano procede con grande lentezza e prudenza all’alfabetizzazione. L’industria moderna, le fabbriche, l’organizzazione capitalistica, le grandi banche si svilupperanno fra l’inizio del ‘900 e la prima guerra mondiale, cioè con un ritardo rispetto ad altri Paesi che, appunto, si rifletterà sullo stesso processo evolutivo delle forze organizzate del movimento operaio. L’unificazione che si compie negli anni ‘60 è fragile e giunge in ritardo, realizzandosi proprio nel momento in cui inizia la crisi dello Stato-nazione. Già sin dall’inizio del processo unitario, e per molti anni ancora, proprio a causa degli squilibri nello sviluppo, i governi nazionali sono costretti a fare i conti con il “brigantaggio” delle plebi meridionali, con l’ostilità dei cattolici, con le trame dei legittimisti, con le sinistre anarchiche e socialiste, con gli stessi mazziniani di stretta osservanza, tutti soggetti che per svariate ragioni si oppongono alle scelte compiute dall’alto. Dalla sua nascita come Stato unitario, l’Italia è governata da pochi “liberali” e “democratici” espressi da una ristrettissima cerchia politica, a sua volta eletta da un’esigua base elettorale la quale, tenendo conto dei votanti effettivi in rapporto agli aventi diritto al voto, ha rappresentato dapprima, tra il 1861 e il 1882, l’1% della popolazione, poi, dal 1882 al 1913, il 4-5%. Dopo il fallimento dei diversi e ripetuti tentativi da parte delle classi dominanti di escludere dalla vita sociale il movimento operaio impegnato nello sforzo di organizzarsi, ricorrendo anche alla repressione e ignorando spesso addirittura la sua stessa esistenza, prende avvio il processo della sua 20


integrazione nel sistema. Questo corso è favorito, a partire dagli anni ’60, dalla graduale introduzione del suffragio universale e, più avanti negli anni, dal riconoscimento dei sindacati come controparte contrattuale. Questi fugaci cenni alla storia delle prime forme organizzative del movimento operaio d’Europa e d’Italia ci dimostrano come la conquista della sua autonomia, prima organizzativa e poi politica, nella fase dello sviluppo del capitalismo industriale, sia stata segnata da enormi difficoltà e da un’infinità di incertezze le quali non mancheranno di ipotecare la sua storia futura. 1.4 – Resistenze e ostacoli al processo di maturazione politica Il cammino del proletariato verso la sua emancipazione è stato non solo faticoso, a causa dei tanti ostacoli, ma anche pieno di raggiri e di inganni, e per certi aspetti persino contraddittorio. Durante le intere fasi della sua primordiale organizzazione e della conquista della sua autonomia politica, il movimento ha infatti dovuto difendersi da numerosi nemici. Soprattutto ha dovuto mettersi al riparo dagli attacchi e dai soprusi di borghesia e padronato, dalle loro espressioni politiche e sociali, ma anche dalle stesse istituzioni statuali da questi egemonizzate e dirette. Le prime organizzazioni dei lavoratori salariati, quelle che hanno incominciato a distinguersi dalle corporazioni di mestiere medievali, hanno condotto per lungo tempo un’esistenza incerta e sporadica dal momento che venivano viste con sospetto se non addirittura proibite dai governi, comunque avversate in tutte le maniere e costrette ai margini della legalità. Nell’Inghilterra dei primi del ‘700, nei confronti dell’emergente proletariato hanno continuato a sussistere pregiudizi e pretese assurdi di stampo medievale. Il moralista liberale Bernard Mandeville, ad esempio, si è distinto nel voler imporre a carico delle famiglie povere e dei lavoratori l’obbligo giuridico della frequenza della messa domenicale quale antidoto alle tentazioni insurrezionali. I rivoluzionari francesi con la legge Le Chapelier del 1791 e i Tory britannici con il Combination Act del 1799, hanno vietato concordemente ai lavoratori di unirsi. E’ solo con l’avvento del liberalismo, così insensibile per molti aspetti verso i diritti dei lavoratori, che, per la prima volta, viene concessa libertà legale alle associazioni dei lavoratori. Le unioni britanniche hanno ottenuto un tacito riconoscimento dei Tory liberali nel 1825, e il riconoscimento esplicito nel 1871 dal governo liberale di Gladstone, mentre le associazioni francesi sono state dapprima riconosciute da Napoleone III, nel 1864, sono state represse a seguito della reazione suscitata dalla Comune di Parigi, e solo negli anni successivi a questo evento hanno ottenuto il riconoscimento legale. La storia del liberalismo è d'altra parte accompagnata, come da una sua ombra, dalla storia di orribili case di lavoro e di correzione in cui vengono rinchiusi i disoccupati, gli oziosi, i “vagabondi”. Lavori forzati e disciplina spietata sono la regola di queste istituzioni, dalle quali non è possibile allontanarsi senza il lasciapassare. Il grande maestro dell’Illuminismo, tollerante e libertario John Locke, impegnato in una lotta draconiana alla piaga dei “vagabondi oziosi”, ebbe a proporre che “chiunque falsifichi un lasciapassare sia punito con il taglio delle orecchie la prima volta, la seconda sia deportato nelle piantagioni come per un crimine” e invocò il loro condizionamento in stato di sostanziale schiavitù. E dire che per Norberto Bobbio la “dottrina liberale” è “fondata sul principio che l’individuo viene prima della società e pertanto ha diritti naturali che gli competono in quanto tale”! La stessa storia d’Italia ci insegna che il prudente liberalismo della sua classe dirigente ha costantemente diffidato della democrazia. Come hanno documentato gli studi di Karl Marx, per fornire plusvalore, la classe operaia deve essere in grado di riprodursi, sia quotidianamente che di generazione in generazione. Nella fase in cui nasce il proletariato, questo processo è direttamente minacciato dalle tremende condizioni igieniche delle prime città industriali e dalla diffusione del lavoro infantile. Si lavora fino a 15-16 21


ore al giorno, le malattie e gli infortuni sono un pericolo costante, la denutrizione e l’analfabetismo sono fenomeni generalizzati. Si viene sfruttati al pari delle bestie da soma e non si ha riconosciuto alcun diritto legale. In simili condizioni diventa un’impresa proibitiva lo stesso proposito di emanciparsi. Al fine di incrementare la popolazione dei lavoratori salariati e dei soldati, di cui le classi sfruttatrici non potevano assolutamente fare a meno, si è ricorso all’introduzione degli assegni familiari facendo poi apparire un simile provvedimento come un atto di magnanimità e di lotta alla miseria. In una situazione tanto penosa sul piano delle condizioni esistenziali e tanto degradante su quello culturale, risultava quasi impossibile sfuggire ai raggiri e ai sotterfugi di chi detiene il potere. Successe così che sin dalla sua nascita il proletariato è stato indotto in uno stato di esasperazione e ha subito una serie di condizionamenti culturali destinati a ipotecare nel tempo i suoi comportamenti inducendolo in gravi incoerenze e contraddizioni. Si tratta di ipoteche di cui non risulterà facile liberarsi, tanto è che ancor oggi, a distanza di secoli, la sinistra sia sociale che politica dà segni di esserne per certi versi ancora prigioniera. Uno di questi condizionamenti riguarda l’atteggiamento di subordinazione che per lungo tempo il movimento operaio ha mostrato e continua a mostrare nei confronti del potere temporale e di quello spirituale. L’essere riverenti verso l’autorità costituita è una pratica che risulta infatti in largo uso ancora ai giorni nostri. Per una lunga fase storica a essere oggetto di ossequio da parte di larga parte delle organizzazioni del movimento operaio sono state non solo le monarchie, ma addirittura le dittature. Dopo di allora, le manifestazioni di soggezione, hanno avuto come referenti le istituzioni democratiche elettive, quelle che hanno sostituito il potere assolutista. Non è raro rintracciare nella storia del movimento operaio episodi in cui la lotta si confonde con gli appelli ai reggitori del potere affinché intervengano a risolvere una vertenza in atto o un problema. E un tale invito viene indifferentemente rivolto al monarca, al dittatore o a colui che è stato democraticamente eletto, sia esso appartenente allo schieramento di “sinistra” o a quello di “destra”, nel convincimento di poter ottenere, per grazia di questi, ciò che spetterebbe di diritto. E’ questa una forma di subordinazione culturale e politica che è dura a morire, proprio perché ha origini lontane. Occorre difatti risalire ai tempi in cui la “politica” veniva considerata dalle classi subalterne cosa appartenente ad altri e di cui era bene non impicciarsi. In Italia, simili atteggiamenti ricorrono in occasione dei primi congressi delle Società di mutuo soccorso, alla metà dell’800, quando in sedi ufficiali vengono condannate, insieme al ricorso allo sciopero, considerato un “atto immorale”, le manifestazioni operaie antigovernative e viene sancito il rifiuto di “fare politica”. Ancora alla vigilia della formazione del Psi, al 1° congresso del Partito operaio, la lotta politica era giudicata un “diversivo dei borghesi”. Ci sono voluti decenni perché le organizzazioni proletarie, sulla scorta di drammatiche mortificazioni e sconfitte, comprendessero l’importanza del passaggio dalla lotta sociale alla lotta politica. E purtroppo, anche dopo che questo passo è stato compiuto, nel movimento sono rimasti i vecchi pregiudizi e ha continuato a sussistere un atteggiamento di estraneità e insieme di riverenza verso la “politica” e gli istituti del potere. Verso la fine degli anni ’60 è capitato a me personalmente, ma il fenomeno era ricorrente, di essere estromesso da alcuni Circoli Enal della provincia bergamasca e minacciato di denuncia alla magistratura per aver presieduto, in qualità di funzionario di partito, riunioni politiche in locali dove imperava ancora la scritta “Qui non si fa politica”. E questo succedeva nella indifferenza di autorità e di cittadini, nonostante la Costituzione repubblicana fondasse sull’esercizio della politica da parte dei partiti. Un altro aspetto del genere è quello relativo alla riverenza riservata alla Chiesa, da noi alle gerarchie cattoliche romane in specifico, le quali fino a qualche tempo fa hanno avuto l’indubbio ruolo di grande forza conservatrice. L’influenza del clero sul mondo del lavoro e la costituzione del movimento cattolico organizzato in funzione antisocialista, in determinate aree territoriali del nostro Paese, ma pure in Francia, in 22


Germania, in Belgio e in Gran Bretagna, hanno contrastato in maniera decisiva la maturazione culturale e politica dei lavoratori producendo confusione, divisioni e antagonismi. Se i contadini, come è successo nel Sud Italia, ma non solo qui, sono giunti al punto di mettere insieme Garibaldi con Marx e addirittura con la Madonna, ciò non dipende di certo solo dalla debolezza teorica degli apostoli del socialismo. Un simile assurdo comportamento corrisponde a risonanze culturali profonde e lontane nel tempo di cui, a torto, si tiene in genere poco conto. Non si può altresì ignorare che, in certe epoche storiche, le ideologie della ribellione hanno assunto un carattere religioso. In Gran Bretagna è reperibile un esempio di “Chiesa del lavoro” fondata alla fine del XIX secolo da John Trevor il quale trasformò il laburismo in una fede. Va tenuto presente che certe forme religiose si prestavano, come si prestano ancora oggi, ad essere usate come droghe per lenire le intollerabili sofferenze sociali e avevano giusto la funzione di rappresentare un’alternativa alla rivolta. Solo con il passare del tempo e dopo che l’organizzazione socialista è divenuta bersaglio delle fobie e delle scomuniche delle gerarchie vaticane, ancor prima cioè che essa si fosse assestata, il nascente movimento operaio ha incominciato a tenersi a distanza di sicurezza dalla religione e a manifestare, di contro e per reazione, atteggiamenti anticlericali. Sono da ricordare a questo riguardo, per quanto attiene alla Chiesa cattolica, le encicliche papali “Qui pluribus” di Pio IX del 1846, la “Quod apostolici muneris” del 1878 e la “Rerum novarum” del 1891 di Leone XIII. Quest’ultima, tra l’altro, ebbe a condannare lo sciopero come uno “sconcio grave”. Un atteggiamento, quello del Vaticano, che verrà confermato da Pio XI nel ’37 con la “Divini Redemptoris” e da Pio XII con il decreto del Sant’Uffizio di scomunica dei comunisti, rinnovato poi nel ’59, il quale verrà implicitamente a decadere nel ’63 con l’emanazione dell’enciclica “Pacem in terris” da parte di Giovanni XXIII. Ma l’antisocialismo e l’anticomunismo sono stati praticati non solo dalla Chiesa, bensì anche dal mondo culturale tradizionale nel suo complesso. Una testimonianza in tal senso ci viene dalla “Histoire du communisme…” del francese Sudre, scritta nel 1848, quando cioè il comunismo non era ancora formalmente nato e questo dimostra quanto le classi avverse lo abbiano temuto e si siano date da fare per denigrarlo. Berlusconi, insomma, altro non è che l’ultimo figlio della stirpe dei forcaiòli dell’emancipazione umana. Oltre che contro i nemici dichiarati, il movimento operaio ha dovuto combattere in continuazione anche contro i falsi progressisti, le “pasticcerie dell’avvenire” e contro il socialismo immaginario. Nella loro fase iniziale, infatti, le organizzazioni proletarie subiscono l’egemonia del ceto medio intellettuale. Nel nostro Paese questo avviene per opera dei mazziniani, del moderatismo piemontese e dei borghesi di sinistra e comporta per il movimento una pesante subalternità culturale prima ancora che politica. A occupare ruoli decisivi nell’organizzazione del movimento non sono infatti gli operai tessili e dell’industria, bensì gli operai che lavorano nell’artigianato, cioè i calzolai, i tipografi, i fabbri, gli edili, che sono mediamente più evoluti dei primi. Per fare un esempio significativo, a Berra, nel ferrarese, i contadini erano rappresentati da un triunvirato costituito da un barbiere, da un sarto e da un calzolaio. Successivamente a ricoprire le cariche dirigenziali, specie nelle società di mutuo soccorso, sono figure sociali piccolo-borghesi come gli avvocati, i medici condotti, i veterinari, i maestri, i segretari comunali. Questi dirigenti, che per un verso costituiscono degli esempi di un’encomiabile solidarietà, e sono la testimonianza di un preziosissimo contributo alla causa, in genere, si dimostrano col tempo ragionevoli con gli imprenditori, si sforzano di evitare il ricorso alla lotta e si accontentano di accumulare fondi associativi e di aumentare gli iscritti all’associazione. Questo ricorso alle deleghe, che investe sia il mondo contadino che quello del lavoro industriale, rende sterile l’azione sindacale e politica del movimento e rallenta inevitabilmente il processo della sua maturità. Si tenga conto che ci sono voluti decenni perché le organizzazioni proletarie comprendessero l’importanza dello sciopero come arma di lotta per conseguire migliori condizioni di lavoro e di

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esistenza, e questo proprio anche a causa dei ritardi sul piano della maturità politica determinati dal ricorso alla delega nell’assegnazione delle responsabilità dirigenziali. Ho qui fatto riferimento esclusivamente alla situazione italiana, ma il fenomeno è da considerarsi di proporzioni internazionali. Basti ricordare al riguardo un solo caso per tutti. In Inghilterra, l’associazione di mestiere – ossia l’unione o sindacato dei lavoratori qualificati di uno stesso settore, nella fattispecie quello dei carpentieri, agli inizi del processo aggregativo ha rappresentato il modello tipico di organizzazione che ebbe il massimo sviluppo nel 1851 su iniziativa della Amalgamated Society of Engineers (società generale dei macchinisti). Sua linea direttiva fu proprio quella di tenere i sindacati fuori dalla politica, di far dimenticare loro il semisocialismo dei cartisti, di abbandonare l’idea grandiosa di Robert Owen di “un unico grande sindacato” di tutti i lavoratori e di promuovere invece gli interessi delle singole categorie. Si tratta di un esempio che ha caratteristiche originali, ma che unitamente a tante altre esperienze che si sono consumate in quel periodo in Europa, dimostra come le cause del non lineare sviluppo nel processo di acquisizione dell’autonomia e della maturità politica vadano ricercate non solo fuori dal movimento, ma anche all’interno stesso di esso, nelle sue stesse convinzioni e pratiche sociali. Questi ritardi culturali e politici hanno ovviamente condizionato pesantemente le capacità rivendicative e di lotta delle prime organizzazioni operaie. Si consideri che agli inizi del processo di emancipazione politica, per sfuggire ai divieti di associazione e di manifestazione, i lavoratori più intransigenti e coraggiosi si azzardavano a issare le bandiere rosse sui campanili, sugli alberi e persino a collocarle su palloni aerostatici, in segno di rabbia e di protesta. Oltre a questi condizionamenti il primo movimento socialista italiano ha pagato anche la contraddizione che è propria dei caratteri del capitalismo italiano, cioè quel ritardo evolutivo cui ho fatto cenno, per cui di fronte al dover necessariamente lottare contro il sistema, esso ha dovuto al tempo stesso preoccuparsi di favorirne lo sviluppo in maniera di potersi garantire il pane e il lavoro. 1.5 – Limiti e valori delle prime esperienze organizzative Nel corso della sua adolescenza il movimento operaio è stato affetto da alcune malattie cosiddette infantili contro le quali per lungo tempo, sia sul piano politico che su quello sindacale, si sono schierate le sue componenti più responsabili e lungimiranti. Le principali di queste malattie sono: il luddismo, l’anarchismo, l’operaismo e il corporativismo. Riassumendo in maniera molto concisa, il luddismo è un movimento di protesta che prende il nome di un operaio tessile inglese, Ned Ludd, vissuto, si presume, nella seconda metà del 1700. Egli inaugura la pratica della distruzione delle macchine perché ritenute responsabili dei guai di chi lavora, quali la disoccupazione, i ritmi intensi, le minacce alla salute. E’ interessante notare che nei tempi che hanno preceduto la rivoluzione industriale, spesso erano i poteri pubblici a contrastare le macchine che condannavano la manodopera alla disoccupazione. Nel XVII secolo, per esempio, prima in Gran Bretagna e poi in Francia, venne proibita una macchina per fare calze, proprio perché sostituiva l’opera dell’uomo. Nel 1623, sempre in Inghilterra, venne proibita una macchina per fabbricare aghi e verso il 1635 toccò a un mulino a vento per segare il legno. Sta di fatto che dai tempi di Ludd e per un lungo periodo, la lotta del proletariato contro le macchine è stata praticata nella generalità dei Paesi investiti dal processo di industrializzazione, segnando nel profondo la cultura del movimento operaio, al punto che l’avversione ai processi di modernizzazione, qua e là, costituisce una remora ancora ai tempi nostri. Come ben sappiamo, il vero ostacolo alla costruzione di una società post-capitalista non è il progresso della scienza e della tecnologia in sé e per sé, bensì l’uso speculativo che il capitalismo fa delle scoperte e delle invenzioni. Osservava Marx a riguardo di questa infantile forma di lotta: “Ci vogliono tempo ed esperienza affinché l’operaio apprenda a distinguere le macchine dal loro uso capitalistico, e quindi a

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trasferire i suoi attacchi dal mezzo materiale di produzione stesso alla forma sociale di sfruttamento di esso”. Va notato che l’autore de “Il capitale” non si è limitato ad analizzare le ragioni del luddismo e a condannare la sua pratica, ma ha addirittura scritto pagine straordinarie e dal sorprendente carattere intuitivo proprio sulle innovazioni scientifiche, sulle macchine e sul ruolo che esse hanno nel processo di maturazione di una società liberata dallo sfruttamento. L’anarchismo, come già abbiamo visto, è insieme una dottrina e un movimento politico che si propone la lotta contro lo Stato e contro qualsiasi autorità, privilegiando lo spontaneismo rivoluzionario che viene considerato un “ordine naturale”. Teorizzato fra la fine del 1700 e i primi del 1800, esso registra un notevole sviluppo a partire dagli anni ’30 del XIX secolo e segna profondamente tutto il periodo della 1a Internazionale. Suoi principali teorici e fautori sono William Godwin, Petr A.Kroptkin, Mikhail Bakunin, Pierre-Joseph Proudhon e Max Stirner; fra gli italiani vanno ricordati Enrico Malatesta e Carlo Cafiero. L’anarchismo rappresenta il rovescio della medaglia dell’evoluzionismo socialdemocratico; esso fonda sullo sviluppo spontaneo dell’immediatezza proletaria e si propone la negazione assoluta dell’ordine dato, cioè dello Stato. E’ appunto attraverso questo percorso che gli anarchici pensano sia possibile superare la riduzione dell’uomo a salariato. Quando in Svizzera si sviluppa un movimento di massa per la giornata legale di dieci ore, gli anarchici rifiutano di prendervi parte; comportamento analogo viene da loro assunto allorquando i socialisti fiamminghi intraprendono una campagna intesa a ottenere la proibizione legale del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche. Naturalmente essi respingono ogni lotta per il suffragio universale e qualsiasi tentativo di mettere in pratica questo istituto laddove è riconosciuto solo a una cerchia ristretta di persone. Ai primi del ‘900, nella storia del movimento operaio italiano, l’anarco-sindacalismo o socialismo rivoluzionario ha rappresentato un momento assai importante e non del tutto negativo. Esso ha preso le mosse dalla teorizzazione di Georges Sorel secondo cui la lotta per l’abbattimento del potere borghese avrebbe dovuto passare attraverso la lotta sindacale e il momento culminante di questa lotta sarebbe stato lo sciopero generale. Sorel, teorico appunto del sindacalismo rivoluzionario, nelle sue “Riflessioni sulla violenza” del 1908 sostiene che l’uso della forza è un bene indipendentemente dal fine realizzato e che la solerzia dei lavoratori nella guerra di classe deve essere alimentata con la fede nel “mito” di un futuro sciopero generale. La questione dello sciopero generale viene discussa nella Seconda Internazionale sin quasi dall’inizio della sua esistenza, proprio dietro pressione degli anarchici e degli anarco-sindacalisti francesi i quali considerano decisiva questa forma di lotta, soprattutto se estesa anche all’esercito. Questa tesi incontrerà però la netta contrarietà dei dirigenti della socialdemocrazia tedesca. La questione sarà oggetto di dibattito in quasi tutti i congressi e, in particolar modo assai approfondito in quelli di Stoccarda nel 1907, di Copenaghen nel 1910 e di Basilea nel 1913. Mentre per tutta una fase storica, il ricorso allo sciopero si rivela molto efficace, poiché porta alla paralisi l’intero ciclo produttivo, con l’evoluzione dell’industria e del terziario, quest’arma perde efficacia sino al punto di non riuscire più a determinare l’arresto totale della produzione, e questo perché nel frattempo il controllo dei lavoratori è venuto frammentandosi. E’ infine da rilevare che l’anarchismo, a causa della confusione delle posizioni teoriche che lo sorreggono, e per il suo atteggiamento negativo di fronte a tutte le questioni pratiche che riguardano gli interessi immediati del proletariato moderno, finisce per irrigidirsi e trasformarsi in una setta. Anche questa malattia, però, nonostante che abbia procurato più danni che benefici al movimento, continua a essere motivo di interesse e di passioni anche ai giorni nostri. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, con la sperimentazione delle prime forme organizzative dei lavoratori, prende corpo l’operaismo. Esso è il prodotto di un’avversione al paternalismo della borghesia e del rifiuto di una presenza diffusa di filantropi nelle organizzazioni del movimento

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operaio e del conseguente convincimento che a essere soggetto privilegiato dell’azione sindacale e politica rivoluzionaria è l’operaio di fabbrica. I proudhoniani al congresso dell’Internazionale propongono che l’iscrizione sia riservata solo ai lavoratori del braccio e siano esclusi i lavoratori della mente. La stessa fondazione, nel 1882 a Milano, del Partito operaio, meglio conosciuto come partito delle “mani callose”, è una rappresentazione eloquente di questa tendenza. L’operaismo, proprio a causa del rifiuto di un apporto fattivo all’organizzazione proletaria da parte dei ceti intellettuali e di altre figure sociali, ha comportato per il movimento dei costi non marginali dal punto di vista della sua crescita sia quantitativa che qualitativa. Pure la cultura operaista ha allignato nella sinistra per lungo tempo, assumendo in termini settari e fondamentalisti la fabbrica come ombelico della rivoluzione e teorizzando la presenza dell’operaio nelle istituzioni come unico e vero rimedio al parlamentarismo. Lo stesso movimento del sessantotto-sessantanove ne sarà ampiamente influenzato. A dare espressione teorica a questa tendenza, a metà degli anni ’60, in Italia, ha contribuito la rivista “Classe operaia” nata per iniziativa di Mario Tronti, Tony Negri e Alberto Asor Rosa. Il corporativismo, infine, è una tendenza che ha origini storiche lontane e che si manifesta in forme accentuate nel periodo a cavallo tra il 19° e il 20° secolo. Al tempo delle prime leghe proletarie, ma anche successivamente, è convinzione diffusa che l’aumento dei salari avrebbe portato di per sé alla scomparsa del capitalismo. L’operaio, secondo l’ingenuità delle prime mutue di soccorso, doveva diventare capitalista per poter superare il suo stato di subordinazione. Mentre nelle prime fasi della rivoluzione industriale la classe operaia era omogenea, considerato che il lavoro era realizzato in condizioni più o meno simili, come lo erano i rapporti di produzione, con lo specializzarsi della manifattura e con la crescita del settore dei servizi si fanno avanti le diversificazioni di mansioni e quindi di interessi e la classe operaia vive un processo di frammentazione. Questo fenomeno si rivela crescente via via che il movimento operaio si estende e si specializza nelle diverse attività produttive sospingendolo verso la deriva degli egoismi di categoria e dividendo i lavoratori nella loro azione rivendicativa. Nella lotta operaia prevale l’empirismo e il fatto che spezzoni di movimento si muovano su posizioni prevalentemente difensive, è dovuto proprio al privilegio della condizione economica e dell’interesse immediato rispetto a una prospettiva di generale cambiamento. Questa egoistica miopia ha rappresentato indubbiamente un freno al conseguimento dell’egemonia politica e culturale della sinistra sul movimento dei lavoratori. Il corporativismo impedisce, o quanto meno rende difficile, l’alleanza non solo tra operai, contadini e artigiani, ma tra le stesse categorie di settore, in particolare tra operai, impiegati e tecnici. In Gran Bretagna, gli strati superiori della classe lavoratrice (operai specializzati e capireparto) che si sono adattati prima e più facilmente degli altri alla moderna produzione e all’alta tecnologia, facendo leva sulla propria posizione professionale “di privilegio”, hanno tratto benefici a scapito di chi era invece meno favorito di loro. Non per caso i corporativisti inglesi sono diventati nel tempo dei potenziali sostenitori della destra politica. Un fenomeno del genere si è verificato anche da noi, favorito dalle pratiche del movimento cattolico, a cavallo dell’800-‘900, e dalla successiva nascita del fascismo. Si tratta di una concezione politico-culturale dei rapporti sociali che resterà a lungo impressa nella coscienza e nel comportamento pratico di larghi strati di lavoratori. Oltre a dover sopportare queste ipoteche, il movimento operaio e con esso le stesse formazioni politiche della sinistra, sin dal loro sorgere sono chiamati a fare i conti con una pratica di lotte intestine e di divisioni tra componenti e fazioni interne alle stesse organizzazioni. Questo travaglio contraddistinguerà l’intero corso della loro esistenza. Per quanto riguarda la specificità italiana, a questo riguardo è da ricordare un commento fatto da Engels verso la fine del secolo, secondo il quale da noi “tutte le malattie politiche prendono un decorso infiammatorio acuto”. Una diagnosi la sua che ha valore ancora ai tempi nostri. 26


Fortunatamente, però, nella storia del movimento dei lavoratori e della sinistra sono rintracciabili non solamente malattie, tare e insufficienze, bensì anche elementi positivi, anzi valori forti e testimonianze di grande umanitarismo. Si tratta di virtù che hanno consentito alle organizzazioni del movimento operaio di acquisire una loro autonomia e una visione del mondo alternativa a quella delle classi dominanti. Principali fattori del processo di evoluzione che ha contraddistinto il movimento operaio sono la solidarietà, la dedizione alla causa, la disciplina, la sete di istruzione, il principio di uguaglianza fra gli uomini, l’emancipazione della donna, l’antistatalismo e lo spirito internazionalista. La solidarietà è uno degli scopi fondamentali delle Società di mutuo soccorso e si traduce in un sostegno concreto ai lavoratori bisognosi e più deboli. Uno degli aspetti più nobili e qualificanti della sinistra è appunto costituito dal fatto che sin dal primo istante della sua esistenza essa prende partito per i poveri e per le vittime dei soprusi e dello sfruttamento. E compie questa sua missione con estrema dedizione e a costo di qualsiasi sacrificio, imponendo anzi ai propri aderenti una ferrea disciplina a garanzia del rispetto di questo principio. Nel momento di maggior fioritura delle leghe, infatti, il bracciante ha l’obbligo prioritario della solidarietà verso i compagni. Ogni lavoratore, prima di tutto il resto, deve sentirsi parte della lega e i lavoratori organizzati in essa devono essere forti e disciplinati; non sono ammesse deroghe. In nome della solidarietà si è persino giunti a casi estremi e discutibili. Lo statuto della lega di S. Giovanni del Dosso, in terra mantovana – per fare un esempio – prevedeva l’abbandono del lavoro anche in caso della sola presenza nelle campagne di lavoratori non iscritti alla lega. E il dovere di solidarietà verso i compagni è fatto proprio anche dalle nascenti organizzazioni dei lavoratori delle officine le cui pessime condizioni di lavoro e i conseguenti incidenti provocano una notevole quantità di casi di indigenza e di bisogno. Il senso della disciplina per i primi militanti di sinistra si rivela rigoroso anche nell’esplicazione dell’attività politica. Si consideri che alla Conferenza di fondazione della Sezione Internazionale italiana, svoltasi a Rimini nel 1872, i delegati sono obbligati a rispettare un ordine dei lavori così definito: 1a seduta (domenica), dalle ore 14 alle 19; 2a seduta (lunedì), dalle 7 alle 12; 3a seduta, dalle 14 alle 18; 4a seduta, dalle 21 fino all’1 di martedì; 5° seduta, dalle 9 (di martedì) alle 16; 6a seduta, dalle 17 alle 19; un impegno cioè decisamente stressante al quale l’odierno militante di sinistra ben difficilmente si sottoporrebbe. Per di più, senza avere alcun rimborso. Anzi, con il rischio ricorrente di venire arrestati dalle forze dell’ordine. Grandissima importanza ha poi l’istruzione, cioè il saper leggere e “far di conto”, quale condizione irrinunciabile per conseguire una propria autonomia culturale. Non si dimentichi che a quei tempi l’analfabetismo era diffusissimo e che i primi deputati socialisti, da Andrea Costa a Camillo Trampolini, provenivano dalle zone rurali del Paese dove i livelli di istruzione erano i più bassi. Una testimonianza eloquente della sofferta esigenza di garantire un’istruzione agli aderenti al movimento socialista è l’istituzione a Milano dell’Umanitaria. L’avvertenza del carattere imprescindibile del ruolo che l’istruzione svolge nell’azione del movimento operaio è dimostrata dal ricorso a una molteplicità di iniziative il cui scopo è appunto quello di sensibilizzare in tal senso gli aderenti al movimento e raccogliere i mezzi per favorire la sua elevazione culturale. Questa esigenza è avvertita a livello universale. A un banchetto di 1.200 comunisti che si svolge a Parigi nel 1840 (ma simili iniziative sono ricorrenti anche altrove) campeggia lo slogan: “Cittadini! il cammino più breve per giungere alla felicità comune è l’educazione egualitaria”. Sempre allo stesso banchetto ci si chiede, tra l’altro: “Che gli importa al popolo che gli si concedano dei diritti politici se non gli vengono prima assicurati i mezzi radicali di poterli esercitare? All’uguale suddivisione dei diritti (occorre anche la suddivisione) dei doveri, cioè alla comunanza dei lavori (ci deve essere quella) dei piaceri!”. E’ questa un’esplicita richiesta di egualitarismo, altro valore che sin dal suo sorgere il movimento operaio fa suo. La sinistra dei primordi dimostra poi, seppure con l’eccezione di alcune sue frange, grande sensibilità verso l’emancipazione della donna. Una lotta questa assai difficile da condurre considerato che, oltre alle condizioni sociali avverse, è chiamata a cimentarsi con i retaggi del 27


passato i quali ipotecano le stesse culture di chi è schierato a sinistra. A un congresso dell’Internazionale, ad esempio, i proudhoniani propongono e che venga condannato il lavoro della donna perché considerato una depravazione; il posto suo – a loro avviso – non è l’opificio, ma la famiglia. La difficile impresa dell’emancipazione femminile è favorita dal fatto che molto spesso alla testa delle lotte operaie e contadine ci sono proprio le donne le quali subiscono per prime la repressione, tanto è che numerose di esse sacrificano addirittura la loro vita sul campo di battaglia. Un’altra peculiarità della sinistra è costituita dal fatto che essa, nella sua originaria configurazione politico-organizzativa, si presenta come una forza antistatalista, dimostrando di avere ben chiaro che il potere costituito difende gli interessi di altre classi sociali e che ogni sua rivendicazione incontra l’avversione degli organi istituzionali. E’ proprio alla luce di questa consapevolezza che le prime organizzazioni socialiste del movimento operaio si dicono convinte che se “isolata dalla riforma sociale, la riforma politica è una menzogna odiosa” e giudicano rivoluzionari senza principi coloro che “hanno teso una trappola all’intelligenza umana, proclamando una riforma esclusivamente politica”. L’esperienza cui dà vita la Comune di Parigi sul piano della concezione dello Stato altro non è che la testimonianza di questa avversione alla delega istituzionale. Infine, altra caratteristica fondamentale del nascente movimento socialista è lo spirito internazionalista. Non per caso, per quasi un secolo le Internazionali, nel bene e nel male, hanno significato per tutti i partiti ad esse aderenti un’importanza superiore a quella dell’organizzazione nazionale e si sono dimostrate capaci, almeno in alcune circostanze, di agire compatte e in anticipo sulla borghesia. Il famoso slogan lanciato da Marx ed Engels, “proletari di tutti i paesi, unitevi!”, già 15 anni dopo la sua formulazione nel “Manifesto” è stato tradotto in prassi politica. Lo spirito e la pratica internazionalisti si sono dunque affermati assai presto nel movimento operaio dopo che si è avuto la consapevolezza che la concorrenza fra le classi operaie dei singoli Paesi era deleteria e perciò doveva cessare; che anzi era necessario il concorso comune di tutti i partiti nazionali se si voleva infrangere il dominio internazionale della borghesia. Fra i combattenti internazionalisti più coraggiosi sono senz’altro da annoverare i proletari di Germania e quelli d’Italia.

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Capitolo 2°

L’elaborazione marx-engelsiana 2.1 – I teorici del socialismo scientifico Prima di Marx, i teorici del socialismo si sono sempre limitati a criticare il modo di produzione capitalistico e non sono mai stati in grado di spiegarlo. A prevalere sull’analisi scientifica della realtà e su una conseguente azione per modificarla erano i sentimenti di giustizia e di solidarietà che gli utopisti avevano ereditato dalla rivoluzione giacobina. E’ solo con l’avvento dell’elaborazione marx-engelsiana che il socialismo acquista il carattere di scienza e viene messa a punto una teoria della rivoluzione proletaria. Il passaggio dal socialismo utopistico a quello scientifico costituisce dunque, senza alcun dubbio, una importantissima svolta storica per il movimento operaio. Come abbiamo visto, prima di Marx e di Engels esistevano certamente dei comunisti, fra i più noti è il caso di ricordare Carlyle, Ruskin, Cabet, Dezamy, Weitling, questi però esprimevano nulla più che delle astrazioni dogmatiche. Al pari degli utopisti condannavano l’etica della ricchezza e consideravano la proprietà un “male assoluto”. Marx stesso ebbe a definire “edizioni tascabili della Nuova Gerusalemme” i “phalanstères fourieristi” e non esitò a sottoporre a severa critica le “Icarie”, comunità modellate sul “Voyage en Icarie” di Etienne Cabet. La superiorità del pensiero marx-engelsiano, cioè del socialismo scientifico, rispetto al socialismo utopistico, consiste nel fatto che l’elaborazione dei due autori del “Manifesto” non propone modelli fantastici e ideali di società future, ma parte dal presupposto che, come sottolinea bene Rosa Luxemburg, “il sistema sociale del socialismo deve e può essere solo un prodotto storico, nato dalla scuola stessa dell’esperienza, al momento della realizzazione, nel divenire della storia viva”. In netto contrasto con gli utopisti e con i comunisti romantici, Marx non demonizza, bensì celebra la borghesia e non pensa affatto che la proprietà sia sempre e comunque un male. Questo suo convincimento ovviamente non gli impedisce di mettere in risalto gli aspetti negativi del sistema capitalistico, di avversarli con tutte le sue forze e di elaborare la teoria del suo superamento. Cogliere appieno il valore e la complessità della teoria marxiana non è cosa semplice, anzi è una di quelle imprese che fanno tremare i polsi. Di Marx e su Marx si è detto di tutto, come vedremo; ogni suo estimatore o avversario lo ha interpretato a modo proprio e questo, unitamente al fatto che egli ci ha lasciato una gran mole di scritti, non solo complica ogni tentativo teso a semplificare l’esposizione del suo pensiero, ma rende addirittura vano qualsiasi sforzo di sintesi. Oltretutto, bisognerebbe essere degli studiosi superlativi per poter vantare di aver assimilato per intero l’elaborazione filosofica, economica e politica che Marx e Engels ci hanno lasciato in eredità. Quello che qui mi propongo di fare è pertanto un’operazione assai modesta, cioè un tentativo di sintesi. Cercherò di riassumere quanto io, nel corso della mia militanza politica ho recepito in termini di studio degli scritti di questi due padri del socialismo scientifico e quanto ho appreso da studiosi e da compagni che più e meglio di me hanno fatto i conti con il loro enorme patrimonio di sapere e di sensibilità umana. Ovviamente si tratta di un contributo non solo parziale e modesto, ma anche discutibile, che comunque credo valga la pena di mettere a disposizione di chi avrà la bontà e la pazienza di leggere queste righe, il cui scopo è quello di fornire una testimonianza interpretativa fra le tante, seppure di second’ordine e maturata sul campo, di questo straordinario lascito politico-culturale che ha determinato il cambiamento del corso storico. Prima di procedere al riepilogo delle mie acquisizioni, credo torni utile fare alcuni fugaci cenni ad alcune delle caratteristiche dei due personaggi in questione che maggiormente hanno colpito la mia immaginazione. A qualcuno questo mio modo di procedere potrà sembrare una divagazione, io 29


invece credo sia di aiuto a comprendere meglio la dimensione umana di questi due straordinari personaggi e insieme il mio approccio ai loro insegnamenti. Karl Heinrich Marx nasce a Treviri, sul confine franco-tedesco, nel 1818; Friedrich Engels a Barmen, nella Renania, nel 1820. Moriranno tutti e due a Londra, il primo nel 1883, il secondo nel 1895. Ambedue provengono da famiglie borghesi e sono degli intellettuali. Agli esami di ginnasio Marx non riesce a cavarsela in storia e in religione, mentre Engels, al contrario, quando esce dal liceo, è munito di un rigoroso viatico religioso. Da giovani essi si distinguono come allegri bevitori, tanto è che Marx viene condannato a un giorno di prigione (è l’unica detenzione che subisce) per ubriachezza notturna e disturbo della quiete pubblica. Il padre di Marx si lamenta spesso del figlio a causa dei “conti à la Karl, senza capo né coda, senza risultato”. In effetti, è da constatare che il teorico classico del denaro non è proprio mai riuscito a far quadrare i suoi stessi conti personali. Così il genitore dice del figlio: “Lo giudichi Iddio! Disordine assoluto, balordo vagabondaggio in tutti i campi del sapere, balorde sgobbate al fioco lume della lucerna; abbrutimento nello studio in veste da camera e coi capelli arruffati, invece che abbrutimento nel bere in una birreria; repellente mancanza di socievolezza e di ogni decoro e perfino di ogni riguardo verso tuo padre…. Come se fossimo pieni d’oro, il signor figlio consuma in un anno quasi 700 talleri, contro ogni accordo, contro ogni usanza, mentre i più ricchi non ne spendono 500”. In realtà, Karl non è un dissipatore, è solamente uno che si lascia influenzare e trascinare facilmente dagli amici. Marx e Engels si conoscono a metà degli anni ’40 e da subito lavorano di concerto per la causa del movimento operaio. Karl viene chiamato dall’amico-compagno “il Moro”. Da scapolo, Marx ama sostenere che per chi avesse delle aspirazioni di carattere universale non c’è asineria peggiore che quella di sposarsi e di abbandonarsi così alle piccole necessità della vita privata. Quando però conosce Jenny non esita a smentire questo suo convincimento, anzi, con lei mette al mondo sei figli, tre dei quali muoiono poco dopo la nascita. Con la sua donna di servizio mette poi al mondo un altro figlio che però non riconosce e la cui paternità viene attribuita a Engels. La moglie di Karl è gelosa dell’amico Friedrich poiché questi spinge il marito a bere, lo porta in giro a far bagordi e forse lo accompagna anche nei bordelli. Jenny, è molto politicizzata, è infatti una protagonista del vissuto del marito e per questa ragione viene anche arrestata. A differenza della maggior parte degli intellettuali (del suo tempo, ma anche di quelli di oggi), Marx fa la scelta di stare con i più deboli e lottare per un mondo più giusto dichiarando “guerra con tutti i mezzi” alle “condizioni in cui l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Gli economisti sono da lui considerati i teorici della borghesia, mentre i comunisti e i socialisti rappresentano ai suoi occhi i teorici del proletariato. Egli considera l’abolizione della sofferenza un “imperativo categorico” di ogni comunista. Già a 19 anni, nelle sue corrispondenze giornalistiche, si occupa della condizione dei lavoratori pubblicando dati sulle malattie, sul lavoro dei fanciulli, sull’ipocrisia pietistica dei padroni delle fabbriche che impiegano i bambini più piccoli dando loro salari più bassi. Egli conosce del resto la povertà per esperienza diretta vivendo in uno stato costante di opprimente miseria. Le sue figlie mancano persino dei vestiti e delle scarpe necessari per frequentare la scuola. In più di una circostanza subisce pignoramenti in casa. Giunge al punto di cercare di ottenere un’occupazione borghese e quando gli si affaccia la prospettiva di trovare impiego in un ufficio ferroviario inglese, vede andare a monte l’occasione a causa della sua illeggibile scrittura. Scrive sua moglie a un amico, a riguardo del suo stato economico-familiare: “Lui che ha aiutato tanti spontaneamente e gioiosamente è rimasto privo di aiuto”. E commenta: “Karl lavora di giorno per provvedere al pane quotidiano, di notte per portare a termine la sua Economia”. Alla sua morte lascia alla figlia Eleonor beni per un valore di 250 sterline, pari all’incirca a 23.000 euro di oggi.

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La madre di Karl, invece, è meno compiacente nei suoi confronti e più volte lamenta: “Invece di scrivere ‘il capitale’ avrebbe fatto meglio a metterlo insieme”. Marx agisce sulla base di un preciso principio, cioè ripete spesso a se stesso: “Devo mirare al mio scopo attraverso ogni ostacolo, e non devo permettere alla società borghese di trasformarmi in una macchina per far denaro”. Lo scrittore – a suo dire – non dovrebbe lavorare per guadagnare, ma guadagnare per lavorare: “Lo scrittore è costretto comunque a guadagnare per poter esistere e vivere, ma non è costretto in nessun modo a esistere e scrivere per guadagnare”. E’ così che i due teorici del comunismo, lui unitamente a Engels, testimoniano con il loro stesso comportamento ciò che pretendono dallo scrittore e combattono in continuazione perché i loro scritti siano fine a se stessi, al riparo da ogni condizionamento e, soprattutto, non diventino mezzo di arricchimento. A questo riguardo scrive Engels a Marx nel 1851: “Finalmente abbiamo un’altra volta l’occasione di dimostrare che non abbiamo bisogno di nessuna popolarità, di nessun support di qualsiasi partito di qualsiasi paese e che la nostra posizione è totalmente indipendente da miserie del genere”. Marx si astiene dal frequentare la cosiddetta società mostrando uno sconfinato disprezzo per qualsiasi popolarità a buon mercato e lavorando dietro le quinte, senza comparire pubblicamente. Si distingue così dalla maniera di fare della stragrande maggioranza dei politici suoi contemporanei (ma non solo di quelli) che si danno importanza in pubblico, anche senza far nulla. In occasione della pubblicazione del primo libro de “Il capitale”, Engels e Kugelmann si danno molto da fare per interessare gli organi di stampa e mettono a punto persino una “bomba reclamistica”, cioè un articolo biografico su Marx col suo ritratto, da pubblicare sulla “Gartenlaube”. Marx blocca l’iniziativa e li prega di astenersi da un tale “spasso”. E commenta: “Ritengo simili cose piuttosto dannose che utili, e al di sotto del carattere di un uomo di scienza. Per esempio, il Meyers Konversationslexikon da parecchio tempo mi ha richiesto per iscritto una biografia. Non solo non l’ho fornita, ma non ho nemmeno risposto alla lettera. Ognuno deve andare in paradiso a modo suo”. Marx ha l’abitudine di lavorare giorno e notte e questo suo modo di essere col passare del tempo gli compromette la salute che originariamente era “salda come il ferro”. Egli ritiene che l’incapacità di lavorare sia la condanna a morte per ciascun uomo che non si consideri una bestia. Quando, dietro pressione di Engels, si concede qualche settimana di distrazione al mare, perché malato, scrive a sua figlia Laura: “… vado attorno trottando la maggior parte del giorno, prendo aria, vado a letto alle dieci, non leggo nulla, scrivo ancora meno, e soprattutto mi sprofondo in quello stato d’animo del nulla che il buddismo considera come il culmine della beatitudine umana”. Nel ’64, da un suo vecchio amico, Karl eredita 700 sterline e da quel momento vive giorni un poco più tranquilli, almeno dal punto di vista finanziario. In età matura egli suole citare Epicuro sostenendo che “la morte non è una disgrazia per colui che muore, bensì per colui che sopravvive”. Finisce la sua esistenza circa un anno e tre mesi dopo la dipartita della moglie Jenny e questo suo ultimo periodo di vita, come testimonia lo stesso Engels, a conferma della sua straordinaria coerenza, non è altro che una “lenta morte”. Ad aiutare materialmente Karl è proprio l’amico Friedrich il quale, per racimolare il denaro necessario al suo mantenimento, non solo sgobba di giorno, ma sacrifica le sue ore di riposo serali fino a notte inoltrata. Braccato dalla famiglia, Engels accetta di fare lo “sporco lavoro” del capitalista calandosi molto bene nel suo ruolo di imprenditore responsabile di una fabbrica internazionale, ma condivide fino in fondo le passioni e soprattutto lo spirito contestatore e rivoluzionario dell’amico-compagno Karl. A modo suo Engels è un uomo schivo e ama definirsi “il secondo violino di Marx”. Al pari di Karl, superata la fase dell’adolescenza, egli si dimostra avverso a ogni enfasi religiosa, a ogni culto dell’immagine e delle spoglie. Circa l’evoluzione del pensiero di Marx, sono molti gli studiosi, marxisti e non, che hanno spesso fatto una distinzione tra il Marx “giovane” e il Marx “vecchio”. A mio modesto avviso una simile interpretazione equivale a una schematizzazione che, se per un verso trova una qualche 31


giustificazione, per altro tende a falsare la visione del processo di maturazione delle sue analisi e teorie, non riconoscendo la consequenzialità del suo pensiero ed esasperando gli inevitabili momenti di problematicità e di contraddizione. Chi mai a questo mondo ha potuto e può vantare di avere vissuto un processo perfettamente coerente e lineare nella propria maturazione culturale? Anche Marx, così come Engels, in qualità di esseri mortali presentano naturalmente incertezze e contraddizioni. Alla base del pensiero marxiano, per esempio, troviamo una fonte religiosa che fa decisamente a pugni con l’immagine che di lui noi tutti ci siamo fatti a riguardo della sua visione del mondo. Eppure questo non può e non deve meravigliare: è una delle dimostrazioni che l’uomo è per davvero – come proprio lui ci ha insegnato – il prodotto delle condizioni storiche. Nel tema per la licenza liceale, a 17 anni, Marx infatti scrive, tra l’altro: “Anche all’uomo la divinità diede un fine generale... la divinità non lascia mai nessuno dei mortali completamente senza guida... La guida principale che ci deve soccorrere nella scelta di una professione è il bene dell’umanità.... l’esperienza esalta come il più felice colui che ha reso felice il maggior numero di uomini; la religione stessa ci insegna che l’ideale al quale tutti aspirano (Cristo) si è sacrificato per l’umanità....”. Ancora in uno scritto giovanile sostiene che “Prometeo è il più grande santo e martire del calendario filosofico”, il che rappresenta senza dubbio la deificazione dell’uomo nello spirito di un titanismo romantico, di derivazione hegeliana o feuerbachiana. Da parte sua, Engels legge e studia la Bibbia assieme ai sette fratelli e ai genitori timorati e devotissimi, e frequenta le società pietistiche della Germania protestante. Quando rievoca la fede della sua giovinezza ne parla con tenerezza e ricorda come fosse impegnato nell’arrivare “a Dio, verso cui tutto il mio cuore tende..”. Il suo assoluto amore per la verità e la sua sensibilità verso i suoi simili sono di certo da attribuire anche all’esperienza da lui compiuta in gioventù nelle file del protestantesimo. Marx incomincia a mutare atteggiamento verso la religione e a prendere parte politica quando accede agli studi universitari. Egli decide di guadagnarsi il cappello di dottore in una piccola università, rinunciando, date le sue concezioni di giovane hegeliano, a prendere una laurea prussiana. E’ a Jena che gli viene conferito il titolo di dottore per il suo lavoro “Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e di Epicuro”. L’approccio con il pensiero filosofico gli risulta decisivo ai fini dell’orientamento politico. A suo giudizio, fra i più antichi filosofi greci della natura, ad aver sviluppato più conseguentemente di altri il materialismo è Democrito. Di questi apprezza alcuni concetti che riprende e sottolinea nel suo scritto: “Nulla nasce dal nulla; nulla di quello che è può essere annullato. Ogni variazione è soltanto unione e separazione di parti. Nulla accade a caso, ma tutto per un motivo e di necessità. Nulla esiste, se non gli atomi e lo spazio vuoto; tutto il resto è opinione. Gli atomi sono infiniti di numero e hanno una infinità diversa di forme. In eterno moto di caduta attraverso lo spazio infinito, i più grossi, che cadono più rapidamente, si urtano coi più piccoli; il moto laterale che ne risulta, e il vortice, sono l’inizio della formazione del mondo. Infiniti mondi si formano e scompaiono di nuovo l’uno accanto all’altro e l’uno dopo l’altro”. E sottolinea come Epicuro avesse accettato questa concezione della natura di Democrito, apportando alcuni mutamenti il più decisivo dei quali è la cosiddetta “declinazione degli atomi”. E nota ancora come secondo Epicuro, ateo non è colui che disprezza gli dei della massa, ma chi aderisce alle opinioni della massa sugli dei. Marx definisce Epicuro “il più grande illuminista greco” dal momento che lotta contro la religione e col “suo sguardo minaccioso atterrisce dall’alto dei cieli i mortali”. L’incontro di Marx con questi filosofi greci non rappresenta ancora la sua adesione al materialismo, ma evidenzia anzi la grande influenza che su di lui esercita ancora, a quel tempo, la filosofia hegeliana. Il passaggio al materialismo avviene più tardi nel tempo. Il suo approccio all’attività politico-letteraria è fortemente utopico e radicale.

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Mentre Marx inizia il suo impegno politico-sociale con una critica della filosofia del diritto, Engels si cimenta con la critica dell’economia politica. Quando scrive “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”, Marx è ancora un democratico radicale. Soltanto quando viene a contatto con il movimento comunista reale egli compie il passaggio al campo socialista. Decisivo, ai fini di questa scelta, si rivela il suo soggiorno in Francia, durante l’esilio a Parigi, nel 1843-44. La cultura dei francesi è relativamente progredita, proprio in conseguenza della situazione sociale e politica che si è venuta a creare nel Paese, ed esercita pertanto grande influenza sul processo di formazione del suo pensiero. A quel tempo la società borghese francese è già entrata in conflitto con il proletariato e tra le file dei lavoratori sono già diffuse le idee del socialismo utopistico. Marx eredita da Rousseau l’idea che l’uomo nasce libero, e naturalmente buono, e che a guastarlo è la società mal organizzata. Studiando la rivoluzione francese si rende conto delle lotte e dei desideri di quel tempo. Il vantaggio che trae dall’esperienza acquisita durante il soggiorno in terra di Francia consiste nel fatto che egli è conoscitore a fondo di tutte le conquiste del pensiero filosofico tedesco. Unitamente agli studi economici che compirà poi con Engels, impegnato ad approfondire lo sviluppo dell’industria inglese, la filosofia tedesca e il socialismo dei francesi costituiranno la triplice fonte delle sue teorie. Non a caso Marx definisce il proletariato tedesco il teorico di quello europeo, quello inglese il suo economista, quello francese il suo politico. A riguardo di questa triplice matrice del marxismo, c’è chi sostiene che andrebbe aggiunta una quarta fonte, e precisamente il populismo russo, materia che in età più avanzata egli studia a fondo e che successivamente costituirà la base del marxismo-leninismo. Uno degli elementi formatori del pensiero marxiano è rappresentato dalle concezioni classiche e rivoluzionarie del Blanqui e dei neobabuvisti. Risalta pure chiaro in Marx lo spirito proletario tipico degli artigiani e degli operai tedeschi impegnati nella costruzione pratica e teorica di un movimento organizzato dei lavoratori. Egli fa sue le tesi di “morale” sociale di Owen, e anche certe intuizioni economiche di Blanc e di Proudhon. Se Engels, come Karl amava ricordare, “balbetta in venti lingue”, lui legge e rilegge nelle lingue originali, oltre i classici greci e latini, Dante e Machiavelli, Shakespeare e Swuft, Moliere e Diderot, Cervante e Calderon. E’ un divoratore di romanzi contemporanei, soprattutto inglesi. E per leggere Puskin, Lermontov, Gogol, Turganev, Herzen, impara il russo. Oltre a tutte le lingue germaniche e romanze, che legge con facilità, studia anche l’antico slavo e il serbo. Pur considerandolo un reazionario, ama Balzac perché, a suo dire, esprime la verità dei rapporti sociali ben più a fondo di tanti sedicenti scrittori di sinistra. Marx non si esprime mai con i “forse” o i “probabilmente”, ma mostra di avere sempre la certezza di quel che dice. E’ un polemista sferzante, talvolta sprezzante, demolitore antidogmatico di pregiudizi, ostico a ogni ortodossia e autorità precostituita. Disprezza ciò che definisce “le reciproche concessioni e le mezze misure tollerate per amor delle apparenze”, così come non tollera i romantici rivoluzionari ricchi di sentimento ma poveri di comprensione. Addita l’incapacità dei signori e la infingardaggine dei servi e dei sudditi che lasciano che tutto avvenga come a dio piace, dal momento che ritiene le due cose insieme sufficienti a provocare una catastrofe. Chiama “morti vivi” quei suoi compagni di gioventù che hanno tradito la causa del proletariato e definisce clown Edgar Bauer che fa l’agitatore comunista. Con Bakunin ha un contrasto irriducibile che riguarda non soltanto motivi ideologici e politici, ma anche elementi razziali, nazionali e di rancore personale. Di lui lo stesso Bakunin dice: “Marx come tedesco e come ebreo è un autoritario da capo a piedi… Lasciando da parte tutti i brutti tiri che ci ha giocato, noi non possiamo, o almeno io non posso disconoscere gli enormi servigi che egli ha reso alla causa del socialismo alla quale da quasi venticinque anni presta la sua opera con intelligenza, energia e integrità, superando senza dubbio tutti noi. E’ stato uno dei primi fondatori, e certamente il principale fondatore dell’Internazionale, e questo a mio giudizio è un enorme merito, che riconoscerò sempre, qualunque cosa possa aver fatto contro di me”. Ma aggiunge anche che Marx “non mi può soffrire… non ama nessuno se non se stesso e forse i suoi intimi”. 33


Karl definisce Mazzini un “Teopompo” (storico greco più volte costretto all’esilio) e un “vecchio somaro”. E come ricorda Kautsky, di Proudhon dice: “Non mi sono mai unito alle grida del suo ‘tradimento’ della rivoluzione. Non è stata colpa sua se egli, originariamente frainteso dagli altri come da se stesso, non ha esaudito delle speranze ingiustificate”. Marx subisce innumerevoli angherie e discriminazioni e gode il privilegio di essere oggetto di forsennati attacchi e confutazioni. Viene costretto a esiliare ripetutamente: nel 1849 lascia la Francia per raggiungere Londra subendo l’esilio per la terza volta. Gli editori tedeschi che si vantano della loro indipendenza rifuggono davanti al suo nome divenuto sinonimo di “malfamato demagogo”. E tutti i partiti tedeschi lo calunniano. Poiché però i tratti della sua integerrima figura balenano sempre tra i vapori artificiali, nei suoi confronti subentra la perfidia e viene praticata l’astuzia del silenzio sistematico. Quando, esule in terra inglese, vuole sostenere le sue tesi, per evitare di finire espulso, ricorre a pseudonimi firmandosi Howard Merton o J.G.Eccarius. Marx ripete spesso che i libri sono i suoi schiavi. Si consideri, a riguardo della sua attitudine alla lettura e allo studio, che per stendere il suo capolavoro scientifico (“Il capitale”) egli affronta una serie infinita di questioni: dalla storia primitiva all’agronomia, dai rapporti di proprietà fondiaria russi e americani alla geologia, dalle scienze alla politica, ovviamente. Vivere per lui equivale lavorare sodo e di continuo, e lavorare per lui significa soprattutto lottare. “Lavorare per il mondo” è una delle sue frasi preferite. Sue qualità, a dire di Mehering che ha scritto una minuziosa biografia su di lui, sono: la chiara e profonda conoscenza delle leggi dello sviluppo storico, l’energia di volere ciò che è necessario e la pazienza di contentarsi del possibile, la tollerante indulgenza per l’errore fatto in buona fede e l’imperiosa inflessibilità contro l’ignoranza ostinata. E’ caratteristico di Marx, del suo procedimento intellettuale, il leggere o l’ascoltare appassionatamente gli altri, magari per poi contestarli o criticarli con grande foga, non senza comunque utilizzare le opinioni raccolte ai fini della sua costruzione teorica. Engels sostiene che a Marx doveva essere mancato il tempo di essere breve. L’insaziabile brama di sapere lo costringe ad affrontare rapidamente i problemi più difficili, dato che l’inesorabile autocritica gli impedisce di venirne altrettanto rapidamente a capo. L’incitamento a riflettere, alla critica e all’autocritica è senz’altro l’elemento più originale della dottrina che egli ci lascia. “Noi abbiamo da compiere la critica senza riguardi di tutto ciò che esiste, senza riguardi nel senso che la critica non ha paura dei propri risultati e tanto meno del conflitto con i poteri”, ammonisce. La sua critica è spietata e la scrupolosità lo spinge sempre a nuove ricerche. E non si accontenta mai di fare autocritica, tanto è che nella prefazione al primo libro de “Il capitale” dichiara: “Sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica”. 2.2 – La concezione materialistica della storia Giunto a poco più della metà della sua esistenza e quando ancora le sue elaborazioni più importanti non avevano ancora visto la luce, Marx scrive: “Ciò che io ho fatto di nuovo è stato... dimostrare che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato”. Eppure, a quel tempo egli aveva già dato inizio a quell’imponente opera che rappresenta una pietra miliare del progresso dell’umanità. La grandezza del suo lavoro consiste nel fatto che egli è riuscito a dimostrare che lo sviluppo della società non è determinato solo dalle idee, ma dai rapporti di produzione, e che lo stesso corso delle idee dipende dal corso delle cose. Le due geniali elaborazioni che Marx assieme a Engels ci lascia in eredità, sono la concezione materialistico-dialettica della storia e la rivelazione del “segreto” della produzione capitalistica mediante il plusvalore. Con questo suo contributo il socialismo diventa una scienza la quale, come vedremo, ha necessariamente bisogno di essere rielaborata in continuazione.

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Marx ed Engels hanno elaborato le loro teorie avvalendosi, nella maniera più ampia e completa possibile, del patrimonio di sapere positivo accumulato fino a quel tempo dall’umanità. Come ha sottolineato Lenin, “Marx ha rielaborato criticamente, senza tralasciare un sol punto, tutto quello che la società umana aveva creato”. In effetti, nel corso della loro esistenza, i due padri del socialismo scientifico studiano un’infinità di materie: filosofia, storia, economia, matematica, scienze, e altre ancora, e prima di stendere “Il capitale”, Marx ricompone il “sapere” che già la cultura di quell’epoca aveva scomposto sull’onda delle divisioni sociali. Uno degli aspetti che più colpisce è che molti dei lavori più importanti di Marx sono rimasti incompiuti, nonostante la dedizione e determinazione che contraddistinguono l’autore. I “Manoscritti del 1844”, le “Teorie sul plusvalore”, i “Grundrisse” e lo stesso “Il capitale” hanno difatti avuto tale sorte. La causa di questa incompiutezza è da ricercarsi nella natura stessa del suo lavoro e nel suo proposito di superare la filosofia e l’economia politica per rimpiazzarle con una “scienza dell’uomo” globalmente integrata, empiricamente fondata e praticamente provata e realizzata. Il suo è un lavoro immane, enciclopedico, testimoniato peraltro dall’ampiezza delle spiegazioni che egli fornisce in continuazione ai suoi lettori; una fatica che chiaramente va al di là delle possibilità di un qualsiasi singolo individuo. Quando si propone di scrivere “Il capitale”, egli ha in mente di realizzare tre volumi: uno sul salario, uno sullo Stato e il terzo sul mercato mondiale. E’ questo un proposito che non realizzerà mai. Nemmeno il secondo e il terzo volume de “Il capitale” che sono arrivati a noi, sono stati portati a termine, anzi non sono stati nemmeno da lui riveduti. Come pure egli non è riuscito a completare quella parte dell’opera che si proponeva di sviluppare a riguardo dell’economia della società contemporanea. Nonostante queste inadempienze, il patrimonio accumulato negli scritti marx-engelsiani è estremamente ricco e complesso. Al pari di altri grandi pensatori, Marx ed Engels vengono generalmente considerati degli ideologi e non degli scienziati quali in realtà sono. Essi non hanno nulla a che fare con l’“umanismo” astratto, prova ne è il fatto che nel loro pensiero non c’è una sola traccia di quelli che potrebbero essere definiti “concetti ideologici”. E questo, a dispetto di molti critici ed estimatori, vale anche per il cosiddetto “Marx giovane”. Deve essere ben chiaro che il pensiero marx-engelsiano non è affatto una ideologia, come molti, purtroppo anche a sinistra, credono o si ostinano a far credere. La loro teoria è una vera e propria scienza. Può piacere oppure no riconoscerlo, ma tale è la sua natura e nessun intellettuale serio e onesto può dubitarne. Chi non vuol riconoscere questa verità è insipiente o semplicemente in mala fede. Una delle battaglie che Marx conduce fino all’estremo, infatti, è proprio quella contro l’ideologismo da lui considerato “falsa coscienza”. Vale la pena ricordare che l’ideologia non è altro che la cristallizzazione di un’idea o di un sistema di idee attraverso cui viene giudicato il passato, il presente e il divenire delle cose di questo mondo, a cui consegue necessariamente un determinato modo di agire. La sua produzione avviene sul piano sovrastrutturale, si realizza attraverso l’ignoranza di taluni processi reali, attraverso il distacco dalla realtà delle cose e dietro l’impulso del conseguimento di una verità assoluta, evitando così il travaglio della ricerca e l’angoscia dell’incertezza. A riguardo dell’origine e della natura del pensiero marx-engelsiano, deve essere ben chiaro che torna però impossibile separare la formazione filosofica di questi pensatori dagli idealisti quali Kant, Fichte, Schelling, Hegel. Come è noto, secondo la concezione filosofica di quest’ultimo in particolare, la materia è indeterminata ed è il pensiero che fonda il reale. E da giovane, come abbiamo visto, Marx è stato hegeliano. Egli ha fatto sue le acquisizioni del maestro, ma è stato capace di non attestarsi su di esse e di proseguire la ricerca filosofico-politica lasciandosi alle spalle l’influsso umanista della giovinezza, guardando la società con un approccio storico e materialista. Ne sono testimonianza “L’Ideologia tedesca“ e le “Tesi su Feuerbach”. Così Gramsci spiegava la 35


differenza tra il maestro e l’allievo: “Ciò che v’è d’essenziale nel fatto storico è per Hegel l’Idea, che si sviluppa dialetticamente; per Marx, è la materia (il fatto economico) che si sviluppa egualmente”. Compiuto questo salto di qualità, ai suoi occhi l’elemento ideale è apparso come l’elemento materiale che si trasferisce e si traduce nel cervello dell’uomo. L’ideologia diviene così un insieme di concetti, idee, nozioni, rappresentazioni in cui si annidano i bisogni di identità e di mutuo riconoscimento degli esseri umani. Non a caso le forme classiche dell’ideologia sono rappresentate dalle concezioni politiche, dalla morale, dall’arte, dalla religione. E l’ideologo appare a Marx come colui che è spinto a osservare il mondo alla rovescia. “L’ideologia - ha scritto Engels a Mehring nel 1893 – è un processo che viene bensì compiuto dal cosiddetto pensatore con coscienza, ma con una falsa coscienza. Le vere forze motrici che lo muovono gli rimangono sconosciute, altrimenti non si tratterebbe di un processo ideologico. Egli s’immagina dunque delle forze motrici false o apparenti. Poiché si tratta di un processo di pensiero, egli ne deduce tanto il contenuto che la forma del pensiero puro, o dal proprio, o da quello dei suoi predecessori... E’ innanzi tutto quest’apparenza d’una storia indipendente dalla costituzione degli Stati, dei sistemi giuridici, delle rappresentazioni ideologiche in ogni campo particolare, che acceca la maggior parte della gente. Quando Lutero e Calvino ‘superano’ la religione cattolica ufficiale, quando Hegel ‘supera’ Fichte e Kant, quando Rousseau col suo ‘Contratto sociale’ ‘supera’ indirettamente il costituzionale Montesquieu, questo processo rimane all’interno della teologia, della filosofia, della scienza politica, costituisce una tappa nella storia di questi campi del pensiero e non esce dal campo del pensiero”. Non è peraltro da dimenticare che a giudizio di Marx e di Engels, gettando via Hegel per intero, Feuerbach ha gettato via troppo; occorre invece, a loro giudizio, trasferire la dialettica rivoluzionaria di Hegel dal regno del pensiero al regno della realtà. Ed è appunto quello che essi hanno fatto. “Nella pratica – asserisce Marx - l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La contesa sulla realtà o l’irrealtà di un pensiero, che l’isola dalla pratica, è una questione puramente scolastica”. Negli abbozzi di lettera a Vera Zasulic, egli afferma risolutamente che tutte le grandi idee storiche hanno le loro radici “nei bisogni della vita”, cioè in determinate condizioni sociali ed economiche. A suo giudizio “l’idea ha fatto sempre una brutta figura tutte le volte che è apparsa separata dall’interesse”. La vita umana è intesa da Marx e da Engels come un rapporto dialettico di tutti i suoi aspetti, tra i quali quello economico ha il peso maggiore. Contrariamente ai pensatori idealisti, essi individuano la base materiale nella totalità sociale e da essa risalgono a una concezione della stessa totalità facendo sì che non risulti più idealisticamente mistificata, ma venga concepita nelle sue reali articolazioni. E ci chiariscono come la storia è un processo determinato dagli uomini e non dagli dei, come l’uomo non è la creatura di dio, ma il prodotto del processo storico, e sempre contrariamente a come fanno gli idealisti, i quali spiegano la realtà partendo dalle idee, spiegano le idee partendo dalla prassi. Ne “L’ideologia tedesca” essi sostengono che, di conseguenza, “tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell’ ‘autocoscienza’ o trasformandoli in ‘spiriti’, ‘fantasmi’, ‘spettri’, ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; …non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria”. Questo, appunto perché non la materia è un prodotto dello spirito, ma lo spirito è il prodotto più alto della materia. Per spiegare la coscienza occorre dunque partire dalla realtà e dal presupposto che gli individui sono il prodotto delle condizioni materiali della loro produzione. “Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc.... La morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica... non hanno storia, non hanno sviluppo… sono gli uomini che sviluppano la loro 36


produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero”. “Il pensiero teorico di ogni epoca, e quindi anche della nostra, è un prodotto storico”. Gli uomini fanno se stessi e non possono cambiare senza cambiare il mondo. E operando sulla natura fuori di sé e cambiandola, l’uomo cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Nel momento in cui Marx ed Engels si sono resi conto che l’umanesimo e l’emancipazione dell’uomo possono essere conseguiti solo combattendo sul terreno concreto della storia e non invece nel solo campo del pensiero, hanno dichiarato guerra a tutti gli dei del cielo e della terra. Il grande sforzo concettuale che essi hanno compiuto è quello di aver dato piena autonomia alla scienza della società rispetto alla filosofia. Non essendoci in loro traccia alcuna di utopismo, essi non inventano, non immaginano una società “nuova”, ma studiano la genesi della società che sorge da quell’antica, così come fa lo studioso di un processo di storia naturale. In questo modo attribuiscono importanza decisiva alla ricerca, alle diverse interpretazioni dei singoli fenomeni, alla disponibilità dello studioso di revisionare il proprio pensiero sulla base dell’acquisizione di nuove conoscenze. Raccomanda Engels al proposito: “Bisogna ristudiare tutta la storia, bisogna indagare nei particolari le condizioni d’esistenza delle diverse formazioni sociali, prima di tentare di dedurre da esse le concezioni politiche, giuridiche, estetiche, filosofiche, religiose, ecc. che ne derivano”. E Marx ammonisce: “Bisogna dubitare di tutto”. E il primo a non essere dogmatico e a dubitare delle sue stesse convinzioni è proprio lui applicando su se stesso questo criterio. Quale critico della riduzione della teoria a ideologia, del resto, già nel 1847 afferma categorico: “Noi non siamo venditori di sistemi”. Negli ultimi anni di vita Marx è talmente preoccupato della possibile comparsa di un “comunismo scientifico” che somigli a una religione laica, a un dogma, da dire al genero Lafargue: “Dev’esser chiaro che io non sono marxista”. E pure Engels precisa in continuazione che “la nostra dottrina non è un dogma, ma una guida per l’azione”. Il loro pensiero dunque non è da considerarsi un “vangelo” o una “sacra scrittura”, cioè una verità intoccabile e indiscutibile come nel corso della storia purtroppo qualcuno ha fatto. Per loro, il pensiero è un movimento che non ha mai fine, che non tollera dogmi e schematizzazioni. La specificità dell’elaborazione marx-engelsiana è l’unità di teoria e prassi, è il farsi azione politica della filosofia, mentre l’azione politica si fa filosofia. Il loro rapporto tra il pensare e il fare è radicalmente diverso da quello, per esempio, che è intercorso tra il messaggio evangelico e la sua istituzionalizzazione ecclesiale o tra la filosofia rousseauiana e il “Terrore” giacobino o tra Nietzche e Hitler o, ancora, tra la stessa teoria marxiana e il marxismo-leninismo staliniano. Non riconoscere questa originalità significa ridurre Marx ed Engels a semplici filosofi. Tanto meno il loro pensiero è da considerarsi una teoria generale della società, così come lo ha interpretato Bucharin. Se così fosse, diventerebbe appunto una “filosofia sociale” speculativamente dedotta e non derivata dall’analisi dei processi sociali, considerato che ogni sistema o forma di società vanta proprie leggi specifiche. Marx propone il superamento della filosofia speculativa, poiché essa non si dimostra consapevole delle proprie radici sociali. Il senso della critica che egli rivolge all’ideologia sta proprio in questo processo evolutivo. La sua è una critica al conoscere statico dell’azione, alla non consapevolezza dell’essere elemento costitutivo della prassi. In questo suo modo d’intendere, la filosofia subisce la trasformazione da speculativa in metodo-concezione-critica-prassi. Concependo il movimento come modificazione in generale, egli supera tutto il materialismo tradizionale, che risulta ancorato ad elementi immutabili, e assume a principio la dialetticità assoluta di tutto l’esistente. Sostiene che compito della filosofia critica deve essere quello di dare alla società la coscienza di se stessa e rimprovera ai filosofi di essersi limitati soltanto a interpretare il mondo, quando invece si tratta di trasformarlo. La sua critica alla filosofia giunge alla 37


conclusione che la concezione del mondo non può essere il risultato di una deduzione speculativa, bensì dell’analisi dell’economia e delle strutture sociali. Solo da una simile evoluzione del pensiero umano può emergere, a suo giudizio, un nuovo intellettuale in grado di non illudersi della propria purezza di “anima bella” di fronte alla lotta sociale e politica e di assumersi invece la responsabilità di fronte all’umanità. Marx ed Engels ci hanno dunque lasciato prima ancora che una critica della società capitalistica, un metodo di pensiero e di indagine della realtà sociale dal quale discende la stessa teoria di una società alternativa. Questo metodo è il materialismo storico-dialettico. Il materialismo è quella corrente storica della filosofia che riconosce la materia come primaria e la coscienza o il pensiero come secondari. Democrito ed Epicuro, come ci ha ricordato lo stesso Marx, sono appunto i capiscuola di questa corrente. Prima di Marx i materialisti non collegavano le loro concezioni con l’idea dello sviluppo, non applicavano la dialettica e non erano in grado di estendere il materialismo al campo delle relazioni sociali. A fronte dell’evoluzione delle scienze naturali, che dimostrano come la materia organica e inorganica è soggetta a continui mutamenti, Marx ed Engels si propongono di mettere a punto una teoria materialistica della storia e della vita sociale. Per raggiungere questo obiettivo sono costretti a liberare il materialismo dalle pastoie meccanicistiche e integrare in esso le stesse conquiste del pensiero hegeliano. Compiuta tale operazione, essi dimostrano che le stesse forme della società sono mutevoli e con coerenza applicano ad esse il criterio dello sviluppo storico. Il pensiero, a questo punto, viene considerato prodotto del cervello pensante che si appropria del mondo reale. Marx ha così formulato la tesi iniziale del materialismo storico: “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. E’ qui il caso di ricordare che egli non ha mai chiamato materialistica la sua concezione e non ha mai adoperato la formula “dialettica materialistica”, ma ha invece usato il termine “razionale” in contrapposizione al termine “mistica”. Il materialismo storico vede nello sviluppo dei beni materiali necessari all’esistenza dell’uomo la forza principale che determina tutta la sua vita sociale, fino a condizionare la transizione da un regime sociale all’altro. Questa concezione del mondo individua nell’economia la forza principale che determina la vita sociale e che “fa la storia”. E spiega, tra l’altro, come la produzione e lo scambio dei prodotti siano alla base di ogni ordinamento sociale; come ogni mutamento sociale non possa e non debba essere ricercato nella testa degli uomini, bensì nel mutamento del sistema di produzione; come ogni ordinamento politico e sociale sia una emanazione diretta del comportamento materiale di un popolo. Ne “L’ideologia tedesca” Marx ed Engels sostengono la tesi che “non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita spieghiamo anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita”. Il materialismo dialettico è invece l’interpretazione scientifica del mondo e affronta i fenomeni della natura, li studia e li conosce con metodo appunto dialettico e secondo un’interpretazione materialistica. Esso integra tutti i campi del sapere, contrastandone cioè la frammentazione e parte dal principio che non c’è nulla al mondo al di fuori della materia in movimento nello spazio e nel tempo. L’essenziale dell’interpretazione dialettica è l’analisi della realtà nel suo processo di formazione, nel contesto generale della totalità in cui è inserita, nel suo rapporto con lo stesso soggetto che la analizza. Prima di Marx il movimento socialista si muoveva nell’ambito di forme tradizionali della comprensione della realtà e dell’oggetto, della conoscenza e del sapere, dell’azione e della coscienza dell’azione. Il materialismo aveva un carattere intuitivo, era una semplice “visione del 38


mondo” e non momento integrante di una concezione della prassi. All’unilaterale visione meccanicistica della natura e dell’uomo, Marx ed Engels hanno dunque sostituito una teoria dello sviluppo che abbraccia tutti i campi della realtà. Hanno esteso il materialismo all’interpretazione della vita sociale e hanno assunto come loro punto di vista la società umana, o meglio, l’umanità socializzata. Essi, in sostanza, hanno dato avvio alla comprensione della storia come processo che non ha bisogno, per essere spiegato, di forze misteriose estranee alla vita, bensì come processo che si svolge nel quadro di condizioni materiali oggettive, come processo regolato da leggi proprie. Essi spiegano la prassi non partendo dalle idee, ma spiegano le idee partendo dalla prassi. Ciò che gli individui sono – come già abbiamo visto – dipende dalle condizioni materiali della loro produzione, da ciò che producono, dal modo come producono. La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni tra gli uomini. Non è appunto la coscienza che determina la vita, ma è la vita che determina la coscienza. Avvertendo al tempo stesso, però, che le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze. Nelle “Tesi su Feuerbach” Marx precisa: “La dottrina materialistica per cui gli uomini sono prodotti dell’ambiente e dell’educazione dimentica che sono proprio gli uomini che modificano l’ambiente e che l’educatore stesso deve essere educato”. Se è vero pertanto che l’essere sociale determina la coscienza, non è meno vero che la coscienza, a sua volta, anticipa e precorre l’essere storico. Solo dall’attivo processo di interazione nasce la storia e quindi è più esatto dire che la coscienza è parte integrante dell’essere sociale. Scrive Engels in “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”: “Il momento determinante della storia, in ultima istanza, è la produzione e la riproduzione della vita immediata. Ma questa è a sua volta di duplice specie. Da un lato, la produzione di mezzi di sussistenza, di generi per l’alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose; dall’altro, la produzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie. Le istituzioni sociali entro le quali gli uomini di una determinata epoca storica e di un determinato paese vivono, sono condizionate da entrambe le specie della produzione: dallo stadio di sviluppo del lavoro, da una parte, e della famiglia, dall’altra”. La teoria della storia sviluppata da Marx e da Engels asserisce quindi che il modo in cui l’uomo agisce e pensa è determinato in ultima analisi dal modo in cui si procura da vivere e che pertanto il fondamento di ogni società è il suo sistema economico. Conseguentemente, il mutamento economico si rivela la forza motrice della storia. Il materialismo storico dialettico costituisce dunque l’antitesi dell’opinione secondo cui la storia deve interpretarsi come autosviluppo delle idee. La teoria marx-engelsiana mette in primo piano l’interagire pratico degli uomini, la processualità ai diversi livelli della vita e della realtà sociale, le strutture che da questa processualità emergono, il loro reciproco interferire, il loro dialettizzarsi. Si tratta di una impostazione che cerca di continuo la verifica empirica. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare un’epoca di sconvolgimenti dalla coscienza che ha di se stessa. Occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale. Nell’”Anti-Duhring” Engels contesta con forza la possibilità di raggiungere “verità pure” e “immutabili” nell’ambito sia della scienza della natura che in quella della società, e dunque dello stesso materialismo scientifico, il cui progresso nella conoscenza del mondo si realizza necessariamente attraverso una serie di errori e di aggiustamenti. Emerge in queste considerazioni la consapevolezza che una comprensione adeguata ed esauriente della totalità dei nessi che si svolgono nella realtà è per l’uomo una vera e propria conquista. La realtà nella sua interezza, il mondo naturale, storico e spirituale, costituiscono in se stessi movimento, trasformazione incessante, e il pensiero è costretto ad adeguarsi nella propria ricerca a questi processi. E ciò non è affatto cosa semplice. La visione storico-dialettica si sforza di vedere le cose nel loro nesso d’insieme, nel loro movimento, nel loro concatenamento. 39


Marx ed Engels giungono infine alla conclusione che tutte le forme e i prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, ma solo attraverso il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti. La concezione materialistica, storico-dialettica, non è dunque una sorta di filosofia della storia che ci può dare la chiave per interpretare tutta la storia della società, ma più semplicemente è la chiave per indagare il carattere concreto, specifico, di ogni singola formazione sociale. E’ un canone, un criterio d’interpretazione scientifico fondato sulla critica. Ecco, in estrema sintesi, la parafrasi della genesi e del contenuto della dottrina critico scientifica del materialismo storico dialettico, almeno come io l’ho recepita! 2.3 – Storicità e diversità dei modi di produzione Con i loro studi, Marx ed Engels dimostrano come la società umana sia mutata nel corso dei secoli assumendo numerose forme tra loro differenti e come ogni periodo storico vanti leggi sue proprie. Non essendoci nulla di statico, anche le strutture della società sono una realtà in movimento. Anche i rapporti di produzione e i modi di produzione risultano essere dinamici. Le stesse connessioni tra un’epoca storica e l’altra, prima di scomparire, lasciano posto a quel che è in divenire. Allo scopo di interpretare la periodizzazione e la dinamica della storia umana, i padri del socialismo scientifico analizzano i modi di produzione che si sono susseguiti nel tempo, e scoprono che ognuno di essi vanta forme tecniche, divisione del lavoro e sistema di scambio specifici. Gli stessi rapporti sociali che si instaurano tra gli uomini e determinano le classi sociali, appaiono diversificati. Rivelano poi che i cambiamenti strutturali prima di albergare nella testa degli uomini, si realizzano nella materialità dei sistemi di produzione. Marx usa il termine “modo di produrre” o “modo di produzione” in diverse accezioni. Quello che piùricorre, si riferisce all’insieme dei rapporti sociali di produzione e delle forze produttive messe in atto in processi lavorativi che hanno una base tecnica storicamente determinata. Per designare società in seno alle quali le risorse appartengono a un’entità superiore, a uno Stato personificato da un sovrano reale, o da un signore immaginario, o da un dio, egli ricorre al concetto “modo di produzione asiatica”. Ritiene abbiano simili caratteristiche la Cina, l’India e anche la Russia degli Stati “semi-asiatici” o “semi-orientali”. Il modo asiatico di produzione ha una caratteristica fondamentale, cioè l’assenza della proprietà privata della terra. Egli mette in risalto come ogni modo di produzione consenta la crescita delle forze produttive fino a un certo livello raggiunto il quale diviene esso stesso ostacolo allo sviluppo economico, perciò cede il campo a un nuovo modo di produzione in grado di consentire la ripresa dello sviluppo. A proposito di questo processo evolutivo, precisa: “Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza”. Ed evidenzia che “anche quando una società è riuscita ad intravedere la legge del proprio movimento non può né saltare né eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento. Ma può abbreviare ed attenuare le doglie del parto”. Marx ed Engels credono in una storia universale progressiva e argomentano come ciascuna formazione sociale, nonostante l’ineguaglianza dello sviluppo e i possibili arretramenti, risulti essere comunque superiore alla precedente. Dai loro studi deducono che nel corso della storia umana si sono succeduti quattro modi di produzione: quello comunista primitivo, quello schiavista, quello borghese e quello capitalista. A quest’ultimo dovrebbe, a loro parere, far seguito quello socialista, per la stessa logica secondo cui il capitalismo è succeduto al feudalesimo. Nel passaggio al futuro nuovo regime, quello socialista appunto, uno dei mutamenti fondamentali dovrebbe consistere nell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. E’ da ricordare che Marx ed Engels considerano il socialismo e il comunismo come fasi storiche di una civiltà superiore rispetto a quella borghese.

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Constatano poi che nella concatenazione dialettica degli avvenimenti storici, il presente contiene sempre le contraddizioni gravide delle soluzioni del futuro e che non esistono separazioni nette fra le varie tappe del processo storico. Essi non rigettano la storia passata e presente (comprese le idee e le teorie) ma, vedendo in essa un processo di sviluppo continuo e scoprendo le leggi del suo movimento, vanno alla ricerca delle ragioni e dei limiti delle stesse teorie e filosofie che considerano sbagliate, allo scopo di dimostrare il loro superamento e la prosecuzione del corso storico all’insegna di nuove idee e nuove teorie. L’economia classica considera il sistema capitalistico eterno ed armonico, mentre Marx ed Engels escludono che possa esistere un sistema di rapporti sociale definitivo. Nella produzione borghese essi vedono solamente una determinata forma storica di produzione sociale. Nella loro concezione non c’è nemmeno posto per un’utopistica “età dell’oro”, né dietro l’angolo né in prospettiva, cioè a distanza di tempo. Un’ipotetica “età dell’oro”, secondo il loro ragionamento, sarebbe da considerarsi la fine della storia, perciò la fine della stessa umanità. La storia è invece da loro considerata un processo aperto e non ci può essere un momento in cui si possa dire “ora l’essenza umana è stata pienamente realizzata”. La sua evoluzione è continua e infinita e non può esistere una meta assoluta. Le diverse epoche storiche, a loro giudizio, differiscono non tanto per quanto si produce, ma soprattutto per come si produce e per il tipo di mezzi di lavoro che vengono impiegati. La visione marx-engelsiana dell’evoluzione dei sistemi sociali è quella dello sviluppo di organismi sociali, di totalità organiche che crescono più o meno rapidamente per entrare infine in una fase di decomposizione e lasciare il posto a uno o a più sistemi economico-sociali differenti, uno dei quali alla fine è predominante. Marx rileva anche come lo stesso rapporto tra capitale e lavoro, così com’è venuto determinandosi nel tempo, non sia una risultante della storia naturale, poiché la natura non produce da una parte i possessori di denaro o di merci e dall’altra i puri e semplici possessori della sola propria forza lavoro. E pure come esso non sia neppure da considerarsi un rapporto sociale comune a tutti i periodi della storia, ma sia invece il risultato di un lungo svolgimento storico, anzi, il prodotto di molti rivolgimenti economici e sociali. Le tappe dello sviluppo del modo di lavorare e del modo di produrre, secondo Marx, scandiscono le varie fasi della civiltà e della cultura umana. I rivolgimenti sociali sono il prodotto di leggi oggettive dello sviluppo socio-economico e possono essere accelerati o ritardati dall’intervento cosciente dell’uomo. Con questa precisazione egli introduce il problema della soggettività rivoluzionaria intendendola appunto come un’abbreviazione delle doglie del parto. Nel contempo, avverte però che nessun tipo di società può superare con un salto mortale i gradi necessari del suo sviluppo storico. E pure che, proprio per questa ferrea logica, “l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione”. Nelle stesse rivoluzioni lo sviluppo storico non prende un corso diverso, ma soltanto un corso più celere. Ed è proprio in forza di questa constatazione che definisce gli eventi insurrezionali “locomotive della storia”. Marx non tralascia peraltro di spiegare l’inevitabile carattere oggettivamente cruento di questi passaggi storici. “Nella storia reale – sostiene – la parte importante è costituita, com’è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica (invece, aggiunge polemicamente) ha regnato sempre l’idillio”. Introduce così un elemento di drammatizzazione che smaschera il tono poetico con cui in genere gli storiografi descrivono la rivoluzione borghese. In “Contro l’anarchismo” egli commenta: “Non hanno mai veduto una rivoluzione questi signori? Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia; è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte col mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari, se ce ne sono; e il partito vittorioso, se non vuol avere combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi ispirano 41


ai reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno se non si fosse servita di questa autorità di popolo armato”. E pure Engels insiste su questo concetto ricordando che “la storia è la più crudele di tutte le dee; essa guida il suo carro trionfale su montagne di cadaveri, non soltanto in guerra, ma altresì nel ‘pacifico’ sviluppo economico”. E come dargli torto alla luce dei drammatici conflitti che la globalizzazione del capitale produce ancora oggi e delle tragiche condizioni in cui versano le aree povere del mondo, nonostante la straordinaria evoluzione tecnologica e civile dell’umanità? La sciocca fiducia filistea nella “riforma pacifica e legale”, che sarebbe da considerarsi superiore a tutte le esplosioni rivoluzionarie, è ovviamente estranea ai padri del socialismo scientifico; ai loro occhi la violenza, che piaccia o no, ha assunto di fatto nella storia il ruolo di “levatrice” di ogni nuova società. Commenta ancora Marx a questo riguardo: “Evidentemente l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi, la forza materiale non può essere abbattuta che dalla forza materiale, ma anche la teoria si trasforma in forza materiale non appena penetra nelle masse… Nessuna classe della società civile ha il bisogno e la capacità dell’emancipazione universale finché non vi sia obbligata dalla sua situazione immediata, dalla necessità materiale”. A dire di alcuni storici, anche di sinistra, ricorrendo al termine “levatrice della storia”, Marx avrebbe esaltato la funzione della violenza nei rapporti umani. Si tratta evidentemente di una delle tante interpretazioni dei suoi scritti la quale ha il difetto di non cogliere lo spirito e non tenere conto del contesto in cui vengono impiegate le parole e di privilegiare invece un loro uso speculativo. Di fronte a simili insinuazioni, a noi non resta che riproporre il noto consiglio dantesco: “non ti curar di loro, guarda e passa!”. In questa complessa ottica e con spirito aperto, i padri del socialismo scientifico procedono all’analisi del modo di produzione capitalistico. E lo fanno risalendo alle epoche più antiche. Incominciano col dimostrare come la proprietà privata compaia molto più tardi dell’inizio dell’umanità, esattamente con il passaggio all’uso da parte dell’uomo degli strumenti di metallo al posto di quelli di pietra. Solo quando iniziano a occuparsi dell’agricoltura, le tribù danno avvio all’accumulazione dei prodotti e ai traffici. Sono proprio queste pratiche che provocano la nascita della proprietà dando luogo all’accumulazione delle ricchezze nelle mani di pochi. Spiega Marx: “Il processo di scambio delle merci in origine non si presenta in seno alle comunità naturali e spontanee, bensì là dove queste finiscono, ai loro confini, nei pochi punti in cui entrano in contatto con altre comunità… Lo schiavo, il bestiame, i metalli, costituiscono per lo più il primo denaro in seno alle comunità stesse”. All’origine di questo lento processo ci sta l’accumulazione primitiva che, in seno all’evoluzione del modo di produzione feudale, dà avvio alla graduale separazione dei contadini dalla terra e consente il concentramento delle ricchezze monetarie e dei mezzi di produzione nelle mani della classe borghese in via di sviluppo. Ne “L’ideologia tedesca”, con l’aiuto di tutta una serie di esempi storici, Marx ed Engels dimostrano come lo sviluppo della divisione del lavoro abbia creato sempre nuove forme di proprietà e abbia reso obsolescenti quelle vecchie. Essi procedono quindi alla periodizzazione delle diverse tappe della nascita e dello sviluppo del modo di produzione capitalistico che in Europa avviene tra il XV e il XIX secolo. Agli inizi esso si sviluppa qua e là nell’agricoltura e nelle attività industriali, in maniera sporadica e subordinata. “Il capitale – scrive Marx – nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza lavoro. E’ il proletario privo di terra e di ogni altra forma di proprietà, interamente dipendente, il quale per sopravvivere deve vendere la sua forza lavoro in cambio di un salario”. “L’esistenza di una classe che non possiede null’altro che la capacità di lavorare, è una premessa necessaria del capitale. Soltanto il dominio del lavoro accumulato, passato, materializzato, sul lavoro immediato, vivente, fa del lavoro accumulato capitale”.

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Fra il secolo XVI e il XVIII il capitale si sviluppa in connessione con l’espansione coloniale e la creazione del mercato mondiale: è il periodo del capitalismo manifatturiero. Alla fine del secolo XVIII in Inghilterra, con l’invenzione delle prime macchine utensili e di un insieme di strumenti semplici, si realizza la rivoluzione industriale e la manifattura viene via via sostituita dall’industria che appunto utilizza il sistema delle macchine. Con il macchinismo e la grande industria il capitalismo dispone finalmente di un modo materiale di produzione adeguato per dare corso al suo pieno sviluppo. Costruisce la sua base tecnica e si regge sulle sue proprie gambe, crea cioè le condizioni materiali della propria esistenza e del proprio sviluppo, producendole e riproducendole, dal momento che non le trova già fatte. Negli anni fra il 1865 e il 1883, quando Marx è impegnato a scrivere “Il capitale”, il modo di produzione capitalistico conosce una nuova e superiore fase di sviluppo. Il capitale viene considerato da lui non una cosa, ma un rapporto sociale, più esattamente un rapporto tra classi antagoniste. E la distinzione che egli fa tra rapporti di produzione e sovrastrutture è una distinzione anzitutto di funzioni. Egli presuppone che la struttura economica corrisponda a un certo stadio di sviluppo delle forze produttive, ossia delle capacità materiali e intellettuali dell’uomo di agire sulla natura che lo circonda per trarne i mezzi materiali di vita e necessari al suo sviluppo sociale. Religione, famiglia, Stato, diritto, morale, scienza, arte, ecc., vengono da lui considerati particolari modi della produzione perchè cadono sotto la sua legge generale. Gli elementi generali della produzione sono quelli di sempre, ciò che muta è la forma della loro interconnessione, ed è precisamente quest’ultima a individuare un certo modo di produzione e una certa formazione sociale. L’elemento soggettivo della produzione è sempre l’uomo con la sua capacità lavorativa, ma sarebbe del tutto errato ritenere, ad esempio, che l’operaio, il servo della gleba e lo schiavo rappresentino la stessa funzione sociale. Così pure, i mezzi di produzione sono sempre un materiale naturale, “filtrato” da lavoro umano, che costituisce la condizione oggettiva di ogni produzione. Le attrezzature produttive della grande industria meccanizzata, però, non sono la stessa cosa dei semplici strumenti dell’artigiano e la differenza non consiste soltanto nella maggiore produttività che esse consentono, bensì nelle modifiche dell’organizzazione sociale, di cui queste sono il supporto materiale. Per Marx erano proprio queste leggi di movimento che andavano conosciute, perché esse costituiscono la forma specifica delle relazioni produttive sociali. E’ anche grazie a questa conoscenza che egli individua nelle classi le componenti della struttura sociale. Esse sono rappresentate dall’insieme di uomini e di donne che formano un dato strato o gruppo sociale e le cui funzioni, i cui interessi e obiettivi sono convergenti e al tempo stesso antagonisti a quelli di altri strati o gruppi sociali. Si tratta di differenziazioni che sono radicate nella divisione sociale del lavoro o, in senso più largo, nei rapporti di produzione e determinano le relazioni nei confronti della coscienza. Le divisioni tra gruppi, partiti e ideologie sono pertanto una conseguenza della tensione esistente nell’ambito dei rapporti sociali di produzione, in particolare, della divisione sociale del lavoro che causa non solo specifici tipi e sistemi di rapporti di proprietà, ma anche tipi di attività considerevolmente differenti e conseguentemente determinano i diversi livelli di coscienza. La divisione della società in classi produce difatti considerevoli differenze non solo nelle norme di comportamento, ma nel sistema stesso di valori e nella concezione del bene e del male. “La società – commenta Marx - non consiste di individui, bensì esprime la somma delle relazioni, dei rapporti in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro”. Pertanto, la tanto decantata unità del popolo altro non è che un’“ingannevole finzione della borghesia”. “La popolazione è un’astrazione se tralascio ad esempio le classi di cui si compone. E le classi a loro volta sono una parola priva di senso se non conosco gli elementi su cui esse si fondano, per esempio salario, capitale, ecc.. E questi presuppongono scambio, divisione del lavoro, prezzi ecc.”. Già nel ’45 Marx espone a Engels il pensiero secondo cui tutta la storia è stata storia di lotta di classi, lotte tra classi sfruttate e sfruttatrici, dominate e dominanti, nei diversi gradi dello sviluppo 43


sociale. “La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale – scrive – dispone con ciò in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad esse in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale”. E precisa: “Ogni nuova classe che prende il posto della classe che ha dominato prima di essa è costretta, per il raggiungimento del proprio fine, a rappresentare il proprio interesse quale interesse generale di tutti i membri della società ossia, parlando astrattamente, a dare ai propri pensieri la forma di universalità, a raffigurarli come gli unici pensieri ragionevoli e validi per tutti”. Marx ha sempre negato di essere l’inventore della teoria della lotta di classe; ciò che egli ha rivendicato a sé è soltanto di aver dimostrato che l’esistenza delle classi è legata a determinate lotte storiche di sviluppo della produzione, che la lotta di classe – come ho già ricordato – porta necessariamente alla dittatura del proletariato e che questa stessa dittatura non costituisce altro che il passaggio verso l’eliminazione di tutte le classi e quindi a una società senza classi. In effetti, a dispetto di molti avversari del movimento operaio, la lotta di classe esiste con o senza le teorie marxiane. Già l’ateniese Solone considerava i cittadini suddivisi in quattro classi secondo il possesso fondiario, mentre il re di Roma Servio Tullio divideva i cittadini in sei classi secondo il censo. Di classi parlano anche Machiavelli, Sismondi, Tocqueville, Mignet, Carlye e altri grandi pensatori vissuti anch’essi prima di Marx. La grande novità che ci viene fornita dall’autore de “Il capitale” consiste nell’aver accertato che lo sviluppo sociale si compie attraverso la lotta delle classi. Nel sistema borghese il rapporto tra il proletario e il capitalista è un rapporto di oggettiva opposizione, antagonistico, dal momento che si contrappongono sfruttati e sfruttatori. E la particolarità del pensiero marxiano sta nella conclusione che ne viene tratta e cioè che “soltanto la lotta delle classi sarà la fine di tutta questa merda (lo sfruttamento)”. “La classe operaia – precisa a questo riguardo - non ha da realizzare ideali (intendendo ideali astratti, separati dal processo reale, moralistici), ma da liberare gli elementi della nuova società di cui è gravida la vecchia società borghese”. Il corso storico, del rsto, insegna che è una pia illusione borghese l’immaginare possibile in regime capitalistico lo scambio individuale senza che insorgano contrasti di classe, così come è impensabile contemplare in questo tipo di società una condizione di armonia e di eterna giustizia. Franz Marek ci fa notare saggiamente che “l’esistenza delle classi e dei contrasti di classe può anche essere coperta con tanta paglia, ma tornerà sempre alla luce”. Un altro aspetto dell’elaborazione marx-engelsiana che assume notevole importanza è quello riguardante il rapporto tra struttura e sovrastruttura. Già nel 1859, nella prefazione a “Per la critica dell’economia politica”, Marx ha modo di spiegare questo rapporto sostenendo che “nella produzione sociale della loro vita gli uomini entrano gli uni con gli altri in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà: rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. Il complesso di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, la base reale, sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, ed alla quale corrispondono determinate forme della coscienza sociale”. E quando formula il concetto di “formazioni economico-sociali” per designare le logiche sociali originali che si succedono nel corso della storia, le quali corrispondono a uno specifico modo di produzione dominante, egli precisa: “Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia, le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo”. “Impadronendosi di nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i loro rapporti sociali… Quegli stessi uomini che stabiliscono i rapporti sociali

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conformemente alla loro produttività materiale, producono anche i principi, le idee, le categorie, conformemente ai loro rapporti sociali... che sono prodotti storici e transitori”. Per i due autori del “Manifesto”, dunque, non sono le leggi che spiegano la società, ma è la società stessa che spiega le leggi che la regolano. Bisogna dunque tornare ai rapporti sociali, alla società e alla sua struttura, alla sua dinamicità, per demistificare il pensiero che crea i “feticci”, i “miti” e per recuperare il carattere reale, umano, cioè storico-sociale, del pensiero medesimo. E nel compiere questa analisi si deve procedere non partendo dalla storia per arrivare alla struttura sociale, bensì dalla struttura sociale stessa per procedere verso la storia. Secondo Marx, il posto occupato nella struttura sociale che è determinata dal modo di produrre, gioca un ruolo decisivo nel pensiero di un popolo. Partendo dalle “Tesi su Feuerbach”, egli pone un indissolubile nesso tra il soggetto e l’oggetto. Questo nesso, che in lui non viene mai meno, è che l’essere sociale determina – come già abbiamo visto - la coscienza e non viceversa e chiarisce il prevalere dell’oggettività sulla soggettività. Gli obiettivi che l’individuo cerca di raggiungere, e in larga misura i motivi che ve lo spingono, non derivano dalla natura umana o da istinti, essi hanno le loro radici in un determinato ordine sociale. E questo vale in politica (i progetti e la prassi che li smentisce) come pure nella fede religiosa (i comandamenti e il peccato che li viola). Vi sono tuttavia passaggi della sua elaborazione teorica (si veda il “Manifesto”, “Per la critica dell’economia..”, “Il capitale”) in cui ciò che è posto in evidenza è il momento della soggettività. Lo stesso Engels insiste nel sostenere che “la situazione economica è la base, ma anche i diversi momenti della sovrastruttura… esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. C’è azione e reazione reciproca di tutti questi fattori”. Si tratta di un concetto che farà discutere molto e che sarà motivo di divergenze, di accese polemiche e di feroci scontri nello stesso movimento operaio e nella sinistra. D'altronde, l’elaborazione di una teoria della rivoluzione viene eseguita proprio in base all’interpretazione che viene data al rapporto tra oggettività e soggettività, tra struttura e sovrastruttura, ed è perciò comprensibile l’insorgenza di contrasti. Un aspetto che invece è stato assai spesso trascurato dagli stessi marxisti, è quello riguardante l’attribuzione al capitale di una funzione progressiva. Difatti, Marx esprime un simile giudizio in più circostanze. Lo fa, per esempio, quando sostiene che il suo sviluppo ha significato la civilizzazione dell’umanità, seppure in forme brutali, rispetto alle condizioni ataviche di sfruttamento e di subordinazione in cui la stragrande maggioranza di essa si trovava. Definisce la vittoria americana sul Messico, nella guerra del 1847, apportatrice di progresso, proprio in forza dello sviluppo in senso capitalistico che essa porta con sé. Interpreta la “missione” della Gran Bretagna in India come il tentativo di: “demolire l’antica società asiatica; gettare le basi materiali della società occidentale in India”. Polemizzando con Proudhon in “Miseria della filosofia”, gli rimprovera di dimenticare quello che è “l’aspetto rivoluzionario della fabbrica”, cioè la cancellazione delle specializzazioni e dell’idiotismo del mestiere. In altri scritti, nel descrivere la condizione contadina ereditata dal feudalesimo, si intrattiene sull’”idiotismo della vita rurale”, evidenziando come la maggioranza dei contadini sia analfabeta, passiva e superstiziosa e attribuisce al capitale una funzione emancipatrice. E lo fa nelle pagine de “Il capitale”, quando illustra il modo selvaggio in cui, nella prima parte del 19° secolo, i capitalisti dell’industria tessile inglese si appropriano del controllo sui processi di lavoro dei vecchi produttori creando il proletariato moderno. Egli condanna la loro immoralità, denuncia le sofferenze inaudite inflitte ai lavoratori in nome dell’appropriazione di plusvalore, ma non manca di sottolineare il carattere storicamente progressivo del nuovo modo di produzione capitalistico. Dopo aver comprovato come lo sviluppo della borghesia richieda “il sangue e il sudiciume, la miseria e l’abbrutimento” dei popoli, riconosce alla sua storica missione il merito di

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aver elevato il benessere materiale delle “nazioni” e di aver dato orizzonti universali all’arte e alla cultura. Paragona il modo di produzione capitalistico al cristianesimo per la sua caratteristica di essere cosmopolita e sottolinea come sia proprio l’epoca borghese a universalizzare la concorrenza e a costringere tutti gli individui alla tensione estrema delle loro energie. Non manca neppure di rimarcare come sia ancora la borghesia a distruggere il più possibile l’ideologia, la religione, la morale, e ne faccia fragranti menzogne quando questa operazione non le risulta possibile. Ne “L’ideologia tedesca” Marx ed Engels argomentano come la creazione di individui empiricamente universali sia di fatto un portato della società borghese, in quanto essa spinge nella direzione del mercato mondiale il quale è destinato a trasformare gli individui in attori della storia. Anche se poi questa universalità rappresenta a suo dire il soffocamento universale dell’individualità da parte della casualità. Un riconoscimento inequivocabile del ruolo progressivo della classe avversa lo si trova nello stesso testo costitutivo del movimento comunista, cioè nel “Manifesto”. “Con lo sfruttamento del mercato mondiale – esso recita – la borghesia ha dato un’impronta cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i Paesi.... (essa) costringe tutte le nazioni, se non vogliono andare in rovina, ad adottare il sistema di produzione della borghesia, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà...”. Questo suo atteggiamento quasi magnanimo nei confronti del “nemico” trova riscontro nella sua ferma convinzione che è proprio l’evoluzione del capitalismo a creare le basi materiali e le forme sociali e intellettuali di un nuovo modo di produzione, quello appunto dei lavoratori associati. Ci spiega poi la sua insistenza nel considerare il proletariato l’erede di quanto di meglio l’umanità ha prodotto, comprese le conquiste stesse del capitalismo. E infine dimostra la sua coerenza con il principio secondo cui “negare in dialettica non significa dire semplicemente no e dire che una cosa è inesistente, o distruggerla in qualche modo”. Egli riconosce in modo palese e chiaro quelli che sono gli aspetti postivi dei processi messi in atto dagli stessi soggetti che combatte con il massimo della sua forza e della sua rabbia, quali sfruttatori della classe lavoratrice. E lo fa con estrema determinazione, considerato che il primo volume de “Il capitale” vuole per lui rappresentare “il proiettile più temibile che sia mai stato scaraventato sulla testa dei borghesi”. A fronte della superficialità e semplificazione con cui, di regola ormai, analizziamo i processi del nostro tempo, questo suo modo di leggere la realtà delle cose con obiettività e rigore intellettuale dovrebbe rappresentare per noi un severo monito. 2.4 – L’anatomia del capitalismo Marx ed Engels ci consegnano documentate e fondamentali analisi del capitalismo dell’epoca in cui le uniche macchine sono ancora quelle a vapore, quando cioè l’Inghilterra conquista e mantiene il suo impero con i velieri e i cannoni di ferro. Il loro interesse per l’economia politica non è solo scientifico-economico, è anche pratico-umano. Essi considerano l’economia politica “l’anatomia della società civile”. Marx trasferisce le concezioni astratte dell’economia politica del suo tempo nei termini concreti dei rapporti sociali fra gli uomini e collega le concezioni economiche a quelle sociologiche. Non riduce la vita sociale all’economia come fanno gli studiosi borghesi, ma riporta l’economia al suo contenuto sociale e riscrive la politica economica come sociologia e la sociologia come storia. Nei “Manoscritti economico-filosofici” egli sostiene che “la rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani è il dogma principale dell’economia. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all’osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi, ecc., tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro, che né i tarli né la polvere possono consumare il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande 46


è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere straniato. Tutto ciò che l’economia ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza; e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro”. Come ebbe a commentare Schumpeter in “Capitalismo, socialismo e democrazia”, Marx “fu il primo grande economista che capì e insegnò in modo sistematico come la teoria economica possa trasformarsi in analisi storica e il racconto storico in histoire raisonnée”. Nelle sue ricerche Marx parte dai risultati dei classici dell’economia politica borghese, cioè da Smith e Ricardo, e fa sua la loro teoria del valore-lavoro secondo cui il lavoro è la fonte del valore e la misura del lavoro è il tempo. Mentre però Smith e Ricardo ritengono di aver espresso con la loro teoria del valore la legge naturale ed eterna di una società corrispondente alla natura umana, e non considerano il capitalismo come un fenomeno storico, Marx modifica il fondamento stesso di questa teoria e, come abbiamo visto, storicizza i processi economici. Egli è anche il primo a vedere il sistema economico come un sistema che, a un certo punto della sua evoluzione, si muove per forza propria, “motu proprio”, secondo quelle che egli chiama le leggi immanenti dello sviluppo del sistema. Dimostra cioè che non sono i propositi o le decisioni degli uomini che determinano lo scambio e la distribuzione delle ricchezze, ma le condizioni obiettive della loro produzione, le quantità dei vari beni che una data quantità di lavoro è in grado di produrre. E’ la teoria del valore-lavoro, o meglio la variante di quella che egli ha adottato da Ricardo. Mentre l’ideologia liberista considera il mercato una forma altamente democratica di organizzazione dell’economia e attribuisce alla concorrenza e alla libertà di iniziativa il valore di principi di democrazia e garanzia di controllo non autoritario sulla produzione e sulle imprese, la sua analisi delle leggi del movimento del capitale e dell’accumulazione svela l’intima contraddittorietà del meccanismo della concorrenza. Scrivendo “Il capitale”, che unitamente agli scritti economici è un autentico capolavoro di analisi scientifica, egli dimostra che il valore di una merce è determinato dal lavoro che entra nella sua fabbricazione e da null’altro. E’ il lavoro che produce un valore reale e soltanto il lavoro merita remunerazione. I profitti, le rendite e gli interessi sono da lui considerati compensi ingiustificabili, espressioni dello sfruttamento dei lavoratori. Studiando il processo di formazione del capitale individua le sue due principali caratteristiche: la prima è quella di produrre solo merci e di far diventare l’operaio stesso merce, nella veste di venditore di se stesso come forza lavoro; la seconda è l’essere luogo di formazione del plusvalore. Analizzando poi il processo di accumulazione rivela l’esistenza di una dialettica tra le forze produttive e i rapporti di produzione. Infine, dopo aver evidenziato le differenze tra il capitalismo e tutti i precedenti modi di produzione, conclude sostenendo che il capitale vive e si sviluppa sulla base di contraddizioni che non possono essere superate. Le grandi linee dell’analisi marxiana dell’economia possono essere così schematicamente riassunte: 1) la produzione è tipicamente organizzata da parte di individui privati il cui scopo è quello di vendere piuttosto che di consumare loro stessi le merci prodotte; 2) i mezzi di produzione sono monopolizzati da una piccola minoranza della popolazione totale; 3) la grande maggioranza degli uomini è costretta a lavorare per una minoranza allo scopo di guadagnarsi i mezzi di sussistenza; 4) i rapporti di compravendita trovano espressione quantitativa in termini di valore di scambio. Egli definisce sistema o “modo di produzione” l’insieme delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Le forze produttive sono costituite dagli strumenti e dai mezzi di lavoro con cui vengono prodotti i beni materiali e dagli uomini che compiono il processo produttivo in base a una determinata esperienza di lavoro; i rapporti di produzione sono invece le relazioni che si instaurano tra gli uomini durante la produzione dei beni materiali. Con l’evolversi delle forze produttive si ingenera tra queste ed i rapporti di produzione uno squilibrio che si traduce in conflitto, dal momento che i rapporti di produzione invecchiati 47


ostacolano l’ulteriore espansione delle forze produttive. Questo conflitto acuisce le contraddizioni tra le classi sociali, considerato che alcune di esse sono interessate a perpetuare i vecchi rapporti di proprietà, mentre altre tendono a instaurarne di nuovi. Il conflitto viene risolto con la distruzione rivoluzionaria dei rapporti antiquati e la loro sostituzione con dei nuovi rapporti che corrispondono al carattere delle forze produttive. Attraverso l’analisi minuziosa dell’evoluzione dei processi produttivi, condotta a ritroso nel tempo, Marx constata che l’accumulazione del capitale porta a una sua concentrazione e centralizzazione, cioè alla formazione dei monopoli, e che in questo percorso esso non si riproduce semplicemente, ma si ingrandisce e si moltiplica in continuazione. La sua analisi dà così corpo a una nuova versione dell’economia politica, a una dottrina del sistema non più una statica, ma a una scienza delle leggi dello sviluppo sociale, delle tendenze del mutamento della società, del trapasso da un sistema a un altro. Una dottrina che spiega come a creare il valore d’uso di una merce è il lavoro individuale concreto, quello che soddisfa bisogni particolari, mentre a determinare il valore di scambio è il lavoro sociale, universale, indifferenziato, la cui caratteristica è appunto quella di essere scambiabile. E come in regime capitalistico è il processo di scambio a determinare il rapporto di valore tra merci diverse, quando prima, nel baratto, era il valore d’uso. La critica che Marx muove alla proprietà privata si riferisce non alle sue singole forme, ma alla sua essenza che consiste nella contrapposizione del lavoro alla proprietà e nella sua subordinazione ad essa. Il capitalismo è anzitutto un’economia di mercato, cioè produttrice di merci, la quale non lascia “tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato ‘pagamento in contanti’”. “La mutua e generale dipendenza degli individui reciprocamente indifferenti costituisce il nesso sociale… espresso nel valore di scambio, e solo in esso… (per cui) ogni individuo, la propria attività o il proprio prodotto diventano un’attività o un prodotto fine a se stessi”. Egli documenta come il valore di scambio delle merci si cristallizzi nel denaro in quanto merce particolare e quale essenza stessa della produzione mercantile e sostiene che proprio in forza del suo essere “cristallizzazione del valore di scambio”, la moneta contiene in sé i germi della crisi economica. Anche il denaro, così come il capitale, è considerato da Marx non una cosa, ma un rapporto sociale che, al pari dello scambio, corrisponde a un determinato modo di produzione. Definisce il denaro “la forza galvano-chimica della società” e commenta: “Il denaro, grazie al dominio del senso dell’avere sopra ogni altra cosa, si pone tra l’uomo e il suo oggetto… poiché possiede la qualità di comprar tutto, la qualità di appropriarsi di tutti gli oggetti, è così l’oggetto in senso eminente. L’universalità della sua qualità è l’onnipotenza del suo essere, esso vale quindi come ente onnipotente. Il denaro è il lenone tra il bisogno e l’oggetto, tra la vita e il mezzo di vita dell’uomo... tramuta la fedeltà in infedeltà, l’amore in odio, l’odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, lo schiavo in padrone, il padrone in schiavo, l’idiozia in intelligenza, l’intelligenza in idiozia”. “Esso può mangiare, bere, andare a teatro e al ballo, se la intende con l’arte, con la cultura, con le curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto quanto; può tutto quanto comprare: esso è il vero e proprio potere”. E in considerazione di questa diagnosi ritiene che con il crescere delle merci “l’uomo diventa tanto più povero come uomo... e la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro”. Ecco una delle ragioni per cui Marx considera necessario superare l’economia politica! La sua critica però prosegue oltre. Dopo aver spiegato scientificamente la genesi del capitale, svela il meccanismo dello sfruttamento capitalistico. Dimostrando che lo sfruttamento è esistito in tutte le formazioni sociali che sono state caratterizzate dalla presenza di una divisione della società in classi antagoniste, sostiene che la differenza consiste nel modo in cui esso viene praticato. Già a partire da Adam Smith erano state elaborate diverse teorie dello sfruttamento. Marx si rifà a Ricardo e a W. Thompson in particolare, e distinguendo la forza lavoro dal lavoro fuoriesce dal circolo vizioso in cui si erano dibattuti i “classici” nella discussione sull’origine del profitto, il quale prima d’allora non era mai stato considerato plusvalore.

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Egli fa sua la formula kantiana secondo cui un uomo non deve essere usato come un mero mezzo da altri uomini e pure la teoria di Rousseau sulla inalienabilità della persona come diritto storiconaturale, per la quale nessuno può diventare merce senza essere alienato, negato, cancellato. In nome di questi principi si oppone con veemenza all’economia politica la quale attribuisce al capitale un enorme “potere di comando sul lavoro” e non considera il lavoratore come uomo nell’arco di tempo in cui esso non lavora. Attribuisce quindi un’importanza decisiva alla forza-lavoro la quale ne “Il capitale” viene definita come energia trasmessa a un organismo umano dai mezzi di sussistenza, come “l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valore d’uso di qualsiasi genere”. Quando tratta del valore della forza lavoro, egli si riferisce non esclusivamente a un livello di sussistenza puramente fisica, ma tiene in conto che nella determinazione pratica di ciò che deve essere considerato “necessario” all’esistenza umana varia a seconda del tempo e del luogo, è cioè un elemento storico e morale. Il capitale non si appropria dell’operaio, ma del suo lavoro, e lo fa non direttamente, ma attraverso lo scambio. Il capitalista non compra infatti il lavoro, ma la merce che produce il valore, cioè la forza-lavoro. Il proprietario del denaro paga il valore giornaliero della forza-lavoro e riceve in cambio il diritto di servirsene per tutta la durata della giornata lavorativa. E poiché solo una parte della giornata di lavoro è necessaria per mantenere in vita l’operaio durante le ventiquattro ore, la differenza fra il salario di sussistenza che un operaio produce per la propria sopravvivenza fisica (l’entità della paga) e il lavoro totale che entra nel suo prodotto, viene chiamata da Marx “plusvalore”, appunto il valore in più che viene intascato dal capitalista. Scopo del compratore della forza-lavoro non è quello di fare uso di essa per soddisfare un servizio per se stesso, o per creare un prodotto che soddisfa i suoi personali bisogni; suo scopo è invece quello di far produrre al lavoratore merci da vendere sul mercato e valorizzare così il suo capitale. Secondo Marx, la forza-lavoro ha una proprietà peculiare: essa è in grado di produrre molto di più di quanto sia necessario alla sua sussistenza. E per appropriarsi di questo sovrappiù i capitalisti perseguono due diversi tipi di politica: in una prima fase procedono all’allungamento della giornata di lavoro (aumento del plusvalore assoluto), successivamente provvedono all’attuazione di una politica di progressiva eliminazione dei tempi morti e di aumento dell’efficienza degli apparati produttivi (aumento del plusvalore relativo). Ne consegue un aumento della produttività che porta all’accrescimento del rapporto fra capitale costante (quello investito nei mezzi di produzione) e capitale variabile (quello impiegato per acquistare le materie prime, la forza-lavoro e coprire le spese generali di esercizio). A questo riguardo precisa che “la forma del salario oblitera... ogni traccia della divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e pluslavoro”. Se il lavoro viene pagato a ore, il lavoro salariato sembra completamente retribuito in ogni parte della giornata lavorativa: “persino il pluslavoro, ossia il lavoro non retribuito, appare come lavoro retribuito”. E spiega che il salario a cottimo altro non è che una forma mutata del salario a tempo: è la forma di salario che più corrisponde al modo di produzione capitalistico, anche perché rende in gran parte superflua la sorveglianza, la quale comunque, assieme al lavoro di direzione, è da considerarsi un lavoro produttivo che appare necessario in ogni modo di produzione combinato. Il valore del concetto marxiano di “plusvalore” è quello di spiegare ciò che nessun’altra teoria economica ha mai spiegato: l’origine del profitto in un’economia capitalista e la distribuzione del reddito fra le classi. Nel fornire questa spiegazione Marx chiarisce che non è il capitale ad aver inventato il pluslavoro. Lo sfruttamento capitalistico ha la stessa identica sostanza dello sfruttamento precapitalistico; tutto lo sfruttamento che ha attraversato la storia ha la medesima natura, quella cioè di lavoro fatto per altri. La classe che non possiede ha sempre dovuto fornire lavoro non pagato. Il lavoro salariato è

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soltanto una particolare forma storica del sistema di lavoro non pagato che domina fin da quando la società è divisa in classi. La classe capitalistica, ottenendo i suoi redditi in virtù del diritto di proprietà, vive sul plusvalore dei lavoratori salariati nello stesso modo in cui il signore medievale viveva sul plusvalore dei suoi servi, e il proprietario di schiavi su quello dei suoi schiavi. La differenza sta nel fatto che in regime capitalistico i rapporti tra le varie classi non assumono, come avveniva nel passato, la forma di servizi obbligatori imposti da fattori extra-economici, quali la legge o la tradizione sociale, ma si manifestano esclusivamente attraverso il valore, sotto forma di contratti salariali stipulati tra parti liberamente contraenti. Ma non solo. “Il capitalista paga il valore delle cento forze lavoro autonome, ma non paga la forza lavoro combinata dai cento operai… La loro cooperazione comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato di appartenere a se stessi… La forza produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale si presenta come forza produttiva posseduta dal capitale… Presi nel loro insieme questi operai (manovali, operai, ingegneri che fanno lavorare soprattutto il cervello, ecc.) in quanto produttori collettivi formano una macchina viva”. “La popolazione operaia produce in misura crescente, mediante l’accumulazione del capitale da essa stessa prodotto, i mezzi per rendere se stessa relativamente eccedente”. Nel primo volume de “Il capitale” Marx sostiene che il lavoro non pagato del lavoratore mantiene tutti i membri della società che non lavorano, su di esso poggia l’intera situazione sociale nella quale viviamo. A rendere possibile lo sfruttamento dell’operaio salariato e la vendita delle merci sono, ciascuno per la sua parte, oltre l’imprenditore, il commerciante, il capitalista del credito, il proprietario fondiario i quali richiedono la loro parte di profitto. Le differenze della quantità di profitto che ogni singolo capitalista incassa alla fine tende a pareggiarsi, risultandone un “profitto medio” uguale per tutti i rami della produzione. In forza di tale meccanismo, il singolo capitalista non gode del profitto da lui prodotto personalmente, ma soltanto della quota che gli spetta dei profitti conseguiti dall’insieme dei suoi colleghi. Engels ha scritto nell’”Antiduhring” che la scoperta del plusvalore è il grande merito storico di Marx: “Essa getta una vivida luce su quei campi dell’economia, ove in precedenza i socialisti vagavano non meno degli economisti borghesi nell’oscurità più profonda. Dalla soluzione di questo problema tra origine il socialismo scientifico”. In effetti, è Marx che ci ha dato la spiegazione più plausibile del fatto riscontrabile universalmente che ogni ricchezza della società proviene proprio dal lavoro non pagato, dal pluslavoro di generazioni di uomini che hanno piegato la schiena lavorando per altri. Avvertendoci che non basta comunque il lavoro a creare la ricchezza la quale, come il lavoro, è essa stessa figlia della natura. Se intorno alla teoria del valore (di Marx ma dello stesso Ricardo) si è discusso molto, e in diversi non l’hanno condivisa argomentando svariate ragioni, è da rilevare che rispetto alla tesi sul plusvalore sottratto dal capitalista all’operaio, nessuno è mai riuscito a confutarne la sostanza e dimostrarne l’inesattezza con dati esplicativi. Marx ci ha insegnato che nella società di classe e con la moderna proprietà privata il dominio dell’uomo sull’altro uomo viene esercitato in forma mediata, per il tramite del dominio che l’uomo stesso esercita sulle cose e che le cose esercitano, a loro volta, sull’uomo. Il lavoratore salariato viene separato dal proprio lavoro giacché questo non può che appartenere a chi possiede le condizioni oggettive della produzione, cioè il capitalista; e quando le condizioni oggettive della produzione assumono la forma della macchina, il lavoro risulta a sua volta separato da ciò che necessariamente diviene il fondamento della produzione, cioè la conoscenza, l’applicazione della scienza e dell’organizzazione al processo produttivo. La divisione sociale del lavoro, essendo essenzialmente nient’altro che la differenziazione delle funzioni necessarie al mantenimento e allo sviluppo della società e alla loro distribuzione tra vari gruppi sociali, determina non solo gli specifici tipi e sistemi di rapporti di proprietà, ma anche tipi di lavoro considerevolmente differenti: essa deriva dalla divisione tecnica del lavoro.

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L’uomo, il “soggetto”, non diventa altro che il predicato del proprio lavoro; ciò che domina è la cosa. Il dominio del capitalista sull’operaio è dunque il dominio della cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore. Nell’esplicazione del loro lavoro gli operai sono isolati, separati gli uni dagli altri. Il nesso sociale non si realizza durante la prestazione del lavoro vivo, ma si stabilisce allo stadio del lavoro morto, quando cioè il lavoro è oggettivato nel prodotto-merce. Il progresso tecnologico è considerato da Marx “l’istinto immediato e la tendenza immanente del capitale ad aumentare la forza produttiva del lavoro per ridurre più a buon mercato la merce, e con la riduzione a più buon mercato della merce ridurre più a buon mercato l’operaio stesso”. “La macchina non agisce soltanto come concorrente strapotente, sempre pronto a rendere superfluo l’operaio salariato. Il capitale la proclama apertamente e consapevolmente potenza ostile all’operaio e come tale la maneggia”. Marx dimostra però che la riduzione di forza lavoro, cioè l’estromissione di lavoratori dal ciclo produttivo, è conseguenza non del progresso tecnologico di per se stesso, ma dell’uso che di esso ne fa il capitale, in funzione non semplicemente di conseguire maggior profitto, ma anche al fine di impossessarsi del “general intellect” (il sapere sociale). “Nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato.... dipende invece sempre più dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia o dall’applicazione di questa scienza alla produzione”. Con l’appropriazione del plusvalore relativo e attraverso l’incorporazione di lavoro vivo nelle macchine (processo che lo trasforma in lavoro morto), infatti, il capitale s’impossessa del “general intellect” la cui accumulazione riduce progressivamente il lavoro necessario. Mettendo a fuoco questo passaggio, Marx esclude comunque l’ipotesi che il capitale fisso (sistema delle macchine) possa sostituire il tempo di lavoro come fonte di valorizzazione del capitale, dal momento che la macchina non crea valore. Ed evidenzia come di fatto la macchina domina il processo produttivo attraverso l’assorbimento “del sapere e dell’abilità delle forze produttive… in contrapposizione al lavoro”, acquisendo così il monopolio della “applicazione tecnologica della scienza”. Le macchine, in questo contesto, non vengono affatto in soccorso dell’operaio, bensì realizzano quel furto non tanto e non solo di tempo di lavoro, bensì di “sapere”, di “intelligenza sociale”, su cui il capitale costruisce la sua potenza. In confronto a questa nuova base di appropriazione che viene creata dalla grande industria, l’originaria pratica di restringimento progressivo del tempo di lavoro necessario si presenta come miserabile mezzo di accrescimento del plusvalore. La creazione della ricchezza reale viene cioè a dipendere dal livello generale della scienza, dal suo progresso e dalla sua sempre più ampia applicazione alla produzione. Ecco delineato il processo evolutivo dello sfruttamento capitalistico! Per centinaia e migliaia di anni dagli uomini di buona volontà è stato predicato l’amore per il prossimo eppure il povero lavoratore, nonostante la mole di preghiere, di suppliche e di ipocrite contrizioni, è sempre rimasto nella condizione di essere sfruttato e mortificato materialmente e spiritualmente. Con la loro analisi materialistica della storia, che demolisce appunto la concezione idealistica dei rapporti sociali, Marx ed Engels ci insegnano che lo stato di sfruttamento in cui si ritrova la stragrande maggioranza dell’umanità può essere eliminato soltanto ed esclusivamente attraverso l’abolizione della compra-vendita di forza lavoro, vale a dire con il superamento del sistema del salario, cioè del capitale. E che è solo fuori dal lavoro capitalistico che l’uomo può sviluppare a pieno le sue capacità umane e conseguire un’armonia sociale. 2.5 – La denuncia dello sfruttamento e l’inevitabilità della rivoluzione Nell’evidenziare le grandi conquiste del sistema capitalistico e la sua eccezionale capacità di assicurare l’espansione dell’economia, Marx ci avverte che al pari dei sistemi produttivi che l’hanno

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preceduto anch’esso reca nel suo seno antagonismi e contraddizioni tali da essere destinato alla fine a subire il suo scardinamento. La contraddizione esistente tra le forze produttive e i rapporti di produzione viene da lui giudicata insanabile per il fatto che la concentrazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro sono destinati a giungere a un punto in cui diventano incompatibili con il loro involucro sociopolitico. Questa rottura viene considerata da Marx come il vero processo autodistruttivo della società capitalistica. Le forze produttive vengono sospinte dalla necessità stessa del loro sviluppo verso forme sempre più socializzanti, mentre i rapporti di produzione, all’opposto, tendono a riprodurre perpetuamente una società basata sul profitto privato. L’enorme incremento delle forze produttive è sì destinato a favorire un notevole aumento delle libertà degli uomini, ma questa grande potenzialità positiva viene neutralizzata da due fattori: 1) le forze produttive non sono governate dal principio dell’associazione consapevole, bensì sono soggette a una legge che domina ciecamente gli individui; 2) mentre le forze produttive, in continua crescita, potrebbero soddisfare i reali bisogni umani, i bisogni parziali della proprietà privata – cioè quelli che premono per l’espansione della produzione e del profitto - prevalgono sui bisogni reali. A questo proposito Marx precisa: “Con la massa degli oggetti cresce il regno degli enti estranei cui l’uomo è sottomesso, e ogni nuovo prodotto è una nuova potenza di reciproco inganno e reciproco spogliamento”. Caratteristica della natura della produzione capitalistica, in sostanza, è di non avere riguardo dei limiti del mercato, di portare all’estremo la concorrenza, al punto tale di provocare paradossalmente, attraverso la liquidazione dei capitalisti più deboli, la negazione della stessa proprietà privata individuale. Alla fine gli espropriatori sono destinati a essere a loro volta espropriati. In “Per la critica dell’economia politica” scrive: ”Ad un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”. Legge generale del capitalismo è – a suo avviso – la caduta tendenziale del saggio di profitto (il saggio del profitto medio non tende ad elevarsi, ma al contrario ad abbassarsi) e i capitalisti sono per questo costretti ad accrescere sempre più la quota di capitale costante rispetto al capitale variabile che è fonte di plusvalore. E nonostante le misure che il sistema prende per far fronte a questa tendenza (dall’aumento della produttività del lavoro alla vendita a più buon mercato delle macchine e delle materie prime, fino all’intervento dello Stato), la caduta tendenziale del saggio di profitto provoca sul lungo periodo una serie di contraddizioni: dall’aumento del grado di sfruttamento alla concorrenza tra grandi e piccoli capitalisti, dalla sovrappopolazione relativa alla disoccupazione, dalla sfasatura tra produzione e consumo ai contrasti tra gli Stati, e altre ancora. Queste contraddizioni acuiscono il conflitto tra lavoro salariato e capitale e diventano un ostacolo al regolare procedere dello sviluppo capitalistico. In base alle sue analisi, Marx matura il convincimento che in epoca di crisi si determina una contraddizione in seno allo stesso movimento operaio e precisamente tra la parte della classe operaia “condannata al lavoro” e quella parte di lavoratori che sono ”comandati ad un ozio forzoso”, alla disoccupazione o all’occupazione improduttiva. Egli mette poi in risalto altri fenomeni che fanno del capitale una vera e propria contraddizione. Si tratta della crescita progressiva della forza-lavoro femminile, dell’inevitabile sviluppo dell’urbanesimo, dell’inconciliabilità dell’incremento dell’automazione con la conservazione del capitalismo stesso. L’aspetto su cui egli concentra maggiormente la sua attenzione, e che a mio modesto avviso rappresenta il fattore potenzialmente più destabilizzante del sistema, dal momento che si tratta della principale risultante delle contraddizioni economiche e sociali, è quello dell’alienazione. “Nel valore di scambio – egli ci spiega - la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra cose; la capacità personale, in una capacità delle cose”. E la 52


conseguenza di questa metamorfosi consiste nel fatto che il capitale, come rapporto sociale, diventa, di contro all’uomo, una forza sempre più potente che trasforma la persona in semplice oggetto. L’assurdità del modo di produzione capitalistico non risiede dunque, a suo giudizio, nel massiccio “impoverimento materiale”, come molti suoi interpreti hanno insistito nel far credere (benché questo fenomeno si verifichi in determinate fasi dello sviluppo e alla periferia dell’economia mondiale, come oggi possiamo constatare), bensì nella completa dipendenza degli individui (e delle classi) dalle leggi e dalle “cose” che formano una “seconda natura”, cioè nell’alienazione. La società borghese spezza “tutti i legami dell’uomo col genere, (ponendo) l’egoismo, il bisogno individuale al posto di questo legame col genere, (trasformando) il mondo degli uomini, (in) un mondo di individui atomistici, posti l’uno contro l’altro come nemici”. La produzione capitalistica si afferma come risultato di forze che – benché create di fatto dalle scelte coscienti di ciascuno – si presentano ai singoli come forze impersonali oggettive, analoghe cioè a forze naturali, che i singoli non possono controllare e dalle quali anzi essi sono controllati. Nel sistema capitalistico il lavoro cessa di essere un’attività vitale in cui l’uomo afferma se stesso, ma diventa un semplice mezzo per la sua esistenza. Scrive in “Lavoro salariato e capitale”: “L’esercizio della forza-lavoro, il lavoro, è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha aggiudicato ad un terzo. Perciò, anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto. Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco da seta dovesse tessere per campare, la sua esistenza come bruco sarebbe un perfetto salariato”. “Il tempo libero di cui si dispone è la ricchezza stessa” del proletario. Mentre “il capitalista è radicato in un processo di alienazione nel quale trova il suo appagamento assoluto, l’operaio, in quanto ne è la vittima, è a priori con esso in un rapporto di ribellione, lo sente come processo di riduzione in schiavitù”. E più oltre nelle sue riflessioni osserva: “Vediamo come quel complesso di macchine che possiede la forza meravigliosa di ridurre il lavoro umano e renderlo più fruttuoso, in realtà intristisca gli uomini e li consumi, li logori, li distrugga... Nella misura in cui l’umanità doma la natura, pare che l’uomo sia soggiogato da altri uomini e dalla propria abiezione... Tutte le nostre invenzioni e l’intero progresso sembrano tendere allo scopo di mettere la vita spirituale al servizio delle forze materiali, e di ridurre la vita umana a una forza materiale”. L’intera concezione di Marx, insomma, è caratterizzata da un costante riferirsi all’uomo come opposto al lavoratore salariato. A suo giudizio, l’essere legati per tutta la vita a una data forma di lavoro esclude necessariamente lo sviluppo della totalità dell’ente umano che è ricco e complesso. Per Marx, il proletariato esprime e riassume l’intero meccanismo che regola la società capitalistica, cioè rappresenta in sé la mercificazione del lavoro umano, la separazione tra l’uomo e il suo lavoro, l’alienazione universale. Egli scopre le radici dell’alienazione del mondo moderno nell’analisi del feticismo della merce e pone l’accento sull’enorme forza oggettiva che non appartiene all’operaio ma al capitale. La società mercantile è l’universale dipendenza degli individui da un meccanismo impersonale, il mercato appunto, che si è reso indipendente da loro e a loro si contrappone. Nei “Manoscritti economico53


filosofici del 1844”, sostiene che con il crescere delle merci “l’uomo diventa tanto più povero come uomo”. E a tale proposito assieme a Engels scrive: “La società fondata sulla proprietà privata, provocando, a causa della sua concorrenza, tutta una serie di bisogni, che storicamente sono incomprensibili, ha confinato gli uomini entro gli angusti settori dovuti alla divisione del lavoro e, costringendoli a specializzarsi, li ha istupiditi nella loro unilateralità…ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio”. E’ da ricordare, per inciso, che la critica di Marx al carattere di feticcio della merce diventa critica della religione e pure che nell’affrontare la questione dell’alienazione egli si premura di spiegarci che questo non è un fenomeno esclusivo del sistema capitalistico, ma che è destinato a riproporsi inevitabilmente nella stessa società socialista, almeno fino a quando non saranno completamente superate le divisioni sociali e non si saranno realizzate le condizioni per cui a ognuno verrà dato non più secondo le sue capacità, ma secondo le sue necessità. La soppressione dell’alienazione passa a suo avviso attraverso l’abolizione della “proprietà privata che isola ciascuno nella propria bruta singolarità” e attraverso la conversione dell’uomo dalla religione, dalla famiglia, dallo Stato a una esistenza sociale nuova che gli consente di riappropriarsi della sua dimensione umana. La grande industria, “con la parte decisiva che essa assegna alle donne, agli adolescenti e ai bambini d’ambo i sessi nei processi di produzione socialmente organizzati al di là della sfera domestica”, dissolve la vecchia famiglia e il lavoro familiare preparando le condizioni per “una forma superiore della famiglia e del rapporto fra i due sessi” corrispondenti alle proprie esigenze. Constatato che il capitale produce “bisogni artificiali e desideri immaginari”, si dice convinto che le macchine e la grande industria creano una miseria più spaventosa di qualsiasi precedente modo di produzione. Conclude quindi asserendo che le moderne tecnologie, nel loro ininterrotto rivoluzionamento della società, preparano ineluttabilmente una forma sociale superiore e che le tendenze dell’accumulazione capitalistica sono destinate a rafforzare il proletariato fino al punto che esso risolverà il contrasto tra le forze produttive e i rapporti di produzione mediante l’espropriazione del capitale. L’evoluzione del capitalismo, dunque, sviluppa senza volerlo le basi materiali e le forme sociali e intellettuali per il modo di produzione dei lavoratori associati. La macchina che degrada l’operaio fino a farne un suo semplice accessorio, è destinata a creare contemporaneamente uno sviluppo tale delle forze produttive da rendere possibile l’umanizzazione di tutti i membri della società. Dopo la stesura del “Manifesto”, nel pensiero di Marx e di Engels il socialismo assume il ruolo di alternativa completa ai pericoli di decadenza della civiltà che sono insiti in uno sviluppo incontrollato delle forze produttive. Sino alla fine dei loro giorni essi continuano a ritenere che per superare le contraddizioni del modo capitalistico di produzione è indispensabile eliminare i rapporti sociali che costituiscono il fondamento stesso delle varie forme di alienazione dell’uomo moderno. Ciò che distingue il socialismo scientifico marxista dal romanticismo economico degli utopisti è appunto la rispondenza degli obiettivi che esso si pone con l’analisi delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico dominante. Essi, come già abbiamo ricordato, si assumono come loro compito principale quello dell’analisi del capitalismo, rifiutando deliberatamente di fornire in dettaglio ricette o prognosi per l’organizzazione futura di un’economia socialista. Affidano questo compito ai posteri, a coloro i quali avranno a disposizione materiale sempre più copioso e aggiornato sull’evoluzione del capitale. Nel poscritto alla 2° edizione de “Il capitale” Marx precisa: “Non prescrivo ricette per l’osteria dell’avvenire”, e questo appunto perché il suo progetto politico fonda sull’analisi oggettiva della realtà e non sui sogni o sui desideri. Se per Epicuro, l’infelicità della necessità può essere tramutata in libertà in qualunque momento, per Marx ed Engels, convinti come sono che dipende da noi trasformare la necessità in “docile schiava della ragione”, è proprio “qui” e “ora” che va compiuto questo salto di civiltà.

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Condizione del socialismo è per loro la capacità dell’uomo di sviluppare fino ai livelli più alti i mezzi e l’organizzazione della produzione. E dal momento che il potere politico è il potere di una classe organizzata per opprimerne un’altra, indicano nella sua conquista da parte della classe operaia la possibilità di infrangere le leggi dell’economia borghese. “Il futuro dell’umanità dipende completamente dall’educazione della nuova generazione operaia”, precisano. Avvertendo che non è la teoria che può cambiare il mondo (del resto è proprio la visione materialistico-dialettica della storia a ricordarcelo), ma che senza teoria il mondo non si cambia. Nella lettera a Bracke che accompagna la “Critica del programma di Gotha”, Marx puntualizza però a questo riguardo che “ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di programmi”. E in altri scritti si premura di formulare alcuni avvertimenti. “Prima di conquistare la vittoria sulle barricate – argomenta – il proletariato annunzia l’avvento del proprio dominio con una serie di vittorie intellettuali”. Compito imprescindibile della classe operaia è anche quello di penetrare i misteri della politica internazionale. L’elemento che contraddistingue i comunisti è difatti l’internazionalismo e anche la capacità di prospettiva, cioè di collocare i vari momenti della lotta in un quadro generale di carattere strategico, non solo politico, ma storico. E ammonisce che la rivoluzione che lascia intatti i pilastri della casa è una rivoluzione a metà. Nell’“Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei comunisti”, a riguardo della rivoluzione socialista, Marx ed Engels scrivono: “Non può trattarsi per noi di una trasformazione della proprietà privata, ma della sua distruzione; non del miglioramento dei contrasti di classe, ma dell’abolizione delle classi; non del miglioramento della società attuale, ma della fondazione di una nuova società”. Per loro il socialismo deve vantare un’economia pianificata, un’economia in cui i principali legami del processo di riproduzione devono essere regolati consapevolmente dalla “testa visibile” della società e non dal meccanismo spontaneo della legge del valore. La produzione sotto il socialismo dice Marx ne “Il capitale” – si deve svolgere sotto il controllo cosciente e preordinato della società. E nell’”Antidhuring” Engels afferma che il socialismo è la gestione dell’attività economica secondo un piano, perciò, l’anarchia della produzione sociale deve essere sostituita dall’organizzazione cosciente e la lotta per l’esistenza individuale deve cessare. La loro elaborazione teorica esclude qualsiasi soluzione che si limiti alla semplice abolizione della proprietà privata. Per eliminare l’insensato sciupio del lusso delle classi dominanti ed evitare l’oppressione della burocrazia istituzionale si rivela necessaria l’appropriazione sociale. Se è pur vero che nella critica al progetto alternativo di Cesar de Paepe, Marx lascia trasparire i lineamenti di un socialismo di Stato laddove scrive che “la centralizzazione diverrà la base nazionale della società di produttori liberi e uguali che svolgono lavoro sociale secondo un piano generale e razionale”, assunto nel contesto e nello spirito delle sue elaborazioni, questo concetto è riferito esclusivamente al breve periodo del passaggio di poteri da una classe all’altra, cioè alla cosiddetta fase di transizione. Marx non si cura di stabilire con esattezza da chi deve essere condotta la pianificazione in un ordinamento socialista, difatti, mentre è preciso a riguardo alla funzione essenziale della pianificazione, si limita ad assegnare questa funzione alla società nel suo complesso. La pianificazione economica non viene comunque da lui concepita come una funzione dello Stato, ma al contrario come una funzione che rende superfluo lo Stato. La società deve essere “organizzata come un’associazione cosciente e sistematica”, nella quale i produttori medesimi sono chiamati a regolare “lo scambio dei prodotti, ponendolo sotto il proprio controllo, anziché permettere ad esso di governarli come una forza cieca”. A voler tentare (compiendo una discutibile forzatura) di riassumere i punti elaborati da Marx e da Engels a riguardo del funzionamento della futura economia socialista nel periodo della transizione, si ricavano le seguenti indicazioni: 1) anzitutto, regolazione diretta della distribuzione sociale del lavoro; 2) determinazione diretta di quelli che vengono definiti “coefficienti di input/output”, se non per prodotti singoli, quanto meno per aggregati di gruppi più ampi di prodotti; 55


3) necessità di bilanciare l’offerta e la domanda in termini fisici; 4) distribuzione del prodotto sociale secondo criteri di benefici sociali complessivi, e contemporanea applicazione del principio “a ciascuno secondo il suo lavoro” per la distribuzione del fondo di consumo individuale tra le famiglie; 5) centralizzazione del fondo di accumulazione e delle decisioni che riguardano la sua allocazione al livello della società nel suo insieme. La sfera della produzione materiale come sfera della necessità, resta dunque per i teorici del socialismo scientifico la conditio sine qua non dell’esistenza umana. Punto decisivo è che il “fare” deve perdere il suo carattere inconsapevole e coercitivo e diventare invece attività libera consapevole. E solo se il lavoro diventa un bisogno interiore per l’uomo ci si può riferire al lavoro come “libera attività”. La liberazione del lavoratore fa sì che il lavoro diventi fondamentalmente espressione delle capacità umane, espressione della personalità dell’uomo e, in questo senso, “primo bisogno della vita”. Secondo la teoria marx-engelsiana il lavoro è l’essenza dell’uomo, dal momento che “possiamo dire che il lavoro ha creato lo stesso uomo”. E il lavoro esige cooperazione tra gli uomini e quindi vita sociale e organizzazione in società. Il lavoro è specifico nell’uomo come attività libera ed è in contrasto con le “funzioni bestiali... il mangiare, il bere, il generare” le quali appartengono al regno delle necessità. I nostri cinque sensi, del resto, non sono semplicemente una parte della nostra eredità animale, ma si sono sviluppati e perfezionati in modo umano come risultato di processi e di attività sociali. La differenza tra l’uomo e gli altri animali sta proprio nel lavoro, precisamente nel ricorso che egli fa agli strumenti per procacciarsi le cose necessarie. “Mentre l’animale arriva al massimo a raccogliere, l’uomo produce, allestisce i mezzi necessari all’esigenza”. In questa ottica Marx ed Engels sostengono che nella futura società socialista la distribuzione non deve assolutamente dipendere da incentivi al lavoro, ma gli incentivi materiali devono essere sostituiti da incentivi morali. Nella “Critica del programma di Gotha” Marx spiega chiaramente che nella prima fase la distribuzione deve essere ancora regolata in base al lavoro svolto, non già secondo i bisogni, e questo finché la produzione non fluirà con tale abbondanza da permettere la piena realizzazione del comunismo. Pertanto, la regola dell’uguale remunerazione per uguale lavoro, sebbene legata a un principio di ineguaglianza, giacché le capacità individuali variano da persona a persona, in questa fase di transizione rimane l’unica forma concepibile di uguaglianza. L’uguaglianza a cui guarda Marx, quella fondata sul principio “a ognuno secondo i suoi bisogni”, si realizza a un alto grado di sviluppo sociale, considerato che l’autentica uguaglianza non livella i bisogni, ma obbedisce alla diversità delle esigenze di ogni individuo. Marx fa cenno per la prima volta alla “dittatura del proletariato” quando riflette sulla sconfitta dei moti del 1848 e sull’avvento del bonapartismo e, secondo l’interpretazione che egli dà a questo termine, essa non ha assolutamente alcuna relazione con il terrore, ma vuole significare il passaggio alla soppressione di tutte le classi. Considerate le imprecisioni che sono ricorse e ricorrono ancor oggi nelle interpretazioni dei esponenti della stessa sinistra, è il caso di ricordare che negli scritti di Marx il termine “dittatura del proletariato” compare complessivamente 11 volte. Come ha dimostrato uno studioso, chi fa abbondante ricorso a questo termine è invece Lenin, il quale nei suoi scritti e appunti lo usa all’incirca ben 3.500 volte. Marx ebbe modo di precisare al riguardo ai blanquisti: “Si, vogliamo la dittatura... ma siamo contro ciò che voi volete come dittatura: vogliamo la dittatura della classe, cioè del proletariato e non del partito rivoluzionario”. Un altro aspetto che può sorprendere è che egli non si pone affatto il problema di quanta gente potrebbe essere uccisa durante la rivoluzione, di chi potrebbe rischiare di esserlo, e se sia o meno giustificato uccidere per la causa del socialismo. Una tale questione probabilmente non gli si è affacciata nemmeno alla mente. E’ da tenere presente che nella sua concezione, il capitalismo è un 56


sistema economico destinato alla crisi e a essere superato, pertanto si deve dedurre che, a suo parere, il rovesciare un corpo sociale in sofferenza non avrebbe necessariamente richiesto un grande spargimento di sangue. Engels sostiene che per Marx “la violenza rivoluzionaria è una necessità per il trapasso da una società all’altra, però (Marx) considerava al tempo stesso il giacobinismo e il terrorismo dei mezzi obsoleti”. Da giovane, infatti, Marx aveva rivolto al giacobinismo la sua critica poiché, ai suoi occhi, questo movimento esprimeva l’illusone politica di poter cambiare la società imponendole un dovere astratto, quello cioè di reprimere il gioco degli interessi in nome di un virtuoso interesse generale. Fatto sta, però, che nel ’48 egli scrive: “Vi è soltanto un mezzo per abbreviare la micidiale agonia della vecchia società, le sanguinose doglie della nuova società, per semplificarle e concentrarle, soltanto un mezzo: il terrorismo rivoluzionario”. Nell’evoluzione del suo pensiero si registra dunque un atteggiamento contraddittorio sul ricorso alla violenza, anche se la sua attenzione è sempre rivolta principalmente alla mutazione del processo economico per mano del proletariato quale chiave di volta della rivoluzione. Da parte sua, Engels reputa che “una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia; è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra col mezzo di fucili, baionette e cannoni”. Va messo in conto che in quel periodo storico era diffusa la convinzione che la politica poteva cambiare la società in tempi molto brevi proprio grazie a un uso adeguato della coercizione. Ancora oggi, del resto, la discussione sulle virtualità non solo liberatorie, ma anche autoritarie che sono racchiuse nel principio democratico e nel protagonismo delle grandi masse non è affatto conclusa. Convinzione profonda di Marx e di Engels è che di tutti gli strumenti di produzione, la più grande forza produttiva è la classe oppressa, cioè la classe rivoluzionaria e che “l’operaio deve un giorno avere nelle sue mani il potere politico… se non vuole rinunciare al ‘regno di questo mondo’, come i cristiani dell’antichità che lo hanno trascurato e disprezzato”. E pure che per dare corso a una nuova organizzazione del lavoro e della società essa “deve rovesciare la vecchia politica che sostiene le vecchie istituzioni”. “Il proletariato sarà rivoluzionario o non sarà... non può agire come classe che costituendosi in partito autonomo”. Essi hanno costantemente insistito sul fatto che la teoria rivoluzionaria si sviluppa attraverso il confronto con il movimento storico reale. Il comunismo, come è scritto ne “L’ideologia tedesca”, “non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. E nel compiere questa missione – avvertono – si deve avere un atteggiamento realistico. Il nucleo della loro teoria rivoluzionaria può essere comunque così sintetizzato: con lo sviluppo del capitalismo, si verifica un inasprimento della lotta fra le classi; il proletariato, in lotta per la sua esistenza, sviluppa necessariamente un’azione sindacale che contesta la ripartizione tra profitti e salari; con questa lotta economica esso acquisisce la coscienza di classe e si appropria prima dei mezzi di produzione, poi del potere politico. Il proletariato viene considerato a questa stregua la “classe della liberazione per eccellenza” e quindi il soggetto insostituibile del processo rivoluzionario. La classe operaia è centrale nella loro ipotesi non perché sia numerosa, o dotata di istinti libertari più di altre, ma perché è la sola annullata nel suo essere, e quindi “non ha nulla da perdere se non le proprie catene”. Ma è anche l’unico soggetto in condizioni di gestire il processo di superamento delle divisioni sociali. Scrive Engels a questo riguardo nell’ “Antiduhring”: “L’abolizione delle classi ha come suo presupposto un alto grado di sviluppo della produzione nel quale l’appropriazione dei mezzi di produzione e dei prodotti, e perciò del potere politico, del monopolio della cultura e della direzione spirituale da parte di una particolare classe della società non solo è diventata superflua, ma è diventata economicamente, politicamente e intellettualmente un ostacolo allo sviluppo. Questo punto oggi è raggiunto”. 57


Perché la classe oppressa possa affrancarsi deve però trasformare la “conoscenza sociale in forza sociale”. Il punto di fusione fra essere sociale e coscienza è la prassi e la prassi è sociale, cioè lavoro e attività rivoluzionari. Secondo Marx, la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse. E la rivoluzione proletaria ha il compito di fondare le basi oggettive di una conoscenza non “ideologica”, di una cultura universale, di una scienza della realtà sociale, di una verità conoscibile, che continuamente si autocritica nell’incessante sviluppo della storia. Deve in sostanza creare “l’uomo nuovo” che è colui che agisce autonomamente e soprattutto consapevolmente per il bene comune. Il socialismo è dunque inteso come lotta e insieme autoeducazione. Per quanto, negli statuti dell’Internazionale, Marx abbia sostenuto l’inseparabilità della lotta politica da quella sociale, nella pratica egli si richiama sempre alle rivendicazioni sociali che sono comuni alle classi operaie di tutti i Paesi. E parimenti suggerisce di portare avanti questa lotta in modo dialettico e con la collaborazione delle forze democratiche. Dal canto suo Engels sostiene che “è interesse degli operai sostenere la borghesia nella sua lotta contro tutti gli elementi reazionari, finché essa rimane fedele a se stessa”. 2.6 – Il comunismo come processo storico e come esaltazione dell’uomo Considerato che Marx non è un pensatore utopista, non deve sorprendere che egli dedichi scarsa attenzione all’ordinamento della società futura, cioè al comunismo. “Noi non anticipiamo dogmaticamente il mondo – risponde a chi lo sollecita a pronunciarsi sull’argomento – ma vogliamo trovare il nuovo mondo muovendo dalla critica del vecchio”. Il comunismo, a suo modo di vedere, è un processo storico, perciò egli non si preoccupa della sua fisionomia, ma si accontenta di aver scoperto le leggi del passaggio dalla vecchia alla nuova società. A riguardo dell’assetto sociale futuro non manca comunque di svolgere alcune riflessioni. Fin da giovane egli ha in mente il “regno della libertà” ed è convinto che la razionale regolamentazione del ricambio organico dell’uomo con la natura avvenga solamente attraverso il passaggio dal regno delle necessità, cioè da uno stato di bisogno dell’uomo stesso, al regno appunto della libertà, cioè alla sua piena emancipazione. Scrive nel terzo volume de “Il capitale”: “Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna, si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni…. così deve fare anche l’uomo civile e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione… La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca… Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità”. Il comunismo, pertanto, non è da lui vissuto alla maniera dei socialisti utopisti che lo intendevano come la messa a punto di un sistema perfetto di società, bensì come un processo che per essere realizzato, presuppone un’indagine dell’evoluzione economica e del conflitto fra le classi attraverso cui scoprire, nella situazione storica data, il mezzo per risolvere le contraddizioni e andare oltre il sistema capitalistico. Marx concepisce dunque il comunismo non come una rottura storica improvvisa e imprevista, ma come una tendenza della stessa società capitalista. Il soggetto rivoluzionario ha pertanto il compito di appropriarsi delle “gigantesche forze produttive della società capitalistica come proprietà e strumento sociale”. In questa visione il socialismo appare il “particolare e ultimo prodotto del capitalismo”. 58


A suo giudizio, così come negli interstizi della società schiavistica e feudale esistevano gli scambi mercantili, anche negli interstizi della società capitalista esistono già, concretamente, forme virtuali di comunismo come, per esempio, quelle manifestazioni associative che riescono a sfuggire ai rapporti di mercato. In questa ottica, nei ”Grundrisse” egli definisce il comunismo “la verace soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo, la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione ed affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere”. Non concepisce il comunismo come fine ultimo, ma soltanto come un mezzo per giungere a una piena affermazione dell’uomo, cioè alla liberazione non solo ideale e politica, ma economica, reale di tutti e di ciascuno. In sostanza, per lui il comunismo è la soluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, tra la libertà e la necessità. E con questa idea di comunismo, in cui non vi è posto per gli ideali trascendentali, egli si propone un modello di società che distribuisce in maniera egualitaria la ricchezza sia materiale che spirituale, la quale sancisce la libertà di ciascuno come condizione della libertà di tutti. A sua volta, Engels puntualizza che Il comunismo “non rappresenta la causa dei soli operai, ma di tutta l’umanità”. Nel “Manifesto” è appunto detto che “al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra una associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”. Marx insiste poi sul fatto che “solo nella comunità diventa possibile la libertà personale... Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa”. E precisa che “in una fase superiore della società comunista, quando sarà scomparso l’asservimento degli individui alla divisione del lavoro e con esso l’antagonismo fra il lavoro intellettuale e quello manuale, quando il lavoro non sarà soltanto un mezzo per vivere ma diverrà esso stesso la prima necessità vitale, quando con lo sviluppo multiplo degli individui le forze produttive si accresceranno, e tutte le sorgenti di ricchezza collettiva sgorgheranno in abbondanza, allora soltanto lo stretto orizzonte borghese potrà essere completamente superato e la società potrà scrivere sulle sue bandiere: da ciascuno secondo le proprie capacità a ciascuno secondo i propri bisogni”. Nella “Critica del programma di Gotha” chiarisce che “il diritto di ogni lavoratore a ricevere secondo il suo lavoro”, cioè la condizione sociale esistente nel socialismo, “è, per il suo stesso contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni altro diritto”, condizione questa che viene superata nel comunismo. Altresì, egli considera imprescindibile il persistere nel nuovo regime, almeno per un certo periodo, della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Anche questa divisione può essere superata solo con l’affermarsi della società comunista, nella quale nessuno si vedrà più attribuire una sfera esclusiva di attività. Nella prima fase di costruzione del comunismo la produzione dovrebbe dunque continuare ad essere il regno della necessità, dal momento che in essa continuano a risiedere le “cose” che fanno da mediatrici tra le persone. La completa socializzazione della natura umana, cioè la concrescita dell’essere della specie e dell’individuo, può realizzarsi solo con la completa socializzazione dei rapporti umani. Ovviamente, Marx presuppone la scienza e i suoi progressi al servizio completo dell’uomo e in questa ottica considera come condizione stessa della realizzazione del comunismo il suo massimo sviluppo. Ne “L’ideologia tedesca” viene precisato che un alto sviluppo delle forze produttive è necessario perché altrimenti col comunismo si generalizzerebbe soltanto la miseria e, inoltre, perché solo mediante tale sviluppo si possono avere relazioni universali tra gli uomini e si possono sostituire individui empiricamente universali agli individui locali. Il comunismo è “possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in ‘una volta’ e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica”. 59


In sintesi, il comunismo, quello “empiricamente possibile”, è pensato da Marx e da Engels, sin dall’inizio del loro argomentare, come un movimento storico e politico che rappresenta l’opera civilizzatrice dell’umanità e l’autentica realizzazione della modernità e delle sue istanze di emancipazione. E anche se nei loro scritti l’idea di comunismo non si concretizza mai in una analisi delle forme di organizzazione del potere nella società, dai loro assunti emerge chiaramente il convincimento che il nuovo sistema presuppone una società senza diritto, cioè senza Stato. Cessando il conflitto borghese degli interessi particolari e delle classi, viene superato anche l’antagonismo tra gli individui e il loro stare insieme come un reciproco limite, perciò, alla fin fine, non c’è alcun bisogno di diritti quali fattori di garanzia. Poiché la realizzazione del comunismo è concepita esclusivamente in dimensione mondiale, esso “non può affatto esistere se non come esistenza ‘storica universale’”. Ai loro occhi, dunque, il comunismo in un paese solo o anche in un gruppo limitato di paesi sarebbe di certo apparso un’assurdità. Di più, nei “Manoscritti del ‘44” Marx fa riferimento, detestandolo, a un “comunismo rozzo” che riproduce la logica negativa della proprietà privata e annulla il talento e la personalità individuale, sottoponendo la comunità all’oggettività del mondo delle cose mercificate. E’ evidente che se egli avesse conosciuto il socialismo realizzato avrebbe avuto piena conferma della validità e della giustezza di queste sue asserzioni. Appare chiarissimo – e torna utile sottolinearlo - che dai suoi teorici fondatori il comunismo non viene affatto considerato un “ideale”, come spesso si è soliti pensare, ma un processo; esso è il movimento reale che cambia il mondo, è il modo attraverso cui ogni uomo concorre a determinare l’avvenire proprio e dei propri simili. Hanno puntualizzato i due teorici ne “L’Ideologia tedesca”: “Il comunismo per noi non è ... un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. E Marx ribadisce: “La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese”. Il comunismo è quindi da intendersi come un movimento che modifica la realtà mediante lo sviluppo di tutto il potenziale umano di ogni singolo individuo allo scopo di favorire la crescita del benessere comune attraverso gli strumenti dell’uguaglianza. E’ luogo comune ritenere che il pensiero marxiano neghi l’autonomia dell’individuo. Si tratta di interpretazione sbagliata, di un’illazione da parte di chi Marx non l’ha mai letto. L’idea di comunismo contemplata dall’autore de “Il capitale”, fonda sull’autodeterminazione di ognuno e sul conseguimento di una responsabilità collettiva per un comune destino. Non solo l’intelligenza di ogni uomo e donna non viene mortificata, ma anzi ogni individuo viene spinto ad agire secondo volontà libere le quali, però, devono essere razionali, cioè non lasciate al caso, e solidali. Sugli aspetti del pensiero marx-engelsiano riguardanti la libertà dell’uomo e il rapporto uomonatura si sono costruite molte interpretazioni che hanno dato luogo a veri e propri equivoci. Mi sembra il caso perciò di svolgere al riguardo alcune brevi considerazioni. Il tema dominante nella teoria di Marx è come realizzare la libertà umana. Come abbiamo visto, il suo comunismo equivale al pieno dispiegamento della libertà. La libertà socialista non richiede solo uguali diritti, essa esige, con la libertà e l’uguaglianza, anche la fraternità e la solidarietà, cioè dei doveri. Marx è attentissimo all’individuo, contrariamente a quel che spesso si crede, dal momento che ha in mente il libero sviluppo di ciascuno come condizione del libero sviluppo di tutti. Nel terzo libro de ”Il capitale” egli sostiene che “Lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, (é) il vero regno della libertà”; e precisa che “il principio fondamentale (del comunismo) è lo sviluppo pieno e libero di ogni individuo”. Allorquando critica l’egualitarismo del comunismo “rozzo”, perché opprime la personalità, egli critica al tempo stesso il concetto borghese di cittadino, eguagliato di fronte alla legge, al di fuori delle differenze che lo determinano come individuo. Concepisce l’uomo come un essere polivalente, che può essere pienamente soddisfatto solo se riesce a sviluppare tutte le sue molteplici possibilità. 60


Quando affronta il problema del “superamento positivo”, della “soppressione” che l’uomo subisce nel sistema capitalistico, usa espressioni come “la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane”. La libertà dell’uomo non è perciò intesa da lui solo sul piano socioeconomico, ma anche sul piano culturale, dello spirito, a proposito del quale, poiché è esposto a varie forme di alienazione, l’uomo stesso non ha piena coscienza delle possibilità della sua libertà, e neppure delle cause reali che determinano la sua vita. Osserva a sua volta Engels nell’“Antiduhring”: “La libertà non consiste nel sognare l’indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato... La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali... La libertà è quindi una categoria storica, il prodotto dello sviluppo storico, come tutto ciò che è umano”. L’uomo del comunismo deve dunque essere un uomo universale, poliedrico e totale, tanto è che per poter realizzare una nuova società è necessario modificare non solo le strutture sociali, ma l’uomo stesso. Pertanto, un’umanità compiutamente emancipata non fonda affatto sull’uguaglianza, ma sulla diversità. Il comunismo non si pone l’obiettivo di costruire una società di eguali, cioè di persone dotate degli stessi diritti e capacità di accesso alle ricchezze sociali, bensì quello di liberare i bisogni dallo loro diversa determinazione, le differenze dal loro segno gerarchico, l’individuo dalla sua illusione di libertà egoistica e anticomunitaria. Marx mira al “Gattungswesen”, vale a dire all’uomo liberato dal dominio del crudo individualistico interesse egoistico. Nel suo pensiero il valore fondante del comunismo è la libertà, dove per libertà è da intendersi la capacità delle donne e degli uomini di programmare in modo collettivo e consapevole il proprio destino. Mentre il socialismo è inteso come progetto di liberazione, il comunismo costituisce la realizzazione piena della libertà. Riflettendo su questi concetti, si comprende la grande ignoranza che gran parte della sinistra ha mostrato colpevolmente di avere in materia, essendosi lasciata tacciare ingiustamente di oppressivo collettivismo; e pure si svela la sua coda di paglia di fronte alle manipolazioni del concetto di libertà che sono state compiute dai suoi avversari politici, senza che essa le contrastasse (il berlusconismo in primis). Grande attenzione viene prestata da Marx anche al rapporto che l’uomo ha sia con la natura che con la storia, infatti la “prassi” e la “storia” sono due fattori che concorrono a rendere originale la sua teoria. La storia, per lui, non è che la trasformazione umana della natura, la natura trasformata dall’uomo. Ne consegue che la storia umana è data dallo sviluppo non di una, ma di due contraddizioni fondamentali, quella tra uomo e uomo e quella tra uomo e natura. Definisce il rapporto storicamente primario fra l’uomo e la natura come relazione della natura con se stessa, perché l’uomo è parte integrante della natura. L’uomo ha la specifica capacità di combattere con e contro la natura, di subordinarla e da ultimo di trasformarla secondo i propri fini. Operando sulla natura fuori di sé e cambiandola, l’uomo cambia allo stesso tempo la natura sua propria. E’ questa la sola funzione dell’attività produttiva umana, del lavoro umano, che distingue l’uomo da tutti, o quasi tutti, gli esseri animali. I rapporti sociali umani che si intrecciano nel corso di questa attività sono il fondamento della storia umana. L’intelligenza dell’uomo, del resto, è cresciuta nella stessa misura in cui l’uomo ha modificato la natura e il primo atto storico dell’uomo è proprio la creazione. Gli uomini non vivono soltanto in società, come gli animali sociali, ma producono la società per vivere. Non “evolvono” come le altre specie, ma hanno una storia, e questa storia essi la fanno in determinate condizioni. Lo sviluppo dei loro bisogni è da lui concepito come una mediazione essenziale e continua tra natura e società umana, come espressione della dipendenza dell’uomo

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dalla natura, ma al tempo stesso della capacità da parte dell’uomo di conferire alla natura un significato; i bisogni vengono da lui considerati funzioni concrete di autonomia e compiutezza. “Invero – egli scrive - anche l’animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche, ecc.. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l’uomo produce universalmente; (l’animale) produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà del medesimo... L’animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie che appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all’oggetto la misura inerente; quindi l’uomo forma anche secondo le leggi della bellezza”. “Noi supponiamo il lavoro in una forma che appartenga esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente”. L’uomo perciò ha coscienza dell’ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altri uomini e altre cose. In pari tempo ha coscienza della natura che le si contrappone come forza estranea e inaccessibile. Il suo lavoro è anzitutto un processo fra lui e la natura, “un processo nel quale l’uomo, con la sua attività, realizza, regola e controlla i suoi scambi con la natura” stessa, e “crea la storia nella misura in cui egli crea nuovi valori e forme nuove di coesistenza”. “La storia non fa niente... E’ piuttosto l’uomo, l’uomo reale, vivente, che fa tutto, possiede e combatte tutto; non è la ‘storia’ che si serve dell’uomo come mezzo per attuare i propri fini, come se essa fosse una persona particolare; essa non è altro che l’attività dell’uomo che persegue i suoi fini”. “Facciamo noi stessi la nostra storia ma innanzi tutto dietro premesse e in condizioni ben determinate. Tra di esse decidono, in ultima analisi, quelle economiche, ma anche le condizioni politiche, ecc., anzi, persino la tradizione che ossessiona i cervelli degli uomini, esercita una funzione, anche se non decisiva”. Gli uomini hanno una storia proprio perché hanno la capacità di trasformare la natura che li circonda e in tal modo di trasformare la loro stessa natura sociale. Nella creazione delle basi per emancipare l’uomo dalla divisione sociale del lavoro e dall’essere vincolato per tutta la vita a una stessa forma sociale di lavoro, Marx attribuisce grande rilievo allo sviluppo tecnico-scientifico. Elementi indispensabili al progressivo sviluppo dell’uomo sono l’invenzione e l’impiego alternativo a quello del capitale degli strumenti di produzione il cui uso collettivo diviene processo sociale. Come già abbiamo visto, Marx intuisce con una acutezza straordinaria per il suo tempo che l’innalzamento sempre crescente della soglia tecnologica arriverà a rendere il lavoro vivo non più che una parte trascurabile del processo industriale produttivo di merci materiali. Nei “Grundrisse” afferma che lo sviluppo scientifico-tecnico giungerà a tal punto da fare delle macchine stesse le produttrici di ricchezza. Dopo aver constatato che “il modo capitalistico di produzione pone per primo le scienze naturali al servizio immediato del processo di produzione”; che “il capitale non crea scienza, ma la sfrutta appropriandosene nel processo produttivo”; che “la scienza interviene come forza estranea, ostile al lavoro che lo domina e la sua applicazione è da una parte accumulazione, dall’altra sviluppo in scienza di testimonianze, di osservazioni, di segreti dell’artigianato, acquisiti per vie sperimentali per l’analisi del processo produttivo”; e ancora che “la loro trasformazione in capitale si basa sulla privazione dell’operaio di queste condizioni, sulla separazione dell’operaio da esse”, egli ribadisce che l’uomo, e non il capitale, è il soggetto della storia, che esso non può e non deve essere il suo strumento cieco, ma deve realizzare pienamente le proprie capacità nell’attività consapevole rivolta a controllare il proprio ambiente.

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A suo giudizio, la “messa in valore del mondo delle cose” a prezzo della “svalutazione del mondo degli uomini” è tale da poter essere superata. E si dice convinto che questa è la strada da percorre per porre fine alle guerre e alla miseria e per far sì che la società industriale riscatti l’umanità. Marx ed Engels celebrano senza riserve il soggiogamento delle forze naturali essendo ispirati da un ottimismo quasi fatalista dell’“ideologia del progresso”. La distruzione dell’ambiente ad opera dell’industria capitalistica e il pericolo per l’equilibrio ecologico rappresentato dallo sviluppo illimitato delle forze produttive del capitale sono questioni estranee al loro orizzonte intellettuale. E questo è comprensibile; pure loro sono figli del tempo. Noi oggi ci troviamo di fronte alla necessità di rinunciare alla crescita infinita della produzione proprio nell’interesse dell’ambiente e della salute e per impedire il collasso del pianeta. Una simile prospettiva non appartiene e non poteva appartenere al loro orizzonte culturale, anche se dai loro scritti emerge netto il convincimento che il progresso dell’umanità non può avvenire in violazione delle leggi della natura. Riprenderò più avanti la riflessione sui limiti e le ambiguità del pensiero marx-engelsiano, ciò che mi premeva mettere qui in risalto è la immensa fiducia nell’uomo che i fondatori del marxismo dimostrano di avere.

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Capitolo 3°

I revisionismi della teoria marx-engelsiana 3.1 – La nascita del “marxismo” e la Seconda Internazionale Il pensiero marx-engelsiano si diffonde nel mondo verso la fine dell’ottavo decennio dell’Ottocento, cioè trenta anni dopo l’apparizione del “Manifesto”. In Italia penetra sul finire degli anni ‘80. A rappresentare la sua prima esposizione complessiva e sistematica è l’“Antiduhring” di Engels. Con l’apparire di questo testo le teorie di Marx e le sue prendono il nome di “marxismo” e diventano la base su cui vengono definiti i programmi e la tattica della socialdemocrazia tedesca e anche della 2a Internazionale. Mentre al tempo della 1a Internazionale le teorie marx-engelsiane, così come erano state comprese e fatte proprie dalle avanguardie del movimento operaio internazionale, avevano significato la semplice presa di coscienza della necessità di rendere politicamente autonomo il movimento operaio (era la fase in cui lo sviluppo del capitalismo avveniva a tutto campo e obbligava le stesse classi dominanti ad affrontare i problemi della politica sociale), nel periodo della 2a Internazionale, al movimento operaio organizzato si impone la necessità di affrontare non solo il problema della sua autonomia politica, ma anche di quella ideale. Sorge pertanto la necessità di acquisire una concezione del mondo che spieghi il senso e il ritmo dello sviluppo storico e che sia alternativa al pensiero dominante. L’elaborazione marxiana concorre appunto a soddisfare questa esigenza, anche se essa mal si accorda con le tradizioni empiristiche del pensiero scientifico e filosofico e si rivela anzi un’autentica bomba non solo per i suoi avversari, ma anche per lo stesso movimento operaio in formazione il cui gruppo dirigente è già da tempo lacerato da feroci polemiche. Le teorie del socialismo scientifico incontrano infatti da subito l’avversione di pensatori quali Pierre-Joseph Proudhon, Michail A. Bakunin, Ferdinand Lassalle i quali esercitano una forte influenza su vasti settori del movimento. Per di più, il pensiero di Marx e di Engels ha una diffusione molto lenta e, proprio per il suo carattere dirompente i vecchi schemi, viene assimilato con estrema difficoltà. Pubblicate a spizzichi, le loro opere vengono lette e studiate da pochi intellettuali che si assumono il compito di trasmetterle, in “pillole”, alla massa dei militanti. L’ineluttabilità di un siffatto processo di assimilazione e di trasmissione produce un fenomeno che segnerà profondamente la storia del marxismo: il pensiero dei fondatori del socialismo scientifico viene assunto dai suoi stessi estimatori in maniera confusa, come una sorta di “bibbia”, cioè come una forma di religione secolarizzata. Il senso e lo spirito dei suoi autori risultano conseguentemente distorti e, proprio a causa delle differenti interpretazioni, sorgono nel movimento varie tendenze e scuole. A partire dagli anni ’80, e soprattutto dagli inizi di quelli ’90, si afferma l’interpretazione evoluzionistica del marxismo secondo la quale la rivoluzione viene identificata con un non meglio precisato crollo generale del sistema capitalistico. Prima ancora che venga costituita la 2a Internazionale, nelle file della socialdemocrazia si tende a ridurre il pensiero marxiano al materialismo naturalistico o, viceversa, a una variante dell’idealismo che si traduce in una forma raffinata di fideismo. A fronte dello snaturamento della sua teoria, Marx definisce socialdemocratici tutti coloro che si propongono di realizzare “istituzioni democratiche repubblicane non come mezzi per eliminare entrambi gli estremi, il capitale e il lavoro salariato, ma come mezzi per attenuare il loro contrasto e trasformarlo in armonia”. Consapevoli dei condizionamenti storici e delle difficoltà che comporta l’innovazione da loro proposta, i teorici del socialismo scientifico si limitano pazientemente a prendere atto della situazione e a portare avanti una sorta di realpolitk rivoluzionaria. La 2a Internazionale nasce nel 1889, quando Marx è già morto da sei anni, come tentativo di tenere insieme tutte le tendenze e le correnti presenti nel movimento socialista, il quale si sviluppa in una 64


possente rete organizzativa che fa tremare tutti i poteri costituiti del mondo. Se la 1a Internazionale ha funzionato come un’istituzione fortemente centralizzata, la 2a svolge un ruolo paragonabile più a una “cassetta delle lettere” che a un gruppo dirigente. Questa è impegnata anzitutto a diffondere il marxismo in tutto il mondo e assolve questo compito strutturandosi in grande scuola di socialismo. Grazie alla sua ampiezza di orizzonti e al suo spirito democratico, favorisce il manifestarsi di un’ampia gamma di concezioni che concorrono certamente ad arricchire il pensiero marxengelsiano, ma nel contempo ne distorcono profondamente il senso. In un periodo storico in cui il proletariato è in pieno sviluppo e le sue organizzazioni sindacali e politiche in formazione esprimono una forte domanda di ideologia, il “marxismo povero” della 2a Internazionale dilaga nell’Europa occidentale e si diffonde nell’America latina, in Australia e in Cina. E una tale ondata di “nuovo sapere rivoluzionario” è il risultato di un intenso lavoro organizzativo, della fatica e dell’abnegazione non solo dei suoi dirigenti, ma di gran parte dei suoi quadri impegnati nell’educazione politica e culturale della classe operaia. Con la 2a Internazionale si assiste al diffondersi della cosiddetta ”linea positivista” che riduce il pensiero marx-engelsiano a una particolare variante evolutiva del determinismo applicato alla storia. Questa interpretazione individua nel corso degli avvenimenti solamente i processi oggettivi, quelli cioè sottoposti a una irreversibile necessità e del tutto indipendenti dalla volontà umana. La complessa teoria marxiana sul rapporto tra struttura e sovrastruttura viene assunta in modo semplicistico e alterato, attingendo cioè ad alcuni testi soltanto e ignorandone altri. E anche la tesi secondo cui è l’essere sociale a determinare la coscienza, e non viceversa, viene interpretata senza tener conto del rapporto interattivo che esiste tra la realtà delle cose e la volontà degli uomini, sul quale peraltro lo stesso Marx ha parecchio insistito. Così facendo, il pensiero marxiano viene assunto nello spirito del determinismo meccanicistico. Ed è proprio da una visione del genere che scaturisce il determinismo economico, cioè il convincimento che sia il processo evolutivo stesso della società a determinare una nuova economia e un nuovo ordine sociale. La transizione si realizzerebbe attraverso la semplice espansione delle forze produttive il cui sviluppo, in virtù dell’inevitabile crollo del capitalismo a causa delle sue contraddizioni, porterebbe automaticamente al socialismo. In base a questa teoria, i Paesi arretrati sono necessariamente obbligati a passare attraverso le stesse fasi evolutive dei paesi a sviluppo capitalistico per poter realizzare il socialismo. E’ poi convinzione degli evoluzionisti che l’avvento del capitalismo avrebbe dissolto automaticamente e definitivamente ogni rapporto precapitalistico e feudale. Lo sviluppo delle forze produttive, accompagnandosi a un processo di proletarizzazione dei ceti medi, farebbe quindi della classe operaia la componente maggioritaria della popolazione e, conseguentemente, le assicurerebbe la maggioranza parlamentare. Questo modo di intendere il processo storico porta ineluttabilmente alla rinuncia di qualsiasi politica che persegua la mobilitazione rivoluzionaria del popolo e a privilegiare al suo posto una gestione professionale delle lotte degli operai dell’industria sull’esclusivo fronte delle rivendicazioni economico-sociali. La conquista della sovrastruttura istituzionale diventa così competenza esclusiva del partito. E’ proprio nel periodo della 2a Internazione, infatti, che i partiti della classe operaia concentrano la loro lotta nelle istituzioni democratiche facendone una ragione non solo di forza, ma di vita o di morte dell’organizzazione. Ed è in questa fase che maturano le tendenze nazionalistiche e che l’orizzonte sociale dei dirigenti della socialdemocrazia viene restringendosi ai soli Paesi capitalistici, considerando i popoli coloniali estranei allo loro strategia di lotta. La distorsione della teoria marxiana, la trascuranza o la sottovalutazione del suo carattere dialettico, si presentano come caratteristiche comuni a quasi tutti i dirigenti della 2a Internazionale. In loro prevale la tendenza a costruire le basi per uno sviluppo della democrazia politica quale fattore e condizione per una via pacifica al socialismo, una via che passa necessariamente attraverso le istituzioni democratiche e il rifiuto della violenza proletaria. Loro convincimento è che per conseguire questo obiettivo non bisogna turbare il processo produttivo. 65


Affidato alla spontaneità e al meccanicismo dei processi storici, il socialismo torna così oggettivamente ad essere vissuto come un ideale, come un imperativo etico e non invece come un’azione condotta con determinazione e intelligenza dal movimento di massa. Tra i più insigni interpreti di questo pensiero, ovviamente con posizioni non omogenee, anzi spesso divergenti e conflittuali (tanto è che saranno proprio gli scontri che tra di loro si susseguiranno a causare la prima crisi del marxismo), troviamo Karl Kautsky, Eduard Bernstein, Mikail I. TuganBaranovskij, Otto Bauer. Il maggiore teorico tra i tanti revisionisti del pensiero marxiano è sicuramente Bernstein. Secondo la sua concezione, la rivoluzione proletaria non può che rappresentare il punto terminale di un processo di evoluzione del capitalismo; la leva fondamentale di tale progressione è lo sviluppo economico, mentre la coscienza rivoluzionaria è da lui considerata niente più che il riflesso di tale sviluppo. Egli attacca l’assunto teorico fondamentale per il marxismo, quello secondo cui esiste la possibilità di conoscere e dominare l’insieme delle contraddizioni sociali del sistema nella loro genesi e struttura. Egli ritiene invece che le contraddizioni del capitalismo si attenuano e le crisi scompaiono, e intende il socialismo un itinerario di autoregolamentazione e razionalizzazione sociale, secondo una scelta etica, e non come destino necessario e alternativa alle insanabili lacerazioni dello sfruttamento. Unitamente a Karl Renner, eminente teorico dell’austromarxismo, Bernstein declina il socialismo come espansione massima della democrazia liberale e come applicazione conseguente delle sue forme a tutti gli ambiti della vita sociale, sia in termini di allargamento dei diritti che di controllo democratico dell’economia. Bauer sostiene dal canto suo che fino a quando rimane in piedi la proprietà capitalistica, il governo proletario è costretto a difenderla e appoggiarla, perché in caso contrario tutta la produzione precipiterebbe nel caos. Contro l’evoluzionismo di Bernstein e degli esponenti della 2a Internazionale affileranno le penne i marxisti radicali tra cui Plechanov, Rosa Luxemburg, Parvus e anche Lenin. Tra chi crede nella necessità di una dittatura del proletariato e chi invece ripone le proprie aspirazioni nell’evoluzionismo del sistema capitalistico si determinerà una spaccatura insanabile. A opporsi per primo all’interpretazione meccanicistica del processo rivoluzionario è già lo stesso Engels, anche se i risultati della sua battaglia si rivelano deludenti. In una lettera indirizzata a Marc Bloch egli precisa: “Secondo la concezione materialistica della storia il fattore in ultima istanza determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base, ma anche i diversi momenti della sovrastruttura… esercitano la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. C’è azione e reazione reciproca di tutti questi fattori”. E pure in una lettera a Starkenburg egli ribadisce nuovamente questo concetto ammettendo che da lui e da Marx i rapporti economici sono sempre stati considerati come l’elemento determinante, ma giammai come l’unico fattore della storia, e che tali rapporti sono da considerarsi il modo stesso in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza e scambiano tra di loro i rapporti. Negli scritti di Marx e suoi, infatti, non c’è traccia alcuna né di determinismo né di crollo del capitalismo. Il processo di revisione della teoria del socialismo scientifico è però così forte che lo stesso “Antidhuring” viene interpretato come una summa filosofica. Alla morte di Engels si sprigionano in un sol colpo tutte le forze revisioniste fino ad allora latenti e represse. C’è addirittura chi, come Victor Adler e Conrad Schmidt, sollecita un abbandono del pensiero marx-engelsiano e invoca un ritorno a Kant. E nel periodo immediatamente successivo si verifica la scissione della teoria ufficiale della socialdemocrazia, cioè si affermano, da una parte, l’idealismo kantiano di Bernstein, dall’altra, il naturalismo darwinistico di Kautsky: due prodotti astratti e complementari della dissoluzione della dialettica rivoluzionaria. 66


A quel punto nel movimento si radica la convinzione, propria degli aderenti alla 2a Internazionale, ma coltivata anche dai comunisti (ancor sino ai giorni nostri), che la teoria marx-engelsiana sarebbe un’ideologia. Anche se usata nel senso positivo del termine, una tale interpretazione rappresenta senza alcun dubbio un vero e proprio travisamento. Semmai è il caso di interpretare la teoria della rivoluzione proletaria come ideologia, questo va riferito non certo al pensiero di Marx e di Engels, bensì proprio alla grande varietà di interpretazioni che di esso sono state e continuano ad essere date. In quel calderone che è conosciuto come “marxismo” trovano, infatti, posto le teorie e le prassi più svariate che nel corso di oltre un secolo hanno contraddistinto le formazioni politiche del movimento operaio. C’è chi sostiene che ad avere una grossa responsabilità nell’affermazione del processo revisionista del pensiero marxiano sia proprio lo stesso Engels, a causa delle interpretazioni che egli ha fornito dopo la morte del “primo violino”. E rivendica conseguentemente una separazione-distinzione di quanto i due hanno scritto e teorizzato. Credo sia a questo riguardo il caso di ricordare che se l’attitudine all’autocritica ha incontrato negli stessi ambienti “marxisti” insormontabili difficoltà, la pratica di criticare l’operato altrui, all’inverso, non ha conosciuto e non conosce tuttora limiti. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX la socialdemocrazia tedesca abbandona definitivamente l’originario orientamento rivoluzionario, perde il suo mordente e la sua influenza politica, mentre parallelamente si registra un rigoglioso sviluppo dell’organizzazione sindacale. Si ripete cioè anche in Germania quel processo che anni prima aveva caratterizzato il cartismo e il tradeunionismo inglese. Le tesi socialdemocratiche continuano a vivere come ideologia, separate dalla pratica del movimento, dal momento che l’interesse prioritario diviene quello di garantirsi la compartecipazione alla gestione del sistema democratico rinunciando a realizzare la dittatura del proletariato. Testimonianza di questo ripiegamento teorico e pratico è il fatto che, agli inizi del ‘900, il partito socialista tedesco, pur vantando milioni e milioni di elettori, stampa appena 2-3 mila copie delle sue pubblicazioni a leggere le quali sono esclusivamente i quadri dirigenti. Ai primi del ‘900, il movimento socialdemocratico si divide in tre tronconi: un’ala destra, un’ala sinistra e un centro costituito da una componente che si sforza di offrire una mediazione al progressivo scontro che divide le due ali estreme. Questo settore centrale si trova sotto l’influenza teorica di Kautsky il quale si erige a difensore dell’ortodossia marxista contro il revisionismo di Bernstein. L’ortodossia di questa componente centrista è però limitata ai temi accademici, mentre la sua pratica politica risulta dominata dalle tendenze riformiste, occupandosi dello sviluppo concreto del partito e del sindacato in regime di legalità. Anche Kautsky vede nella vittoria alle elezioni e nel parlamento la via al socialismo e considera il sindacato un valido ausilio per il raggiungimento di questo obiettivo. Ben presto le espressioni politiche che si ispirano alla 2a Internazionale divengono fine a se stesse e perdono definitivamente il loro originario carattere anticapitalistico. La loro saldezza organizzativa risulta garantita non più dalla lotta, ma dalla collaborazione di classe e gli apparati burocratici di partito e sindacali guardano con apprensione a tutte quelle azioni dei lavoratori che possono sfuggire al loro controllo e mettere a repentaglio l’organizzazione. Invece di favorire lo sviluppo della coscienza rivoluzionaria, le organizzazioni socialdemocratiche cercano di scoraggiarla per evitare lo scontro con la classe dominante. La socialdemocrazia tedesca, che è il maggior partito socialista del mondo, ai primi del ‘900, si presenta enormemente burocratizzata essendo modellata sulle strutture amministrative statali e industriali dell’epoca. Richiamandosi all’autorevolezza del “Manifesto” comunista, i socialdemocratici fanno una distinzione fra il “programma massimo” e il “programma minimo”. Nell’Europa occidentale, dove la rivoluzione borghese è un fatto compiuto, il programma minimo perde irrimediabilmente l’ambizione rivoluzionaria la quale viene idealmente affidata al programma massimo, il quale però si traduce assai presto in una sorta di carta dei sogni per chi ancora ambisce costruire una società socialista.

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Agli evoluzionisti torna molto difficile rendersi conto che la riproduzione della forza materiale del modo di produzione capitalistico determina specifici rapporti sociali ad esso confacenti, e pertanto sfugge loro l’inevitabilità del permanere, nella prassi, dell’assoggettamento della classe operaia alle leggi del capitale . Nel tempo l’economicismo risulterà essere una tendenza del movimento operaio che si forma e si riforma via via che nuovi strati sociali vengono assorbiti dalla struttura industriale e la cui cultura risulta subalterna alle leggi e alle compatibilità dell’economia. Una tendenza che porterà non solo a privilegiare i rapporti economici rispetto alla complessità della realtà sociale e politica, ma che rinchiuderà il sapere del proletariato nell’angusta ottica della scienza borghese. Con l’avvento del primo conflitto mondiale si giunge a un ripensamento teorico in via definitiva, cioè a una revisione delle posizioni marxiste fino allora accettate: alla teoria marxiana del salario si contrappone la tesi del “salario politico”; alla tesi della vulnerabilità alle crisi del capitalismo, l’idea di un capitalismo organizzato in grado di prevenirle; alla concezione dello Stato come strumento del dominio della borghesia, il tentativo di concepire lo “Stato repubblicano come leva del socialismo”. La visione economicistica della transizione non manca peraltro di produrre nella cultura politica e nella pratica del movimento una serie di distorsioni che segneranno profondamente il suo destino fino ai giorni nostri. E’ da ricordare anzitutto che è proprio con la 2a Internazionale che prende consistenza la tesi della “statalizzazione” dell’economia come via per la realizzazione del socialismo, in alternativa al concetto marxiano della socializzazione. E poi, che sono proprio le teorie di Bernstein e di Kautsky a suscitare l’opportunismo parlamentaristico e, di conseguenza, il fenomeno del trasformismo politico di sinistra. Infine, sono ancora le pratiche dei socialdemocratici dei Paesi colonialisti europei a dare corpo al nazionalismo e allo sciovinismo quando decidono di giustificare le guerre di occupazione e di rapina in nome dei benefici che ne derivano anche alle classi operaie autoctone. Posto di fronte alla guerra il riformismo si traduce così in “socialismo imperialista”. Lo sciovinismo non è altro che il corporativismo elevato a livello della nazione. Del resto, già prima della guerra gli Stati imperialisti sono riusciti a legare al proprio carro gli strati superiori degli operai, cioè quelli con la qualifica, grazie ai sovrapprofitti realizzati, facendo così breccia nell’insieme della classe operaia. Infatti, il dibattito che impegna maggiormente la 2a Internazionale verte sul quesito se e in che misura i socialisti possono lasciarsi coinvolgere nella politica coloniale, ritenuta dai più una necessità teorica. Alcuni (Bernstein, Van Kol, David, Labriola, Treves e altri) sostengono l’opportunità di una “politica coloniale socialista”, ossia di una partecipazione attiva dei socialisti alle imprese coloniali, in modo di alleviare le pene degli “indigeni”. Altri, capeggiati da Kautsky, preferiscono invece restare pilatescamente fuori dalla contesa. Quando scoppia il conflitto mondiale, solo in pochi riescono a riaffermare i principi dell’internazionalismo proletario, ed essi sono il gruppo della sinistra socialista tedesca legato a Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, i bolscevichi russi con a capo Lenin, i serbi, gli “stretti” bulgari e il partito socialista italiano. Di fronte alle capitolazioni dei partiti operai tedesco e francese, a dire dello stesso Lenin, il Psi rappresentò una “felice eccezione” nel panorama della 2° Internazionale. Il voto a favore dei crediti di guerra dei socialisti tedeschi e di quelli francesi segna il momento della piena subordinazione dei partiti operai alla politica delle rispettive borghesie nazionali. E segna anche la fine della stessa 2a Intrernazionale. Durante la prima guerra mondiale, in Europa, milioni di lavoratori votano socialista e la gran parte delle organizzazioni della classe operaia, i sindacati e molti dei partiti socialisti e socialdemocratici, sono già ben integrati nel sistema sociale e politico del capitalismo, anzi, costituiscono una specie di condizione per il funzionamento stesso del processo di accumulazione capitalistica e per il dominio della borghesia sulla società. Le conseguenze deleterie dell’atteggiamento rinunciatario e remissivo della 2a Internazionale hanno caratterizzato le stesse organizzazioni del movimento operaio italiano. A partire dal periodo di De Pretis, infatti, ad essere investita dal trasformismo non è solamente la sinistra borghese, ma anche frange della stessa sinistra socialista, seppure in dimensione individuale. Il successivo caso di 68


Benito Mussolini rappresenta solo l’episodio più eclatante. A dare poi testimonianza di opportunismo parlamentaristico sono sia il Psi che la Cgil nel corso del “biennio rosso”. E’ difatti proprio il loro atteggiamento di sfiducia nel movimento di massa e di subordinazione alle logiche del sistema a causare la sconfitta degli scioperi torinesi e dell’occupazione delle fabbriche e, successivamente, a mettere in condizioni la componente comunista di decidere la scissione a Livorno quale riscatto dell’autonomia del movimento. A una visione tutta istituzionalista della lotta per il cambiamento e al diffondersi del “cretinismo parlamentare” si contrappongono inesorabilmente manifestazioni antistituzionaliste radicali che denotano miopia strategica e incertezza politica e prendono corpo tendenze estremistiche le quali sospingono il movimento su posizioni minoritarie e settarie, rendendo la sua azione verbalistica e incapace di dialogare e competere con le altre forze rappresentative della classe operaia. Con l’inasprimento dei contrasti tra le diverse fazioni si determina così ancora una volta il dissolvimento di una possibile e necessaria unità del movimento socialista quale condizione per l’affermazione dei valori e della strategia rivoluzionaria. 3.2 - Il marxismo di Lenin La teoria della successione dei vari stadi dell’evoluzione storica e dello spontaneismo rivoluzionario fatta propria dalla 2° Internazionale viene contrastata, tra gli altri, da Lenin e messa in crisi prima dall’esperienza rivoluzionaria russa del 1905 e poi, in maniera decisa, dalla rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917. Con Lenin, che è un revisionista della teoria marx-engelsiana e, per alcuni studiosi, il primo saccheggiatore della pietra tombale del teorico di Treviri, il marxismo entra in una nuova fase del suo sviluppo. All’opposto dei Kautsky e dei Bernstein, egli esalta il ruolo del soggetto rivoluzionario e, in ragione della situazione storico-geografica in cui si è formato ed è chiamato ad operare, mostra di non dare importanza determinante all’influenza che le condizioni materiali e culturali hanno sui processi di cambiamento. Vladimir Il’ic Ul’janov, detto Lenin, nasce nel 1870. Suo padre è un ispettore scolastico e la famiglia è quella tipica della borghesia intellettuale. Essendo stato battezzato, da piccolo frequenta la chiesa e fa il chierichetto, ma con il progredire degli anni rompe con questa tradizione. A ventuno anni si laurea in giurisprudenza a Pietroburgo, diventa un fervente discepolo di Plechanov e si iscrive a un circolo marxista di quella città. Da subito s’impegna a diffondere le teorie di Marx ed essendo convinto della necessità dello sviluppo capitalista in Russia, si scontra sia con il populismo sia con la pratica del terrorismo nella lotta politica condotta dalle avanguardie russe di quel tempo, fra i cui esponenti vi è anche suo fratello maggiore Aleksandr. Per anni Lenin subisce la reclusione carceraria e il confino ed è costretto all’esilio dal potere zarista. Negli anni fra il 1907 e il 1912 collabora al lavoro direttivo del Bureau della 2a internazionale dando prova della sua ottimistica fiducia nell’avvenire dell’organizzazione mondiale del movimento. L’abisso che lo dividerà dall’Internazionale sarà scavato dalla guerra mondiale. Nel ’97 sposa Nadezda Krupskaja, ma il suo più grande amore sarà Inessa Armand, una militante francese conosciuta a Parigi. Per ben quattro volte i suoi nemici tentano di ucciderlo e in due di queste occasioni, pur non riuscendo nell’impresa, i killer gli compromettono la salute. Dai primi del ’22 è paralizzato alle gambe e al braccio destro e nel marzo del ‘23 perde l’uso della parola. Dopo l’ultimo attentato, infatti, egli risulta affetto da una malattia nervosa che lo porterà alla morte a soli 54 anni. La sua cultura rispecchia le svariate origini del suo ambiente familiare e sociale. Un suo biografo individua ascendenti tedesche, ebraiche, protestanti-ortodosse, calmucche e russe sulla sua formazione. Per il suo notevole “sapere” e per la sua capacità dialettica, già prima dei trent’anni viene soprannominato “il vecchio”. Si dice fosse convinto di saperla più lunga di tutti e che dedicasse poco tempo alle opinioni altrui. Sta di fatto, però, che quando egli parla, fa lavorare la mente dei suoi ascoltatori, sa cogliere nel concreto i pregi e gli errori delle persone, stimandole per 69


quello che sono, senza che simpatie e antipatie, peraltro in lui vivissime, influenzino le sue azioni politiche. Lenin è senza dubbio un insuperabile stratega e tattico della rivoluzione, anche se non manca di compiere approfondite analisi e di formulare fondamentali teorie. Piuttosto che un teorico preoccupato di studiare le leggi del movimento della storia e della società capitalistica, anche se pure su questo terreno il suo contributo è grande, egli si rivela soprattutto un uomo d’azione. Considera essenza del marxismo “l’analisi concreta della situazione concreta” e uno dei suoi principi è che la prassi sta alle origini della teoria, così come la teoria fonda la prassi. “Noi non consideriamo affatto la teoria di Marx come qualcosa di concluso e di intangibile – sostiene – al contrario, siamo convinti che essa abbia posto solamente le pietre miliari di una scienza che i socialisti devono sviluppare in tutte le direzioni, se non vogliono rimanere avulsi dalla vita”. E ritiene che la forza del pensiero marxiano stia proprio nel fatto che esso riesce a far suo ogni valore autentico che si è manifestato nello sviluppo millenario dell’umanità. Perciò, con grande coerenza, fa suo ogni risultato delle scienze naturali senza mai fare distinzioni su chi ne è stato l’artefice e senza mai ricorrere a un suo uso strumentale. Egli, difatti, riconosce il valore dell’opera di filosofi, di scrittori e di letterati che non appartengono all’area marxista o che con essa non hanno alcuna relazione. Si oppone invece con determinazione ai tentativi di ricavare conclusioni idealistiche dal rivolgimento che si verifica nelle scienze. Commenta a riguardo di questo aspetto: “La materia scompare: ciò significa che scompare il limite al quale finora si arrestava la nostra conoscenza della materia, significa che la nostra conoscenza si approfondisce; scompaiono certe proprietà della materia che prima ci sembravano assolute, immutabili, primordiali: impenetrabilità, inerzia, massa, ecc. e che ora si dimostrano relative, inerenti soltanto a certi stati della materia… Anche l’essenza delle cose o la sostanza sono relative… L’elettrone non è meno inesauribile dell’atomo, la natura è infinita, ma esiste infinitamente”. “La coscienza del carattere non assoluto delle verità scientifiche è la prova più persuasiva della validità della concezione marxista… Il materialismo dialettico insiste sul carattere approssimativo, relativo di ogni teoria scientifica sulla struttura della materia e le sue proprietà”. Lenin conferisce dunque al “suo” materialismo la forma più antidogmatica possibile e si propone di formulare una visione dialettica del mondo in ogni suo aspetto. “Il mondo – sostiene ancora – è un complesso di sensazioni, le qualità sensoriali di luce e colore, temperatura e consistenza ecc. sono i veri e propri elementi primari del mondo”. “Per ogni scienziato non sviato dalla filosofia professorale, come per ogni materialista, la sensazione è realmente il legame diretto della coscienza del mondo esterno, è la trasformazione dell’energia dello stimolo esterno in un fatto di coscienza”. Come Engels, egli ritiene che la stessa storia dell’umanità muta continuamente la sua forma in senso progressivo, anche se talvolta è sospinta da un moto regressivo. Questi miei fugaci riferimenti al pensiero scientifico di Lenin hanno lo scopo di fornire la testimonianza di come, dal punto di vista della concezione del mondo e della vita, egli sia in piena sintonia con Marx e con Engels. Assumendo però l’eredità di Marx, non come corpo dottrinario inerte da conservare ma come metodo di ricerca nella realtà in movimento, come lui stesso precisa, va oltre la stessa teoria marx-engelsiana e dà corpo a un revisionismo che rispetto alla 2a Internazionale è considerato “di sinistra”. Nella sua elaborazione, infatti, non mancano aspetti che sono complementari e innovativi rispetto all’analisi compiuta dai fondatori del socialismo scientifico. Analizzando il processo di produzione capitalistica, egli compie una distinzione tra consumo produttivo e consumo individuale e dimostra la possibilità di continuità e insieme il carattere progressivo del capitalismo. L’esistenza di un mercato interno – sostiene – non è legata a quella del consumo individuale, o almeno non alla sua espansione e all’elevamento del tenore di vita delle masse popolari, ma piuttosto all’esistenza di settori che producono mezzi di produzione. E la presenza di un consumo per la produzione di mezzi di produzione fa sì che si accumulino tecniche e 70


conoscenze produttive. Sulla base di questa scissione, egli ritiene che il capitale ponga inevitabilmente un limite al suo stesso processo. La crisi non nascerebbe dal sottoconsumo e dalla sovrapproduzione, come ritengono tra gli altri i populisti, ma piuttosto dalla separazione tra consumo individuale e consumo produttivo. L’eccedenza nella forma di sopravalori non più valorizzabili, ovvero di beni produttivi tendenzialmente indipendenti e in contrasto con il consumo individuale, è fonte di spreco dal momento che produce beni che non si consumano. Lo stesso sistema del lavoro – a suo giudizio – non è riducibile alla classe operaia, bensì, la forma sociale dell’accumulazione capitalistica fa sì che al processo rivoluzionario siano non solo interessati, ma indispensabili per le loro funzioni e la loro domanda di produttività anche i ceti non operai. In sintonia con la Luxemburg, egli considera il fenomeno dell’ineguaglianza di sviluppo delle forze produttive su scala mondiale come un fenomeno transitorio. Del resto, nell’ambito dell’interpretazione del pensiero marxista dell’epoca appare scontato che la diffusione delle tecniche produttive di tipo capitalistico avrebbe portato a una riduzione progressiva delle differenze tra i livelli di sviluppo economico dei diversi paesi. Anche se una tale concezione non è affatto rintracciabile negli scritti di Marx . Un importante contributo teorico lo fornisce poi quando compie l’analisi dell’imperialismo. Egli documenta come un “pugno di nazioni più ricche e privilegiate” si siano trasformate in “parassiti sul corpo della rimanente umanità”, cioè in sfruttatori collettivi determinando una divisione del mondo in nazioni “sfruttatrici” e nazioni “proletarie”. Conseguentemente, “il proletariato europeo viene in parte a trovarsi in condizioni tali per cui tutta la società non viene mantenuta col suo lavoro, ma col lavoro degli indigeni quasi schiavizzati delle colonie”. E di questo stadio supremo del capitalismo individua i caratteri seguenti: 1) costituzione di monopoli; 2) formazione del capitale finanziario quale risultato della fusione del capitale bancario con il capitale industriale); 3) esportazione di capitali come fattore predominante; 4) creazione di unioni monopolistiche che si spartiscono il mondo; 5) fine della spartizione del globo tra le grandi potenze capitalistiche. Con “L’imperialismo fase suprema del capitalismo” Lenin recupera una corretta analisi delle nuove contraddizioni del capitalismo e rinnova una pratica che è stata ormai abbandonata dalla 2a Internazionale. Considera la fase imperialistica come quella in cui il capitalismo diventa monopolistico, perciò parassitario e morente. A proposito delle sue prospettive, nel 1920, egli polemizza a fondo con le posizioni kautskyane che prevedono un’inevitabile fase successiva all’imperialismo e non esita a definirle “l’abiura di tutti i principi rivoluzionari del marxismo difesi dallo stesso Kautsky per decenni”, come l’equivalente di un vero e proprio tradimento politico inteso a disarmare il proletariato e a privarlo della necessaria determinazione nella lotta rivoluzionaria per l’abbattimento del capitalismo. L’elaborazione leniniana affronta altri aspetti della lotta politica, tra cui quelli riguardanti lo Stato e il partito: problemi questi che tratterò più avanti in altri capitoli. Il complesso delle sue teorie influenzerà l’azione di una parte considerevole del movimento operaio, in primis la componente comunista e, con il sopravvento di Stalin, il suo pensiero, associato a quello dei teorici del socialismo scientifico, prenderà il nome di “marxismo-leninismo”. Sin dall’inizio del suo impegno politico Lenin conduce una battaglia serrata su due fronti: da un lato, si oppone all’evoluzionismo opportunista, dall’altro, combatte l’utopismo anarchico; in sostanza, dichiara guerra sia all’opportunismo di destra che al rivoluzionarismo piccolo-borghese di sinistra. E si dà da fare per conquistare ai bolscevichi piena cittadinanza nella 2a Internazionale, convinto che sia questo il modo più efficace per battere l’opportunismo di cui è affetta la socialdemocrazia. Almeno sino allo scoppio della prima guerra mondiale, egli ritiene possibile contrastare questa tendenza operando dall’interno dell’organizzazione. Mentre considera tutti i riformisti di destra degli eretici e dei traditori della classe e della causa proletaria, ritenendoli colpevoli non di un errore intellettuale ma di ignominia morale, non concede

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alcuna tregua al populismo che reputa il più rigoroso teorizzatore della tesi economicista dal momento che questo movimento considera ineluttabile lo sviluppo borghese in Russia. A fine secolo individua il carattere piccolo borghese delle rivendicazioni contadine e a riguardo di questo mondo scrive: “Ad onta delle teorie invalse da noi nell’ultimo mezzo secolo, i contadini russi membri dell’obscina non sono gli antagonisti del capitalismo, ma al contrario, la sua base più profonda e più salda”. Nel 1903 in “Che fare?”, definisce l’anarchismo “una punizione per gli errori di opportunismo da noi compiuti”. Egli rifiuta sia la prospettiva del “grande crollo” sia quella dell’evoluzione pacifica. Vi è in lui una costante tendenza a far prevalere la valutazione politica sulla realtà dei rapporti economici ed è proprio in forza di questa sua impostazione che respinge e combatte il determinismo economico e la concezione evoluzionistica propri della 2° Internazionale. La storia, a suo modo di vedere, non è un processo posto in atto da un impersonale necessità, ma la risultante delle lotte e delle azioni umane. E questo suo modo di intendere il rapporto tra struttura e sovrastruttura, tra economia e politica, fa sì che la funzione della soggettività del combattente rivoluzionario assuma in lui un primato rispetto alle condizioni storiche materiali della società da trasformare. Coloro che hanno accusato Lenin di giacobinismo hanno fatto riferimento proprio a questa sua dottrina filosofico-politica. Ed è in forza di questa visione delle cose che nel 1917 egli trasforma l’insurrezione del popolo russo in rivoluzione socialista. Come vedremo, mentre a Marx viene attribuito il concepimento del passaggio dal capitalismo al socialismo in un senso molto rigoroso, cioè il cambiamento avrebbe dovuto intervenire dapprima nei Paesi più sviluppati, Lenin teorizza che la rivoluzione socialista dei Paesi semi-coloniali (il cui miglior esempio per lui è la Cina) avrebbe preceduto le rivoluzioni socialiste europee. Egli elabora cioè il principio dell’”anello più debole della catena capitalistica” secondo cui la transizione al socialismo non sarebbe più da prospettarsi come una serie di rivoluzioni nei centri metropolitani, bensì nelle realtà in cui il sistema capitalistico non ha conosciuto ancora il pieno sviluppo. E scrive: “L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile la vittoria del socialismo all’inizio in alcuni paesi capitalistici o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente”. Nei Paesi europei, pertanto, la rivoluzione viene da lui concepita a scadenza più dilazionata nel tempo e considerata come fattore essenziale ai fini del consolidamento stesso del processo di trasformazione socialista avviato nelle realtà “deboli”, cioè ai margini dello sviluppo. Proprio per questa sua concezione Lenin è stato considerato dalla stragrande maggioranza dei teorici marxisti a lui posteriori un politico straordinariamente innovatore e spregiudicato, addirittura il più grande politico del XX secolo. In effetti, se si pensa alle difficoltà che egli ha incontrato ed è stato capace di superare, la sua grandezza è innegabile. Lenin è di fatto stato il primo dirigente politico del movimento operaio a prevedere e sfruttare la possibilità di rompere la linearità dello sviluppo capitalista. Su di lui, quale artefice della prima rivoluzione socialista che sconvolge la storia del ventesimo secolo, si è detto e si è scritto molto. I suoi estimatori ne hanno glorificato l’opera, spesso in maniera acritica; i suoi detrattori non hanno esitato a demonizzarlo. C’è chi lo considera fedele esecutore del pensiero marxiano e chi invece ritiene che il suo contributo alla storia sia di un ordine diverso da quello del pensatore di Treviri; c’è chi gli attribuisce eccezionali capacità dialettiche e organizzative e chi, al contrario, lo accusa di dogmatismo e di cesarismo; chi vede in lui l’artefice di una svolta emancipatrice epocale nella storia dell’umanità e chi invece lo vuole responsabile dei crimini più efferati e di aver avviato il movimento comunista su una strada senza uscita. In effetti, non si può non riconoscere che Lenin è tra i pochi personaggi storici che sono riusciti ad accordare in modo sobrio i propri sogni con la realtà. Egli ha avuto l’abilità di governare i moti insurrezionali della Russia del ’17 e tradurli in un progetto rivoluzionario che ha segnato nel profondo la storia del movimento operaio, e nel compiere questa impresa ha dimostrato di non 72


essere affatto contaminato né dalla retorica né dall’utopismo, ma di possedere invece grandi doti di realismo. Non per nulla l’opera sua ha esaltato le classi subalterne e ha fatto tremare i palazzi del potere di tutto il mondo. Ed è significativo che ancora oggi ci sia chi continua a vivere l’esempio che egli ha dato come un incubo. Mentre metterò in risalto a tempo debito quelli che a mio avviso rappresentano i “buchi neri” del leninismo, qui mi preme di chiarire che, pur convinto che la teoria e l’azione del capo dei bolscevichi presentino tare di non poco conto, resto del parere che la sua opera sia da considerarsi senza alcun dubbio un contributo fondamentale al processo di emancipazione del movimento operaio e socialista la cui importanza non si esaurisce nella rivoluzione d’ottobre. Lenin è stato e rimane un precursore dell’emancipazione umana. E nel considerare la sua opera occorre non cadere nell’errore di confonderla con il marxismo-leninismo di stampo staliniano. Il suo agire ha preso le mosse dai processi sociali sin dal suo esordio politico. Quando, nel 1903, il Partito Operaio Socialdemocratico Russo si divide tra bolscevichi e menscevichi, e i primi definiscono il loro programma politico, la rivoluzione borghese non è ancora matura in Russia. In quel Paese esiste ancora il villaggio comunitario, cioè il “mir”, che assegna le terre da coltivare, organizza il lavoro, amministra la giustizia al suo interno, regola i rapporti con il latifondista e con lo Stato. Gli stessi populisti vedono rappresentata in esso l’idea socialista della “Comune” e ritengono impossibile, a causa della ristrettezza del mercato, che nel loro Paese possa svilupparsi il capitalismo. Essi si richiamano a Marx in modo strumentale e riservano agli aspetti economici scarso interesse. Nel movimento dei “giovani russi”, che attaccano frontalmente le vecchie autorità e le antiche verità, regna un’atmosfera di tensione intellettuale forse unica nel suo genere. E questo clima dà senz’altro forza alla nascente organizzazione socialista. Già al 2° congresso del partito Lenin dichiara: “La rivoluzione russa può vincere con le sue proprie forze”, anche se poi precisa che “essa non può in alcun caso conservare e consolidare con le proprie mani le sue conquiste… non può ottenere questo se in Occidente non ci sarà un rivolgimento socialista”. Il suo convincimento circa l’importanza fondamentale e decisiva del ruolo della soggettività del rivoluzionario rispetto alle condizioni materiali e culturali in cui esso opera, si evidenzia dunque assai presto. La contraddizione tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria, in Russia, esplode nel corso dell’insurrezione del 1905. E’ in occasione di questo primo tentativo rivoluzionario che egli aggiusta il tiro dichiarando che come “marxisti dovremmo sapere che non c’è, e non ci può essere, altra via che conduca alla vera libertà degli operai e dei contadini al di fuori di quella della libertà borghese e del progresso borghese”. E contemporaneamente ribadisce che saranno i lavoratori europei a insegnare a quelli russi “come si fa… e noi insieme con loro faremo la rivoluzione socialista”. Puntualizza anzi: “La vittoria nell’imminente rivoluzione democratica ci consentirà di compiere un gigantesco balzo in avanti verso la nostra meta socialista, di liberare tutta l’Europa dal giogo gravoso di una potenza militare reazionaria e di aiutare i nostri fratelli a marciare verso il socialismo con passo più spedito”. Manca ancora più di un decennio all’appuntamento con l’”Ottobre rosso”, e già Lenin manifesta fermo e integro il convincimento che a determinare i processi storici è anzitutto l’azione e la volontà degli uomini. Le circostanze che a suo modo di vedere renderebbero possibile la rivoluzione in Russia sono così riassumibili: l’esistenza di una classe contadina più rivoluzionaria che altrove; un assolutismo (lo zarismo) più arretrato che in altri Stati; la confusione ingenerata dalla guerra col Giappone e le drammatiche conseguenze della sconfitta subita dalle classi subalterne; il sostegno delle nazionalità oppresse; l’esistenza di partiti rivoluzionari meglio organizzati e dotati di maggior chiarezza ideologica; infine, una situazione internazionale più favorevole dalla quale egli deriva l’impossibilità di un intervento dall’esterno per salvare lo zarismo. Data l’insussistenza della borghesia e il limitato sviluppo del capitalismo, egli avverte l’esigenza dell’assunzione in prima persona da parte del proletariato dell’obiettivo di realizzare una costituzione democratico-borghese. 73


E in questo spirito insiste perché venga dato corso a un “indottrinamento intensivo delle masse popolari utilizzando le stamperie di Stato”, venga rivendicata “la completa nazionalizzazione della terra” (ratificando le azioni dei contadini) e venga operata una “immensa espansione delle forze produttive”, al fine di favorire “un gigantesco sviluppo del progresso capitalistico”. Nel portare avanti questi suoi propositi rivoluzionari Lenin incontra l’opposizione di Plechanov e di Martov. Questi sono convinti che una prematura ascesa al potere sull’onda dell’entusiasmo proletario, i socialdemocratici o sarebbero stati forzati a introdurre misure premature di carattere socialista, e a provocare così inevitabilmente una controrivoluzione borghese, oppure, come Engels aveva previsto, sarebbero diventati gli esecutori involontari dell’”altra classe” e avrebbero quindi disilluso il proprio seguito. La rivoluzione del 1905, come è risaputo, si conclude nel sangue, ma Lenin continua a perseguire ostinatamente il suo disegno con estrema lucidità. Nel corso degli anni immediatamente successivi, precisa che la rivoluzione russa è “borghese nel senso del suo contenuto economico sociale. Il che significa: i compiti del rivolgimento che sta avvenendo in Russia non escono dall’ambito della società borghese”, e che”neppure la più piena vittoria dell’attuale rivoluzione, cioè la conquista della repubblica più democratica e la confisca di tutta la terra dei proprietari da parte dei contadini, intacca le fondamenta dell’ordine sociale borghese” (1907). Poco dopo, però (1908), sostiene che “la vittoria della rivoluzione borghese è da noi impossibile come vittoria della borghesia”. Se fino al 1914 egli è convinto della necessità che in Russia si realizzi una rivoluzione agraria e borghese, mentre esclude la possibilità di una rivoluzione socialista, quando scoppia la prima guerra mondiale cambia parere e, sciogliendo le riserve che ha avuto fino ad allora, ritiene che gli sconvolgimenti sociali necessariamente provocati dal conflitto avrebbero portato alla rivoluzione generale. “La rivoluzione democratica borghese in Russia oggi non è più soltanto il prologo, ma una parte integrante della rivoluzione socialista in Occidente”, afferma. Quando la stragrande maggioranza dei partiti socialisti e socialdemocratici europei, nei rispettivi parlamenti nazionali, votano i “debiti di guerra”, solo poche organizzazioni socialiste risultano immuni dalla malattia dello sciovinismo opponendosi con determinazione alla rinuncia di una visione internazionalista della lotta politica e alla svendita della propria autonomia. L’imporsi dello sciovinismo ha l’effetto della famosa goccia che fa traboccare il vaso: all’interno della 2a Internazionale scoppiano le divergenze ormai annose e insanabili e si determina la rottura. Lenin considera ormai finita ogni possibilità di lottare con successo contro l’opportunismo nella 2a Internazionale e rompe decisamente con essa. Dapprima tenta di riunire i due tronconi (quello socialdemocratico e quello comunista) che nei movimenti operai dei vari Paesi si oppongono alla guerra, organizzando la conferenza di Zimmerwald (1915) e poi l’incontro a Kienthal (1916); fallito il tentativo non gli resta che organizzare la rottura. Lo scoppio della prima guerra mondiale crea una situazione completamente nuova. Mentre i destini della rivoluzione russa si intrecciano strettamente allo sviluppo della rivoluzione socialista nei Paesi capitalistici dell’Europa centrale e occidentale, il movimento socialista si scompone, compromettendo quella lotta su scala europea cui egli lega il destino di un possibile e auspicabile sbocco rivoluzionario di natura socialista nella terra degli zar. 3.3 – I bolscevichi e la rivoluzione Nel gennaio del 1917 la Russia si trova a fronteggiare una crisi alimentare che getta le classi popolari in una situazione catastrofica. Si determina non tanto una mancanza di prodotti, quanto invece una situazione d’incuria e d’incapacità delle istituzioni governative di organizzarne la distribuzione e di impedire gli episodi di speculazione e di concussione che fioriscono ovunque. Oltre agli alimenti, scarseggiano anche le materie prime, il carbone anzitutto. Altrettanto disastrosa è la situazione al fronte dove l’elevata probabilità di essere ammazzati e le pessime condizioni di equipaggiamento portano alla diserzione di un milione e mezzo di soldati. 74


In febbraio, a Pietrogrado avviene una rivolta di popolo e le truppe si ammutinano: è la rivoluzione. Per quattro giorni operai, soldati e contadini protestano contro la guerra e rivendicano pace, pane e terra. La sommossa è spontanea, non esiste alcuna direzione politica del movimento. Il regime autocratico è nell’impossibilità e incapace di garantire i generi alimentari alla popolazione urbana e, di fronte alla ribellione di massa allo zar Nicola II, non resta che l’abdicazione. Viene sostituito da un governo provvisorio liberale che si dimostra pure esso incapace di governare la situazione. Gli stessi partiti che s’ispirano al movimento operaio si trovano spiazzati dalla mobilitazione popolare e cercano di organizzare i soviet che stanno crescendo spontaneamente ovunque e ad essi affidano il compito di organizzare e orientare il movimento. Decisivo è il ruolo svolto dal soviet di Pietrogrado nel dirigere la rivolta. Lenin, che in marzo non è in Russia ammetterà onestamente in tempi successivi che “se non ci fosse stata la guerra, la Russia avrebbe potuto vivere anni e persino decenni senza una rivoluzione contro i capitalisti”. Dal canto suo Trotzkij, che ancora milita nelle file mensceviche, pur ritenendo che“l’epoca nella quale stiamo ora entrando sarà la nostra epoca, cioè l’epoca della rivoluzione proletaria”, ancora alla vigilia dell’esplosione dei moti popolari, considerava un’eventuale rivoluzione russa vittoriosa, ma isolata, come un “aborto storico”. La rivoluzione russa di febbraio avviene nel mentre che l’espressione politica del movimento proletario e contadino è divisa in due tronconi: i menscevichi da una parte e i bolscevichi dall’altra. Già a partire dai primi del secolo, infatti, i primi accusano i secondi di voler andare oltre lo schema evoluzionista di Marx, in quanto si propongono di organizzare, con metodi cospirativi, una rivoluzione proletaria per la quale mancano, a loro giudizio, le condizioni oggettive. I bolscevichi, a loro volta, incolpano i menscevichi di considerare la rivoluzione “un processo di sviluppo storico” anziché un avvenimento che deve essere coscientemente organizzato sulla base di un piano preordinato. I menscevichi rappresentano una serie di idee che sono familiari al socialismo dell’Europa occidentale, perseguono cioè l’opposizione legale, il progresso attraverso le riforme anziché tramite la rivoluzione, privilegiano il compromesso e la cooperazione con gli altri partiti politici, fanno l’agitazione economica per mezzo dei sindacati. Raccolgono i loro seguaci tra gli operai più qualificati e organizzati, tra i tipografi, i ferrovieri e i lavoratori delle acciaierie dei moderni centri industriali del Sud. I bolscevichi invece ritengono possibile sconfiggere lo zarismo solo attraverso la rivoluzione e hanno la loro base nei lavoratori relativamente poco qualificati delle grandi industrie. A essere convinti che, con l’avvento del primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa può rappresentare il prologo della rivoluzione sociale, sono però non solo i bolscevichi, ma gli stessi Trotzkij e Kautsky i quali peraltro sono su posizioni politiche assai distanti da quelle di Lenin. Nelle settimane immediatamente successive alla caduta dello zar, il comportamento di molti degli stessi bolscevichi fa supporre che anche tra di loro sia diffuso il dubbio che il livello di sviluppo economico della Russia renda impossibile in quel momento una rivoluzione socialista e siano perciò consapevoli di trovarsi nel mezzo di una rivoluzione democratico-borghese. Lenin, che negli anni precedenti aveva pure teorizzato un processo di lunga durata per la conquista del potere, a febbraio incomincia a prospettare una possibile presa immediata del “palazzo”, dal momento che il nuovo governo borghese si dimostra indisponibile a far uscire il Paese dallo stato di guerra in cui si trova e appare non in grado di fronteggiare il caos economico provocato dalle scelte del regime zarista, tanto meno è intenzionato a soddisfare le esigenze fondamentali del popolo. Sta di fatto che dopo l’abbattimento dell’autocrazia, dai bolscevichi vengono create la “guardia rossa”, la milizia popolare e le squadre operaie. Quando in tutta la Russia sorgono numerosi soviet e diventano i più importanti organi di potere politico, la loro influenza tra la popolazione supera quella delle stesse autorità governative. E la presenza diffusa di questi nuovi soggetti politicosociali fa sì che nel Paese venga a determinarsi una dualità di poteri: il governo provvisorio da una parte, e appunto i soviet, in particolare quello di Pietrogrado, dall’altra. Quando in aprile Lenin rientra dalla Svizzera attraversando la Germania, il cui governo non solo gli concede il permesso, ma, nella speranza di trarre vantaggi sul piano militare, lo aiuta a tornare in 75


patria, egli proclama le famose “tesi di aprile” la cui sostanza può esser racchiusa nella parola d’ordine “tutto il potere ai soviet”. Sostiene, tra l’altro, che “il partito proletario non può basare le proprie speranze sulla comunanza d’interessi con la classe contadina“ e fa presente la necessità di lottare “per portare il contadino dalla nostra parte”, essendo peraltro convinto che “in una certa misura, esso rimane consapevolmente dalla parte dei capitalisti “. E indica la tattica che i bolscevichi devono seguire: “I soviet, prendendo tutto il potere, potranno ancor oggi – ed è probabilmente l’ultima occasione favorevole – assicurare lo sviluppo pacifico della rivoluzione, l’elezione pacifica dei deputati da parte del popolo, la lotta pacifica dei partiti in seno ai soviet, la verifica pratica del programma dei vari partiti, il passaggio pacifico del potere da un partito all’altro”. A suo giudizio, devono essere incoraggiate e utilizzate le aspirazioni di libertà della borghesia, anche se non vi si può fare affidamento nella lotta decisiva. Il proletariato e i contadini, congiuntamente, dovrebbero sostituirla nella costruzione rivoluzionaria di un ordine democratico costituzionale. E intendendo sfruttare le lotte contadine contro l’assolutismo, egli cerca di impedire che questa classe diventi la spalla della borghesia attraverso l’affermazione della piccola proprietà. Una tale scelta – precisa – è da intendersi non come volontà di “infrangere i limiti della rivoluzione democratico-borghese”, bensì come la possibilità di rompere la catena della reazione interna e internazionale. Con questa linea politica determina una svolta sul piano delle alleanze negli indirizzi dei bolscevichi i quali invece, sotto la guida di Kamenev, Zinov’ev e Stalin, hanno sostenuto, fino a quel momento, il governo provvisorio, nonostante questo fosse impegnato a continuare la guerra e si dimostrasse incapace di fare le riforme. Un governo, oltretutto, che in pochi mesi ha subito ben tre rimpasti. Le “tesi di aprile” di Lenin vengono però respinte dal comitato centrale del partito. Come ricorda Trotzkij in “Storia della rivoluzione russa”, il partito bolscevico nel ’17 si divide e si separa dalla sua leadership a più riprese. Da maggio il governo provvisorio comprende anche i socialisti rivoluzionari e i menscevichi, ma il loro coinvolgimento al potere anziché contribuire a risolvere i gravi problemi del Paese, accentua il processo di degenerazione dell’apparato statale. I posti di funzionari che fino ad allora erano stati riservati di preferenza agli ultrareazionari, diventano bottino dei cadetti e degli stessi menscevichi e socialisti rivoluzionari. In tutte le amministrazioni centrali e locali le riforme risultano bloccate e mentre l’economia va a rotoli, le condizioni di vita della popolazione diventano sempre più insostenibili. Anche in dipendenza di questa situazione, da piccola pattuglia di qualche migliaio di unità che erano in primavera, i bolscevichi diventano un esercito di 250 mila unità: un progresso quantitativo del movimento che è possibile anche grazie ai finanziamenti che esso riceve dai tedeschi, i quali fanno di tutto per creare problemi al governo russo. I bolscevichi sono così in grado di pubblicare una quarantina di giornali, di comperare alcune stamperie e di garantire gli stipendi a migliaia di rivoluzionari di professione. Ancora a luglio Lenin punta sulla fine della guerra proponendo una “pace democratica” e confida nella rivoluzione proletaria in Europa. Quando però un gruppo di allievi ufficiali, con la complicità dei socialisti, invade e distrugge gli uffici della “Prava” e il governo provvisorio dà inizio all’arresto degli esponenti bolscevichi, egli compie una seconda e decisiva svolta: alla via pacifica contrappone la via insurrezionale. Da quel momento egli è costretto di nuovo alla clandestinità. Data la situazione, e preso atto del collegamento dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi con l’imperialismo anglo-francese, si convince che la classe operaia russa non può restare nell’ambito dell’alleanza con i partiti democratici piccolo-borghesi, e conseguentemente nel quadro della dittatura democratica degli operai e dei contadini, ma ritiene che a questo punto si debba necessariamente passare alla fase della rivoluzione, quella appunto della dittatura del proletariato. Solo questa scelta, a suo avviso, può consentire il raggiungimento di una pace antimperialista e garantire una soluzione ai problemi del Paese. In agosto, quando si celebra il sesto congresso del partito, Lenin si trova ancora in clandestinità. L’assise prende in esame, tra l’altro, i problemi finanziari e chiede l’immediata sospensione di

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nuove emissioni di carta moneta, rivendica varie riforme fiscali, tra cui una tassa sulla proprietà, forti imposte indirette sui generi di lusso e una riforma dell’imposta sul reddito. La situazione però si aggrava e al governo del Paese viene chiamato il socialista-rivoluzionario Kerenskij. Di fronte a questa novità la strategia di Lenin resta quella di abbattere il governo provvisorio per passare il potere ai soviet dando così corso a una lotta politica fra i partiti per la direzione degli stessi. Scrive infatti al proposito in ”I compiti della rivoluzione”: “La Russia è un paese di piccola borghesia. L’immensa maggioranza della popolazione appartiene a questa classe. Le sue oscillazioni tra la borghesia e il proletariato sono inevitabili. La causa della rivoluzione, cioè la causa della pace, della libertà, della consegna delle terre ai lavoratori avrà assicurata una vittoria facile, pacifica, rapida, tranquilla, solo se la piccola borghesia si unirà al proletariato… noi dobbiamo fare tutto il possibile per assicurare una ‘ultima’ probabilità di sviluppo pacifico della rivoluzione, esponendo il nostro programma, mettendone in luce il carattere generale, popolare, dimostrando che esso soddisfa completamente gli interessi e le rivendicazioni della immensa maggioranza della popolazione”. Essendo però la maggioranza dei soviet in mano ai socialisti rivoluzionari e ai menscevichi, egli fa un compromesso con Kerenski per arginare le spinte controrivoluzionarie e contemporaneamente invita il partito a preparare l’insurrezione popolare. Un mese prima della presa del Palazzo d’Inverno, Lenin si trova di nuovo contro la maggioranza del Comitato centrale del partito guidata da Zinov’ev e Kamenev. Contro gli è anche Stalin che gli censura degli articoli. Egli viene addirittura messo nelle condizioni di minacciare le dimissioni dal gruppo dirigente e proclamare direttamente alle masse le sue direttrici di lotta. La crescente indignazione della popolazione per lo stato di grande disagio in cui è costretta a vivere, induce il governo a impiegare la forza pubblica per impedire l’insurrezione e, per farlo nel modo più efficace, il socialista-rivoluzionario Kerenskij affida la direzione delle rappresaglie a esponenti militari già tristemente famosi per aver aggredito quei soviet degli operai e dei soldati che si erano contrapposti ai soviet dei contadini filo governativi. Ma neppure con la repressione Kerenskij riesce a venire a capo della situazione di generale caos. Quando in settembre si verifica la rottura tra il governo e il comandante in capo dell’esercito, il generale Lavr Kornilov, allorché questi tenta il colpo di Stato, Lenin viene a trovarsi nella condizione di dover scegliere tra la controrivoluzione, e il conseguente ripristino del regime zarista che avrebbe inevitabilmente portato alla soppressione dei soviet, o la conquista violenta del potere da parte degli stessi istituti di rappresentanza popolare. “La situazione è chiara – egli precisa – o la dittatura di Kornilov o la dittatura del proletariato e degli strati più poveri della classe contadina”. Alla vigilia della rivoluzione, oltre a numerose altre organizzazioni rivoluzionarie, nel Paese esistono 1.429 soviet. Nella stragrande maggioranza essi sono diretti dai socialisti rivoluzionari e dai menscevichi e attuano la politica di conciliazione voluta dal governo provvisorio. Per ordine di questo, essi perseguitano i bolscevichi e proibiscono l’agitazione rivoluzionaria. Una parte notevole di questi soviet egemonizzati dai socialisti sono presenti nelle regioni non industriali del Paese. Il processo di rafforzamento delle loro funzioni di organi insurrezionali e di potere, cioè della loro “bolscevizzazione”, ha inizio nella seconda quindicina di settembre e procede celermente in ottobre. E’ proprio in preparazione del secondo congresso panrusso dei soviet che, data la grave situazione di fame e di miseria causata sia dalla guerra che dalle inadempienze del governo provvisorio, in questi organismi matura il convincimento della necessità di preparasi allo scontro col potere centrale. “Il tempo delle parole è passato. E’ giunto il momento in cui soltanto un’azione risoluta ed unanime di tutti i soviet può salvare il paese e la rivoluzione e decidere la questione del potere centrale”, precisa la risoluzione approvata al congresso regionale del Nord del Paese. E su questa linea si schierano molti soviet di altre regioni. Nel prendere atto del montare di una crescente volontà di ribellione nelle loro stesse file, i socialisti rivoluzionari e i menscevichi operano per far fallire il congresso. Mentre Trotskij, nonostante ciò, fa dipendere dalle decisioni del congresso il destino della rivoluzione, Lenin si dichiara contrario alla tattica d’attesa del congresso e fa approvare dal comitato centrale del partito la risoluzione 77


sull’insurrezione. Kamenev e Zinovjev contestano questa sua forzatura e, poiché essi considerano l’Assemblea costituente come l’organismo più importante, mentre i soviet vengono vissuti come un’appendice del parlamento borghese, svelano allo stesso Kerenskij le decisioni prese dal CC del partito sull’insurrezione rischiando così di compromettere il piano di Lenin. Lo stesso Stalin esprime la volontà di rimandare la decisione sulla questione del potere all’apertura del congresso dei soviet e scrive un articolo in questo senso sul “Rabocij put”. Nel complesso e contraddittorio intreccio degli avvenimenti, il comitato centrale del partito prepara i propri quadri all’assalto delle fortezze dello Stato borghese. Per decisione del soviet di Pietrogrado, viene fondato il Comitato militare rivoluzionario che nomina i suoi commissari nei reparti militari, negli enti e nelle aziende più importanti, estendendo così l’apparato insurrezionale al tessuto legale. Un enorme esercito di propagandisti e di attivisti viene inviato dai bolscevichi in provincia; loro compito, oltre che orientare i delegati al congresso dei soviet, è quello di organizzare l’appoggio all’insurrezione armata. Nonostante l’azione di boicottaggio dei socialisti, l’assise congressuale dei soviet si riunisce come previsto e seppure i bolscevichi rappresentino appena il 10% dei partecipanti, 550 delegati sui 670 presenti (cioè 225 soviet e comitati su 366) si schierano con loro facendo propria la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet”. “Rivendichiamo il potere del proletariato perché questa classe non ha degli interessi suoi personali e per questo non può tendere all’asservimento delle altre. Quindi soltanto così tutte le classi possono sentirsi libere”, argomentano i delegati del soviet operaio di Gukov (Donbass). E’ il via libera all’assalto al Palazzo d’Inverno. Eppure, fino alla vigilia dell’insurrezione, nessun marxista degno di questo nome aveva mai ritenuto che una ristretta élite di rivoluzionari potesse da sola fare la rivoluzione. Pensare questo avrebbe significato cadere nell’eresia del “blanquismo” (nel linguaggio dei rivoluzionari il termine blanquismo significava appunto la preferenza per l’azione rivoluzionaria isolata o putsch ). Lo stesso Lenin, prima di lasciare la Svizzera per rientrare in Russia, in una lettera di commiato indirizzata agli operai di quel Paese afferma: “La Russia è un paese contadino, uno dei paesi più arretrati dell’Europa. Il socialismo non vi può vincere direttamente e immediatamente… la nostra rivoluzione può essere il prologo della rivoluzione socialista mondiale, un passo verso di essa”. In realtà, la Russia, nell’ottobre del ‘17, non solo non è pronta per una rivoluzione socialista, ma neppure lo è per quella borghese, dal momento che non ci sono nemmeno le forze liberali sufficienti per realizzarla e a sostenerla sono chiamati necessariamente gli operai e i contadini. Difatti, mentre il capitalismo russo fa segnare un progresso a passi da gigante, la classe borghese incontra grosse difficoltà a divenire soggetto politico, da qui appunto la sua debolezza. E questo non solo perché gli imprenditori sono numericamente insignificanti, o perchè molti di essi sono stranieri o appartenenti a minoranze etniche e culturali, ma anche perché essi dipendono dalla tolleranza e della protezione dello Stato zarista. Lo stesso partito bolscevico non appare teoricamente preparato a fare propria l’alleanza tra operai e contadini come condizione strategica duratura della transizione al socialismo, in quanto la sua elaborazione è frutto soprattutto della tradizione formatasi nell’Europa avanzata dove la rivoluzione borghese ha già regolato da tempo la questione agraria. Ed è proprio la sopravvalutazione della forza e del peso dei lavoratori dell’industria, i quali in Russia sono un’infima minoranza, unita alla minimizzazione degli altri gruppi sociali, che offusca nelle coscienze dei bolscevichi la distinzione tra la fase “borghese” e la fase “socialista” della lotta. Ed è proprio questa errata interpretazione della realtà sociale che spinge verso un più rapido conseguimento del traguardo finale senza passare attraverso tappe intermedie. 3.4 - Marx, Engels e la rivoluzione Mi pare utile a questo punto aprire una parentesi e passare velocemente in rassegna quanto Marx ed Engels hanno scritto e detto a riguardo dei tempi, dei luoghi e delle condizioni materiali e 78


soggettive di una possibile rivoluzione. Una tale digressione s’impone anche perché le interpretazioni date nel tempo dagli studiosi e dai politici, marxisti e non, sono state molteplici e diverse tra di loro. Allo scopo di evidenziare lo sviluppo del pensiero dei due fondatori del socialismo scientifico, torna opportuno procedere per ordine temporale. Nei primi anni ’40, da Londra dove è impegnato a studiare il capitalismo, Engels scrive: “La rivoluzione in Inghilterra è inevitabile, ma come per tutto ciò che avviene qui, saranno gli interessi e non i principi a farla esplodere e a dirigerla; soltanto dagli interessi possono derivarsi i principi; e quindi questa rivoluzione non sarà politica, ma sociale”. A metà dello stesso decennio, ne’ “L’ideologia tedesca” lui e Marx pongono come necessaria per il successo della rivoluzione socialista, la presenza in un dato paese di condizioni oggettive (la maturità dello sviluppo economico) e soggettive (un adeguato livello della classe operaia in particolare) e insistono sul carattere internazionale della rivoluzione stessa, nel senso che al suo svolgimento devono partecipare più paesi, peraltro tra i più evoluti economicamente e socialmente. Qualche anno dopo, in “I principi del comunismo”, Engels considera possibile la rivoluzione solo in Paesi “civili” come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Francia o la Germania. Nel ’48, quando scrivono il “Manifesto del partito comunista”, ritengono che l’Europa sia sull’orlo di una ondata rivoluzionaria e individuano nella Germania il luogo d’inizio di questo processo. Situano qui l’epicentro dell’insurrezione nonostante questo Paese non sia capitalisticamente più sviluppato di altri. Dopo aver studiato la storia economica dell’Inghilterra, Marx sembra cambiare opinione sostenendo che “per lo meno in Europa, l’Inghilterra è l’unico paese in cui l’inevitabile rivoluzione sociale possa essere attuata per intiero con mezzi pacifici e legali”. E afferma che una rivoluzione europea senza l’Inghilterra sarebbe da paragonarsi come a una tempesta in un bicchiere d’acqua. Dopo la sconfitta dei moti del ’48, sia lui che Engels danno segno di sperare impazientemente in una crisi su scala continentale il cui punto di partenza è proprio il Paese in cui la rivoluzione industriale ha già avuto compimento. Nel 1850, nell’“Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei comunisti” e ne “Le lotte di classe in Francia”, Marx accenna l’idea di una “rivoluzione in permanenza”. A metà del decennio, sia lui che Engels aspettano con trepidazione che scoppi la crisi in Inghilterra e si tengono pronti a tirarne le conseguenze rivoluzionarie. Verso la fine degli anni ’50, scrivendo “Per la critica dell’economia politica”, Marx prende atto dello spostamento del centro di gravità del capitalismo e si dice convinto che la rivoluzione sia possibile non più nel Paese oltre Manica, ma in Germania, ed eventualmente, nel secolo XX, negli Stati Uniti e in Russia. Quando però questa previsione non si verifica, egli cessa di sperare che questo evento possa avvenire in un futuro prevedibile. All’inizio degli anni ’60, di fronte dell’avvio in Russia di un rapido processo di capitalizzazione, egli modifica le sue convinzioni, che erano fortemente ancorate alle condizioni dei Paesi dell’Europa occidentale, e vede nell’impero zarista, e pure negli Stati Uniti d’America, la possibilità di eventi tali da innescare processi rivoluzionari. E considera queste realtà dei supporti di un quadro strategico generale caratterizzato dall’espansione del capitalismo verso nuove aree di sfruttamento. E’ questo il periodo in cui prende entusiasticamente posizione per l’indipendenza dei polacchi, degli italiani e degli ungheresi e considera la rivoluzione irlandese come un possibile acceleratore della rivoluzione nei Paesi borghesi, cioè come un tallone d’Achille del capitalismo metropolitano. Lui ed Engels cominciano così a ritenere possibile anche una via diversa al rovesciamento della società borghese, prospettando la possibilità che la rivoluzione si realizzi lungo tre direttrici, precisamente: o attraverso il sollevamento delle colonie; o tramite l’insurrezione in Russia; o a seguito di un accrescimento tale del ruolo degli Stati Uniti da destabilizzare gli assetti internazionali. Ed è proprio in base a queste ipotesi che essi si sforzano di allargare e approfondire le loro conoscenze. Riflettendo sulla questione irlandese, ipotizzano che la rivoluzione operaia potrebbe non scoppiare affatto nel cuore dei paesi capitalistici, ma alla loro periferia. E questo in forza del fatto che la 79


classe operaia dei paesi sviluppati rischia l’integrazione nel sistema, proprio come è avvenuto in Inghilterra, condividendo il nazionalismo dominante e allontanandosi così dal socialismo rivoluzionario. Non si tratta cioè della semplice constatazione dell’insorgere di un’aristocrazia operaia, ma dell’avvertimento che è in atto un vero e proprio divorzio fra l’evoluzione reale del movimento operaio e la teoria rivoluzionaria. Nel ‘64, infatti, nell’”Indirizzo inaugurale dell’Internazionale” Marx sostiene che l’Inghilterra risulta essere l’unico Paese nel quale la lotta di classe e l’organizzazione della classe operaia hanno raggiunto con le trade-unions un certo livello di maturità, ma che agli inglesi manca “lo spirito della generalizzazione” e “la passione rivoluzionaria” per compiere il passo decisivo. Una rivoluzione russa, invece – egli sostiene – può rappresentare “il segnale ad una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che entrambe si completino a vicenda”, nonostante che la borghesia e il proletariato di quel Paese vengano da lui giudicati troppo deboli per portare a termine la stessa rivoluzione borghese e abbattere definitivamente il regime semi feudale. Per supplire a questa debolezza – a suo giudizio – i comunisti russi potrebbero garantire il loro appoggio ai partiti contadini che conducono la rivoluzione in nome della proprietà privata contadina e in questo modo aprire la strada al processo rivoluzionario. Ed è proprio verso la fine del decennio ’60-‘70 che Marx ed Engels, convinti di questa possibilità, cominciano a interessarsi alle problematiche russe imparando la lingua di quel Paese al fine di poter consultare i testi originali senza dipendere da intermediari. Il possibile ruolo rivoluzionario degli Stati Uniti, infine, è rappresentato a loro avviso in chiave negativa, cioè nella possibilità che un loro massiccio sviluppo rompa il monopolio industriale dell’Occidente europeo, in particolare quello della Gran Bretagna. Lo studio della situazione economica e sociale degli Stati Uniti permette loro, tra l’altro, di scorgere gli ostacoli che un Paese nuovo e dalla frontiere aperte può opporre a una classe operaia di recente formazione la quale, per di più, risulta divisa nelle sue nazionalità di origine. Più avanti nel tempo, sia Marx che Engels esprimono più volte l’idea che la rivoluzione proletaria potrebbe cominciare anche entro la cornice nazionale di un singolo paese europeo, alla maniera di un incendio che poi si estenderebbe agli altri paesi. E menzionano non solo l’Inghilterra, la Francia, la Germania e gli stessi Stati Uniti, ma anche la Polonia, l’Italia, l’Ungheria e la Spagna come possibili “luoghi d’incendio”. Nel ‘72, in occasione del discorso di chiusura del congresso dell’Aja, Marx indica l’Inghilterra e gli Stati Uniti, e anche l’Olanda, come i Paesi per i quali è prevedibile una conquista del potere per via legale da parte della classe operaia, mentre nel resto dei paesi del continente gli appare insostituibile l’uso della violenza. In presenza poi della “grande depressione” che ha inizio nel ’73, Marx manifesta la speranza che una nuova crisi generale trovi il proletariato maturo per l’insurrezione contro il capitale. A partire dagli anni ’70 guarda alla Russia come alla realtà in cui maggiormente si concentrano le condizioni della rivoluzione. In questo Paese il capitalismo è agli albori del suo sviluppo e la sua capacità di espansione è straordinaria. Nel 1875, Engels sostiene che il proletariato dei Paesi più avanzati, dopo aver concluso la propria rivoluzione, avrebbe potuto accompagnare l’arretrata Russia verso il socialismo senza che questo Paese sia costretto a percorrere la via del capitalismo. Nel 1877 Marx ed Engels sono convinti che in Russia sia imminente una rivoluzione che è destinata a mutare il volto dell’Europa. E puntualizzando che le analisi contenute ne “Il Capitale” non hanno la pretesa di essere interpretate come leggi universali vincolanti lo sviluppo futuro della Russia, ribadiscono il convincimento che la presenza della comunità contadina può consentire di “saltare” la fase capitalistica di sviluppo. Essi considerano questo Paese la più forte riserva della controrivoluzione europea e vedono nello zarismo il nemico principale che con il suo immischiarsi negli affari dell’Occidente ne impedisce e disturba il normale sviluppo.

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Quando il populista russo N.K. Michailovskij pubblica un saggio nel quale a Marx viene attribuita l’opinione che in Russia il socialismo avrebbe potuto affermarsi solo dopo che vi si fosse pienamente sviluppato il capitalismo, Marx reagisce aspramente e accusa Michailovskij di distorcere le sue opinioni. E chiarisce il suo pensiero prospettando l’ipotesi che, in linea di principio, la Russia ha “la più bella occasione che la storia abbia mai offerto a un popolo” di evitare “tutte le inevitabili peripezie del regime capitalistico”. Si dice comunque convinto che “la rivoluzione, questa volta, comincia in Oriente, lì dove finora si trovava l’intatto baluardo e l’armata di riserva della contro-rivoluzione” e individua proprio nella terra dello zar il luogo dove avrebbe potuto appiccarsi la prima scintilla dell’”incendio”. Nel 1881, la socialista russa Vera Zasulic scrive a Marx chiedendogli di chiarire il suo punto di vista sulla comune contadina russa. Quanto imbarazzante giungesse quella richiesta al vecchio Marx è dimostrato dalle tre diverse stesure di una lunga risposta che è rimasta tra le sue carte. Alle fine egli si limita a scriverle una breve lettera spiegando che l’analisi contenuta ne “Il Capitale” si basa sulle condizioni dell’Occidente, dove la proprietà comune è da lungo tempo scomparsa e che essa non è applicabile alla Russia. Però precisa: “L’analisi del Capitale non offre ragioni né pro né contro la vitalità della comune rurale… lo studio particolare che ne ho fatto mi ha convinto che essa è il punto d’appoggio della rigenerazione sociale in Russia”. E spiega che se in quel Paese fosse scoppiata una rivoluzione prima che il capitalismo fosse pienamente fiorito, la comunanza della proprietà avrebbe costituito senza dubbio un mezzo di più rapida transizione a una forma superiore di collettivismo, purché ci si appropriasse interamente della più avanzata tecnologia sviluppata dal capitalismo. In Russia, in sostanza, avrebbe potuto essere “saltata” la fase del capitalismo. Lo studio della peculiare situazione russa lo ha infatti portato a scoprire la potenzialità di una via di sviluppo diversa da quella europea-occidentale: una via nella quale l’arretratezza si trasforma da limite invalicabile in virtù. Egli approfondisce le questioni dell’obscina, la comune contadina russa, tipica forma precapitalistica di produzione, e in seguito a questo studio aggiusta i suoi orientamenti rispetto alle ipotesi formulate nei “Grundrisse” e nella “Prefazione del 1859” e prefigura una nuova configurazione della transizione al comunismo. Prospetta cioè una linea che non è coincidente con il principio della funzione universale progressiva della modernità borghese. Le società asiatiche – ai suoi occhi – non offrono virtualmente alcuna possibilità per uno sviluppo simile a quello dell’Occidente. Esse sono caratterizzate da un’economia agricola stagnante e da una plebe disseminata in una moltitudine di strutture comunali autosufficienti, prive di legame organico tra di loro e composte da una popolazione prevalentemente contadina, ligia alle tradizioni, intellettualmente e moralmente degradata dalle condizioni in cui si svolge la sua esistenza, mentre la popolazione urbana è numericamente scarsa e politicamente impotente. Applica a queste società, come già abbiamo visto, il concetto di “modo di produzione asiatica”. E usa tale termine inserendolo in un elenco di modi di produzione e delineando con estrema cautela la successione delle fasi pre-borghesi (“asiatico, antico, feudale e borghese moderno”), senza peraltro indicare mai una successione obbligata dei modi di produzione che si sono susseguiti nella storia di tutti i popoli. E’ interessante notare come la sua ricerca su questi temi si presenti aperta e in progress. I modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese-moderno possono così essere assunti come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. A conclusione di questi studi egli definisce la Russia non un sistema feudale, ma un sistema economico semi-asiatico. E’ da supporre che Marx ed Engels valutino il movimento rivoluzionario russo non tanto per la sua ricettività al loro socialismo scientifico, quanto piuttosto per la sua relazione con il maturare globale dei rapporti capitalistici avanzati e con lo sviluppo del socialismo in Europa. E’ infatti proprio in questa ottica che essi ammettono la possibilità di adattamenti tattici alle diversità nello sviluppo economico e sociale, nelle relazioni fra le classi e nel rapporto fra struttura e sovrastruttura. Nell’82, essi individuano proprio nella Russia l’avanguardia del movimento operaio rivoluzionario europeo. E pur ribadendo il convincimento che la comunità rurale non avrebbe potuto trasformarsi 81


in un modo di produzione socialista, nella prefazione alla traduzione russa del “Manifesto” scrivono: “Se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà diventare punto di partenza per una evoluzione comunista”. Questa valutazione aiuta a comprendere e a giustificare l’appassionata presa di posizione di Marx in favore del partito della “Volontà del popolo” che pratica l’azione terroristica, mentre biasima con una certa durezza il partito della “Ripartizione nera” che respinge ogni azione politicorivoluzionaria e si limita alla propaganda, e al quale aderiscono Plechanov e Aksel’rod. Negli ultimi anni della sua vita, infatti, egli guarda con simpatia e curiosità all’ipotesi dei narodniki (i populisti) che pensano di saltare la fase della rivoluzione borghese passando direttamente dal comunismo dell’obscina alla rivoluzione proletaria. Dopo la morte di Marx, Engels ribadisce le posizioni che congiuntamente essi hanno maturato. Ai suoi occhi la Russia continua a rappresentare l’avanguardia del movimento rivoluzionario europeo e il possibile segnale dell’inizio di una rivoluzione proletaria in Occidente. Nel 1893 giunge però alla conclusione che il socialismo in quel Paese non è più possibile, dal momento che nel frattempo è diventato una realtà capitalistica, giovane ma dinamica. E l’anno successivo, nel sottolineare l’ormai avanzato processo di disgregazione della comunità agraria, denuncia la fine della sua eccezionalità e colloca la rivoluzione in Russia in posizione subalterna rispetto alla rivoluzione proletaria in Occidente. Prevede invece una rivoluzione in Germania che dovrebbe realizzarsi tra il 1898 2 il 1904. E’ questa la fase in cui tutti i teorici del socialismo, siano essi di destra, di centro o di sinistra, sono convinti che la rivoluzione nel vecchio continente è ormai prossima. Nel 1895, prima di morire, riflettendo sulle insurrezioni fallite, Engels scrive: “E’ passato il tempo dei colpi di sorpresa, delle rivoluzioni fatte da piccole minoranze coscienti alla testa di masse incoscienti. Dove si tratta di una trasformazione completa delle organizzazioni sociali, ivi devono partecipare le masse stesse; ivi le masse stesse devono aver già compreso di che si tratta, per che cosa danno il loro sangue e la loro vita”. Ripercorrendo le tappe della elaborazione di Marx e di Engels sui tempi e sui luoghi di una possibile rivoluzione, non si può non convenire con Eric Hobsbawm quando afferma che “nessuna falsificazione di Marx è più grottesca di quella che asserisce che Marx prevedeva una rivoluzione esclusivamente nei paesi industrialmente avanzati dell’Occidente”. Come abbiamo visto, infatti, negli scritti e nei discorsi dei due padri del socialismo scientifico si trova sia l’affermazione che la rivoluzione proletaria avrebbe preso inizio nei Paesi industrialmente più sviluppati, sia l’individuazione, in momenti dati, di epicentri rivoluzionari che non si collocano affatto nei Paesi capitalisticamente più progrediti. Se essi sono riusciti a individuare il carattere complessivo del processo che in Russia si stava preparando, hanno decisamente sbagliato sui tempi di evoluzione di questo processo. E pure errata si è rivelata ogni loro previsione circa la localizzazione della rivoluzione. Come è possibile spiegare questa inesattezza nelle loro previsioni? Intanto, è bene ricordare che anche Marx ed Engels sono uomini in carne e ossa, figli del loro tempo, studiosi di problemi economici e sociali e non indovini o profeti. Le previsioni che essi si sono azzardati ad avanzare sono il frutto di interpretazioni e di intuizioni finalizzate a indirizzare al meglio l’azione del movimento operaio di cui si sentono parte attiva e responsabile. Perciò va colto anzitutto lo spirito che li ha animati. Vale poi la pena di notare come la stessa variazione dei tempi e dei luoghi circa il verificarsi di un processo rivoluzionario sia in dipendenza di dinamiche sociali che non sono affatto semplici da leggere e interpretare, considerate non solo la loro complessità e imprevedibilità, ma soprattutto le difficoltà del sistema informativo dell’epoca. Più che sull’errato pronostico, al cui riguardo lascerei le polemiche ai critici del campo avverso, credo sia doveroso, per chi veramente vuole capire, concentrare l’attenzione e il giudizio sulle analisi che essi hanno compiuto e sulle conseguenze politiche che ne hanno tratto. E se lo spirito e il 82


punto di osservazione sono questi, ci si renderà presto conto che le indicazioni che essi hanno fornito erano, per la loro epoca, tutt’altro che sballate. Anzi, esse hanno ancora oggi qualcosa da insegnarci. E’ da mettere poi in conto che Marx era impaziente di vedere compiersi la rivoluzione socialista e che, a riguardo della Russia, egli considerava lo zarismo “il gendarme d’Europa” che rendeva impossibile la vittoria del proletariato europeo. Ragioni queste per le quali, svanita la speranza di un “incendio” nella roccaforte europea del capitalismo, egli non ha esitato a parteggiare per i populisti russi e condividere le loro tesi che erano palesemente in contraddizione con le sue stesse elaborazioni sul nesso socialismo- maturità del capitalismo (più si sviluppano le forze produttive e più si creano le condizioni della rivoluzione proletaria) e sul “general intellect”, anche se egli si è sempre guardato bene di stabilire un rapporto meccanico tra sviluppo economico e rivoluzione. Deve altresì essere chiaro che pur auspicando l’esplosione del processo rivoluzionario in Russia, Marx ed Engels non hanno mai sostenuto la tesi secondo cui sarebbe stato possibile realizzare immediatamente il socialismo in un paese a economia semi-asiatica. Al contrario, essi hanno sempre chiarito che essenziale per il suo sviluppo sarebbe stata un’efficiente diffusione su larga scala sia dell’agricoltura che dell’industria. Infine, va tenuto presente che loro convincimento era che la rivoluzione russa fosse auspicabile quale innesco di un processo rivoluzionario a livello europeo. E giammai essa è stata da loro intesa come trionfo del socialismo prima che il capitalismo fosse abbattuto nell’Europa occidentale. Così come non hanno mai fatto cenno una sola volta all’eventualità che il socialismo potesse essere costruito in un solo Paese, per di più in un Paese arretrato. Scrive Engels nei “Principi del comunismo”: “Potrà questa rivoluzione avvenire soltanto in un singolo paese? No.... La rivoluzione comunista non sarà una rivoluzione soltanto nazionale, sarà una rivoluzione che avverrà contemporaneamente in tutti i paesi civili, cioè per lo meno in Inghilterra, America, Francia e Germania”. E affermazioni analoghe si ritrovano non solo nel “Manifesto”, ma in altri scritti sia di Marx che dello stesso Engels il quale, poco prima della sua scomparsa, scrive a Lafargue: “L’emancipazione proletaria non può essere che un fatto internazionale, se voi cercate di farne un fatto semplicemente francese, la rendete impossibile”. Soprattutto, però, va ricordato che in “ Le condizioni sociali in Russia“ egli afferma: “La borghesia è, non meno del proletariato, una premessa necessaria della rivoluzione socialista, e dire che questa rivoluzione è più facilmente realizzabile in un paese appunto perché questo non possiede un proletariato, ma non possiede nemmeno una borghesia, significa non conoscere neppure l’abbiccì del socialismo”. Da Marx e ad Engels, dunque, la rivoluzione viene anzitutto intesa come un fatto di dimensioni internazionali e non come un semplice aggregato di trasformazioni nazionali; viene cioè concepita come fatto unitario, come un avvenimento destinato a coinvolgere l’intera Europa, e non solo questo continente. Poi viene ideata come processo sociale, non già come semplice atto di rivolta e di rottura col passato, perciò essa è vincolata a determinate condizioni socio-economiche. Di più ancora, essi individuano nella socializzazione e nell’appropriazione collettiva delle condizioni di produzione il modo di superare la separazione storicamente determinata tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra attività direttiva e attività esecutiva, e considerano questi passaggi il cardine stesso della costruzione di una nuova società. In “Principi del comunismo” Engels afferma che la proprietà privata non si può abolire di colpo con la rivoluzione. E Marx puntualizza che il socialismo non può che essere “il risultato del movimento” e che è una “questione di tempo, di istruzione, e di sviluppo di forme sociali superiori”. Egli ha posto come condizione del socialismo proprio la capacità dell’uomo – già provata nella fase del capitalismo avanzato – a sviluppare fino ai livelli più alti i mezzi e l’organizzazione della produzione economica. Pertanto, se è vero che nell’elaborazione teorica dei padri del socialismo scientifico esistono contraddizioni, ambiguità, insufficienze (e su questi aspetti ritornerò nei capitoli successivi), è altresì innegabile che dall’insieme della loro teoria è possibile trarre la conclusione che non basta 83


dare una spallata al potere costituito per realizzare il socialismo, proprio perchè la costruzione di un nuovo sistema sociale esige non solo tempo e protagonismo di massa, ma anche determinate condizioni materiali e soggettive che solo la maturità del capitalismo può assicurare. E che questa sia la strada giusta da percorrere ce lo indicano in maniera chiara ed evidente le vicende del nostro tempo. 3.5 – L’“ottobre rosso” Alla vigilia della rivoluzione d’ottobre, tra la maggioranza dei marxisti russi è diffuso il convincimento che la vittoria del socialismo in un solo paese è da ritenersi impossibile. Lo stesso Trotzkij, che sarà poi il principale artefice con Lenin dell’assalto al Palazzo d’Inverno, scrive: “E’ inutile sperare che, ad esempio, una Russia rivoluzionaria riesca a reggere di fronte a un’Europa conservatrice, o che una Germania socialista possa rimanere isolata in un mondo capitalistico”. E si schiera per “l’abbattimento pacifico” del governo provvisorio esprimendo fiducia nella legalità e nei metodi parlamentari. Lenin, invece, considera la Russia l’anello più debole della catena dell’imperialismo, il punto in cui la catena si può spezzare, ed è convinto che il proletariato russo può rovesciare lo zarismo. “Non è sufficiente essere rivoluzionari e sostenitori del socialismo. Bisogna essere capaci di afferrare l’anello giusto della catena”, ammonisce. Ai suoi occhi la Russia rappresenta la realtà più facilmente aggredibile del mondo imperialistico, anche se per l’affermare il socialismo in quel Paese ritiene essenziale che all’abbattimento dello zarismo faccia immediatamente seguito la rivoluzione nell’Occidente capitalistico. “L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico – sostiene – è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi e anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente”. Si guarda bene, però, di indicare un qualche singolo paese capitalistico come particolarmente prossimo alla rivoluzione socialista e quando, dietro sollecitazione, è costretto a pronunciarsi in tal senso egli fa riferimento a paesi relativamente piccoli e neutrali come, per esempio, la Svizzera. Confrontandosi con le posizioni di Rosa Luxemburg, egli esprime il cruccio che se il proletariato europeo avesse continuato a dimostrarsi impotente, la guerra mondiale avrebbe potuto concludersi in maniera napoleonica, cioè con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali ai più forti. E scongiurando una tale eventualità, e nutrendo scarsa fiducia che “l’incendio” rivoluzionario possa appiccarsi nei Paesi evoluti dell’Europa occidentale, ricorda che “Marx ed Engels nutrivano la fede più ottimista nella rivoluzione russa e nella sua grande importanza mondiale”. Il proletariato russo, a suo giudizio, deve compiere la propria rivoluzione, conquistare il potere ben prima che la società capitalistica abbia raggiunto una piena maturità, e un tale rovesciamento si rivela necessario non solo per garantire uno sviluppo economico e civile della Russia, ma per contrastare la logica catastrofica dell’imperialismo a livello mondiale e aprire nuove strade al proletariato di tutti i paesi. La guerra in atto, a suo avviso, sta sanzionando il passaggio dal capitalismo monopolistico al capitalismo di Stato e compito della rivoluzione socialista è quello di decapitare il suo vertice economico-politico. Ritiene quindi che al proletariato russo spetta non di farsi egemone della rivoluzione democratica borghese, ma di portare la rivoluzione a una nuova tappa, quella proletaria. Sua convinzione è che, data la debolezza della borghesia, la rivoluzione in Russia può avvenire solo sotto l’egemonia del proletariato. E riprendendo ancora Marx, sostiene che compito dei bolscevichi è di “abbreviare e attenuare le doglie del parto”. In questa chiave d’interpretazione, il rapporto economia-politica viene evidentemente posto in modo nuovo: la politica diventa il fattore decisivo e il processo rivoluzionario viene interpretato come un’adesione maggioritaria a un nuovo ordine sociale, viene cioè inteso in maniera radicalmente diversa da tutte le interpretazioni correnti. Punto decisivo diventa quello di conquistare all’idea rivoluzionaria la maggioranza della popolazione per dare l’assalto al potere 84


statale con il consenso dei più. E’ così che egli incarna il principio della conquista violenta del potere politico e della costruzione forzata dello Stato proletario. Partendo da Marx, Lenin prende in considerazione l’aspetto soggettivo della rivoluzione e trascura, o quanto meno minimizza, il ruolo dei condizionamenti strutturali e sociali. Egli dà vita alla prima organizzazione che, nella storia internazionale della lotta delle classi, sviluppa l’idea dell’egemonia del proletariato e dà concretezza ai principi rivoluzionari che Marx ed Engels hanno elaborato in linea teorica, portando la funzione del soggetto rivoluzionario a un limite massimo. Teorizza che la crisi economica non basta e che non vi è affatto passaggio spontaneo dalla lotta economica e sindacale alla lotta politica, cioè alla coscienza di classe; quando contratta il salario e le condizioni del lavoro sulla base delle leggi del mercato, il proletariato resta nell’ambito del regime borghese, non pone affatto in discussione il sistema economico capitalistico e il potere statale della borghesia. Vede pertanto nella corrente dell’economismo russo che affida alla borghesia liberale i compiti della lotta politica, una variante del revisionismo di Bernstein. Nel “Che fare?”, dopo aver sostenuto che “lo sviluppo spontaneo del movimento operaio porta a subordinarlo all’ideologia borghese”, afferma che il compito dei bolscevichi “consiste nel combattere la spontaneità”. Insiste quindi sul fatto che il proletariato non è cosciente del suo reale interesse (la sua “coscienza spontanea” è coscienza borghese) e che solo l’élite marxista ha una visione chiara del problema. A suo giudizio, la classe operaia non può produrre la sua teoria come risultato della storicità lineare del capitale, o delle sue specifiche forme di riproduzione, ma solo attraverso un processo che intreccia scissione e ricomposizione, ricongiunzione economica e politica, ripercorrendo e rovesciando tutte le mediazioni e articolazioni del sociale. Precisando che “senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario”, sostiene che “la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni… con le sue sole forze la classe operaia è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista… Augurarsi che la classe lavoratrice svolga una politica sindacale significa semplicemente offrire una politica borghese ai lavoratori”. Che la classe, il cui compito storico – secondo i padri del socialismo – è quello di compiere un’emancipazione universale, venga giudicata da uno dei suoi massimi rappresentanti e teorici, non in grado di svolgere la sua missione senza l’intervento decisivo di una classe estranea qual è quella degli intellettuali, non può che produrre nel movimento un effetto dirompente. Difatti, la teoria leniniana della rivoluzione incontra perplessità e opposizione non solo nell’Occidente capitalistico, ma negli stessi ambienti russi. Nonostante ciò, è sulla base di essa che viene costruito l’”ottobre rosso”, un evento cioè che è destinato a determinare una svolta profonda nella storia dell’umanità. Agli occhi di Lenin “marxista è solo colui che dal riconoscimento della lotta di classe deriva quello della dittatura del proletariato”. Ancora nel “Che fare?” egli sostiene che la classe operaia ritrova la propria autonomia e determinazione politica solo diventando “combattente d’avanguardia per la democrazia”. Sulla base di questi convincimenti egli elabora la teoria del partito come avanguardia. E il segreto della sua influenza non sta affatto nel riuscire a piegare le masse alla sua volontà, ma anzi nel considerarsi esso stesso parte delle masse, continuando nel contempo a dirigerle attraverso uno sforzo che, contrariamente alle banalizzazioni strumentali fatte attorno alla sua figura, è inteso a esaltare la collegialità e non il proprio ruolo individuale di dirigente. Rispetto a Marx, che pure nell’esaminare la situazione russa aveva individuato l’importanza del ruolo dei contadini, Lenin introduce il problema dell’alleanza del proletariato con il mondo agricolo, oltre che con la piccola borghesia. Mentre secondo Marx ed Engels la rivoluzione socialista deve essere innanzitutto una rivoluzione operaia che si propone di instaurare un governo operaio, il modello leniniano assume come determinante il contributo dei contadini i quali, costituendo l’80% della popolazione russa, vengono considerati anch’essi forza motrice della

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rivoluzione stessa. Un modello quello di Lenin, che dunque anche sotto l’aspetto delle alleanze si discosta dalle proposizioni che si ricavano dei testi di Marx e di Engels. Il capo dei bolscevichi, in effetti, compie un’innovazione teorica e lo fa dopo aver constatato che la grande e media borghesia russa ha ormai perduto il suo carattere progressista (“La vittoria della rivoluzione borghese è da noi impossibile come vittoria della borghesia”, asserisce) e dopo essersi convinto che è necessario procedere senza di essa o anche contro di essa. Il programma che egli mette a punto, però, salvo la distribuzione del potere ai soviet e le nazionalizzazioni, non contempla alcun tipo di misure che vadano al di là degli orizzonti di una rivoluzione borghese. Del resto, data la situazione, egli non può fare altrimenti. Compito del proletariato russo resta anzitutto quello di appoggiare la lotta dei contadini e portare avanti la rivoluzione borghese fino alla confisca totale delle grandi proprietà terriere, assumendo al tempo stesso il controllo sulla produzione e sulla distribuzione industriale. Afferma poi il principio che l’egemonia deve appartenere alla città e più precisamente al proletariato. Pur avendo come soggetto il proletariato e i contadini, la rivoluzione russa conserverà un carattere sostanzialmente borghese, poiché essa rappresenta uno stadio dello sviluppo storico che non può essere saltato. Non può perciò essere confusa con la rivoluzione socialista proletaria, e lo stesso Lenin ne ha piena consapevolezza, tanto da rinviare a un tempo successivo la sua realizzazione. Nella situazione della Russia del ’17, Lenin individua l’esistenza di alcune condizioni che rendono possibile il capovolgimento di potere; esse sono: il collegamento tra i sommovimenti interni e la guerra; le contraddizioni interimperialistiche; la possibilità di sostenere una lunga guerra civile in un paese sconfinato e dotato di pessimi mezzi di comunicazione; l’esistenza di un movimento rivoluzionario, seppure di carattere democratico-borghese, tra i contadini. A queste condizioni è da aggiungere la presenza di un “pensiero d’avanguardia”, nutrito per decenni dall’emigrazione imposta dallo zarismo, il quale costituisce appunto il fattore soggettivo. Il 25 ottobre (7 novembre per il nostro calendario), prima che si riunisca il congresso panrusso dei soviet, i bolscevichi danno l’assalto al potere: mentre i proletari di Pietrogrado conquistano il Palazzo d’Inverno, quelli di Mosca penetrano nel Cremlino. La decisione di passare ai fatti anzitempo viene presa da Lenin stesso nel timore che possibili incertezze dell’assise congressuale possano compromettere la realizzazione del suo disegno. I delegati bolscevichi, infatti, rappresentano solo la maggioranza relativa: su 518 delegati, essi sono 250, i socialisti rivoluzionari 159, i menscevichi 60, i rappresentanti di altri partiti piccolo-borghesi 27, i senza partito 22. Di fatto, al congresso giungono principalmente delegati bolscevichi, mentre gli stessi delegati socialisti rivoluzionari presenti, sotto l’influsso degli avvenimenti, si schierano dalla parte dei bolscevichi. Dai congressisti viene proclamata la repubblica e istituito il Consiglio dei commissari del popolo che è composto da bolscevichi e socialisti rivoluzionari. Quale organo supremo e assoluto del potere statale di tutta la Russia viene designato lo stesso Congresso dei soviet. Di fronte ai delegati Lenin sostiene che “per iniziativa di milioni di uomini” viene creata “la democrazia, a modo loro”. Sta di fatto che all’interno dello stesso gruppo dirigente che ha ideato e diretto la rivoluzione, le divergenze sui tempi e sul carattere offensivo dell’azione compiuta non sono affatto superate, anzi, i conflitti si rinnovano determinando rotture che segneranno per decenni la storia del partito bolscevico e insieme quella della stessa Unione Sovietica. Sono trascorsi quasi settanta anni dalla proclamazione del “Manifesto del partito comunista” e finalmente per merito dei bolscevichi la teoria della rivoluzione socialista è divenuta realtà concreta. Se con il “Manifesto” il socialismo ha compiuto il salto dall’utopia alla scienza, con la rivoluzione d’ottobre esso s’incarna nell’umanità e la classe operaia entra nella storia come protagonista, con una autonoma funzione politica, ideale e culturale. Questo epocale evento, però, non solo si realizza in una società caratterizzata da un sistema economico semi-asiatico, e non nel cuore dell’Occidente capitalistico, come previsto dalla generalità dei marxisti, ma avviene senza che rappresenti il “segnale” della rivoluzione mondiale, senza che divenga l’inizio dell’“incendio” che avrebbe dovuto investire le casematte della borghesia. Le previsioni e le aspettative formulate dalla stragrande maggioranza dei teorici del 86


socialismo, dunque, non si realizzano. Fatto è che da quel momento la Russia fa irruzione nella storia come il Paese che si propone l’obiettivo di costruire un modello sociale diverso da quello capitalista e ad esso contrapposto, in pieno isolamento internazionale e con le sole proprie forze. Sicuramente Marx ed Engels avrebbero gioito nell’assistere a un tale avvenimento, ma è assai probabile che anche a loro – come capita a chi ha avuto la sventura di assistere al suo tragico epilogo – alcune perplessità sarebbero di certo sorte. Vittorio Strada, lo storico che si è distinto per essere un voltagabbana, alla fine degli anni ’90, ha sostenuto che nel ’17 in Russia, tecnicamente, non si sarebbe trattato affatto di una rivoluzione di popolo, ma di una rivoluzione totalitaria. “Il problema di fondo ora riemerso - sostiene il girella - è se si sia trattato di una vera rivoluzione popolare o non piuttosto di un golpe attuato da parte di un piccolo gruppo militarmente organizzato e guidato da un capo carismatico (anzi da due, affiancandosi a Lenin anche Trotskij). Le due versioni non si escludono... a prevalere fu poi la prima sulla seconda”. Chi ha la pazienza di leggersi le testimonianze e i documenti dell’epoca non può avere i dubbi dello Strada. La rivoluzione d’ottobre è il prodotto di un’insurrezione di popolo e ha avuto come avanguardia il partito bolscevico sia per l’incapacità delle formazioni socialiste e progressiste russe di realizzare le riforme democratico-borghesi, e dare così sbocco a una situazione sociale che si era fatta esplosiva; sia perché, dopo gli strascichi dell’insurrezione di febbraio, il generale Kornilov, tentando l’instaurazione di una dittatura di destra, ha messo in condizione gli stessi bolscevichi di scendere in campo con le armi per impedire un ritorno allo zarismo. Si tratta di due aspetti che non sempre vengono ricordati e presi nella dovuta considerazione. A partire da febbraio, in Russia si erano venuti formando due enormi movimenti di massa rivoluzionari: l’uno raccoglieva la contestazione di tutto il popolo contro la guerra imperialistica; l’altro rappresentava l’esigenza secolare dei contadini di smembrare i latifondi e di lavorare la terra non più in posizione subalterna. L’“ottobre rosso” ha costituito lo sbocco politico di queste due sollevazioni di popolo. Se Lenin ha avuto un torto, questo è consistito nell’aver creduto che la risposta più giusta alle istanze di questi movimenti fosse la prospettiva socialista, visto che non tutti gli insorti non si erano posti un simile obiettivo. Tra le possibili vie d’uscita da una situazione di caos generale e prolungato, la rivoluzione proletaria al capo dei bolscevichi è apparsa tale da soddisfare meglio di altre le rivendicazioni delle masse popolari. Da intellettuale che è, Strada dovrebbe sapere (e riconoscere con modestia e onestà), primo, che senza l’eredità della rivoluzione francese (rivoluzione borghese – ricordiamolo per inciso – la quale ha cambiato il corso della storia al prezzo di tanti morti e di tanta violenza) quella bolscevica non avrebbe potuto avvenire. Essa è dunque figlia della stessa borghesia; secondo, che senza la crisi della società borghese (crisi che ha portato allo scoppio della prima guerra mondiale, non certo per volontà dei comunisti), i bolscevichi non avrebbero potuto dare uno sbocco rivoluzionario all’insurrezione popolare che si è creata in Russia proprio a causa dei disagi e dei patimenti provocati dal conflitto mondiale. Nel gennaio del ’18 Lenin stesso ammette che “il potere sovietico non è stato creato da questo o da quel decreto, né per decisione di questo o quel partito, perché esso è al di sopra dei partiti, perché esso si è costituito in base all’esperienza della rivoluzione, all’esperienza di milioni di uomini”. Attribuire dunque ai bolscevichi il mestiere di fagocitatori e strumetalizzatori di masse in rivolta, significa non solo falsificare la storia, ma nutrire a priori un profondo risentimento nei confronti di quel movimento al quale, peraltro, storici come Strada hanno appartenuto. Si può criticare Lenin per molte ragioni, non gli si può certo disconoscere un’enorme capacità di guidare e dominare i processi spontanei. Per governare l’insurrezione di una grande massa di contadini arretrati che rischiava di degenerare in caos e anarchica, e trasformarla in poco tempo in un nuovo assetto di potere, è senza alcun dubbio occorsa una forte e lucida capacità di direzione. Ed egli ha appunto dimostrato di possederla. Ha compreso lo stato dei rapporti di forza sociali e politici

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ed è riuscito a compiere un’opera di autentica genialità politica. Questo almeno gli deve essere riconosciuto, al di là delle appartenenze politiche di chi lo vuol giudicare. Se si compie poi un’analisi più attenta, si deve prendere atto che Lenin stesso si è reso conto assai presto di aver compiuto una forzatura, cioè di aver fatto una rivoluzione per delega, in nome di una classe operaia che era forza minoritaria e non ancora matura per la gestione del potere. E si è dimostrato consapevole a tal punto di questo, da considerare la stessa rivoluzione d’ottobre come un prodotto dei zig-zag della storia. Marx ha sostenuto che “l’umanità si propone sempre soltanto quei problemi che è in grado di risolvere”. Probabilmente Lenin, quando ha constatato che il progetto socialista non era applicabile a breve nelle condizioni di arretratezza in cui si trovava la Russia, si è reso conto di aver in qualche misura revisionato il modello marxiano. Per questo il suo pensiero e la sua azione assumono un carattere di ereticità nei confronti dei canoni teorici che dominavano il movimento socialista all’inizio del secolo. In Russia la rivoluzione è stata possibile per l’intrecciarsi di una serie di contraddizioni del suo sviluppo economico-sociale e anche per lo stato di esasperazione della popolazione determinato dalla guerra. Di fatto, essa ha rappresentato non già un’alternativa globale e socialista al capitalismo, ma una risposta a una situazione originale e particolarmente complessa. Al tempo stesso è stata la riprova della sconfitta della socialdemocrazia, già evidenziata del resto dalla capitolazione dei socialdemocratici tedeschi e dei socialisti francesi di fronte alla guerra imperialista. La rivoluzione d’ottobre rappresenta indiscutibilmente l’evento che inaugura una nuova dinamica mondiale del movimento operaio, non solo mettendo fine al suo carattere eurocentrico, ma facendo diventare per la prima volta nella storia dell’umanità la rappresentanza politica dei lavoratori soggetto del potere. Ed è proprio per questo motivo che di fronte ad essa hanno tremato i consigli di amministrazione delle multinazionali, le cancellerie delle grandi potenze, i gabinetti degli Stati. A differenza di Lenin e dei bolscevichi, alla luce degli sviluppi della storia, noi siamo oggi in grado di dare una soluzione ai dilemmi che Marx ed Engels si sono posti e al tempo stesso siamo nelle condizioni di spiegarci le ragioni del revisionismo leniniano. La Russia poteva rappresentare l’avvio del processo rivoluzionario internazionale e la costruzione del socialismo, solo alla condizione che a quella bolscevica fossero seguite le rivoluzioni nel cuore d’Europa, cioè in quei paesi in cui le condizioni oggettive (lo sviluppo del capitalismo) avrebbero consentito di far marciare i mutamenti sulle direttrici che gli stessi padri del socialismo scientifico hanno tracciato. Ma così, purtroppo, non è stato e la realizzazione del socialismo in un solo paese, per di più ad economia semi-asiatica, non ha potuto e non poteva oggettivamente assolvere a un tale compito. Da questo punto di vista, l’“ottobre rosso” ha rappresentato un aborto, proprio come gli stessi Marx ed Engels avevano prefigurato. Proporsi, come in molti hanno fatto e continuano a fare, il compito di individuare e attribuire le responsabilità di questo avverso corso della storia ai protagonisti di quel tempo (Marx ed Engels per le previsioni sbagliate, Lenin per il suo revisionismo) è a mio modesto avviso un pessimo modo di leggere la storia, di trarne lezione da essa e di affrontare i problemi. Che i teorici del socialismo scientifico, dopo essere stati delusi dai fallimenti del movimento socialista europeo, abbiamo riposto le loro speranze nelle realtà sociali in cui lo sviluppo del capitalismo era agli albori, non dovrebbe affatto sorprendere. Così come non dovrebbe meravigliare più di tanto il fatto che Lenin, trovandosi in una situazione in cui la rinuncia a prendere la testa del movimento popolare avrebbe significato un ritorno al passato, ha deciso di forzare il carattere borghese della rivoluzione. Se noi fossimo stati nei loro panni, ci fossimo cioè trovati nelle medesime difficili condizioni storiche e ambientali, probabilmente avremmo compiuto le stesse scelte. Almeno se anche in noi ci fosse stata la tenace volontà di cambiamento che era propria sia degli autori del “Manifesto” che del capo dei bolscevichi. Se proprio si vuole individuare un soggetto il cui comportamento andrebbe sottoposto a severa analisi critica, questi è rappresentato dalle formazioni politiche della sinistra dell’Occidente 88


capitalistico, in particolare di quelle che invece di raccogliere la sfida che il capitalismo aveva lanciato con il suo sviluppo, hanno preferito battere la strada dell’accomodamento, rinviando sine die la costruzione di un processo rivoluzionario e abbandonando i bolscevichi a se stessi. E questo è un monito per la sinistra odierna che rischia di incorrere nello stesso errore. Sono peraltro convinto che, al tempo della rivoluzione d’ottobre, le condizioni per la costruzione di una società socialista non fossero mature né nel cuore stesso del sistema capitalistico né alla periferia. E che dall’esperienza bolscevica non si potesse pretendere più di quanto essa ha dato al movimento operaio. Il dilemma che noi oggi siamo chiamati a sciogliere, più che riguardare chi dei protagonisti di quel tempo ha avuto maggiori responsabilità nell’interpretare male il corso della storia, è attinente al nostro ruolo di eredi di quell’esperienza e di protagonisti del cambiamento. E’ cioè il caso di chiederci se non sia forse maturo ora il tempo di fare quello che ai nostri predecessori non è stato possibile fare ieri, e se vogliamo per davvero trarre lezione dai lori errori e dalle loro insufficienze, oppure se ci accontentiamo di pontificare.

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Capitolo 4°

La costruzione del socialismo in un’economia semi-asiatica 4.1 – Le condizioni della Russia al tempo della rivoluzione d’ottobre Nei giorni della rivoluzione d’ottobre la borghesia russa reagisce all’insurrezione chiedendo l’intervento armato dei cosacchi di Krasnov e degli junker di Rudnev. Qualche settimana dopo le forze “bianche” controrivoluzionarie si concentrano nella Russia sud-orientale e danno avvio alle bande che percorreranno in largo e in lungo il territorio meridionale russo per almeno tre anni. Queste formazioni militari condotte da Kolcak, Denikin e Judenic hanno il sostegno finanziario degli Stati che si propongono di strozzare il bolscevismo alla sua nascita, vantano la partecipazione di ufficiali dell’Intesa e vengono rifornite di cannoni e di carri armati forniti dagli alleati. Raggiungono il culmine delle loro attività e del loro successo nell’autunno del ‘19 penetrando in profondità nel territorio sovietico e formando un vero e proprio cordone sanitario. Nel ‘21, alla fine della guerra civile, si conteranno 13 milioni di morti. A ostacolare l’avvio della costruzione di un nuovo sistema sociale in Russia non è però solamente la massiccia presenza delle formazioni armate controrivoluzionarie. I bolscevichi sono chiamati a misurarsi con altre forme di resistenza. I proprietari fondiari, i kulaki e i commercianti avversi all’instaurazione del potere proletario, nascondono ingenti quantitativi di generi alimentari e danno corpo al mercato nero quale unico mezzo per soddisfare le necessità di sopravvivenza della popolazione. L’ostruzionismo di una parte consistente del mondo contadino impedisce la costituzione e lo sviluppo delle fattorie sovietiche e di quelle collettive. Le stesse banche, nel momento dell’ascesa al potere dei bolscevichi, danno vita al boicottaggio finanziario e paralizzano ogni attività di scambio monetario aprendo gli sportelli solo poche ore al giorno o non aprendoli affatto. I prelievi di denaro vengono così limitati e non vengono concessi crediti né all’amministrazione pubblica, che deve far fronte alle urgenti necessità della collettività, né alle fabbriche poste sotto il controllo operaio che devono pagare i salari. Di contro, finanziano l’opposizione e sostengono le azioni di sabotaggio, e per sfuggire ai controlli presentano conti truccati. Gli stessi impiegati bancari scendono in sciopero determinando un prolungamento dello stato di difficoltà per il nuovo governo. Solo verso la metà di gennaio del ’18 il sistema del credito comincia a operare secondo le nuove direttive e solo dopo che la maggior parte degli istituti bancari sono stati posti in liquidazione. Contro la rivoluzione si schierano anche gli alti funzionari dello Stato i quali sabotano le attività pubbliche e organizzano scioperi per eludere le misure del governo dirette all’attuazione delle trasformazioni socialiste. E pure la maggioranza degli intellettuali, almeno nel periodo immediatamente successivo all’insurrezione, trovano conveniente seguire la via della democrazia piccolo-borghese piuttosto che aderire al potere dei soviet. La presenza diffusa di questi soggetti avversi al bolscevismo favorisce l’azione di sabotaggio da parte degli organi di approvvigionamento e conseguentemente milioni di persone vengono minacciate dalla fame e dalla penuria dei beni di prima necessità. Ma non basta. Al tempo della rivoluzione d’ottobre il più grande e organico dei sindacati risulta essere quello dei ferrovieri. Il suo Comitato esecutivo è composto nella stragrande maggioranza da socialisti di destra e di sinistra, da menscevichi e da indipendenti, nonostante che la più parte dei ferrovieri simpatizzino per i bolscevichi. Questo sindacato funziona come una specie di gigantesco comitato di fabbrica che esercita il “controllo operaio”. Quando i bolscevichi prendono il potere, il suo atteggiamento verso di loro è negativo e minaccia lo sciopero delle ferrovie qualora non si fosse costituito un governo di coalizione. L’ultimatum costringe i bolscevichi a entrare in trattativa con tutti i partiti socialisti e per ripristinare il controllo su tutte le ferrovie della Russia, Lenin deve scendere a compromessi e procedere alla costituzione di un nuovo esecutivo. Nella prima fase della rivoluzione, tutte le organizzazioni antisovietiche sono nelle condizioni di operare legalmente. La stampa borghese e socialista-rivoluzionaria-menscevica esce normalmente 90


non esistendo alcuna misura di censura. Per un certo periodo il “Comitato di salvezza”, la Duma di Pietrogrado e varie altre organizzazioni antisovietiche possono agire in maniera aperta e in modo indisturbato. E già nella fase successiva all’“ottobre”, proprio grazie al regime di libertà sancito dalla rivoluzione, si vanno formando le organizzazioni controrivoluzionarie e si organizzano senza alcuna difficoltà numerosi centri cospirativi clandestini che praticano il sabotaggio. A queste istanze fanno riferimento anche i menscevichi sostenitori della difesa della patria e i menscevichi internazionalisti, i socialisti-rivoluzionari di destra e quelli di sinistra, i socialisti popolari e i rappresentanti del soviet panrusso dei deputati contadini. Nei mesi successivi all’insurrezione si scopre un complotto contro il governo che coinvolge i kalediniani e che è ordito dagli imperialisti americani e non solo da questi. La controrivoluzione dà vita a Pietrogrado, a Mosca e in altri centri del Paese a numerose organizzazioni cospirative tra le quali “Tutto per la patria”, “Organizzazione della lotta contro i bolscevichi e per l’invio di truppe a Kaledin”, “La croce bianca”, “Il punto nero”, “Unione per l’aiuto reale”. Dietro la copertura di organizzazioni di beneficenza si creano i comandi clandestini delle bande delle “guardie bianche”. I nemici del socialismo ricorrono anche alla lotta antisemita, a una vera e propria campagna di pogrom che, tra il 1918 e il 1920, causa non meno di 60 mila vittime nella sola Ucraina, tutti ebrei barbaramente trucidati. Di fronte a una situazione tanto grave e pericolosa, Lenin, a tre mesi dalla presa del potere, insiste perché si proceda all’arresto e alla fucilazione dei sabotatori, degli accaparratori e dei funzionari corrotti. E’ da tenere conto, altresì, che nel periodo tra il ‘18 e il ‘20 la Russia sovietica è accerchiata in ogni angolo dei suoi confini e che il territorio su cui può governare con una certa tranquillità è ridotto alla sola area centro-settentrionale del Paese. Per far fronte all’assedio delle forze inglesi, francesi, giapponesi, americane e di altre nazionalità, i bolscevichi devono distribuire le loro forze armate su ben sette fronti. Nell’intento di rompere l’accerchiamento, e convinto che gli operai polacchi si sarebbero sollevati contro il loro regime militare accogliendo le truppe sovietiche come liberatrici, Lenin dirige l’Armata Rossa contro la Polonia, ma essa viene sconfitta a Varsavia e il tentativo di portare la rivoluzione in quel Paese si traduce in un fallimento. Fatto è che l’intervento militare degli Stati antibolscevichi impone alla neonata repubblica dei soviet tre anni di dure lotte per l’esistenza. L’Urss nasce come fortezza assediata, e non solo dagli eserciti. Turchia, Persia, Afghanistan ed Estremo Oriente vengono inondati da agenti dell’imperialismo i quali hanno a disposizione riserve di oro e altri beni da distribuire allo scopo di erigere attorno alla patria dei soviet un accerchiamento economico e politico, oltre che militare. Mentre viene decretato l’embargo, i Paesi occidentali pongono fine a ogni scambio di merci con la Russia che si trova così nella condizione di vivere e sviluppare la sua economia nel totale isolamento internazionale. Quando Lenin prende il potere l’esercito russo è in condizioni di disfacimento a causa del conflitto con la Germania e successivamente verrà dissolto dalla guerra civile. Di fronte all’assedio delle forze imperialiste, il Paese dei soviet vanta scarse e inadeguate difese. Può contare soltanto su una massa di milioni di soldati sbandati, disarmati, scoraggiati e affamati. Dal punto di vista della disciplina militare regna il caos, poiché gli ufficiali nutrono un atteggiamento ostile verso il nuovo regime. Del resto, il vecchio apparato di comando zarista è stato distrutto, assieme al potere statale, dagli stessi rivoluzionari. A questo proposito è da ricordare che non solo la 1a, ma anche la 2a Internazionale avevano fatto propria la linea dell’abolizione degli eserciti permanenti e della loro sostituzione con quella che veniva variamente definita la “milizia popolare”. Nell’ambiente dei funzionari del partito domina pertanto quasi unanime l’opinione secondo cui l’esercito permanente deve essere definitivamente abolito. A metà di gennaio del ‘18 il Consiglio dei commissari del popolo approva il decreto che istituisce l’Armata rossa e designa quale suo organizzatore e dirigente Lev Trotzkij. La nuova milizia viene 91


costruita attorno a un gruppo di ex ufficiali zaristi di diverso grado e all’inizio del ’19 può contare su 30.000 unità. All’atto della sua costituzione viene anche creato un reparto internazionale dell’esercito “rosso”. E sarà proprio l’Armata rossa a sconfiggere le truppe “bianche” e a resistere all’assedio delle truppe imperialiste. Un'altra scelta fondamentale che Lenin compie è quella relativa all’accordo di pace con la Germania. Convinto che la rivoluzione internazionale è ormai prossima, egli procede con una certa sollecitudine alla sottoscrizione del trattato di Brest-Litovsk la cui efficacia, egli suppone, dovrebbe avere carattere transitorio. Il trattato, però, comporta di fatto grandi sacrifici economici per la Russia, e suscita inevitabilmente disappunti e contrarietà nello stesso gruppo dirigente del partito. Alla sua firma si oppone Bucharin e con lui altri dirigenti i quali considerano il patto un tradimento dei principi rivoluzionari e ritengono che sia invece più opportuno dare continuità alla guerra per innestare la rivoluzione in Occidente. Lenin si dimostra fermo nei suoi propositi e intendendo conseguire la pace, in presenza di un Paese in stato di rovina e di impotenza, considera prioritario scongiurare la minaccia di una possibile invasione tedesca. E le sue preoccupazioni non mancano certo di fondamento. A rendere disastrosa la situazione della Russia non sono però solo le conseguenze della guerra, ma concorrono pesantemente la sua arretratezza economica, i retaggi feudali e dell’autocrazia che ancora condizionano la vita comunitaria e anche la scarsa quantità e qualità del proletariato quale soggetto del cambiamento. Non si deve dimenticare che solo nel 1861, cioè neanche quaranta anni prima, i contadini russi hanno cessato di essere servi della gleba; che fino ad allora non si era verificato nessuno sviluppo delle attività industriali; che la quasi totalità della popolazione era ancora relegata a una condizione di schiavitù, di analfabetismo e che l’orgoglio del proprio lavoro e il rispetto per se stessi erano sentimenti sconosciuti. Fino a qualche tempo prima il modo di produzione era rimasto ancora quello di tipo “asiatico”, secondo la definizione che Marx gli aveva attribuito nelle sue analisi. E se pure era caratterizzato dalla presenza della “comune di villaggio”, il surplus prodotto dai contadini finiva nelle casse del dispotico sistema monarchico il quale in cambio assicurava le infrastrutture necessarie alla comunità e provvedeva alla sua assistenza. Il ciclo di produzione era fondato sul principio dell’autosufficienza e l’agricoltura era integrata con forme primordiali di industria. L’obscina era la comunità formata da famiglie aventi una stessa origine, mentre il mir era l’associazione delle comunità agrarie e aveva un’autonomia economica e politica. A capo di questa comunità vi era l’anziano del villaggio (starosta) che decideva la distribuzione delle terre. Il cosiddetto “comunismo primitivo di villaggio” altro non era che un’istituzione di tipo tribale la quale ha subito modifiche nel corso dei secoli, ma non è mai stata eliminata sopravvivendo al feudalesimo. Esempi di tale forma di produzione sono esistiti nel Perù degli Incas, nell’Egitto antico, nell’Assiria e in Messico. I membri delle comuni producevano tutto ciò che era essenziale per la vita loro e dei loro padroni e avevano pochi, se ne avevano, rapporti di scambio e pertanto il mercato e il denaro occupavano un posto del tutto trascurabile nella loro esistenza. Il singolo individuo non era un essere autonomo nei confronti della comunità, ma era pienamente subordinato alle sue regole e ai suoi principi. All’indomani della riforma contadina del 1861, dal momento che l’autocrazia punta a una industrializzazione relativamente rapida, lo sviluppo del capitalismo industriale viene favorito con tutti i mezzi. Risultando però esso limitato a soli pochi centri territoriali, la Russia dei primi del Novecento si presenta come il meno sviluppato dei principali paesi europei, anche se è la regione più industrializzata e modernizzata del mondo extraeuropeo. Con le sue riforme democratiche-borghesi il nascente capitalismo non riesce però a sostituire del tutto le strutture, i rapporti e le tradizioni dell’assolutismo feudale. Tanto è che ancora al tempo della rivoluzione bolscevica sopravvivono alcuni istituti tipici della servitù della gleba come la pratica dei pagamenti a titolo di riscatto, la responsabilità collettiva dei pagamenti, le tasse gravanti esclusivamente sui contadini, le leggi restrittive della libertà di movimento e della libera vendita della terra e altre pratiche del genere. Nonostante l’obscina sia stata abolita molto tempo prima con 92


l’entrata in funzione degli zemstvo e il mir sia stato riformato, nella terra degli zar l’ipoteca feudale continua ad agire anche dopo l’avvento del capitalismo producendo una serie di contraddizioni economiche e sociali esplosive. La pressione del capitalismo europeo impone di fatto alla Russia, sotto la guida di uno Stato autocratico, una industrializzazione che non produce uno sviluppo adeguato delle forze produttive. La manifattura rimane un’attività annessa alla campagna e l’industria moderna risulta fortemente concentrata territorialmente entrando così in contraddizione con la ristrettezza del mercato interno. Si pensi che la più grande fabbrica del mondo, al tempo della rivoluzione, è insediata proprio a Pietrogrado e conta ben 40 mila operai. In sostanza, l’avvento del capitalismo in Russia produce un proletariato che è molto concentrato e isolato, mentre la borghesia non può che essere debole non solo numericamente, ma anche socialmente e politicamente, e pertanto incapace di condurre a termine la sua rivoluzione, quella borghese appunto. Al momento dell’insurrezione del ’17, i contadini costituiscono il 90% della popolazione. La loro mentalità è ancora quella del vecchio mir. Il restante 10% è composto dalla nobiltà, dai funzionari statali e dal proletariato in formazione. Mentre i contadini sono incapaci di iniziativa politica autonoma in dimensione nazionale e sono affetti di “cretinismo localistico”, la piccola borghesia, rappresentata dal Partito cadetto, è prigioniera delle vecchie tradizioni. Poco prima della sua morte Lenin scriverà a proposito delle difficoltà che ha incontrato nel portare avanti il suo progetto: “Molti anni sono passati, la Russia ha attraversato tre rivoluzioni, eppure gli Oblomov sono sempre lì… Oblomov non è solo un proprietario terriero o un contadino, è anche un intellettuale; e non è solo un intellettuale, è anche un operaio e un comunista... Il vecchio Oblomov è rimasto tra noi, e noi dobbiamo lavarlo, ripulirlo, scuoterlo e trascinarlo per ottenere qualche cosa di significativo da lui”. Oblomov è un personaggio creato dallo scrittore russo Gonciarov, che come Lenin è vissuto a Simbirsk. Questo personaggio rappresenta uno straordinario concentrato delle doti negative dell’animo russo, anzi della piccola borghesia intellettuale dell’Ottocento, e cioè: l’incertezza, l’indolenza, l’incapacità di capire le cose e la scarsa volontà nel cambiare. E Lenin insiste frequentemente sull’”arretratezza” e sulla “mancanza di cultura” del popolo russo. E pensare che lui stesso considera utopistico ritenere che la nuova società possa essere creata da “uomini particolarmente virtuosi allevati in serra”. E’ ben consapevole che il socialismo in Russia deve essere costruito con “masse di materiale umano distorto da secoli e millenni di schiavitù, di servitù, di capitalismo, di piccole economie individuali, e di guerra di tutti contro tutti per un posto sul mercato, per più alti prezzi dei prodotti o del lavoro”. Eppure egli non può fare a meno di esternare il forte disagio che incontra nel portare a termine l’impresa che si è proposto. Ma a lamentarsi non è lui solo. Negli anni successivi alla rivoluzione Trotzkij denuncerà la presenza nella realtà russa, oltre che di un diffuso analfabetismo, di “una mentalità arretrata, la carenza di abitudini organizzative, l’incapacità di lavorare sistematicamente, l’assenza di una formazione culturale e tecnica. Avvertiamo a ogni passo le conseguenze di queste condizioni di inferiorità nella nostra economia e nella nostra edificazione culturale”. E pure Stalin non tralascerà di rimarcare le difficoltà incontrate sottolineando, nel ’20, che “uno degli ostacoli più gravi che s’oppongono alla realizzazione dell’autonomia sovietica è la grande scarsezza di forze intellettuali d’origine locale nelle regioni periferiche e anche la scarsezza di istruttori in ogni campo”. Di fatto, le nazioni dell’ex impero zarista sono composte da popoli primitivi, privi di istruzione e di qualsiasi esperienza politica. Si tenga presente che, sia a causa della guerra civile e dell’assedio internazionale, sia poi per l’avversione al bolscevismo, la maggioranza degli intellettuali e dei quadri dirigenti prende la via dell’emigrazione. E’ stato calcolato che ben due milioni di persone qualificate siano fuggite nel periodo successivo all’”ottobre” privando così il nuovo sistema di personale specializzato. Come 93


denuncia un delegato al 1° congresso panrusso dei Consigli dell’Economia, in assenza di quadri dirigenti, a dirigere un grande stabilimento metallurgico viene designato un sarto, mentre a dirigere la produzione tessile viene chiamato un pittore (imbianchino). E in molti dei casi in cui i datori di lavoro e i dirigenti sono rimasti al loro posto, questi oppongono resistenza, compiono atti di sabotaggio o abbandonano gli stabilimenti. La penuria d’ogni genere di necessità è cronica e si hanno casi di fabbriche costrette a sospendere il lavoro per mancanza di materie prime. La contrazione della produzione nell’industria è più rapida che nell’agricoltura ed è anche dovuta al fatto che la capacità produttiva del singolo operaio diminuisce a causa della insufficiente alimentazione e della conseguente diminuzione del numero degli addetti. Per supplire alle necessità dell’Armata Rossa e della popolazione delle città, occorre a mala pena l’intero quantitativo della produzione agricola, mentre l’industria non è neppure in grado di produrre l’equivalente di manufatti indispensabile a ristabilire il normale processo di scambio. Nel ’19, per esempio, l’industria riceve solo il 10% delle normali forniture di combustibile. Più dei quattro quinti delle aziende risultano inattivi. Nel ‘20 la produzione industriale risulta inferiore di 45-50 volte a quella degli Stati Uniti. Nel settembre del 1920 la rivista ufficiale “Ekonomiceskaja Zizn’” così descrive la situazione: “Dovremo esportare ciò di cui noi stessi abbisogniamo, al fine di poter acquistare in cambio ciò di cui necessitiamo ancora di più. Per ogni locomotiva, per ogni aratro, dovremo letteralmente sacrificare lembi strappati dal corpo della nostra economia”. E poiché il sistema legale non è in grado di soddisfare i bisogni elementari della popolazione, prendono corpo e si diffondono pratiche speculative e fraudolente. Ma alle difficoltà economiche si accompagnano difficoltà d’altro genere. L’impraticabilità dei progetti leniniani è dovuta anche a problemi politici di natura sia pratica che teorica. Anzitutto, prima ancora che con la resistenza organizzata, i bolscevichi hanno dovuto fare i conti con il crollo di ogni autorità; e il guadagnarsi la fiducia e l’adesione attiva di un popolo ridotto alla disperazione non è certo cosa facile. Poi si sono scontrati con i loro stessi limiti. Render concreto un processo di trasformazione sociale significa necessariamente procedere per tentativi, dare corso a sperimentazioni le quali comportano anche soluzioni unilaterali e non sempre giuste e opportune, ma che esigono, oltre al coraggio delle scelte e alla determinazione nel realizzarle, preparazione, conoscenza, esperienza. Ebbene, i bolscevichi non dispongono di tutto questo, non vantano alcuna esperienza concreta nella gestione del potere, non hanno le cognizioni e le abitudini in fatto di organizzazione e direzione della società, non posseggono la cultura del comando e dell’intervento nel sociale. Lo stesso vertice del partito, Lenin, Trotzkij, Bucharin, Kamenev, Zinoviev, Rykov, Stalin, non possiedono le necessarie qualità per dare corpo a un nuovo sistema sociale e le conoscenze che vantano sono prevalentemente di carattere teorico. A costituire poi la classe rivoluzionaria dotata di una qualche consapevolezza sono i soli operai metallurgici di Pietrogrado, mentre la massa degli insorti è pressoché sprovvista di una visione progettuale dei mutamenti sociali. Per di più, a far riferimento ai bolscevichi sono soprattutto i contadini poveri, e cioè analfabeti e con scarsa predisposizione a gestire situazioni complesse. I contadini agiati, quelli con capacità e culture superiori, sono fedeli ai socialisti rivoluzionari di destra e di sinistra e quindi sono schierati contro la rivoluzione. Mentre gli stessi aderenti al partito non solo non vantano un livello di dottrina adeguato all’impresa che stanno per compiere, ma esprimono addirittura posizioni politiche antitetiche, al punto di far dire allo stesso Lenin: “Gratta molti comunisti e troverai sotto degli sciovinisti gran-russi”. Per non dire della limitata presenza organizzativa del partito stesso: al momento della rivoluzione sul territorio russo sono presenti da 20 mila a 25 mila cooperative di consumo con 7 o 8 milioni di soci, mentre il movimento sindacale è ancora in fase di sviluppo. Sono queste alcune delle ragioni per cui molte delle iniziative prese dai bolscevichi, prima ancora di scontrarsi con le attività di sabotaggio dei controrivoluzionari, hanno dovuto fare i conti, specie in periferia, con l’inerzia delle vecchie tradizioni e abitudini. 94


Le difficoltà incontrate dai bolscevichi sono dunque moltissime. Lenin ha dovuto costruire un partito capace di tracciare una prospettiva socialista in un Paese in cui non soltanto mancava una sufficiente tradizione culturale e una sperimentata articolazione politica, ma dove i meccanismi economici capitalistici erano ancora in formazione ed erano fortemente condizionati dai residui rapporti feudali. La situazione in cui egli ha agito non era di certo matura per realizzare una società socialista. Non esistevano né le condizioni economiche né le condizioni politiche perché l’esperimento potesse funzionare. Lenin non ha voluto attendere che tutte le condizioni fossero mature, e data la situazione in cui si è ritrovato, non poteva farlo, supposto che l’avesse voluto. L’esperienza storica ci induce quindi a ritenere che il problema della rivoluzione in Russia aveva certo ragione di essere posto, ma non poteva assolutamente essere risolto. Ha detto bene Schumpeter quando ha sottolineato che il socialismo è stato costruito in uno “stato di immaturità”. E questa verità non può e non deve essere mai dimenticata. 4.2 – Il “comunismo di guerra” Ho già evidenziato il fatto che i bolscevichi danno il via alla costruzione del nuovo sistema senza alcuna esperienza di governo, soprattutto senza avere idee chiare a riguardo della gestione dell’economia. Questa imperizia li porta inevitabilmente a compiere valutazioni e scelte sbagliate. Del resto, l’impresa che essi compiono è di per sé talmente grande e complessa che da parte di chiunque la gestisca diventa difficile evitare errori. Nelle “Tesi di aprile” Lenin sostiene che compito immediato dei bolscevichi è l’instaurazione del socialismo anche se, per il momento, esso è limitato “ al controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei Soviet dei Deputati e degli Operai”. In settembre, quando l’assalto al “palazzo” è ormai nell’aria, egli traccia il cammino da percorrere dopo la presa del potere e indica i provvedimenti che devono essere presi. Essi riguardano: 1) la nazionalizzazione delle banche (la quale, sostiene, è “realizzabile con un sol tratto di penna”); 2) la nazionalizzazione dei grandi trust commerciali e industriali (zucchero, carbone, ferro, petrolio, ecc.) e costituzione di monopoli di Stato (cosa che – a suo dire – si sarebbe potuta ottenere facilmente considerato che i monopoli erano già stati creati dal capitalismo); 3) l’abolizione del segreto commerciale; 4) la concentrazione forzata delle piccole aziende in maniera di conseguire sia l’efficienza del sistema produttivo sia il loro controllo; 5) la regolamentazione del consumo conseguibile mediante un giusto ed efficace sistema di razionamento. Tali provvedimenti vengono concepiti congiuntamente allo sviluppo del controllo operaio su tutto il sistema produttivo in un quadro di pianificazione centralizzata. E’ da tenere presente che fino al momento della rivoluzione, le inevitabili implicazioni pratiche di un tale piano strategico non hanno mai costituito oggetto di riflessione e di discussione nel gruppo dirigente bolscevico. Preso il potere, Lenin decide di realizzare il “comunismo di guerra” che si basa su due elementi fondamentali: a) la concentrazione dell’autorità e del potere economico, unitamente alla centralizzazione del suo controllo e della sua direzione, attraverso il rimpiazzo delle piccole unità di produzione con le grandi, oltre ad alcune misure di pianificazione; b) l’abbandono delle forme commerciali e monetarie di distribuzione e l’introduzione del razionamento e della fornitura gratuita, o a prezzi nominali, delle merci e dei servizi essenziali, cioè la sostituzione dell’economia di mercato con un’economia “naturale”. Vengono così introdotte le tessere annonarie e attuata la pianificazione dei più importanti articoli di consumo; e mentre su tutto il territorio si diffondono le cooperative di consumo, alle classi abbienti viene fatto obbligo di lavoro e i loro consumi vengono rigorosamente controllati. 95


“L’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”, sentenzia Lenin. E in occasione del congresso dei soviet afferma: “Noi sappiamo benissimo che la nostra opera è difficile, ma affermiamo che è socialista nei fatti solo chi affronta questo compito fidando nell’esperienza e nell’istinto delle masse lavoratrici”. Nella fase in cui le forze della controrivoluzione incominciano a perdere le loro basi d’appoggio e la situazione sembra migliorare, egli insiste nel far presente che la rivoluzione comporta “molte difficoltà, sacrifici ed errori”. “E’ una cosa nuova, mai vista nella storia, che non si può leggere nei libri”, avverte. In effetti, in quel periodo, i rivoluzionari sovietici si trovano nelle condizioni di dover ricercare a ogni costo una risposta immediata a tutto, e nel farlo compiono inevitabilmente errori che sono destinati a ripercuotersi su larga scala e a coinvolgere l’intero potere statale. Agli inizi della sperimentazione del “comunismo di guerra” l’idea stessa di “bilancio” è tabù e il partito si occupa per la prima volta di problemi finanziari solo nel marzo del ’22, cioè con estremo ritardo. E anche se la creazione dell’organo economico centrale, il Consiglio superiore dell’economia, avviene nei mesi successivi alla rivoluzione, la cultura di governo dei bolscevichi, come già ho sottolineato, si rivela decisamente inadeguata e insufficiente a dare risposte giuste ed esaustive ai problemi che si presentano. Di fatto, la regolazione dell’economia, almeno agli inizi, è affidata alla parte residuale dell’apparato tecnico- amministrativo-aziendale del vecchio regime zarista il quale, seppure rimasto al proprio posto, si dimostra in larga misura ostile al nuovo sistema e non è certo preparato tecnicamente e politicamente a dirigere il cambiamento voluto dai bolscevichi. D'altronde, questi ultimi non potevano fare a meno delle competenze del vecchio apparato. Lenin stesso, tra il ‘18 e il ‘19, si sofferma a più riprese sull’impossibilità di pervenire al socialismo senza l’aiuto di questi “nemici di classe”, evidenziando così uno dei dilemmi della rivoluzione russa. E’ poi diffusa l’idea che con l’impegno del capitale e della tecnica stranieri, insieme con l’abbondanza di materie prime, sia possibile accelerare la ricostruzione del Paese. Ai capitalisti occidentali vengono pertanto prospettate delle concessioni relative allo sfruttamento delle foreste nord-orientali, alle forniture di trattori per l’agricoltura, all’attivazione delle miniere. Queste opportunità però non vengono nemmeno prese in considerazione dagli interessati e questo atteggiamento avverso genera ulteriori motivi di delusione e di difficoltà. La prima fase di attuazione del “comunismo di guerra” è così contraddistinta da un ricorso diffuso e generalizzato a metodi violenti che, seppure giustificati dalla necessità di contrastare le azioni di sabotaggio, rasentano il terrore. Lenin sostiene che se la rivoluzione francese aveva ghigliottinato i propri nemici, quella proletaria li obbliga a lavorare per essa. “Chi non lavora non mangia” è il credo pratico del socialismo dei bolscevichi e nella categoria di chi deve essere rinchiuso in carcere sono inclusi anche “gli operai che lavorano poco”; un simile principio, però, non viene mai reso operante. Questo stato di costrizione indurrà molti storici (oltre ai politici anticomunisti) a individuare l’origine dello stalinismo nelle stesse pratiche leniniane. Già nel gennaio del ’18, il 3° congresso panrusso dei soviet adotta la Dichiarazione dei Diritti del Popolo Lavoratore e Sfruttato, la quale proclama proprietà dello Stato tutte le fabbriche, le miniere e i trasporti. Stesa dallo stesso Lenin, la Dichiarazione si propone come scopo principale la soppressione di qualsiasi sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e l’abolizione della proprietà privata dei terreni dichiarando la terra proprietà di tutto il popolo. Difatti, essa recita che “tutti i boschi, il sottosuolo e le acque di importanza statale, come anche tutto il bestiame e gli strumenti di lavoro, i poderi e le aziende agricole modello, vengono dichiarati proprietà nazionale”. Come primo passo verso il completo passaggio delle fabbriche, delle miniere, delle ferrovie e degli altri mezzi di produzione e di trasporto in proprietà della repubblica operaia-contadina sovietica, viene confermata la legge del controllo operaio e viene deciso il passaggio di tutte le banche in proprietà dello Stato. Nel suo programma economico e sociale Lenin si limita a inserire misure compatibili con l’ulteriore sviluppo del capitalismo quali, ad esempio, la creazione di un’unica banca di Stato che, per quanto sia una misura di carattere socialista, non comporta affatto la totale liquidazione del 96


capitalismo. Le banche, per Lenin, costituiscono “i perni della moderna vita economica, i centri nervosi essenziali di tutto il sistema economico capitalistico… Senza le grandi banche il socialismo sarebbe irrealizzabile. Le grandi banche sono l’apparato statale che ci è necessario per la realizzazione del socialismo e che noi prendiamo già pronto dal capitalismo. Perciò, il nostro compito in questo campo consiste soltanto nel tagliare da questo magnifico apparato ciò che lo deturpa in senso capitalistico, renderlo ancora più grande, più democratico, più universale”. La riunione di tutte le banche in una banca unitaria di Stato, che vanta filiali in ogni ramo dell’industria e dell’apparato amministrativo, per lui, “è già per nove decimi un apparato socialista”. L’idea delle banche come leve di controllo in una economia organizzata e pianificata risale a SainSimon e il ruolo che esse svolgono in tutta Europa, specialmente in Germania, sembra offrire una conferma di questa tesi. Lenin sostiene che la mancata occupazione delle banche da parte della Comune di Parigi è stata una delle principali cause della sua sconfitta. A riguardo della riforma agraria va ricordato che mentre i menscevichi sono per la “municipalizzazione” delle terre (proprietà affidata agli organismi di democrazia locale) e per il loro affitto ai contadini, Lenin è per la loro nazionalizzazione. “I contadini devono esigere di essere lasciati liberi di decidere essi stessi i loro affari, di discutere, di suggerire e istituire essi stessi nuove leggi”, sostiene. Egli è convinto che “il sistema dei rapporti economici vigenti nel villaggio ‘comune’ non rappresenta affatto un sistema originale di ‘produzione popolare’, ma un comune sistema piccolo borghese. Ad onta delle teorie invalse da noi nell’ultimo mezzo secolo, la comunità contadina russa non è l’antagonista del capitalismo, ma, al contrario, la sua base più profonda e più solida”. Ritiene perciò impossibile costruire il socialismo senza la socializzazione dell’agricoltura, impossibile socializzare l’agricoltura senza i trattori, impossibile ottenere i trattori senza una rivoluzione proletaria internazionale. In effetti, gli ostacoli alla costruzione del sistema socialista dipendono anche dall’esistenza di una agricoltura contadina che in gran parte è arretrata e il cui indice di produttività è tre o quattro volte inferiore a quello dei paesi più progrediti dell’Europa occidentale. Fatto è che la rivoluzione ha dovuto accettare come necessario prezzo da pagare per la sua sopravvivenza, le occupazioni e le distribuzioni delle terre messe in atto dai contadini stessi nel corso del biennio ’17-‘18. Con l’attuazione del comunismo di guerra e con la messa fuori legge dei socialisti rivoluzionari di sinistra, in seguito all’assassinio di Mirbach, viene praticamente a cessare qualsiasi opposizione alla politica agraria bolscevica. Al fine di ottenere i rifornimenti, il governo è costretto a intensificare il sistema delle requisizioni mediante le squadre operaie e i comitati dei poveri. Impone al contadino la cessione di tutto ciò che eccede il suo fabbisogno e quello della sua famiglia. Questa imposizione si rivela però fatale. La requisizione forzata ai kulaki, o presunti tali, delle eccedenze che spesso vengono calcolate in modo arbitrario, provoca le due tipiche reazioni del contadino: in un primo momento, l’occultamento delle scorte, in seguito, il rifiuto di seminare una superficie di terra appena superiore a quella necessaria per sfamare la propria famiglia. Mentre la requisizione di beni come il pane e lo zucchero è già in vigore da prima della rivoluzione di febbraio, dopo l’ottobre viene estesa al grano, al mangime, alle patate, alla carne, al pesce e a tutti i grassi animali e vegetali, compresi i semi di canapa, di girasole e di lino. Le requisizioni forzate di prodotti agricoli provocano numerose rivolte popolari e quelle che si svolgono in Ucraina e in Crimea, le quali sono dirette dall’anarchico Machno, rappresentano solo la punta di un iceberg. L’estensione e l’intensificazione di questa politica favorisce lo sviluppo degli scambi in natura e, di conseguenza, della “borsa nera”, una pratica questa che del resto è presente da tempo in modo diffuso in tutto il Paese. Lenin ha ben presente cosa comportano provvedimenti coercitivi quali l’espropriazione delle terre e la requisizione dei prodotti. A questo riguardo si è detto convinto che “la violenza nei confronti dei contadini medi costituisce un grandissimo danno...(ed) agire in questo campo con la violenza significa rovinare tutto”. A suo parere “l’obiettivo non è di espropriare il contadino medio, bensì di tener conto delle particolari condizioni della vita contadina, d’imparare dai contadini il modo di 97


passare a un miglior regime!”. La sua avvedutezza e coerenza sono tali che anche dopo l’ottobre la rendita ai proprietari degli appezzamenti di terra espropriati prima della rivoluzione per costruire ferrovie, strade ed edifici pubblici, continua a essere regolarmente garantita. La drammatica situazione in cui si trova la Russia all’indomani dell’“ottobre rosso” impone però scelte dolorose e impopolari. Il comparto industriale viene organizzato secondo il principio della produzione in serie su larga scala. Questa scelta viene fatta nonostante che la nazionalizzazione generalizzata dell’industria non faccia parte del programma iniziale. L’idea di Lenin è quella di realizzare, per il momento, un “capitalismo di stato” lasciando agli stessi proprietari sia il possesso che la direzione delle aziende. Lo Stato, a suo giudizio, dovrebbe imporre le linee generali dello sviluppo e limitarsi a esercitare il controllo. I comunisti di sinistra invece premono per l’immediata nazionalizzazione di tutta l’industria, considerando la linea di Lenin una “conciliazione col capitale”. In marzo, per fare un esempio eloquente, l’imprenditore Mescerskij avanza la proposta di creare un nuovo trust metallurgico del quale il suo stesso gruppo avrebbe posseduto metà delle azioni mentre allo Stato sarebbe andata l’altra metà. Questa proposta viene respinta dall’opposizione di sinistra e Lenin non manca di attaccare duramente la posizione intransigente di questi compagni. La scelta della statalizzazione non avviene subito, ma dopo otto mesi dalla rivoluzione, precisamente in seguito alla militarizzazione delle fabbriche imposta dalla guerra civile e dall’invasione straniera, dopo che molte aziende, in specie quelle gestite dai capitalisti stranieri, vengono chiuse dai loro stessi proprietari e occupate dai comitati dei lavoratori. Questa operazione si rivela però un atto d’improvvisazione. Le più importanti industrie del Paese sono chiamate a rifornire l’Armata rossa che è impegnata a combattere le “forze bianche” e a respingere l’aggressione degli eserciti stranieri, pertanto le aziende non possono arrestare l’attività, ma devono sottostare a una politica industriale che è divenuta forzatamente elemento della strategia militare. E dato lo stato di emergenza in cui si trova il settore, ogni decisione relativa al suo funzionamento viene presa senza tenere conto delle conseguenze sul suo sviluppo futuro. Si comincia col nazionalizzare l’industria dello zucchero, poi quella petrolifera e via via tutte le altre. Il governo sovietico e Lenin personalmente non mancano di ammonire ripetutamente gli organi locali contro la fretta di procedere alla nazionalizzazione, facendo presente che la presa di possesso di quei mezzi di produzione non significa affatto socializzazione, ma questi richiami non sortiscono alcun effetto. La fretta e l’accelerazione dei tempi si spiegano, da un lato, con l’asprezza della lotta di classe, dall’altro, con la diffusione di forme di resistenza e di sabotaggio che vengono attuate dalla borghesia e dalle forze controrivoluzionarie. Con il processo di nazionalizzazione dell’economia, lo Stato diventa così il principale datore di lavoro del Paese e il lavoro perde formalmente le caratteristiche di merce tra le merci, non essendo più subordinato al contratto di compravendita, e assume il concetto di servizio svolto a favore della comunità. Almeno in teoria, questa diventa la nuova etica. Nell’autunno del ’18 viene applicata una tassa straordinaria, “rivoluzionaria” che, secondo le previsioni, avrebbe dovuto fornire dieci miliardi di rubli. Nel maggio del ‘19 il gettito reale complessivo non raggiunge nemmeno il 10% di quanto preventivato. Questa scelta si rivela difatti un clamoroso fallimento. Ancor meno fruttuoso si dimostra l’esperimento della tassazione in natura: tutto ciò che eccede il fabbisogno familiare deve essere destinato all’Armata Rossa e alle città. E questo fallimento si verifica nonostante che i commissari del popolo conducano una lotta accanita contro la borghesia e contro gli agrari in tutti i campi della vita economica. Pertanto, non solo i rapporti sociali continuano a essere percorsi da una conflittualità diffusa e insistente, ma gli stessi nuovi governanti si dimostrano incapaci di dirigere l’economia nel suo complesso e di regolare e assicurare gli approvvigionamenti all’esercito e alle popolazioni cittadine. Nel ‘20 viene stabilito che è giunto il momento di “avviarsi verso una costruzione economica più attentamente pianificata, verso la programmazione scientifica e la progressiva realizzazione di un 98


piano statale per tutta l’economia nazionale”, tenendo conto dell’”importanza fondamentale” che l’elettrificazione riveste per l’industria, l’agricoltura e i trasporti. E’ il periodo in cui Lenin lancia lo slogan: “Il comunismo significa il potere sovietico più l’elettrificazione in tutto il Paese”. Il Goelro mette a punto il piano per l’elettrificazione, mentre viene dato vita al Gosplan, la commissione statale di pianificazione generale che incomincia a funzionare nel ‘21. Nel corso del biennio ‘20-‘21 vengono inaugurate 221 centrali elettriche con una capacità di 12 mila kilowatt. Nel ‘21 una quota delle aziende industriali che erano state nazionalizzate, in specie quelle con capitali modesti, vengono affidate alla direzione e al controllo dei privati. Nonostante questi successi, però, il “comunismo di guerra” si rivela non adatto a far decollare lo sviluppo economico-sociale della Russia. Trascorsi quasi quattro anni dall’assalto al Palazzo d’inverno è lo stesso Vesencha, cioè il Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale, a mette in evidenza in un suo resoconto ufficiale come all’apice stesso del potere sovietico regni una grande confusione. Recita questo documento: “Mancano, fino ad oggi, elementi orientativi su ciò che deve intendersi per profitto, che spieghino se esso dovrà essere registrato per intero, se da esso dovrà essere compiuta qualche detrazione per rifornire di capitali l’azienda, in che modo si debbano valutare le attività rappresentate dai prodotti invenduti, giacenti presso l’azienda, ecc.”. E proprio in questo lasso di tempo, l’espansione dello sviluppo economico-sociale che ha raggiunto le regioni della Siberia, del Turkestan e del Caucaso, dal punto di vista degli effetti, mostra molte analogie tipiche del colonialismo capitalista. 4.3 – Dal controllo operaio all’abolizione del denaro Nel periodo del “comunismo di guerra”, con l’eliminazione del mercato del lavoro, i bolscevichi hanno abolito tutti i criteri capitalistici di assunzione e di controllo dei lavoratori, compresa la contrattazione collettiva tra salariati e datori di lavoro. Allo scopo di eliminare gli strati parassitari della società hanno istituito il servizio di lavoro obbligatorio. Dopo che Trotskij ha invocato la militarizzazione del lavoro, per la prima volta nella storia, al ceto borghese viene applicato il lavoro forzato: uomini e donne vengono impiegati nello scavo delle trincee per difendere la capitale dagli attacchi delle truppe nemiche. Contemporaneamente, anche in conseguenza della svalutazione della moneta e dell’interruzione dei normali processi di scambio, il governo rivoluzionario procede alla graduale sostituzione del salario in denaro con i pagamenti in natura ed emana tali provvedimenti senza preoccuparsi troppo della loro applicabilità nelle condizioni in cui si trova il Paese. Obiettivo principale dei nuovi governanti è quello di passare rapidamente alla dittatura del proletariato e seppellire il dominio del capitale insieme alle sue norme. Sulla base di un progetto ideato da Lenin, nel novembre del ’17 viene approvato il regolamento del “controllo operaio”. I comitati di fabbrica che sono apparsi prima dell’ottobre, all’indomani della rivoluzione fanno segnare uno straordinario sviluppo diffondendosi nella stragrande maggioranza delle aziende. Lenin propone di far assumere ai soviet degli operai, unitamente a quelli degli impiegati di banca e degli ingegneri, la funzione di organi di controllo sui trust. Loro compito è quello di garantire il controllo “sulla produzione, sulla conservazione e sulla compra e la vendita di tutti i prodotti e le materie prime”. Alla metà del ‘18, questi organi di controllo risultano insediati in oltre il 70% delle aziende con più di 200 operai, mentre coprono quasi il 25% del totale delle aziende, comprese quelle piccole. Durante la guerra civile la stragrande maggioranza dei capitalisti fugge dalle regioni dominate dai bolscevichi e il mantenimento dell’attività produttiva e anche la direzione delle aziende, viene a cadere improvvisamente sulle spalle di questi organismi operai i quali sono del tutto impreparati ad assolvere a un simile gravoso compito.

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Inizialmente, il controllo operaio è concepito come mezzo per spezzare l’azione di sabotaggio dei capitalisti tesa appunto a ostacolare il normale processo produttivo. Le stesse istruzioni del Consiglio panrusso dei soviet specificano in maniera chiara che “la commissione di controllo non si occupa delle questioni del finanziamento dell’azienda.... non ha il diritto di impadronirsi dell’azienda e di dirigerla.... non partecipa alla direzione dell’azienda”. La funzione di questi organismi, nel momento della loro istituzione, è limitata dunque a favorire l’autodisciplina, a combattere la rilassatezza piccolo borghese e l’anarchia. Tanto è che uno dei successi conseguiti dalle prime esperienze, e vantato dagli stessi delegati, è quello d’impedire lo svolgimento di assemblee di ogni genere durante la giornata lavorativa. Le funzioni del controllo operaio nelle aziende vengono adempiute oltre che dai comitati di fabbrica, dai consigli degli anziani con la partecipazione dei rappresentanti degli impiegati e del personale tecnico. L’attività di questi altri organismi viene svolta in comune con l’amministrazione e con la direzione tecnica delle aziende. Insomma, a garantire la gestione delle imprese i soviet si dimostrano impreparati. Solo in alcuni casi gli operai danno segno di possedere le capacità tecniche, la disciplina e la conoscenza della contabilità, indispensabili per mandare avanti un’azienda. E quando riescono ad assolvere i compiti di direzione, lo fanno in base alla cultura e alla pratica ereditata dal capitalismo stesso. Scriverà tempo dopo, riflettendo su quell’esperienza, l’economista sovietico G.Tsyperovic: “Questi nuovi organi del potere proletario seppero utilizzare il metodo del calcolo centralizzato capitalistico, del controllo e della regolazione per organizzare l’industria negli interessi di tutti i lavoratori contro gli interessi del capitale”. Il controllo operaio come forma di organizzazione non sopravvive alle prime settimane della rivoluzione proprio a causa di questa generale inesperienza del “potere operaio”. Infatti, dopo che i vecchi dirigenti delle aziende se ne sono andati o sono stati estromessi, i bolscevichi sono costretti a pregarli di ritornare ai loro posti per garantire il funzionamento del sistema produttivo. Il credere che i problemi della produzione e dei rapporti di classe nella nuova situazione possano essere risolti mediante l’azione diretta e spontanea degli operai si rivela una chimera. Del resto, il controllo operaio nelle aziende incontra da subito molti nemici. Anzitutto visi oppongono gli imprenditori i quali alla sua introduzione rispondono con le serrate e il sabotaggio. Nei mesi di novembre e di dicembre del ’17, infatti, nel corso dei loro congressi, le varie categorie imprenditoriali mettono a punto veri e propri piani di lotta contro le interferenze del potere bolscevico nel sistema produttivo, fino a ricorrere alla vendita delle stesse aziende alle compagnie straniere. E a sostegno della rivolta padronale scendono in agitazione, oltre alle frange reazionarie dei tecnici e degli ingegneri, anche i grandi finanzieri e le élite degli impiegati di banca. La stessa Unione degli ingegneri di Pietrogrado, a metà di novembre, contrasta ufficialmente il provvedimento governativo prendendo a pretesto che “gli operai nella loro massa non sono preparati per attuare un controllo autonomo sulla produzione”. A imbrigliare e sabotare il controllo operaio, dalla parte stessa dei lavoratori, sono poi i menscevichi che non tollerano la sua centralizzazione nella mani del governo e non approvano la sua funzione destabilizzatrice delle basi stesse del sistema capitalistico. Mentre i comunisti di sinistra non lo prendono nemmeno in considerazione non considerandolo un obiettivo garante della transizione al socialismo. Se a tutto questo si aggiungono le condizioni di caos in cui si trovano le forze produttive, le immense difficoltà di governo dei rapporti di produzione, la presenza diffusa di tendenze aziendaliste, sindacaliste e separatiste, si comprende facilmente come il destino di un simile ambizioso obiettivo, complesso e difficile da conseguire persino in situazioni ben più mature e consolidate sul piano economico e socio-politico di quelle esistenti in Russia, non potesse essere altro che quello del fallimento. Il problema del controllo operaio è strettamente legato a quello della rappresentanza sindacale, e anche su questo versante non manca l’insorgenza di problemi enormi.

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Mentre fino alla rivoluzione d’ottobre i bolscevichi erano interessati a sostenere i comitati di fabbrica di orientamento rivoluzionario, contro i sindacati che erano favorevoli invece a un’azione ordinata e vantavano una base prevalentemente menscevica, dopo la presa del potere la loro posizione necessariamente muta. Poiché obiettivo della politica sovietica diventa la subordinazione del sindacato all’azione del governo centrale, viene imposto ai comitati di fabbrica un comportamento disciplinato. Fautori del più rigido centralismo e della piena sottomissione dei sindacati al partito e allo Stato sono Trotskij e Bucharin, mentre “Opposizione operaia” rivendica l’affidamento della direzione delle aziende al sindacato pretendendo che questo sia gestito dal basso. Tra queste due tendenze Lenin gioca il ruolo di mediatore, essendo contrario ad affidare la gestione delle industrie “alla massa degli operai senza partito” e respingendo le posizioni che rifiutano il centralismo autoritario. Poiché alcuni comitati di fabbrica si attestano su posizioni strettamente aziendalistiche, difendendo interessi corporativi, viene deciso di porre i comitati di fabbrica sotto il controllo dei sindacati. Ma neppure questo provvedimento consegue lo scopo e poiché molti soviet esprimono una marcata tendenza sindacalista, viene ravvisata l’opportunità di porre questi organismi sotto il controllo e la direzione del partito. Con il passare del tempo, soprattutto nel campo della politica industriale, il contrasto fra controllo statale e controllo operaio assumerà dimensioni notevoli e alla fine si risolverà con la prevaricazione del centralismo burocratico. Il 1° congresso panrusso del sindacati sancisce il principio secondo cui “nella loro forma più sviluppata, i sindacati dovranno divenire, nel corso dell’attuale rivoluzione socialista, organi del potere socialista” e i lavoratori vengono chiamati alla partecipazione nella regolamentazione e nell’organizzazione dell’economia nazionale attraverso di essi. E’ il caso di ricordare che nella preparazione della rivoluzione i sindacati non hanno avuto alcun ruolo attivo. L’alleanza tra governo e le organizzazioni dei lavoratori ha lo scopo di eliminare l’anarchia del controllo operaio e di condizionare i criteri con cui vengono eletti i comitati di fabbrica. E’ così che già dopo pochi mesi dall’ottobre i sindacati diventano i paladini dell’ordine, della disciplina e della direzione centralizzata della produzione. La tendenza a concepire il movimento sindacale come ausiliario del partito e strumento della sua politica, è del resto intrinseca alla dottrina bolscevica. Al congresso si registrano due differenti posizioni: da una parte i menscevichi che sono per l’indipendenza dei sindacati, dall’altra i bolscevichi che invece la contrastano. Il menscevico Martov sostiene che “i compiti del movimento sindacale consistono non nel mettersi al servizio del potere come istituzione dipendente, ma nel prendere parte a tutta la vita economica in quanto gli elementi di realismo, di marxismo e di socialismo scientifico e la presa in considerazione delle forze reali permettono al sindacato come organizzazione autonoma di portare correttivi nei piani del potere”. Le sue ragioni però non vengono prese in considerazione e a prevalere sono le posizioni dei bolscevichi. Lenin è del parere che essendo “il nostro uno Stato operaio, ma con una deformazione burocratica, noi dobbiamo servirci delle organizzazioni operaie per difendere gli operai dal loro Stato e per difendere mediante gli operai il nostro Stato”. E si dichiara nettamente contrario a ogni legge “che sostituisca allo sciopero la mediazione obbligatoria dello Stato”. Secondo la logica che poi prevarrà, solo i comunisti iscritti da parecchi anni al partito possono essere eletti alle cariche più importanti dell’organizzazione sindacale. Le divergenze tra menscevichi e bolscevichi non si limitano peraltro al ruolo del sindacato, ma investono le stesse politiche del lavoro, in particolare quella salariale. I menscevichi, la cui base è formata in prevalenza da operai specializzati, si presentano come i naturali sostenitori dei salari differenziati, mentre i bolscevichi difendono la parificazione, anche se è da ricordare che, nonostante gli argomenti addotti da alcuni teorici del partito, nella pratica il nuovo regime non contrasta affatto la politica dei salari differenziati. Se inizialmente, con il comunismo di guerra, i bolscevichi sopprimono ogni forma di incentivo preferendo contare sull’entusiasmo rivoluzionario, cioè sull’emulazione (ma anche sulla coercizione), con il passare del tempo sono costretti a compiere un ripensamento.

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Al 2° congresso panrusso dei sindacati viene deciso che la politica salariale deve certo fondarsi sull’emulazione, ma pure sugli incentivi, cioè sul principio dei cottimi e dei premi e ove non sia possibile introdurre i cottimi, su rigide norme di produzione. Le nuove tabelle salariali vengono applicate nelle città e nei dintorni di Mosca con decreto. Il salario minimo di un operaio adulto viene fissato in 600 rubli mensili, quello più alto, per il personale amministrativo qualificato, in 3.000 rubli mensili; ai commissari del popolo è destinato un salario di 2.000 rubli. Si tratta di parametri ben lontani dal salario uguale per tutti. Rispetto però alle sperequazioni esistenti, essi riducono fortemente le differenze. A partire dalla fine degli anni ’20, difatti, lo scarto tra i salari più bassi e quelli più alti non va oltre il rapporto di 1 a 3. Secondo i calcoli dell’economista S.G.Strumilin, la produzione oraria di un operaio – nella media di tutti i settori del lavoro industriale – nel ’18, rispetto al periodo prerivoluzionario, è diminuita del 33-35%. I dati di Pietrogrado testimoniano che il 44% della diminuzione della produttività è avvenuta a causa della fame e del grave esaurimento dell’organismo degli operai, il 10% a causa del peggioramento delle materie prime e dell’usura delle attrezzature, il 25% a causa dei difetti nell’organizzazione del lavoro, e il 21% a causa della diminuzione della disciplina del lavoro. Sempre secondo i calcoli di Strumilin, un operaio di Pietrogrado nel ‘19-20 riceve soltanto il 45,6% di calorie rispetto al periodo prerivoluzionario. Per elevare la produttività del lavoro viene pertanto ammessa l’introduzione dei cottimi. Uno dei primi a legittimare premi e avanzamenti individuali, imponendo l’emulazione socialista su nuove basi, è Trotskij. Questa misura però crea malumori e contrasti tra i lavoratori. Il compito di dirigere il movimento della produzione e della distribuzione viene così delegato ai rappresentanti dei sindacati, delle organizzazioni proletarie e delle associazioni di fabbrica. Si formano cioè delle direzioni generali, articolate verticalmente e sotto la conduzione di una sola persona, le quali stravolgono nella pratica il carattere collettivo degli organismi di base. A dirigere di fatto i processi produttivi vengono designati i glavki che con il passare del tempo creano una loro mitologia della centralizzazione e avallano il sistema di gestione del “comunismo di guerra” come l’unica forma possibile di direzione dell’economia per la transizione al socialismo. E’ così che nasce, accanto a quella vecchia, una nuova burocrazia: la burocrazia socialista. Eppure, per creare i nuovi rapporti, per costruire una nuova forma di vita sociale, occorrerebbe passare dal controllo alla gestione, dagli organi di controllo operaio ai consigli dell’economia diffusi sul territorio, dal capitalismo di Stato su cui si fonda il controllo operaio alla socializzazione, alla creazione di una forma economica socialista. Un simile percorso si rivela però impraticabile nella Russia postrivoluzionaria e nemmeno a livello teorico esso rappresenta, in termini significativi, oggetto di riflessione e di confronto politico all’interno del gruppo dirigente bolscevico. Nel ‘21 la situazione peggiora a causa di una carestia: la siccità danneggia i raccolti, le scorte si esauriscono, i trasporti precipitano nel caos. La crisi è un effetto non solo del “comunismo di guerra”, ma anche la conseguenza dell’accerchiamento politico ed economico che l’imperialismo, nelle sue diverse modalità e dimensioni, impone nei confronti del bolscevismo. Viene costituito un comitato panrusso per gli aiuti agli affamati. Lenin richiede categoricamente “la nomina in ogni centro locale di singoli funzionari responsabili, scelti dalle organizzazioni dei ferrovieri”, e “l’obbedienza incondizionata ai loro ordini”. “La sottomissione senza riserve a un’unica volontà è assolutamente necessaria per il buon esito dei processi del lavoro”, giustifica. Si tratta di un provvedimento che viene aspramente criticato sia dai socialisti rivoluzionari di sinistra sia dall’opposizione di sinistra dei bolscevichi; per entrambe queste componenti esso è una conseguenza negativa del processo di centralizzazione del potere. In segno di protesta, alcuni soviet non consegnano alle casse dello Stato le imposte raccolte localmente. I soviet di Tsaritsyn, Samara, Kazan e di altre città impongono proprie tariffe doganali e tassano il petrolio che da Baku viene trasportato al resto del Paese. Se durante lo zarismo una simile azione era considerata dagli stessi bolscevichi del tutto legittima come forma di lotta al vecchio Stato poliziesco, ora viene da loro vissuta come un atto reazionario contro il governo socialista. 102


Unitamente a questi problemi esplode la contraddizione relativa all’eliminazione del denaro e alla introduzione della gratuità dei servizi. Con l’abolizione della proprietà privata i bolscevichi cercano di restringere gli spazi ai rapporti di denaro e di scambio fino al punto di eliminarli dalla pratica economica. La scienza delle finanze viene considerata l’ancella della politica economica e per questa ragione il portavoce del Narkomfin (Commissario del popolo delle finanze) decreta la sua scomparsa. Al 1° congresso panrusso dei Consigli dell’Economia, Aleksandr N. Smirnov, esponente dell’opposizione di sinistra, profetizza che “quando si giungerà al pieno trionfo del socialismo, il rublo non avrà alcun valore e si avrà una scambio senza denaro”. Di fatto questa pratica diviene operante da subito, anche se nessun serio comunista ebbe mai a considerare l’abolizione del denaro come un obiettivo immediato. Menftre Zinov’ev, nel ‘19, ha sostenuto che “noi stiamo avvicinandoci alla completa abolizione della moneta”, all’8° congresso del partito viene categoricamente affermato che “nel primo periodo del passaggio dal capitalismo al comunismo... l’abolizione del denaro è impossibile”. All’abolizione del denaro si sarebbe giunti solo nella fase del passaggio dal socialismo al comunismo, quando cioè sarebbe avvenuta la rivoluzione proletaria in Europa. In realtà, anche a causa dell’inflazione che si è rivelata indomabile, la moneta ha cessato di avere importanza da subito dopo l’ottobre e gran parte del commercio ha incominciato a svolgersi sulla base del baratto. In assenza dell’assunzione come criterio di governo della scienza delle finanze, e in presenza di un uso marginale della circolazione del denaro, il Consiglio dell’Economia nazionale (Sovnarchoz) propone l’introduzione di una nuova unità di contabilità economica che adotta come base di calcolo “l’unità di lavoro”. Viene in sostanza ripetuto l’esperimento compiuto da Robert Owen il quale nelle sue colonie modello, più di mezzo secolo prima, aveva introdotto la “moneta di lavoro”. La popolazione viene divisa in tre categorie: la prima comprende gli addetti ai lavori manuali pesanti, la seconda i lavoratori in genere e le loro famiglie, la terza i membri della borghesia. Alla prima vengono assegnate razioni alimentari quattro volte più grandi di quelle corrisposte alla terza; alla seconda razioni tre volte maggiori di quelle destinate ai borghesi. In alcune località le categorie di razioni si diversificano a tal punto da poterne contare addirittura una ventina. Comunque, da una statistica del tempo si evince che negli anni ’19 –‘20 soltanto il 20-25% dei generi alimentari veniva distribuito con il criterio delle razioni. Gli operai vengono pagati in parte con i prodotti della fabbrica in cui lavorano e quindi ricevono merci che devono poi barattare. Il servizio postale è gratuito, come pure la distribuzione dei pasti nelle fabbriche delle città e l’assegnazione degli abiti per i bambini delle scuole. Nel ‘20, per gli operai e gli impiegati di Mosca e Pietrogrado vengono istituite le mense popolari gratuite. Per i servizi pubblici (posta, telegrafo, telefono, acqua, fognature, luce elettrica, ecc.) viene decretata l’abolizione dei pagamenti e l’uso gratuito. Esistono, l’uno accanto all’altro, due diversi sistemi di distribuzione: quella a cura degli organi statali, a prezzi fissi (e poi gratuitamente), e quella attraverso il commercio privato. Il commercio estero non ha praticamente alcuna parte nell’economia sovietica. L’isolamento imposto dal blocco alleato all’inizio del ‘18, diviene completo dopo il crollo della Germania. L’eliminazione della moneta e l’introduzione dell’economia “naturale” sono in realtà provvedimenti che scaturiscono non tanto dalla determinazione politica dei nuovi governanti, quanto invece dalla loro incapacità di risolvere i problemi di un’economia agricola arretrata che vede occupata circa l’80% dell’intera popolazione. Il fallimento del “comunismo di guerra”, infatti, non è causato solo dal crollo industriale, ma prima ancora dalla mancanza di una politica agraria capace di ottenere dai contadini le eccedenze di generi alimentari sufficienti a sfamare le città e le fabbriche. Le cause del fallimento di questo esperimento hanno comunque radici profonde e vanno al di là di un semplice difetto organizzativo o delle pur gravi deficienze burocratiche. Per fare un esempio emblematico, sul fronte della finanza, il governo cerca di tenere testa all’inflazione della moneta facendo ricorso a quelle stesse misure che i dirigenti bolscevichi avevano aspramente criticato quando erano state adottate dal governo provvisorio. E anche a questo riguardo, le misure che esso prende si rivelano 103


inefficaci. La stessa svalutazione del rublo non viene decisa dal governo sovietico, come qualcuno ha sostenuto, per completare la rovina della borghesia, ma viene adottata solo perché esso non è riuscito a trovare alcun altro mezzo per evitare le catastrofiche tendenze che erano in atto nel Paese. Che l’improvviso abbattimento del mercato e l’eliminazione della moneta in un modo di produzione capitalistico agli albori del suo sviluppo, qual era di fatto quello russo, potesse significare l’instaurazione immediata di rapporti comunisti, si è rivelata una semplice e ingenua illusione che non poteva portare ad altro che a un clamoroso fallimento dei meccanismi economico-produttivi. Dedotte in maniera distorta dalla letteratura marxista, simili misure si sono oltretutto scontrate con l’arretratezza della società russa il cui carattere semifeudale non è attribuibile alla sola sfera economica, ma riguarda la stessa mentalità della sua popolazione. La verità è che si è voluto precorrere i tempi della costruzione del socialismo dando vita a un sistema che non poteva oggettivamente stare in piedi. L’esasperata centralizzazione, che pure è da considerarsi una conseguenza dello stato di guerra civile in cui si è trovato il Paese, non può certo considerarsi conciliabile con le esigenze di democrazia. Una società che vuol essere socialista e che si propone di fondarsi sui principi dell’autogoverno non può tollerare alcun accentramento del potere. Svuotare i soviet della loro autonomia comporta infatti non solo aprire la strada a un regime dittatoriale, ma compromettere alla radice il carattere socialista degli stessi meccanismi sociali e produttivi. Tra il ’20 e il ’21, quando ha termine la guerra civile, non solo le difficoltà economiche, ma anche quelle di ordine sociale, assumono proporzioni allarmanti e i bolscevichi sono costretti a procedere a un giro di boa nel governo del Paese. Mentre la maggioranza dei bolscevichi continua a considerare il “comunismo di guerra” un processo di transizione dal capitalismo al socialismo conforme alle particolari condizioni russe, Lenin si rende conto che non è più possibile proseguire su tale percorso politico, sia per la drammatica situazione socio-economica, sia perché lo stato di guerra è ormai superato e la condizione di pace esige un mutamento di indirizzi. Perciò procede a una ritirata tattica e dà vita alla Nuova politica economica (Nep). 4.4 – La Nuova politica economica (Nep) Nel ’21, al fine di assicurare la sopravvivenza del regime, Lenin, fa due passi indietro, come lui stesso precisa, e mette in campo una nuova politica economica. Nel presentare al 10° congresso del partito il progetto della Nep, attribuisce il “comunismo di guerra” ai sognatori e in un successivo discorso spiega che esso è stato “imposto non da ragioni economiche, ma da necessità, considerazioni e condizioni militari”. E sostiene che per affrontare la situazione disperata in cui si trova la Russia, è necessario fare concessioni sia al mondo contadino che al capitalismo straniero presente nel Paese, anche a costo di rinunciare ai principi rivoluzionari. A suo giudizio, questa è la condizione per ridare slancio allo sviluppo delle forze produttive in un’economia che non è ancora pronta per l’edificazione del socialismo. Durante l’esperienza del “comunismo di guerra”, Lenin si è in effetti reso conto che la trasformazione della rivoluzione democratica in rivoluzione socialista è un’impresa molto più complessa di quanto avevano supposto gli stessi Marx ed Engels e si è convinto che il socialismo costituisce necessariamente la tappa successiva al capitalismo di Stato. “Noi non possiamo con la nostra propria forza ricostruire la nostra sconvolta economia senza attrezzatura e assistenza tecnica dall’estero”, ammonisce. E allo scopo di ottenere gli aiuti necessari dichiara di essere disposto a dare estese concessioni “ai più potenti trust imperialistici” e anche alla componente contadina del popolo. E’ del resto solo attraverso la Nep che è possibile conseguire una rianimazione degli elementi capitalistici che pur in presenza di un governo socialista restano attivi.

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Al fine di garantirsi il potere, il 10° congresso del partito s’impegna ufficialmente, attraverso le sue organizzazioni centrali e locali, a mantenere come in passato la piena e completa direzione ideologica. Del fatto che la nuova politica costituisce una ritirata strategica, Lenin non solo ha piena consapevolezza, ma lo ammette senza sotterfugi definendola una “necessità menscevica”. In effetti, ciò che egli propone è un modello di economia mista, dal momento che i settori trainanti (l’industria su larga scala, gran parte del commercio all’ingrosso, il commercio estero), pur essendo controllati dallo Stato, devono agire secondo le leggi di mercato. Il mercato al minuto, quello cioè dei beni di consumo, è cosa invece ormai acquisita considerato che, richiamandosi a Marx, i bolscevichi hanno da sempre ritenuto compatibile la sua esistenza nel “primo periodo del socialismo”. Viene anche riammesso il guadagno privato come forza motivazionale dello sviluppo, anche se vengono varate norme giudiziarie per contenere i suoi effetti negativi. Di fatto la Nep rappresenta una retromarcia rispetto alle misure introdotte con il “comunismo di guerra” e sancisce l’introduzione del capitalismo di Stato. Oltre alla grave situazione che si è determinata nel Paese, a giustificare la sua attuazione è anche la mancata rivoluzione in Occidente che ha fatto venire meno quelle condizioni internazionali di solidarietà su cui la Russia dei soviet aveva fatto conto di poter ricorrere ai fini del suo sviluppo. Con l’applicazione di questa nuova politica economica la direzione del partito viene però accusata dalla base di abbandonare il comunismo e di fare concessioni ai contadini a spese del proletariato. Nel file del partito si allarga l’opposizione e si determinano significative divisioni. Mentre Bucharin considera la Nep una “prospettiva a lungo termine” e un ”meccanismo per portare avanti l’industrializzazione”, per combinare la pianificazione con il mercato e per far coesistere il settore pubblico con quello privato, l’opposizione di sinistra l’avversa rivendicando, oltre al ristabilimento della democrazia, la collettivizzazione progressiva e volontaria dell’agricoltura, sulla base dello sviluppo di cooperative di produzione create dai contadini poveri, e si batte per la fornitura delle macchine agricole ai primi kolchoz. A molti degli stessi bolscevichi questa nuova politica appare come una resa al capitalismo. In effetti essa è in contrasto con le speranze di avanzata rapida verso il socialismo ponendo termine alla fase utopistica della rivoluzione russa. La decisione presa al 10° congresso del Pcus di procedere al varo della Nep è, del resto, dettata da necessità impellenti, in primo luogo, dall’urgenza di sostituire le requisizioni contadine con una tassa in natura; provvedimento che non risulta per nulla di facile esecuzione, non esistendo le condizioni di una consapevole elaborazione programmatica. L’assenza di tempo per dare corso a una tale operazione in maniera ponderata fa sì che non ci si preoccupi delle implicazioni che essa comporterà. Come nel dare corso al “comunismo di guerra” i bolscevichi non avevano calcolato le conseguenze dell’abolizione della moneta e del baratto, ora che si tratta di integrare la politica di piano con quella di mercato, di ritornare a una pratica bancaria ortodossa per finanziare l’industria e alla tradizionale politica di bilanciamento delle spese governative, essi affrontano i problemi con una generale inesperienza. I soggetti che in questa fase vengono chiamati a dirigere la si dimostrano sprovvisti delle più elementari nozioni dell’economia. Non è un caso che per conseguire alcuni risultati apprezzabili ci vorranno molto tempo e molta pazienza. L’applicazione di questa nuova politica economica, come abbiamo già detto, è resa necessaria dalla grave situazione di crisi in cui versa il Paese e uno dei banchi di prova della sua validità è rappresentato dalla questione contadina. La prima tappa della rivoluzione ha visto marciare insieme il proletariato con la classe contadina nel suo insieme contro i grandi proprietari feudali, mentre ora il tentativo di attuare il socialismo con i soli contadini poveri si dimostra vano e il governo deve ricorrere al compromesso. Il primo provvedimento della Nep è appunto la sostituzione delle requisizioni delle eccedenze con l’imposta in natura che comporta lo scambio di merci. La nuova politica agraria punta ad accrescere i rifornimenti dei generi alimentari attraverso l’inserimento di incentivi e con lo sviluppo del commercio, il che richiede, sul piano finanziario, la stabilità della moneta. Al contadino viene 105


riconosciuto il diritto di scegliere la forma di godimento della terra e garantito il possesso; misure queste che, anche se viene lasciato sopravvivere il mir, pongono fine a quanto ancora rimaneva delle tendenze egualitarie. Non solo, infatti, questa politica mal si concilia con le forme di coltivazione collettiva che sono state promosse subito dopo la rivoluzione, ma riabilita e incoraggia i kulaki a svantaggio dei contadini poveri e rimette in moto le forze del capitalismo contadino piccolo-borghese. Compaiono così i nepmen, cioè nuove figure di imprenditori e di commercianti che, unitamente ai burocrati e ai dirigenti industriali, formano un nuovo strato sociale privilegiato. A seguito di questi provvedimenti, mentre nell’agricoltura si registra una rapida ripresa economica, nell’industria il processo di sviluppo procede in modo assai più lento e in maniera difforme. Da questo squilibrio nasce una controversia sul problema dei rapporti fra agricoltura e grande industria, reso complicato dal fatto che la situazione richiede uno sviluppo della piccola industria. La Nep si propone perciò di sviluppare le forze produttive autorizzando le imprese a comprare e vendere sul mercato libero e questo “passaggio ai principi commerciali” avviene a vantaggio della piccola produzione privata, di quella agricola e artigiana, e a detrimento dell’industria pesante. Del resto, solo uno sviluppo dell’economia diffusa può assicurare un incremento della produttività che è la condizione essenziale per l’edificazione del nuovo sistema. Inaugurando la Nep, Lenin non manca di sottolineare la necessità che le fabbriche del settore statale debbano vantare un bilancio attivo, il che comporta una loro riorganizzazione tale da evitare un dispendio di risorse, soprattutto in retribuzioni che devono essere vincolate agli indici della produttività. Tutte queste misure fanno sì che la grande industria non sia più la beniamina dello Stato proletario e che anch’essa si trovi nella necessità di riorganizzarsi per fronteggiare gli imprevisti della libera concorrenza. Avviene così che l’intero settore industriale, riorganizzato in base alle dinamiche della produttività, funziona secondo i principi capitalistici e conseguentemente produce i fenomeni della disoccupazione, mentre le aziende, per mantenersi competitive, ricorrono spesso al taglio delle retribuzioni. Con la Nep nascono i raggruppamenti di imprese operanti nel medesimo ramo di produzione, cioè i trust, i quali non sono sottoposti all’amministrazione diretta degli organi governativi, ma sono responsabili della propria contabilità commerciale e hanno la facoltà di fissare i prezzi. Nel ‘22 si contano 421 trust che raggruppano in media una diecina di aziende fornendo, a detta del governo, una soluzione al problema dell’organizzazione razionale del lavoro. Ad amministrare le singole aziende sono, come abbiamo già detto, i glavki i quali vanno a comporre la nuova burocrazia di Stato. Sempre nel ’22, l’industria statale occupa 3 milioni di lavoratori contro i 70.000 lavoratori dipendenti dalle industrie private e in concessione. L’introduzione dei rapporti di mercato imprime un ritmo di sviluppo accelerato non solo alle attività agricole e industriali, ma anche a quelle della piccolissima impresa e delle attività domestiche creando, soprattutto nel commercio, uno strato di piccoli imprenditori privati che si affiancano agli organi statali e alle cooperative. Anche se il commercio privato non è mai cessato, essendo autorizzato nei mercati e sopravvivendo anche in forme clandestine, l’incoraggiamento dato alla libera distribuzione al minuto rappresenta una brusca svolta rispetto al “comunismo di guerra”. Il proliferare dell’iniziativa privata suscita un’avversione tale nel partito e nell’opinione pubblica da indurre Lenin a ribadire ufficialmente, in una lettera al commissario del popolo alla giustizia, un principio fondamentale della legge sovietica e cioè: “Noi non riconosciamo nulla come ‘privato’, e consideriamo ogni cosa che si colloca nella sfera economica come appartenente al diritto pubblico e non privato”. Di fatto però l’iniziativa privata è riconosciuta. Nel 1923, in tutto il Paese sono presenti 25.000 cooperative di consumo e 30.000 negozi cooperativi. Lo stesso Lenin riconosce che le cooperative sono controllate da elementi piccoloborghesi i quali, sapendo “organizzare i negozi” in maniera appropriata, devono a suo avviso essere trattati con la stessa indulgenza che viene riservata agli organizzatori capitalisti dei trust. 106


Ovviamente, fin dall’introduzione della Nep, a giocare un ruolo dominante nel settore distributivo sono le cooperative di consumo, di approvvigionamento, di vendita e di credito. “La cooperativa dei piccoli produttori di merci – precisa sempre Lenin – genera inevitabilmente rapporti capitalistici piccolo-borghesi”, ma “il semplice sviluppo della cooperazione si identifica per noi … con lo sviluppo del socialismo”. Con la Nep vengono assoggettati a imposta i vini, i liquori, il tabacco, la birra, i fiammiferi, il miele e le acque minerali. Viene pure introdotta un’imposta pro capite (“imposta generale sul cittadino”) destinata al soccorso delle vittime della carestia e pure un’imposta di reddito studiata per colpire i guadagni delle cosiddette professioni libere (medici, avvocati, scrittori, ecc.). Ancora nel ‘23 si registra la “crisi delle forbici”, cioè i prezzi cominciano a differenziarsi a favore dei prodotti dell’industria rispetto ai prodotti dell’agricoltura. Questo avviene a causa delle dinamiche di mercato le quali incoraggiano le industrie leggere produttrici di beni di consumo a spese dell’industria pesante che esige finanziamenti di non facile reperimento. A un certo punto la situazione diviene tanto preoccupante da far dire al capo dei bolscevichi che “se non troveremo questi sussidi, saremo perduti, non dico come Stato socialista, ma come Paese civile”. Al momento dell’introduzione della Nep in Russia non esistono istituti di credito all’infuori della Sezione cooperativa del Narkomfin. La nuova Banca Statale della Gosbank, infatti, apre i battenti solo nel novembre del ‘21 e le sue risorse sono assai limitate, mentre i tassi risultano eccessivi. Oltretutto, i prestiti concessi vengono gravati non solo degli interessi, ma anche di una “percentuale assicurativa” in ragione dell’8% al mese per gli enti governativi, del 10% per le cooperative e del 12% per le aziende private. Il sistema del credito, dunque, incontra grosse difficoltà proprio nella fase in cui viene incoraggiata l’iniziativa dei privati. Si rimedia alla difficile situazione aprendo casse di risparmio e stimolando il risparmio. Per raccogliere le risorse finanziarie occorrenti viene anche istituita una lotteria di Stato. La Russia dei soviet ha bisogno estremo di macchinari e attrezzature di ogni genere e, in conseguenza della carestia del ’21, anche di viveri. In qualità di Paese esportatore, ha poco da offrire in cambio se si fa eccezione del legname grezzo, delle pelli e di limitati quantitativi di lino; le sue risorse minerarie sono solo potenzialmente ricche perché non sono ancora accessibili. Mentre viene messo a punto un progetto di concessioni straniere, Lenin considera urgente acquisire dall’Occidente locomotive e macchinari. Solo nel maggio del ’20, però, riesce a stipulare un accordo non ufficiale con la Svezia che viene poi rinnovato e ufficializzato nel ‘22. Nel ‘21 la Russia vanta delegazioni commerciali ufficiali in Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Svezia, Norvegia, Germania, Cecoslovacchia, Austria, Italia, Gran Bretagna, Turchia e Persia. E alcuni accordi commerciali vengono siglati con la Gran Bretagna e con la Germania. Con la Persia, l’Afghanistan e la Turchia vengono invece stipulati dei trattati. Tra le importazioni considerate particolarmente preziose figurano 13 locomotive importate dalla Svezia e 37 dalla Germania. L’accordo anglo-sovietico rende inopportuna l’aperta propaganda che viene condotta contro l’imperialismo britannico e pure i trattati con la Persia e la Turchia sconsigliano una propaganda comunista che possa minacciare od offendere i rispettivi governi. Il Paese dei soviet è dunque costretto a pagare politicamente dazio. Naturale corollario della Nep è infatti una politica estera di conciliazione e compromesso con il mondo capitalistico. Non a caso l’esecutivo dell’Internazionale giustifica questa nuova politica come “l’espressione della soluzione del compito di incorporare lo Stato proletario nella catena delle relazioni internazionali”. In effetti, la speranza di Lenin è che la Nep (ma così lo stesso trattato di Brest Litowsk) possa servire a colmare la sfasatura di tempi all’interno di quel presunto processo internazionale secondo il quale il socialismo dei Paesi più progrediti avrebbe assicurato le condizioni per un più rapido sviluppo della società sovietica. Una speranza la sua che però è destinata a svanire presto. Dopo la proclamazione della Nep da alcuni dirigenti del partito, tra cui Stalin, Kamenev e Zinov’ev, viene posto in forse il principio del monopolio statale del commercio estero. Ad opporsi fermamente a questa ipotesi sono Lenin e Trotskij, i quali ritengono che la nuova politica non 107


implichi che le strutture dello Stato sovietico debbano essere completamente annullate e che l’economia ancora debole nel Paese sia messa in brusco contatto con la più forte e consolidata economia dei paesi capitalistici, con tutte le conseguenze che ne possono derivare. Dopo una simile presa di posizioni da parte dei due leader della rivoluzione, i contestatori incassano e si allineano mansuetamente. I numerosi processi di riorganizzazione della aziende danno luogo a un’estesa disoccupazione che, di fatto, comporta la creazione di un esercito di riserva. Il ritorno all’economia monetaria rende poi impraticabile qualsiasi politica salariale intesa come servizio sociale reso allo Stato dal cittadino e mette pure in crisi il sistema retributivo fondato sui beni in natura. In meno di un anno la Nep ha in sostanza ricreato le condizioni di scambio e i rapporti sociali caratteristici dell’economia capitalistica. Nel libero mercato del lavoro vengono introdotti i procedimenti di assunzione e di licenziamento della manodopera i quali sono fatti gestire ai sindacati che perdono così la loro indipendenza e autonomia e si fondono nello Stato e nel partito trasformandosi in organismi di potere. Viene riveduto anche il codice del lavoro e, seppure cautamente, viene riconosciuto il diritto di sciopero e formate le commissioni di arbitrato. La situazione risulta a tal punto cambiata che al congresso dei sindacati Tomskij, uno dei suoi massimi dirigenti, può permettersi di sostenere che, “dal punto di vista degli obiettivi generali della classe operaia”, lo sciopero dei ferrovieri è da considerarsi inammissibile. La risoluzione votata dai delegati si limita invece a far presente che è dovere dei sindacati intraprendere “la rapida liquidazione” di ogni sciopero che si verifichi “spontaneamente o contro la volontà degli organi sindacali”. La Nep raggiunge il suo punto più alto di sviluppo nel 1925, dopo di che le cose incominciano a complicarsi. Il regime agrario creato nel dicembre del ‘22, durerà poco meno di un decennio, ma per l’intero periodo sorgerà la controversia relativa ai rapporti fra agricoltura e grande industria. Le differenze di opinioni produrranno incongruenze ed eccessi nella gestione dell’economia e daranno luogo a duri scontri nel partito. Mentre Trotzkij e Probrazenskij tendono ad attribuire al proletariato industriale l’egemonia dello sviluppo, Bucharin lancia ai kulaki la parola d’ordine “arricchitevi!”, slogan che risulta di troppo allo stesso Stalin del quale egli è peraltro suo stretto collaboratore e fedele alleato. Bucharin, che tra il ‘24 e il ‘28 assume il ruolo di teorico del partito, è un personaggio politicamente eclettico. A riguardo delle difficoltà di quel periodo scrive: “Ma forse è nostro destino perire non sotto gli attacchi di un nemico esterno, ma per la nostra stessa arretratezza... non ricevendo aiuto tattico ed economico dal proletariato vittorioso degli altri paesi? Simili affermazioni, che esprimono la più profonda sfiducia nelle forze della nostra rivoluzione, sono assolutamente false e non hanno alcun fondamento. …Le forme del nostro socialismo nel prossimo periodo della sua costruzione saranno inevitabilmente le forme di un socialismo poco evoluto, ma questo non è un guaio”. Difatti, egli vede nel razionamento dei beni di prima necessità, a causa della loro carenza, una forma anticipata, anche se spartana, della società ideale comunista. Nonostante la presenza di ostacoli sempre maggiori, la nuova politica economica ha dato vita a un sistema di insegnamento che ha permesso la formazione di una élite scientifica e tecnica molto ampia e capace di sviluppare un pensiero razionalistico analogo però a quello dell’Occidente. E questo è avvenuto per certi versi a dispetto dello stesso partito la cui aspirazione era quella di creare “l’uomo nuovo”, cioè un soggetto la cui concezione del mondo fosse quella del “proletariato rivoluzionario”. Obiettivo questo che non gli è riuscito allora e non gli riuscirà mai. La Nep durerà fino al ‘28, cioè fino a quando Stalin darà corso ai piani quinquennali. 4.5 – L’attuazione della dittatura bolscevica Prima del 1917, la Russia aveva conosciuto solo un tardo e ristretto parlamentarismo che escludeva la maggioranza del popolo dalla partecipazione elettorale. Fondamento dell’apparato dello Stato era 108


la venerazione dell’autocrazia e l’oppressione dei sudditi. Mezzo secolo prima, nel 1864, lo zar Alessandro II aveva riordinato i mir e le obscine e istituito i zemstvo (consigli provinciali), sostituendo così la vecchia amministrazione con un corpo di funzionari statali. Dopo la rivoluzione del 1905 venne istituita la Duma il cui corpo elettorale era suddiviso in sei curie (classi) comprendenti esclusivamente i ceti sociali benestanti. Solo con la rivoluzione del 1917 viene sancito il suffragio universale e il popolo è chiamato a designare i propri rappresentanti alla gestione del potere. Con il sistema elettorale stabilito dalle costituzioni sovietiche del ‘18 e del 24, nella elezione dei propri rappresentanti, al voto contadino viene attribuito un valore differente del voto operaio. Già prima della rivoluzione d’ottobre per eleggere un rappresentante ai soviet occorrevano 500 elettori per i soldati e 1000 elettori per gli operai. Per comprendere la sopravvivenza di queste disuguaglianze occorre tenere conto della singolarità della situazione in cui si trovano a operare i bolscevichi e la diversità degli stessi partiti politici russi e anche delle organizzazioni di massa (dai sindacati al movimento cooperativo, dalle associazioni alle leghe dei contadini), rispetto a quelli esistenti nei Paesi occidentali. La nuova democrazia si contraddistingueva dunque per una sperequazione che Lenin qualifica come un “furtarello”. A rendere plausibile l’attuazione della dittatura del proletariato in Russia concorre anche la specificità del sistema politico-istituzionale e lo Stato che Lenin realizza tramite l’insurrezione d’ottobre, trova giustificazione proprio nelle caratteristiche della società zarista e nelle sue ipoteche sulla società. Nel ’17, l’attribuire la funzione dittatoriale al proletariato, in presenza di una rivoluzione borghese, significava distaccarsi notevolmente dalle posizioni del marxismo tradizionale. Agli occhi di Lenin lo Stato borghese più democratico rappresenta pur sempre una forma di dittatura, mentre a rappresentare la democrazia socialista è la dittatura del proletariato. Proprio per questo egli è considerato, ed è da considerarsi, un revisionista. Come la gran parte dei marxisti russi, Lenin individua negli operai la “sola genuina forza rivoluzionaria” presente nella società russa e ritiene che la loro vittoria è inesorabile perché predeterminata dallo stesso sviluppo capitalistico. Secondo questa teoria, un potere conquistato dal proletariato per restare tale non può che essere un “governo degli uomini”, in un sistema di costrizione esercitata dall’immensa maggioranza nei confronti di un’esigua minoranza, in opposizione a un’amministrazione delle cose. E pensa questo nonostante che la società russa sia in larga maggioranza composta da contadini mentre il proletariato è un’esigua minoranza. La dittatura del proletariato non è intesa da Lenin come una necessità assoluta, bensì come prodotto specifico di una data situazione storica. Per un certo periodo, infatti, egli pensa seriamente alla possibilità di instaurare il potere sovietico attraverso un pacifico e graduale trasferimento di funzioni dal governo provvisorio ai soviet. Questo proposito gli viene però impedito dall’acutizzarsi della situazione e dagli insanabili contrasti che insorgono con i partiti alleati della sinistra. La dittatura del proletariato è poi da lui concepita sul piano teorico come una forma statuale, precisamente l’ultimo Stato in quanto procedendo all’appropriazione collettiva dei mezzi di produzione esso firma, a scadenza più o meno lunga, la sua sentenza di morte in quanto tale. E a questo tipo di Stato particolare corrisponde il potere dei soviet che è da lui considerato appunto la componente fondamentale della dittatura del proletariato. Qualche tempo prima dell’ottobre Lenin scrive che “i soviet, prendendo il potere, potranno ancora oggi assicurare lo sviluppo pacifico della rivoluzione, l’elezione pacifica dei deputati da parte del popolo, la lotta pacifica dei partiti in seno ai soviet, la verifica pratica del programma dei vari partiti, il passaggio pacifico del potere da un partito all’altro”. E successivamente, ne “I compiti immediati del potere sovietico”, egli precisa che “il potere sovietico non è altro che la forma organizzativa della dittatura del proletariato, della dittatura della classe più avanzata, che eleva a una nuova forma di democrazia, alla partecipazione autonoma al governo dello Stato, decine e decine di milioni di lavoratori e di sfruttati”.

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Lenin considera dunque la dittatura del proletariato, un espediente temporaneo, necessario solo fin quando i residui del potere borghese non siano stati distrutti. In nessuno dei suoi scritti, peraltro, accenna alla dittatura del proletariato come a un sistema monopartitico. Il regime leninista comincia ad essere edificato, infatti, non come sistema monopartitico, tanto è vero che la sua prima promessa è di trattare con spirito tollerante tutti i partiti che non combattono con le armi la rivoluzione: per tutti questi partiti deve esserci posto nel quadro della nuova democrazia sovietica. Smentisce questo solenne impegno solo quando è costretto a lottare per l’esistenza della rivoluzione e per la propria. Corrisponde invece al vero il fatto che è lui stesso a limitare la democrazia interna al partito, la quale verrà poi abolita da Stalin. E che è ancora lui, anzitempo rispetto a quanto verrà reso ufficiale dal suo successore, a ritenere possibile il socialismo in un solo Paese, giustificando questo convincimento con l’ineguaglianza dello sviluppo capitalistico. Il periodo che va dalla rivoluzione d’ottobre alla morte di Lenin può essere suddiviso in tre fasi e cioè: quella dell’accrescimento e concentrazione dell’autorità del partito nella mani di pochi; quella della trasformazione del partito da organizzazione rivoluzionaria diretta al rovesciamento delle istituzioni esistenti in nucleo dirigente di un apparato governativo e amministrativo; quella, infine, del conseguimento di una posizione di monopolio mediante l’eliminazione degli altri partiti. Va ricordato che l’atteggiamento di Lenin nei confronti dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi appare problematico sin da prima della rivoluzione d’ottobre. I bolscevichi non riconoscono come progressivi certi contenuti programmatici di questi due partiti e con essi mantengono rapporti esclusivamente tattici. Del resto, solo alcuni socialisti-rivoluzionari di sinistra partecipano all’assalto del “Palazzo d’inverno” e quando i bolscevichi assumono il potere possono contare sull’appoggio di una parte esigua di socialisti rivoluzionari di sinistra, gli stessi che inizialmente rifiutano di entrare a far parte del governo. Essi, infatti, temono di determinare una rottura con la democrazia borghese, e pertanto accettano di entrare solamente in alcune commissioni, oltre che nel comitato rivoluzionario militare centrale e in quelli locali. Solo ai primi di dicembre sette socialisti-rivoluzionari di sinistra entrano nel Sovnarkom (Consiglio dei commissari del popolo; organismo questo al quale è affidata la gestione dei singoli settori della vita dello Stato, attraverso commissioni dirette dai commissari del popolo e in stretta unione con le organizzazioni di massa degli operai, delle operaie, dei marinai, dei soldati, dei contadini e degli impiegati). E’ bene ricordare che l’istituzione di questo Consiglio non comporta l’eliminazione dei vecchi ministeri, la cui sopravvivenza è giustificata dalla non facile transizione dal vecchio al nuovo regime la quale pone il nuovo apparato in uno stato di subordinazione al vecchio. I singoli socialisti rivoluzionari di sinistra, al contrario dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari di destra che abbandonano dimostrativamente il 2° congresso dei soviet, rimangono in tutte le organizzazioni sovietiche. Mentre i bolscevichi affrontano le questioni sollevate nel congresso con lo spirito di rafforzare la rivoluzione socialista e accelerare lo sviluppo dell’edificazione socialista, i socialisti rivoluzionari, al pari dei menscevichi, dei disfattisti e dei dogmatici di ogni genere, considerano tutte le questioni del congresso dal punto di vista della “illegalità” della rivoluzione socialista e si dimostrano scettici sul successo del socialismo in Russia. A riguardo di questa loro condotta Lenin commenta: “Quando ci parlano della difficoltà del nostro compito, quando ci dicono che la vittoria del socialismo è possibile soltanto su scala mondiale, vediamo in questo null’altro che un tentativo, particolarmente disperato, della borghesia e dei suoi volontari o involontari fautori di deformare la più inconfutabile verità”. Seppure egli abbia un atteggiamento critico verso gli alleati, nei primi mesi dopo la rivoluzione, egli sollecita la presenza di due partiti non bolscevichi nel regime di dittatura del proletariato: i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, che appunto aderiscono al suo invito. Quando si impegnerà a garantire la legalità anche a chi non ha risposto positivamente al suo appello, dovrà far fronte a una serrata opposizione di una parte del suo stesso partito. Dopo che il Sovnarkom, a causa dei legami del partito cadetto con la guerra civile scatenata da Kornilov e Kaledin contro il governo rivoluzionario, ha approvato il decreto di arresto dei capi delle 110


forze che si oppongo alla rivoluzione, sia i socialisti rivoluzionaria che i menscevichi questi due partiti continuano a svolgere in piena legalità la loro attività politica. Non solo, essi mantengono salde le posizioni di potere che vantano nel tessuto sociale sovietico e persino negli apparati dello Stato. Ai socialisti di sinistra, difatti, è stata affidata la direzione della sezione contadina del VTslK (Comitato esecutivo centrale panrusso dei soviet) il cui apparato è formato quasi esclusivamente da socialisti rivoluzionari e da menscevichi. Non ha pertanto fondamento la tesi di chi insinua che Lenin non abbia voluto e non abbia sperimentato un rapporto di alleanza con i socialisti e con i menscevichi. La vicenda dei bolscevichi è assai meno intricata di quanto la raccontano molti storici e politici la cui funzione è solo quella di mettere in cattiva luce il leader rivoluzionario russo. E’ semmai vero che il periodo che va dal 25 ottobre ’17 al febbraio ‘18 è caratterizzato da una massiccia azione repressiva da parte dei bolscevichi nei confronti degli esponenti di questi due partiti, e questo avviene dopo che essi hanno deciso di praticare in maniera sistematica il sabotaggio nei ministeri e intralciare la trasformazione dei soviet in organi di potere. Nella relazione dell’ufficio contadino del VTslK pubblicata nel 1918 si rileva: “Con i fondi assegnati alla sezione contadina dal potere sovietico, i socialisti-rivoluzionari di sinistra hanno cominciato a stampare con grandi tirature e a diffondere pubblicazioni che nelle campagne minano la fiducia verso questo potere, pubblicazioni piene di critiche più che tendenziose e disoneste nei riguardi delle azioni e delle disposizioni del Sovnarkom”. Il tentativo dei socialisti rivoluzionari è infatti quello di conquistare la maggioranza nel VTsIK. Oltre a dover contrastare il boicottaggio e l’opposizione dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi, i bolscevichi devono fare i conti con il fatto che gli zemstvo e le Dume cittadine quasi ovunque sono nelle mani della borghesia la quale crea in queste istituzioni un proprio stabile rifugio. L’inserimento degli zemstvo nel sistema dei soviet è un processo graduale e diviene quasi generale nei posti in cui i soviet si sono sufficientemente rafforzati e hanno subordinato a sé questi organi del governo locale. L’operazione di liquidazione degli zemstvo e delle Dume cittadine si protrae nel tempo (fino al giugno ’18) e l’azione di contrasto della presenza in essi dei controrivoluzionari risulta essere complessa e difficile. Difficoltosa a tal punto, che nella fase del passaggio del potere politico di questi organismi ai soviet, molte di queste istituzioni locali si trasformano in bastioni della controrivoluzione. Oltretutto, in questa fase di transizione, nell’apparato statale sovietico, oltre al dilagare di burocrati, penetrano elementi estranei alla rivoluzione, cioè avventurieri e concussionari. Si tratta di un processo degenerativo reso possibile anche a causa dell’atteggiamento moderato che lo stesso Lenin ha nei confronti del vecchio apparato. “Non è necessario spezzare quell’apparato e non si deve spezzarlo”, egli sentenzia, “bisogna strapparlo al dominio dei capitalisti, bisogna staccare, tagliare, strappare da esso i capitalisti”. In realtà, i capitalisti vengono “staccati”, ma i parassiti sopravvivono. Nello stesso apparato del comitato esecutivo centrale del congresso panrusso dei soviet, sono presenti dei funzionari che d’accordo con i dirigenti socialisti rivoluzionari e menscevichi favoriscono e organizzano azioni di boicottaggio nei confronti delle disposizioni del Sovnarkom. A partire dalla disfatta di Kornilov, si sviluppa poi un’aspra lotta attorno alla convocazione del congresso panrusso dei soviet. I dirigenti socialisti-rivoluzionari e menscevichi si propongono di far fallire il secondo congresso e poiché non sono riusciti nel loro intento, espellono dalle loro organizzazioni, “per grave violazione della disciplina di partito”, i 169 membri che sono rimasti al congresso: si tratta del gruppo dei socialisti-rivoluzionari di sinistra. Sull’onda di questa epurazione vengono espulsi, sempre da quel partito, anche tutti coloro che hanno partecipato alla rivoluzione d’ottobre o che l’hanno sostenuta. E questo nonostante che i bolscevichi si siano dichiarati interessati all’entrata di altri partiti sovietici nel governo creato dal congresso dei soviet e siano propensi a un accordo di principio con loro avente lo scopo di rafforzare il potere sovietico, vale a dire unificare i soviet degli operai, dei soldati 111


e dei contadini. I menscevichi e i socialisti rivoluzionari di sinistra, al contrario, cercano in tutti i modi di far fallire una tale intesa e si sforzano di sostituire il potere sovietico con una coalizione delle Dume, degli zemstvo e di altre organizzazioni che non rispecchiano affatto i sentimenti delle masse e che quindi non le rappresentano. Quando il partito di Lenin conferma comunque la sua disponibilità per un’intesa con i partiti che hanno abbandonato il congresso dei soviet, contro una tale risoluzione si pronunciano diversi dirigenti bolscevichi tra i quali Kamenev, Zinov’ev, Rykov, Miljutin e Nogin. Secondo Kamenev e Zinovjev ai socialisti rivoluzionari e ai menscevichi andrebbe riservata, nonostante tutto, la metà dei posti nel governo. Lenin si ritrova dunque a dover fronteggiare non solo gli avversari esterni, ma una parte non indifferente del gruppo dirigente del suo stesso partito. Dopo due mesi e mezzo dall’ottobre, il governo sovietico presenta il rapporto sull’attività svolta e Lenin fa un confronto tra le vicende della Repubblica sovietica con quelle della Comune di Parigi e così commenta: “Noi ci troviamo in condizioni molto più favorevoli, perché i soldati, gli operai e i contadini russi hanno saputo creare un apparato che ha fatto conoscere al mondo intero le forme della loro lotta: il governo sovietico. Ecco quello che innanzi tutto cambia la situazione degli operai e dei contadini russi in confronto al potere del proletariato parigino! I proletari parigini non avevano un apparato statale e il paese non li capiva; noi invece ci siamo appoggiati subito sul potere dei soviet e non abbiamo mai dubitato che il potere dei soviet godesse della simpatia e del più caloroso, più illimitato appoggio dell’enorme maggioranza delle masse, e che perciò fosse invincibile”. Ciò che è stato fatto nel breve lasso di tempo intercorso dalla presa del Palazzo d’Inverno, in effetti, è qualcosa di grandioso e la soddisfazione che il capo dei bolscevichi esprime è per certi versi giustificata. Dal punto di vista socio-economico e anche da quello della realizzazione della democrazia, la situazione della Russia sovietica continua però a essere molto complicata e densa di insidie. Già all’indomani della rivoluzione d’ottobre il Consiglio dei commissari del popolo aveva approvato e pubblicato una risoluzione, sottoscritta dallo stesso Lenin, sullo svolgimento delle elezioni dell’Assemblea entro il 12 novembre. La parola d’ordine “tutto il potere all’Assemblea costituente” diventa però non solo un proposito dei socialisti rivoluzionari, ma una ragione di lotta e di sfida degli stessi cadetti e dei seguaci di Kaledin. I controrivoluzionari, infatti, impegnati nella lotta contro i soviet, fanno uso dell’apparato elettorale che nelle province si trova nelle mani principalmente dei cadetti, dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi, per far eleggere i propri rappresentanti ricorrendo a sotterfugi di ogni genere, mentre la popolazione si perde nelle decine di liste dei vari partiti politici in lizza. Di fronte a una simile manovra, i bolscevichi oppongono ovviamente resistenza, ma si convincono anche che in un clima del genere l’Assemblea costituente rischia di diventare un contro altare dei soviet e della stessa rivoluzione, perciò denunciano le illusioni che vengono artatamente create attorno alla sua realizzazione e non esitano a paventarla come una possibile “fabbrica delle chiacchiere”. A quel punto, attorno alla parola d’ordine della difesa dell’Assemblea costituente si forma uno schieramento che raggruppa tutti i partiti controrivoluzionari, dai socialisti rivoluzionari ai menscevichi, dai clericali ai centoneri. Le elezioni dell’Assemblea costituente si svolgono tra novembre e dicembre e danno un esito decisamente sfavorevole ai bolscevichi. In la “Storia della guerra civile”, Krol e Kronenberg documentano come nelle 67 circoscrizioni si siano recati alle urne 44.433.300 elettori (cifra questa che risulta essere superiore di 8 milioni rispetto ai dati forniti da Svjatitskij). Secondo i calcoli del ministero degli interni del Governo provvisorio gli elettori sono circa 90 milioni e questo già ci dice che più del 50% degli aventi diritto al voto non hanno partecipato alla consultazione. Il partito dei bolscevichi riscuote appena il 25% dei suffragi, mentre i partiti della democrazia piccolo borghese (socialisti-rivoluzionari, menscevichi, ecc.) raccolgono il 62% e i partiti degli agrari e della borghesia il 13%. 112


Il partito bolscevico risulta primo partito nelle capitali Pietroburgo e Mosca e pure in una parte notevole dei capoluoghi di provincia della Russia e in quasi tutte le guarnigioni militari. Nelle zone rurali, in specie in quelle isolate, si registra invece la sconfitta dei rivoluzionari. Pur avendo ottenuto il 58% dei voti nel complesso del Paese, i socialisti rivoluzionari non hanno basi di appoggio né nelle città né sui fronti più importanti e neppure nelle guarnigioni. Il partito cadetto si deve accontentare del 4,7% dei voti. Quando il 5 gennaio del ’18 si riunisce l’Assemblea costituente, il bolscevico J.M. Sverdlov legge la “Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore sfruttato” e pone l’assise dinanzi a una scelta secca: o accettare la dichiarazione, e in tal modo riconoscere esaurita in sostanza l’attività dell’assise, perché il potere spetta ai soviet, o respingerla pronunciandosi apertamente contro il popolo, contro le conquiste della rivoluzione d’ottobre. Lenin non mette affatto in discussione l’utilità dell’esistenza dell’Assemblea costituente, la subordina però alla vittoria della rivoluzione socialista e la finalizza alla creazione di una democrazia più elevata. Questa posizione viene espressa chiaramente nelle risoluzioni della segreteria del comitato centrale del partito nelle quali viene specificato: “Siamo stati e siamo favorevoli ad un’Assemblea costituente che dia ai contadini la terra, a tutto il popolo il pane, a tutta la Russia la pace, e agli operai il controllo sulla produzione. Indubbiamente tale sarà l’Assemblea costituente che riconoscerà il potere dei soviet, il potere del Consiglio dei commissari del popolo”. Non tutto il gruppo dirigente del partito è concorde su questa linea: Kamenev, Miljutin, Rykov, Rjazanov ed altri ancora, esprimono un punto di vista differente, compiacente verso il fronte avverso e perciò questi dissidenti vengono criticati da Lenin e rimossi dalle cariche che ricoprono. Di fronte all’intransigenza dalla maggioranza degli eletti che si oppongono alle condizioni poste da Sverdlov, e quindi al riconoscimento del primato dei soviet sulla stessa Assemblea, i bolscevichi abbandonano l’assise e quella stessa notte (il 6 gennaio) il Sovnerkom approva il decreto del suo scioglimento. A seguito di questo atto, di fronte all’insorgere delle forze controrivoluzionarie e di alcuni focolai di rivolta sociale, Lenin decreta lo scioglimento dei partiti politici e, quale condizione per il mantenimento del potere sovietico, sopprime la libertà di stampa e il diritto di associazione e di riunione. Insieme a questi provvedimenti repressivi cancella pure alcune conquiste della stessa rivoluzione d’ottobre relative al ruolo della famiglia, quali il diritto al divorzio e all’aborto. La soppressione dei partiti e dei raggruppamenti di opposizione, la forte centralizzazione del partito bolscevico, il consolidamento del centralismo burocratico nella sua vita interna, la progressiva atrofia dei dibattiti e delle discussioni, contribuiscono inesorabilmente ad accelerare il processo di deperimento degli stessi soviet. Anche se il varo della Nep impone l’introduzione di un parziale pluralismo sociale, rendendo meno rigido e monolitico l’intero sistema della dittatura proletaria, l’osmosi tra le strutture del partito e dello Stato compromettono qualsiasi sviluppo della democrazia e del protagonismo di massa. 4.6 – La sterilizzazione dei soviet e il predominio del partito Nel maggio del 1968, in occasione della celebrazione del 150° anniversario della nascita di Marx, Michail A. Suslov, uno dei massimi teorici sovietici dell’epoca Breznev, ebbe ad affermare: “Un grande merito di Lenin nello sviluppo creativo della teoria di Karl Marx è consistito nella scoperta dei soviet come nuovo tipo di Stato”. E’ un’affermazione questa che corrisponde solo parzialmente a verità poiché offusca il ruolo che ebbero i mescevichi e i socialisti rivoluzionari nel dare vita e nel sostenere i soviet, almeno fino alla soppressione dell’Assemblea. In realtà, i bolscevichi per un certo periodo hanno avversato questi organismi e il merito che Lenin ha avuto non è certo quello di averli inventati, ma di averne scoperto l’utilità ai fini rivoluzionari. E poi l’affermazione di Suslov trascura la fine che i bolscevichi hanno fatto fare ai soviet. Torna perciò utile accennare sia pur brevemente alla loro genesi e al loro processo di evoluzioneinvoluzione. 113


I soviet nascono nel 1905, in occasione della prima rivoluzione russa, per iniziativa spontanea degli operai delle fabbriche di Pietroburgo e di Mosca nella fase in cui viene dato inizio agli scioperi. Nascono come strumenti di organizzazione della lotta e ad essi viene impedito l’accesso degli anarchici i quali, come è risaputo, hanno una visione alternativa del processo rivoluzionario. Ad assumerli come organismi di autogestione del potere socialdemocratico in opposizione al regime autoritario zarista, e a sostenerne lo sviluppo nei luoghi di lavoro, sono soprattutto i menscevichi i quali, negli anni successivi, attribuiscono a questi organismi il ruolo di strumenti di unificazione politica dei lavoratori e organi di autogoverno. Prima che Lenin assuma i soviet come istanze rivoluzionarie, i bolscevichi ne boicottavano l’azione e solamente con l’estendersi delle agitazioni operaie e popolari accettano di riconoscerli come comitati di sciopero. Successivamente gli attribuiscono la funzione di organizzatori delle lotte e solo con l’approssimarsi dell’insurrezione del ’17 li assumono come embrioni di un futuro governo rivoluzionario. Tra i bolscevichi è Trotzkij il primo a considerarli a pieno titolo come organismi artefici della rivoluzione e quindi come sedi di iniziativa politica del proletariato, dapprima come organi di contropotere, successivamente con funzioni statali. Nella visione rivoluzionaria di Trotzkij i soviet avrebbero dovuto essere il perno istituzionale della nuova società, il centro del nuovo potere. E’ sull’onda delle insurrezioni del ’17 che Lenin li trasforma da espressioni di “una dittatura allo stato embrionale” in organi di potere. Fino all’indomani della rivoluzione d’ottobre la maggioranza dei delegati dei soviet è nelle mani dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi. E’ solo nel gennaio ’18, con il 3° congresso panrusso dei soviet unificati (cioè dei soviet degli operai, dei soldati e dei contadini uniti) che i bolscevichi conquistano i due terzi dei delegati. Il comitato esecutivo centrale panrusso eletto da questa assise risulta infatti composto da 306 membri, di cui 160 bolscevichi, 125 socialisti rivoluzionari di sinistra, 2 menscevichi internazionalisti, 3 comunisti anarchici, 7 socialisti-rivoluzionari massimalisti, 7 socialistirivoluzionari di destra, 2 menscevichi difensisti. Nel soviet post rivoluzionario vengono unificate le funzioni del potere legislativo e di quello esecutivo. Il suo carattere classista esclude la presenza dei discendenti delle vecchie classi privilegiate, i cosiddetti lisentsy. Presso ogni organismo vengono creati un ufficio finanziario per l’autogoverno urbano e rurale, un ufficio tributario per le questioni della terra e un ufficio per la direzione generale. Nel sistema di questi nuovi organi di potere un posto importantissimo lo ricoprono le istanze destinate a dirigere il processo di formazione del metodo socialista di produzione, innanzi tutto nell’industria. Secondo la concezione di Lenin, i soviet non dovrebbero attendere le indicazioni dall’alto, ma agire di propria iniziativa. “Il potere è passato ai soviet – lamenta – ma localmente i compagni ancora non passano ai fatti, o se lo fanno non adempiono in pieno ciò che richiede il grande momento storico. La classe degli agrari e dei capitalisti è stata costretta dal governo a tirarsi indietro, ma in provincia ancora comandano i funzionari”. E denuncia che “certi soviet locali s’impiantano come repubbliche indipendenti”. Insomma, tra la strategia leniniana e la pratica sociale della stessa base rivoluzionaria russa si verifica una dicotomia che si rivelerà fatale sul piano del protagonismo sociale e della democrazia. E questo processo divergente matura nonostante che nessuna altra formazione politica, al di fuori del partito bolscevico, abbia la possibilità sul piano legale di darsi in seno agli stessi soviet una struttura organizzata e di competere per il potere. All’8° congresso del partito, nel marzo del ’19, infatti, viene sancito che “il Partito Comunista Russo deve acquistare l’esclusivo predominio politico nei Soviet e il pratico controllo su tutto il loro lavoro”. Nel momento in cui i soviet vengono chiamati a diventare organi di gestione della linea del partito e delle scelte governative, una ineluttabile crisi d’identità si abbatte su di loro. Da strumenti deputati alla costruzione non solo del movimento di massa, ma della stessa società russa con forte capacità 114


di critica dell’esistente, essi si trasformano in semplici istanze di mobilitazione popolare cui viene affidato il compito di fare ciò che viene stabilito dall’alto. E questo ridimensionamento di autonomia politica li trasforma in apparati amministrativi del sistema che soccombono al dominio della burocrazia. La loro originaria funzione viene rimpiazzata dalle strutture e dagli emissari del partito. Svuotati di contenuto politico, non più eletti dal basso i suoi delegati ma scelti dall’alto, i soviet vengono sottomessi agli organi esecutivi delle istanze superiori e si ritrovano nell’impossibilità di compiere una qualsiasi scelta tra diverse alternative politiche, economiche e sociali, incapaci di imporre limiti a un potere esecutivo che ormai non sente più la necessità di impegnarsi per conquistare il consenso alle proprie scelte da parte della società. E’ lo stesso Trotzkij, nel ’21, a dichiararsi colpevole del peccato “sostituzionalista”, cioè del fatto che il partito si sostituisce alla classe, riaccendendo così una polemica da lui già aperta con ardore in gioventù nei confronti di Lenin e dei bolscevichi. Ma ad avvertire questa stridente contraddizione tra principi e pratica sociale è lo stesso Lenin il quale, all’8° congresso del partito, denuncia: “A parole l’apparato sovietico è alla portata di tutti i lavoratori, in realtà è lontano dall’esserlo... occorre un immenso lavoro educativo”. E prosegue: “I soviet, che secondo il loro programma dovrebbero essere gli organi del governo esercitato dai lavoratori, sono in realtà l’organo del governo per i lavoratori esercitato dallo strato d’avanguardia del proletariato non dalle masse lavoratrici”. Se l’ideologia ufficiale sovietica non ammette la burocrazia, giudicandola una forma istituzionale dipendente da uno stato di necessità nel periodo della transizione, nei fatti, le funzioni dello Stato vengono svolte su scala sempre più vasta dagli apparati burocratici, sia al centro che in periferia. E seppure la giovane burocrazia venga inizialmente formata nello spirito di servire il proletariato, col passare del tempo essa diviene arbitro tra le varie componenti sociali. Analogo destino hanno le organizzazioni sindacali. Nel programma del partito bolscevico il ruolo dei sindacati viene teorizzato nel modo seguente: “La struttura organizzativa dell’industria socializzata deve poggiarsi in primo luogo sui sindacati… I sindacati, facendo parte, secondo le leggi della Repubblica Sovietica e la prassi stabilitasi, di tutti gli organi centrali e periferici della gestione dell’economia devono concentrare di fatto nelle loro mani tutta la direzione dell’economia in quanto omogenea totalità economica. I sindacati, intrecciando in tal modo un legame indissolubile tra l’amministrazione centrale, l’economia nazionale e le masse dei lavoratori, devono far partecipare direttamente le masse, su scala la più vasta possibile, all’amministrazione dell’economia. La partecipazione dei sindacati alla gestione dell’economia e l’inserimento in questo processo delle masse, costituisce nel contempo l’arma più importante nella lotta contro la burocratizzazione dell’apparato economico del potere sovietico e crea la possibilità di sottoporre i risultati della produzione al controllo effettivo del popolo”. Tuttavia, quasi sin dai primi tempi della rivoluzione, tra le prerogative formali e la realtà si viene a creare una frattura che col passare del tempo si aggrava fino al totale smarrirsi della funzione dei sindacati come uno degli elementi essenziali della democrazia socialista. Essi diventano uno strumento al servizio dello Stato e in primo luogo degli organi del partito (la famosa “cinghia di trasmissione”) e si burocratizzano. Si compie così il Termidoro sovietico! La critica che Rosa Luxemburg rivolge a Lenin si rivela dunque giusta: senza le libertà individuali e collettive i soviet sono destinati a veder vanificato il loro ruolo. E sì che questi nuovi organismi di democrazia diretta suscitano un fascino e un entusiasmo straordinari sugli oppressi di tutto il mondo! La repubblica dei soviet è considerata infatti dal mondo progressista una forma di democrazia più elevata rispetto a tutte le forme di repubblica borghese. I consigli degli operai, dei soldati e dei contadini costituiscono una novità storica rappresentando una nuova fase dell’emancipazione e della presa di coscienza dell’umanità e per questo vengono sperimentati ogni laddove il movimento operaio scende in lotta. Eppure, nonostante queste loro potenzialità, nel Paese in cui sono nati e sono giunti al potere 115


tradiscono le aspettative. Come si spiega questo loro deperimento? Non bisogna dimenticare che i bolscevichi hanno dovuto in via prioritaria lottare contro l’arretratezza della società russa, cioè contro il sottosviluppo, l’analfabetismo, la disoccupazione di massa, la fame; hanno dovuto affrontare le contraddizioni e le agitazioni sociali che questa drammatica situazione ha determinato; e poi che essi sono stati coinvolti in una sanguinosa guerra civile e impegnati all’estremo nel respingere gli attacchi esterni degli eserciti dei paesi capitalisti che, in coalizione, si proponevano di strozzare il potere dei “rossi” quando esso era ancora in fasce. Ebbene, in simili circostanze diventa quasi inevitabile una concentrazione di tutti i poteri politici ed economici in poche mani quando si è impegnati a costruire un nuovo ordine. E’ certamente in questo quadro di ostacoli che va ricercata la ragione del fallimento della strategia leniniana. Comunque le giustificazioni che derivano da una simile constatazione non possono assolutamente offuscare gli errori e le incoerenze che quel processo rivoluzionario ha fatto registrare. Una testimonianza in tal senso ci viene dal ruolo giocato in esso dallo stesso partito bolscevico e in particolare dalle sue tormentate vicende interne. Quello bolscevico è un partito che giunge al potere sulla base di un movimento la cui coscienza socialista è assai ristretta e che si trova sotto la pressione di gigantesche forze avversarie, con una base sociale proletaria molto esigua e con un’organizzazione formata quasi esclusivamente da quadri. Del resto, la linea di Lenin è perentoria: “L’organizzazione dei rivoluzionari deve comprendere prima di tutto e principalmente uomini la cui professione sia l’azione rivoluzionaria”. E un’organizzazione politica del genere, nelle difficili condizioni sociali ed economiche in cui è chiamata a operare, non può certo evitare di chiedere alla massa dei propri stessi iscritti una delega di fiducia, un’adesione in molti casi incondizionata e acritica. Non si dimentichi che, proprio perché inadeguato dallo stesso punto di vista quantitativo rispetto ai compiti immensi che si propone, in un solo decennio il partito di Lenin passa da 24 mila a 3 milioni di iscritti ed è conseguentemente invaso non solo da arrivisti e opportunisti, ma da una massa politicamente analfabeta e impreparata a dirigere i processi sociali. E già questo la dice lunga circa la coerenza tra i principi che esso proclama e l’azione pratica dei suoi militanti. Non vi è dubbio che uno dei meriti della rivoluzione sia stato quello di assicurare da subito, e non solo ai membri del partito ma all’intera popolazione, l’istruzione su larga scala, ma questa è un’operazione destinata a dare frutti nel tempo e non nell’immediatezza. Lenin raccomanda insistentemente che nel comitato centrale del partito venga accolto un maggior numero di operai e di contadini, e che questi vengano istruiti e addestrati in base ai criteri di gestione dell’amministrazione statale vigenti nei Paesi dell’Europa occidentale. E conduce poi una lotta politica instancabile contro il volontarismo estremista e contro l’insorgere del burocratismo, contro la stessa tendenza a trasformare la dittatura proletaria in dittatura del partito e ancora contro ogni tendenza a separare il partito e lo Stato dalle esigenze di vita e dalle aspirazioni del popolo. Ma i suoi propositi e le sue raccomandazioni non danno gli esiti sperati. Non sembra affatto fuori luogo ritenere che sia Lenin che Trotzkij compiano dei veri e propri errori di valutazione nel decidere di trasferire i poteri dei soviet all’apparato del partito. Essi non si rendono conto appieno del conseguente pericolo di smobilitazione e di crescente passività politica della classe operaia sotto l’effetto congiunto della carestia che ha colpito il Paese e delle privazioni che essa ha comportato. La stessa tendenza alla moltiplicazione della burocrazia nei gangli vitali del sistema viene da loro sottovalutata, anche se ne avvertono la pericolosità. E nemmeno di fronte alla rivolta di Kronstadt del febbraio-marzo 1921, quando la protesta contro la tirannia burocratica e centralistica provoca un conflitto armato tra i marinai e le truppe fedeli al bolscevismo, il gruppo dirigente del partito prende coscienza del deteriorarsi del rapporto di fiducia tra le masse e il governo. Lo stesso Lenin interpreta quell’insurrezione una “controrivoluzione piccolo borghese”. Di fronte alla parola d’ordine dei rivoltosi “soviet senza comunisti”, il X congresso del partito, anziché svolgere una seria riflessione sull’accaduto e sul malessere sociale che serpeggia ovunque, per iniziativa di Lenin, dispone di sciogliere tutte le frazioni esistenti nel partito. Un provvedimento repressivo questo che viene preso in risposta alla richiesta avanzata 116


dall’”opposizione operaia” di conferire tutte le funzioni economiche direttive ai sindacati, posizione che viene condannata come deviazione anarco-sindacalista. A questa rivendicazione che proviene dalle sue stesse file il partito risponde appunto con la censura e con molta arroganza: Noi, recita il comunicato del partito, “non abbiamo altro appoggio che milioni di proletari poco coscienti, spesso ignoranti, poco evoluti, analfabeti, ma che, in quanto proletari, seguono il loro partito”. L’opposizione di gruppi di sinistra che accusano di tendenze opportunistiche il gruppo dirigente sono del resto già presenti nella primavera del ’18, quando il partito prende il nome di “Partito comunista russo (bolscevico)” e lascia la vecchia sigla (Partito Operaio Socialdemocratico Russo) ai menscevichi. Fino al X congresso la presenza di questi gruppi di contestatori viene tollerata, dopo non più. Infatti, il processo di degenerazione democratica che porta alla eliminazione del pluralismo interno e che dà inizio alle repressioni che poi Stalin assumerà come regola, inizia allora. Dopo la liquidazione degli oppositori esterni è la volta della sparizione di quelli interni al partito che in brevissimo tempo viene spogliato di ogni traccia di effettiva democrazia. Una risoluzione votata da quel congresso vieta la costituzione di frazioni nel partito. Già a quel tempo non é comunque il congresso a eleggere il comitato centrale, ma la stessa direzione la quale, per mezzo del suo apparato, sceglie i delegati al congresso, decide e controlla le iniziative, seleziona gli organici. E’ con questi stessi criteri, con la medesima determinazione politica, ma anche con gli aspetti contraddittori che qui abbiamo messo in rilievo, che nel ’22 viene costituita l’Urss, cioè la Repubblica Sovietica Federativa Socialista Russa. Nelle discussioni e nelle proposte per la sua formazione compare infatti già da subito la tendenza centralizzatrice, cioè una resistenza a concedere l’autonomia sostanziale alle repubbliche composte da nazionalità “non grandi-russe”. I principi del centralismo democratico prendono corpo proprio nel corso della lotta contro il separatismo, il regionalismo e il campanilismo diffuso, fenomeni che si sviluppano anche in occasione delle controversie sulla distribuzione dei quadri nelle file del partito e negli stessi soviet, proprio nel tentativo di preservarsi dall’incombente centralismo burocratico. In questa fase Lenin sostiene il principio dell’autodeterminazione delle nazioni considerando questo diritto una potente leva della trasformazione rivoluzionaria. Egli sostiene che “il diritto delle nazioni all’autodecisione non significa altro che il diritto all’indipendenza in senso politico, alla libera separazione politica dalla nazione dominante”. E la costituzione della RSFSR conferisce il diritti di cittadinanza “senza alcuna fastidiosa formalità” agli “stranieri che lavorano entro il territorio della repubblica russa, purché essi appartengano alla classe operaia o alla classe contadina che non impiega lavoro salariato”. Poco tempo dopo, però, il diritto di autodeterminazione viene rimesso in discussione e abrogato sotto diversi aspetti. Il punto essenziale diventa un altro. “A parità di tutte le altre condizioni, il proletariato cosciente difenderà sempre lo Stato più grande. Lotterà sempre contro il particolarismo medievale e vedrà sempre con favore la più profonda coesione economica di vasti territori, sui quali possa dispiegarsi ampiamente la lotta del proletariato contro la borghesia… Il grande Stato centralizzato è un immenso progresso storico sulla strada che dal particolarismo medievale conduce alla futura unità socialista del mondo intero”, puntualizza lo stesso Lenin. Anche a questo riguardo e in questa occasione, dunque, egli dimostra di non assolutizzare mai i suoi convincimenti, ma di orientare la sua teoria e il suo agire secondo le opportunità delle circostanze. E’ così che il centralismo burocratico diventa il criterio su cui viene costruito il nuovo Stato dei soviet il cui carattere antidemocratico fa sì che molti suoi tratti rappresentino una continuità con lo zarismo. 4.7 – Le contraddizioni di Lenin su democrazia e Stato Lenin è senza dubbio un personaggio contraddittorio. Egli esalta la democrazia ma poi dà vita a un sistema a partito unico, magnifica i soviet ma realizza la dittatura, teorizza l’estinzione dello Stato

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ma costruisce un regime tra i più autoritari e repressivi che la storia moderna ci abbia fatto conoscere. Quale spiegazione dare a questo suo comportamento? Per cercare di chiarire le idee conviene considerare in modo un po’ meno superficiale il suo pensiero e la sua prassi a riguardo della democrazia e dello Stato. Qui mi limito appunto a qualche richiamo. Come ho già ricordato, Lenin intende la dittatura del proletariato come una forma di democrazia superiore a quella della borghesia, dal momento che essa rappresenta gli interessi della grande maggioranza del popolo e pone le basi del protagonismo di massa. Nel 1915 scrive: “Il proletariato non può vincere se non attraverso la democrazia”, ma deve formulare la sue rivendicazioni “in modo rivoluzionario e non riformista, non limitandosi al quadro della legalità borghese, ma spezzandolo”. Infatti – sostiene poi – “il capitalismo e l’imperialismo non possono essere rovesciati con riforme democratiche, nemmeno con le più ‘ideali’, ma soltanto con la rivoluzione economica; e il proletariato, se non si viene educando nella lotta per la democrazia, è incapace di compiere questa rivoluzione”. Quindi precisa che “il socialismo non può essere instaurato da una minoranza, da un partito… lo debbono instaurare decine di milioni di persone, quando impareranno a farlo da se stesse”. Per questa ragione insiste nell’affermare che compito prioritario dei bolscevichi è quello di accelerare il processo di apprendimento delle masse lavoratrici. E’ da questa concezione che scaturisce la tesi secondo cui tutto il potere statale deve appartenere ai soviet e che lui fa adottare dal 3° congresso degli stessi soviet e poi introduce nella costituzione dell’Urss. Nel periodo immediatamente precedente la rivoluzione d’ottobre, esattamente nei mesi di luglioagosto del ’17, egli scrive “Stato e rivoluzione”. Si tratta di un trattato fondamentale (sul quale svilupperò la riflessione nel capitolo relativo allo Stato) in cui egli critica a fondo il parlamentarismo, esalta l’esperienza della “Comune di Parigi”, teorizza l’estinzione dello Stato e afferma la supremazia dei soviet. Il governo come mezzo di potere del partito, il partito come centro di potere, di controllo e di coercizione, non esistono nell’esposizione di questo saggio. La massima attorno a cui sviluppa il suo ragionamento può essere così sintetizzata: “Più le funzioni del potere divengono funzioni del popolo intero, meno questo potere è necessario”. In “Stato e rivoluzione” Lenin si dice convinto che in regime socialista non sia necessaria alcuna tecnologia politica speciale: l’amministrazione dello Stato viene semplificata al punto tale da potersi risolvere in semplici compiti di contabilità e di controllo svolti “dagli operai armati, dall’intera popolazione armata”. Il sistema duttile e chiaro dei soviet permette allo Stato di trasformarsi pacificamente, di dissolversi e di deperire via via che la società compie la sua evoluzione economica e culturale. Vinti i capitalisti ed eliminati gli sfruttatori, tutti i cittadini diventano automaticamente i protagonisti della costruzione del loro destino. Lo scrittore Gilles Martinet ha definito “Stato e rivoluzione” un “libro estremamente utopico, in cui si sviluppano contemporaneamente una concezione antistorica della Comune di Parigi e una teoria piuttosto sorprendente della semplificazione delle tecniche di direzione nella moderna società industriale”. Può essere che una simile interpretazione sia azzeccata. Fatto è che dopo la presa del potere Lenin, sotto il condizionamento delle circostanze, dà corpo a un sistema che è in netta contrapposizione alle teorie da lui stesso formulate. Ciò che del modello ideale della Comune egli inserisce nel nuovo Stato in costruzione, è la concentrazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, ma con l’effetto non di accelerare il processo di estinzione dello Stato, bensì, al contrario, di dare corso al dominio del partito sull’intera società. Quel che a me pare debba comunque essere messo in evidenza sono la chiarezza e la forza che traspaiono da questo scritto con il quale, a poche settimane dall’assalto al Palazzo d’Inverno, egli progetta l’itinerario dell’azione rivoluzionaria che sta per intraprendere. All’obiettivo dell’estinzione dello Stato, del resto, non rinuncerà mai e, almeno sul piano teorico, lo ribadirà più volte dopo l’ottobre sostenendo che il nuovo apparato “permette di unire i vantaggi del parlamentarismo con quelli della democrazia diretta e immediata, cioè di riunire nella persona dei 118


rappresentanti eletti dal popolo il potere legislativo e il potere esecutivo” (“I bolscevichi conserveranno il potere statale?”). E ancora nel febbraio-marzo 1919 scrive: “Il compito storico della repubblica sovietica, tipo di Stato nuovo, di transizione verso la completa abolizione dello Stato, è il seguente…” e indica il percorso da seguire. Nel gestire il passaggio dallo zarismo alla repubblica dei soviet, Lenin fa pure leva sulla democrazia contadina e sostiene che “i contadini devono esigere di essere lasciati liberi di decidere essi stessi i loro affari, di discutere, di suggerire e istituire essi stessi nuove leggi. Devono rivendicare la costituzione di comitati contadini, liberi, elettivi”. Ai suoi occhi il movimento contadino costituisce al pari della classe operaia una delle forze motrici fondamentali della rivoluzione. Certo è che “Stato e rivoluzione” resta un’eloquente testimonianza del divario tra il “dire” e il “fare” del capo dei bolscevichi. Per un lungo periodo di tempo, prima, durante e dopo la rivoluzione, nel suo agire prevale sicuramente il metodo democratico. Egli è così rispettoso dei principi democratici che, nel pieno rispetto delle divergenze su singole questioni, anche molto gravi, risolve i più difficili problemi del potere sovietico mediante il metodo del confronto e della persuasione. Seppure in presenza di gravi dissidi, di lotte implacabili, di crisi dell’unità del partito, non un solo membro viene espulso dal gruppo dirigente del partito. E di esempi di questa sua disponibilità al confronto, del suo rispetto per la diversità di opinioni e della sua tolleranza, se ne potrebbero fare moltissimi. Nel 1917, alla Dichiarazione dei Diritti dei Popoli di Russia, su sua iniziativa viene fatto seguire uno speciale appello “A tutti i lavoratori musulmani di Russia e d’Oriente” in cui è tra l’altro detto: “Le vostre credenze e usanze, le vostre istituzioni nazionali e culturali saranno d’ora in poi libere e inviolabili. Organizzate in completa libertà la vostra vita nazionale: è vostro diritto”. Nel novembre del 1918, a Mosca si svolge un congresso delle organizzazioni comuniste musulmane e viene istituito un Ufficio centrale di queste organizzazioni. Va tenuto presente che, anche a quel tempo, l’islamismo si configurava come un’istituzione non solo religiosa, ma sociale, giuridica e politica, la quale regolava quasi in ogni dettaglio la vita quotidiana dei fedeli. Gli imam e i mullah avevano la funzione di giudici, legislatori, maestri come pure di capi politici e, qualche volta anche di capi militari. Lenin è convinto che ogni fase del processo rivoluzionario richiede l’adesione della maggioranza del popolo e che questa deve essere conquistata tramite il rispetto, l’ascolto e il confronto serrato, anche aspro e polemico. Egli dà perciò spazio al dissenso considerandolo necessario quale spia dei problemi, assumendolo come un valore preliminare, come fondamento di una unità che deve essere raggiunta ad ogni costo. Persino nei giorni più difficili della rivoluzione, ritiene normale la discussione anche aspra, sollecita la critica e ammette l’opposizione. Questa è una sua posizione di principio. E non è un caso che egli eserciti uno straordinario fascino sui militanti del partito e sugli stessi futuri quadri, operai e contadini, poiché in essi infonde fiducia e certezza trasmettendo una nuova visione dell’uomo e del mondo. Ciò che non accetta e non tollera è il dissenso come regola di vita del partito, perchè considera un suo uso “strategico” una minaccia all’unità delle masse. Nel corso della guerra contro i “bianchi” e l’assedio degli Stati capitalistici, egli si rende conto che la sopravvivenza della rivoluzione dipende soprattutto, e in maniera decisiva, dall’unità dei rivoluzionari, dalla centralizzazione del comando, dalla disciplina e dall’abnegazione di tutto il popolo. La maturazione di questo convincimento lo porta a sostenere che se libertà di critica significa difesa del capitalismo, tale libertà deve essere necessariamente soffocata. Già all’indomani della rivoluzione d’ottobre nelle scuole aveva fatto proibire l’insegnamento della storia russa: un fatto questo che già di per sé la dice lunga sul pluralismo delle idee. E’ però in seguito alla guerra civile, all’assedio delle potenze capitalistiche e alla constatazione del ritardo della rivoluzione mondiale che il suo atteggiamento subisce una modificazione. La sua 119


convinzione che la polemica sia la fucina della verità incomincia a quel punto a traballare. E con il moltiplicarsi delle difficoltà nella realizzazione del suo progetto rivoluzionario, il suo agire nei confronti di chi contesta si fa duro e intransigente. Incomincia a considerare qualsiasi oppositore interno al partito come un “opportunista” o un “traditore”, o un “piccolo borghese” o un “socialdemocratico o menscevico camuffato”; non comunque come portatore di proposte diverse e legittime. Di tali accuse sono oggetto gli stessi dirigenti bolscevichi come Kamenev, Zinov’ev, Rykov, Larin e altri ancora, allorché richiedono la costituzione di un governo di coalizione con i menscevichi e i socialrivoluzionari. E assume tale atteggiamento quando Bucharin si oppone alla sottomissione degli operai ai direttori d’azienda. Accusa i “comunisti di sinistra” di spirito piccolo borghese e di disobbedienza agli ordini dei dirigenti. Per sconfiggere il revisionismo adotta la tattica del rifiuto totale di qualunque contatto con gli elementi ideologicamente impuri e decreta l’espulsione degli eretici dal partito, anche a costo di rischiare una scissione. Nel ’21 bandisce la discussione collettiva delle politiche alternative e trasforma il centralismo democratico in centralismo burocratico. Già nel marzo del ’19, all’8° congresso del partito, Osinskij (Obolenskij) aveva denunciato la prassi secondo cui “i compagni Lenin e Sverdlov decidono degli affari correnti tra loro due”. Via via che la situazione si fa difficile, matura quel processo che sottrarrà al controllo della società la potente macchina dell’esercizio del potere statale sopprimendo le più tenui trecce di pluralismo politico. Alla concentrazione dei poteri nel partito corrisponde un processo analogo negli organi dello Stato. Anche sullo stesso problema della burocrazia Lenin manifesta una posizione contraddittoria: mentre è idealmente e teoricamente contrario ad essa, nei fatti ne avalla lo sviluppo dando così continuità a una delle peggiori caratteristiche dello zarismo. Venendo meno il pluralismo politico, risultando limitata la libertà di stampa e di riunione, essendo soppressa la libera lotta di opinioni nello stesso partito unico, la possibilità di protagonismo degli individui viene di fatto impedita e ad avere una funzione attiva sono esclusivamente i burocrati. Con la fine del “periodo eroico” i redditi e le condizioni di vita degli attivisti del partito incominciano a subire delle sostanziali modifiche. Mentre fino ad allora i loro compensi non potevano superare un determinato tetto, ora vengono liberalizzati e ai funzionari vengono riconosciuti privilegi, formali e non formali, del tipo negozi speciali, appartamenti più comodi, cliniche e case di riposo, il che provoca effetti negativi sul popolo, non tanto sul piano materiale, quanto invece in termini psicologici. E un tale processo ha inizio proprio negli anni precedenti la morte di Lenin. Eppure, il breve periodo che da Marx è stato chiamato “dittatura del proletariato” non ha assolutamente niente a che fare con l’accentramento del potere, con la repressione del dissenso, con il terrore. Come già abbiamo visto, la dittatura del proletariato era stata concepita dall’autore de “Il Capitale” come una democrazia che deve, non abolire, ma ereditare alcuni caratteri propri della rappresentanza democratica borghese, mutandoli di segno e allargando la cerchia dei suoi effettivi beneficiari; era intesa come una democrazia che ha il compito di rovesciare contro una minoranza, contro gli stessi borghesi, le discriminazioni sostanziali che essi hanno praticato contro la maggioranza dei cittadini mediante le regole di un elettorato fatto esclusivamente da maschi e selezionato in base al censo e all’alfabetizzazione. Sta di fatto che in Russia in luogo della dittatura del proletariato si realizza la dittatura del partito e in luogo dell’autogoverno delle masse si verifica il risorgere della burocrazia. Il programma originario della rivoluzione d’ottobre risulta capovolto. E tutto questo viene giustificato come misura indispensabile al mantenimento del potere. A detta di alcuni storici, Lenin sarebbe l’autentico creatore del totalitarismo moderno avendo sostituito il partito al popolo, avendo imposto l’ortodossia con la forza ed essendo ricorso a metodi coercitivi che prima aveva condannato.

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Secondo altri, egli avrebbe stabilito due principi fondamentali caratteristici del comunismo contemporaneo: il primo è che il socialismo si realizza per volontà illuminata di pochi; il secondo è che, nel corso dell’azione, non c’è principio ideale o dottrinale che non debba cedere al criterio dell’opportunità. Fra i critici più clementi c’è chi ritiene che egli abbia scambiato la società socialista e il suo Stato per una società in cui le classi sociali sono ormai già superate e perciò abbia presupposto l’esistenza di un grado di uguaglianza, di trasparenza e di adesione al suo progetto che in effetti non c’era. E questa sua visione utopistica avrebbe impedito che numerosi problemi di fondo venissero affrontati con la dovuta chiarezza teorica e le giuste misure politico-sociali. E ancora, c’è chi gli rimprovera di aver permesso, per tutta la fase iniziale della rivoluzione, e soprattutto durante la guerra civile, il “lusso della libertà”, cioè la tolleranza dei gruppi di opposizione e dei partiti, le frazioni in seno al partito che sono in fin dei conti le cause delle misure accentratrici e repressive che poi verranno prese. Che il suo atteggiamento sia contraddittorio, non solo nel rapporto prassi-teoria, ma sul piano stesso dell’elaborazione politica, è comunque un dato innegabile. Un esempio eloquente ci viene dalle sue riflessioni sull’uso della violenza. Se ai primi del secolo egli sostiene che “in linea di principio noi non abbiamo mai rinunciato al terrore, né possiamo rinunciarvi. Il terrore è come una di quelle azioni militari che possono risultare perfettamente vantaggiose e anzi essenziali in un certo momento della battaglia, in una certa situazione”, successivamente dichiara che “la violenza non può essere un mestiere; e a maggior ragione non può essere una necessità generale e assoluta quando al potere è la grande maggioranza”. E in polemica con gli esponenti della 2a Internazionale precisa che “il comunismo non si diffonde con la violenza... Dobbiamo fare in modo che i socialtraditori non possano dire che i bolscevichi pretendono di imporre il loro sistema universale, come se questo sistema potesse essere portato a Berlino sulla punta delle baionette dei soldati russi”. Fatta la rivoluzione, muta di nuovo posizione e per garantirle la sopravvivenza del sistema non esita a ricorrere ai metodi violenti. Dare una spiegazione a questa sua incoerenza non è cosa semplice. Occorre intanto aver presente l’eredità teorica e politica che in materia di rivoluzione il movimento operaio eredita dalle esperienze compiute dalla stessa borghesia nel ‘700 e successivamente; poi torna essenziale considerare il contesto storico-sociale entro cui il bolscevismo ricorre alla violenza. Si tratta di attenzioni e di memorie che non sempre gli storici (per non dire dei politici) hanno dimostrato di avere nel giudicare l’operato del capo dei bolscevichi. Se si passa in rassegna la storia delle rivoluzioni borghesi d’America e di Francia, infatti, si constata che la violenza è stata l’esercizio dominante di quegli avvenimenti. Quei rivolgimenti storici hanno provocato moltissime vittime e, guarda caso, non solo e non tanto appartenenti ai ceti sociali che poi ne sono stati beneficiati, ma nella stragrande maggioranza appartenenti al proletariato e al popolo. Il capo dei giacobini Robespierre, per esempio, ha teorizzato oltre che praticato la violenza sostenendo che “se l’attributo del governo popolare in tempo di pace è la virtù, l’attributo del governo popolare in tempo di rivoluzione è virtù e terrore insieme, ché virtù senza terrore è fatale, terrore senza virtù è impotente. Il terrore non è che pronta, severa, inflessibile giustizia; è, così, un’emanazione della virtù”. In pieno ’93, quando la Francia è accerchiata dalla Coalizione e lotta per la vita o per la morte, egli fa arrestare metà della Convenzione. E ancora, la Prima Repubblica si trasforma nella dittatura e quindi nell’impero di Napoleone I; la Seconda Repubblica, scaturita dalla rivoluzione del ’48, cede il posto alla dittatura bonapartista di Napoleone III. Si tratta di rivolgimenti istituzionali la cui leva è proprio la violenza. D’altronde, è la storia stessa a insegnarci che con il verificarsi o il profilarsi di una situazione di crisi, lo Stato liberale e democratico non ha mai esitato a trasformarsi in una dittatura aperta e persino terroristica. La violenza è stata all’origine di tutte le democrazie moderne, da quella inglese (con le sanguinosissime e lunghe guerre civili del Seicento, con l’esecuzione di Carlo I, con la lunga

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oppressione dei cattolici, con il ricorrente rischio della guerra civile nei primi tempi della rivoluzione industriale, in particolare fra il 1830 e il 1845) fino appunto a quella francese. Va poi ricordato che tutti i classici del liberalismo (Locke, Montesquieu, Hamilton, Mill, ecc.) prevedono in modo esplicito la sospensione delle garanzie costituzionali e il ricorso alla dittatura aperta per fronteggiare uno stato d’eccezione. Mazzini stesso teorizza “un potere dittatoriale, fortemente accentrato”, che provvede alla sospensione della carta dei diritti e che esaurisce il suo compito solo con il conseguimento dell’indipendenza e la vittoria finale della rivoluzione nazionale. Le diverse civiltà che si sono susseguite nel tempo, compresa la nostra, hanno spesso imposto proprio con la violenza ad altre civiltà dei valori che esse ritenevano universali, umani e che invece erano il prodotto secolare della loro cultura, della loro storia, della loro tradizione. E perché mai, e in nome di quale morale, sarebbe giusto mettere sotto processo i bolscevichi per essere ricorsi alla violenza nel difendere la loro rivoluzione e risparmiare invece dalle critiche le atrocità della borghesia? Va poi tenuto conto che i bolscevichi sono figli dello zarismo, cioè di una società che è intrisa di violenza dal momento che governa i suoi sudditi con mezzi coercitivi e repressivi. Le rivoluzioni del ’17, quella di febbraio e quella d’ottobre, dunque, non sono e non potevano essere un giro di walzer, ma sono state possibili – come tutte le altre rivoluzioni – solo grazie all’uso della forza. Precisa Lenin a questo proposito: “L’insurrezione è come il gesto di chi stacca da un ramo un frutto maturo. Tecnicamente è un gesto di violenza. Ma, fondandosi su una decisione maggioritaria, questa violenza non ha nulla di arbitrario e richiede soltanto un minimo di costrizione fisica... Al contrario, parlare di pacifismo puro per un potere di classe è una puerilità o una mistificazione”. Eppure, nei primi mesi il nuovo regime sovietico ricorre alla fucilazione in un solo caso, per di più attuato dai marinai nei riguardi di un loro compagno accusato di tradimento. Certo, viene poi creata la nuova milizia operaia in sostituzione di quella zarista e con essa la Ceka, la polizia politica, che ha lo scopo di stroncare il sabotaggio e le speculazioni. E questa organizzazione repressiva, nei primi sei mesi di vita, fa fucilare 22 persone. E’ la presenza delle azioni di terrorismo delle “guardie bianche” e delle truppe d’intervento straniere che costringe i bolscevichi a ricorrere al “terrore rosso” e a istituire i tribunali del popolo con il compito di celebrare “processi esemplari” contro chi si oppone al nuovo ordine. E’ del resto uno degli aspetti grotteschi di ogni rivoluzione politica quello di amministrare in modo arbitrario la giustizia nella fase del suo consolidamento. Nella Russia dei soviet i tribunali del popolo giudicano infatti non in base alle leggi emanate in precedenza dal vecchio regime, ma in base alla coscienza di chi costituisce il tribunale; e i giudici vengono scelti dal popolo tra chi sa dirigere una seduta e sa leggere e scrivere. Le pene previste consistono in multe pecuniarie, rimproveri pubblici, privazione della fiducia pubblica, lavori pubblici coatti, privazione della libertà; la pena di morte, per tutta una fase dopo la rivoluzione, non viene applicata, è esclusa per principio, e la massima punizione è costituita dalla detenzione in carcere. Solo quando il conflitto tra rivoluzionari e controrivoluzionari si fa cruento viene fatto ricorso al terrore. In parecchi casi sono proprio i tribunali del popolo a salvare i nemici della rivoluzione dalla giustizia sommaria emettendo sentenze in nome della repubblica russa, alcune delle quali suscitano meraviglia per la loro umanità. Ed è proprio in seguito all’offensiva controrivoluzionaria che Lenin muta atteggiamento e risponde alla forza con la forza. Lo storico russo Dimitri Volkogonov, che nel 1993 è stato presidente della commissione parlamentare russa incaricata di aprire gli archivi politici, così sintetizza gli esiti delle ricerche svolte: “Appunto dopo appunto, lettera dopo lettera, Lenin - il semi-dio che la gente (me compreso) ha venerato per settanta anni - appare per quello che era veramente: non la guida magnanime della leggenda, ma un tiranno cinico, pronto a tutto pur di prendere e conservare il potere. Checché ne dicano i nostalgici, fu lui il vero padre del terrore rosso, non Stalin”. Tra i vari documenti recuperati e resi pubblici vi è una direttiva di Lenin dell’estate del ’18 che 122


ordina la repressione di una rivolta dei kulaki contro le confische e nella quale è testualmente detto: “Impiccare (e dico impiccare in modo che la gente veda) non meno di cento kulaki, ricconi, sanguisughe conosciuti… Fatelo in modo che la gente tremi a centinaia di chilometri da lì”. Il primo campo di concentramento viene aperto otto mesi dopo la rivoluzione, cioè nel luglio ’18, a Sviajsk, nella regione di Kazan. Il 20 aprile ‘21, il Politburo presieduto da Lenin approva la costruzione di un campo destinato a dieci-ventimila prigionieri a Ukta. Qualcuno ha stimato che sotto Lenin siano morte nei campi di concentramento, o siano state giustiziate per antisovietismo, un milione di persone. Negli archivi del Pcus, tra le ultime lettere inedite di Lenin, ce n’è una indirizzata a Molotov riguardante le istruzioni per la lotta alla religione nella quale è detto: “Quanto maggiore è il numero di rappresentanti del clero reazionario e della borghesia reazionaria che a questo proposito si riuscirà a fucilare, tanto meglio sarà. Bisogna proprio adesso dare una lezione a questa gente affinché per qualche decina d’anni non osino neppure pensare a una qualsiasi resistenza”. Anche se, esaminando le teorie di Lenin sulla dittatura del proletariato dal 1920 in poi, si può convenire che, mano a mano che prevalgono i compiti non più della rottura rivoluzionaria, ma dell’edificazione e della direzione dello Stato sovietico, il suo agire si fa meno violento e la sua attenzione si sposta dall’intervento repressivo alla sollecitazione della capacità di direzione delle masse, resta il fatto che per difendere il potere bolscevico egli non tralascia di ricorrere alle maniere forti dando così inizio alla costruzione del moloch. A distruggere le basi ottimistiche su cui egli ha avviato la costruzione della società sovietica concorrono anzitutto due anni di guerra civile durante i quali l’esistenza del nuovo Stato viene messa quotidianamente in gioco, creando una situazione in cui il più stretto centralismo e la più severa disciplina costituiscono un’assoluta necessità. La lotta dei bolscevichi contro i “bianchi” e i loro alleati occidentali non è altro che una risposta, certamente crudele, alle perfide e sanguinose cospirazioni, alle rivolte e alle violenze dei capi militari controrivoluzionari sostenuti e finanziati dalla vecchia nobiltà, dagli agrari, dai kulaki e dalla borghesia. E’ poi da tener presente che, proprio a causa delle sue ataviche caratteristiche, per essere governata la società russa ha bisogno di una guida dall’alto e di una mano ferma. Se nel ’17 Lenin sostiene che ad amministrare Mosca può benissimo essere incaricata anche una cuoca, nel ‘21 si interroga: “Ogni operaio sa forse amministrare lo Stato?” e a questo interrogativo risponde che “la gente pratica sa che queste sono favole”. Di fatto, solo alcune migliaia di operai in tutta la Russia partecipano in quel momento all’amministrazione della cosa pubblica. Egli è poi costretto a fare i conti con “l’incultura semiasiatica” delle masse lavoratrici che per essere governate, paradossalmente, devono essere sottoposte a limitazioni democratiche e a restrizioni di libertà. Nel ‘23 egli ammette che “anche noi non abbiamo un grado sufficiente di civiltà per passare direttamente al socialismo, pur essendoci da noi le premesse politiche”. Quando poi il processo degenerativo investe lo Stato è la macchina burocratica, con la sua propria inerzia istituzionale, a opporsi oggettivamente alle misure rivoluzionarie. “Abbiamo ereditato il vecchio apparato statale e questa è stata la nostra disgrazia.... abbiamo una massa enorme di impiegati, ma non abbiamo un numero sufficiente di elementi preparati che possano effettivamente dirigerli”, ammette angosciato. E definisce la Russia sovietica come “uno Stato operaio con una deformazione burocratica”, lamentando che “non a noi appartiene questo apparato, ma noi apparteniamo ad esso”. La burocrazia, che non costituisce affatto una nuova classe di sfruttatori come qualcuno ha sostenuto, ma è piuttosto un casta privilegiata, si presenta infatti come una escrescenza cancerosa sull’organismo sociale soffocandone il protagonismo. La critica di Lenin è rivolta a tutte le istituzioni politiche del Paese, ma soprattutto alla “Ispezione operaia e contadina”, un commissariato del popolo diretto da Stalin incaricato del controllo e della direzione degli uffici economici e politici. Egli percepisce il pericolo obiettivo del burocratismo nella sua piena crudezza, avverte il rischio di estraniazione dell’apparato di potere e di una sua 123


trasformazione da strumento del popolo in una forza al di sopra di esso. Avverte il pericolo di una trasformazione degli organi dello Stato “da servitori della società in padroni della società”, come aveva ammonito Engels. E ricorda come nella storia sia accaduto più volte che, quando un popolo di minore cultura ne ha conquistato uno di livello culturale superiore, il popolo vinto ha imposto la propria cultura al vincitore. “Non è accaduto - si domanda - qualcosa di simile nella capitale della Repubblica federale russa, e non è avvenuto che i 4700 comunisti (quasi un’intera divisione, e tutti fra i migliori) siano stati sottomessi da una cultura estranea?”. Secondo Lenin, non sono dunque i comunisti responsabili a manovrare la vasta macchina burocratica, ma essi stessi, senza saperlo, sono manovrati dai funzionari appartenenti alle ex classi privilegiate. Prima di morire scrive: “Il nostro apparato statale... è stato soltanto verniciato un po’ alla superficie, ma il resto è rimasto un tipico relitto del nostro vecchio apparato statale”. Nelle sue opere si trova di tutto. Alle affermazioni rivoluzionarie molto dure si alterna uno spiccato senso del compromesso e si trovano anche testimonianze di un’inaspettata pazienza storica e di uno spirito fortemente autocritico. Negli ultimi anni della sua vita egli viene investito da una crisi morale al punto di dichiarare: “Sono a quel che pare molto colpevole verso i lavoratori russi”. Così come successivamente faranno Trotzkij e Bucharin, ammetterà di essersi lasciato andare a illusioni e speranze utopistiche. Lucidamente riconosce che, con il 1917, si è realizzato solo il capitalismo monopolistico di stato e si augura che questo sia “l’ultima tappa prima della socializzazione dei mezzi di produzione”. Alla tribuna del 4° congresso del Comintern, nel ’22, ammonisce così i delegati: “Io penso che la cosa più importante per tutti noi, compagni russi come pure stranieri, è che dopo cinque anni di rivoluzione russa dobbiamo studiare”. E successivamente,denuncia i pericoli che sono insiti nel sistema di potere centralistico che ha costruito. Nei suoi ultimi scritti mette addirittura in dubbio il carattere socialista dello stato sovietico, e fa sue le critiche che negli anni precedenti gruppi d’opposizione all’interno del partito avevano mosso allo suo stesso operato. “Siamo obbligati a riconoscere che tutte le nostre opinioni sul socialismo hanno subito un cambiamento radicale”, afferma, e con evidente amarezza ammette che “la rivoluzione politica e sociale da noi ha preceduto la rivoluzione culturale”. E ancora: “La stessa generazione che verrà subito dopo di noi, e che sarà più forte della nostra, difficilmente potrà realizzare il compito del completo passaggio al socialismo”. A detta dei menscevichi, egli si sarebbe posto il dubbio di aver dato vita in Russia a un nuovo Termidoro: tesi questa smentita dai bolscevichi e da Stalin, ma confermata da Trotzkij quando ormai era caduto in disgrazia. Fatto è che Lenin non superò mai la natura dicotomica e contraddittoria del suo pensare e del suo agire, di quel suo fare che lo portò a realizzare la rivoluzione politicamente più avanzata in una delle realtà più arretrate economicamente e socialmente. E per questo resta uno dei grandi. E a giustificare queste sue antilogie viene in aiuto la storia stessa: mai l’umanità ha conosciuto una rivoluzione sociale pura e senza costrizioni e violenza. La sua esperienza ci torna comunque di grande insegnamento, perché ci dice che vincere una rivoluzione è meno difficile che consolidarla e che conservare il potere è più complicato che conquistarlo. 4.8 – Lenin, il taylorismo e il modo di produzione capitalistico Se nella costruzione del socialismo in Urss le contraddizioni di Lenin a riguardo della democrazia e dello Stato hanno pesato negativamente, non meno rovinose a me sembrano essere state le discrasie che egli ha manifestato sul piano delle politiche economiche e del lavoro. Credo che questo sia un aspetto di altrettanta importanza da mettere sotto esame, considerato che è anzitutto sul terreno del modo di produzione che si esprime l’originalità di un sistema socialista rispetto a quello capitalista. Eppure, questo particolare mi sembra essere stato trascurato o quantomeno sottovalutato dalla 124


stragrande maggioranza degli studiosi marxisti e dei politici. Ricordo di aver letto pochi trattati o saggi che mettevano in evidenza come in Unione Sovietica è stata realizzata la statalizzaione anziché la socializzazione. Ad analizzasse criticamente l’operato dei bolscevichi a questo proposito sono stati veramente pochi. Anche per questa ragione ritengo soffermarmi su questo aspetto della storia della rivoluzione russa giacché lo ritengo della massima importanza. Quando Lenin rende chiaro cosa significa per lui dittatura del proletariato, afferma che essa “non è soltanto violenza contro gli sfruttatori e neppure principalmente violenza. Base economica di questa violenza rivoluzionaria, garanzia della sua vitalità e del suo successo – puntualizza – è il fatto che il proletariato rappresenta e realizza, rispetto al capitalismo, un tipo più alto di organizzazione sociale del lavoro”. Ma è proprio questo originale tipo di organizzazione del lavoro che la rivoluzione d’ottobre dimostra di non essere in grado di garantire. E’ da ricordare a questo proposito che all’atto della presa del potere, né i marxisti russi né quelli dell’Europa occidentale hanno un’idea precisa circa il funzionamento di un’economia socialista. I socialisti marxisti sono stati troppo occupati nell’opporsi al capitalismo per pensare alla natura dell’economia socialista. Nella tradizione marxista esiste perciò una forte tendenza a ignorare i problemi economici pratici e Lenin non trova quasi nulla nella letteratura sui problemi della distribuzione e dell’efficienza e sui metodi della pianificazione. La precettistica marxista fornisce solo indicazioni generiche e piuttosto vaghe su una cosiddetta “prima fase”,per la quale viene ipotizzata un’economia socialista non monetaria in cui tutti i mezzi di produzione diventano di proprietà sociale e lo scambio di merci viene sostituito da quello dei prodotti. Unica fonte di ricchezza è il lavoro e l’idea dominante è quella di trattare tutta la vita economica di un paese come un’unica fabbrica con molti reparti o come un unico monopolio. Se i bolscevichi hanno idee piuttosto confuse sul da farsi dopo la conquista del potere, questo è anche dovuto al vuoto teorico e alla carenza di elaborazione politica. Come ha sottolineato Kacenellenbaum, uno studioso russo di economia, “a questo proposito i comunisti erano dei romantici.... I testi classici del marxismo concepivano la società futura come un sistema in cui tutto sarebbe stato ovvio: ovvi gli obiettivi della gente, ovvia la disponibilità delle risorse”. E a conferma di questo giudizio è da ricordare quanto annotava un dirigente della politica economica bolscevica: “Se ci chiediamo in che modo il nostro partito concepisse, prima del 25 ottobre, il sistema del controllo operaio nel suo insieme e sulla base di quale ordinamento economico intendesse edificarlo, da nessuna parte riusciremo ad avere una risposta”. Una delle attenuanti di Lenin, dunque, è che non esiste, e questo vale anche per l’oggi, un modello astratto dello sviluppo delle forze produttive durante la transizione. Del resto, è lui stesso a sottolineare questa mancanza di teoria e di pratica quando scrive: “Noi conosciamo il socialismo, ma le nostre conoscenze per quanto riguarda l’organizzazione su vasta scala di milioni di uomini, le nostre conoscenze sulla organizzazione e la distribuzione dei prodotti, queste conoscenze noi non le abbiamo”. Nessuno degli organi governativi sovietici dispone di esperienza e di una sufficiente organizzazione sia per gestire il modo di produzione e far funzionare le imprese, sia per destreggiarsi nei complicati processi commerciali della compravendita. In mancanza di teoria e di esperienza, nel procedere alla rapida industrializzazione del Paese, Lenin è attratto dalla vitalità del mondo capitalistico e assume, in maniera pedissequa, come modello il sistema di organizzazione del lavoro che in quel momento è in via di sperimentazione nel mondo occidentale, cioè il modello dell’”americanismo”. Egli ammira la disciplina che regna nella fabbrica capitalista ed è affascinato dalle sue conquiste tecnico-scientifiche. Spiega ai suoi critici di sinistra che “il socialismo è inconcepibile senza la tecnica del grande capitalismo”, che è impossibile costruirlo senza assimilare e padroneggiare le conquiste della tecnica, della cultura e della scienza moderna, comprese naturalmente quelle che sono state realizzate sotto il dominio della borghesia, e sostiene che compito preciso e inderogabile dei bolscevichi è quello di “imparare a lavorare” dal capitalismo. A causa della sopravvivenza nella società russa di “resti del regime feudale” imposto dagli zar, Lenin considera il russo “un 125


cattivo lavoratore”. Ne consegue che il potere sovietico “deve porre di fronte al popolo in tutta la sua ampiezza” un compito preciso e inderogabile, cioè quello di “imparare e lavorare”. Ammirando le esperienze compiute dal capitalismo sull’organizzazione del lavoro, in specie a riguardo della sua razionalizzazione, insiste sulla necessità di assumerle come condizione per la costruzione del socialismo. “Senza la direzione di coloro che sono specializzati nei vari campi del sapere, della tecnica e dell’esperienza, il passaggio al socialismo è impossibile”, ripete spesso. Definisce come posizioni di “romanticismo economico” reazionario quelle che, assieme al capitalismo, condannano anche lo sviluppo delle forze produttive che esso genera e sviluppa e prende una qualche distanza dal principio dell’espropriazione della proprietà capitalistica, eredità della lotta di classe, poiché ritiene che una tale azione non fa che accrescere il dissesto economico del Paese e la sua disorganizzazione. A suo giudizio, mentre il vecchio apparato politico deve essere completamente annientato, tutte le istituzioni e organizzazioni economiche della vecchia società devono essere conservate, rielaborate e sviluppate. Devono essere semplicemente strappate di mano ai capitalisti e passate in potere dei soviet, collegandole a un sistema di contabilità e di controllo condotto da tutta la popolazione lavoratrice. “Non è necessario spezzare questo apparato e non si deve spezzarlo”, sostiene. “Bisogna strapparlo al dominio dei capitalisti e ai fini della loro influenza, bisogna subordinarlo ai soviet proletari, estenderlo, svilupparlo, farne una cosa di tutto il popolo… Il proletariato prende le armi del capitalismo invece di ‘inventarle’ o di ‘crearle dal nulla’”. In “Stato e rivoluzione” aveva del resto scritto: “Organizziamo la grande industria partendo da ciò che il capitalismo ha già creato.... il meccanismo della gestione sociale è già pronto. Una volta abbattuti i capitalisti, spezzata con la mano di ferro degli operai armati la resistenza di questi sfruttatori, demolita la macchina burocratica dello Stato attuale, avremo davanti a noi un meccanismo mirabilmente attrezzato dal punto di vista tecnico, sbarazzato dal ‘parassita’ e che i lavoratori uniti possono essi stessi benissimo far funzionare assumendo tecnici, sorveglianti, contabili e pagando il lavoro di tutti costoro, come quello di tutti i funzionari dello Stato in generale, con un salario da operaio. E’ questo il compito concreto, pratico, immediatamente realizzabile nei confronti di tutti i trust e che libererà dallo sfruttamento i lavoratori, tenendo conto dell’esperienza praticamente iniziata (soprattutto nel campo dell’organizzazione dello Stato) dalla Comune…Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli operai d’un solo ‘cartello’ di tutto il popolo: dello Stato. Tutto sta nell’ottenere che essi lavorino nella stessa misura, osservino la stessa misura di lavoro e ricevano nella stessa misura”. E quasi a dare ragione a Sorel il quale, in tono paradossale, ebbe a sostenere che “non occorre più che il socialismo si occupi dell’organizzazione dell’industria, giacché se ne incarica il capitalismo”, Lenin punta gli occhi sul modello tedesco, precisamente su quello dell’economia di guerra che a suo parere costituisce l’unica via d’uscita per una realtà arretrata come la Russia. “Imparate dai tedeschi!”, esorta. “La storia procede a zig-zag, per schemi tortuosi. Oggi accade che i tedeschi, strettamente alleati al bestiale imperialismo, incarnino i principi della disciplina, dell’organizzazione, di una compatta operosità collettiva, sulla base della più moderna industria meccanizzata, di una scrupolosa amministrazione e di un ferreo controllo. E’ precisamente ciò che a noi manca. E’ precisamente ciò che dobbiamo imparare”. E a fine marzo del ‘18 scrive: “(Abbiamo una) carenza di tecnici e di esperienza economica e amministrativa moderna.... Si può dire che (il nostro) compito assume due aspetti principali: 1) inventario e controllo sulla produzione e sulla ripartizione dei prodotti nelle forme più larghe, complete e universali; 2) aumento della produttività del lavoro. Senza la grande produzione meccanizzata, senza una rete più o meno sviluppata di ferrovie e comunicazioni postali e telegrafiche, senza una rete più o meno sviluppata di istituzioni scolastiche, l’uno e l’altro compito non potrebbero essere assolti.... La muraglia delle operazioni di guerra ha isolato il nostro paese dalla circolazione di merci con tutta una serie di paesi che prima importavano ed esportavano soprattutto dalla Russia... Bisogna imparare in gran parte il socialismo dai direttori dei trust, bisogna imparare il socialismo dai grandi organizzatori del 126


capitalismo”. E più tardi, quando la prospettiva di una rivoluzione in Occidente svanisce, scrive: “Se la rivoluzione socialista avesse vinto simultaneamente in tutto il mondo o, almeno, in una serie di paesi progrediti... in nostro aiuto sarebbero accorsi gli operai d’avanguardia dei paesi dell’Europa occidentale”, purtroppo invece, “dobbiamo necessariamente far collaborare con il potere sovietico un gran numero di esponenti dell’intellettualità borghese, in particolare di coloro che erano impegnati nel lavoro pratico di organizzazione della grande produzione nel quadro del capitalismo... anche se è ingiusto e sbagliato che i rappresentanti dell’intellettualità borghese ottengano una remunerazione incomparabilmente più elevata di quella dei migliori strati della classe operaia”. Lenin insiste nel ritenere indispensabile un pregiudiziale sforzo comune contro la dispersione, la disorganizzazione e il caos che caratterizzano il quadro dell’economia russa e per conseguire questo obiettivo ritiene si debbano far propri i metodi capitalistici. Eppure, nel ‘13, egli aveva sferrato un duro attacco contro il sistema taylorista che considerava un modo di “spremere dall’operaio tre volte più lavoro in un’uguale giornata lavorativa“ e lo definiva “la schiavitù dell’uomo alla macchina”. Negli anni successivi, pur dicendosi consapevole che l’”americanismo” racchiude in sé “la crudeltà raffinata dello sfruttamento”, il suo atteggiamento verso di esso cambia fino al punto di sostenere che “senza che i suoi autori lo sappiano e contro la loro volontà, il taylorismo prepara il tempo in cui il proletariato prenderà nelle sue mani l’intera produzione sociale”. E ne “I compiti immediati del potere sovietico”, sostiene: “Dobbiamo mettere all’ordine del giorno, introdurre praticamente e sperimentare il lavoro a cottimo, applicare tutto ciò che vi è di scientifico e di progressivo nel sistema Taylor, proporzionare i salari alla quantità complessiva delle merci prodotte”. Lancia quindi la direttiva di applicare il taylorismo e dedica addirittura una scheda a un libro di O.A.Ermanski su l’organizzazione scientifica del lavoro e il sistema Taylor definendolo un sistema “molto buono e molto utile”. Poi scrive che “il grande capitalismo ha creato tali sistemi di organizzazione del lavoro... che devono essere fatti propri dalla Repubblica socialista sovietica e rielaborati... ad esempio il rinomato sistema di Taylor… L’aspetto negativo del metodo di Taylor è il fatto che esso è stato realizzato nel quadro della schiavitù capitalistica... Noi dobbiamo introdurre il sistema di Taylor e l’elevamento scientifico americano della produttività del lavoro in tutta la Russia, e in pari tempo ridurre il tempo di lavoro, utilizzare i nuovi metodi di produzione e di organizzazione del lavoro senza alcun danno per la forza-lavoro... L’applicazione del sistema di Taylor deve essere diretta dagli stessi lavoratori... il compito si può formulare all’incirca in questo modo: sei ore di lavoro fisso quotidiano per ogni cittadino adulto e quattro ore di lavoro per l’amministrazione dello Stato”. Convinto che il passaggio al socialismo si può compiere senza particolari difficoltà, incita all’applicazione minuziosa e scrupolosa del censimento e del controllo operaio della produzione e della distribuzione dei prodotti e introduce l’istruzione scolastica obbligatoria. Si dice convinto che “in forza di una moderna coscienza proletaria, l’operaio sente la scienza come cosa che gli appartiene, sente la superiorità della propria consapevolezza rispetto a quella degli stessi portatori della scienza, anch’essi in gran parte incapaci di vedere la genesi del loro lavoro, delle condizioni materiali, ed anticipa, nella propria attuale consapevolezza, una superiore civiltà”. E sostiene che è necessario istruirsi perché “bisogna saper riconoscere senza paura il male per combatterlo con maggior fermezza, per ricominciare ancora e ancora daccapo: saremo costretti ancora molte volte, in tutti i campi della nostra edificazione, a ricominciare daccapo, correggendo ciò che è imperfetto, scegliendo vie diverse per affrontare il compito”. Non tutti i bolscevichi però sono convinti della bontà del taylorismo. Obolenskij (Osinskij), primo presidente del Vesencha e membro dell’opposizione di sinistra, dirige l’attacco contro i cottimi e il taylorismo. L’intellettuale Lozovskij denuncia nel taylorismo “una teoria imperniata essenzialmente sull’élite operaia, sul rafforzamento dell’aristocrazia operaia”. A.M.Bogdanov 127


asserisce che la classe dominante è caratterizzata dal potere di organizzare il lavoro, piuttosto che dal possesso degli strumenti per attuarlo. Pertanto, la trasformazione socialista del modello di produzione capitalista sarebbe dovuta, a suo avviso, avvenire non attraverso l’espropriazione dei mezzi, bensì mediante una diversa funzione culturale delle masse che le ponesse in grado di impostare nuovi modelli organizzativi e quindi di non imitare semplicemente il taylorismo. Più avanti nel tempo, E.A. Preovrazenski, alla luce dei risultati dell’applicazione del taylorismo, parlerà di “classe operaia che si fa contemporaneamente sfruttatrice di se stessa per l’accumulazione socialista”. In risposta ai suoi critici, Lenin non si limita a spiegare che “il socialismo è inconcepibile senza la tecnica del grande capitalismo”, ma ricorre anche alle maniere forti. Bogdanov, già in odore di eresia, viene scomunicato. E mentre polemizza, sostiene che la “sottomissione reale” del processo lavorativo ai nuovi rapporti di produzione si porrà all’ordine del giorno quando sarà superata la fase di transizione al socialismo, quando cioè si svilupperanno le condizioni che porteranno verso il comunismo. Presso i dirigenti sovietici il taylorismo acquista grandissima popolarità e diventa assai presto il fattore decisivo dello sviluppo della tecnicità e dell’ampliamento degli apparati di direzione specialistica. Dietro l’impulso di Lenin e sotto la sua direzione, l’economia dell’Urss viene dunque organizzata, da un lato, adottando il modello produttivo capitalista, dall’altro, gestendo il sistema produttivo come si gestisce la posta o un pubblico ufficio; il tutto posto, solo in teoria, sotto il controllo e la direzione del proletariato. Applicando il modello capitalistico di produzione all’organizzazione economica del nuovo Stato in costruzione, Lenin realizza consapevolmente un compromesso con lo stato di cose esistente e rinvia al dopo, alla fine del processo di industrializzazione del Paese, l’instaurazione di nuovi rapporti sociali, cioè l’applicazione del modello di socializzazione delineato da Marx. Con la Nep le imprese industriali si orientano in base al principio della remuneratività e ciò comporta un ritorno ai rapporti economici capitalistici e la conseguente regressione a una fase precedente lo stesso capitalismo di Stato. E’ lo stesso Lenin a decretare che non bisogna “demolire l’ordine vecchio dell’economia sociale, il commercio, le piccole aziende, le piccole imprese, il capitalismo, ma (occorre invece) animare il commercio, le piccole imprese, il capitalismo, impadronendosene con prudenza e gradualmente, o sottomettendoli alla regolarizzazione da parte dello Stato soltanto nella misura in cui essi si rianimeranno”. Egli è convinto che solo una politica di questo genere, la quale risponde anche ai bisogni immediati della classe contadina che è stata penalizzata dal “comunismo di guerra”, rappresenti l’unica via per tenere in piedi il potere sovietico fino alla vittoria della rivoluzione internazionale. Lenin combina dunque il potere politico bolscevico con la disciplina produttiva e con le tecniche capitalistiche sulla base del controllo statale. In Russia permangono fattori e situazioni economicosociali differenti e anche un forte frazionamento della piccola borghesia, al punto di rappresentare un pericolo per il mantenimento dell’unità del Paese. A fronte di una situazione tanto complessa, Lenin intravede la soluzione dei problemi nel “capitalismo di Stato”. Lo Stato accentra nelle proprie mani l’intera eccedenza economica, cioè il “prodotto socialista aggiunto” e diventa l’unico datore di lavoro. E dato che il sistema produttivo è impostato sul metodo tayloristico, i lavoratori sono soggetti a specializzazioni e a gerarchie identiche a quelle esistenti nella società capitalistica. Consapevole che questa condizione contraddice i principi della dottrina marxista, il capo dei bolscevichi si giustifica sostenendo che “il capitalismo monopolistico di Stato rappresenta la più completa preparazione materiale verso il socialismo, è l’anticamera del socialismo” e che “il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico”.

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In ”La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” asserisce che “resta solo da trasformare la regolamentazione burocratico-reazionaria in una regolamentazione democratico-rivoluzionaria mediante semplici decreti sulla convocazione di congressi degli impiegati, ingegneri, direttori ed azionisti, sull’istituzione di una contabilità unificata, sul controllo da parte dei sindacati operai”. Già nel ’17 aveva sostenuto che “nelle condizioni della rivoluzione, in presenza della rivoluzione, il capitalismo monopolistico di Stato si trasforma direttamente in socialismo” essendo “la più completa preparazione materiale del socialismo, la sua base preliminare, quello stadio dell’evoluzione storica che precede il socialismo”. Ed ebbe pure a dichiarare che quando i complessi industriali fossero stati dati in consegna ai soviet e posti sotto il loro controllo, “la Russia (avrebbe) messo un piede nel socialismo”. E pensare che più volte lui stesso aveva avuto modo di sentenziare che la politica non può e non deve seguire docilmente l’economia e che la lotta più tenace è proprio quella che avviene per interessi economici! Dalla teoria e dalla pratica leniniana sono scaturiti così due principi che dall’ottobre in poi hanno ipotecato il pensiero e la prassi del movimento comunista internazionale: 1) si è pensato fosse sufficiente che lo Stato venisse messo al servizio del popolo perché esso cessasse di avere la sua natura originaria; 2) si è creduto che per realizzare un sistema socialista bastasse impossessarsi dei mezzi di produzione e sostituire alla direzione dell’economia i capitalisti con i proletari. Due postulati questi che la storia ha ampiamente smentito. Non va dimenticato che Lenin dimostra una certa ostilità verso la democrazia economica. Egli sostiene che mentre la produzione è sempre necessaria, la democrazia non lo è sempre. Anzi, pensa che “la democrazia nella produzione genera una serie di idee radicalmente false” e che “la democrazia è una categoria attinente soltanto al campo politico”. Egli difende in maniera categorica il principio della direzione unica delle imprese e non mostra grande simpatia per l’autogestione nelle fabbriche, anche se intravede il momento più importante dei nuovi rapporti sociali nella nomina degli operai ai posti di comando nell’industria. In campo economico egli tenta di risanare la situazione affidando, in emergenza, le responsabilità principali ai singoli dirigenti secondo il principio dell’unicità del comando e applica una disciplina autoritaria del lavoro che viene gestita dai tribunali disciplinari. Ricorre in sostanza a metodi e criteri tipici del modo di produrre capitalistico che di certo non possono essere fautori di un modo di produzione alternativo e non possono rappresentare uno stimolo all’esaltazione del “general intellect” che peraltro nella Russia post rivoluzionaria risulta essere estremamente limitato. Lenin, in sostanza, non si cura di sperimentare forme di produzione originali. Non è nelle condizioni oggettive e soggettive di farlo. Suo obiettivo prioritario è quello di accelerare l’industrializzazione e l’elettrificazione del Paese e individuare la maniera di sottomettere il processo lavorativo al controllo e alla direzione del nuovo Stato. Così facendo, rinvia a tempi meno rovinosi la ricerca di nuovi e socialistici rapporti di produzione. Nonostante che Strumilin ammonisca che “il nostro compito non è di aiutare la scienza economica, ma di trasformarla”, egli procede imperterrito nel suo disegno di costruzione del capitalismo di Stato. Lo studioso Harry Braverman sostiene che “neanche nelle sue primissime e più rivoluzionarie fasi l’industrializzazione sovietica può essere riguardata come un tentativo di organizzare i processi lavorativi in modo fondamentalmente diverso da quello capitalistico”. Un giudizio questo che condivido in pieno anche perchè risulta comprovato da quegli studi che sono stati compiuti con spirito critico sulla costruzione del socialismo in Russia e che hanno cercato di dare una spiegazione al mancato processo di socializzazione. E’ grazie a un’interpretazione critica di questo genere che diviene evidente la contraddizione tra il carattere politicamente avanzato (per quel tempo) della rivoluzione bolscevica e l’arretratezza della struttura economica in cui essa si compie. Ed è avendo chiara questa antinomia che si può considerare giusta nei principi, ma velleitaria nella pratica, la pretesa dell’opposizione operaia di affidare la direzione della produzione agli istituti di autogoverno operaio, mentre appare realistica la

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posizione leniniana di puntare sui direttori di fabbrica, sui glavki, quale unica possibilità di evitare una caduta in rovina e garantire al Paese coesione e disciplina. Lenin dimostra di avere a un certo punto piena consapevolezza che in Russia non è possibile introdurre di colpo un sistema economico socialista, poiché mancano le premesse oggettive e soggettive, e perciò ripiega sul capitalismo di Stato. “La Russia è un paese contadino – insiste – il socialismo non vi può vincere direttamente e immediatamente”. Il programma d’azione economica che lui propone prevede una serie di misure che di certo sono da considerarsi radicali. Tali sono la nazionalizzazione di tutte le proprietà terriere, l’organizzazione di fattorie modello in grandi tenute espropriate, la fondazione di una banca nazionale unitaria; il controllo della produzione e della distribuzione dei beni economici nella società a opera dei soviet. Tuttavia queste sono misure che si mantengono nel quadro del sistema esistente e attraverso di esse l’apparato produttivo capitalistico non risulta affatto intaccato. Lenin non è riuscito, e nelle condizioni in cui era chiamato ad operare non poteva riuscirci, a plasmare “l’uomo nuovo socialista” incontrando enormi e insormontabili difficoltà nell’opera di trasformazione del comportamento delle persone. A dare scacco matto ai suoi propositi intervengono, infatti, non solo le condizioni materiali di arretratezza della società zarista, cosa già di per sé esiziale, ma anche l’incultura dei soggetti sociali, l’assenza di responsabilizzazione, il persistere di un esasperato senso di religiosità che ipoteca i comportamenti individuali e collettivi, i nazionalismi. Lenin traccia i lineamenti di un regime politico che poi non riesce a realizzare, perché non esistono le condizioni per poterlo fare. Egli è infatti contemporaneamente un grande vincente e un grande sconfitto. Rudi Dutschke sostiene che Lenin ha sottovalutato la specificità “asiatica” della Russia, ha visto i tratti della cultura asiatica, ma non le sue radici nelle strutture sociali. Sono anch’io convinto che il capo dei bolscevichi ha sottovalutato uno degli aspetti fondamentali della teoria marxiana: esattamente quello secondo cui ogni tipo di struttura economica determina un proprio specifico tipo di relazioni fra gli uomini. Si deve però convenire che giudicare oggi retrospettivamente l’operato di Lenin e dei bolscevichi e sostenere che sarebbe stato necessario rinunciare all’applicazione della tecnica industriale capitalistica e introdurne invece un’altra al suo posto, mobilitando l’iniziativa tecnica della masse, si rischia di ricadere in una visione idealistica della storia. Non so in tutta onestà chi di noi, trovandosi nei loro panni, di fronte cioè alle drammatiche condizioni e alle difficoltà che qui ho appena richiamato, sarebbe stato in grado di fare meglio. Dalle contraddizioni emergenti dall’elaborazione e dall’azione politica di Lenin e dei bolscevichi, io mi sento di trarre solo delle lezioni. Ed esse mi insegnano che la transizione da un sistema sociale all’altro, non solo nelle condizioni di un’economia semi asiatica, ma in quelle delle stesse società di capitalismo maturo, è necessariamente un’operazione complessa e contraddittoria sotto molteplici punti di vista, la quale esige una grande disponibilità alla sperimentazione in ogni campo. Essa non può assolutamente essere delegata né a un’avanguardia né alle istituzioni esistenti, ma deve essere il prodotto di un protagonismo di massa consapevole. Per di più, essa esige un livello di maturità e autonomia culturale e di coscienza sociale che nella Russia del primo novecento non c’era sicuramente. Lenin, infatti, non solo è chiamato ad agire in un contesto sociale arretrato su tutti i fronti, ma paga lo scotto dell’inesperienza e quello del più completo isolamento. Credo che queste siano le cause principali del suo fallimento. Egli ha precorso i tempi. Di fronte al fallimento dell’esperienza russa viene naturale chiedersi se le condizioni oggettive, quelle di natura economico-sociale, non siano invece mature oggi, qui nelle società dell’Occidente evoluto, e se non sia il caso di riproporre noi, in chiave moderna, quel percorso che ai sovietici è stato impossibile fare. Ma questa è una riflessione che riprenderò più avanti.

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4.9 – I bolscevichi e la rivoluzione in Occidente Nel ’14 Lenin interpreta lo scoppio della guerra come l’inizio della crisi decisiva del capitalismo e si persuade che al conflitto farà seguito una lotta di classe su scala internazionale di dimensioni tali da portare alla rivoluzione socialista mondiale. Sulla base di tale convincimento, negli anni successivi, ritiene che i rivoluzionari russi debbano agire per sfruttare una serie di elementi obiettivi che la situazione internazionale offre loro: “Se ci muoviamo ora – dice – avremo tutta l’Europa proletaria dalla nostra parte”. E nel ’17 scrive: “L’esempio degli operai russi sarà inevitabilmente seguito – forse non domani (le rivoluzioni non si fanno su ordinazione) ma inevitabilmente – dagli operai e dai lavoratori di almeno due grandi Paesi: la Germania e la Francia”. Quando, concluso il primo conflitto mondiale, il proletariato di alcuni Paesi europei scende in lotta, egli dichiara: “Il fermento è cominciato in Europa, e questo non può non portare a una crisi dell’insieme del capitalismo mondiale” e nel far notare che in Germania e in Inghilterra si stanno “formando eserciti rossi”, sostiene che la prospettiva non può essere altra che la rivoluzione come in Russia. Nel marzo del ’19, in occasione della fondazione della 3a Internazionale, nel corso del discorso conclusivo dei lavori, afferma: “La vittoria della rivoluzione proletaria in tutto il mondo è assicurata. Si approssima la fondazione della Repubblica sovietica internazionale”. E poche settimane dopo scrive a Zinov’ev: “Si può affermare con certezza che entro un anno avremo già cominciato a dimenticare che c’è stata in Europa una lotta per il comunismo, perché fra un anno l’Europa intera sarà comunista”. Tempo dopo, partendo dalla premessa che alcune caratteristiche della rivoluzione russa si sarebbero probabilmente riprodotte su scala internazionale, ritiene “inconcepibile che la repubblica dei soviet continui ad essere per un lungo periodo fianco a fianco con Stati imperialistici. Alla fine gli uni o gli altri debbono vincere” e pensa che è più facile costruire il socialismo nei Paesi sviluppati essendo qui il livello culturale più diffuso e la base tecnologica più avanzata di quella della Russia. Certo dell’inevitabile progressione del processo rivoluzionario, promette: “Quando trionferemo su scala mondiale, utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine nelle vie di alcune delle più grandi città del mondo”. E considera la stessa costituzione della Repubblica Sovietica Federalista Socialista Russa come un provvedimento che deve servire per il solo periodo di transizione, nella prospettiva di una successiva federazione mondiale di repubbliche socialiste. Si tratta evidentemente di convincimenti e affermazioni che se da un lato esprimono una comprensibile impazienza di consolidare il potere acquisito in Russia attraverso l’estensione territoriale del processo rivoluzionario, dall’altro, date le circostanze, appaiono il frutto di un’inevitabile retorica. In realtà, Lenin e l’intero gruppo dirigente bolscevico hanno al tempo stesso profonda coscienza della parzialità della propria opera, dei suoi limiti oggettivi e delle difficoltà che essa incontra. Sono cioè consapevoli che, escludendo la possibilità di una vittoria simultanea del socialismo nei vari Paesi, dato che lo sviluppo del capitalismo non è omogeneo, il suo isolamento può prolungarsi nel tempo. “La rivoluzione socialista mondiale nei paesi progrediti non può incominciare con la stessa facilità con cui è incominciata in Russia, paese di Nicola e Rasputin”, commenta. E poi ammonisce: “Cominciare senza preparazione la rivoluzione in un paese dove il capitalismo si è sviluppato, ha dato una cultura e il senso dell’organizzazione democratica a tutti gli uomini, sino all’ultimo, sarebbe un errore, un’assurdità”. “E per la Russia sarà più difficile che per i paesi europei continuarla e condurla a termine”. “La nostra repubblica democratica non ha altre riserve oltre il proletariato socialista d’Occidente”. Già nel ’18, al 7° congresso del Pcus egli aveva affermato: “Non vi è il minimo dubbio che la vittoria definitiva della nostra rivoluzione, se essa dovesse rimanere, se non ci fosse un movimento rivoluzionario negli altri Paesi, sarebbe una causa disperata... La nostra salvezza da tutte queste difficoltà, lo ripeto, sta in una rivoluzione europea”.

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Con l’inizio degli anni ’20 comprende che la Russia bolscevica dovrà per davvero reggersi sulle proprie gambe. Allorquando non si realizza la rivoluzione proletaria in Germania, infatti, la prospettiva dell’isolamento diventa una certezza e a quel punto egli si convince della necessità di sopravvivere anche in assenza della rivoluzione in Occidente. Di fronte a questo “scherzo della storia” egli tenta una spiegazione e diagnostica che gli elevati profitti dei capitalisti rendono possibile la corruzione di singoli strati di operai, attirati dalla parte della borghesia di una data branca industriale o di una nazione contro tutte le altre. “I capitalisti dei Paesi più progrediti corrompono quest’aristocrazia operaia in mille modi, diretti e indiretti, aperti e mascherati. E questo strato di operai imborghesiti, di ‘aristocrazia operaia’, completamente piccolo-borghese per il suo modo di vita, per i salari percepiti, per la sua filosofia della vita, costituisce il principale puntello sociale (non militare) della borghesia... Se non si comprendono le radici economiche del fenomeno, se non se ne valuta l’importanza politica e sociale, non è possibile fare nemmeno un passo verso la soluzione dei problemi pratici del movimento comunista e della futura rivoluzione sociale”. E sì che per Lenin non è facile comprendere appieno il riformismo dato che nella Russia del suo tempo è un fenomeno sconosciuto! Egli, difatti, proprio per questa ragione, ha compreso in ritardo la natura del riformismo quale tenace rivale della rivoluzione nei Paesi dell’Europa occidentale dove l’azione illegale, quella che gli operai russi considerano forma naturale di lotta, suscita forti pregiudizi. Testimonianza eloquente di questa diversità di valutazione sono le reazioni che ha suscitato lo scioglimento dell’Assemblea costituente: mentre tra gli operi russi questo provvedimento ha trovato una quasi unanime approvazione, tra gli operai dei Paesi occidentali ha provocato molte perplessità e persino indignazione. A seguito della mancata rivoluzione in Europa, Lenin dà perciò corso alla strategia del “socialismo in un solo Paese” e trasforma questa idea in una grande mobilitazione di massa. “Basta dire, come dicono i comunisti di sinistra tedeschi e inglesi, che noi ammettiamo soltanto una via, quella diretta, che non tolleriamo alcun destreggiamento, accordo, compromesso; questo è già un errore capace di recare, e che in parte ha già recato e reca, un danno gravissimo al comunismo”. “Il nostro dovere di comunisti è ... di imparare ad adeguare la nostra tattica a qualsiasi mutamento che non sia determinato dalla nostra classe o dai nostri sforzi”. Occorre “ricercare, studiare, discernere, indovinare, cogliere ciò che vi è di particolarmente nazionale, di specificamente nazionale nei modi concreti in cui ciascun paese si avvia a risolvere il problema internazionale unico per tutti”. Anche la funzione della “Nuova internazionale rivoluzionaria”, cioè la “Terza” o “Internazionale comunista” (Comintern), istituita nel ’19, all’indomani della mancata rivoluzione in Occidente, subisce un cambiamento. Come Lenin stesso spiega: “La 1a Internazionale pose le fondamenta per la lotta proletaria internazionale per il socialismo. La 2a Internazionale è stata l’epoca della preparazione del terreno per una larga diffusione di massa del movimento in un buon numero di Paesi. La 3a Internazionale coglie i frutti dell’attività della 2a, ne toglie via il sudiciume opportunistico, socialsciovinistico borghese e piccolo-borghese e incomincia ad attuare la dittatura del proletariato”. Questa nuova istituzione trova giustificazione proprio nella presunta imminente decomposizione dell’intero sistema capitalistico mondiale, nel principio che la dittatura del proletariato deve essere la leva per l’espropriazione immediata del capitale e per l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e nella necessità di adottare il metodo fondamentale della lotta di massa, ivi compresa la lotta aperta a mano armata contro il potere dello Stato del capitale. Il Comintern nasce appunto come espressione organizzativa di un progetto rivoluzionario ritenuto realizzabile nei tempi brevi e trova legittimazione storica nel proposito di preservare il patrimonio del marxismo dalla degenerazione e dalla corruzione cui è andato soggetto nell’epoca della 2a Internazione. Mentre la rivoluzione borghese è, secondo Lenin, per sua natura nazionale, quella socialista è internazionale. La classe operaia è dunque chiamata a rompere i limiti della sua subalternità alla borghesia proprio sul fronte di un impegno che oltrepassa i confini nazionali. Di fatto, il Comintern 132


rappresenta il primo grande esperimento di interpretazione collettiva dei fenomeni del mondo. I suoi membri sono soldati di un unico esercito internazionale che conduce, pur con una grande multiformità e flessibilità tattica, un’unica grandiosa strategia di rivoluzione mondiale. Esso è il partito mondiale, inteso come proiezione su scala internazionale della concezione bolscevica del partito. Lenin considera il sistema dei partiti comunisti come “un movimento variegato e in continuo sviluppo” che tiene conto della “particolarità e della specificità nazionale in questo o quel paese” e come “alleanza tra partiti diversi e partito mondiale unitario”. A suo giudizio, le condizioni concrete e storiche e anche le particolarità e le tradizioni nazionali dei partiti membri dell’IC, debbono essere sempre rispettate. Una delle correnti attive della nascente 3a Internazionale è costituita dal “comunismo di sinistra” quale formazione intermedia tra bolscevismo e spartachismo da una parte e sindacalismo rivoluzionario dall’altra. I suoi tre maggiori pensatori sono Anton Pannekoek, Hermann Gorter e Gyorgy Lukacs. Mentre per i bolscevichi, gli spartachisti e altri ancora la partecipazione alle elezioni è la regola e il loro boicottaggio rappresenta l’eccezione, per i comunisti di sinistra vale l’opposto. Essi sono per sindacati nuovi, rivoluzionari e per l’abbandono delle vecchie organizzazioni. Essi rinviano la conquista del potere al momento in cui è possibile ottenere dalle masse il pieno appoggio in nome dei principi rivoluzionari. Di fatto, la politica proposta e seguita dai comunisti di sinistra ha una scarsa influenza sugli indirizzi del Comintern e il loro peso è ininfluente. Il conflitto che li oppone al bolscevismo si chiude sostanzialmente con le discussioni che insorgono al 2° congresso dell’IC. All’inizio degli anni ‘20, infatti, Pannekoek, Gorter, i dirigenti e l’intera organizzazione della Kapd e anche molti altri comunisti di sinistra, si separarono dalla 3a Internazionale per propria iniziativa, proprio a causa di queste divergenze; non certo per deliberazione di Lenin come qualcuno ha insinuato. Sta di fatto che per tutta la prima fase della sua esistenza, il Comintern non rappresenta affatto quello stato maggiore della rivoluzione mondiale che aspirava a diventare. Mentre fino al ’19 lo Stato sovietico si pone in posizione subalterna alle esigenze del movimento internazionale, negli anni successivi, e soprattutto nel ’23, venendo meno la prospettiva rivoluzionaria in Occidente e affermandosi la teoria del socialismo in un paese solo, il suo ruolo cambia. Nel ’20 viene decretato che “l’I.C. deve realmente e nei fatti rappresentare un partito comunista unitario di tutto il mondo. I partiti che operano in ciascun paese non sono che singole sezioni di essa”. Il baricentro della strategia rivoluzionaria però incomincia a oscillare. Quando al 2° congresso viene affrontato il problema delle colonie e del movimento antimperialista, nessuno dei partecipanti giunge a supporre che la rivoluzione possa trionfare nei Paesi coloniali prima ancora che in quelli capitalisticamente sviluppati dell’Occidente. Eppure, nel “Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale”, Lenin scrive: “Senza la volontà del proletariato e, in seguito, di tutte le masse lavoratrici di tutti i paesi e di tutte le nazioni del mondo, di giungere all’unione e all’unità, la causa della vittoria sul capitalismo non potrà essere condotta a buon fine”. “L’Internazionale comunista deve fissare e motivare teoricamente le tesi che i paesi arretrati, con l’aiuto del proletariato dei paesi più progrediti, possono passare al regime sovietico e attraverso determinate fasi di sviluppo, giungere al comunismo scavalcando la fase capitalistica”. E’ il tempo in cui il Comintern appoggia i “fronti antimperialistici” dell’Oriente con più vigore che nel passato, nonostante che essi perseguano l’unità nazionale attraverso l’appoggio del panislamismo. Convincimento diffuso è che con il procedere della lotta di classe questo aspetto religioso dei movimenti di liberazione nazionale tenda gradualmente a scomparire per conto suo. Successivamente viene auspicato che il partito internazionale sia non più lo strumento organizzativo, politico e ideologico della rivoluzione mondiale, ma piuttosto il mezzo per non lasciar squagliare, per amministrare e per disciplinare il movimento comunista nell’attesa che la rivoluzione mondiale maturi. 133


Con il 3° congresso prendono vita le organizzazioni parallele: l’Internazionale sindacale, il Soccorso operaio internazionale, il Segretariato femminile internazionale. Prima ancora che si compia la bolscevizzazione dei singoli partiti, il processo di burocratizzazione degli organi dirigenti dell’IC può dirsi già in stato di avanzamento. Con la definitiva sconfitta dei comunisti in Germania che sancisce l’impraticabilità della rivoluzione in Occidente, l’IC viene trasformata in strumento di garanzia della stessa sopravvivenza della rivoluzione russa. Il 4° congresso, infatti, adotta una politica estera che punta non più sulla rivoluzione mondiale, ma si adegua alla politica estera della Russia sovietica. Del resto, già dalla primavera del ‘21 le linea è quella di puntare al consolidamento delle conquiste ottenute piuttosto che proporsi l’avanzata. Nella situazione in cui vengono a trovarsi, i bolscevichi sono costretti a portare avanti una duplice e contraddittoria politica estera: da un lato tentare di affrettare la caduta dei governi capitalistici, dall’altro negoziare con loro, anche se considerano il capitalismo anglo-americano “quasi altrettanto odioso quanto il militarismo tedesco”. L’idea però di servirsi di un gruppo di potenze nemiche per contrapporle ad altre si rivelerà estremamente difficile da praticare. Il Cominter si adegua dunque al nuovo scenario sia politicamente che organizzativamente. I suoi membri vengono eletti non più dai partiti nazionali, ma dal congresso stesso e, nonostante gli ammonimenti e l’avversione di Lenin, viene riprodotta in esso l’organizzazione del partito russo. Resta il fatto, che i partiti del Comintern non riusciranno mai a conquistare la maggioranza della classe operaia e la loro strategia insurrezionalista o andrà incontro alla sconfitta militare o non raggiungerà mai la fase di una sua concreta applicazione. La storia ci insegna appunto che in nessun Paese le sezioni del Comintern, come d’altronde quelle della 2° Internazionale, hanno mai portato a termine una rivoluzione socialista.

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Capitolo 5°

La mancata rivoluzione in Occidente e l’avvento del fascismo 5.1 – Riserve, dissensi e rotture sulla rivoluzione d’ottobre Come si è visto, la rivoluzione d’ottobre viene vissuta dai bolscevichi, nel momento in cui ha compimento, non come avvenimento fine a sé stesso, ma come inizio di un processo generale destinato a modificare il mondo contemporaneo. Già negli anni precedenti l’assalto al Palazzo d’inverno, Lenin aveva sostenuto che le conquiste di una rivoluzione in Russia avrebbero potuto essere consolidate solo alla condizione che si realizzasse la rivoluzione in Occidente. Allorquando la presa del potere nel Paese degli zar è cosa fatta, l’interazione con il processo rivoluzionario presente in diversi Stati d’Europa rappresenta per lui la forza protettiva che compensa l’immaturità delle condizioni sociali ed economiche che caratterizzano la neonata repubblica dei soviet. “Le fiamme della rivoluzione incendieranno l’Europa – vaticina - e lo slancio rivoluzionario si ripercuoterà sulla Russia e trasformerà un periodo di alcuni anni rivoluzionari in un’epoca di alcuni decenni rivoluzionari”. E poi ammonisce che la sconfitta del proletariato russo “sarebbe inevitabile, come quella del partito rivoluzionario tedesco nel 1849-1850 o quella del proletariato francese nel 1871, se non gli venisse in aiuto il proletariato socialista europeo”. Purtroppo, l’“incendio” in Occidente, anziché estendersi, viene prontamente spento e l’auspicato aiuto alla giovane repubblica sovietica viene a mancare. E questo fa sì che i dubbi e le polemiche sull’opportunità della rivoluzione d’ottobre che già prima dell’evento si erano manifestati, ora si moltiplichino non solo nella stessa Russia, ma anche nel movimento operaio internazionale. I menscevichi, già anzitempo, avevano sostenuto la tesi secondo cui “qualsiasi tentativo di una trasformazione socialista in Russia, prima dell’inizio della rivoluzione socialista in Occidente, è condannato in partenza all’insuccesso”. Dopo l’ottobre negano il carattere socialista della rivoluzione e non sono disponibili a tollerare la cancellazione dei più elementari diritti politici. Il loro leader di sinistra Martov si ribella ai bolscevichi e contesta la loro dittatura definendola “cesariana e bonapartista”. Anche i socialisti rivoluzionari di sinistra, che in quanto partito non hanno partecipato all’insurrezione armata, definiscono l’aspirazione del governo sovietico di attuare il socialismo “il sogno esaltato di illusi e di utopisti”. E concentrano i loro attacchi contro i soviet egemonizzati dai bolscevichi negando la democrazia sovietica e contrapponendo alla dittatura proletaria la “dittatura della democrazia”. Ma ad avversare l’operato di Lenin è anche uno dei suoi maestri: Gerogij V. Plechanov, fondatore del marxismo russo. Nonostante che già nel 1889 egli avesse sostenuto che “la rivoluzione russa o trionferà come rivoluzione proletaria o non trionferà affatto”, qualche tempo prima dell’ottobre considera pazzesca l’idea della possibilità di una dittatura proletaria nel Paese degli zar. E’ un punto di vista, il suo, che in quel momento è condiviso non solo dai menscevichi, ma dalla stragrande maggioranza degli stessi dirigenti bolscevichi. E sostiene che la rivoluzione avrebbe potuto portare nel migliore dei casi a “un impero cinese colorato di rosso”. Quando Lenin prende il potere, Plechanov giudica il suo atto frutto di un giacobinismo populista e mette in guardia da un “comunismo patriarcale autoritario”, temendo che la rivoluzione venga diretta da una “casta socialista”. A suo dire, il socialismo in un paese arretrato si sarebbe concluso nel “più vergognoso fallimento”. “Lenin - sostiene Plechanov - non ha capito né Kautsky, né Engels, né Marx, cioè non ha capito il socialismo scientifico per quel che riguarda questo problema (il rapporto tra situazione oggettiva e intervento soggettivo). E questa sua incomprensione si è trasformata per lui nell’incapacità del proletariato di uscire dai limiti del ‘tradunionismo’… Il problema controverso è se esiste una necessità economica che susciti nel proletariato la ‘esigenza di socialismo’, lo renda ‘socialista istintivo’ e lo spinga – anche quando sia abbandonato alle ‘proprie forze’ – sulla via della rivoluzione socialista, nonostante gli sforzi ostinati e 135


ininterrotti che la borghesia fa per sottometterlo alla propria influenza ideologica”. Anche alcuni stessi membri del comitato centrale del Pcus che già avevano respinto l’appello di Lenin all’insurrezione, sostengono la tesi secondo cui, nelle circostanze esistenti, lo sviluppo della rivoluzione socialista è impossibile. Tra questi vi sono Zinov’ev e Kamenev i quali, dopo aver assunto una posizione contraria all’insurrezione armata, sostengono che tutte le questioni insorte con la presa del potere devono essere risolte dall’Assemblea costituente. Essi nutrono seri dubbi sulla realizzazione di una rivoluzione socialista in quella fase e in quelle condizioni e ritengono necessario attendere che la rivoluzione si estenda all’Occidente, mentre considerano l’insurrezione in Russia come un detonatore. La loro opposizione alla strategia di Lenin viene assunta dai socialisti rivoluzionari come un’ancora di salvezza. Perfino nelle posizioni di Trotzkij, cioè di colui che ha diretto l’attacco al Palazzo d’inverno e ha consegnato Pietroburgo nelle mani dei soviet, sono rintracciabili perplessità e riserve circa le sorti della rivoluzione d’ottobre. Se ai primi del ‘900 sosteneva che “in un paese economicamente più arretrato il proletariato può giungere al potere prima che in un paese di capitalismo avanzato”, nel ’14 era convinto che la rivoluzione russa fosse destinata a svolgere un ruolo di avanguardia e di miccia della rivoluzione europea; in questa ottica considerava un eventuale suo successo isolato come un “aborto storico”, nonostante fosse convinto che “l’epoca nella quale stiamo ora entrando sarà la nostra epoca, cioè l’epoca della rivoluzione proletaria”. Protagonista di primo piano e sostenitore strenuo della dittatura del proletariato (si pensi alla sua teoria della “rivoluzione permanente”!) Trotzkij ebbe poi a sostenere che senza la rivoluzione mondiale l’Urss sarebbe stata inesorabilmente condannata al fallimento. “Senza il diretto apporto stabile del proletariato europeo la classe operaia russa sarà incapace di restare al potere e di trasformare il suo dominio temporaneo in dittatura socialista durevole”. “Se i popoli di Europa non si sollevano schiacciando l’imperialismo, noi saremo schiacciati – ciò è fuor di dubbio. O la rivoluzione russa susciterà il turbine della lotta in Occidente, oppure i capitalisti di tutti i Paesi soffocheranno la nostra lotta”. Del resto, come ho già ricordato, tutti i dirigenti bolscevichi, nel ’17, davano alla rivoluzione in corso una dimensione internazionale; e nessuno in quel momento pensava alla possibilità della costruzione del socialismo in un solo paese. Perplessità e dissensi vennero espressi anche da esponenti del movimento comunista internazionale. Tra i non ortodossi, solamente il nostro Gramsci e Gyorgy Lukàcs esultano all’indomani della presa del potere in Russia. Su “Il grido del popolo” del gennaio ’18, il fondatore del Pcd’I giudica possibile la rivoluzione in un Paese arretrato e ribadisce tale giudizio nelle tesi congressuali di Lione. Qualcuno ha sostenuto che questa sua presa di posizione è l’espressione di una cultura originariamente estranea al marxismo, impregnata cioè di soggettivismo idealistico e di irrazionalità bergsoniana degli inizi secolo. Sta di fatto che, in quel momento, Gramsci esalta l’azione di Lenin e dei bolscevichi e la giudica come una smentita dell’interpretazione deterministica del pensiero di Marx considerandola come uno sviluppo della sua stessa teoria. Parimenti, egli non esita ad approvare lo scioglimento dell’Assemblea costituente ritenendolo “un episodio di libertà nonostante le forme esteriori che fatalmente ha dovuto assumere”. Diversamente da Gramsci, Karl Kautsky e Rosa Luxemburg considerano la rivoluzione d’ottobre contraria alle tesi di Marx e si scagliano contro il centralismo e l’autoritarismo bolscevico. Kautsky, teorico della 2a Internazionale, definisce l’Urss un “dispotismo che gronda immondizia” e parla di “schiavismo di Stato”. Rifiuta la dittatura del proletariato perché ritiene che il socialismo deve equivalere a democrazia e al ricorso alla violenza predilige la via pacifica e istituzionale. Egli ammette la necessità della conquista del potere, ma non quella della distruzione della macchina statale borghese e della sua sostituzione con un’altra di tipo nuovo. Esprime la sua contrarietà a un potere proletario esercitato in condizioni di immaturità della rivoluzione socialista e accusa i bolscevichi di aver liquidato qualsiasi forma di democrazia (l’Assemblea costituente, gli stessi partiti socialisti non bolscevichi) e di nascondere dietro ai soviet la dittatura del partito.

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Lenin risponde a Kautsky definendolo “rinnegato”, poiché confonderebbe la democrazia con la democrazia borghese. Nel socialismo – argomenta poi – non esiste spazio per gli sfruttatori che devono essere esclusi dalla democrazia. La dittatura del proletariato è “un potere conquistato e sostenuto dalla violenza contro la borghesia e non è vincolato da alcuna legge”. Essa “è un milione di volte più democratica di ogni democrazia borghese” perché in essa le masse godono di tutte le libertà. Rosa Luxemburg, mentre esalta la rivoluzione russa, sostiene che questa, pur avendo posto il problema pratico della realizzazione del socialismo, non può risolverlo perché ciò è possibile solo su scala internazionale. “Lenin, Trotskij e i loro amici che sono stati gli unici che possono gridare con Hutten: ‘Io ho osato!’, non devono pretendere di compiere miracoli. Perché una rivoluzione proletaria, esemplare e perfetta, in un paese isolato, spossato dalla guerra mondiale, strozzato dall’imperialismo, tradito dal proletariato internazionale, sarebbe un miracolo”. Quando Lenin decide di sciogliere l’Assemblea costituente, lei rimprovera i bolscevichi di aver soppresso le libertà politiche e civili, li accusa di distorcere la dittatura del proletariato e di ripercorrere la via del “dominio giacobino” eliminando la democrazia rappresentativa. “La libertà è sempre libertà per coloro che pensano diversamente”, “l’essenza della dittatura del proletariato consiste nel modo di realizzazione della democrazia, non nella sua abolizione”. Luxemburg intende infatti per democrazia socialista la trasformazione economica della società per opera delle masse. Pertanto definisce la politica di Lenin “ultracentrista”, “burocratica”, “non democratica” e la sua riforma agraria di stampo “piccolo borghese” poiché concede la terra ai contadini. Al tempo stesso, però, invita il nuovo regime a “soffocare sul nascere con pugno di ferro ogni tendenza separatistica”. Altro critico della rivoluzione d’ottobre è l’olandese Anton Pannekoek il quale,dopo averla entusiasticamente considerata, classifica il sistema sovietico “dominio della burocrazia operaia”. E poi l’austromarxista Otto Bauer che pur essendo un suo estimatore e difensore, la ritiene un’azione al di sopra dei mezzi del partito bolscevico. A predire il fallimento della rivoluzione bolscevica, già all’inizio degli anni ’20, sono invece Ludwing von Mises e Max Weber. Essi giungono a una conclusione del genere in forza dell’idea già espressa da Proudhon secondo cui l’abolizione del mercato non può che significare l’abolizione della ratio economica, perciò della stessa organizzazione economico-politica imposta da Lenin. Più tardi nel tempo, a giudicare anomale sia la rivoluzione d’ottobre che l’esistenza dell’Urss, e a sostenere che un tale esperimento sarebbe stato inevitabilmente destinato al fallimento, sarà Herbert Marcuse. Sta di fatto che nonostante fosse prevalente nel movimento operaio il convincimento che il cedimento del capitalismo sarebbe cominciato nei Paesi industrializzati più antichi e progrediti dell’Occidente e non nei Paesi semi-industrializzati come la Russia, la rivoluzione bolscevica viene accolta dalla componente di sinistra del movimento internazionale come una svolta epocale. E mentre ravviva ed estende la convinzione che una società comunista può essere per davvero costruita, produce una potentissima ondata di lotte mai conosciuta prima d’allora. 5.2 – La frantumazione del movimento e l’isolamento dell’Urss Se già nel 1905, in occasione della rivoluzione russa, in Olanda si era registrata la prima scissione della socialdemocrazia occidentale dalla quale aveva preso vita un’ala sinistra del partito socialdemocratico; e se ai tempi dello scoppio della prima guerra mondiale il movimento socialista si era scisso tra favorevoli e contrari ai crediti di guerra, cioè tra sciovinisti-interventisti e internazionalisti-pacifisti, con l’avvento della prima rivoluzione proletaria esso vive la sua più grande scissione storica i cui effetti si protrarranno sino ai giorni nostri. Nel ’19 i comunisti costituiscono la Terza internazionale(Comintern), nel ’21 i socialdemocratici austriaci fondano l’Internazionale “due e mezzo”, mentre nel ’23 socialdemocratici e socialisti 137


fanno loro propria la Seconda Internazionale la quale viene denominata Internazionale Operaia Socialista. L’aspetto dominante è appunto un processo di frantumazione. In Germania si formano quattro partiti che si richiamano al movimento operaio: la Spd, l’Uspd, il Kpd e il Kapd; in Gran Bretagna addirittura sette: l’Indipendent Labour Party, il British Socialist Party, il Workers’ Committee Movement, il Socialist Labour Party, la Socialist Woekers’ Federation e poi il British Communist Party e la South Wales Socialist Society; negli Usa cinque: l’Industrial Woerkers of the World, il Socialist Party, il Socialist Labor Party, il Communist Labor Party, il Communist Party of America. Il processo di disgregazione segna dunque la generalità dei movimenti dell’Occidente. Ai tempi della rivoluzione d’ottobre, nelle aree europee della modernizzazione economica, il proletariato è molto sviluppato, ma non vanta un orientamento rivoluzionario e anziché identificarsi con il comunismo, aderisce in maggioranza ai partiti riformisti. Nei Paesi in cui il capitalismo ha avuto sviluppo ed è divenuto potente, esso costruisce attorno a sé una vasta rete di interessi che copre anche una notevole parte delle classi lavoratrici dell’industria, in maniera tale da renderle sorde ai richiami rivoluzionari. E’ solo nelle aree dove esso si è appena sviluppato, com’è il caso appunto della Russia, che si dimostra debole ed esposto all’assalto dei rivoluzionari. Nel ‘17, gli operai russi non hanno nulla da perdere, se non le loro catene; al contrario, la maggioranza degli operai dell’Europa occidentale vanta un tenore di vita che, per quanto misero possa essere, vale pur sempre la pena di essere difeso. Lenin insiste nel dire che la parte “corrotta” della classe operaia è e può essere solo una minoranza, anche se raggiunge il 20% del proletariato, come avviene per le organizzazioni operaie in Inghilterra alla fine del 19° secolo o in Germania nel 1914. Karl Radek, invece, allorché analizza le ragioni della mancata rivoluzione in Germania, sostiene che “lo strato degli operai ben pagati, convinti della stabilità della loro posizione, è molto più cospicuo in Germania, in Inghilterra, nell’America del nord, di quanto sia mai stato in Russia... una parte notevole della classe operaia si trova ancora in una buona situazione materiale... (perciò) nessun disordine!”. Le categorie di lavoratori passate economicamente dalla parte della borghesia sarebbero limitate secondo Lenin ai funzionari e ai politici dei movimenti operai riformisti; in effetti, l’influenza che questi hanno sul movimento operaio è estremamente vasta e questo è un aspetto che non costituisce motivo di severa considerazione da parte del capo dei bolscevichi. Il modello che i socialdemocratici propongono interpreta l’uguaglianza come un valore intrecciato alla libertà, come un processo graduale che si realizza con la crescita economica e con la conquista democratica dello Stato. La socialdemocrazia punta sul mercato e assegna il compito di correggere le disuguaglianze all’istituzione statale. Come sta scritto nei documenti della 2° Internazionale, lo Stato è uno strumento del dominio di classe, ma il suo carattere di classe deriva unicamente dal suo apparato governativo e legislativo. Se questo viene conquistato dal movimento, l’intero apparato statale cade senza difficoltà nelle mani della classe operaia. La via principale che conduce al potere è dunque la lotta per il suffragio universale e per un governo elettivo. Una volta raggiunti questi obiettivi, o immediatamente dopo, il proletariato può pacificamente mandare al potere il partito operaio attraverso le elezioni. I partiti socialisti e i movimenti sindacali europei, pur proclamando l’abolizione del capitalismo, non hanno una politica economica alternativa e si adattano prontamente al capitalismo riformatore. La stessa sinistra socialdemocratica concentra i suoi sforzi nel semplice miglioramento delle condizioni sociali e materiali delle classi lavoratrici. Non sapendo e non intendendo elaborare programmaticamente la connessione tra condizioni oggettive e condizioni soggettive della rivoluzione, e limitandosi a distinguere un programma minimo, buono per le situazioni non rivoluzionarie, da un programma massimo che, comunque, esclude il ricorso all’insurrezione, la socialdemocrazia, anche quando accede al potere, non modifica né intacca il sistema esistente. La separazione dei due programmi comporta anzi una scissione tra teoria e azione, tra obiettivi e organizzazione, tra tattica e strategia.

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Come osserva giustamente Sarte, “il marxismo – invece – è fondamentalmente una pratica, la cui origine è la lotta di classe. Negare questa lotta, non rimane niente”. In sostanza, si può affermare che la Internazionale operaia socialista (Ios) nasce come strumento di semplice coordinamento della lotta per la difesa delle condizioni materiali di esistenza della classe operaia e per la sua emancipazione, compatibilmente con l’egemonia del capitale. La sua struttura è di tipo federativo dato che nei suoi fondatori è viva in termini ossessivi la preoccupazione di salvaguardare a tutti i costi l’autonomia e l’unità dei singoli partiti. Negli anni dopo la prima guerra mondiale, come vedremo, la socialdemocrazia assume responsabilità di governo sia in Germania che in Austria. Nel ‘21, a Vienna, per iniziativa dei socialdemocratici austriaci, viene creata la Comunità internazionale proletaria dei partiti socialisti, nota anche come “Ufficio di Vienna” e ironicamente denominata dai suoi avversari “Internazionale due e mezzo”. Essa intende distinguersi sia dal riformismo che dal comunismo, proponendosi l’obiettivo della riunificazione del movimento operaio. Diretta da Friedrich Adler, vanta tra i suoi fondatori Karl Renner, Otto Bauer, Max Adler, Gustav Eckstein, Rudolf Hilferding e anche il fondatore dell’ortodossia marxista, Karl Kautsky. Alcuni di loro (Kautsky, Hilferding e Eckstein) in un secondo tempo opereranno in Germania. Essa ha un’esistenza di soli due anni e poi confluisce nella Ios. La socialdemocrazia austriaca rappresenta un vivaio di intellettuali marxisti che già a partire dal ‘14 si misura con gli scottanti problemi posti alla socialdemocrazia europea dalla teoria di Lenin e assume una precisa fisionomia politica diventando nota come “austromarxismo”. Il programma originale di questo movimento era stato steso a Hainfeld già nel 1888-89 ed è stato modificato nel 1901 in occasione del congresso del partito che si è svolto a Vienna. Esso viene aggiornato nel ’26 al congresso di Linz e la sua tesi più famosa è quella dell’”uso difensivo della violenza”. Aspetti essenziali della “Internazionale due e mezzo” sono: 1) l’appartenenza organica al “centro” dello schieramento internazionale; 2) la particolare posizione nei confronti dell’Unione Sovietica e del comunismo russo che la rivela assai vicina alla posizione degli internazionalisti menscevichi J.Martov e Fedor Dan. Negli ambienti della borghesia mitteleuropea, infatti, si parla di austromarxismo come di una pericolosa tendenza intermedia tra la socialdemocrazia tedesca e il bolscevismo. Una delle caratteristiche di questo movimento è la spiccata tendenza alla tolleranza nei confronti di opinioni diverse e di correnti opposte all’interno del movimento. Il “pluralismo” che lo caratterizza è una diretta conseguenza dell’”unità organizzativa a ogni costo”. Bauer sostiene che nessuna delle due ali rivali del movimento operaio deve essere “scomunicata”, né il riformismo né il bolscevismo. Vagheggia l’idea di una possibile “coesistenza” fra la socialdemocrazia occidentale e il comunismo sovietico orientale. Già alla fine della guerra viene elaborata la tesi sul “socialismo integrale” che più tardi Bauer considera come necessità al fine di non “lacerare la continuità di sviluppo del pensiero socialista”. Egli difatti sostiene che “la scissione della classe operaia a partire dal 1917 ha avuto questa conseguenza: che la democrazia e la dittatura del proletariato furono contrapposte reciprocamente. Oggi dobbiamo superare dialetticamente tale contrapposizione”. L’ala destra del movimento, raccolta attorno a Karl Renner, rifiuta la tesi degli inconciliabili contrasti di classe, mentre la sua ala sinistra, raccolta attorno a Max Adler, afferma e ribadisce l’irrinunciabilità del concetto marxiano di “dittatura del proletariato”, anche se precisa che la sostituzione della dittatura borghese con la dittatura proletaria non deve necessariamente aver luogo nella forma della dittatura aperta del bolscevismo, ma può svolgersi anche nelle forme della democrazia politica. Con questa interpretazione lo “Stato di classe” assume una “funzione sociale” e l’obiettivo essenziale del movimento consiste nel far sì che, in seguito al suffragio universale, il partito conquisti il potere statale superando il 51% dei voti. I dirigenti della socialdemocrazia austriaca si mantengono comunque immuni da tutta una serie di illusioni riformistiche diffuse in altri Paesi. La loro forza sta nell’analisi, nella comprensione storica e dialettica dei fenomeni e dei processi, cioè nell’interpretazione del mondo. La loro debolezza 139


consiste invece nel fatto che, trascurando un postulato fondamentale del marxismo, ossia l’esigenza di tradurre l’interpretazione in azione, vengono meno all’istanza formulata da Marx nell’undicesima tesi su Feuerbach e cioè “ora si tratta di trasformare il mondo”. L’austromarxismo costruisce una fitta rete di iniziative culturali, sportive, scolastiche e pedagogiche il cui scopo è quello di allargare l’orizzonte dei suoi membri, di immunizzarli contro le influenze intellettuali della società borghese e quindi di formare “uomini nuovi”. A questo proposito sviluppa la tesi secondo cui l’educazione al socialismo non può aspettare la presa del potere, ma al contrario, deve diventare un’arma affilata, un elemento integrante e rivoluzionario della lotta di classe politica e sindacale. Gli austromarxisti sono particolarmente forti a Vienna, tanto che, con la costituzione della repubblica, assumono responsabilità di governo e il loro leader Friedrich Adler viene eletto alla presidenza del comitato esecutivo dei consigli. La Terza Internazionale nasce invece con lo scopo di salvaguardare il marxismo dalle degenerazioni della socialdemocrazia e sulla base della previsione del crollo imminente del capitalismo. I comunisti sono convinti che nell’epoca dell’imperialismo, il capitalismo sia entrato nella fase della sua crisi generale e pertanto ritengono che compito del proletariato sia quello di preparare l’alternativa così come si è fatto in Russia. Convinzione unanime negli ambienti dell’Ic è che quanto è avvenuto nel Paese degli zar non sia altro che l’avvio della rivoluzione mondiale. Del resto, alla prima guerra mondiale avevano fatto seguito tentativi rivoluzionari in Germania e in alcune realtà dell’Europa orientale. Le drammatiche condizioni sociali causate dal conflitto avevano infatti alimentato nelle classi subalterne dei paesi dell’Occidente la spinta a un sovvertimento del sistema sociale. E con il crollo degli imperi tedesco e austro-ungarico, socialisti e liberali di ogni tendenza si erano impegnati in una lotta per imporre nuovi regimi. D’altra parte, in una situazione di grandi tensioni sociali, la rivoluzione russa è destinata ad accrescere le aspettative di cambiamento e perciò provoca un’estensione delle lotte. Ciò che hanno saputo fare i bolscevichi diventa un esempio da imitare, si può e si deve “fare come in Russia”: socializzare la terra e abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione, diviene l’obiettivo principale di gran parte delle agitazioni contadine e operaie. La rivoluzione d’ottobre produce così il più formidabile movimento rivoluzionario organizzato della storia moderna. Non a caso, dopo il ’17, tutta l’Europa diventa una polveriera pronta a esplodere. La Terza Internazionale viene perciò vissuta dai suoi fautori e aderenti come l’esercito rivoluzionario mondiale; i partiti comunisti nazionali vi aderiscono come sue sezioni. Il moto rivoluzionario inteso a instaurare la repubblica dei soviet, nel ‘19 investe la Germania (revolutionare obleute), l’Austria (arbeiterrate), la Gran Bretagna (shop stewards committees), l’Italia (consigli di fabbrica) e poi l’Ungheria e persino gli Stati Uniti d’America, dove il marxismo come movimento di opposizione ha avuto scarso sviluppo a causa dell’avversione degli intellettuali e dei lavoratori americani verso i concetti collettivisti, e dove a scendere in campo è l’International Workes of the World. In queste lotte e agitazioni i bolscevichi vedono una proiezione della loro esperienza e si convincono di una imminente rivoluzione a livello internazionale. La stessa guerra che la Polonia, sostenuta dal capitalismo occidentale (in particolare dalla Francia), scatena contro la Russia, nel momento in cui l’Armata rossa sembra essere vincente, viene interpretata da Lenin come un’occasione per accelerare il corso della rivoluzione in Europa attraverso la sua sovietizzazione e anche per liquidare il trattato di Versailles. Nel corso dei primi anni ’20, però, le prospettive della rivoluzione mondiale svaniscono. La potente ondata rivoluzionaria che ha portato a una serie di insurrezioni e di sommovimenti con esiti alterni, dura sino al ’23 e poi si esaurisce. Mentre in Russia la rivoluzione si consolida a fatica, altrove il socialismo subisce una dura sconfitta. I comunisti dell’Europa occidentale vengono relegati a forza minoritaria, quasi ovunque

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subiscono la repressione e vengono decimati. La tanto sospirata rivoluzione in Occidente non si realizza. I Paesi capitalistici avanzati dell’Europa occidentale deludono le attese rivoluzionarie annunciate dal “Manifesto”. E la previsione di Marx secondo cui la rivoluzione, una volta avviata in un determinato paese, si sarebbe immediatamente trasformata in una rivoluzione europea, se non mondiale, (principio radicato nella coscienza dei socialisti dell’inizio del XX secolo quale verità da non mettere in discussione) viene smentita dalla storia. Lo stesso Lenin non sa dare una spiegazione rigorosa e scientifica della mancata rivoluzione in Occidente. Egli manca di compiere un esame teorico che necessariamente avrebbe comportato la revisione delle sue analisi sul capitalismo e sulla fase storica; si limita invece a legittimare la rivoluzione russa dichiarando possibile la realizzazione del “socialismo in un solo paese” e indicando la strada della bolscevizzazione del movimento operaio internazionale. Secondo i bolscevichi, tra il ‘19 e il ‘23, la rivoluzione in Occidente sarebbe andata incontro all’insuccesso a causa dell’assenza di forze capaci di respingere le deviazioni di destra e di sinistra. Pertanto, ciò che si rende necessaria è l’applicazione del leninismo così come si è fatto in Russia nel corso delle tre rivoluzioni. Anche se il 4° congresso del Comintern “ricorda ai proletari di tutti i Paesi che la rivoluzione proletaria non può mai trionfare entro i limiti di un solo Stato”, ma “può trionfare su una scala internazionale fondendosi in una rivoluzione mondiale”, Zinov’ev ammonisce che “la caratteristica dell’epoca in cui viviamo è che, benché la crisi del capitale mondiale non sia stata ancora superata, benché la questione del potere sia ancora al centro di tutte le questioni, le più larghe masse del proletariato hanno perso la fiducia nella loro capacità di conquistare il potere in un tempo prevedibile”. Al che – conclude – “la conquista del potere come compito immediato non è all’ordine del giorno”. E Radek, nel confermare che la “decomposizione del capitalismo” è una certezza, precisa che il suo compimento richiede un “lungo processo” e che la Russia sovietica è inevitabilmente costretta, nel frattempo, “a cercare e trovare un modus vivendi con gli Stati capitalistici”. Perciò, l’obiettivo diventa quello dell’edificazione socialista nel quadro di un temporaneo compromesso con i Paesi capitalistici. Di fronte alla mancata rivoluzione in Occidente, Lenin orienta l’iniziativa in tre direzioni. 1) Favorisce il movimento antimperialistico al fine di accerchiare le roccheforti del capitalismo. 2) Sollecita l’appoggio degli operai occidentali alla rivoluzione russa. 3) Costruisce lo Stato sovietico in quanto Stato fra gli Stati. Individua quindi nell’Asia il teatro sul quale il capitalismo mondiale può essere attaccato, mettendo in luce come la transizione al socialismo non sia più da prospettarsi come una serie di rivoluzioni socialiste nei centri metropolitani, ma come una serie di rivoluzioni socialiste nei paesi che egli considera gli “anelli più deboli della catena”, e fa adottare all’Ic la linea del “fronte unico” che rappresenta appunto il passaggio dall’offensiva alla difensiva. Tuttavia, nonostante il radicale mutamento del quadro internazionale e le pesanti sconfitte che il movimento comunista subisce nei principali Paesi europei, nel ’23, l’estensione della rivoluzione proletaria in Occidente viene considerata ancora possibile, almeno da un punto di vista teorico. E fino alla morte di Lenin, ma anche per qualche tempo dopo, il rapporto tra rivoluzione russa e rivoluzione in Occidente continua a rappresentare un nesso inscindibile nella cultura politica dei bolscevichi. Al punto in cui stanno le cose, però, essi non possono più ignorare i potenti movimenti nazionalisti che fanno presa sulla classe operaia occidentale e che organizzano i lavoratori di Inghilterra, di Germania, di Austria e di Francia, in particolare, i quali antepongono alla solidarietà internazionale gli interessi dei propri rispettivi Paesi. Si rendono cioè conto che è necessario conquistare alle posizioni della 3a Internazionale gran parte del movimento operaio occidentale ancora legato al parlamentarismo e al tradeunionismo, e coinvolgerlo nella lotta per la difesa della repubblica sovietica. Questa loro esigenza si rivela però in contrasto con il programma rivoluzionario degli stessi partiti comunisti appena costituiti in 141


Occidente, i quali sono impegnati in una lotta a fondo proprio contro il parlamentarismo socialdemocratico e il tradeunionismo riformista e sono considerati nemici attivi della rivoluzione proletaria. Oltretutto, la massa degli operai che è organizzata nei movimenti socialdemocratici, rifiuta di avere a che fare con il Comintern e contrasta qualsiasi tentativo da parte di questo di formare partiti comunisti di massa. Avviene così che lo sforzo dell’Ic di dare corpo al “fronte unico” si dimostra vano. E a impedire il successo di una simile operazione sono proprio le rigidezze non soltanto di dottrina, ma anche di disciplina dello stesso Comintern che non è disposto a concedere ai partiti nazionali e alle loro leadership la libertà di decidere linea politica e tattica. L’ammissione di un partito all’organizzazione internazionale presuppone difatti l’assoluta accettazione del programma e delle norme del Comintern e l’espulsione dal partito di chi è in dissenso. I partiti aderenti ad esso sono messi in condizione di garantire la propria ortodossia escludendo in maniera rigorosa gli eretici dalle loro file. Sterilizzare il partito, ridurlo a insignificanza numerica, è considerato un male minore rispetto al diluire la sua dottrina o all’indebolire la sua disciplina. E’ così che nel ’25, nell’Ic subentra il monolitismo ideologico: il primato rivoluzionario dell’ottobre, la costruzione dello Stato sovietico, la sua difesa nelle condizioni dell’accerchiamento capitalistico, diventano la pietra angolare dell’internazionalismo proletario. Sulla mancata rivoluzione in Occidente, salvo Gramsci e qualche altro teorico non ortodosso, non rifletterà più nessuno per lungo tempo. Non lo farà la sinistra europea, tanto meno lo faranno i comunisti filo-sovietici. Eppure, il principio secondo cui la rivoluzione sarebbe scoppiata prima nei Paesi dove le forze produttive erano maggiormente sviluppate ha continuato a essere dominante nel movimento operaio internazionale almeno fino alla fine degli anni ’40, e cesserà di avere efficacia solo quando Mao porterà a termine la rivoluzione cinese è dimostrerà che il ripensamento di Lenin e del Comintern dei primi anni venti aveva un qualche fondamento. 5.3 – Il fallimento della rivoluzione in Germania Alla fine del 1918, al termine del conflitto mondiale, le organizzazioni socialiste tradizionali dell’Europa occidentale si trovano di fronte al dilagare di agitazioni spontanee da parte di vasti strati del proletariato e della popolazione. Si tratta di un movimento caotico, privo di strategia, che vanta un unico e debolissimo legame unitario consistente nella tendenza a costituire consigli degli operai e dei soldati sulla scia di quanto è avvenuto in Russia. Le formazioni politiche della sinistra si dimostrano chiaramente incapaci di garantire direzione e sbocco a queste agitazioni di massa. A rappresentare una delle situazioni di più acuto conflitto, e quindi di speranza, ma insieme di maggior complessità, è sicuramente la Germania la quale, come rivela Lenin, “ha legato mani e piedi dal trattato di Versailles e versa in condizioni tali che non può nemmeno esistere”. In effetti, a seguito della sconfitta militare, questo Paese si trova in una situazione socio-economica gravissima: il suo assetto produttivo è complessivamente in crisi, la quasi totalità della popolazione si ritrova a vivere in uno stato di miseria, la disoccupazione dilaga e la delusione per la mancata coincidenza della pace con il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, si traduce in un profondo malessere sociale. Con il trattato di Versailles, siglato nel giugno del ‘19, oltre a vedersi sottratti 75.000 chilometri quadrati di territorio con 7 milioni di abitanti e tutte le colonie, la Germania viene obbligata ad anticipare agli Stati vincitori, in conto riparazioni di guerra, ben 20 miliardi di marchi-oro. L’ammontare totale delle riparazioni risulterà talmente elevato che per essere precisato necessiterà di accertamenti e di calcoli che verranno compiuti nel corso degli anni. Nel periodo successivo al primo conflitto mondiale, il Paese viene investito da una spaventosa crisi economica i cui effetti vengono fatti ricadere principalmente sulla classe operaia e sui ceti popolari. La borghesia tedesca non rinuncia neppure per un solo istante ad arricchirsi sulla pelle di tutti gli altri strati della società e attraverso la speculazione finanziaria e la fuga dei capitali all’estero trascina l’economia in una spirale inflazionistica senza precedenti. 142


In una situazione socio-economica di tal genere il clima non può che essere esplosivo. Nonostante che in Germania, a differenza che in Russia, non esista un movimento contadino interessato a impadronirsi delle terre dei grandi latifondisti, e il grado di disfacimento dell’esercito non sia affatto disastroso, sebbene abbia subito una dura sconfitta, la situazione è tale da risultare insurrezionale. Rosa Luxemburg, che guida la “Lega di Spartaco”, ritiene che il potere pubblico, l’attività legislativa e l’amministrazione, debbano essere affidati nelle mani dei consigli degli operai e dei soldati. E’ questo un suo convincimento perentorio, nonostante essa nutra il timore dell’immissione nel partito di una larga maggioranza di teste calde rivoluzionarie che possono forzare (proprio come poi succederà) il partito stesso ad avventure per le quali non è pronto a gestire e rispetto a cui la stessa situazione politica non appare matura. Difatti, molti di coloro che aderiscono alla formazione spartachista sono militanti esasperati che credono nella bontà della forza e della violenza. E la presenza di questa dualità d’intenti tra vertice e base del partito diventa appunto una delle cause delle atrocità del potere contro le agitazioni operaie e popolari. I consigli locali degli operai e dei soldati costituiscono vere e proprie milizie permanenti (Volkswehren) la cui forza viene stimata tra i 100.000 e i 200.000 uomini. Ad avere la supremazia militare sono, però, i “freikorps”, cioè quei reparti composti da soldati reduci del fronte che sono rimasti obbedienti agli ufficiali e i quali costituiscono un serbatoio di reclutamento per combattere i rivoltosi e difendere il governo. I moti insurrezionali vengono prevenuti con notevole abilità dal governo e l’iniziativa di lotta degli spartachisti del gennaio ’19 porta al massacro dei migliori rivoluzionari. Nel corso delle lotte sociali del ’18-19 muoiono 15.000 proletari e tra loro ci sono Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Una delle cause della sconfitta proletaria è senz’altro l’abbandono degli spartachisti allo spontaneismo di movimento che porta all’isolamento di qualsiasi azione di piazza. Con la proclamazione della repubblica, nel novembre ’19, ha termine l’era del potere assoluto e al governo del Paese accede, in compagnia dei partiti della borghesia, il partito socialdemocratico. Il nuovo governo si rivela però dipendente dai magnati del capitale e continua a essere gestito dalla vecchia burocrazia. La nascente Repubblica di Weimar, le cui redini del potere sono tenute proprio dalla Spd, lascia immutato sia il vecchio apparato dello Stato sia i rapporti di produzione. Assumendo un atteggiamento mistificatorio, mette in condizioni il movimento rivoluzionario di procedere, in contrapposizione al governo centrale, alla costituzione dei consigli degli operai e dei soldati al fine di dare una qualche soluzione ai bisogni delle classi proletarie. Nelle campagne, accanto ai braccianti, esiste un forte ceto di contadini proprietari e anche una numerosa piccola borghesia. Questi ceti fanno affari d’oro proprio in forza della crisi e a buona ragione sostengono le forze della conservazione contro il fronte riformatore. L’esperienza tedesca dei consigli si consuma pertanto in una situazione di caos sociale e politico, di forti contrasti e opposizioni da parte sia della borghesia che degli stessi socialdemocratici. E’ però da rilevare che il movimento insurrezionale si rivela privo di un progetto strategico capace di passare dal sistema capitalismo in crisi alla sperimentazione di una società fondata su principi socialisti. Un enorme peso negativo è poi rappresentato dalle profonde divisioni che lo segnano. Infatti, se i marinai sono su posizioni radicali, le guarnigioni militari, pur in stato di disgregazione, sono favorevoli alla Spd, quindi al governo. La stessa gran massa dei proletari fa riferimento alla socialdemocrazia e guarda con scetticismo alle formazioni comuniste. Mentre gli occupati sono tendenzialmente schierati con i socialisti, a stare dalla parte dei comunisti sono solamente i disoccupati. Nel corso degli inevitabili scontri, il movimento operaio di sinistra si presenta diviso in ben quattro formazioni politiche: la Spd, l’ Uspd, il kpd e il Kapd (fondato nell’aprile del ’20). Si tratta di una spaccatura che passa prima ancora che tra masse e vertici, tra ambedue questi mondi attraversandoli diametralmente. Se la maggioranza degli operai è favorevole per principio al socialismo, solo un piccolo numero di essi è disposto a conquistarlo con le armi. Convinzione diffusa nel movimento operaio è che a rappresentare gli “esperti in materia di rivoluzione” sono esclusivamente i socialdemocratici i quali, per di più, rispetto ai comunisti sono al potere. 143


Di fatto, il partito socialista riformista, cioè la Spd, è un tenace e influente difensore della società borghese, nonostante questa si presenti in pieno fallimento. Esso, del resto, aveva tradito la propria funzione internazionalista già all’inizio della grande guerra e alla conferenza di Berlino delle tre Internazionali aveva rifiutato di appoggiare la richiesta di revisione del trattato di Versailles. Con l’entrata nel governo della Repubblica di Weimar, i suoi quadri assaporano il gusto del potere e si scrollano di dosso i residui della tradizione rivoluzionaria. Il partito socialdemocratico sarebbe nella possibilità di influenzare la classe operaia e di supportarla nelle sue istanze rivendicative, ma esso, non intendendo rompere le alleanze di governo conseguite, rinuncia a sfruttare la possibilità di determinare un cambiamento. Nel ’21, dopo la formazione del governo Wirth, composto da rappresentanti del Zentrum, della Spd e della Ddp (Partito popolare), e teso all’adempimento delle clausole del trattato di Versailles, scoppia di nuovo un’ondata di proteste e di scioperi. L’anno successivo, all’interno della Spd, dopo che si è unificata con ciò che è rimasto dell’Uspd, con il conseguente rinnovamento dell’apparato, si sviluppa una corrente che è interessata a discutere con i comunisti e ad agire con loro, ma nel momento in cui gli operai si scontrano con il governo, la maggioranza del partito si schiera a difesa della borghesia. La situazione diviene contraddittoria a tal punto che, a fronte della politica rinunciataria praticata dalla Spd, il partito comunista dà segni di odiare i socialdemocratici con un’intensità maggiore di quella che dimostra di avere nei confronti dei nazisti i quali sono in fase di consolidamento politico. Quella comunista, del resto, è una formazione che a seguito delle battaglie del gennaio ’19, nel corso delle quali sono stati assassinati i suoi massimi dirigenti, è costretta all’illegalità in quasi tutto il territorio nazionale e ciò giustifica la sua profonda avversione verso la Spd. I comunisti considerano poi impossibile la rivoluzione socialista senza che si sviluppi una guerra civile, e loro obiettivo primario è il rovesciamento violento del governo guidato dal socialdemocratico Ebert. A criticare l’estremismo di sinistra del partito comunista tedesco interviene lo stesso 3° congresso del Comintern che si scaglia contro lo “spartachismo avventuriero”. Nell’autunno del ’22 il Kpd mette a punto un progetto di programma il cui obiettivo è quello di trasformare le organizzazioni riformiste in strumenti di lotta per il rovesciamento del potere borghese. A questo scopo rivendica la trasformazione delle aziende capitalistiche in sindacati e in trust nazionali attraverso la partecipazione dello Stato e il controllo degli organismi economici degli operai e degli impiegati (consigli di fabbrica e sindacati professionali) in maniera di attribuire ai consigli operai l’intero potere statale. Poi prospetta la coesistenza dei consigli con il sistema parlamentare e, in alternativa alla coalizione borghesia-socialdemocrazia, propone il “fronte unico”. E’ la fase in cui i consigli s’insediano nelle regioni centrali del Paese, a Berlino e nel bacino della Ruhr, controllando la produzione e limitando fortemente il potere dei capitalisti nelle stesse imprese. Ai primi del ’23, la situazione precipita. La Francia e il Belgio, dopo aver rifiutato in maniera risoluta di concedere ai tedeschi una dilazione dei pagamenti in conto riparazioni, con il pretesto della ritardata consegna di legname, occupano militarmente la Ruhr. In conseguenza di questa invasione la Germania subisce un collasso economico. Perderà, infatti, quasi la metà della sua produzione di ferro, oltre due terzi di quella di ghisa e quasi il 90% di quella di carbone. Nelle case di 30 milioni di tedeschi, cioè della metà della popolazione, fa così ingresso la fame. Il costo della vita cresce rapidamente e in misura esponenziale a causa di una precipitosa e prolungata svalutazione del marco. A seguito dell’invito rivolto ai lavoratori dal governo tedesco di procedere a uno “sciopero passivo”, si verifica un’ondata di scioperi spontanei che sfugge a qualsiasi direzione. In agosto si mobilitano tutti i lavoratori del Paese. I proletari sono più di 20 milioni, 13 dei quali sono organizzati nei sindacati. Non esiste città tedesca in cui non ci si prepari allo scontro alla cui testa ci sono i comunisti. In ogni dove vengono segnalati tentativi di saccheggio dei negozi, mentre le casalinghe mettono le mani sulle scorte di patate nei mercati. A quel punto, però, alle agitazioni fanno seguito brutali interventi 144


della forza pubblica che provocano morti e feriti. Vengono soppressi i 40 quotidiani dei comunisti. La polizia di Ebert giunge addirittura a offrire fino a 15 mila marchi-oro per la cattura di un militante comunista. Lo stesso governo della grande coalizione, al fine di disarmare le centurie operaie della Sassonia e della Turingia, non esita a richiedere l’aiuto delle famigerate “bande antioperaie” di Hitler che già rappresentano una seria minaccia per la stessa repubblica. Si consideri che nell’autunno del ‘23 il salario di un operaio non supera il 15-20% di quello anteguerra e mentre i prezzi del commercio all’ingrosso crescono di 286.248 volte rispetto a quelli di prima del conflitto, i salari vengono maggiorati di sole 87.000 volte. Mentre a metà ottobre un metallurgico percepisce un salario di 6 miliardi e 500 milioni di marchi, a fine mese una libbra di salsiccia affumicata costa 64 miliardi, quattro libre di pane 25 miliardi, un litro di acqua 21 miliardi. E nel successivo mese di dicembre un giornale quotidiano viene pagato addirittura 50 miliardi di marchi. In circolazione ci sono quasi novanta tipi di cartamoneta. Supponendo che quelle del tempo di pace fossero uguali a 1, nel ’23 le uscite dello Stato accusano un aumento pari a 3.500.000 volte, mentre le entrate registrano una crescita di sole 77.250 volte. Se per le classi subalterne la bancarotta del Reich rappresenta fame e miseria (da 5 a 6 milioni di lavoratori fanno la settimana corta o la giornata corta, mentre il numero dei disoccupati supera i due milioni di unità), per gli ambienti capitalistici e finanziari essa costituisce fonte di profitti senza paragoni. In novembre, nel centro di Berlino avvengono autentici pogrom alla maniera russa di un tempo: dalle finestre vengono scaraventati in strada mobili e stoviglie delle famiglie degli ebrei. Il soffocamento del tentativo di una rivoluzione socialista in Germania si compie dunque attraverso una collaborazione tra socialdemocratici, liberali e nazional-socialisti. La sconfitta dei comunisti tedeschi costituisce però anche la dimostrazione che, nell’Occidente capitalistico, senza la guida di un’organizzazione politica unitaria, capace di darsi precisi obiettivi strategici e di elaborare una prospettiva di trasformazione della società, creando attorno a sé un vasto e organico schieramento di forze sociali e ideali, ogni azione insurrezionale è condannata alla sconfitta. In quel momento, in Germania, simili condizioni non esistono, di conseguenza, quella rivoluzione a cui Lenin e i bolscevichi avevano affidato le prospettive di costruzione del socialismo nella stessa Russia non si realizza. Durante le agitazioni operaie che si svolgono in terra tedesca, i sovietici si mobilitano in campagne di sostegno dei compagni in lotta inviando loro grano e altri generi di necessità. Lenin è profondamente convinto della possibilità-opportunità di stabilire con una Germania sovietizzata un proficuo e reciproco rapporto di concreta solidarietà. Ai tedeschi e ai popoli dell’Occidente invia un messaggio esplicito: “Un’esigua minoranza di paesi imperialistici si arricchisce, mentre tutta una serie di altri paesi è sull’orlo della rovina. L’economia mondiale deve essere riorganizzata”. Noi “possediamo centinaia di migliaia di terre eccellenti che si possono lavorare con i trattori: voi avete i trattori, avete il carburante e disponete di operai specializzati; proponiamo pertanto a tutti i popoli, compresi quelli dei paesi capitalistici, di fare della ricostruzione dell’economia nazionale e della salvezza di tutti i popoli dalla fame la pietra angolare della propria azione”. Quando nel ’22 l’Urss sottoscrive con il governo tedesco il secondo trattato di Rapallo, Lenin sostiene che “con i suoi 150 milioni di abitanti e il suo carattere eminentemente agricolo, in alleanza con la Germania, con la sua industria di primo ordine”, quell’accordo può significare “una cooperazione economica talmente possente” da “spazzare via tutti gli ostacoli” alla costruzione del socialismo in Russia. Ed è convinto che i tedeschi possono essere “indotti ad allearsi con la Russia”. E’ proprio in forza di questo convincimento che i dirigenti bolscevichi si mobilitano e aiutano concretamente il proletariato tedesco a costruire il suo “ottobre”. Questa mobilitazione prosegue fino all’ultimo, nonostante che alcuni dirigenti, tra cui Radek, che segue da vicino quegli avvenimenti, si siano convinti che dopo il ’19 “non è più possibile contare su un grande movimento rivoluzionario in Europa a breve scadenza”.

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Di fronte al fallimento della rivoluzione tedesca, Lenin lancia una feroce accusa: “A capo del partito operaio tedesco marxista comparve una banda di furfanti matricolati, la più sudicia feccia di mercenari del capitalismo da Scheideman e Noske a David a Legien, i più ripugnanti carnefici della classe operaia al servizio della monarchia e della borghesia controrivoluzionaria”. Se a riguardo del “tradimento” dei socialdemocratici non è possibile avere dubbi, il sottacere le responsabilità degli stessi comunisti significherebbe non essere obiettivi e quindi falsificare la storia. Come ha ben evidenziato Victor Serge, analizzando l’insuccesso della rivoluzione in Germania, “l’errore più grave nel piano strategico del partito comunista consisteva nel compiere preparativi unicamente in previsione della lotta finale per la conquista del potere politico, rifiutando e addirittura opponendosi all’organizzazione di azioni parziali o di azioni per rivendicazioni parziali con mezzi e metodi meno aggressivi… il partito non ha avuto una chiara percezione del peso enorme della massa socialdemocratica che occorreva scuotere”. Che il proletariato tedesco abbia dimostrato di non essere ancora maturo per costituirsi in classe egemone e abbia dato prova di grande ingenuità politica, mi pare evidente. Credo però che a quell’epoca, sia in Germania che nei Paesi più avanzati dell’Occidente, a non essere mature per una rivoluzione socialista, fosse non solo la soggettività del movimento, ma le stesse condizioni socioeconomiche di quelle società pur capitalisticamente mature. 5.4 – Le esperienze di governo delle sinistre europee dopo la “grande guerra” All’indomani della prima guerra mondiale un sesto del pianeta è investito dalla rivoluzione proletaria il cui obiettivo, almeno per le sue avanguardie più coscienti, è la costruzione di una società socialista. La maggioranza dello schieramento delle forze di sinistra si propone di imprimere un cambiamento non con il ricorso alle armi, come si è fatto in Russia, ma tramite l’azione democratica. Su questa linea di condotta le formazioni della sinistra vanno al governo in diversi Paesi in coalizione con i partiti liberali e repubblicani. Tra il ’17 e il ’19 si formano governi comprendenti le forze socialdemocratiche e socialiste in Svezia, Finlandia, Germania, Austria e Belgio e nel decennio successivo in Gran Bretagna, Francia, Danimarca e Norvegia. Si tratta ovunque, almeno negli intenti originari, di tentativi di costruzione di una società alternativa al capitalismo, tanto è che in alcuni casi a queste coalizioni vi partecipano anche partiti o esponenti comunisti. Mentre però alcune di queste esperienze sono contrassegnate da sinceri tentativi di trasformazione della realtà, ovunque la convivenza coi partiti della borghesia nella gestione del potere favorisce il processo di integrazione dei socialdemocratici nel sistema dominante. Un aspetto che con ferma l’iniziale volontà di cambiamento da parte di chi si cimenta in queste sperimentazioni è rappresentato dall’obiettivo dichiarato della “socializzazione”. Si tratta di un intervento di politica economica che si propone l’esclusione della figura del libero imprenditore e il trasferimento dei mezzi di produzione alla proprietà collettiva e la loro gestione da parte dei lavoratori. E’ lo stesso Kautsky a formulare un diritto statale di prelazione per l’acquisizione delle proprietà fondiarie. Secondo le sue teorie, sia il settore industriale che il latifondo e le foreste devono essere espropriati immediatamente, mentre la restante proprietà rurale deve essere socializzata. Dunque, anche i socialdemocratici, nella fase successiva alla “grande guerra”, prevedono la totale soppressione della proprietà privata. E secondo molti degli assertori della “socializzazione”, l’iniziativa privata deve essere sostituita da uno sviluppo estensivo della cooperazione identificando la “socializzazione” con una unione di cooperative il cui compito è appunto quello di soppiantare il settore a economia privata. Dai protagonisti di queste esperienze viene fatta una distinzione tra “socializzazione globale”, che deve fondare su un piano centralizzato e su una totale eliminazione della proprietà privata, e “socializzazione parziale” che consiste invece in un processo graduale.

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Questi progetti di socializzazione non vengono concepiti in antitesi all’ordine capitalistico, ma vengono fondati sull’economia di mercato in alternativa all’individualismo capitalistico: i proletari devono sostituirsi agli imprenditori e fare il loro stesso mestiere. Altre esperienze meritevoli di attenzione sono quelle che vengono definite del “socialismo planista”, le quali nascono in tempi successivi alle sperimentazioni di socializzazione e si sviluppano sulla base di una analisi critica e di una lotta politica contro il libero scambismo, cioè contro la subalternità della maggioranza dei partiti socialdemocratici europei all’ortodossia economica dominante. Si tratta di esperienze che trovano origine nel “socialismo gildista” e in altre correnti di pensiero fabiane sviluppatesi in Gran Bretagna e anche nelle elaborazioni di De Man, in Belgio, e della “scuola” di Myrdal, in Svezia. Allorquando le socialdemocrazie di questi Paesi diventano partiti di governo, esse si prodigano a risolvere in modi diversi i problemi che si trovano di fronte, sulla base delle rispettive particolarità nazionali. Elaborano politiche anticrisi (piani del lavoro, politiche monetarie, politiche della spesa pubblica, politiche sociali, ecc.) che si incrociano o addirittura anticipano il dispositivo della “regolazione keynesiana”, influenzando così gli assetti futuri dei rispettivi Paesi (per esempio il tipo di welfare state che troverà realizzazione nel secondo dopoguerra). Ad adottare tali politiche, oltre alla socialdemocrazia tedesca, sono, nel ’31, le Trade Unions britanniche; nel ‘32-33, il movimento operaio belga; nel ’34-35, la Cgt francese; e poi le organizzazioni operaie svizzere, quelle olandesi, danesi, norvegesi e svedesi. Negli anni ’30, in Belgio, in Francia e nei Paesi scandinavi il “planismo” diviene la base programmatica dei governi socialisti e socialdemocratici. Tutte queste esperienze meritano una riflessione. Una delle testimonianze più significative di come venga intesa la “socializzazione” è senz’altro il caso dell’Austria. Nel ’18-19, la Repubblica austriaca è sotto l’influenza determinante della socialdemocrazia dal momento che il suo consenso elettorale raggiunge il 41,13% nell’intero Paese e il 59,98% a Vienna. Il socialdemocratico Karl Renner diventa cancelliere, mentre Otto Bauer viene designato al ministero degli affari esteri. E’ proprio quest’ultimo a mettere a punto un piano che concepisce la statalizzazione dei mezzi di produzione come il compimento di un processo di organizzazione produttiva e riproduttiva. Attraverso un’accelerazione politicamente pilotata, questo piano punta all’emarginazione dell’imprenditore singolo e alla sua trasformazione in rentier . Si tratta evidentemente di una teoria che si distaccava in maniera netta dalla concezione marxiana della socializzazione. E’ convinzione di Bauer che “se la dittatura, che dispone dell’apparato statale di produzione, è sostituita da una democrazia, essa si trasformerà in un’organizzazione socialista della società”. Sulla base di questa teoria viene messa a punto una legislazione che affronta cinque questioni di fondo e precisamente: l’espropriazione delle aziende, la creazione di imprese collettivistiche, la municipalizzazione, l’istituzione dei consigli d’azienda e l’elettrificazione. Questo progetto viene varato unitamente a un programma di riforme nel campo della politica fiscale, della previdenza sociale, dell’edilizia popolare, della pubblica istruzione e della sanità; misure queste che già trovano realizzazione a livello dei comuni laddove ad amministrarli sono i socialisti. E’ da notare che gli austromarxisti vedono nella loro partecipazione alla coalizione di governo l’eccezione, mentre considerano la collocazione all’opposizione la regola; secondo la loro logica, al governo si può e si deve andare solo se la socialdemocrazia diventa forza predominante nello Stato. I socialdemocratici austriaci si dimostrano però incapaci di analizzare i meccanismi di funzionamento del “capitalismo organizzato” e non riescono a scorgere all’interno delle sue stesse articolazioni e dei suoi meccanismi, l’incompatibilità con l’auspicato processo di democratizzazione dell’economia. Nei primi anni ‘30, di fronte al dramma della disoccupazione di massa, lo stesso Otto Bauer imposta una riflessione su socialismo e piano e si cimenta con le forme di regolamentazione del mercato proponendo un allargamento degli ambiti di operatività della politica economica.

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Da questo ripensamento deriva il “planismo” che, appunto, si pone l’obiettivo di creare occupazione, aumentare il potere d’acquisto delle masse, democratizzare l’economia e programmare le nazionalizzazioni. A causa però della mancanza di lucidità d’analisi, il pur apprezzabile progetto di cambiamento della socialdemocrazia austriaca (che trova non a torto espressione nella raffigurazione della “Vienna rossa”) non si materializza. Attaccato violentemente dalla destra borghese, esso si traduce in una pietrificazione dell’economia e in una caduta verticale della mobilità della forza-lavoro. L’esperimento si conclude con una rivincita di quegli stessi capitalisti che il progetto di “socializzazione” si poneva di soppiantare. La cosiddetta “terza via” degli austromarxisti si trasforma così in tragedia. Non diversa da quella austriaca è la sorte dell’analoga esperienza che viene compiuta in Germania dalla Repubblica di Weimar. Anche la socialdemocrazia tedesca nutre la convinzione che sia sufficiente appropriarsi delle istituzioni statali esistenti per governare in maniera oculata l’economia capitalistica. Nelle sue file è diffusa la cultura della razionalizzazione, alla cui base c’è la pretesa di ridurre la complessità dei processi istituzionali e socio-economici alla semplice amministrazione dell’apparato statale. Lo Stato viene concepito dai socialdemocratici tedeschi non come un’unità sovrana separata e al di sopra della società, ma come una fra le molte istituzioni sociali, con un’autorità non superiore a quella delle chiese, dei sindacati, dei partiti politici e dei grandi gruppi economici e professionali. L’epoca della Repubblica di Weimar è comunque contraddistinta da una febbrile ed esagitata ricerca, densa di inquietanti interrogativi sul destino dell’uomo moderno, combattuto fra il desiderio dell’estensione della prosperità e la critica dei modi della sua realizzazione. Tra il ’18 e il ’19, in Germania viene progettata la socializzazione dell’industria estrattiva del carbone e viene attuata la municipalizzazione di alcune aziende. Uno degli ispiratori e sostenitori di questa esperienza è Walther Rathenau, famoso industriale e ministro della Ricostruzione e degli Esteri. In “Economia nuova”, libro da lui scritto nel ’17, sostiene la tesi dell’estensione del controllo collettivo sull’economia mediante l’intervento statale intendendolo appunto come strumento di organizzazione razionale e di ricomposizione sociale. Rathenau crede nella possibilità di attuare una pianificazione neutrale e persegue l’obiettivo di un perfezionamento della società al di fuori dei rapporti effettivi di classe. In questa ottica punta su un incremento generalizzato della produttività fondato sul progresso tecnico e su un migliore trattamento della forza lavoro. Questa radicale revisione del rapporto tra istituzioni ed economia, non comporta evidentemente la negazione del capitalismo, ma si propone il semplice miglioramento del sistema sia sul piano sociale che su quello dell’efficienza produttiva. Di fatto, la politica di socializzazione conferisce un certo dinamismo al sistema industriale e fa della Germania degli anni venti un laboratorio in cui si sperimenta il “socialismo del capitale”. Si verifica un salto nello sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e si assiste alla nascita dell’“industria culturale”. Tutti questi cambiamenti determinano però nuovi bisogni e nuove problematiche. Il processo capitalistico di ristrutturazione trasforma anche socialmente la Germania, provoca una divisione tra città e periferia, modifica il costume dei suoi abitanti e approfondisce la già diffusa antinomia cultura-civilizzazione. Un importante ruolo conservatore in questa metamorfosi lo gioca la Chiesa cattolica, favorita dal carattere chiuso e provinciale della piccola borghesia e di un mondo agricolo arretrato e reazionario. Il timore per le novità generano un’ansia di ritorno alle origini e questo clima crea molteplici e profonde tensioni. Alla fine del decennio degli anni ‘20, mentre la piccola borghesia reclama un proprio status e le forze della conservazione si coalizzano, la sinistra viene investita da una crisi che mette a nudo le profonde contraddizioni sia nella sua tattica che nella sua strategia. E nel vuoto che si crea, si inserisce di prepotenza il movimento nazista. Anche a causa dell’inadeguata analisi dei processi in atto, la socialdemocrazia non si rende conto 148


che la ristrutturazione sociale perseguita attraverso la politica di socializzazione, produce uno spostamento del potere non a suo favore, ma a vantaggio delle forze di destra. Anche in Svezia, nel ’21, il partito socialdemocratico va al governo e, dopo essere passato all’opposizione, vi ritorna nei primi anni ’30. Durante il periodo in cui è al potere sperimenta un genere di “planismo” che gli consente di ottenere rilevanti successi soprattutto sul fronte dell’intervento nel sociale. La sua “middle way” (“terza via”) si concretizza attraverso la creazione di servizi sociali, la ridistribuzione del reddito e anche con l’attribuzione del potere ai sindacati, più che attraverso una politica di nazionalizzazioni. Già all’indomani della grande crisi, la socialdemocrazia svedese mette a punto efficaci forme di lotta alla disoccupazione e strumenti di concertazione e di arbitraggio fra padronato e sindacati (patto di Saltjobaden del ‘38), conseguendo soddisfacenti risultati, anche se l’obiettivo del pieno impiego si realizzerà solo negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Il modello svedese, quello degli anni ‘50 e ‘60 che qualcuno a definito “socialismo della domanda”, è proprio il prodotto delle scelte compiute negli anni ‘30. Il compromesso storico che viene stipulato in quegli anni tra il movimento operaio e le forze del capitalismo svedese, garantisce notevoli conquiste sociali, ma come vedremo più avanti affrontando il tema della cogestione, comporta l’accantonamento dell’obiettivo del controllo sociale e politico dello sviluppo produttivo. Sia le esperienze di “socializzazione” che quelle di “planismo”, purtroppo naufragano assai velocemente: le prime all’inizio stesso del decennio degli anni ’20, le seconde in quello successivo. Per anni in molti si sono interrogati sulle ragioni di questo fallimento e sul perché le forze del socialismo, dopo aver conquistato il potere, non sono riuscite a realizzare i loro obiettivi. Da tempo ormai però queste esperienze non sono più oggetto di riflessione, nonostante che un’analisi critica di quei mancati successi si riveli utile, ancora oggi per comprendere gli errori che sul fronte delle scelte economiche sono stati compiuti e che sarebbe bene non ripetere. Per quanto riguarda le esperienze di “socializzazione”, quelle compiute in Austria e in Germania, le ragioni del loro fallimento sono molteplici. In estrema sintesi esse possono riassumersi nel modo seguente. Anzitutto è da rilevare l’abisso che si è registrato tra i teorici e i fautori di questa politica e le masse dei lavoratori, cioè coloro che avrebbero dovuto essere i soggetti della attuazione di quei progetti. Gli stessi dirigenti della socialdemocrazia, pur essendo mossi da una ferma volontà di affrontare un simile esperimento, hanno dimostrato di non avere le competenze tecniche indispensabili a gestire un così complesso processo. I dirigenti del movimento operaio che, a seguito della conquista del potere, hanno conseguito posizioni di prestigio nell’apparato statale, non hanno saputo sottoporre al proprio controllo la burocrazia e hanno tentennato nell’applicazione delle regole che essi stessi avevano stabilito. Essendo state limitate per legge le competenze dei consigli operai, queste strutture sono state conseguentemente ridotte a semplici esecutrici di attività economiche decise sulla loro testa e quindi sono state relegate al disbrigo degli affari correnti. Con questa scelta è stato esautorato l’unico soggetto di potere alternativo alla figura del capitalista che si voleva eliminare. E’ stata questa, d’altronde, una emarginazione che ha trovato compiacenti le stesse organizzazioni sindacali tradizionali, le quali hanno preso sempre più chiaramente le distanze da una “socializzazione” che appariva loro nebulosa e alla quale hanno preferito un’altrettanto nebulosa “democrazia economica” che si limitava a rivendicare consistenti miglioramenti salariali. E’ poi mancata la capacità dello stesso schieramento di sinistra di legare a sé e di coinvolgere in un così delicato processo di trasformazione socio-economica gli indispensabili alleati. Difatti, la piccola proprietà che si aspettava una protezione contro lo strapotere del capitale, è alla fine rimasta delusa dalle scelte di governo al quale ha poi tolto il suo appoggio, mentre i contadini, che avevano sostenuto il movimento operaio nella fase di ascesa al potere, pure delusi, sono ritornati ben presto nel campo borghese. A non essere coinvolti nei progetti sono stati anche gli intellettuali e i liberi professionisti che, se per lunghi anni sono stati ostili al socialismo, dopo la rivoluzione si erano ad esso avvicinati. Le stesse donne, che per tradizione erano state tenute lontano dalla politica, non 149


sono state sollecitate e convinte a esercitare quel diritto di voto che con l’avvento della repubblica era stato loro riconosciuto. In sostanza, sono venuti a mancare, o per meglio dire sono risultati assenti dalla politica di “socializzazione”, molti presupposti per un’operazione alternativa al sistema. Pertanto, la tesi secondo cui il capitalismo avrebbe potuto essere modificato, anziché essere distrutto, e sarebbe bastato occupare gli alti comandi dell’economia per poter dare un indirizzo diverso all’economia, si è dimostrata sbagliata. Come aveva sostenuto Marx, in assenza di una critica del modo di produzione capitalistico, la realizzazione di una società socialista si rivela impossibile. La ragione del fallimento delle esperienze “planiste” è invece un’altra. Come abbiamo visto, i “piani del lavoro” dei primi anni ’30 si propongono un diverso governo dell’economia e delle istituzioni. E’ infatti proprio sui terreni delle tecniche di politica economica, della riforma dello Stato e della ridefinizione del nesso tra socialismo e lotta congiunturale che essi si cimentano. Non è un caso che la lotta per il piano ad alcune componenti socialiste e comuniste sia apparsa come il terreno di traduzione politica dell’utopia, cioè l’occasione di vera saldatura tra il movimento di lotta e l’obiettivo finale. Il grande limite dell’esperienza “planista”, oltre ovviamente a talune manchevolezze comuni alle stesse esperienze di “socializzazione”, è costituito dal suo orizzonte nazionale e dal conseguente abbandono dell’idea di un processo rivoluzionario permanente e mondiale. Nonostante i fallimenti di queste esperienze, alla sinistra socialista e socialdemocratica dell’Occidente europeo va riconosciuto il merito di aver sperimentato in termini concreti sul campo, nel periodo tra le due guerre mondiali, il nodo teorico della socializzazione dei mezzi di produzione e del controllo sociale dell’economia. Dopo di allora alla sinistra europea è mancata la sensibilità di ripetere in chiave moderna un analogo esperimento e si è limitata semplicemente ad affrontare il tema della democrazia economica in forme compatibili con il sistema capitalistico. Tentativi di realizzare la socializzazione del modo di produzione sono stati invece compiuti all’esterno delle aree capitalisticamente mature e, come vedremo, anche lì sono tutti falliti. 5.5 – La nascita del Pci e l’affermazione del fascismo In Italia il marxismo viene recepito tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando a imperare è il positivismo. Questo fa sì che la teoria marxiana venga assunta in una visione metafisica e provvidenziale della storia, cioè come una sorta di “darwinismo sociale” e di “determinismo economico”. Di conseguenza, a dominare è l’opinione secondo cui il capitalismo avrebbe segnate le tappe della sua decadenza nel suo stesso dna e che il socialismo sarebbe un suo naturale e inesorabile approdo. Dal punto di vista politico e organizzativo, la caratteristica più significativa del movimento operaio italiano di quel periodo è rappresentata dall’indiscussa egemonia dei massimalisti, i quali costituiscono la corrente più consistente, ma dimostrano l’incapacità di andare oltre il verbalismo rivoluzionario. Il partito socialista e la Confederazione generale del lavoro sono naturali bacini di raccolta di tutte le espressioni popolari radicali, le quali vi rifluiscono spontaneamente nell’intento di trovare un soggetto unificante e una guida che fornisca loro un obiettivo. Proprio a causa di queste dinamiche, sia il partito che il sindacato diventano luoghi di scontro permanente: dapprima la guerra si scatena tra gli intransigenti e i riformisti, successivamente scoppia tra i riformisti e i massimalisti. Le battaglie e le polemiche interne al movimento investono sia la base che i vertici. Per avere un’idea di quanto è teso il clima fra i diversi schieramenti, si consideri che, negli anni a cavallo del secolo, Antonio Labriola e Filippo Turati si odiano cordialmente e non perdono occasione di parlar male l’uno dell’altro: “Labriola è grande soprattutto nel piccolo sentimento di ritenersi tale”, dice Turati, mentre Labriola definisce la “Critica sociale”, diretta dal capo dei riformisti, “un giornale che è un foglio di reclame da rigattieri”. A questa condotta litigiosa che investe l’insieme del gruppo dirigente, corrisponde una scarsa sensibilità, se non addirittura una vera e propria sottovalutazione, 150


verso i problemi della complessa realtà nazionale e pure un’estraniazione da ogni discussione di carattere internazionale. Difatti, il socialismo italiano di quel periodo non è per niente sincronizzato con le esperienze europee, con quella tedesca in particolare che è sicuramente la più interessante, e proprio per questa ragione i socialisti di casa nostra non hanno alcun peso nella polemica che si svolge a livello internazionale. Scrive Gramsci su “L’Ordine nuovo”: “Il partito socialista assiste da spettatore agli eventi, non ha mai un’opinione sua da esprimere che sia in dipendenza dalle tesi rivoluzionarie”. Il deficit politico-strategico del socialismo italiano, in particolare della corrente massimalista che risulta maggioritaria nella gestione del partito, si manifesta in maniera palese nel corso del “biennio rosso”, allorquando la corrente riformista, di fronte al dilagare delle lotte operaie nelle regioni del Nord Italia, decide di perseguire la linea del sabotaggio. Quando i bolscevichi prendono il potere in Russia, il Psi è diviso in tre correnti: accanto ai massimalisti e ai riformisti esiste una corrente comunista che non si limita a esprimere solidarietà agli artefici della rivoluzione d’ottobre, ma incalza il partito perché si mobiliti e imiti i fautori dei soviet. Una simile pretesa fa precipitare i già precari equilibri compromissori conseguiti tra le varie correnti e induce i comunisti a preparare la scissione. Al congresso di Livorno, nel gennaio del ’21, il Psi dunque si spacca e nasce il Partito comunista d’Italia. Antonio Gramsci giudica in senso critico e tutt’altro che entusiasticamente la scissione di Livorno e la definisce “il più grande trionfo della reazione” a causa del distacco dall’Internazionale del grosso del partito socialista. Così commenta l’avvenimento su “L’Ordine nuovo”: “La nascita del Partito comunista è legata alla persuasione radicatasi nell’avanguardia più intelligente del proletariato che si sarebbe giunti necessariamente (alla rottura del Psi) data l’incapacità del Partito socialista di assolvere il suo compito storico… Il massimalismo, che oggi è in rotta e in piena decomposizione… ha logorato gli effettivi proletari in una molteplicità di azioni disordinate e caotiche, ha sfibrato le masse, le ha illuse sulla facilità e la rapidità della storia,… ha determinato la Caporetto della classe operaia”. Nel corso dei decenni successivi, alcuni storici attribuiranno alla scissione di Livorno la responsabilità di aver aperto la strada al fascismo e insieme di aver compromesso, con quella rottura, il completamento del processo democratico nel nostro Paese provocando le condizioni per la famosa “conventio ad excludendum” (l’esclusione dei comunisti dall’area di governo). In effetti, la rottura si rivela in un certo senso inevitabile; dal punto di vista dei militanti che si collocano all’estrema sinistra, è ritenuta necessaria perché parte di un processo internazionale che vede la contrapposizione tra socialdemocrazia e comunismo, non solo a riguardo della strategia e della tattica da seguire, ma prima ancora della concezione stessa del potere e dello Stato. A giustificarla sono sia le delusioni per le sconfitte subite dal movimento nel ’19-20 che le molteplici contraddizioni interne al partito, le quali continueranno a pesare anche dopo Livorno fino a determinare un’altra scissione, quella tra massimalisti e riformisti. A dare vita al Partito comunista d’Italia è una nuova generazione di combattenti, tutti in età al di sotto dei trentai anni, i quali riscuotono l’adesione plebiscitaria della gioventù socialista e di coloro che ripongono fiducia e speranze nell’Internazionale fondata da Lenin. A dirigere il nuovo partito è Amadeo Bordiga la cui principale caratteristica è l’intransigenza ideologica. Al fine di evitare sbandamenti e degenerazioni, egli applica in maniera rigida i principi del materialismo storico e li eleva a steccato. Entra così presto in conflitto con Gramsci e Togliatti, ai quali rimprovera una formazione idealistica vicina al pensiero di Benedetto Croce, e si scontra con i bolscevichi accusandoli di essere impegnati a costruire un socialismo che altro non è che capitalismo di Stato. Nei due anni successivi alla sua fondazione, nel Pcd’I si ripropongono differenze di interpretazione e di proposizione politica tali da determinare tre frazioni: alla corrente maggioritaria bordighiana si contrappone il gruppo degli ordinovisti, cui fanno capo Gramsci e Togliatti, e quindi la componente di destra capeggiata da Graziadei e Tasca. 151


Al congresso di Lione, nel ’24, Bordiga viene messo in minoranza e ad assumere le redini del partito è Antonio Gramsci. Nel ’21, in Italia, nasce anche un altro partito, quello fascista, dopo che nel ’19, a Milano, Benito Mussolini fonda i “fasci di combattimento”. Da dirigente socialista, direttore de “l’Avanti!” e sostenitore del neutralismo assoluto ai tempi della guerra di Libia e dello scoppio della grande guerra, Mussolini passa al neutralismo condizionato, dopo di che, da intransigente diventa possibilista e infine, espulso dal Psi, fonda il “Popolo d’Italia” e fa sue le tesi dell’interventismo attivo. Fra il ’17 e il ’18 egli viene messo a libro paga dei servizi segreti britannici: da Sir Samuel Hoare, capo della sezione che l’intelligence ha aperto a Roma, gli vengono versate cento sterline alla settimana, in contanti, affinché sostenga la campagna bellica contro l’Austria e la Germania. Caratteristica principale di Mussolini è l’opportunismo. Figlio del socialismo più barricadero e vacuo, egli sa interpretare la diffusa paura degli uomini verso il mondo moderno e incarna una reazione al caos. Come dice Gaetano Salvemini, egli è un “genio della propaganda”. Durante gli anni del suo dominio dimostra di essere una persona fortemente indecisa, infatti, subisce a tal punto l’influenza altrui da dare sempre ragione all’ultimo suo interlocutore, assicurando per di più il suo consenso a progetti completamente contraddittori tra di loro. Gli sbandamenti che in quel periodo si registrano ai vertici del governo e dello Stato maggiore, ne sono una testimonianza. I “giri di valzer” che egli compie sono moltissimi e smentiscono la patente di decisionista che la propaganda di regime e una certa storiografia gli hanno affibbiato. Ebbe a dire di lui Benedetto Croce nel dicembre del ’43: “L’uomo, nella sua realtà, era di corta intelligenza, correlativa alla sua radicale deficienza di sensibilità morale, ignorante di quella ignoranza sostanziale che è nel non intendere e non conoscere gli elementari rapporti della vita umana e civile, incapace di autocritica al pari che di scrupoli di coscienza, privo di ogni gusto in ogni sua parola e gesto, sempre tra il pacchiano e l’arrogante”. Nato come movimento di ex-combattenti a carattere nazionalistico, nel ’21, il fascismo si trasforma in partito. Sulle cause della sua nascita e del suo successo si è detto e scritto molto e le interpretazioni sono svariate. Vi è chi ritiene esso sia il prodotto dell’incubo del bolscevismo andato al potere in Russia, chi lo considera una reazione violenta al processo di democratizzazione della stessa società capitalistica, chi crede sia un fenomeno tipicamente italiano. In effetti, all’origine del fascismo ci stanno molteplici ragioni. E’ vero che di fronte alla rivoluzione d’ottobre, e ai moti insurrezionali che ne sono conseguiti nell’Occidente europeo, la borghesia ha temuto di perdere le sue fortune e anche la sua libertà d’iniziativa. Il pericolo di una rivoluzione comunista mondiale, se in alcuni Paesi, almeno inizialmente, ha indotto le forze politiche al potere a mettere in campo correttivi e modifiche nel rapporto capitale-lavoro e a dare vita a nuovi programmi sociali, alla crescita di parlamenti e sindacati, in altri – l’Italia in primis – ha provocato l’instaurazione di regimi autoritari quale rimedio al dilagare delle lotte operaie e contadine. C’è chi ha sostenuto che in Europa non ci sarebbe stata una reazione come quella rappresentata dal fascismo se la Terza Internazionale non avesse operato per la radicalizzazione dello scontro di classe. Che l’ascesa del fascismo sia da imputare in parte anche agli errori e alle debolezze che il movimento operaio ha manifestato nel periodo post bellico, è fuor di dubbio. La sua incapacità di unificare le lotte e offrire ad esse uno sbocco politico, e pure di contenere e neutralizzare la violenza delle classi al potere, è stata documentata in modo chiaro e inequivocabile. Se non ci fosse stata la scissione tra comunisti, socialisti di sinistra e socialdemocratici probabilmente il fascismo avrebbe incontrato maggiori ostacoli sulla strada del trionfo. Lo stesso biografo russo di Stalin e di Bucharin, Roy Medvedev, del resto, ha sostenuto che se l’Urss avesse seguito un’altra politica, il fascismo non sarebbe sorto o non sarebbe diventato tanto potente. Fatto è che sulla scena europea – se si esclude l’Italia – il regime dittatoriale sopravviene quando l’onda rivoluzionaria è ormai infranta e rifluita. E questo ci porta a ritenere che la sua affermazione 152


è frutto non solo della paura del comunismo, ma anche del processo di stabilizzazione della situazione economica e politica di cui il capitalismo ha bisogno per poter intraprendere una nuova fase di sviluppo. Questa esigenza di ristrutturazione è d’altronde già manifesta negli anni precedenti il primo conflitto mondiale e diventa acuta con la crisi finanziaria del ’29. Mentre gli Stati Uniti intraprendono un percorso democratico (New Deal), le classi politiche dei Paesi europei, sotto il peso delle conseguenze della guerra, si dimostrano incapaci di percorrere un analogo itinerario e soccombono invece alle spinte populiste e autoritarie. Per decenni in Italia è prevalsa la tendenza a far risalire la vittoria del fascismo alla arretratezza del nostro sistema di produzione. Anche questo è un dato che ha un qualche fondamento, ma preso di per sé non esaurisce il problema. Il fatto che il fascismo nasca proprio da noi è anche dovuto alla particolare storia del nostro Paese, tanto è che le sue origini vanno ricercate anche nel modo in cui si è compiuta la sua unificazione, nella maniera stessa in cui si sono sviluppate le sue classi dirigenti, sia economiche che politiche, e nel modo in cui si è edificato il nuovo Stato. Non va trascurato il fatto che il fascismo è nato dal nazionalismo e probabilmente senza di esso non sarebbe esistito, o almeno sarebbe stato un episodio effimero. Il nazionalismo è l’espressione politico-letteraria degli interessi non solo economici, ma anche psicologici della borghesia. Il suo esercito è composto dalla media e piccola borghesia patriottarda e i suoi generali sono i grandi capitalisti industriali e agrari. I fondatori e i teorici del nazionalismo (i Corradini, i Papini, i Federzoni, i Maraviglia, i Rocco) esprimono netta avversione sia al liberalismo che al socialismo ed esaltano la guerra come grande rigeneratrice morale dell’umanità; considerano la violenza una scuola di coraggio, l’obbedienza cieca il modo attraverso il quale si annega la personalità individuale, e invocano l’oligarchia e la dittatura come sistemi di governo. Sono loro i veri maestri dell’ideologia fascista, mentre gli aderenti al movimento di Mussolini rappresentano il braccio secolare e sono i semplici esecutori di questi principi e della conseguente distruzione dello Stato democratico e dell’instaurazione della dittatura. La politica di un Paese nazionalista diventa necessariamente una politica di violenza e di aggressioni, una politica imperialistica destinata a minacciare qualsiasi equilibrio storico. Negli anni precedenti al ‘14 i nazionalisti erano in linea di massima favorevoli alla Germania e avversavano la Francia e l’Inghilterra. Questa posizione ritornerà non a caso a essere vincente con l’accendersi del secondo conflitto mondiale. Il nazionalismo è riuscito a penetrare largamente nella borghesia italiana formando una mentalità politica e contribuendo non poco a creare lo stato d’animo della guerra, la quale ha poi creato le condizioni perché un movimento di quel tipo trovasse vaste basi popolari. Suoi referenti sono gli sbandati di ritorno dal fronte, frange di popolo scontento e deluso, quella parte della piccola borghesia che è abituata a portare i galloni, a esercitare un’autorità, e che finito il conflitto si ritrova in misere condizioni e alla mercè della burocrazia statale o peggio ancora priva di una prospettiva. Come è avvenuto per il nazionalismo, anche il movimento fascista si è sviluppato con la complicità dell’alta borghesia. E mentre il primo non divenne mai un movimento popolare, il fascismo lo diventa in tempi rapidissimi. Di qui, la fatale necessità che i due movimenti s’incontrino e si fondino. Il partito fascista si autodefinisce rivoluzionario. Una tesi, questa, che è sostenuta anche dallo storico Renzo De Felice, considerato un “revisionista”. A suo giudizio il movimento mussoliniano sarebbe addirittura l’erede dei principi dell’89 francese. Mussolini, sempre a suo giudizio, sarebbe stato rivoluzionario fino al 1920 e soltanto dopo sarebbe diventato fascista. Un altro storico, il francese Francois Furet, ritiene che sia sbagliato considerare il fascismo una controrivoluzione borghese e sostiene che la diabolicità di Mussolini consiste proprio nell’aver portato a destra l’idea rivoluzionaria. In effetti, il carattere dei postulati dei Fasci è chiaramente influenzato dalle idee di sinistra ed è solo all’indomani dell’assassinio di Matteotti e della crisi che ne consegue che si registra il compimento del suo totale allineamento su posizioni di destra.

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Non va dimenticato il fatto che per alcuni mesi, dopo la nascita del fascismo, qua e là si è registrato un vero e proprio connubio tra esponenti di spicco di questo movimento e alcuni dirigenti socialisti rivoluzionari e che solo verso la fine del ’20 e la metà del ‘21, quando lo squadrismo agrario ha incominciato a tracciare la sua scia di uccisioni, ferimenti e distruzione di sedi operaie, si è registrato il distacco della maggior parte di questi poveri illusi. E va aggiunto che questi socialisti rivoluzionari, in preponderanza ex sindacalisti, erano perfettamente consapevoli del ruolo decisivo che essi stavano giocando nel favorire la vittoria del fascismo e la corporativizzazione dello Stato. Quel tanto di ideologia socialista che comunque è presente nei primi tempi nel movimento fascista, si dissolve come nebbia al sole quando hanno inizio gli attacchi alle camere del lavoro e quando vengono distrutte tutte le organizzazioni operaie che vengono considerate dai fascisti avanguardie della resistenza democratica al regime dittatoriale. Ed è proprio la repressione antisocialista a caratterizzare il nascente movimento. Suo bersaglio non sono solamente le organizzazioni contadine e operaie socialiste, ma anche quelle cattoliche. Oltre alle Camere del lavoro, vengono assaltate e bruciate le cooperative e poi i municipi “rossi”, bersagli questi che spesso vengono indicati agli squadristi dagli agrari e dagli industriali. I sindacati vengono colpiti duramente perché garantiscono i “salari rossi”; le leghe perché stabiliscono gli imponibili di mano d’opera; i municipi amministrati dai socialisti perchè amministrano negli interessi delle masse proletarie; le cooperative perché hanno insieme una funzione calmieratrice sui prezzi e di tesoriere del movimento operaio. La propaganda fascista e conservatrice si scaglia in maniera accanita contro quegli operai che vengono individuati come sovversivi e antinazionali, e perciò vengono definiti “imboscati nelle fabbriche” e nemici degli “eroi combattenti”, dal momento che si dichiarano ostili alla guerra. A Ferrara viene inaugurata la prima esposizione di cadaveri a scopo simbolico. Il capo dello squadrismo cremonese Roberto Farinacci, espulso dal Psi nel ’12, considerato l’anima fascista più vicina a Hitler, ne esalta pubblicamente l’esecuzione. L’esposizione a piazzale Loreto, a Milano, dei cadaveri di Mussolini e di alcuni gerarchi fascisti non è dunque altro che una ritorsione degli antifascisti alle angherie subite e una riproposizione di scenari già tristemente noti. Non a torto la “camicia nera” è vista dal movimento operaio come simbolo di oppressione, come sopraffazione bruta, come camicia del padrone. Alle efferate rappresaglie, compiute contro gli esponenti e le organizzazioni della sinistra, le forze dell’ordine non oppongono alcuna resistenza, anzi esse si rivelano complici. La situazione di correità dello stesso Stato nelle persecuzioni e nelle rappresaglie favorisce la crescita nel movimento operaio di formazioni chiamate “arditi del popolo”, la cui funzione è quella di far fronte ai soprusi con il ricorso alle armi. Di esse fanno parte quei militanti tutti d’un pezzo che non sono disposti a piegarsi alla violenza degli squadristi “neri” e i quali costituiranno negli anni a venire la spina dorsale delle organizzazioni di sinistra che opereranno in clandestinità. Per il movimento operaio il ventennio “nero” rappresenterà un periodo di grande sofferenza. Le formazioni della sinistra pagheranno prezzi altissimi in termini di repressioni, di persecuzioni, di carcere, di migrazioni, di esili. Si pensi al solo fatto che a cavallo dei decenni Venti e Trenta, i comunisti organizzati sul territorio italiano non sono più di duemila. E non si tratta solo di prezzi fisici, materiali, bensì anche culturali e morali poiché il pensiero marxista subisce inesorabilmente una paralisi complessiva. Di più ancora: ai danni provocati dal fascismo e dal nazismo si aggiungeranno quelli indotti dallo stalinismo che comporteranno non solo un offuscamento del pensiero marxiano, ma per alcuni stessi militanti comunisti significheranno l’incarcerazione nei gulag sovietici quando non addirittura la morte nella stessa patria del “socialismo”. 5.6 – I caratteri del regime mussoliniano Il fascismo italiano, come abbiamo visto, è il risultato di un insieme di modificazioni che investono la società nazionale prima, durante e dopo il primo conflitto mondiale e rappresenta la svolta a destra delle classi dominanti impegnate a togliere di mezzo l’opposizione della classe lavoratrice. 154


Come osserva Antonio Gramsci, esso rappresenta in specifico la reazione del “popolo delle scimmie” (così egli definisce la piccola borghesia) al montare della contestazione operaia e contadina. Se da principio il fascismo si presenta come un movimento “sovversivo” sostenuto dalla piccola borghesia, dopo il suo consolidamento incontra l’appoggio prima dei proprietari agrari e poi di una consistente parte del mondo industriale. Gli imprenditori manifatturieri non hanno certo una vocazione fascista, anzi, per i loro stessi interessi sono spinti ad avversare qualsiasi dittatura e a dare il loro appoggio a regimi democratico-liberali. Presi però dal panico per una possibile rivoluzione anche nel nostro Paese, essi sostengono Mussolini poiché questi si presenta come difensore dell’ordine costituito e garante della legge del profitto. Essendo però abituati a puntare sul cavallo vincente a colpo sicuro, compiono questa scelta con estrema cautela, poiché verso le violenze di quello che loro considerano il “bolscevismo nero” mostrano imbarazzo, inquietudine e diffidenza. Mentre i proprietari agrari, piccoli e grandi, sono interessati a respingere la minaccia di una collettivizzazione delle terre, gli imprenditori dell’industria, allarmati dalle occupazioni operaie delle fabbriche, si prodigano a sventare il rischio di una possibile espropriazione delle loro aziende. Se è pur vero che il fascismo non ha mai rinnegato la sua anima piccolo-borghese, godendo del sostegno degli strati sociali intermedi, non deve sfuggire il fatto che a sfruttare la presenza di questo movimento ai propri fini sono i grandi possessori di capitale i quali non lesinano prima a sovvenzionare lo squadrismo e poi a dare il loro appoggio agli esponenti del regime. A sostenere economicamente l’investitura a ministro del nazionalista Luigi Federzoni, per citare un emblematico esempio, sono proprio gli industriali della siderurgia. Di promozioni politiche del genere la storia ne documenta parecchie. Con l’adesione al regime degli imprenditori industriali si salda quel blocco di potere che per un ventennio dominerà la società italiana: il potere economico si raccorda con quello politico e quello giurisdizionale. Lo squadrismo fascista, infatti, godendo già della tolleranza delle autorità dello Stato e della connivenza della magistratura, può contare anche sulla benevolenza e sul sostegno della classe imprenditoriale e finanziaria. Non deve pertanto meravigliare il fatto che persino gli ambienti industriali e finanziari anglosassoni intravedono nell’affermazione del fascismo una opportunità tale da far confluire nel nostro Paese i loro investimenti. E’ nel periodo compreso tra il ’22 e il ’26 che la borghesia italiana sostiene con maggior forza il regime e questo avviene perchè essa ha bisogno di uno Stato che abolisca tutte le forme di democrazia, privi le masse della loro autonomia organizzativa e intraprenda una politica estera di tipo imperialistico per dare slancio alla propria iniziativa. Mussolini va al governo nel ’22 grazie alle vecchie classi liberali e conservatrici che decidono di affidarsi a lui nel momento in cui il Paese vive un’irrimediabile crisi di governo. Quando, all’indomani della “marcia su Roma”, Vittorio Emanuele III incarica il capo dei fasci a formare un nuovo esecutivo, il partito fascista ha già assicurato il sostegno del blocco borghese monarchico; difatti, le “camice nere” che il 28 ottobre marciano sulla capitale, non incontrano la ben che minima resistenza sul loro percorso proprio per decisione dell’autorità militare regia. Mentre Giolitti si propone di usare i fascisti per combattere i socialisti, illudendosi di poterli poi incorporare nella prassi liberale, le forze politiche della conservazione intravedono nel fascismo un alleato non rendendosi conto che si tratta di un movimento dotato di una sua propria autonomia il quale si muove in contrasto con la tradizione. Gli stessi Orlando, Salandra, Croce, Bonomi e Nitti aiutano e sostengono il fascismo nel momento in cui fa i suoi primi passi e lo considereranno un nemico solo quando esso si sarà stabilmente consolidato al potere e sopprimerà ogni espressione democratica. Allorquando si costituisce il primo governo Mussolini, viene addirittura prospettata la partecipazione all’esecutivo di due esponenti di primo piano della Cgl: si tratta dei socialisti riformisti Bruno Buozzi e Gino Valdesi, i quali vengono esclusi dalla lista dei candidati ministri all’ultimo momento per l’opposizione esercitata dai fascisti più intransigenti. 155


Il fascismo s’impone come forza determinante per la soluzione della crisi anche perché sa approfittare della incapacità delle sinistre liberal-democratiche, socialiste e comuniste a trovare soluzioni alternative praticabili. E’ infatti proprio il logoramento dei legami unitari a sinistra, unitamente alla paralisi delle espressioni cattoliche progressiste, che apre la strada alla controffensiva mussoliniana. Non si spiegherebbe altrimenti la rapidità con cui da movimento minoritario, il fascismo diventa partito-Stato lasciando incredule e inermi tutte quelle stesse forze che avrebbero dovuto opporvisi. In quanto sistema politico, il fascismo non possiede una vera e propria consistenza ideologica. Nelle sue molteplici espressioni esso dimostra di essere anticomunista e nazionalista, di esaltare l’ordine, la gerarchia e l’obbedienza al capo. Maurice Dobb ritiene che esso rappresenti “il tentativo di sopprimere l’antagonismo di classe, considerato un’illusione nata da una ideologia falsa o pervertita, e di sostituire la coscienza di classe con il culto dell’ideale dello Stato-nazione e della grandezza imperiale e razziale”. Sul piano culturale esprime l’elogio dell’autorità in contrapposizione alla libertà, della diseguaglianza, del superuomo e in certi casi della razza superiore. Insegna ai giovani a dare valore al corpo anziché alla mente, a essere “duri”, a considerare le esercitazioni ginniche di massa come una dimostrazione di patriottismo. Alle donne affida il compito di generare famiglie numerose senza lamentarsi e le consiglia di starsene contente nella propria casa. A fondamento del suo credo vi è il rifiuto degli ideali umanitari e del minuto lavoro politico quotidiano, mentre vengono valorizzati la sensazione e il gesto estetico; l’agitazione politica viene intesa come “ginnastica rivoluzionaria”. Nel suo vanaglorioso programma, Mussolini incita gli italiani a “vivere pericolosamente”. Privo di una sua autonoma cultura e di una sua propria ben definita ideologia, si assicura la formale ubbidienza degli intellettuali e consente, anzi stimola abilmente, la più ampia liberalizzazione dell’inventiva sulla propria essenza. Ne consegue il trionfo di una retorica della politica che è alla ricerca di una “terza via” fra capitalismo e comunismo e di una nuova e più autentica “italianità”. Nel suo bagaglio etico culturale trovano grande spazio la religiosa fedeltà al “duce” e la fede nei nuovi destini della patria. Da qui le multanime immagini che esso da di sé quale movimento anarco-giacobino, rivoluzionariosindacalista, social-massimalista, clerico-reazionario, militar-imperialista, idealistico-spiritualista, laico-radicale. Uno dei suoi aspetti più peculiari è quello di ritenere che il conflitto sociale può essere eliminato attraverso la soppressione dell’antagonismo di classe che viene considerato un’illusione nata e fomentata da una falsa e pervertita ideologia, quella socialista appunto, e quindi sostituito con il culto dello Stato-nazione. Tra i propositi indicati dal “programma massimo ideale” stilato negli anni ’20 dal Segretariato economico fascista di una provincia lombarda vi sono quelli di “esplicare un’azione energica e concorde nell’intento di ottenere la piena ed assoluta armonia tra capitale e lavoro, spingendo al massimo il rendimento dell’uno e dell’altro fattore; svolgere la propria azione in modo che i rapporti fra la classe rappresentante il capitale e la classe rappresentante il lavoro, siano regolati e diretti alla collaborazione fra le classi e mai alla lotta fra le classi interessate e sempre ispirate al superiore interesse nazionale; agire per armonizzare gli interessi di tutte le classi organizzate, nell’intento di conseguire il benessere generale”. Nei fatti il regime smentisce se stesso e come sentenzia, nel ’23, il senatore Ettore Conti, presidente dell’Associazione fra le società per azioni italiane, “la politica finanziaria ed economica del governo italiano è essenzialmente quella che veniva chiesta dagli industriali e dagli uomini d’affari italiani prima dell’inizio del governo fascista”. Altro esempio di sconfessione dei propositi riguarda il proclamato corporativismo del regime. Com’è risaputo, allo scopo di garantire la crescita della società civile, il fascismo si propone l’organizzazione corporativa della società secondo cui i lavoratori sarebbero diventati contemporaneamente amministratori e azionisti. Il teorico dell’economia ai tempi della progettazione del fascismo è Ugo Spirito. Questi sostiene che l’azionariato diffuso creerebbe una 156


proprietà anonima e romperebbe il vecchio vincolo tra l’imprenditore e la sua creatura. Con tale proposizione il regime si adopera a separare l’economia dalla politica. Nella sua ispirazione, dunque, il corporativismo è ben altra cosa di quella grande costruzione burocratica e parassitaria che nel corso degli anni diventa lo Stato fascista. Come ha scritto Sabino Cassese, “l’intervento dello Stato (fascista) nell’economia, fra le due guerre, si svolge al di fuori dell’apparato e delle procedure corporative… Tutta la politica economica di quegli anni cruciali venne predisposta e attuata prescindendo completamente dal parere del Consiglio nazionale delle corporazioni, che non fu neppure interpellato quando si trattò di creare organismi dell’importanza dell’Iri o dell’Imi”. Di fatto, nel ventennio gli insediamenti industriali vengono in larga misura decisi dallo Stato sulla base delle indicazioni fornite dalla Confindustria la quale diventa, secondo l’espressione di Ernesto Rossi, il “relazionificio” dello Stato. Ma queste non sono le sole giravolte di Mussolini e company. Un altro esempio assai significativo riguarda i suoi rapporti con la monarchia. Obiettivo del movimento fascista sin dalla costituzione dei fasci è la repubblica. Il regime però, pur di accedere al potere, si allea con la monarchia fino al punto di immedesimarsi con essa. A proposto dell’atteggiamento assunto nei confronti della casa reale, è da ricordare che all’interno del partito insorgono non pochi contrasti tra Farinacci, Giuriati, Starace, Bottai e Federzoni, i quali vengono però abilmente sopiti dal capo e si avrà conoscenza delle loro schermaglie solo dopo la Liberazione. Certo è che se Mussolini avesse continuato ad agitare il drappo repubblicano sarebbe stato sicuramente abbandonato dagli agrari, si sarebbe trovato contro l’esercito e la stessa borghesia e avrebbe quindi dovuto abbandonare le leve del comando. La giravolta sul fronte della politica istituzionale appare dunque giustificata, ma questo non significa che essa costituisca motivo di onore e di coerenza e lealtà ai principi proclamati. Le stesse iniziali inclinazioni totalitarie del movimento subiscono col passare del tempo un congelamento a causa del sistema di compromessi che intervengono nella fase di costruzione del regime: quelli con il re, con la Chiesa, con i centri del potere economico e con la burocrazia statale. Per opportunità politica il “duce” si fa duttile nei confronti dei poteri forti, mentre usa il pungo di ferro nel governare la “massa” dei soggetti deboli e avversi. Basti ricordare la linea seguita dal regime in materia di politica salariale e sindacale. In tempi di crisi (che durano per l’intero ventennio) a fare sacrifici sono sistematicamente chiamati coloro che vivono del proprio lavoro. Un primo taglio del 10% dei salari viene proposto con successo dallo stesso sindacato unico fascista nel maggio del ’27. Un secondo, analogo, viene attuato nell’ottobre dello stesso anno su proposta della direzione del Partito nazionale fascista. All’inizio degli anni ’30, in seguito agli effetti della grande crisi economica mondiale, avvengono un terzo e un quarto taglio, rispettivamente dell’8% nel novembre del ’30 e del 7% nel ’34. Altri tagli si succedono nel ’40 e nel ’42. A una riduzione complessiva del 35% dei salari vanno aggiunte altre contrazioni variabili da fabbrica a fabbrica. E’ stato calcolato che, in media, nel corso del ventennio gli operai dell’industria abbiano perso tra il 40 e il 50% delle loro spettanze, mentre i tagli alle paghe degli occupati in agricoltura hanno superato il 50% raggiungendo in alcuni casi il 70%. Si tenga presente che il monte salari italiano nel ventennio risulta essere il più basso d’Europa. Su un aspetto il fascismo non si è mai smentito, ha anzi dimostrato di avere una coerenza straordinaria: è quello che riguarda la sua matrice antidemocratica e anticomunista. Una delle sue innovazioni è la soppressione del carattere elettivo degli organismi di governo periferici, cioè delle autonomie locali a capo delle quali viene posto il podestà di nomina regia, assistito da “consultori municipali” che vengono designati dal prefetto. La sua vena conformista è tale da obbligare tutti i comuni italiani a intitolare una via a Roma. I gruppi dirigenti dell’apparato statale e gli ufficiali dell’esercito vengono rigorosamente selezionati in base alla garanzie ideologiche che essi offrono al regime e a essere promossi sono generalmente i più riverenti e ottusi. I cittadini vengono educati a dipendere da qualcun altro e quindi ad adattarsi a 157


un comportamento da sudditi. Mentre nel periodo iniziale, quello che va dal ’21-22 al ’29, il regime si prodiga a imbavagliare e poi a eliminare fisicamente le opposizioni, quando il potere sembra stabilizzato, accentua la stretta repressiva nei confronti degli antifascisti e si impegna ad allargare l’area del consenso popolare alla sua politica. Nel Paese viene formata una fitta rete di informatori e delatori, al fine di reperire ogni genere di notizia su qualsiasi tipo di attività antifascista. L’Ovra (Opera Vigilanza e Repressione Antifascista), formata da fiduciari, tra cui spiccano i “fedelissimi”, è presente ovunque, persino all’estero. Questo servizio spionistico ha centrali a Budapest e a Monaco e opera in Austria, in Cecoslovacchia, negli Stati Uniti (con il Ku Klux Klan), in Germania, in Francia (con le Legions civiques, la Ligue des anciens Chefs de section e l’Action Francaise) dove gode della simpatia del Bloc National e di Poincarè. A Parigi riesce addirittura a infiltrare alcuni suoi elementi in “Giustizia e Libertà”. A parere di diversi storici, l’anno in cui il regime porta a termine la svolta totalitaria è il 1938, allorquando vengono varate le leggi razziali e siglata l’alleanza con la Germania di Hitler. Sull’antisemitismo di Mussolini si è discusso molto e i giudizi non sono unanimi. Lo storico Renzo De Felice ha negato, ad esempio, che il “duce” sia stato razzista e antisemita. Certo è che il “duce” comincia a parlare di “rigenerazione della razza” negli anni ’20. Dalla teorizzazione di un “razzismo quantitativo” dai connotati prevalentemente demografici passa all’eugenetica e poi al “razzismo qualitativo”. Nel ’33 dà consigli a Hitler su come colpire gli ebrei, a patto che lo si faccia in segreto e in maniera selettiva. Forte del fatto che anche nel senso comune sono abbondantemente diffusi i pregiudizi antisemiti, nel ’38 qualifica gli italiani “di razza ariana” e vara i provvedimenti contro gli ebrei. Le leggi antisemite e le persecuzioni che ne conseguono vengono vissute dall’opinione pubblica con indifferenza, dato il generale clima di supina obbedienza. Anche da parte dello stesso mondo cattolico, nelle cui file si distinguono i “bianchi ariani cattolici”, le reazioni sono fievoli. A contestarle ci prova solo una sparuta minoranza di impavidi, mentre tra la popolazione cresce la tendenza a dichiarare la propria “arianità”. Anche se l’antisemitismo fascista ha caratteristiche diverse da quello nazista, la sua matrice razzista è chiara e indiscutibile. Le leggi contro gli ebrei arrecano danni rilevanti all’Italia, sia destinando esseri umani ai lager, sia emarginando e spesso costringendo all’emigrazione validi studiosi, scienziati, letterati, giuristi, economisti e persino dirigenti d’azienda, privando così il Paese del loro talento. Un’altra caratteristica del fascismo è costituita dalla sua ambizione imperialistica che lo spinge a intraprendere imprese belliche le quali riducono l’Italia sul lastrico. Nell’enciclopedia italiana redatta dallo stesso Mussolini con la collaborazione di Gentile, alla voce “Dottrina del fascismo” sta scritto: “Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli…. Il nostro postulato pregiudiziale è che la pace è estranea al fascismo”. La prima traduzione pratica di questo postulato è rappresentata dall’impresa militare in Etiopia; la seconda è costituita dall’appoggio dato dal regime alla rivolta di Franco in Spagna; la terza e ultima è raffigurata dal “Patto d’acciaio” con la Germania, l’asse Roma-Berlino, e dalla conseguente entrata in guerra alla metà del ’40. Del resto, data la chiusura dei mercati internazionali e l’asfissia del mercato interno, solo una politica di preparazione alla guerra, come viene intrapresa dopo il ‘34, può dare ossigeno al capitalismo italiano. Fatto è che, al pari del nazismo, anche il fascismo italiano risolve ogni problema ricorrendo alla politica aggressiva e di guerra. Va peraltro riconosciuto che senza l’avvento del nazionalsocialismo di Hitler, il fascismo di Mussolini non sarebbe mai diventato un movimento internazionale. Il fascismo è dunque strutturalmente un movimento repressivo e antioperaio. Esso rappresenta il dominio dei gruppi più aggressivi del capitalismo italiano e incarna la dittatura del capitale finanziario. E’ infatti il grande capitale privato il beneficiario della politica di riarmo e dei frutti delle vittorie militari. Lo è in termini di controllo dei mercati e della stessa forza lavoro attraverso l’introduzione di nuove forme di sfruttamento capitalistico. 158


Nonostante che il regime abbia attuato una compressione del tenore di vita dei lavoratori, abbia comportato una pesante oppressione politica e culturale su tutta la società civile e anche una sopraffazione ideologica attraverso i miti della violenza e della razza, esso ha goduto di un largo consenso popolare. A costituire la sua base di massa non ha concorso solo la piccola borghesia, ma gli stessi operai e contadini, cioè quegli strati sociali i cui interessi sono stati mortificati. La tesi sostenuta da coloro che dalla sinistra sono stati accusati di revisionismo storico e secondo i quali il regime avrebbe avuto il consenso della maggioranza degli italiani, non è poi del tutto infondata. In effetti, esso ha goduto di un’adesione decisamente ampia le cui motivazioni sono molteplici. Intanto è da considerare che Mussolini ha potuto contare sull’alleanza di due soggetti decisivi nella formazione della coscienza collettiva: la Chiesa cattolica e il ceto intellettuale. Al Vaticano, il fascismo non solo appare come l’argine contro il “pericolo rosso”, ma rappresenta l’interlocutore con cui ricomporre in maniera vantaggiosa quella “questione romana” che i precedenti governi borghesi hanno lasciato senza soluzione. E in cambio della riparazione dei “torti” che ritiene di aver subito dallo Stato liberal-borghese, la Chiesa assicura al fascismo l’appoggio delle masse cattoliche. L’adesione degli intellettuali è determinata da ragioni diverse. C’è chi considera il fascismo un soggetto politico che promette ordine e pacificazione sociale e anche il ripristino della legalità nel Paese; chi vede in esso una incarnazione del liberalismo moderno, chi il tentativo di forzare i limiti borghesi della rivoluzione, chi interpreta il suo corporativismo e la sua “carta del lavoro” strumenti per una rivincita del proletariato. Da certi intellettuali Mussolini viene addirittura considerato l’erede di Robespierre. Il consenso popolare è anche motivato dal fatto che il regime si presenta come il difensore dell’efficienza e degli interessi collettivi e come l’artefice di una certa giustizia sociale. Dalla maggioranza degli italiani, quella che non sta né di qua né di là, e che De Felice definisce “zona grigia”, Mussolini viene identificato come il “salvatore” della patria. Il “duce” sa sfruttare bene certe tendenze collettive, sa valorizzare l’elemento popolare, sa scegliere i tempi per compiere scelte di ordine sociale che gli procurano la stima e la fiducia degli italiani. Al fondo, però, c’è una motivazione storica. Il processo di sviluppo dello Stato liberale italiano, sin dai tempi di Cavour, è caratterizzato da una cronica incapacità della borghesia italiana di farsi classe dirigente per davvero. Alla debolezza delle èlite di governo, ha corrisposto un’immaturità delle classi popolari le quali hanno sempre avuto bisogno di riporre le loro speranze in un “capo”. Dopo che le opposizioni sono state liquidate, Mussolini mette in moto la fabbrica del consenso. A metà degli anni ’30, oltre ai sindacati fascisti e alle associazioni professionali, esistono in Italia 20.000 circoli ricreativi del dopolavoro, migliaia di organizzazioni di reduci, di fasci femminili, di sezioni delle massaie rurali, di gruppi universitari fascisti, di “balilla” per maschietti, di unità di giovani italiane per le ragazze e di circoli di figli della lupa riservati ai più piccini. Tutte queste organizzazioni hanno lo scopo di impedire la diffusione di qualsiasi espressione autonoma d’identità e di aggregazione di classe. Nel Mantovano, per citare la realtà lombarda con maggiore tradizione “rossa”, l’adesione dei lavoratori agricoli al sindacato fascista passa dalle 35.026 unità del 1930 alle 71.201 nel 1939. Nel ‘36, tra coltivatori diretti, affittuari, mezzadri, coloni, salariati e avventizi, gli occupati in agricoltura ammontano a 103.316; secondo il Segretariato fascista, tra gli addetti all’industria, risulta iscritto al sindacato di regime l’88% dei maschi e il 43% delle donne. Il regime raggiunge il massimo del consenso interno con la guerra di Etiopia. E’ solo a seguito delle grandi scelte, cioè l’alleanza col nazismo, l’intervento militare in Spagna a sostegno del franchismo e al varo delle leggi razziali che il consenso incomincia a declinare. Anche se nel ’38, con il suo intervento alla conferenza di Monaco, Mussolini viene considerato da molti come l’uomo della pace, registrando uno straordinario picco di popolarità, l’affezione delle masse verso il regime entra in crisi. Taluni storici datano tra il ’29 e il ’34 il periodo di maggior gloria del regime, altri invece ritengono che, più che nel regime, il centro del sistema di consenso degli italiani sia rappresentato 159


dallo stesso Mussolini. In un Paese in cui il carattere è merce rara e dove il conformismo e l’opportunismo sono diffusissimi, non può meravigliare che a prevalere sia l’istintiva simpatia per il “dritto”. Basti considerare che nel giugno del ’40 gli italiani che sono favorevoli all’entrata in una guerra, la quale viene considerata vittoriosa in partenza, rappresentano la maggioranza della popolazione. A destare meraviglia è semmai l’atteggiamento di passività dei sostenitori del regime allorquando, nel luglio del ’43, il re fa arrestare e incarcerare il “duce”. E’ stato calcolato che in quel momento gli italiani che portano in tasca una tessera fascista o parafascista ammontano a 23-24 milioni. La loro reazione alle disposizioni del re è nulla, si dimostrano cioè un esercito che si scioglie come neve al sole. Difatti, come sostiene ancora De Felice, il vero e definitivo crollo del regime avviene all’inizio del ’43, quando i bombardamenti aerei alleati colpiscono duramente la popolazione. Già tempo prima comunque sull’opinione pubblica aveva inciso la delusione per la mancata prosperità che avrebbe dovuto conseguire all’espansione imperiale del regime e che era stata promessa con tanta sicumera. La presa di coscienza del fallimento e la traduzione del consenso in odio verso il sistema, avviene quando ci si rende conto che la guerra non può assolutamente essere vinta. I disastri militari, i disagi economici, la penuria di alimenti e, non ultimo, la corruzione del regime scatenano malcontento e rabbia e portano a una svolta nella coscienza nazionale. Le stesse forze economiche, che anni prima avevano sostenuto e foraggiato il fascismo, divenute sue vittime si smarcano. A causa della impossibilità di compenetrazione fra i rispettivi regimi autarchici, il “patto d’acciaio” con la Germania provoca una serie di competizioni e di dissidi. La saldatura politica con i tedeschi toglie ai gruppi capitalistici italiani ogni possibilità di manovra sul piano internazionale. La guerra contro la Francia e l’Inghilterra suscita il dissenso di alcuni gruppi conservatori i quali prendono le distanze da Mussolini. L’entrata nel conflitto mondiale richiede poi un ritmo produttivo che l’economia italiana non è nelle condizioni di garantire. Queste contraddizioni interne al blocco conservatore che sorregge il fascismo diventano acute al punto da non essere più governate e il 25 luglio del ’43 esplodono nel cuore stesso del regime: il Gran Consiglio del fascismo mette in minoranza il “duce” e lo fa decadere. E’ il fallimento della sua politica di guerra e della sua politica economica, del corporativismo e dell’autarchia. Non solo il fascismo ha imposto il sacrificio della libertà politica e individuale, ma ha anche operato contro la sicurezza economica del Paese e contro il benessere materiale degli italiani. Mussolini si era proposto di conquistare per l’Italia “un posto al sole”, di unificare Stato e partito, di forgiare “l’uomo nuovo fascista”; nei fatti ha distrutto il Paese e il suo ordinamento e ha fatto fare agli uomini un percorso a ritroso nella storia. 5.7 – I comunisti di fronte al fascismo La sinistra dimostra una pressoché totale incomprensione della natura del fascismo. La frattura che si determina nel movimento operaio negli anni ‘20 viene vissuta dai suoi dirigenti e militanti in maniera così sofferta da far perdere di vista, sia agli aderenti alla 2a Internazionale sia ai comunisti, il comune pericolo che li minaccia. Il fascismo trionfa proprio anche a causa della loro divisione e della loro incomprensione del fenomeno. Quando il movimento sovversivo di Mussolini irrompe sulla scena politica, la sinistra lo interpreta come segno dell’entrata in agonia del sistema capitalistico e come la dimostrazione che esso non è più in grado di garantire una continuità alle democrazie parlamentari e dunque la libertà ai cittadini. Da essa non viene affatto colta la sua natura antioperaia e viene decisamente sottovalutato il suo carattere autoritario e violento. Questo perché non si procede a un’analisi rigorosa e puntuale del fenomeno; e ciò porta a una sua sottovalutazione che perdurerà colpevolmente negli anni. Per la verità c’è qualche uomo politico che ne coglie i tratti di originalità e di pericolosità, denunciandolo come principale nemico non del solo movimento operaio, ma dell’intera comunità. 160


Tra questi è da ricordare Giacomo Matteotti che viene assassinato dopo la sua denuncia in parlamento e il cui avvertimento cade nell’oblio. Per la generalità degli esponenti della sinistra il fascismo è destinato a durare poco e agli occhi dei più appare una parentesi, una meteora politica. Di fronte al suo avvento al potere Bordiga sostiene che la differenza nel suo modo di governare rispetto a quello della borghesia è cosa di cui le classi lavoratrici non devono preoccuparsi. Allorquando lo stesso partito s’impegna in una riflessione al riguardo, si tende ad evidenziare l’aspetto “bonapartista” del mussolinismo, mentre si lascia in ombra il ruolo giocato dalla borghesia nel suo processo di affermazione e di crescita. Lo stesso Comintern oscilla tra un’interpretazione che attribuisce a questo movimento il carattere di una “dittatura terroristica” voluta dagli “elementi più reazionari del capitale finanziario” e l’enfatizzazione del suo carattere “piccolo-borghese”. Nella linea assunta dal VII congresso dell’Internazionale comunista, a distanza cioè di ben quasi tre lustri dall’ascesa al potere di Mussolini e dopo due anni che Hitler domina la Germania, il fascismo viene considerato il punto di approdo necessario e generale della logica capitalistica giunta alla sua fase estrema. In tale interpretazione, l’aspetto che di fatto domina l’epoca, e precisamente la divaricazione tra un settore del capitalismo mondiale, soprattutto quello americano, che risponde alla crisi del ‘29 con una propria riforma interna, e un settore più arretrato, che invece ricorre alla più facile e più debole soluzione dell’uso della violenza, resta del tutto estromesso dal quadro d’analisi. Non viene compreso che il fascismo rappresenta la soluzione reazionaria che consente alla società capitalistica europea di uscire dalla crisi che la investe, una crisi che è insieme economica, politica e ideale. Non viene colta la portata di questa soluzione la quale rappresenta la rigenerazione del sistema. Si tarda a comprendere e a rispondere alla minaccia al movimento operaio che è insita in questa soluzione, e si trascura l’importanza di ricucire il rapporto con le forze socialdemocratiche e radicali. Queste incomprensioni e inadempienze si rivelano un imperdonabile errore. Tra i pochi dirigenti che non condividono questo atteggiamento di superficialità e di sottovalutazione c’è Trotzkij il quale, nel ’31-32 richiamandosi a Gramsci, sottolinea le differenze fondamentali tra fascismo e democrazia borghese e tra fascismo e socialdemocrazia, e invita a perseguire una unità antifascista. La sua posizione non viene però recepita dalla maggioranza del movimento. E neppure viene preso in considerazione Radek il quale, già nel ’23, aveva sostenuto che il fascismo non rappresenta affatto una cricca di ufficiali, ma un movimento popolare ampio, anche se pieno di contraddizioni. Tra i dirigenti comunisti italiani, l’unico ad avvertire il fascismo come una minaccia alla democrazia è Antonio Gramsci. Non va dimenticato che nei primi momenti lui stesso manifesta qualche esitazione sulla natura di questo movimento. Infatti, all’inizio, lo considera come un tentativo di fermare la marcia della rivoluzione proletaria e si illude che presto verrà investito da una crisi di natura scissionistica. Qualche tempo dopo, però, ne comprende la pericolosità e avverte che esso rappresenta una nuova espressione del dominio capitalistico e che dietro la mobilitazione demagogica della piccola borghesia si nasconde il proposito di integrare nel sistema le masse popolari. A quel punto manifesta apertamente il suo dissenso nei confronti della linea assunta dal partito e contesta in particolare sia le previsioni sulla sua durata sia le misure indicate per combatterlo. Nelle “tesi di Lione” egli sottolinea il suo carattere di movimento sociale, aspetto da tutti sottovalutato, e denuncia l’impotenza del partito stesso nell’arginare la sua avanzata, che peraltro è unanimemente ritenuta improbabile. Nel suo intervento alla commissione politica del congresso così si esprime: “Quando il fascismo sorse e si sviluppò in Italia, come bisognava considerarlo? Era esso soltanto un organo di combattimento della borghesia, oppure era anche un movimento sociale? La estrema sinistra che allora dirigeva il partito non lo considerò che sotto il primo aspetto e questo errore ebbe come conseguenza che non si riuscì ad arginare la avanzata del fascismo come forse sarebbe stato possibile fare. Nessuna azione politica venne compiuta per 161


impedire l’avvento al potere del fascismo. La Centrale di allora commise l’errore di pensare che la situazione del 1921-22 potesse protrarsi e consolidarsi, e che non fosse né necessario né possibile l’avvento al potere di una dittatura militare”. Anni dopo scriverà: “Noi siamo tra i pochi che abbiamo preso sul serio il fascismo, anche quando il fascismo sembrava fosse soltanto una farsa sanguinosa, quando intorno al fascismo si ripetevano solo i luoghi comuni sulla ‘psicosi di guerra’, quando tutti i partiti cercavano di addormentare la popolazione lavoratrice presentando il fascismo come un fenomeno superficiale, di brevissima durata”. La riflessione critica porta Gramsci ad affermare che la vittoria del fascismo in Italia è il prodotto non solo degli errori, delle debolezze, delle valutazioni sbagliate del movimento operaio, e insieme la risposta che le classi dominanti danno a una situazione di crisi per imporre una dittatura stabilizzante degli interessi del capitale. Essa è anche il prodotto della stessa storia d’Italia, cioè del modo in cui è avvenuto il processo di unificazione nazionale. A suo giudizio, la borghesia italiana trova nel fascismo, oltre che uno strumento di repressione armata, anche la propria organica unificazione. Sostiene poi che oltre a essere una forma di reazione antioperaia, esso è anche uno strumento attraverso cui si compie il processo di ammodernamento dell’apparato produttivo italiano, senza che ciò provochi sconvolgimenti sociali di proporzioni catastrofiche; e che dunque esso ha una funzione di difesa dei ceti medi e di ristrutturazione capitalistica e finanziaria. In questo senso il fascismo rappresenta una “rivoluzione passiva” o “rivoluzione-restaurazione”. Di diverso orientamento, almeno prima degli anni ’30, è Palmiro Togliatti il quale in un intervento al VI congresso dell’Internazionale comunista, nel ’28, così si pronuncia: “Nel 1921, nel 1922, nel 1923, si parlava sempre del fascismo come di una forma particolare della offensiva del capitalismo contro la classe operaia in un particolare momento e in condizioni determinate. Oggi il problema viene da noi posto sul terreno della trasformazione reazionaria delle istituzioni politiche della borghesia e dello Stato borghese che si compie parallelamente allo sviluppo delle contraddizioni oggettive del mondo capitalistico… In modo molto generale si può dire che il fascismo è una forma di reazione la quale si sviluppa soltanto in condizioni speciali e principalmente quando la grande borghesia industriale essendo debole ha bisogno di fare ricorso a forme particolari di violenza e di compressione politica sopra le masse per mantenere e consolidare il proprio dominio di classe… Noi affermiamo che la instaurazione del fascismo e la trasformazione reazionaria completa che esso fa subire alla società borghese non aprono la prospettiva di una seconda rivoluzione democratico-borghese, ma ci dimostrano che la rivoluzione proletaria è matura, che noi stiamo attraversando il periodo di preparazione politica della rivoluzione proletaria e non il periodo di preparazione di una rivoluzione democratico-borghese”. Anche Togliatti dunque non avverte che il fascismo è destinato a durare. Egli riconsidererà criticamente queste sue posizioni più tardi, nel ’35, allorquando a Mosca terra le sue famose “Lezioni sul fascismo” e definirà il Partito nazionale fascista il partito di tipo nuovo della borghesia italiana. E’ appunto solo dopo un quindicennio che egli approfondisce l’analisi del fenomeno e fa propri i suggerimenti critici di Gramsci. In queste “lezioni” sostiene che “il corporativismo in quanto collaborazione di classe non è affatto un’invenzione del fascismo. Da un lato esso deriva dalle correnti di estrema destra del socialismo, correnti piccolo-borghesi, antimarxiste, che erano sorte nel seno della 2° Internazionale. D’altra parte noi lo troviamo nella destra del movimento socialista francese, il quale riproduceva alcuni elementi di proudhonismo. Un punto di contatto del corporativismo in quanto collaborazione di classe, si trova nell’ideologia sociale dei cattolici”. E poi prosegue: “La politica del fascismo non diminuisce, ma invece acutizza i contrasti di classe… Mussolini ebbe a dire, in un discorso agli operai di Milano, che il sistema capitalista deve essere superato… e tale affermazione la si trova anche nella mozione approvata il 13 dicembre (‘34) dal Consiglio superiore delle corporazioni... Nel discorso fatto all’assemblea annuale del regime nel 1934 Mussolini ebbe a dire: ‘L’economia disciplinata, potenziata, armonizzata, in vista soprattutto di una utilità collettiva dei produttori 162


stessi, imprenditori tecnici, operai, attraverso le corporazioni create dallo Stato, il quale rappresenta il tutto e cioè anche l’altra faccia del fenomeno: il mondo del consumo’. Egli prospetta cioè un’economia organizzata la quale si stacca dal capitalismo…Il fascismo si è trovato di fronte a una gravissima crisi economica… e ha fatto una politica la quale ha favorito la concentrazione del capitale, una politica la quale ha portato al prevalere del capitale finanziario in tutta l’economia del Paese… In nessun altro Paese lo Stato è intervenuto come in Italia per far diminuire i salari nella misura e coi mezzi che voi ben conoscete…L’imperialismo italiano: è fra i più deboli perché ci mancano le materie prime, ecc., ma dal punto di vista dell’organizzazione, della struttura esso è, senza dubbio, uno dei più largamente sviluppati”. Togliatti si dice convinto che il fascismo è il segno e insieme la causa di una corruzione, di una degenerazione profonda della società italiana nel suo insieme, un periodo di imbarbarimento che non si supera soltanto con l’azione politica, poiché ha radici lontane e resistenti nel tessuto sociale, ma va combattuto con gli strumenti della cultura. Rispetto però alla linea politica da seguire, le sue divergenze con Gramsci permangono. Su “Stato operaio”, espressione del suo gruppo, infatti scrive: “Noi escludiamo la prospettiva di una cosiddetta ‘fase transitoria’”. Nel corso del ventennio a condurre una seria riflessione sul fascismo e sul nazismo sono compagni singoli, non legati o comunque svincolati dall’Internazionale comunista. Si tratta soprattutto di soggetti isolarti e tagliati fuori dal movimento. Il caso di Gramsci è tra i più emblematici, ma non è certo il solo: a leggere il fenomeno in maniera non ortodossa sono anche intellettuali austromarxisti e della Scuola di Francoforte del calibro di Horcheimer, Adorno, Marcuse, Fromm e Benjamin. La superficialità analitica con cui gli organismi dirigenti della sinistra a livello internazionale hanno affrontato l’argomento, ha causato molti danni al movimento operaio e non solo a questo. Indicativo di tale superficialità è che per decenni non si è riflettuto su uno degli aspetti politicamente più inquietanti di questa vicenda, e cioè che il fondatore del fascismo è da considerarsi una costola del massimalismo della sinistra. Se milioni di italiani per lungo tempo dopo la Liberazione hanno mantenuto una rappresentazione edulcorata e per certi aspetti benevola del fascismo, considerandolo certo una dittatura, ma anche un sistema di governo che avrebbe il merito di aver garantito ordine e assicurato un prestigio nel mondo all’Italia, questo è dovuto anche alle lacune che la sinistra ha mostrato di avere sul piano analitico e storiografico. 5.8 – La crisi della repubblica di Weimar e l’avvento al potere dei nazionalsocialisti Istituita nel ’19, la Repubblica di Weimar è governata dal ‘24 al ‘29 da coalizioni di centro-sinistra, nei quali il ruolo dei socialdemocratici ha un peso notevole. Alla fine degli anni ’20 i contadini, i piccoli artigiani e i ceti intermedi, spaventati anche dai metodi violenti imposti da Stalin in Urss, incominciano a trasferire i loro voti dall’area democratica e socialdemocratica allo schieramento conservatore e reazionario. Quando la crisi mondiale investe il già precario assetto economico tedesco e il governo di centro-destra si dimostra incapace di arrestare gli atti di violenza dei nazional-socialisti di Hitler, il tacito patto tra Stato, imprenditori e sindacati salta. Dal ‘30 al ‘33 il Paese è governato da coalizioni di centro-destra. A quel punto, però, ridotto a un’assise vociante di ben ventinove partiti, il Reichstag perde credibilità e consenso e la repubblica muore e a prendere il potere sono i nazionalsocialisti. Ci sono storici che interpretano l’ascesa del nazismo come una reazione alla crisi economica del ’29 ed escludono gli effetti provocati dalle condizioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles. Altri, invece, fanno risalire l’origine del totalitarismo di destra a prima della prima guerra mondiale, mentre altri ancora considerano il successo nazista una risposta alla minaccia del bolscevismo. A mio modesto avviso, così come è valso per la nascita del fascismo in Italia, anche nella ricerca delle ragioni che hanno consentito l’affermazione del nazismo in Germania, è il caso di rifuggire dagli stereotipi e di prendere in considerazione una molteplicità dei fattori. 163


Non va intanto trascurato il fatto che già a fine Ottocento-inizio Novecento, intellettuali come Max Weber formulano prospettive teorico-politiche che favoriscono il formarsi di una cultura che concorre alla formazione dell’ideologia nazista. Il sociologo tedesco, infatti, elabora un sistema teorico delle nuove tendenze elitarie prodotte dall’aprirsi del nuovo secolo e dalla crescita delle emergenti forme dell’economia di monopolio e di capitalismo di stato. Auspica una “democrazia dei capi” e parla con sottinteso disprezzo dello “Stato di massa”, della “democrazia puramente plebiscitaria”, detesta le “democrazie elettorali” e si dice convinto che “non è la massa politicamente passiva che genera il capo, ma è il capo politico che si procura il seguito e conquista la massa con la demagogia”. E’ da considerare poi che a favorire l’ascesa al potere, non solo in Germania ma anche in Giappone, delle forze politiche del militarismo, quelle appunto che porteranno poi alla costituzione dell’Asse, è la crisi economico-finanziaria del ‘29. A giocare un ruolo decisivo nel favorire la presa del potere da parte dei nazionalsocialisti è poi l’incapacità dei governi di Weimar di offrire uno sbocco alla crisi. Difatti, questi governi compiono scelte impopolari e sbagliate come quella di scaricare dalle finanze dello Stato alle finanze comunali, l’assistenza ai disoccupati e ai bisognosi, categorie sociali queste che sono in spaventoso aumento. Simili misure provocano un diffuso malcontento e una generale disaffezione che favoriscono la demagogia hitleriana. Il sussidio erogato dai Comuni è soggetto all’obbligo del rimborso e produce una massa di indebitati a vita, contribuendo così a creare un senso di estraneità nei confronti dello Stato e delle istituzioni. Si tratta di misure che frantumano quello “Stato sociale” su cui sia la socialdemocrazia che i sindacati hanno puntato con l’obiettivo di dare senso di cittadinanza alla classe operaia e garantire la fedeltà al sistema. Nelle elezioni del 1930 per il rinnovo del Reichstag, i nazisti ottengono 107 seggi; nel ’28 ne avevano conquistati solo 12. I loro voti passano da 800.000 a 6 milioni e mezzo. La rappresentanza comunista sale invece appena da 54 a 77 seggi. Nel luglio ’32, la rappresentanza nazista viene più che raddoppiata raggiungendo i 230 seggi. Succede così che il 30 gennaio ’33, in modo legale, Hitler diventa cancelliere della repubblica tedesca. Salito al potere indice nuove elezioni e il suo partito ottiene il 44% dei voti che aggiunti a quelli degli alleati tedesco-nazionali, gli consentono di contare sul 52% dell’elettorato. Anche il voto comunista, nei primi anni ’30, cresce costantemente, ma le grandi masse dei ceti intermedi che vedono nel comunismo la propria condanna a morte, sono alla disperata ricerca di qualcuno che le metta al riparo dal rischio che anche in Germania si affermi il dominio bolscevico. Avviene così che elementi conservatori, nazionalisti e antirepubblicani, proprietari terrieri, Junker, magnati siderurgici della Renania e altri industriali ancora, maturano la convinzione che Hitler può rappresentare l’uomo che li difende da un simile pericolo. Hitler con la sua propaganda infiamma i sentimenti nazionalisti e conservatori e nobilita i risentimenti contro i “rossi” e i semiti. Egli considera il trattato di Versailles un’umiliazione nazionale, attacca la democrazia di Weimar come fonte di lotta di classe, di divisioni, di debolezza, di vanità parolaia; invoca la “vera” democrazia sotto forma di un vasto e vitale movimento di popolo, o Volk, guidato da un capo che sia un uomo d’azione. Egli asserisce di battersi per il vero socialismo e individua nell’antisemitismo e nell’antibolscevismo il minimo comune denominatore per fare appello a tutte le parti e a tutte le classi. Adolf Hitler nasce in Austria nel 1889 e a 16 anni abbandona la scuola mentre a 19 si reca nella grande metropoli viennese dove studia belle arti senza peraltro conseguire il diploma. Con lo scoppio della guerra si arruola volontario, poiché, così come è accaduto a Mussolini, combattere al fronte rappresenta per lui un’esperienza eccitante, nobile e liberatoria. Terminato il conflitto mondiale aderisce al Partito tedesco dei lavoratori (poi Partito nazional-socialista tedesco dei lavoratori) di cui nel ‘21 diviene il capo. Al partito affianca un corpo paramilitare e, nel ’23, con le “camice brune” organizza il putsch della birreria, che però viene represso e lui subisce una condanna a 5 anni di prigione. Poiché, però, la repubblica di Weimar tratta i suoi nemici con molta mitezza, egli viene liberato dopo meno di un anno. In carcere scrive il Mein Kampf che rappresenta il suo programma politico e nei suoi discorsi isterici, imitando l’impresa mussoliniana, invita i suoi 164


seguaci a tenersi pronti per marciare su Berlino. A seguito della grande depressione provocata dalla crisi del ’29, la Germania subisce un vero e proprio collasso economico. Mentre le forze che sono al governo del Paese, impotenti di fronte alla crisi, accusano una caduta di credibilità, Hitler, in nome del “vero socialismo dell’uomo comune”, diventa per larga parte del popolo tedesco il possibile “salvatore della patria”. Quando il nazismo conquista il potere si verifica una repentino cambiamento nella mentalità dei tedeschi. Investito da una crisi di lucidità, il mondo della cultura si dimostra incapace di resistere all’avanzata del pensiero nazista. Nel ‘33 i disoccupati costituiscono la grande maggioranza degli assistiti: si tratta di milioni di persone completamente in balia del sistema comunale di assistenza alla povertà. Divenuto cancelliere, Hitler vara un vasto programma di riarmo che in breve tempo, richiamandosi a una legge del ‘24 adottata dal governo di Weimar, la quale istituiva l’assistenza ai poveri e fissava per legge il lavoro coatto, assorbe gran parte dei disoccupati. E lo fa militarizzando il lavoro e istituendo i lager quale componente essenziale della politica del lavoro. Egli può così vantare di aver riassorbito la disoccupazione nel breve giro di due anni e di aver dato lavoro a circa otto milioni di disoccupati. E’ da ricordare a questo riguardo che la teoria economica del nazismo nasce anche proprio come critica all’indifferenza sociale del liberalismo. I suoi progetti stanno, però, comodamente entro l’involucro del pensiero liberista; a caratterizzarli è la conversione di tutto il sistema produttivo in un’economia di guerra, o “economia militare dinamica”, che comporta un’inevitabile pianificazione, o meglio una programmazione centralizzata della produzione. Il rapporto tra Stato e imprese risulta perciò strettissimo e il processo di razionalizzazione riguarda non solo la produzione, ma anche i suoi sbocchi. Al piano riguardante un nuovo ordine capitalistico europeo, che il regime nazista porta avanti, la grande industria e i gruppi finanziari tedeschi si dimostrano fortemente interessati. Facendo uso di tutte le possibili risorse della produzione, questo piano porta a compimento un immenso programma di armamenti senza che il tenore di vita della popolazione venga intaccato. Mai nella storia dell’industrializzazione si è registrato che fossero messe in pratica così rapidamente le nuove invenzioni e che venissero impiegate percentuali così elevate di reddito nazionale per gli investimenti. Il nazismo persegue l’obiettivo di un’anarchia assoluta: i chimici tedeschi creano la gomma artificiale, materie plastiche, tessuti sintetici e molti altri surrogati, permettendo così al Paese di fare a meno delle materie prime importate dall’estero. Lo Stato nazista non ingloba dunque i monopoli, ma li aggrega e li protegge al fine di realizzare una politica economica funzionale ai suoi progetti di conquista. Nel sistema capitalista, pertanto, il nazismo non introduce alcuna trasformazione sostanziale, salvo organizzare l’economia in base a principi corporativi. Nel suo sistema economico sussistono gli imperi industriali dei Thyssen, dei Flick, dei Mannesmann. E quando ricorre alla politica di piano programmando la produzione copia dall’Urss. Una delle sue particolarità è quella di eliminare le obiezioni dei capitalisti alla piena occupazione. Mentre lascia intatta la sfera imprenditoriale, trasforma profondamente il mondo del lavoro, prima distruggendo i sindacati e poi controllando direttamente l’impiego della forza lavoro. L’intervento del partito nell’economia si realizza attraverso il cosiddetto “complesso Goering” che ha la funzione di offrire uno spazio nell’industria agli uomini del partito. Sul piano finanziario i nazisti dispongono della Dresdner Bank che è la più importante impresa di credito delle SS e la cui funzione è quella di attivare prestiti agli industriali che risultano strettamente legati al regime. Documenti e testimonianze resi pubblici recentemente svelano che alle industrie amiche sono stati accordati prestiti per oltre 47 milioni di marchi, mentre per favorire singoli progetti com’è stato il caso del Reichsfuhrer, che fa capo alle SS di Heinrich Himmler, sono stati stanziati dalla stessa banca altri 17 milioni di marchi. A partire dal ‘37, lo stesso istituto di credito contribuisce attivamente alla spogliazione di tutti i conti bancari degli ebrei e al finanziamento dei progetti dell’industria bellica. Esso, inoltre, intrattiene relazioni commerciali con le imprese di costruzione che edificano i campi di sterminio. 165


Oltre che per la solidità delle sue relazioni economico-finanziarie, il nazismo è reso forte anche dalla sua ideologia che risulta più potente e meglio strutturata di quella del fascismo italiano. Il regime tedesco utilizza elementi di dottrine diverse come “tecniche di dominio” e incoraggia movimenti pagani anticristiani che venerano divinità germaniche; fabbrica il pensiero, manipola le opinioni, riscrive la storia. Una delle tesi di Hitler è che il parlamentarismo è la rovina della Germania e conseguentemente accentra nelle sue mani il potere proclamando che “la Costituzione sono io”. E’ su questa onda che il regime promuove il culto del fuhrer. Sulla base del principio secondo cui “il marxismo rappresenta la grande azienda degli ebrei per la conquista del mondo”, egli elimina rapidamente tutti coloro che hanno preso sul serio la componente “socialista” del partito e del regime e scatena la repressione contro chiunque osi contrastare il suo dominio. E lo fa anzitutto distruggendo l’autonomia di pensiero: “Dobbiamo diffidare dell’intelligenza e della coscienza, e riporre tutta la nostra fede negli istinti”, proclama. Il capo dei nazisti odia non solo i comunisti e i semiti, ma anche l’aristocrazia, il capitalismo, il cosmopolitismo e soprattutto l’”ibridazione”. Egli impegna i tedeschi nell’opera di distruzione dei valori e delle istituzioni della civiltà occidentale nati nell’era delle rivoluzioni borghesi. Il suo Mein Kampf fonda su tre principi: sul darwinismo sociale, cioè sulla lotta eterna tra forti e deboli, che produce una selezione naturale per la conquista dello spazio vitale; sul principio etnocentrico, secondo cui al centro dell’esistenza c’è necessariamente una data razza, un dato popolo; sul principio della personalità, secondo il quale l’individuo superiore guida la massa stupida e incapace. Gran sacerdote di questa “scienza razziale” è Alfred Rosemberg il quale classifica gli ebrei come non ariani e include fra questa “razza” chiunque abbia un antenato ebreo. Nel ’35 il regime vara le leggi di Norimberga che privano gli ebrei di tutti i diritti di cittadinanza e vietano i matrimoni misti tra giudei e non giudei. Due anni dopo ha inizio la persecuzione. I lager che all’inizio erano destinati a “case di lavoro” (Arbeitshauser) per i detenuti politici, incominciano a essere popolati anche dagli ebrei e nel ’41 ospitano anche 110.000 tedeschi non ebrei classificati asociali. Oltre a perseguitare gli ebrei, il regime sterilizza ventimila persone dalla pelle nera e per i malati di mente ricorre all’eutanasia. Almeno 800 mila bambini afflitti da patologie ereditarie e da handicap vengono eliminati. E’ da notare che la politica di selezione della razza non nasce esclusivamente sull’onda dell’antisemitismo, cioè su base etnica, ma viene ideata anche per affrontare la questione sociale, cioè per distruggere gli emarginati, le persone considerate “improduttive”. Quando i nazisti, nel ’41, invadono l’Europa orientale incominciano a mandare gli ebrei a morire nelle camere a gas con metodiche scientifiche. Alla fine del conflitto gli esseri umani asfissiati, cremati o sottoposti a esperimenti medico-scientifici ammonteranno a sei milioni. E’ da precisare a riguardo di questo genocidio, che se i carnefici nazisti non avessero potuto contare sulla collaborazione attiva di gran parte del popolo tedesco, l’Olocausto non sarebbe stato possibile. E’ stato calcolato che almeno otto milioni di persone, tra cui soldati, poliziotti e guardie carcerarie, sono state fisicamente coinvolte nello sterminio, che mezzo milione di civili hanno preso parte direttamente alle esecuzioni e che più di trecentocinquantamila persone hanno lavorato stabilmente negli oltre dodicimila lager di vario tipo. Si è anche stimato che non meno di cinquanta milioni di tedeschi erano a conoscenza degli orrori dei vari Auschwiz, Mathausen, Buchenwald, Dachau, ecc.. Una tale complicità può essere spiegata col fatto che per almeno un secolo nel codice della cultura tedesca, da parte sia del potere politico che della Chiesa, delle scuole e persino delle famiglie, è stato instillato un feroce antisemitismo. I pregiudizi antigiudaici vantano infatti un’antica diffusione sin dai tempi del diffondersi in Europa del cattolicesimo e alla fine del 19° secolo essi si sono alimentati delle teorie razziste. Non meraviglia perciò che in gran parte degli ambienti militari nazisti trovi diffusione la convinzione che gli ebrei sono ladri, esseri sudici e maligni, e che pertanto il trattamento loro riservato dal regime hitleriano è da ritenersi giustificato. Prova ne è che nessun

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soldato o cittadino del Reich è mai stato fucilato, imprigionato o punito per essersi rifiutato di uccidere un ebreo. Sulla base di studi svolti in tempi recenti, la decisione di procedere al genocidio incontra nel popolo tedesco, anche a distanza di decenni, uno stupefacente livello di condivisione. Chi dunque giustifica l’accaduto, sostenendo che pochi o nessuno sapeva cosa succedesse veramente nei campi di sterminio, è da ritenersi in mala fede. Nessuno del resto può smentire che le stesse campagne naziste degli anni ’30 contro gli zingari, gli omosessuali, gli handicappati, oltre che contro gli ebrei, siano state accolte dall’opinione pubblica tedesca senza che si verificasse una qualche significativa resistenza. E pure a riguardo della politica di aggressione militare e di invasione di altri Paesi è da registrare una vera e propria complicità tra regime e popolazione. Le guerre di espansione hitleriane si propongono in termini chiari e inequivocabili l’obiettivo non solo di espropriare e rapinare in maniera sistematica le comunità ebraiche di tutti i Paesi invasi dalla Wermacht (si stima che il valore delle proprietà ebraiche finite nelle casse di guerra sia oscillato fra i 15 e 20 miliardi di marchi tedeschi dell’epoca), ma di saccheggiare risorse e sottoporre in schiavitù le popolazioni di vaste regioni dell’Europa. Non è un caso che tra le priorità della campagna di Russia, per limitarci a un esempio, Hitler indichi la presa di Baku proprio perchè nel sottosuolo di quella regione esiste petrolio in abbondanza, risorsa indispensabile a far muovere la macchina da guerra nazista. Come ha osservato Ulrich Herbert, “la maggioranza della popolazione tedesca non si sentiva minimamente minacciata dalla repressione della dittatura nazista che rivolgeva all’esterno”. Difatti, dei sei milioni di ebrei sterminati, solo 150 mila sono tedeschi. Soprattutto, però, gioca il fatto che la maggioranza degli operai tedeschi non è contraria a essere la nazione dominante, anzi. Il collante principale del sistema nazista non è quindi soltanto l’ideologia e il carisma seduttore del fuhrer, ma è anche e soprattutto la condizione di privilegio che deriva dall’appartenere a uno Stato imperialista e invasore. L’ondata di misure tese a garantire uno status sociale soddisfacente, l’illusione di realizzare una società senza classi, la distribuzione di pingui assegni familiari, la concessione di mutui a tasso zero, l’attuazione di generose esenzioni fiscali, fanno sì che l’adesione popolare al regime sia pressoché totale e che solamente i “diversi” e i derelitti ne risultino esclusi. Già nel ’35, mentre da un lato Hitler procede alla segregazione e all’annientamento dei più poveri, dei disoccupati di lunga durata, di coloro che hanno commesso piccoli delitti contro il patrimonio, di chi è portatore di malattie considerate ereditarie e di chi è invalido; dall’altro, con abile mossa, emette un decreto con il quale vengono cancellati tutti i debiti degli assistiti nei confronti dei Comuni. Questo fa sì che la maggioranza del popolo tedesco chiuda gli occhi sui processi di selezione razziale e di selezione sociale che vengono innescati e proprio in forza dei quali possono beneficiare dei privilegi concessi. Durante il conflitto mondiale, il regime abolisce ogni tassa per tutti i lavoratori a reddito fisso ed esenta fino alla fine le donne dallo sforzo di guerra. All’indomani della sconfitta di Stalingrado, nonostante le insorgenti difficoltà, i tedeschi si vedono aumentare le rendite d’anzianità, mentre ai pensionati viene estesa la cassa malattia. In sostanza, il regime nazionalsocialista si dimostra attento e impegnato a mantenere il consenso della popolazione tedesca attraverso una capillare rete assistenziale e di servizi. E’ proprio questo patto scellerato tra Hitler e il popolo tedesco che determina il corrompimento della morale collettiva e porta a giustificare l’Olocausto. Che il nazismo persegua il genocidio, faccia ricomparire in Europa la tortura, discrimini e sopprima i disabili, releghi le donne al focolare domestico e ostacoli il loro accesso al lavoro nelle fabbriche fin che la situazione economica del Paese si fa disastrosa, sono problemi che alla coscienza dei tedeschi appaiono di secondo ordine. Che la radicalizzazione competitiva che sta alla base del sistema faccia prevalere i peggiori e mortifichi i cittadini onesti e i virtuosi; che mentre si incarcerano gli omosessuali, ritenuti portatori di patologia organica, Hitler coltivi rapporti carnali con un ballerino francese, non provoca affatto alcuno scandalo. Quel che importa è che la Germania domini il mondo intero e che il Reich, come profetizza il suo fuhrer, duri mille anni assicurando a 167


ogni tedesco un avvenire di privilegio e di gloria. Goebbels, d’altronde, richiamandosi a Carlo Magno, si propone di cancellare le premesse e le conseguenze della rivoluzione francese, cioè il perseguimento dei valori della libertà, della fraternità e dell’eguaglianza, e prospetta la Germania come il nucleo e la garanzia di un futuro nuovo ordine europeo. Per la verità, non tutti i tedeschi si sono lasciati plagiare dalle follie hitleriane. Anche in Germania ci sono state testimonianze di resistenza attiva al regime. Il proletariato, ad esempio, di fronte all’insorgere dello squadrismo nazista ha lottato duramente contro di esso. Non solo i comunisti, ma anche centinaia di quadri del sindacato e della stessa Spd hanno pagato con l’esilio, il carcere e con la stessa vita l’opposizione al regime. Solo che la loro capacità di resistenza si è scontrata da subito con l’inettitudine e l’opportunismo dei vertici della socialdemocrazia, la quale ha perseverato nel considerare come nemico numero uno il bolscevismo piuttosto che Hitler. Ed è proprio la miopia politica di chi ha assunto il governo della repubblica di Weimar ad aver logorato le forze democratiche e di sinistra e aperto la strada ai nazionalsocialisti. Se nel ’44 la congiura contro il fuhrer dei generali aristocratici del vecchio esercito prussiano fallisce miseramente, ciò non è dovuto semplicemente a un accidentale infortunio tecnico-militare, ma proprio alla mancanza di un supporto popolare nell’opposizione al regime. Questa constatazione non vuole affatto sminuire le responsabilità che pure ricadono sull’estrema sinistra tedesca e sul movimento comunista internazionale nel sottovalutare la natura del nazismo. L’esperienza del fascismo in Italia non è, infatti, servita loro ad aprire gli occhi sulla tragica realtà e a correggere la direzione di marcia. Di fronte all’avvento al potere di Hitler, i comunisti lo danno per spacciato in partenza. Lo stesso gruppo dirigente dell’Internazionale comunista è addirittura convinto che, accelerando la disgregazione del capitalismo, il nazismo avrebbe distrutto l’influenza socialdemocratica sul movimento operaio e aperto la strada alla dittatura proletaria. Già nel ’23, Victor Serge, valente storico comunista, così descrive il nazionalsocialismo: “Si tratta, in definitiva, di una demagogia ingenua che specula sul sentimento nazionale, sul discredito del socialismo riformista e del parlamentarismo, sulla miseria, sul vecchio odio nei confronti dell’usuraio e del finanziere troppo spesso ebrei… si tratta di un fascismo degenerato, involgarito, abbruttito. Terribili sintomi della decadenza del regime capitalistico, che non riesce neanche più a fornire alle masse un’ideologia degna di questo nome”. E’ opinione diffusa tra i comunisti tedeschi che sia da considerarsi una dittatura, quella della piccola borghesia sulla grande, perciò lo stesso governo di Heinrich Bruning, il segretario dell’Unione dei sindacati cristiani divenuto cancelliere nel ’30, e che pertanto la successione di Hitler a questo governo sia da interpretare come un semplice e innocuo avvicendamento di leader politici. E’ solo di fronte all’evidenza dei fatti che essi mutano atteggiamento e cominciano a considerare il nazismo come il pericolo maggiore. E’ infatti nel ’35 che l’Internazionale comunista, smentendo la teoria del “socialfascismo”, fa propria la linea dei “fronti popolari”, avvertendo la necessità di unificare tutte le espressioni della sinistra e del fronte democratico per arginare l’ondata fascista che si riversa sull’Europa e che, in forza dell’esaltazione del nazionalismo, consegue significative adesioni e consensi in molti Paesi. E nemmeno è da sottovalutare il fatto che, nello stesso Occidente, Hitler è ben visto e trova appoggio negli stessi ambienti del potere. Nella prima fase della sua investitura al cancellierato, difatti, il capo del nazismo riscuote la simpatia sia della casa reale inglese che dello stesso Churchill. E quando il fuhrer sbraita e lancia precise minacce di aggressione, creando situazioni di tensione in varie regioni d’Europa, i governi di Francia e di Inghilterra, avendo sottovalutato le sue mire aggressive e non avendo lavorato per tempo alla predisposizione di soluzioni alternative, non trovano di meglio che concedere via libera alle sue pretese. Di fronte alle nefandezze naziste, i governi democratici dell’Occidente si sono dimostrati pusillanimi quando non addirittura complici. Gli oppositori al regime hitleriano che erano costretti a fuggire dalla Germania e a trovare asilo politico in altri paesi, salvo che sull’ospitalità degli Stati Uniti, hanno incontrato non pochi ostacoli negli atteggiamenti assunti verso di loro dai governi democratici d’Europa e, fatta eccezione per 168


alcuni casi particolari, molti di loro non sono riusciti a integrarsi in questi paesi proprio a causa del comportamento remissivo che i loro governanti hanno tenuto, almeno per un certo periodo, verso il nazismo. Basti ricordare che la comunità internazionale era informata dell’esistenza in Germania dei campi di concentramento fin dai tempi della loro originaria costruzione, eppure mai nessuno degli uomini di potere ha avuto il coraggio morale di denunciarne pubblicamente l’esistenza e di condannare la loro funzione criminale. Nemmeno la Chiesa di Roma si è mossa in difesa dei “giudei”. Si è giunti persino al paradosso che a fornire i supporti tecnologici indispensabili a classificare e a sterminare gli ebrei fosse la multinazionale americana Ibm. Tutto questo comunque non sminuisce affatto la responsabilità che i dirigenti dei partiti comunisti si sono assunti negli anni venti e nella prima metà degli anni trenta nel sottovalutare e nel non analizzare a fondo il fenomeno.

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Capitolo 6°

La degenerazione staliniana 6.1 – Stalin, il personaggio, l’ideologia Nel ’22, mentre Lenin si dibatte nella contraddizione tra i principi del bolscevismo e il ripiegamento della rivoluzione russa, alla segreteria generale del comitato centrale del partito viene eletto Stalin. Egli è portatore di una visione della rivoluzione e fautore di metodi di gestione del partito che contribuiscono a determinare un rapporto controverso con il capo dei bolscevichi. In occasione del 13° congresso del partito, a fine dicembre ’22 inizio gennaio ’23, Lenin, ormai logorato dalla malattia, invia delle note ai delegati le quali non vengono però lette all’assise: una decisione questa che trova complice Trotzkij. Il testo verrà reso noto pubblicamente solo con l’avvento al potere di Chruscev, cioè nel ’56, e sarà considerato il suo testamento politico. In quella missiva egli evidenzia i limiti della direzione politica del partito e precisa di non ritenere nessuno dei dirigenti all’altezza di sostituirlo. In lotta per la sua successione sono in cinque: Trotzkij, Stalin, Zinov’ev, Kamenev e Bucharin. E’ il caso di ricordare ancora che due di questi, Zinov’ev e Kamenev, si erano pronunciati contrari alla rivoluzione d’ottobre. Nella lotta per conquistare il potere ognuno di questi cinque dirigenti si presenta come il legittimo erede e il più coerente prosecutore dell’opera del “vecchio”. Le indicazioni di Lenin non vengono però prese in considerazione e succede così che Stalin, intessuta con abilità l’alleanza con Zinov’ev, Kamenev e Bucharin contro Trotzkij, consolida le sue posizioni e diventa il capo assoluto. A quel punto, Lenin sferra direttamente un attacco a Stalin e suggerisce ai delegati di togliergli l’incarico di segretario generale del partito istituendo una direzione collegiale. Giustifica questa sua raccomandazione con il giudizio secondo cui “Stalin è troppo rude e questo difetto, del tutto tollerabile nei rapporti fra noi comunisti, diviene intollerabile nell’incarico di segretario generale. Perciò, io propongo ai compagni di pensare al modo di rimuovere Stalin da quell’incarico e nominarvi un altro”. E’ pure suo convincimento che il nuovo segretario del Pcus abbia una propensione per il nazional-bolscevismo e coltivi manie gran-russe. Reso noto al gruppo dirigente il Testamento di Lenin in cui veniva suggerita la sua destituzione da segretario del partito, Stalin, con grande abilità e certo che non le avrebbero accettate poiché l’assise era stata da lui stesso accuratamente preparata, ha formalmente presentato le sue dimissioni al 13° congresso. Qualcuno ha insinuato che in Stalin vi fosse un’aspirazione al potere fondata su un nascosto odio verso il capo dei bolscevichi e che questo risentimento abbia costituito la chiave di volta della sua personalità. Di fatto, rispetto agli altri pretendenti, il neo segretario vanta il pregio di saper incidere più a fondo sul partito e di soddisfare meglio gli interessi morali e intellettuali delle masse rivoluzionarie. Egli offre tutte le garanzie desiderabili: il prestigio di un vecchio bolscevico, un carattere fermo, uno spirito ristretto, un legame indissolubile con gli apparati che rappresenta la fonte principale della sua influenza personale. Dopo la morte di Lenin, il suo gruppo si dimostra elemento di mediazione dei contrasti ogni volta che nel partito si prospetta una spaccatura. Ciò avviene nel corso della lotta tra Trotzkij e Zinov’ev e poi in occasione di quella tra Bucharin e l’opposizione delle sinistre. Una delle sue caratteristiche è peraltro quella di applicare all’interno del partito quella violenza che Lenin riservava soltanto all’esterno riuscendo così a evitare rotture. Come vedremo, egli risulterà essere al tempo stesso continuatore e affossatore dell’opera leniniana. A dire di Gyorgy Lukàcs “in una quantità di questioni essenziali Stalin non è stato il successore di Lenin, bensì il suo contrario”. Iosif Vissarionovich Stalin nasce nel 1879. Terminata la scuola parrocchiale di Gori, in Georgia, frequenta per cinque anni il seminario ecclesiastico di Tiflis e qui, in un’atmosfera di conformismo autoritario, riceve una rigida formazione culturale e religiosa che lo segnerà profondamente. In un’intervista egli confessa di essere “diventato socialista in seminario, perché il tipo di disciplina 170


che regnava mi faceva uscire dai gangheri”. Il seminario è stato per lui una scuola di metodo nel controllo degli altri, il luogo in cui ha imparato le tecniche repressive (sorveglianza, spionaggio, invasione della vita interiore) che avrebbe poi applicato nello Stato di polizia da lui creato. E’ in seminario che ha imparato a essere cinico e a fingere, è dai preti che ha ereditato la sua linfa antisemita. Egli ha sempre sostenuto di essere stato radiato dal seminario per aver diffuso il marxismo, però c’è chi lo ha smentito sostenendo che la ragione vera della sua cacciata è dovuta al suo rifiuto a presentarsi agli esami. Dopo essere stato cacciato da questo istituto, perché giudicato indegno di diventare prete, trova impiego per poco più di un anno presso l’Osservatorio astronomico della stessa città. Finita questa esperienza lavorativa decide di diventare un “rivoluzionario di professione”. All’indomani della rivoluzione russa del 1905, durante il suo apprendistato politico, per finanziare l’organizzazione bolscevica, egli si dà alla pratica degli “espropri proletari” assaltando banche e uffici governativi e per questo subisce arresti e deportazioni. Alle prime elezioni della Duma si oppone alla decisione dei bolscevichi di parteciparvi e un anno dopo, nel 1906, si pronuncia contro la proposta di nazionalizzazione della terra. Nel ’24, esponendo le idee di Lenin in “Principi del leninismo”, afferma: “Si può ottenere la vittoria definitiva del socialismo in un paese solo senza che gli sforzi dei proletari di più paesi avanzati concordino? No, è impossibile. Per abbattere la borghesia, gli sforzi di un solo paese bastano, la storia della nostra rivoluzione lo testimonia. Perché il socialismo vinca definitivamente, per organizzare la produzione socialista gli sforzi di un solo paese, soprattutto di un paese contadino come la Russia, non bastano più: sono necessari gli sforzi dei proletari di più paesi avanzati....Tali sono, in generale, i tratti caratteristici della teoria leninista della rivoluzione proletaria”. Poco tempo dopo, nel prendere atto del fallimento della rivoluzione in Germania e in Ungheria, e considerando l’isolamento in cui è relegata l’Urss, egli smentisce quel postulato leniniano ed elabora la teoria del “socialismo in una Paese solo” che già lo stesso Lenin aveva abbozzato. Morto Lenin il partito si sostituisce sempre di più ai soviet, sopprime definitivamente la funzione dirigente dei comitati di fabbrica e concentra il potere nel Soviet supremo. A favorire la degenerazione staliniana è anche questo processo di spoliazione del protagonismo e dell’autonomia che la rivoluzione aveva attribuito agli istituti di democrazia diretta e che questi organismi avevano incominciato da poco tempo a sperimentare. E’ da evidenziare che tale involuzione non è solo frutto della volontà di accentramento del potere da parte di Stalin, ma anche la conseguenza della lunga ed estenuante guerra civile che ha posto il nuovo governo del Paese nelle condizioni di dover difendere il nuovo assetto dai nemici interni e dall’intervento straniero e di gettare al tempo stesso le basi di una nuova economia alternativa a quella capitalistica. Questo duplice compito, date le difficoltà e le insidie, non poteva d’altra parte essere assolto che con metodi dialettici e in un contesto di libera sperimentazione, cioè in regime di ampia democrazia. Al contrario, le condizioni sfavorevoli hanno richiesto la massima centralizzazione nelle decisioni politiche e nella selezione dei quadri, obbligando anzi all’adozione di un’impostazione rigidamente gerarchica del rapporto tra organismi superiori e quelli inferiori. La militarizzazione sia della società che dell’economia è difatti la conseguenza del clima politico e sociale che si è venuto determinando a seguito dell’offensiva dei controrivoluzionari interni ed esterni. La non presenza di un sistema pluripartitico ha poi contribuito in maniera decisiva all’affermazione del regime autoritario e dittatoriale. Lo stalinismo dunque non è il semplice prodotto di un uomo folle e degenerato o di un gruppo ristretto di dirigenti politici, come qualcuno ha insistito e insiste nel sostenere, ma è il risultato di un processo assai complesso che ha riguardato non solo un gruppo dirigente o un partito, ma la formazione di un nuovo Stato la cui origine ha comportato una feroce lotta tra i suoi artefici e i suoi antagonisti interni e internazionali. Nel sottolineare questa complessità del fenomeno, non intendo certo giustificare i metodi e le scelte che il leader georgiano ha fatto propri in nome del socialismo. Ciò che mi preme mettere in evidenza sono le condizioni storiche entro cui egli si è trovato a operare e anche le responsabilità non solo sue, ma quelle dei suoi collaboratori e sostenitori e degli stessi suoi avversari, di coloro 171


cioè che hanno provocato e favorito quel processo di degenerazione che ha irrimediabilmente investito il primo tentativo di costruzione di una società alternativa al modello capitalistico. Di coloro cioè che si erano proposti di strozzare il socialismo nella culla. Stalin è indiscutibilmente un personaggio degenerato. Se a giudizio di molti e non solo di certi comunisti, come vedremo più avanti, egli è stato considerato un rivoluzionario convinto, un uomo intelligente e di talento, un tattico straordinario, da chiunque voglia essere obiettivo, un simile giudizio non può che considerarsi limitato nell’ottica, frutto di considerazioni parziali, tendenzioso e pregno di ideologia. In Stalin si riscontrano un cinismo e una rozzezza che non possono affatto conciliarsi con i valori che contraddistinguono chi vuole esaltare l’essere umano e migliorare la sua condizione esistenziale. Sin dagli albori della sua carriera politica egli dimostra di agire con crudeltà, perfidia e arroganza. Nella biografia di Stalin che Trotzkij sta scrivendo nel momento in cui viene assassinato, si racconta che nella ricca biblioteca personale del georgiano c’era una copia del “Principe” di Machiavelli i cui margini delle pagine erano piene di annotazioni, segno che aveva studiato a fondo i consigli del teorico fiorentino e che aveva ben assimilato quel volgarizzato precetto secondo cui “il fine giustifica i mezzi”. E lo stesso Trotzkij commenta che “una prudenza sospettosa spinge Stalin, quasi organicamente, nei momenti di decisioni gravi e di profonde divergenze, a ritirarsi nell’ombra”. Egli appare persino paranoico, quando dimostra verso i medici un’immotivata avversione, mentre la sua biblioteca è piena zeppa di testi di medicina. Uno dei suoi medici ha scritto nel proprio diario che l’arteriosclerosi di cui Stalin era affetto, non solo portò il dittatore alla morte, ma che in vita lo rese particolarmente crudele e sospettoso. L’autopsia, infatti, ha rivelato l’estensione dei danni subiti al cervello e l’anatomo-patologo ha dichiarato che possono avergli causato la perdita del senso del buono e del cattivo: che egli abbia sofferto di questo male, e che le sue scelte siano state determinate più dalle opportunità che da una lucidità strategica, è abbondantemente testimoniato dalla storia. Si consideri, comunque, che già ai tempi della Nep, in contrapposizione alle scelte di Lenin, egli ebbe a sostenere la tesi della neutralità del mercato. Noto è pure il suo atteggiamento intollerante verso idee e posizioni che non combaciano con le sue: egli giudica sprezzantemente la “rivoluzione permanente” di Trotzkij una teoria destabilizzante lo Stato sovietico, mentre paragona il luxemburghismo alla sifilide. Sua abitudine è quella di adeguare la decisione strategica alla decisione tattica. La teoria, nel suo modo di pensare e di agire, non obbedisce mai a un’esigenza di analisi e di conoscenza della realtà sociale, ma risulta essere sempre funzionale all’azione politica. Egli è poi convinto che il segretario generale del partito, in quanto politico, possa e debba essere considerato anche capo ideologico del partito. Tra i suoi scritti più importanti sono da segnalare “Il marxismo e il problema nazionale”, “Principi del leninismo”, “La rivoluzione d’ottobre e la tattica dei comunisti russi”, “Anarchismo o socialismo” e “Del materialismo storico e dialettico”. Egli fu anche il supervisore del “Breve corso di storia del Pc(b) dell’Urss” pubblicato nel 1938. Quest’ultimo testo giustifica l’edificazione del socialismo in un Paese solo e presenta la rivoluzione d’ottobre come modello per tutte le rivoluzioni socialiste. In esso si trovano raccolti i nuovi dogmi del materialismo storico dialettico, cioè il catechismo marxista-leninista che nel periodo compreso tra la fine degli anni ’30 e la metà degli anni ’50 ha costituito materia di studio e fonte di apprendimento da parte di tutti i partiti comunisti del mondo. La prima vittima di Stalin è senza dubbio Karl Marx. Egli seleziona e censura i suoi scritti fino al punto di impedire la pubblicazione dei “Grundrisse”. Dalla teoria marxiana espelle per intero la problematica inerente il sistema di produzione asiatico, rendendo così impossibile agli studiosi e ai dirigenti del movimento comunista di riflettere su una delle questioni cruciali del tempo. Come hanno denunciato diversi studiosi e critici, egli compie una simile ignobile operazione senza peraltro avere una conoscenza conveniente al ruolo che ricopre degli scritti di Marx. C’ è chi ha sostenuto che egli abbia “studiato” i tre volumi del “Capitale” non sui testi originali, ma su un sunto 172


dell’opera scritto da altri. A riprova della sua superficialità e della propensione al dogmatismo, ci sta il fatto che nei suoi scritti la complessità del “Capitale” stesso risulta del tutto ignorata. Di fatto, il pensiero marxiano viene da lui tradotto in formule e ridotto a semplici parole d’ordine. Tutta la ricchezza di analisi e di elaborazione riguardante il rilevante concetto di alienazione, per fare un esempio, non viene nemmeno presa in considerazione, viene anzi scientemente ignorata, accantonata. Conseguenza di queste censure è che per decenni il movimento operaio viene defraudato della conoscenza di importanti aspetti della teoria marxiana. La sua concezione del materialismo storico non è solo estremamente dogmatica, essa è anche povera e volgare. Risolve il problema fondamentale della dialettica marxista, da un lato dichiarando che le tendenze storiche di sviluppo sono ferree leggi naturali, dall’altro affermando il puro volontarismo e soggettivismo senza alcun nesso o mediazione. In “Questioni del leninismo” scrive: “La vita materiale della società è una realtà oggettiva, la quale esiste indipendentemente dalla volontà degli uomini, mentre la vita sociale è un riflesso di questa realtà oggettiva, un riflesso dell’essere”. Da ciò trae la conclusione che la società si muove secondo le leggi inesorabili di una realtà oggettiva e che pertanto risulta indipendente dalla volontà umana. L’ordine socialista – sostiene – seguirà all’ordine capitalistico come il giorno segue alla notte. Concepisce le leggi secondo i criteri della meccanica classica, non conosce la problematica posta dal calcolo delle probabilità, dalle regolarità statistiche e, soprattutto, dalle leggi-tendenze che sono molto più importanti per la comprensione dei processi storici. Guarda la storia dall’angolo visivo della natura e perciò sottovaluta l’azione cosciente degli uomini. Mentre a parole dice di volersi legare al “marxismo vivente”, di fatto costringe la teoria marxiana nel letto di Procuste della realtà russa, riducendola a un’ideologia ufficiale: la realtà viene sublimata in modo che si adegui alla teoria e, a sua volta, la teoria viene mistificata al punto da cancellare e nascondere tutte le contraddizioni e tutti i conflitti. Con Stalin il marxismo cessa di essere un metodo per indagare i fatti sociali e diviene un sistema di verità assolute funzionali al potere della élite che domina il partito e lo Stato. Egli rimane dipendente dell’impostazione plechanoviana secondo cui il movimento operaio è di per sé rivoluzionario e non può non arrivare comunque al socialismo, anche in assenza della teoria rivoluzionaria, il cui compito sarebbe esclusivamente quello di accelerare i tempi e di rendere più agevole il cammino. Proclamandosi continuatore dell’opera di Lenin, nei fatti imbalsama anche il suo pensiero dando origine al “marxismo-leninismo” e facendolo diventare l’ideologia ufficiale del movimento comunista. Mentre dapprima riduce parte notevole del pensiero marxiano a Lenin, successivamente compie la stessa operazione nei confronti dell’artefice della rivoluzione d’ottobre, interpretando in maniera semplificata la sua teoria e il suo insegnamento e impoverendoli e deformandoli, sottoponendo i suoi scritti a severa censura. Mentre Lenin ha sostenuto che “tutto il problema non sta nell’aver il potere politico, ma nel sapere dirigere”, nei “Principi del leninismo” Stalin gli attribuisce il concetto secondo cui “tutto sta nel conservare il potere, nel consolidarlo, nel renderlo invincibile”. Alla politica leniniana nutrita di teoria, egli sostituisce una teoria pensata e modellata come strumento di una politica. In sostanza, di quanto ha sostenuto il suo maestro egli fa uso e abuso ai fini esclusivi del consolidamento del suo potere. Del fatto che la Russia sia una realtà arretrata non si preoccupa più di tanto, anzi, in vista del compimento della modernizzazione, trasforma questa tara in motivo di entusiasmo, proponendo la politica da lui perseguita come modello per i comunisti di tutto il mondo. Pure il venir meno della rivoluzione internazionale non costituisce per lui ragione di apprensione. Mentre Trotzkij medita sulle incertezze e sulle difficoltà che ne conseguono, Stalin trae occasione per affidare il ruolo guida del movimento internazionale all’Urss elaborando la teoria del “socialismo in un Paese solo” che giustifica appunto con il riflusso della rivoluzione, la stabilizzazione contemporanea del capitalismo, lo sviluppo economico e la potenza politica dell’Urss. Esalta la forza del proletariato e la sua capacità di trascinare con sé i contadini e proclama 173


che “quella mirabile organizzazione di collaborazione dei popoli che si chiama Urss... è il prototipo vivente della futura unione dei popoli in un’economia mondiale unica”. Il trionfalismo è sempre alla base di tutte le sue tesi e dichiarazioni. Stalin non sa fare un’analisi marxista della società e si comporta nel senso di evitare ogni rischio facendo uso tattico del terrore. Considera la questione della libertà e quella dell’alienazione già risolte nel socialismo statalistico. Nonostante il sempre maggiore sviluppo economico di interi paesi dell’Occidente capitalistico, egli resta rigido nell’affermare l’impoverimento assoluto della classe operaia. Ripudia categoricamente ogni critica del presente e burocraticamente fa suo un codice etico-giuridico che esprime un dogmatismo moralistico tutt’altro che conciliabile con uno spirito rivoluzionario, dichiarando come sua finalità la costruzione della società comunista. Nel campo della vita intellettuale questo suo codice si traduce in una sorta di inquisizione disumanizzante. Deviando dalla legalità socialista, egli applica il criterio della costruzione del socialismo per decreto. Consolidato il potere sulla base di un clima di universale diffidenza, ne diviene l’impersonificazione vivente. Mentre la maggioranza del popolo confida in lui, in nome di tutti egli diffida di ogni singolo individuo. Invecchiato, diventa egli stesso la prima vittima del sistema che ha imposto. Prima di morire interviene personalmente nel dibattito sul rapporto tra marxismo e linguistica e formula alcune tesi relative ai problemi economici del socialismo. Questi suoi interventi vengono celebrati non solo dai comunisti dell’Urss, ma da tutti i partiti comunisti del mondo come il culmine del pensiero marxista, come il massimo punto di riferimento per la soluzione di tutti i problemi. Per decenni, infatti, Stalin rappresenta il modello del dirigente comunista: legge tutto, conosce tutto, decide di tutto, trova il tempo di farsi proiettare i film e di censurarli, di giudicare i romanzi, di valutare composizioni musicali e opere d’arte, di disporre della sorte stessa dei suoi compagni. Come ha notato J.P.Sartre, egli è “obbligato a procacciarsi quella che, con un misto di biasimo e di ammirazione, si potrebbe definire una incompetenza universale”. 6.2 – La concezione staliniana dell’economia e dello Stato Dopo la morte di Lenin, per un certo periodo in Urss si registra un ulteriore e significativo ampliamento della Nep e si assiste, anche in conseguenza di un miglioramento delle condizioni di vita di larghi strati di popolazione, alla pacificazione della situazione sociale. Nel ’27, però, la Nuova politica economica non è più in grado di assicurare l’incremento dei ritmi dello sviluppo industriale del Paese e di superare la sua cronica arretratezza, perciò si fa pressante l’esigenza di andare oltre quell’esperienza. Succede così che, dietro l’insistenza di Bucharin e dei sostenitori del superamento delle tesi gradualiste di apertura al mercato, la Nep viene abbandonata. Al suo posto viene adottata una politica di industrializzazione accelerata e forzata che presuppone l’individuazione di obiettivi prioritari nel contesto d una pianificazione centralizzata. Il sistema economico che viene adottato si configura come una gigantesca macchina tesa a privilegiare e potenziare il settore della produzione dei “mezzi di produzione”, cioè delle macchine. Da qualche tempo, infatti, una delle principali preoccupazioni del politbjuro è quella di aumentare la produzione delle fonti energetiche (il carbone) e dei mezzi di trasporto e anche il chilometraggio delle strade ferrate, e per fare questo diventa necessario disporre di impianti, di fabbriche e di attrezzature adeguate. Questa esigenza matura mentre si assiste a un cattivo raccolto e si registra una serie di errori nella politica dei prezzi la quale determina un pauroso calo della produzione agricola e una penuria dei rifornimenti alle città. La direzione del partito interpreta questa situazione di crisi come il risultato di una polarizzazione di classe nelle campagne guidata dai contadini ricchi, i kulaki. Sul come dare soluzione a tale problema il gruppo dirigente si divide fra chi, come Bucharin, propone il compromesso con questa categoria di possidenti e chi invece, come Stalin, si dichiara propenso a procedere alla loro liquidazione. Nell’inverno ‘27-28, allorché salta il sistema della stabilità dei prezzi e viene meno l’appoggio 174


creditizio, e allorquando si verifica lo sciopero delle forniture di grano, la frazione staliniana, presa dal panico, procede alla collettivizzazione forzata delle campagne. L’asse del suo progetto si fonda sulla garanzia dell’approvvigionamento alimentare al settore pubblico e sull’acquisizione di eccedenze agricole per gli investimenti. Per ottenere questi obiettivi, però, l’espropriazione delle terre ai kulaki non è sufficiente e diventa necessario prelevare le eccedenze di produzione anche ai piccoli e medi proprietari di fondi. Ne consegue una seconda rivoluzione, questa volta imposta dall’alto, la quale causa enormi disastri all’intero settore dell’agricoltura. Mentre la collettivizzazione sopprime gli stimoli alla produzione provocando una bassa redditività di tutto il sistema agricolo, molti contadini reagiscono alle misure prese dal governo attuando forme di resistenza attiva e passiva. Mentre fino ad allora il nuovo regime appariva favorevole ai piccoli agricoltori individuali, con la collettivizzazione le cose cambiano e l’alleanza operai-contadini, che costituisce il perno della rivoluzione stessa, salta. La saldatura tra città e campagna viene così definitivamente compromessa e il ricorso alle misure repressive da parte dell’apparato poliziesco si estende all’intero assetto dell’Urss. La collettivizzazione forzata dell’agricoltura è, infatti, il vero atto di nascita dello stalinismo. Nel periodo fra il ‘30 e il ‘32 questo provvedimento provoca una grande carestia che causa tra i 5 e i 10 milioni di vittime. Mentre alcuni storici considerano la collettivizzazione delle campagne una necessità vitale per un Paese accerchiato, male attrezzato e senza molte altre risorse all’infuori della produzione contadina, altri ritengono che il processo di industrializzazione avrebbe potuto essere realizzato senza far pagare prezzi tanto pesanti all’agricoltura. Certo è che lo sviluppo del settore industriale non poteva avvenire in presenza di un sistema agricolo stagnante, mentre la massiccia mobilità conseguente alla modernizzazione del Paese comportava inevitabilmente per la più parte del mondo contadino una perdita di status sociale, esodi forzati e repressioni. Com’era accaduto in Inghilterra tra il XVIII e il XIX secolo, allorquando l’imporsi del capitale ha drammaticamente spogliato le campagne gettando i contadini in uno stato di sudditanza e di miseria, anche il potere sovietico ha riversato gli incalcolabili costi sociali dell’industrializzazione principalmente sulle spalle della popolazione rurale. Pur avversando la tesi della superindustrializzazione sostenuta da Trotzkij, Stalin giustifica la necessità di accelerare l’industrializzazione con il fatto che le potenze capitalistiche stanno preparandosi a una guerra contro l’Urss. A suo giudizio ci si deve dunque dotare al più presto di quella base industriale che ancora manca, privilegiando il settore della produzione dei beni capitali rispetto a quella dei beni di consumo. La collettivizzazione delle campagne e l’industrializzazione forzata avvengono più o meno in contemporanea con l’avvio della pianificazione. Mentre la “rivoluzione agricola” procede celermente e si conclude nella seconda metà degli anni ’30, l’avvio dell’industrializzazione registra ritardi, soprattutto nella produzione di trattori. Stando agli studi di Viktor Danilov, i risultati della prima fase, che dalle fonti ufficiali sono sempre stati vantati come un grande successo, non hanno in realtà pagato economicamente. Bisogna comunque riconoscere che con questa operazione lo stalinismo ha impedito una possibile colonizzazione dell’Urss da parte di chi intendeva strozzare il bolscevismo sul nascere. Evidenziare ciò non significa dimenticare che un simile risultato è stato possibile al prezzo di enormi sprechi e dell’annientamento di milioni di persone. Mentre nelle campagne, sotto forma di socialismo dispotico, sono stati restaurati rapporti sociali prerivoluzionari, nei settori della produzione industriale le condizioni di lavoro non sono state diverse da quelle imposte dal capitalismo. Dal punto di vista politico questa scelta di Stalin ha significato l’eliminazione non solo dei kulaki, ma anche delle opposizioni e cioè la definitiva liquidazione della democrazia e l’inaugurazione di un regime dispotico e illiberale. Nell’autunno del ’17 Lenin aveva affermato: “Il proletariato, quando avrà vinto, agirà così: incaricherà economisti, ingegneri, agronomi e altri specialisti – sotto il controllo delle organizzazioni operaie – di elaborare un ‘piano’, di controllarlo, di ricercare i mezzi per 175


economizzare il lavoro con la centralizzazione”. In realtà, nel ‘19, le uniche misure di pianificazione che sono state attuate erano limitate ad alcuni rudimentali tentativi per organizzare le industrie nazionalizzate. E’ Stalin che dà inizio alla pianificazione vera e propria dell’economia, quella globale e centralizzata, e lo fa nel ’28 varando il primo piano quinquennale il quale fonda su basi volontaristiche e si propone obiettivi massimali sproporzionati allo stato dell’economia sovietica. Difatti, mancano sia il personale qualificato sia gli strumenti organizzativi adeguati per gestirlo. La pianificazione si rivela pertanto una camicia di forza che compromette la produttività del lavoro e ritarda l’innovazione tecnologica. Le procedure e le priorità inaugurate dal primo piano quinquennale consistono nell’adozione di obiettivi che non corrispondono alle esigenze di uno sviluppo economico equilibrato: la gestione amministrativa delle risorse è a breve termine, mentre la definizione delle priorità, in una congiuntura di penurie endemiche, sconvolge le diverse branche dell’economia. La crescita estensiva si accompagna poi a una forte inflazione e il grandissimo sforzo di investimento viene realizzato a spese del miglioramento del livello di vita della popolazione, venendo accordata la priorità alla produzione di attrezzature, di materie prime, di fonti di energia piuttosto che alla produzione dei beni di consumo. A questi errori e incongruenze si aggiunge il fatto che il carattere dell’economia russa, in larga parte ancora semifeudale, si rivela immaturo per una simile esperienza: ampie zone dello stesso ceto produttivo fanno resistenza alle misure di pianificazione. L’impostazione data al piano, quindi, anziché favorire una accelerazione dello sviluppo, provoca privazioni e miseria. A dire di Stalin, in Urss sarebbero già stati realizzati nove decimi di socialismo, eppure – come testimonia Trotzkij - nell’undicesimo anno della rivoluzione dilagano ancora la povertà e la disoccupazione, le code davanti alle botteghe sono la norma, persistono l’analfabetismo, il vagabondaggio dei fanciulli, l’ubriachezza e la prostituzione. Se i primi anni dopo la rivoluzione d’ottobre sono stati terribili e hanno comportato sovrumane difficoltà oggettive, i tempi successivi alla collettivizzazione delle campagne e all’industrializzazione accelerata non sono di certo meno drammatici. Questo stato di cose non manca perciò di suscitare interrogativi e perplessità nello stesso partito. Non tutto il gruppo dirigente bolscevico concorda con i tempi e le scelte imposti da Stalin e c’è chi, come Zinov’ev, si batte apertamente per l’adozione di singoli piani dichiarandosi contrario alla pianificazione generale. Le divergenze fra questi dissidenti e Stalin danno avvio a una lotta contro la “destra” del partito (Bucharin, Rykov e Tomskij) fautrice di uno sviluppo più armonico dell’economia e della società. Una lotta questa che si concluderà più tardi negli anni con la condanna del gruppo dissidente: Tomskij si suiciderà, mentre Bucharin e Rykov verranno fucilati. Ma l’avvio della pianificazione fa registrare un’altra “grande rottura”, quella tra la scienza e il potere politico la quale sancisce l’estensione a tutto campo del dogmatismo staliniano. In un quadro negativo in cui gli obiettivi dei primi piani quinquennali non vengono mai raggiunti, l’unico aspetto positivo è costituito dall’aumento impressionante del numero di operai (17 milioni circa in più) in conseguenza dell’attuazione del secondo piano con il quale viene imposta a ritmi forsennati l’industrializzazione. Un tale massiccio assorbimento di forza lavoro, di gran lunga superiore alle stesse previsioni, provoca uno sbilanciamento nel pagamento dei salari e il crescere di disuguaglianze di trattamento al punto di invertire le tendenze egualitarie adottate all’indomani della rivoluzione. Mentre alla fine degli anni ’20 lo scarto tra le tariffe salariali più basse e quelle più alte non andava oltre il rapporto di 1 a 3, con il nuovo corso nel sistema salariale viene introdotto il principio del rendimento e ciò mette appunto in discussione l’egualitarismo e crea un’aristocrazia operaia. Questa svolta, anche in forza del fatto che il sistema produttivo risulta essere ben lontano dal consentire un modo di lavorare secondo ritmi cadenzati, costanti e metodici come dovrebbe implicare una politica di pianificazione, provoca fra i lavoratori una resistenza passiva che si traduce a poco a poco in forme di assenteismo e causa una bassa produttività del sistema che col 176


tempo diverrà cronica. Si tratta di un male che non può essere curato né con il ricorso al licenziamento di chi si rende colpevole di simili pratiche antisociali (nel ’30 questo provvedimento colpisce il 30% della popolazione occupata), né con l’impiego dei famosi “lavoratori d’assalto” (gli udarniki). Esso dà anzi luogo a nuovi e inediti conflitti sociali. Mentre, di fatto, si cancella la legislazione vigente del lavoro e si mortifica il ruolo del sindacato, viene lanciata l’emulazione socialista e l’orario di lavoro quotidiano aumenta fino a raggiungere in alcuni casi le 12 ore. Anche il riposo festivo viene ridotto e in alcuni casi persino annullato. Significativo è il fatto che a seguito dell’applicazione di queste controverse misure, e in conseguenza delle politiche sbagliate compiute dal regime in campo economico, tra il ‘33 e il ’34 la popolazione dell’Urss diminuisce di circa 6 milioni di unità. Con il peggiorare della condizione lavorativa degrada conseguentemente anche la condizione sociale: il 40% degli inquilini risiede in una sola stanza, il 15% in una cucina o in un corridoio, il 25% vive in dormitori. E mentre una buona quantità di cittadini sovietici subiscono la fame e la denutrizione, l’Accademia delle scienze mediche, verso la fine degli anni ’30, su ordine di Stalin pubblica il “Libro del cibo gustoso e salutare” nel quale viene riportata una raccolta di ricette raccomandate alle famiglie, intendendo così significare che la rivoluzione sta avvenendo anche in cucina. In effetti, Stalin rivaluta l’istituto della famiglia ripristinando il ruolo delle donne come madri e mogli e assegnando loro il ruolo di sempre, cioè di responsabili dei lavori domestici. Nella storia del socialismo reale, infatti, le donne non hanno ruoli significativamente differenti da quelli che destina loro la società capitalistica, anzi, il sogno del sovvertimento della tradizione maschilista si dissolse subito dopo l’ottobre come un castello di sabbia. Non solo in Urss non nasce un movimento femminista, ma non vengono in pratica mai sperimentati nuovi rapporti sociali tra i sessi alternativi a quelli capitalistici. Ricordare tutto questo non vuol significare ovviamente sottovalutare il ruolo che l’ampiezza del processo di industrializzazione ha comunque avuto nel trasformare l’Urss nell’unico Paese al riparo dalla stagnazione e dal declino che, negli anni della grande crisi, hanno investito quasi tutto l’universo capitalista. Non si può e non di deve dimenticare, ad esempio, che nel decennio ‘25-‘35 l’industria pesante sovietica ha più che decuplicato la produzione e che rispetto al primo piano quinquennale gli investimenti di capitale hanno subito un considerevole aumento: dai 5,4 miliardi di rubli del ‘29 si è passati ai 32 miliardi del ‘36. E questo mentre la produzione industriale della Germania è in piena difficoltà e recupera i livelli produttivi del ‘29 solo in virtù della febbre di riarmo; e mentre, nello stesso periodo, la produzione degli Usa cala di circa il 25%, quella della Francia più del 30%; solamente quella inglese è in crescita del 3-4% grazie alle misure protezionistiche. Durante gli anni ’30, in sostanza, il tasso di crescita dell’economia sovietica sorpassa quello di tutti gli altri Paesi, eccetto quello del Giappone. Non a caso, durante la crisi del ’29, il modello sovietico viene accreditato anche in Occidente come ottimale per far uscire i Paesi non sviluppati dalla loro condizione di arretratezza. I Paesi colonizzati, infatti, subiscono una vera e propria attrazione da parte del modello socialista sovietico non solo perché dall’Urss viene sostenuta la causa dell’antimperialismo, ma anche perché in questo nuovo modello si intravede la possibilità di superare l’arretratezza economica grazie appunto alla pianificazione. Ed è proprio la forzatura voluta a tutti i costi da Stalin che trasforma l’Urss in una grande economia industriale in grado poi di sconfiggere il nazismo. Se è pur vero, però, che l’adozione dei piani quinquennali col tempo garantisce al Paese dei soviet la fuoriuscita dall’originaria condizione di sottosviluppo, la pianificazione contribuisce anche a rendere autonomo e potente l’apparato burocratico. A differenza di Lenin, Stalin si avvale da subito della vecchia macchina burocratica dello Stato zarista per affermare e consolidare il nuovo potere. A favorire questo suo disegno, concorrono oltretutto le sconfitte continue della rivoluzione in Europa e in Asia le quali, se per un verso indeboliscono la posizione internazionale dell’Urss, per altro premiano la volontà di resistenza del 177


regime e giustificano i metodi che esso adotta. Come tutte le burocrazie, anche quella sovietica risulta separata dal resto della società. E’ da ricordare che la grande maggioranza dei burocrati del periodo staliniano durante la rivoluzione d’ottobre non si era affatto schierata dalla parte dei bolscevichi. Quei pochi che hanno preso parte all’insurrezione avranno poi un ruolo di secondaria importanza nella costruzione del nuovo Stato. Nel corso degli anni ’30, l’apparato burocratico cresce a un tasso elevatissimo, tanto è che prima della seconda guerra mondiale in Urss vi è un amministratore pubblico ogni due operai. A contribuire alla centralizzazione del potere e alla sua burocratizzazione, concorre sicuramente la carenza di quadri, di manager e di personale specializzato. L’espansione abnorme del Gosplan, il Comitato statale per la pianificazione, è di certo il più eloquente esempio del processo di sclerotizzazione burocratica che investe il Paese in quegli anni. E’ proprio questa nuova “borghesia di Stato” che, attraverso una rivoluzione dall’alto, magnifica e diffonde in ogni ambito della società l’ideologia staliniana e trasforma il Paese dei soviet in un moloch. Mentre Lenin considera i soviet delle organizzazioni integranti della struttura statale, anzi sostitutive dello Stato stesso, Stalin li interpreta come semplici organizzazioni delle masse lavoratrici che alle fine finiscono per interferire nella gestione del potere statale. Infatti, alle espressioni di democrazia diretta, a quelle masse popolari che pur definisce “pietra angolare del marxismo”, egli privilegia i quadri dirigenti, l’apparato statale. Ai suoi occhi è lo Stato gestore dei mezzi di produzione il fattore fondamentale della società socialista. Ogni organizzazione pubblica – dai soviet ai sindacati, dall’esercito alla scuola, dalla stampa alle associazioni – per lui rappresentano un apparto dello Stato, una “cinghia di trasmissione” della volontà del vertice. Egli attribuisce alla democrazia una funzione a senso unico: le decisioni marciano dall’alto in basso e non viceversa. In questo modo di intendere la democrazia, egli deforma gravemente il pensiero marxiano e definisce “socialismo edificato” la statalizzazione di tutti i principali settori della vita sociale. Nelle fabbriche la direzione è affidata a un funzionario designato dall’apparato statale (il glavkj), unico responsabile di fronte alle autorità superiori. Lo stesso avviene per i presidenti dei colcos i quali vengono fatti dipendere dalle stazioni di macchine e trattori che eseguono in maniera scrupolosa le direttive della burocrazia statale. Per Stalin, insomma, il socialismo è la proprietà e la gestione statale dei mezzi di produzione, è la distribuzione statale del plusprodotto, è lo statalismo totalitario. Pertanto, il socialismo non si configura come un periodo di transizione nel corso del quale si procede alla socializzazione del nuovo modo di produrre, ma viene considerato come processo già compiuto. Egli presuppone che lo sfruttamento esiste solo quando si è in presenza della classe dei capitalisti, mentre esclude che possano esistere altre forme di sottomissione. Mentre nella concezione leniniana il capitalismo di Stato è un monopolio statale parziale e relativo, nello stalinismo esso è totale e assoluto. Lo Stato diventa depositario di un criterio di giudizio e di discriminazione insindacabile e la regolazione sociale non viene affidata al diritto giurisprudenziale, ma al soggettivismo socialista di chi ha il compito di giudicare. Parlare di estinzione dello Stato, di un indebolimento del suo potere, significa per il leader georgiano fare un discorso controrivoluzionario. Lo stesso vale per l’estinzione della lotta di classe. “L’abolizione delle classi – sentenzia – non si ottiene attraverso l’estinzione della lotta di classe, ma attraverso il suo rafforzamento. L’estinzione dello Stato si farà attraverso il suo rafforzamento massimo, indispensabile per annientare i residui delle classi che si stanno estinguendo”. E a giustificazione di tutti i suoi appelli alla vigilanza e all’ordine ci sta il convincimento che “la lotta di classe si esaspera quando ci si avvicina al socialismo”. Il concetto di socialismo in Stalin si riduce dunque a soli alcuni fattori quali: l’industrializzazione, la potenza militare, la culturizzazione, l’affrancamento dall’arretratezza delle campagne. La soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la liquidazione del capitalismo, indipendentemente dalle forme sociali che la nuova costituzione assume, vengono intesi come la 178


realizzazione del socialismo. Sotto la spinta delle contraddizioni che irrimediabilmente si registrano nella costruzione della nuova società, Stalin è obbligato a rivedere e modificare le sue posizioni secondo cui, per esempio, la pianificazione statale avrebbe dovuto abolire l’azione della legge del valore, oppure che si sarebbe verificata necessariamente la piena corrispondenza tra forze produttive e rapporti di produzione. Ma anche queste smentite non servono a correggere il suo dogmatismo. Nel periodo del suo dominio alcuni economisti, per sua volontà, sottopongono a revisione la critica marxiana della divisione del lavoro. Nel “Manuale di economia politica”, del ‘54, si può leggere: “Il comunismo, pur eliminando la vecchia divisione del lavoro, non nega affatto la necessità di essa”. A. Kurylev ritiene che essa possa coesistere con uno sviluppo completo della personalità, mentre A.Andreiev e I.Timoschkov teorizzano addirittura la “eterna necessità della divisione del lavoro”. Stalin ha in sostanza indotto in una enorme massa di sovietici, ma poi anche nei comunisti dell’Europa dell’Est, l’idea che la divisione sociale del lavoro sia una necessità storica e sia pertanto da considerarsi normale e inevitabile la presenza statica, nella società socialista, di operai, contadini, intellettuali, cioè delle classi subalterne. E questo non può essere considerato altrimenti che un vero e proprio delitto intellettuale. Non va infine trascurato il fatto che nel periodo tra le due guerre mondiali, in Europa vengono fatti passi avanti in talune riforme sociali concernenti problemi cruciali per una società moderna, come i diritti della donne, l’assistenza sociale, il divorzio e l’aborto. Ebbene, in tutti questi campi la gestione stalinista del potere, anziché competere in nome dell’emancipazione umana, segna il più grossolano oscurantismo. Con la gestione staliniana, dunque, il comunismo sovietico sconta non solo l’arretratezza di un Paese ancora abbondantemente segnato dalle forme residue di economia asiatica, ma paga il prezzo ancora più gravoso dell’incapacità, e non volontà, di elaborare e sperimentare una teoria della transizione, in specifico, una teoria generale dell’economia socialista. Con Stalin le grandi questioni teoriche che hanno animato il dibattito dei dirigenti bolscevichi negli anni ’20, vengono in gran parte accantonate; con esse la famosa questione del calcolo economico in un regime socialista la quale appariva decisiva ai fini della costruzione di un nuovo sistema. 6.3 – Il regime dittatoriale Come abbiamo visto, quando Stalin conquista il potere si trova a dover fare i conti con molteplici difficoltà nella costruzione del nuovo Stato e per evitare i rischi di un collasso, stringe la corda e dà corso a quel processo che trasformerà l’Urss in un regime dittatoriale. Egli ricorre al centralismo autocratico, metodo tipico della tradizione zarista, e trasforma il nuovo sistema in una sorta di monarchia non ereditaria. Per compiere una simile operazione mobilita tutti i sostenitori del suo progetto, estende un controllo autoritario sulle masse ed emargina i suoi oppositori anche eliminandoli fisicamente. Punto di forza del suo disegno è la conquista degli apparati del partito e la loro osmosi con la burocrazia statale e con il ceto che dirige le attività economiche. Egli fa del partito il soggetto supremo che tutto controlla e tutto decide. Se è pur vero che sul piano teorico, in “Quaderni del leninismo”, egli polemizza con Zinov’ev accusandolo di identificare la dittatura del proletariato con la dittatura del partito e di avere quindi una posizione errata, nella pratica fa sua la tesi secondo cui a compiere le scelte politiche deve essere il partito, mentre il ruolo delle masse è semplicemente quello di applicarle. I soviet vengono da lui assunti non come organi di elaborazione, e quindi soggetti di decisione, bensì come “cinghie di trasmissione” delle decisioni del partito; e pure il sindacato viene spogliato di qualsiasi autonomia e nella sua vita interna viene soppresso ogni residuo di democrazia. Mentre rifiuta di considerare il movimento reale come la componente essenziale della elaborazione teorica e politica, concepisce il pluralismo come una caratteristica esclusiva della società divisa in 179


classi. E poiché nella società post-rivoluzionaria esisterebbe – a suo dire – una sola classe, sia altri partiti sia la presenza di tendenze o di correnti nel partito comunista vengono ritenuti inconcepibili. Ironicamente puntualizza: “Sotto la dittatura del proletariato possono esistere due, tre, anche quattro partiti ma a condizione che uno sia al potere e tutti gli altri in prigione”. Quando Martov, al 2° congresso del partito, sostiene che coloro i quali accettano il programma del partito senza entrare nelle sue organizzazioni possono e debbono essere considerati degli iscritti a tutti gli effetti, egli ribatte con indignazione che ciò equivarrebbe a “una profanazione del sancta sanctorum del partito” e che, al contrario, l’organizzazione politica deve essere costruita nel modo in cui si edifica una “fortezza” le cui porte devono aprirsi solo a coloro che “ne sono degni” e che “sono provati”. Fin dall’inizio egli è per una concezione chiusa e monolitica del partito al punto di farlo diventare monocefalo. Si consideri che fra il 1947 e il giorno della sua morte in Urss non si registra una sessione plenaria del Comitato centrale del Pcus e che lo stesso Ufficio politico perde influenza diretta sulle scelte che lui compie. A pensare per tutti è il capo, mentre la formazione di maggioranze e minoranze non viene tollerata. Nella sua concezione, il partito ha sempre e comunque ragione e le decisioni che esso prende sono finalizzate a salvare la rivoluzione. Le radici delle deformazioni burocratiche e poliziesche dello stalinismo sono da ricercarsi proprio in questa sua concezione del partito, nel suo carattere autoritario, nella crescente mole di compiti esecutivi e organizzativi che ad esso vengono attribuiti e anche nell’eccesso di centralizzazione e nella sua immedesimazione con lo Stato. Stalin inserisce uomini di sua fiducia nel comitato centrale, nell’ufficio politico e in tutte le principali organizzazioni del partito. Un tale processo ha inizio con la destituzione dei dirigenti responsabili che non danno affidamento di fedeltà e con il soffocamento del dibattito democratico sui problemi vitali del Paese. Restringendo sempre più la democrazia interna, egli ha modo di manipolare le coscienze dei militanti e attraverso il controllo delle conferenze e dei congressi fa eleggere i delegati che si dimostrano rispettosi del suo volere. Al centralismo democratico teorizzato e sperimentato in maniera rigorosa da Lenin, nei rapporti tra i militanti subentrano l’intolleranza, la diffidenza e la violenza. Si afferma il metodo di risolvere i contrasti politici interni con le espulsioni. Il dibattito interno cessa di essere reso pubblico, mentre l’intervento delle masse viene considerato un impedimento alla realizzazione della “giusta linea politica” di cui, appunto, il partito e i suoi dirigenti risultano essere gli artefici insostituibili. All’interno dell’organizzazione insorgono conseguentemente lotte di cricche il cui scopo è esclusivamente quello di conquistare la grazia del vertice, poiché le simpatie della base possono diventare controproducenti. Un tale perverso e degradante processo si realizza con l’assenso e la complicità della stragrande maggioranza del gruppo dirigente, Zinov’ev, Kamenev e Bucharin compresi. A favorirlo sono certamente i radicali e profondi mutamenti che la composizione del partito stesso subisce nel corso del primo decennio post-rivoluzionario. Mentre nel ’17 gli iscritti al partito ammontano ad appena 24.000 unità, dopo l’ottobre essi diventano 250.000 e dieci anni dopo, nel ’27, raggiungono il milione. Nel ’28, compresi i candidati, si arriva ai 3 milioni. All’inizio degli anni ’30, accanto ai militanti del Pcus, si contano anche 3 milioni di iscritti all’organizzazione giovanile, il Komsomol. Come ben si può comprendere, negli anni successivi alla rivoluzione d’ottobre il partito viene letteralmente invaso da una massa politicamente analfabeta che di fatto subissa quella élite politicamente e culturalmente preparata che ha guidato la rivoluzione e che ora si presenta indebolita soprattutto a causa della guerra civile e dalle difficoltà del cambiamento sociale stesso. Succede cioè che la massa di centinaia di migliaia e poi di milioni di nuovi aderenti al partito, nella qualità di amministratori, dirigenti, personale di controllo, ecc., sopraffa i vecchi bolscevichi, quel ceto politico che lo stesso Stalin considera un ostacolo alla realizzazione del suo disegno e che, essendo la vera anima del comunismo, teme possa riprendere forza e mettere in discussione il sistema di potere che lui ha instaurato. 180


Con l’affermarsi del modello staliniano di partito non solo viene meno il principio del centralismo democratico nella regolazione della sua vita interna, ma diventa una chimera l’autogoverno delle masse. Il partito viene in sostanza sottomesso in modo assoluto alla volontà del dittatore e nella sua vita interna prevale la logica militare, anzi, alla fine degli anni ’30 viene addirittura subordinato alle forze di polizia. In tali condizioni viene teorizzata l’infallibilità della sua politica e quella del suo capo e ciò che corrisponde al vero è solo quello che si ritiene serva alla rivoluzione: la verità si incarna nel partitoStato. Mentre Lenin insisteva sulla necessità dell’autocritica, ammettendo in linea di principio la possibilità dell’errore, Stalin avversa questa pratica sia per il passato che per il presente e il futuro. A costituire la ragion di Stato è nei fatti il marxismo-leninismo e ogni decisione presa in funzione di essa deve essere vissuta come obbligante. Poiché la società sovietica è attraversata da grandi sconvolgimenti, la figura del capo viene ad assumere quasi naturalmente il ruolo di supremo mediatore fra le parti, di guida inappellabile e fonte vivente del diritto. A lui viene attribuita la qualità di capo onnisciente. Mentre Lenin ammetteva serenamente di essere incompetente in molti ambiti del sapere, il dittatore georgiano, dopo aver decretato sulle questioni politiche, interviene anche su quelle letterarie e filosofiche e induce il comitato centrale del Pcus a pronunciarsi sui problemi della musica e della biologia. Tra i diversi divieti da lui sanciti vi è quello relativo alla stessa applicazione del metodo di analisi marxista alla realtà economico-sociale e politica dell’Urss. A partire dalla metà degli anni ’30, infatti, ogni analisi delle contraddizioni tra le diverse forze sociali viene soppressa. Egli decreta addirittura delle censure a riguardo della storia delle idee del periodo precedente alla nascita dei partiti comunisti. A partire dai primi anni ’30 l’autonomia della ricerca scientifica viene estremamente limitata e progressivamente abolita. Viene sancito il sostanziale rifiuto delle rivoluzioni fisiche contemporanee, anzitutto quella eisteiniana della relatività, giudicata “insufficientemente materialista”. La genetica mendeliana, la cibernetica e la sociologia moderna vengono considerate prodotti della decadenza borghese, della degenerazione capitalistica. La ricerca matematica viene limitata e subordinata ai soli problemi tecnologici che l’Urss è costretta ad affrontare, quali la collocazione dei centri produttivi, il trasporto delle merci, la razionalizzazione delle catene di montaggio. Alla fine degli anni ‘40 gli scienziati dell’Urss vengono obbligati dal regime a far proprie le teorie e le concezioni pseudoscientifiche del biologo Lysenko, il quale sostiene che la produzione agricola può essere moltiplicata qualora vengano adottati i procedimenti suggeriti dal biologo evoluzionista francese Lamark. Chi si oppone a tale disposizione viene internato nei gulag. Così come avviene nella Germania nazista, le sperimentazioni e le innovazioni artistiche, come l’arte astratta, vengono osteggiate e messe al bando quali degenerazioni socialmente pericolose. Viene scomunicato il jazz e condannata qualsiasi espressione nuova di letteratura e di teatro. La letteratura, l’arte, tutta la cultura, dalla filosofia alla storiografia, vengono totalmente assoggettate alla politica del partito. Nel ‘34, il congresso degli scrittori vara ufficialmente al dottrina del “realismo socialista” che Andrej Zdanov, divenuto braccio destro di Stalin, successivamente eleverà a canone ufficiale per l’intera produzione artistica e culturale. Questa teoria considera la cultura borghese in stato avanzato di marasma e decomposizione ed estende a tutte le sfere del sapere il dogma marxista-leninista. E’ così che la cultura viene militarizzata, perde gli elementi essenziali della soggettività e della criticità e ogni opera artistica e letteraria viene sottoposta a censura. Scatta di conseguenza un mercato nero delle opere letterarie proibite il cui sviluppo viene alimentato anche dalla Cia americana, la quale favorisce l’afflusso di pubblicazioni attraverso i marinai delle navi sovietiche che approdano nei porti occidentali. Negli anni ’30, l’organizzazione e il contenuto dello stesso sistema educativo sovietico acquista un deciso carattere elitario e di esclusivismo intellettuale.

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Anziché esplorare nuove vie nella costruzione del socialismo, Stalin trova più conveniente piegare l’arretratezza della società russa al servizio del partito. L’”uomo nuovo comunista” deve essere ateo e disprezzare la religione sia perché essa è d’intralcio alla costruzione del socialismo sia perché è considerata una debolezza sociale da sradicare. Anziché aprire il fronte di guerra al bisogno di religiosità, che nell’Urss è diffusissimo date le tradizioni della società contadina, egli cerca di “ammazzare il cristianesimo” distruggendo gli edifici delle chiese e richiudendo nelle carceri suore e preti. Alla religione dei pope sostituisce “la religione del socialismo, nel senso che (il nuovo sistema) è destinato a sostituire nelle coscienze il Dio trascendentale dei cattolici con la fiducia nell’uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale”. Il socialismo diventa così una fede che ha i suoi ministri e i suoi praticanti. E con questo spirito egli fa erigere il mausoleo di Lenin e incoraggia il popolo a compiere pellegrinaggi al suo corpo imbalsamato e a organizzare processioni con icone di dirigenti di partito, morti o vivi che siano. Si compie in questo modo la santificazione dello Stato e prende corpo conseguentemente il culto della personalità. Eppure, nei suoi ricordi, Molotov scrive che i generali dell’Armata rossa gli hanno raccontato che Stalin prima di una battaglia era solito dire a mo’ di augurio: “Che dio lo voglia!” oppure “Che dio ci aiuti”. In un clima siffatto, le masse popolari vengono a poco a poco escluse dalla partecipazione effettiva del potere. Nel senso comune dei sovietici viene introdotta la nozione secondo cui socialismo significa egualitarismo e passività. A un generale senso di delusione segue quindi il diffondersi di un atteggiamento di stanchezza e di indifferenza che favorisce il consolidamento nei posti di comando di chi obbedisce senza chiedersi se ciò che fa sia bene o male per la comunità. A creare questo stato di cose concorre soprattutto il fatto che l’Urss è circondata da nemici agguerriti e spietati e un simile accerchiamento favorisce l’esasperazione dell’appello a rinserrare le file, a prepararsi a fare sacrifici e ad affidarsi all’incrollabile determinazione del capo. Uno dei paradossi dello stalinismo è senz’altro costituito dal fatto che a metà degli anni ’30 viene varata la nuova costituzione la quale, in teoria, elimina i privilegi politici del proletariato, ridà lustro alla funzione degli intellettuali, legalizza le piccole proprietà contadine, abolisce il vecchio sistema elettorale con le sue molteplici fasi e lo scrutinio palese, facendo così compiere un passo avanti alla rappresentatività del sistema della delega. Si tratta però di provvedimenti che sono resi impraticabili da un articolo stesso della costituzione, il numero 26, il quale appunto vieta qualsiasi presenza di un’opposizione legale al potere del regime. Nonostante la stridente contraddizione tra quanto proclamato da questa carta dei diritti e la pratica sociale ormai consolidata, la nuova norma costituzionale del ’36 suscita grande emozione ed entusiasmo sia dentro che fuori dei confini dell’Urss. Essa viene esaltata non solo dai comunisti di ogni continente che la considerano la più democratica del mondo e il segno tangibile della bontà del socialismo, ma anche dalla stessa cultura progressista internazionale la quale non tralascia, in quella occasione, di fare l’apologia dello stalinismo. E’ questo un episodio che gli avversari del comunismo non ricordano volentieri. 6.4 – Il “socialismo” del terrore Alcuni storici hanno insisto parecchio nell’attribuire a Lenin l’origine del terrore in Urss. Si tratta di giudizi che di certo non possono dirsi frutto dell’obiettività storica poiché a caratterizzarli è soprattutto la volontà di mettere in cattiva luce l’operato dei bolscevichi. Un famoso e apprezzato politologo nostrano che ama essere considerato progressista, recentemente ha addirittura attribuito la nascita del gulag ai bolscevichi, sottacendo il fatto che, in Russia, l’istituzione di tali strutture di segregazione è da far risalire ai tempi degli zar e che, soprattutto nell’epoca immediatamente precedente la rivoluzione d’ottobre, hanno rappresentato il luogo di confine e di morte di tutti coloro che si sono ribellati al loro dominio, in particolare proprio dei bolscevichi. Precisato questo, è da riconoscere obiettivamente che prima di Stalin, a ricorrere al metodo della 182


reclusione e della destinazione ai lavori forzati di chi si opponeva al bolscevismo, è stato effettivamente Lenin. Il ricercatore russo Oleg Chlevnjuk, nel suo libro “Storia del Gulag”, documenta come già nel ‘19 è stata creata all’interno del Commissariato del popolo una sezione per i lavori forzati riguardante non meno di 200 mila detenuti. E in base agli studi condotti da G.M. Ivanova, è stato accertato che “il numero dei lager crebbe rapidamente: verso la fine del 1919 in tutto il territorio della Repubblica Federativa Socialista Sovietica Russa ce n’erano 21, nell’estate del 1920 ce n’erano 49, in novembre dello stesso anno 84, nel gennaio 1921 107, nel novembre dello stesso ’21 ne esistevano 122”. E’ all’inizio degli anni ’20 che viene costruito il gulag di Belomorkanal. Praticamente, via via che le resistenze dei controrivoluzionari aumentano, i bolscevichi riservano loro la sorte che prima spettava agli antizaristi e mettono così in moto la spirale del terrore. Se Stalin definisce “nemici del popolo” tutti coloro che si oppongono al regime, Lenin chiama “insetti nocivi” gli avversari del socialismo. E’ del resto proprio nel ’22, come dimostra Roy Medvedev, che si celebra il processo contro il partito dei Socialisti rivoluzionari e del quale vengono falsificati gli atti e mantenuta una certa segretezza sulle procedure, sperimentando così quei metodi che caratterizzeranno poi i “processi farsa” di Stalin della metà degli anni ’30. A giudizio dello storico russo Dimitrij Volkogonov, la spietatezza non è affatto una caratteristica esclusiva di Stalin, ma riguarda l’intero gruppo dirigente che ha fatto la rivoluzione, Lenin compreso. Egli conclude le sue ricerche sostenendo che “è l’etica di classe che giustifica le violenze e le trasforma in virtù”. Coloro che sostengono la tesi secondo cui Stalin, nell’esercizio del comando, è da considerarsi un fedele allievo di Lenin, seppur spinti dal piglio anticomunista, di certo non raccontano una falsità. Importante per chi vuole essere obiettivo, è fare distinzione fra i comportamenti dei due leader bolscevichi. Difatti, mentre il principale protagonista della rivoluzione d’ottobre ricorre alla violenza nei confronti dei controrivoluzionari esclusivamente in situazioni eccezionali, cioè di estrema conflittualità e in assenza di soluzioni alternative, il dittatore georgiano la applica in maniera sistematica sia all’interno che all’esterno del partito. Molti studiosi si sono interrogati a lungo su cosa avrebbe potuto succedere nell’eventualità che Lenin fosse vissuto più a lungo. “Avrebbe proceduto pure lui nell’intensificazione della politica del terrore? A dominare sarebbe stata la burocrazia oppure avrebbero avuto il sopravvento i soviet?”, si sono chiesti. Si tratta di interrogativi che purtroppo sono destinati a rimanere senza risposta. E’ il caso semmai di ricordare quanto la sua compagna Nadezda K. Krupskaia, nel ’26, ebbe a rispondere a chi le ha posto simili quesiti: “Se Lenin fosse vivo, (ora) sarebbe di sicuro in prigione”. Sta di fatto che l’espansione dei metodi repressivi avviene in concomitanza del processo di industrializzazione e di collettivizzazione delle campagne, cioè nel momento in cui nella società sovietica esplodono contraddizioni difficilmente gestibili e tensioni acutissime. E’ proprio a seguito della liquidazione della Nep e all’insorgenza delle difficoltà di governo dei nuovi processi economici che nella personalità di Stalin affiora l’ossessione del complotto controrivoluzionario e prende corpo la decisione di ricorrere a mezzi coercitivi per scongiurare la destabilizzazione del potere sovietico. E’ a questo punto che la lotta politica cessa di essere espressione di un leale confronto di idee e di esperienze, per trasformarsi in una lotta aperta senza esclusioni di colpi. Vecchi compagni si fronteggiano come nemici irriducibili accecati dal fanatismo e dal disprezzo per ogni forma di tolleranza e benevolenza. Si tratta di una svolta che investe non solo il partito ma l’intera società. Tutti coloro che esprimono critiche e riserve sulle scelte del capo del partito vengono accusati di fomentare la sfiducia nelle capacità della classe operaia e nella rivoluzione stessa, e vengono appunto considerati “nemici del popolo”. Verso la fine degli anni ’20, le vecchie opposizioni di sinistra e di destra vengono fatte scomparire: trotzkisti e opportunisti vengono eliminati in un sol blocco; lo stesso Bucharin viene escluso

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dall’ufficio politico; vengono fatte cadere anche le teste dei quadri del partito e dello Stato che sono stati forgiati attraverso la stessa selezione staliniana. E tutto questo avviene senza processi pubblici. Viene ripristinato l’uso di quegli strumenti di coercizione di massa e di quei metodi repressivi che sono stati applicati durante la guerra civile e che da tutti vengono considerati ormai appartenenti al passato. E’ in questo periodo e in questo clima che nasce il termine gulag, quale acronimo di direzione centrale dei lager (strutture che, come abbiamo visto, esistevano già) per indicare il sistema dei campi di concentramento e di lavori forzati ai quali vengono destinati i dissidenti. Nel dicembre del ’34, in seguito all’assassinio di Sergeij M. Kirov, suo stretto collaboratore, Stalin scatena una repressione violentissima nel confronti dei principali membri del partito. Ad essere sospettati e accusati del delitto sono i trotzkisti, ma trenta anni più tardi Chruscev lascia intendere che a far fuori Kirov siano stati gli uomini della Nkvd su ordine dello stesso capo del Cremlino il quale in questo modo ha potuto giustificare l’annientamento degli oppositori. Attraverso la celebrazione dei famosi “processi di Mosca” ha così inizio il “grande terrore” che durerà per tutto il resto degli anni ’30. La politica repressiva di Stalin colpisce il cuore del partito e dello Stato. Tra le varie misure poliziesche vengono reintrodotti i passaporti interni istituiti ai tempi dell’autocrazia zarista e che erano stati soppressi dalla rivoluzione. Mentre la sindrome del tradimento è alimentata dalla convinzione che l’Urss è una “fortezza assediata” e che gli agenti del nemico sono presenti, come infiltrati, nei gangli stessi della società, le “purghe” vengono legittimate e spiegate con la tesi secondo cui si sarebbe ormai prossimi allo scoppio di una guerra contro la patria del socialismo per mano dei nazisti. Di fronte a una tale evenienza, Stalin elimina ogni possibile oppositore che potrebbe avvalersi di un’eventuale sconfitta militare per contestargli il potere. A giustificazione dei processi, viene proclamata la teoria secondo cui con l’avanzata dell’edificazione socialista va inevitabilmente acutizzandosi via via la lotta di classe. Il terrore favorisce la diffusione della mentalità secondo cui ogni difficoltà economica, ogni traguardo non raggiunto dal piano del partito, sono da attribuirsi all’azione di sabotaggio. E in questo spirito Stalin fa appello alle masse dei semplici e degli onesti contro i dirigenti corrotti e deviati, ottenendo così un largo consenso. Il primo Paese del socialismo si trasforma in un grande campo di concentramento e il clima che vi regna è quello della paura e della delazione. Si diffonde una cultura della menzogna e una vera e propria educazione alla falsità. Oltre all’istituzione del passaporto interno, vengono prese misure drastiche come la registrazione obbligatoria presso la polizia locale; pene severissime vengono introdotte per i reati contro il patrimonio socialista, mentre milioni di persone vengono deportate. Lo stesso Pcus viene subordinato alle forze di polizia e, come ai tempi dell’inquisizione, la delazione diventa elemento sufficiente a far condannare un uomo. Nel corso dei processi farsa contro i “nemici del popolo” gli imputati confessano crimini che in realtà non hanno mai commesso. Ad essere portati davanti ai tribunali sono per lo più compagni di Lenin e protagonisti della rivoluzione. Le requisitorie del procuratore capo Viscinskij contro Kamenev, Zinoviev, Trotskij e molti altri appaiono del tutte prive di ogni attendibilità giuridica, sono assenti dati di fatto e soprattutto le prove delle imputazioni. Unici elementi di accusa sono le confessioni degli stessi imputati, accuse che in sostanza sono semplici illazioni. Come tali assurde confessioni pubbliche, da parte di uomini apparentemente nel pieno possesso delle loro facoltà e senza segni di sevizie fisiche, abbiano potuto essere ottenute nel corso della detenzione e dei dibattimenti, è rimasto a lungo uno dei grandi misteri della storia. Solo dopo decenni si è avuta testimonianza delle tecniche che venivano usate da chi giudicava, e si è appreso che le torture psicologiche e i maltrattamenti materiali inflitti agli imputati erano tali da spezzare la loro volontà e distruggere le loro capacità razionali. Bucharin ha definito la procedura adottata dai tribunali staliniani un “principio medievale”.

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Nel fare tutto questo Stalin prende esempio dallo zar Nicola il quale ebbe a fondare l’Okharana, cioè la polizia segreta imperiale la quale, tra i tanti compiti di istituto, aveva anche quello specifico di sorvegliare strettamente le scuole e i collegi e di inviare ai lavori forzati perpetui in Siberia i possessori di scritti vietati. Il sistema che egli adotta legittima, e pratica, è l’assassinio politico come metodo di lotta. Come ho già detto, l’Urss si trasforma a quel punto in un vero e proprio campo di concentramento. Eppure l’entità del “grande terrore” è generalmente ignorata, anche tra gli stessi militanti comunisti. A essere resi pubblici sono solo i tre grandi processi di Mosca le cui informazioni, ovviamente, sono artefatte. Ma anche quando e laddove trapela un qualche spiraglio di verità, la reazione del popolo comunista è decisamente improntata all’abulia e all’assuefazione. E’ impressionante, ad esempio, constatare quanta riluttanza vi sia stata nel mostrare una qualsiasi solidarietà nei confronti di Trotzkij o di Zinov’ev o di Bucharin nel momento delle loro esecuzioni. E questo clima di omertà e disimpegno ha caratterizzato non solo il comportamento dei comunisti sovietici, ma anche quello dei dirigenti dei Pc di tutto il mondo, nonché di noti uomini di cultura di sinistra. Un simile atteggiamento si registra anche a riguardo dell’esistenza dei gulag. Con l’estensione e la razionalizzazione dei campi di concentramento, il lavoro di centinaia di migliaia, anzi di milioni di prigionieri, assume il carattere di una resurrezione dei rapporti schiavistici. La costruzione delle strade ferrate rappresenta uno degli esempi più eclatanti della degradazione dell’impiego degli ospiti di queste strutture. Tuttavia, dal “realismo socialista” il gulag viene elevato a concetto filosofico della lotta di classe che si inasprisce nella società socialista e che comporta la liquidazione di intere classi sociali e di infiniti “nemici del popolo”. Esso viene così assurdamente giustificato in nome degli ideali “umanistici” della futura società comunista. In alcuni film propagandistici dell’epoca, infatti, i gulag vengono presentati come mezzo di elevazione dei detenuti e di edificazione del socialismo. C’è anche chi, come lo scrittore Maksim Gorkij, si presta ad avallare questa interpretazione con testimonianze personali. Dopo aver partecipato, nel giugno del ’29, a un’ispezione dell’arcipelago gulag delle isole Solovki, egli afferma che “i Lager come le Solovki sono indispensabili”. E sì che in quei campi di deportazione e di lavoro, così come negli altri dispersi sul suolo russo, sono morte per fame, per maltrattamenti, per eccesso di lavoro, per malattia, milioni di persone! Nel periodo del suo massimo rigoglio, l’arcipelago Gulag ha contato la presenza di 476 lager con una popolazione, nel 1950, di circa 3 milioni di reclusi. Il dato sorprendente è che a giustificare l’esistenza di questi luoghi di tortura e di morte sono anche i comunisti dell’Occidente. La stessa sinistra italiana, ad esempio, ha teso per lungo tempo a minimizzare i crimini dei bolscevichi e mentre ha addebitato ai nazifascisti tutto l’orrore dei loro fini, ai sovietici ha rimproverato soltanto l’orrore dei loro mezzi. In alcuni libri di storia scritti da intellettuali di sinistra, viene fatta una distinzione tra il lavoro forzato nei gulag e i campi di concentramento nazisti: mentre per i sovietici avrebbe avuto una valenza ‘economicistica’, per i tedeschi avrebbe significato esclusivamente uno “spreco” (eloquenti le camere a gas). Si è poi insistito sul fatto che mentre i bolscevichi hanno ereditato l’idea e la pratica del campo di concentramento e del lavoro coatto dallo zarismo, i tedeschi li avrebbero prodotti in proprio, con l’aggiunta dei campi di sterminio. Si tratta a mio avviso di distinzioni che tendono a giustificare l’ingiustificabile e che distolgono l’attenzione dalle responsabilità. Credo semmai sia il caso di sottolineare, a proposito delle responsabilità dei bolscevichi, che il gulag non è un prodotto esclusivo della filosofia di un potere e di una politica dispotici. Esso è, prima ancora, conseguenza e risultato dell’incapacità della nuova classe dirigente di esprimere e mediare gli interessi dei vari strati sociali che hanno costituito la base del processo rivoluzionario. Data l’arretratezza della Russia e dati i guasti della guerra voluta dal regime zarista, insieme a quelli prodotti dalla guerra civile, questi stessi strati sociali, anziché vedere migliorate le proprie condizioni di vita, sono stati investiti dagli effetti perversi della grave situazione economica e 185


sociale la quale ha generato un esteso malcontento, nonché ribellioni e rivolte. Intendo chiarire, in sostanza, che il gulag non è semplicemente il frutto di una volontà autoritaria e repressiva, ma si presenta a noi come una misura certamente arbitraria e violenta, ma in un certo senso necessitata dalla determinazione dei bolscevichi di non ritornare al passato. Non essendo essi stati capaci di governare in regime di democrazia una situazione tanto grave e complessa, si sono trovati nella condizione di risolvere il problema ricorrendo alla repressione di tutti i disobbedienti all’autorità costituita. Ad aggravare questi provvedimenti ha poi concorso la fobia staliniana. 6.5 – Le vittime dello stalinismo Il “terrore” staliniano colpisce in maniera scientifica tutte le categorie di persone sospettate di tradire il sistema. A partire dai contadini, dai Kulaki innanzitutto, considerati classe ostile alla costruzione del socialismo dopo che si sono ribellati alle imposizioni del regime, Stalin investe l’intera società con le misure repressive. A metà degli anni ’30, tramite gli organi del ministero degli interni (Nkvd) e della magistratura, dà avvio alla lotta contro i reali o supposti atti di sabotaggio i cui autori vengono definiti “specialisti borghesi”. Poi si scaglia contro i rappresentanti delle vecchie classi ormai moribonde. Prende quindi di mira quei funzionari statali che si sono dimostrati indulgenti, specie sul fronte del fisco, verso i kulaki e i nepman e che per questo vengono accusati di “deviazionismo di destra”. Dopo di loro è la volta dei rappresentanti delle forze politiche prerivoluzionarie, dei gruppi nazionali non russi, e quindi di tutti coloro – fra i membri del partito – che hanno assunto atteggiamenti critici nei suoi confronti. La repressione si abbatte massiccia anche sulla categoria degli intellettuali. Nei primi decenni del Novecento, in Russia sono sorti straordinari movimenti d’avanguardia che rappresentano una ribollente fucina di innovazioni e di sperimentazioni in tutte le arti, dalla letteratura alla poesia, dalla pittura alla scultura, dal teatro al cinema, dall’architettura alla musica. Gran parte di queste espressioni artistiche e letterarie si considerano pattuglie avanzate della grande trasformazione politica e sociale in corso nel Paese e accolgono la rivoluzione d’ottobre con grande entusiasmo diventando, ciascuna nel proprio campo, i coriferi del potere bolscevico. A mettersi al lavoro per dare al regime una politica culturale sono, tra gli altri, Andrei Belyi, Vladimir Majakovskji, Nikolai Gumilev, Anna Achmatova, Maksim Gorkij, Konstantin Stanislavskij, Vsevolod Mejerchol’d, Sergej Ejzenstejn, Vsevolod Pudovkin, Kazimir Malevic, Aleksandr Rodcenko, Vladimir Tatlin, Marc Chagall, Vasilij Kandinskij. Questo idillio tra avanguardie culturali russe e regime sovietico dura però solo fino alla seconda metà degli anni ‘20 e si esaurisce con l’imbavagliamento della vita intellettuale e con la repressione di chi non si mette in linea con le deliberazioni del partito. Stalin considera “deviazionisti” molti di questi intellettuali, tra i quali vi è Alexandr Bogdanov, e li condanna al carcere e all’isolamento. Alcuni di loro, com’è il caso di Babel’, Pil’niak, Mandel’stam e Mejerchol’d scompaiono misteriosamente, altri come Majakovskji si suicidano dopo aver subito umiliazioni e angherie. A partire dal ’36, a essere travolti dalle misure violente sono i dirigenti del partito, poi tocca all’apparato statale, compresi i funzionari dei gradi gerarchici più elevati, e quindi agli stessi solerti artefici della macchina repressiva, cioè gli uomini della polizia segreta, a partire da Genzich G. Jagoda e da Nikolaj Ezov. Nel ’37 l’offensiva staliniana assume un carattere di massa e si rivela come la più massiccia e devastante offensiva di repressione politica che la Russia abbia mai conosciuto. E prosegue per tutto il ‘38 spegnendosi solo nel ‘39. Continua, anzi si intensifica invece la campagna antisemita che proseguirà fino al ’53. A subire le persecuzioni non sono solamente quei dirigenti o membri del partito che hanno realmente commesso abusi e violazioni di legge, ma anche coloro cui viene arbitrariamente attribuita la responsabilità di aver suscitato lo scontento popolare e di non aver attuato in maniera rigorosa le disposizioni della direzione del partito. Chi non la pensa come Stalin viene criminalizzato ed emarginato. Suoi nemici principali sono Trotzkij, che considera pericoloso quanto 186


Hitler, e Bhucharin: ambedue vengono fatti fuori selvaggiamente. Vittime dei processi, nella seconda metà degli anni ’30, sono anche Zinov’ev, Kamenev, Piatakov, Radek e Rikov. Insomma, tutti gli esponenti del vecchio bolscevismo vengono vissuti dal dittatore georgiano come spettri del comunismo e perciò come possibili contestatori della sua leadership. Il secondo conflitto mondiale non è ancora terminato quando Stalin, patologicamente sospettoso, ordina la repressione di tutti coloro che, nelle fase iniziale della guerra, hanno osato alzare la voce per criticare la sua condotta strategica. Alla conclusione del conflitto, migliaia di reduci passano direttamente dal campo di battaglia ai lager. All’indomani del secondo conflitto mondiale ordina l’arresto in massa dei prigionieri di guerra di ritorno dai campi di concentramento tedeschi e della gente deportata in Germania ai lavori forzati. Processi contro i traditori, alla maniera di quelli celebrati negli anni ’30, vengono istruiti in Georgia e in Cecoslovacchia. Tra i condannati vi sono anche dirigenti e militanti comunisti. Interi popoli, accusati sommariamente di aver collaborato con i tedeschi, vengono deportati in Siberia e in altre regioni remote. A partire dal ’48, a seguito della rottura con la Jugoslavia ha inizio un nuovo “terrore”. Tito doveva morire. A svelare il complotto è il generale e storico Dimitri Volkogonov, consigliere del presidente Eltsyn per le questioni militari. Ad uccidere il maresciallo jugoslavo avrebbe dovuto essere l’agente sovietico, incaricato da Stalin, Nikolai Grigulivichin, in occasione di una sua visita a Westminster, in Inghilterra. Grigulivich era già stato protagonista del primo attentato a Trotzkij. Il progettato assassinio avrebbe dovuto avvenire tra il 16 e il 20 marzo del ’53, ma a causa della morte di Stalin avvenuta il 5 marzo non se ne fece nulla. Di quest’epoca è anche il celebre “complotto dei medici” secondo cui una diecina di luminari di origine ebrea, stando alle imputazioni, avrebbero avvelenato Zdanov e si sarebbero apprestati ad assassinare lo stesso Stalin. Il dittatore georgiano, poco prima di morire, fa fucilare il relatore del piano quinquennale, accusandolo di voler ristabilire il capitalismo. Lo stesso potente capo della polizia segreta, Lavrenti Beria, viene minacciato di essere purgato e proprio per questa ragione sembra che egli abbia rifiutato di prestare soccorso a Stalin quando è stato trovato riverso privo di sensi sul pavimento della sua dacia. Alcuni storici hanno avanzato il sospetto che sia stato proprio lui ad avvelenarlo. E’ infine da notare che i metodi repressivi adottati dal capo del Cremlino sono sopravvissuti alla sua morte. Ancora nel ’62, a Novocherkassk, si verifica una terribile repressione, mentre negli ospedali psichiatrici dell’Unione sovietica, anche negli anni ’60, hanno continuato a confluire i dissidenti con diagnosi di “schizofrenia con lento decorso”. A tentare di quantificare le vittime dello stalinismo ci hanno provato in molti. Nella maggioranza dei casi, però, le stime che sono state avanzate obbediscono più alle persuasioni politicoideologiche dei loro autori che a una rigorosa documentazione scientifica. Un esempio eloquente è rappresentato da quanto Stéphane Courtois sostiene in “Le livre noir du communisme”, edito in Francia nel ’97 in funzione anticomunista. Secondo questo autore le vittime del comunismo nel mondo sarebbero stimabili in 20 milioni nell’Unione sovietica, 65 milioni in Cina, 1 milione in Vietnam, 2 milioni nella Corea del Nord, 2 in Cambogia, 1 nell’Europa dell’Est, 150 mila in America latina, 1.700.000 in Africa, 1.500.000 in Afghanistan, 12.000 in altri Paesi dove i comunisti sono stati al potere. In sostanza, i martirizzati dal comunismo sarebbero più di 90 milioni. E’ da tenere presente che nello stesso libro, sia i conti che i criteri di stima variano a seconda delle situazioni e delle circostanze e questo rende discutibili le tesi formulate. Courtois sostiene tra l’altro che la carestia del ‘22 è stata voluta da Lenin che così facendo avrebbe coscientemente e di proposito fatto morire di fame milioni di persone. A suo dire, l’uso dell’arma della fame tramite la provocazione di carestie sarebbe una caratteristica tipica di tutti i regimi “rossi”. Altri “libri neri” sostengono che le vittime del comunismo disseminate in tutto il mondo oscillerebbero addirittura tra gli 80 e i 200 milioni di unità.

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Anche l’inglese Robert Conquest, sostenitore della teoria degli opposti totalitarismi (fascismo e comunismo), ritiene che le vittime in Urss sarebbero da stimarsi in 20 milioni; gli arresti praticati da Stalin avrebbero coinvolto circa 8 milioni e mezzo di persone, di cui solo un 10% avrebbe poi subito l’esecuzione. Il nostro Pietro Melograni indica in 10 milioni le vittime complessive, tra cui i contadini massacrati o deportati, i dirigenti di partito e gli “specialisti borghesi” perseguitati e anche i fucilati o arrestati dopo il caso Kirov; i reduci della guerra di Spagna assassinati, i militari sovietici fatti prigionieri dai tedeschi e fatti fuori per questa onta. Secondo altri calcoli considerati “prudenti”, i morti sarebbero da stimarsi tra i 20 e i 25 milioni; mentre le vittime della repressione (deceduti e sopravvissuti) nella sola Federazione Russa sarebbero state 41 milioni. Altre stime ancora, considerate da molti attendibili, calcolano che tra il ’35 e il ’45 sarebbero state arrestate 18 milioni di persone di cui 7 milioni fucilate. La collettivizzazione forzata delle campagne sarebbe costata, secondo alcuni storici, tra i 5 e i 10 milioni di vittime. Fra l’agosto ‘37 e il novembre ‘38 il “grande terrore”, investendo da un punto all’altro l’intero Paese, avrebbe provocato 2 milioni di morti. A seguito delle tragiche “purghe” della fine degli anni ‘30 è nato il sistema penitenziario dei gulag nel quale, secondo Van der Linden, sarebbero stati reclusi e sottoposti ai lavori forzati fra i 4 e i 13 milioni di persone. Sarebbero anche stati arrestati più di 6 mila scrittori, molti dei quali scomparsi mentre altri si sarebbero uccisi. Ammonterebbero invece a 35 mila gli ufficiali dell’Armata rossa decimati, più di quanti ne abbia uccisi la guerra. A dire invece di due storici americani, Arch Getty e Gabor Rittersporn, i cui studi si basano sulla consultazione degli archivi del Cremlino e sulle ricerche dello storico russo Viktor Zemkov, le vittime del terrore staliniano, cioè i morti “documentati”, sarebbero 800 mila. Anche secondo una corrente accademica “negazionista” degli Usa, che non è neppure di sinistra, il numero delle vittime dello stalinismo sarebbero “appena” 800.000. Il dissidente Andrei Sacharov ha invece quantificato le vittime in 15 milioni, mentre Aleksandr Solzhenitsyn le ha stimate addirittura in 60 milioni, tra fucilati, torturati e deceduti per fatiche e fame. Le conclusioni a cui sono giunti alcuni studiosi comunisti dei Paesi satelliti e dell’Occidente, confermano la gravità del “terrore” staliniano. Alcuni di loro hanno calcolato che, tra il ’21 e il ’53, le vittime siano state oltre i 4 milioni, di cui 800 mila giustiziate. Lo jugoslavo M. Pajade sostiene che nel triennio ’36-’38 i morti in Urss sono stati più di 3 milioni; mentre il polacco S. Swianiewic calcola che alla fine degli anni ’30 gli abitanti del vasto sistema dei campi di lavoro forzato (gulag) siano da stimarsi in 6 milioni e mezzo. Il comunista italiano Umberto Cerroni ritiene che abbiano raggiunto i 16 milioni di unità. I dati più verosimili restano in ogni modo quelli forniti dagli stessi studiosi russi che sono stati elaborati in base a testimonianze documentarie. I dati ufficiali che nel ’54 sono stati forniti a Chruscev dal Ministro dell’Interno dell’Urss e sulla cui base è stata formulata la condanna dello stalinismo, dicono che le persone uccise sotto il regime di Stalin sono state 353.074 nel ‘37 e 328.618 nel ‘38. Dei 1.966 comunisti delegati al 17° congresso del Pcus, nel ’34, 1.018 sono stati arrestati, mentre dei 139 membri del comitato centrale del partito eletti da quel congresso, 10 sono stati uccisi, 98 arrestati e poi eliminati. Dei 1.827 delegati a quella stessa assise, al 18° congresso, cioè nel ’39, risultavano essere sopravvissuti solo 37. I prigionieri dell’arcipelago Gulag sono stati stimati in 1.313.000 unità nel ’38 e 1.560.000 nel ’41. Chi ha analizzato però il rapporto di Chruscev al XX congresso, ha riscontrato che sia quei dati che gli stessi resoconti dei processi del ‘36, ‘37 e ‘38 hanno subito una falsificazione. Dopo quel congresso, infatti, è stato fatto sparire tutto il materiale documentario di riferimento. La stessa storia del Pcus e gli opuscoli propagandistici a essa inerenti hanno continuato a essere mistificati. Per fare un esempio, tutte le accuse formulate nei confronti di Bucharin, Kamenev e Zinov’ev, ritenuti “nemici del popolo”, sono state censurate. Tanto è che per decenni non è stato possibile formulare una valutazione giuridica di quegli eventi, invalidando così la possibilità di esprimere un obiettivo 188


giudizio politico su di essi. Ancora durante l’era Breznev lo storico Voganov, nel suo libro “La deviazione di destra del Pcr(b)”, si può ancora permettere di definire Bucharin un “nemico del popolo”. E’ solo con l’apertura degli archivi segreti e con la pubblicazione dei rapporti dei ricercatori e degli storiografi che si è fatta un po’ più di luce sui crimini dello stalinismo. Da queste ricerche emerge che gli arrestati durante le “purghe” sono stati 779.056. Dal ’34, quando erano “solo” 68.415, si è registrata una impressionante tendenza al crescendo. Sui morti nei gulag non ci sono ancora cifre esatte. Un dato che forse può essere indicativo è che nel ‘37 la popolazione totale dell’Urss ammontava a 164 milioni, esattamente 16 milioni e 700 mila unità in meno rispetto alle previsioni demografiche del 2° piano quinquennale 1933-38. Si tratta di un calo demografico che lascia spazio a drammatiche interpretazioni. Lo storico ricercatore Chlevnjuk ha documentato come tra il ‘30 e il ‘41 siano state fucilate ben 726 mila persone; siano stati deportati 20 milioni di uomini, donne e bambini, mentre altri 3 milioni di civili siano stati inviati negli insediamenti speciali di lavoro nel corso delle operazioni di pulizia delle frontiere. Roy Medvedev ha fornito le seguenti cifre: tra il ‘36 e il ‘39 da 4 a 5 milioni di persone sono state condannate per motivi politici, e almeno 400 o 500 mila di esse fucilate, mentre le rimanenti sono state deportate in lager nei quali solo poche sono sopravissute. A suo giudizio, nella storia dell’umanità nessun tiranno avrebbe massacrato un numero di compatrioti tanto grande quanto quelli repressi da Stalin. Aleksander Yakolev, dirigente della commissione per la riabilitazione delle vittime delle repressioni creata da Eltsyn nel ‘92, ha documentato che negli anni ’30, in Ucraina e nel bacino del Volga, i morti sono stati 5 milioni e mezzo. Ha poi rilevato che le etnie represse sono state una trentina, tra queste la cecena, la polacca, la curda, la tedesca, la macedone, la coreana, la greca, quella cinese e poi quella dei calmucchi, dei lettoni e dei lituani. Lo storico Russo Dimitri Volkogonov, che nel ‘93 è stato presidente della commissione parlamentare russa incaricata di aprire gli archivi politici, ha sostenuto che “dall’inizio della collettivizzazione nel 1929, alla morte del ‘Piccolo Padre dei popoli’, nel 1953, hanno subito repressioni 21 milioni e mezzo di persone: un terzo è stato fucilato e un altro terzo è morto in un gulag. In totale, hanno perso la vita a causa dello stalinismo 14 milioni di persone”. Dalla documentazione rintracciata negli archivi del Cremlino risulta che “l’arcipelago gulag” comprendeva in tutto 53 campi e 426 colonie penali, ai quali vanno aggiunti ancora i “reparti regionali” e 50 “campi speciali” per minorenni. In totale, negli anni che vanno dal ‘34 al ‘47, i deportati sono stati oltre 10 milioni. Secondo i calcoli che gli esperti russi hanno reso pubblici nel 2000, dal ‘17 in poi le vittime delle repressioni staliniane sarebbero state 40 milioni. Addossare al solo Stalin la responsabilità delle purghe e del clima di terrore creato in Urss alla fine degli anni ‘20 e nel decennio successivo, significa interpretare i processi storici in un’ottica ideologica, cioè come frutto dell’agire di un singolo personaggio e non invece come prodotto di situazioni e di circostanze complesse e, soprattutto, come risultato di un protagonismo di massa. Così come è stato per il nazismo e per il fascismo, anche le repressioni, le persecuzioni dei dissidenti, gli assassinii di massa compiuti in Urss hanno potuto essere eseguiti solo grazie all’impegno fisico e alla determinazione di centinaia di migliaia, anzi di milioni di persone. Quando ci si chiede come ciò sia potuto accadere, come sia stato possibile che un progetto di società più giusta e più umana sia degenerato al punto tale di dare luogo ai più orrendi crimini che la storia dell’uomo ha conosciuto, non si può e non si deve dimenticare che la violenza staliniana affonda le sue radici nella stessa tradizione rivoluzionaria borghese europea. Tra le cause che hanno concimato l’autoritarismo dei bolscevichi e il dispotismo di Stalin vi è infatti proprio la concezione giacobina del potere politico, aggravata per di più non solo da una fede quasi morbosa nella necessità e possibilità di forzare lo sviluppo storico-sociale in un contesto economicamente e socialmente arretrato, ma anche dalla radicalizzazione dello scontro voluta e determinata da chi si 189


era proposto di strozzare l’esperimento socialista sul nascere, cioè quando ancora quel progetto era “in fasce”. Del resto, l’avvento di un nuovo grado di civiltà non è mai avvenuto in maniera indolore. La volontà di sopravvivenza dei vecchi poteri, l’inerzia delle strutture sociali al tramonto, la resistenza alle novità, coniugate con l’impazienza rivoluzionaria, producono inevitabilmente situazioni gravi e drammatiche nella quali ogni proposito di sperimentazione pacifica e democratica è destinato inesorabilmente a soccombere. A prevalere è la violenza. E a quel punto salta ogni possibilità di assegnare il primato alla creatività dei soggetti sociali e alla contesa democratica; s’impone invece necessariamente il regime dittatoriale che fonda sul ricorso alla pratica autoritaria e repressiva, sul privilegio della mediocrità nella selezione del personale politico e genera in questo modo nella società disimpegno, diffidenza e rassegnazione. Così commentava l’operato di Stalin, ai tempi del suo dominio, il prestigioso filosofo J. P. Sartre: “Il pericolo esterno e le resistenze interne esigono l’indissolubile unità del gruppo dirigente. Il culto della personalità è innanzi tutto il culto dell’unità sociale in una persona. Nessuno può stupirsi di veder nascere questa idolatria in un regime che denuncia e rifiuta l’individualismo borghese… Subordinando la sua persona al gruppo, il sovietico evita i vizi assurdi del personalismo borghese”. Tenere conto di questi fattori non può e non deve significare affatto giustificare le nefandezze compiute dal regime staliniano. Vuol dire invece essere animati da un sincero interesse a individuare le cause e le ragioni profonde di quella tragica esperienza, voler comprendere gli errori che sono stati compiuti dai suoi artefici proprio per non ripeterli e per poter andare oltre la teoria e la pratica consolidata dalla tradizione. C’è stato e c’è ancora, purtroppo, chi giustifica in modo supino e compiacente l’operato di Stalin, dando segno di non voler trarre le dovute lezioni dalla storia. E c’è pure chi lo giudica con una buona dose di cinismo. Lo storico Giorgio Galli, ad esempio, in “Stalin e la sinistra: parlarne senza paura”, sostiene che il dittatore è solo “un mostro al 12%” poiché ha causato la morte di 9 milioni di persone contro i 75 milioni di morti causati dalle guerre mondiali. Simili atteggiamenti, a mio giudizio, nuocciono decisamente alla stessa causa del socialismo. Credo non si sia ancora riflettuto a sufficienza sui danni che alla sinistra sono derivati dagli atteggiamenti omertosi e di tolleranza, quando non addirittura di aperta condiscendenza, che le forze del movimento operaio hanno avuto nei confronti dello stalinismo. Non va dimenticato che quando Stalin liquida Trotzkij, Zinov’ev, Kamenev e altri dirigenti ancora, la quasi totalità dei dirigenti dei Pc del mondo, e anche degli uomini di cultura, si dimostrano riluttanti a prendere le difese dei condannati e quei pochi che lo fanno pagano il loro gesto con la persecuzione e l’emarginazione dal movimento. C’è stato addirittura chi ha salutato ed esaltato quegli eventi come una “rivoluzione antiburocratica”. Eppure, sono proprio quelle repressioni e quegli assassini che decretano l’inizio del fallimento del primo tentativo di costruzione di una società socialista. Così come non va sottovalutato il fatto che a differenza della rivoluzione francese, quella bolscevica ha conosciuto un periodo di “terrore” che non è stato affatto breve e che anzi è durato decenni e con proporzioni che non sono paragonabili a quelle del terrore giacobino. Cosa certa è che la società sovietica, quando è uscita dalla spirale del “terrore” degli anni ’30, aveva nulla da spartire con l’utopia comunista della “società dei liberi e degli eguali”. E non si può dare torto a Olga Fejdenberg la quale, all’indomani della seconda guerra mondiale, di fronte alle persecuzioni scatenate dallo zdanovismo, ha scritto che il marxismo in Urss non era affatto “una concezione del mondo, non un metodo, ma una frusta”. Stalin è stato l’artefice principale della sconfitta del nazismo, e questo è un fatto indiscutibile. Egli però si è anche assunto la responsabilità di mandare alla morte milioni di persone, e anche questo non può assolutamente essere dimenticato neanche per un istante. Va giudicato e condannato per quel che ha fatto. E la sua condanna non può e non deve offuscare le gravi responsabilità di chi è

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stato complice delle degenerazioni e degli irreparabili danni che egli ha procurato alla causa del socialismo. 6.6 – La bolscevizzazione dei partiti comunisti e la politica estera dell’Urss La repressione staliniana non viene attuata solo entro i confini dell’Urss ma investe anche i partiti comunisti fratelli. Uno degli avvenimenti più eloquenti di questa sanguinaria prevaricazione è costituito dall’odioso assassinio di Andrés Nin del Partito operaio di unità marxista spagnolo che viene compiuto in nome della assurda lotta al trotzkismo, parificato da Stalin al fascismo. Di questo omicidio si rendono complici dirigenti comunisti come Josè Diaz, Maurice Thorez, Georgi Dimitrov e lo stesso Palmiro Togliatti, i quali lo giustificano con motivazioni pretestuose e ciniche, prive di sensibilità umana. Non per nulla Fernando Claudin ha scritto che l’assassinio di Nin è stato “la pagina più nera della storia del Partito comunista spagnolo”, e non solo di quello. A imperare in quel momento nelle file del movimento comunista è infatti la “ragione del campo di appartenenza”, un “valore” sul cui altare viene cinicamente sacrificato tutto il resto. Le “purghe” staliniane colpiscono, oltre ai dirigenti e ai militanti comunisti dei partiti fratelli che non intendono condividere l’operato e le direttive dell’Internazionale, anche coloro che a causa della loro militanza antifascista hanno dovuto abbandonare i loro rispettivi Paesi di origine e chiedere asilo politico nella “patria del socialismo”. Circa il 70% dei rifugiati tedeschi in Urss, ad esempio, vengono richiusi nei gulag. E pure un migliaio di emigrati italiani incappano nelle “purghe” senza neppure riuscire a capire in base a quali accuse vengono condannati. Almeno una cinquantina di loro vengono fucilati a Levashovo e sepolti in fosse comuni, mentre altri muoiono per le percosse subite oppure per fame. Ad alcuni sopravvissuti ai gulag, Paolo Robotti, dirigente del Pci e cognato di Togliatti, preclude o comunque rende difficile il rientro in Italia, nell’intento di impedire che questi sopravvissuti svelino le atrocità subite nella patria del “sol dell’avvenire”. Robotti confessa, infatti, con vanto di aver “smascherato spesso trotzkisti e le loro conversazioni controrivoluzionarie” e di aver steso “note e relazioni sui loro interventi nelle riunioni”. A rimanere integro, nel periodo di permanenza in Urss, è solo il gruppo dirigente del Pci. Il coinvolgimento dei comunisti non sovietici nella spirale repressiva messa in atto da Stalin è anche una delle conseguenze della bolscevizzazione dei partiti affiliati alla Terza Internazionale, avvenuta nel ’24, la quale ha comportato l’uniformazione della linea politica e dell’etica comunista a livello mondiale. Quando Lenin si ritira dalla vita politica, perché a causa della malattia non è più nelle condizioni fisiche di gestire la direzione del partito e dello Stato, ai vertici del Pcus hanno inizio gli scontri tra i vecchi bolscevichi. Attori principali di questa disputa sono Stalin, Trotzkij, Zinov’ev, Kamenev, Bucharin e Preobrazenskij. I temi del loro contendere riguardano l’industrializzazione, la politica agricola, il rapporto tra proletariato e contadini, il processo di accumulazione, il mercato e, ovviamente, la direzione del partito e dello Stato. Come abbiamo già visto, a prevalere è Stalin il quale, conquistato il potere, non solo impone una virata settaria al Pcus, ma estende ai partiti fratelli l’obbligo di applicare nei loro rispettivi ambiti il modello rivoluzionario russo facendolo diventare la pietra di paragone dell’internazionalismo proletario. Una simile svolta è ovviamente frutto anche della disillusione per gli insuccessi dei partiti comunisti occidentali ai quali viene a quel punto imposto di cambiare strategia per recuperare forza e credibilità politica. Al 5° congresso dell’IC Zinov’ev spiega tale decisione nel modo seguente: “Bolscevizzazione significa ferma volontà di lottare per l’egemonia del proletariato, significa odio ardente per la borghesia, per i capi controrivoluzionari della socialdemocrazia, per il centrismo e per i centristi, per i semicentristi e per i pacifisti, per tutti gli aborti dell’ideologia borghese. Bolscevizzazione è creazione di un’organizzazione compatta, monolitica e fortemente centralizzata, che supera amichevolmente e fraternamente le divergenze nelle proprie file, come ci ha insegnato il compagno Lenin”.

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A riguardo del processo di bolscevizzazione, nella “Storia del Partito comunista (bolscevico) dell’Urss” si legge: “A capo della classe operaia si trovava un partito provato nelle lotte politiche come il partito bolscevico. Soltanto un partito come il partito bolscevico, sufficientemente ardito per portare il popolo all’assalto decisivo e sufficientemente guardingo per evitare gli scogli di qualunque genere sul cammino del successo, soltanto un partito come questo poteva unire in un modo così saggio, in un solo torrente rivoluzionario, dei movimenti rivoluzionari tanto diversi quanto il movimento democratico generale per la pace, il movimento democratico per l’occupazione delle terre dei proprietari fondiari, il movimento di liberazione nazionale dei popoli oppressi in lotta per l’eguaglianza nazionale e il movimento socialista del proletariato per il rovesciamento della borghesia e per l’instaurazione della dittatura del proletariato”. A seguito della bolscevizzazione, la storia dell’Internazionale comunista è percorsa da una permanente contraddizione: partiti creati nel cuore di un’epoca rivoluzionaria e forgiati come avanguardie di una rivoluzione che si ritiene essere imminente, si ritrovano nei fatti ad agire in una congiuntura di stabilizzazione relativa del capitalismo, anzi addirittura di reazione controrivoluzionaria, dimostrandosi così inadeguati e incapaci di dare gambe ai loro progetti. Con la bolscevizzazione viene istituzionalizzata una forma di controllo dell’esecutivo dell’Ic da parte del partito russo. La designazione dei gruppi dirigenti dei partiti che vi aderiscono viene demandata a una commissione nominata dall’esecutivo stesso e ogni contrasto politico che insorge al loro interno viene regolato con la pratica dell’espulsione. Dopo il ’27, l’Ic viene trasformata in un mero strumento della diplomazia del Cremlino e nel ’28 la sua direzione viene completamente concentrata nelle mani della frazione staliniana. A dire di Angelo Tasca, che dal settembre ‘28 al gennaio ‘29 fa parte del suo organismo esecutivo, “il segretariato politico è una banda raccogliticcia, tenuta insieme da ragioni le più varie, e organicamente incapace di fare un lavoro politico qualificato”. Dopo la bolscevizzazione, la sopravvivenza di un gruppo dirigente non pienamente gradito all’esecutivo e alla leadership staliniana si rivela praticamente impensabile. Agli occhi di Stalin e dei suoi lacché ogni rivoluzione diventa tollerabile solo alla condizione che non entri in conflitto con gli interessi dello Stato guida. Nel corso del lustro che va dal ‘24 al ‘29 vengono compiute alcune scelte che sono considerate fondamentali per il movimento comunista internazionale. Viene cioè sistematizzato in forma sempre più dogmatica il “leninismo”, definito “marxismo dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria”; viene decretata la scomunica ufficiale del luxemburghismo e del trotzkismo e viene imposto il monolitismo ideologico al “partito mondiale” della rivoluzione. Nelle tesi del 5° congresso dell’Ic viene prescritto che “realizzare il leninismo nel Comintern significa smascherare il trotzkismo in tutti i partiti e liquidarlo come corrente”. Viene poi affermato il principio secondo cui i comunisti devono lottare soprattutto contro il nazionalismo delle borghesie dei rispettivi Paesi e contro il particolarismo. Mentre viene lanciata una campagna contro questa tendenza, l’Ic – smentendosi clamorosamente – appoggia la rivendicazione dei croati, degli sloveni e dei macedoni alla separazione dalla Jugoslavia e alla costituzione di repubbliche indipendenti. Non è un caso che a partire dalla fine degli anni ’20 qualsiasi sviluppo critico-evolutivo del marxismo avvenga all’esterno della Terza Internazionale, cioè fuori e al riparo del controllo degli stalinisti, in polemica con l’ideologia ufficiale. Questo succede per l’austromarxismo, per la Scuola di Francoforte, per le teorie cinesi e per quelle dei Korsch, dei Trotzkij, dei Gramsci, e di altri singoli dirigenti del movimento che operano più in dimensione personale che collettiva, e quasi sempre in totale isolamento politico, quando non addirittura in condizioni di segregazione carceraria. Negli ambienti dell’Internazionale, l’unica integrazione del marxismo-leninismo che viene considerata legittima è quella apportata dagli sviluppi del pensiero di Stalin e a prevalere è il criterio secondo cui la teoria deve servire solamente a giustificare l’azione, principio questo che, appunto, fa dello stalinismo un sistema ideologico, cioè una dottrina decisamente in antitesi alla teoria marxiana.

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A mio modo di vedere, mentre si è scritto molto sui gulag e sulla politica repressiva dei bolscevichi, si è meditato poco sulla capacità di Stalin di bloccare le menti e di anestetizzare lo spirito critico e creativo degli individui. Più ancora che il lavoro forzato e la reclusione, è questa fondamentale operazione di ipnosi collettiva che gli ha consentito di dominare in modo quasi incontrastato non solo il popolo sovietico, ma anche la maggioranza dei comunisti di tutto il mondo. La sua dittatura ha comportato uno scempio politico-culturale su scala globale e ha fatto compiere al movimento comunista tragici errori le cui conseguenze pesano ancor oggi su di noi. Torna pertanto istruttivo ricordare alcuni dei dissennati atti politici che hanno contraddistinto l’era staliniana su scala internazionale. Nel ’29, con la tesi del “socialfascismo”, viene sancita la rottura con Bucharin, da lui considerato “di destra”, dopo di che viene imposta una sterzata nella gestione dell’organizzazione del partito e dello stesso Ic. Obiettivo principale di questa svolta è quello di eliminare i “destri” dai partiti comunisti, nella convinzione della supposta fine della stabilizzazione capitalistica (sono i tempi in cui si avvertono i primi sintomi della crisi economica mondiale). All’Ic vengono imposte strategie e politiche agricole decisamente arretrate rispetto ai processi reali. Mentre, da un lato, viene esasperato quel processo che, imposto ai bolscevichi dai contadini al tempo della rivoluzione d’ottobre, ha portato alla distribuzione delle terre, dall’altro, si persevera nel considerare i lavoratori della terra degli aspiranti borghesi e pertanto potenziali nemici della classe operaia, nonostante venga impartito al movimento l’obiettivo di costruire governi operaicontadini. Questa contraddizione fa sì che tra i programmi generali annunciati e le iniziative politiche concrete si verifichi un distacco enorme che provoca drammatiche ripercussioni sul piano economico e sociale. Rispetto al problema delle alleanze in Cina, Stalin predilige un fronte democratico-borghese antifeudale la cui egemonia viene affidata al Kuomintang di sinistra e non al partito comunista, e impone con prepotenza questa linea all’Ic. Nel ’27, come si ricorderà, è proprio il capo del Kuomintang, il famigerato Ciang-Kai-Shek, a silurare la rivoluzione in Cina e a dare avvio al massacro dei comunisti. Tanto è che a partire da quella tragica esperienza, il partito comunista cinese farà propria una strategia elaborata autonomamente in sfregio alle direttive della stessa Internazionale. Stalin è anche colui che enfatizza la teoria del crollo inevitabile del capitalismo elevandola a molla della rivoluzione internazionale. Il cambiamento – secondo le sue previsioni – avrebbe dovuto avvenire non già per mano della classe operaia dei Paesi capitalistici dell’Occidente, ma in forza delle difficoltà insorgenti nelle grandi potenze e attraverso la conseguente rivolta dei Paesi coloniali e dipendenti. Negli anni ’30, il dittatore georgiano compie un gravissimo errore sottovalutando il pericolo nazista. Egli non sa prevedere il suo successo e nemmeno sa cogliere la sua natura eversiva e anche la sua incidenza sulla politica mondiale. Gli uomini del Cremlino non mancato certo di preoccuparsi di fronte alle intenzioni aggressive tedesche, tanto è vero che nel ’34 l’Urss aderisce alla Società delle Nazioni e poi cerca di promuovere alleanze e patti di mutua assistenza con altri Paesi (con la Francia e la Cecoslovacchia), fino a proporre, più tardi, ai partiti comunisti di collaborare con socialisti e liberali al fine di promuovere la sicurezza collettiva. Di fatto, per tutto un periodo, i capi sovietici sottovalutano la minaccia tedesca, dichiarata nello stesso “Mein Kampf”, di voler schiacciare il bolscevismo e annettere alla Germania vaste zone dell’Europa orientale. C’è chi giustifica questo atteggiamento con il fatto che Stalin non voleva dare corda agli allarmismi solo perché era consapevole che le forze armate dell’Urss non erano in condizioni di fronteggiare uno scontro armato. Sta di fatto che correrà ai ripari con molto ritardo e per rimediare, alla fine, sottoscriverà il patto Ribbentrop-Molotov. La svolta di orientamenti, cioè l’avvertenza del pericolo nazista, la compie solo dopo che in alcuni Paesi d’Europa (Francia, Italia, Spagna, Austria, Romania) tra comunisti e socialisti vengono sottoscritti patti di “unità d’azione” antifascista. Ed è proprio a seguito di queste esperienze che l’Internazionale fa propria la politica dei “fronti popolari”. 193


Nella stessa Cina, a quel tempo, il partito comunista è impegnato nella sperimentazione di una nuova strategia nella lotta contro nazionalisti e giapponesi e per la conquista del potere. Questa linea di condotta dei cinesi è frutto di una loro inedita politica di alleanze che si contrappone agli indirizzi dell’Ic. Del resto, già prima del 7° congresso (1935), le 65 sezioni del Comintern si trovano nelle condizioni di dover far fronte in maniera pressoché autonoma alle rispettive e diversificate situazioni nazionali, poiché i dirigenti dell’Ic praticano ancora l’anacronistica linea del “socialfascismo”. Alla metà degli anni ’30, matura una situazione che è da considerarsi eloquente dal punto di vista del livello di dialettica esistente nel movimento. L’apparato organizzativo del Comintern è saldamente nelle mani dei funzionari della Nkvd (Commissariato nazionale degli affari interni dell’Urss) i quali, non essendo soggetti ad alcun controllo da parte del gruppo dirigente ufficiale, cioè dei Dimitrov, dei Togliatti e degli altri comunisti non russi, dipendono direttamente ed esclusivamente dal capo della polizia sovietica. Si verifica cioè un vero e proprio esproprio di autonomia, ma nessuno dei responsabili non russi dell’Ic dà segno di protestare o di lamentarsi. La politica dei “fronti popolari” viene adottata in occasione del 7° congresso e per un verso rappresenta una svolta storica decisiva. Essa costituisce la premessa di un positivo ripensamento sulla questione della rivoluzione in Occidente e comporta di fatto il riconoscimento di una autonomia di movimento da parte dei partiti comunisti nei loro rispettivi Paesi. Viene ipotizzata una trasformazione dei governi del fronte unito antifascista in organismi tesi alla transizione graduale e pacifica al socialismo, attraverso la conquista dell’egemonia operaia sulla coalizione delle forze antifasciste. Una sorta cioè di via al socialismo alternativa a quella imboccata dalla Russia nel ’17. Come puntualizzerà più tardi, nel ’47, Dimitrov all’assemblea inaugurale del Cominform, si tratta di un’alternativa alla “dittatura del proletariato”. La politica frontista, però, si dimostra incapace di un’autonomia progettuale, di mettere cioè a punto un processo di trasformazione sociale, e finisce col riprodurre lo schema dell’esperienza sovietica. Una delle condizioni della sua applicazione è, infatti, quella di garantire la difesa del primo paese socialista quale cardine di ogni azione del movimento operaio in Occidente. Le riforme che vengono suggerite non hanno un carattere prefigurante e non riescono affatto a coniugare la democrazia con il socialismo. Il potere socialista appare il frutto della impossibilità del capitalismo di sopravvivere, piuttosto che lo strumento di un progetto positivo, articolato e maturo, di trasformazione della società. Mentre in Francia il fronte popolare nasce nel vivo di una crisi economico-sociale e assume da subito e direttamente la forma di una lotta per l’occupazione, per il salario, per il controllo operaio, contro la speculazione e i sovraprofitti, e proprio per questo si intreccia a un possente e vittorioso movimento sindacale, suscitando un clima di entusiasmo popolare, nella formulazione del 7° congresso questa proposta di alleanze mostra invece una prevalente valenza politico-istituzionale. Essa nasce intimamente legata a una analisi del capitalismo come sistema ossificato, incapace di assicurare un reale sviluppo delle forze produttive e di fondare il proprio potere su una serie di mediazioni sociali. Una diagnosi in sostanza profondamente errata. Da una parte, Dimitrov sostiene la tesi secondo cui il capitale finanziario si fa beffe degli interessi nazionali, dall’altra, il congresso sentenzia che la borghesia non è più in grado di rappresentare la nazione e che spetta perciò al proletariato raccoglierne l’eredità assumendo le caratteristiche di movimento nazionale. In una tale ottica, gli interessi del proletariato si coniugano con gli interessi nazionali e “la rivoluzione socialista” viene considerata “la salvezza della nazione”. Si tratta di una linea che rappresenta una trasformazione di stampo ideologico la quale mette in discussione la natura stessa del movimento che ha dato origine alla 3a Internazionale; un movimento che si è temprato proprio nella lotta radicale a quel militarismo nazionalista che ha provocato la grande guerra del ‘14-’18. Se dunque la svolta dei “fronti popolari” consente di dare origine alle vie nazionali al socialismo e di elaborare e praticare questa linea nei paesi capitalistici, al tempo stesso essa favorisce l’esplosione di insanabili contraddizioni sul fronte dell’internazionalismo proletario. 194


Le incoerenze e i danni causati dalle scelte staliniane non si limitano però solo a questo. Mentre con l’adozione della linea dei “fronti popolari” viene aperta, in teoria, una nuova fase di sviluppo del movimento operaio internazionale, Stalin dà contemporaneamente inizio al periodo più drammatico delle epurazioni e delle inquisizioni e questa contraddizione compromette alle fondamenta ogni azione intesa a ricercare e praticare vie alternative a quella sovietica. Se è pur vero che la politica frontista diventa occasione di mobilitazione e di educazione di grandi masse operaie e popolari, essa sopprime in radice la strategia consiliare quale fattore di democrazia e di autogoverno, optando per la conquista del potere statale da parte del partito. Lo stesso movimento sindacale viene privato della sua autonomia e viene assunto a supporto e strumento della lotta politica. Nonostante che al 7° congresso Dimitrov abbia fatto appello a una energica iniziativa dal basso (“Dobbiamo andare più avanti: preparare il passaggio dalla difensiva all’offensiva contro il capitale, orientandoci verso l’organizzazione dello sciopero politico di massa”), nella coscienza delle classi lavoratrici, la strategia frontista si è continuamente intrecciata a una messianica fiducia nell’Urss quale fattore esterno senza il quale il salto rivoluzionario appariva impensabile. L’insieme della sinistra europea non è peraltro stato in grado di impostare un proprio progetto per il futuro e a gettare le fondamenta per una nuova e permanente unità. Anzi, ogni qualvolta il movimento operaio si è trovato ad affrontare una fase offensiva della lotta di classe è andato incontro a sconfitte rapide e desolanti, dimostrandosi incapace di sostenere uno scontro con il sistema. Il 7° congresso dell’Ic ha in sostanza dato avvio a un processo che poi non è riuscito a portare a compimento. Nonostante che il movimento abbia dimostrato di essere forte e vivo, non è riuscito ad assumere una piena egemonia sul processo reale. Tanto è vero che la politica dei “fronti popolari”, se si fa eccezione delle esperienze di Francia e Spagna, che pure si sono concluse drammaticamente, si è imposta non prima, ma dopo la vittoria sul fascismo e comunque ha avuto in ogni dove il carattere di una politica difensiva. E’ noto che la guerra civile spagnola ha suscitato negli ambienti dell’antifascismo, soprattutto nel mondo degli intellettuali, una straordinaria mobilitazione internazionale. L’esperienza fatta in Spagna dal “fronte popolare” è infatti servita come esempio per la lotta antifascista durante il secondo conflitto mondiale. Nel suo libro “Bucharin e la rivoluzione bolscevica. Biografia politica 1888-1938”, lo storico americano Stephen F. Cohen sostiene che la decisione di correre in aiuto alla repubblica spagnola sarebbe stata imposta a Stalin nell’autunno del ‘36 da una maggioranza della direzione del partito contro una sua iniziale resistenza. Di una simile versione dei fatti lo studioso non fornisce prove materiali, ma la trama del suo ragionamento e delle testimonianze che porta rende verosimile la sua tesi. Gli storici hanno prestato, e giustamente, molta attenzione al patto “Ribbentrop-Molotov”. che nel ’38 è stato stipulato tra la Germania e l’Unione Sovietica, ma hanno decisamente trascurato quel “trattato di amicizia” tra i due Paesi in questione che è parte degli accordi segreti e che è da considerarsi forse più grave del patto politico stesso, poiché suscita fondate perplessità sulla disponibilità manifestata da Stalin a realizzare un programma comune tra i due regimi. Non è infine da dimenticare e da sottovalutare che una delle caratteristiche del dittatore georgiano è quella di vantare uno spirito nazionalistico. Quando scoppia la guerra, Stalin non fa appello al popolo in nome della difesa del socialismo, ma si richiama insistentemente all’orgoglio nazionale, recupera cioè acriticamente, anzi esalta, tutta la tradizione patriarcale russa. La vittoria sul nazismo è, infatti, segnata anzitutto da un’impronta patriottica prima ancora che socialista. Se Stalin per lungo tempo ha sottovalutato completamente il possibile attacco dell’esercito di Hitler alla Russia, negli anni successivi al ’40 egli ha decisamente trascurato il progetto atomico. A differenza di Roosevelt, egli ha dimostrato di non credere affatto al valore militare del nucleare e questo ha rappresentato un errore che ha poi segnato i rapporti internazionali.

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Dopo le decisive vittorie dell’Urss sulla Germania nazista, il dittatore georgiano si è preoccupato non tanto dello sviluppo della rivoluzione mondiale, quanto invece dell’esaltazione dell’Urss quale grande potenza internazionale. Le rivoluzioni portate a compimento dai comunisti in Jugoslavia, in Albania e, più tardi, in Cina hanno incontrato non il favore, ma la sua avversione. Essendo rispettoso dell’alleanza antifascista e della politica di coesistenza, egli ha vissuto con preoccupazione ogni sconvolgimento politico che non fosse concordato e deciso da Mosca. Lo scioglimento sia del Comintern che del Pc Usa trovano giustificazione proprio in questo suo atteggiamento. Nel ’46, rispondendo a un discorso di Churchill, egli fornisce addirittura un quadro falso delle perdite sovietiche nel conflitto appena concluso. Parla di “circa 7 milioni di morti” quando in effetti sono stati 20 milioni. La verità sui caduti la si conoscerà solo con l’avvento al potere di Chruscev. Un colonnello russo in congedo ha rivelato che nel ‘48 Stalin aveva pronto un piano per invadere l’Alaska, territorio che nel 1867 venne venduto dallo zar Alessandro II agli Usa per 7,2 milioni di dollari di quel tempo. Quando la rottura con l’Occidente diviene inevitabile, il “capo” dell’Urss trasforma le democrazie popolari in un blocco politico, ideologico e militare la cui direzione è di esclusiva competenza del Cremlino. L’avanzata del socialismo viene considerata da lui come un’estensione della politica e dei metodi statalistici ai Paesi satelliti, senza tenere in alcun conto le situazioni specifiche di queste realtà, il loro grado di sviluppo economico e culturale, le loro particolari tradizioni. L’Urss viene imposta come modello al quale attenersi nella costruzione del socialismo. I teorici marxisti dei Paesi socialisti sono stati obbligati a far proprie le sue elaborazioni. La stragrande maggioranza di loro non hanno osato pensare al di fuori degli schemi da lui fissati e non hanno avuto il coraggio di denunciare le deformazioni burocratiche e reazionarie del sistema imposto. Il monopolio dello Stato e del partito ha fatto sì che in tutti i Paesi del campo socialista si determinasse una paralisi della ricerca sia artistica che scientifica. E un assurdo imperativo del genere ha indubbiamente rappresentato un freno all’avanzata generale del movimento ispirato alle teorie marxiane. Non si dimentichi mai, però, che a prendere tutte queste decisioni non è stato il solo Iosif Stalin, ma l’intera, o quasi, dirigenza dell’Internazionale comunista che nel corso del periodo 1919-1943 è risultata composta da più di 700 persone. 6.7 – L’emarginazione e l’assassinio di Lev Trotzkij La storiografia ufficiale del movimento comunista internazionale induce a pensare che le concezioni staliniane si siano affermate in Unione sovietica con una certa facilità. In realtà, il dittatore georgiano è stato costretto a ricorrere a un sistematico impiego di metodi repressivi sempre più drastici prima di poter estendere il suo dominio su tutti i gangli della società. L’efferatezza dei suoi atti non ha mancato di dar luogo, seppure in forma isolata, a manifestazioni di malcontento, a proteste vere e proprie che hanno prodotto anche un fronte di opposizione politica. Sia agli inizi che nel corso della sua dittatura c’è stato chi ha contestato il suo operato e gli episodi di avversione e di antagonismo hanno avuto luogo non solo nel tessuto sociale, ma anche alla base e ai vertici dello stesso partito. Il più illustre dei contestatori di Stalin è sicuramente stato Lev Davidovic Trotzkij. Figlio di un kulaki di origine ebrea, non ancora ventenne, Trotzkij aderisce al movimento rivoluzionario e per la sua attività sovversiva viene arrestato e deportato in Siberia. Di tendenze moderate, aderisce alla corrente menscevica, in opposizione a Lenin, e si qualifica assai presto come una persona profondamente eccentrica e ansiosa di eccellere. Egli si considera partigiano di un partito che accoglie tutte le tendenze della socialdemocrazia e proprio per questa sua posizione diventa bersaglio di violenti polemiche da parte del capo dei bolscevichi. Nel 1904, in “I nostri compiti politici”, concepisce la rivoluzione russa come rivoluzione democratico-borghese e si dice convinto che il movimento socialdemocratico sarà obbligato a 196


“svolgere un ruolo di opposizione e non di governo… (e ciò) permetterà alla lotta di classe del proletariato di svilupparsi in tutta la sua ampiezza”. Nel giugno del 1905, alla vigilia della rivoluzione, sostiene che “condizionando tutti gli aspetti della realtà attraverso il suo modo di produzione e il suo commercio, il capitalismo ha fatto del mondo intero un solo organismo economico e politico” e, di conseguenza, “la produzione mondiale si eleva non solo contro il caos degli stati nazionali, ma anche contro l’organizzazione economica capitalistica che si è trasformata in questa barbara anarchia”. A suo avviso, l’imperialismo segna inevitabilmente la fine del ruolo progressista della borghesia, avendo fatto della Terra un unico mercato mondiale. Durante la rivoluzione del 1905, è fautore dell’organizzazione dei soviet dei quali intuisce la potenzialità democratica. Fallita l’insurrezione, viene nuovamente esiliato in Siberia, da dove fugge all’estero rimanendovi esule fino all’agosto del ’17. In “Storia 1905” annuncia la teoria della “rivoluzione permanente”. Rifacendosi alle riflessioni compiute da Marx e da Engels sulla transizione dal capitalismo al socialismo, e a Parvus che ha insistito sulla continuità tra la lotta per la democrazia e la lotta per il socialismo, egli presuppone che la rivoluzione socialista non debba avere termine, poiché “la società non fa che mutare pelle di continuo... in un contesto di sconvolgimenti nell’economia, nella tecnica, nella scienza, nella famiglia, nei costumi... la società non può raggiungere una situazione di equilibrio… Rivoluzione permanente è una rivoluzione che non transige con nessuna forma di dominazione di classe, che non si arresta alla fase democratica, ma passa alle misure socialiste e alla guerra aperta contro la reazione esterna, una rivoluzione che si arresta solo con la totale liquidazione della società divisa in classi”. Una diecina di anni dopo ritornerà a meditare su questa sua tesi e la perfezionerà. Trotzkij considera la Russia un Paese isolato dal mercato mondiale capitalistico e sotto la costante pressione economica, politica e militare dell’imperialismo internazionale, rimarcandone il carattere arretrato. Valuta la borghesia russa differente da quella occidentale e la ritiene un soggetto che non è ancora modernizzato, che non vanta alcuna egemonia sul proletariato essendo succube dell’assolutismo. Giudica pertanto la lotta allo zarismo come la condizione per realizzare un’insurrezione che è parte integrante della rivoluzione internazionale e stabilisce in questo modo un’interrelazione tra il cambiamento in Russia e il cambiamento in Europa. Mostra avversione per qualsiasi forma di tutela da parte del partito sugli operai e vede nel soviet il mezzo per la costruzione di una democrazia parlamentare. Suo è il famoso aforisma: “la rivoluzione sarà opera degli operai o non sarà”. Le sue tesi lo portano ad avere un rapporto conflittuale con lo stesso Lenin. Nel suo libro “La storia falsa”, Luciano Canfora considera il contrasto tra i due leader soprattutto come frutto di una manipolazione compiuta da Stalin. Per la verità è da ricordare, a questo riguardo, che già nel periodo precedente la rivoluzione d’ottobre, Lenin non manifesta una grande stima verso Trotzkij e che nel ’14 lo giudica un “transfuga”, un ballerino. “Ora collabora con Martynov (un populista) ora proclama l’assurda teoria di sinistra della rivoluzione permanente”, commenta. E giunge poi persino a definirlo “un piccolo giuda”. Quando gli viene chiesto da alcuni bolscevichi per quali ragioni mantenga con lui tanta distanza, egli risponde: “E non lo sapete? Ambizione, ambizione, ambizione”, e gli attribuisce, tra l’altro, talune sgradevoli caratteristiche che lo farebbero somigliare a Lassalle. E pure quando i rapporti tra i due diventano collaborativi, egli non smentisce questo suo giudizio. Nel corso di un colloquio con Gorkij sostiene: “Trotzkij cammina con noi, ma in realtà non fa parte di noi”. Questo suo atteggiamento prescinde dunque dall’influenza di Stalin ed è nemmeno una semplice avversione caratteriale, bensì la dimostrazione che tra i due esistono divergenze politico-teoriche di non poco conto. Per esempio: mentre Trotzkij, considerando i lavoratori della terra incapaci di avere un ruolo autonomo, è critico verso la “dittatura democratica degli operai e dei contadini” che viene perseguita dai bolscevichi, Lenin non esclude l’alleanza del partito del proletariato con quello dei contadini in un quadro di democrazia borghese. Trotzkij, del resto, come menscevico non accetta la teoria leninista del partito e ciò alimenta violente polemiche tra i due. 197


Nel ’17, alla vigilia della rivoluzione d’ottobre, dopo che si è scontrato con i bolscevichi sulle strategie da seguire, Trotzkij aderisce al partito di Lenin e tra i due scatta un accordo che dà avvio a un periodo di intesa e di concordia. Per la verità, a causa dell’implicita esaltazione da parte dei bolscevichi del carattere d’avanguardia del partito, egli esita a lungo prima di accettare la concezione leniniana dell’organizzazione, ma alla fine si convince della sua validità, al punto di giungere ad affermare che senza Lenin il partito bolscevico “avrebbe potuto lasciarsi sfuggire l’occasione rivoluzionaria favorevole per molti anni”. Da quel momento diventa un sostenitore accanito del partito di tipo leninista, pur non rinunciando alla sua autonomia di pensiero. Infatti, egli ritiene che la presa del potere non deve dipendere soltanto da fattori oggettivi, tra cui il livello raggiunto dalle forze produttive, ma anche da fattori soggettivi quali le tradizioni, l’iniziativa e la combattività degli operai. Considera il proletariato russo già sotto l’influenza delle idee marxiste, poiché è altamente concentrato, e si convince dell’inevitabile evoluzione del processo rivoluzionario, senza soluzione di continuità, dalla realizzazione di compiti democratico-borghesi alla realizzazione di obiettivi socialisti. Nel vivo dello scontro rivoluzionario, egli si rivela un ottimo organizzatore e nella qualità di presidente del soviet di Pietrogrado esercita un ruolo determinante nel conseguire il successo bolscevico. All’indomani della conquista del potere scrive: “I compiti del nuovo regime sono così complessi che non potranno essere assolti se non sulla base di una competizione tra diversi metodi di costruzione economica e politica, se non con lunghe discussioni, se non con la lotta sistematica, lotta non solo tra mondo socialista e mondo capitalista, ma anche tra diverse correnti e tendenze all’interno del socialismo: correnti che non mancheranno di comparire inevitabilmente non appena la dittatura del proletariato porrà, a decine, a centinaia, problemi nuovi, non risolvibili in anticipo”. Diviene quindi commissario del popolo agli affari esteri e in questa veste negozia la pace di BrestLitovsk. Come commissario per la guerra riorganizza le forze militari nell’“Armata rossa” e dà un contributo decisivo alla vittoria nella guerra civile. Al fine di consolidare il potere sovietico sostiene la militarizzazione dei sindacati e sottolinea la necessità di conseguire un rapporto di egemonia operaia sui contadini. E’ questo il periodo in cui, parallelamente, Lenin si avvicina alla sua teoria della rivoluzione permanente. Comune ai due è la consapevolezza che la prospettiva dell’ottobre rosso risiede nella rivoluzione in Occidente. Scrive Trotzkij a questo riguardo: “Abbandonata alle sue sole risorse, la classe operaia russa sarà inevitabilmente schiacciata dalla contro-rivoluzione appena la classe contadina si distaccherà da questa. Essa non avrà altra possibilità che legare il destino del proprio potere politico, e, di conseguenza, la sorte di tutta la rivoluzione russa a quello della rivoluzione socialista in Europa”. “Il proletariato non potrà condurre la rivoluzione se non fino al punto di tramutare la rivoluzione russa in rivoluzione del proletariato europeo…. Se l’Europa resta immobile, la controrivoluzione borghese non sopporterà la presenza di uno stato governato dalle masse lavoratrici in Russia e respingerà il paese ad una situazione molto arretrata”. All’inizio degli anni ’20, condividendo la politica leniniana, avverte la necessità di uno specifico ruolo dei sindacati e di una loro autonomia rispetto allo Stato. Alla vigilia del 9° congresso del partito, di ritorno da un viaggio d’ispezione negli Urali, propone di abbandonare i metodi del comunismo di guerra. Sulle strategie da seguire in economia, però, tra lui e il capo dei bolscevichi insorgono dei contrasti. Lenin, partendo dal duplice problema dell’alleanza operai-contadini e della deformazione burocratica, ritiene che si debba lasciare che l’agricoltura si sviluppi autonomamente con le sue forze per poter sviluppare in seguito l’industria leggera e poi quella pesante, Trotzkij, invece, insiste sull’opportunità di dare impulso all’economia sviluppando le forze produttive proprio partendo dall’industria pesante. Il processo di industrializzazione accelerata che lui propone avrebbe una duplice funzione: quella di riassorbire la disoccupazione e aumentare la fiducia nelle potenzialità 198


del proletariato e, contemporaneamente, quella di ridurre le tensioni sociali e consolidare in tal modo l’alleanza tra operai e contadini. Nel ’23, avvertendo il bisogno di incrementare la democrazia nel partito, egli sviluppa un programma concepito come segue: possibilità, per la massa dei membri del partito, di discutere in precedenza e liberamente sulle grandi scelte in materia economica e politica; tale discussione deve avvenire senza che il dibattito interno sia dominato dalle decisioni e dal peso dell’apparato dei funzionari permanenti. Riaffermazione del diritto di tendenza (cioè delle correnti) in seno al partito; sviluppo della possibilità d’iniziativa per i membri di base del partito e per i lavoratori senza partito in seno agli organismi sovietici; rafforzamento degli organismi sovietici e del loro carattere elettivo. A suo giudizio, questa sarebbe la condizione per arrestare il burocratismo. Parte di queste proposte vengono adottate dall’ufficio politico, ma col tempo il suo progetto resta lettera morta. Lenin, gravemente malato, è ormai fuori scena e nel suo testamento politico tornerà a dirsi convinto che Trotzkij “non è bolscevico”. Approfittando di questo giudizio, dopo la morte del “vecchio”, Stalin, Zinov’ev e Kamenev osteggiano con prepotenza l’ex menscevico ritenendolo il più probabile pretendente alla successione, e attaccano a fondo le sue tesi. Seppure Trotzkij dichiari che il modo specifico di espressione della dittatura del proletariato sia rappresentato dal partito bolscevico, il solo in grado di rappresentare gli interessi organici delle masse, ed enfatizzi la centralizzazione dell’esercito, della sfera economica, del partito stesso e dello Stato, contro di lui viene scatenata un’ignobile campagna denigratoria. La direzione del Pcus, ormai egemonizzata da Stalin, nell’intento di screditarlo del tutto, decide di utilizzare le critiche di Lenin alla sua concezione dell’organizzazione e, soprattutto, alla sua teoria della rivoluzione permanente. Scagliandosi contro di lui, Stalin gli rimprovera di aver avversato Lenin e lo accusa di essere contro il vecchio bolscevismo, contro i contadini poveri, contro l’unità del partito, di non credere nella possibilità di costruire il socialismo in una Russia isolata e di contrapporre alla teoria del socialismo in un sol paese la tesi della rivoluzione permanente. In effetti, Trotzkij considera la teoria del socialismo in un solo paese un’ideologia conservatrice tesa a stabilizzare un regime fatto di privilegi sociali e politici. Ritiene che lo Stato russo si sia sviluppato in condizioni sociali semi-asiatiche e che lo zarismo fosse “una forma intermedia fra l’assolutismo europeo e il dispotismo asiatico, essendo forse più vicino a quest’ultimo”, per cui in una tale situazione di arretratezza il socialismo non sarebbe stato praticabile. “La rivoluzione socialista – puntualizza – comincia a livello nazionale, si sviluppa su quello internazionale e si conclude su quello mondiale… Mirare a costruire una società socialista nazionalmente isolata significa, nonostante i successi temporanei, spingere indietro le forze produttive anche rispetto al capitalismo. Tentare di realizzare una compiuta proporzionalità tra tutti i settori dell’economia entro i confini nazionali indipendentemente dalle condizioni geografiche, culturali e storiche di sviluppo di un paese che costituisce una parte del mondo nel suo insieme, significa perseguire un’utopia reazionaria”. La rivoluzione socialista, a suo giudizio, non può dunque arrestarsi entro i confini nazionali se non come “regime provvisorio”. E precisa: “Se lo Stato proletario continuasse a restare nell’isolamento finirebbe per soccombere alle proprie contraddizioni”. La critica di Trotskij verso la gestione staliniana si concentra non a torto sul fenomeno della burocratizzazione dell’apparato dirigente del partito. In “Nuovo corso” egli accusa l’apparato di aver “messo in luce i suoi aspetti più negativi e più intollerabili: isolamento dalle masse, presunzione burocratica, disprezzo completo per lo stato d’animo, l’opinione e i bisogni del partito”. Denuncia la non volontà “di porre all’ordine del giorno il problema della revisione del regime interno”. E per rendere più efficace la sua critica a Stalin gli ricorda la differenza tra la gestione del partito ai tempi di Lenin e la sua. “Se tutti i dibattiti e le discussioni personali che ebbero luogo nella direzione del partito bolscevico in ottobre fossero stati stenografati, le future generazioni potrebbero vedere attraverso quale intensa lotta interna i vertici del partito giunsero all’audacia necessaria per l’insurrezione”. In effetti, il partito bolscevico a quel tempo celebrava 199


congressi, riunioni e liberi dibattiti nel vivo della tempesta rivoluzionaria. E rimprovera appunto il dittatore di aver inibito questa pratica. Nello scontro con Stalin e con il suo apparato, Trotzkij si dimostra radicale nel considerare le masse protagoniste della nuova società e rifiuta qualsiasi forma di neogiacobinismo. Se un tempo, egli considerava “errori da riparare” le divisioni tra menscevichi e bolscevichi, ora combatte le discriminazioni e le angherie perpetrate dalla dirigenza all’interno del partito. E se, da un lato, si dimostra spietato con coloro che non si piegano alla disciplina rivoluzionaria, e non di rado chiede che tali elementi vengano eliminati, dall’altro, non tollera “il conservatorismo del socialismo propagandista”. L’unità politica deve essere a suo giudizio la preoccupazione principale di tutti i comunisti, ma, nel contempo, crede che essa debba essere costruita sulla base delle differenze e delle divergenze di opinione, considerando essenziale il principio della libera lotta di frazione. Mentre nel ’17, aderendo alla linea leniniana, aveva assunto il soviet in antagonismo alla democrazia parlamentare e, successivamente, aveva fatto sua la tesi della soppressione delle libertà politiche per le opposizioni, quando il gruppo dirigente staliniano stringe i cordoni della democrazia, egli contesta il dettato della costituzione che nega la possibilità di creare partiti politici e la pretesa del partito di selezionare i candidati alle elezioni. Sostiene che il sistema sovietico non può essere considerato socialista in quanto è una forma di burocratismo e di statalismo nella quale ha preso il sopravvento una casta politica che risulta distaccata dal popolo. Nel proporre una rapida industrializzazione del Paese che a suo avviso deve essere promossa con il consenso dei lavoratori, e non già contro la loro volontà e i loro interessi come fa Stalin, insiste sulla necessità di garantire un’espansione equilibrata e simultanea delle industrie dei beni di produzione e di quelle dei beni di consumo in modo di garantire un miglioramento delle condizioni di vita. E concepisce la stessa collettivizzazione dell’agricoltura come processo graduale da applicarsi con il consenso dei contadini. Denuncia poi il fatto che “l’accrescimento delle forze produttive si è accompagnato ad uno sviluppo estremo di tutte le forme di diseguaglianza e di privilegio, come pure della burocrazia” e che l’applicazione del “salario ‘egualitario’, sopprimendo lo stimolo individuale, diviene un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive”. E spiega: “E’ impossibile ottenere uno sviluppo dell’industria senza sviluppare il mercato interno, senza aumentare la capacità di acquisto della popolazione, in una parola senza assicurare il miglioramento delle capacità economiche della classe contadina”, bestia da soma e maggioranza della popolazione. In “La rivoluzione tradita” scrive: “Non si tratta di sostituire una combriccola dirigente con un’altra, ma di mutare i metodi stessi della direzione economica e culturale. L’arbitrio burocratico dovrà cedere il posto alla democrazia sovietica. Il ristabilimento della libertà dei partiti sovietici, a cominciare dal partito bolscevico, e la rinascita dei sindacati, vi sono inclusi. La libera discussione delle questioni economiche diminuirà le spese generali imposte dagli errori e dagli zig zag della burocrazia. I lavori di lusso, quali il palazzo dei soviet, i nuovi teatri, le metropolitane costruite per incantare la gente, faranno posto alle abitazioni operaie... La gioventù potrà respirare liberamente, criticare, sbagliare, maturare. La scienza e l’arte scuoteranno le loro catene”. Considerando il pericolo burocratico come una escrescenza dell’apparato statale, e pertanto incompatibile con lo Stato operaio, egli si dice convinto che la deformazione burocratica è destinata a scomparire con il progresso delle forze produttive. A suo giudizio, i progressi verso il socialismo si consolidano definitivamente e diventano irreversibili soltanto quando il proletariato, in quanto classe, dirige il processo di industrializzazione e quando questa sua funzione dirigente si afferma non soltanto sul piano politico, ma anche su quello dell’organizzazione della produzione e del livello del consumo. In sostanza, Trotzkij pensa a una democrazia sovietica articolata da una parte in autogestione pianificata e, dall’altra, in democrazia politica. 200


Le sue divergenze con il gruppo dirigente staliniano riguardano anche la politica dell’Internazionale. Quando l’esecutivo del Comintern, dietro pressione di Stalin e di Bucharin, ordina ai comunisti cinesi di entrare nel Kuomintang, egli vi si oppone. E’ convinto che lo sviluppo della rivoluzione cinese può avvenire solo per opera dei comunisti attraverso una loro autonoma iniziativa. E quando nel ’27 l’alleanza fra Pcc e Kuomintang registra una clamorosa rottura, egli polemizza vigorosamente con la dirigenza attribuendole la responsabilità dell’accaduto. Stalin accusa Trotzkij di essere un “incendiario”, un “selvaggio”, un “sognatore” e questo giudizio diventa vangelo non solo in Urss, ma in tutti i partiti comunisti del mondo. Trotzkij si difende dagli attacchi di Stalin ribadendo che lo schieramento di opposizione cui fa capo, condanna “risolutamente ogni tentativo di costituire un secondo partito” e che “la parola d’ordine del ‘secondo partito’ è (proprio) la parola d’ordine del gruppo di Stalin”. La possibilità di costituire dei partiti viene da lui prospettata nel quadro di una loro accettazione delle strutture e delle leggi della nuova società e non in antagonismo ad esse. A ricorrere come centrale nella battaglia che egli conduce nel partito è il motivo della ricostruzione dei soviet e della riaffermazione delle loro funzioni originarie. “Nei soviet – precisa – c’è posto solo per i rappresentanti degli operai, dei kholkhoziani, dei contadini, dei soldati rossi e la democratizzazione dei soviet è inconcepibile senza la legittimazione dei partiti sovietici. Gli operai e i contadini stessi stabiliranno, attraverso il libero suffragio, quali siano i partiti sovietici”. Stalin però non demorde. In una riunione degli organismi dirigenti del Comintern pretende che tutti gli intervenuti, russi e stranieri, votino una mozione che mette al bando Trotzkij senza averla fatta leggere a nessuno. Alla riunione sono presenti anche Togliatti e Silone i quali chiedono che venga data lettura della mozione, ma Stalin respinge con arroganza questa richiesta e loro la ritirano. Purtroppo Trotzkij prende sul serio Stalin solo quando è troppo tardi. Così come non si è opposto alla sacralizzazione di Lenin, che ha rappresentato l’affermazione del culto della personalità, non ha contrastato la trasformazione per opera dello stesso Stalin del leninismo in corpo dottrinarioreligioso. E ha continuato a illudersi di poter arrestare la deriva anche quando la degenerazione aveva ormai avviluppato l’intera società. Mentre il 12° congresso del Pcus adotta alcune sue proposte sul rilancio dell’economia, i triunviri classificano la sua politica come antioperaia e la delegittimano al punto di farlo apparire agli occhi delle masse come un superindustrializzatore anticontadino. Temendo che le sue posizioni possano avere il sopravvento, Stalin gli toglie progressivamente ogni carica e, nel ’27, lo espelle dal partito. Due anni dopo lo bandisce dall’Urss. Quando Trotzkij viene esiliato, in Unione sovietica, in segno di protesta per la gravità dell’atto non si fermano neppure le maestranze di una sola fabbrica. Egli riscuote la solidarietà dei soli lavoratori ungheresi i quali proclamano invece lo sciopero generale. In Unione sovietica i suoi seguaci vengono sterminati fisicamente, al punto che i trotzkisti sovietici, così come era accaduto ai cabristi cento anni prima, risulteranno essere una generazione di rivoluzionari “senza figli”, cioè senza eredi politici diretti. Costretto ad abbandonare il Paese, Trotzkij soggiorna prima in Turchia, poi in Francia quindi in Norvegia. In esilio si oppone alla tesi del “socialfascismo” e rimprovera alla dirigenza sovietica e a quella dell’Internazionale comunista di non saper cogliere l’inconciliabilità tra socialdemocrazia e fascismo. Sollecita quindi l’unità fra comunisti e socialdemocratici al fine di scongiurare il pericolo di un’involuzione sociale, ma in questa lotta si trova isolato. Egli è uno dei pochi dirigenti del movimento comunista a comprendere da subito la natura del fascismo e la sua capacità di espandersi facendo leva sulla piccola borghesia. Vede quindi avverarsi la previsione che aveva fatto all’inizio del secolo, secondo la quale il destino del bolscevismo al potere sarebbe stato prima quello di costruire il dominio assoluto del partito, poi quello del comitato centrale e quindi quello di un dittatore. A questo riguardo ha scritto: “Il regime politico dell’Urss non è una società nuova ma la peggior caricatura della vecchia”. “Il dominio della burocrazia sul paese come il dominio di Stalin sulla 201


burocrazia hanno raggiunto una perfezione quasi assoluta”. “In un paese dove il solo imprenditore è lo Stato, opposizione significa morte per inedia. Il vecchio principio ‘chi non lavora non mangia’ è sostituito da un principio nuovo: ‘chi non obbedisce non mangia’”. A suo dire la burocrazia parassitaria staliniana ha distrutto la democrazia nel partito sovietico e nei sindacati, ha privato il popolo di tutti i diritti politici e ha organizzato uno Stato di polizia. Ma per quanto oppressiva, la burocrazia non costituisce una nuova classe di sfruttatori, ma piuttosto una “casta privilegiata”, una “escrescenza cancerosa”. “La divinizzazione sempre più imprudente di Stalin, malgrado quello che ha di caricaturale, è necessaria al regime. La burocrazia ha bisogno di un arbitro supremo inviolabile e alza sulle proprie spalle l’uomo che meglio risponde alle sue pretese di dominio... I bolscevichi più fermi e più fedeli, il fior fiore del partito, sono nelle prigioni, negli angoli sperduti della Siberia e dell’Asia centrale, nei numerosi campi di concentramento... Le donne vengono strappate ai loro mariti allo scopo di spezzarli entrambi e costringerli alle abiure”. Definisce quindi il “socialismo nazionale” di Stalin il “termidoro” sovietico e la costituzione staliniana del ‘36 un tentativo di costruire un “bonapartismo plebiscitario”. Considera il dittatore georgiano la più insigne mediocrità del partito bolscevico e definisce la società sovietica una “deformazione burocratica del socialismo”, generata dalla debolezza delle forze produttive e dalla “barbarie” culturale di massa, un prodotto pericolosamente maligno dell’isolamento internazionale. Pur sottolineando il carattere perverso del regime, sostiene che pur “con tutte le sue contraddizioni” esso è da ritenersi “transitorio tra il capitalismo e il socialismo o preparatorio al socialismo”. E commenta: “Il proletariato di un paese arretrato ha dovuto fare la prima rivoluzione socialista. Dovrà molto verosimilmente pagare questo privilegio con una seconda rivoluzione, contro l’assolutismo burocratico”. Reclama quindi la rinascita dei sindacati (quando anni prima si era lui stesso prodigato a integrali nella macchina governativa) e, nel rivendicare il ristabilimento delle libertà politiche, ribadisce che perno istituzionale della nuova società devono essere i soviet. A fronte degli scioperi in Francia, ritiene che la rivoluzione proletaria sia all’ordine del giorno in quel Paese, così pure in Spagna; e che la classe operaia occidentale rappresenti per il proletariato russo, ormai imprigionato dalla burocrazia staliniana, la leva che può ridargli slancio e coscienza dei suoi compiti. Illuso quindi del possibile rilancio della rivoluzione in Occidente, accusa Stalin di volerla strangolare e invita i francesi a costruire i soviet. Polemizza poi con la linea dei “fronti popolari” da lui giudicati frutto di una virata a destra, in quanto negazione degli interessi specifici del proletariato e strumenti di difesa della democrazia borghese in funzione del compromesso tra l’Urss e i Paesi capitalistici occidentali. Dopo la sconfitta dei repubblicani in Spagna, alla luce della sua teoria della rivoluzione permanente, attribuisce il fallimento di quell’esperienza alla inadeguatezza del fronte popolare e alla responsabilità dei “neo-menscevichi staliniani” interessati solo a salvaguardare le posizioni sociali moderate. Nel ’36 il tribunale sovietico lo condanna a morte in contumacia. Nel ’37 egli si trasferisce dall’Europa a Città del Messico. Nel ’38 viene fondata la 4a Internazionale che si ispira a un progetto messo a punto da lui stesso nel ’33. Nel “Programma di transizione” egli ritorna sul tema della necessità della rivoluzione politica in Urss, affinché sia possibile il ristabilimento della democrazia sovietica. Ancora una volta sottolinea che i due aspetti-chiave di questa democrazia sono il ristabilimento dei soviet, in quanto organi di potere liberamente eletti dal proletariato, e la legalizzazione dei partiti sovietici. Le organizzazioni che fanno capo alla 4a Internazionale non riescono però a mettere radici nel movimento operaio. Estirpato nell’Urss dall’azione repressiva di Stalin, il trotzkismo riesce a diventare un movimento politico di una qualche importanza solo in alcune realtà operaie marginali. Odiato da Stalin, Trotzkij diventa l’avversario dichiarato di tutti i comunisti ortodossi. Agli occhi del capo del Cremlino egli appare più pericoloso di Hitler. Il trotzkismo, in effetti, rappresenta la coscienza della rivoluzione, ricorda con insistenza al partito bolscevico il suo 202


impegno per una democrazia proletaria e mantiene viva nella classe operaia l’aspirazione, mai distrutta, a essere la protagonista del socialismo. Proprio per questa ragione, nella seconda metà degli anni ’30, esso viene considerato un male soggettivo e la teoria della “rivoluzione permanente” viene bandita dal mondo comunista e per oltre quaranta anni sarà considerata l’eresia delle eresie. Nel ’40, non tollerando oltre la pur scarsa influenza teorica che Trotzkij esercita sugli orientamenti del movimento comunista, e nell’intento di impedire una sua eventuale leadership alternativa conseguente agli imprevedibili esiti del conflitto mondiale, pur se ormai esule oltre oceano e politicamente inoffensivo, Stalin assolda un sicario e lo fa brutalmente ammazzare. Qualche tempo prima di morire, il leader della 4a Internazionale ebbe ad esclamare: “Quali che siano le circostanze della mia morte, morirò con un’intatta fiducia nel futuro comunista”. E prendendo le distanze da non pochi dei suoi seguaci, fece sua la parola d’ordine della “difesa dell’Urss”, che in ogni caso considerava uno “stato operaio”, seppure “degenerato”. Trotzkij si dimostra dunque coerente con le sue idee fino alla fine dei suoi giorni. “Il socialismo – scrive – non avrebbe alcun valore se non portasse con sé non solamente l’inviolabilità giuridica ma anche la piena salvaguardia di tutti gli interessi della persona umana. Il genere umano non potrebbe tollerare un abominio totalitario improntato sul modello del Cremlino”. La sua fermezza è il prodotto di una visione aperta, non dogmatica delle vicende di questo mondo. Egli mostra di avere grande fiducia nel futuro dell’uomo e confida nella sua capacità e determinazione di agire e di combattere per il suo avvenire. Dinnanzi allo spettacolo di sangue e di oppressione che caratterizza il suo tempo esclama: “Tu sei solo il presente!... La vita è bella” e si augura che le generazioni future “possano depurarla di ogni male, di ogni oppressione e di ogni violenza e goderla pienamente”. E’ convinto che il socialismo tenderà a creare per la prima volta nella storia della civiltà una cultura universale. E si azzarda a fare previsioni. “Via via la lotta politica si esaurirà nella società senza classi… gli uomini si divideranno in ‘partiti’ sulla questione di un nuovo canale gigantesco o sulla distribuzione delle oasi del Sahara… la lotta assumerà un carattere puramente spirituale. Non avrà niente a che fare con la ricerca del profitto, con la volgarità, con il tradimento e con la corruzione, con tutto ciò che costituisce l’essenza della ‘concorrenza’ nella società divisa in classi”. Ovviamente, non tutto quello che egli presagisce si realizza. Per esempio, è convinto del prossimo avvento di una “grande epoca del marxismo americano”, cosa che invece non si è verificata. Si dice poi certo che sarà la classe operaia a dare vita a un processo rivoluzionario partendo dalle città e coinvolgendo le campagne, ma anche questa previsione si è rivelata una chimera. Trotzkij non manca nemmeno di porsi degli interrogativi che rimettono in discussione non solo il suo impegno antistaliniano, ma la sua stessa intera opera di rivoluzionario. Si interroga a fondo sulla stabilità o meno del totalitarismo sovietico e sulla capacità e volontà del proletariato dei Paesi occidentali di realizzare la rivoluzione. La sua introspezione è tale da giungere a considerare l’ipotesi che, in assenza dei cambiamenti sperati, il marxismo rivoluzionario possa essere relegato a buon diritto dalla storia nel regno dell’utopia. In forza del principio secondo cui “la prova finale della teoria è l’esperienza” egli mette in discussione se stesso e le idee in cui crede con inusuale spietatezza. Come già ebbe a fare Lenin, anch’egli si batte per la creazione degli Stati uniti repubblicani d’Europa, quale base per gli Stati uniti del mondo. Contro il dogmatismo di Stalin difende il freudismo, si interessa a Pavlov e manifesta simpatie per la psicologia. Si batte perché l’attività artistica non sia terreno in cui il partito detta le sue condizioni. Considera la pianificazione l’essenza del socialismo, poiché in un tale sistema non esiste il libero gioco delle forze economiche, cioè la concorrenza. Sostiene la tesi secondo cui il piano non è da considerarsi un concetto proprio del socialismo, ma che esso consente allo Stato di utilizzare le leggi del mercato per meglio distruggerle, superando così le difficoltà; e che il mercato è il luogo in

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cui si esprime la legge del valore la quale è presente durante la transizione. A suo avviso, solo la pianificazione permette di eliminare le crisi che sono specifiche del sistema del capitalismo di Stato. Lo stesso Lenin aveva riconosciuto in lui colui che per primo aveva posto la necessità del piano. Nella sua concezione del socialismo, Trotzkij distingue la statalizzazione dalla socializzazione. “La prima – precisa – consiste nell’appropriazione da parte dello Stato delle principali forze produttive e viene spacciata come la base della socializzazione, la seconda, invece, è l’organizzazione cosciente delle forze produttive e presuppone il loro sviluppo”. Nel fare questa distinzione egli, però, non coglie alcun limite nell’ordinamento economico dell’Urss, nella sua economia collettivizzata e pianificata, nel suo modo di essere strutturata centralmente. Sembra sfuggirgli il concetto marxiano del “general intellect”. Nonostante la sua decisa avversione allo stalinismo e la sua poliedrica visione del socialismo, Trotzkij non è mai stato riabilitato, nemmeno da Gorbacev. Eppure, tutte le riforme progressiste applicate in Urss dopo il ’53 hanno rappresentato una seppur debole eco delle rivendicazioni avanzate proprio da lui nei decenni passati. Lo stesso Mao, nel condurre le sue campagne socio-culturali, non ha mancato di riprendere alcuni concetti fondamentali della sua “rivoluzione permanente”. 6.8 – La condanna a morte di Nikolai Bucharin Quella di Nikolai Ivanovic Bucharin è senza dubbio una figura contraddittoria poiché il suo itinerario nella complessa vicenda della rivoluzione russa non è affatto lineare. Nel partito egli si colloca su posizioni prima di sinistra poi su quelle di destra; all’inizio della costruzione del sistema sovietico è un seguace di Lenin, al punto da venire indicato come il suo delfino, poi diventa un suo antagonista; si allea con Trotzkij poi, col passar del tempo, lo avversa e lo tradisce; assume il ruolo di stretto collaboratore di Stalin ma alla fine si trasforma in un suo oppositore. In sostanza, è un personaggio che muta con facilità posizione politica. Poco dopo aver iniziato la militanza politica nell’ala più rivoluzionaria della sinistra, egli viene arrestato e deportato. Costretto all’esilio, soggiorna in Austria, Germania, Svizzera e poi in Svezia, Norvegia e negli Stati Uniti. Durante questo suo pellegrinaggio conosce il capo dei bolscevichi e con lui stringe una positiva relazione. Rientrato in Russia nel ’17 diventa uno dei principali protagonisti della rivoluzione. Durante le trattative di pace di Brest-Litovsk è il principale portavoce dei “comunisti di sinistra”. Nella veste di direttore della “Pravda”, sotto l’influsso del trauma di Kronstadt, diventa un teorico del “comunismo di guerra”. Alla luce però di questa tribolata esperienza compie una riflessione che lo porta a essere uno dei fautori della Nep di cui continuerà ad essere uno dei più strenui difensori. “Credevamo possibile abolire i rapporti di mercato di colpo e immediatamente”, commenta, ma l’esperienza ci ha insegnato che “proprio solo attraverso di essi potremo giungere al socialismo”. Lenin si rifiuta di pubblicare il suo saggio “La teoria dello stato imperialistico” la cui tesi è che “l’economia nazionale assume sempre di più il carattere di una economia di Stato, di un trust capitalistico di Stato”. A suo giudizio “le scienze, i partiti, la chiesa, le unioni imprenditoriali, ecc. vengono incorporati nello Stato”. “Qui – teorizza – si rivela la dialettica della storia: lo Stato, dapprima organizzazione unica della classe dominante, diventa un’organizzazione fra le altre, per ritrasformarsi in organizzazione unica assorbente tutte le altre”. Nel suo cosiddetto testamento, Lenin sostiene che Bucharin non è mai stato un vero marxista: “Non ha preso, e penso, mai compreso pienamente la dialettica”. Poiché da giovane Nikolai ha subito l’influenza delle idee di Bogdanov, fin che camperà dai bolscevichi più integralisti gli verrà rimproverata una certa simpatia verso il teorico dell’empiriomonismo (teroria per cui i fatti fisici e psichici sono considerati manifestazioni diverse di una medesima esperienza).

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All’indomani della rivoluzione d’ottobre e nel corso dei primi anni ’20 scrive diversi trattati tra cui: “L’economia politica del capitalista”, “Economia del periodo di trasformazione”, “Teoria del materialismo storico”, il “Manuale popolare di sociologia marxista”. Si cimenta anche con le teorie filosofiche e sostiene che “tutto l’universo è o composto o derivato dalla materia. I fenomeni non percepibili sensorialmente – come le idee – indubitabilmente esistono, ma per quanto incorporei, dipendono in origine dalla materia, si sviluppano dalla materia fisica. Anche i fenomeni sociali sono reali ed essenzialmente materiali. Ogni sistema sociale si compone non soltanto dell’‘apparato materiale’ della società (utensili da lavoro, edifici, libri, ecc..), ma anche di certi fenomeni ‘mentali’ o ‘spirituali’: idee, teorie, scienza, religione, ecc.”. “Tutto nel mondo è connesso da un legame indissolubile… niente resta isolato, niente è indipendente da ciò che lo circonda… il metodo dialettico di esaminare tutto ciò che esiste esige che si considerino tutti i fenomeni nei loro indissolubili rapporti”. “L’equilibrio che riscontriamo nella natura e nella società non è un equilibrio assoluto, immobile, ma un equilibrio mobile… l’equilibrio si stabilisce e subito dopo viene turbato, si ristabilisce su una nuova base e viene turbato di nuovo, e così via”. “Lo sviluppo delle contraddizioni interne, o antagonismo di forze agenti in varie direzioni, è la forza motrice di tutte le cose e fornisce la spiegazione di ogni mutamento nella natura e nella società. Nonostante l’esistenza del conflitto universale, non vi può essere dubbio che vi sia tra i fenomeni sociali un rapporto di adattamento di una parte all’altra. Esiste insomma un certo equilibrio tra gli elementi all’interno della società. Ciò nondimeno il conflitto è sempre presente anche nel bel mezzo dell’apparente armonia. Un nuovo equilibrio diviene punto di partenza per una sua nuova distruzione”. “L’interazione fondamentale fra società e natura è la produzione sociale per mezzo del lavoro umano: la produzione sociale è l’adattamento della società umana alla natura… Ogni fenomeno è un anello della catena della causalità. Per capire un evento storico è necessario concepirlo come conseguenza di una o più cause storiche precise”. “La lotta della società con la natura, il processo di umanizzazione della natura, la penetrazione costante di un opposto nell’altro, stanno al fondo dell’intero movimento della storia”. “Nessuna forma di società è discesa dal cielo: ciascuna era la necessaria conseguenza di uno stadio sociale precedente…. Nulla al mondo resta fisso e immutabile… la base di tutto è la legge del cambiamento… qualunque fenomeno va esaminato in movimento, non in uno stato apparentemente stazionario… tutti i fenomeni sono riducibili alla materia in movimento… Marx ha sostituito il movimento della materia al movimento della mente (Hegel) che è conseguente”. E dalla disquisizione filosofica passa a quella economico-sociale. “La base della divisione delle persone in differenti classi sociali è data dai ruoli completamente diversi da esse sostenuti nel processo produttivo”. E sostiene che il cambiamento non deve necessariamente significare progresso: “Non è affatto vero che l’umanità progredisca sempre”. La direzione del mutamento, nella natura come nella società, può essere sia progressiva che regressiva, a seconda del carattere del rapporto esistente fra il sistema e il suo ambiente. Mentre per Lenin l’imperialismo rappresenta il “capitalismo morente”, per lui non rappresenta affatto la fine dello sviluppo del capitale, ma una forma di riassetto dei singoli sistemi economici nazionali dei paesi industriali in vista di un ben organizzato capitalismo di Stato, il quale tende a eliminare l’anarchia e la disorganizzazione all’interno delle singole economie nazionali. A suo giudizio, nell’era imperialistica, la contrapposizione tra villaggio mondiale e città mondiale assume valore internazionale. A differenza dei teorici del “crollo” egli è un attento osservatore delle trasformazioni strutturali che investono i Paesi altamente industrializzati e nota come attraverso di esse lo Stato, da guardiano del liberismo, diventa protagonista diretto dell’economia. Attribuisce dunque al capitalismo grandi potenzialità di sviluppo e situa la fine di quel sistema solo in seguito a una nuova guerra mondiale 205


che sarebbe scaturita dalle rivolte delle colonie. In questa ottica critica in maniera sistematica le tesi espresse da Rosa Luxemburg in ”L’accumulazione del capitale”. Una delle colonne portanti della sua teoria della rivoluzione è la dipendenza della rivoluzione in Occidente da fattori soggettivi e la convinzione che “il rivoluzionamento della coscienza (della classe oppressa) ha luogo quando gli sviluppi oggettivi collocano (questa classe) in una posizione intollerabile”. Egli fa poi delle distinzioni tra i vari periodi della rivoluzione proletaria separando la fase della rivoluzione ideologica, cioè della rivoluzione delle coscienze, da quella della rivoluzione politica, la quale implica la distruzione dell’apparato statale borghese; distingue la fase della rivoluzione economica, ossia della creazione di nuovi rapporti economici, da quella della rivoluzione tecnica, la quale comporta lo sviluppo accelerato delle forze produttive. Ai suoi occhi, la rivoluzione proletaria si differenzia da quella borghese in quanto il proletariato deve conquistare il potere politico prima di creare nuovi rapporti sociali. Pertanto, intende la transizione come balzo repentino e come atto violento da un tipo di società a un altro. “Le rivoluzioni – teorizza – sorgono quando c’è un conflitto tra le forze produttive e i rapporti di produzione che sono assicurati dall’organizzazione politica stabilita dalla classe dominante. Questi rapporti di produzione, impediscono, a tal punto lo sviluppo delle forze produttive, che vanno spazzati via se si vuole che la società si sviluppi ulteriormente”. Ritiene però che il nuovo Stato sia soggetto a leggi analoghe a quelle valide nel rovesciato sistema capitalistico e pertanto il processo di cambiamento deve essere graduale. Nell’agosto del ’17 scrive che “la vittoria definitiva della rivoluzione russa è inconcepibile senza la vittoria della rivoluzione mondiale”. Nel suo modo di pensare, infatti, la costruzione del socialismo in un solo paese non rappresenta né un’esaltazione del nazionalismo, come avviene per altri bolscevichi, né la volontà di proporre un modello unico di sistema sociale valido per tutti i Paesi. Egli considera anzi un’esperienza socialista costruita senza l’ausilio di aiuti esterni una forma di “socialismo arretrato”. L’idea dunque di una superiorità del modello sovietico è in lui totalmente assente, mentre insiste sul principio secondo cui il socialismo deve avere un carattere umanistico. Nonostante questa sua visione chiaramente antidogmatica, per un periodo di tempo non breve, egli mantiene con Stalin un rapporto armonico, di non conflittualità. Nel corso degli anni ‘20 lascia una traccia profonda nel pensiero economico sovietico. Egli insiste su due concetti base: a) l’instaurazione dei rapporti di produzione socialisti porta con sé la liquidazione delle categorie mercantili e, di conseguenza, il socialismo è destinato a superare l’economia politica come scienza (“La fine della produzione mercantile è la fine dell’economia politica” in quanto “la scienza economica è la scienza dell’economia sociale non organizzata”); b) poiché il socialismo è l’affermazione della proprietà collettiva sui mezzi di produzione, i rapporti tra gli uomini non sono più mediati dallo scambio e pertanto il feticismo delle merci e l’alienazione sono destinati a scomparire. In “Economia del periodo di trasformazione” cerca di ripresentare il socialismo di stato come un’ immagine rovesciata del capitalismo di Stato. Considera il “capitalismo organizzato” di Stato un potente fattore per superare l’anarchia interna delle forze del mercato. Una società – scrive – è “prima di tutto un’organizzazione di lavoro” ovvero “un organismo produttivo” la cui esistenza dipende dal “processo materiale della produzione”. “Qualunque mutamento nella produttività del lavoro altererà inevitabilmente l’intera vita della società”. L’efficacia del lavoro è a sua volta determinata dal livello tecnologico delle forze produttive: se tale livello è alto, altrettanto alta sarà la produttività del lavoro. La produttività del lavoro è l’indice o l’espressione dell’intero equilibrio tra società e natura e determina la condizione del sistema all’interno del suo ambiente. E’ con questo spirito che, a metà degli anni ’20, lancia al mondo contadino la parola d’ordine “arricchitevi!”. “Una riorganizzazione delle persone nel campo economico implica una conseguente riorganizzazione delle persone nella struttura socio-politica della società… e ciò esige una modificazione delle leggi, della morale, ecc.”. “Un incremento di popolazione (incremento più o 206


meno costante) non è nient’altro che un’espansione e una crescita del sistema sociale”. Viceversa, una diminuzione della popolazione denota il regresso o il declino di una società. Il movimento demografico, dunque, secondo il suo giudizio è indice del progresso o del regresso sociale in quanto riflette direttamente il carattere globale del rapporto tra società e natura e determina la direzione dello sviluppo di una società. Attraverso l’imporsi sul mercato delle più efficienti imprese socialiste (di Stato o cooperative), le classi imprenditoriali verrebbero eliminate o meglio superate. Egli sostiene poi che un buon piano non è onnipotente, ma se è cattivo può essere disastroso. I danni e il caos provocati da cattivi, ma potenti pianificatori possono essere peggiori di quelli prodotti dall’anarchica spontaneità capitalistica. Bucharin non concepisce il progressivo processo di socializzazione nei termini riduttivi di una semplice sostituzione del settore privato, ma è invece convinto che sia il principio cooperativistico a imporsi a poco a poco in ogni sfera della organizzazione sociale contribuendo alla progressiva estinzione dello Stato. Per lui la prospettiva a lungo termine è appunto un’economia mista: “Abbiamo già centralizzato più del necessario”, afferma, e poi critica pesantemente l’organizzazione dell’economia sovietica. In effetti, il processo di pianificazione che lui contesta viene attuato per un quarto di secolo senza che da parte dei governanti venga stabilita una seria metodologia nel definire i suoi obiettivi primari. Le sue convinzioni e critiche sono, in sostanza, una lucida anticipazione di quanto poi accadrà. Un altro fronte su cui Bucharin dà battaglia è quello della burocrazia. Per lui, la spiegazione degli inconvenienti derivanti dal reimpiego, da parte del governo sovietico, dei funzionari che hanno servito gli zar, è troppo semplicistica. A suo parere è invece la stessa economia socialista centralizzata che richiede un immenso apparato amministrativo il quale, a sua volta, si riproduce per propria dinamica interna. Anche se ritiene che l’uso della forza dello Stato deve diventare superflua col crescere dello sviluppo sociale, egli aderisce come tutti i dirigenti del partito dell’epoca alla tesi della dittatura del proletariato. All’inizio degli anni ’20, nell’intendimento di formare l’umanità comunista col materiale umano dell’epoca capitalista, teorizza addirittura l’applicazione della violenza proletaria, a partire dalle fucilazioni per finire coi lavori forzati, come metodo da adottare, e contribuisce così a creare “l’arcipelago gulag”. Sul fronte della politica delle alleanze considera strategica per la costruzione del socialismo la collaborazione tra operai e contadini e nel difendere il ruolo del mondo dell’agricoltura si scontra con Trotzkij il quale invece si batte per l’industrializzazione. Una delle battaglie che egli conduce con determinazione è quella per la tolleranza nei confronti delle correnti intellettuali. Sostiene addirittura la tesi dell’opportunità di autorizzare la formazione di un partito politico composto prevalentemente da uomini del mondo della cultura con funzioni di critica dei gestori del potere. Attribuendo grande importanza ai “saperi”, non solo sollecita l’innalzamento dei livelli di istruzione, ma si prodiga nel favorire l’iniziativa e la corresponsabilità dei singoli. Nell’arretratezza culturale egli individua un “enorme pericolo di degenerazione”. Tra il ‘26 e il ’27, in piena sintonia con la dirigenza staliniana, Bucharin sostiene la linea che privilegia il mondo contadino e si scaglia contro Trotskij, Zinov’ev e Kamenev, i quali invece si battono per un ruolo di maggior peso del proletariato. Nonostante egli si sia sempre battuto per un’alleanza con la socialdemocrazia, nel ’28, si adegua alla linea del “socialfascismo” imposta da Stalin al 6° congresso dell’Ic. Quando però, a fronte delle prime difficoltà nell’approvvigionamento del grano, il governo sovietico ricorre all’uso della forza nei confronti dei contadini, egli entra in collisione con il dittatore georgiano e assume la leadership dell’opposizione di destra. A quel punto mette in discussione il complesso delle scelte di politica economica adottate dalla direzione del partito e, alla tesi che sostiene il passaggio diretto ai criteri socialisti (così come era stato sperimentato nel periodo del ‘comunismo di guerra’), contrappone il valore universale dei principi che hanno ispirato la Nep. Nonostante ricopra la funzione di presidente del Comitato esecutivo 207


dell’Ic e continui a essere uno dei più convinti sostenitori del socialismo in un sol paese, il suo disaccordo con il “capo” lo pone irrimediabilmente nella condizione di essere emarginato dall’attività di partito. Nel ’29, in una lettera inviata a Stalin, egli esprime una percezione chiarissima dei pericoli che la dittatura fa correre all’Urss. In essa infatti sostiene che l’industrializzazione accelerata e la collettivizzazione delle campagne non si sarebbero potute fare senza “la instaurazione di metodi terroristi nel partito e in tutta la società”. Successivamente, si batte per l’eliminazione di qualsiasi abuso amministrativo e, giudicando intollerabile il regime interno al partito, invoca la legalità in ogni ambito dell’attività umana. Reclama una maggiore razionalità e attitudine scientifica nell’affrontare i problemi, una minor delega alle istituzioni, l’abbandono dei metodi di coercizione di massa e rivendica l’adozione di criteri di gradualismo, persuasione e protagonismo sociale. Allontanato dalla vita politica attiva per alcuni anni, nel ’33 viene designato redattore capo delle “Izvestija” e inserito nella commissione che redige la famosa Costituzione del 1936, gran parte del cui testo è scritto proprio da lui. Impegnato a trasformare la dittatura rivoluzionaria in comunità socialista, appena venga superato lo stato di emergenza, nel ’37 viene denunciato al secondo processo di Mosca. Condannato a otto anni di reclusione, viene imprigionato alla Lubjanka dove scrive i suoi “Quaderni del carcere”. Nel ’38, al terzo processo, viene condannato a morte e fucilato. Di fronte alle gravi colpe (smaccatamente false) che gli vengono attribuite (la più grave delle quali è quella di tradimento), egli dichiara di ammettere che la mostruosità dei suoi delitti è smisurata e per questa ragione si mette “in ginocchio di fronte al Paese, di fronte al partito, di fronte a tutto il popolo”. Non manca peraltro di esprimere lodi a Stalin sostenendo che “per tutti è evidente la saggia guida che al Paese è assicurata” da lui e definisce “grande e coraggiosa” la scelta politica della “purga generale” che accompagna la celebrazione dei processi. Fino all’ultimo egli spera di poter continuare a servire il partito, si dice anzi disposto a recarsi in America per condurre la “lotta mortale contro Trotskij”. Nell’attesa di essere fucilato, in carcere scrive: “Ci salva la fede che lo sviluppo va avanti. E’ come una corrente che porta al mare. Se si esce dalla corrente si viene espulsi. La corrente va oltre le più difficoltose rapide. Essa si muove andando avanti nella direzione nella quale si deve muovere. Il popolo cresce, nella corrente diventa più forte e costruisce una nuova società”. Prima dell’esecuzione scrive alla moglie: “Sento tutta la mia impotenza davanti ad una macchina infernale che, con metodi medievali, ha acquisito forze gigantesche, fabbrica calunnie organizzate, agisce arditamente e fiduciosa… Attualmente, la maggior parte dei cosiddetti organi del Nkvd sono un’organizzazione degenerata di burocrati, senza idee, corrotti, ben pagati che sfruttano l’autorità svanita della Ceka per provvedere alle ossessioni morbose di Stalin… Qualsiasi membro del Cc, qualsiasi socio del partito può essere cancellato da costoro, trasformato in traditore, terrorista, ‘deviazionista’ e ‘spia’”. Dopo una così pungente denuncia, però, esorta così la consorte: “Ricorda che la grande causa dell’Urss vive e questo è l’importante, mentre i destini individuali sono transitori e miserabili al confronto”. Nelle sue ultime riflessioni traspare l’aspirazione a realizzare una autentica legalità postrivoluzionaria e un pluralismo politico capace di favorire un pluralismo sociale e diffondere una cultura fondata su un “umanesimo socialista”. Non per caso conclude: “La radice di tutto il male sta nel fatto che il partito e lo Stato sono diventati una cosa sola”. Bucharin appare il più lucido rappresentante di un programma politico e sociale che si potrebbe definire alternativo a quello di Stalin e che nel momento in cui viene abbozzato viene bollato come “deviazionismo di destra”. Se qualcuno avesse cercato una sintesi delle sue teorie e del suo operato nella “Grande enciclopedia sovietica”, si sarebbe accorto che il suo nome non vi appariva, come se non fosse mai esistito. Solo nell’87, quando al potere si trova insediato Gorbacev, egli viene rivalutato da una commissione speciale del politburo che è incaricata di occuparsi della repressione staliniana nei 208


confronti dei comunisti sovietici e stranieri. E’ dunque solo con la caduta del socialismo reale che si creano le condizioni per la sua riabilitazione. 6.9 – Riflessioni sullo stalinismo A criticare e opporre resistenza a Stalin, dunque, ci hanno provato non solamente gli esponenti della socialdemocrazia europea, alla cui testa vi erano i Kautskij, gli Hilferding e i Bauer, ma anche alcuni stessi dirigenti comunisti. Si è trattato ovviamente di un’eccezione, poiché la stragrande maggioranza degli aderenti ai partiti che facevano capo all’Ic hanno approvato l’operato del capo del Cremlino, anzi, ne hanno tessuto le lodi adulandone personalità e gesta. Per citare due soli casi molto significativi dell’indiscusso consenso che il capo dell’Urss è riuscito a conquistarsi, è da ricordare il discorso che Andrei Zdanov ha tenuto in chiusura del 18° congresso del Pcus nel corso del quale, in omaggio al dittatore, ha proclamato: “Viva il genio, il cervello, il cuore del partito bolscevico, di tutto il popolo sovietico, di tutta l’umanità progressiva di avanguardia, il nostro Stalin”. Poi, merita di essere richiamato quanto ebbe ad affermare il dirigente comunista jugoslavo Milovan Gilas, in tempi antecedenti la condanna del “titoismo” da parte del Cremlino, e cioè che senza Stalin neppure il sole avrebbe potuto splendere come splendeva. Un incensamento, questo, che desta meraviglia ancora oggi, non solo per la massiccia dose di piaggeria che racchiude in sé, ma anche perché l’autore era ritenuto all’epoca uno dei più prestigiosi intellettuali di sinistra a livello internazionale. A denunciare che “Stalin era considerato superuomo, infallibile, come dio, in grado di sapere tutto, vedere tutto, pensare per tutti” è stato il suo stesso successore, Nikita Chruscev, allorquando nel ’56, con il suo rapporto segreto al XX congresso del partito, ha condannato lo stalinismo. Va certo tenuto in considerazione che i comunisti non presenti in Unione Sovietica all’epoca di Stalin, avevano scarsa conoscenza sia dell’esistenza delle lotte intestine che si sono sviluppate in seno al gruppo dirigente bolscevico, sia della violenta colllettivizzazione delle campagne e delle drammatiche conseguenze che questi avvenimenti hanno avuto sulla società (processi, “purghe”, gulag, ecc.). Molti di loro, infatti, erano convinti che non esistessero campi di concentramento, ma semplici strutture di rieducazione; che i soviet fossero eletti ed espressione della volontà del popolo; che la classe operaia fosse giunta veramente al potere; che quel modello di socialismo generasse giustizia e uguaglianza. La scarsa informazione e la fiducia cieca nella causa del socialismo, però, non possono giustificare il diffuso atteggiamento di passività e di ingenua compiacenza che hanno regnato anche all’indomani della rivelazione di quei crimini e per lungo tempo nelle file del movimento operaio. Anche perché, quando i dirigenti e i militanti comunisti hanno scoperto che le cose non stavano come credevano, non hanno inscenato alcuna manifestazione di dissenso o di protesta ma, salvo rari casi di dissociazione, si sono prodigati ad attribuire tali “guasti” alle circostanze storiche e alle difficoltà oggettive che la prima esperienza socialista era inevitabilmente destinata a incontrare. E si sono pacificati giustificando il loro carattere transitorio. Pertanto, non solo le manifestazioni di sdegno sono state assai circoscritte, ma si è addirittura manifestata una mancanza di curiosità e d’interesse nel capire cosa era accaduto nel “paese del sol dell’avvenire”. E non si sono chiesti come mai quel cambiamento che ha favorito la liberazione di enormi forze produttive e l’accesso delle masse popolari alla politica, ha poi assunto un carattere di inaudita sanguinosa violenza. Anche coloro che hanno avuto il coraggio di criticare lo stalinismo, e per la verità sono stati pochi, si sono limitati a evidenziare le cause soggettive, a condannare i cosiddetti “errori” compiuti da un leader megalomane, e non hanno posto l’accento sulle cause strutturali, sul sistema economico e di potere e, soprattutto, sulle responsabilità di chi ha assecondato e sostenuto Stalin. Come ho già fatto notare, a partecipare alle campagne repressive che reclamavano le rappresaglie nei confronti dei dissidenti e dei traditori, ad eseguire gli arresti dei perseguitati, a comporre i troiki, cioè i tribunali del popolo che giudicavano e condannavano i “nemici del popolo”, a gestire i gulag, hanno partecipato non solo esponenti dell’apparato, ma milioni e milioni di persone. A fare grande Stalin, 209


insomma, ad attribuirgli potenza e virtù carismatiche, è stato un intero popolo e questa verità non può essere nascosta. La stragrande maggioranza dei dirigenti e dei militanti comunisti di tutto il mondo, rifiutando di scrutare e studiare il “nuovo” che stava prendendo corpo, hanno preferito assumere l’Urss come un modello, hanno fatto propria la sua etica rivoluzionaria, e anziché aprire gli occhi sulle atrocità che si stavano consumando, hanno magnificato in modo incondizionato i suoi dirigenti. Si sono fidati e adeguati ciecamente a un divenire storico che prometteva progresso e hanno posto in secondo ordine il fatto che seminava terrore. Da taluni, addirittura, il dispotismo e le repressioni sono stati interpretati come prodotti del disperato tentativo di Stalin di scavalcare quel labirinto burocratico che lui stesso ha meticolosamente costruito. E poiché l’Urss era sottoposta a un permanente e drammatico stato d’assedio attuato dalle potenze capitalistiche, a dire della maggior parte dei comunisti dell’epoca, l’operato di Stalin era giustificabilissimo. Alcuni hanno persino teorizzato che in quelle condizioni gli stessi Lenin e Trotzkij avrebbero fatto identiche scelte. Secondo un’interpretazione del genere, l’urgenza di difendere la rivoluzione, di superare le immani difficoltà economiche ereditate dallo zarismo e l’impossibilità di superare in breve tempo l’arretratezza culturale della popolazione, che precludeva la possibilità di uno sviluppo della democrazia e delle libertà civili, non avrebbe lasciato spazio a soluzioni alternative. Va peraltro ricordato che gli adulatori di Stalin hanno in genere inteso il movimento rivoluzionario come sforzo selvaggio, come processo violento da imporre a tutti mediante coercizione. In questa ottica qualcuno è giunto al punto di sostenere che il regime staliniano non è stato per niente un totalitarismo, ma piuttosto un caso particolarmente brutale di “dispotismo asiatico”. Anche per queste ragioni, i più si sono dimostrati incapaci di comprendere che le contraddizioni di fondo di quel sistema, prima o poi, sarebbero inevitabilmente esplose. Per decenni, più o meno questa è stata la “vulgata” comunista sullo stalinismo! Ragionando sul senso comune dei militanti e simpatizzanti di partito, negli anni ’50, Gyorgy Lukàcs così ha stigmatizzato la situazione: “Quando si trattava di prendere posizione rispetto a questi fatti (il riferimento è appunto all’operato e al dogmatismo di Stalin), ogni persona riflessiva doveva partire dalla situazione storica del momento, che era quella dell’ascesa di Hitler e della preparazione della sua guerra di annientamento contro il socialismo”, pertanto “un’opposizione avrebbe potuto divenire un aiuto intellettuale e morale per il nemico mortale”. A un tale impianto ideologico si sono purtroppo allineati anche i comunisti italiani. Basti ricordare che nel dare vita al “Fronte popolare”, a metà degli anni ’40, essi hanno suscitato proprio il mito di Stalin e, successivamente, quando la possibilità di determinare un cambiamento per via elettorale è svanito, almeno larga parte di loro, hanno coltivato la speranza che a cambiare le cose fosse intervenuta la spallata del “baffone”. Va detto che a creare le condizioni perché nelle file del movimento comunista e operaio attecchisse una così cieca fiducia e deferenza verso il leader georgiano e verso il primo Paese del socialismo, hanno concorso molteplici motivi. Anzitutto, è da tener presente che all’indomani del fallimento dell’auspicata rivoluzione in Occidente, e dopo l’avvento del fascismo in Europa, la presenza dei comunisti era ridotta all’osso. Negli anni ’30, solo la Francia vantava la presenza di un partito comunista di discreta entità; in Germania e in Italia operavano solo alcuni clandestini; in Cina, per ricostruire una struttura organizzata, Mao è stato costretto a dare vita alla “lunga marcia”; nelle Americhe la sinistra ha conosciuto una certa espansione, ma ai successi si sono alternate battute d’arresto e sconfitte. Insomma, la forza del movimento comunista era di stanza in Urss e, a seguito della sconfitta in Occidente, era rimasto solo quel regime a dare coraggio e speranza a chi continuava a lottare per il socialismo. Quel baluardo andava pertanto difeso a tutti i costi. Nel periodo poi della lotta al nazi-fascismo, l’Urss è apparsa agli occhi anche di chi non era comunista come una componente fondamentale con cui stringere l’alleanza al fine di far fronte alle minacce di Hitler. La forza del socialismo, in quel periodo, era determinata anche dal tradimento di tutte le speranze che la socialdemocrazia aveva suscitato e poi deluso. E il suo prestigio è cresciuto 210


anche in forza degli effetti della crisi del ’29. Il collasso del capitalismo aveva sconvolto l’economia di tutti i Paesi dell’Occidente rendendo palese agli occhi delle masse l’insostenibilità di quel sistema. L’Unione Sovietica, invece, avendo adottato la pianificazione, procedeva con speditezza nel suo sviluppo e l’evidente contrasto socio-economico tra i due mondi aveva spinto una parte significativa degli intellettuali dei Paesi occidentali ad abbracciare le tesi marxiste e a militare nei partiti del movimento operaio. Con l’avvento del fascismo poi, la democrazia borghese si era rivelata fragile e impotente e, in quel frangente, lo schierarsi dalla parte del socialismo significava inevitabilmente stare con l’Urss, perciò con Stalin. Ed era appunto nell’Urss, nella grandiosa opera di costruzione di una società nuova, che larga parte della classe lavoratrice vedeva realizzate le speranze di giustizia sociale e le aspirazioni di un cambiamento. E’ stato, infatti, per questi motivi che in quel periodo, a livello internazionale, si è verificata una straordinaria diffusione dei testi classici del marxismo. Negli anni ’30, lo sforzo compiuto a livello internazionale nel pubblicare, diffondere e studiare le opere di Marx e di Engels è stato massiccio. L’entusiasmo per il “nuovo” che avanzava era tale che in Inghilterra diversi giovani intellettuali avevano spinto la loro dedizione alla causa del movimento operaio fino al punto di diventare agenti segreti dei sovietici (è il caso di Burgess, di MacLean, di Philby, di Blunt). E pure negli Usa alcuni giovani membri delle grandi famiglie milionarie della costa orientale erano stati attratti dalle idee comuniste (è il caso dei Lamont e dei Whitney Straight). Va altresì ricordato che gli apprezzamenti sull’operato di Stalin e sui progressi dell’Urss non sono stati affatto frutto dei soli comunisti. Per esempio, lo stesso Winston Churchill, noto per le sue idee conservatrici e per la sua fobia nei confronti del bolscevismo, ha giustificato e approvato pubblicamente le purghe staliniane e ha definito il dittatore georgiano un “abile gigante”, un uomo di enorme genio tattico-politico. Il nostro Alcide De Gasperi, nel luglio del ’44, parlando al Teatro Brancaccio di Roma, ebbe ad esaltare Stalin come “il grande condottiero di popoli”. E alla prima Assemblea della Sezione romana della DC ebbe a ribadire: “Mi riferirò adesso anche all’esperimento russo. Con ciò non voglio menomamente diminuire il merito immenso, storico, secolare delle armate organizzate dal genio di Giuseppe Stalin… vedo contemporaneamente i russi composti di 160 razze cercare la fusione di queste razze superando le diversità esistenti fra l’Asia e l’Europa”. Appare quindi chiara l’influenza che il dittatore bolscevico, nella veste di prezioso e decisivo alleato nella lotta contro il nazi-fascismo, ha esercitato sugli stessi leader moderati e conservatori dei Paesi occidentali. Peraltro, il suo prestigio non si è limitato a questo solo aspetto. Quando il 6 marzo ‘53 è stata annunciata la sua morte, sul “Corriere della sera”, voce indiscussa della borghesia italiana, è apparso un articolo in cui si diceva che il capo dei bolscevichi era un uomo “il cui genio... era frutto di buon senso, di misura, di tempestività”. Sul “Mattino”, Giovanni Ansaldo ha sostenuto che il capo dei bolscevichi era stato “un grande restauratore di valori tradizionali delle collettività umane: orgoglio nazionale, amor patrio, onore militare, disciplina sociale”. Se su “l’Unità” si potevano leggere espressioni di religiosa adorazione del tipo: “Gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità”, sull’“Avanti!”, Riccardo Lombardi sosteneva che Stalin “non fu un dittatore, ma il capo espresso attraverso il più democratico dei sistemi di selezione: l’esperienza della lotta e della responsabilità”. E mentre il socialdemocratico Giuseppe Saragat ha dichiarato che il capo del Cremlino era “una figura gigantesca che scompare dalla scena del mondo”, il democristiano Aldo Moro ha sottolineato che con la sua morte “un vuoto si è determinato nel mondo”. E l’influenza del dittatore georgiano è stata tale, almeno su una pur ristretta cerchia di esponenti politici e della cultura, da indurre, nell’86, Norberto Bobbio, a invitare Paolo Spriano a considerare la grandezza “del vostro, e potrei dire del nostro, Stalin, venerando e terribile” al pari di Annibale, ricordando che “la costruzione di una società socialista è gran cosa”.

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Come si può constatare, a glorificare il fautore del “terrore rosso”, non sono stati solo gli appartenenti al mondo comunista; solo che il ricordare una tale verità crea imbarazzo in molti falsi moralisti, i quali, pur di non doverne rendere conto, preferiscono obliterare la storia. L’aspetto inquietante è in ogni modo rappresentato dalle complicità con lo stalinismo che si sono manifestate anche all’indomani della sua condanna ufficiale da parte del XX congresso del Pcus. Si può dire che sia esistita una paradossale continuità nel tempo, per certi aspetti addirittura fino ai giorni nostri, di una concezione del potere che ha travalicato i confini della Russia bolscevica e ha influenzato i gruppi dirigenti di tutti i partiti comunisti. Se dopo la morte del dittatore i suoi rozzi metodi sono stati liquidati, le sue concezioni sono purtroppo sopravvissute, anche se coltivate in maniera camuffata. Dopo la morte di Stalin, in Urss, ci sono stati per la verità tentativi di superare le strutture create durante il suo regime; si è pure cercato di rompere il peso soffocante dei rapporti sociali ed economici che ne erano derivati, i risultati però non sono stati tali da modificare alla radice la situazione. In assenza di un rilancio della democrazia e, soprattutto, di un ripensamento del modo di produrre, i rapporti sociali sono rimasti inevitabilmente quelli di sempre, con anzi la conseguenza di un approfondimento delle disuguaglianze sociali e di un progressivo incremento dei privilegi della nomenklatura. Anche sul piano delle relazioni internazionali le dirigenze hanno continuato a ragionare come Stalin, cioè in termini di netta contrapposizione tra Paesi del capitalismo e Paesi del socialismo, fino a concepire come soluzione accettabile la politica dei blocchi contrapposti edulcorata dalla linea della coesistenza pacifica. Né Chruscev né Breznev hanno mai espresso la pur minima riserva sulla politica estera di Stalin e questa è una testimonianza di complicità molto eloquente. Per ricordare un caso per tutti, il patto Ribbentrov-Molotov è stato difeso con le unghie e con i denti da tutti coloro che si sono succeduti al potere. Tutti i dirigenti dell’Urss hanno sempre rifiutato di accettare la minima critica su questo storico atto politico, nonostante che le giustificazioni via via addotte non avessero mai persuaso nessuno. Eppure, a partire dalla fine degli anni ’70, da alcuni degli stessi specialisti marxisti di politica sovietica, quel patto non veniva più interpretato come una pura “astuzia diplomatica” e neppure come un “errore di calcolo”. Dietro a un atteggiamento tanto ostinato, si maschera purtroppo l’inquietante fatto che Stalin, prima che Hitler aggredisse l’Urss, non aveva mai considerato la Germania nazista come il nemico principale. E si è ritenuto opportuno che questa verità rimanesse nascosta. Zhores e Roy Medvedev, nel loro libro “Stalin sconosciuto”, hanno sostenuto che i successori del dittatore georgiano, subito dopo la sua morte, al fine di costituirsi un “alibi storico”, per impedire cioè che fosse accertata attraverso i documenti la loro diretta complicità con i suoi crimini, si sarebbero premurati di occultare lo stesso archivio personale del dittatore. Insomma, si sarebbe fatto di tutto per ingarbugliare la lettura storica di quel periodo. E’ noto, del resto, che per anni le case editrici sovietiche hanno impedito la pubblicazione di qualsiasi opera storico-letteraria (dagli scritti di Solzhenitsyn al racconto della Ginzburg) che riguardasse l’esistenza dei gulag o i processi della metà degli anni ’30 e che non fosse in linea con la versione ufficiale del Pcus. Tutti gli storici che hanno cercato di affrontare criticamente gli anni della collettivizzazione dell’agricoltura e dell’industrializzazione forzata, sono stati criticati e censurati. Se è pur vero che la storia del partito comunista, pubblicata in Urss in più volumi, alla fine degli anni ’60-primi anni ’70, denunciava chiaramente gli errori degli anni del culto, essa non comprendeva molte delle rivelazioni che erano contenute nello stesso rapporto segreto di Chruscev. E attorno alle pur insufficienti e parziali iniziative prese in tempi successivi e tese a superare la censura e a esprimere un giudizio obiettivo sulla eredità delle deviazioni staliniane, è intervenuta una preoccupante censura. Alla fine degli anni ’80, poi, una delle tendenze dei dirigenti sovietici è stata quella di addossare le responsabilità dell’accaduto ad altri dirigenti del Comintern, in particolare a membri della Sed e del Pc francese, cioè a Thalmann e a Thorez delle cui responsabilità non vi è alcun dubbio. Non ha destato meraviglia, infatti, che i dirigenti di questi 212


partiti abbiano chiesto a Zagladin di non far penetrare in pubblico “alcuna idea soggetta a discussioni” e di evitare “esagerazioni nel trattare questo o quel lato del passato”. Nel 1988 Roy Medvedev ha dichiarato: “L’odierna decisione sulle riabilitazioni delle vittime di Stalin manifesta al contempo due grosse carenze: il sistema giuridico sovietico resta totalmente subordinato alle decisioni del partito e poi appare chiara una grande arretratezza anche della nostra scienza storica. Suo compito era ed è quello di studiare scientificamente il corso degli eventi, l’analisi dei fatti e delle circostanze concrete. Nei fatti tutte le opere storiche (o la gran parte di esse) pubblicate in questo decennio hanno taciuto sugli avvenimenti reali. Si sono create ampie ‘macchie bianche’”. Fatto è che il culto di Stalin è sopravvissuto nel tempo. A fine marzo del 2006, nella città di Volgograd, già Stalingrado, è stato inaugurato un museo dedicato al dittatore. E mentre i negazionisti russi continuano a sostenere che egli non fu quel mostro di cui si ciancia, in un libro scolastico adottato nel 2008 (“Storia della Russia – 1900-1945) le purghe staliniane vengono definite una risposta “razionale” e necessaria per modernizzare la Russia. In conclusione, la sinistra nel suo complesso non ha ritenuto opportuno che Stalin e lo stalinismo fossero oggetto di un approfondimento analitico serio e adeguato; non ha voluto indagare a fondo e con obiettività su quel periodo storico e neppure sull’eredità che esso ha lasciato al movimento comunista. Invece di un ripensamento critico e autocritico, ha preferito assumere un atteggiamento ambiguo che ha significato oblio sul piano teorico e continuità su quello pratico. Condannare lo stalinismo avrebbe comportato una ricerca-analisi approfondita sulle cause che lo hanno generato e sui suoi tratti essenziali i quali non sono riducibili all’esercizio della violenza, ma investono l’organizzazione dell’economia, la struttura dello Stato, il ruolo egemone della burocrazia, la mancata distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), il carattere militaresco e ideologico del partito, l’imbracatura della società civile, la narcotizzazione della pubblica opinione. Nella storia del marxismo, lo stalinismo costituisce un paradosso. Mentre il marxismo è sorto come lotta contro il dominio dell’uomo sull’uomo, contro la reificazione e l’alienazione economica, politica e spirituale, contro tutti i feticismi che con la loro esistenza determinano la degradazione della persona umana, il socialismo di stampo staliniano ha mostrato disprezzo per la persona umana e si è identificato nell’affermazione dell’onnipotenza dello Stato e della burocrazia. Una riflessione approfondita su tutti questi aspetti non è stata compiuta e si è invece lasciato che a esprimere biasimo e a condannare i soprusi e le violenze fossero i “nemici”, coloro cioè che non sono affatto interessati a indagare i processi storici per trarne lezione, ma il cui intento è esclusivamente quello di dimostrare che il comunismo è stato un’impresa criminale; coloro i quali non fanno alcuna distinzione tra teoria marxiana, leninismo e stalinismo e che risolvono il problema attribuendo a Stalin una patologia mentale, una natura di paranoico e di carnefice. Le responsabilità della mancata riflessione sullo stalinismo sono dunque da imputare non solamente alla nomenklatura sovietica, ma anche alle dirigenze dei partiti comunisti e agli intellettuali di sinistra dell’Occidente. Non si possono, per esempio, giustificare le ostentazioni e le giravolte di un Paul Sartre il quale nel ’56-’57, in “Fantasma di Stalin”, ha sostenuto che il socialismo realizzato in Urss era l’unico possibile; e dopo aver visitato il Paese dei soviet, negli anni ’60-’70, ha dichiarato che in esso regnava il più alto grado di civiltà e di libertà mai raggiunto da una società moderna. Mentre poi, qualche anno dopo, ha cambiato idea e ha condannato in maniera perentoria l’Unione Sovietica definendola orrida “cosa del potere”, “macchina infernale da demolire e fracassare”. E’ il suo un atteggiamento di dubbia moralità politica e che mette in discussione l’uso speculativo che viene fatto della conoscenza e del sapere. Non meno giustificabili sono le ambiguità dei dirigenti dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, compresi quelli italiani, i quali hanno avuto parte nella direzione della 3a Internazionale e hanno conosciuto le vicende sovietiche da vicino. Togliatti, ad esempio, quando Chruscev ha condannato lo stalinismo, ha manifestato riserve e perplessità. A “Nuovi argomenti” ha rilasciato un’intervista nella quale ha puntualizzato: “Vi sono stati lunghi periodi di tempo in cui 213


la classe operaia, che aveva preso il potere con la rivoluzione, e il partito che la dirigeva, si trovarono di fronte a situazioni così gravi... che l’unità della direzione politica e dell’azione dovette essere mantenuta e fu mantenuta con mezzi eccezionali. Il grave errore commesso da Stalin fu di avere illecitamente esteso questo sistema (peggiorandolo, anzi, perché il rispetto della legalità rivoluzionaria era sempre stato richiesto nei primi tempi da Lenin) alle situazioni successive, quando non era più necessario e diventava quindi solo la base di un potere personale”. Come vedremo più avanti, il segretario del Pci non condivideva affatto la versione secondo cui tutte le malefatte denunciate da Chruscev sarebbero da attribuire esclusivamente a Stalin, ma nell’analisi dello stalinismo, almeno in quella circostanza, non andò oltre. E così è accaduto che anche il più grande e il più autonomo dei partiti comunisti dell’Occidente non si è dimostrato disponibile o non se l’è sentita di togliersi di dosso quell’ipoteca. Anche dopo la morte di Togliatti, e per tutto un periodo di tempo, le sue capacità critiche nei confronti dell’Urss sono apparse limitate, al punto che ancora nel maggio del ’67, sul bollettino “Propaganda” predisposto dalla direzione per i quadri del partito, si poteva leggere: “Non vi è dubbio che il sistema socialista ha creato le condizioni per una società ad un livello di civiltà e di moralità umana nettamente superiore a quelle capitalistiche”. Erano gli anni in cui il leader dell’ala destra del partito, Giorgio Amendola, ammetteva platealmente: “La critica allo stalinismo non può non essere, per noi che siamo stati staliniani convinti, prima di tutto una autocritica, ricordandoci di quelle che sono state la ‘nostre corresponsabilità’”. “E’ da respingere il tentativo di giustificare non solo gli errori compiuti nel periodo 1930-40, ma persino i tradimenti e i cedimenti, addossandone tutta la responsabilità a Stalin. Siamo stati tutti staliniani, ma non lo siamo stati tutti allo stesso modo”. “La direzione staliniana era pienamente accettata, non soltanto per una forzata disciplina interna all’I.C., imposta ai partiti comunisti col metodo di una ‘bolscevizzazione’ coatta, ma perché quella direzione era largamente compresa dalle grandi masse popolari italiane che guardavano alla Russia di Stalin, come ad un faro che illuminava la buia notte fascista…e il Pci vedeva crescere la sua influenza anche perché rappresentava in Italia l’Internazionale comunista... E quella durezza che chiamavamo giacobina, era da noi esaltata come espressione di forza rivoluzionaria, e orgogliosamente comparata alle capitolazioni socialdemocratiche di fronte al fascismo. Il terrore appariva come indispensabile strumento rivoluzionario”. “Tra i due momenti - unità antifascista e repressione (staliniana) - non appariva a molti di noi alcun contrasto, perché la repressione si presentava come terrore giacobino, condizione per una energica azione antifascista, di fronte al complotto fascista, alla catena delle provocazioni e dei tradimenti, e alla capitolazione delle democrazie... per cui i processi di Mosca non solo non ostacolavano lo sviluppo dell’unità antifascista, ma parevano determinare nelle grandi masse popolari una crescente fiducia nel vigore combattivo di Stalin”. A metà degli anni ’70, lo storico del partito, Paolo Spriano, su “l’Unità” esprimeva il seguente giudizio: “Lo stalinismo è una degenerazione, una deformazione, che di per sé non è né di destra né di sinistra… Accettammo come valida la tesi che gli errori e le violazioni della legalità socialista, denunciati dal XX e dal XXII congresso del Pcus, avevano trovato una loro giustificazione ideologica, un avallo insidioso, nella tesi, falsa, secondo la quale, via via che si procede vittoriosamente nella costruzione del socialismo, si inasprisce la lotta di classe e si acuisce la controffensiva, in particolare sul terreno terroristico, cospirativo, e di sabotaggio economico, della borghesia sconfitta”. Una riflessione autocritica questa che però non ha fatto fare al Pci, nel suo complesso, quel salto di qualità nel ripensamento storico necessario per aprire nuovi orizzonti nella strategia del cambiamento. Alla famosa doppiezza togliattiana, cioè a quella linea politica che ha consentito ai comunisti italiani di battersi per la democrazia e contemporaneamente di giustificare Stalin e i suoi successori, ha fatto seguito un processo di deideologizzazione che ha portato il partito a scadere nel pragmatismo istituzionale. L’assenza di una riflessione approfondita sulle esperienze compiute e la semplificazione della stessa teoria marxiana della rivoluzione non potevano che portare a un tale esito. Già all’indomani del XX congresso del Pcus occorreva impedire che il dogmatismo 214


continuasse a prevalere sulle potenzialità critiche e creative del marxismo, ma questa avvertenza non c’è stata. Non ci si è emancipati dallo stalinismo proprio perché non si è avuto il coraggio di mettere in discussione la concezione del socialismo che è stata alla base degli sconvolgimenti russi. Non è stata avvertita la necessità di riflettere criticamente sulla scelta del socialismo in un paese solo la quale, al tempo della sua adozione, non è stata affatto oggetto di una elaborazione collegiale e che ancora oggi rappresenta l’errore non criticato della storia del movimento comunista. E anche quando l’esperienza del socialismo realizzato si è dimostrata fallimentare, piuttosto che all’autocritica e all’innovazione teorica e politica, si è preferito ricusare la propria stessa matrice storica. Un aspetto eloquente della rinuncia a un’analisi in profondità dell’esperienza consumata dai sovietici è costituito dall’interpretazione che si è data, e che è ancora diffusa, secondo cui la base economica dell’Urss sarebbe da considerarsi socialista, mentre tale non sarebbe stata la sua sovrastruttura politica. Una simile spiegazione rappresenta un vero e proprio abbaglio, poiché dimostra l’incapacità di comprendere le vere cause del fallimento di quel sistema. Sta di fatto che una riflessione critica approfondita sulle esperienze storiche del socialismo realizzato resta ancora oggi da svolgere. Lo stalinismo, a me pare, è il prodotto di una catena molto complessa di processi storici. Sostenere come hanno fatto alcuni storiografi che esso “è alimentato di aspetti decisivi dell’azione e del pensiero politico bolscevico del tempo di Lenin organizzati in un insieme ideologico-politico” e che i suoi tratti distintivi sarebbero una “mentalità burocratica e gerarchica” sommata a “elitarismo e antiegualitarismo, efficientismo e statalismo”, significa prendere in considerazione un solo aspetto del problema e perciò rischiare di farne una caricatura. Se non si può negare che esso sia storicamente derivato dal pensiero e dall’azione di Lenin, non si può certo identificarlo tout court con la sua elaborazione teorica e con la sua pratica politica. Stalin ha compiuto scelte che Lenin non si sarebbe mai sognato di fare, per esempio, la collettivizzazione forzata delle campagne, la militarizzazione dell’economia, la statalizzazione totale, la burocratizzazione dello Stato, la demonizzazione del dissenso nel partito, l’irreggimentazione del popolo. Mai Lenin ha lasciato intendere di considerare il comunismo una religione politica e il partito una chiesa. Anzi, contro simili dogmatizzazioni egli si è battuto con tutte le sue forze fino all’ultimo. C’è stato poi anche chi si è acquietato la coscienza paragonando lo stalinismo al bonapartismo, considerandolo cioè una inevitabile dittatura post-rivoluzionaria. In pochi, in sostanza, hanno indagato e riflettuto sulle cause che lo hanno determinato e anche quando questo è stato fatto non sempre l’analisi si è dimostrata all’altezza delle aspettative. La modesta conoscenza che ho avuto la possibilità di acquisire in materia, mi porta a ritenere che dello stalinismo si sono amplificati alcuni aspetti e se ne sono trascurati altri. Quello relativo al culto della personalità è stato enfatizzato a dismisura, mentre si è prestata scarsa attenzione alle forme liturgiche più sofisticate che sono sopravissute nella prassi del movimento comunista dopo la morte di Stalin. E’ bene precisare che il culto della personalità non è affatto l’essenza, per di più esclusiva, dello stalinismo. Si rifletta su come sono andate le cose in Italia e in Germania negli anni ’20 e ’30 e come ogni autoritarismo abbia comportato l’adulazione del “capo”. In prima istanza, questa forma di culto è da interpretare come il prodotto di una fede riposta nell’azione dello Stato e nella sua assolutizzazione. Diversamente non si comprenderebbe il perché con la morte di Stalin esso non sia svanito, ma sia sopravvissuto confermandosi come tratto fondamentale del sistema sovietico. Ha detto bene Roy Medvedev: “Le strutture della società sovietica, l’esistenza di un partito unico e di una comune linea politica, la mancanza di fazioni, spingono inevitabilmente al rafforzamento di un solo leader”. Stalin, infatti, ha rappresentato per la stragrande maggioranza del popolo russo di quell’epoca una volontà pubblica giacobina, e nell’immaginario collettivo ha assunto la funzione di un superpadre saggio e inflessibile di cui il Paese aveva bisogno. Alla base di quel culto della personalità ci stavano i gravi problemi del sistema socialista e le sue 215


prospettive, aspetti che destavano diffusa inquietudine e reclamavano una risposta risoluta: la necessità di difendersi dalle minacce del “mondo libero”, la costruzione del socialismo in un paese isolato e accerchiato, la guerra. Non si deve mai dimenticare che per sopravvivere, il primo Stato socialista del mondo si è dovuto reggere per forza su un regime autoritario, diversamente non ce l’avrebbe fatta. Lo stesso contrasto permanente tra agricoltura e industria e le forzature compiute per garantire un loro sviluppo hanno prodotto tensioni sociali tali da non poter essere governate altrimenti se non con la forza. La coercizione dello stalinismo è dunque da ricercarsi non tanto e solo nell’assenza di scrupoli da parte del dittatore, ma prima ancora nella materialità dei processi. Nelle condizioni della Russia di quegli anni la stessa divinizzazione del “capo” è apparsa una necessità. Messo fuori gioco lo zar e in assenza di un rapido percorso di acculturazione e di socializzazione (del resto impraticabili, data l’estesa diffusione dell’analfabetismo e l’arretratezza dell’economia), la burocrazia ha avuto bisogno di un arbitro supremo, di un “primo console” per garantire stabilità al nuovo sistema. Ancora alla fine della seconda guerra mondiale, la popolazione non era neppure sfiorata dall’idea che si potesse influire sull’indirizzo della società, poiché il destino collettivo riposava esclusivamente sulla saggezza di Stalin, cioè di colui che continuava a essere considerato il “padre”, il “sole”, la “guida infallibile”. Egli è stato, di fatto, il rappresentante e il simbolo di una comunità che non ha mai posseduto, salvo che in una sua ristretta fascia, la capacità di riflessione critica. Egli si è così rivelato il prodotto di un convincimento di massa. Nella stragrande maggioranza gli storici hanno insistito, giustamente, sui danni materiali che la sua tirannia ha causato e solo in pochi hanno ragionato sui danni culturali e morali. Stalin ha di fatto fermato i cervelli, ha eliminato le teste migliori e ha promosso la mediocrità. Nel ’93, K.S.Karol, giornalista polacco, esule dalla guerra combattuta in Unione Sovietica, ha scritto: “Non ho mai incontrato (in Urss) dei comunisti nella nostra accezione del termine, cioè uomini e donne politicizzati e nutriti dalla complessa tradizione del movimento operaio internazionale”. E lo scrittore dissidente russo Viktor Erofeev, in tempi antecedenti l’avvento di Gorbacev, ha sostenuto che “ancora oggi, dentro ogni capo della Russia c’è un piccolo Stalin… l’anima russa per sua natura è stalinista”. Sono testimonianze e considerazioni queste che la dicono lunga sul clima sociale entro cui lo stalinismo si è affermato e ha dominato e ci aiutano a capire anche come sia stato possibile che la massima autorità politica sia diventata la massima autorità filosofica e scientifica. Stalin, d’altra parte, è anche l’autore di quel sistema che ha dato prova di essere in grado di dare scacco al capitalismo e all’imperialismo sul terreno dell’agire concreto. Anche per questo, agli occhi di molti, egli ha impersonato non solo la speranza ma la “nuova storia”. Forse non aveva torto Togliatti il quale, riferendosi all’influenza di Stalin sul mondo comunista, preferiva fare uso del concetto di “mito” piuttosto che di quello di “culto”. Il punto è che i comunisti sia dell’Est che dell’Ovest non si sono granché preoccupati di chiarire come mai il progetto marxiano di protagonismo sociale abbia potuto essere soppiantato da un nuovo Cesare e non si sono conseguentemente curati di prendere lezione da quell’esperienza storica per correggere strategia e tattica del movimento. La loro si è dimostrata una passività culturale, prima ancora che politica. Non hanno, infatti, saputo, o non hanno voluto, aprire gli occhi e reagire con la dovuta energia al fatto che quel sistema ha significato non solo terrore, ma anche mortificazione e distruzione dei quadri dirigenti e delle risorse umane. In quel tipo di società non c’era posto per uomini che lottavano contro l’alienazione e lo sfruttamento, contro le gerarchie e i soprusi del regime. Il suo tratto dominante era la deformazione dei rapporti sociali, della persona, della cultura in generale e della stessa teoria marxiana in particolare. La sua componente ideologica era fondata sul potere di sottoporre a revisione sia la storia che la teoria e l’identificazione automatica dei capi di partito con i teorici era la regola. Gli individui venivano educati alla menzogna e alla delazione e la verità era patrimonio esclusivo del partito. 216


Mi chiedo come, di fronte a simili aberrazioni, uomini che hanno fatto propria la teoria marxiana abbiano potuto stare zitti e fare finta che nulla di grave fosse accaduto. Come sia stato possibile che non si siano resi conto che la dittatura poliziesca imposta da Stalin, anziché risolvere i problemi, superare le contraddizioni e pacificare i conflitti, com’era nei propositi, li avrebbe aggravati e spinto la società sovietica verso una prospettiva fallimentare. Come sia possibile giustificare il loro silenzio di fronte alla persecuzione di molti comunisti ebrei che facevano parte di quasi tutti i partiti della 3a Internazionale. Le atrocità di quel regime e l’atteggiamento di omertà che in molti hanno avuto verso l’operato di Stalin, conferma la tesi dello storico sovietico Danil Granin secondo cui “fra certi aspetti del regime staliniano e il suo nemico più acerrimo, la Germania hitleriana, esiste una serie di somiglianze raccapriccianti”. Quando in seno al movimento comunista lo stalinismo si è esaurito per cause “naturali”, in esso si è aperto un vuoto che ha provocato una grave crisi d’identità. Questo è potuto succedere a causa dell’incapacità delle generazioni di comunisti di quel tempo di analizzare e interpretare i processi storici, di spingere in avanti l’elaborazione teorica e strategica e di individuare un percorso alternativo nella costruzione del socialismo. Si è trattato di insufficienze e di errori che non devono essere assolutamente ripetuti.

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Capitolo 7°

Gramsci e la rivoluzione in Occidente 7.1 – Una vita di stenti e sofferenze Antonio Gramsci nasce in Sardegna nel 1891. Il padre è un dipendente pubblico, mentre la madre provvede ad accudire i sette figli. A quattro anni il destino gli si accanisce contro: una malformazione ossea gli pregiudica una normale crescita corporea e gli rende cagionevole la salute. A lui viene fatto credere di essere caduto dalle braccia della domestica e di essere precipitato lungo una rampa di scale, in realtà egli è affetto del morbo di Pott, cioè di una forma di rachitismo endemica ed ereditaria, probabilmente non adeguatamente curata. A causa delle difficili condizioni economiche della famiglia (da ragazzo egli patisce anche la fame), è costretto a lavorare per due anni presso l’ufficio del catasto, contribuendo in questo modo a incrementare il bilancio familiare, e a studiare privatamente. “Ho incominciato a lavorare quando avevo undici anni – ricorderà in età adulta – guadagnando ben nove lire al mese (sufficienti per acquistare un chilo di pane) per dieci ore di lavoro al giorno compresa la mattina della domenica e me la passavo a smuovere registri che pesavano più di me e molte notti piangevo perché mi doleva tutto il corpo”. Già in giovane età, nel 1906, si schiera con i sardisti. Scriverà anni dopo a riguardo di questa sua scelta: ”Io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione. ‘A mare i continentali!’. Quante volte ho ripetuto queste parole”. Del resto, “il popolano dell’Alta Italia pensava che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno poneva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale... L’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.) assumendo la forza di verità scientifica”. A quel tempo si arriva infatti al punto di identificare tra Orgosolo, Orune e Bitti una “zona delinquente”, popolata da uomini – si dice – che hanno quasi succhiato col latte materno il bacillo della criminalità. E, purtroppo, tesi tanto aberranti vengono fatte proprie anche da scrittori socialisti ed è proprio da simili pregiudizi che trae alimento la rivendicazione sardista. Le ragioni di questo moto di protesta sono, del resto, diverse e per certi aspetti contraddittorie, avendo nulla in comune la disperazione del contadino affamato con i risentimenti e le pretese dei ceti conservatori dell’isola. In pochi, però, avvertono queste differenze e nessuno ne trae le dovute conseguenze. Si preferisce, anzi, sparare a zero sui governi, e in un clima di giacobinismo isolano succede che il risentimento occasionale dei retrivi e l’impeto di ribellione degli oppressi finiscono per confondersi. Sono le elezioni del 1913 a rivelare a Gramsci il carattere ambiguo della protesta sardista. Nel 1908 egli consegue la licenza ginnasiale a Oristano, dopo di che si iscrive al Liceo di Cagliari. Racconta di lui un compagno di scuola: “Non aveva libri o non li aveva tutti… A volte capitava che glieli prestassimo noi, o il professore”. Nel corso del suo soggiorno nel capoluogo sardo ai suoi genitori scrive: “Non vado a scuola perché non ho un vestito pulito da potermi mettere”. Più avanti negli anni ricorderà: “Per otto mesi mangiai una sola volta al giorno e giunsi alla fine del terzo anno di liceo in condizioni di denutrizione molto gravi”. A Marx si avvicina “per curiosità intellettuale” verso la fine del primo decennio del ‘900. Sono gli anni in cui da Torino si fa spedire gli opuscoli della stampa socialista la cui visione fa inorridire i suoi genitori, i quali giudicano queste pubblicazioni “letture sovversive”. Dopo la licenza liceale si trasferisce a Torino dove si iscrive alla facoltà di lettere. Ed è proprio nel capoluogo piemontese che, nel 1911, sposa gli ideali socialisti. Nel ’24 spiega a Giulia, sua futura moglie, come è diventato socialista, nel modo seguente: “Ho conosciuto la classe operaia di una 218


città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la lotta, per la classe operaia”. Nel capoluogo piemontese incontra Togliatti che di lui dirà: “Gramsci era venuto dalla Sardegna già socialista. Forse lo era più per istinto di ribellione del sardo e per l’umanitarismo del giovane intellettuale di provincia, che per il possesso di un sistema completo di pensiero… Io presi la tessera il ’14, Gramsci l’aveva già da prima”. E’ nel 1913 che Antonio si espone la prima volta pubblicamente, quando aderisce a una battaglia antiprotezionista sottoscrivendone le tesi. A causa del freddo e della denutrizione, a Torino si ammala gravemente. Al padre confessa, per lettera, di prendere l’oppio per lenire il dolore fisico e alla sorella Grazietta confida: “Non ho passato giorno senza il male di capo, senza una vertigine o un capogiro”. Nell’aprile del ’15, dà l’ultimo esame (letteratura italiana) e il suo “garzonato universitario” si conclude senza conseguire la laurea. Dopo alcuni mesi ha inizio la sua esperienza di “rivoluzionario professionale”. Nelle file del Psi subisce il fascino della predizione volontaristica di Benito Mussolini, non solo quando questi è direttore dell’“Avanti!”, ma anche quando si proclama interventista rivoluzionario. Questa sua presa di posizione verrà evocata polemicamente dai suoi stessi compagni negli anni successivi. Alla fine del ’15, viene assunto nella redazione torinese dello stesso quotidiano. Sono i tempi in cui il Partito socialista è profondamente diviso e nelle sue file convivono non solo l’anima riformista e quella massimalista, ma anche uno spirito corporativo e localista. Gramsci non aderisce a nessuna di queste fazioni, poiché ai suoi occhi la classe operaia si dimostra non favorevole alle scissioni e gli appare chiaro che tali divisioni finiscono per indebolire la forza del movimento stesso. La sua posizione nei confronti delle dirigenze del Psi è da subito critica e si manterrà tale fino alla scissione di Livorno. Nel ’18 su “Il grido del popolo” scrive: “Per la solita concezione dell’‘uovo di pidocchio’ furono trascurati i grandi problemi nazionali che interessano tutto il proletariato italiano”. E dopo il primo confronto politico col leader della sinistra socialista italiana, Giacinto Menotti Serrati, a un convegno a Firenze, afferma: “siamo rivoluzionari nell’azione mentre siamo riformisti nel pensiero (...) siamo dei temperamenti più che dei caratteri”. A suo avviso è “l’amore grammaticale per la rivoluzione” che impedisce alla teoria socialista di cogliere i segni dei tempi. Egli ripudia in maniera decisa il marxismo evoluzionistico e fatalistico della 2a Internazionale e critica il determinismo economico che è largamente diffuso nel Psi. Considera insopportabili i “filistei del socialismo” perché “blateratori” di virtù sotto il segno della pigrizia mentale, perché vedono “il futuro come solidità già sagomata” e credono “ai piani prestabiliti”. Individua nell’economicismo, nel socialismo positivistico, nel meccanicismo e nel materialismo cosiddetto volgare, le fonti del duplice opportunismo: quello riformista e quello massimalista. A suo giudizio, il marxismo della 2a Internazionale trasforma “la volontà reale in un atto di fede, in una certa razionalità della storia: ‘Io sono sconfitto momentaneamente, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare’”. Suo chiodo fisso è quello di combattere il materialismo codificato e dispensato dalla “chiesa ufficiale” e dal “papa rosso” Kautsky, il quale purtroppo condiziona tutto il marxismo europeo. E considera il bernsteinismo tutto movimento e niente fini. “L’elemento deterministico, fatalistico, meccanicistico – scriverà nei Quaderni del carcere – (è) stato un’arma ideologica immediata della filosofia della prassi, una forma di religione e di eccitante... resa necessaria e giustificata storicamente dal carattere subalterno di determinati strati sociali”. Nel marxismo della 2a Internazionale egli vede la radice di quello stesso errore di pensiero che ha portato i due gruppi antagonisti del socialismo italiano, i sindacalisti e i riformisti, a separare la politica dall’economia, l’ambiente dall’organismo sociale. E chiarisce: “Gli uni si cristallizzano nell’organizzazione professionale e per la stortura iniziale del loro pensiero fanno della cattiva politica e della pessima economia; gli altri si cristallizzano nell’esteriorità parlamentare, legiferatrice, e per la stessa ragione fanno della cattiva politica e della pessima economia”. 219


Si mostra preoccupato del fatto che il movimento operaio appare ancora lontano dalla lotta per il potere, avendo i filistei del socialismo ridotto la dottrina socialista a uno “strofinaccio del pensiero” e ritiene che per tale ragione è costretto a mantenere la propria coesione alimentandosi di una fede fatalistica che rimanda la vittoria a un lontano domani. Nel criticare la 2a Internazionale, intuisce con grande lucidità che il problema non è tanto e non solo quello di restaurare il marxismo come filosofia, quanto invece di fondare col marxismo “una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia”. All’indomani dell’assalto dei bolscevichi al Palazzo d’Inverno, tra i proletari di Torino si diffonde il proposito di “fare come in Russia”. A parere di Gramsci, Lenin ha bruciato tutte le tappe di un’azione rivoluzionaria mostrando i limiti dello stesso pensiero di Marx. Nel gennaio 1918, sul “Grido del Popolo” scrive un articolo dal titolo “La rivoluzione contro il Capitale di Karl Marx” nel quale afferma: “La rivoluzione dei bolscevichi è materia di ideologie più che di fatti… Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx: Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari…I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano, con la testimonianza della azione esplicita, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato. Eppure c’è una fatalità anche in questi avvenimenti, e se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono ‘marxisti’, ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore, di affermazioni dogmatiche indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico, del pensiero italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato da incrostazioni positivistiche e naturalistiche”. E successivamente puntualizza: “Incomincia la storia, la storia vera. Ognuno vuol essere padrone del proprio destino, si vuole che la società sia plasmata in ubbidienza allo spirito, e non viceversa. L’organizzazione della convivenza civile deve essere espressione di umanità, deve rispettare tutte le autonomie, tutte le libertà. Incomincia la nuova storia della società umana, incominciano le esperienze nuove della storia dello spirito umano”. Sono considerazioni le sue che, da un lato, testimoniano l’esistenza in lui, a quell’epoca, di una visione utopistica, ingenua dell’ottobre rosso; dall’altro, evidenziano la sua carica critica nei confronti dell’interpretazione deterministico-meccanica, evolutiva del marxismo da parte della 2a Internazionale. Egli tende cioè ad esaltare la funzione del soggetto rivoluzionario, “la tenace volontà dell’uomo” che interviene sul processo storico e il fattore soggettivo viene da lui concepito come fondamento della prassi. I vecchi leader della ormai disfatta 2a Internazionale avevano infatti assunto il marxismo attraverso una visione positivista che negava, di fatto, ogni azione volontaria degli uomini per modificare il lento scorrere del tempo, e secondo questa loro concezione la rivoluzione socialista non avrebbe potuto compiersi se non in quelle società dove il capitalismo aveva raggiunto il suo massimo stadio di sviluppo. Questo suo intervento, in sostanza, è da considerarsi un atto di elogio della volontà umana contro l’inerzia del determinismo riformistico. Per altro, evidenzia sia una relativa conoscenza da parte sua dei testi di Marx, sia l’influenza che la vulgata del marxismo di quel tempo ha su di lui stesso, anche se il suo rifiuto del determinismo economicistico, come abbiamo visto, è netto. Nella rivoluzione d’ottobre egli ripone molte speranze e rimprovera coloro i quali ne sottovalutano le potenzialità sottolineando che “molti non riescono a calcolare quale mutamento storico sia avvenuto in Europa nel ‘17 e quale libertà abbiano conquistato i popoli occidentali”. A differenza dei più, però, egli affida il primato del sovvertimento del potere non già al partito, ma al movimento di massa, sostenendo che “l’essenziale fatto della rivoluzione russa è l’instaurazione di un nuovo tipo di Stato: lo Stato dei consigli”.

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E se con l’articolo “La rivoluzione contro il ‘Capitale’” ha valorizzato al massimo la specificità giacobina di quell’evento, successivamente percepisce, come nessun altro, lo scacco della rivoluzione russa nel suo rinchiudersi nei confini di Oriente, cioè nella sua inespansività, nella sua parzialità storico-politica e il suo sforzo è e sarà appunto quello di costruire in solitudine un oggetto nuovo di riflessione che lo opporrà a tutto il pensiero del comunismo storicamente determinato. Presagirà assai presto che la rivoluzione d’ottobre è destinata a produrre “il collettivismo della miseria, della sofferenza”. Come vedremo più avanti, egli sarà uno dei principali protagonisti del “biennio rosso” e sposerà fino in fondo la causa dei consigli di fabbrica, proprio nello spirito di esaltare il ruolo dei soviet. Contro la vecchia generazione dei socialisti italiani, egli difende la lotta dei giovani rivoluzionari e seppure non condivida il disegno scissionistico dell’ala comunista (prova ne è la sua avversione alle posizioni espresse dal consiglio di fabbrica della Fiat-Centro, dominato dai bordighiani), aderisce a questa corrente insieme a Bordiga, Togliatti, Terracini e Tasca, e partecipa ai vari incontri che precedono la costituzione del partito comunista. Gramsci è pienamente consapevole che la nuova formazione sorge da una sconfitta della classe operaia in un contesto di crisi di tutte le formazioni politiche dello Stato liberale. Non a caso scriverà: “La scissione di Livorno (il distacco della maggioranza del proletariato italiano dall’Internazionale comunista) è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione”. “Fummo – bisogna dirlo – travolti dagli avvenimenti; fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana”. Di fronte all’insorgenza del fascismo egli non ha alcuna esitazione a ingaggiare lo scontro con esso e appoggia la formazione degli “Arditi del popolo” nonostante che il neonato partito la sconfessi. E’ uno dei pochi che non si illude del carattere transitorio del regime mussoliniano e che si sforza di analizzare le cause del suo successo e la sua natura politico-sociale. Paradossalmente, all’inizio degli anni ’20, uno dei suoi fratelli, Mario, diventa primo segretario federale fascista di Varese. All’indomani della crisi Matteotti, nel ’24, egli sostiene che il fascismo è giunto al potere sfruttando e organizzando “l’incoscienza e la pecoraggine della piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia” e che “il fatto caratteristico consiste nell’essere riuscito a costruire un’organizzazione di massa della piccola borghesia. E’ la prima volta nella storia che ciò si verifica. L’originalità del fascismo consiste nell’aver trovato la forma adeguata di organizzazione per una classe sociale che è sempre stata incapace di avere una compagine e una ideologia unitaria”. Lo considera un intreccio di “sovversivismo dall’alto” e di “sovversivismo dal basso”. Il primo è il “sovversivismo mussoliniano”, del “capo della reazione italiana”, un misto “di illogico, di goffo, di grottesco”; il secondo è il sovversivismo delle fasce più degradate del sottoproletariato urbano che, in tempi di crisi, confluisce nella “malavita professionale e fluttuante”, quello degli strati dei “morti di fame”, il fascismo popolaresco “rivoluzionario”. Il colpo di Stato fascista, a suo giudizio, ha sovvertito e rovesciato quel tanto di ordine legale, quel tanto di “dominio delle leggi” (presente nei Paesi occidentali come Francia e Gran Bretagna) che in Italia si è venuto costituendo, sia pure con difficoltà, dopo la formazione dello Stato unitario. A un certo punto però, nonostante questo suo rigore d’analisi, constatando che il regime non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, non ha appagato nessuna speranza, non ha lenito nessuna miseria, s’illude incautamente di una sua prossima sconfitta: “Le classi medie che avevano riposto nel regime fascista tutte le loro speranze sono state travolte dalla crisi generale”, perciò il fascismo – sostiene – è condannato alla fine. “E’ sorretto ancora dalle forze cosiddette fiancheggiatrici… ma non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo… Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori… è un fenomeno di folklore paesano”. Mentre fino al ’26 considera il fascismo un fenomeno transitorio, quando è in carcere, coglie i suoi aspetti di solidità e comprende che non si tratta di un fatto congiunturale, né di una semplice controrivoluzione armata. E scrive: “Questa tendenza (il fascismo, appunto) è la espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo 221


nazionale gli elementi per la soluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l’espansione italiana ma nella quale in realtà l’Italia fascista sarà uno strumento nella mani di uno dei gruppi imperiali che si contendono il dominio del mondo”. Consapevole della complessità del fenomeno e delle difficoltà di farvi fronte, si distingue ancora una volta dai suoi compagni considerando errata l’idea secondo cui si sarebbe in presenza di una situazione rivoluzionaria e perciò propone come alternativa immediata la soluzione democraticoborghese, cioè la costituzione di un fronte unitario delle forze antifasciste. Nel ’21, la sua figura come dirigente politico è già affermata, eppure dagli ambienti dell’Internazionale viene considerato non ancora in grado di stare alla testa del partito. Indicativo a questo riguardo è il giudizio che su di lui esprime Degott: “Gramsci, molto più profondo degli altri compagni, analizza giustamente la situazione. Comprende con acutezza la rivoluzione russa. Ma, esteriormente, non può influire sulle masse. Per prima cosa, non è un oratore; in seconda linea è giovane, di piccola statura e gobbo, il che ha un significato per gli uditori”. Nonostante questi pregiudizi, nel ’22 viene designato a rappresentare il Pcd’I nell’Esecutivo dell’Internazionale e inviato a Mosca dove vi rimane sino alla fine del ’23. Qui però si ammala e viene ricoverato per qualche tempo nel sanatorio di Serebriani Bor, dove è degente Eugenia Schucht, sorella di Giulia, che qualche tempo dopo diventerà sua moglie. Questo avvenimento lo riempirà di immensa felicità. Si pensi che un anno prima aveva confidato: “Sono da molti anni abituato a pensare che esiste una impossibilità assoluta, quasi fatale, a che io possa essere amato”. Nel dicembre del ’23, dopo essersi ristabilito, viene spostato a Vienna con il compito di seguire da vicino la difficile situazione del partito in Italia e di mantenere i collegamenti con gli altri partiti europei. Da Vienna, nel ’24, scrive: “Lo spettacolo quotidiano che ho avuto in Russia di un popolo che crea una nuova vita, nuovi costumi, nuovi rapporti, nuovi modi di pensare e di porsi nuovi problemi, mi fa oggi essere più ottimista sul nostro paese e sul suo avvenire”. Nel maggio dello stesso anno abbandona la capitale austriaca e rientra in Italia dopo essere stato eletto deputato in un collegio del Veneto. Durante il suo soggiorno in Urss, a contatto con l’esperienza bolscevica, si è convinto della necessità di rompere con la direzione bordighiana del partito caratterizzata da un massimalismo intransigente. Amadeo Bordiga, segretario del Pcd’I, è uomo non disponibile ai compromessi e si muove in maniera autonoma rispetto alle direttive dell’Internazionale; egli si è schierato contro la bolscevizzazione, avversa in maniera intransigente il Psi e persegue l’obiettivo di un partito “puro”. Al potere delle strutture decentrate egli antepone il potere centrale. Dice di lui Gramsci: “E’ una personalità troppo vigorosa ed ha una così profonda persuasione di essere nel vero, che pensare di irretirlo con un compromesso è assurdo”. Mentre, anni dopo, Togliatti così lo descrive: “Egli non partiva… dalla classe operaia, di cui il Partito comunista è una parte, dall’esame delle situazioni reali in cui essa si trova e si muove e dalla determinazione, quindi degli obiettivi concreti che ad ogni situazione corrispondono. Partiva da principi astratti, derivati con un processo intellettualistico, e che dovevano essere buoni per tutti i tempi e tutte le situazioni. Posto il fine ultimo della conquista del potere, scompariva la varietà delle posizioni intermedie e del loro nesso dialettico, era negato il valore del movimento politico democratico e dell’avanzata sul terreno della democrazia, le contrapposizioni di classe si traducevano in contrapposizioni politiche rigide e schematiche, gli avversari diventavano tutti uguali, né era più possibile alcuna conquista di alleati, la forma e la parola prevalevano sulla sostanza, la coerenza diventava testardaggine, l’azione del Partito non poteva avere più alcun respiro, riducendosi a pura esercitazione propagandistica e polemica”. A Bordiga, infatti, viene rimproverata un’interpretazione meccanicistica del materialismo marxista secondo cui la crisi finale del capitalismo sarebbe inevitabile, e il partito dovrebbe prepararsi ad attendere e guidare la rivoluzione. A suo giudizio, sino a quel momento il partito sarebbe chiamato 222


a vigilare mantenendo la propria purezza rivoluzionaria, senza inquinarla in alleanze e compromessi. La sua spinta alla chiusura settaria, piuttosto che alle vaste azioni politiche e di massa necessarie per arrestare e sconfiggere il fascismo, era peraltro condivisa dalla maggioranza dei dirigenti, non esclusi gli stessi Togliatti e Terracini. Negli anni del dopoguerra, infatti, Togliatti ammetterà di aver avallato le posizioni dell’allora leader del partito che in ogni modo ha avuto il merito di essere il primo comunista italiano a capire il pericolo dell’involuzione del regime sovietico, il primo a denunciare apertamente l’ingerenza del partito russo nelle vicende degli altri partiti comunisti, il primo a dichiarare che il problema della Russia consisteva nel suo assetto economico. Era poi convinzione di Bordiga che il diritto concesso dalla classe proprietaria agli sfruttati di deporre ogni tanto una scheda nell’urna, non solo non avrebbe favorito l’avanzata dei lavoratori, ma ne avrebbe smorzato lo slancio rivoluzionario. Quando di fronte allo scatenarsi della reazione in Italia e in Europa, Lenin avverte la necessità di realizzare in ogni paese il fronte unico dei partiti proletari, Gramsci si fa immediatamente sostenitore di questa linea, mentre Bordiga la avversa con la sua consueta determinazione. Nell’agosto del ’25, in una lettera polemica, Gramsci scrive a Bordiga: “A proposito di moralità dobbiamo farti osservare che, se ce ne infischiamo della moralità borghese e di tutti i suoi pregiudizi, per noi esiste una moralità comunista, un’etica di partito alla quale un comunista non può e non deve venir meno…. Un capo è responsabile anche della interpretazione che dei suoi atti e delle sue parole danno i suoi seguaci”. E’ la rottura politica fra i due. Gramsci giustificherà così quell’evento: “Dovevamo cioè, come era indispensabile e storicamente necessario, separarci non solo dal riformismo, ma anche dal massimalismo che in realtà rappresentava e rappresenta l’opportunismo tipico italiano nel movimento operaio”. E’ da ricordare che tra Gramsci e Bordiga vi è comunque sempre stato un rapporto di profonda amicizia che ha travalicato il contrasto politico. I due condividono insieme, tra il ’26 e il ’27, il confino a Ustica vivendo nella stessa casa. A renderli amici è presumibilmente, oltre al reciproco rispetto e all’antica amicizia, la comune avversione a Stalin, sia pure originata da motivazioni diverse. Sta di fatto che Bordiga viene messo in minoranza e a sostituirlo alla guida del partito è proprio Gramsci, il quale si batte contro la sua scolastica e la sua tendenza a semplificare l’analisi sociale e politica, e pure contro la sua idea di un partito dal carattere militare. Il primo leader comunista viene cacciato dal Pcd’I nel 1930 con l’accusa di trotzkismo, etichetta di comodo per tacciare di tradimento i dissenzienti. In realtà Bordiga non si è mai associato a Trotzkij. Lottando contro le sue posizioni settarie, Gramsci conquista a sé faticosamente, ma gradatamente, la maggioranza del Comitato centrale e del partito e nell’agosto del ’24, dopo il suo rientro da Vienna, viene eletto segretario generale. Per i dirigenti dell’Internazionale egli è considerato l’effettivo leader del partito già a partire dal ’23. Assunta la responsabilità di “capo” del partito, tra l’autunno del ’25 e l’inizio del ’26, egli prepara il 3° congresso, quello che si svolge a Lione, in Francia. Le tesi congressuali da lui elaborate costituiscono un documento storico, giacché determinano una svolta di prospettiva strategica del Pcd’I, anche se risentono ancora della polemica dei tempi con la socialdemocrazia. Cardini di queste tesi sono la fuoriuscita dal minoritarismo, l’alleanza della classe operaia con il mondo contadino quale forza motrice della rivoluzione, la proclamazione dell’egemonia del proletariato nella lotta antifascista e la strutturazione del partito in cellule. In esse vi è contenuta un’analisi approfondita della formazione dello Stato unitario e del fascismo che viene considerato soggetto decisivo della stabilizzazione del capitalismo italiano. Al congresso, che si svolge nel gennaio del ’26, partecipano delegati di tutta Italia i quali rappresentano l’81% degli iscritti. Le tesi presentate da Gramsci, e fatte proprie dalla maggioranza del comitato centrale, vengono approvate con il 90,8% dei voti congressuali, mentre la sinistra di Bordiga raccoglie il restante 9,2%. Lo stesso Gramsci viene riconfermato segretario generale. 223


Nel novembre del ’26, però, egli viene arrestato e sottoposto ad estenuanti “traduzioni”: dal confino di Ustica è trasferito alle carceri di Milano, poi di Sulmona, di Ancona e di Bologna. Dopo una prima condanna a cinque anni di confino, nel corso del “processone”, celebrato davanti al tribunale speciale nel maggio-giugno ’28, viene condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione e destinato al carcere di Turi, in provincia di Bari. Quando sta per essere emessa la sentenza di condanna, egli si rivolge alla mamma con queste parole: “Carissima mamma… La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini”. In carcere viene colpito da tubercolosi e pure dal “fuoco di S. Antonio” ed è costantemente tormentato dai dolori e dall’insonnia. Soprattutto, però, egli soffre la forzata condizione di isolamento sia dalla vita politica che dagli affetti familiari. In una lettera indirizzata alla moglie, nei primi anni ’30, ma mai spedita, scrive: “Mi pare che se dovessi ora uscire di carcere, non saprei più orientarmi nel vasto mondo, non saprei più inserirmi in nessuna corrente sentimentale, ma continuerei a vivere col solo cervello e con la sola volontà, vedendo in tutti gli uomini (anche in quelli che dovrebbero essermi vicini) non degli esseri viventi ma dei problemi da risolvere. Io non voglio pretendere che la ragione di questo mio imbozzolamento sia da ricercare solo fuori di me, il fatto è che da me stesso non so superare questa condizione che in un solo modo, rifugiandomi nel puro dominio dell’intelletto astratto, facendo cioè del mio isolamento la esclusiva forma della mia esistenza. Non ho voluto più oltre tenerti celato questo aspetto della mia vita”. Qualche tempo dopo scrive alla cognata Tania e definisce la propria esistenza “un grande errore, un dirizzone”. In carcere gli viene lesinata persino la carta su cui scrivere. Eppure, nonostante viva in stato di segregazione, dopo aver ottenuto il permesso, nel febbraio del ’29 incomincia a scrivere i “Quaderni”. A causa della rigorosa censura è costretto a parlare cifrato: nei suoi scritti, infatti, il marxismo diventa “filosofia della praxis”, le classi vengono definite “gruppi sociali”, Stalin viene chiamato “Giuseppe Bessarione”. I suoi “Quaderni” sono un cantiere aperto. Si tratta di 32 fascicoli dal contenuto contraddistinto da frammentarietà, ma tenuto insieme da un’idea centrale, di fondo: essi intendono rispondere alla domanda “perché siamo stati sconfitti?”. Vi è in lui l’idea che il movimento operaio abbia fallito anche per incoscienza della propria condizione. Egli si chiede: “Perché i partiti proletari italiani sono sempre stati deboli dal punto di vista rivoluzionario? Perché hanno fallito quando dovevano passare dalle parole all’azione? Essi non conoscevano la situazione in cui dovevano operare, essi non conoscevano il terreno in cui avrebbero dovuto dare battaglia”. A suo giudizio il marxismo, per la classe operaia, è stato uno strumento soprattutto di propaganda, non già di conoscenza e d’azione. Al suo operare è cioè mancato lo “gnosce quod immutabis” = conosci quel che muterai o devi piuttosto mutare (tu stesso). Nell’ottobre del ’33, in condizioni di salute disperate, ottiene il trasferimento dal carcere a una clinica di Formia, dove peraltro non gli è garantita un’adeguata assistenza specialistica, ma in compenso è costantemente piantonato da un carabiniere. Gramsci viene formalmente scarcerato il 29 ottobre del ’34, però non viene lasciato libero di andare in una clinica specializzata per avere assicurate quelle cure specialistiche appropriate di cui ha bisogno. Ha il permesso di lasciare Formia solo nell’agosto del ’35, quando finalmente si trasferisce alla clinica “Quisisana” di Roma. Non solo le sue condizioni fisiche sono decisamente peggiorate, ma anche il suo stato psichico è messo a dura prova. Così scrive a sua moglie Giulia che, con i due figli, vive in Urss e soffre di depressione: “Cara Giulia, io ti ho aspettata sempre e tu sei stata sempre uno degli elementi essenziali della mia vita, anche quando non avevo nessuna notizia precisa tua o ricevevo da te lettere rare e senza sostanza vitale e anche quando io non ti scrivevo perché non sapevo che cosa scriverti, come scriverti, perché mi pareva che tu non volessi darmi nessun punto di presa e di contatto“. Tranne che mantenere un rapporto con la cognata Tatiana il suo isolamento è totale.

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Nonostante i terribili patimenti, egli si è sempre rifiutato di chiedere la grazia o di poter godere dell’amnistia o del condono. Dopo aver lottato stoicamente contro molti mali (morbo di Pott, tbc polmonare, ipertensione, angina pectoris, gotta, ecc.) muore alle ore 4 e 10 minuti del 27 aprile 1937 per emorragia cerebrale, esattamente due giorni dopo la fine del periodo di libertà condizionale che lo avrebbe posto in condizioni, almeno in teoria, di piena libertà. La sua esistenza finisce così nella solitudine, nel buio, nella mancanza di speranze tangibili. A seguire il feretro, al suo funerale, è una sola carrozza sulla quale ci sono la cognata Tatiana e il fratello Carlo. E’ da sottolineare che Gramsci ha sperimentato su se stesso, sulla sua carne viva e sofferente ciò che ha scritto e ciò che i suoi testi ci tramandano. Di sé ha detto: “Non voglio essere compianto, ero un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata, e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perché costretti, ma perché così hanno essi stessi voluto consapevolmente”. Egli è stato un politico dalla dirittura morale ferrea. Non perdonò mai a suo padre, per fare un esempio, la cocente umiliazione nel saperlo condannato e imprigionato, nel 1898, con l’accusa di peculato e concussione. Nonostante fosse chiaro che quella detenzione è stata frutto della pressione esercitata sulla magistratura dai suoi avversari politici (egli aveva sostenuto un candidato alle elezioni che non è stato eletto e proprio per questo è stato perseguitato). Tanto è che alla fine è stato reintegrato nel suo ruolo professionale, seppure a livello più basso. Ma questo è uno degli aspetti che oggi sembra abbiano perduto di valore. Così come sembra essere dispersa la conoscenza del prezioso patrimonio culturale e politico che egli ha lasciato non solo a noi comunisti, ma all’umanità intera, essendo il suo lascito di valore universale. Del resto, non ha mai fatto scandalo il fatto che Antonio Gramsci sia apparso per la prima volta in tv, cioè la sua esistenza sia stata segnalata dalla Radio televisione italiana, solo nel 1967 (nella rubrica settimanale “Almanacco”), ben trenta anni dopo la sua morte, e che per altri 12 anni sia stato completamente ignorato. Appare evidente e incontestabile che politici come lui, a chi detiene il potere, fanno paura non solo da vivi ma anche da morti. 7.2 – Un comunista “eretico solitario” Antonio Gramsci fa parte di quella esigua minoranza di dirigenti comunisti che non si sono lasciati assoggettare dallo stalinismo, ma hanno continuato a pensare e ad agire col proprio cervello. Egli, infatti, ha messo in discussione alla radice non solo il marxismo della 2a, ma anche quello della 3° Internazionale, pur senza mai rinnegare la sua appartenenza al movimento comunista, anzi dedicando alla causa l’intera sua esistenza. Come abbiamo visto, egli esalta l’operato dei bolscevichi e appoggia e difende con entusiasmo la loro impresa, poiché la considera una conquista di libertà per le masse e per i singoli individui, e la identifica con la realizzazione della democrazia reale e con la costruzione di una società fondata su nuovi principi e costumi. E’ proprio per questa ragione che egli insiste molto sui soviet, ritenuti istituti cardine di un nuovo modello di società, e questa sua visione del processo rivoluzionario è insieme teorica, politica, economico-sociale e morale. In questa ottica, trova giustificazione la sua adesione alla politica, prospettata da Lenin ed esaltata e praticata da Stalin, del “socialismo in un paese solo”. Egli l’ha considera una scelta obbligata, imposta dal determinarsi di una nuova fase storica, quella che ha definito con il termine “guerra di posizione”. Se è pur vero che nel ’19, la redazione de “L’Ordine Nuovo” viene finanziata da Mosca, poiché con i proventi delle vendite del giornale è possibile coprire non più di un quinto dei costi per la carta e per la stampa (e ciò potrebbe indurre a pensare che egli si disponga compiacente con il Pcus per ragioni d’interesse), a motivare questa sua posizione non è certo un tale condizionamento, bensì il 225


convincimento che l’ottobre rosso ha determinato le condizioni per la costruzione, non solo in Russia, di una nuova civiltà. Tanto è che ancora anni dopo, quando rinchiuso nelle carceri fasciste il suo rapporto con la dirigenza dell’Urss modifica diventando più riflessivo e problematico, egli parla bene non solo di Lenin, ma anche di tutti i bolscevichi e degli intellettuali russi definendoli “una élite di persone tra le più attive, energiche, intraprendenti e disciplinate”, encomiabilmente impegnate nell’edificazione del socialismo. Col passare del tempo e con il prendere corpo dell’esperimento sovietico, però, egli matura gradatamente un atteggiamento critico verso quell’esperienza, in particolare, verso i gruppi dirigenti del Pcus e dell’Internazionale, pur non abbandonando mai il convincimento che la rivoluzione d’ottobre rappresenta per la causa del movimento operaio internazionale un ruolo decisivo. All’inizio degli anni ‘20, pur non condividendo la linea di opposizione praticata da Bordiga, si schiera senza esitazione contro le semplificazioni organizzative suggerite dal Comintern, contro l’ipotesi di “fusionismo” tra Pcd’I e Psi. E nel ’26 esprime in maniera inequivocabile e formale il suo dissenso verso le dirigenze del Pcus manifestando, tramite una lettera indirizzata al comitato centrale, le sue preoccupazioni per i metodi con cui Stalin e Bucharin conducono la lotta contro gli oppositori Trotzkij, Zinov’ev e Kamenev. In maniera solenne egli condanna le lotte intestine al partito e le conseguenti scomuniche. A nome dell’ufficio politico del Pcd’I, rimprovera gli organi esecutivi del Pcus di distruggere la loro stessa opera, di degradare politicamente e di correre il rischio di annullare la funzione dirigente che lo stesso partito ha conseguito. La sua lettera-denuncia viene intercettata da Togliatti, in quel momento rappresentante a Mosca del Pcd’I, il quale decide di non inoltrarla alla direzione del partito russo e fa sapere a Gramsci che l’unità del gruppo dirigente bolscevico è già andata perduta. Gli contesta la posizione assunta giudicandola “troppo astratta e troppo schematica” e considera il suo ragionamento “viziato di burocratismo”. Nei decenni successivi si scoprirà che il mancato inoltro di quella lettera-denuncia alla dirigenza del Pcus è stato considerato una scelta opportuna dallo stesso ufficio politico del Pcd’I e questo sta a significare che quella “rottura” politica non ha alterato solo ed esclusivamente i rapporti tra Gramsci e Togliatti, ma anche quelli tra il gruppo dirigente e il segretario del partito. A partire da quel momento ha inizio il suo dramma di capo emarginato. E c’è motivo di credere che proprio in quella circostanza egli abbia intuito l’inesorabile venire meno della stessa spinta politica della rivoluzione d’ottobre. Due anni dopo, in carcere, critica la collettivizzazione accelerata delle campagne e si oppone alla tesi del “socialfascismo”. In contrapposizione alle direttive di Stalin e all’atteggiamento servile della stragrande maggioranza dei dirigenti e militanti comunisti, egli interpreta la linea del “blocco storico” come la costruzione di uno schieramento unitario da opporre al fascismo e il cui obiettivo deve essere quello dell’Assemblea costituente di tutte le forze popolari democratiche. Denuncia poi come pericoli per il futuro dell’Urss la degenerazione dell’industrialismo accelerato, la burocratizzazione e la inaudita concentrazione di potere nello Stato definendolo “Stato di funzionari”. Lamenta che in Russia il marxismo ha assunto forme “rozze” e “superstiziose”, che il socialismo è stato trasformato in religione di Stato e che la rivoluzione viene fatta “dall’alto”. Così come ha condannato il “terrore” giacobino, condanna quello bolscevico e di fronte alla passività delle masse parla di “bonapartismo”. Prende le distanze da un modo di agire burocratico e opportunista e soprattutto esprime una concezione del centralismo democratico opposta a quella interpretata da Stalin e dal gruppo dirigente dell’Internazionale. Contesta con violenza anche la “casta sacerdotale” presente nel partito russo. Giudica la disciplina di ferro imposta da Stalin non un segno di forza, ma una manifestazione di debolezza. Il suo dissenso è già chiaro alla fine degli anni ’20, ma diventa radicale negli anni ’30, quando si rende conto che nell’Internazionale e in Urss prevalgono scelte che smentiscono gli obiettivi originari. In carcere ha modo di riflettere a fondo sul come la realtà non corrisponde alle sue aspirazioni e aspettative e avverte che il socialismo che si sta costruendo non è affatto frutto di una volontà collettiva determinata dalla dialettica. Alle pratiche dello scontro duro e frontale e

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dell’eliminazione dei dissidenti, egli contrappone una concezione della realizzazione del socialismo che non esclude il passaggio attraverso la democrazia borghese. Nel Pcd’I si è cercato di velare, almeno fino a quando è stato possibile, il suo dissenso nei confronti di Stalin e della politica dell’Internazionale, mentre negli ambienti russi e tedeschi c’è stato chi ha voluto farlo apparire agli occhi di tutto il mondo filotrotzkista. In realtà, egli ha nutrito per Trotskij rispetto, ammirazione e stima, poiché lo ha considerato un grande capo rivoluzionario, ma al di là di questo atteggiamento non c’è mai stata occasione in cui abbia sposato le sue tesi, anzi. Nella lotta apertasi nel gruppo dirigente bolscevico, egli si è schierato con la maggioranza, contro Trotzkij. Si è pronunciato poi contro la sua idea circa il carattere primario che dovrebbe essere attribuito all’industrializzazione accelerata (che lui giudica di tipo americano) considerandola un pericolo per la stessa pianificazione economica. E se è pur vero che nell’analizzare la politica di Stalin egli impiega anche argomenti e categorie che sono tipici di Trotzkij, nei suoi scritti del carcere, critica a fondo il concetto lanciato da Marx nel ‘48-‘49 di “rivoluzione permanente” che viene poi ripreso ed elaborato, nel 1905, dal gruppo “ParvusBronstein”, cioè da Trotzkij. Egli giudica disastrosa questa concezione del processo rivoluzionario, perché presuppone la guerra manovrata in un’epoca in cui, a suo avviso, è necessario condurre una guerra di posizione. E ancora si contrappone a Trotzkij quando lo accusa di avere un pregiudizio funesto, quello cioè di teorizzare e sperimentare i fallimentari eserciti del lavoro. Torna semmai giusto interrogarsi sul perché nei Quaderni egli critichi Trotzkij e non invece esplicitamente Stalin, i cui richiami sono di carattere positivo essendo da lui ricordato semplicemente come allievo di Lenin. E’ in ogni modo fuor di dubbio che Gramsci rappresenta una variante tattica all’apparato dottrinario dell’ortodossia terzinternazionalista. A poco a poco egli si ritrova in polemica sostanziale con tutti i massimi protagonisti della vicenda teorica e politica che segnano il corso del movimento operaio (socialista e comunista) del suo tempo. In carcere appare come un dirigente comunista che si sente solo e politicamente sconfitto, come sottolinea lui stesso, “un’isola nell’isola” nel suo stesso movimento. Dagli agenti della polizia segreta sovietica egli viene sorvegliato persino negli affetti più cari: la Gpu, tramite la sorella maggiore Genia, esercita su sua moglie Julca pressioni tali da indurlo a proporle persino lo scioglimento del rapporto coniugale. Nell’autunno del ’32, infatti, egli invita la cognata Tania a chiedere alla moglie il consenso di separarsi, affinché essa “possa ancora crearsi liberamente una nuova fase di vita”, intendendo così liberarla dai vincoli matrimoniali con un comunista ritenuto in odore di dissenso e perseguitato. Molto probabilmente, a salvare Gramsci dalle condanne del Comintern concorre paradossalmente il suo stato carcerario. E il fatto che egli abbia potuto essere conosciuto pienamente in Urss solo dopo l’implosione del socialismo reale, è segno che fino all’ultimo è stato considerato da quel sistema come un soggetto pericoloso. Ma a non tollerare il suo modo di pensare e le sue prese di posizione sono anche, almeno per un certo periodo, i suoi stessi compagni di partito. Il suo rapporto con i comunisti italiani resta tutt’oggi uno dei nodi da sciogliere in via definitiva poiché parte di una storiografia segnata da zone d’ombra. Non va del resto dimenticato che già alle elezioni politiche del maggio del ’21 egli viene candidato dal partito, ma non viene eletto. Evidentemente non si può affermare che anche a quel tempo le sue idee riscuotessero largo consenso tra gli stessi militanti. Poco dopo il suo arresto nei suoi confronti si registra un atteggiamento di reiezione da parte di molti compagni. Accusato dai tribunali fascisti di essere il “capo” dei comunisti italiani, responsabilità che egli ovviamente nega per evitare una condanna pesante, gli viene recapitata in carcere una lettera a firma di Ruggero Grieco in cui si svela il suo vero ruolo nel partito. C’è chi sostiene che questo famigerato scritto non abbia influito sulla sua condanna, certo è che non ha favorito la sua posizione giudiziaria. Dalle sue lettere dal carcere trapela il sospetto che la lettera inviatagli da Grieco sia stata suggerita da Togliatti, il personaggio “meno stupido” che lo avrebbe danneggiato. 227


Giuseppe Berti ha avanzato il sospetto che lo stesso Grieco potesse essere una spia fascista. Un dubbio, questo, che è stato manifestato qualche tempo prima anche da Pietro Secchia. Secondo un’altra versione interpretativa, a smascherare Gramsci come segretario del partito agli occhi del fascismo, sarebbe stato invece Ignazio Silone, il quale avrebbe fornito la notizia al funzionario di polizia Guido Bellone. Nel corso della sua detenzione, per il fatto di essersi opposto alla tesi del “socialfascismo” e di essersi schierato in difesa dei “tre” (Leonetti, Ravazzoli e Tresso) espulsi dal partito, viene incolpato di essere regredito su posizioni socialdemocratiche. A fronte della tesi sostenuta dalle dirigenze del partito, secondo cui ci si ritroverebbe ad agire in una “fase rivoluzionaria”, egli invoca un’azione comune con i partiti che lottano contro il fascismo; ed essendo convinto che il proletariato e tutto il popolo italiano sono stati ricacciati su posizioni più arretrate, propone l’assemblea costituente. A quel punto subisce la censura e il distacco sia della componente del gruppo dirigente che si trova a Mosca, sia di quella emigrata a Parigi e viene isolato dagli stessi compagni di prigione. Quando, sempre in carcere, tiene delle lezioni ai compagni reclusi, alcuni di questi, non condividendo le sue tesi, giungono ad affermare che egli non è più comunista e che per opportunismo è diventato crociano. Racconterà Terracini anni dopo: “Degli incarcerati, solo Gramsci e io manifestammo dissenso dalle posizioni del partito e dell’Internazionale sulla svolta stalinista… In quel periodo Gramsci, per i compagni del carcere, era ormai un compagno perduto… il suo nome circolava avvolto di sospetti. Era il nome di un compagno ai margini, se non fuori del partito”. Secondo la testimonianza di Ercole Piacentini, nel carcere di Turi, dopo la “svolta”, Gramsci “parlava di Stalin come di un despota e diceva di conoscere il testamento di Lenin, dove si sosteneva che Stalin era inadatto a diventare il segretario del partito bolscevico”. Anche per questa sua posizione viene espulso dal collettivo del carcere e preso addirittura a sassate non solo dagli anarchici, ma dai suoi stessi compagni di partito. Quando, nel novembre del ’34, in gravi condizioni, arriva nel carcere di Civitavecchia, nessuno dei comunisti ivi reclusi (tra cui Pajetta, Roveda e Scoccimarro) aderisce alla proposta di Terracini di tentare un approccio con lui. Tra la metà del ’31 e la fine del ’33, cioè negli anni successivi alla svolta del Comintern, la politica ereditata dalla sua segreteria viene definitivamente abbandonata dal partito. Se è vero che il dialogo tra lui e Togliatti, almeno fino al ’32, non si è mai interrotto, il loro rapporto è stato di certo assai complicato. Si è scritto che, nel ’95, negli archivi del Comintern è stato ritrovato un documento secondo il quale Gramsci avrebbe definito Togliatti un doppiogiochista e .lo avrebbe accusato di essere privo del coraggio di prendere posizione nei momenti decisivi. Le lettere citate dal quel documento, però, non sono mai state trovate e pertanto un tale giudizio appare opinabile. Fatto è che già nel ’24 Gramsci ha affermato che Togliatti “non sa decidersi, com’era un po’ sempre nelle sue abitudini”. Nella concezione e nell’etica politica fra i due è evidente una notevole differenza. Per quanto Togliatti non condivida il pensiero di Gramsci, di lui subisce il fascino, al punto di considerarlo il critico storico più lucido dell’Italia moderna e ancora “la coscienza critica di un secolo di storia italiana”. Nel ’37, il “Migliore” si oppone alla censura apposta dai sovietici su Gramsci, senza peraltro riuscire nell’intento, e si adopera perché i “Quaderni del carcere” non siano inghiottiti dalla burocrazia sovietica, dopo la sua morte. In “Stato operaio”, però, gli attribuisce affermazioni del tutto inventate, del tipo “Trotzkij è la puttana del fascismo”. Si prodiga pure di tenere in ombra le differenze politiche rispetto allo stalinismo che esistono tra loro due. Avendo letto i “Quaderni”, li conserva con gelosissima cura, ma li sottrae per un certo periodo alla conoscenza del partito e dell’opinione pubblica. Le riflessioni in carcere del dirigente sardo rimangono, infatti, sconosciute sino alla fine degli anni ‘40.

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Così come viene tenuta nascosta per anni la famosa lettera del ’26 che Gramsci ha inviato al Pcus per criticare i comportamenti del suo gruppo dirigente: verrà pubblicata su “Rinascita” solo dopo la morte di Togliatti, esattamente il 24 aprile 1970. E quando, negli anni del secondo dopoguerra, i “Quaderni” vengono pubblicati, come ha documentato Franco Lo Piparo, uno di essi risulta mancante. Quando poi lo stesso Togliatti li commenta pubblicamente, esalta soprattutto il Gramsci del Machiavelli, del “moderno principe”, e lo ricongiunge impropriamente a Lenin e alla sua teoria del potere, mentre mette in secondo piano tutta la sua elaborazione sui consigli e sull’autogoverno. Sono i tempi in cui un influente membro della direzione del partito, Emilio Sereni, definisce il dirigente sardo un “leninista” in sintonia con l’insegnamento di Stalin e di Zhdanov. Gli storiografi della parte politica avversa hanno ripetutamente insinuato che la presenza di Gramsci nel movimento operaio, sia risultata a tal punto insopportabile da indurre Stalin e i suoi stessi compagni di partito a lasciare che egli marcisse nelle carceri fasciste. Tesi questa che è da considerarsi senza alcuna esitazione un atto di meschina propaganda anticomunista. Come risulta dalle testimonianze e dai documenti recuperati negli archivi, il gruppo dirigente del Pci, pur non condividendo le sue posizioni politiche, non gli ha mai lasciato mancare l’assistenza e ha fatto reiterati tentativi di liberarlo dalla prigionia fascista. Gli stessi sovietici, magari di malavoglia, non hanno mai desistito nel trattare con il governo italiano la sua scarcerazione. All’indomani del suo arresto, è lo stesso Togliatti ad attivarsi per ben due volte per la sua liberazione: lo fa nel settembre del ’27, quando, attraverso Egidio Gennari, sonda il governo russo per un eventuale scambio con tre sacerdoti internati in Urss; e poi nel luglio del ‘28, quando suggerisce a Bucharin di sfruttare il salvataggio di Nobile per chiederne la liberazione. Così, infatti, gli scrive: “Compagno, l’equipaggio sovietico del Krassin ha salvato una parte della spedizione di Nobile. Probabilmente potrà salvarne anche una seconda parte, cioè quasi l’intera spedizione. Ecco quel che io propongo a nome dei compagni italiani che sono qui: che l’equipaggio del Krassin avvicini Nobile per domandare che Gramsci sia restituito alla libertà e mandato in Russia, giustificando la domanda con le condizioni di salute di Gramsci che è malato e che potrebbe morire in prigione”. Nell’ottobre del ’27, cioè molti mesi prima dell’arrivo a San Vittore della lettera di Grieco, è il sottosegretario all’Interno del governo fascista, Giacomo Suardo, a respinge la proposta dello scambio Gramsci-prigionieri. Mentre l’istanza del governo sovietico relativa al caso della spedizione Nobile non viene ritenuta degna di considerazione dalle autorità italiane. Nel ’32 c’è un nuovo intervento del Cremlino a favore della liberazione del leader del comunismo italiano, ma anche questa volta non sortisce gli esiti sperati. Nel ’33 viene avanzata la proposta di scambio con una cittadina italiana detenuta nelle carceri sovietiche, ma di nuovo la trattativa non decolla. Stessa sorte avranno altre istanze. A testimoniare l’indisponibilità del governo fascista, precisamente di Mussolini in persona, è niente meno che Lord Chiloton, ambasciatore inglese a Mosca il quale nel ’37, scrive: “Vengo a conoscenza da un membro dell’ambasciata italiana (a Mosca) che il governo sovietico ha fatto approcci di tanto in tanto verso il governo italiano con l’intento di assicurare la liberazione del signor Gramsci per ragioni umanitarie, ma senza ottenere alcun successo”. Viene altresì rifiutata una mediazione tentata dal Vaticano relativa a un possibile scambio con dei preti. Evidenziare l’ostinata indisponibilità del regime fascista, sul quale ricadono gravissime responsabilità, a considerare l’eventualità di una liberazione di Gramsci, non significa di certo mettere in secondo piano i contrasti esistenti tra il dirigente carcerato e i capi del Pcus e del Pcd’I, i quali, come ho documentato, sono profondi e insanabili. E nemmeno vuol significare una volontà di nascondere i pregiudizi e le malignità che hanno prodotto quei contrasti. Per tutti è il caso di ricordare la testimonianza di Massimo Caprara, segretario personale di Togliatti per ben 18 anni, il quale, accompagnando i due figli di Gramsci, nel ’47, allorquando questi sono venuti in Italia per partecipare alle celebrazioni del padre, da Delio si è sentito rivolgere la domanda sulle ragioni per

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cui il padre Antonio aveva tradito i comunisti italiani. Quella, infatti, era la tesi che a quel tempo era stata fatta circolare a Mosca negli ambienti del partito! Che Gramsci, nel movimento comunista, sia stato per tutti gli anni della sua incarcerazione e per tanti altri ancora, in odore di eresia è fuor di dubbio. Che abbia pagato la sua indipendenza critica con la solitudine è un dato altrettanto assodato. Diventa quindi facile comprendere come le sue drammatiche condizioni di isolamento psicologico, politico e fisico abbiano potuto procurargli quelle ossessioni che traspaiono da alcune sue lettere e che gettano ombre di sospetto sui suoi stessi compagni, oltre che sul Comintern. Il primo responsabile dei suoi patimenti e della sua morte, è bene ribadirlo, è il fascismo. Precisato questo, non vi è dubbio che nella storiografia comunista continua ad esserci un “buco nero” ed esso è costituito dal fatto che le dirigenze del Pci non hanno detto fino in fondo come le cose sono andate veramente. Quando qualcuno ci ha provato, è il caso di Paolo Spriano, di Giuseppe Berti, di Umberto Cardia, alcuni dirigenti storici del partito sono andati in escandescenze: Giorgio Amendola, ad esempio, si è particolarmente distinto in questa polemica. E ciò non ha certo favorito le necessarie chiarificazioni, ma anzi ha alimentato a sua volta dubbi e congetture. Che dal Pci l’elaborazione di Antonio Gramsci, specie quella del carcere, sia stata fatta sua in maniera riduttiva e anche strumentale, è un altro dato di fatto. Per più di venti anni a prevalere è stata l’interpretazione togliattiana la quale ha condizionato in larga misura il modo di ricezione del pensiero gramsciano in Italia e in Europa,. Non si è trattato certo di una falsificazione dei suoi scritti, come è stato sostenuto ancora in polemiche ingiuste e tendenziose, bensì di una loro accurata selezione e sublimazione: non solo sono state messe in ombra le contese, ma è stata depurata o comunque svilita tutta la tematica consiliare. Durante il periodo berlingueriano si è andati soprattutto alla ricerca in Gramsci di riferimenti che giustificassero il rapporto tra comunisti e cattolici e che avvalorassero la politica di “compromesso storico”. Chi è venuto dopo quel periodo ha sanzionato la sua sconfitta politico-culturale affidando a esponenti liberal-democratici la reinterpretazione delle sue elaborazioni. Il fondatore di fatto del Pci è stato così riletto in chiave democraticistica e crociana. Massimo D’Alema lo ha associato a una cultura liberale, per certi aspetti alla corrente liberalista. E a poco è valso scrivere a ridosso del titolo “l’Unità” che quel giornale è stato fondato da Gramsci per rendere credibile una continuità di memoria. In conseguenza del fatto che la sua opera è stata oggetto d’uso da parte delle varie metamorfosi politico-organizzative di quel che originariamente era il Pci (Pds, Ds, Pd), Gramsci ha trovato poco credito e scarsa attenzione nelle stesse formazioni che si sono proclamate di “nuova” sinistra. Egli, pertanto, resta in un certo senso senza eredi e la sua solitudine si protrae nel tempo. Eppure della sua elaborazione politico-culturale c’è ancor oggi estremo bisogno, poiché è il solo ad aver riflettuto a fondo sulle ragioni della sconfitta del movimento operaio in Occidente. Egli ha interrogato la storia nella sua durezza e irrevocabilità come nessun altro ha saputo fare e ha tentato di indicare ai posteri la strada da percorrere per costruire la società socialista. 7.3 – Critica dell’economicismo e “filosofia della prassi” L’opera di Gramsci è stata studiata dal punto di vista filosofico, storico, politico e biografico e i giudizi che su di essa sono stati formulati sono i più vari. C’è chi considera il pensatore sardo un grande testimone del ‘900, chi lo definisce l’esponente di una sorta di liberal-comunismo, chi lo considera prigioniero del suo tempo e chi lo indica come un antiliberale. Se per alcuni è sinonimo di saggezza, di coraggio, di sobrietà e di modestia, per altri è un rudere da buttare. Il tedesco Joachim Ranke, per esempio, sostiene che “come teorico comunista, come politico, come stratega della rivoluzione, non si può salvare” e si dice certo che a lui ormai non pensa più nessuno. Massimo Salvatori, nel considerarlo “fondamentalmente leninista”, lo ritiene “inesorabilmente fuori gioco”, mentre Lucio Colletti, dopo essersi convertito al berlusconismo, gli rimprovera di non sapere 230


apprezzare “le istanze della democrazia borghese”. Alcuni storici decretano fallita la sua teoria quale nuova religione civile d’Italia, altri, sulla base di una scansione dei tempi della sua elaborazione, lo incolpano di giacobinismo o di antigiacobinismo a seconda delle convenienze interpretative. Come vedremo, allorché affronterò le sue tesi sul partito, in molti, e fra questi anche alcuni appartenenti allo stesso campo comunista, lo accusano di organicismo e di integralismo politico. Non va dimenticato che già Benedetto Croce ebbe a sostenere che essendo l’intento di Gramsci “semplicemente quello di fondare un partito politico, ufficio che non ha a che vedere con la spassionata ricerca del vero”, a ricordarlo in modo degno sarebbero bastate “le sue nobili lettere dal carcere”. I “Quaderni”, evidentemente, agli occhi dell’illustre filosofo dovevano apparire un prodotto di seconda scelta. Sulla sua appartenenza politica e sulle sue convinzioni non sono mancate neppure grossolane e volgari strumentalizzazioni. In una delle tante campagne anticomuniste del Psi di Craxi, Lerhener e Lagorio sono giunti al punto di sostenere che prima di morire egli avrebbe chiesto l’iscrizione al partito socialista. Da parte sua il Vaticano, in più di una circostanza, ha sostenuto la tesi secondo cui prima di morire si sarebbe convertito al cattolicesimo. Chi ha letto i suoi scritti, e ha vagliato le testimonianze sul suo comportamento e le prese di posizione, sa bene che Gramsci è un marxista convintissimo e che la sua weltanschauung è ispirata indubitabilmente ai principi del comunismo. La sua è una visione del mondo che si fonda su una rottura netta con la cultura borghese e sul rifiuto di qualsiasi ideologismo. Suo fermo intendimento è quello di tradurre il marxismo in una nuova civiltà e ogni sua azione appare coerente con questo proposito. Attraverso l’analisi dei nuovi fenomeni sociali e politici, egli contribuisce a sviluppare in modo originale il filone teorico e politico del pensiero marxiano. Affronta gli aspetti più diversi della storia, della politica, della letteratura, della filosofia, dell’economia e ci fornisce uno straordinario esempio di coerenza tra pensiero e azione, tra idee professate e impegno politico. Non a caso, per molti, Gramsci incarna il personaggio dell’eroe che resiste nella prigione fascista fino alla morte, senza cedimenti ed enfasi, organizzando e svolgendo un lavoro intellettuale destinato anzitutto al suo partito e alla sinistra. La sua statura morale è fuori del comune. Dal carcere scrive al fratello Carlo: “Io non voglio fare né il martire né l’eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio che ha le sue convinzioni profonde e che non le baratta per niente al mondo”. E a un agente di custodia che ingenuamente gli domanda se è vero che, se avesse cambiato bandiera, sarebbe diventato ministro, egli risponde che ministro era un po’ troppo, ma sottosegretario alle Poste o ai Lavori pubblici forse avrebbe potuto anche esserlo. La sua modestia è tale che non firma gli articoli di giornale non già per timidezza, ma perché prova ripugnanza per le forme esteriori, manifesta avversione per ogni forma di idolatria, a cominciare dal culto per i nomi. Se la sua opera fosse per davvero di scarso valore, come qualcuno sostiene, non si spiegherebbe il perché, nei decenni scorsi, nel continente americano la sua opera sia stata oggetto di tanti dibattiti e convegni, al punto di provocare la nascita del movimento dei “gramscisti”, i quali alle sue riflessioni ed elaborazioni hanno dedicato e continuano ancora oggi a dedicare studi e approfondimenti. Gramsci è un pensatore che diffida delle lusinghe delle certezze e fa propri i principi della ricerca , dell’esperienza, della critica oltre che della passione. Da Romain Rolland riprende e fa sua la massima “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà” per coniugare in modo nuovo ragione e volontà, criticismo coerente e capacità di incidere sui processi reali del mondo. Crede nell’uomo, nel suo spirito di abnegazione, nella sua creatività, nel suo eroismo considerandolo motore della dialettica storica. La sua formazione, com’è risaputo, avviene all’insegna dell’idealismo gentiliano e non a caso da giovane egli considera Croce il punto più alto raggiunto dalla filosofia mondiale. Con la maturità, 231


però, il suo pensiero si ispira al socialismo scientifico e si lega alla lotta di una classe, quella del proletariato. Egli è il primo che tenta il confronto tra il marxismo e il machiavellismo. E la sua riflessione fornisce un importante contributo non solo a una critica costruttiva della cultura nazionale, nel contesto di una ricostruzione della storia italiana, ma alla formazione dello stesso pensiero europeo. Propugna l’idea di una socializzazione della politica che, rappresentando una critica radicale di molta parte della tradizione marxista, lo rende ostile agli occhi di chi ha ridotto la stessa politica a teoria della conquista e dell’esercizio del potere. Gramsci è un teorico della rivoluzione sociale che concepisce la riscossa proletaria come atto di fondazione di una società propriamente umana. In lui assumono grande importanza il metodo, l’analisi e la sintesi. Egli non costruisce modelli, ma individua il campo della lotta culturale e politica e si cimenta nello scontro con grande determinazione. L’estrema articolazione del suo metodo sta nello snidare la complessità del reale e nell’interpretarla: “Occorre violentemente attirare l’attenzione nel presente così com’è se si vuole trasformarlo”, occorre rintracciare “la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità, ecco la più essenziale qualità del critico delle idee”, ammonisce. E nel conseguire i suoi obiettivi diventa un assimilatore onnivoro che segue le suggestioni più diverse senza temere contaminazioni. La sua apertura mentale lo porta a intessere il dialogo anche con i lavoratori non socialisti, con i cattolici e con gli intellettuali d’opposizione. Si batte contro l’utopismo, ancora largamente presente ai suoi tempi nel movimento operaio, ritenendolo rischioso perché infonde una fiducia fatalista nel processo di cambiamento. “L’utopia – scrive – consiste nel non riuscire a concepire la storia come libero sviluppo, nel vedere il futuro come una solidità già sagomata, nel credere ai piani prestabiliti”, invece “tutta la storia degli uomini è lotta e lavoro per suscitare istituti sociali che garantiscano il massimo di libertà” e “la libertà è la forza immanente della storia che fa scoppiare ogni schema prestabilito”. Combatte con altrettanta determinazione lo schematismo e il dogmatismo. La sua è, infatti, una lotta teorica contro ogni figurazione schematica sul piano concettuale e pratico. Il suo metodo critico, antiscolastico lo porta a rifiutare la definizione in formule del marxismo e a mostrare insofferenza verso le pratiche settarie. Invita a non giudicare i fatti in vista di una presunta meta, di un presunto finalismo della storia e, di contro, a cercare di capire le ragioni dell’avversario ponendosi “da un punto di vista critico, l’unico fecondo nella ricerca scientifica”. “La verità deve essere rispettata sempre, qualsiasi conseguenza essa possa apportare…Sulla bugia non si costruiscono che castelli di vento”. “E’ necessario che il lavoro di ricerca di nuove verità e di migliori, più coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati”. Si pronuncia per la piena libertà d’espressione anche nelle manifestazioni artistiche. Egli è consapevole che il marxismo è divenuto per larga parte del movimento operaio una religione, coi suoi impliciti risvolti di dogmatismo. E denuncia che ancora nella seconda decade del ‘900, lo stesso socialismo viene proposto senza alcuna mediazione quale “religione che deve ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che è anch’esso una fede, che ha i suoi mistici e i suoi pratici; religione perché ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell’uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale”. Le certezze teoriche e politiche a suo avviso sono destinate a rivelarsi niente più che “un fragile articolo di fede”. E proprio per questo motivo avverte l’esigenza della critica immanente anche per le discussioni e le divergenze all’interno del marxismo e del movimento operaio, e sostiene che il marxismo stesso deve essere pensato come transitorio, superabile da altre dottrine quali prodotto delle trasformazioni che investono il mondo. La critica alla dogmatizzazione del pensiero marxiano è la stessa che egli esprime nei confronti della religione e della psicoanalisi i cui principali fruitori sono gli umiliati e i deboli. Mentre la religione fugge il mondo reale e si rifugia nelle fantasticherie e nel sogno, la psicoanalisi rincorre il

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mito del buon selvaggio, proprio quando i processi di modernizzazione e la standardizzazione dell’educazione rendono sempre più impossibili “le robinsonate”. L’interesse di Gramsci per la religione riguarda il ruolo che essa svolge come ideologia sociale, mentre la sua dimensione teorica e filosofica è da lui quasi del tutto ignorata. “Vivere senza religione – sostiene – è possibile solo attraverso la scienza e la filosofia, ma la religione resta necessaria per l’organizzazione sociale”. La debolezza teorica intrinseca a ogni religione - e soprattutto al cattolicesimo - consiste a suo dire nel concepire l’uomo come individuo isolato che ha in sé la causa del male, quando invece occorre concepirlo come insieme di rapporti attivi. Egli dunque considera la religione “la più gigantesca utopia, cioè la più gigantesca ‘metafisica’ apparsa nella storia, poiché essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita storica: essa afferma invero che l’uomo ha la stessa ‘natura’, che esiste l’uomo in generale ... in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, uguale agli altri uomini... Così le idee di uguaglianza, di fraternità, di libertà fermentano tra gli uomini”. L’etica religiosa rappresenta dunque l’autocoscienza dell’umanità e poiché specchia l’uomo in dio, affermando che esso non è di questo mondo, ma di un altro mondo (utopico), diviene funzionale alla logica della produttività e come il calvinismo diventa una religione laica. Egli si pone anche il quesito se in una società senza classi e senza religioni, quale si può supporre come esito di un processo rivoluzionario secolare, la concezione spiritualistica non debba assumere necessariamente a un certo punto le caratteristiche del pensiero dominante. Pertanto considera la possibilità che la libertà di pensiero e di coscienza possa avere un ruolo positivo nella società liberata dallo sfruttamento dell’uomo da parte dei suoi simili. E ritiene che “si può persino giungere ad affermare che mentre tutto il sistema della filosofia della prassi può diventare caduco, in un mondo unificato, molte concezioni idealistiche, o almeno alcuni aspetti di esse, che sono utopistiche durante il regno della necessità, potrebbero diventare ‘verità’ dopo il passaggio (al regno della libertà)”. Intendendo in ogni modo la soggettività, l’idea, motore della prassi umana, egli considera illusoria ogni rappresentazione ideologica. Le ideologie, ricorda, sono espressione della struttura e si modificano col suo modificarsi. Purtroppo, per coloro che vi credono, queste idee non sono illusioni, e non lo sono perché sono considerate vere sia dai dominati che dai dominanti. In forza di questa sua visione, il processo rivoluzionario si svolge allorquando l’elemento unificante dell’ideologia va in crisi e il movimento antagonista esce da una condizione di subalternità solo acquisendo una cultura autonoma. Alla luce di un tale processo di cambiamento egli imbastisce un’accesa polemica contro gli esaltatori dell’élite e, oltre a combattere l’economicismo, contrasta sia il moderatismo, che considera uno dei problemi decisivi della storia degli italiani, sia il pragmatismo ritenendoli un freno allo sprigionarsi delle risorse culturali e politiche esistenti nel movimento. La campagna antiloriana (rivolta contro l’economista Achille Loria) da lui condotta ha appunto il significato di voler procedere alla distruzione delle “autorità costituite” in nome del rigore culturale, e aprire la strada alla partecipazione attiva degli operai alla discussione dei problemi culturali e politici. “E’ da pensare come, in tempi anormali, di passioni scatenate, sia facile a dei Loria, appoggiati da forze interessate, di traboccare da ogni argine e di impaludare per decenni un ambiente di civiltà ancora debole e gracile”. E giudicando mistificatorio e irresponsabile il modo di agire di gran parte della sinistra del suo tempo, ammonisce: “Il parroco del villaggio affermava: ‘non si muove foglia che Dio non voglia’. Masticabrodo affermava: ‘Tutto è determinato dagli interessi economici’. Era in fondo la stessa concezione”. A destare dunque la sua preoccupazione è soprattutto la perdita di egemonia sul modo di pensare dello stesso movimento dei lavoratori e anche la diffusa mancanza di coerenza e di impegno sociale che in esso vi riscontra. Altro fronte della sua lotta è quello contro la passività e l’apatia. “Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. 233


Perciò odio gli indifferenti”. Lui partigiano lo è fino in fondo, con la dovuta lucidità e verve polemica. Scrive su l’”Avanti!” piemontese del 9 ottobre 1920: “Non è il comunismo, non è l’ideale del proletariato che determinerà gli sconvolgimenti, la fame, la desolazione, la miseria; questo panorama atroce è il panorama della vostra civiltà, crollata come un edificio senza abitatori umani, è il panorama delle vostre istituzioni, ridotte a mera forma senza spirito animatore; è la vostra guerra imperialista che ha falciato cinquecentomila giovinezze, il fiore delle forze produttive, che di altro mezzo milione di energie hanno fatto un esercito di mendichi e di disperati; è la vostra incapacità a ridare la pace al mondo insanguinato; è il lusso sfrenato e la sete di godimenti che avete scatenato nei vostri ceti irresponsabili; è la barbarie, la svogliatezza del lavoro, l’istinto bruto elementare che avete scatenato turpemente per la vostra fame di ricchezza e di potere: questo panorama è quello della vostra decomposizione come classe di inetti, di falliti, di sorpassati dalla storia”. Nei “Quaderni” si nota una frequenza di richiami ai concetti di libertà, dovere, volere, autonomia, disciplina, autodisciplina individuale e collettiva, quali principi fondamentali dell’agire. “Puoi, quindi devi” è la sua morale, avendo piena consapevolezza delle difficoltà che un tale imperituro comporta. Difatti, puntualizza: “Battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità, ciò è veramente difficile e arduo”. Ma a dimostrare che una simile impresa è possibile, ci sta proprio la sua stessa tragica ed eroica esperienza di vita. Il suo pensiero è parziale, ma profondo, fluido, dialogico, lontano da ogni ossificazione e per comprenderlo appieno deve essere recepito con uno spirito adeguato e con una mente aperta. Come accade per la stragrande maggioranza dei dirigenti comunisti della sua epoca, anche Gramsci conosce assai poco dell’opera di Marx. Si suppone abbia letto solo una parte del primo libro del “Capitale” e poi il “18 Brumaio” e la “Lotta di classe in Francia”. Ai suoi tempi, si sa, non solo l’attività editoriale aveva uno sviluppo assai limitato, ma molte delle stesse opere del padre del socialismo scientifico, compresi i “Manoscritti”, non si conoscevano ancora. Lui stesso ammette che “in Italia il marxismo (all’infuori di Antonio Labriola) è stato studiato più dagli intellettuali borghesi che dai rivoluzionari”. Eppure, nonostante questa sua parziale conoscenza degli scritti del genio di Treviri, Gramsci si rivela un suo fedele interprete e un valido continuatore delle sue teorie. Come abbiamo già ricordato, Marx muore prima di ultimare “Il Capitale” e la parte che riguarda la sovrastruttura resta incompiuta. Ebbene, Gramsci si inserisce su questo filone della sua riflessione e contribuisce al suo sviluppo. Il suo riferirsi a Marx è del tutto originale e costituisce una prova di autonomo e positivo revisionismo. Per certi aspetti egli compie un’opera di riambientazione storico-nazionale della teoria generale del capitalismo attribuendo un ruolo rilevante alla rivoluzione intellettuale. Cioè, fa suo il marxismo come scienza politica e non più soltanto come interpretazione dell’economia e delle leggi dello sviluppo del capitale, come hanno fatto i teorici della 2a Internazionale. Tutte le sue note politiche sul Machiavelli sono infatti il tentativo di arricchire il marxismo di categorie che non si ritrovano in Marx: giacobinismo, egemonia, guerra di posizione, guerra di movimento. Egli cerca di dare una risposta agli incalzanti quesiti sollevati dal suo tempo, sia rompendo con il positivismo, sia misurandosi con le filosofie idealistiche e con le acquisizioni scientifiche del tempo. E nel compiere questa operazione culturale supera sia l’idealismo che il materialismo tradizionale che lui considera espressioni della vecchia società. A suo giudizio, se l’idealismo ha il vizio di ridurre la realtà all’idea, il materialismo tradizionale ha il torto di ridurre la realtà a materia. Giudica il “Saggio popolare” di Bucharin una forma ossificata di marxismo, un marxismo ridotto a catechismo. Identifica il materialismo filosofico e il fatalismo come propri di una fase iniziale di sviluppo del socialismo e li ricollega all’arretratezza dell’ambiente storico-culturale russo. Attraverso la critica delle tesi di Bucharin libera la “struttura”, l’economico, dall’isolamento e dalla passività in cui ortodossi e critici borghesi l’hanno confinata ridandole quell’espansività produttiva generale che la teoria marxiana gli aveva conferito. 234


In un articolo del 1918, scritto per il centenario della nascita di Marx, sostiene che questi “non ha scritto una dottrinetta” e che “non è un messia il quale abbia lasciato una sfilza di parabole gravide di imperativi categorici”. Per lui il futuro non può essere rinchiuso entro gli schemi virtuosi di una “grammatica” della rivoluzione, poiché la teoria marxista è in primo luogo una “metodologia dell’azione rivoluzionaria”, una “critica del rapporto soggetto-oggetto”, una visione unitaria del mondo, “la sola dottrina capace di guidare alla comprensione di tutto il movimento della storia e al dominio di questo movimento da parte degli uomini associati”. Il suo marxismo è perciò lotta alla passività, è principio di universalità, è concezione del mondo, è “storicismo assoluto”, “umanesimo assoluto”, e si presenta come il meno ipotecato idealisticamente che “non solo comprende le contraddizioni, ma pone se stesso come elemento della contraddizione”. La teoria, per Gramsci, è l’esperienza storica che si fa coscienza. Tra teoria e storia egli vede un intimo, indissolubile nesso. E intende la dialettica come il risultato della presa di coscienza dell’esperienza storica, il risultato di una visione del divenire sociale e naturale nella sua obiettività. In tale ottica, critica le ideologie che però considera tutt’altro che arbitrarie essendo fatti storici reali. Ai suoi occhi, come per quelli di Marx, esse rappresentano una realtà oggettiva e operante, anche se non sono la molla della storia. E puntualizza che non sono le ideologie a creare la realtà sociale, ma è proprio la realtà sociale nella sua struttura produttiva a creare le ideologie. Non a caso esse si modificano con il modificarsi della struttura. Dopo di che, spiega: “E’ ideologia ogni particolare concezione dei gruppi interni della classe che si propongono di aiutare la risoluzione di problemi immediati e circoscritti. Ma per le grandi masse della popolazione governata e diretta, la filosofia o religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile”. E considera ideologia, la stessa scienza: “In realtà anche la scienza è una superstruttura, una ideologia... Che la scienza sia una superstruttura è dimostrato anche dal fatto che essa ha avuto dei periodi di eclisse, oscurata come essa fu da un’altra ideologia dominante, la religione, che affermava di aver assorbito la scienza stessa... Inoltre: la scienza, nonostante tutti gli sforzi degli scienziati, non si presenta mai come una nuda nozione obiettiva: essa appare sempre investita da una ideologia”. Al pari di Marx, egli critica la filosofia e la sua funzione storico-sociale, ma a questa critica accompagna un’avvertenza: “Che i sistemi filosofici siano stati superati non esclude che essi siano stati validi storicamente e abbiano svolto una funzione necessaria: la loro caducità è da considerare dal punto di vista dell’intero svolgimento storico e della dialettica reale; che essi fossero degni di cadere non è un giudizio morale o di igiene del pensiero, emesso da un punto di vista ‘obiettivo’, ma un giudizio dialettico-storico”. “Giudicare tutto il passato filosofico come un delirio e una follia non è solo un errore di antistoricismo, perché contiene la pretesa anacronistica che nel passato si dovesse pensare come oggi, ma è un vero e proprio residuo di metafisica perché suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in tutti i Paesi, alla cui stregua si giudica tutto il passato. L’antistoricismo metodico non è altro che metafisica”. L’originalità della sua elaborazione sta nella saldatura tra analisi strutturale delle classi e analisi morfologica e sociologica dei gruppi. Egli considera astratta la distinzione tra i rapporti sociali di produzione e le idee, i costumi, i comportamento morali, la volontà umana. A suo giudizio nella concretezza storica c’è convergenza fra gli uni e gli altri, c’è una “unità reale”. Ed è proprio questa visione unitaria di struttura e sovrastruttura che gli consente di sbaragliare ogni forma di determinismo materialistico sia nella versione ideologica socialdemocratica sia in quella staliniana. Egli va in sostanza alla ricerca di una strada tra due estremi, cioè tra lo storicismo idealistico, che mette l’uomo sulla testa, e il materialismo volgare, che trova seguaci autorevoli anche tra le fila del marxismo ufficiale. La storia è per lui un prodotto della libera intelligenza umana e un processo che modifica se stesso, che cambia i suoi soggetti e i rapporti tra di loro; un processo senza fine, e senza fini nel quale non esiste un soggetto metastorico o metapolitico che ha la pretesa di definire la trama su cui si 235


muovono soggetti più diversi e tra di loro conflittuali. Configura tutta la storia dell’umanità come un processo doloroso e sanguinoso, pur tuttavia necessario ed esalta il diritto-dovere degli uomini a lottare al fine di non lasciarsi schiacciare dalla storia che non può essere solo subita, ma deve essere appunto fatta dall’uomo in carne e ossa. Rifiutando ogni schematismo concettuale e pratico, Gramsci traduce il marxismo in “filosofia della prassi” la quale rappresenta un aggiornamento della concezione storicistica della realtà. Fa risalire questa definizione ad Antonio Labriola il quale ha appunto sostenuto che il marxismo è “una filosofia indipendente e originale”. La sua teoria della praxis riguarda l’agire individuale e sociale, lo sviluppo dell’operosità, è la teoria dell’uomo che lavora. Ed è insieme la coscienza della contraddizione della società a lui contemporanea e della necessità della costruzione di volontà collettive corrispondenti ai bisogni umani. Il concetto di praxis è, infatti, il punto di incontro di soggetto e oggetto della storia, cuore di una filosofia che è al tempo stesso politica. Per lui, infatti, la filosofia non è astruseria intellettuale, ma è prima di ogni altra cosa senso comune, modo di pensare e di comportarsi. E’ la concezione del mondo che rappresenta la vita intellettuale e morale di un intero gruppo sociale e che fonda sulla consapevolezza della infinita varietà e molteplicità delle proposizioni e della loro finitezza e parzialità. La filosofia della prassi non si propone di risolvere pacificamente le contraddizioni esistenti nella società e nella storia, ma vuole essere espressione delle classi subalterne interessate a conoscere tutte le verità e impegnate a educare se stesse all’arte del governo. Viene concepita storicamente, cioè come fase transitoria del pensiero filosofico, avvertendo la tendenza a divenire essa stessa una ideologia nel senso deteriore, cioè un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne. Essendo portatrice di un nuovo umanesimo essa si pone come principio di nuova storia. Per Gramsci il comunismo è moderno oppure non è. Nei “Quaderni”, infatti, il termine marxismo viene talora sostituito con “pensiero moderno” o “teoria moderna”. Egli considera la filosofia della prassi e il comunismo come i componenti della nuova riforma popolare moderna che corrisponde ai nessi “Riforma + Rivoluzione francese, universalità + politica”. “La filosofia della prassi – scrive – deve creare una nuova cultura integrale che abbia i caratteri di massa della riforma protestante e dell’Illuminismo francese e abbia i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano, una cultura che riprendendo le parole del Carducci sintetizzi Massimiliano Robespierre ed Emauele Kant, la politica, la filosofia in una unità dialettica, intrinseca ad un gruppo sociale non solo francese o tedesco, ma europeo o mondiale”. Essa presuppone cioè un passato culturale che comprende la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e l’economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita. Essendo suoi obiettivi una cultura superiore e l’unificazione del genere umano, non può che essere una teoria attiva capace di svilupparsi attraverso il continuo confronto e scontro con la realtà e con gli altri orientamenti politici e teorici in quanto deve essere in grado di assimilare, attraverso il vaglio critico, ciò che appare valido nelle posizioni altrui. Si tratta in sostanza dell’esplicazione del concetto marxiano che considera il proletariato erede di tutta la storia dell’umanità. 7.4 – Guerra di posizione, egemonia, blocco storico Gramsci è uno dei pochi leader marxisti, sicuramente il primo, che affronta la tematica imposta al movimento rivoluzionario dalla sconfitta subita nel primo dopoguerra, quella cioè della rivoluzione in Occidente. E lo fa in sede teorica e nella sua portata complessiva. Fin dal luglio del 1920 egli riflette, oltre che sull’esperienza torinese, sul fallimento del tentativo compiuto dalla classe operaia in Germania, in Austria, in Baviera, in Ucraina e in Ungheria di imitare l’“ottobre rosso” e dare così avvio alla rivoluzione nell’Europa occidentale. Da subito, ha la percezione della gravità di questa sconfitta e individua la sua causa principale in un errore di 236


prospettiva, precisamente nella sottovalutazione da parte del movimento rivoluzionario della complessità della società capitalistica e del rapporto tra spontaneità e organizzazione in una fase storica drammatica. La sua critica si concentra non solo sul “pregiudizio economicistico e spontaneista” coltivato dalla stessa Rosa Luxemburg, ma investe anche la concezione, largamente diffusa nella sinistra europea di quel tempo, del ruolo dei consigli di fabbrica i quali risultano subalterni al sindacato e al partito. A suo giudizio, queste strutture devono essere considerate organismi di potere protagonisti di un nuovo assetto produttivo e di un nuovo tipo di Stato. Egli interpreta la rivoluzione in Occidente non come spallata al sistema capitalistico e nemmeno come processo puramente politico, ma come lungo itinerario di lotta, preparato e diretto dalla volontà consapevole degli uomini organizzati. La sua riflessione si pone dunque al di là della grande rottura storica operata da Lenin e affronta in un’ottica nuova e più avanzata il problema della lotta per il socialismo. Come analista sociale e come teorico della politica, matura la convinzione che, a differenza della Russia, in Occidente la struttura del potere è costituita da un insieme variegato di ordinamenti politici, di assetti economici e di istituzioni culturali che è necessario disgregare per aree differenziate se si vuole determinare il cambiamento. Nella mancata rivoluzione in Occidente, Gramsci individua la non ancora avvenuta maturazione del marxismo in forma di scienza politica. Riprendendo la distinzione che Kautsky, in polemica con la Luxemburg, aveva fatto tra “strategia dell’annientamento” e “strategia di logoramento”, e ricorrendo a una metafora militare, sostiene che in Europa occidentale il potere non può essere conquistato con la “guerra manovrata”, vale a dire con lo scontro di classe di rapida soluzione, come è avvenuto nel ‘17 in Russia, ma solo ingaggiando una “guerra di posizione”. Mentre la “guerra manovrata”, o di movimento, comporta l’attacco rivoluzionario repentino e violento, la “guerra di posizione” implica un contrasto di classe che si protrae nel tempo e matura sotto la direzione del partito rivoluzionario. In Occidente lo Stato è costituito oltre che dalla società politica da una solida e articolata società civile e questa complessità non può essere trasformata con una spallata. Annota nei “Quaderni”: “In Oriente, lo Stato era tutto, la società civile primordiale e gelatinosa; nell’Occidente, tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte”, nelle quali sono annidati appunto i poteri e le egemonie reali. Poiché nei paesi di democrazia occidentale è legalizzato il ruolo dell’opposizione (salvo che nei regimi fascisti) ed esiste la libertà di pensiero, di parola, di organizzazione, di propaganda, la strategia da seguire non può essere la stessa di quella seguita da Lenin. “La determinazione che in Russia aveva lanciato le masse all’assalto rivoluzionario, nell’Europa centrale e occidentale si complica per tutte queste superstrutture politiche create dal più grande sviluppo del capitalismo (e ciò) rende più lenta e più prudente l’azione della massa e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più complesse e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi”. “Mi pare che Ilici (Lenin) aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel ‘17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente”. Questo concetto ricorre nei suoi scritti già nel ’24- ’25 e lo si ritrova nella relazione che lui tiene di fronte al Comitato centrale del partito nell’agosto del ’26, cioè prima del carcere. Egli esclude la possibilità, in Italia e in Europa centro-occidentale, di una rivoluzione in due tempi, com’è avvenuto in Russia, cioè prima la conquista della macchina statale e poi il suo uso per conformare la società a un disegno politico nuovo. Precisa che la formula leninista, nell’Europa occidentale, poteva essere valida solo nel periodo storico in cui non esistevano ancora i grandi partiti politici di massa e i grandi sindacati, quando cioè la società era ancora sotto molti aspetti in uno stato di fluidità. Infatti, è solo dopo il 1870, con l’espansione coloniale europea, che la situazione subisce quel mutamento che rende complessa la 237


società civile ed è proprio a seguito di tale trasformazione che la strada per la conquista del potere si fa più difficile. Constatato dunque che la quarantottesca formula della “rivoluzione permanente” nella parte capitalisticamente evoluta dell’Europa risulta superata, e che la sinistra non è ancora riuscita a trovare una sua via originale per contrapporsi al dominio del capitale e trasformare la società secondo i suoi interessi, egli ritiene che è compito delle masse esprimere una critica radicale al sistema del capitale e mettere il sistema stesso sotto il controllo sociale. Compito del movimento rivoluzionario diventa quindi quello di conquistare a una a una le varie casematte attraverso le quali il capitale non solo esercita il proprio dominio, ma fa presa sulla coscienza dei cittadini. In tale ottica interpreta la conquista dello Stato in Occidente come una lunga lotta per la sua trasformazione elaborando il concetto di transizione al socialismo. Gramsci è convinto che il mutamento è determinato anzitutto dal grado di coscienza sociale, vale a dire dalla conquista da parte del movimento rivoluzionario delle menti degli uomini, e perciò insiste sul concetto di egemonia che ritiene essere la più grande scoperta filosofica fatta da Lenin, essendo presenti nella sua teoria sia l’analisi della struttura di base sia il momento dell’iniziativa politica rivoluzionaria. Il concetto gramsciano di egemonia non si limita però solamente a un’influenza ideale, ma comprende l’azione reale di trasformazione della società. Siamo di fronte a una riformulazione del materialismo storico e alla riproposizione della critica marxiana dell’economia politica come scienza storica. Nelle sue riflessioni non c’è un unico modello di egemonia, ma sono presenti diverse sue forme poiché considera questo concetto un problema. Pur lasciando aperta la porta alle diverse interpretazioni e sperimentazioni, non tralascia di fissare alcuni punti fermi circa le caratteristiche che deve avere. A suo giudizio, l’egemonia è l’agire che acquisisce il consenso dei governati e si traduce nel governare in una cornice di comunanza con loro. E’ l’innalzamento delle masse verso le élite, il modo stesso di pensare la democrazia. E’ la capacità di promuovere una nuova e diffusa cultura, la capacità di direzione intellettuale e morale. In sostanza, l’egemonia deve essere esercitata a livello politico, economico, culturale, ideale; in particolare deve investire il mondo della produzione al fine di modificare la struttura e i rapporti reali fra gli uomini. A differenza di quanto veniva tramandato dalla “vulgata marxista”, egli attribuisce alla lotta per l’egemonia la funzione di intervenire contemporaneamente sia sulla struttura che sulla sovrastruttura. Esercitata nel vivo della società civile, l’egemonia gramscianamente intesa, rappresenta una lotta a fondo ai conformismi ed è destinata ad agire sull’insieme delle istituzioni e delle relazioni che riguardano l’ideologia, la cultura, la vita morale, il costume, la concreta organizzazione dei rapporti tra le persone. Poiché – come ha puntualizzato Marx – nessuna società si dissolve e può essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti, l’egemonia deve essere esercitata dal gruppo sociale che aspira a diventare dirigente non dopo, ma prima di conquistare il potere governativo. Poi ricorda che ogni potere dominante si compone di due elementi indissolubili che ne costituiscono la forza: il dominio e il consenso. Il dominio esige l’esercizio della violenza, il ricorso alla coercizione, e diventa una necessità in determinati momenti storici; il consenso, invece, è direzione della società, è cioè l’esercizio dell’egemonia dei governanti sui governati. Si può dire che la maggior forza non provenga affatto dalla violenza dei dominanti, ma proprio dal consenso. Il potere esercitato attraverso il dominio non è, infatti, destinato a mantenersi a lungo nel tempo (e questo, per Gramsci, vale anche per la dittatura del proletariato); il consenso invece garantisce più stabilità, ma esige la capacità di rinnovare continuamente la propria legittimazione. Poiché obiettivo della classe operaia non è dominare, ma dirigere la società, senza il consenso essa sarebbe nell’impossibilità di governare stabilmente. Essere forza dirigente significa pertanto ottenere il consenso attraverso le vie della persuasione e mantenere a sé subalterne le classi sociali i cui interessi reali sono in contraddizione con il nuovo sistema in corso di costruzione.

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Con questa elaborazione Gramsci rompe con il concetto dominante nel movimento operaio e comunista del suo tempo secondo il quale per la conquista del potere sarebbe assolutamente necessario il ricorso all’uso della forza. Tutta la sua elaborazione compiuta in carcere si articola intorno al tema della conquista dell’egemonia prima della presa del potere da parte della classe operaia e la sua visione strategica della rivoluzione proletaria presuppone un insieme di azioni che, aggredendo su tutti i punti della società civile e della società politica il blocco di potere avversario, punta alla conquista di una stabile egemonia da parte di un nuovo “blocco storico” che è costituito dalla classe operaia e dai suoi alleati. Il suo concetto di egemonia, infatti, comporta anche l’individuazione dei tratti specifici di un processo che rende protagonista la classe operaia di rivendicazioni che sono di altri strati sociali, e della loro stessa soluzione, in maniera di unire intorno a sé questi strati e realizzare con loro una alleanza nella lotta contro il capitalismo determinando il suo isolamento. Egli ha in mente una società che consegue una sua compattezza, una società che elimina non la differenza del pensiero individuale, ma il ruolo stesso e la possibilità oggettiva del formarsi di una opposizione organizzata al processo di cambiamento. E a questo riguardo insiste sul fatto che ogni “blocco storico”, ogni ordine costituito ha i suoi punti di forza non solo nella capacità coercitiva dell’apparato statale, ma anche e soprattutto nell’adesione dei governati alla concezione del mondo che è propria della classe dominante. Perciò, anche la classe operaia deve esercitare la sua influenza sulle classi sociali con le quali è interessata ad allearsi. Una delle condizioni della rivoluzione in Italia è per lui l’unità del proletariato settentrionale con i contadini meridionali. Obiettivo questo che comporta, tra l’altro, l’eliminazione di ogni residuo di mentalità razzistica che divide il Nord dal Sud e che si scontra con il pregiudizio diffuso nelle stesse file del movimento operaio secondo cui il Mezzogiorno sarebbe una palla al piede per sviluppo democratico dell’Italia. “Occorre che il nostro partito distrugga nell’operaio industriale il pregiudizio inculcatogli dalla propaganda borghese che il Mezzogiorno sia una palla di piombo che si oppone ai più grandi sviluppi dell’economia nazionale”, ammonisce. Questa sua denuncia non oscura peraltro una lucida consapevolezza da parte sua che la questione meridionale è anche e soprattutto questione di privilegi politici accordati alla produzione manifatturiera del Nord e di carichi fiscali, com’è il caso della tassa sul macinato, che sono stati riversati sul Mezzogiorno. Ma la sua idea di “blocco sociale” comprende non solamente gli operai e i contadini, ma anche gli intellettuali e tutte le forze vive interessate a promuovere il rinnovamento della società. A suo avviso, un processo di trasformazione sociale non può essere realizzato senza questo insieme di alleanze, poiché un partito che esprime solo la sua classe è destinato ad avere una funzione subalterna. Per “blocco storico” dunque egli intende non semplicemente una politica di alleanze, ma un processo molto più complesso che investe sia la struttura che la sovrastruttura, che ha carattere politico, economico e culturale insieme. La sua visione del processo rivoluzionario va dunque oltre la rigida contrapposizione dualista fra proletariato e borghesia e si presenta molto più articolata e complessa. A giustificare questo suo insistere sulla necessità di realizzare un “blocco storico” capace di dare gambe a un processo di trasformazione strutturale e sovrastrutturale, vi è la preoccupazione per il verificarsi di vistosi fenomeni di disgregazione sociale. Un tale processo, infatti, comporta il rischio di un calo dell’egemonia delle classi dominanti destinato a produrre un rafforzamento dello Statoforza che, tra l’altro, premierebbe quel ceto burocratico che egli considera “la forza consuetudinaria e conservatrice più pericolosa”. Riprendendo la formula “rivoluzione passiva” da Vincenzo Cuoco, il quale ebbe a usarla a proposito del tragico esperimento della Repubblica Partenopea del 1799, Gramsci presagisce la possibilità di una “rivoluzione senza rivoluzione”, precisamente dell’avvento di grandi cambiamenti senza il ricambio della classe dirigente sotto il segno di una sostanziale egemonia moderata dei poteri di sempre. Egli teme cioè una “rivoluzione-restaurazione” e manifesta la preoccupazione che le esigenze rivoluzionarie possano venire soddisfatte “a piccole dosi, legalmente, 239


riformisticamente”, in modo tale da riuscire a salvare le posizioni politiche ed economiche delle vecchie classi dominanti. E come esempio di rivoluzione passiva ricorda il Risorgimento italiano che è stato attuato appunto senza terrore e col metodo del trasformismo, cioè attraendo e corrompendo i ceti dirigenti del gruppo avversario. Considera così rivoluzioni passive del suo tempo il fascismo e il fordismo quali eventi determinati dall’alto e subiti passivamente dalle masse lavoratrici e popolari, i quali costituiscono dei tentativi parziali del capitalismo di uscire dalla sua crisi. E paventa che di fronte a tali eventi le masse rinuncino, almeno per un determinato periodo di tempo, ad assolvere a un ruolo cosciente ed attivo. Pure il riformismo è da lui considerato una rivoluzione passiva. Ai quesiti “perché i partiti proletari italiani sono sempre stati deboli dal punto di vista rivoluzionario? Perché hanno fallito quando dovevano passare dalle parole all’azione?”, egli risponde denunciando l’abdicazione al ruolo che loro spettava: “Non conoscevano la situazione in cui dovevano operare, non conoscevano il terreno in cui avrebbero dovuto dare battaglia”. E quindi spiega che il concetto chiave di “rivoluzione passiva” compendia la contraddizione principale dell’epoca capitalistica in cui una “produzione di massa” e una “economia programmatica” hanno oggettivamente e implacabilmente determinato la morte del vecchio individualismo senza che venissero realizzati i presupposti di una libera comunità; senza cioè che si creasse un “sistema di vita originale e non di marca americana”. Un processo, questo, che, come ben sappiamo, ha continuato a perpetuarsi fino ai nostri giorni. 7.5 – Analisi critica del fordismo e superamento dell’economia politica Molti teorici marxisti dell’epoca di Gramsci dimostrano di non avere una visione organica della realtà, poiché attribuiscono massima importanza alla base economica e ai rapporti di produzione e di scambio e sottovalutano il ruolo della sovrastruttura. Caratteristica della cultura politica di quel tempo è poi anche quella di ritenere che la lotta debba essere necessariamente sempre e comunque antagonistica e che la contestazione sociale, per essere efficace e per evitare le trappole della collaborazione di classe, debba consistere nella più aspra critica al sistema nella sua globalità. Gramsci avversa questi atteggiamenti fino all’estremo, giacché li considera frutto del massimalismo, mentre richiama l’attenzione sulle mutazioni del capitalismo, insistendo sulla necessità di costruire segmenti democratici all’interno del suo stesso sistema, tali da aggredire sia i meccanismi economico-produttivi che la sovrastruttura. Egli sostiene, infatti, che “se l’egemonia è etico-politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo… dell’attività economica”. Verso la metà degli anni venti, egli individua un limite delle forze progressiste nella loro incapacità di far emergere le contraddizioni che hanno investito il mondo della produzione e del lavoro nel corso del “biennio rosso”. E fa notare come “la politica è sempre in ritardo”, anzi, “in grande ritardo sull’economia” e come tra economia e politica si riscontri un’imperdonabile divisione. Di conseguenza, si sforza di favorire una critica di massa su questa separazione che ai suoi occhi rappresenta la scissione tra società e Stato, nell’intento di creare in questa maniera i presupposti per la sconfitta di quel male largamente diffuso nel movimento che è il corporativismo. Suo fermo convincimento è che questa dissociazione contrappone di fatto l’operaio salariato all’operaio produttore: mentre il primo si presenta come semplice parte del processo di scambio capitalistico, il secondo assume potenzialmente il ruolo creatore di un diverso processo produttivo. In tale ottica, Gramsci si rivela molto critico nei confronti del sindacato il quale, a suo giudizio, “organizza gli operai non come produttori, ma come salariati, cioè come creature del regime capitalistico di proprietà privata, come venditori della merce lavoro”. I sindacati, sostiene, tendono a creare un utile equilibrio tra lavoro e capitale. “Lo sviluppo normale del sindacato è segnato da una linea di decadenza dello spirito rivoluzionario delle masse: aumenta la forza materiale, illanguidisce o svanisce del tutto lo spirito di conquista, si fiacca lo slancio vitale, all’intransigenza eroica succede la pratica dell’opportunismo, la pratica ‘del pane e del burro’. L’incremento quantitativo determina un 240


impoverimento qualitativo e un facile accomodarsi nelle forme sociali capitalistiche, determina il sorgere di una psicologia operaia pidocchiosa, angusta, da piccola e media borghesia”. “Il marxismo – scrive ancora – afferma e dimostra contro il sindacalismo” che un nuovo modo di produzione non nasce “spontaneamente, ma solo perché i rappresentanti della scienza e della tecnica, essendo in grado di far ciò per la loro posizione specifica e di classe (gli intellettuali sono una classe che serve alla borghesia, e non sono tutta una cosa con la classe borghese), sulla base della scienza borghese costruiscono la scienza proletaria, dallo studio della tecnica quale si è sviluppata in regime capitalistico arrivano alla conclusione che un ulteriore sviluppo è impossibile, se il proletariato non prende il potere, non si costituisce in classe dominante”. Il suo pensiero – come si evince da questa riflessione critica – si sottrae alla visione economicistica delle forze produttive e attribuisce un ruolo insostituibile alla soggettività della classe lavoratrice, cioè dei tecnici e degli operai. Si differenzia dalla vulgata comunista del tempo e si proietta su un’alternativa di sistema che poggia le sue fondamenta su un progetto di trasformazione del modo di produrre. Nella tradizione della 3a Internazionale (ma questo vale anche per la 2a) il capitalismo è un sistema che ha raggiunto il suo apogeo e si avvia all’immobilità e al declino. Contrariando questa tesi, sulla base di uno studio attento dell’americanismo, e differenziandosi dallo stesso Lenin, che considera il capitalismo ormai morente, e pure da Bucharin, egli crede in una sua relativa stabilizzazione e mette in evidenza come quel sistema sia invece destinato a vivere una nuova fioritura, poiché mostra formidabili capacità di rinnovamento. Sostiene che a morire è solo il vecchio capitalismo, precisamente il vecchio individualismo economico e culturale, e pertanto avversa coloro che enfatizzano la crisi dell’industrialismo americano. Nel taylorismo-fordismo egli intravede un’egemonia tale da consentire al sistema di svolgere un ruolo progressivo dalle dimensioni storiche. L’americanismo e il fordismo sono appunto da lui considerati un’espressione della cultura egemone del centro dell’impero capitalistico, rispetto a quella, genericamente liberista, dominante ancora nella vecchia Europa. In “Americanismo e fordismo” sostiene che negli Usa esistono già belle pronte le “condizioni preliminari, già razionalizzate dallo svolgimento storico” che facilitano la razionalizzazione della produzione e del processo lavorativo. Il capitalismo americano è il solo che non si trovi di fronte i limiti rappresentati dai residui sociali, culturali, di modi di produzione precedenti. E mentre considera il taylorismo una forma di organizzazione dei rapporti sociali e umani, intravede nel fordismo il punto estremo del tentativo da parte dell’industria di superare la legge tendenziale della caduta del saggio di profitto. “La legge tendenziale della caduta del profitto – scrive – sarebbe quindi alla base dell’americanismo, cioè sarebbe la causa del ritmo accelerato nel progresso dei metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo tradizionale”. E sottolinea che in America è lo Stato, e non gli industriali privati, a reggere la caduta tendenziale del saggio di profitto. “Si può dire genericamente che l’americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica” e che rappresentano “il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo”. Loro tratto è il processo di riorganizzazione del capitale in seguito alla crisi post-bellica, la quale ha assunto un carattere organico, e alla spaccatura del mercato mondiale determinata dalla rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917. Gramsci analizza quindi la sconfitta dei movimenti del lavoro negli Stati Uniti dei primi anni venti e, poiché individua nel sindacalismo artigiano un soggetto socialmente reazionario perché ancorato alla vecchia ideologia, evidenzia il carattere di progressività della sconfitta della produzione per mestieri in quanto apre possibilità storiche alla creazione di un proletariato. Contemporaneamente, constata che negli Usa, purtroppo, il marxismo come movimento di opposizione non si è mai

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sviluppato a causa dell’avversione degli intellettuali e dei lavoratori americani verso i concetti collettivisti. Il fordismo, per lui, è dunque da considerarsi una vittoria del capitale ottenuta con la forza (la sconfitta del sindacalismo degli artigiani) e con la persuasione attraverso le politiche degli alti salari, dei benefici sociali, di una propaganda morale e di un’idonea istruzione. Gramsci si augura che con questa vittoria del capitalismo, negli Usa, venga a formarsi un proletariato, che il lavoro venga socializzato e venga creata la possibilità di una crescita del movimento di massa. Ai suoi occhi l’americanismo e il fordismo rappresentano l’immagine dell’avvenire che il Paese industrialmente più sviluppato mostra a quelli meno sviluppati. Essi rispecchiano l’orizzonte epocale per le sorti presenti e future del capitalismo e conseguentemente della prospettiva rivoluzionaria. E mentre giudica ottocentesco il modello capitalistico di produzione europeo (più precisamente quello inglese), considera quello oltreoceano il modello del futuro. La condizione perché questo modello sia applicato in Europa, passa, a suo dire, necessariamente attraverso una rimozione delle tante sedimentazioni passive che caratterizzano il vecchio continente e cioè i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito. E poiché l’Europa vorrebbe avere contemporaneamente la botte piena e la moglie ubriaca (godere cioè di tutti i benefici che il fordismo produce, pur mantenendo il suo esercito di parassiti), una tale operazione non gli appare facilmente realizzabile. Per queste sue caratteristiche, a differenza di molti altri critici, egli ritiene che il trionfo del nuovo capitalismo presenta aspetti progressivi, in quanto apre possibilità storiche sia alla creazione di un proletariato sia alla susseguente lotta per il controllo della produzione e della distribuzione del plusvalore. E per classificarne la natura, assume il concetto di modernità in termini dialettici: mentre ne evidenzia la faccia progressiva, ne denuncia i caratteri impliciti di cinismo e di coercizione che sono propri di chi esercita il dominio. Anzitutto, mette in risalto un aspetto che, a mio modesto giudizio, è stato se non ignorato, sicuramente trascurato da Lenin. “Pare di poter rispondere che il metodo Ford è ‘razionale’, cioè deve generalizzarsi, ma che perciò sia necessario un processo lungo in cui avvenga un mutamento delle condizioni sociali e un mutamento dei costumi e delle abitudini individuali”. L’americanizzazione, in quanto tendenza dello sviluppo capitalistico, esige, infatti, non soltanto una determinata struttura sociale, ma anche un preciso tipo di Stato. E quando osserva i primi effetti della sua applicazione in Europa, ammonisce: ”Si sta verificando una trasformazione delle basi materiali della civiltà europea”. Inteso come rigida disciplina e funzionalità produttiva, trasportato nel vecchio continente, l’americanismo è destinato a determinare una trasformazione delle basi materiali della società, portando allo stravolgimento della forma di civiltà esistente e alla forzata nascita di una nuova civiltà. Questo accade perché la struttura economica “dà forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo”. Oggetto d’indagine di Gramsci, dunque, non è solo la razionalizzazione del lavoro, ma la razionalizzazione dell’intera vita sociale, e quindi la formazione di nuove abitudini, nuovi modi di vita, di un tipo umano nuovo. Al centro del suo interesse vi è la modalità della costruzione di una nuova umanità, di una nuova cultura, di una nuova morale. Fatto è che i modi di vita sono realmente un presupposto del funzionamento di un modo di produzione. Un determinato tipo di civiltà economica per funzionare richiede un determinato tipo di civiltà morale. Una struttura economica non è una sfera autonoma, a sé stante, ma poggia la sua esistenza e la sua durata su una volontà collettiva, su un insieme di atteggiamenti, costumi, valori, abitudini. In definitiva, vive e progredisce su un conformismo sociale, perciò un suo mutamento richiede un parallelo mutamento dei modi di vita. E a questo riguardo Gramsci approfondisce alcuni aspetti. Il nuovo tipo di uomo richiesto dalla razionalizzazione della produzione e del lavoro non può svilupparsi finché l’istinto sessuale non sia stato conformemente regolato, non sia stato anch’esso 242


razionalizzato. Taylorismo e razionalizzazione – egli sostiene – domandano una rigida disciplina degli istinti sessuali (del sistema nervoso), cioè un rafforzamento della famiglia in senso largo (non di questa o quella forma del sistema familiare), della regolamentazione e stabilità dei rapporti sessuali. Il nuovo industrialismo vuole la monogamia, vuole che l’uomo-lavoratore non sperperi le sue energie nervose nella ricerca disordinata ed eclatante del soddisfacimento sessuale occasionale: l’operaio che va al lavoro dopo una notte di stravizio non è un buon lavoratore. Egli intende dunque l’americanismo come civiltà e l’industrialismo come razionalità e vittoria sugli istinti. Un processo che per essere messo in moto esige un’estesa campagna propagandistica ed educativa che, in sostanza, si traduce in un’offensiva del capitalismo contro la classe operaia e contro il popolo. Intuisce che esso si afferma non a favore, ma contro le forze subalterne e che gli esiti dello stesso ottobre russo risultano assolutamente inadeguati a mettere in discussione e a contrastare la sua egemonia. In verità, Gramsci non ha perso l’occasione per apprezzare all’istante gli sforzi compiuti da Trotzkij nell’applicare con una forzatura coercitiva (la militarizzazione del lavoro), l’americanismo nella società sovietica, ma ha poi prontamente corretto quella sua posizione. Studiando i mutamenti che investono l’Europa occidentale gli torna chiaro che una parte della vecchia classe lavoratrice verrà spietatamente eliminata dal mondo del lavoro e forse dal mondo tout court. Si rende conto che il fordismo è lo sforzo più sofisticato e più riuscito di rendere efficaci i processi di lavoro taylorizzati; un processo che crea un’èlite di manager-supervisori e di ingegneri la quale è destinata a dominare tutta la produzione, frammentandola in una serie di mansioni temporalizzate e ripetitive. Il lavoratore taylorizzato – sottolinea – viene trasformato in “gorilla ammaestrato” e attraverso la politica degli alti salari e dei benefici destinati a una sola parte dei lavoratori si crea una ”aristocrazia operaia” che porta alla divisione del movimento. Non manca nemmeno di interrogarsi su “quale industria procurerà gli oggetti di consumo delle classi povere” e se la qualità dello sviluppo sarà determinata dai produttori sociali o da un meccanismo selvaggio di divisione internazionale del lavoro. Conclude la sua riflessione sottolineando l’urgenza di meditare sulle prospettive del movimento e invita a considerare l’americanismo una “rivoluzione passiva”, in considerazione del fatto che esso non crea i presupposti di una libera comunità e rappresenta l’antitesi del socialismo. Nella solitudine tremenda del carcere di Turi, si domanda se e come persino attraverso il fascismo, il taylorismo e il fordismo possano rappresentare una via di uscita per il sistema capitalistico sconvolto dalla grande crisi. In un primo momento pensa che, in Italia, l’americanismo, a partire dalle catene di montaggio, sia destinato ad arrestarsi di fronte alla presenza nel Paese di “classi assolutamente parassitarie”. Ritiene, infatti, che il corporativismo e l’autarchia fascisti rappresentino un freno se non addirittura un antidoto alla sua attuazione, poiché la fonte della sua egemonia, sta proprio nella divisione internazionale del lavoro. Successivamente, però, rifiutando l’interpretazione di Croce che considera il fascismo una “parentesi”, egli individua in esso uno strumento del capitalismo idoneo a consolidare il processo di ristrutturazione dell’economia nazionale. A quel punto, lo Stato e il regime mussoliniano appaiono ai suoi occhi non più un’anomalia, ma in stretta connessione con il mercato internazionale. Il fascismo viene da lui visto come un movimento non solo reazionario, rivolto contro la classe operaia, ma anche in grado di approntare uno strumentario funzionale alla modernizzazione dell’apparato di produzione senza provocare con ciò rivolgimenti sociali catastrofici. Oggetto di questa valutazione è l’azienda torinese Fiat che sperimenta prima di altri l’organizzazione fordista in Italia. Va ricordato a questo riguardo che lo stesso Agnelli, stupito dall’acume del gruppo dell’”Ordine Nuovo”, e nell’intento di sfruttare l’interesse di questo per l’americanismo, tenta, senza ovviamente riuscirci, di assorbirlo mediante un operazione di cogestione. In forza di questa sua lucida visione del fenomeno, Gramsci si distingue dai suoi compagni anche sulla valutazione della crisi del ’29. Mentre a sinistra essa viene interpretata in maniera catastrofica, cioè come preludio del crollo del sistema capitalistico, egli tende 243


a mettere in evidenza soprattutto la sua proprietà di adeguamento e di trasformazione interna della politica economica inaugurata negli anni ‘30. E vede nella crisi un momento di passaggio a nuove forme di organizzazione e di dominio del sistema capitalistico stesso; il determinarsi di un luogo di crescita di nuovi sistemi di integrazione ideologica e politica delle masse; l’occasione per una razionalizzazione profonda dell’apparato produttivo; nonché una nuova dislocazione del rapporto Stato-economia capace di innescare un nuovo meccanismo di sviluppo. Da questa sua acuta analisi dell’americanismo fa poi derivare nuovi indirizzi per l’azione della sinistra. Un primo aspetto della sua proposizione riguarda la necessità che la classe operaia venga sottratta all’influenza del soggettivismo distributivo: un’impresa, questa, di certo dalla portata storica e che esige tempo, in ogni modo ritenuta da lui ineluttabile al fine di affrancare il movimento operaio da una condizione di subalternità. Di fronte alla crisi del ciclo neoconservatore, il movimento dei lavoratori deve saper prospettare un’intelligenza collettiva che espropri il capitale della sua capacità di dirigere il processo sociale e per questo esso deve dimostrarsi portatore di nuove esigenze industriali. Ricordando che il mercato capitalistico è in ultima analisi decifrabile come assemblaggio o condensazione di comportamenti inerziali, di atti meccanicamente reiterati, di abitudini sedimentatesi al cospetto di una costellazione determinata di forze sociali e di pratiche intenzionali in conflitto reciproco, cioè un’entità determinata dagli uomini e non calata dal cielo, egli nega qualsiasi autonomia delle strutture economiche. Anche le strutture più inerti e opache, più mute e cogenti nel loro inesorabile automatismo, sono in realtà intrise di razionalità e di decisione volontaria; anch’esse, in altri termini, non sono altro che il risultato di determinate opzioni culturali. Pertanto, l’economia è un oggetto “reificato” fin tanto che resta prerogativa del capitale e diviene invece attività consapevole degli uomini, incontrando indubbiamente oggettive difficoltà e contraddizioni, quando è gestita ai fini di soddisfare le loro reali e prioritarie esigenze. Per queste ragioni, l’americanismo e il fordismo possono rappresentare non solo uno stimolo, ma un contributo specifico alla ricognizione delle “casematte” e delle roccaforti del sistema. Possono rendere più chiaro il terreno su cui deve essere sviluppata la lotta di classe. Gramsci pensa a una società socialista in termini di sostituzione della classe dirigente e di trasformazione delle basi proprietarie, si batte per uno Stato la cui egemonia consiste nel governare non solo la struttura, ma anche i rapporti fra gli uomini e il mondo della produzione. Avverte la necessità di mettere in campo una “volontà collettiva” in diretto rapporto con lo Stato e sulla base di una nuova weltanschauung. Concepisce la transizione come una fase in cui viene soppressa la concorrenza e ha inizio quel processo che porta alla graduale estinzione della produzione per il valore di scambio e la sua sostituzione con la produzione di valori d’uso. La sua idea di rivoluzione è l’avvio di quel processo che investe nell’intimo il sistema produttivo, che sa rispondere positivamente alle più moderne esigenze industriali, che è capace di realizzare nuovi modi di produzione. In sostanza, egli articola in modo concreto il concetto marxiano di “socializzazione” attribuendo alla classe operaia un ruolo fondamentale. Già ai tempi dell’“Ordine Nuovo” scrive: “Politicamente l’operaio è più forte, più capace del contadino; egli abita nelle città, è concentrato in grandi masse nelle officine, è in grado non solo di rovesciare il capitalismo, ma anche di impedire, socializzando l’industria, che il capitalismo ritorni”. E puntualizza: “Non è dai gruppi sociali condannati dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma da quelli che stanno creando, per imposizione e con la propria sofferenza, le basi materiali di questo nuovo ordine (l’americanismo); essi devono trovare il sistema di vita originale e non di marca americana, per far diventare libertà ciò che oggi è necessità”. L’analisi gramsciana del fordismo non ha trovato però molti favori né dentro né fuori del Pci. Anzi, essa è stata consapevolmente emarginata sia nel momento in cui sono stati resi pubblici i “Quaderni del carcere” (‘48-‘51), sia in occasione dell’interpretazione complessiva della sua opera, a partire dalla lettura togliattiana che è risultata egemone in Italia e nel mondo sino al ’68. E’ solo nel ’75, con la edizione dei “Quaderni” curata da Gerrattana, che essa riscuote interesse e provoca discussione in ristrette aree di studiosi. 244


Il mondo politico, quello di sinistra impegnato nell’arena, continua però a ignorarla, mentre andrebbe assunta come argomento di studio, di elaborazione e di sviluppo ulteriore. Significativo a questo riguardo è il giudizio che, nel gennaio ’91, Fausto Bertinotti, allora sindacalista e poco dopo capo del partito dei rifondatori del comunismo, attraverso le colonne de “il manifesto” esprime a riguardo della teoria di Gramsci sull’americanismo: “Gramsci sostiene che quando il processo di adattamento è avvenuto, ‘il cervello dell’operaio ha raggiunto uno stato di completa libertà… pensa di più’. Qui proprio non convince la separazione radicale tra condizione materiale e pensiero. Sembrerebbe che nell’operaio taylorista possano coesistere il servo e il signore. Servo il corpo, in condizioni inumane di produzione; libera la mente di pensare Dio. Troppo e troppo poco… Di ‘Americanismo e fordismo’ si è rivelato, oltre alla grandezza, anche l’errore”. Questo giudizio di Bertinotti, oltre ovviamente a sollecitare a una disputa interpretativa, ebbe a porre a me, all’epoca in cui fu segretario di Rifondazione comunista, alcuni interrogativi e precisamente questi: perché mai un rifondatore come lui spende le sue energie intellettuali nella ricerca del pelo nell’uovo, mentre poi trascura il fatto che, al di là dei possibili aspetti contraddittori, nella trattazione dell’americanismo, Gramsci va apprezzato per aver reclamato, così come viene reclamato tutt’oggi, un salto di elaborazione nella strategia di movimento che purtroppo la sinistra di ieri e di oggi, le sue élite in particolare, Bertinotti stesso hanno dimostrano di non saper compiere? Quanto si è fatto e quanto si fa per sperimentare quella socializzazione su cui l’autore dei “Quaderni” ha tanto insistito? Chi mai a sinistra si è preoccupato e si preoccupa di sottrarre al capitale la gestione del “general intellect”? Non sono forse questi gli argomenti di maggior attualità e urgenza che una rilettura dell’”Americanismo e fordismo” di Gramsci pone all’attenzione di chi dice di avere a cuore il riscatto del movimento dei lavoratori? 7.6 – Strategia consiliare e autogoverno Il problema del socialismo per Gramsci è chiaramente quello dell’emancipazione delle masse, della loro trasformazione in soggetti impegnati a conseguire la propria autodeterminazione. Per tale ragione attribuisce al parlamentarismo poca importanza e assai spesso ne fa oggetto di critica scagliandosi contro la “fiera parlamentare”. Vede la delega come dispositivo per la formazione di governi esclusivi di èlite, perciò la pone in stretta relazione con il sistema capitalistico. Infatti, commenta: “Non si può abolire una ‘pura’ forma come è il parlamentarismo, senza abolire radicalmente il suo contenuto, l’individualismo, e questo nel suo preciso significato di ‘appropriazione individuale’ del profitto e di iniziativa economica per il profitto capitalistico individuale”. Già nel 1920, sul tema delle elezioni e dell’astensionismo, prende le distanze sia da Tasca che da Togliatti e Terracini. Egli sostiene che è impossibile risolvere i problemi della classe operaia con il suffragio universale e che la stessa partecipazione dei socialisti al governo non può garantire loro una soluzione definitiva. “Aspettare di essere diventati la metà più uno è il programma delle anime pavide che aspettano il socialismo da un decreto regio controfirmato da due ministri”, ironizza. A suo dire, mediante il suffragio universale le classi lavoratrici conquistano certamente un’influenza nello Stato, ma essa è tale da lasciare nelle mani del capitale il governo del mondo dell’economia. Al pari, e conseguentemente, detesta la burocrazia che giudica “la forza consuetudinaria e conservatrice più pericolosa” in ogni campo, sia in quello economico sia in quello politico e culturale. “La debolezza del liberalismo – scrive – è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta”. Come si vede, la “casta” non è affatto una scoperta del giornalismo scandalistico dei giorni nostri, ma appartiene proprio alla cultura di sinistra sin dai tempi di Gramsci. Questo insieme di posizioni che a qualcuno oggi possono apparire estremistiche, fanno parte della sua concezione dello Stato, la quale rappresenta uno sviluppo ulteriore del pensiero marxiano.

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Lo Stato nazione è da lui considerato un prodotto europeo, in particolare di quei Paesi che per primi sono stati investiti dall’industrializzazione capitalistica. A differenza della vulgata marxista del suo tempo, egli considera lo Stato il risultato di un intreccio tra struttura e sovrastruttura, tra istituzione e società civile, pertanto un soggetto non esclusivamente coercitivo. La sua nozione di Stato potrebbe essere definita società politica + società civile. Quest’ultima rappresenta per lui il regno dei rapporti economici che si contrappone all’ordine politico. Mentre lo Stato non è soltanto strumento di dominio, macchina oppressiva, ma è anche momento di equilibrio giuridico, cioè momento essenziale di egemonia, la società civile si configura come l’insieme dei rapporti che riguardano il costume, la cultura, il divenire concreto della vita quotidiana. Egli mette dunque in chiaro non lo Stato militar-poliziesco-repressivo, ma lo Stato integratore sociale, organizzatore del consenso, espressione di una società civile strutturata da una rete di istituzioni, di poteri, di ideologie. Questa concezione gli consente di criticare a fondo lo statalismo e ogni visione autoritaria e coercitiva del potere; e di esaltare invece la funzione del momento etico-culturale, quello esercitato dalla società civile, cioè – come vedremo più avanti – quello della riforma intellettuale e morale gestita dal basso. Una società senza Stato, scrive in un brano giovanile, è “pura astrazione”. Lo stesso comunismo avrà bisogno dello Stato, inteso come “organismo tecnico-morale”. I marxisti che hanno criticato le posizioni gramsciane sullo Stato sono stati parecchi. Per limitarmi a due soli esempi, ricordo che a parere di Althusser, Gramsci avrebbe avuto la tendenza di confondere l’apparato di Stato con le sue funzioni, senza assumerne a sufficienza la materialità; mentre Poulantzas ha sostenuto che, distinguendo lo Stato tra apparati repressivi e apparati ideologici, Gramsci avrebbe mostrato di avere una visione restrittiva del problema. A mio modesto giudizio, si tratta di differenti punti di vista e di una diversa priorità nella individuazione degli obiettivi. Di fatto, il fondatore del Pcd’I è portatore di una teoria rivoluzionaria che può definirsi unica nel panorama della letteratura e della prassi marxista. A differenza di molti altri comunisti, Gramsci avverte la necessità che per conquistare il potere politico, il movimento democratico non deve più sentirsi costretto a subire la coercizione dello Stato e non deve più porsi l’obiettivo del suo abbattimento, ma deve invece procedere alla sua conquista in una fase in cui esso stesso è in trasformazione. Esattamente nel momento cioè in cui viene privato della sua base storica e colpito nei suoi stessi meccanismi e apparati egemonici. Compito del movimento rivoluzionario è appunto quello di avanzare per conquistare gradualmente posizioni e sedi di potere. Lo Stato proletario in formazione deve avere dunque una natura non repressiva, non esteriore ma espansiva, deve cioè determinare nella società una circolazione dal basso verso l’alto, deve procedere non dai governanti ai governati, ma in senso inverso. E il movimento dal basso, mentre garantisce un “necessario equilibrio giuridico”, deve operare da subito per il superamento dello Stato stesso e anche del diritto attraverso l’attribuzione delle loro funzioni alla società civile. Portare alla perfezione la concezione dello Stato e del diritto, significa appunto per Gramsci, “concepire la fine dello Stato e del diritto come diventati inutili per aver esaurito il loro compito ed essere stati assorbiti dalla società civile”. “I socialisti non devono sostituire ordine ad ordine. Devono instaurare l’ordine in sé. La massima giuridica che essi vogliono realizzare è: possibilità di attuazione integrale della propria personalità umana concessa a tutti i cittadini”. Si spiega così il perché egli non solo avversi il suffragio universale e il parlamentarismo, ma si scagli contro la classe borghese italiana, e non solo contro di essa, accusandola di non essere affatto una classe di produttori, ma un’accolita di politicanti interessati solo a ricercare favori e protezione statale e a perseguire le proprie meschine ambizioni personali.

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Ancora a differenza di molti dirigenti comunisti, Gramsci non si limita a lanciare una sfida sul piano teorico e sulle strategie del movimento, ma si dà da fare per sperimentare sul campo, nel vivo dello scontro, le sue idee compromettendosi personalmente. Le sue elaborazioni risultano già abbozzate alla vigilia degli anni ’20 e acquisteranno maturità durante gli anni del carcere. Suo campo d’azione è la Torino proletaria, nel corso del famoso “biennio rosso”. Ed è proprio alla Fiat che egli tenta di emulare l’esperienza dei soviet russi dando vita ai “consigli di fabbrica”. Si tratta di un esperimento che viene tentato, in quel frangente, in vari Paesi (dall’Inghilterra degli shop-steward alla Germania spartachista, dall’Ungheria rivoluzionaria, alla sinistra degli stessi Stati Uniti d’America tramite il movimento dell’International Workes of the World), e che nel capoluogo piemontese assume caratteristiche peculiari. Qui, infatti, partendo dall’esperienza delle commissioni interne legalizzate nel ’19, Gramsci avverte l’opportunità di una nuova struttura organizzativa del movimento operaio, quella appunto dei consigli. Nel ’20 scrive: “Esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un germe di soviet; è la commissione interna”. Avverte che la crisi sta consumando le istituzioni esistenti e che nel contempo stanno nascendo i germi della sua soluzione. A saldare la frattura fra il vecchio che sta disfacendosi e il nuovo che sta nascendo introduce i consigli come organi della classe. E’ convinto della necessità di applicare il meccanismo della elezione dei suoi membri attraverso la scelta dei delegati di ogni reparto che a loro volta eleggono i commissari di fabbrica. Mentre la commissione interna è un semplice organo di difesa dei diritti dei lavoratori, il consiglio è da lui inteso come strumento di direzione dell’organizzazione del lavoro. Il problema dello sviluppo della commissione interna è quindi da lui vissuto come un problema centrale, fondamentale per la rivoluzione operaia, rappresentando la questione della maturità e della “libertà’ proletaria”. I consigli di fabbrica devono essere in grado non solo di dirigere e sollecitare le lotte operaie, ma di impadronirsi del meccanismo della fabbrica al fine di garantire una gestione socialista dell’economia. L’espressione “coscienza di produttori” la si ritrova, infatti, nei suoi scritti dell’intero arco di tempo della costruzione dei consigli di fabbrica. L’esperienza torinese di Gramsci è tutta ancorata all’ipotesi di una crescita della classe come soggetto politico diretto, rispetto al quale il partito è un punto di riferimento ideale, di elaborazione coerente, un’avanguardia intellettuale e morale, uno strumento, ma non il solo, dell’espressione politica. Il movimento dei consigli di fabbrica si pone, tra l’altro, l’obiettivo di far avanzare i quadri operai, di impedire che nel partito prevalgano gli “avvocati”, di superare cioè l’arte del dirigere intesa come arte oratoria. Per dare attuazione a questo suo progetto egli trasforma l’“Ordine Nuovo” (fino ad allora diretto da Tasca e da lui considerato “un disorganismo, il prodotto di un mediocre intellettualismo”), nel giornale dei consigli di fabbrica. Questo foglio non diventa soltanto un giornale diverso, ma rappresenta un rapporto diverso fra gli intellettuali e gli operai che, per questo, preoccupa seriamente il partito, il quale vede insidiati i vecchi canali, le vecchie cerniere. Colpisce difatti il fervore delle idee, la fioritura delle iniziative e delle inchieste, lo spirito creativo. Il gruppo dell’“Ordine Nuovo” conduce una lotta contro il professionismo dei sindacati e il desiderio di collaborazione borghese dei deputati con sorprendente “purezza morale”, come ha scritto Prezzolini. Gramsci è uno dei pochi a rendersi conto che il “biennio rosso” avrebbe potuto concludersi soltanto con una soluzione definitiva: o con una rivoluzione o con una reazione altrettanto radicale e violenta. Nell’aprile del ‘20 scrive: “La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione, o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria”. E nel vivo dello scontro politico e sociale constata, sempre a differenza di altri, che non esistono le condizioni nazionali per uno sbocco rivoluzionario della crisi e perciò teme l’avvento di una tragica reazione. 247


All’indomani della sconfitta, e soprattutto nel corso della detenzione carceraria, egli perfeziona la sua strategia consiliare ponendo in secondo piano il problema del potere statale ed esaltando invece l’autogestione. Attribuisce ai consigli la funzione di soggetti capaci di dare soluzione non solo alle esigenze produttive, ma di soddisfare anche il bisogno di garantire l’organizzazione politica della società. Proprio sulla scorta dell’esperienza torinese, individua in essi non solo gli organi di rappresentanza della classe, ma le istanze preposte alla gestione socialista dell’economia e del nuovo Stato in formazione. “La dittatura proletaria – scrive – può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico della attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale… la ragione d’essere del consiglio di fabbrica sta nel lavoro, nella produzione industriale, in un fatto cioè permanente e non già nel salario”. Sull’organizzazione e sullo sviluppo dei consigli di fabbrica egli fonda la prospettiva non solo della lotta rivoluzionaria, ma della costruzione stessa del potere e della società socialista. “Il consiglio di fabbrica è la prima cellula di un processo storico che deve culminare nell’Internazionale comunista, non più come organizzazione politica del proletariato rivoluzionario, ma come riorganizzazione dell’economia mondiale e come riorganizzazione di tutta la convivenza umana, nazionale e mondiale”. “Il partito e il sindacato non devono porsi come tutori o come superstrutture già costituite di questa nuova istituzione.... essi devono porsi come agenti consapevoli della sua liberazione... dallo Stato borghese”. E accanto ai consigli di fabbrica sollecita la costituzione dei consigli dei produttori nelle campagne e poi dei consigli di rione, con il compito di esercitare il potere dal basso in ogni ganglio della società e con l’obiettivo non di trattare semplicemente con il capitalista, ma di sostituirsi ad esso regolando da cima a fondo non solo la vita in fabbrica, ma anche quella nella sfera civile. E in concomitanza della linea indicata dal Comintern sul governo degli operai e dei contadini, lancia la parola d’ordine della “Repubblica federale degli operai e dei contadini”, giustappunto imperniata sulla diffusione capillare delle strutture di democrazia diretta, dimostrando così uno spiccato senso di prefigurazione di una società socialista già a partire dalla fase di transizione. Nessun teorico comunista giunge a tracciare in modo così lucido una strategia rivoluzionaria che risulta confacente alle norme di una democrazia effettiva. Ai suoi occhi il potere fonda le sue radici nella società civile ed è solo da qui che è possibile tessere la tela del processo rivoluzionario. E’ nella strategia consiliare che egli ripone la speranza dell’alternativa al capitalismo. Anche perché è convinto che solo la nascita dei consigli operai può rappresentare “un grandioso evento storico, l’inizio di una nuova era nella storia del genere umano”. Il nuovo Stato dei consigli è dunque per Gramsci il sistema attraverso cui politica ed economia possono essere riconciliate quando tutti i lavoratori, in quanto proletari, s’impadroniscono del controllo dei processi lavorativi, di quelli di classe e di quelli politici. Il consiglio è il modello, in embrione, di un “nuovo ordine” e rappresenta la chiave di volta dell’autogoverno dei singoli. La sua idea di autogoverno è il rovescio di quel concetto del “farsi Stato” della classe operaia che continuerà a vivere fino ai giorni nostri nella strategia della statualità fatta propria dalla sinistra. Suo principio di fondo è il superamento della separazione tra governanti e governati e suo obiettivo è la crescita libera e consapevole di ogni individuo sul piano culturale, morale e sociale. L’autogoverno gramsciano è la maturità delle coscienze e la realizzazione piena dello spirito di solidarietà. Ai suoi occhi la politica non è tutto, perché nella sua essenza, essa presuppone che una parte degli uomini diriga l’altra parte attraverso una sovrapposizione fissa dei dirigenti ai diretti, delle élite alle masse. Per lui, legittimare la politica significherebbe legittimare la distinzione fra dirigenti e diretti e per questa ragione la contrasta. “Se il subalterno era ieri una cosa, oggi non è più una cosa ma una persona storica, un protagonista, se ieri era irresponsabile perché resistente a una volontà estranea, oggi sente di

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essere responsabile perché non più resistente, ma agente e necessariamente attivo e intraprendente”. Egli confuta la diffusa credenza secondo cui la divisione del genere umano tra dirigenti e diretti sarebbe un fatto naturale e dimostra come essa non corrisponda alla verità storica. Sostiene che i “ciascuno”, in condizioni di autodisciplina e autocoercizione, sono ugualmente dirigenti e diretti. Gramsci si batte per l’unificazione del genere umano nella libertà e invita gli individui ad autoregolarsi per uscire dal “regno del governare” e superare così non solo lo Stato, ma l’esercizio della stessa egemonia, lo stesso consenso. E manifesta grande fiducia in una prospettiva del genere scrivendo: “La classe operaia moderna ha acquisito una nuova psicologia di massa, sta sviluppando forme nuove di vita, una nuova umanità. Si è identificata con la produzione ‘’moderna’, ordinata, precisa, disciplinata, secondo il ritmo delle grandi macchine, secondo il ritmo di una raffinata visione del lavoro”. Assumendola a modello, ha superato vecchi comportamenti, psicologie basate sull’isolamento e sulla contrapposizione. Nella fabbrica ogni operaio è indotto a concepire se stesso come inseparabile dai suoi compagni di lavoro, configurandosi tale luogo come “forma in cui la classe operaia si costituisce in corpo organico determinato, come cellula di un nuovo Stato, lo Stato operaio, come base di un nuovo sistema di Consigli”. Nel rifiutare d’intendere la disciplina come obbedienza passiva, come atto meccanico, ne esalta la funzione limitativa dell’arbitrio irresponsabile e quella di sviluppo della personalità e della libertà. Concepisce la strategia dei consigli incompatibile con ogni ideologia di mediazione e di pura e semplice umanizzazione delle relazioni industriali e la pone in stretta connessione tra l’organizzazione operaia e l’edificazione del potere operaio, inteso come governo di una società nella quale ogni individualità deve essere aiutata ad esprimersi e deve essere valorizzata. “Ordine nuovo” significa appunto per lui una gerarchia diversa da quella della democrazia, così come la conosciamo, diversa cioè dagli istituti parlamentari, diversa dalle organizzazioni contrattualistiche della classe operaia, diversa dagli stessi soggetti della politica. Il suo ordine è l’ordine contro il caos, è l’ordine nuovo contro l’ordine vecchio. Il socialismo che ha in mente Gramsci è pienezza di vita e di libertà per ogni individuo. “Lo Stato socialista non può incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalista, ma è una creazione fondamentalmente nuova”, “è organizzazione della libertà per tutti e di tutti”. 7.7 – Riforma morale e intellettuale Uno degli aspetti che emerge con estrema chiarezza dall’elaborazione gramsciana è senza dubbio l’importanza che, insieme alla necessità di aggredire la struttura capitalistica, egli attribuisce alla soggettività degli individui, al loro livello di coscienza sociale e di conoscenza, di cultura. Nell’esaltare la funzione intellettuale dell’uomo, Gramsci ci ricorda che “solo a grado a grado, a strato a strato, l’umanità ha acquistato coscienza del proprio valore… E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di una classe… Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavoro di critica, di penetrazione culturale”. Coscienza e cultura dunque, per lui sono componenti fondamentali della nozione di egemonia, intesa – come abbiamo visto – non come brutale “dominio”, ma come superiore capacità di interpretazione storica e di risoluzione dei problemi. Non è data alcuna egemonia – ammonisce – che non sia egemonia culturale. Gramsci intende per cultura una visione universalistica del mondo e degli uomini, la concezione della vita stessa, e definisce “cultura di sinistra” l’attitudine al mutamento, alla trasformazione degli uomini e delle cose. Cultura è organizzazione, esercizio del pensiero, acquisizione di idee generali, abitudine a connettere cause ed effetti disciplina del proprio io interiore, presa di possesso della propria personalità, conquista di coscienza superiore per cui si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. 249


Perciò, attribuisce grande importanza all’organizzazione della cultura e agli apparati ideologici, i quali producono materialmente orientamenti di pensiero e comportamenti, e insiste sul “passaggio dal sapere al comprendere, al sentire e, viceversa, dal sentire al comprendere, al sapere”. In previsione del divenire di una società in cui il contenuto intellettuale del lavoro è destinato ad accrescere progressivamente, egli attribuisce importanza allo sforzo che la classe operaia deve compiere per migliorare il proprio livello di coscienza e di conoscenza. E la sollecita a rinnovare la propria disposizione intellettuale non tanto e non solo nel senso di accrescere quantitativamente il proprio bagaglio conoscitivo, quanto invece nell’intento di acquisire una “tecnica di pensiero” che le consenta di modificare quell’atteggiamento morale passivo, inerte e subalterno che risulta assai diffuso tra gli strati proletari e che è causa di una visione distorta e mistificante della realtà. A questo riguardo chiarisce che “l’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi (i rapporti organici con gli altri esseri umani) e di elementi di massa e oggettivi o materiali (la natura, la struttura) coi quali l’individuo è in rapporto attivo” e che “se la propria individualità è l’insieme di questi rapporti, farsi una personalità significa acquistare coscienza di tali rapporti” e “modificare la propria personalità significa modificare l’insieme di questi rapporti”. “La ‘natura’ dell’uomo non è qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi”, essa si determina “storicamente” e “consapevolmente” nello svolgimento dei rapporti stessi, che peraltro sono intimamente contraddittori, “constatato che, essendo contraddittorio l’insieme dei rapporti sociali, non può non essere contraddittoria la coscienza degli uomini”. Uno dei campi decisivi di lotta è per Gramsci appunto quello dell’educazione dell’uomo. L’educazione è da considerare al di là di ogni visione fatalistica, perchè i suoi principi non sono mai dati, ma devono essere sempre negoziati, se non conquistati. E ci ricorda che per cambiare la società occorre cambiare l’individuo e per educare l’uomo occorre educare la società. C’è una forte accentuazione da parte sua del valore educativo, formativo all’interno del movimento operaio. Su l’“Ordine Nuovo” appare una manchette in cui sta scritto “Istruitevi, istruitevi, istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza”. Esercitare la direzione della società significa per lui mettere in campo una “azione egemonica intellettuale, morale e politica” quale essenza della “filosofia della prassi”. E di fronte alla tendenza del sistema capitalistico di subordinare l’istruzione alle necessità produttive, mette in guardia che non è riducendo la scuola a mera formazione professionale che si riscattano le classi oppresse, ma al contrario insegnando loro a padroneggiare gli strumenti del potere e cioè il saper leggere, il saper scrivere, il saper comunicare. E non manca di avvertire il proletariato che lo studio è un mestiere, anzi, un mestiere molto faticoso, perché richiede impegno e sacrificio, e dal quale non si può prescindere, perché è solo attraverso il sapere che maturano le coscienze degli individui e anche quella di un popolo, le quali vanno conquistate prima ancora della presa del potere, quale condizione del suo mantenimento. Per elaborare una nuova concezione del mondo occorre partire dal “senso comune” che è un codice di valori e di credenze trasmesso storicamente, il quale consente a ciascuno di definire la propria identità personale e collettiva. Ogni uomo, per il solo fatto che parla, ha una propria concezione del mondo, sia pure non consapevole, sia pure acritica, il linguaggio, infatti, è sempre embrionalmente una forma di concezione del mondo. Occorre aggredire il senso comune, occorre criticarlo, depurarlo, unificarlo ed elevarlo a quello che lui chiama “buon senso”, cioè una visione critica del mondo. Gramsci analizza il processo di formazione della coscienza dei cittadini e lo considera un percorso assai complesso nel quale predomina sullo sfondo la macchina produttiva che genera l’individualismo economico i cui effetti non si possono distruggere d’un sol colpo, tanto meno con una rivoluzione. Ai suoi occhi lo stesso uomo è un processo, precisamente il processo dei suoi atti, e la sua concezione del mondo è un prodotto storico non individuale, ma collettivo, appartenente a un determinato aggruppamento. Infatti, avverte che “si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini collettivi”. A spiegare il comportamento degli individui è

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l’ambiente. Egli poi mette in rilievo il fatto che la filosofia di una persona non è da identificarsi in quanto essa dichiara verbalmente, ma nel modo in cui essa agisce. Nella sua riflessione la critica del senso comune è una necessità per la costruzione dell’”uomo nuovo”. Essendo “l’uomo... il processo dei suoi atti, ...farsi una personalità significa acquistare coscienza di tali rapporti, modificarla, modificare tali rapporti e, comunque, averne coscienza piena”. Perché la filosofia della prassi si affermi nelle coscienze come organica e sistematica visione del mondo, deve a suo avviso essere necessariamente depurata da quegli elementi estranei quali il “determinismo, il positivismo, il neologismo che l’hanno inquinata nel corso della sua ricezione”. Gramsci ritiene che una larga parte della popolazione, essendo relegata ai margini del processo di acculturazione, è rimasta intellettualmente debole, sia per la sostanziale mancanza di solide basi culturali, sia per l’impossibilità di esprimere un proprio ceto di intellettuali in grado di lottare con strumenti adeguati per la conquista della egemonia politico-sociale e anche intellettuale e morale. Sostiene anzi che il senso comune è rimasto ancora largamente tolemaico (convinzione che al centro dell’Universo vi sia la Terra) per cui gli uomini vogliono rapide certezze. Perciò avverte la necessità, di un “nuovo senso comune” che si radichi “nella coscienza popolare con la stessa saldezza e imperatività delle credenze tradizionali”, convinto che le credenze popolari hanno la validità di forze materiali. E argomenta: “I mutamenti nei modi di pensare, nelle credenze, nelle opinioni, non avvengono per ‘esplosioni rapide’, simultanee e generalizzate, avvengono per lo più per ‘combinazioni successive’, secondo ‘formule disparatissime’ e incontrollabili ‘d’autorità’. L’illusione ‘esplosiva’ nasce dall’assenza di spirito critico”. “L’uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica, anzi, può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire che ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo operare che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha accolto senza critica”. Quest’ultima, però, può spingere “fino a un punto in cui la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica”. “Si pensi alla situazione dell’operaio dei paesi a capitalismo sviluppato, disinteressato alla politica e del tutto passivo”. Pertanto, l’”uomo attivo” può esercitare una funzione egemone solo se è contemporaneamente dentro e fuori il senso comune. E solo sviluppando a livello collettivo lo spirito critico e la coscienza teorica dei propri fini e mezzi con cui raggiungerli, è possibile uscire dalla situazione di stagnazione e di passività in cui il movimento operaio si è venuto a trovare. Il progetto di Gramsci è quello di un elevamento continuo e sistematico della vita intellettuale di strati sempre più vasti di popolazione poiché, se è vero che gli uomini prendono coscienza della propria personalità storica e dei propri compiti sul terreno delle superstrutture, attraverso cioè una radicale riforma del loro modo di pensare e agire nel mondo, la conquista dell’emancipazione dovrà primariamente passare attraverso l’acquisizione della indipendenza intellettuale e morale. E solo dopo un tale passaggio sarà possibile parlare di “spirito popolare creativo” quale condizione irrinunciabile per la costruzione di una nuova società. Un determinato tipo di “civiltà economica”, per svilupparsi, necessita di una morale conforme che vivifichi dei suoi principi tutta l’attività umana e sociale. Dal momento in cui una classe subalterna diventa realmente autonoma ed egemone, suscitando un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente l’esigenza di costruire un nuovo ordine intellettuale e morale, di dare corso a una riforma che affermi un’etica pubblica laica e progressiva, un nuovo senso comune all’altezza di un progetto di trasformazione sociale. Il tema della riforma intellettuale e morale è ricorrente nei suoi scritti e non attraversa solo l’intera riflessione dei “Quaderni”, nei quali l’uso dei termini “riforma”, intellettuale” e “morale” è vario, a 251


volte anche ambiguo, ma lo si ritrova già negli scritti giovanili. “Partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l’uomo moderno può e deve vivere senza religione”, ricorda in carcere. Allorquando però egli scopre che nella testa del filosofo napoletano non esiste “l’uomo sociale” e che di fatto egli è da ritenersi il leader nazionale della cultura liberal-democratica, il suo problema di fondo diventa quello della creazione di una weltanschauung proletaria da opporre alla concezione della vita borghese. E si convince che solo mettendo in campo una nuova morale, nuove idealità, un nuovo modo di vivere e di pensare diventa possibile far cadere le casematte del sistema e dare scacco matto alla forma liberale dello Stato. Il suo concetto di riforma morale e intellettuale è riconducibile all’analisi storica che egli stesso compie sul Rinascimento, sull’Umanesimo e sul Risorgimento. Egli sostiene che dalla storia italiana dei Comuni non è scaturito un dinamico rapporto politico-giuridico-culturale in formazione, ma “la cultura che rimane funzione della Chiesa, (la quale) è proprio di carattere antieconomico (in contrasto con l’economia capitalistica nascente), non è indirizzata a dare l’egemonia alla nuova classe, ma anzi a impedire che questa l’acquisti: l’Umanesimo e il Rinascimento perciò sono reazionari, perché seguono la sconfitta della nuova classe, la negazione del mondo economico che le è proprio”. A favorire l’evoluzione dei Paesi europei sono state anche le riforme religiose (il protestantesimo in Germania, il puritanesimo in Inghilterra, il calvinismo in Svizzera) e le ricadute che queste riforme hanno avuto sul resto d’Europa. In Italia esse sono state impedite dalla Chiesa che qui ha imposto la Controriforma, ipotecando così la storia nazionale e decretando il fallimento della cultura laica. Lo stesso processo di unificazione nazionale è stato condizionato in tal senso in maniera determinante. Pur dando luogo a un effettivo mutamento nei costumi e nelle modalità della convivenza civile, il Risorgimento – ai suoi occhi – fu sì una rivoluzione, ma una “rivoluzione passiva”, fu cioè un fenomeno d’élite in cui l’ammodernamento del Paese si attuò tramite una serie di riforme politiche e culturali imposte e non volute dal popolo, le quali hanno lasciato intatto l’ordinamento economico e sociale e hanno trascurato le esigenze nazionali. Gli italiani non hanno conosciuto un moto liberatore dal dogmatismo della Chiesa cattolica, dalla rigidità del suo ordinamento gerarchico, dall’esteriorità del suo culto, dalla corruzione del suo clero, per giungere, come fecero i protestanti, ad una più intima adesione alla religione. La Controriforma, o riforma cattolica, non solo non ha anticipato alcun moto progressivo, ma ha portato con sé una aggravata corruzione della vita morale, specie per la presenza onnipervasiva dello spirito gesuitico. E denuncia quale conseguenza la scarsità di uno “spirito nazionale statale in senso moderno” e il persistere di un provincialismo asfittico tipico di quello che definisce “l’italiano meschino”, la cui caratteristica è di essere corto di vedute e di mancare di rigore mentale. Pur esprimendo una valutazione positiva dell’unificazione nazionale, egli critica l’esito sociale di quel processo che fu caratterizzato da una netta egemonia delle forze moderate su quelle democratiche; il che ha lasciato non solo insoluta la questione meridionale, ma l’ha decisamente aggravata. Per queste ragioni egli sostiene che “è necessario in Italia provocare una riforma religiosa come quella protestante”, cioè una riforma intellettuale e morale, una rivoluzione popolare che modifichi pensieri e comportamenti degli uomini. Essa gli appare la condizione per un successo della rivoluzione socialista. Si tratta di una riforma, quella da lui avanzata, che non si limita a un’etica astratta, a una sorta di moralismo, ma presuppone il superamento dell’individualismo egoistico e la diffusione di valori collettivi. Gramsci esprime una forte passione morale e lotta per una nuova coscienza umana del proletariato. Riformare le coscienze significa per lui dotare le masse popolari degli strumenti concettuali essenziali a sostenere un confronto ideologico con la classe dominante e consentire loro di conquistare progressivamente la capacità di direzione intellettuale e morale della società. L’ordine intellettuale che persegue, a differenza del senso comune e della religione, presuppone un impegno

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continuo volto al conseguimento di un orientamento di pensiero indipendente e a un sempre più consapevole rafforzamento delle proprie facoltà elaborative e creative. Considera la riforma intellettuale e morale in stretta connessione con le modificazioni tecniche dell’apparato produttivo e delle relazioni sociali. “Una riforma intellettuale e morale – spiega – non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”. Sono chiari in lui sia il superamento di una visione essenzialmente quantitativa e produttivistica dello sviluppo, sia il proposito di costruire una società nella quale abbiano un peso crescente quelli che Marx definisce i “bisogni più ricchi” dell’uomo e che sono i bisogni non materiali. La riforma si attua sul duplice piano della morale politica e dell’etica privata ed estendendo all’organismo collettivo quel processo che ha avuto il suo inizio nella coscienza dell’individuo. E proprio per questi suoi caratteri, per essere attuata ha bisogno del consenso. La problematicità di una simile impresa non sfugge al suo teorico che anzi dimostra piena consapevolezza delle difficoltà che è destinata a incontrare. Altrettanto salda è però in lui la convinzione della sua imprescindibilità. Il messaggio che egli ci trasmette è quello di una rivoluzione culturale attuata dagli individui all’interno di una dinamica politica democratica conflittuale. Perché questo processo possa mettersi in moto, devono entrare in campo due soggetti: il partito, inteso come “moderno principe”, di cui diremo poi, e gli intellettuali. Gramsci è convinto che non è possibile l’educazione delle grandi masse senza la presenza di una èlite intellettuale, compito della quale è la creazione delle condizioni materiali per la partecipazione collettiva al processo produttivo, per la formazione del sapere e per l’amministrazione del nuovo utilitarismo e delle forme rappresentative di autogoverno. Ritiene peraltro che “gli intellettuali europei non rappresentano più l’autocoscienza culturale, l’autocritica della classe dominante, sono ridiventati agenti immediati della classe dominante, oppure se ne sono completamente staccati, costituendo una casta a sé, senza radici nella vita nazionale popolare”. E rileva che in Italia gli intellettuali sono stati generalmente legati a una tradizione libresca e astratta che li ha spesso tenuti lontani dalla realtà. L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato. “Gli intellettuali si credono indipendenti, autonomi, rivestiti di caratteri loro propri”. E precisa: “Il modo di essere del nostro intellettuale non può consistere nell’eloquenza, matrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore permanente”. E definisce “organico” l’intellettuale o il gruppo di intellettuali che rappresenta, aggrega, guida un gruppo sociale, specie se tale gruppo è connesso con “una funzione essenziale nel mondo della produzione economica”; marchia invece come “tradizionale” l’intellettuale o il gruppo di intellettuali che vive “con spirito di corpo” la sua ininterrotta continuità storica con altri gruppi intellettuali precedenti. “Se il compito degli intellettuali è quello di determinare e organizzare la riforma morale e intellettuale, cioè di adeguare la cultura alla funzione pratica, è evidente che gli intellettuali ‘cristallizzati’ sono conservatori e reazionari”. L’intellettuale al servizio del sistema, quello che fa proprie le ragioni del possidente, ai suoi occhi non è democratico, ma conservatore, reazionario ed è il tramite che lega e rende passive al potere costituito le classi subalterne. E scarica le sue critiche sugli intellettuali in voga al suo tempo: Padre Bresciani, Croce, Gentile, Papini, Ungaretti, Panzini, Corradini, Bellonci, accusandoli, in gradi e modi diversi, di “vigliaccheria morale e civile”, di “bassezza morale” e di buffoneria. A suo giudizio non esiste una classe indipendente di intellettuali, perché ognuno di essi appartiene necessariamente a un gruppo sociale, e pertanto li considera “commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico”. Affronta poi il problema dell’unità tra intellettuale e coscienza comune, cosa che altri non hanno fatto, per esempio la Scuola di Francoforte la quale su questi aspetti ha pure concentrato parte dei suoi sforzi. 253


Egli ritiene che, nella conquista della maggioranza della popolazione alle idee della classe rivoluzionaria, il proletariato rinuncia agli intellettuali di formazione borghese, mentre si prodiga a trasformare gli apparati ideologici di Stato dal loro interno. Intellettuali organici della classe operaia sono i suoi stessi quadri politici, sindacali, amministrativi. Egli parte, infatti, dal presupposto che tutti gli uomini sono intellettuali e filosofi. Lo sono nel senso che, anche se solo in potenza, tutti hanno la capacità di esplicare un’attività di tipo creativo, organizzativo e direttivo, anche quando non hanno una formale funzione sociale; lo è chiunque eserciti una funzione educativa. Per Gramsci non si può parlare di non-intellettuali, perché i non-intellettuali non esistono, semmai ognuno si distingue per i diversi gradi di attività intellettuale specifica. A suo giudizio la capacità di autocritica, di analisi critica della propria situazione storica, non deve essere una virtù individuale, ma deve diventare forma mentis collettiva, deve cioè tradursi in egemonia. Obiettivo del movimento operaio deve essere la conquista di un grado superiore di civiltà, la realizzazione di una società in cui le capacità critiche sono parte integrante del senso comune. Per questo, egli dichiara guerra alla “rinunzia di educare il popolo”. Appare ovvio che queste elaborazioni di Gramsci, così come gran parte delle sue riflessioni e indicazioni, vanno messe in relazione con gli avvenimenti storici e con le problematiche della sua epoca, e che rapportate all’oggi assumono un valore più storico-culturale che politico. Rispetto agli anni ’20 e ’30, il mondo ha subito più rivoluzioni e noi siamo chiamati a dare risposte a quesiti differenti e inediti. Il suo metodo e le sue intuizioni, però, si rivelano talmente acuti da stimolare ancor oggi chiunque sia impegnato nel comprendere l’empasse in cui si è venuta a ritrovare la sinistra. Mario Vargas Llosa ha scritto alla fine degli anni ‘80: “L’apporto di Gramsci al marxismo consistette soprattutto nel conferire all’intellighentia una funzione storica e sociale che nelle opere di Marx e Lenin era destinata alla classe operaia. Questa funzione è stata finora lettera morta nella società marxista in cui la classe intellettuale, come del resto quella operaia, è un mero strumento dell’élite o nomenkltura politica”. Parafrasando Llosa viene spontaneo chiedersi come sia possibile che nonostante gli escamotàge modernisti e rifondativi di questi ultimi venti anni, nella sinistra tutto sia rimasto uguale a prima, anzi... Evidentemente per la maggioranza dei suoi dirigenti e militanti Gramsci non è stato vissuto come maestro. 7.8 – Il partito come “moderno principe” e intellettuale collettivo Uno degli aspetti della teoria gramsciana che hanno dato adito a svariate e contrastanti interpretazioni è senz’altro quello riguardante il partito. Da alcuni studiosi e politici l’idea del “moderno principe” è stata tacciata di “deità”, da altri giudicata un inaccettabile imperativo categorico. In effetti, Gramsci pensa a una trasformazione socialista alla cui guida ci deve essere una sola forza politica, il partito comunista; così pure pensa a uno Stato diretto da un solo partito, quello comunista, anche se sollecita le alleanze; ha in mente una società quasi spartana che appare un tutto organico e coeso. La sua visione del partito è indubbiamente “totalizzante”, per certi aspetti è venata di un integralismo che ai giorni nostri stride con i concetti di libertà e di democrazia. Come qualsiasi uomo di pensiero, anche Gramsci deve essere preso in esame nel suo contesto storico, deve essere considerato figlio del suo tempo. Nel giudicare la sua opera, infatti, non è possibile prescindere dal fatto che la sua riflessione si svolge nel vivo di uno scontro politicosociale tragico, che egli vive sotto la sferza di una tirannide di classe che esaspera i rapporti e impone a tutti coloro che da essa sono perseguitati, opzioni e comportamenti inflessibili ed estremi. Non si può dunque leggere Gramsci alla lettera e pretendere di giudicare valide o meno le sue teorie mettendole pedissequamente in relazione alle problematiche di altre epoche storiche, alle tematiche del nostro tempo. Anche per lui vale la regola che viene applicata a ogni uomo di pensiero del passato. La sua elaborazione va interpretata alla luce delle condizioni in cui egli si è trovato ad operare e il suo valore va misurato soprattutto in base allo spirito che lo ha animato e al metodo che 254


ha adottato nell’affrontare quella determinata situazione. E’ solo in questo modo che noi possiamo trarre da ciò che ha scritto e fatto suggerimenti e stimoli per il nostro operare. In un tale spirito di osservazione, gli stessi limiti della sua riflessione e della sua proposizione politica non inficiano per nulla le sue intuizioni. Il fatto, ad esempio, che egli affidi al partito il compito di bandire e organizzare la riforma intellettuale e morale, vuol significare che se è pur vero che egli interpreta il partito in maniera totalizzante, il suo obiettivo fondamentale e prioritario è quello di esaltare il ruolo di ogni individuo nel determinare il processo storico e nel costruire il futuro proprio e della collettività, il che è indubbiamente una aspirazione nobile. Il partito viene visto come mezzo (in una situazione appunto drammatica che non concede alternative) e non come fine. Differenziandosi da molti dirigenti di partito del suo tempo, egli ha l’ardore per lo spirito critico e per la libertà di pensiero e si dimostra intransigente verso il conformismo intellettuale, l’accomodamento burocratico, la piaggeria del potere. Sostiene che un movimento politico deve lottare per una nuova cultura, per “un’etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale” alternativi a quelli esistenti. Sono in pochi, ahimé, a ricordare che Gramsci ha criticato a fondo non solo il modo di “fare politica” da parte dei suoi contemporanei, ma la stessa politica. Per il governo degli affari pubblici, ha scritto, “bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino a ogni sciocchezza”. Negli scritti degli anni ’24 -’26, insiste sul concetto che per “fare politica” occorre carattere, cioè coerenza con i propri principi, probità, ordine intellettuale, controllo e dominio sulla spontaneità del proprio essere. Occorre il rifiuto di ogni “transazione con i concessori, con i fannulloni, con i ladri”, il rifiuto di ogni interferenza tra vita politica e interesse privato. Massimo dirigente di sinistra, egli si sente in dovere di fare l’elogio dell’esponente della “destra” Quintino Sella, deputato dal 1860 e ministro delle finanze, sostenendo che era “un uomo di forti convinzioni morali, anzi di un certo puritanesimo, e (che ha) cerca(to) di mantenersi indipendente dalla corte… Come industriale, andato al governo, (ha) cessa(to) i rapporti di fornitura allo Stato”. Principi questi che oggi sembrano appartenere a un altro mondo. Ha poi sostenuto che “nella politica di massa dire la verità è una necessità politica”. “È necessario sentire i bisogni degli uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente… è necessario rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le ristrettezze della vita che sono costretti a vivere… Se l’uomo politico sbaglia nella sua ipotesi, è la vita degli uomini che corre il pericolo, è la fame, é la rivolta, è la rivoluzione”. Nella vita politica l’attività deve essere illuminata da una forza morale: la simpatia umana. Mancanza di simpatia umana è mancanza di profondità spirituale, è mancanza di sentimento e ciò significa dilettantismo. E in tale orizzonte intellettuale e morale egli critica l’organizzazione del suo stesso partito e denuncia il dilagare del funzionariato e del tatticismo. Se la burocrazia “finisce col costituire un corpo solidale, che sta a sé e si sente indipendente dalla massa, il partito finisce col diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene vuotato del suo contenuto sociale e rimane come campato in aria”. E la sua è un’aspra polemica, non solo contro il burocratismo politico, ma anche contro quello sindacale. Negli scritti su l’”Ordine Nuovo” vi è l’insofferenza, anche morale, per le tattiche e le manovre delle lotte di frazione. “L’errore del partito è stato quello di aver messo al primo piano e in modo astratto il problema della organizzazione del partito, che poi ha voluto dire solamente creare un apparecchio di funzionari i quali fossero ortodossi verso la concezione ufficiale. Si credeva e si crede tuttora (siamo nel ’24) che la rivoluzione dipende solo dall’esistenza di un tale apparecchio e si arriva fino a credere che una tale esistenza possa determinare la rivoluzione… La verità è che storicamente un partito non è mai definito e non lo sarà mai…poiché esso si definirà quando sarà diventato tutta la popolazione e cioè sarà sparito”.

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Avverte altresì la necessità di sbarrare la strada alla dittatura degli “intellettuali”, intesi in questo caso come gruppi di potere staccati, che in certe condizioni possono impadronirsi del partito e trasformarlo in macchina politica sovrapposta ai produttori e alla loro classe. Ritiene che il Partito socialista sia esposto continuamente a diventare il facile luogo di conquista di avventurieri, di carrieristi, di ambiziosi. E ammonisce: “Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parole, vuole comprensione, intelligenza e simpatia piena d’amore”. E non manca nemmeno di criticare il militante: “Si parla sovente di rivoluzione senza avere ben precisa la nozione di ciò che occorre per compierla, dei mezzi per raggiungere il fine. Non si sanno adeguare i mezzi alle diverse situazioni storiche. Si è in generale più propensi a fare delle parole che dell’azione politica, o si confonde l’una cosa con l’altra”. E pensa che il problema essenziale consista “nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia” ed è proprio verso i “capi” che esprime le sue riprovazioni. Egli non ama i miti come tessuto connettivo, né i carismi di questo o quel capo. Dà, senza mezzi termini, un giudizio nettamente negativo del “capo carismatico” inteso nel senso weberiano e michelsiano. Per lui il “capo” così inteso è da ritenersi negativo, anzi lo definisce “grande demagogo” e lo considera prodotto di una crisi in periodi di transizione. Nel riconoscere che la figura del capo carismatico appartiene al mondo moderno, ritiene che esso sia il prodotto di situazioni eccezionali e sempre con funzioni regressive di restaurazione. E non manca di ricordarci che “il demagogo è la prima vittima della demagogia”. Detesta il culto provinciale dell’intelligenza, quello fatto di ammirazione ingenua e fanatica per l’uomo intelligente, per il capo appunto, giacché questo genere di ammirazione prevale su tutto, sul giudizio morale e su quello politico. Per lui capo rivoluzionario è colui “che non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi da buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono necessario protagonista storico”. Alle classi subalterne che vogliono educare se stesse all’arte di governo, non serve il metodo dei gruppi dominanti che cercano il consenso di cui hanno bisogno per esercitare l’egemonia. E poiché negli ambienti borghesi la bugia e l’inganno politico sono un normale strumento di governo, e l’”essenziale dell’arte politica (diventa) il mentire, il sapere astutamente nascondere le proprie vere opinioni e i veri fini a cui si tende, il saper far credere il contrario di ciò che realmente si vuole”, egli manifesta una profonda avversione al “cadornismo” in genere (riferito al generale Cadorna che fu a capo delle forze armate italiane a Caporetto) e a ogni pura tecnica di comando. Per “cadornismo politico” intende “l’abitudine criminale di trascurare di evitare i sacrifici inutili” ricordando che “la maggior parte dei disastri collettivi (politici) avvengono perché non si è cercato di evitare il sacrificio inutile, o si è mostrato di non tener conto del sacrificio altrui e si è giocato con la pelle altrui”. “Cadornismo” è per lui “la presunzione che una cosa sarà fatta perché il dirigente ritiene giusto e razionale farla; se non viene fatta, “la colpa” viene riversata su chi non ha obbedito agli ordini. La sua concezione del “capo” è originale. Bordiga, ad esempio, ritiene che “le manifestazioni e le funzioni del singolo sono determinate dalle condizioni generali dell’ambiente e della società, e della storia di questa”, e pertanto “il capo più che inventare rivela la massa a se stessa... (ed) è lo strumento operatore e non il motore del pensiero e dell’azione comune”. Gramsci, invece, considera grande un condottiero politico che vanta la capacità, oltre che di previsione, di comando attraverso il consenso e precisa: “Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani”. Per lui, come per Lenin, il partito si crea dall’alto in basso, e non viceversa, intendendosi per “alto” non il fare autoritario e burocratico, ma l’agire al fine di sviluppare la coscienza critica di ciascun militante. Altro fenomeno oggetto del suo biasimo è quello del trasformismo che considera essere una delle caratteristiche di fondo della storia politica italiana, dal Risorgimento al fascismo. “Si può dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo”. E individua tre fasi: la prima è quella risorgimentale, costituita dal passaggio al “cavourismo” di nuovi elementi del 256


Partito d’Azione (all’indomani del 1848) la quale ha modificato progressivamente la composizione delle forze moderate; la seconda va dal 1869 al 1900 ed è quella caratterizzata dal “trasformismo molecolare”, cioè dall’incorporazione nella classe politica conservatrice-moderata di singole personalità appartenenti ai partiti democratici d’opposizione, controbilanciata, nell’ultimo decennio del secolo, dal passaggio nei partiti di sinistra di una massa di intellettuali; la terza, infine (dal 1900 in poi), è quella in cui interi gruppi di estrema sinistra passano nel campo dei moderati. A determinare il trasformismo nelle sue varie espressioni hanno contribuito, a suo avviso, anche i governi che hanno operato “come un partito ponendosi al di sopra dei partiti.. per disgregarli, per staccarli dalle grandi masse e avere una forza di senza partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo: così occorre analizzare le così dette dittature di Depretis, Crispi, Giolitti e il fenomeno parlamentare del trasformismo”. E pure ha concorso la “miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura: invece della storia politica la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione, invece dei libri e delle grandi riviste il giornale quotidiano e il libello”. E aggiunge che “c’è un gran pubblico che vuole andare a teatro: l’industria lo sta lentamente abituando a preferire lo spettacolo inferiore, indecoroso, a quello che rappresenta una necessità buona dello spirito”. Si tratta di una denuncia che si rivela di un’attualità sconcertante. Per lui, dunque, il trasformismo è la diretta conseguenza dell’egemonia conquistata ed esercitata dai gruppi moderati e conservatori sull’intera società, la quale ha comportato la “decapitazione” dei gruppi progressisti e il loro annichilimento per un lungo periodo. In forza di questa analisi e di queste critiche egli giunge alla teorizzazione del partito come “moderno principe”, il cui obiettivo non è soltanto la conquista del potere, ma il far entrare le masse nella politica prima ancora della loro conquista del potere. La strada che egli indica è quella di socializzare la politica politicizzando la società civile, trasferendo così il protagonismo da gruppi ristretti di potere alle grandi masse. “Il moderno principe, il mito-principe... non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale abbia già inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali”. Il suo “moderno principe” diventa la base di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume. E’ il realizzarsi della direzione, della coscienza critica, del passaggio da concezioni del mondo frammentarie, eterogenee e contraddittorie ad una concezione unificante. “Il moderno principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno”. Com’è facile intuire, un partito così concepito, sviluppandosi e diventando “intellettuale collettivo”, è destinato a sconvolgere tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali. “Intellettuale collettivo”, per la verità, è una definizione che non si trova negli scritti di Gramsci, ma è un’espressione di Togliatti il quale ha voluto interpretare così quel processo di maturazione che pone le basi per la trasformazione dei diretti in dirigenti. Quello che ha in mente Gramsci, dunque, è un tipo di partito decisamente nuovo, diverso da quelli conosciuti fino ai suoi tempi; differente dallo stesso modello leninista, anche se non mancano alcune analogie, soprattutto perchè si propone di essere alla testa del movimento in una guerra di posizione e non invece in una guerra manovrata com’era quella russa. I requisiti di fondo di questo nuovo soggetto politico possono essere così riassunti: 1) poiché deve tendere al superamento del solco esistente tra dirigenti e diretti, tra governati e governanti, esso ha il compito di socializzare la politica e di politicizzare la società civile. “Il partito comunista è lo strumento e la forma storica del processo di intima liberazione per cui l’operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà”. La costruzione di un tale processo deve avvenire anche attraverso il superamento della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e rispetto alle entità collettive 257


che tendono oggettivamente ad assorbire l’individuo come semplice momento, ogni suo aderente deve essere considerato irriducibile. E’ tale in Gramsci la volontà di far crescere politicamente e culturalmente la base del partito che egli dichiara di apprezzare maggiormente lo strato intermedio dell’organizzazione piuttosto del suo vertice; 2) il partito della classe operaia deve superare ogni angustia corporativa, ogni atteggiamento economicistico o sindacalistico. Mentre esercita il suo ruolo dirigente, è chiamato ad avere un rapporto spontaneo con la classe e deve rispettare l’autonomia dei movimenti. “Solo un partito che entra in rapporto intrinseco con la spontaneità è un partito che diventa carne e sangue della classe, strumento della sua ‘azione politica reale’, e non gruppo intellettuale che si richiama alla classe”. Suo compito è quello di capire le esigenze di cui sono portatori i movimenti e mentre si fa carico di quanto vi è di giusto nelle loro rivendicazioni, deve saper criticare i loro errori facendo così sintesi politica; 3) avversando la teoria bordighiana del “centralismo organico”, secondo il quale in determinate circostanze il gruppo dirigente può guidare il partito anche contro la volontà della maggioranza, egli sostiene il “centralismo democratico” inteso come “centralismo in movimento”, cioè in continuo adeguamento rispetto alle istanze del movimento reale e capace di compenetrare le spinte dal basso con il comando dall’alto. In assenza di una tale dinamica, prevale il centralismo burocratico il quale trasforma il gruppo dirigente in “una consorteria angusta che tende a perpetuare i suoi gretti privilegi”; 4) per essere alla testa delle masse, e non alla loro coda, in posizione subalterna e trascinata, il partito deve essere produttore di coscienza critica e rappresentare una coscienza superiore. Deve cioè saper pensare in dimensione universale convinto che l’acquisizione della verità passa attraverso una continua autocritica della propria conoscenza e del proprio operare. Secondo la testimonianza di Athos Lisa, durante le discussioni del collettivo nel carcere di Turi, Gramsci sosteneva che “un partito rivoluzionario dovrebbe, per definizione, essere un partito creatore di storia, padrone di ogni fatto, capace di vedere e compiere ogni fatto, capace di vedere e compiere ogni cosa, nella luce di un principio universale, mai spettatore, attore sempre”; 5) quale strumento di trasformazione e di educazione, nello sforzo continuo di costruzione all’interno della società di un nuovo ordine, il suo modo di essere e quello dei suoi militanti deve essere prefigurante la società che intende costruire. Pertanto egli liquida in sede teorica e pratica ogni limite “giacobino” nell’organizzazione e ogni strumentalismo e rivendicazionismo nell’azione di massa. Nel proprio agire deve in sostanza prefigurare la società dell’autogoverno; 6) chi è socialista o vuole diventarlo – asserisce – non ubbidisce, ma comanda a se stesso, impone una regola di vita ai suoi capricci, alle sue velleità incomposte. Libertà di pensiero non significa libertà di errare e spropositare. Al militante è richiesta serietà intellettuale, attitudine al confronto, allo studio, spirito di sacrificio, disciplina, intelligenza, creatività, precisione, coraggio di fare grandi cose. Condanna invece lo spirito di gruppo, l’individualismo, l’arrivismo, il narcisismo, il dogmatismo, il feticismo. Al dirigente e al militante non è la conferenza che deve importare, ma il lavoro minuto di discussione e di investigazione dei problemi, al quale tutti partecipano, tutti danno un contributo, nel quale tutti sono contemporaneamente maestri e discepoli. Si deve essere intransigenti nell’azione solo se nella discussione si è tolleranti, e i più preparati devono aiutare i meno preparati ad accogliere la verità; le esperienze singole devono essere messe in comune e tutti gli aspetti del problema devono essere esaminati, e nessuna illusione deve essere creata. Chi entra nel partito deve sentirsi contemporaneamente organizzato e organizzatore, diretto e dirigente. E l’itinerario che traccia per il partito è quello dell’autosoppressione, una marcia verso l’universalità, così come la classe proletaria è chiamata a sopprimere se stessa per dare vita a una società senza classi. Un partito, quello ideato da Gramsci, che sulla faccia della Terra, non è mai stato realizzato, purtroppo. 258


Si può essere tentati di ritenere di essere di fronte a un’utopia, eppure tutto l’insegnamento di Gramsci, come abbiamo visto, è denso di realismo e scientificità. Le sue riflessioni ed elaborazioni fondano nella materialità dei processi sociali e la sua “filosofia della prassi” è tutt’altro che una fuga nell’idealismo e nella fantasia. E’ mio personale convincimento che egli sia uno di quegli uomini di pensiero che hanno saputo guardare ben oltre il loro tempo e che hanno indicato un percorso di emancipazione umana non solo per i loro contemporanei, ma anche per i posteri. Un uomo di elevata statura culturale, morale e politica sul cui pensiero e sui cui atteggiamenti è possibile esprimere non solo consenso, ma anche riserve e dissensi proprio in nome dello spirito dialettico che contraddistingue l’intera sua opera. Per limitarmi a uno solo degli aspetti che ha suscitato giustamente perplessità e disapprovazione, credo sia giusto ricordare che sulla questione delle donne, Gramsci ha dato segno di avere una concezione tradizionale esprimendo posizioni arretrate e persino ambigue. Sebbene che su l’“Ordine Nuovo” egli abbia voluto pubblicare il manifesto del 2° congresso dell’Internazionale socialista indirizzato alle lavoratrici di tutto il mondo, e abbia anche voluto dedicare una tribuna all’emancipazione femminile; e ancora, quantunque proprio sotto la sua direzione, il Pcd’I abbia organizzato le sezioni di lavoro e pure la commissione nazionale per il lavoro delle donne, e abbia dato inizio alla pubblicazione di “Compagna”, egli non è stato minimamente sfiorato dal femminismo che pure aveva preso piede ai suoi tempi, anzi questo movimento ha suscitato in lui preoccupazione per i rischi che esso avrebbe potuto significare per l’organizzazione unitaria del partito. Nonostante questo, il valore della sua opera resta integro. Fuori del tempo non è pertanto Gramsci, come hanno sostenuto i suoi avversari e persino alcuni suoi eredi, ma chi non lo ha saputo o non lo ha voluto intendere. E lo sono tutti coloro che ancora oggi ne sottovalutano l’opera o si affannano nel disquisire ciò che in lui sarebbe da considerarsi ancora vivo e quanto invece sarebbe irrimediabilmente morto. Egli è una delle poche figure di dirigente politico che si battuto per la democratizzazione integrale di ogni aspetto della vita di ciascuno. Allorquando era ancora giovane, dimostrando un’ampia visione del ruolo dialettico che spetta ai comunisti, ha scritto: “Noi ci distinguiamo dagli altri uomini perché concepiamo la vita come sempre rivoluzionaria, e pertanto domani non dichiareremo definitivo un nostro mondo realizzato, ma lasceremo sempre aperta la via verso il meglio; verso armonie superiori. Non saremo mai conservatori, neanche in regime di socialismo, ma vogliamo che l’orologiaio delle rivoluzioni non sia un fatto meccanico come il disagio, ma sia l’audacia del pensiero che crea miti sociali sempre più alti e luminosi”. Altro che considerare vetusto il suo pensiero politico! Se c’è qualcosa che deve essere sepolto, oggi, non è certo Gramsci, bensì quel “pensiero debole” che purtroppo ha investito la stessa sinistra e che le impedisce di comprendere a pieno la sua opera.

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Capitolo 8°

Resistenza, via italiana al socialismo e boom economico 8.1– La Resistenza: opera di un’eroica minoranza In alcuni testi scolastici di storia la Resistenza viene fatta nascere nell’autunno del 1943, nel periodo successivo a due storici sconvolgimenti quali la destituzione di Mussolini, avvenuta il 25 luglio, e la fuga di Vittorio Emanuele III all’indomani dell’8 settembre, allorquando l’Italia viene a ritrovarsi divisa in due: il Centro-Nord occupato dai nazisti e il Mezzogiorno invaso dalle forze alleate. Tale interpretazione trova purtroppo diffusione in larga parte dello stesso senso comune rappresentando una vera e propria distorsione della realtà poiché, mentre da un lato assume come riferimento la costituzione delle formazioni partigiane, dall’altro oscura il fatto che la resistenza al fascismo nasce più di un ventennio prima, quando sulla scena politica italiana appare lo squadrismo mussoliniano. Il torto di una simile chiave di lettura sta nel non attribuire la giusta importanza alla coraggiosa difesa da parte degli operai e dei contadini, delle Camere del Lavoro, dei circoli popolari, delle cooperative, delle sedi dei partiti democratici dai criminali assalti che gli uomini del “duce” sferrano all’inizio degli anni ’20. In questo modo si compie l’errore di relegare ai margini della storia gli “arditi del popolo” e tutti coloro che hanno rifiutato di aderire alla “pacificazione nazionale”, con essi i 4.000 antifascisti uccisi nel biennio ’20-’21. E ancora di non riconoscere precursori del movimento di liberazione i vari Matteotti, Gobetti, Giovanni Amendola, Carlo e Nello Rosselli e anche le migliaia di militanti nei partiti di sinistra e democratici che sono stati assassinati, carcerati, perseguitati, o costretti all’esilio in paesi esteri, e anche gli stessi 5.619 imputati del Tribunale speciale fascista, molti dei quali hanno trovato la morte in carcere come Antonio Gramsci. Separare, sul piano della memoria collettiva, la fase precedente l’8 settembre dalla lotta partigiana è un grave errore, così come lo è quello di distinguere il fascismo pre 25 luglio 1943 dal fascismo della Repubblica sociale italiana. Se si prescinde da coloro che hanno osteggiato Mussolini sin dalla fondazione dei fasci, i quali costituiscono di fatto le radici e il tronco stesso della Resistenza, diventa impossibile spiegare in termini coerenti la stessa nascita delle formazioni partigiane. A determinare, o a contribuire ad avallare, una simile distorsione storiografica, concorrono a mio giudizio due ragioni tra di loro antitetiche. La prima è rappresentata dal tentativo da parte delle forze moderate e conservatrici di negare o ridimensionare la matrice di classe dello schieramento che si è opposto al fascismo e al nazismo. Non si vuole riconoscere, in sostanza, che la spina dorsale e la forza dirigente di quel movimento di lotta che ha portato alla liberazione del Paese dal giogo della dittatura è rappresentata dalla classe operaia e dagli intellettuali di sinistra. A differenza del processo di unificazione dello Stato italiano, nel “secondo Risorgimento” il ruolo della borghesia è risultato essere decisamente ambiguo e subalterno e a prendere la direzione sono state le classi subalterne. Perciò, nell’intento di adombrare questa verità e sviare altrove l’attenzione, screditando al tempo stesso la sinistra, c’è chi è ricorso persino ad accentuare ad arte gli aspetti di opportunismo e di violenza gratuita che nel corso della lotta partigiana ci sono pure stati. La seconda ragione riguarda invece la forzatura compiuta a fini politici dalla stessa sinistra nel far apparire la Resistenza un fenomeno se non di massa, certamente di dimensioni popolari quando invece, in effetti, essa ha rappresentato la mobilitazione di una minoranza, precisamente della parte più cosciente e coraggiosa della popolazione. Si tratta di una interpretazione che se si giustifica con la volontà di valorizzare la lotta partigiana, allo scopo di riscattare l’alleanza del nostro Paese con la Germania di Hitler, falsa però la storia. Il tentativo di sopravvalutare la Resistenza non può difatti cancellare la verità dei fatti. Come ricorda Lelio Basso, prima del ’42 gli italiani si dimostrano poco propensi a giudicare criticamente l’operato del regime e quindi a mobilitarsi contro le scelte omicide che Mussolini compie. Anzi, la stragrande maggioranza della popolazione si dimostra orgogliosa di appartenere a un Paese che è diventato una delle maggiori potenze mondiali e l’entusiasmo di essere alleati a una Germania ritenuta invincibile, contagia non solo chi si identifica 260


nel regime, ma anche gli indifferenti e persino qualche antifascista. E quando l’Italia entra in guerra, convinzione generale è che è giusto che i popoli “poveri” (così viene considerato quello italiano) combattano i popoli “ricchi”. A resistere a un simile plagio di massa, a non lasciasi omologare in un clima di consenso accomodante, sono solo degli esigui gruppi di irriducibili, quelli appunto che sono da tempo schierati contro il fascismo e che danno poi vita alla lotta armata. La stragrande maggioranza degli italiani apre gli occhi e incomincia a manifestare il proprio disagio solo in presenza di una situazione disastrosa e insostenibile, quando cioè la guerra si rivela nella sua crudeltà, e non invece come fatto momentaneo, così come aveva promesso il “duce”; quando sui fronti di guerra viene stroncata la vita di molti giovani italiani; quando le rappresaglie naziste colpiscono non solo i “banditi” partigiani, ma anche la popolazione inerme; quando i bombardamenti delle forze alleate distruggono infrastrutture, fabbriche e abitazioni; quando la crisi alimentare si riversa su gran parte dei nuclei famigliari. E’ solo a quel punto che il popolo si sveglia. Ma anche allora a dare il via al movimento di rivolta non è la massa scioccata che rimane passiva, ma una parte della classe operaia la quale dà vita agli scioperi della primavera del ’43. Un primo scossone arriva con il “colpo di Stato” compiuto dalla monarchia il 25 luglio dello stesso anno. Esso rappresenta un’autentica “rivoluzione di palazzo”, giacché si tratta di un cambio della guardia fittizio che lascia inalterato il blocco di potere. E’ questo il momento in cui si assiste alla pratica dimostrazione di quanto elevato sia il grado di conformismo che contraddistingue il popolo italiano. Come ho già ricordato, quando il re Vittorio Emanuele III fa arrestare e incarcerare Mussolini, nel Bel Paese ben 24 milioni di italiani portano in tasca una tessera del fascio o delle associazioni para-fasciste. Ci si dovrebbe aspettare una rivolta popolare contro l’atto del monarca, eppure di reazioni di tal genere non si verificano, a imperare è ancora l’opportunismo: un atteggiamento questo che si ripete in svariate circostanze. Per citarne un caso altrettanto significativo, va ricordato che su 600 mila soldati e ufficiali deportati in Germania, durante l’occupazione nazista delle regioni del Nord, quando vengono chiamati a scegliere tra l’alternativa di restare in quei campi di concentramento o ritornare in Italia a servire nell’esercito di Graziani, solo il 5% di essi accettano di rientrare nel Paese natio. Gli altri 570 preferiscono rimanere prigionieri nei campi tedeschi e molti di loro non vedranno più i loro cari. Il secondo scossone si registra l’8 settembre, il “giorno della vergogna”, come l’hanno definito in molti. Con la fuga del re e il conseguente abbandono dell’Italia settentrionale alla mercé dei nazisti, il Paese precipita nel caos più totale. L’Italia a quel punto è popolata di sfollati, di sbandati, di renitenti. Al Nord, occupato dai tedeschi, continua a funzionare, sotto il governo della Repubblica sociale, l’apparato pubblico e amministrativo di sempre. Nella coscienza della popolazione prevale il conformismo, la difesa dello status quo, l’abitudine al compromesso e al tirare a campare. L’imperativo categorico ad agire prevale in pochi, cioè in coloro i quali hanno consapevolezza che solo con la lotta l’uomo è in grado di realizzarsi compiutamente come uomo libero, perciò fanno conseguentemente la scelta di imbracciare il fucile o di sabotare il sistema. Mentre nelle fabbriche del Nord le avanguardie della classe operaia si battono contro gli occupanti e per la salvaguardia degli impianti, molti “padroni” riparano all’estero e fanno i doppiogiochisti trattando contemporaneamente con tedeschi e alleati. I grandi industriali scelgono la strada del collaborazionismo e coprono questa loro opzione elargendo qualche aiuto finanziario alle formazioni partigiane. Atteggiamento più o meno identico assumono i grandi proprietari agrari i quali affidano la difesa del loro patrimonio ai contadini, in prima fila ai braccianti, ai salariati, agli affittuari e ai mezzadri, cioè a quelle categorie contro cui vent’anni prima avevano scagliato gli squadristi. I ceti medi, dal canto loro, si rifugiano in una sorta di “zona grigia” avendo come unico obiettivo quello della sopravvivenza. E’ in questa tragica situazione che ha inizio la lotta partigiana. La Resistenza armata non nasce spontaneamente, ma deve vincere parecchie difficoltà e opposizioni, non solo materiali e organizzative, ma soprattutto politiche. A causa delle differenze 261


ideologiche e anche degli interessi materiali in gioco, sin dai primi anni ’20 e fino agli inizi degli anni ‘40, prevalgono steccati e differenziazioni che danno corpo a più antifascismi spesso tra di loro conflittuali. Non tutti i democratici e non tutti gli antifascisti sono favorevoli a imbracciare le armi contro tedeschi e fascisti. Liberali e democristiani non accettano facilmente questa scelta, dapprima la contrastano e poi la subiscono. Mentre a riunire gli antifascismi di sinistra è la politica dei “fronti popolari”, in specie la guerra di Spagna che suscita una massiccia mobilitazione internazionale spontanea, a riunire tutti gli antifascismi è lo scoppio della seconda guerra mondiale. Dagli studi compiuti da storici e ricercatori in questi ultimi decenni emerge una Resistenza non solo minoritaria, ma isolata, guardata con sospetto perfino da larghi settori della stessa classe operaia. E neppure durante le febbrili settimane dell’aprile ’45 essa diventa un evento di massa. A riguardo delle difficoltà incontrate nel costruire un movimento antifascista e partigiano che fosse il più esteso sul territorio, venti anni dopo, uno dei suoi principali protagonisti, Giorgio Amendola, ha così descritto la situazione di quel tempo: “L’antifascismo si è organizzato tardi e male. C’erano i gruppi del Nord, mentre il Sud era una realtà in cui questo schema dei Cln era puramente astratto, importato. Le battaglie di massa erano ristrette al triangolo industriale, e all’Emilia e Toscana, mentre tale esperienza era stata scarsa nel Veneto (anche l’Italia è varia e multiforme). Nel Sud ci furono anche dei moti contadini per la terra e per il pane – pochi in verità – che furono soffocati nel sangue”. E Gian Carlo Paletta conferma: “Gli unici episodi di rivolta, nella parte liberata del nostro paese, furono manifestazioni separatiste in Sicilia e poi proteste e persino rivolte, almeno in alcune zone, contro il tentativo di far partecipare, attraverso la coscrizione, alla guerra nazionale, i nostri giovani contadini”. La scarsa estensione e la precaria unità dello schieramento antifascista sono dipesi, in una certa misura, anche dalla incapacità delle forze di sinistra e laiche di sviluppare una politica unitaria nei confronti del movimento popolare cattolico. Alcuni storici suddividono la Resistenza, intesa come lotta armata, in cinque momenti e cioè: gli stentati esordi tra l’8 settembre e la fine del ’43; il suo consolidamento, nel primo semestre del ’44; l’espansione estiva di quell’anno e il ripiegamento autunnale; la crisi dell’inverno ’44-’45; l’insurrezione della primavera ’45. Nella prima fase i dirigenti della Resistenza si trovano a dover gestire gruppi più o meno raccogliticci di sbandati, un materiale umano politicamente amorfo che deve essere plasmato, e solo col passare dei mesi le formazioni partigiane diventano efficienti dal punto di vista militare. Straordinario è il contributo che proviene dalle nuove generazioni. Vi è una leva di massa, partigiana, delle classi 1923-26 che in grandissima maggioranza si sottrae ai bandi di reclutamento della Repubblica di Salò e affluisce nelle formazioni dei combattenti della libertà. Si tratta di giovani intellettuali cresciuti sotto il fascismo e al quale avevano aderito con sincero entusiasmo, ma che poi maturano un progressivo distacco fino a transitare sulla sponda opposta. Tra gli altri vi sono Mario Alicata, Giulio Carlo Argan, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Galvano Della Volpe, Mario Luzi, Guido Piovene, Vasco Pratolini. Altri giovani provengono dall’esercito nelle cui file, nel corso della guerra, è sorta un’avversione sia verso la Germania che verso il regime mussoliniano. Scrive l’antifascista fiorentino Ernesto Rossi nel giugno 1945: “Non bisogna survalutare la guerra partigiana in alta Italia. Bisogna tener conto che la grande massa dei partigiani era costituita di disertori che cercavano di salvarsi, di carabinieri, di guardie carcerarie, di lavoratori che avevano preferito darsi alla montagna piuttosto che farsi trasportare in Germania. Solo pochi partigiani hanno veramente combattuto e solo una infima minoranza era mossa da motivi politici”. Proprio per queste ragioni l’unità del movimento antifascista è un obiettivo assai difficile da conseguire e la regola obbligata per governare una tal congerie di combattenti è quella della pariteticità, cioè ciascuno conta per un voto. Scriverà Luigi Longo nel 1966 a questo proposito: “E’ un fatto che la questione dell’unità di comando delle forze partigiane, da noi sempre perseguita, riuscimmo a risolverla solo negli ultimi mesi della guerra, e solo formalmente, perché in pratica 262


non si realizzò”. A rendere difficoltosa l’azione delle formazioni partigiane sono poi i condizionamenti esterni. Mentre i comunisti insistono perché i Comitati di liberazione siano assunti come organismi di potere popolare e non solo come coalizione di partiti, a Roma, nell’Italia liberata, si privilegia la costruzione di una “nuova” democrazia intesa come duratura alleanza antifascista dei grandi partiti. Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia prende una serie di importanti decisioni quali: la unificazione delle formazioni partigiane , la ripartizione concordata tra i vari partiti delle cariche civili da assumere all’atto della liberazione, cioè la designazione preventiva di sindaci, prefetti, amministratori di vari enti, che però incontra opposizioni e resistenze. Mentre nelle città si sviluppa l’azione dei Gap, nelle campagne emiliano-toscane e in alcune fabbriche del Nord l’attività partigiana assume tratti di guerra sociale e di classe. Nel periodo che va dal giugno ’44 alla fine di quello stesso anno, per far fronte all’azione partigiana, vengono impegnate 24 divisioni tedesche e fasciste che compiono 6.649 operazioni di guerra con la perdita, oltre che di mezzi, di 16 mila nazifascisti. La lotta partigiana ha comunque un indubbio valore politico e morale, oltre che militare. Le repubbliche partigiane rappresentano una scuola di democrazia e un esempio di autogoverno popolare, ma queste pratiche vengono presto sopraffatte dalle regole della democrazia rappresentativa. Nelle file partigiane combattono oltre 185 mila persone. Destino di 29 mila circa di loro è la morte, mentre quello di altre 20 mila è l’invalidità e la mutilazione. Le donne partigiane combattenti sono 35 mila delle quali 683 vengono fucilate o cadono in combattimento. Le vittime civili di rappresaglie nazifasciste sono oltre 10 mila, tante quante gli ebrei italiani deportati nei lager. Anziché esaltare un tale sacrificio di vite umane, anziché far emergere questi aspetti e propositi positivi, i detrattori della Resistenza hanno preferito evidenziare strumentalmente i comportamenti negativi e dolorosi di una componente assai minoritaria dell’esercito di liberazione. Un moderno campione della saggezza umana qual è Ernesto Galli della Loggia, nel 2009 ha pontificato che la lotta partigiana è stata niente più che un cruento regolamento di conti fra due Italie ideologicamente opposte. Che il movimento antifascista abbia dato prova, accanto a momenti di altissima tensione morale e politica, anche di brusche ricadute, sono stati i suoi stessi protagonisti a riconoscerlo. Che in un clima di ferro e fuoco si siano verificati per mano di soggetti esasperati atti di violenza, è un fatto altrettanto risaputo e denunciato dagli stessi esponenti del movimento di liberazione. L’estrapolare però questi episodi da un contesto storico profondamente segnato dalle angherie compiute dai fascisti nel corso di un ventennio, è semplicemente una criminale distorsione storico-culturale. Per limitarmi, anche in questo caso, a tre soli esempi significativi, torna utile ricordare i tam tam che la storiografia revisionista ha messo in scena su “piazzale Loreto”, sulle vendette partigiane e sulle foibe. Se è pur vero che di fronte all’esposizione dei corpi di Mussolini e di altri gerarchi fascisti a Milano, il 28 aprile del ’45, lo stesso Ferruccio Parri ebbe a sostenere che si era in presenza di “un’esibizione di macelleria messicana”, e a me torna difficile non concordare con un tale severo giudizio, mi appare imperdonabile il dimenticare che quella macabra scena (prodotto di un incontenibile furore di popolo) non era altro che la ripetizione pedissequa dei linciaggi che i fascisti, Farinacci in testa, erano usi compiere nei confronti dei “banditi” che si opponevano al regime (si ricordino le esposizioni nelle piazze dei corpi dei partigiani torturati e impiccati). L’eludere questo precedente non è modo onesto né intellettualmente né moralmente di rileggere la storia. Identico discorso vale per le vendette omicide che nel periodo della liberazione si sono susseguite in alcune aree della Toscana e dell’Emilia Romagna. In “Sangue dei vinti” un altro maestro di morale, Giampaolo Pansa, si è preso la briga di fare il censimento delle vittime dei partigiani all’indomani del 25 aprile: quasi 20 mila persone uccise, per la maggior parte fascisti, soldati e capi della Repubblica sociale, ma anche proprietari terrieri, “nemici di classe”, borghesi, preti, antifascisti 263


liberali, cattolici, azionisti e monarchici. L’autore condanna simili eccidi trascurando di documentare con altrettanta obiettività e meticolosità le brutali rappresaglie che gli squadristi fascisti hanno compiuto anzitutto contro i ribelli e i partigiani, e poi contro la stessa popolazione civile inerme accusata di solidarizzare e aiutare chi si opponeva al regime. Le efferatezze compiute dagli squadristi hanno inevitabilmente prodotto rancori e risentimenti che sono poi inesorabilmente sfociati in azioni punitive che indubbiamente devono essere oggetto di condanna. L’ignorarle significa voler gettare discredito su chi ha avuto il coraggio di combattere un regime odioso e assassino. A chi fa uso strumentale della memoria va ricordato che in Toscana per anni ha operato la Banda Carità che era una sorta di SS italiana i cui eccessi sono stati criticati e condannati dallo stesso ministro fascista e anche filosofo, Giovanni Gentile. E poi è da considerare che, all’indomani della fine del conflitto mondiale, coloro che avevano dato vita alla Resistenza, in primis i militanti della sinistra, hanno dovuto assistere non solo alla scarcerazione di esponenti fascisti rei di aver perseguitato e discriminato chi era contrario al regime, ma addirittura al loro reinserimento nelle forze dell’ordine o nell’amministrazione dello Stato, mentre gli ex partigiani venivano considerati dei potenziali criminali o comunque persone da temere. Infine, torna opportuno rammentare che i massacri delle foibe nella regione Venezia Giulia e in Istria, vicende su cui in questi ultimi anni si è accesa una feroce polemica, non sono avvenimenti isolati, ma trovano anch’essi origine nelle scellerate imprese degli occupanti nazi-fascisti sulle quali i benpensanti hanno sempre cercato di stendere un velo di silenzio. Dopo l’occupazione dei territori jugoslavi, avvenuta nel ’41, il regime mussoliniano ha fatto leva sulla violenza per piegare le resistenze delle popolazioni autoctone ed è ricorso al sequestro dei beni, all’incendio di case e anche alle deportazioni nei campi istituiti in Italia (Arbe, Gonars, Renicci). Soprusi e stupri sono stati la prassi quotidiana degli occupanti. Le minoranze slovene e croate residenti nella regione Venezia Giulia sono state snazionalizzate con l’obiettivo di conseguire una bonifica etnica. Sono state eliminate tutte le istituzioni di nazionalità non italiana, le scuole sono state omologate a quelle del regime fascista e gli insegnanti licenziati e costretti a emigrare. E’ stato abolito l’uso della lingua slovena persino nella liturgia e nella catechesi e posto un limite all’accesso dei non italiani ai pubblici impieghi. Stando alle stime jugoslave, in quel periodo sono emigrati dalla regione 105 mila sloveni e croati. Dopo l’8 settembre del ’43, con il ritiro dei tedeschi dalla regione, il movimento partigiano di Tito ha scatenato nelle zone di Trieste, del Goriziano e nel Capodistriano un’ondata di violenza, mettendo in pratica lo sciagurato principio del “dente per dente, occhio per occhio”. A commettere i crimini delle foibe sono proprio quegli sloveni e quei croati, spalleggiati dai serbi, che sono stati oggetto delle angherie fasciste e il cui colore politico non era solo il “rosso”. Quando, dopo il 47, è stata ripristinata l’amministrazione italiana, le violenze si sono ripetute e vittime sono stati a loro volta gli sloveni. A causa del perdurare dei nazionalismi e delle conseguenti politiche discriminatorie e persecutorie, centinaia di migliaia di italiani hanno dovuto abbandonare le aree soggette alle sovranità slovena e croata e hanno riparato nella madrepatria. Insomma, quella delle foibe è una vicenda complessa. Nelle fosse del Carso vi sono finiti italiani, croati, sloveni, serbi, tedeschi e persino alcuni militari alleati. Non ci vuole molto a comprendere che l’origine di avvenimenti tanto tragici e deplorevoli è lo stato di guerra, quella guerra voluta da Mussolini e dalla monarchia, non certo dai partigiani, e che le efferatezze, da chiunque siano state compiute, sono il prodotto delle regole della contrapposizione ideologia e fisica e dello scontro armato. Per comprendere e ammettere questa verità è però necessario essere obiettivi e soprattutto in buona fede. L’ultima considerazione che mi preme di svolgere riguarda invece lo scarto che dopo la liberazione del Paese si è registrato tra le aspettative di chi ha combattuto per la libertà e le soluzioni politicoistituzionali che ne sono conseguite. In molti si sono posti la domanda perché mai in Italia non si è realizzata una “democrazia popolare”, e perchè lo schieramento progressista ha ceduto alle forze 264


moderate e conservatrici che si erano compromesse col fascismo. La polemica sulla mancata realizzazione del socialismo è scoppiata non solo tra la componente trotzkista del movimento e il Pci, ma in seno allo stesso partito di Togliatti. Chi ha sognato la rivoluzione proletaria ha manifestato dissenso e risentimento nei confronti del gruppo dirigente. A dire di Lelio Basso i comunisti italiani, sottovalutando il ruolo delle masse e sopravvalutando quello dei “capi”, hanno compiuto un grave errore e si sono rivelati succubi della politica staliniana. In effetti, nella politica unitaria e antifascista del movimento comunista è costantemente presente una contraddizione non risolta. Tra la ricchezza del movimento, cioè la potenzialità rivoluzionaria che quella lotta contiene in sé e moltiplica, e la piattaforma teorica e politica c’è una discrepanza. A questo riguardo sono però da considerare due ineluttabili fattori: a) il fatto che in quel momento in Italia, come ben documenta Emilio Sereni, non esiste una maggioranza disposta a insorgere per realizzare il socialismo; b) i “tre grandi” (Roosvelt, Churchill e Stalin) a Jalta hanno delineato la spartizione del mondo in sfere d’influenza e un’eventuale prosecuzione della lotta armata, in Italia dopo la liberazione dal nazifascismo, avrebbe rischiato di rischiato di riproporre la tragica fine dei comunisti greci sconfitti dalle stesse forze alleate. Nonostante la partecipazione preponderante del movimento operaio alla lotta di resistenza e alla liberazione del Paese dal nazifascismo, a prendere alla fine il potere è la componente moderata dell’antifascismo in combutta con le forze conservatrici. Oltre ai condizionamenti internazionali, poi, a impedire lo sviluppo di una rivoluzione sociale hanno concorso diversi altri fattori. Prima di tutto, la differenza d’impegno politico e sociale tra le popolazioni del Nord e del Sud del Paese, poi lo spessore reazionario che il regime fascista ha lasciato nella coscienza sociale degli italiani. Altresì hanno pesato i limiti dello stesso movimento che ha dato vita alla Resistenza. Il fatto che le forze progressiste e democratiche non siano state capaci di elaborare un programma di riforme fondato su obiettivi che andassero oltre la gestione capitalistica dell’economia e oltre la democrazia parlamentare, hanno reso impossibile una rottura col passato e l’instaurazione di un potere di classe. Le forze politiche della sinistra sono uscite dall’esperienza della Resistenza senza aver riqualificato la propria fisionomia ideale, programmatica e organizzativa, e senza aver avviato tra di loro un dialogo tale da superare le ambiguità che hanno contraddistinto lo schieramento sin dalla sua nascita. Mentre dalla componente operaia e popolare, cioè da parte dei comunisti, dei socialisti e del Partito d’Azione, si è lavorato per estendere e rinsaldare l’unità delle forze nazionali, da parte delle forze moderate e conservatrici, compresi i liberali e i democristiani, si è operato per lasciare il più possibile immutato lo stato di cose esistente. Dopo la guerra, infatti, molte personalità compromesse con l’antisemitismo fascista, hanno proseguito tranquillamente la loro carriera ai posti di comando. A molti di loro sono state condonate le nefandezze compiute. Chi aveva comandato i plotoni di esecuzione di Salò è stato assolto perché non aveva personalmente imbracciato il fucile. Chi aveva stretto nelle morse i genitali degli antifascisti, è stato amnistiato perché la tortura non era durata particolarmente a lungo. Chi aveva promosso lo stupro di gruppo delle staffette partigiane, è stato giudicato colpevole di semplice offesa al pudore femminile. Il movimento cattolico è uscito dall’esperienza antifascista per un verso con un atteggiamento morale e civile avanzato, per altro con posizioni programmatiche, con un rapporto con le masse popolari e con un tipo di classe dirigente più arretrati di quelli del primo dopoguerra. Testimonianza ne è il fatto che i maggiori esponenti della Democrazia cristiana, prima di scrivere il testo della Costituzione repubblicana, si sono sentiti obbligati a ottenere l’approvazione preventiva, o quanto meno il tacito assenso, della Santa Sede. All’indomani della liberazione, i CLN (Comitati di Liberazione Nazionale), tollerati a mala pena dalle autorità militari anglo americane, sono stati spogliati dei loro poteri decisionali e trasformati in organismi burocratici inerti. Rievocando la Resistenza, nel 1971, Emilio Sereni scrive: “Di contro a un’Italia settentrionale, e sia pure aperta a una rapida avanzata verso il socialismo, la maggior parte del paese, e per di più 265


la parte meno industrializzata, economicamente, socialmente e politicamente più arretrata, sarebbe restata permanentemente soggetta all’occupazione degli alleati occidentali… e questa realtà ebbe senza dubbio un peso non trascurabile nelle nostre scelte…. L’instaurazione di un potere comunista avrebbe determinato una crisi estremamente grave nello schieramento alleato, nel momento stesso in cui esso era ancora impegnato a fondo nella fase culminante della guerra contro la Germania… e il punto di osservazione dei nostri compagni sovietici pare non fosse molto diverso dal nostro”. Soprattutto, è da considerare che la maggioranza degli italiani ha preferito considerare chiuso il capitolo del regime di guerra e dedicare ogni energia alla ricostruzione del proprio futuro, in nome di valori come la famiglia, la fede religiosa, l’identità locale. Il capolavoro della Democrazia cristiana è consistito proprio nell’intercettare questa sensibilità diffusa, che in precedenza aveva trovato sfogo nel qualunquismo, e nel darle una rappresentanza politica attraverso una declinazione moderata dell’antifascismo. In tali condizioni era ben difficile porre le basi per la costruzione di una società socialista. Il Pci avrebbe di certo potuto smascherare la Dc come partito della conservazione, elevando il livello di coscienza delle masse, ma così non è stato. Come ricorda Lelio Basso, nel corso di una riunione, avvenuta a Milano, fra i rappresentanti dei sei partiti antifascisti in vista di un accordo comune per la lotta contro il fascismo, Concetto Marchesi ebbe a leggere a nome del Pci un documento tutto teso a fornire assicurazioni e garanzie alla borghesia contro il turbamento dell’ordine sociale (ci si preoccupava persino di tranquillizzare gli industriali che avrebbero avuto dal governo antifascista il risarcimento dei danni di guerra), tanto che il rappresentante democristiano poté dire: “allora noi democristiani siamo più a sinistra dei comunisti”. Le storiche rivendicazioni del partito della classe operaia sono state nei fatti sacrificate sull’altare di una unità antifascista che ben presto è stata demolita dalla stessa Democrazia cristiana impegnata a preparare la piena restaurazione capitalistica. Le espressioni della sinistra, del Pci in particolare, avrebbero potuto scegliere una soluzione alternativa sia alla “democrazia popolare” che alla “restaurazione borghese”, ma ciò avrebbe comportato la rinuncia al compromesso e la determinazione invece di rilanciare l’offensiva sul terreno economico, istituzionale e culturale. Avrebbe cioè dovuto insistere su obiettivi quali il controllo non solo dall’alto, ma anche dal basso del sistema produttivo; sulla riforma agraria; su una rigorosa politica finanziaria in funzione di scelte prioritarie nella ricostruzione; sull’abolizione del vecchio apparato repressivo basato sui prefetti e sui questori di carriera; sulla estensione delle esperienze di autogoverno popolare; sull’avvio di una riforma intellettuale e morale di gramsciana memoria. Invece di far proprio tutto questo, la sinistra ha preferito percorrere la strada della delega ai partiti nella gestione del potere. Non vi è dubbio che il passaggio da uno Stato totalitario a uno Stato democratico appresenta di per sé una conquista straordinaria, e la grandezza della Resistenza sta proprio nell’aver contribuito in maniera determinante a rendere possibile questo salto di civiltà. Un tale balzo, però, non è stato sufficiente a garantire una prospettiva socialista e l’esperienza storica lo ha dimostrato. Risulta a questo riguardo assai eloquente quella breve riflessione autobiografica che Jean Paul Sartre, in “Merleau-Ponty”, attribuisce al suo amico, e cioè: “Noi non avevamo torto nel 1939 a volere la libertà, la verità, la felicità, rapporti chiari tra gli uomini, e non rinunciamo all’umanesimo: (ma) la guerra… ci ha insegnato che i valori restano soltanto nominali… senza una infrastruttura economica e politica che li faccia entrare nell’esistenza”. 8.2 – La “svolta di Salerno” del Pci Alla fine del 1943 si svolge la conferenza di Teheran. La prospettiva che viene tracciata da Stalin, Roosevelt e Churchill, se non esclude la possibilità di una realizzazione della “democrazia popolare”, cioè del passaggio dal sistema capitalista a quello socialista, sottintende che in alcuni Paesi la lotta per il socialismo deve essere subordinata alle esigenze superiori della coesistenza 266


pacifica. Ad alcuni partiti comunisti rimasti fuori dalla prevista sfera d’influenza dell’Urss (è il caso del Pci) viene imposta l’accettazione per i loro Paesi di un futuro capitalista. Qualche tempo dopo i sovietici riconoscono il governo Badoglio. Quando, nella primavera del ’44, Togliatti rientra in Italia da Mosca imprime una svolta nella strategia del Pci: è la cosiddetta “svolta di Salerno”. Smentendo le posizioni assunte fino a quel tempo dal centro direzionale del partito operante nel Paese (consistenti nel rifiuto di collaborare con il governo guidato da Badoglio e nella richiesta dell’uscita di scena del re Vittorio Emanuele III), propone l’alleanza con i monarchici per combattere il fascismo e il nazismo. Con questo nuovo indirizzo egli fa intendere di rinunciare ufficialmente alla presa del potere e di assumere come obiettivo il perseguimento di una “democrazia progressiva”. Non facendosi illusioni sia sulla spartizione del mondo in zone d’influenza, sia sulla possibilità di praticare, dopo venti anni di fascismo, la via rivoluzionaria, si propone di gestire un graduale processo di democratizzazione dello Stato attraverso la collaborazione dei comunisti con gli altri partiti democratici. Fa in sostanza sua la formula di compromesso che era stata avanzata da Croce e De Nicola. Su questa “conversione” strategica del leader del Pci si è discusso molto e sono state formulate diverse interpretazioni. C’è chi ha sostenuto che sia stato Stalin a imporre a Togliatti la rinuncia alla richiesta di una immediata abdicazione del re, se questi avesse deciso di combattere contro i tedeschi, e quindi di puntare a entrare nel governo Badoglio. Si dice esistano dei documenti del “fondo Stalin” che dimostrano come sia stato proprio il capo del Cremlino a far cambiare la posizione antimonarchica del Pci e a suggerire l’idea di un ampio accordo con le altre forze politiche. Mikhail Narinskij, storico, vicedirettore dell’Istituto per la storia mondiale dell’Accademia delle scienze di Mosca, incaricato di ricostruire gli archivi del Comintern, ha sostenuto che “effettivamente la linea assunta dal Pci dopo il ritorno di Togliatti in Italia fu dettata da Stalin” e ha assicurato che ciò è testimoniato “non da uno ma da un insieme di documenti”. Aggiungendo che “preparandosi a partire per l’Italia, Togliatti scrive dei documenti sui compiti dei comunisti italiani e sostiene che si deve mantenere la richiesta di abdicazione del re e delle dimissioni di Badoglio per la formazione di un nuovo governo democratico col sostegno dei partiti antifascisti. Nella notte del 14 marzo, Togliatti fu ricevuto da Stalin, alla presenza di Molotov. Da questi ebbe tre direttive, precisamente: 1) i comunisti non devono chiedere l’immediata abdicazione del re; 2) possono entrare nel governo Badoglio; 3) devono concentrare tutti gli sforzi in direzione della creazione di un ampio fronte nazionale per la lotta contro la Germania hitleriana”. Altri storici e politici hanno sostenuto invece che a suggerire e sollecitare all’inviato di Stalin, Andrei Vishinskij, il cambio di rotta del Pci sia stato, nel gennaio ’44, il diplomatico italiano Renato Prunas. Vi è poi chi ha sostenuto che sulla “svolta di Salerno” Togliatti si trovò spontaneamente d’accordo con Stalin e quindi non prese ordini da lui. Altri ancora, infine, hanno attribuito questa svolta all’esclusivo acume politico del leader comunista italiano asserendo che già all’indomani del 25 luglio ’43, quando ancora si trovava a Mosca, con un lettera indirizzata a Dimitrov, egli avrebbe espresso un giudizio critico sulle posizioni antimonarchiche e antiBadoglio dei dirigenti del Pci in Italia. Secondo questa interpretazione, Togliatti avrebbe sostenuto che certamente si doveva chiedere l’abdicazione del re e la sospensione delle prerogative della Casa regnante, ma puntando alla “formazione di un governo nazionale provvisorio, fondato sul popolo, che prenda tutti i provvedimenti atti alla liquidazione della guerra e del fascismo e al ripristino delle libertà democratiche”. Pertanto, egli avrebbe ritenuto già a quel tempo che fosse necessario convocare una “Assemblea nazionale costituente” per “decidere sulla questione del prossimo regime in Italia sulla base della volontà della nazione”. Questa presa di posizione, che tra l’altro – si dice – era argomento dei suoi discorsi radiofonici da Mosca fra il dicembre ’43 e il gennaio ’44, testimonierebbe dunque che fu lui e non altri ad elaborare la nuova linea strategica dei comunisti italiani. Sta di fatto che nelle posizioni del Pci, a questo riguardo, sono rintracciabili solo alcune 267


contraddizioni. Per esempio, nel documento firmato da Ercoli il 1° marzo ’44, nella stesura originale sta scritto che “i comunisti non si rifiutano di partecipare” a un governo unitario, a condizione però che il re abdichi e che il governo non sia presieduto da Badoglio. Questa frase risulta però essere stata successivamente depennata e sostituita da un’integrazione che dice, tra l’altro: “I comunisti sono pronti perfino a partecipare a un governo senza l’abdicazione del re”. Poiché, come ricorda lo storico inglese Donald Sasson, “ai nuovi concetti introdotti da Togliatti nella scena politica italiana nel 1944-46 non fu data da lui in quegli anni una sistemazione teorica” e “un dibattito teorico su quella che poi fu chiamata la ‘tematica di Salerno’ non ebbe luogo negli anni del dopoguerra”, lo stabilire come effettivamente siano andate le cose appare un autentico rebus. Quel che ai fini della nostra riflessione interessa è mettere in chiaro che con la “svolta di Salerno” il Pci rinuncia ufficialmente a quella strategia della “presa del potere” che è stata la sua ragion d’essere fino a quel momento e sceglie la strada della democrazia, o meglio della “democrazia progressiva”, come la definisce Togliatti. Il nuovo percorso da lui indicato si scontra però con un partito impreparato sia a interpretarlo che ad attuarlo. Nel Nord del Paese, un tale programma dal carattere “democratico e nazionale” mal si concilia con la lotta partigiana e con le aspirazioni di larga parte dei suoi protagonisti. Il partito è impegnato giorno per giorno nello scontro con il nazifascismo e per il socialismo e larga parte dei suoi militanti ripongono speranze non certo nell’azione politica, bensì nell’”ora X”. Oltretutto, mentre il leader del Pci compie la “svolta”, nella vicina Jugoslavia Tito sviluppa al massimo e con incoraggianti risultati la strategia della conquista militare del potere che è condivisa da una parte dei dirigenti del Pci del Nord Italia, Longo e Secchia compresi. Ad apprezzare la politica unitaria di Togliatti, almeno nella prima fase della sua attuazione, sono dunque solamente quei comunisti che hanno vissuto intensamente l’esperienza francese dei fronti popolari del ’36-39. La “svolta”, in sostanza, non può contare immediatamente su un movimento di massa impegnato a realizzarla con convinzione attraverso precisi obiettivi di lotta, e di questo suo limite Togliatti è ben consapevole. Di più, in quel preciso frangente, le sue stesse intuizioni non sono ancora definite, ma in piena fase di elaborazione, perciò non del tutto convincenti. A criticare e ad opporsi alla “svolta” sono anche molti dei dirigenti dei partiti antifascisti, anzitutto i socialisti, i quali si sentono politicamente spiazzati dall’improvvisa disponibilità del Pci al compromesso con Badoglio e la Casa reale. Lelio Basso, in tempi successivi, ebbe a sostenere che la “’svolta di Salerno’ non significò affatto l’immissione dei comunisti nella lotta antifascista, alla quale partecipavano già con grande vigore come vi avevano sempre partecipato, ma significò l’accettazione di un compromesso con le altre forze dell’antifascismo borghese il quale accantonava ogni altra rivendicazione e rimandava ogni altro problema che non fosse quello della vittoria sul fascismo”. Vent’anni dopo commenterà: “L’appunto che io muovo alla politica di unità nazionale è di aver preso il solo elemento nazionale, come motivo unitario, inteso come motivo di lotta non tanto contro il nazifascismo come fenomeno sociale e politico, come fenomeno di classe, ma contro il nazismo come regime di occupazione straniera e con il fascismo come suo alleato. Si presentava sempre soltanto la vittoria in guerra e la fine del fascismo come obiettivi che si dovevano raggiungere. Si è lasciata troppa iniziativa ai partiti borghesi. Si sono accettati una serie di accordi, di compromessi che non sono per nulla giustificati tutti dalla presenza degli alleati, solo per non turbare l’unità nazionale. A nessuno è venuto in mente di abolire tutta la legislazione fascista. Abbiamo accettato completamente l’impostazione borghese dei Cln. Ad un certo momento (ottobre ’44) c’era una duplicità nelle fabbriche di Milano: Comitati di gestione e Cln di fabbrica. I primi furono sacrificati, soppressi, e rimase il Cln”. Dal canto suo Togliatti è convinto che, di fronte al delinearsi di una spartizione del mondo in sfere d’influenza, è necessario e possibile lavorare per la costruzione di un’esperienza socialista in regime di democrazia attraverso la lotta popolare, e pensa a un sistema diverso da quello dell’Unione Sovietica. Nel suo rapporto al 5° congresso del partito, infatti, egli affronta il tema della 268


“democrazia progressiva” e vara la linea del “partito nuovo” quali fondamenta di una nuova via italiana al socialismo. E insiste sul fatto che gli operai italiani non possono e non devono fare come si è fatto in Russia. Occorre invece costruire una “Italia democratica” distruggendo tutti i residui di fascismo e legittimando la partecipazione al governo del partito comunista. Egli ritiene che in un regime di democrazia, attraverso la lotta popolare sia possibile costruire un’esperienza socialista diversa da quella dell’Urss, sia cioè possibile dare vita a un socialismo non autoritario ma aperto e democratico. Con la “svolta di Salerno” viene per altro evitata la rottura dello schieramento antifascista e insieme quella del Paese; vengono create le condizioni per la vittoria sulle forze nazi-fasciste, la quale consente la presenza dell’Italia al tavolo della trattativa internazionale, e per la vittoria del referendum che sancisce la Repubblica; viene assicurata la partecipazione della sinistra al governo; infine, prende avvio la fase costituente. Quella di Togliatti è una strategia che, di fatto, rompe con lo statalismo e con l’eredità della 3a Internazionale e dell’Urss e prospetta un modello originale di società, quello che, in maniera mediata, si rifletterà nella Carta costituzionale. Si tratta di una sfida, quella di dare vita a un’alternativa sia al capitalismo che al socialismo sovietico e ciò comporta una vera e propria rivoluzione culturale, oltre che politica, dello stesso partito comunista. “Noi non possiamo più essere una piccola ristretta associazione di propagandisti delle idee generali del comunismo e del marxismo. Dobbiamo essere un grande partito, un partito di massa, un partito nuovo”, chiarisce Togliatti nel ’45 in un’assise del quadro dirigente. E nello statuto del partito sancisce che nelle sue file possono militare tutti quei cittadini che accettano il suo programma politico, anche se poi viene ribadito l’impegno del militante a studiare e assimilare il marxismo-leninismo. Il “partito nuovo” non è più fatto di quadri né di semplice agitazione, non è più ideologico né occupatore del potere, ma assume un carattere nazionale e propone la lotta per la soluzione dei problemi. Diventa un partito popolare di massa, un partito che aspira al governo attraverso la conquista del consenso elettorale. “Vogliamo una repubblica democratica dei lavoratori.... una repubblica che rimanga nell’ambito della democrazia e in cui tutte le riforme di contenuto sociale siano realizzate col rispetto del metodo democratico”, precisa successivamente. L’obiettivo della trasformazione non viene più fatto dipendere dall’“ora X”, ma si realizza attraverso la lotta politica ed economica. Le forze motrici del cambiamento sono la classe operaia, le masse popolari, i ceti medi e intellettuali; la democrazia assume un valore inscindibile dal socialismo. Ma non tutti i militanti sono convinti dalla giustezza di questa svolta strategica la quale si affermerà nel partito solo attraverso una incessante lotta interna, di vertice e di base. Ricostruendo il clima di quegli anni, Emilio Sereni scrive a metà degli anni ’60: “Ancora a dieci anni dall’abbattimento del fascismo, e poi dalla fondazione della Repubblica, prima dell’VIII congresso, la forma più diffusa e significativa nella quale delle tracce affioravano in settori importanti del Pci era quella di una concezione istantanea del processo rivoluzionario: che finiva col risultar puntualizzato (e con ciò stesso negato, in quanto processo) nell’‘ora X’ dell’insurrezione o, comunque, della conquista del potere da parte della classe operaia… Non riuscivamo ad elaborare un modello sostanzialmente diverso da quello ricavato dall’esperienza della Russia…All’immediata vigilia dell’‘ora X’ sarebbe seguita una nuova fase, quella della rivoluzione socialista: nel cui corso, soltanto, avremmo potuto e dovuto proporci dei compiti e degli obiettivi più propriamente socialisti”. Dal ’43 e fino alla metà degli anni ‘50, l’asse della discussione nel gruppo dirigente del Pci ha riguardato la natura del comunismo italiano e solo dopo duri scontri Togliatti ha chiuso al vertice con quei compagni che ancora nutrivano velleità insurrezionali. All’indomani delle elezioni del 18 aprile ’48, in una riunione della direzione del partito – come riferisce Edoardo D’Onofrio – alcuni compagni hanno sostenuto che poiché “col metodo democratico non siamo riusciti a vincere, essendo stati battuti dalla reazione, bisogna prendere il 269


mitra”. Togliatti ebbe a richiamare loro più volte l’esigenza di “non fare alla bolscevica”, sottolineando l’esigenza di individuare invece forme di transizione autonome e originali rispetto al modello dell’ottobre sovietico. Queste raccomandazioni, però, non sono servite a correggere l’orientamento di quelle frange del partito che non hanno mai abbandonato l’idea della necessità di ricorrere alla forza per realizzare il socialismo. Solo dopo la ratifica del Patto atlantico la via insurrezionale ha incominciato ad apparire impraticabile anche agli occhi dei più tenaci sostenitori dell’inevitabilità di una insurrezione armata. A questi non era bastato il constatare che nelle elezioni del primo dopoguerra, in Italia, ma così anche in Francia, neanche un quarto dei consensi elettorali sono stati raccolti dai comunisti, nonostante che essi vantassero un ruolo importante nei sindacati, e pure che il numero di coloro che desideravano realmente una società comunista era tale da scoraggiare qualsiasi atto di forza. Per di più, a quel tempo, il voto dato ai comunisti era soprattutto la testimonianza di una protesta e di un disagio piuttosto che la consapevolezza della necessità di un’alternativa di sistema. Per la maggioranza dei comunisti, ma non solo per loro, la “svolta di Salerno”, insieme alla conseguente nascita del “partito nuovo”, è stata vissuta come il capolavoro di Togliatti e agli occhi della maggioranza degli storici ha rappresentato il contributo più originale che il Pci ha dato alla costruzione dell’Italia contemporanea. 8.3 – La “guerra fredda” e la divisione del mondo in sfere d’influenza Nel corso della seconda guerra mondiale si realizza l’alleanza tra liberalismo e comunismo. La lotta al fascismo e al nazismo produce una stupefacente unità degli opposti: da Rosevelt a Stalin, da Churchill ai socialisti britannici, da De Gaulle ai comunisti francesi, da De Gasperi e dai liberali a Togliatti. Nell’ultimo periodo del conflitto, però, a seguito della inevitabile contrapposizione ideologica e strategica, la coalizione si incrina e alla fine i due mondi si separano dando vita a due sfere di influenza in competizione tra di loro. A dare inizio alla “guerra fredda” è Churchill il quale, nel marzo del ’46, a Fulton nel Missouri, nel corso di un discorso accusa l’Urss di aver costruito attorno ai Paesi dell’Est europeo occupati dall’Armata rossa una “cortina di ferro”. Da quel momento subentrano contrasti sui casi della Grecia, dove i comunisti continuano la lotta armata contro gli alleati, e dell’Iran, dove invece sono presenti le truppe sovietiche. Successivamente, con il varo del piano Marshall da parte degli Usa e con la costituzione del Cominform da parte dell’Urss, i rapporti si acuiscono e alla fine, con il blocco di Berlino e la conseguente divisione della Germania, la rottura diventa definitiva sfociando nella istituzione della Nato e nella guerra di Corea. A riguardo delle accuse di velleitarismo espansionista rivolte a Stalin da parte delle potenze occidentali, è da ricordare che all’indomani del conflitto l’Urss non nutre alcuna ambizione aggressiva, anzi i dirigenti del Cremlino si dimostrano paghi delle conquiste conseguite attraverso gli accordi internazionali di Jalta e danno chiara dimostrazione di volerli rispettare rigorosamente. Stalin vuole evitare a tutti i costi il rischio che scoppino rivoluzioni in Occidente, il che innescherebbe un terzo conflitto mondiale, e oltre ad accontentarsi di controllare i regimi satelliti, ai movimenti comunisti che sono insediati nella sfera d’influenza dell’Occidente capitalistico indica la strada della costruzione di sistemi a economia mista e con regimi parlamentari, dando così segno di rinunciare alla rivoluzione mondiale. Eloquente testimonianza di questi propositi di distensione, è il fatto che dal ‘45 al ‘48 egli riduce l’Armata rossa da 12 a 3 milioni di uomini. Il regime del resto è uscito sfinito dalla guerra, la sua economia è ridotta a pezzi e lo stesso rapporto di fiducia tra il governo sovietico e le popolazioni dell’Unione risulta decisamente complicato e inidoneo ai fini di un’ eventuale offensiva contro le potenze che sono state alleate nella lotta al nazifascismo. Nel momento in cui l’Occidente dichiara la “guerra fredda”, Stalin non ragiona ancora in base a 270


un’ottica di arroccamento, cioè di zone di protezione per la sicurezza dell’Urss, sebbene ribadisca in più occasioni che interesse primario dell’Unione sovietica è quello di avere garantita la sua sicurezza futura. “Non va dimenticato – precisa – che i tedeschi invasero l’Urss attraverso la Finlandia, la Polonia, la Romania, la Bulgaria e l’Ungheria. I tedeschi furono in grado di attuare la loro invasione attraverso queste nazioni perché, a quel tempo, in queste nazioni esistevano governi ostili all’Unione sovietica”. Il suo timore, dunque, è che se le democrazie popolari fossero state nutrite, rifornite e armate dalle forze alleate occidentali, esse avrebbero potuto diventate, alla frontiera russa, le punte avanzate del nemico. La fondatezza di tale aspirazione alla sicurezza dell’Urss viene peraltro riconosciuta sia da Roosvelt che da Churchill. Con la morte del presidente americano e con l’ingresso alla Casa bianca di Truman, però, la politica degli Stati Uniti, e pure quella della Gran Bretagna, nei confronti dello Stato sovietico cambia radicalmente e ha appunto inizio la “guerra fredda”. Anche ai fini della lotta politica interna, gli americani evocano uno scenario da incubo, sostenendo che la superpotenza comunista è pronta alla conquista del pianeta e dirige una “cospirazione del comunismo mondiale ateo”. Con questo artifizio l’anticomunismo diventa un’ideologia popolare non solo negli Usa, la cui società fonda sui principi dell’individualismo e della libertà d’impresa, ma in tutto l’Occidente. E’ da notare che questo è il periodo in cui in Europa i movimenti comunisti toccano il culmine della loro influenza. In un simile clima di tensione, agli occhi dei sovietici il piano Marshall appare una vera e propria provocazione. Sotto apparenze pacifiche, la politica americana di aiuti al vecchio continente viene da loro considerata un’esca per realizzare una politica di riflusso. E poiché l’Urss non possiede i mezzi per fare altrettanto nella sua area d’influenza, e nemmeno sono in condizioni di contrastare la penetrazione economica che l’attuazione del piano americano comporta, vi si oppongono esercitando anche forme coercitive nei confronti dei paesi satelliti. Succede così che il Paese che più di ogni altro al mondo ha sostenuto il peso della guerra contro le armate di Hitler, e che proprio per questa ragione avrebbe bisogno, dopo prove tanto dure, a una reale distensione internazionale, si viene a trovare di colpo di nuovo in una condizione conflittuale e di isolamento. Non si è mai riflettuto a sufficienza, a mio parere, su quanto abbia inciso negativamente sulla storia dell’Urss la rottura del fronte antinazista e come in un rapporto di causaeffetto la situazione internazionale abbia pesato drammaticamente sullo sviluppo della società sovietica. Per mano del governo laburista inglese, in Grecia viene restaurato un governo reazionario, mentre le autorità militari americane pongono il veto alle leggi sulla socializzazione che vengono approvate dai parlamenti locali della Germania occidentale e impongono restrizioni all’intero movimento operaio tedesco. La stessa concessione degli aiuti economici all’Europa occidentale avviene alla condizione che i comunisti vengano estromessi dai governi nazionali. Ma ciò non basta. Come dimostrano gli studi compiuti negli anni ’60, e resi pubblici da Zbigneiew Brzezinski, direttore del “Research Institute on Communist Affairs della Columbia University, la “politica di movimento” adottata dagli Usa è tesa a sviluppare contraddizioni all’interno della comunità degli stessi Paesi socialisti. Con l’inizio della “guerra fredda” tutti i governi di unità nazionale antifascista che avevano guidato i Paesi europei fuori dal conflitto, dietro il ricatto americano vengono messi in crisi e sostituiti da coalizioni anticomuniste. L’avvento della “guerra fredda” e la bipolarità nei rapporti internazionali generano in sostanza tensioni politiche non soltanto in seno all’Onu, ma in tutto il mondo. Questa nuova forma di conflitto riempie il mondo di armi a un livello indescrivibile. Se è vero che fa solo pochi morti, congela però la cultura universale. Dopo la nascita del Patto atlantico (1949) si costituisce il Patto di Varsavia (1955); alla creazione della Repubblica federale tedesca (maggio 1949), per reazione, segue la fondazione della Repubblica democratica tedesca (ottobre 1949). Non si può dunque sostenere, come in larga misura hanno fatto e fanno ancora molti storici e politici, che sia stata l’Urss l’iniziatrice della politica dei blocchi e della divisione dell’Europa. 271


Alla divisione bipolare del mondo, e alla guerra fredda, si contrappongono le rivoluzioni democratiche e sociali di liberazione nazionale nate dal secondo conflitto mondiale. Con l’uscita dalla subordinazione colonialista, i Paesi del “Terzo mondo” irrompono sulla scena politica mondiale intraprendendo la lunga e difficile via dell’indipendenza. Un gruppo di Paesi non schierati con il bipolarismo, i quali già nel ’55 avevano tenuto una conferenza a Bandung, nel ‘61 danno vita a Belgrado allo schieramento dei “non allineati”. Suoi principali artefici sono lo jugoslavo Tito, l’egiziano Nasser e l’indiano Nehru. Nel periodo della sua massima espansione (primi anni ’90) questo movimento conterà sulla adesione di 109 Paesi. Originariamente impegnati in un’azione di “neutralismo attivo”, il cui obiettivo è l’avvio di un processo di distensione, col maturare dei tempi essi spostano il loro interesse sulle problematiche economiche del sottosviluppo. Loro principale nemico è l’imperialismo, in specie quello rappresentato da Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio e Stati Uniti. Nonostante che nella rivoluzione antifascista e in quella grande riforma che è la Costituzione repubblicana italiana le classi lavoratrici abbiano avuto un ruolo di primaria importanza, dopo tre anni di esperienza di governo unitario dei partiti antifascisti, all’indomani del viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti, nel ’47, comunisti e socialisti vengono estromessi dagli organi esecutivi e nel Paese ha inizio una feroce campagna anticomunista. Come qualcuno ha sostenuto, ha inizio qui la lunga notte della prima Repubblica. Per la verità, l’avversione al movimento social-comunista da parte non solo del potere economico, ma anche della Chiesa e del mondo cattolico, è antico e non nasce certo con la “guerra fredda”. La riproposizione della formazione del partito della Democrazia cristiana altro non è che l’espressione di una precisa volontà di porre un argine all’egemonia dei partiti della sinistra. Alcuni autorevoli esponenti del mondo cattolico, Giuseppe Dossetti in primis, convinti che i cattolici avrebbero servito meglio la loro causa sparpagliandosi nei vari schieramenti politici, non condividono una tale scelta, ma questa loro posizione risulta minoritaria. Come ha scritto il democristiano Vincenzo Scotti, lo stesso De Gasperi, nel periodo in cui l’Italia è divisa in due, mostra forti perplessità sull’unità sindacale che si è costituita nel Mezzogiorno liberato a seguito dell’intesa fra comunisti, socialisti e cattolici. Da parte sua la Chiesa non manca di imprimere in modo efficace una traccia di anticomunismo nella sua vasta azione a carattere pastorale, caritativo e sociale, tanto è che non lascia trascorrere molto tempo per decretare la scomunica dei seguaci di Marx. La stessa ripresa, in quegli anni, del culto mariano spiega molte delle radici materiali e psicologiche di quella che poi sarà l’egemonia democristiana. Non è un caso che tre quarti dei deputati democristiani eletti nel ’46 all’Assemblea costituente, provengano dall’Azione cattolica. La rottura definitiva tra cattolici e social-comunisti avviene il 18 aprile 1948. E’ questa una data funesta non solo per i “rossi”, ma per la democrazia italiana. La vittoria elettorale della Democrazia cristiana segna l’avvento al potere non già di un partito, ma di una vera e propria parte del Paese, quella che in obbedienza ai dettami antiliberali della Chiesa e alle prerogative del Papa-re non si è mai riconosciuta nel Risorgimento e che, proprio per questo, si tiene, ed è tenuta ai margini del sistema politico, venendo quasi considerata, insieme ai comunisti e ai socialisti, fuori dalla legittimità monarchico-costituzionale. Nei fatti, però, essa rappresenta il cervello dello schieramento moderato-conservatore. E a favorire e garantire questo ritorno al passato del mondo cattolico sono gli Stati Uniti d’America i quali, nel caso avessero vinto le elezioni i social-comunisti, hanno pianificato un intervento militare. Di fronte a tali propositi e atteggiamenti, l’Unione sovietica si comporta di conseguenza ed elimina i non comunisti dai luoghi del potere delle “democrazie popolari”. In conclusione, la collocazione dell’Italia nell’area di influenza americana limita oggettivamente e pesantemente l’azione e le strategie dei partiti i quali per accedere al potere hanno necessariamente bisogno, oltre che del consenso dell’opinione pubblica, di una legittimazione da parte degli alleati. Questo spiega in maniera ancora più chiara sia le ragioni dell’accettazione da parte del Pci del compromesso costituzionale con la monarchia, sia il fatto che il progetto di “democrazia 272


progressiva” di Togliatti si sia inesorabilmente ridotto da progetto politico a semplice opzione ideologica. 8.4 – Il Pci e la ricostruzione post-bellica All’indomani del secondo conflitto mondiale, come ebbe a scrivere l’economista Pasquale Saraceno a riguardo della situazione italiana, “la strozzatura del nostro processo di ripresa era rappresentata non dalle menomazioni dell’apparato produttivo causate dalla guerra”, che non erano state particolarmente rilevanti non avendo superato il 10% del patrimonio industriale complessivo, bensì “dall’impossibilità di alimentare con materie prime d’importazione le capacità esistenti”. Una delle cause non secondarie delle difficoltà incontrate nella ricostruzione, però, era costituita dall’assenza di un progetto di sviluppo capace di far fronte e superare gli squilibri esistenti tra le diverse aree del Paese, anzitutto fra il Meridione e il Settentrione. Esaurita l’esperienza fascista, l’Italia, teoricamente, si è presentata aperta a ogni tipo di sviluppo. Appariva cioè possibile instaurarvi un’economia di mercato basata sull’iniziativa privata, così come poteva essere mantenuto quel controllo sulle attività produttive e sul mercato che il fascismo aveva garantito. Anche se le circostanze storiche interne e internazionali ne avrebbero reso difficile la praticabilità, non si poteva escludere neppure la possibilità di sperimentare un’economia di tipo sovietico. Sulla ricostruzione del Paese si sono confrontate, infatti, diverse linee di politica economica. Sul fronte moderato-conservatore, gli economisti liberisti, con in testa Luigi Einaudi, identificavano il sistema di controlli, il protezionismo e l’autarchia con i principi autoritari dello Stato fascista, perciò proponevano un ritorno al principio della libertà degli scambi, quale fondamento di una restaurazione democratica e condizione per il rientro dell’Italia nel consesso internazionale. Conseguentemente, essi hanno condotto una battaglia appassionata per l’abolizione dei vincoli ereditati dal regime. Il presidente di Confindustria, Angelo Costa, manifestava una concezione paternalistica della trasformazione e spingeva per il conseguimento di stabilità e di benessere scongiurando mutamenti etico-sociali. Il suo modello faceva ovviamente leva sulla iniziativa privata. L’economista democristiano Ezio Vanoni privilegiava un intervento correttivo dello Stato ispirato al modello del New Deal e si batteva per moderne relazioni fra Stato e cittadini sul terreno eticopolitico prima ancora che su quello economico, fiscale e amministrativo. Sul fronte opposto, le forze della sinistra prospettavano un sistema che fondasse sia sulle esperienze compiute dai consigli di gestione nel corso della lotta di resistenza e di liberazione, sia su una politica di piano che non solo non escludesse, ma anzi richiedesse la collaborazione del capitale dinamico. Nelle proposte avanzate dai comunisti non c’era traccia alcuna di un ipotetico modello sovietico da applicare alla situazione italiana, questo era oggetto di propaganda di una sola componente del partito, tanto è che nel convegno sulla ricostruzione che si è svolto nell’estate del ’45, Togliatti ha dichiarato ufficialmente che l’Italia non era matura per un esperimento di pianificazione economica integrale e ha precisato che i comunisti chiedevano “un controllo della produzione e degli scambi del tipo di quello che esisteva ed esiste tutt’ora in Inghilterra e negli Stati Uniti”. E ha puntualizzato: “Come abbiamo lottato durante la guerra per salvare il Paese dalla dittatura a cui lo portava il fascismo, così oggi vogliamo salvarlo dalla catastrofe economica e siamo quindi favorevoli a tutte le misure che tendono a questo obiettivo fondamentale... Dobbiamo tendere a creare la maggior quantità di possibilità di lavoro, perché solo da una larga e molteplice ripresa della produzione possiamo attenderci un radicale miglioramento economico... La rivendicazione di un piano economico nazionale in questo momento, soprattutto se posta come condizione per dare un grande sviluppo all’attività ricostruttiva del Paese, secondo me è utopistica... Voglio dire che anche se fossimo al potere da soli, faremmo appello per la ricostruzione all’iniziativa privata, perché sappiamo che vi sono compiti a cui sentiamo che la società italiana non è ancora matura... 273


Il che vuol dire che dobbiamo lasciare un campo vasto all’iniziativa privata tanto nella produzione quanto nella distribuzione e nello scambio… Lo Stato dovrà prendere nelle sue mani la grande industria monopolistica e rendere effettivo il suo controllo su tutto il sistema bancario”. Un anno dopo, il CC del Pci ha approvato una risoluzione in cui si affermava che il ‘nuovo corso’ doveva “lasciare ampia libertà all’iniziativa privata” e lo Stato doveva intervenire “per impedire con ogni mezzo la speculazione che tende a provocare il crollo della moneta e ad affamare il popolo”, e in pari tempo doveve “esercitare una funzione di guida di tutta la ripresa economica nell’interesse nazionale”. In sostanza, le misure indicate dal Pci andavano da un’”energica politica fiscale per colpire le classi abbienti” alla “azione pianificatrice esercitata dagli appositi organi di governo al centro e alla periferia” (soprattutto per la redistribuzione degli ‘aiuti’); dal “controllo sulla produzione esercitato dai Consigli di gestione” alla “nazionalizzazione delle imprese monopolistiche”. Veniva avanzata la richiesta di far pagare il prezzo della ricostruzione a quei ceti privilegiati che hanno la responsabilità di aver voluto il fascismo e la guerra. A nome della Cgil, Giuseppe Di Vittorio reclamava un forte intervento dello Stato per una riforma produttiva dell’intero sistema che contemplasse la nazionalizzazione dell’industria elettrica e chimica, un intervento in campo edilizio e la riforma fondiaria. Su questi presupposti, all’indomani della scissione sindacale, la Cgil metteva a punto il famoso Piano del lavoro. Alla politica della Confindustria il Pci, insieme al Psi e alla Cgil, contrapponeva una politica economica che consentisse di aumentare la produzione e assicurasse ai prodotti italiani i maggiori mercati possibili. Le riserve dei comunisti al piano Marshall non riguardavano gli aiuti in sé, ma le loro finalità e la loro destinazione e anche i vincoli e le condizioni con cui essi potevano essere richiesti e accettati. L’orientamento con cui il Pci ha impostato i problemi della ricostruzione è chiaramente di carattere pianista, quello cioè che è stato sperimentato in alcuni Paesi europei nella temperie degli anni ’30, non a caso esso ha incontrato la condivisione sia degli ambienti keynesiani che di quelli newdealisti. Per l’intero periodo della ricostruzione i comunisti si sono battuti contro le smobilitazioni delle fabbriche e per il conseguimento della massima produzione, al fine di conseguire la maggiore occupazione possibile delle forze lavoro. Il movimento dei consigli di gestione, nato nell’Italia settentrionale sotto l’impulso e la direzione di Luigi Longo, ha rappresentato una forma di codeterminazione piuttosto che una esperienza assimilabile a quella gramsciana dei consigli di fabbrica. Esso ha trovato ragione proprio nel processo di ricostruzione delle basi economico-produttive della società italiana sconvolta dalla guerra, e si è mosso sulla base di precise direttive politiche e sindacali che provenivano dai vertici del movimento. Questi organismi erano composti dagli stessi lavoratori che davano vita alla resistenza sui luoghi di lavoro e che salvaguardavano buona parte dell’apparato produttivo minacciato dai nazisti. La loro attività si inseriva in un disegno di sviluppo economico controllato democraticamente e non aveva alcuna pretesa di conseguire un’egemonia sul modo di produzione. Nonostante questa loro compatibilità con il sistema, i consigli di gestione sono stati contrastati dalle forze moderate e conservatrici e alla fine liquidati. Lo stesso termine “partecipazione” ha incontrato una tale feroce avversione, in sede di dibattimento alla Costituente da parte dei rappresentanti liberali e democristiani, da venire sostituito, in nome della salvaguardia della scala gerarchica e dell’unità di comando nelle sedi aziendali, dal termine “collaborazione”. Un’operazione questa che è stata resa possibile anche a causa della debolezza teorica e politica delle forze della sinistra, le quali si sono dimostrate incapaci di elaborare precise linee d’intervento sugli obiettivi del controllo operaio, sulle sue implicazioni istituzionali e sociali e sui suoi rapporti con una ipotesi di piano. Il Pci ha ribadito la necessità “di una riforma agraria a favore dei contadini senza terra” in modo di eliminare nelle campagne la grande proprietà parassitaria, cioè il latifondo, e limitare il potere monopolistico del capitalismo. Suo obiettivo è stato quello di favorire una politica economica che andasse a vantaggio della grande maggioranza del popolo.

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Per giungere all’appropriazione della terra è stata proposta la compartecipazione collettiva nel quadro di un’alleanza del proletariato agricolo con il ceto medio contadino. Nel ’46, per l’Emilia, considerata la “regione agricola avanzata”, Togliatti ha sollecitato l’unità tra braccianti, mezzadri e piccoli-medi imprenditori agricoli, quale condizione per eliminare la grande proprietà terriera. E ha precisato che la politica dei comunisti “deve essere una politica di produzione e non di sussidi”, anche se “l’Unità” e i dirigenti sindacali della Cgil incitavano i lavoratori a reclamare un’assistenza generalizzata da parte dello Stato. Nonostante fosse consapevole che è l’economia prima ancora della politica a dettare le condizioni della ricostruzione e dello sviluppo, il leader comunista ha esaltato l’attività svolta nei consigli comunali ritenendola una sorta di allenamento alla gestione del futuro potere popolare. Nel ‘50, dopo aver constatato che la ricostruzione procedeva secondo la volontà e le esigenze del capitale, avvertiva la necessità di “introdurre nella struttura dell’economia capitalistica italiana una serie di modificazioni di sostanza “. E, qualche anno dopo, ha insistito nell’affermare che occorreva avere “consapevolezza della natura dello Stato borghese”. Egli era in ogni modo convinto che la crisi del capitalismo fosse profonda e imminente. Al 6° congresso del partito, nel 1952, si è sancito che “la gestione delle fabbriche e imprese deve essere affidata ai produttori stessi”, essendo questo il presupposto essenziale per la creazione di rapporti sociali realmente socialisti. Di fatto la ricostruzione dell’economia italiana è avvenuta all’insegna del liberismo trionfante, vincitori sono risultati essere De Gasperi ed Einaudi, i quali hanno puntato sull’accrescimento dei profitti capitalistici e, attraverso il processo inflativo che divorava soprattutto i redditi dei lavoratori, favorendo la speculazione. Mentre obiettivo della Confindustria è stato quello di colpire ad ogni costo le posizioni conquistate dai lavoratori sull’onda della Resistenza. Gli interventi di politica economica che si sono rivelati determinanti sono infatti questi. Con l’intesa Costa-De Gasperi la ripartizione dei fondi per la ricostruzione è andata alle grandi industrie private e il controllo delle banche è rimasto a totale appannaggio delle imprese lombardo-piemontesi. La ricostruzione è stata in sostanza diretta dal capitale monopolistico che ha potuto contare sulla stretta collaborazione fra burocrazia statale e organizzazioni padronali. La stessa assegnazione delle terre si è realizzata per buona parte sulla base di criteri politici, nel duplice intento di favorire i sostenitori della Dc e di integrare nel sistema gruppi di militanti della sinistra attraverso il loro accesso ai pochi benefici della “riforma”. Con gli stessi criteri sono stati amministrati i posti di lavoro creati dai vari enti preposti alle opere di disboscamento, di bonifica e di irrigazione dei terreni. Ed è proprio attraverso questo perverso processo che ha preso corpo il sistema assistenziale ed è dilagata la discriminatoria e corruttrice politica del posto di lavoro. A rappresentare le prime maglie della rete clientelare democristiana, infatti, sono stati proprio la Cassa per il Mezzogiorno, i cantieri per le opere pubbliche e gli enti di riforma. Nelle fabbriche intanto il padronato ha imposto la sua legge con il pugno d’acciaio. Ad opporvisi, di regola, è stato il militante comunista il quale è stato colpito duramente non per la linea politica del partito che spesso aveva carattere moderato, ma per il suo stesso essere comunista, poiché questo rappresentava, agli occhi del potere, una volontà di non subordinazione, di autonomia e di irriducibilità che destabilizzava i rapporti sociali. Si è trattato, però, di una resistenza all’omologazione che non ha trovato la strada per tradursi in proposizione alternativa. E’ in questo clima e attraverso tali scelte che l’Italia, seppure segnata da molti squilibri, è diventata nel suo insieme un paese industriale. Si è trattato di una trasformazione che si è compiuta nel giro di pochi anni, quando invece in altri Paesi ha richiesto addirittura decenni. Lo sviluppo è stato guidato dalla spontaneità di un mercato senza regole fondato sulla diffusa presenza di una mentalità di tipo consumistico e, più tardi, sul supporto del mezzo televisivo che gli ha fatto da moltiplicatore. Il passaggio del Paese da agricolo a industriale ha travolto anche la religiosità tipica del mondo contadino e creato le premesse per un processo di secolarizzazione. Tra le masse lavoratrici si è creata l’ideologia del posto di lavoro sicuro e garantito a scapito di quello spirito d’iniziativa e di 275


quel senso di responsabilità che risultano essere essenziali per costruire un modello sociale alternativo. Non riuscendo a condizionare lo sviluppo economico e sociale al soddisfacimento delle esigenze della classe lavoratrice e dei ceti subalterni, il Pci, anziché fare i conti con i propri limiti politici e strategici, ha accusato la borghesia di essere subalterna al capitale e paventato crisi cicliche e recessioni. L’incapacità di imprimere un indirizzo diverso allo sviluppo è stata così mascherata da una campagna di anticapitalismo ideologico. Giorgio Amendola, che è uno dei dirigenti comunisti più aperti al “nuovo”, nel ’54 (ma ribadirà un tale convincimento ancora nel ’78) ha ritenuto che si fosse in presenza di una semplice ripresa del ciclo altalenante tra espansione e crisi tipico del capitalismo. Sui cambiamenti che si stavano verificando nella struttura del capitalismo, dentro e fuori il movimento operaio, le discussioni per la verità non sono mancate. Tra i riformisti è prevalsa la tesi secondo cui il capitalismo sarebbe entrato in una fase inedita, radicalmente diversa da quelle precedenti, e tale da rendere obsolete le tradizionali lotte del movimento operaio. Vi è stato addirittura tra di loro chi ha sostenuto che il sistema si sarebbe trasformato a tal punto da non potersi più definire capitalista. Una componente di matrice socialista, in una dichiarazione programmatica, ha scritto addirittura che “è stato creato lo stato di benessere, che non è né capitalismo né socialismo”. L’ala che si rifà al marxismo, salvo alcune eccezioni, è invece rimasta fermamente ancorata all’analisi della 3a Internazionale, cioè alla tesi del crollo e del superamento del sistema in forza delle sue contraddizioni, in particolare di quelle esistenti tra le strutture dei rapporti di produzione e le potenzialità di sviluppo delle forze produttive. Un atteggiamento questo, che ha impedito di vedere e analizzare gli elementi di novità quali l’inserimento dell’Italia nel mercato internazionale, l’introduzione nel sistema produttivo delle nuove tecnologie e delle forme più intensive di organizzazione del lavoro. In sostanza, i comunisti hanno dimostrato di non essere nelle condizioni di cogliere le dinamiche del capitale e le ripercussioni che esse avevano sulla società. Riflettendo su quel periodo storico, nel 1966, Luciano Barca, prestigioso economista e pure lui dirigente del partito, ha scritto: “Il capitalismo monopolistico di Stato non è visto (dal Pci) come una fase nuova, come una trasformazione di tutta la struttura economica, e dunque dello stesso capitalismo, ma come una sorta di nuovo possente strumento che nel permanere dell’antico assetto i monopoli si danno, assoggettando l’apparato statale”. E ha concluso: “C’è da rilevare con franchezza il ritardo di elaborazione teorica con cui la sinistra si è presentata sulla scena nel 1945. L’elaborazione teorica della critica marxista militante era ancora ferma alla geniale intuizione di Lenin dell’ottobre ‘17: ‘La catastrofe imminente e come lottare contro di essa’”. A causa di una fossilizzazione di carattere teorico-politica, l’opposizione del Pci al processo di restaurazione del sistema è risultata oggettivamente relegata nell’ambito di quella concezione che Gramsci ha definito “rivoluzione passiva”. La risposta del partito alla manovra capitalistica è stata difatti quella dei “mille rivoli”, cioè dell’assunzione di tutte le ragioni del malcontento e della protesta, e questo lo ha posto in una posizione di subalternità strategica alla linea e agli indirizzi delle classi dominanti. Più che sulla qualità dello sviluppo, esso ha puntato sulla quantità e ha così trascurato i temi del rinnovamento del costume, della cultura e dei comportamenti di massa. La stessa ipotesi implicita nella sua proposta di una convergenza spontanea degli interessi popolari, è stata smentita dalla realtà, poiché le esigenze dei diversi settori produttivi e quelle di diverse categorie di operai e di contadini, degli stessi occupati e disoccupati, sono entrati inevitabilmente in conflitto fra di loro. A fronte delle trasformazioni che l’agricoltura italiana, in specie quella padana, ha conosciuto negli anni ‘50 e ‘60, il Pci, ma con esso gli altri partiti della sinistra e le organizzazioni sindacali, ha fatto registrare un colpevole ritardo nel comprendere che la leva fondamentale del suo stesso sviluppo poggiava sul ruolo del coltivatore diretto e non invece sul bracciante e sul salariato. Non ha, in sostanza, colto per tempo i profondi mutamenti in atto nello stesso mondo agricolo.

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Una risoluzione del Comitato federale comunista di Mantova, risalente alla fine degli anni ’50, testimonia in questo modo i ritardi e insufficienze di analisi del partito: “Abbiamo un’organizzazione comunista che opera in ambiente agricolo... (che) non conosce la realtà delle campagne con i suoi problemi e le sue tendenze; non collega la linea generale del Partito (approssimativamente conosciuta per enunciazioni dal gruppetto dirigente locale) alla situazione del Paese ricavandone una elaborazione di politica agraria viva, aggiornata, mordente”. Si comprende dunque la ragione per cui il Pci è stato accusato da alcuni di doppiezza anche sul fronte delle scelte programmatiche. Difatti, quando, all’indomani della Liberazione, i suoi esponenti sono stati al governo, essi non hanno saputo andare oltre una proposizione politica rigidamente riformista, mentre nelle prese di posizione ufficiali, sulla stampa, nelle sezioni e nelle piazze il loro linguaggio è stato spesso acceso e talvolta violento, ostentatamente sempre rivoluzionario. Eppure, è proprio nel periodo della ricostruzione che il movimento operaio italiano interiorizza la propensione al perfezionamento della tecnica e dell’organizzazione industriale; che la classe operaia e il personale tecnico esercitano un ruolo decisivo nell’incremento della produzione e quindi nello sviluppo dell’occupazione e della società. E’ questa una fase in cui il “sapere collettivo”, il “general intellect” avrebbe potuto essere messo a frutto per la sperimentazione di un diverso modo di produrre e di consumare, anche attraverso il coinvolgimento del ceto accademico e intellettuale interessato e deciso a dare continuità ai valori della Resistenza. Perciò, viene spontaneo chiedersi se il Pci e la sinistra avrebbero potuto imboccare la strada di un modello economico e sociale diverso sia da quello capitalista che da quello sovietico; e pure, se un’operazione di tal genere avrebbe potuto reggere la sfida della competizione in un assetto mondiale che lasciava poco spazio a “terze vie” e alla socializzazione. Sono ben consapevole che la storia non la si può interpretare e spiegare né con i “se” né con i “ma”, tuttavia ai fini di una riflessione critica che ha come obiettivo la ricerca delle cause del fallimento storico della sinistra, mi pare che un tale interrogativo non sia affatto fuori luogo. La realtà dei fatti ci dice che un simile percorso non è stato imboccato e forse nemmeno preso in considerazione dalle dirigenze comuniste e socialiste di quel tempo. Come abbiamo visto, le priorità erano altre e la stessa elaborazione teorica e politica del movimento operaio non risultava adeguata a ingaggiare una sfida del genere. In quel frangente le forze della sinistra hanno egregiamente difeso gli interessi delle classi subalterne e hanno svolto un ruolo di baluardi dello Stato sociale. E questo non è certo cosa da poco. 8.5 – Il XX congresso del Pcus e la via italiana al socialismo Nel corso del XX congresso del Pcus che si svolge nel febbraio del 1956, il segretario Nikita Chruscev, su incarico dell’Ufficio politico, legge un rapporto segreto destinato ad esclusivo uso interno che documenta i crimini di Stalin. Egli denuncia che, tra il 1935 e il 1940, il dittatore georgiano ha fatto arrestare 1.920.635 persone, 688.503 delle quali sono state giustiziate e sostiene che sul corpo sano della società sovietica si è inserita la variabile impazzita di Stalin quale prodotto del culto della personalità. Chruscev addossa così tutte le responsabilità di quel regime al suo predecessore, del quale peraltro è stato un fedele collaboratore, ma se ne guarda bene dal mettere in discussione i rapporti sociali esistenti in Urss, in particolare il sistema di potere. Sul come e perché la società sovietica dovesse ritenersi, nonostante tutto, ancora socialista non tenta nemmeno di dare una spiegazione. Succede così che, prima a Stalin vengono attribuiti tutti i meriti, poi tutte le colpe di quanto è accaduto fino a quel momento nel Paese del “sole dell’avvenire”. In realtà, il rapporto segreto di Chruscev non ha come scopo principale quello di avviare un processo di destalinizzazione, ma piuttosto quello di risolvere una complessa lotta per il potere ai vertici del partito. Difatti, la politica della nuova nomenclatura non si proporrà mai il compito di mutare le strutture economiche e politiche ereditate dallo stalinismo, tanto è che esse rimarranno in vita fino all’avvento di Gorbacev, e pure da costui non verranno mai rinnegate e compiutamente sostituite. 277


La critica chrusceviana dei fenomeni negativi che hanno caratterizzato il potere sovietico del precedente trentennio diventa critica degli effetti, non delle cause e ciò implica che nei rapporti di quella società non cambia niente di sostanziale. Il leader ucraino si limita a perseguire una linea di riformismo dall’alto che non mette in gioco le strutture essenziali del potere, sia politico che sociale, proponendosi di acquisire una nuova base di consenso. In questo spirito riabilita le vittime dei soprusi staliniani (non tutte, per la verità) dentro e fuori i confini dell’Urss, e tra di esse vi è anche Tito. Se prima del XX congresso ogni concezione marxista diversa da quella ortodossa veniva considerata revisionista, e perciò condannata, dopo la denuncia viene avviato un periodo di revisione di alcune posizioni, ma l’apertura ha breve durata e all’indomani dei fatti d’Ungheria si assisterà di nuovo al sopravvento degli apologeti dello stalinismo. Il rapporto, che doveva essere segreto, quattro mesi dopo viene reso pubblico dal Dipartimento di Stato americano. Chruscev d’altronde aveva fatto dare al suo discorso la massima diffusione nel partito pretendendo addirittura che lo leggessero anche i 18 milioni di iscritti al Komsomol (l’Unione comunista della gioventù). Di fronte alla condanna dello stalinismo non sono pochi coloro che oppongono resistenza. Vi è anzi chi contrattacca sostenendo che “Stalin va riconosciuto come un grande dirigente”. Tra questi vi sono Molotov, Voroshilov e Kaganovic, storici avversari di Chruscev e pure l’esteso esercito dei burocrati. Questi atteggiamenti avversi provocano una acutizzazione dei contrasti all’interno del Pcus. Anche da Gomulka, da Tito, da Mao e da Togliatti vengono sollevati interrogativi e polemiche sulla destalinizzazione. Pur avendo avuto con il leader del Cremlino esperienze tutt’altro che positive, i comunisti cinesi contestano la critica che gli viene rivolta e rifiutano drasticamente, quale scelta conseguente alla sua condanna, la politica di coesistenza con l’imperialismo proposta da Chruscev. Togliatti si limita invece a esprimere riserve sostenendo che “la linea del partito sovietico fu giusta prima della guerra, nella guerra e dopo la guerra”. Gli errori di Stalin sarebbero consistiti, a suo giudizio, in “decisioni individuali”. Egli affronta ufficialmente la questione solo sei mesi dopo lo svolgimento dell’assise del Pcus e lo fa con una intervista alla rivista “Nuovi Argomenti”, dimostrando con il suo prolungato silenzio un evidente imbarazzo. Di ritorno da XX congresso del Pcus, infatti, Togliatti non sente il bisogno di aprire immediatamente una discussione sul rapporto di Chruscev e sui motivi della critica allo stalinismo, ma si limita a informare dell’accaduto i soli compagni della segretaria del partito, sulla base per altro dei suoi appunti personali. E mantiene tale atteggiamento nonostante che alcuni dirigenti e militanti abbandonano l’organizzazione per ingrossare le file della socialdemocrazia. La sua stessa intervista a “Nuovi Argomenti” viene sottoposta all’approvazione dell’esecutivo e non della direzione del partito. A sollevare riserve e critiche a un simile comportamento è Umberto Terracini il quale davanti al gruppo dirigente dichiara: “E’ spiacevole che la Direzione e il partito siano venuti a conoscenza del rapporto attraverso la stampa borghese: aggiungo che dobbiamo essere molto malcontenti del modo in cui i compagni sovietici hanno agito”. Anzitutto, Togliatti rifiuta la categoria del “culto della personalità” come valida critica allo stalinismo e sostiene che sotto la direzione di Stalin si sono prodotte “alcune gravi deformazioni” della società sovietica sulle quali sarebbe doveroso condurre l’analisi per individuarne le cause. Ritiene quindi che gli errori da attribuire al defunto leader siano imputabili a un eccessivo aumento del peso degli apparati burocratici nella vita politica ed economica, soprattutto nella vita del partito. Suo convincimento è che il rapporto sia carente non solo nell’analisi, ma anche nella indicazione dei rimedi. All’intervista di Togliatti a “Nuovi Argomenti” risponde Chruscev inviandogli una lettera in cui tra l’altro precisa che non è d’accordo con l’affermazione fatta circa la degenerazione della società sovietica. Il leader del Pci gli obietta a sua volta che non ci si poteva limitare a denunciare i crimini di Stalin, ma si doveva riscrivere la storia dell’Urss, a partire dalla rivoluzione d’ottobre. Anche la Prava interviene a riguardo dell’intervista di Togliatti pubblicando una risoluzione del CC del Pcus 278


nella quale il leader italiano viene attaccato per l’affermazione che sotto la direzione di Stalin si sarebbero prodotte “alcune gravi deformazioni della società sovietica”. Lo scetticismo di Togliatti verso il XX congresso del Pcus e il rapporto sullo stalinismo è ben giustificato. Egli è, infatti, convinto che una riforma democratica dell’Urss potrebbe essere realizzata non già dall’interno di quel sistema, ma solo se i partiti comunisti di altri Paesi, in specie quelli occidentali, si dimostrano in grado di mettere in campo nuove strategie. E’ sua opinione che l’epoca dello “Stato guida” è ormai esaurita. La spiegazione storica dello stalinismo fornita da Togliatti, però, se per un verso mette a nudo la strumentalità della denuncia, per altro rischia di giustificare le nefandezze e i crimini compiuti. Quando nell’autunno dello stesso ’56, i carri armati sovietici entrano in Ungheria per schiacciare nel sangue l’insurrezione del popolo che reclama la destalinizzazione del potere e un regime di democrazia, dimostrando l’inconsistenza di propositi rinnovatori da parte del Cremlino, Togliatti giustifica l’intervento sostenendo che quello è l’unico modo di difendere l’internazionalismo comunista dalle minacce dei controrivoluzionari. A condannare i carri armati che in nome del socialismo sparano su tutti i proletari del mondo, sono Gyorgy Lukàcs, Ernst Bloch e i marxisti jugoslavi i quali dimostrano di avere una visione umanistica del socialismo. La stragrande maggioranza dei dirigenti comunisti dell’Est e dell’Ovest non riescono invece a sottrarsi all’egemonia ideologica del “socialismo” realizzato. Eppure, dopo il XX congresso del Pcus, Togliatti è convinto che la teoria della distruzione dello Stato borghese e la sua sostituzione con lo Stato proletario, sul modello sovietico, debba essere riconsiderata e sostituita da una via democratica dalle forme parlamentari. Per i paesi a capitalismo avanzato con un ben radicato sistema democratico egli ha in mente una strategia di lungo periodo. “E’ difficile stabilire con esattezza quando avvenga il salto di qualità – precisa – la questione del ‘punto di rottura’ non è teorica, ma pratica”. Con la guerra di liberazione antifascista, nei Paesi occidentali d’Europa, il movimento operaio ha del resto imboccato una via che non è né quella socialdemocratica, né quella dei bolscevichi. Con la “svolta di Salerno” lo stesso Pci ha evidenziato la necessità di una “terza via”. Riflettendo sui quegli avvenimenti, venti anni dopo, Paolo Spriano scrive: “Il ‘56 significava per noi l’inizio di un processo di ripensamento, di approfondimento critico, dei metodi di direzione politica e di governo delle masse che erano stati caratteristici dello stalinismo in Urss e nel movimento comunista internazionale”. Ed è appunto con l’8° congresso del partito, che si celebra in dicembre di quello stesso anno, che la “nuova via” viene esplicitata nei suoi contenuti teorici e politici. Nella dichiarazione programmatica viene precisato che “la Costituzione repubblicana, pur distinguendosi dalle costituzioni di tipo socialista... pone in essere alcune condizioni che possono consentire un notevole avanzamento della società nazionale sulla strada della sua trasformazione in senso socialista, ...uno sviluppo al socialismo che si compia per via pacifica”. Pur nella sua diversità, un qualche riferimento all’esperienza dell’Urss e al suo modello economicosociale la via italiana al socialismo lo fa di certo. Come sottolinea più volte lo stesso Togliatti, quello del Pci è un “rinnovamento nella continuità” della tradizione del movimento operaio. Il salto di qualità non consiste nel dare vita a un diffuso protagonismo sociale, quale condizione per la creazione, attraverso la progressiva conquista delle casematte, del sistema di un nuovo tipo di società, sia nella sua configurazione strutturale che in quella sovrastrutturale, come aveva indicato Gramsci. Ma la sua realizzazione viene individuata nella presa del potere statale da parte del partito. La mediazione togliattiana della strategia di Gramsci, in sostanza, mira alla legittimazione della “democrazia progressiva”. Si tratta di una politica di trasformazione sociale senza traumi, di un processo rivoluzionario senza rivoluzione che riesce a far convivere dialetticamente opposte concezioni culturali in un progetto unitario. In “Elementi per una dichiarazione programmatica” viene difatti puntualizzato che: “condizione indispensabile perché i rapporti economici e sociali siano profondamente trasformati e si passi dal capitalismo al socialismo, è che sia risolto il problema del potere politico”. E il socialismo può 279


realizzarsi “soltanto quando la classe operaia conquista il potere politico e di esso si serve per trasformare la struttura economica della società, così come la borghesia, nel passato, si è servita degli istituti democratici per distruggere gli ordinamenti feudali”. Per classe operaia s’intende il partito politico che la rappresenta. Viene però chiarito che l’inizio di una trasformazione in senso democratico e socialista non è da rinviare all’ora dell’assunzione del potere da parte della classe operaia, ma che occorre spostare da subito a suo vantaggio i rapporti di forza. Gramsci viene in questa occasione reinterpretato secondo uno schema che, da un lato cancella l’essenza rivoluzionaria del suo pensiero, cioè l’assegnazione del ruolo dirigente del processo di trasformazione alla classe lavoratrice e non già alla sua avanguardia, dall’altro sviluppa la riflessione sulla “guerra di posizione” assolutizzandola. La convinzione di Togliatti è che i partiti sono la democrazia che si organizza. Il perno di volta della transizione è, ai suoi occhi, il parlamento, caratterizzato da un sistema politico d’impianto liberal-democratico, fondato cioè sui criteri della rappresentanza proporzionale e delle alleanze politiche. Anche se non manca di avvertire che il “ridurre questa lotta alle competizioni elettorali per il parlamento e aspettare la conquista del 51% sarebbe, oltre che ingenuo, illusorio”, egli punta, in sostanza, a regolamentare in senso parlamentare le forme di antagonismo sociale e coniuga in questo modo la democrazia con il socialismo. Per lui democrazia, direzione collettiva, partecipazione larga e attiva di milioni di uomini alla elaborazione e alla soluzione dei problemi attraverso la rappresentanza istituzionale, rappresentano un’esigenza del movimento e costituiscono per il partito obiettivi irrinunciabili. L’avanzata in direzione del socialismo, afferma, “è compito che non si pone e non si risolve se non attraverso un movimento, che parte dalle strutture, e in ciò si inserisce la formulazione e lo sviluppo di una volontà collettiva”. E nell’affrontare il tema della “democrazia progressiva” precisa: “Non vi è né Stato guida né partito guida. La guida sono i nostri principi, gli interessi della classe operaia e del popolo italiano, la difesa permanente della pace e dell’indipendenza della nazione, i doveri di solidarietà internazionale”. Presupposto per la sua realizzazione è la pace religiosa e il voto favorevole all’articolo 7 della Costituzione riguardante il riconoscimento dei Patti Lateranensi ne è una eloquente testimonianza. Togliatti è il maggior teorico della linea della “democrazia progressiva”. Egli ritiene che essa debba essere applicata dai partiti comunisti dell’Occidente non per attuare immediatamente il socialismo, ma per creare le condizioni favorevoli a realizzarlo. La via italiana al socialismo non è intesa esclusivamente come via parlamentare, bensì come combinazione di lotte di massa e utilizzazione del parlamento al fine di alterare i rapporti sia politici che economico-sociali. Puntualizza a questo proposito il leader del Pci: “Noi non separiamo la lotta economica da quella politica, l’utilizzazione del Parlamento dall’azione delle masse, le riforme di struttura dalle lotte rivendicative”. E spiega: “Le cose cambiano quando… le misure di lotta contro il grande capitale monopolistico siano parte integrante di un’azione continua, di una lotta incessante che venga condotta con decisione da grandi organizzazioni politiche e di massa, con l’appoggio di una parte notevole dell’opinione pubblica per imporre, pur nelle condizioni attuali, una politica economica che sia a favore dei lavoratori e del ceto medio, che impegni il governo stesso, attraverso il Parlamento, all’azione antimonopolistica”. Avanzare nella conquista dello Stato significa, dunque, per lui tendere all’acquisizione di strumenti di politica economica: “Occorre un piano generale di sviluppo economico da contrapporre alla programmazione capitalistica”. La rivoluzione pacifica e democratica viene dunque configurata come un processo le cui tappe sono le riforme di struttura attraverso le quali incidere nelle contraddizioni del blocco dominante per farlo esplodere. Per struttura si intendono i rapporti sociali di produzione. La sua strategia delle riforme si articola in tre direttrici: politica monetaria, politica fiscale e politica degli investimenti. Tra gli obiettivi prioritari vi sono la piena occupazione delle forze-lavoro e la eliminazione del divario fra il Mezzogiorno e il resto del Paese.

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La via democratica al socialismo designa un processo di lungo periodo, la cui prima fase implica la destabilizzazione dell’egemonia del capitale monopolistico. Non ostante le rotture che si determineranno, sarà sempre lo Stato a garantire il funzionamento dell’economia la quale resterà ancora a lungo e in una certa misura capitalistica. Qualche anno dopo l’8° congresso Togliatti sostiene che occorre introdurre “elementi di socialismo” nell’economia e nell’ordinamento dello Stato italiano. Le riforme di struttura vengono di nuovo considerate non come una strategia per realizzare il socialismo, ma come strategia per la transizione al socialismo. Per realizzare le linee programmatiche che danno corpo alla via italiana al socialismo e che stentano a realizzarsi, non basta la mobilitazione della classe operaia, ciò che occorre è mettere in campo uno schieramento di forze molto più ampio, un nuovo blocco di potere che deve essere costruito attraverso la sottrazione di strati sociali sempre più vasti all’egemonia delle classi dominanti. L’unità delle sinistre viene perciò vista non come condizione di una alternativa di sinistra, difficile da raggiungere e soprattutto da reggere, ma come base di una più ampia aggregazione. Si conferma necessaria l’alleanza con i contadini che vengono riconosciuti non più solo come riserve della classe operaia, ma come vere e proprie forze motrici, a fianco della classe operaia stessa, della rivoluzione democratica e socialista; e poi anche con gli intellettuali progressisti e con il ceto medio. Trascorsi gli anni, c’è stato chi ha sostenuto che un simile impianto strategico non ha avuto successo perché i comunisti e le sinistre hanno sottovalutato la forza del capitalismo mondiale e il ruolo che sullo scacchiere internazionale hanno giocato gli Stati Uniti d’America. Non c’è dubbio, e del resto l’ho messo anch’io in rilievo, che la collocazione dell’Italia nella sfera d’influenza degli americani è uno dei fattori determinanti della sconfitta di questo disegno. Di certo però non è il solo. Una delle cause altrettanto decisive della sua mancata realizzazione è costituita dall’immaturità teorica e pratica dello stesso partito comunista e di quei soggetti che avrebbero dovuto essere artefici dell’alternativa. Togliatti ha esortato in continuazione i suoi compagni ad “aderire a tutte le pieghe” della società, ma questo obiettivo è stato raggiunto solo in parte. Negli anni della ricostruzione la sinistra e il movimento operaio non avevano né la forza né i requisiti di porsi alla testa dello sviluppo economico e sociale per realizzare un nuovo progetto di società. Mancavano dei “saperi” indispensabili per competere con il capitalismo, non avevano nemmeno un’adeguata conoscenza della realtà sociale, erano privi degli strumenti per comprendere e controllare i mutamenti strutturali e sovrastrutturali che lo stesso processo di ricostruzione stava determinando. Data la situazione storica e considerati i condizionamenti politici, sociali e culturali, non era possibile pretendere dal Pci e dalle forze politiche e sociali della sinistra più di quanto essi hanno fatto in difesa delle classi subalterne. 8.6 – La “doppiezza” del togliattismo In molti hanno sostenuto e continuano tuttora a sostenere che nel comportamento di Togliatti è da registrare una subdola “doppiezza”. Come ho già fatto notare, quella del capo del Pci è una caratteristica tipica di tutti i partiti comunisti occidentali i quali, mentre erano costretti a operare in democrazia, nutrivano nel profondo del cuore la speranza che l’Unione Sovietica avesse il sopravvento sul capitalismo. Va riconosciuto che Togliatti si è dimostrato più capace, duttile e intelligente di altri ad interpretare la linea staliniana. Mentre nelle scelte internazionali si è dimostrato succube del dittatore georgiano, nell’azione politica che ha perseguito in Italia si è rivelato paladino della democrazia, al punto da essere considerato uno dei padri della Costituzione. Alcuni comunisti, tra cui Giuseppe Vacca, ritengono che l’attribuirgli una doppiezza equivale a una falsificazione fatta ad arte, pianificata per volgari campagne contro il Pci. Altri, invece, giudicano il suo comportamento un vero e proprio travaglio teorico e politico. Quel che serenamente si può dire,

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senza incorrere in indebiti anatemi o glorificazioni, è che gli atteggiamenti ambigui e contraddittori nella sua condotta politica non sono pochi. Togliatti ha sempre sostenuto di essersi iscritto al Partito socialista nel 1914, quando a Torino frequentava l’università con Gramsci (conosciuto tre anni prima), ma questa sua adesione non ha mai potuto essere documentata. C’è chi sostiene egli abbia stracciato la tessera allorquando, essendo diventato interventista, è partito volontario per il fronte, prima nella Croce Rossa e poi nel reggimento degli alpini. Nel 1915 egli si laurea, ma non in scienza delle finanze con Luigi Einaudi, come ha lasciato intendere fino alla fine dei suoi giorni, ma in economia politica con Achille Loria, esponente di punta del socialismo marxista di inizio secolo, da alcuni definito il “Marx italiano”, ma detestato prima da Labriola poi da Gramsci e infine dallo stesso Togliatti che lo liquida definendolo un “ciarlatano”. Per un certo periodo fa proprie le teorie del liberismo. La sua riscrizione al Psi avviene nel ’19, quando collabora con Gramsci e Tasca alla redazione de “L’Ordine Nuovo”. Nel ‘21 è fra i protagonisti della scissione di Livorno e negli anni successivi diventa uno dei dirigenti di spicco del Pcd’I. Nel ’24 si reca a Mosca come delegato al 5° congresso dell’Internazionale comunista dove rompe con Bordiga e, su designazione dello stato maggiore dello stesso Comintern, viene inserito nel nuovo esecutivo del partito. Tornato in Italia, nel ’25, viene arrestato per la seconda volta (aveva conosciuto il carcere nel ’23). Nel ’26 partecipa al congresso di Lione e immediatamente dopo viene inviato a Mosca a rappresentare il Pci nell’Internazionale di cui seguirà tutta l’attività fino al suo scioglimento. Di fronte alla svolta del 6° congresso dell’IC (1928), quello in cui viene elaborata la teoria del socialfascismo, la sua posizione è cauta, più arretrata di quella di Dimitrov e di altri dirigenti sovietici, e nella fase immediatamente successiva rimane oscillante. Quando però, nell’eccitazione che la grande crisi del ‘29 genera nelle file comuniste, viene lanciata la parola d’ordine della lotta ad oltranza contro la borghesia e i suoi lacché socialdemocratici, egli non esita a far espellere dal partito coloro che avversano tale decisione e che vengono considerati esponenti di destra. Tra questi vi è anche Angelo Tasca. Di fronte alle purghe e ai processi staliniani Togliatti sostiene che si è in presenza di “un tragico periodo di transizione” e di “un oscuramento temporaneo”. Egli è convinto che sia in atto un complotto per rovesciare il governo sovietico, perciò giustifica e approva l’operato del capo de Cremlino al punto di sostenere al 7° congresso dell’Internazionale comunista che l’Urss è “campione di libertà di tutto il genere umano”. A rendere in qualche modo meno pesante questa sua indiscutibile responsabilità di condivisione delle scelte fatte da Stalin, ci sta il particolare che il Comintern non ha alcuna possibilità di interferire nel lavoro degli organi dello Stato sovietico, tanto meno di controllare la fondatezza delle accuse mosse agli imputati. Se i suoi dirigenti dovessero azzardare di opporsi all’operato del Nkvd, quasi certamente cadrebbero vittime anch’essi di quel terrore, pur godendo della fiducia personale del dittatore georgiano. Nel rapporto presentato alla stessa assise, però, egli si smarca dalla linea di Stalin e sostiene che “un sistema di Stati socialisti, che abbia alla sua base il riconoscimento di principio delle diverse vie di sviluppo al socialismo, deve essere un sistema di Stati indipendenti, in cui la sovranità dei paesi più piccoli non può essere limitata e messa in forse da interventi e pressioni degli Stati più forti”. Qualche tempo dopo, nella veste di portavoce del Comintern, propone per l’Italia una strategia di transizione al socialismo che dovrebbe svilupparsi nelle condizioni specifiche della lotta antifascista, cioè condotta insieme alle forze democratiche, e la quale dovrebbe assumere la forma di guerra civile per rovesciare il regime dittatoriale. Delinea così un itinerario differente dalla strategia rivoluzionaria adottata dai bolscevichi e prefigura la futura via italiana al socialismo. Non a caso egli riprende quella proposta di Gramsci dell’Assemblea costituente che, in tempi precedenti,

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aveva considerato in contrasto con la tesi dell’insurrezione rivoluzionaria e inefficace ai fini di una mobilitazione delle masse. Sono i tempi in cui dalla base del partito egli viene considerato uno dei suoi “capi”. Togliatti manifesta dunque, come già a riguardo del fascismo, valutazioni e posizioni differenti da quelle del gruppo dirigente della 3a Internazionale, ma questo non gli impedisce di appoggiare l’epurazione dei trotzkisti voluta da Stalin e sostenuta da José Diaz, da Maurice Thorez e da Georgj Dimitrov. Nel ‘39 difende a spada tratta il il patto Molotov-Ribbentrop accusando inglesi e francesi di aggredire i tedeschi, negando che la loro sia una guerra antifascista e condanna le proteste e i dissensi che si sollevano nello schieramento di forze impegnate a lottare contro il nazifascismo. Nonostante questo suo allineamento ai dettami del Cremlino, all’indomani della sua scarcerazione in Francia, viene guardato da Mosca con sospetto. Dopo la morte di Gramsci, la cognata di questi, Tatiana, torna a Mosca intenzionata a fare i conti con Togliatti. Informato dei sospetti avanzati da Gramsci sull’operato dei suoi compagni, il Comintern istruisce un’inchiesta sul compagno Ercoli. A condurla è la Stella Blagoeva. Nel ’40 Togliatti viene allontanato dalle cariche direttive e come ha testimoniato la sua stessa segretaria, Nina Bocenina, viene addirittura pedinato e fermato dai servizi segreti sovietici. In effetti, egli non ha sempre avuto vita facile nel corso del suo soggiorno nell’Urss di Stalin. Solo anni dopo, con la necessità di ricostruire il partito in Italia, egli riprenderà ad avere un ruolo di primo piano. Nonostante sia stato sottoposto a tali mortificanti provvedimenti, egli non ha mai cessato di sostenere che tra il Partito comunista italiano e l’Unione sovietica doveva per forza esistere un “legame di ferro”. Nel ‘44-’45 afferma addirittura che l’Urss è il Paese i cui “rapporti sociali nuovi” sono dal punto di vista materiale e morale i più avanzati e addita la realtà sovietica come il sistema sociale che realizza quelle che “furono un tempo le virtù evangeliche” dell’amore e della perfetta solidarietà umana. In piena sintonia con Stalin, all’indomani della rottura fra l’Urss e la Jugoslavia, definisce quella di Tito una “banda trotzkista-spionistica” e nella vicenda di Trieste si oppone ai comunisti jugoslavi in maniera decisa. Rientrato in Italia, quando sulla rivista “Politecnico” Elio Vittorini scrive che gli intellettuali non devono “suonare il piffero per la rivoluzione”, egli gli fa chiudere il periodico. Nel ’52, pur evitando la polemica aperta, in materia di politica culturale, si muove su una linea diversa da quella imposta dal Pcus con la campagna zdanovista. Quando nei Paesi dell’Europa dell’Est scoppia la protesta popolare nei confronti dei regimi autoritari (Berlino ’53, Poznan e Ungheria ’56), egli non ha alcun dubbio e giustifica le repressioni e l’intervento armato delle forze del Patto di Varsavia. Questo atteggiamento di soggezione verso l’Unione sovietica non gli impedisce, però, di condurre in piena autonomia la ricerca della via italiana al socialismo e di dare vita a quello strumento politico e organizzativo che è il “partito nuovo”. Queste innovazioni, del resto, hanno sempre convissuto in lui con la certezza della superiorità del modello sovietico di socialismo su ogni altra forma di organizzazione sociale ed economica. Se all’8° congresso afferma che i comunisti italiani non hanno né partito guida né Stato guida, provocando non pochi malumori nelle file del partito, negli anni successivi, pur mettendo sotto la lente della critica la società sovietica, non rinnegherà mai il legame profondo con la patria del socialismo. Nel ‘60, a fronte della posizione del Pc cinese che considera impraticabile la linea della coesistenza pacifica, egli si pronuncia contro la scomunica sovietica e giudica legittimo il dissenso. Il conflitto tra Cina e Urss è lacerante, poiché si contrappongono due modelli di socialismo con la conseguente rottura di quella unità del movimento comunista che ha costituito la sua forza fino a quel momento. “Il metodo della scomunica – egli dichiara – può riuscire solo dannoso”. Ed è fra i pochi leader di partito, se non l’unico, a fornire dettagliate informazioni ai militanti di base sulla conferenza internazionale dei comunisti del novembre del ’60 in cui viene ufficializzata la rottura con i cinesi. Togliatti riflette sul “policentrismo”, cioè sui diversi poli di esperienza e di influenza che di fatto si sono creati tra i partiti e gli Stati comunisti (Urss, Cina, Jugoslavia). Suo intento è quello di 283


combinare autonomia e internazionalismo. “La mia opinione – precisa – è che, sulla linea del presente sviluppo storico e delle sue prospettive generali, le forme e condizioni concrete di avanzata e vittoria del socialismo saranno oggi e nel prossimo avvenire meno diverse da ciò che sono state nel passato. In pari tempo, assai grandi sono le diversità da un paese all’altro. Perciò ogni partito deve sapersi muovere in modo autonomo”. E sostiene che questa realtà deve essere riconosciuta. Il suo, però, è un convincimento che non trova ascolto negli ambienti del comunismo internazionale dove rimedia solo rampogne. Ripiegherà sul concetto di “unità nella differenza”. In certe polemiche culturali durante la “guerra fredda” egli è dominato dall’assillo politico di difendere anche l’indifendibile dello zdanovismo e del “realismo socialista” e giustificare le censure e gli ostracismi del Cremlino verso il mondo della cultura. Per lui la cultura è uno strumento della politica e il suo motto è: non dissociare mai i principi dalla lotta politica, diffidare della demagogia plebea ma non perdere il contatto con le masse. Su questa concezione della cultura si scontra con Italo Calvino accusandolo di gettare fango sulla politica. Nel ‘61 sostiene che “i Paesi socialisti sono Paesi nei quali i principi della democrazia penetrano, in misura tendenzialmente sempre più grande, nel campo dell’organizzazione e direzione della vita economica”. Sono i soli Paesi in cui, nonostante limiti ed errori, “si compie un vero processo di libertà”. Quando però Paolo Robotti gli sottopone una lista di 125 compagni fucilati da riabilitare (una piccola parte di quelli travolti dalle purghe staliniane) egli, dopo aver letto svogliatamente il foglio, lo accartoccia e lo getta nel cestino commentando: “Queste sono cose da dimenticare. Meglio non parlarne”. Al X congresso del partito, nel ‘62, ribadisce che “il legame del nostro movimento con il primo partito che ha vinto la rivoluzione e ha costruito una società socialista è sempre stato ed è particolarmente stretto, sostanziale, vitale”. La doppiezza di Togliatti deriva per un verso dal condizionamento del potere sovietico, per altro verso dalla necessità di elaborare e praticare nella realtà italiana un percorso differente dalla strategia leniniana. In lui coesistono ispirazione staliniana e intima condivisione del pensiero gramsciano condivide cioè Gramsci con Stalin, la ragione con la fede. E’ più una leggenda che un dato reale la tesi secondo cui Togliatti sarebbe da considerarsi l’erede di Gramsci. La sua elaborazione gli serve a fare dell’italiano un partito diverso dagli altri partiti comunisti. Si consideri che in una breve storia dei primi anni di vita del Pci scritta da lui nel 1932, ad uso del Comintern e relativa al periodo 1923-1926, il nome di Gramsci – allora leader del partito – viene addirittura omesso. Quella di Togliatti è una contraddizione – come ho già fatto notare – che, in forme differenti, segna la storia di altri partiti comunisti dei Paesi occidentali fedeli seguaci del verbo staliniano: è il caso del partito comunista francese che fa appello a Giovanna D’Arco, simbolo dell’estrema destra per tendere la mano ai cattolici, o di quello inglese che propugna l’alleanza con Churchill esponente reazionario e nemico dichiarato del movimento operaio. A fare la differenza è l’intelligenza e la vivacità politica del leader italiano il quale avverte l’esigenza oggettiva di un diverso percorso nel perseguire il socialismo. Ai suoi occhi è in ogni modo l’Urss a rappresentare la speranza di un mondo di civiltà superiore, l’utopia di quella uguaglianza che è la speranza di milioni di uomini e di donne. E qualsiasi tesi che contrasti o metta in dubbio tale convincimento deve essere avversata ad ogni costo. Egli considera al tempo stesso, però, il “mito” di Stalin come una “camicia di forza” che il movimento operaio è costretto a indossare. Qualcuno ha osservato che il “togliattismo” non è un corpo dottrinale, bensì un fenomeno politico concreto che ha sì dei referenti dottrinali, ma è fatto soprattutto di comportamenti pratici, utilitaristici. In questa chiave di lettura è da ricordare che Togliatti è colui il quale contribuisce a unire gli italiani e a garantire al nostro Paese una prospettiva democratica, nonostante la rottura antifascista, la cacciata all’opposizione del suo partito, la rottura dell’unità sindacale e quella con il

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Psi, la scomunica dei comunisti da parte della Chiesa, le repressioni e le discriminazioni del potere democristiano. In questa difficile situazione egli costruisce il più forte partito comunista dell’Occidente, plasmandone originalità e indipendenza, e dà corpo all’alleanza fra il mondo del lavoro, l’intellettualità progressista e la borghesia democratica antiparassitaria e produttiva. Ed è ancora lui che, all’apparizione della bomba nucleare, parla del valore rivoluzionario della lotta per la pace e per la conservazione della civiltà umana. E’ la prima volta nella storia del movimento operaio e del marxismo che il concetto di conservazione della civiltà umana viene associato a un’idea di trasformazione, di lotta sociale. Infine, Togliatti è il capo comunista che in nome della libertà religiosa approva l’articolo 7 della Costituzione e s’impegna a costruire il dialogo con il mondo cattolico. Egli è convinto che se nei Paesi cattolici il movimento operaio muove allo scontro con la Chiesa, ne esce di sicuro sconfitto. Il dono più prezioso e discusso che egli offre ai cattolici è infatti proprio l’articolo 7 della Costituzione, anche se si tratta di un gesto interessato. “Questo voto – commenta, infatti – ci assicura un posto al governo per i prossimi vent’anni”. Più volte ribadisce che non intende operare rotture con i sentimenti più diffusi fra le grandi masse e nei primi anni ’60 si pronuncia contro il divorzio ritenendo che la società italiana non è ancora preparata a recepirlo. Come ha scritto Gian Carlo Pajetta, da lui “l’ideologia, il pensiero filosofico cattolici, non sono più visti come una palla al piede di questi lavoratori, ma come una concezione del mondo che non contraddice ma può persino sollecitare una trasformazione anticapitalistica e può avere uno spazio e un ruolo positivi nella stessa società socialista”. Nel ’63 a Bergamo tiene il discorso sul “Destino dell’uomo” e si misura sul tema di un socialismo alternativo a quello sovietico dal punto di vista etico e culturale. Nella lotta per la pace e nel dialogo con i cattolici egli, però, si trova isolato in quello stesso mondo comunista di cui vuole conservare a tutti i costi l’unità. Nel suo testamento politico, il “Memoriale di Jalta”, critica la società sovietica e propone l’unità nella diversità del movimento comunista internazionale. Si interroga anche sulla strategia praticata in Italia riflettendo in particolare sul rapporto libertà-democrazia e sull’intervento nell’economia al fine di cambiare la natura dello Stato borghese. Ne deduce che la strada da battere è quella di “uno sviluppo e una coordinazione delle rivendicazioni immediate operaie e delle proposte di riforma in un piano generale di sviluppo economico da contrapporre alla programmazione capitalistica”. Dà così dimostrazione di essere consapevole che è proprio su questo terreno che si decide la natura dello Stato e che non sono una o più nazionalizzazioni a cambiarla. Così come è convinto che la stessa Costituzione non supera il limite di classe della società italiana e per questo insiste nell’indicare la strada dello scontro democratico mobilitando le masse quale condizione per la trasformazione socialista. Ha scritto Giorgio Bocca di lui: “Egli crede alla funzione positiva, creativa delle forze popolari, delle energie che salgono dal basso, ma non crede al loro ordine spontaneo, alle loro congenite armonie; crede alle avanguardie, alle èlites che sanno e che vogliono. Egli è figlio del suo tempo, tempo autoritario”. In effetti, Togliatti dimostra di avere una profonda sfiducia nella forza autonoma delle masse come elemento centrale della dinamica rivoluzionaria. Sugli stessi Comitati di Liberazione non si fa illusioni, anzi, come ricorda Giancarlo Pajetta, “non ci credeva”. E a questo proposito ha detto di lui Leo Valiani: “Fu uno dei più freddi, la Resistenza gli rompeva le scatole. Ma De Gasperi e Nenni non erano certo diversi da lui”. Eppure, come unico distintivo egli porta all’occhiello della giacca proprio quello dei partigiani. Non è pertanto un caso che 42 anni dopo il “biennio rosso” ammetta su “Rinascita” (articolo “Rileggendo ‘L’Ordine Nuovo’”) di avere una ripulsa dell’ispirazione consiliare dell’ordinovismo come prefigurazione dello Stato operaio dal luogo della produzione. Nei primi anni ‘60, poi, di fronte al divaricarsi delle posizioni all’interno del partito, egli si schiera con l’ala amendoliana spostando così a destra l’asse politico. 285


Alla strategia gramsciana egli ha da sempre preferito il politicismo, difatti è stato definito il “totus politicus”. La sua visione del mondo e la sua cultura hanno continuato a essere fino all’ultimo quelle di un dirigente della 3a Internazionale. Da Trotskij e da Stalin era considerato “il grande avvocato della Terza Internazionale”, il “giurista del Comintern”, da Lukàcs “il più grande tattico della 3a Internazionale”, mentre Mao riteneva fosse “una delle poche persone che ragiona”. A dire di Humbert-Droz, invece, “Togliatti è sempre rimasto buchariniano, anche negli anni dell’obbedienza a Stalin”. Secondo altri era da considerarsi uno stalinista educato e colto. Di fatto, egli è stato un maestro di quella eloquenza politica che tende a fare degli ascoltatori una massa di ragionatori, anziché di acclamatori. Uno dei suoi motti era: “Solo la ragione fa progredire la vita della mente e la vita morale”. Il suo internazionalismo non venne mai meno. Negli ultimi tempi, ebbe ad affermare che la lotta dei sindacati non poteva più essere condotta paese per paese, ma su scala internazionale con azioni comuni, e a questo riguardo ha autocriticamente ammesso: “E qui è una della più gravi lacune del nostro movimento”. La fase della sua maturità si compendia nella frase che egli ha pronunciato in una riunione di partito e cioè: “Il marxismo ha un grande debito, noi abbiamo un grande debito: risposte non date, domande che ci siamo rifiutati di riconoscere come legittime”. Il suo, dunque, pur nella contraddittorietà dei suoi atteggiamenti, è da considerarsi un contributo straordinariamente ricco di intelligenza, di prudenza duttile e insieme di fermezza di principi. In “Il leninismo nel pensiero e nell’azione di Antonio Gramsci” ha scritto che “fare della politica significa agire per trasformare il mondo. Nella politica è quindi contenuta tutta la filosofia reale di un uomo”. A questo principio non è mai venuto meno. Per i tempi che ebbe in sorte, Togliatti si è dimostrato di certo più coraggioso e più innovatore di quanto lo siano stati, in tempi meno drammatici, i suoi successori. 8.7 - La sinistra di fronte al boom economico All’indomani della Liberazione, il Pci si presenta culturalmente legato al realismo socialista e mostra una soggezione verso gli intellettuali tradizionali. Nel partito si avverte l’interesse per la produzione di ideologia mentre si registra indifferenza per una nuova ricerca ideale e politica. La stessa teoria marxista ristagna e rari sono i saggi dal carattere innovativo che appaiono sulle riviste specializzate. Nel gruppo dirigente del partito si avverte una resistenza alle iniziative culturali che tendono a svecchiare la cultura marxista. Eloquente è l’atteggiamento assunto dal gruppo dirigente nei confronti del Politecnico di Elio Vittorini e il non apprezzamento di chi all’interno stresso del partito sollecita un processo di rinnovamento. E’ il caso del filosofo Antonio Banfi il quale, rifiutando la riduzione dogmatica del marxismo e interpretando la rivoluzione come un rivolgimento assai più complesso di una semplice modifica della sola sfera strutturale, non gode di quelle attestazioni di stima e d’affetto che vengono riservate ad altri intellettuali organici. Identico destino è riservato a Lucio Colletti, a quel tempo militante comunista, quando sollecita un ruolo di maggior interesse verso gli intellettuali da parte del partito. Il Pci dimostra in sostanza di essere pago del proprio bagaglio di “saperi” e non avverte il bisogno di una autonoma elaborazione della propria linea politica. Come ricorderà quasi mezzo secolo dopo Rossana Rossanda, sia il gruppo dirigente che i militanti pensavano “all’Urss come una fortezza amica. Che fosse un modello augurabile”. E’ appunto quella la fonte delle certezze che vengono ostentate e perciò non viene avvertita l’esigenza di rendersi aperti alle novità e di essere creativi nell’azione. Pur in presenza di questo torpore politico-strategico del gruppo dirigente comunista, una buona parte del ceto intellettuale, in specie quello di tipo umanistico (romanzieri, saggisti, poeti, registi, attori, cultori accademici di varie discipline), per la prima volta nella storia dell’Italia unita, manifesta simpatia ideologica per le posizioni della sinistra, assai più che per quelle del centro e della destra. E questo avviene anche per l’influenza e il prestigio che lo stesso Partito comunista sa costruirsi negli ambienti della cultura, soprattutto per iniziativa personale del suo segretario. 286


Solo a metà degli anni ’50, all’indomani cioè del XX congresso del Pcus e dell’intervento armato in Ungheria, si assiste a uno sviluppo del marxismo critico e a una conseguente ricerca politico-sociale intesa a individuare nuovi percorsi. Tra la metà e la fine del decennio si verifica però anche la più grave diaspora culturale della storia del partito: un gruppo di intellettuali, tra cui Antonio Giolitti, Elio Vittorini, Italo Calvino e Vasco Pratolini, abbandona l’organizzazione. Anche in conseguenza di questa rottura, si apre la grande stagione delle riviste come strumenti di ricerca: da “Città aperta” a “Ragionamenti”, da “Opinione” a “Tempi moderni”, fino a “Passato e presente”. Si confrontano così ipotesi strategiche diverse. Con la ripresa delle lotte operaie e in presenza dei mutamenti che investono la società italiana, in materia di politica economica si sviluppa una riflessione che coinvolge l’intera sinistra. Nel ’58, su “Mondo operaio”, Raniero Panzieri e Lucio Libertini pubblicano le “Sette tesi sulla questione del controllo operaio” che mettono sotto accusa le politiche della sinistra e del sindacato, giacché considerate inadeguate a fare fronte alle ristrutturazioni che il neocapitalismo sta portando avanti. Convinti che il processo di transizione al socialismo passa attraverso la conquista di una nuova organizzazione della produzione, essi sollecitano la costruzione dal basso di un contropotere dei lavoratori a partire dalle fabbriche. All’inizio degli anni ’60, sul primo numero di “Quaderni rossi”, Panzieri scrive: “In effetti, per Marx, il tempo libero per la libera attività mentale e sociale degli individui non coincide affatto semplicemente con la riduzione della giornata lavorativa. Presuppone la trasformazione radicale delle condizioni del lavoro umano; l’abolizione del lavoro salariato, la regolazione sociale del lavoro produttivo… Il superamento della divisione del lavoro, in quanto meta del processo sociale, della lotta di classe, non significa un salto nel regno libero, ma la conquista del dominio delle forze sociali nella sfera di produzione”. La rivista si distingue nel mettere in discussione la neutralità dello sviluppo tecnologico, nel criticare la rappresentanza e la delega e nell’affermare la centralità della lotta operaia. Ritiene impossibile un uso alternativo della tecnologia neocapitalistica da parte dei lavoratori, perchè ravvisa in essa la forma principale attraverso cui si realizza il dispotismo del capitale. Individua nel “controllo operaio” uno dei perni di volta di “una linea politica immediata alternativa a quelle proposte dai partiti di classe”. Gli autori dei “Quaderni rossi” partono dalla convinzione che la crisi ideologica e teorica del movimento operaio non consente soluzioni di continuità con la tradizione e pertanto sollecitano “un lavoro di costruzione ex novo”. L’azione rivoluzionaria deve far leva non sulle presunte debolezze e contraddizioni interne del sistema, ma sulla volontà attiva autonoma e sull’insubordinazione della classe operaia. Per queste sue posizioni Panzieri viene espulso dal Psi. Sempre all’inizio degli anni ’60, vengono pubblicati i “Quaderni piacentini” i quali danno voce a una nuova generazione di militanti testimoniando così la diffusione di una cultura di sinistra radicalsocialista che si rifà alla Scuola di Francoforte. Un’ala del Partito socialista mette l’accento sul mutamento di qualità dello scontro e sul delinearsi di un nuovo fronte, quello anticapitalista dopo la fase dell’antifascismo. Lelio Basso, esponente dell’ala di sinistra del Psi, sostiene che il socialismo non può giungere dall’esterno, ma “è il punto terminale di un processo interno al capitalismo” che si compie con il superamento delle sue contraddizioni. Pertanto si deve rifiutare sia “l’adattamento socialdemocratico, al neocapitalismo”, sia “l’attesa messianica di una crisi rivoluzionaria”, ma utilizzare invece tutte le possibilità “di una partecipazione antagonistica alla vita e allo sviluppo della società capitalistica”. Nello stesso Pci non mancano di manifestarsi dissensi alla linea politica di Togliatti. Dopo la drammatica esperienza del governo Tambroni e la crisi del centrismo, il partito si rende disponibile a costruire nuovi equilibri democratici. E mentre alcuni suoi dirigenti considerano l’ingresso del Psi nel governo di centro sinistra un “cavallo di Troia” capace di far cadere la pregiudiziale anticomunista, altri temono che esso porti all’isolamento dei comunisti e rappresenti l’avvio di un processo di integrazione nel sistema di una parte della sinistra. In una visione critica dell’indirizzo togliattiano, Emilio Sereni ritiene implicitamente che non sia possibile alcuna alleanza con la Democrazia cristiana. 287


Nell’estate dal ’63, sulla stampa di partito scoppia una polemica, tra Giorgio Tosi e Luigi Longo. I due si scontrano sulla politica economica e sulla strategia del partito. In una sua dichiarazione il vice segretario sostiene che, attraverso una politica d’intervento pubblico che consenta un graduale passaggio dal capitalismo al socialismo, è possibile liquidare i monopoli prima ancora che la classe operaia conquisti il potere. Tosi gli ribatte che capitalismo e monopoli sono la stessa cosa e che la sinistra deve necessariamente avere i suoi “bottoni” di comando da schiacciare per poter cambiare le cose. Si è chiaramente in presenza di una contrapposizione di natura strategica la quale alimenta nel partito discussioni e disaccordi che si tradurranno in uno scontro aperto solo all’indomani della morte di Togliatti, a metà degli anni ’60, quando cioè ai vertici del partito non c’è più il capo carismatico dotato di una tale capacità di mediazione da far apparire unito il gruppo dirigente. Nell’estate del ’64 il conflitto scoppia tra Giorgio Amendola e Pietro Ingrao, leader rispettivamente dell’ala “destra” e dell’ala “sinistra” del partito. In pregiudicato è il “modello di sviluppo” e lo scontro investe la linea complessiva del partito. In un articolo su “Rinascita” Amendola, il quale rivendica per se stesso l’appellativo di “riformista”, lancia la proposta di un “partito unico della classe operaia”, una formazione unitaria che – a suo dire – non deve essere un partito “ideologicamente neutro”, ma nemmeno ideologicamente chiuso e la cui politica “lungi dall’essere socialdemocratica, deve essere rinnovatrice e rivoluzionaria”. La politica di riforme graduali che egli propone deve tendere al superamento delle regole e dei valori del capitalismo. Ingrao, da parte sua, ritiene improponibile l’alleanza con i socialisti e sollecita il partito ad elaborare un nuovo modello di sviluppo impegnando tutto il corpo militante nel suo quotidiano conseguimento. A risultare alla fine vincente sarà il progetto “a medio termine” che non si scosta di molto dalle misure congiunturali con cui i disprezzati governi di centro sinistra cercano di affrontare la crisi italiana seguita al boom economico. Questo progetto è infatti privo di una teoria omogenea sul governo politico e sulla gestione economica della società e gli “elementi di socialismo” che si propone di introdurre nel sistema capitalistico sono in realtà delle vaghe indicazioni. Sta di fatto che mentre il capitalismo, negli anni del boom espande la sua egemonia e di fronte alla crisi che si apre alla metà degli anni ‘60 avvia la ristrutturazione del suo sistema di potere, nel Pci e nello stesso movimento operaio si registra una vera e propria incertezza politica che fa emergere con sempre maggiore chiarezza un’incapacità di interpretare i mutamenti che sono avvenuti e stanno ancora avvenendo nella società. Luciano Barca sollecita gli studiosi marxisti a uno sforzo di comprensione dei problemi che la nuova fase pone, ma il suo invito cade nel vuoto. A venire in chiaro è l’incapacità della sinistra di riprendere, in un nuovo scenario, il discorso attorno alla rivoluzione socialista in Occidente, in una posizione autonoma rispetto all’esperienza sovietica. I suoi obiettivi programmatici, specie sul terreno della gestione economica, sono estremamente generici, frutto spesso di improvvisazione. Al fondo di questa debolezza programmatica si cela l’antica convinzione che il capitalismo sia ormai giunto all’estremo e che si tratti solo di attendere il suo crollo. Non si prende atto che la partecipazione dei socialisti al governo non ha sottratto nemmeno una sola delle leve fondamentali del potere dalle mani delle vecchie forze dominanti. E che la Democrazia cristiana nei processi di cambiamento svolge un ruolo moderato che può essere paragonato a quello svolto dalla “destra” storica nel Risorgimento, e che perciò la sua funzione continua a essere quella, come ha ben detto un critico di sinistra, di “procuratrice della base di massa del blocco industrialeagrario”. Le forze della sinistra dovrebbero comprendere che si è al termine del “miracolo economico” e che il sistema è avviato verso una crisi di trasformazione, ma così non è. La linea politica da loro seguita è, però, destinata a scontrarsi con le contraddizioni che sono insite nello sviluppo economico del Paese. Non solo si acuisce il divario nello sviluppo tra le regioni del Nord e quelle del Sud, ma si determina anche uno scarto sul piano dell’innovazione e della competitività tra l’Italia e i Paesi più avanzati dell’Europa Occidentale. Il nostro Paese è povero di materie prime e le sue fortune 288


sono affidate alla sua vocazione trasformatrice. Il prodotto “made in Italy” conquista i mercati stranieri solo grazie a una politica di bassi salari e di sfruttamento selvaggio della forza lavoro. Lo stesso incremento delle esportazioni crea scompensi e squilibri nell’avanzamento tecnologico della struttura produttiva e nel sistema dei consumi. Nonostante l’accrescimento della produzione industriale, la disoccupazione si mantiene a livelli alti e per assorbirla i governi gonfiano il pubblico impiego compromettendo l’efficienza dell’apparato burocratico. Il Pci si rende ben conto di queste contraddizioni, poiché nel rendere materiale la sua “via italiana al socialismo” incontra non poche difficoltà. A garanzia di uno sviluppo della democrazia e della partecipazione della classe operaia alla gestione della società, esso si è proposto obiettivi di carattere transitorio quali le riforme di struttura, che però nelle condizioni date non riesce assolutamente a conseguire. E pur se nel partito diventano sempre più frequenti le riflessioni critiche e le preoccupazioni, esso non riesce a superare i suoi limiti teorici e strategici. A testimoniare la situazione d’impotenza sono le riflessioni che, in tempi successivi, svolgono alcuni suoi più autorevoli dirigenti. Amendola scriverà che il punto di debolezza in quegli anni è consistito nella difficoltà di collegare la lotta per la tutela degli interessi immediati delle classi subalterne alla lotta per il raggiungimento degli obiettivi di trasformazione sociale. Il segretario della Cgil Luciano Lama, nel ’77, cioè oltre un decennio dopo, ammetterà: “Anche noi commettemmo i nostri errori in quel periodo, specie nel rapporto con i lavoratori alla base, perché cogliemmo in ritardo e solo parzialmente le modifiche che si venivano effettuando nell’organizzazione del lavoro, nei sistemi di retribuzione e di qualificazione, in particolare nelle grandi fabbriche”. In “Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi”, Paul Ginsborg commenta: “Non vi era nulla nel comportamento dei comunisti bolognesi a dispetto delle affermazioni che suggerisse una loro contrapposizione ai meccanismi dello sviluppo capitalistico”. E aggiunge poi che il Pci nelle regioni “rosse” si è limitato a fare quella politica riformista che il centro-sinistra non è riuscito a realizzare compiutamente sul piano nazionale. In effetti, ancora anni dopo, il Pci dà segno di essere fortemente ancorato al passato dimostrandosi incapace di formulare un percorso alternativo autonomo. Tanto è che ai primi di febbraio del ’70 Aldo Tortorella su “Rinascita” precisa: “Ciò che ci guida è la convinzione che il leninismo... è il punto di partenza e la guida di tutta la nostra azione rivoluzionaria… La contraddizione fondamentale della nostra epoca è quella tra capitalismo e socialismo... E’ quindi del tutto falsa, a nostro avviso, la tesi secondo la quale la contraddizione fondamentale della nostra epoca starebbe tra paesi sviluppati - presi nel loro insieme - e paesi sottosviluppati… Le tesi sostenute dai socialdemocratici in nome di una presunta ‘natura neutrale’ dello Stato e dagli ultrasinistri nel nome di una presunta capacità del neocapitalismo di razionalizzarsi integrando la classe operaia... hanno fatto registrare un fallimento clamoroso”. E conclude: “Sarà Lenin a lanciare le parole d’ordine per la elettrificazione, per ‘imparare a commerciare’, per l’affermazione del ruolo degli specialisti, ecc… E’ questo insieme di posizioni teoretiche e politiche che si è rivelato profondamente giusto anche nella nostra lotta concreta per la democrazia”. Della necessità di una “riforma intellettuale e morale” di gramsciana memoria che accompagni e alimenti le lotte per il rinnovamento economico e politico, il partito si limita a parlarne, mentre la sua azione è prevalentemente continuista e quindi destinata a restare subalterna ai processi di modernizzazione. Una delle testimonianze di questa subalternità è rappresentata dalla posizione assunta nei confronti del Mercato comune europeo. In un documento ufficiale del partito è detto che i comunisti si propongono di “condurre una lotta europea, per favorire uno sviluppo economico che permetta all’economia italiana di acquistare una capacità competitiva sui mercati internazionali”. Diventare competitivi in campo mondiale mentre si opera in un sistema il cui modo di produzione è quello del profitto e dello sfruttamento, non può che comportare l’accettazione passiva delle regole dello

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stesso sistema, almeno fino a quando non si è determinati e capaci di sovvertirlo sostituendolo con un modo di produzione fondato sul principio della socializzazione. E’ proprio questa incapacità della sinistra nel conseguire un’alternativa di sistema che consente al capitale di continuare la sua evoluzione, strappando addirittura il consenso di larga parte della stessa classe operaia attraverso l’introduzione nelle case, anche in quelle dei poveri, la televisione, il frigorifero e l’utilitaria. Creando così circuiti di consenso e di potere che coinvolgono sia lo schieramento di maggioranza che quello di opposizione, gli stessi sindacati, i partiti politici e le istituzioni, in un sistema consociativo destinato a diventare sempre più corporativo. E questo processo, paradossalmente, si compie nel momento in cui l’indirizzo ideologico-culturale del Paese subisce una modificazione significativa spostandosi a sinistra, insidiando così la tradizionale egemonia moderato-conservatrice e investendo i settori del lavoro intellettuale quali le redazioni dei giornali, la programmazione radio-televisiva e l’editoria scolastica. A vincere però la battaglia del cambiamento è il capitalismo il quale porta a termine una tappa importante del suo lungo processo “rivoluzionario”.

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Capitolo 9°

Dalla contestazione studentesca e operaia alla crisi del sistema politico 9.1 – Il “sessantotto-sessantanove” La cronaca fa risalire alla metà di novembre del 1967, allorquando in alcune università insorgono gli studenti, la nascita in Italia di quel vasto e vario complesso di movimenti sociali, culturali e politici che ha preso il nome di “sessantotto”. Poco prima, a Berkeley in California, un movimento di studenti non violento rivendica il free speech, cioè la libertà di parola, e il diritto di svolgere attività politica all’interno dell’università. A partire da quella rivendicazione la rivolta dilaga dai campus universitari statunitensi a quelli dell’Europa, del Giappone, dell’Argentina. In Italia, in Francia e in alcuni paesi capitalistici sviluppati la protesta assume forme particolarmente rilevanti mobilitando milioni di giovani e successivamente di lavoratori. Persino in Cina scoppia una grande ribellione giovanile, ma questa presenta caratteristiche differenti da quelle assunte dai movimenti dei paesi occidentali. Nel grande Paese asiatico, dove da nemmeno venti anni i comunisti sono impegnati a costruire il socialismo, la spinta alla ribellione non nasce dal basso, ma viene sollecitata dall’alto, dallo stesso presidente Mao in persona. In Germania, invece, il movimento coinvolge solo qualche migliaio di persone, mentre in Inghilterra i giovani si dimostrano refrattari a qualsiasi richiamo all’agitazione. La lotta studentesca assume dunque le dimensioni di una quasi globalizzazione e sua caratteristica è la soggettività delle iniziative. A provocare un così ampio movimento di rivolta sono diversi fattori. Si è al culmine dell’espansione capitalistica, cioè del cosiddetto “miracolo economico”, e al tramonto del colonialismo. John Kennedy apre la “nuova frontiera”, Nikita Chruscev lancia la “coesistenza pacifica”, Giovanni XXIII convoca il Concilio Vaticano II e apre la Chiesa al mondo. Sono i tempi dell’emancipazione dei neri negli Usa, delle grandi manifestazioni contro gli orrori della guerra in Vietnam, dei movimenti hippy che assumono diverse configurazioni. In Cina scoppia la “rivoluzione culturale”, in America Latina, guidati da Che Guevara, nascono i movimenti di liberazione, a Cuba viene annunciata l’intenzione di costruire l’”uomo nuovo”. Insomma, le sollecitazioni al cambiamento sono molte. Cause di fondo, però, sono le rapide e sconvolgenti trasformazioni dell’economia, l’introduzione delle tecnologie nella vita collettiva e il riflesso che questi avvenimenti hanno sugli assetti istituzionali, sulla coscienza e sull’agire degli uomini. In conseguenza di un allargamento e di una integrazione del mercato mondiale, nell’area dell’Ocse si verifica una crescente spinta alla produttività che si traduce in un incremento del prodotto nazionale lordo, dei redditi e dei consumi. In Europa questo periodo di espansione viene definito “golden age”. In Italia il prodotto interno lordo cresce a ritmi oscillanti tra il 4 e l’8% annuo. La produzione in serie sconvolge radicalmente il mondo del lavoro, la fabbrica è attraversata dai processi di standardizzazione, le professioni intellettuali subiscono una straordinaria espansione. Mentre il welfare state assicura a fasce sempre più estese di cittadini una protezione sul piano della sanità, della previdenza e dell’istruzione, la vita degli individui viene rivoluzionata nei costumi, nelle culture, nel sistema di valori e gli assetti delle classi sociali mutano in profondità. Quando esplode il ’68, questo processo è al suo apogeo, l’onda lunga dell’espansione incomincia a esaurirsi e il sistema si scontra con le sue contraddizioni mettendo in evidenza la sua fragilità. Siamo alla vigilia della crisi delle politiche keynesiane e lo sviluppo del “benessere” imbocca la strada del declino. Nel periodo che va dal 1950 al 1962 l’occupazione nel nostro Paese registra un incremento di tre milioni di unità. Con l’applicazione dei metodi fordisti di produzione su larga scala si determina il trasferimento di milioni di lavoratori dall’agricoltura e dal terziario improduttivo all’industria (nonché dalle regioni meridionali a quelle settentrionali) e ciò fa sì che 291


una grande quantità di popolazione relegata a condizioni di sopravvivenza venga dotata del necessario potere d’acquisto per essere inserita nel modello consumistico del capitale. Con l’entrata in crisi, negli anni successivi, di questo processo espansivo, si registra la diminuzione di circa un milione di posti di lavoro e il ritorno alla precarietà esistenziale di molte famiglie. E’ appunto alla fine degli anni ’60 che il disagio della classe lavoratrice si intreccia con le sommosse studentesche dando così corpo all’”autunno caldo”. Il modello di regolazione sociale non è più in grado di mantenere fede alle aspettative che ha suscitato e produce inesorabilmente una crisi dei rapporti fra Stato e cittadini, fra governanti e governati, fra le diverse classi sociali, fra le persone e il loro ruolo sociale, non ultimo fra i ruoli sessuali. I pilastri su cui si sono fondate secolarmente le riproduzioni dei poteri vengono investiti da profondi scossoni. La crisi dello sviluppo, mentre si riversa in prima istanza sulla classe operaia, mette in discussione la condizione degli studenti, dei tecnici, dei ricercatori, degli intellettuali proletarizzati e di altre categorie sociali storicamente subalterne al capitale e integrate nel sistema, minando così la coesistenza e il clima di pace sociale. Larga parte della popolazione, in primo luogo i giovani, non è più disposta a subire un ruolo di passività e vuole essere protagonista. Un contributo decisivo all’allargamento del fronte della contestazione lo assicurano la televisione e i mass-media che favoriscono una comunicazione in tempo reale. I primi ad avvertire il bisogno di cambiamento sono gli studenti che nel corso degli anni del boom sono aumentati sensibilmente di numero. In una prima fase, in Italia, il movimento studentesco si presenta privo di una precisa ideologia, rappresentando una sorta di federazione degli studenti progressisti che si propongono un semplice rinnovamento della vita universitaria. La scuola ha, infatti, un’impostazione d’inizio secolo e si porta dietro modi di essere e di fare ottocenteschi, o primo novecenteschi, che fanno a pugni con la società moderna. Uno dei riferimenti del movimento è la denuncia formulata dalla scuola di Barbiana di Don Lorenzo Milani che, con “Lettere a una professoressa”, sulla base dei dati Istat, dimostra come la scuola pubblica sia socialmente discriminatoria e pertanto invita all’obiezione di coscienza. Ad attrarre larga parte del movimento, però, è il marxismo che, ormai non più confinato nell’ortodossia moscovita, viene interpretato nei modi più disparati. Durante l’intera stagione del ’68 alle assemblee studentesche non vengono ammessi i rappresentati del Pci e del Psiup e questo atteggiamento è dovuto a un progressivo de-allineamento del fronte della contestazione dai partiti tradizionali indotto anche dall’emergere di un diffuso rifiuto della delega rappresentativa. Il movimento degli studenti si definisce, infatti, soggetto antagonista a tutti gli apparati di dominio (Stato, scuola, famiglia, partito appunto, sindacato) e la critica che porta avanti è inerente soprattutto alle sfere del sociale e della cultura, scienza compresa, mentre mostra scarso interesse verso gli aspetti economici. Le scritte sui muri degli istituti di fisica inneggiano all’“elettrone proletario” e la stessa natura viene descritta come prodotto storico-sociale. Viene contestata la didattica nozionistica, l’autoritarismo del corpo accademico, le modalità di fare gli esami e, in alternativa a tutto questo, viene introdotto lo strumento dell’assemblea dalla quale emergono nuove indicazioni: lo studio di gruppo, i contro-seminari, la lettura di testi alternativi. I meccanismi gerarchici del sistema scolastico vengono considerati espressione di una società non solo ingiusta, ma anche autoritaria e parificati nel modo di essere dell’esercito, delle carceri, dei manicomi, della famiglia, dei partiti, quali gestori esclusivi della politica, della Chiesa. Viene in sostanza posta in discussione la bontà delle tradizioni e la polemica investe l’insieme della società. Gli slogan prevalenti sono: “vietato vietare” e “tutto e subito”. Non va dimenticato che prima della seconda guerra mondiale, nella loro stragrande maggioranza, gli studenti dell’Europa centrale e occidentale e quelli del Nord America erano o apolitici o di destra. Gli studenti si rendono conto, però, che non possono fare la rivoluzione da soli e, in quanto spezzone di forza lavoro intellettuale in formazione, individuano nella classe operaia il loro alleato 292


privilegiato. La loro attenzione viene così rivolta ai luoghi di lavoro dove si genera una divisione del lavoro che si estende a tutta la sfera sociale investendo gli stessi rapporti privati tra le persone. Dietro il loro stimolo, nascono i Comitati unitari di base (Cub) che promuovono una massiccia partecipazione di massa ai dibattiti e alle lotte configurandosi come strumenti di autogestione operaia. Il più celebre di questi organismi è il Cub della Pirelli Bicocca, mentre una delle lotte più significative che essi portano avanti è quella contro le “gabbie salariali”. La critica dei nessi fra sapere e dominio, che sale dalle lotte degli studenti e che contribuisce a fornire una visione nuova e allargata della tematica del potere, si salda così con la critica operaia dell’intreccio fra scienza e accumulazione, fra scienza e organizzazione del lavoro, fra produzione e riproduzione. La domanda studentesca “che cosa studiamo, per chi e perché” si raccorda con il “che cosa produrre, come e perché” della classe operaia. Una critica di fondo viene rivolta alle forme della democrazia rappresentativa e sotto accusa vengono poste sia la politica dei partiti di sinistra che quella delle centrali sindacali. Lo slogan dominante è che “la classe operaia deve dirigere tutto”. La convergenza tra lotte studentesche e lotte operaie che si registra in Italia, e che caratterizza quasi per intero il decennio successivo, non ha riscontro in nessun altro paese. A partire dalla fine del ’69 e per buona parte degli anni ’70, infatti, nel nostro Paese si sviluppa una lotta economico-sociale la cui natura è decisamente anticapitalistica, poiché colpisce al cuore il modo di produrre del sistema. Nel movimento operaio ovviamente non c’è omogeneità d’intenti. In esso convivono due tendenze: l’una d’impronta estremistica che nutre l’ingenua illusione che la rivoluzione consiste nel tentare di forzare quantitativamente la lotta operaia sul salario e contro il lavoro; l’altra, strettamente sindacale, si accontenta di usare questa lotta per forzare il meccanismo di sviluppo del sistema. Ambedue però convergono nella contestazione dello stato di fatto. La lotta operaia si concentra sulle condizioni di lavoro e sul salario, prende di mira l’organizzazione capitalistica del lavoro; contesta la tecnologia fondata sul principio dello sfruttamento, combatte la struttura gerarchica dell’azienda e la divisione sociale del lavoro determinata dal profitto e dal mercato. Dal movimento viene rivendicato l’aumento salariale uguale per tutti, la parità normativa tra operai e impiegati e interi reparti chiedono il passaggio in massa a qualifiche superiori. Viene praticata l’autoriduzione dei ritmi di lavoro e l’abolizione del cottimo. Si afferma il diritto allo studio e alla formazione professionale di tutti i lavoratori, con il riconoscimento di un monte ore retribuito: le “150 ore”. Le nuove forme di lotta danneggiano gravemente le aziende contenendo invece le perdite di salario dei lavoratori. Le pressioni si esercitano anche con il blocco delle merci mediante costanti picchettaggi di massa che durano giorni o qualche settimana. Il movimento esce poi con baldanza dalle fabbriche e affronta i problemi del territorio: casa, trasporti, sanità, scuola, tempo libero. Ai consigli di fabbrica si affiancano i consigli di zona, nei quartieri cittadini sorgono i comitati spontanei di caseggiato e nelle scuole prendono corpo i comitati dei genitori. La classe operaia non si limita a contrattare la propria forza lavoro, ma pretende di dire la sua su tutti gli aspetti sociali e contrappone al sistema la sua cultura. Si realizza così un’estensione della sua egemonia su tutta la società. Le lotte che si sviluppano dentro e fuori della fabbrica giungono al limite di quella azione politica al di là della quale resta l’appropriazione e la modificazione sia del modo di produzione che del sistema di riproduzione sociale. Di fronte a una sfida tanto immane, però, il movimento mostra i suoi limiti teorici e progettuali e non sa andare oltre la contestazione e i proclami rivoluzionari. Le sue velleità vengono neutralizzate e sconfitte dalle straordinarie capacità d’integrazione e di seduzione del sistema. Il mancato cambiamento non può peraltro essere considerato un fallimento totale. Le lotte studentesche e operaie del ’68-’69 condizionano il sistema e assicurano alle classi subalterne un miglioramento delle loro condizioni di vita. La classe operaia, in primo luogo, consegue importanti conquiste sul piano salariale e normativo. Mentre fino a quel tempo il sistema delle relazioni industriali era regolato da meccanismi autoritari, nel ’70, con l’approvazione dello Statuto dei diritti 293


dei lavoratori, viene riconosciuto il diritto del sindacato di organizzarsi in fabbrica. Decadute le commissioni interne si impongono pressoché ovunque i consigli di fabbrica e viene sancito il diritto di assemblea in ogni luogo di lavoro. Al datore di lavoro viene fatto obbligo di riassumere il dipendente licenziato ingiustamente. Come prioritario viene affermato l’obiettivo della piena occupazione e il sindacato si mobilita su programmi di politica economica articolati in specifici aspetti quali la casa, la sanità, il fisco, la scuola, dando inizio alla stagione degli scioperi generali. Il “sessantotto-sessantanove” ha indotto nelle classi conservatrici un disprezzo per i protagonisti del “’68” e un terrore dei “rossi” che sopravviverà nonostante il trascorrere dei decenni, dimostrando così l’incisività del movimento spontaneo nell’agire sociale e nelle coscienze. Chi lo ha avversato, ha teso a far passare l’idea che si sia trattato di un movimento violento, ma una simile tesi è esclusivo frutto di spregio e di calunnia. Nato come movimento pacifico, esso muta comportamento, si difende cioè con il ricorso alla forza, solo in alcune circostanze quando è chiamato a dover fare i conti con la repressione degli apparati dello Stato, com’è il caso di Valle Giulia a Roma. La sua violenza consiste semmai non nei comportamenti fisici, ma nel ribellarsi in modo determinato contro ogni forma di dominio, contro la disciplina del lavoro capitalistico e del suo regime socioculturale, contro quel blocco dominante moderato-conservatore che nel nostro Paese ha avuto continuità sin dai tempi del post-Liberazione. E radicale si dimostra anche nel manifestare il proprio spirito internazionalista e antimperialista. I suoi attori, almeno all’inizio, non aspirano a essere ammessi al potere, ma si battono perché si determini una riclassificazione degli interessi, cioè per nuovi assetti di potere ai quali sia garantito l’accesso delle masse popolari. Avversano il conformismo di massa, si mettono contro le vecchie generazioni, fanno diventare pubblico il “privato” e si battono contro la civiltà consumistica in nome della restituzione all’individuo dei propri bisogni e desideri vitali. Il ’68-’69, in sintesi, rappresenta il tentativo delle classi subalterne di mutare il corso e la qualità dello sviluppo e prima ancora che di un movimento politico si tratta di un movimento sociale, eticoculturale. Esso è espressione di una cultura delle libertà individuali e delle differenze, la quale porta alla esaltazione delle libertà civili e delle differenze di genere e di etnia; testimonia l’efficacia della soggettività delle masse, della forza della loro cultura e il loro ruolo insostituibile nel processo di cambiamento. Queste sue caratteristiche hanno fatto sì che il senso comune subisse un profondo mutamento e che la vita democratica, nel nostro Paese, raggiungesse un’intensità tale da avere pochi paragoni con le esperienze vissute da altri paesi dell’Occidente capitalistico. Nel contempo, il movimento esprime una critica severa verso il modo di essere delle forze tradizionali della sinistra mettendo radicalmente in discussione la loro cultura e le loro forme organizzative giudicandole inadeguate per dare vita a una società socialista. Contesta anzitutto il principio della delega che regola la vita politica e si batte per il superamento della divisione tra base e dirigenti, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale che vige nell’organizzazione dei partiti. Nei punti più alti della lotta teorico-politica, ripropone la riflessione gramsciana sulla “guerra di posizione” mettendo all’ordine del giorno il rapporto tra sapere e dominio, tra egemonia e produzione. Non è un caso che gli anni successivi al ’68-’69 sono caratterizzati da una eccezionale crescita della partecipazione alla vita pubblica di uomini e di donne. La crescita dell’impegno civile e lo sviluppo della democrazia, in effetti, sono il frutto del processo di politicizzazione di massa che quel movimento ha avviato. Si è trattato di una spinta al protagonismo che raramente la storia d’Italia ha conosciuto. Senza il ’68-‘69 non si sarebbero di certo vinte, negli anni successivi, le grandi battaglie civili che hanno reso il nostro Paese un po’ meno succube del potere della Chiesa. E’ proprio in quel tempo che viene gettato il seme dell’ambientalismo, del movimento di antipsichiatria (intesa come reclusione e violenza manicomiale), dello stesso femminismo, anche se i comportamenti pratici dei “sessantottini” hanno continuato a relegare la donna a un ruolo subordinato a quello del maschio (si ricordino le polemiche sulle compagne “angeli del ciclostile”).

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In conclusione, quella stagione ha indubbiamente impresso un segno indelebile nella storia del nostro Paese, in specie nel mondo della sinistra. Detto questo, però, non si possono e non si devono dimenticare i limiti e le insufficienze che questo movimento ha mostrato. Anzitutto esso ha dato avvio al ciclo di lotte di massa con un armamento teorico e ideologico di tipo tradizionale. Anziché rendere scientifica la sua azione rivoluzionaria (nella scia dello sforzo compiuto da Marx un secolo precedente), ha sprigionato una fortissima carica utopica, la quale ha assunto una dimensione totalizzante e ha reso l’azione di parziale efficacia e soprattutto miope. Con lo slogan “borghesi, ancora pochi mesi” ha dimostrato di nutrire l’illusione che bastasse una spallata collettiva per liquidare definitivamente il sistema capitalistico. La tesi dell’”attualità del comunismo”, che ha costituito il nucleo portante del suo agire, si è presto rivelata una chimera. Si è trascurata l’analisi sia dei processi di cambiamento in atto che delle linee di tendenza dello sviluppo del capitalismo e non ci si è sforzati di ponderare i contenuti delle lotte inserendole in un quadro strategico di lunga durata. Esempi eloquenti sono il “sei politico” rivendicato dal movimento degli studenti e la “qualifica unica” invocata dal movimento operaio. E’ mancata in sostanza la progettualità ed è stata sottovalutata l’importanza della sperimentazione e anche della verifica degli obiettivi conseguiti. Illusoria si è poi dimostrata l’esaltazione sia della spontaneità creatrice delle masse che dell’assemblearismo come unica forma del rapporto democratico. La forte spinta democraticopartecipativa e l’esasperata predilezione per le forme di democrazia diretta hanno oscurato l’importanza di una presenza nelle istituzioni rappresentative finalizzata non certo ad avallarne l’esistenza, ma a sovvertirne la logica trasferendo in modo graduale i loro poteri e le loro funzioni alla società civile. Un lascito negativo è costituto anche dalla diffusione di una cultura dei diritti non accompagnata da quella dei doveri di ogni individuo, il che non ha permesso di porre le basi per il formarsi su scala generalizzata di una coscienza civile. Il movimento si è poi rivelato incapace di uscire dai propri ristretti ambiti d’influenza e di unificarsi a livelli superiori costituendosi in leadership nazionale e dare corpo a un fronte di alleanze internazionali. A causa di questi limiti e insufficienze, alla fine, esso è stato sopraffatto dallo spontaneismo e dalle spinte disgregatrici. La responsabilità di un tale deludente destino, però, non può attribuirsi solo ed esclusivamente ai suoi protagonisti, formati in gran parte da nuove generazioni politicamente inesperte, bensì anche, e soprattutto, a quelle forze ed espressioni della sinistra tradizionale che, anziché aiutarlo a crescere e ad evitare di compiere certi errori, si sono ben guardati dal compromettersi, scegliendo addirittura la strada della sua demonizzazione, dimostrando così di temere il “nuovo”. 9.2 - La sinistra storica di fronte alla contestazione studentesca e operaia Fatta eccezione di una sparuta minoranza di dirigenti e di intellettuali militanti, nella sua generalità la sinistra si è dimostra incapace di avvertire anzitempo l’irrompere del movimento del “’68”. Le lotte studentesche hanno costituito, infatti, un vera e propria sorpresa per gli organi direttivi di partito i quali si sono rivelati impreparati a interpretarle e a farvi i conti. Claudio Petruccioli, nella veste di prestigioso esponente della Federazione giovanile comunista, ha ammesso candidamente un’incapacità di previsione non solo da parte sua, ma anche dello stesso Partito comunista. “Si può dire che il ‘68 ci ha presi di sorpresa”, ha asserito qualche tempo dopo. E ha aggiunto: “Non abbiamo saputo cogliere a fondo la portata delle prime avvisaglie”. Alla fine del ’67, Giuseppe Vacca, intellettuale di rango e più avanti nel tempo presidente dell’Istituto Gramsci, su “Critica marxista” ha pubblicato un saggio in cui ha commentato criticamente il libro di Herbert Marcuse “L’uomo a una dimensione”, ma non è riuscito a cogliere le

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connotazioni culturali, sociali e politiche che sin dal primo momento hanno caratterizzato la contestazione studentesca. Anche il socialista di sinistra Lelio Basso, che già nel ’65 si era occupato pure lui di Marcuse, svolgendo una relazione su “Il socialismo nelle società sviluppate” a un seminario di studi svoltosi in Jugoslavia, e che, nel ’67, ha pubblicato uno studio sull’opposizione studentesca nelle università americane, di fronte al montare del movimento ha mostrato imbarazzo nel riprendere l’argomento; e anche quando negli atenei di tutto il mondo e nelle stesse università italiane si sono succedute le occupazioni di massa egli ha taciuto. Solo su alcuni fogli come i “Quaderni Piacentini” o il “Lavoro Politico” è stato possibile trovare tracce di una anticipazione del potenziale di novità culturale e politica che quel movimento era destinato ad esprimere. Eppure, i segnali non mancavano, non solo nei propositi e nell’azione del movimento degli studenti, ma nello stesso movimento operaio. Si consideri, per esempio, il processo evolutivo che già da tempo stava maturando nel sindacato cattolico dei metalmeccanici e che ha avuto suggello nel congresso nazionale Fim-Cisl che si è svolto a Sirmione nel giugno del ’69. Quelle sorprendenti elaborazioni non potevano essere di certo considerate un fulmine a ciel sereno, dal momento che erano il frutto di una maturazione politica durata anni. Nei documenti di quell’assise, sono stati espressi in modo categorico propositi la cui carica di contestazione era inequivocabile. Veniva, infatti, decretato il rifiuto della “libertà borghese”, definita “un’astratta libertà del singolo che nel concreto maschera l’aggressione di una classe sull’altra, per una libertà di ciascuno dal bisogno, dall’ignoranza, dall’aggressione”, poi, il rifiuto della “democrazia borghese, delle uguaglianze e delle sovranità scritte sulla carta, per una concreta possibilità d’essere diretti protagonisti”. E ancora, il rifiuto della “pace delle grandi potenze”, della “legalità borghese che è l’ordine del disordine costituito”. Se a proclamare una tale guerra al sistema erano i metalmeccanici di Pierre Carniti, per decenni componente moderata del sindacalismo italiano, era proprio il caso di avvertire che nella società civile del “Bel Paese” era in atto un profondo processo di cambiamento. C’è di che riflettere sulla miopia della classe dirigente e dell‘intelligèntia di sinistra! Di fronte a una svolta di portata storica, essa ha fatto ricadere sul movimento operaio la grave responsabilità del mancato inizio della costruzione di una possibile alternativa al sistema del capitale. Per la verità, il partito comunista e quello socialista, unitamente alla Cgil, contrariamente a quanto avvenuto in altri paesi dell’Occidente, hanno l’indubbio merito di essersi aperti parzialmente al movimento e di aver offerto una sponda politica alle lotte di fabbrica e sociali, scongiurando così un loro isolamento. Difatti, è anche merito loro se i valori nuovi e i bisogni espressi dal movimento degli studenti e degli operai sono penetrati nell’insieme della società e sono poi stati sanciti dal diritto. Questa loro apertura ha consentito di arginare e respingere l’atteggiamento di avversione verso i protagonisti del “’68-’69” che è stato assunto, anche in forme provocatorie, dalle varie espressioni della borghesia. E va pure sottolineato che la sinistra italiana ha dimostrato coraggio nel sottrarsi in maniera decisa ai diktat dei dirigenti del Cremlino impegnati anch’essi a contenere e neutralizzare il movimento in maniera di non disturbare, come spiega nelle sue memorie Yuri Dobrynin, i governi dell’Europa occidentale, in particolare De Gaule in Francia e la Democrazia cristiana in Italia. Così come non ha dato retta nemmeno agli Adorno, agli Horkheimer, agli Habermas, agli Althusser i quali si sono dati da fare per criticare e screditare il “’68”. Questa distinzione di autonomia dei dirigenti comunisti e socialisti italiani e della stessa Cgil, la loro stessa apertura al movimento, non bastano però ad assolverli del grave errore compiuto nel non aver saputo interpretare per tempo le novità di cui il “’68-’69” è stato portatore e, conseguentemente, di non aver fornito ad esso il necessario sbocco politico affinché potesse consolidarsi come soggetto di una concreta alternativa. Per la verità, nello schieramento della sinistra l’atteggiamento di polemica e di rifiuto della contestazione studentesca e operaia è stato assunto da una componente minoritaria dei militanti di base. Nel Pci, poi, vi sono stati compagni anche autorevoli che si sono dimostrati “aperti” al 296


“nuovo”, che hanno saputo cogliere il malessere che serpeggiava tra i giovani e che nel momento dell’esplosione dello lotte hanno rifiutato di adeguarsi alle posizioni di circospezione se non di chiusura dei vertici. Già nel giugno del ’68, Lucio Lombardo Radice in un articolo apparso su “Rinascita”, criticando “l’infantilismo estremista” di Marcuse e definendo “soggettivisti” gli studenti italiani, poiché “trascurano un’analisi scientifica delle condizioni oggettive”, ha sostenuto che le loro posizioni, così come quelle degli anarchici, si sono imposte a causa dell’“ampio spazio di problemi da noi (cioè dal Pci) lasciato vuoto o assai poco esplorato e presidiato”. E ha giudicato un importante contributo “il ritorno nella pratica al principio della democrazia assembleare” che rimette in discussione “il rapporto tra istituti rappresentativi delegati (il Parlamento in primo luogo) e istituti di potere popolare diretto nello sviluppo della democrazia italiana verso il socialismo”. Anche Giuseppe Chiarante, sulle stesse colonne di “Rinascita”, ha esaltato in termini trionfalistici le agitazioni studentesche; anche se in maniera strumentale le ha interpretate come portato della forza e della validità della politica scolastica del Pci. Lo stesso segretario del partito, Luigi Longo, di fronte all’estendersi del movimento di contestazione, ha richiamato tutto il partito sulla necessità di un dialogo con gli studenti, il suo appello, però, è rimasto pressoché inascoltato ed è caduto nel vuoto. Anche la Fgci ha assunto nei confronti del movimento una “linea aperta” che è consistita nella rinuncia alla propria stessa esistenza come organizzazione giovanile di partito proponendo la sua confluenza in un grande raggruppamento della gioventù italiana di sinistra fondato su alcune grandi discriminanti. Riflettendo su quel periodo di lotte, venti anni dopo, il filosofo Cesare Luporini ha confessato di non avere mai pensato che si trattava di una rivoluzione, ma di essere certo che si era in presenza di un grande movimento di rinnovamento e di critica, in specie sul ruolo della scienza, sulla neutralità del suo uso, nel quale vi era “un potenziale rivoluzionario più forte di quello che molti di noi, pur essendo in atteggiamento positivo, non riconoscessero”. A rendere minoritarie queste posizioni di apertura e di interesse è stato un diffuso sentimento di fastidio e di riluttanza che si è riscontrato in particolare nei quadri intermedi del partito, i quali si sono dimostrati indisponibili al confronto e al dialogo con gli studenti. Nonostante l’eredità culturale gramsciana e la lezione togliattiana sul “mai dar torto alle masse quando si muovono”, nel Pci, mentre a livello degli apparati si è avvertita una certa ostilità verso il movimento, alla sua base si è diffuso un clima di turbamento e di incertezza. Alcuni dirigenti di primo piano non hanno esitato a proclamare platealmente la loro avversione al movimento. A distinguersi in questa campagna è stato Giorgio Amendola, capofila dell’ala destra del partito, che su “Rinascita” ha lamentato la mancata “confutazione ragionata” delle posizioni espresse da Herbert Marcuse, sia sulla “equiparazione tra la società capitalistica avanzata e la società socialista”, sia sulla integrazione della classe operaia dei paesi capitalistici e la socialdemocratizzazione dei partiti comunisti di Francia e d’Italia; tesi queste che a suo avviso “sono penetrate nel movimento”. Ha quindi sostenuto che “il problema degli orientamenti ideali e politici e della direzione operativa del movimento studentesco”, poiché questi si sono determinati in modo autonomo, si sono oggettivamente contrapposti con gravi rischi alla direzione del movimento operaio nel quale ogni decisione “si esprime attraverso i suoi organi di classe (partito e sindacati)”. Respingendo la pretesa marcusiana di sostituire “studenti, emarginati e negri” alla classe operaia come forza rivoluzionaria, ha posto sotto accusa la “demagogia sessantottesca” e condannato senza appello lo spontaneismo e la pratica assemblearistica del movimento. Ad assumere un atteggiamento critico verso le lotte studentesche non è stata però solo la “destra” del partito. Ci ha provato anche Achille Occhetto il quale, sullo stesso settimanale comunista, nel febbraio del ’70 ha sostenuto che il movimento di massa “è stato l’espressione di una esigenza di liberazione, di una difesa disperata dei valori dell’uomo e della sua immaginazione, e un’aspirazione insopprimibile alla libertà... un’esigenza alla realizzazione di se stessi e alla partecipazione... Ma se il ‘progetto della rivolta’ ha testimoniato una disponibilità di massa delle nuove generazioni alla lotta anticapitalistica, non altrettanto chiaro è stato il ‘progetto della 297


costruzione’... Nessuna delle nuove avanguardie si è posta concretamente il problema strategico di fondo e cioè il problema della originalità della rivoluzione nei punti alti dello sviluppo capitalistico. In concreto, l’idea di socialismo per cui sono disposte a battersi le nuove generazioni non sempre coincide con la realtà dei paesi socialisti. Questo è il vero punto di crisi teorica di tutta una generazione”. Il dubbio su un possibile ritardo nell’elaborazione teorica del suo stesso partito e sull’autenticità socialista del modello sovietico non ha sfiorato neppure lontanamente l’intelletto del futuro segretario del Pci-Pds. A risultare in errore, sul piano analitico e propositivo, erano a suo giudizio esclusivamente i giovani contestatori. Di fronte alle nuove esperienze di lotta, la linea ufficiale assunta dalla maggioranza della direzione del Partito comunista, pur fra mille reticenze, è stata quella di un’apertura parziale alle nuove istanze che provenivano dal basso, la quale si traduceva in un impegno a trasferirne i contenuti delle lotte sul piano parlamentare attraverso la politica delle riforme di struttura. Apprezzando il valore delle conquiste conseguite dal movimento nel corso dell’“autunno caldo”, Pci e Cgil si sono sforzati di garantire uno sbocco istituzionale agli organismi di democrazia diretta che nel corso delle lotte del “’68-69” sono sorti spontaneamente nel tessuto produttivo e civile. Per la elezione dei consigli di fabbrica e di zona sono state stabilite regole e compatibilità, i comitati di quartiere sono stati istituzionalizzati e ridotti a piccoli parlamenti periferici, i consigli di gestione nelle scuole sono stati depurati politicamente e riservati ai soli genitori. Per i gruppi impegnati sui fronti dell’ecologica, della psichiatrica, della lotta anticarceraria, del femminismo e per i vari comitati di base e strutture di volontariato in campo sociale e culturale si sono invece prospettati tempi duri di sopravvivenza, poiché una loro integrazione nel sistema è risultata un’operazione assai complessa e difficile da compiere. In sostanza, l’obiettivo comune dei poteri costituiti e delle stesse espressioni istituzionali della sinistra, è stato quello di contenere il protagonismo della società civile, di impedire che esso fosse di disturbo a chi ha avuto la delega di governare. Ha avuto così inizio un’opera corale tesa a riportare l’opposizione in ambiti di compatibilità e di subalternità alle regole della democrazia rappresentativa. E’ stata dichiarata guerra allo spontaneismo e alla “creatività delle masse”. Si è così aperta la corsa dei partiti di sinistra al riassorbimento dei soggetti “rivoluzionari pentiti”, quelli cioè che si sono resi disponibili al trasformismo, pronti a ricoprire ruoli professionali gratificanti e ben retribuiti in cambio della propria anima. Si è aperta cioè una sorta di “stagione dei saldi” del mondo politico nella cui gara ad eccellere è stato il Partito socialista di Craxi. Da quel momento i palazzi della politica, del giornalismo, del marketing pubblicitario si sono popolati di ex sessantottini che delusi dai pensierini di Mao si sono convertiti al “pensiero unico” e al “pensiero debole”. E’ stata la saga dei voltagabbana. All’origine di un tale disastro politico, culturale e morale, come già abbiamo visto, ci sta l’incapacità della sinistra di prevedere e governare l’esplosione del movimento. Vale pertanto la pena di riflettere almeno per un attimo sulle ragioni di tale inettitudine. Ad impedire al Pci di comprendere la natura del “‘68” concorrono, a mio modo di vedere, l’impostazione politicista ed economicista della sua linea, nonché la sua ideologia industrialista e produttivistica dello sviluppo. A questa distorta visione del processo di cambiamento si accompagna l’inadeguatezza dell’analisi dei processi di modernizzazione capitalistica e dei conseguenti mutamenti dei rapporti sociali. Sin dai primi mesi del ‘68 diviene chiaro che il movimento degli studenti pone il problema dell’elaborazione di una nuova strategia per la rivoluzione in Occidente e, proprio di fronte a questa esigenza, il Pci mostra la sua reticenza e la sua impreparazione. Ad essere messa in discussione è proprio la politica che esso ha praticato a partire dall’indomani della Resistenza e in particolare nel periodo della ricostruzione post-bellica. A questo va aggiunta la messa in discussione da parte degli studenti della tradizionale divisione di compiti, non solo tra sindacato e partito, ma tra economica e politica, e ancora il rifiuto, in nome dell’egualitarismo, della selezione e della meritocrazia. Una tale impostazione teorica viene

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giudicata inaccettabile sia dai partiti della sinistra sia dall’organizzazione sindacale che ad essi fa riferimento. Non ultimo poi, ci sta il fatto che il movimento del “’68” chiama in causa la dimensione internazionale assunta dallo scontro tra forze del progresso e forze della conservazione, testimoniata in modo palese dallo sviluppo in paesi diversi delle stesse lotte studentesche. Il movimento operaio, che è l’unico soggetto politico anticapitalistico storicamente costituito, è purtroppo modellato dagli Stati nazionali e non vanta pertanto, se non a un puro livello sentimentale, uno spirito internazionalista, soprattutto è privo di una strategia di quel tipo. E neppure possiede una cultura e le risorse politiche e organizzative necessarie a compiere in tempi rapidi un passaggio di tale portata. A rendere impossibile una conversione di strategia, concorre poi un fattore di natura psicopolitica: gli apparati del partito vantano una certa arroganza verso qualsiasi altra espressione di sinistra; essi si sentono per certi aspetti onnipotenti e non tollerano nel modo più assoluto che qualcuno si collochi alla sinistra della loro organizzazione. Il modo in cui vengono considerati i dissidenti del gruppo “il manifesto” è, a questo riguardo, assai eloquente. Anche a causa di questo piglio altero, il Pci non attribuisce grande importanza all’analisi del nuovo fenomeno che irrompe sulla scena politica, e il suo atteggiamento è di fastidio e di chiusura. I suoi obiettivi, del resto, puntano in tutt’altra direzione. Facendosi carico delle difficoltà che investono il mondo economico, dimostrandosi così soggetto responsabile ed affidabile agli occhi dei poteri costituiti, in sede parlamentare il Pci negozia con la Democrazia cristiana decisioni e scelte di fondamentale importanza per la stabilità del sistema. Imbocca la strada delle “larghe intese” non rendendosi conto che il capitalismo sta attraversando una crisi che non è di egemonia di potere, bensì di crescita la quale lo proietta in un nuovo stadio del suo sviluppo, quello cosiddetto della modernità. Appare evidente che se il Pci avesse fatto seriamente i conti con il “’68-’69”, avrebbe necessariamente dovuto rimettere in discussione se stesso, il suo modo di essere e la sua linea politico-strategica; trascurando invece le novità dello scontro sociale, nonché le potenzialità che il movimento di massa esprimeva, ha fatto terra bruciata alla propria sinistra. E’ anche a causa di tale atteggiamento della sinistra storica che il “’68-’69” ha degenerato. Ad avvertire il pericolo di un tale destino è stato paradossalmente il liberal-democratico Norberto Bobbio, il quale ha ammonito: “L’azione degli studenti non ha alcun significato se l’organizzazione politica del movimento operaio non è in grado di riceverne le esperienze e di unificarle in una strategia rivoluzionaria”. E’ successo così che un ricco patrimonio di idee, di pratiche politico-sociali, di potenziali quadri, di energie rivoluzionarie ha subito un frazionamento e una dispersione. E tra la società civile e la società politica si è determinata una nuova e ancor più profonda separazione. Solo il sindacato ha tratto qualche vantaggio dalle lotte operaie rinnovando il proprio quadro dirigente e potenziando la propria base sia sul piano organizzativo che su quello della capacità rivendicativa. Il Pci, anche a distanza di anni, non ha dimostrato neppure di avvertire il bisogno di riflettere in modo sereno e approfondito su questa mancata occasione. Una riflessione che la sinistra avrebbe dovuto senz’altro compiere, è quella che riguarda le motivazioni per cui gli studenti hanno scelto di polemizzare con i partiti comunisti, quando la loro stessa apparizione sulla scena politica era avvenuta all’insegna del marxismo. Se si fosse seriamente riflettuto su un quesito del genere, si sarebbe scoperto che loro intendimento non era quello di respingere le teorie marxiane, ma le degenerazioni burocratiche del socialismo reale e la fossilizzazione ideologica di tutti quei partiti che hanno fatto proprio quel modello. Il coraggio dell’autocritica si è dunque dimostrato essere un bene raro nel mondo della sinistra. Sono, infatti, estremamente pochi i dirigenti di partito e del sindacato che hanno sfidato il conformismo politico e hanno fatto prevalere l’onestà intellettuale. Tra questi merita di esser ricordato Bruno Trentin, segretario dei metalmeccanici della Fiom-Cgil e poi segretario generale della Confederazione. Venti anni dopo quegli avvenimenti egli parla della “incapacità della sinistra 299


politica di trovare un punto di mediazione con la nuova realtà”. Attribuisce questo mancato appuntamento alla “responsabilità del vecchio movimento operaio” e alla “debolezza e fragilità culturale e politica del nuovo movimento”. Accusa gli intellettuali della sinistra di aver “tardato a cogliere gli elementi di discontinuità”. Ammette che “è mancata un’alleanza del lavoro e dei saperi, la capacità quindi di promuovere una cultura alternativa e di programma, diremmo oggi, che stimolasse la modifica del sistema produttivo, di quello istituzionale”. E infine denuncia che “tutta la sinistra, anche quella nuova, non ha compreso che il ‘68 aveva messo all’ordine del giorno proprio il tema di un diverso programma politico di trasformazione”. Una riflessione autocritica, quella di Trentin, che a più di quaranta anni di distanza da quelle lotte antisistema, si rivela ancora proficua. Occorreva “remare contro corrente”, considerato che l’avversione al “’68-’69”, nella coscienza di molti dei suoi compagni di partito, era un fenomeno diffuso. Al punto che ha continuato a sussistere nel tempo, tanto è che uno dei guru del nuovo corso post-comunista, Massimo D’Alema, sul finire del secolo scorso, ha sentenziato che la sinistra ha commesso un grave sbaglio: quello di aver abituato gli studenti “a dire sempre no”. Fatto è che sui problemi posti da quella stagione di lotte, l’iniziativa l’ha tenuta l’avversario: i nuovi processi d’internazionalizzazione, infatti, sono stati conformati e guidati dal grande capitale e su scala mondiale l’intero ventennio ha assunto i tratti di un nuovo ciclo di “rivoluzione passiva”. Ma anche di questo sembra che la sinistra non se ne sia accorta. 9.3 – Dal sogno rivoluzionario agli “anni di piombo” Finita la fiammata della rivolta studentesca e operaia, con gli anni ’70 il sogno di una società nuova, diversa da quella capitalistica, svanisce. Coloro che hanno fatto sul serio e hanno sinceramente creduto di poter cambiare il mondo sono ora chiamati a fare i conti con una sconcertante delusione. Il blocco anticapitalistico si disgrega, la prospettiva di un’alternativa si allontana e i vecchi poteri riprendono in mano le redini della storia. Emergono così le ambiguità che caratterizzano tutti i movimenti in cui prevale, o è molto forte, la spontaneità e la cui strategia contestativa nei confronti dei poteri costituiti si rivela incapace di esprimere un progetto politico complessivo e una nuova classe dirigente. Il processo di disgregazione pone in evidenza i punti di debolezza di un movimento che avendo rifiutato il sistema sociale esistente, il modo di produrre e il lavoro capitalistico, non ha saputo costruire una alternativa ad esso; un movimento che si è dimostrato incapace di guardare al di là dei suoi simboli ideologici, di ricercare le necessarie alleanze per il cambiamento, di incidere nel profondo del sistema di potere; che ha sovvertito la nozione di tempo immergendosi in un eterno presente mettendo in discussione l’idea stessa di futuro; che ha avuto la spavalderia di dissacrare tutto e tutti, ma non ha saputo costruire un proprio progetto sociale; che ha saputo esaltare i diritti civili, ma non è stato capace di ancorarli a una struttura economica non capitalistica. Purtroppo, non si può essere vincenti se si tiene separato il momento della distruzione da quello della costruzione. Confesserà venti anni dopo un dirigente della contestazione sovversiva: “Avremmo dovuto ben capire che una cosa è organizzare una forma di ribellione e altra, tremendamente più difficile, sostituire il nuovo al vecchio modo di produrre e di lavorare”. Negativa si è dunque rivelata la mitologia della “rivoluzione dietro l’angolo”, un’immagine semplicistica e semplificata del processo rivoluzionario che ha contraddistinto larga parte dei protagonisti di quelle lotte. Se il “’68-‘69” ha rimesso all’ordine del giorno la rivoluzione in Occidente, il movimento politicoculturale che ne è seguito non ha saputo o non ha voluto far proprie quelle categorie gramsciane che si sono rivelate fondamentali per la determinazione di un cambiamento; si è dimostrato cioè incapace di coniugare i concetti degli “apparati egemonici” e della “guerra di posizione”. E’ proprio in forza di queste ambiguità e debolezze che una frangia estrema del “’68-’69” ha imboccato la strada della violenza come unica possibilità di proseguire la lotta. Dopo gli anni della spontaneità, difatti, la contestazione ha continuato ad opera di minoranze sparute le quali si sono 300


abbandonate al fascino della P38. E non si è trattato certo di un impazzimento improvviso di soli alcuni esaltati. In taluni settori del movimento la presenza di comportamenti e di ideologie che hanno prediletto il ricorso alla violenza e il rifiuto della democrazia si era registrata già nei primi tempi della contestazione e non è un caso che la più parte dei capi della lotta armata abbiano vantato una militanza che risaliva alle prime lotte universitarie. Una delle più note organizzazioni terroristiche è stata quella delle “Brigate rosse” la quale, fondata da esponenti del movimento studentesco di Trento, per lo più giovani cresciuti negli oratori, è stata autrice di numerosi attentati e sabotaggi nelle fabbriche. Per assicurarsi poi l’autofinanziamento, non ha esitato a ricorrere a rapine in banca, quindi a rapimenti e attentati, anche mortali, a dirigenti industriali e giudici. L’epilogo è stato il sequestro e l’assassinio del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, peraltro in funzione di un disegno strategico di chi era contrario all’inclusione dei comunisti nell’area di governo. Con l’apparizione delle “BR”, infatti, è venuto intensificandosi l’intreccio tra il terrorismo di sinistra e quello di destra e tra questi e i servizi segreti di Stato, non solo italiani ma anche stranieri. Tra le follie “rivoluzionarie” e l’azione provocatoria degli infiltrati nelle organizzazioni estremiste non c’è stato più confine. E’ stato dato così avvio alla campagna degli “opposti estremismi” e alle “stragi di Stato”. La Loggia massonica “P2” è divenuta uno dei più importanti protagonisti della vita pubblica italiana condizionando le politiche dei governi e delle istituzioni. Ultimo sussulto del “’68-’69” è stato il cosiddetto “movimento del ‘77”, prodotto del protrarsi di una crisi che non era solamente politica, ma anche sociale e culturale. Si è trattato di un movimento composto in grandissima parte da soggetti emarginati ed esasperati, quali lo studente frustrato e il giovane lavoratore precario e poco assistito dal punto di vista sindacale. Sua espressione tipica è stato l’“indiano metropolitano” il quale era portatore di un’ideologia il cui obiettivo primario era lo smantellamento di qualsiasi forma politica organizzata e l’affermazione di una gestione diretta della vita collettiva. La città laboratorio di questo movimento è stata Bologna, la capitale delle amministrazioni di sinistra. Come ha ricordato Rossana Rossanda, è qui che si è compiuta “la lacerazione fra la massa studentesca” e la sinistra. Il movimento “cercò gli operai e il Comune rosso, trovò un muro, e respinto, si divise, urlò contro, spaccò quel che poté”. Il “‘77” è stato un movimento che oltre ai partiti tradizionali ha rifiutato per principio sia i partitini della “nuova sinistra” che le assemblee. Lo slogan “il cielo della politica è caduto sulla terra” è appunto la testimonianza di una negazione della sfera politica e l’inizio di quella polemica contro la delega che si proietterà nei decenni successivi assumendo gradualmente connotazioni diversificate, ma dimensioni sempre più estese. La disputa che si apre nel movimento su “scheda bianca o scheda rossa?” altro non era che il segnale di una rottura che nel tempo ha avuto ripercussioni sempre più gravi sull’intero arco delle forze di sinistra. Il “’77”, dunque, si è schierato in modo deciso contro lo Stato e contro la sinistra istituzionale. Ed è nella sua ideologia che hanno trovato terreno fertile la violenza di massa e la lotta armata. Pratiche di questo movimento sono stati appunto la guerriglia urbana, il nomadismo sociale, la fuga dalla fabbrica, l’irruzione degli incolti nelle università, le vetrine dei negozi sfasciate, la merce portata via (“l’esproprio proletario”) o semplicemente calpestata, l’”uso della siringa”. Nessuna sua avanguardia si è mai premurata di andare a bussare ai cancelli delle fabbriche, come era avvenuto nel ’68, per cercare di intessere un’alleanza con il movimento operaio, anzi, gli stessi picchetti operai hanno da subito mosso contro questo movimento. Mentre il “‘68” ha trasudato in continuazione senso di vita, il “’77” ha portato con sé un senso di morte. I cosiddetti “anni di piombo” non sono dunque l’esito del “‘68”, come qualcuno ha continuato strumentalmente a insistere, bensì la testimonianza della sua stessa morte. Nato dalla contestazione giovanile, questo movimento ha avuto come protagonisti giovani intellettuali provenienti dalle classi medie e nella sua fase di sviluppo ha subito l’egemonia di quella componente della “nuova sinistra” che è nota come “Autonomia operaia”. 301


Con la sua apparizione sulla scena politica è cominciata una storia nuova fatta di conflitti inediti che, non solo i vecchi partiti della sinistra, ma le stesse espressioni della cosiddetta “nuova sinistra” non hanno saputo interpretare. Si è ripetuto cioè quel che già era avvenuto per il “’68”: le forze antiche e recenti del cambiamento si sono dimostrate incapaci di analizzare e comprendere il “nuovo” che avanzava o, meglio ancora, l’antico che si riproponeva. Si sono invece limitate a percepire e stigmatizzare la spinta estremistica del movimento e non hanno tollerato il suo rifiuto di stare dentro i vecchi schemi della politica e della cultura. I dirigenti di partito e gli intellettuali progressisti non hanno avvertito che un atteggiamento di quel genere era il prodotto dei cambiamenti materiali e culturali in atto, il segno dell’esplosione di profonde contraddizioni nella vita individuale e collettiva e, anziché aprirsi al confronto e al dialogo, hanno reagito con la chiusura. E’ succede cioè che il protagonismo della vecchia sinistra si è scontrato con il nuovo protagonismo di massa compromettendo qualsiasi possibilità di una correzione di linea politica da parte di entrambi i soggetti. Risultato di questa incomunicabilità è stata la trasformazione del bisogno e del desiderio di cambiamento in rivolta, con la conseguente condanna di molti di questi giovani alla disperazione. Esauriti i tempi dello scontro, molti di loro sono difatti passati dal delirio della lotta armata ai fiumi sacri dell’India o alle pratiche psichedeliche, dalle barricate al Rotary o al tranquillo posto in banca. Alcuni hanno riscoperto il mercato e si sono ritagliati posizioni di prestigio e di privilegio in quella stessa società che intendevano cambiare sin dalle fondamenta. La stagione della contestazione di massa si è esaurita definitivamente un decennio dopo il ’68 con l’assassinio di Aldo Moro e a quel punto si è aperta la fase che ha portato la sinistra alla sua definitiva dissoluzione come potenziale soggetto rivoluzionario. Il mancato appuntamento delle forze tradizionali del movimento operaio con la contestazione giovanile, studentesca e operaia, è molto probabilmente da giustificarsi anche con il fatto che, mai prima d’allora, era capitato loro di trovarsi di fronte al contrasto tra l’assetto capitalistico delle forze produttive e sociali e il loro sviluppo. Questa contraddizione è stata intuita e descritta da Marx, ma non era mai stata sperimentata prima d’allora, pertanto le forze di sinistra si sono rivelate impreparate a gestirla. E forse, può essere che abbia ragione Eric Hobsbawm, quando sostiene che le mode intellettuali per il marxismo storico fiorite durante e dopo il “’68”, avrebbero lasciato di stucco lo stesso Marx. Sta di fatto che la sinistra non ha saputo cogliere l’occasione che le si è presentata di dare inizio a un processo di cambiamento in senso anticapitalistico e ha lasciato campo libero al capitalismo di recuperare il suo dominio sia sulle cose che sulle coscienze. 9.4 - La costellazione della “nuova sinistra” Quando i movimenti spontanei del ’68 vanno in cerca di referenti politici, non assumono come loro interlocutore il Partito comunista, la cui maggioranza è ormai di orientamento moderato, ma vanno a cercarlo altrove, cioè tra quelle avanguardie politiche che si collocano alla sinistra del Pci e che nello schieramento dell’opposizione al sistema rappresentano una esigua minoranza extraparlamentare. E’ la stagione in cui il dibattito politico è intenso e questi movimenti hanno a loro disposizione una pubblicistica straordinariamente ricca e variegata che si rivela utile per orientarsi sul piano della teoria rivoluzionaria. Oltre alla stampa dei partiti tradizionali (“l’Unità”, “l’Avanti!”, “Rinascita”, “Critica marxista”, “Mondo operaio”, ecc.) nonché a “Quaderni piacentini” e “Quaderni rossi”, sul mercato della letteratura politica esistono giornali e riviste che sono prodotti da gruppi di diverso orientamento quali: “Bandiera rossa”, che esce dal 1928, e “Lotta operaia”, dal 1942, edite entrambe dal Partito comunista rivoluzionario (trotzkista), sezione italiana della IV Internazionale; “Battaglia comunista”, in circolazione dal 1942, e che fa capo al Partito comunista internazionalista; “Il programma comunista” e “Lotta comunista” redatti da piccoli raggruppamenti di ispirazione bordighiana, trotzkista e anarco-sindacalista, la cui matrice è antisovietica e antimaoista; “Viva il leninismo”, nato nel 1962 per iniziativa di dissidenti del Pci; “Edizioni Oriente”, edito nel 1963, il quale rappresenta il primo veicolo in Italia delle posizioni del Pc cinese; “Nuova Unità”, nato nel 302


1964 dal quale, nel ‘66, sortisce il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) e i cui nemici sono l’imperialismo Usa e il socialimperialismo Urss; “Il potere operaio” che viene stampato dal 1966; “Rivoluzione proletaria”, organo del Partito rivoluzionario marxista-leninista d’Italia, e “Servire il popolo”, a cura dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), le cui pubblicazioni vedono la luce nel 1968; e ancora “Falce e martello”, “Stella rossa”, “L’Avanguardia proletaria”, “Il compagno”. Nel 1969 appaiono: “Lotta continua” settimanale e, a partire dal 1972, quotidiano; “La Classe” da cui nasce ”Potere operaio”; “Il giornale di avanguardia operaia” che poi diventa il “Il quotidiano dei lavoratori”; infine, “il manifesto”, mensile che due anni dopo diventa quotidiano. Ho voluto citare queste testate (trascurandone sicuramente altre che sfuggono alla mia memoria) per evidenziare la vivacità culturale che in questo periodo caratterizza il variegato mondo della sinistra. Tanta produzione di idee, di giudizi, di prese di posizione da allora ad oggi non si è più vista e questa caduta di interesse per la ricerca, l’elaborazione e il confronto-scontro, dà il segno dell’impasse in cui è venuta a trovarsi la sinistra. Si tratta ovviamente di una stampa che in buona parte è marchiata di trotzkismo, di operaismo, di stalinismo, di maoismo, caratterizzata cioè da un dogmatismo esasperato che causa un inevitabile scontro di posizioni. L’esaltazione mitica della classe operaia e il settarismo di certe concezioni del processo rivoluzionario, riportano il movimento ai primordi del socialismo azzerando anni di esperienze e di elaborazioni. L’ irragionevole e antistorico affastellamento che i redattori di gran parte di questi fogli fanno del pensiero di Marx, induce naturalmente a serie riflessioni. Indice ne è l’uso mistico-religioso del pensiero di Mao, la sua divulgazione populistica condotta in forme di precettistica, come se si trattasse di una serie di comandamenti adattabili a tutte le situazioni. Così come assurdo appare il diffuso convincimento che sia possibile saltare lo stadio del socialismo e attuare in un battibaleno una società senza le classi, senza lo Stato e le sue istituzioni, senza deleghe di sorta, liberamente gestita dai suoi componenti. Tutto questo porta a feroci polemiche tra i vari gruppi e tra questi e il movimento, determinando profonde contraddizioni e lacerazioni nello schieramento anticapitalista e lasciando spazio ad avventure politiche. Da quel turbinio di idee, però, escono anche riflessioni e proposte che appaiono meritevoli di considerazione. Non tutto è da buttare. Per esempio, l’insistenza sulla centralità della lotta in fabbrica nella costruzione di un progetto di transizione; la riproposizione della “delega controllata” e revocabile per chi viene eletto, a partire dai luoghi di lavoro e dai quartieri per investire le istituzioni rappresentative; l’impegno a costruire un governo di sinistra aperto ai cattolici progressisti e appoggiato dai sindacati. Vengono cioè dichiarati intenti e perseguiti obiettivi che meriterebbero attenzione e attorno ai quali parrebbe utile costruire una unità d’intenti. Ma così non è, a prevalere sono le differenziazioni, le intransigenze, le contrapposizioni, l’indifferenza per il processo unitario e l’alterigia. Il mondo della sinistra si scompone sull’onda di un movimento che, seppure in modo scomposto e per certi aspetti presuntuoso, è impegnato a ricercare la strada del cambiamento. Mentre nei processi sociali cresce la spinta all’unità, a livello della rappresentanza politica prevale l’intolleranza e la competizione. Non esiste un soggetto capace di catalizzare le diversità e disposto a sacrificarsi per l’unità. A sinistra del Pci si formano piccoli gruppi la cui identità politica e culturale si rivela incompatibile sia con la linea moderata da questi praticata che con un progetto unitario delle forze anticapitalistiche. E mentre il movimento della contestazione studentesca e operaia si presenta come l’espressione di un’impresa collettiva di massa, l’insorgenza di queste nuove formazioni dà un colpo mortale al protagonismo dal basso facendo proprio quel principio della delega che è una delle tare dei partiti della sinistra tradizionale. Da questi nuovi soggetti viene, infatti, esaltato il ruolo dell’avanguardia e nelle loro organizzazioni s’impone la gerarchia. Anche la “nuova sinistra” non può fare a meno del leaderismo.

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Se a capitalizzare l’eredità del maggio in Francia sono i trotzkisti e i maoisti, in Italia è un microcosmo di formazioni, non tutte diffuse su scala nazionale e definibili come partito, le quali abbandonano presto la ricerca del “nuovo” e, nel tentativo di uscire dal minoritarismo, si accomodano su vecchi schemi di organizzazione, lasciando dietro si sé le priorità del movimento e le utopie della prima ora. E’ illusione loro che il processo rivoluzionario possa continuare a camminare nonostante tutto e che le lotte degli anni ’70 possano condizionare gli orientamenti della sinistra storica. Si adeguano alle compatibilità del sistema politico e ingaggiano con scarso successo la competizione elettorale. Diventano presto piccoli partiti la cui struttura interna ricalca quella dei “grandi”, secondo la migliore tradizione terzinternazionalista, e regolano i rapporti interni alla maniera delle peggiori esperienze che il movimento operaio ha vissuto nel corso della propria esistenza. Si tratta, in genere, di formazioni dalle dimensioni locali, mentre a vantare un’influenza su scala nazionale sono solo “il manifesto” e “Lotta continua”. Quando entrano in competizione fra di loro, alcuni gruppi si scompongono e si fondono, altri ancora soccombono e spariscono. I marxistileninisti si scindono in Pcd’I Linea Rossa e Pcd’I Linea Nera; il “Movimento studentesco” della Statale di Milano si trasforma in “Movimento dei lavoratori per il socialismo” e poi confluisce nel Pdup; “il manifesto” si fonde con metà Pdup e metà “Avanguardia operaia, mentre le rimanenti metà di questa formazione dà vita a “Nuova sinistra unita”. Alle elezioni politiche del ’75, sotto il simbolo di “Democrazia proletaria” si raggruppa gran parte di quanto esiste alla sinistra del Pci. La campagna elettorale, però, si sviluppa nel più selvaggio interesse di gruppo, appare chiaro che il loro è un cartello unitario fittizio, la sommatoria di soggetti antagonisti e parziali, e il risultato è una cocente delusione: 555.980 voti, equivalenti all’1,5% di chi ha depositato nell’urna una scheda valida. Le nuove formazioni mal sopportano il vincolo di convivenza e si scontrano sia a livello ideologico che nella contesa di una supremazia nel movimento. C’è chi si batte per rifondare la sinistra tradizionale e chi invece privilegia lo scontro frontale con le istituzioni democratiche e con quelle dello stesso movimento operaio. “Potere operaio” fa la scelta del “partito dell’insurrezione”, “Lotta continua” proclama la sua avversione sia alle BR che allo Stato, gli autonomi dei Volsci e quelli di Padova si avvicinano ai terroristi. Per alcune frange della “nuova” sinistra la via dell’illegalità diventa una consuetudine. Indicativo di questo processo di degenerazione è un dato statistico: tra il ’70 e l’83 i militanti del Msi, per lo più giovanissimi, vittime delle violenze della “nuova” sinistra sono 21. In un clima del genere, la Democrazia cristiana, data ormai per spacciata, conferma un’insospettata capacità di recupero e il sogno di un governo delle sinistre svanisce. Non mi pare fazioso domandarsi se questo misero destino fosse inevitabile o se invece esistessero le condizioni perché questa costellazione di formazioni politiche potesse costituire lo stimolo a un processo di cambiamento. Come ho già evidenziato, gli aspetti negativi e problematici che caratterizzano l’universo della “nuova sinistra” non sono affatto pochi e neppure di scarso rilievo. Alle tare proprie dei movimenti spontanei, gran parte di questi gruppi sommano un settarismo che di regola è inversamente proporzionale al loro grado di rappresentatività del mondo del lavoro e al loro stesso peso politico-organizzativo. Alcuni si costruiscono addirittura una classe operaia a propria immagine e somiglianza, organizzano convegni in cui a prendere la parola sono solamente gli operai ai quali viene riservata una presenza negli organismi dirigenti quasi esclusiva. Altri, al contrario, abbracciando le tesi di Marcuse, secondo cui la classe operaia sarebbe ormai integrata nel sistema e quindi non più rivoluzionaria, e ritenendo che il socialismo possa essere realizzato solo nelle periferie dello sviluppo capitalistico, affidano al “terzo mondo” e alle figure sociali marginali dei paesi sviluppati (studenti, disoccupati, precari, ecc.) il compito di “fare la rivoluzione”. E mentre taluni si richiamano al “socialfascismo” della 3a Internazionale, altri riesumano la politica del “frontismo”.

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Di fronte all’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia, la componente dei marxisti-leninisti si schiera a favore dei carri armati, mentre coloro che esaltano la rivoluzione culturale cinese giudicano questo intervento militare un atto imperialista e fascista. Chi crede ancora in una funzione positiva dell’internazionalismo proletario attribuisce alla Cina il ruolo di paese guida della rivoluzione mondiale e vede nell’Urss il cane da guardia dello status quo, ritenendola interessata solo a difendere la propria posizione di superpotenza. Se alcuni considerano la democrazia una trappola della quale bisogna non rimanere prigionieri, altri rifiutano i consigli di fabbrica giudicandoli un ingabbiamento delle lotte di base e uno strumento di repressione del conflitto, perciò lanciano lo slogan “siamo tutti delegati”. La marcia di avvicinamento al potere del Pci viene vissuta da gran parte della “nuova sinistra” come un tradimento e la politica del “compromesso storico” giudicata una resa al nemico di classe. A prevalere è spesso un radicalismo massimalista e scarsa importanza viene data all’analisi e alla ricerca. Con una certa enfasi viene teorizzata la formula “da Marx a Marx”, come se la realtà su cui il padre del socialismo scientifico ha riflettuto un secolo prima fosse identica a quella del capitalismo maturo. In sostanza, mentre la situazione esige un esame approfondito e l’elaborazione di una linea d’intervento complessa, la più parte dei gruppi della “nuova sinistra” privilegia la semplificazione e si illude che a garantire una tenuta delle potenzialità rivoluzionarie basti la crescita lineare delle lotte e dei movimenti di massa, non rendendosi conto che il capitale sta preparando la sua controffensiva. Persino il gruppo de “il manifesto”, che pure vanta esperienza di partito e possiede un notevole bagaglio politico-culturale, fallisce nel suo intento di costruire uno sbocco politico al movimento di contestazione. Va tenuto presente che, noi del gruppo de “il manifesto”, siamo stati cacciati dal Pci proprio perché di fronte alle lotte studentesche e operaie chiedevamo al partito l’apertura al “nuovo” e maggior coraggio nello scontro politico-sociale per garantire una prospettiva al movimento. Come ricorderà Rossana Rossanda, molti anni dopo, “per noi il periodo dell’antifascismo era finito. Dovevamo andare più dappresso per vedere come la riorganizzazione dei poteri disegnasse soggetti sociali che poi crescevano con l’acculturazione, segnalati da nuovi bisogni”. “Speravamo di essere il ponte tra quelle idee giovanili e la saggezza della vecchia sinistra, che aveva avuto le sue ore di gloria. Non funzionò”. Forse anche perché la rottura con il partito è avvenuta in ritardo, quando cioè il movimento di massa aveva già imboccato la strada della disgregazione. Fatto è che nessuna delle componenti della “nuova sinistra” dimostra di possedere né la forza né la capacità politica di porsi come elemento di direzione del movimento. Del resto, in nessun paese al mondo in cui il movimento del “’68” ha vantato un significativo protagonismo, si è visto realizzarsi l’unità delle forze antagoniste al sistema. Ovunque, la contestazione è stata assorbita dall’egemonia del capitale la quale ha lasciato alla sinistra solo qualche cascame. A metà degli anni ’80, la componente de “il manifesto-Pdup” è rientrata nel Pci, mentre il resto di questa formazione, unitamente alla Nsu, dopo un travagliato periodo di sopravvivenza, è approdata all’area radical-socialista. Parte di quelli che sono stati i cultori del libretto di Mao e di quelli che hanno esaltato la figura di Stalin, invece, o sono rifuggiti nel privato o hanno scoperto il mercato della politica. Vecchi hippies sono diventati yuppies, intransigenti rivoluzionari si sono trasformati in yes-man del sistema. Insomma, la schiera dei “pentiti” si è rivelata abbastanza folta. Se può apparire comprensibile e giustificabile il detestare l’involuzione di molti dei contestatori di quella stagione, appare senz’altro doveroso riflettere sulle responsabilità che di questa deriva sono ricadute su quelle forze politiche e culturali che avrebbero potuto e dovuto favorire una loro evoluzione anziché demonizzarle ed avversarle. 9.5 – Lo strappo del Pci con l’Urss e l’“eurocomunismo” di Enrico Berlinguer Poco più che ventenne, Enrico Berlinguer finisce in carcere per attività antifascista. Nel ’43 si iscrive al Partito comunista e sei anni dopo ricopre la carica di segretario della Federazione 305


giovanile comunista italiana che mantiene fino al ’56. Per tre anni (’50-’53) è presidente della Federazione mondiale della gioventù e in questa veste prende contatto con molti dirigenti del movimento operaio internazionale. Nel ’69 viene eletto, assieme ad Alessandro Natta, vice segretario del partito e nel ’72, a seguito della nomina a presidente di Luigi Longo, ne diviene segretario generale. Berlinguer è un personaggio complesso e schivo, ma la sua ritrosia non gli impedisce di diventare uno dei più amati dirigenti del movimento comunista dell’Occidente del suo tempo. E’ conosciuto universalmente per aver teorizzato l’”eurocomunismo” e il “compromesso storico”, ma è anche colui che ripropone la strategia della “terza via” ed è l’ideatore della politica di “austerità”. Alcuni storici hanno suddiviso la sua vita politica in due distinte fasi: la prima sarebbe caratterizzata da un suo atteggiamento prevalentemente verticistico, la seconda da uno sforzo di ricerca e da un’intensa elaborazione strategica. E’ mia modesta opinione che queste sue caratteristiche s’intrecciano tra di loro confondendosi sin dall’inizio della sua attività di segretario del Pci. A contraddistinguere la sua condotta è semmai un permanente stato di insoddisfazione, sia sul piano dell’elaborazione teorica che su quello della pratica politica. L’evidente inquietudine intellettuale lo spinge a una continua ricerca di nuove soluzioni e alla loro verifica nel concreto della realtà. La linea di politica internazionale conosciuta sotto il nome di “eurocomunismo” (termine che è stato usato per la prima volta da un giornalista del foglio di destra “Il Giornale Nuovo”) viene da lui inaugurata nel 1975, ma la sua incubazione risale ad alcuni anni prima, quando affronta la questione della natura del socialismo in Unione Sovietica. Difatti, nel ’68, quando i carri armati sovietici invadono la Cecoslovacchia, egli dà inizio a una riflessione critica. “Il XX congresso (del Pcus) – sostiene – è stato, e noi crediamo sia destinato a restare, la prima grande espressione della consapevolezza e della necessità storica e politica di un profondo processo di rinnovamento dei paesi socialisti e del movimento operaio internazionale… Non venne (però) ripresa e sviluppata, se si eccettua qualche richiamo quasi rituale, tutta la tematica che impegnò Lenin negli ultimi anni della sua vita relativamente ai pericoli rappresentati dal burocratismo e dalle degenerazioni burocratiche”. Questa negligenza ha fatto sì che “la contraddizione fondamentale tra la base e le sovrastrutture politiche tendesse ad assumere un carattere tanto più acuto quanto più alla nuova fase di ascesa e sviluppo in cui sono entrate le società socialiste continua a corrispondere una sovrastruttura politica (istituti, abitudini pratiche, idee, mentalità ecc.) che rimane sostanzialmente quella del passato. Come ha affermato la segreteria del Pci il 15 dicembre 1961, ‘bisogna considerare che non ci si può porre compiti come quelli in cui si concreta il programma di passaggio alla società comunista, senza proporsi al tempo stesso di attuare mutamenti non solo nella struttura, ma anche nella sovrastruttura’”. Seppure in maniera molto cauta egli riprende e sviluppa gli accenni critici sulla società del socialismo reale che sono contenuti nel “Memoriale di Jalta” diTogliatti e dà inizio a quel lungo percorso che anni dopo lo porterà allo “strappo” con Mosca. Nel ’71 commenta: “Il nostro giudizio di fondo è che in questo grande paese (la Russia) è stata costruita una società socialista (nella quale) vi sono problemi di democrazia politica”. “Sentiamo pesare con particolare acutezza impacci e ritardi, e deformazioni intervenute nello sviluppo dello stesso pensiero marxista”. E accenna alla necessità di un “rinascimento socialista europeo”. Chi però si attende un approfondimento delle cause e dei motivi che impediscono alla società sovietica di essere democratica e desidera comprendere in che consiste il “rinascimento socialista europeo”, non ottiene risposte convincenti. Quel che appare certo è che egli ha in mente un’alternativa allo stalinismo il cui nucleo consiste nel coniugare la democrazia con il socialismo, assumendo il principio secondo cui la democrazia è un valore universale. Al 13° congresso del partito, nel ’72, riprende il concetto gramsciano relativo alla specificità della rivoluzione in Occidente e sostiene che “è compito del movimento operaio occidentale mettere a frutto le sue specifiche possibilità – che sono il prodotto di una diversa storia – per far avanzare

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forme nuove di socialismo, e insieme battersi per imporre elementi di distensione e di cooperazione internazionali”. Nel ’73 si incontra con una delegazione del Partito comunista francese guidata da Georges Machais, il cui scopo è quello di concordare la convocazione di una conferenza dei partiti comunisti dei Paesi capitalistici d’Europa. E’ da quel momento che prende avvio l’elaborazione dell’“eurocomunismo” il cui indirizzo è chiaramente in antitesi sia con il marxismo sovietico che con quello maoista e si differenzia dalle stesse posizioni classiche della socialdemocrazia, non intendendo rinnegare le tradizioni del movimento operaio e rinunciare alla realizzazione del socialismo. Questa scelta mette inevitabilmente in discussione il rapporto che il Pci ha stabilito nel corso della sua storia con il partito e lo Stato dell’Unione sovietica. Seppure il legame tra i comunisti italiani e gli artefici del socialismo reale abbia registrato, a partire dal XX congresso del Pcus, un allentamento a causa dell’insorgenza di divergenze e dell’assunzione di atteggiamenti critici, il rapporto di solidarietà resta ancora vivo e intenso. Tanto è che a metà degli anni ’70, su “Rinascita”, Romano Ledda scrive: “A chi chiede che il Pci denunci il carattere non socialista dell’Urss e faccia della democrazia politica l’asse di un nuovo schieramento internazionale rispondiamo ancora una volta di no”. E lo stesso Berlinguer, al 14° congresso del partito, affrontando la realtà dei Paesi dell’Est, riconferma su di essa un giudizio inequivocabilmente positivo sostenendo che la “continuità dello sviluppo produttivo e la crescita del benessere sociale” che si registra in quelle società, assicura “un clima morale superiore a quello esistente nei Paesi capitalistici”. Nel contempo, però, prospetta uno scenario mondiale inedito e insiste sul ruolo decisivo del movimento operaio occidentale. “Si possono saldare gli interessi e le aspirazioni dei popoli delle aree arretrate con quelle dei popoli dei Paesi dell’Occidente: operai e lavoratori di altre categorie, milioni di disoccupati e di sottoccupati, giovani in cerca di lavoro, tecnici, ricercatori e intellettuali, oggi costretti in una routine avvilente, priva di valori autentici e di prospettive, ceti produttivi che non hanno punti di riferimento sicuri e stabili per la loro iniziativa imprenditoriale... Vi sono interi popoli che non vogliono e non possono essere più tenuti ai margini della storia... Si può pensare che lo sviluppo della coesistenza pacifica, e di un sistema di cooperazione e integrazione così vasto da superare progressivamente la logica dell’imperialismo e del capitalismo e da comprendere i più vari aspetti dello sviluppo economico e civile dell’intera umanità, potrebbe anche rendere realistica l’ipotesi di un ‘governo mondiale’ che sia espressione del consenso e del libero concorso di tutti i Paesi”. Tre il 75 e il ’76 i Partiti comunisti di Italia, Francia e Spagna sottoscrivono congiuntamente documenti che prospettano la costruzione del socialismo in un clima di pace e di libertà. Ad assumere una posizione critica di rottura con l’Urss, al punto di sostenere una posizione di equidistanza dalle due superpotenze, è il segretario del Partito comunista spagnolo, Santiago Carrillo, il quale tra l’altro reclama la riabilitazione di Trotzkij. All’“eurocomunismo” aderiscono, oltre ad alcuni Pc europei, anche il partito comunista del Giappone e quello dell’Australia. Si rifiuta di farlo invece il Pc del Portogallo. I principi dell’”eurocomunismo”, in estrema sintesi, sono: la rinuncia alla dittatura del proletariato e la costruzione del socialismo attraverso la via parlamentare; la rinuncia a elevare il partito a forza dominante della società; il pluralismo economico, sociale, politico e culturale; la disponibilità a tornare all’opposizione in caso di perdita della maggioranza elettorale; il superamento della divisione tra comunisti, socialisti e socialdemocratici. Si tratta, in sostanza, di un ritorno ai principi sostenuti da Kautsky, con due varianti che consistono nel mantenimento del centralismo democratico nella vita interna del partito e la non rinuncia ad autodefinirsi rivoluzionari nell’azione trasformatrice della società. Sul fronte dell’economia viene fatta propria “una politica di programmazione democratica” non statalistico-centralista, ma fondata sulla “coesistenza di varie forme di iniziativa e di gestione pubblica e privata”. L’indirizzo eurocomunista di Berlinguer non trova tutti d’accordo nel Pci. In certi settori di base del partito si manifestano umori contrastanti con tale indirizzo, mentre nei suoi stessi vertici si 307


nasconde una qualche opposizione. A nutrire profonde riserve è lo stesso Giorgio Amendola il quale è preoccupato dello scontro che una tale scelta è destinata a provocare con l’establishmen moscovita. Nel ’77, in occasione di un suo discorso al festival de “l’Unità” di Modena, giunge al punto di affermare che l’“eurocomunismo” non esiste. Poco dopo è Gerardo Chiaromonte a sostenere che “l’eurocomunismo è solo un’espressione verbale”. Nel frattempo il partito modifica la sua linea di politica internazionale e dichiara ufficialmente di essere disposto ad accettare la Nato. “Noi vogliamo un’Europa né antisovietica né antiamericana, amica sia dell’Unione Sovietica che degli Stati Uniti”, precisa Berlinguer. Il nuovo atteggiamento nei confronti dell’Alleanza atlantica è da intendersi non come passaggio da uno schieramento all’altro, ma come il tentativo di dare avvio a un processo che tende al superamento dei blocchi contrapposti. Attraverso l’accettazione delle alleanze internazionali dell’Italia si determina inevitabilmente un graduale e progressivo distacco da Mosca. Il Pci segue ormai una linea di politica internazionale autonoma perseguendo il superamento della divisione bipolare del mondo e la costruzione nella pace e nella cooperazione di un nuovo ordine internazionale, cioè un nuovo tipo di sviluppo capace di colmare lo squilibrio tra Nord e Sud e nel quale le ragioni della libertà si associno a quelle della giustizia sociale e della solidarietà. L’“eurocomunismo” prende così le distanze dal mito rivoluzionario e lo fa anche attraverso atti clamorosi. Il Partito comunista francese ripudia ufficialmente il concetto di dittatura proletaria, Il Partito comunista spagnolo rinuncia alla vecchia bandiera repubblicana e fa sua quella monarchica, il sindaco comunista di Roma abbraccia in pubblico il Papa. Verso la fine degli anni ’70, il Pci vanta rapporti solidali con tutti i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. Il cambiamento di linea politica è tale da indurre la Cia americana ad avere un ripensamento sul suo conto. Poco dopo, però, l’”eurocomunismo” perde valore e credibilità, non certo per responsabilità di Berlinguer e dei comunisti italiani. Già tempo prima, il segretario del Pce, Carrillo, aveva agitato le acque compiendo una rottura delle relazioni con Mosca. Nel suo saggio, “Eurocomunismo y Estrado”, aveva denunciato il sistema di potere e l’essenza negativa della società sovietica e sostenuto che il vero socialismo si sarebbe costruito in Occidente, rompendo così con la linea moderata di Berlinguer e di Marchais. Ne è seguito un attacco del Cremlino il cui vero scopo era quello di ammonire i comunisti italiani e francesi. Nell’80 il Partito comunista francese approva l’intervento armato dell’Urss in Afghanistan e considera inevitabile la proclamazione dello stato d’assedio in Polonia, mentre il Partito comunista spagnolo entra in crisi profonda. Berlinguer resta solo e l’“eurocomunismo” scema fino ad esaurirsi come obiettivo praticabile. Il distacco dall’esperienza sovietica è però irreversibile, anzi, nel marzo dell’81, quasi presagendo il collasso che investirà l’Urss un decennio dopo, il segretario del Pci diagnostica: “Non si può certamente pensare che i limiti posti finora alle autonomie individuali e alle libertà civili in quelle società (quelle del socialismo reale) possano essere mantenuti indefinitivamente senza produrre crisi gravi”. E dopo qualche mese aggiunge: “Ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune delle società, che si sono create nell’est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella rivoluzione socialista d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, e che ha dato luogo poi a una serie di eventi e di lotte per l’emancipazione nonché a una serie di conquiste. Oggi siamo giunti a un punto in cui questa fase si chiude... E’ necessario che avanzi un nuovo socialismo nell’ovest, nell’Europa occidentale, il quale sia inscindibilmente legato e fondato sui valori e sui principi di libertà e di democrazia”. L’“eurocomunismo” è ormai morto, ma Berlinguer insiste nel riproporre alla sinistra dell’Occidente un percorso diverso sia da quello sovietico che da quello socialdemocratico.

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A giudizio di Silvio Pons, direttore dell’Istituto Gramsci, alla dichiarazione fatta da Berlinguer a riguardo dell’esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre, si sarebbe data una interpretazione errata considerandola uno “strappo” con l’Urss, quando invece i rapporti tra le Botteghe Oscure e il Cremlino sono rimasti saldi. Un tale giudizio trova di lì a poco l’avallo dello stesso segretario del Pci che in una intervista a “Nuovi Argomenti” dichiara che una rottura con l’Urss non è affatto desiderabile. A dire di molti, l’ideatore dell’“eurocomunismo” sarebbe rimasto fino all’ultimo legato alla consegna togliattiana della “unità nella diversità”, cioè alla regola di ferro per la quale il Pci poteva muoversi con autonomia rispetto all’Urss, ma non doveva mai andare a una rottura. In effetti, quel legame a un certo punto si indebolisce, senza però mai scomparire. Nei rapporti con Mosca Berlinguer ricorda il comportamento dei comunisti italiani esuli in Unione Sovietica durante la dittatura fascista. Mentre pubblicamente erano succubi di Stalin, nel segreto dell’Internazionale, a tu per tu con i compagni dell’esecutivo, essi sapevano battersi con coraggio e intelligenza difendendo la loro autonomia di giudizio e di proposta. Come qualcuno ha fatto notare, essi si sono dimostrati più preoccupati del partito che della loro biografia. Commentando il tentativo di Berlinguer di far diventare i partiti comunisti dell’Occidente capitalistico un soggetto autonomo nella costruzione di un socialismo diverso da quello sovietico, Antonio Rubbi ha scritto: “Assumere come centrali e irrinunciabili, nella costruzione del socialismo, principi e valori di libertà, di democrazia e di pluralismo, era un’idea-forza di grande suggestione”. In effetti, quella di Berlinguer è stata un’impresa straordinaria. Peccato che egli si sia illuso fosse possibile riformare il socialismo reale senza rivoluzionare sin dalle sue fondamenta economiche, sociali, istituzionali e politiche quella società. E questa a mio avviso è la ragione dello stesso fallimento dell’“eurocomunismo” il quale, come ha ben detto Rossana Rossanda, è da considerarsi “la versione povera della ricerca gramsciana sulla rivoluzione in Occidente”. 9.6 – “Compromesso storico” e “solidarietà nazionale” Fino ai primi anni ’70, quando segretario è ancora Luigi Longo, la linea politica del Pci – come già abbiamo visto – è ancorata ai vecchi principi del movimento comunista internazionale, anche se nel partito sono presenti posizioni che mal si conciliano con questa scelta. Quando Enrico Berlinguer diventa segretario le cose cambiano e l’asse politico del partito registra una sterzata moderata. Nel ’72, alla tribuna del 13° congresso che lo consacra leader, egli afferma: “In un Paese come l’Italia una prospettiva nuova può essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi correnti popolari: comunista, socialista, cattolica. Di questa collaborazione l’unità della sinistra è condizione necessaria, ma non sufficiente”. Quando poi, nel ’73, Salvador Allende è vittima del colpo di Stato, il neo segretario del Pci commenta: “Dal Cile ci viene un nuovo severo monito... L’imperialismo internazionale e le forze reazionarie in molti Paesi sono in grado di contenere la lotta emancipatrice dei popoli... La generale trasformazione per via democratica che noi vogliamo compiere in Italia ha bisogno, in tutte le sue fasi, e della forza e del consenso... In Italia essa può realizzarsi solo come rivoluzione della grande maggioranza della popolazione e solo a questa condizione, consenso e forza si integrano e possono divenire una realtà invincibile... Il dominio della borghesia non si regge solo sugli strumenti della coercizione e della repressione, ma si regge anche su una base di consenso più o meno manipolato, su un certo sistema di alleanze sociali e politiche”. E’ proprio in base a queste considerazioni che prende corpo e forza l’idea di una politica di unità nazionale. “La gravità dei problemi del Paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico, rendono sempre più urgente che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande ‘compromesso storico’ tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”. “Si è creata, nelle città e nelle 309


campagne, una rete di categorie e di strati intermedi, che spesso si vogliono considerare nel loro complesso e chiamare genericamente ‘ceto medio’, ma di ognuno dei quali in realtà occorre individuare e definire concretamente la precisa collocazione e funzione nella vita sociale, economica e politica e gli orientamenti ideali... Appare chiarissimo che per l’esito della battaglia democratica che conduciamo per la trasformazione e il rinnovamento della nostra società è determinante capire dove si situano, in che senso sono orientate e come si muovono queste masse, questi ceti intermedi, questi strati di popolazione. E’ del tutto evidente, cioè, come sia decisivo per le sorti dello sviluppo democratico e dell’avanzata al socialismo che il peso di tali forze sociali venga a spostarsi a fianco della classe operaia”. Il “compromesso storico” di Berlinguer poggia sull’obiettivo di separare l’anima conservatrice della DC da quella popolare e progressista con la quale va appunto fatta l’alleanza di governo. Quando egli propone questo obiettivo, nella Democrazia cristiana si avvertono segnali di avvicinamento al Pci e Aldo Moro teorizza la “terza fase”. Non si tratta ovviamente di intendimenti coincidenti, però i progetti presuppongono una collaborazione tra le due grandi forze popolari italiane, un’intesa destinata a legittimare una possibile alternanza alla guida del Paese. Nella mente del segretario del Pci vi è anche la determinazione di conseguire con una tale politica “alcuni indirizzi e provvedimenti di tipo socialista” (l’inserimento nella società capitalistica dei famosi elementi di socialismo) e di superare “le reciproche sterili solitudini” attraverso un’unità capace di trasformare gli uni e gli altri, sia politicamente che culturalmente. Non tutti, però, nel partito concordano con la linea di Berlinguer. Mentre Giorgio Amendola ritiene utile estenderla addirittura su scala europea, Luigi Longo e Umberto Terracini esprimono dubbi e riserve. Il presidente del partito vede in quel disegno il rischio di un appannamento della sollecitazione alla spinta al cambiamento. Comunque, nessun esponente comunista di spicco, in nessun momento, interpreta il “compromesso storico” come la premessa di un intervento riformatore del sistema politico italiano e dei suoi meccanismi istituzionali. Considerato dal suo fautore la “seconda tappa” della rivoluzione democratica e antifascista, esso appare ai più come la ripresa e il rilancio della proposta togliattiana di “unità democratica” per l’attuazione della Costituzione. Per certi aspetti si assiste, difatti, a un ritorno alla “svolta di Salerno” poiché Berlinguer ritraduce, adeguandolo ai nuovi tempi, l’impianto strategico togliattiano secondo il quale una democrazia progressiva in Italia potrebbe essere garantita solo dall’incontro e dall’intesa tra le grandi componenti popolari presenti storicamente nel Paese. Questa politica si rivelerà, però, nel tempo come l’espressione più alta di quella agognata autonomia del politico che poco più di un decennio dopo contribuirà a determinare la fine del sistema dei partiti. Di fronte alla crisi petrolifera del ‘73-’74, la capacità di analisi dei comunisti risulta viziata di catastrofismo e poiché essi non colgono la vera portata della fase post-fordista che sta per aprirsi, non avvertono il fatto cioè che, come è sempre avvenuto nei momenti di difficoltà che ha attraversato, il capitale sta gettando le basi per una sua ristrutturazione e per il suo rilancio, condizionando così lo sviluppo economico-sociale, nonché il corso politico. Nel lustro che va dal ’74 al ’78 la crisi energetica ed economica, il declino del centro-sinistra, la strategia della tensione, oltre al terrorismo, mettono a dura prova la politica del Pci e, nonostante il riaccendersi dei movimenti di massa e le vittorie elettorali, il “compromesso storico” non si realizza. Dall’ originario carattere strategico, esso si riduce a manovra tattica destinata a sfociare nella politica di “solidarietà nazionale”. Una scelta questa che non deriva meccanicamente dal disegno di Berlinguer, e neppure è da considerarsi una sorta di prima prova generale. Essa è piuttosto frutto dello stato d’emergenza che attraversa il Paese, sia sul piano economico-finanziario sia su quello dell’ordine democratico. Succede così che a un anno dal successo elettorale delle sinistre del 20 giugno ’76, viene siglato dai partiti democratici, dalla Dc al Pci, un accordo programmatico che pone fine alla fase storica che ha avuto inizio nel ’47: il Pci rientra nell’area governativa.

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Da questo momento il partito di Berlinguer è investito da una irrefrenabile pulsione a “farsi Stato”. L’intesa Dc-Pci viene estesa agli enti locali, quasi a macchia d’olio, e la sua applicazione porta all’appoggio esterno a governi monocolori favorendo alleanze spurie e discutibili. E mentre nel modo d’essere del Partito comunista, affiora una sfiducia nei confronti della società civile, nei suoi quadri dirigenti e intermedi si fa largo la tendenza a considerare il conflitto sociale non come il prodotto fisiologico della convivenza democratica, ma un elemento patologico e di disturbo per chi ha responsabilità di governo. Ha così inizio un processo di trasformazione genetica del partito che determina un offuscamento delle contraddizioni fra le classi sociali. La politica di “solidarietà nazionale” viene vissuta in modo profondamente diverso dalle forze politiche in questione. Mentre Berlinguer e il Pci la considerano come l’inizio di una nuova fase per il Paese, quella cioè che sancisce la fine del centrismo e del centro-sinistra e che inaugura la politica delle larghe intese, la Dc non attribuisce ad essa nemmeno il carattere di un disegno politico, ma la vive come uno stato di necessità. Moro ha di certo colto la novità dei tempi e il suo vero obiettivo è di evitare il collasso della Dc e la sua estromissione dall’area di potere. Non è da dimenticare che dopo gli esisti elettorali del ’75 e del ’76, è opinione diffusa che diventi possibile la costituzione di un governo delle sinistre. Tra i democristiani domina il convincimento che quella politica d’apertura è idonea a logorare il Pci e a trasformare la sua natura di partito rivoluzionario. Dai socialisti, invece, il “compromesso storico” è vissuto malamente, cioè come la volontà dei comunisti di emarginare il loro partito, dopo che tutti i loro tentativi di sottrargli consensi (dalla fusione con i socialdemocratici alla pregiudiziale anticomunista) sono falliti. Succede così che l’alleanza con la Dc non produce alcuna significativa riforma sociale, men che meno apre la strada a una qualche trasformazione strutturale o a livello dei rapporti sociali. La politica di “solidarietà nazionale” è infatti ipotecata già alla sua nascita da timori, da contrasti, da lotte intestine, da equivoci e risulta priva di quel respiro storico che Berlinguer ha attribuito al suo disegno di compromesso. Nello stesso Pci, via via che l’esperienza viene consumandosi, aumentano le perplessità e le riserve. Contemporaneamente si determina un preoccupante peggioramento di quel livello di credibilità nell’opinione pubblica che il partito si è costruito nel corso degli anni e questo provoca uno scollamento tra il suo vertice e la sua base sociale. La stessa proposta della “austerità” (sulla quale mi soffermo più avanti) viene interpretata a senso unico, cioè come una volontà di imporre ancora sacrifici alla classe lavoratrice e ai ceti meno abbienti. E’ all’interno di questo stato di tensione che matura anche il nuovo atteggiamento nei confronti della Nato e dell’Alleanza atlantica, il quale contribuisce ad aumentare la confusione. Sta di fatto che durante questa esperienza, i comunisti vivono una prova difficilissima e non può essere altrimenti. E’ pur vero che lo stesso Engels, quasi un secolo prima, aveva sostenuto che i veri comunisti devono essere disposti a passare “attraverso tutte le fasi intermedie ed i compromessi che non sono stati creati da loro ma dal corso della storia”. E che pure Lenin ebbe a consigliare i comunisti inglesi a sostenere gli Henderson e gli Snowden del Labour Party contro i Lloyd George e i conservatori, “così come la corda sostiene l’impiccato”. Altrettanto chiaro è però che l’esperimento di Berlinguer oltrepassa i limiti delle compatibilità ponendosi finalità impossibili da conseguire. Lo stesso fatto che una forza d’opposizione, radicata e in continua agitazione di massa, ideologicamente contrapposta al sistema, esclusa per principio dal potere centrale, assurga a forza di governo, ma non come primo attore, bensì in posizione di gregario, essendo costretta a stare fuori dalle stanze del potere (al Pci non viene, infatti, affidato nessun ministero), non può che suscitare tra i militanti e l’opinione pubblica di sinistra inquietudine e contrarietà. I quadri del partito non sono più nelle condizioni di orientare la base e di giustificare l’umiliazione e lo stato di difficoltà in cui si sono venuti a trovare. Quella della “solidarietà nazionale” è in sostanza un’esperienza che si scontra con la storia, le tradizioni e la cultura del partito comunista, perciò non può essere protratta oltre.

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Tanto è che nel giugno del ’79 questa esperienza si conclude. Essa fallisce per molteplici motivi, molti dei quali non dipendenti dal Pci. Decisivi sono lo spregiudicato atteggiamento dei suoi avversari, i condizionamenti internazionali e il montare dell’azione terroristica. Non ultimo, però, è il progressivo concentrarsi dell’attenzione degli stessi comunisti ai rapporti tra i partiti, al ruolo esorbitante dei loro vertici rispetto alle dinamiche sociali e il conseguente prevalere dell’interesse per gli schieramenti piuttosto che per i contenuti dell’azione politica e per le istanze di ampi strati della società, in specie delle classi subalterne. Come ho già evidenziato, nel Pci di Berlinguer si registra un forte ritardo nel cogliere le trasformazioni strutturali e culturali che modificano in profondità il Paese, e questa miopia impedisce ai quadri dirigenti e intermedi di rendersi conto che il capitalismo non è giunto all’ultima spiaggia, come in molti credono, ma sta ristrutturandosi lanciando la sua sfida attraverso i processi di innovazione tecnologica. Ad ammettere questa incapacità di analisi, un decennio dopo, è uno dei massimi dirigenti del partito di quell’epoca, Gerardo Chiaromonte, il quale in un editoriale su “l’Unità” ammette: “E vero che non comprendemmo a tempo in tutta la loro portata i processi di ristrutturazione produttiva e finanziaria del sistema capitalistico mondiale”. E’ poi il caso di ricordare che il Pci è sempre stato più bravo ad accompagnare le trasformazioni piuttosto che a determinarle; infatti, nella sua storia è risultato essere un grande mediatore collettivo. Nonostante che Berlinguer abbia continuato a precisare con insistenza che il suo disegno strategico non era da confondersi con la politica di “solidarietà nazionale”, il senso comune della gente ha considerato quest’ultima come la naturale conseguenza di quella strategia. Di fatto, è successo che sia con il “compromesso storico” che con l’accesso del partito all’area di governo, alla Dc in crisi è stato attribuito un ruolo insostituibile nel governo del Paese. Anche a causa di questa gratificazione, l’esperienza negativa dei governi di unità nazionale ha travolto e seppellito la proposta di “compromesso storico”. Sarà la pubblicazione postuma di documenti riservati a chiarire che Moro non era per nulla intenzionato a portare i comunisti al governo, ma pensava invece di tenerli a metà del guado, in modo di logorarli e indebolirli. Destino vuole che le elezioni politiche del ’79 confermino in pieno la validità della tattica seguita dal presidente della Dc. Un aspetto curioso di quel tempo, ma al tempo stesso inquietante, è rappresentato dal fatto che assieme alla “solidarietà nazionale” muore anche la strategia “rivoluzionaria” del terrorismo rosso. La mai chiarita vicenda delle stragi di Stato e lo stesso assassinio di Aldo Moro sono destinati ad alimentare gravi sospetti sulle versioni ufficiali di quei delitti e inducono a individuare i loro mandanti in coloro che hanno tessuto la tela della “strategia della tensione” anche in considerazione di questa coincidenza. E non va mai dimenticato che a temere la strategia della “terza fase” fatta propria dal presidente della Dc e ha contrastare in maniera perentoria la strategia del “compromesso storico” si è distinto in primo luogo il governo degli Stati Uniti. Immediatamente dopo il fallimento della “solidarietà nazionale” Berlinguer lancia la linea dell’“alternativa democratica” contro la Dc. 9.7 – “Alternativa democratica”, “terza via” e politica di austerità All’indomani della rottura con la Dc che ha posto fine alla politica di unità nazionale, Berlinguer avanza la proposta dell’“alternativa democratica” e ai suoi spiega: “Abbiamo posto l’obiettivo dell’alternativa democratica come indispensabile operazione di ricambio, effettivo e radicale, del personale politico, dei suoi indirizzi, dei suoi comportamenti... L’alternativa democratica non può reggere ove venga concepita e perseguita come qualcosa che comporti o presupponga la spaccatura – sociale e ideologica – del Paese, la contrapposizione frontale tra forze che, pur assai diverse, conservano tuttavia una comune aspirazione democratica... L’unità dei partiti di lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco dei partiti che si situano dal centro fino 312


all’estrema destra... Ecco perché noi parliamo non di una ‘alternativa di sinistra’ ma di una ‘alternativa democratica’, cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica”. Poiché l’esperienza della “solidarietà nazionale” ha avuto un’impronta prevalentemente politicista, alla proposta dell’“alternativa democratica” viene attribuito il carattere di una vera e propria sfida sui contenuti, una competizione nel dare soluzione ai gravi problemi economici e sociali del Paese. Perciò egli detta condizioni a riguardo dei possibili interlocutori precisando che “i termini di un compromesso di portata storica devono essere delineati con sufficiente approssimazione tra chi è solo interessato al quanto produrre e chi è interessato invece al che cosa e al perché produrre”. Non a caso, al centro dell’attenzione pone la questione giovanile. “E’ avvenuta – sostiene – la rottura tra le generazioni, il distacco dal lavoro di milioni di giovani, che lo rifiutano o lo patiscono in quanto lavoro alienato, e tale esso indubbiamente è e rimane (ma ovunque, in ogni parte del mondo, sia pure in forme diverse, a questo stadio della storia e della civiltà umana). Sbrigativamente, si sono accusati in blocco giovani e ragazze di non voler lavorare (o di non voler studiare) solo perché rei di domandarsi e di voler discutere il perché del lavoro (o il perché dello studio)”. La svolta d’indirizzo è chiara e altrettanto evidente è la determinazione di chiudere il capitolo dei compromessi consumati esclusivamente sul terreno degli schieramenti. Già un anno prima aveva fatto riferimento alla “terza via”, riproponendo una riflessione che mezzo secolo prima aveva impegnato gli austromarxisti Paul Levi, Otto Bauer e Max Adler e più tardi i socialdemocratici scandinavi. Al XV congresso, ripropone questa idea sottolineando l’esigenza di una svolta storica nella lotta per il socialismo: “Per quanto riguarda l’Europa parliamo di una terza via”. E mentre propone l’abbandono della formula del “marxismo-leninismo” ed esalta il rapporto socialismo-democrazia, ribadisce che “il modello adottato in Urss e trasferito nei paesi dell’Est è irripetibile; inaccettabile è ogni separazione tra socialismo e democrazia, tra forme di proprietà e di controllo sociale dei mezzi di produzione e forme di organizzazione democratica del potere politico”. E aggiunge che “le esperienze e le vie battute finora dalla socialdemocrazia appaiono oggi bloccate… (la socialdemocrazia) pur avendo realizzato importanti progressi nelle condizioni economiche e sociali delle classi lavoratrici, non ha portato la società fuori dalla logica del capitalismo… Di qui – dalla Francia alla Grecia, dalla Scandinavia alla Germania – una ricerca nuova di idee e di concreti programmi politici e di governo”. La “terza via” di Berlinguer ha il significato di “terza fase”. Nel suo pensiero la 1a fase corrisponde all’esperienza dei partiti socialisti e socialdemocratici nel periodo che va dalla metà dell’800 alla grande guerra, quando questi sposano le posizioni scioviniste; la 2a invece parte dalla rivoluzione d’ottobre e arriva alle avvisaglie di crisi del socialismo reale. Dopo queste esperienze – precisa – è giunto il momento che il processo rivoluzionario proceda su vie nuove, che si inauguri appunto la “terza fase”, la quale dovrebbe caratterizzarsi per un nuovo internazionalismo, per l’osmosi fra democrazia e socialismo, per l’alternativa tra piano e mercato, per una critica all’ideologia e per una prassi trasformatrice. La “terza via” è da lui intesa come soluzione fra liberalismo e socialismo, fra idea di libertà e di giustizia sociale, muovendo dalla compatibilità dei due concetti. Ed è concepita come opera di una sinistra moderna, ricomposta nella sua unità. Lo stesso “eurocomunismo” la presupponeva. Nel ‘81 riprende l’argomento e spiega: “E’ compito del movimento operaio occidentale mettere a frutto le sue specifiche possibilità – che sono il prodotto di una diversa storia – per far avanzare forme nuove di socialismo… La nostra diversità sta… nei requisiti morali e nei titoli politici che possediamo… Noi non rinunciamo a costruire una ‘società di liberi e uguali’, non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la produzione delle condizioni della loro vita… favorendo con il lavoro e la lotta la processuale fuoriuscita della società dall’assetto capitalistico”. E mentre condanna il sistema del capitale riprende le distanze dalla socialdemocrazia: “Uno dei valori costitutivi e fondanti della società capitalistica è l’individualismo, la contrapposizione fra gli 313


individui, la lotta di ciascuno contro tutti gli altri. I partiti socialdemocratici si illudono che la loro politica è ‘realistica e concreta’, ma nei fatti è diventata spesso adeguamento alla realtà così come essa è, e ha portato alla messa in parentesi dell’impegno al cambiamento dell’assetto dato”. Berlinguer si muove in modo realistico, con cautela e cerca di cambiare senza clamori, ma ancora una volta il suo partito si rivela largamente impreparato a compiere una simile svolta. Del resto, la sua proposta presenta non pochi limiti e contraddizioni e questo solleva perplessità nello stesso gruppo dirigente. Qualcuno gli fa notare l’inconciliabilità tra “l’autogoverno dei produttori” teorizzato da Trentin e la funzione di governo che egli invece assegna in primis al partito; altri sostengono che la questione della qualità del lavoro non è di attualità, mentre lo è quella della qualità del potere. Insomma, un deficit di convinzione è presente persino in coloro ai quali viene affidata la gestione della svolta. A complicare la situazione è poi il difficile stato di rapporti che si è determinato nello schieramento di sinistra. Nonostante il Pci abbia sempre mirato a mantenere buone relazioni con il Psi, questo partito inaugura una fase di polemiche e di scontri alla sua sinistra. Interessata a garantirsi la continuità della configurazione di potere acquisito, anzi a far diventare il proprio partito l’ago della bilancia del governo del Paese, la nuova segreteria di Craxi abbandona i valori tradizionali dell’autonomia socialista e dà avvio a un cambiamento di pelle che porta a una modifica del patrimonio genetico del partito stesso. Tutto questo è destinato a scuotere il Pci mettendo in mora il progetto di Berlinguer che, stante la situazione, si rivela un nuovo mito ideologico incapace di tradursi in una strategia concreta. Questo non impedisce al leader comunista di rilanciare, nel settembre dell’83, la sua proposta: “Abbiamo sostenuto e sosteniamo l’esigenza di un’alternativa democratica - che comporta anche, nelle attuali condizioni italiane, il mettere la Dc all’opposizione - in quanto questa è una necessità fattasi attuale e impellente di fronte alla degenerazione dei sistemi di governo”. Ma ormai le condizioni per realizzarla non esistono più. Nove mesi dopo, mentre tiene un comizio a Padova, viene stroncato da un ictus e nella tomba porta con sé tutti i suoi progetti. Di “terza via” se ne parlerà ancora durante la segreteria Natta, mentre l’ultima riflessione che il partito farà su di essa sarà in occasione del 18° congresso, quello che sancisce la morte del Pci e la nascita del Pds. Con la leadership di Occhetto, infatti, svanisce per sempre. Come emerge dai suoi scritti e dai suoi discorsi, la “terza via” vuole significare non tanto e non solo la necessità di una ricomposizione dello schieramento di sinistra e delle forze progressiste, ma soprattutto la realizzazione di un nuovo tipo di società. E che questo sia il suo intendimento è dimostrato da un’altra proposta che egli avanza verso la metà degli anni ’70, quella dell’”austerità”. Al 14° congresso del partito Berlinguer parla di “una nuova tappa dello sviluppo della democrazia che introduca nelle strutture della società... alcuni elementi propri del socialismo”, ovviamente un socialismo profondamente diverso da quello attuato in Urss e nei Paesi dell’Est. A un giornalista che gli chiede cosa significhi, in concreto, introdurre nella società italiana elementi di socialismo, egli risponde con ammirevole onestà, ma con sconcertante franchezza: “Non è facile rispondere. Questo problema richiede ancora approfondimenti, ricerche e precisazioni, e in questo senso noi sollecitiamo il contributo di militanti e studiosi comunisti e di altre formazioni della sinistra”. Difatti, nel programma elettorale del Pci per le elezioni del 20 giugno del ‘76, vengono ribadite le tradizionali indicazioni circa la necessità di una politica salariale a favore dei lavoratori e di una maggiore capacità competitiva dell’economia italiana per conseguire la quale devono essere assicurati adeguati investimenti sia nell’industria che nell’agricoltura. E questo dimostra che il partito non è ancora in grado di delineare e sperimentare un nuovo percorso politicoprogrammatico. E’ nell’autunno di quello stesso anno che il segretario del Pci incomincia a riempire di contenuti la sua proposta e lo fa sotto la pressione della crisi economica. La sostanza del suo disegno è sintetizzabile attraverso lo stralcio di alcuni suoi interventi. Anzitutto, egli propone di affrontare tre nodi epocali, e cioè: a) lo squilibrio Nord-Sud e la necessità di un governo mondiale; b) il conseguimento di uno sviluppo compatibile; c) un nuovo rapporto tra lavoro e occupazione. 314


“Per noi – sostiene – l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia... L’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale”. “Una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base... Una politica di austerità… deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova... L’Italia si trova oramai davanti a un dilemma drammatico: o ci si lascia vivere portati dal corso delle cose, così come stanno andando, ma in tal modo si scenderà di gradino in gradino la scala della decadenza, dell’imbarbarimento della vita e quindi anche, prima o poi, di una involuzione politica reazionaria; oppure si guarda in faccia la realtà (e la si guarda a tempo) per non rassegnarsi a essa, e si cerca di trasformare una traversia così densa di pericoli e di minacce in una occasione di cambiamento, in un’iniziativa che possa dar luogo anche a un balzo di civiltà... Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana... La politica di austerità... può recidere... quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato che è fonte di parassitismi e di privilegi... e può condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura”. “Proprio muovendo dalla condizione drammatica del Paese, che impone misure di austerità, non è più procrastinabile l’avvio di un cambiamento profondo... Al nostro concetto di programmazione democratica è estranea ogni forma di dirigismo tecnocratico e burocratico. Per noi mantengono uno spazio, un ruolo il mercato e le imprese. Ma non lo mantengono per concessione tattica agli ‘altri’, bensì per salvaguardare al massimo criteri di imprenditività e di economicità ... Noi non crediamo – e l’esperienza ce lo prova a usura – che il mercato e le imprese siano capaci di esprimere spontaneamente le scelte necessarie a fornire i punti di riferimento e ad organizzare gli sbocchi necessari per gli investimenti. Questo può venire solo dall’iniziativa di una volontà pubblica che si formi e si attui in modi democratici... L’esigenza è dunque quella di una programmazione dello sviluppo che definisca concretamente gli scopi e gli sbocchi delle fondamentali attività economiche... I ‘piani’ quinquennali dei governi di centro-sinistra... erano astratti, velleitari, arbitrari, privi di strumenti operativi, e mancavano soprattutto di un consenso e di un’effettiva partecipazione democratica sia degli enti locali e delle Regioni sia dei lavoratori e delle imprese... Un impegno in direzione dei trasporti collettivi, dell’istruzione e della scuola, della sanità, della casa e del territorio... sottolinea la necessità di collegare la lotta per una politica economica rigorosa alla trasformazione della società e alla sua ‘umanizzazione’... Il fine che può rendere questa austerità accettabile dalla maggioranza dei lavoratori, dalla grande maggioranza del popolo e del Paese, è di avviare misure trasformatrici delle strutture economiche e dell’assetto sociale”. “Si tratta di vedere se non possono essere ricercate soluzioni e strumenti nuovi, che consentano alla classe operaia di controllare in modo autonomo e diretto almeno una parte dell’impiego delle risorse... Il capitalismo per sua natura conosce solo compatibilità e rapporti quantitativi, tra indici astratti. Porre al suo interno un problema di valori, di finalità, di obiettivi dell’accumulazione, di un intervento innovatore nell’assetto proprietario tale da spingere materialisticamente la struttura economica verso tali obiettivi, e fare di ciò oggetto e scopo di un impegno diretto e inusitato della classe operaia, significa aprire contraddizioni aspre nel complessivo processo economico”.

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La sua proposta di “austerità” contiene anche il progetto di mobilitare tutte le energie intellettuali e inventive della scienza per realizzare l’obiettivo di una contemporanea ristrutturazione delle capacità produttive e sociali. Agli inizi del ‘77 annuncia: “Vogliamo arrivare a un progetto di trasformazione discusso fra la gente, con la gente. Poiché per trasformare la nostra società si tratta, come abbiamo detto più volte, non di applicare dottrine o schemi, non di copiare modelli altrui già esistenti, ma di percorrere vie non ancora esplorate, e cioè di inventare qualcosa di nuovo che stia, però, sotto la pelle della storia, che sia, cioè, maturo, necessario, e quindi possibile”. Un impegno questo di estrema importanza, poiché testimonia la volontà di far scaturire il cambiamento dal vivo del protagonismo sociale attraverso il ricorso e la mobilitazione del “sapere sociale” (del “general intellect”); un proposito che ahimé resta un pio desidero non trovando alcuna corrispondenza nell’agire quotidiano del partito. Due anni dopo convoca un gruppo di dirigenti, tra cui Lama, Trentin, Chiaromonte e Napolitano, ai quali annuncia l’intenzione di introdurre nel progetto di tesi del prossimo congresso il tema della democrazia economica proponendo l’istituzione di fondi di investimento alimentati anche dal prelievo dello 0,50% sul salario dei lavoratori. Ma la sua proposta incontra solo riserve e obiezioni al punto di essere lasciata cadere nel vuoto. Tre anni dopo, nell’82, di fronte a una platea di giovani che discute sul rapporto tra scienza, tecnologia e ambiente, dichiara: “L’uso irragionevole delle nuove tecniche e uno sviluppo quantitativo imponente, ma incontrollato ha già determinato non solo la possibilità, ma la minaccia concreta di rovine ecologiche gravissime e irreparabili... A questo proposito vorrei fare una proposta: organizzare come partito e come Fgci, un congresso di futurologia, che si svolga sulla base di relazioni e comunicazioni di scienziati e di esponenti delle più varie discipline (scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, militari, economiche e sociali, mediche, informatiche, ecc.), portare poi i risultati delle informazioni, valutazioni e proposte che saranno fatte in tale congresso alla conoscenza e alla discussione fra i giovani”. Sono i tempi in cui egli rilegge Marx e subisce il fascino dei suoi scritti giovanili, quelli che affrontano gli aspetti filosofico-esistenziali, e si dice convinto che “il capitalismo italiano non è più in grado di risolvere i problemi dell’umanità”. Qualche tempo prima, parlando a un’assemblea degli anziani aveva affrontato il problema delle finalità sociali del lavoro e sottolineato la necessità di una nuova etica. “C’è, e naturalmente deve rimanere – aveva sostenuto – il lavoro che serve per le cose, per produrre beni utili e necessari agli uomini, ma accanto a questo lavoro ce ne può essere e ce ne deve essere finalmente anche un altro che dovrebbe anzi prendere sempre più ampie proporzioni: un lavoro che serva in modo diretto all’uomo... Ecco perché occorre un ribaltamento profondo di quei valori, di quelle priorità, introducendo idee e affermando realizzazioni che mutino le regole finora operanti nelle relazioni sociali, nelle relazioni umane, nella scelta dei beni a cui aspirare e delle cose che invece sono superflue o nocive... A chi può spettare una simile opera di ribaltamento se non principalmente a noi comunisti? Essere una forza rivoluzionaria nell’Italia e nel mondo di oggi vuol dire lavorare concretamente per questi obiettivi, resistendo e combattendo sistematicamente la tendenza, che talvolta penetra anche nelle nostre file e nei nostri animi, ad accettare come fatali e immutabili le regole e i canoni che hanno governato finora la vita della nostra società, ma che oggi la stanno spingendo verso un imbarbarimento…l’etica dell’individualismo e dell’egoismo è propria della società capitalistica”. Alcuni mesi prima di morire riflette sulle prospettive dell’informatica applicata alla politica, cioè sulla “democrazia elettronica” e si interroga sul destino del voto per computer, sul ruolo dei sondaggi e su temi di questa natura, concludendo che comunque la partecipazione non può essere sostituta da queste pur interessanti nuove tecnologie. E’ da supporre che se fosse vissuto ancora questa sua elaborazione non solo avrebbe superato, in specifico nel caso dell’invocata riconversione produttiva, quel carattere prevalentemente metodologico che è stato un impedimento al suo tradursi in prassi politica, ma si sarebbe di certo 316


arricchita di proposizioni uscendo dal vago, ad esempio, a proposito dell’inserimento nel sistema di alcuni “elementi di socialismo”. A essere convinti della bontà delle sue tesi sull’austerità, com’è successo per altre sue proposte, sono in pochi e il suo stesso partito continua a muoversi secondo gli antichi orientamenti, nonostante che i limiti e le insufficienze del suo agire nella società siano evidenti a tutti. Così come il concetto di “compromesso storico”, dalla maggioranza dei militanti comunisti, viene interpretato come pratica dell’unità nazionale, quello dell’austerità diventa sinonimo di sacrifici. Nella mente del suo autore, la politica dell’austerità non presuppone semplicemente un governo alternativo dell’economia e della società, ma esige prima ancora una rifondazione intellettuale e morale. Un obiettivo questo che, seppure con un certo ritardo, nel dicembre dell’82, egli pone all’attenzione dell’opinione pubblica con un saggio in cui scrive: “Non va superata soltanto quella concezione restrittiva della politica per la quale questa viene ridotta ai rapporti, ai giochi, alle schermaglie fra i partiti, tra maggioranza e opposizione, e tutto finisce lì; ma va anche superata una concezione tradizionale della lotta sociale e della vita della società”. E insiste su un “rinnovamento della politica” sollecitando il protagonismo non solo dei partiti, ma della stessa società civile al fine di contrastare i fenomeni riemergenti di trasformismo, di conformismo politico e di consociativismo. Questo suo messaggio, che evoca la gramsciana riforma intellettuale e morale della società italiana, viene però snobbato e criticato da larga parte dello stesso Pci. La sua tensione ideale e morale e il suo modo di intendere la politica come servizio per il bene comune si scontrano con il processo di mutazione antropologica che ha investito il gruppo dirigente e il quadro intermedio del partito. E ciò avviene nonostante che Berlinguer sia il “capo” del Pci che vanta una concezione moderata sia della politica che del partito; nonostante egli sia colui che respinge l’idea gramsciana del partito come prefigurazione della nuova società considerandola totalizzante, che rifiuta la pretesa di creare “l’uomo nuovo”, che con Natta scomunica e radia il gruppo de “il manifesto”. Insomma, Berlinguer viene considerato anzitutto il segretario che, come Togliatti, vanta l’abilità del mediatore ed il garante dell’unità del partito. Quando si cimenta col “nuovo” e propone il cambiamento gode di scarso seguito. Una delle ragioni di questa sottostima come stratega è probabilmente da ricercarsi nel suo essere pudico e schivo e nel non avere dubbi sulla diversità del comunista a riguardo del suo modo d’essere. Un giorno ebbe a dire: “Se ci rinnovassimo nel senso apparente e fasullo suggerito e auspicato dai nostri sollecitatori, ossia se cambiassimo la nostra natura e divenissimo ‘uguali agli altri’, se abdicassimo alla nostra funzione trasformatrice, dirigente, nazionale, se decidessimo di ‘recidere le nostre radici pensando di fiorire meglio’, ciò sarebbe – come ha scritto di recente François Mitterrand – ‘il gesto suicida di un idiota’. Non ci può essere invettiva, fantasia, creazione del nuovo se si comincia dal seppellire se stessi, la propria storia e realtà”. Si tratta di una posizione che non solo non incontra l’apprezzamento di tutto il gruppo dirigente e dell’insieme dell’apparato funzionariale, ma che è destinata a suscitare perplessità e dissensi. E nemmeno la “nuova sinistra” sa cogliere lo spessore strategico di questa come di altre sue proposte. Un’altra ragione è forse da individuarsi nel carattere sperimentale del suo pensiero politico che talvolta lo induce a rapidi spostamenti e a scatti nella determinazione della linea e nella prassi stessa del partito; comportamento che ha determinato atteggiamenti contraddittori. Uno di questi l’ho vissuto sulla pelle io stesso. Mentre nel ’69-’70 egli ebbe a considerare rovinosa la presenza nel partito dei compagni del gruppo de “il manifesto” e, radiandoli, lì ha costretti ad andarsene, nell’83 si è prodigato per il loro reinserimento nell’organizzazione ritenendo utile e necessario il loro contributo nell’opera di rinnovamento del Pci che lui si era proposto di realizzare. Berlinguer è il dirigente comunista che nei primi anni ’80 avverte la drammatica alternativa che la sinistra ha davanti a sé: “Non si può più andare avanti così. O la prospettiva del socialismo o il degrado irreversibile della società” e percepisce che, a risultare determinanti, sono i problemi della trasformazione sociale nei punti alti dello sviluppo capitalistico. Ma è anche il dirigente che un decennio prima non ha saputo cogliere le novità che il superamento degli accordi di Bretton Woods introducevano nei rapporti internazionali, sia nell’economia che nella politica, e non si è accorto 317


appieno del grande mutamento che il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale avrebbe comportato. Egli è l’autore del coraggioso “strappo” con l’Urss, ma è anche l’eurocomunista incapace di rompere il fronte comune a livello internazionale entro il quale il Pci risulterà relegato sino alle fine dei suoi giorni. A compromettere i suoi propositi e disegni è comunque soprattutto la situazione oggettiva entro la quale è chiamato ad agire. A metà degli anni ’70, come ho già accennato, ha inizio quel processo di ristrutturazione del capitalismo che porta alla disgregazione della democrazia e, di conseguenza, la straordinaria spinta a sinistra della fine degli anni ’60 incomincia a esaurirsi gradualmente vanificando qualsiasi progetto di rinnovamento progressista, ideato peraltro con grande ritardo e non sempre con la dovuta lucidità. Berlinguer è in ogni modo stato l’ultimo dirigente comunista di rilievo dell’Occidente che ha avuto il coraggio di definirsi ancora rivoluzionario, e anche l’unico a porsi in termini davvero radicali il problema di una rivoluzione senza violenza. Pur nelle ambiguità, la sua riflessione ritorna utile ancora oggi. Le sue intuizioni e proposte del “compromesso storico”, dell’“eurocomunismo” e la sua riproposizione della “terza via”, se non hanno trovato applicazione nel nostro Paese, hanno sicuramente inciso nella crescita di propositi riformatori nei paesi del socialismo reale e nei movimenti progressisti dei paesi del terzo mondo. 9.8 – Il dissolvimento del vecchio sistema dei partiti Tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90 il mondo della politica italiana vive un vero e proprio sconvolgimento. Epicentro del terremoto che lo investe è il Nord del Paese, precisamente la Lombardia. Nella sua storia recente la regione principe dell’economia italiana ha rappresentato in più circostanze una sorta di laboratorio politico nel quale hanno trovato sperimentazione processi di cambiamento che poi hanno investito l’intero Paese o gran parte di esso. E’ il caso dell’avvento del centro-sinistra, poi della vicenda delle “giunte anomale” ai tempi della solidarietà nazionale, e più tardi dell’insorgenza del leghismo e del berlusconismo. Insomma, la più ricca regione del Paese è stata più volte luogo di sperimentazione di nuovi percorsi, oltre che di natura socio-economica, anche di carattere politico-istituzionale. E proprio per questo suo ruolo merita particolare attenzione. E’ da ricordare che nel breve corso di un settennio (1987-1994) in questa regione i consensi elettorali (elezioni politiche – Camera dei deputati) destinati ai partiti storici (quelli del cosiddetto arco costituzionale: Dc, Pci-Pds-Prc, Psi, Msi, Pri, Pli e Psdi) hanno registrato un calo dall’87,3% del totale dei voti validi, al 35,2%, mentre quelli attribuiti alle emergenti formazioni politiche sono cresciuti dal 12,7% dell’87 al 64,8% nel ’94. A livello nazionale la dinamica è stata meno accentuata, comunque significativa: i partiti storici sono passati dall’89,8% al 58,2%, mentre le nuove formazioni hanno fatto registrare un incremento dal 10,2% al 41,8%. Questo drastico mutamento del rapporto tra il “vecchio” e il “nuovo” costituisce la prova che l’orientamento politico dei lombardi (ma anche degli italiani) è in rapida evoluzione. A questo si aggiunge un altro dato sorprendente riguardante la militanza politica. Mentre nel 1991 gli iscritti ai partiti italiani risultano essere complessivamente 4.006.000, due anni dopo precipitano a 1.330.000 unità circa. A rinnegare la propria appartenenza politica sono due iscritti su tre. Si è cioè in presenza di una diaspora dalle dimensioni inedite e inquietanti. E come documenta un rapporto del Censis, la massiccia fuga dalle rispettive organizzazioni avviene paradossalmente nel medesimo tempo in cui nel Paese il desiderio dei cittadini di partecipare alla vita comunitaria, in specifico alla gestione della cosa pubblica, è in tendenza ascendente. Il grado di credibilità del vecchio sistema dei partiti è dunque in ribasso e a mantenere viva una qualche forma di militanza restano, da un lato, gli “affezionati” della politica, coloro cioè che sono moralmente legati a un impegno civile come scelta di vita, dall’altro, gli “emergenti”, più precisamente quelle persone che si sono date come obiettivo primario non una saggia gestione del 318


bene comune, ma la conquista di cariche e di responsabilità negli apparati di partito, qualunque essi fossero, e nelle istituzioni rappresentative con finalità di gratificazione e convenienza personale. Se un tale collasso di fiducia nelle istituzioni politiche tradizionali è per certi aspetti da considerarsi improvviso, la crisi che lo ha determinato è sicuramente il prodotto di processi che erano in atto ormai da anni. Qualcuno situa l’inizio del declino dei partiti tradizionali alla metà degli anni ’70, qualcun altro lo fa risalire alle prime esperienze del governo di centro-sinistra, cioè ai primi anni ’60, altri ancora lo collegano addirittura ai tempi della ricostruzione. “Dal 1950 a oggi – scrive, ad esempio, Aldo Zanardo nel ’96 – si è avuta una crisi profonda di alcune culture consolidate, soprattutto cristianesimo e socialismo, e degli ideali che esse includevano. La società è via via giunta a una esasperata strutturazione individualistica e separata. Nel contempo, dentro questa lunga crisi della cultura e della società, nuovi ideali sono affiorati e si sono imposti: una vita individuale fortemente libera, valorizzata in se stessa, autocentrata; la posizione autonoma e differente della donna; l’ecologia nei suoi diversi aspetti; l’ideale di amore che ispira il volontariato”. Certo è che questi segnali di crisi del sistema politico non vengono colti per tempo dalle dirigenze dei partiti e perciò non costituiscono oggetto né di adeguata indagine né tanto meno di riflessione. Non ci si preoccupa, infatti, di comprenderne le cause le quali sono tutt’altro che superficiali e trovano giustificazione nelle trasformazioni che hanno investito il tessuto economico e sociale condizionando pesantemente la cultura, gli orientamenti e il senso comune delle persone. Questo vuoto di analisi e questa incapacità di comprensione vengono compensati da un atteggiamento dilettantesco e autoassolutorio da parte delle dirigenze politiche, e le responsabilità dell’accaduto vengono attribuite, da un lato, all’operazione “mani pulite” condotta da una magistratura ritenuta da molti in conflitto con i partiti, dall’altro, all’offensiva delle leghe autonomiste che si stanno diffondendo nel centro-nord del Paese e che hanno giurato guerra alle rappresentanze tradizionali della politica. Un’interpretazione questa che risulta decisamente errata e che costituisce un atto di grave irresponsabilità, poiché esclude una qualsiasi forma di esame e di autocritica del proprio operato. In realtà, sia l’operazione “mani pulite” che l’affermazione delle leghe autonomiste e separatiste non sono gli agenti dei cambiamenti in atto, ma sono esattamente un loro prodotto. Non sono la loro causa, ma sono precisamente un loro effetto. “Tangentopoli” è un’ovvia testimonianza della natura perversa e turpe del sistema di potere, dell’intreccio organico tra politica e affari, tra i partiti e il gotha dell’economia e della finanza. E’ il segno della putrefazione del sistema politico, ma non solo di questo. La pratica della tangente ha riguardato l’intero sistema di potere investendo oltre i politici anche gli imprenditori e ha coinvolto anche chi ha il compito di formare l’opinione pubblica e produrre consenso e cultura. Essa ha irretito non solo i partiti di governo, ma anche le istituzioni antagoniste al regime di potere, cioè i partiti dell’opposizione, una parte degli stessi sindacati e finanche coloro che hanno il compito di combattere la corruzione e difendere l’integrità delle istituzioni. Nei primi anni ’90, ben 422 richieste di procedimento da parte della magistratura hanno riguardato un sesto dei 630 membri della Camera dei deputati e analoga situazione si è presentata per i senatori della Repubblica. Centinaia e centinaia sono stati gli amministratori locali, i membri delle istituzioni regionali, provinciali e comunali che sono stati inquisiti per casi di corruzione e di concussione. L’imprenditore ha dato la tangente al politico per avere in cambio il favore che gli ha consentito di fare più affari e quindi maggior profitto; il politico si è lasciato corrompere per ottenere i mezzi che gli hanno assicurato la conquista del consenso popolare e la continuità del potere. La corruttela si è rivelata come una piovra i cui tentacoli si sono infiltrati in ogni ambito della società. Un economista ha stimato l’ammontare del giro tangentizio in 15.000 miliardi di lire all’anno, una cifra sicuramente in difetto. I faccendieri e i corruttori sono insediati nei templi dell’imprenditoria, negli imperi degli Agnelli, dei De Benedetti, dei Ligresti, dei Berlusconi. E’ la marcescenza della civiltà del capitalismo.

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Ma è anche la dèbacle della sinistra che non ha avuto il coraggio di denunciare per tempo questo odioso sistema e rompere con esso, poiché anch’essa ci ha lasciato lo zampino compromettendo così la sua credibilità di soggetto integerrimo e garante dell’alternativa. Il sistema di corruzione ha di fatto raggiunto un livello tale da rendere impossibile la sua stessa continuità e la sua implosione ha rappresentato un suo naturale sviluppo. L’operazione “mani pulite” non è stata altro che la manifestazione dell’ingestibilità di una contraddizione destinata ad esplodere, tanto è vero che esaurita l’azione di pulizia, il potere giudiziario ha riconsegnato il destino del Paese nelle mani della politica senza tanti clamori e senza chiedere contropartite. E a dispetto di quella stagione purificatrice, il processo di corrompimento e di corruttela è continuato fino a riproporsi in forme ancor più intricate e inquietanti ai giorni nostri. Anche il leghismo non può e non deve essere considerato l’artefice della fine del vecchio sistema politico, bensì un suo prodotto. Le fortune della Lega di Bossi non consistono nell’aver smascherato il sistema di corruzione e i tangentisti, tanto è che lo stesso leader “lumbard” e gli appartenenti alla suo “cerchio magico”, hanno dimostrato di non essere da meno è sono stati costretti a sedere sullo stesso banco degli imputati. Bensì nell’aver gradatamente occupato quegli spazi che i partiti tradizionali hanno lasciato liberi, cioè nell’aver intercettato e organizzato il diffuso malcontento e la sfiducia dei ceti medi e popolari nei confronti del vecchio sistema ormai prossimo alla fine. E lo ha fatto nobilitando i pregiudizi verso la sfera del “pubblico”, agitandosi cioè contro lo “Stato vessatore”, e proclamando la guerra ai “diversi”, dai meridionali agli immigrati extracomunitari: risentimenti che erano già da tempo sottopelle di larga parte delle popolazioni settentrionali. Un errore della sinistra è stato proprio quello di attribuire all’eversione leghista una qualche comprensione e giustificazione, di considerare la Lega Lombarda-Lega Nord un fenomeno transitorio, una “meteora politica” che si sarebbe presto eclissata e il cui consenso popolare sarebbe stato facilmente recuperato dalla sinistra. Non ci si è preoccupati per tempo del fatto che questi movimenti, tra l’altro portatori di ideologie oscurantiste, raccoglievano il consenso non solo del ceto medio arrabbiato, dei bottegai in rivolta contro il fisco, ma anche di fasce popolari tradizionalmente orientate a sinistra, nelle stesse roccaforti del movimento operaio, al punto di attirare nella loro orbita anche quadri sindacali ed ex militanti “rivoluzionari”. Si è poi dato scarsa importanza al fatto che la presenza delle leghe autonomiste e separatiste contribuiva in maniera considerevole al disfacimento del vecchio senso comune e al suo rimpiazzo con una folle esaltazione dell’egoismo sociale (si ricordino le sortite del cattolicissimo professor Gianfranco Miglio, “teologo” del leghismo) e con atteggiamenti lesivi dei diritti individuali e della pratica democratica. La sinistra, in sostanza, non si è resa conto, o non ha deliberatamente voluto rendersi conto, che il movimento di Bossi era e resterà un soggetto della nuova destra (e il suo connubio con Forza Italia e i neofascisti lo conferma) e che con esso non sarà mai possibile stabilire un compromesso che garantisca una gestione della società nel segno del progresso e della giustizia sociale. E non ha pure avvertito che la sua stessa apparizione apriva oggettivamente le porte a un’altra formazione politica, meno rozza, più moderata e suadente, perché si presentava all’opinione pubblica in “doppio petto” e come forza modernizzante, quale è il berlusconismo. Se il leghismo fosse stato per davvero l’artefice della demolizione del vecchio sistema dei partiti, come in molti hanno creduto, non si capirebbe perché mai, occupata la “sala dei bottoni”, i “lumbard” (e con essi i crociati del liberismo berlusconiano) sono alla fine risultati tanto inetti e arroganti da far rimpiangere a molti la partitocrazia della “prima Repubblica”. Grave errore, dunque, è stato quello di scambiare gli effetti con le cause di quel sovvertimento politico e di non aver compreso che il rimedio alla crisi del vecchio sistema dei partiti andava ricercato non in operazioni di maquillage e di trasformismo, ma in una seria e approfondita analisi dei processi in atto e nell’aggiustamento di strategie politiche. Le cause vere del collasso dei partiti tradizionali è da ricercarsi, infatti, in quelle trasformazioni di carattere epocale che il capitalismo ha determinato nell’economia e nella società e che le forze di sinistra sono state incapaci di leggere e interpretare. 320


Sui processi di cambiamento strutturale avvenuti negli anni ottanta e novanta, mi soffermerò in un capitolo della terza parte di questo scritto, per ora mi basta fare cenno alle ricadute che essi hanno avuto sulla vita collettiva e sulla sfera della politica. Con l’esaurimento del fordismo e l’avvento del cosiddetto “postfordismo”, l’economia ha subito una profonda trasformazione e sulle attività produttive è prevalsa la speculazione finanziaria. L’economia di carta ha dato scacco matto all’economia reale e la distribuzione del reddito e della ricchezza ha favorito gli strati sociali più ricchi, mentre ha penalizzato quelli più poveri. Il mutamento sociale è stato determinato direttamente dallo sviluppo della scienza e della tecnologia incorporate nei processi produttivi e il sistema politico ne è risultato pesantemente condizionato nella sua azione. I partiti sono stati spiazzati da una produzione di massa del consenso che è divenuta merce tra le merci e ha messo in crisi il sistema democratico. Le moderne metodiche di informazione e formazione hanno avuto la capacità di plasmare la coscienza collettiva. Chiunque nella società del capitale si muova al di fuori delle logiche di centralizzazione e di iperregolazione da esso imposte, finisce per smarrirsi e trovarsi escluso dai benefici del sistema. Mentre la politica produce l’illusione ottica che società e realtà trovano rappresentazione e risoluzione in essa, nel tessuto sociale avvengono rapide e subcutanee mutazioni che il sistema dei partiti non è in grado di percepire. La ragione di questo non è dovuta a una carenza di strumenti, ma al modo stesso con cui i partiti si atteggiano alla società. In discussione non è la loro attrezzatura tecnico-operativa, ma la forma stessa del sistema politico e della sua scarsa capacità di presa sulle trasformazioni. La conquista del consenso viene manipolata e mercificata e come elemento connettivo della società subentra un nuovo senso comune che mortifica la partecipazione attiva e cosciente degli individui alla vita collettiva. La concentrazione dei poteri mette in crisi molte garanzie sociali e favorisce la supremazia della cultura della competizione soppiantando quella della coalizione e della solidarietà. Sono questi processi che stanno alla base della crisi del sistema dei partiti. A peggiorare le cose, in Italia, ha contribuito la presenza di un sistema politico che è pervasivo e onnivoro, al punto di rendersi padrone esclusivo dello Stato e di ogni istituzione rappresentativa. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, i partiti sono diventati sempre più simili tra loro attenuando la polarità tra destra e sinistra ed esercitando il potere attraverso il ricorso alla corruzione politica, al voto di scambio, alle pratiche trasformistiche e al metodo della cooptazione nella gestione della vita interna. La Dc, che prima è stata il partito della Chiesa e degli americani, e poi il partito delle clientele e del malgoverno, si è rivelata il partito della corruzione per eccellenza. Sua caratteristica è stata la mediazione politica intrecciata alla distribuzione di porzioni di potere per accontentare tutti: ministeri, sottosegretariati, banche, consigli d’amministrazione di enti pubblici, direzioni generali. Le cariche politiche e burocratiche hanno rappresentato per questo partito una torta immensa da dividere col bilancino (si ricordi il famoso “manuale Cencelli”), prima all’interno del partito e poi d’accordo e a pro anche degli alleati. Quando Bettino Craxi è diventato presidente del Consiglio ha dato corpo a un centro di potere autocratico, ha liberato il governo dai controlli del Parlamento, ha trasferito più potere agli esecutivi dei partiti limitando l’esercizio delle opposizioni ed è ricorso all’uso dei mezzi finanziari per consolidare il suo dominio. L’osmosi con lo strapotere Dc è stata completa; si è costituito il CAF (moderno triunvirato composto da Craxi, Andreotti, Forlani), e l’anticomunismo più esasperato è diventato regola di governo. Il mondo della politica, affaccendato nella gestione della cosa pubblica a vantaggio degli interessi di parte e anche privati, ha cessato di coltivare le “grandi idee”. Le dirigenze dei partiti non hanno avvertito più il bisogno della riflessione e si sono dimostrate incapaci e non interessate a elaborare strategie di sviluppo, di compiere analisi e fare ricerca su una realtà economica e sociale che era in profonda trasformazione, e si sono affidate invece alle dinamiche di mercato. Anziché dare priorità alla comprensione dei processi in atto, al fine di affrontare le sfide dei tempi e preoccuparsi del proprio destino e di quello delle future generazioni, i politici hanno affidato le loro fortune ai 321


sondaggi di opinione con l’unico scopo di essere vincenti nelle competizioni elettorali. Negli ambienti di partito e anche nelle istituzioni rappresentative, si è diffuso un anti-intellettualismo che ha provocato una preoccupante ondata di semplicismo nei metodi di governo. La ragione e l’interesse collettivo hanno incominciato a essere condizionati e rimpiazzati dal pregiudizio. Il meccanismo della rappresentanza e della delega si è inceppato e il rapporto tra governanti e governati è stato così dominato dalla sfiducia. La politica è entrata in una zona d’ombra. E’ stata la fine delle vecchie ideologie e gran parte degli “ismi” e delle fedi tradizionali sono crollati. A seguito delle trasformazioni che hanno investito la struttura produttiva, la figura dell’“operaio massa” è risultata superata e con essa è tramontato anche il partito di massa tanto caro alla sinistra. Il movimento operaio ha perso la sua autonomia e ha subito il fascino degli splendori dell’economia di mercato. A dominare a livello sociale è stata una middle class che ha difeso con i denti i propri privilegi e la cui egemonia culturale è penetrata ovunque. Questo nuovo ceto medio si è rivelato iperindividualista e americanizzante, autonomo e flessibile. Sono apparsi gli yuppies e il consumismo ha conosciuto il massimo splendore. L’impegno politico in senso tradizionale è entrato in fase di esaurimento e l’aderire a un partito, a uno schieramento politico, e il mettersi al suo servizio, è diventato un esercizio disdicevole, salvo che per chi nutriva ambizioni personali. A fronte di tali mutamenti sociali e umori collettivi, ha avuto inizio la corsa di tutti i partiti verso il “centro”, loro tendenza comune è stata la pratica della moderazione quale condizione per la loro tenuta elettorale. La sinistra, ormai in uno stato di smarrimento, non ha fatto eccezione a questa logica. Poiché, però, per sua natura, senza grandi idee essa non è in condizioni di fare buona politica e risultare credibile al suo tradizionale elettorato, essa è precipitata in una crisi profonda. Così come la crisi del keynesismo ha significato l’inizio del decadimento della socialdemocrazia, la crisi del fordismo e l’avvento del postfordismo hanno originato la débacle della sinistra. Tutto questo è potuto accadere, lo ripeto, perché essa non ha colto le novità della situazione, non ha compreso per tempo che le vecchie forme della politica stavano esplodendo, e quando se n’è accorta, si è illusa di poter reggere ricorrendo alla tattica dell’adattamento. Avendo ripudiato il proprio passato, non era più nelle condizioni di ricordare che, già più di un secolo fa, Marx aveva sostenuto che con il cambiamento della base economica la sessa sovrastruttura sarebbe stata inevitabilmente sconvolta. Ed è così accaduto che con l’implosione del vecchio sistema politico, anziché prendere corpo quella alternativa per la quale si è battuta per decenni, la sinistra ha dovuto riconoscere la sua inadeguatezza di soggetto della trasformazione e ritagliarsi uno spazio di sopravvivenza attraverso una mortificante operazione di riconversione ideologica e politica al ribasso. In Italia, il Pci è stato il primo partito a dichiarare l’autoscioglimento. Lo hanno seguito a ruota il gruppo di Democrazia proletaria e il Partito radicale (trasformatosi in “Lista Pannella). Due anni dopo, nel ’93, sotto l’incalzare di “mani pulite”, si sono sciolti la Democrazia cristiana e il Partito socialista. Poco dopo si è dissolto il Partito liberale, poi si sono avviati a un lento declino il Partito socialdemocratico e il Partito repubblicano. Ultimo a morire, nel ’95, è stato il Movimento sociale. A sopravvivere è rimasto solo il movimento dei “Verdi” il quale, però, pochi anni dopo è stato anch’esso costretto a ricorrere ad aggiustamenti di linea e di immagine. Con la fine della cosiddetta “prima Repubblica” si sono così aperte le porte a un nuovo capitolo della storia italiana, quello in cui a vincere sarà l’ebetismo collettivo. 9.9 – L’autoscioglimento del Pci Un dato certo è che il Partito comunista italiano ha avuto una vita per niente affatto facile. Nel corso della sua esistenza, durata sette decenni, ha dovuto far fronte assai spesso a situazioni di estrema difficoltà, mentre i periodi di serenità sono stati rari e di breve durata. Subito dopo la nascita ha dovuto affrontare la brutale repressione fascista e lottare per la sopravvivenza, poi è stato costretto alla lotta di resistenza: due momenti questi che per i suoi militanti hanno significato clandestinità, 322


esilio, carcere e morte. Basti ricordare che alla fine degli anni ’20 la sua forza organizzativa era ridotta a neanche 2.000 iscritti presenti sul territorio nazionale. Durante l’ultima fase della lotta al nazifascismo e all’indomani della Liberazione, è stato per tre anni al governo del Paese con le altre forze democratiche, ma poi, per volontà della Dc e per imposizione del governo degli Stati Uniti, è stato cacciato all’opposizione. Per un altro ventennio ha così subito la pregiudiziale “conventio ad escludendum” ed è stato oggetto di una feroce campagna denigratoria condotta dalla Chiesa, dalle forze politiche del centrodestra e dal mondo imprenditoriale. Allorquando questo clima discriminatorio ha avuto fine, ha dovuto fare i conti con l’atteggiamento antiunitario e conflittuale della leadership socialista di Craxi, la quale ha significato l’impossibilità di costruire un’alternativa progressista di governo alla Democrazia cristiana. Solo negli ultimi tre lustri (dalla metà degli anni ’70 ai primi anni ’90) ha goduto di una fase di relativa bonaccia, ma a quel punto, sia a causa di fattori esterni sia per il venire a maturazione delle sue stesse contraddizioni, ha incominciato a essere investito da quella crisi d’identità che lo ha portato al declino. Ha scritto su “Rinascita”, a metà degli anni ’80, Aldo Schiavone: “La crisi (del Pci) esplode quando, nella seconda metà degli anni settanta, il rapporto privilegiato fra teoria e politica nel partito viene progressivamente ma irresistibilmente a logorarsi, e le scelte e le dichiarazioni di principio del partito si lasciano sempre meno collocare con tranquillità dentro gli schemi, per quanto flessibili, della tradizione di pensiero fino ad allora privilegiata. Nel fuoco degli anni settanta la ‘modernizzazione’ del Pci (uso questa parola per intenderci, e con qualche perplessità) avviene non contro il marxismo, ma certamente al di fuori di esso – molto spesso semplicemente ignorandolo”. Passando in rassegna la storia del Partito comunista italiano nel periodo del secondo dopoguerra, si constata come esso si trasformi gradualmente in un grande collettore di tutte le varie e talvolta divergenti spinte e correnti che caratterizzano la società italiana. Questo suo rispecchiare la complessità sociale costituisce la sua grande forza ma al tempo stesso la sua debolezza, in quanto lo pone continuamente di fronte al dilemma se tener fede alla propria antica vocazione rivoluzionaria e proletaria oppure se trasformarsi in un partito di opposizione dentro il sistema. Questa riserva si scioglie con l’avvento della nuova fase di modernizzazione capitalistica e da quel momento ha inizio la sua metamorfosi. Come già ho ricordato, la sua conversione al laburismo non solo sopisce la sua carica rivoluzionaria, ma lo rende incapace di interpretare le novità del tempo e le evoluzioni del sistema. Esso si dimostra non in grado (forse, però, non era nemmeno interessato a farlo) di interpretare il movimento del ’68-’69, non sa o non intende offrirgli uno sbocco politico e si limita invece ad assorbirlo nel vecchio modo di fare politica. A metà degli anni ’70, Cesare Leporini, uno dei filosofi del partito, avverte questa diminuzione d’interesse da parte della dirigenza comunista per la comprensione della realtà sociale e per l’elaborazione strategica, e sulla stampa di partito svolge le seguenti considerazioni. “Credo ci sia una insufficiente analisi di quella che è la formazione sociale italiana oggi… Oserei dire che c’è un eccesso di politicizzazione… Sono d’accordo su ‘la politica al posto di comando’, sul primato della politica, purché abbia le radici in questa analisi permanente, delle strutture e poi dei processi… Il marxismo italiano – proprio in senso concreto, come capacità di analisi della società – ebbe grandi limiti… Mentre noi riaprivamo con respiro larghissimo tutta la problematica della democrazia, del nesso democrazia-socialismo, della via italiana al socialismo, c’era al contempo una nostra incapacità a porre pienamente il problema dello Stato e della sua trasformazione. E c’è stato anche un limite di analisi delle modificazioni strutturali, della struttura economica, dei processi produttivi… Non credo che abbiamo visto bene tutto il potenziale di sviluppo che c’era nei processi in atto… Abbiamo fatto poco sul terreno dell’analisi economica e sociale… nell’elaborazione teorica, il marxismo in Italia è rimasto in mano quasi completamente ai filosofi… La maggior debolezza del marxismo italiano, che ha avuto armi per combattere sul terreno ideologico altre ideologie, (consiste nel non essere) riuscito a stabilire un terreno unitario su cui affrontare i temi del processo sociale generale… (C’è stata) scarsa attenzione alle strutture sia economiche, sia 323


politiche, sia istituzionali… (eppure) la nozione di transizione è legata essenzialmente a tutto questo… Il rischio più grosso che abbiamo davanti è la sfasatura che si è prodotta, tra le due realtà rappresentate nelle categorie gramsciane di società politica e società civile. Parlo di sfasatura, per il movimento; il rischio appunto è che si arrivi a una separazione… Quando dico società politica vorrei che fosse chiaro che uso l’espressione nel senso in cui la usava Gramsci: non semplicemente ‘lo Stato’, ma le forze politiche organizzate con le loro tradizioni, con i problemi immediati che hanno davanti, le ideologie, i gruppi dirigenti, ecc… Bisogna impedire che si alimentino ulteriormente certi processi di disaggregazione della soggettività, per cui la problematica dell’individuo diventa quasi esclusivamente la problematica dell’immediato, dei bisogni immediati, dell’esistenziale, per poi assumere un atteggiamento più o meno esplicitamente antipolitico… perché è venuta meno la fiducia nella sua capacità (della politica) di porgere orecchio, di essere sensibile a questa problematica dell’uomo individuale”. E’ il tempo in cui anche negli apparati dei partiti della sinistra prevale la tendenza a trasformarsi in ceto burocratico, in macchine elettorali, premiando così l’autonomia del politico rispetto al radicamento sociale. Ma oltre a questo c’è un vuoto di elaborazione sul fronte dell’economia. Infatti, quando il partito si accinge alla stesura di un programma economico non va oltre le bozze o i documenti preliminari, perché nel suo gruppo dirigente si manifestano posizioni che risultano tra di loro inconciliabili. Ha certamente ragione Paolo Spriano quando sostiene che “in una società che è rimasta una società capitalistica, con tutte le sue ingiustizie e con i suoi squilibri clamorosi, il movimento operaio non si deve vergognare di avere ottenuto una diversa, migliore ripartizione dei redditi, di essere riuscito, nonostante la crisi, a garantire un progresso nelle retribuzioni reali del lavoro salariato... una quota crescente di reddito distribuita al lavoro dipendente. La democrazia politica – conclude – si difende anche così”. A me, però, un simile atteggiamento consolatorio appare non sufficiente a giustificare le manchevolezze che il partito fa registrare. Suo compito è quello di trasformare la società e non solo di migliorare le condizioni dei lavoratori. E se dice bene Rossana Rossanda, quando sottolinea che è pressoché “impossibile sottovalutare l’ampiezza del problema cui si sono trovati di fronte i partiti della sinistra alla fine del decennio: e cioè che cosa – quale modo di produrre e quale contrasto sociale – comportasse una rivoluzione in Occidente, una trasformazione del meccanismo capitalistico là dove aveva costruito una civiltà così imbricata e complessa, e per di più nel corso della crisi degli anni ‘70”, è anche il caso di considerare che questo mancato appuntamento con l’alternativa al sistema è la conseguenza di imperdonabili vuoti di analisi e di elaborazione accumulati nel tempo, e pure di errate strategie politiche mai verificate criticamente. E’ del resto lo stesso Luciano Barca ad ammettere, venti anni dopo, che “tutte le profonde trasformazioni degli anni ’80 sfuggono ad un’analisi attenta e collettiva del Pci”. E ciò spiega l’incertezza del suo agire politico e l’oscillazione continua della linea. Anche Alfredo Reichlin, alla fine degli anni ’70, denuncia le insufficienze di analisi e di elaborazione del partito e confessa pubblicamente il timore che a prevalere possa essere un riformismo senza popolo. In realtà, il Pci si dimostra indisponibile a fare i conti con i problemi della crisi del marxismo, nega l’esistenza stessa di tale crisi, e fa suo il principio di continuità con quella cultura togliattiana delle riforme di struttura che, non essendosi mai realizzate, si rivela nei fatti un fallimento. E’ proprio in forza di una tale scelta che sia il partito sia il sindacato della Cgil, in cambio di una legittimazione istituzionale, vengono a ritrovarsi alla fine nella veste di garanti dell’ordine costituito. Morto Berlinguer, la sua politica e la sua sofferta ricerca di nuove strade da battere vengono prontamente abbandonate e nel partito si moltiplicano gli orientamenti e le divisioni. Alla vecchia “battaglia delle idee” di togliattiana memoria si sostituisce l’interesse per i rapporti di potere, mentre all’affacciarsi di ogni minaccia di recessione fa sue le istanze dell’impresa capitalistica. L’attitudine a giocare con le parole per cercare di nascondere gli imbarazzi e il vuoto di concetti e proposizioni, diventa a quel punto prassi comune.

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Scrive l’intellettuale Giacomo Marramao verso la fine degli anni ’80: “Il partito ha abbracciato la politica del senso comune. Il linguaggio della politica è cambiato, non c’è più bisogno di una legittimità intellettuale al discorso politico. La nostra funzione si è esaurita una volta per tutte”. In effetti, con la segreteria Occhetto vengono accentuandosi sia il politicismo, che comporta la subalternità al decisionismo dilagante, sia l’assuefazione al neoliberismo, e ciò determina un annebbiamento di quegli elementi di novità che nella sua tormentata riflessione Berlinguer aveva posto sul tappeto. Vengono aperte le porte alla nuova cultura di destra e, in nome della conquista dei ceti medi e del “centro”, prende avvio il dibattito sulla morte delle ideologie, sul superamento del concetto di lotta di classe e delle vecchie categorie di “destra” e di “sinistra”. Si procede poi alla revisione critica della Resistenza e dei capisaldi del togliattismo. Nel marzo dell’88, Giorgio Napolitano scrive su “l’Unità”: “Siamo usciti dai confini della tradizione comunista”, mentre Igino Ariemma, nel suo libro “La casa brucia” insinua che la sinistra “ha probabilmente perso sia il passato che il futuro”. In un tale clima di cedimento della tradizionale cultura, si registra il restringimento dello stesso obiettivo berlingueriano del “rinnovamento della politica” ai soli aspetti istituzionali ed elettorali e si fa avanti l’idea che il decisionismo possa sconfiggere la corruzione, la spartizione, il malgoverno. In sostanza, il Pci si omogeneizza agli altri partiti. Questa sua crisi di prospettiva dipende ovviamente da molteplici fattori, alcuni di carattere esterno altri determinati dal suo stesso modo di essere. Anche il Partito comunista, così come succede per la generalità delle formazioni politiche, subisce gli effetti dei cambiamenti strutturali e culturali della fase postfordista. Data la dimensione delle trasformazioni, la crisi della sinistra non può che avere dimensioni internazionali tanto è che prima ancora del Pci, essa mette in discussione i movimenti socialdemocratici e socialisti del mondo occidentale. Agli inizi degli anni ’80, sono infatti il laburismo inglese e la socialdemocrazia tedesca a subire la sconfitta. Fatta salva la temporanea ascesa dei socialismi del sud Europa, in particolare di quelli francese e spagnolo, la sinistra del vecchio continente assiste nel suo complesso all’esaurimento delle potenzialità del suo modello la cui debolezza consiste nella mancanza di una risposta teorica e pratica alle mutevoli forme del capitale, soprattutto per quanto riguarda il sistema dei rapporti di produzione e della comunicazione. Essa si dimostra incapace di prospettare relazioni produttive che garantiscano un maggior equilibrio fra equità ed efficienza e che risultino alternative a quelle del capitale. Identico discorso vale per i rapporti istituzionali, giacché viene in evidenza l’assenza di una visione e di una teoria autonoma e rivoluzionaria dello Stato. Un segnale di questa crisi di egemonia della sinistra è dimostrato dal fatto che tutte le nuove aggregazioni di natura progressista che nascono nel tessuto sociale, si producono su basi che non sono più di classe. I “verdi”, i “gay”, il femminismo, le minoranze etniche (quelle non oscurantiste e separatiste), i gruppi dei cosiddetti “emarginati” o ritenuti tali, si presentano sulla scena politica con una forte vocazione autonomista. Le vecchie grandi organizzazioni di rappresentanza non riescono più a tenere sotto controllo i movimenti emergenti i quali, producendo frammentazione e corporativizzazione sociale, mettono in crisi il sistema politico vigente. Un altro fattore di destabilizzazione è rappresentato dalla mutazione antropologica dello stesso Pci. Già a partire dagli anni ’60, le leve del potere interno al partito incominciano a essere affidate a quel ceto di burocrati quarantenni che sono cresciuti con la vocazione alla servitù e che manifestano una forte dose di cinismo intellettuale. Vent’anni dopo questo ceto domina il partito. I tempi della selezione dei quadri in base alla fedeltà alla linea e al rigore morale sono lontani. Più dell’indottrinamento ideologico contano la spregiudicatezza nei rapporti sociali e la vocazione al carrierismo. Si calcoli che alla metà degli anni ’80 il settimanale di cultura e di teoria politica “Rinascita” passa rapidamente dalle 100 mila copie a poco più di 30 mila, e ciò è indice di un consistente abbassamento dell’interesse verso la teoria e l’elaborazione politica da parte di chi ha il compito quotidiano di dirigere e orientare la base del partito. Ad accorgersi di questo scadimento è Norberto Bobbio che, da attento osservatore esterno, sostiene la tesi secondo cui la prassi del Pci

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non ha più nulla a che fare con il pensiero di Gramsci essendo il partito diventato riformista, gradualista e democratico. Ma sono i suoi stessi chierici emergenti come Salvatore Veca a dichiarare compiuta già da tempo la rottura con il passato. “Nessuno di noi – afferma il filosofo ai primi dell’87 – era realmente comunista, si può dire piuttosto che potevamo andare d’accordo con loro, ci si poteva intendere”. A rendere chiaro a tutti la portata dei cambiamenti che il partito di Gramsci e di Togliatti subisce nel corso degli ultimi decenni della sua esistenza, in particolare durante gli anni ’80, è la caduta del “muro” di Berlino e il conseguente crollo del socialismo reale. Liberato finalmente in via definitiva dal rapporto di dipendenza teorico-politica dall’esperimento compiuto in Urss, essendo privo di una propria strategia per la transizione dal capitalismo al socialismo, il gruppo dirigente del Pci – come del resto accade per gli altri partiti comunisti dell’Occidente – non sa individuare altra scelta che quella dell’eutanasia. E nel farlo il partito si divide irrimediabilmente in tre frazioni rompendo così una tradizione che lo voleva unito a tutti i costi. L’infelice proposta di cambiare nome e simbolo, altro non è che l’ennesima spia della perdita da parte delle dirigenze del loro prestigio storico. Ha ragione ancora una volta Rossana Rossanda, quando sostiene che “il Pci di acciaio si scioglie non per l’avventuroso e lodevole azzardo di Occhetto, ma per i troppi silenzi, le troppe ipocrisie, che lo incrostano, trascinandolo a fondo in quella Storia che ipnotizza i suoi dirigenti”. Nel compiere l’operazione di ricambio dell’immagine, infatti, la nuova leadership del partito è soprattutto interessata a legittimarsi come forza di governo e recuperare in questo modo gli spazi per continuare ad avere un sostegno elettorale dalla società. Dovrebbe essere suo dovere spiegare al popolo della sinistra che la soppressione del termine “comunista” vuol significare, nella sostanza, il ripudio di tutto quanto si è creduto fosse giusto fino a quel momento, ma prevalendo la pusillanimità e l’opportunismo, nessuno ha il coraggio di dire le cose come effettivamente stanno. Un quindicennio prima, a Willy Brandt che gli aveva posto la questione del nome del partito, Enrico Berlinguer aveva risposto sorridendo che non si poteva capovolgere o camuffare una storia tanto nobile quale quella del Partito comunista italiano. Evidentemente, Occhetto attribuisce scarso peso alla storia del Pci e nel togliere di mezzo quel patrimonio non si cura del danno che provoca non solo a milioni di persone, ma alla causa stessa del movimento operaio. E c’è da dubitare che non si renda conto di questo nemmeno dopo, visto che nel ’94, nel suo saggio “Il sentimento e la ragione” ha l’impudenza di scrivere che “il giorno di presentazione della Dichiarazione di intenti e del simbolo… tutti i semplici, in Italia, erano felici… capirono la forza di quel messaggio, capirono che tutti potevano cominciare a cambiare qualcosa”. Stando a questo suo giudizio, a soffrire sarebbero stati solo pochi ostinati irriducibili. Alberto Asor Rosa ne “Il grande silenzio” scrive che Occhetto condusse la svolta come un “bambino viziato” che “scassò tutto”, che scelse di “smontare radicalmente il suo partito”. In realtà, a forzare perché si compisse quel passo sono in molti. Tra i più insistenti all’interno del partito, vi sono Michele Salvati e Salvatore Veca, mentre all’esterno a sollecitarlo e appoggiarlo sono intellettuali di grosso calibro quali Norberto Bobbio, Massimo Salvatori, Giuliano Amato, Gian Enrico Rusconi, Salvatore Sechi e molti altri ancora di area socialista. E c’è pure Eugenio Scalfari con il suo staff de “La Repubblica”. A reclamare una Bad Godesberg italiana, al fine di rendere possibile la formazione anche da noi di un grande partito socialdemocratico, è dunque un vasto coro di voci. Del resto, i fatti accaduti nell’89 rendono assai difficile la sopravvivenza di qualsiasi formazione che si richiami al comunismo. Il problema semmai non è quello di assicurare la continuità di un passato improponibile, bensì di gestire la transizione riducendo al minimo la perdita di militanti e delineando una nuova strategia al socialismo che sia praticabile in una società complessa quale quella del capitalismo globalizzato. Non basta dunque porsi, come fa Occhetto, il pur ambizioso obiettivo di una democratizzazione quale orizzonte del comunismo entro la fine del millennio, ma occorrerebbe rendere chiaro nei dettagli quel percorso che lui stesso preconizza nella sua carta d’intenti e che riguarda la transizione da una società imperniata sul valore di scambio a una società fondata sul valore d’uso. Ma tale esigenza non sfiora nemmeno da lontano la mente dei liquidatori 326


del partito, viene evocata a esclusivi fini propagandistici. Quando, nel ’47, De Gasperi escluse i comunisti, unitamente ai socialisti, dal governo, Togliatti ebbe a pronunciare a Montecitorio il famoso concetto “veniamo da lontano e andremo lontano”. Il vecchio leader non avrebbe mai immaginato che il lungo percorso da lui tracciato sarebbe stato interrotto per lucida deliberazione di un suo successore alla guida del partito. Dopo che il Pci ha cessato di vivere e Occhetto ha dato alla luce il Partito democratico di sinistra, Gaetano Arfè scrive sulle colonne de “l’Unità”: “L’ambizioso disegno ideato da Gramsci, calato nella realtà da Togliatti, perseguito ancora con vigorosa passione da Amendola, di fare del Partito comunista la guida di una classe operaia la cui causa coincideva con quella rigenerazione nazionale è fallito. Il Partito socialista celebra il suo centenario, il Partito comunista è scomparso”. E’ questo un necrologio che la maggioranza del popolo comunista non avrebbe mai voluto sentire. Che l’autoscioglimento del Pci e la sua conversione nel Pds abbia rappresentato la trasformazione in retorica e in politica d’immagine ciò che di meglio vi era nella sinistra italiana è un dato di fatto, confermato dagli stessi avvenimenti che sono succeduti a quella decisione. Qualcuno ha sostenuto che il Pci si è suicidato nel volersi fare Stato, in realtà la storia ha dimostrato come nei proponimenti degli autori della sua dissoluzione ci fossero solo velleità, poco substrato e tanta irresponsabilità. Molti militanti comunisti si sono rifugiati con disperazione nel privato abbandonando qualsiasi forma di impegno politico; coloro che si sono dimostrati irriducibili proponendosi la rifondazione del comunismo non hanno saputo fare di meglio che farsi estromettere da qualsiasi istituzione rappresentativa, al punto che nelle sedi parlamentari nazionali ed europee è sparito qualsiasi simbolo del vecchio movimento; chi ha seguito Occhetto e amici ha finito per ritrovarsi in un laboratorio politico in cui la sperimentazione delle varie “cose” non ha mai fine e dove a prevalere sono l’arte del compromesso, il trasformismo e il narcisismo. Quel che rimane in essere del vecchio Pci diventa una brutta copia del Partito democratico statunitense. Sconfitte le vecchie ideologie e buttato nella spazzatura il marxismo, ad imperare sono il pragmatismo e la tecnocrazia. Un eccezionale patrimonio umano e culturale viene così distrutto e anche quello materiale viene messo in liquidazione a prezzi scontati. Le vecchie sedi di partito, da Botteghe Oscure fino a quelle di periferia, vengono date in pasto alla speculazione immobiliare; le scuole di formazione politica delle Frattocchie e di Albinea subiscono lo smantellamento; molte case del popolo disseminate lungo la penisola da luoghi di socializzazione e di emancipazione vengono trasformate in lap dance, sexy show ed erotic dinner. Generazioni di uomini hanno affrontato sacrifici e discriminazioni per consolidare un tale patrimonio dedicando parte della loro intelligenza e del loro tempo libero alla raccolta di fondi per garantire la gestione dell’organizzazione e per fare forte il partito anche sul piano finanziario. Ora, quelli di loro che sono sopravvissuti, sono costretti ad assistere alla sua dissipazione. E’ uno spettacolo desolante. Il destino del Pci appare molto simile a quello di molti pionieri dell’industria italiana del secondo dopoguerra i quali, dopo aver lavorato per un’intera vita e aver sputato sangue per creare e far crescere la loro azienda, anche comportandosi come “padroni delle ferriere” con i loro dipendenti, allorquando si sono ritrovati nella condizione di dover cedere le redini del potere ai loro figli si sono visti dilapidare per insipienza e irresponsabilità tutto il patrimonio accumulato. Ma tutto ciò non basta, al danno si è aggiunta anche la beffa. Il rigenerato gruppo dirigente che fino a ieri ha obbedito e sorretto in maniera incondizionata le vecchie leadership, ossequiandole ed acclamandole, all’autocritica preferisce la presa di distanza. Massimo D’Alema, che dopo la riconversione lancia lo slogan “rivoluzione liberale”, nel suo libro “La sinistra che cambia”, critica Enrico Berlinguer mentre restituisce dignità politica a Craxi. Walter Veltroni si sente in dovere di dichiarare spudoratamente che egli si è iscritto al Pci di Berlinguerr e che mai avrebbe preso la tesserai del partito di Togliatti. Piero Fassino insiste nel giudicare un errore la subordinazione del Pci allo stalinismo e la sua approvazione dell’invasione sovietica dell’Ungheria, dimenticando di avere lui stesso approvato le scomuniche che il partito decretava contro quei compagni che reclamavano piena autonomia dall’Urss. Riferendosi ai militanti del Pci, nel ’95, Dario Fertilio che 327


poi diverrà direttore de “l’Unità” (sic!), ha la faccia tosta di scrivere sul “Corriere della sera” che “dal rivoluzionario più giacobino al riformista più all’acqua di rose, ognuno di questi signori era convinto che ci fosse contraddizione fra capitale e lavoro”. Cosa abbia a che fare con la classe operaia un tipo del genere non sono mai riuscito a capirlo. Eppure è giunto alle vette della dirigenza. Insomma, allo scioglimento del Pci segue un ribaltone ideologico che è frutto non di un sincero ripensamento autocritico, ma di un dilagante opportunismo politico. E questo fenomeno riporta alla mente quanto Giorgio Amendola ha denunciato su “Rinascita” alla fine degli anni ’60: “Per Togliatti – scrisse – avviene ora il contrario di quello che egli rilevò per Gramsci che, attaccato e perseguitato in vita, fu, dopo la morte, esaltato da coloro stessi che lo avevano combattuto. Invece c’è, tra coloro che riverirono Togliatti in vita, chi oggi si leva a dare con disinvoltura il ‘calcio dell’asino’ contro il cosiddetto ‘togliattismo’”. Molto spesso i ricorsi della storia sono proprio stupefacenti. In ogni modo, la sorpresa maggiore per coloro che hanno creduto nella giustezza e nella bontà della liquidazione del Pci e nella sua riconversione in partito non ideologico, ma pragmatico, consiste nel fatto che raggiunta la “stanza dei bottoni” i Democratici di sinistra si sono rivelati incapaci di fare per il lavoro e per la democrazia quello che il Pci aveva fatto stando all’opposizione. E a rilevare questa loro inettitudine è quel Guido Rossi che dall’area del centrosinistra è considerato maestro di moderazione. Nella primavera del 2000, il noto top-manager scrive sul più diffuso quotidiano italiano: “Mi aspettavo che la sinistra fosse capace di elaborare un progetto politico che sapesse modernizzare un capitalismo sgangherato senza concorrenza e senza mercato. Mi aspettavo che sapesse rompere i monopoli, creare regole efficaci di corporate governance , far nascere una vera concorrenza. Mi illudevo che la sinistra potesse approvare una legge sulle società per azioni e farla applicare. Quella sì sarebbe stata una rivoluzione. Invece non è stato fatto nulla. Una vera delusione”. Diventa perciò inevitabile convenire con Luigi Pintor quanto, sul finire del secolo breve, sostiene sconsolato che “l’anima della sinistra è andata al diavolo, secondo il classico mito faustiano. E non è stata venduta in cambio di una nuova giovinezza ma gratis, per un’apparenza di potere, sinonimo di vecchiezza e vanità. Oggi nessuno vuole migliorare il mondo, tutti vogliono arricchirlo e credono che sia la stessa cosa. E’ questa la fine della sinistra, è a questo diavolo che ha venduto l’anima e il corpo... la sinistra e il suo ceto politico si sono interamente subordinati, assimilati, alla cultura dominante”.

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Capitolo 10°

Il crollo del socialismo reale 10.1 – L’evoluzione del capitalismo di Stato nell’Unione sovietica Nei dieci anni successivi alla rivoluzione d’ottobre le difficoltà che i bolscevichi incontrano nel governare lo sviluppo economico del loro Paese sono molte. La guerra civile, l’assedio ai confini degli eserciti stranieri, l’embargo e la sperimentazione prima del comunismo di guerra e poi della Nep, fanno sì che il grado di efficienza del nuovo modello sociale venga raggiunto con grande ritardo. Solo verso la fine degli anni ’20 sia la produzione industriale che quella agricola raggiungono i livelli del 1913. L’industria di Stato, parzialmente privatizzata durante la Nep, viene costruita su una base tecnologica tradizionale e solo con l’aiuto del capitale straniero e con i primi piani quinquennali riesce ad assicurare al Paese uno sviluppo soddisfacente. Nei primi due piani quinquennali (19281938), infatti, i saggi d’incremento delle produzioni di base, come pure i saggi di aumento riguardanti il reddito e la produzione industriale in generale, raggiungono livelli elevati. In particolare il primo piano, concluso nel ‘33, assicura un notevole sviluppo sia delle attrezzature che dei prodotti semilavorati dell’industria pesante, delle materie prime e delle fonti di energia. Nel corso dei piani successivi alcuni settori progrediscono in maniera spedita, in specie quelli dell’acciaio, dell’energia elettrica e delle costruzioni meccaniche. Nella produzione degli acciai speciali, della gomma sintetica e delle macchine utensili moderne vengono sperimentate nuove tecnologie che consentono successi insperati. Con l’introduzione della pianificazione ha dunque inizio un grandioso processo d’industrializzazione del Paese che tra l’altro può contare sulla collaborazione di ingegneri e tecnici provenienti dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti, e pure sull’importazione da questi stessi Paesi di molti macchinari. Negli anni ’30, purtroppo, a causa di una carestia, si registra una caduta della produzione agricola, in specie dei cereali che costituiscono il principale prodotto di esportazione. Conseguentemente, s’ingrossa il deficit della banca commerciale e il costo delle macchine di fabbricazione estera cresce a tal punto da costringere il governo a porre limiti al loro acquisto in modo di evitare un crac finanziario. Con la rottura poi dell’alleanza tra operai e contadini, determinata dalla collettivizzazione forzata delle campagne degli anni ‘30-’33, la situazione economica si aggrava. E anche se la proprietà individuale dei contadini non viene abolita e neppure limitata, potendo comunque essi mantenere il loro appezzamento in usufrutto e vendere parte del prodotto del loro lavoro direttamente sul mercato kolchoziano, lo stato complessivo non solo dell’agricoltura ma dell’intera economia sovietica si fa problematico. Le generali aspettative di crescita suscitate soprattutto dal non coinvolgimento del sistema sovietico nella crisi finanziaria mondiale del ’29 subiscono così una smentita. Alla fine degli anni ’30, a seguito della minacciosa espansione nazista, il governo dell’Urss è costretto a concentrare gli sforzi per potenziare gli armamenti, e di conseguenza lo sviluppo dell’economia civile subisce un brusco arresto. L’invasione poi dell’esercito germanico, che provoca la distruzione di fabbriche e di infrastrutture, e anche la morte di 20 milioni di cittadini sovietici, mette definitivamente in ginocchio l’intero Paese. Si consideri che a causa della guerra, nel ’45 in Urss vi sono 5 donne ogni 3 maschi. Nel periodo che va dal ’46 al ’50, l’impegno del governo è diretto soprattutto a riparare i danni della guerra e a riportare l’economia al livello pre-bellico. La ricostruzione viene completata a ritmi sostenuti e solo da quel momento il sistema produttivo riprende a svilupparsi a tassi soddisfacenti. Mentre però gli Stati Uniti sono nella condizione di offrire ai Paesi europei il “Piano Marshall”, il quale significa un notevole sostegno economico e una significativa espansione dei consumi, l’Urss non può fare altrettanto a favore dei Paesi satelliti dell’Est europeo e ciò comporta un indubbio 329


svantaggio sul piano della competizione internazionale. Con la pianificazione, però, l’economia registra una crescita sensibile e lo stesso avvento della “guerra fredda”, che fa temere il pericolo di un’aggressione da parte dell’imperialismo, inducendo i sovietici a una ipercentralizzazione della gestione economica, favorisce un’imponente espansione dell’industria pesante. A quel punto, principale obiettivo del governo diventa quello di raggiungere a tutti i costi i livelli di sviluppo dell’Occidente, almeno nei settori industriali di base. La strategia che viene adottata per conseguirlo porta però a trascurare completamente la produzione dei beni di consumo. E’ in questa fase di crescita che, almeno per un breve periodo, l’Urss torna a essere un grande esportatore di grano come fu la Russia ai tempi degli zar. Il Paese compie questo balzo in avanti nonostante che, in assenza dei meccanismi di mercato e con un livello tecnologico assai modesto, il governo sia costretto a stabilire i prezzi e le quote produttive di migliaia di prodotti attraverso le pratiche burocratiche, impiegando cioè un’enorme quantità di lavoro improduttivo. E’ in queste circostanze che viene realizzata la stesura del primo manuale di economia politica nel quale vi si ribadiscono le tesi di Stalin secondo cui il mercato e i rapporti che esso determina sono da considerarsi simulacri del passato, cioè presocialisti. All’indomani della morte del dittatore georgiano, al Cremlino si scatena una feroce lotta di potere. Laurentij Pavlovic Berija, suo stretto collaboratore e artefice di uno spietato sistema poliziesco, tenta di introdurre alcune radicali misure riformatrici, ma viene immediatamente destituito e giustiziato per alto tradimento. Primo ministro diventa Georgij Malenkov il quale cerca di attenuare il regime di austerità favorendo la produzione dei beni di consumo a scapito dell’industria pesante e di quella militare. Il suo tentativo però incontra resistenza e cade in disgrazia. Viene quindi sostituito dal maresciallo Nokolaj Bulganin il cui ruolo è esclusivamente di facciata. Il periodo post-staliniano è contrassegnato nel complesso da una graduale apertura verso l’estero. Anche in forza del gap tecnologico che va aggravandosi in molti settori vitali, si fa urgente la necessità di incrementare gli scambi internazionali e di acquisire le esperienze tecnologiche dei Paesi avanzati. Le conseguenze culturali, sociali ed economiche dell’apertura al mercato mondiale si rivelano positive, poiché spingono in avanti le esigenze e le aspirazioni di larghi strati sociali. Dopo il XX e il XXII Congresso del Pcus, generato dal clima di conformismo che è divenuto la base politica del sistema, si realizza il passaggio dal terrore “preventivo” al terrore “selettivo”. Alla destalinizzazione sopravvivono, infatti, sia il dirigismo ideologico che la volontà di tenere sotto stretto controllo e di sottomettere alle ragioni di Stato la vita civile, in particolare quella intellettuale. Questo regime di costrizione dà alcuni frutti sul piano economico. Durante il decennio degli anni ’50, l’industria raggiunge livelli di produttività assai prossimi a quelli dei Paesi capitalistici avanzati e il volume della produzione risulta secondo solo a quello degli Stati Uniti. Il settore agricolo continua invece a incontrare diverse difficoltà, sia nella crescita dei raccolti che nel processo di modernizzazione. Alcuni settori industriali fanno registrare tassi d’incremento molto elevati e incominciano a integrarsi nel mercato internazionale. Pure il prodotto interno lordo e gli indici di reddito aumentano fino a raggiungere un ritmo medio annuo di quasi il 5% il primo e del10% i secondi, migliorando così le condizioni economiche della popolazione. Uno sviluppo così intenso è reso possibile grazie a un insieme di provvedimenti che vengono presi dalla leadership chrusceviana i quali comportano un aggiustamento dei metodi di gestione dell’economia attraverso un decentramento territoriale che amplia i poteri attribuiti ai direttori d’impresa ed estende la politica degli incentivi. Dopo il ’56 e nel corso dei primi anni ’60, viene messo a punto un programma di sviluppo più uniforme per tutta l’economia; esso è fondato sulla modernizzazione e sullo sviluppo della domanda dei beni di consumo. Nel piano varato nel 1960 vengono menzionati 1.500 prodotti lavorati da 200.000 imprese, quando nel piano dei primi anni ‘30 ne apparivano solamente 300. Nel sistema scolastico vengono introdotti importanti cambiamenti che stabiliscono rapporti molto stretti tra la scuola e il mondo produttivo. Diventa principio generale che la scuola secondaria deve prevedere

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una parte di lavoro manuale, deve essere collegata a un’attività produttiva, mentre l’ammissione all’università deve essere preceduta da due anni di esperienza di lavoro. Con questi aggiustamenti l’economia dell’Urss, e con essa quelle del campo socialista, cresce molto più velocemente di quelle dell’Occidente e la speranza che nel futuro diventi possibile superare la produzione del mondo capitalista si rafforza. A una simile prospettiva sembra del resto credere lo stesso primo ministro inglese Harold Macmillan. Secondo il pensiero di Chruscev, la vittoria del comunismo sul capitalismo dipende soprattutto dalla superiorità economica della patria dei soviet rispetto al sistema fondato sulla libertà d’impresa e un tale convincimento sprona braccia e cervelli. Fatto è che in un tempo molto breve l’Urss crea un potenziale economico e militare tale da indurre nelle classi dirigenti dell’Occidente il timore per la propria sicurezza. A metà degli anni ’60, questa rapida espansione economica dell’Urss, assieme a quella degli altri paesi socialisti, si accompagna a un imponente progresso scientifico e tecnologico che si manifesta nel forte impulso della ricerca scientifica nei settori della siderurgia, dell’energia elettrica convenzionale e nucleare, della chimica, ma soprattutto in quello aerospaziale. Il lancio degli Sputnik e il volo orbitale di Jury Gagarin vengono interpretati da molti comunisti non solo come la testimonianza della supremazia dell’Urss nel campo dei voli spaziali, ma anche come il segno di un’acquisita capacità competitiva sul piano generale (economico, sociale e politico) destinata a dare frutti a breve termine. Del resto, le stesse condizioni di vita del popolo sovietico sono in netto miglioramento: gli occupati lavorano al massimo 41 ore settimanali e godono di due giornate libere. Non per caso, nel piano ventennale del Pcus viene formulata la previsione che entro il 1980 l’Urss raggiungerà e supererà gli Usa sul piano economico. In un simile clima la retorica dilaga. E’ ricorrente leggere sulla stampa sovietica che si è ormai nell’epoca del crollo del capitalismo e del passaggio della società dal socialismo a quella del comunismo. J. Uscerenko su “Novosti” (nel ’67) scrive che “l’economia socialista continua a svilupparsi in base a proprie leggi peculiari: essa non conosce crisi di sovrapproduzione né depressioni”, mentre su “Kommunist”, V. Dvmscits sostiene che “la causa iniziata coll’Ottobre ha dimostrato la sua validità e la sua forza invincibile. Essa è incarnata nella vittoria completa e definitiva del socialismo nell’Urss”. Nella documentazione e nei commenti dei successi economici di mezzo secolo di socialismo reale non c’è, però, traccia alcuna degli aspetti negativi che pure contraddistinguono la società sovietica. Si tace sugli obiettivi non raggiunti, sull’asfissiante centralizzazione del potere, sulle repressioni ricorrenti, sulla dilagante disaffezione alla politica, sulle forme di alienazione che corrodono la società. L’autocritica, principio fondamentale del pensiero comunista, è cosa sconosciuta. Per esempio, i grandi successi conseguiti nel campo della ricerca scientifica e tecnologica, specie nel settore aerospaziale, non hanno alcuna ricaduta positiva sul piano dello sviluppo economico e civile. Le nuove tecniche elettroniche potrebbero e dovrebbero favorire, come avviene negli Usa, la creazione di nuovi prodotti industriali e la promozione di nuovi beni di consumo, ma questo non avviene. Nel Paese esistono solo 3.000 calcolatori elettronici, quando negli Stati Uniti ce ne sono 40.000. Questi strumenti informatici potrebbero essere impiegati nei servizi economici e amministrativi al fine di superare l’elefantiasi di una burocrazia che si avvale di un esercito di dieci milioni di persone, di cui quasi la metà sono addette proprio ai calcoli nella pianificazione e al lavoro statistico, ma questa possibilità non viene nemmeno presa in considerazione. E sì che un tale rebus meriterebbe una seria riflessione! Le menti non si risvegliano nemmeno allorquando si registra un brusco rallentamento degli indici di sviluppo e vengono emergendo forti squilibri tra agricoltura e industria, tra industria pesante e industria leggera, tra sviluppo produttivo e inadeguatezza delle infrastrutture (strade, ferrovie, ecc.). Quando, cioè, termina la fase dello sviluppo estensivo e si è costretti a dare corso a uno sviluppo intensivo. A quel punto il metodo degli obiettivi prioritari e la mobilitazione permanente del lavoro d’assalto non bastano più a tenere alti i tassi di accumulazione; essendo raggiunta la piena 331


occupazione, per creare ricchezza (secondo le leggi dello stesso capitalismo di Stato) occorre incrementare la produttività del lavoro e delle tecnologie. Di fronte a questa empasse emerge l’incapacità della classe dirigente di abbinare alla fase di accumulazione intensificata scelte economiche razionali di segno alternativo a quelle tipiche del capitalismo. Considerato che il sistema produttivo sovietico è nato sui principi del taylorismofordismo, si renderebbe necessario adottare criteri di gestione economica capaci di rompere quel compromesso corporativo regressivo che regola i rapporti tra le direzioni delle fabbriche e le rispettive maestranze e porre le basi di un nuovo modo di produrre. Ma una simile operazione si rivela improponibile, impensabile per l’intelligentia del Cremlino. A rendere complessa la situazione intervengono ovviamente molti fattori tra i quali è da evidenziare il fatto che, non essendo stati interessati a tenere nel giusto conto i bisogni della popolazione, accanto al sistema ufficiale è cresciuta nel Paese, specie negli anni ’60, una vasta economia in nero che rende ingovernabile il sistema. Per fare un esempio concreto: a fronte di una spesa di 20 miliardi di rubli da parte della popolazione urbana per consumi privati e per servizi medici e legali, vengono spesi dai sovietici 7 miliardi di rubli per “mance” al fine di assicurarsi alcuni servizi. Autoritarismo, centralismo, burocratismo, nepotismo, parassitismo, inefficienza, queste sono le caratteristiche del sistema economico dell’Urss. Ma la sua classe politica dirigente è a tal punto miope da mostrarsi incapace persino di rendersi conto che il permanere di tali disfunzioni e contraddizioni, porta inevitabilmente a un disfacimento del sistema. Anziché scavare sui mali, si preferisce fare retorica e ingannare persino se stessi. Alla fine degli anni ’60, dopo aver citato “Stato e rivoluzione” di Lenin, V.Stephanov scrive sulle “Izvestia”: “Dopo che il nostro paese è entrato nel periodo dell’edificazione del comunismo, il ruolo dirigente del partito nel sistema della società socialista sovietica e in tutta la vita del nostro popolo diventa ancora più grande”. E teorizza la “indistruttibilità della potenza del socialismo e della sua forza dirigente.... Il socialismo ha vinto completamente e definitivamente... il partito comunista è armato di una profonda conoscenza delle leggi dello sviluppo sociale, ... avendo una ricchissima esperienza di lavoro organizzativo, (gode di) un grande prestigio politico e morale in mezzo al popolo e di uno stretto legame col popolo e con tutti i suoi strati sociali”. E in occasione della celebrazione del 150° anniversario della nascita di Marx, nel maggio del ‘68, Michail Suslov, il teorico del marxismo sovietico, gli fa il contrappunto, affermando che “la vittoria del socialismo nell’Urss è completa e definitiva” e che si stanno creando “le premesse del passaggio a una via di sviluppo non capitalistica”. Non c’è dubbio che nessuna delle grandi rivoluzioni occidentali è riuscita a realizzare la sua rivoluzione industriale in un lasso di tempo tanto breve e in condizioni tanto dense di ostacoli come è avvenuto nella Russia dopo l’ottobre rosso. E ha certamente avuto buona ragione Trotzkij di sostenere in “La rivoluzione dall’alto” che “solo la rivoluzione proletaria ha permesso a un paese arretrato di ottenere in meno di vent’anni risultati senza precedenti nella storia”. Dopo tutto, a distanza di solo mezzo secolo dalla sua realizzazione, il socialismo governa quasi un terzo della popolazione mondiale e per i Paesi del “terzo mondo” rappresenta un nuovo modello di sviluppo e la possibilità di diventare moderni senza essere capitalisti e senza dover dipendere dalla supremazia occidentale. Ma il constatare orgogliosamente questi successi, ignorando completamente le difficoltà e i rischi che il sistema ha di fronte a sé, è senza dubbio segno di miopia e d’irresponsabilità. 10.2 – Le contraddizioni e l’inizio della crisi Esauritasi la spinta propulsiva del modello di sviluppo estensivo fondato sulla pianificazione centralizzata, il tasso di crescita della società sovietica fa registrare un arresto e ha così inizio la fase del progressivo declino. La parabola discendente si manifesta dopo la metà degli anni ’60 e continuerà fino al dissolvimento del regime. Dapprima si registra un calo del grado di efficienza

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degli investimenti, poi cessa la crescita del prodotto nazionale lordo, quindi interviene la crisi e, infine, si verifica l’implosione del sistema. A partire dalla fine degli anni ’60 si accentuano le incongruenze della pianificazione e del dirigismo economico, nonostante che 51 dei 59 ministeri esistenti si occupino proprio della programmazione economica e tecnica. Si moltiplicano poi i soprusi della nomenclatura, le violazioni dei diritti umani diventano sistematiche e nella società vengono meno persino certe forme elementari di democrazia. Si tratta di segnali forti di perversione del sistema, ma l’attenzione su di essi non è tale da suscitare preoccupazione, tanto meno indignazione da parte sia degli osservatori interni che di quelli esterni. I dati statistici vengono gelosamente custoditi dalla nomenclatura e il calcolare l’ampiezza delle disfunzioni e delle disuguaglianze si rivela un’operazione quasi impossibile. A riguardo di questa singolare situazione, è da ricordare il sorprendente giudizio espresso ai primi degli anni ’70, da un esimio critico economista quale è Ernest Mandel. Egli sostiene che dal punto di vista dello sviluppo delle forze produttive i Paesi del socialismo si collocano alla cima della classifica mondiale e che a loro sono sconosciuti tutti quei fenomeni ciclici che sono propri dei Paesi capitalistici. Quanto peso, nel determinare una simile valutazione, abbia la componente ideologica e quanto invece essa sia il prodotto di una non conoscenza della realtà di quel Paese, non è dato sapere. La critica che in questi anni (ma anche in quelli successivi) viene rivolta all’Urss, in prevalenza dai suoi avversari ma anche dai marxisti non ortodossi, riguarda essenzialmente il sistema politico, la mancanza di democrazia, la separazione tra dirigenti e diretti, l’esistenza di gruppi privilegiati, ecc. e non investe, se non marginalmente, il sistema economico che di fatto è la fonte di ogni disfunzione. Come ho già ricordato, i tentativi di riforma per correggere i ritardi e le storture dello sviluppo economico e sociale non mancano, ma tutti i provvedimenti che vengono presi falliscono almeno la gran parte dei loro obiettivi. Il loro limite consiste soprattutto nella parzialità e nella debolezza delle misure messe in campo rispetto alle esigenze di un radicale cambiamento. Per dirla con un termine familiare ai comunisti dell’epoca, le riforme varate corrispondono a un “programma minimo” e non a un programma “massimo”, sono cioè inadeguate a sanare la gravità della situazione. Se è pur vero che le discussioni tra gli esperti riguardano problematiche di fondo quali i rapporti tra il mercato e la finanza, la legge del valore, il calcolo economico, i sistemi di pianificazione e anche l’autonomia delle imprese, e che il confronto avviene anche sul piano teorico, le conclusioni che vengono tratte non trovano la necessaria unità d’intenti per essere rese concrete e i provvedimenti adottati, proprio perché parziali e insufficienti, molto spesso anziché correggere la situazione contribuiscono ad aggravarla. In diverse circostanze il governo procede a un decentramento delle decisioni delegando poteri agli organi regionali e locali e assicurando loro anche la gestione delle fabbriche, ma ogni misura del genere si scontra con un sistema ormai ossificato, caratterizzato da un’elevata e pressoché insuperabile centralizzazione delle decisioni, con una situazione che corrisponde a un prodotto storico aggredibile solo attraverso un nuovo processo rivoluzionario. A inficiare questi timidi progetti di riforma interviene anche una insufficienza dei sistemi di distribuzione di quanto viene prodotto rispetto alla domanda di beni di consumo proveniente dalla società, e questo scompenso favorisce il mercato nero e l’economia clandestina. Il cittadino medio sovietico è nelle condizioni di poter acquistare solo la metà dei beni di consumo e dei servizi che è in grado di acquisire il cittadino americano medio, e il suo tenore di vita resta molto al di sotto di quello non solo degli Stati Uniti, ma del Giappone e della maggior parte dei Paesi europei. La differenza negli indici di produttività rispetto agli Stati capitalistici è enorme. Mentre un lavoratore agricolo sovietico nutre con il suo prodotto sette persone, quello americano ne nutre quarantasei. E mentre i sovietici fanno investimenti nell’acciaio, nella ghisa, nei trattori, nell’intento di superare gli indici di produzione statunitensi, gli americani costruiscono la new economy fondata sul silicone e sull’elettronica. E questo accade nonostante che nella patria del socialismo il numero degli ingegneri impiegati nel mondo produttivo risulti sestuplicato rispetto agli anni ’40 e sia 37 volte superiore a quello esistente alla fine degli anni ’20. Si è cioè in presenza di un vero e proprio 333


esercito di tecnici che però non rende competitivo il sistema produttivo con quello del mondo capitalistico. Un altro motivo di disfunzione è imputabile al fatto che quando le esigenze sociali mutano, per soddisfarle la nomenclatura procede a correzioni nella distribuzione degli investimenti prescindendo dagli indirizzi stabiliti dalla pianificazione e ciò introduce squilibri tra i diversi settori determinando scompensi e inefficienze. E’ in un simile stato di cose che, conclusasi la fase della “guerra fredda”, l’economia sovietica si trova a dover fare i conti con i processi di globalizzazione del capitale. Fino alla metà degli anni ’80 il socialismo reale si presenta agli occhi dei suoi osservatori come un ordine monolitico caratterizzato da sofisticati meccanismi di autoriproduzione, in condizione di rigenerarsi impedendo in modo sistematico qualsiasi alternativa al suo modo di essere. Nessuno, alla vigilia dell’89, è in grado di immaginare il suo prossimo rapido collasso. Eppure i segni della sua instabilità sono evidenti da tempo. Le contraddizioni che contraddistinguono il sistema sono tali e tante da indurre stupore per la generale miopia. Anzi, è proprio il caso di chiedersi come sia stato possibile che quel regime abbia potuto sopravvivere così a lungo in uno stato di progressiva decomposizione. Viene quindi naturale cercare di spiegarsi come sia stato possibile che un sistema non dominato dalla legge del profitto, al riparo dalla speculazione finanziaria, con un assetto produttivo non sottoposto alle leggi della concorrenza, con un governo dei prezzi determinato non dal mercato ma dalla politica e con una società fondata sui principi dell’uguaglianza e della giustizia sociale degenerasse in quel modo. La risposta a un simile quesito è indubbiamente complessa e necessita di analisi e di approfondimenti che ovviamente io personalmente non mi sento nelle condizioni né materiali né culturali di svolgere. Ma poiché la sinistra non si è preoccupata di dare spiegazioni circostanziate e convincenti del crollo di quei regimi, alcune semplici risposte ho comunque cercato di darmele per conto mio, consapevole del loro modestissimo valore. Anzitutto, a mio avviso, è da evidenziare che la politica di pianificazione, non solo in Urss ma anche negli altri Paesi del socialismo reale, essendo prigioniera della burocrazia, anziché favorire l’efficienza delle istituzioni ne ha mortificato la potenzialità, soffocando sia la creatività collettiva che quella dei singoli. Nel raggiungere gli obiettivi stabiliti dai piani la qualità dello sviluppo è stata sacrificata sull’altare della quantità di ciò che veniva prodotto. Il caso dei tavoli manufatti con gambe enormi al fine di raggiungere i quantitativi fissati in tonnellate dal piano, accrescendo così il loro peso e diminuendo il loro numero, non è altro che l’esempio più noto di una prassi ricorrente che ha riguardato la generalità dei beni prodotti. A questo si è accompagnata l’incapacità del sistema di stimolare i livelli di produttività, i quali sono sempre rimasti bassi anche quando la produzione aumentava. Sull’efficienza lavorativa ha prevalso un compromesso di reciproca e gretta convenienza tra un sistema di potere politico ossificato e un esercito del lavoro deresponsabilizzato e politicamente alienato. Nell’industria sovietica, salvo rarissime eccezioni, l’innovazione dei prodotti e dei processi è risultata essere cosa sconosciuta. Un rapporto degli anni ’80 denunciava che ogni anno nella sola città di Mosca esplodevano 20 mila televisori e che il 30% di quelli venduti in tutto il Paese necessitavano di una riparazione durante il periodo di garanzia. Le motociclette Jawa, fabbricate in Cecoslovacchia, sono rimaste esattamente uguali per 30 anni non subendo innovazione alcuna. Nel periodo brezneviano si è poi allargato il mercato nero costituito non tanto da un diffuso doppio lavoro (più della metà dei lavoratori sovietici vantavano una qualche forma di guadagno parallelo), ma da un sistema di accordi, scambi e favori gestito dagli stessi quadri dirigenziali del partito e dello Stato, il quale ha rappresentato una vera e propria seconda economia svincolata da qualsiasi contabilità e controllo istituzionale. Negli anni ’80 si è aggravata anche la situazione ecologica. Mentre il sistema produttivo inquinava l’ambiente nell’insensibilità generale, il ministero delle acque e delle bonifiche realizzava progetti di trasformazione del patrimonio naturale su vasta scala i quali, oltre a essere costosi, hanno 334


devastato riserve forestali e corsi d’acqua alterando l’habitat di intere aeree del Paese. La tragedia di Cernobyl altro non è che un caso estremo. Anziché nella produzione di beni civili le dirigenze dell’Urss, ossessionate dalla natura aggressiva dell’imperialismo, hanno dirottato ingenti risorse nell’industria degli armamenti la quale ha rappresentato fino al 50% del sistema produttivo impiegando 20 milioni di addetti. Ha dato quindi vita alla più forte armata di tutti i tempi composta da ben sette milioni e mezzo di uomini, da 180 divisioni corazzate e dalla più grande flotta mai esistita, dotandola di una enorme quantità di bombe nucleari. In quello stesso periodo gli imperialisti Usa contavano su un esercito di due milioni di uomini. La patria del “sole dell’avvenire” era poi una società fatta di diseguali, cioè di molti soggetti deboli che vivevano accanto a una èlite di soggetti forti. Il livello medio dei consumi pro capite, nell’Urss pre ’89, era pari a quello di un messicano. Una famiglia media, alla fine degli anni ’70, spendeva circa la metà del suo reddito per il vitto, il 37% per il vestiario e i beni durevoli, il 10% per le vacanze e i beni culturali. Mentre gli strati più deboli facevano fatica ad arrivare alla fine del mese con i salari percepiti, i 12 milioni di burocrati di Stato, unitamente agli addetti all’industria militare, godevano di paghe in media più alte del 25% e per di più avevano accesso a spacci speciali con prezzi di favore. Assieme agli uomini della nomenclatura politica e sindacale essi costituivano la categoria dei privilegiati. Fino al dissolvimento del regime la coabitazione per i sovietici era coatta. La parità di diritti tra maschi e femmine era sancita dalla Costituzione, ma nei fatti anche la donna sovietica, come quella dei regimi capitalistici, era costretta al doppio lavoro per bisogno economico. Rappresentate in misura del 30% nel Soviet supremo, le donne erano una sparuta minoranza negli organi di partito dotati di potere reale come il Politburo. Gli interessi politici hanno difatti continuato a essere prerogativa pressoché esclusiva dei maschi. Mentre, nel ’65, la durata media della vita,nel territorio dell’Unione sovietica, era di 72 anni e 1 mese, nell’81 risultava essere scesa a 69 anni e 3 mesi. Tra il ’71 e l’81 la mortalità infantile (quella dei bambini fino a un anno di età) risultava aumentata dal 23 al 28 per mille. Ad aggravare la condizione sociale era anche l’estendersi e il progressivo intensificarsi del fenomeno dell’alcolismo che da alcuni stessi osservatori sovietici è stato considerato una vera e propria calamità nazionale. A metà degli anni ’70 sono stati spesi annualmente 26 miliardi di rubli per l’acquisto di vodka, ai quali sono da aggiungersi almeno altri 13 miliardi spesi sul mercato clandestino. Più di un quarto del consumo di generi alimentari era costituito da bevande alcoliche. La vodka, in sostanza, ha assolto in Urss lo stesso compito di lubrificante del sistema sociale che il gin puro ha avuto durante la rivoluzione industriale in Europa o che il whisky ha svolto negli anni della “nuova frontiera” americana. Difatti, allo Stato socialista l’alcol è servito non solo come psicofarmaco di massa, ma anche come mezzo per rastrellare risorse. Il regime incassava per tasse sui liquori ben 19 miliardi di rubli, pari all’11% dell’intero bilancio statale. L’alienazione dell’uomo è dunque un male tipico non solo del capitalismo, ma – come ha teorizzato lo stesso Karl Marx – insidia anche il socialismo. E la storia dell’Unione sovietica conferma ampiamente questa regola. Una delle caratteristiche del regime sovietico degli anni ’70 e ’80 era costituita da un drammatico scollamento tra i vertici e la base della società. La stragrande maggioranza della popolazione appariva sempre più attratta dai miti consumistici dell’Occidente e sempre meno disposta a lavorare e produrre a ritmi che consentissero di soddisfare le crescenti esigenze del vivere sociale. E mentre i singoli si dimostravano sempre meno consapevoli della storia e dei fini del comunismo, la classe dirigente copriva con una mano di vernice ideologica scelte politiche ed economiche che ormai non avevano più niente a che fare con la prospettiva di una società fondata sulla giustizia sociale e sull’uguaglianza. La democrazia socialista, com’è risaputo, richiede ai lavoratori senso di responsabilità, intelligenza ed efficienza, capacità di organizzazione, disciplina nell’interesse della collettività. Nell’Unione sovietica dei tempi di Breznev, l’etica del socialismo era pressoché sconosciuta. Anzi, nel tempo si 335


è venuta formando una sorta di resistenza passiva individuale al sistema e nei luoghi di lavoro ognuno ha cercato di lavorare il meno possibile attribuendo al sistema le responsabilità dello sfascio. L’avanzamento del lavoratore era determinato non dalle sue capacità professionali, ma dalla valutazione politico-ideologica del suo comportamento e anche per questo era sottoposto a un costante controllo. A causa del diffondersi della pratica della delazione, la stessa abitudine alla comunicazione politica e allo scambio delle opinioni era divenuta una pratica rischiosa e sconsigliabile. Il sociologo sovietico Victor Zaslavski ha così denunciato il fenomeno: ”La famiglia, in Urss, è il luogo dove ti puoi fidare. Lo è stata all’epoca del terrore staliniano, lo è ancora. Quando passi guai con il regime, solo sulla famiglia puoi contare, perché tutti gli altri, i compagni di lavoro, quelli con cui hai vissuto fino al giorno prima si allontanano”. E questo clima ha determinato una generale atmosfera di conformismo apolitico. La distanza tra i membri del partito e il resto della popolazione, già accentuata ai tempi di Stalin, è notevolmente aumentata negli ultimi decenni di vita dell’Urss. Nell’epoca brezneviana il partito si è via via trasformato in un organismo con scarse motivazioni politico-ideali, sempre più invischiato in logiche compromissorie e antidemocratiche. Sull’ambizione di realizzare una società socialista, tra i membri del partito sono prevalse le attitudini alla gestione del potere e l’assuefazione ai privilegi. Gli eletti, anche se in teoria per loro era prevista la possibilità di revoca da parte degli elettori, di fatto godevano di una immunità senza limiti. In nome del popolo lavoratore, il partito era diventato il padrone di tutto, mentre il soviet sopravviveva con funzioni che sono paragonabili a quelle assegnate ai nostri enti locali. Non essendosi realizzato il superamento della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, anche la delega quale istituto tipico del sistema capitalistico, ha continuato ad avere una funzione essenziale nel funzionamento della società sovietica. Ed è bene ricordare che nessuno dei leader del Cremlino ha mai adombrato l’intendimento di procedere, seppure in un futuro lontano, al superamento del sistema rappresentativo e all’attuazione di un regime di democrazia diretta. Ciò che la classe dirigente sovietica si è invece costantemente premurata di praticare è l’arte della retorica. Mentre il sistema marciva nella sua crisi, i bollettini ufficiali declamavano: “Il compito più importante del marxismo è quello di chiarire le condizioni e indicare le vie della completa liberazione delle masse popolari da qualsiasi tipo e forma di oppressione e disuguaglianza sociale, dell’organizzazione più razionale della vita sociale, dello sviluppo integrale della personalità e del raggiungimento del dominio dell’uomo sulle forze della natura…Il popolo sovietico, dopo aver edificato il socialismo, è entrato in un periodo nuovo, nel periodo dell’edificazione del comunismo”. E mentre il popolo era ormai sfiduciato, coloro i quali avrebbero dovuto essere la coscienza critica del potere, cioè gli uomini di cultura, in coro gridavano ai quattro venti: “Insieme con tutto il popolo gli intellettuali sovietici tributano una fiducia illimitata al Pcus, riconoscono la sua autorità politico-morale e scientifica, approvano pienamente la sua politica interna ed estera… La fusione dell’ideologia comunista con le caratteristiche intellettuali e della cultura professionale con la concezione del mondo che è propria della classe operaia è una particolarità del profilo spirituale dei più avanzati costruttori del comunismo”. E di proclami simili è piena la letteratura politica sovietica. La realtà è stata dunque ignorata e a imperare è stata l’ipocrisia. Nei confronti di chi non rinunciava a denunciare le cose come stavano scattava la repressione. La protesta sociale veniva soffocata, i dissidenti perseguitati e spediti nei moderni gulag. Gli scrittori scomodi venivano messi a tacere e le loro opere poste all’indice. Un tempo simili sciagurate imprese le compiva la Chiesa di Alessandro VI e di Urbano VIII; alle soglie del 2000 era la patria del socialismo a far rivivere in chiave moderna il Sant’Uffizio. Il clima di repressione era tale da provocare nostalgia per le libertà formali che il mondo capitalista riserva ai propri cittadini al fine di rendere produttivo il sistema del profitto.

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Dissidenti come Solzenicyn per sollecitare l’opposizione al regime evocavano i tempi della Vandea, mentre i cattolici, perseguitati quasi come ai tempi del cristianesimo primitivo, davano vita alla “Chiesa del silenzio”. Il dissidente polacco Bronislaw Baczko alla fine degli anni ’80 ha così descritto quanto succedeva fuori le mura del Cremlino: “Mosca formicola di testi che raccolgono le più strampalate utopie del messianesimo e del nazionalismo russo e non è escluso che assisteremo all’esplosione di ideologie romantiche”. Booris Weil invece ha commentato che essere marxisti in Urss significava passare per pazzi, e non solo perché il regime chiudeva i marxisti in manicomio, ma anche perché l’ideologia dominante non era il marxismo, bensì l’arte di arrangiarsi. In effetti, occorre onestamente ammetterlo, il marxismo non è per nulla entrato nelle tradizioni del popolo dell’Urss. E a dimostrare che questa è purtroppo la realtà dei fatti è non solo il comportamento tenuto dai dirigenti e dagli aderenti al Pcus di fronte prima allo stalinismo e poi al neostalinismo, ma la diffusa presenza di una povertà di spirito nelle persone, ancor più diffusa di quella materiale. Forse che un sistema del genere poteva reggere la sfida che aveva ingaggiato con il capitalismo? A me sembra che non avrebbe mai potuto vincerla. Tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio di quelli ’80, quando le frontiere tra i due sistemi mondiali si sono cautamente aperte e il sistema economico dei Paesi socialisti dell’Est ha incominciato a integrarsi nell’economia mondiale, la crisi ha assunto un carattere irreversibile. Un collasso energetico ha provocato una penuria di prodotti alimentari e di manufatti industriali. Il prodotto interno lordo dell’Unione sovietica, che negli anni ’60 era cresciuto del 5%, dalla fine degli anni ’70 è calato del 3% e in seguito del 2%. All’inizio degli anni ottanta la situazione si è fatta drammatica: il sistema si è rivelato decisamente incapace di rinnovarsi; la scienza ha brevettato molto, ma non ha introdotto le innovazioni tecnologiche nell’industria, salvo che in quella bellica; i mezzi di produzione ormai invecchiati e usurati non sono stati rimpiazzati; mentre si esportavano materie prime (gas, petrolio) si importavano manufatti ingrossando il deficit della bilancia dei pagamenti; lo spreco di risorse ha assunto dimensioni enormi, la qualità dei prodotti è divenuta cattiva, la produttività del lavoro sempre più bassa; i piani, nonostante la loro revisione al ribasso, non potevano più essere realizzati. E’ così intervenuta la terzomondizzazione del Paese. Il socialismo reale è diventato vittima della crisi dell’economia capitalistica mondiale e l’incapacità della classe dirigente di impedire il declino dell’economia è apparsa evidente. Ha avuto inizio la fine. 10.3 – Il crollo dello “Stato guida” Michail Gorbacev diventa segretario del Pcus nel 1985 e da subito avvia un processo che ha di mira l’eliminazione di qualsiasi residuo stalinista. Si propone di trasformare l’Urss in “un paese vivibile, tranquillo, umano”. Contesta la statalizzazione come espressione del socialismo e sollecita un ripensamento storico e teorico del modello sociale che è stato costruito dopo la rivoluzione d’ottobre. La sua critica-autocritica si concentra in particolare su tre aspetti. Il primo, riguarda la diffusione del dogmatismo e della scolastica, in sostituzione del socialismo scientifico; il secondo, la diffusa illusione che i comunisti si sono fatti a riguardo di un imminente crollo del capitalismo; il terzo, l’indifferenza con cui i sovietici hanno assistito e assistono alla deformazione della vita sociale. Egli ritiene di vitale importanza sbarazzarsi dei dogmi aridi e mummificati, dei miti e delle formule scolastiche di cui è pregna la retorica politica del sistema e prospetta un percorso che trasformi l’Unione sovietica in un Paese competitivo a livello non solo dell’economia e del commercio, ma anche della scienza e a riguardo del comportamento umano, del modo di vita e della cultura. Come sintetizza Roy Medvedev, con l’avvento di Gorbacev, “si percepisce che il meccanismo principale di freno dello sviluppo in Urss risiede in quelle strutture e concezioni che presero forma 337


negli anni ‘30”, perciò “si sta cercando di introdurre nuovi metodi di gestione” della società e un nuovo pensiero. Intento del nuovo leader, non è solo quello di rivitalizzare il socialismo sovietico, ma anche di lanciare una sfida al capitalismo il cui sistema, egli ritiene non sia in grado di superare la crisi generale che lo investe, nonostante abbia superato tutti i momenti critici e sia nel pieno della rivoluzione tecnico-scientifica. Insomma, per Gorbacev gli artefici del progresso dell’umanità restano i partiti comunisti e il nuovo corso che egli propone dovrebbe servire a dare slancio al sistema socialista mondiale. La sua è una visione globale dei processi e l’azione che intende portare avanti oltrepassa i confini dell’Urss. Eduard Shevardnadze, suo stretto collaboratore, così interpreta il rinnovamento teorico e strategico proposto: “La lotta tra due sistemi opposti non è più la tendenza determinante della nostra epoca… La cosa più importante è la capacità di far crescere in tempi brevi i beni materiali sulla base della scienza e della tecnologia più avanzata, di distribuirli in modo equo e di proteggere e recuperare attraverso uno sforzo comune le risorse essenziali per la sopravvivenza della specie umana”. E ricorda come già ai tempi di Stalin “non furono sfruttate tutte le possibilità per evitare l’apparizione della cortina di ferro e per limitare la portata della corsa agli armamenti”, e che questa incapacità di interpretare i tempi ha fatto il gioco non dell’Urss ma dell’Occidente. Con Gorbacev al potere il cinema, la letteratura, il teatro, la stampa vengono liberati della censura e in condizione di libertà gli uomini di cultura restituiscono alla memoria collettiva intere pagine di un passato che era stato cancellato. Convinto che la religione é un agente di cambiamento e di giustizia sociale, il nuovo capo del Cremlino si dà da fare per ripristinare la libertà di culto. Poco dopo la sua designazione a segretario del partito, la Corte suprema dell’Urss riabilita Nikolaj Bucharin e diciannove altri comunisti condannati a morte nel processo di Mosca del ‘38, chiudendo così una pagina nera del periodo staliniano. Con il proposito di unire il socialismo con la democrazia e di rendere trasparente l’azione degli organi del potere, adotta le strategie della “perestrojka” e della “glasnost”. Con la prima propone una ristrutturazione dell’economia ispirata alla Nep leniniana, con la seconda intende rendere conto alla società civile delle scelte che vengono compiute, il che comporta dire addio al sistema monopartitico e al ruolo guida del Pcus. Suo intendimento è quello di trasformare qualitativamente i rapporti sociali, di dare soluzione ai compiti posti dalla rivoluzione d’ottobre che per vari motivi non sono stati risolti o non sono stati affrontati, di superare lo stato di alienazione in cui si trovano i sovietici. Nei suoi propositi c’è l’ambizione di far acquisire al Paese i vantaggi del capitalismo senza far perdere al sistema il carattere socialista. La perestrojka presuppone il perseguimento della distensione globale e della cooperazione internazionale, anche in considerazione del fatto che la crisi del regime è causata sia da un isolamento che taglia fuori l’Urss dai benefici della rivoluzione tecnico-scientifica in atto nel mondo, sia dalle esorbitanti spese militari che sottraggono ingenti risorse allo sviluppo. Egli introduce nel sistema elementi economici e politici propri dell’Occidente: mercato, pluralismo, garanzie, iniziativa privata. Rese autonome ed economicamente valide, le imprese pubbliche, quelle private e le cooperative, vengono dirette a livello macro da un “Centro decisionale economico” e viene fatto obbligo a chi le amministra di adottare i criteri del “calcolo economico”. Viene varata una legge sul lavoro individuale e familiare che permette la formazione di piccole unità economiche, purché composte dalla stessa famiglia. Viene pure sperimentata l’introduzione di incentivi e ai dirigenti aziendali viene lasciata una grande libertà d’azione nel campo dell’organizzazione produttiva e dei prezzi. L’applicazione di questi criteri comporta un rapporto di competitività tra le imprese e sancisce la chiusura di quelle aziende che hanno i bilanci in deficit. Copiando esperienze che si stanno facendo in Cina e in Ungheria, viene approvata una legge che consente a gruppi di operai di associarsi per gestire impianti industriali e a gruppi di contadini di affittare le terre e coltivarle per lunghi periodi di tempo.

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Nell’89, l’economista russo Stanislay Mensikov commenta così l’attuazione della perestrojka: “Obiettivo fondamentale è quello di affrancare l’economia dal peso e dalla stretta della burocrazia, e di farla finita con l’economia-ombra e con le varie forme di corruzione e di mercato nero. La legge prevede che il direttore di un’azienda venga eletto dai lavoratori dell’impresa e prevede altresì dei consigli operai cui spetterà il controllo del lavoro del management. Il manager che non fosse ben disposto a far quattrini manderebbe l’azienda in fallimento, cosa prevista dalla nuova legge. Gli operai resterebbero senza lavoro e perderebbero la paga… Nel nostro Paese molti suggeriscono che si dovrebbe incrementare deliberatamente la disoccupazione, per poter disporre di uno strumento di pressione sugli operai. Questo farebbe aumentare la disciplina nelle fabbriche e stimolerebbe l’interesse per il buon funzionamento delle aziende”. L’operazione che Gorbacev ha in mente è quella di transitare il Paese dall’economia estensiva all’economia intensiva, cioè da un modello fondato sull’impiego massimo di manodopera a bassa qualifica o non qualificata e su un regime di bassa produttività, a un modello basato sull’applicazione al sistema produttivo della scienza e della tecnologia e sulla massima efficienza organizzativa. A questo scopo, nel ’90, viene fondata la NPS, l’Unione industriale e scientifica, che è composta dai quadri economici che dirigono le aziende e alla quale viene concessa una vasta autonomia nelle scelte organizzative e di mercato. Contemporaneamente Gorbacev propone la revisione dell’articolo 6 della Costituzione, quello che sancisce il ruolo guida del Pcus. Il partito deve cessare di essere il detentore del potere e le sue competenze devono essere distinte da quelle dello Stato. Al partito deve essere impedito di prendere decisioni in materie che riguardano l’impresa, la scuola, il quartiere. La gestione dell’agricoltura e dell’industria deve essere affidata all’autonomia delle imprese e alla libera contrattazione fra di loro. Le fondamenta del sistema devono poggiare sul lavoro e i salari devono essere regolati dalla produttività. Il parassitismo e le rendite di posizione vanno condannati e definitivamente banditi. La sfida che Gorbacev lancia al popolo sovietico è enorme. Egli lo invita ad eleggersi tutto e tutti, in ogni campo, a diventare protagonista del proprio futuro, a liberarsi della condizione di alienazione in cui si trova. Gli propone di superare la nozione di “dittatura del proletariato”, di governare il capitalismo di Stato con un sistema democratico di rappresentanza. E fa tutto questo consapevole che se con il comunismo queste innovazioni non hanno ancora nulla a che vedere, per una società socialista esse rappresentano una necessità irrinunciabile poiché il potere deve essere attribuito al popolo. La perestrojka però dà il via a processi del tutto incontrollabili. Le privatizzazioni e l’introduzione del libero mercato, secondo le teorie del governo, avrebbero dovuto avvenire in poco tempo (il programma dei “500 giorni”), ma così non è. Senza alcuna esperienza di economia capitalistica da parte di chi gestisce il potere, e dietro le errate sollecitazioni degli esperti economisti e finanziari americani e inglesi che non hanno conoscenza approfondita dell’economia sovietica, le misure introdotte anziché risolvere aggravano la situazione. La nuova dirigenza si è in sostanza illusa che le “virtù” del libero mercato potessero rimettere in sesto in un batter d’occhio un sistema che nel corso di settanta anni si è venuto consolidando su una statalizzazione senza limiti e sulla dittatura di una casta. Lo stesso Abel Aganbeghian, ispiratore e “guru” della perestroika, è costretto ad ammettere il fallimento della sperimentazione e suggerisce di aggiustare il tiro invocando limiti e gradualità nell’introduzione della proprietà privata. Gorbacev ha puntato su una sorta di contratto tra produttori e bisogni, impossibile da realizzare. Egli non ha presente che nella società capitalistica il mercato è una macchina che per funzionare ha bisogno di un carburante chiamato interesse, un fattore cioè incompatibile con i principi del socialismo, e che uno Stato collettivista, per stimolare l’attivismo e il senso di responsabilità di ogni suo membro, deve saper mettere in campo motivi e valori che prescindono dalla logica della monetizzazione, operazione questa che nell’Urss degli anni ’80 è praticamente improponibile senza che intervenga una rivoluzione culturale. La sua stessa proposizione di rinnovamento del sistema, del resto, oscilla tra un ritorno al patrimonio ideologico dell’ultimo Lenin (quel che lui definisce 339


“vero leninismo”) e un riformismo socialdemocratico impotente di fronte ai nodi del socialismo reale. Osserva Roy Medvedev: “L’azione di Gorbacev manifesta due grosse carenze: il sistema giuridico sovietico resta totalmente subordinato alle decisioni del partito; poi, appare chiara una grande arretratezza anche della nostra scienza storica. Suo compito era ed è quello di studiare scientificamente il corso degli eventi, l’analisi dei fatti e delle circostanze concrete. Nei fatti, tutte le opere storiche (o la gran parte di esse) pubblicate in questi decenni hanno taciuto sugli avvenimenti reali. Si sono create ampie ‘macchie bianche’”. Ecco dunque i limiti del riformismo gorbaceviano! Una teoria che ha evidenziato un dualismo irresolubile: mentre da un lato intendeva favorire il protagonismo delle imprese e dell’iniziativa privata, dall’altro si dichiarava indisponibile a rinunciare alla proprietà pubblica dei mezzi di produzione; mentre auspicava l’adozione di un pluralismo elettorale, ribadiva l’indispensabilità del partito unico; mentre si adoperava per garantire maggiori diritti al popolo, accentrava su se stesso, per decreto, la totalità dei poteri di governo diventando così un capo supremo ancora più potente di Stalin. Va ricordato inoltre, che i suoi progetti hanno incontrato l’opposizione oltre che di agguerriti avversari politici, anche di poderose forze sociali, prima fra tutte la maggioranza della classe operaia meno qualificata la quale ha stabilito un’alleanza di fatto con la burocrazia. Nell’89, in occasione di un incontro con gli scrittori, lui stesso denuncia che tra chi si oppone alla perestrojka vi è anche una considerevole parte dell’apparato di partito e dello Stato. Fra l’89 e il ’90 il conflitto tra il sistema e le esigenze dell’economia fa precipitare la situazione. L’agricoltura ristagna: rispetto alle 500 mila tonnellate di patate necessarie per l’inverno i moscoviti ne raccolgono solo 38 mila. La carenza di manodopera e di mezzi di trasporto in alcune zone del Paese compromettono un quinto dei raccolti. La mancanza di carburante e di pezzi di ricambio delle macchine causano disfunzioni nel sistema della distribuzione. Nei momenti di emergenza, per salvare le produzioni vengono impiegati addirittura gli uomini del Kgb. A Mosca e a Leningrado vengono introdotti i razionamenti di alcuni beni alimentari di base quali la carne, il burro, lo zucchero. La disintegrazione economica, aggravata dal permanere dell’embargo voluto dagli Stati occidentali, contribuisce all’avanzare della disgregazione politica. A quel punto a prevalere sono i particolarismi e le autarchie. Nessuno comanda più, nessuno obbedisce più, e mentre le posizioni si radicalizzano esplodono i nazionalismi. Lo scontro politico fra Eltsyn e Gorbacev segna la fine dell’Unione sovietica. La combinazione della perestrojka con la glasnost ha dunque prodotto la disintegrazione dell’autorità. I tentativi di democratizzazione e di modernizzazione si sono nei fatti dimostrati dei veri e propri fattori dirompenti che hanno portato alla disfatta un sistema ormai non più riformabile. E il togliere di mezzo da un giorno all’altro la dittatura di partito, come ha voluto fare Gorbacev, ha fatalmente portato al collasso l’intero Paese. Di fatto, egli ha distrutto ciò che intendeva riformare, non solo per non avere avuto chiare le strategie da adottare, ma anche per non aver compreso gli umori del popolo, per essersi dimostrato lontano dall’esperienza quotidiana e per non essere stato sufficientemente realista. Il processo che doveva rilanciare il comunismo mondiale si è trasformato nella dissoluzione del sistema socialista mondiale. 10.4 – La colonizzazione sovietica dell’Est europeo Nelle trattative internazionali intercorse durante e dopo il secondo conflitto mondiale, i Paesi europei nei quali l’Armata rossa ha sopraffatto le truppe naziste vengono unanimemente considerati zona di influenza dell’Unione sovietica. In Jugoslavia, invece, il potere viene conquistato dalle forze partigiane sotto la guida del maresciallo Tito e le truppe sovietiche hanno un ruolo di complemento. Ai governi che reggono questi Stati il Cremlino, violando i principi basilari del marxismo, impone l’adozione del regime socialista. In Cecoslovacchia la situazione si distingue da 340


quella degli altri Paesi, perché qui il Partito comunista vanta già di per sé una notevole forza elettorale (38% dei consensi) e condivide il governo con il Partito democratico. Nel ‘47, però, attraverso una sorta di colpo di Stato, i comunisti estromettono dall’esecutivo i democratici e instaurano la dittatura. Quarant’anni dopo Zdenek Mlynar commenta così quell’atto di forza: “In realtà non fu l’inizio delle trasformazioni socialiste nel Paese, bensì rappresentò un passo decisivo verso l’assunzione del sistema sovietico nella vita economica e sociale”. In Albania i comunisti vanno al governo nel ’44-‘45, in Romania e in Bulgaria nel ’46, in Polonia e in Ungheria nel ’47, nella Germania dell’Est la repubblica democratica viene proclamata nel ’49. Nei Paesi dell’Est europeo, dunque, il socialismo si realizza attraverso una rivoluzione condotta dall’alto e per importazione, e un simile anomalo andamento costituisce una delle ragioni per le quali i governi di questi Stati non hanno mai goduto di un esteso consenso dei rispettivi popoli, nonostante fossero conosciuti nel mondo come “democrazie popolari”. Un’altra ragione di questa condizione di disaffezione è dovuta al carattere dittatoriale dei regimi imposti. All’indomani della rottura con la Jugoslavia, avvenuta nel ’48, tutti questi Paesi, compresa la Cina, vengono isolati dall’esperienza autonomista che si compie nei Balcani e successivamente molti loro dirigenti finiscono sotto processo e condannati a morte o destituiti con l’accusa di titoismo. Vittime, tra gli altri, sono l’ungherese Làszlò Rajk, il bulgaro Traico Kostov, il cecoslovacco Rudolf Slansky, il polacco Wladislaw Gomulka, il rumeno Marcel Pauker e l’albanese Dzodze. Hans Modrow, presidente onorario del Pds tedesco, nel 2001, a riguardo dell’adesione dei tedeschi orientali al regime socialista, commenta: “Ci sono voluti lunghi decenni di cambiamenti all’interno della RDT, che hanno assunto carattere di riforma negli anni ’60, per suscitare, in parte significativa della popolazione, sentimenti di fedeltà nei confronti del socialismo”. Nel favorire il clima di repressione e di restringimento delle libertà democratiche contribuiscono ovviamente sia l’agitazione dei vecchi gruppi sociali spodestati sia, in alcuni Paesi, la resistenza passiva del mondo cattolico e delle residue forze di destra. Il regime di costrizione ha però anche lo scopo di impedire che vengano resi di pubblico dominio, e quindi provochino moti di rivolta, i gravi errori di gestione che vengono compiuti dagli stessi dirigenti staliniani e che comportano disastri per le comunità e persino taluni delitti perpetrati in nome del socialismo. Il livore e le ostilità di larghe fasce di questi popoli nei confronti dei sovietici e dello stesso socialismo sono da imputare proprio anche al verificarsi di simili costrizioni e angherie. In tutte le “democrazie popolari” viene da subito trapiantato il sistema di funzionamento dell’economia adottato in Urss all’inizio degli anni ’30. E pure laddove la rivoluzione ha avuto uno svolgimento autonomo, come in Jugoslavia (ma è anche il caso della Cina) viene importato lo stesso modello di sviluppo il quale, per i comunisti, assume una validità universale. Nella prima fase di vita di questi Paesi, i documenti programmatici dei partiti comunisti si limitano a preannunciare la nazionalizzazione dei mezzi di produzione dei settori chiave dell’industria e la collettivizzazione del settore agricolo. Il grado di sviluppo economico è però diverso da luogo a luogo e ogni Paese è costretto ad adattare le misure previste alla specificità della propria situazione. La Rdt e la Cecoslovacchia, per esempio, vantano una realtà industriale che è già in fase di transizione da uno sviluppo estensivo a una crescita intensiva che sta realizzandosi in forza dei rapporti capitalistici. Nella ridistribuzione del reddito nazionale per i consumi della popolazione, in Cecoslovacchia, il 65% è destinato ai lavoratori salariati, il 15,7% ai contadini, il 9,5% agli artigiani e ai liberi professionisti, il 4% agli impiegati e solo il 5,8% ai capitalisti e ai proprietari di terre. Si tratta di parametri che sono tipici di un Paese a sviluppo capitalistico e assai differenti da quelli delle altre realtà dell’Europa dell’Est. Questa diversità sta a significare che, se lo sviluppo dovesse essere lasciato alla gestione autonoma delle forze rivoluzionarie ceche, il modello di socialismo più consono da realizzare non corrisponderebbe di certo a quello imposto dai sovietici, e questo vale sia a riguardo del sistema economico che dell’ordine istituzionale. Ma lo spazio per una via specifica al socialismo è assai stretto e si restringe ancora di più, fino al punto di annullarsi, quando interviene la “guerra fredda”. Anche la Cecoslovacchia, nonostante le sue peculiarità, deve omologarsi alle tendenze degli altri Paesi. 341


Di conseguenza, la costruzione del socialismo nei Paesi dell’Est europeo non equivale a una libera manifestazione di volontà dei comunisti locali e delle popolazioni autoctone, ma si rivela come una violenza esterna esercitata su queste società. Allo scopo di mantenere uniti e coesi questi Paesi, nel ’49, viene fondato il Comecon (Consiglio di Mutua Assistenza Economica) le cui funzioni sono appunto quelle di garantire una pianificazione omogenea a livello internazionale. Nel complesso, la statalizzazione dei mezzi di produzione e l’adozione della pianificazione economica consentono di attingere a notevoli riserve di manodopera e di capacità produttiva, il che favorisce, almeno per i primi anni del decennio 1950-1960, un rapido sviluppo. Si tratta però di riserve umane destinate ad esaurirsi presto e a non riprodursi, e ciò induce le dirigenze locali a compiere esperimenti e tentare di percorrere itinerari differenti da quelli imposti dalla pianificazione centralizzata. Nella stessa Cecoslovacchia i metodi centralistico-burocratici si rivelano da subito inadeguati proprio a causa dell’esistenza di un alto livello di sviluppo delle forze produttive, e lo stato di costrizione imposto dai sovietici viene perciò forzato. Ma anche in Polonia, dove più forti sono le tradizioni e le resistenze al nuovo, la collettivizzazione dell’agricoltura viene sospesa e l’85% della terra rimane in mano ai privati. Subito dopo la morte di Stalin, nella generalità di questi Paesi si sviluppa e si intensifica in modo rapido un dibattito sul meccanismo economico che sottopone ad esame critico gli aspetti teorici riguardanti il rapporto tra piano e mercato nel sistema socialista. In Ungheria, tra il ’53 e il ‘55, durante la prima presidenza di Imre Nagy, ha luogo una ridistribuzione delle risorse a favore dell’agricoltura e dell’industria leggera: solo un terzo delle terre agricole viene collettivizzato, mentre gli indirizzi di politica economica subiscono significativi cambiamenti. Un filone della Scuola di Budapest (animata da Ferenc Fehér, Agnés Heller e Gyorgy Màrkus) elabora la teoria della “dittatura sui bisogni” che rifacendosi a Saint-Simon e Babeuf mette sotto critica la società del socialismo reale. All’indomani della destalinizzazione decretata da Chruscev nel ’56, a Poznan, in Polonia, avviene una rivolta operaia che impone ai sovietici la scarcerazione e il ritorno al potere dell’ex segretario comunista Gomulka. Quando in luglio il Comitato centrale del partito polacco approva l’idea di una riforma generale, nel Paese comincia a svilupparsi un processo spontaneo di cambiamenti dal basso e alcune imprese avviano una “sperimentazione” che ha come protagonisti i consigli operai elettivi. Una delle istanze più importanti avanzate dal movimento consiste nella richiesta che vengano aperte nuove fonti di informazione, sia per i governanti che per la società, mettendo in piedi autonome équipe di esperti con il compito di esprimere giudizi e proporre soluzioni. Poco dopo la sua ascesa al potere, nel tentativo di accogliere questa richiesta, Gomulka dà vita a un Consiglio economico quale organo consultivo del governo. In Ungheria il movimento di riforma si estende fino al punto di assumere carattere popolare. Alle sacrosante istanze di rinnovamento si accompagnano però i risentimenti e la rivolta di chi si oppone al sistema. Viene proclamato lo sciopero generale, ovunque si svolgono manifestazioni di protesta e si verificano anche scontri armati. I rivoltosi chiedono che rappresentanti degli insorti entrino nel governo e insistono sull’uscita dal Patto di Varsavia. I sovietici non tollerano oltre la situazione di caos che si è venuta a creare e contro la volontà del governo ungherese fanno intervenire i carri armati che soffocano nel sangue la rivolta popolare. Lo stesso Nagy viene destituito, incarcerato e dopo un processo sommario, nel ’58, assassinato. Quale ispiratrice del progetto di rinnovamento, la Scuola di Budapest sopravviverà alla brutale repressione; diventerà, anzi, celebre per l’ampiezza della sua ricerca critica sulle società dell’Est. Il fenomeno del comunismo riformistico nei Paesi dell’Europa orientale rappresenta un tentativo di andare oltre la diagnosi e i rimedi proposti dal XX congresso del Pcus e assume spessore politico sfruttando proprio gli spazi aperti dalla politica chrusceviana. Ma si tratta di un coraggioso processo che è destinato alla sconfitta. In Polonia, dove all’uso della forza viene preferito il ricorso alle minacce e alla repressione, la centralizzazione del potere viene presto ripristinata e i consigli operai 342


evirati. La nomenclatura di partito riconquista pienamente la sua posizione di gestore assoluto dell’amministrazione economica e civile del Paese. Ad avere un ruolo decisivo nell’opera di smantellamento degli spazi di democrazia conquistata dai movimenti sono gli stessi apparati sindacali i quali sono subordinati alle scelte dei governi. Nella seconda metà degli anni ’50 la normalizzazione viene imposta in tutti i Paesi satelliti dove dopo qualche tempo si registra una ripresa dello sviluppo economico. Questo ritorno alla normalità, però, non basta a interrompere la ricerca autonoma di soluzioni più appropriate alle specificità nazionali che in alcune realtà continua a essere portata avanti con stoica determinazione. Nel ’58, ad esempio, in Cecoslovacchia viene elaborata una bozza di “nuovo sistema di pianificazione e funzionamento per l’industria” e anche se i suoi obiettivi sono più limitati rispetto a quelli del passato, questo progetto costituisce il proseguimento di una contestazione strisciante alle imposizioni sovietiche. Alla fine degli anni ’50, quando esplode il dissidio tra l’Urss e la Cina, i rapporti nel movimento comunista internazionale si complicano. Dopo un periodo di divergenze e di diffidenze, le relazioni tra le due grandi potenze comuniste si fanno ostili, al punto di sfociare un decennio dopo in guerra aperta. Così come il marxismo ha dato vita a diverse interpretazioni del pensiero di Marx, le quali si sono alla fine scontrate fra di loro senza esclusione di colpi, anche il marxismo-leninismo di stampo moscovita si rivela un sistema che anziché unire, provoca divisioni e scontri letali. Dai dirigenti di Pechino i sovietici vengono definiti “socialimperialisti” e “nuovi zar”. Nei primi anni ’60, l’Albania, fedele seguace della linea cinese, si defila dal blocco sovietico rompendo una solidarietà che è più formale che sostanziale e gli stessi rapporti tra gli Stati del socialismo reale si complicano ulteriormente. Con i piani della prima metà degli anni ’60, nei Paesi del Comecon ha inizio una nuova fase contraddistinta da grandi investimenti nei settori industriali. Lo sviluppo economico assume un andamento omogeneo e i tassi di incremento del reddito si avvicinano a quelli dei Paesi capitalistici. Il grado di efficienza dell’economia però, specie nel settore della produttività del lavoro, resta basso e questo impedisce che vengano soddisfatte le diffuse richieste di aumento dei salari. Viene fatto il tentativo di compensare la debole crescita con un allargamento dell’occupazione in misura superiore alle previsioni dei piani, ma questo espediente non dà esiti positivi, anzi, provoca un crollo degli investimenti sociali che si ripercuote negativamente sulle stesse condizioni dei lavoratori. Mentre in Bulgaria e in Romania vengono varati programmi di riforma quasi omogenei, distinti in soli alcuni aspetti, negli altri Paesi si ritenta di percorrere, pur in modo cauto, strade differenti. In Polonia, in Cecoslovacchia e in Ungheria si concentrano gli sforzi su tre aspetti in particolare: 1) una parziale riabilitazione del mercato attraverso l’elaborazione e la sperimentazione di nuovi “modelli e meccanismi di economia socialista”; 2) la sperimentazione di una rivoluzione scientifica e tecnologica fondata sulla trasformazione qualitativa delle forze produttive; 3) la sostituzione della dizione “dittatura del proletariato” con la nozione “Stato del popolo” il cui proponimento è di elevare la quantità e la qualità dello sviluppo. Nel ‘60, in Polonia la popolazione agricola ammonta a 11 milioni di unità, a fronte di 26 milioni di abitanti, cifra all’incirca equivalente a quella di dieci anni prima. A prevalere sono le piccole imprese familiari, mentre le aziende di Stato coprono circa il 12% della superficie coltivabile e forniscono la metà dei cereali commercializzati. Nel restante 88% dei terreni, soltanto il 7% delle famiglie e l’1% delle terre fanno parte del settore socialista nella forma di cooperative di produzione che ricalcano il modello dei colcos sovietici. Nelle aziende agricole statali il grado di attività professionale è del 41%, mentre nelle aziende contadine è del 60%; questo sta a significare che nel settore privato si lavora di più, anche se a proprio vantaggio. Poiché predomina la piccola proprietà individuale o familiare, il settore produce in misura insufficiente rispetto alle esigenze alimentari del Paese. Le campagne non sono in grado di rifornire il mercato delle città la cui domanda è in continua crescita e gli stessi impegni del commercio estero, cioè l’esportazione di

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prodotti alimentari pregiati necessari a reperire valuta forte per finanziare gli investimenti industriali, vengono disattesi con gravi conseguenze sulla bilancia dei pagamenti. Nei settori industriale e terziario si registra un’insufficiente elasticità delle aziende statali e delle cooperative le quali lasciano abbondante spazio al capitale privato di inserirsi in settori nuovi e strategici nei quali è possibile conseguire lauti e rapidi guadagni. La situazione è aggravata anche da una cronica incapacità del sistema di controllare i redditi dell’iniziativa privata e di applicare conseguentemente un’efficiente politica tributaria. Pure nel secondario e nel terziario gli indici di produttività del lavoro sono molto bassi e mentre nelle aziende individuali si registra un accentuato spirito imprenditoriale, in quelle collettive statali l’impegno ristagna e l’iniziativa è carente. A tutto questo si aggiunge una cronica non curanza da parte delle stesse imprese dei meccanismi economici e sociali che regolano il sistema. Poiché il possesso dei soldi e dei beni immobiliari risulta più conveniente, gli investimenti tendono a calare, mentre ad aumentare è l’accumulazione privata. Mentre nel primo lustro degli anni ’60 l’incremento del reddito registra una lieve flessione rispetto al quinquennio precedente (dal 6,5% passa al 6,2%), nella seconda metà del decennio scende al 5,7%. Nelle città si verifica una penuria di abitazioni. I tentativi di riforma, in sostanza, non sortiscono gli effetti sperati. Uno degli aspetti problematici che non solo testimonia l’inefficacia delle misure prese, ma dimostra l’inidoneità del sistema sovietico a transitare queste società da uno sviluppo capitalistico o precapitalistico a un ordinamento autenticamente socialista, è costituito dalla condizione di chi lavora. L’ungherese Miklos Haraszti in un libro che è stato sponsorizzato dalla “Scuola di Budapest”, affronta il tema del lavoro e descrive le caratteristiche del modo di produzione nei Paesi dell’Est. In questo suo lavoro egli documenta come gli operai ungheresi e quelli delle altre “democrazie popolari” si dibattono nelle maglie del cottimo e sono sorvegliati da cronometristi, controllori della produttività e capireparto. La differenza con le condizioni di lavoro del mondo occidentale consiste semmai nel fatto che gli operai ungheresi incontrano molte più difficoltà dei loro colleghi d’Occidente nel mettere in causa la gerarchia di fabbrica e nel migliorare i livelli salariali che, come abbiamo visto, nei Paesi del socialismo reale sono largamente inferiori a quelli dei regimi capitalistici. Nel ’60, nella Repubblica democratica tedesca, il 68% degli operai della produzione lavorano a cottimo e larga parte della loro retribuzione viene calcolata in base alla misurazione del loro rendimento. Nel ’63 il governo approva le “direttive del nuovo sistema economico” che entra in vigore nel ’64. I nuovi criteri risultano fondati sul sistema della redditività in stretta relazione agli incentivi personali dei lavoratori. Alla metà degli anni ’60 viene introdotta la cosiddetta “organizzazione scientifica del lavoro” (Wao) e vengono consolidati i “salari a premio”. Con l’inizio degli anni ’70 la retribuzione viene calcolata secondo i criteri più moderni adottati dai sistemi capitalistici e cioè in base alla misurazione rigorosa del rendimento. I ritmi di lavoro vengono prestabiliti secondo il metodo Mtm (Methods time measurement). Un progetto questo che è stato definito dalla intellighenzia tecnico-scientifica e che esclude qualsiasi possibilità di critica da parte dei lavoratori. Come avviene nella fabbrica capitalistica, anche in quella del socialismo reale non è la tecnica ad essere adeguata ai bisogni umani, ma è l’uomo che viene obbligato ad adeguarsi alla tecnologia. Questo stato di costrizione e di alienazione genera un alto grado di insoddisfazione tra i lavoratori che lamentano condizioni di lavoro insopportabili. Inascoltati dal sindacato, il quale è più impegnato a garantire la realizzazione degli obiettivi stabiliti dal piano che a difendere i diritti del lavoratori, essi escogitano trucchi quotidiani per lavorare di meno e guadagnare di più. Nel momento del cronometraggio, ad esempio, rallentano coscientemente il lavoro, si mettono a lavorare lentamente e in maniera rigida rispettando in modo pedissequo il regolamento. E poiché nella Rdt c’è scarsità di forza lavoro, essi ricorrono alla minaccia dell’autolicenziamento come mezzo di pressione offensiva e di contrattazione. La maggior parte degli operai non partecipa all’iniziativa degli organismi di democrazia interna, perché considerati ininfluenti sulle decisioni e in genere le riunioni terminano senza dibattito. La 344


discussione sui problemi avviene invece fuori delle sedi ufficiali, durante le pause di lavoro e si trasformano in mugugno. I candidati alle strutture sindacali di fabbrica vengono scelti dagli organismi superiori in accordo con il partito e questo genera sfiducia e disinteresse tra i lavoratori. Anomia e inefficienza produttiva e programmatica sono dunque i cancri che corrodono non solo la Repubblica democratica tedesca, ma l’insieme dei Paesi del socialismo reale. Ad estirpali non bastano di certo le pseudo riforme che le dirigenze politiche ed economiche mettono in campo. Le crisi sono perciò ricorrenti. Difatti, con la sola eccezione dell’Ungheria, la seconda ondata di riforme varate nel decennio degli anni ’60 registra ovunque un fallimento. Identico destino avranno i tentativi successivi. E anche se a metà del decennio l’industrializzazione forzata produce risultati sociali ed economici importanti, questi non sono tali da far decollare il sistema. Avviene così che nel corso del grande boom del commercio internazionale, cioè quel periodo che Hobsbawm chiama “l’età dell’oro”, i Paesi dell’Est risultano isolati dall’Occidente; il loro commercio estero si esaurisce quasi del tutto entro i confini del Comecon, mentre solo il 4% delle esportazioni dei Paesi sviluppati varca la “cortina di ferro”. Le frontiere sono pressoché bloccate e lo stesso turismo è limitato e strettamente controllato. A fronte di questa situazione di stallo, alla fine degli anni ’60, in alcuni di questi Paesi cresce la spinta ad andare oltre le riforme chrusceviane e post- chrusceviane. Qua e là viene riproposta l’idea di un socialismo autonomo, con propri specifici meccanismi di autoriproduzione e cresce la spinta alla sperimentazione. Nella Germania orientale, a muoversi in questa direzione sono alcuni teorici della stessa Sed, in Ungheria viene lanciato il progetto di un “Nuovo meccanismo di mercato”, in Cecoslovacchia viene avviato un “nuovo corso”. Ma questi tentativi ed esperimenti vengono stroncati sul nascere dalla nomenclatura sovietica, a vincere, anche con l’ausilio dei carri armati, è la dottrina brezneviana che rappresenta la glorificazione di un capitalismo di Stato fossilizzato e ormai prossimo alla decomposizione. 10.5 – La “primavera di Praga” L’applicazione del modello sovietico di sviluppo economico alla situazione cecoslovacca, che è assai differente da quella russa, finisce col provocare profonde distorsioni nella struttura dell’industria e dell’agricoltura. Ne risulta un incremento massiccio del comparto siderurgico e metallurgico che, rispetto agli altri settori, assume dimensioni squilibrate, mentre scarsa attenzione viene data agli indici qualitativi e all’effettiva produttività del lavoro. Per rimediare a questi scompensi diviene necessario apportare delle riforme correttive. E’ da questa esigenza che, nel ’63, prende corpo la spinta riformista che alla fine del decennio, associata alla rivendicazione di partecipazione, si trasforma in movimento di massa. Nel ’68 viene così sperimentato il “nuovo corso” che rappresenta uno dei più significativi tentativi di realizzare un socialismo alternativo a quello sovietico. A preparare il terreno di quella che viene definita la “primavera dubcekiana” di Praga è l’elaborazione degli economisti Sik, Loebl, Lenard e Selucky raccolti attorno alla rivista “Nova Mysl”. I teorici di questo riformismo oppongono alle fondamenta “asiatiche” dello stalinismo un “modello europeo di socialismo” che porta in sé l’eredità positiva della civiltà occidentale. In “Economia, interessi, politica” (‘62) e in “Piano e mercato nel socialismo” (‘65), Ota Sik mette a punto le sue teorie sulla riforma dell’economia socialista insistendo sulla necessità che vengano sviluppati specifici rapporti di mercato e siano estesi i diritti delle unità produttive. Egli documenta come lo sviluppo estensivo in Cecoslovacchia sia caratterizzato “da un impiego di materiali relativamente alto, da un uso inefficiente degli impianti e del macchinario, da un aumento sproporzionato dei costi d’investimento, da un rallentamento della produttività del lavoro, da una flessione nell’incremento del reddito nazionale più accentuata di quella del prodotto globale. Espressione di tale andamento è stata l’ascesa dei costi di produzione globale più rapida di quella della produzione sociale. Lo sviluppo estensivo determina investimenti inutili, spreco di materiali, il

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ristagno tecnico, l’arretratezza dei servizi, il ritardo della ricerca scientifica, nell’istruzione, ecc…. limita l’indipendenza delle imprese e impedisce il libero sviluppo della loro iniziativa”. Sik enuncia poi alcune leggi fondamentali di cui occorre tener conto nella pianificazione e cioè: espansione dei valori d’uso, in modo che i bisogni della società siano qualitativamente soddisfatti e che nuovi bisogni siano creati dall’offerta di nuovi prodotti; corrispondenza della quantità dei valori d’uso prodotti al bisogno reale di essi; parallelo inserimento della produzione dei valori d’uso e della produttività del lavoro; impiego della produzione sociale per il consumo finale e per il suo incremento. A suo giudizio, occorre fare in modo che gli interessi dei produttori siano in rapporto con gli interessi dei consumatori e che le decisioni prese nella produzione siano percepite immediatamente come tendenti a stimolare il consumo. Nel sistema imperativo di pianificazione non esiste invece alcun rapporto logico tra valore d’uso e valore. Sik ritiene che il principale pericolo per l’economia socialista nella sua lotta contro il capitalismo non sia affatto rappresentato dal sistema di direzione fondato sui principi economici e sull’utilizzazione di tutti gli incentivi economici socialisti, ma invece dal sistema burocratico amministrativo. Oltre agli economisti, anche gli intellettuali spingono per le riforme. Il IV congresso degli scrittori sostiene la tesi della necessità della creazione di un “nuovo corso”. Non approvando questa loro presa di posizione, il Partito comunista giunge al punto di espellere dalle sue file alcuni di loro e di impedire allo stesso congresso di eleggere gli organismi dirigenti dell’Unione degli scrittori. E mentre nel Paese si intensificano le manifestazioni studentesche, nel comitato centrale del partito si apre lo scontro politico il quale porta alla estromissione del leader filo sovietico Antonin Novotny e alla nomina di segretario del partito del riformista Alexander Dubcek. Il nuovo corso si propone di affrontare i problemi non soltanto dello sviluppo economico e del miglioramento delle capacità di direzione di decine di migliaia di quadri, ma anche quelli relativi alla loro gestione democratica. Gli obiettivi della nuova leadership consistono, infatti, nella realizzazione dell’autogestione sociale, nell’attuazione dello Stato federale, nella elezione degli organi rappresentativi dello Stato a livello federale, nazionale e locale e nella elaborazione di una nuova costituzione. La “primavera di Praga” nasce, in sostanza, sulla base di un organico progetto teso a superare le strutture istituzionali determinate storicamente dallo stalinismo, nonché la sua ideologia. Il suo carattere dirompente sta proprio nell’evidenziare il legame oggettivo che esiste fra la rinascita economica e la trasformazione politica. Dubcek e il nuovo gruppo dirigente comunista cecoslovacco, mantenendosi fedeli al marxismoleninismo, si propongono un rinnovamento del socialismo; vogliono che esso abbia un “volto umano”, gli vogliono restituire l’anima che è stata soffocata, cioè la “democrazia socialista”. Il loro progetto non è, come gli stalinisti temono, un ritorno al parlamentarismo democratico liberale, ma è la realizzazione di una pluralità politica entro i limiti del potere unico del proletariato. Essi intendono rivitalizzare i sindacati, organizzare i consumatori, riformare la gestione del sistema delle imprese, incentivare il rendimento, responsabilizzare i dirigenti. Il dibattito che essi aprono sull’autogestione chiama in causa la teoria della “produzione socialista di beni di consumo” e le riforme che propugnano sono fondate su di essa. La maggiore autonomia che essi intendono attribuire alle imprese, nel contesto di un nuovo sistema di pianificazione, presuppone un deciso spostamento del potere decisionale dal centro alla periferia. In discussione è il modello centralizzato che viene considerato la causa fondamentale dello stato di crisi. Il funzionamento dell’economia socialista che essi prospettano è una sintesi di piano e mercato. Perché tutto questo possa essere realizzato, occorre però stimolare l’elaborazione scientifica, abolire la censura, garantire libertà di stampa e di organizzazione e sollecitare la creatività del popolo.

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Alla base del progetto riformatore cecoslovacco c’è un interrogativo che viene riproposto in continuazione e al quale si tenta di dare una risposta. Esso è: “Quali sono le vie per emancipare l’uomo e accrescere il suo grado di libertà?”. Con l’avvio del nuovo corso questi propositi incominciano a materializzarsi e si assiste a una straordinaria fioritura di organizzazioni politiche non comuniste che diventano protagoniste del processo di cambiamento. Per l’elaborazione del programma vengono utilizzate indagini sociologiche condotte in centinaia e centinaia di organizzazioni le quali mettono a nudo insufficienze e problemi. In numerose grandi aziende si costituiscono i consigli dei lavoratori quali organi dell’autogestione dei produttori. Motore di questa esplosione democratica è lo stesso Partito comunista il cui segretario del comitato centrale, Cestmìr Cìsar, afferma solennemente: “Siamo profondamente certi che la responsabilità politica del Pc consista nella elaborazione del programma, nel promuoverne l’approvazione e la realizzazione da parte di tutta la società… La causa fondamentale della profonda crisi che attraversiamo va ricercata nel contrasto da lungo tempo esistente tra il sistema di direzione politico-economica e la dinamica delle esigenze sociali che tale sistema non era in grado di abbracciare né di soddisfare. Questo contrasto si manifestava attraverso, da un lato, l’incapacità di coloro che fino a poco tempo fa dirigevano e, dall’altro, il malcontento, la passività e l’indifferenza di coloro che venivano diretti… (Noi comunisti), una forza di circa 1.700.000 militanti… creeremo le condizioni per lo sviluppo dell’attività creativa di tutte le forze socialiste e democratiche che si trovano al di fuori del Pc, riunite nel tradizionale Fronte nazionale”. E l’intellettuale slovacco Miroslav Kusy assicura: “Lo stadio attuale del rinnovamento antidogmatico del marxismo sta facendo un ulteriore passo avanti; si tratta di un riesame teorico che investe i principi su cui poggia…. Non ci sono punti di partenza teorici santificati, intoccabili… Il marxismo non si fa impegnare in una discussione solo per ammaestrare gli altri, ma anche per vedere le proprie debolezze… Esso stesso è sorto per aver accolto in sé tutta l’eredità filosofica dei propri predecessori, dopo averla trasvalutata ed elaborata in conformità al proprio sistema”. Il dogmatismo viene dunque messo al bando e tra il partito e il popolo si realizza una unità tanto profonda e sincera che mai si era vista nella storia recente del movimento operaio internazionale. I risultati economici dei primi mesi superano tutti gli incrementi registrati nel passato e il ritmo di crescita del reddito nazionale è sorprendente. Con il nuovo corso cecoslovacco il socialismo si presenta agli occhi del mondo come il sistema che non soltanto libera l’uomo dallo sfruttamento di classe, ma gli garantisce la piena valorizzazione della personalità nello sforzo collegiale di migliorare le condizioni della propria esistenza. L’idea però che il partito comunista si apra alla società e sottoponga al controllo dal basso le sue scelte politiche, non risulta affatto gradita alla nomenclatura sovietica e nemmeno alle dirigenze di alcuni Paesi dell’Est europeo (Repubblica democratica tedesca e Polonia, in particolare). I riformatori cecoslovacchi insegnano alla gente a pensare e questo genera molte preoccupazioni in chi ha la delega del comando. Ad aggravare la situazione intervengono poi le informazioni intenzionalmente deformate, esagerate, artefatte inviate in Urss da quegli stessi dirigenti cecoslovacchi la cui storia è legata agli errori del passato e i quali, con il nuovo corso, rischiano di perdere la loro posizione di potere. In agosto, dopo che Dubcek si è detto convinto che il Pcus avrebbe approvato le deliberazioni prese dagli organismi dirigenti del Pcc, di fronte al verificarsi di alcune manifestazioni di destra, le forze armate del Patto di Varsavia, contro il parere del partito e del governo cecoslovacchi, entrano nel Paese e lo pongono in stato d’assedio. L’intervento armato non è un’azione di tutto il Patto di Varsavia, poiché ad esso non partecipano le forze militari di Cecoslovacchia e di Romania. Dubcek viene arrestato, portato a Mosca e costretto all’autocritica. Sulla “Pravda” I.Sidelnikov scrive: “All’intensificarsi dell’attività della controrivoluzione ha contribuito il fatto che nelle file stesse del Partito Comunista Cecoslovacco si annidavano elementi revisionisti di destra, i cui capi erano di fatto collegati con le forze controrivoluzionarie”. 347


In realtà, Mosca considera il nuovo corso una minaccia alla sicurezza del socialismo reale perché toglie il potere dalle mani dei burocrati e lo distribuisce alla società civile. Durante l’occupazione dei carri armati sovietici si svolge il XIV congresso del Pcc. L’assise viene convocata nei locali dell’impresa Vysocany situata in un quartiere di Praga e a garantirle protezione sono i picchetti operai, a testimonianza del saldo rapporto che è venuto instaurandosi tra il partito e la massa dei lavoratori. Nell’apparato comunista però crescono le pressioni interne ed esterne perché la politica di rinascita venga abbandonata. Ha così inizio la manovra tesa a dividere le dirigenze e a rimettere in discussione la linea politica decisa all’unanimità. Come la storia insegna, in simili situazioni, la coerenza diventa una virtù dei pochi, alla maggior parte degli stessi artefici della “primavera” risulta più facile essere iscritti al partito che essere comunisti, più conveniente stare in silenzio, essere passivi e obbedienti, piuttosto che attivi e impegnati. Quella che era la maggioranza si trasforma così in minoranza e la volontà di rinnovamento viene sopraffatta dalla restaurazione. Nel corso dell’invasione dei carri armati “rossi” perdono la vita 70 cecoslovacchi. Nel Partito comunista avvengono 468 mila espulsioni, gli istituti scientifici preposti alle riforme vengono sciolti, migliaia di professori universitari, giornalisti, registi e artisti vengono privati del posto di lavoro. Dopo alcuni mesi, Dubcek viene sollevato dall’incarico di primo segretario e successivamente degradato a inutile ambasciatore in Turchia. Nelle sue memorie ricorderà: “La notizia della mia espulsione fu data dalla stampa quotidiana nel 1970. Poi sono stato espulso anche dal sindacato. Di formazione sono un fabbro meccanico, così ho lavorato come addetto alla meccanizzazione in un’azienda forestale. Prima di andare in pensione sono stato anche in officina. E’ un bel lavoro. Alcuni affermano che è molto sporco. Ma è uno ‘sporco pulito’”. Quando Praga è invasa dai carri armati sovietici, il sociologo Victor Zaslavski svolge una indagine sull’atteggiamento degli operai russi di fronte a quel drammatico avvenimento. Il risultato è che ad approvare la decisione del Cremlino di far intervenire la forza per stroncare il nuovo corso sono il 76% degli intervistati, solo il 15% si dichiara contrario, mentre il 9% si astiene dall’esprimersi. Il dato consolante è che a dichiararsi contrari o indecisi sono più della metà degli operai con meno di 20 anni. Anche le nuove generazioni che vivono all’ombra del Cremlino danno segno di non essere più in sintonia con i tradizionali metodi di gestione del potere. E’ da osservare che il nuovo corso cecoslovacco ha potuto essere interrotto dall’arbitrio di una classe dirigente ottusa anche a causa dei suoi stessi limiti, delle sue debolezze teoriche prima ancora che pratiche. Rossana Rossanda e K.S. Karol, che pure difendono a spada tratta l’esperimento cecoslovacco, esprimono giustamente un dubbio di fondo sui contenuti della “primavera di Praga” e sulle sue prospettive di sopravvivenza prima ancora che intervengano i carri armati a stroncarla. E a parer mio lo fanno con cognizione di causa. Il nuovo corso (ma questa riflessione critica vale per l’insieme delle elaborazioni e delle sperimentazioni nel segno del rinnovamento compiute in tutti i Paesi del socialismo reale) presenta, a loro avviso, carenze e insufficienze tali da esporlo oggettivamente al rischio di fallimento. In primo luogo esso manca di un’approfondita analisi della realtà socio economica e di un esame speculare dei soggetti sociali, in particolare, dei consigli operai cui è attribuita la gestione del sistema economico-produttivo e dei meccanismi che lo regolano. L’intendimento dei suoi promotori non è, infatti, quello – come in molti in Occidente hanno interpretato e creduto – di un semplice ritorno progressivo al mercato capitalistico, ma la ricerca di un nuovo rapporto tra produzione di beni e bisogni sociali; non mira semplicemente alla razionalità e all’efficienza dell’assetto produttivo esistente, ma si propone di rendere gli stessi cittadini gestori di tutti i settori della società, invoca cioè la socializzazione. Ebbene, un simile progetto per essere realizzato ha necessariamente bisogno di una teoria scientifica che contempli il passaggio dall’economia politica capitalistica, sui cui postulati è stata costruita la struttura del socialismo reale, a un inedito modo di produrre e di consumare. Questa teoria, purtroppo, non viene messa in campo dagli economisti cecoslovacchi e una tale assenza fa sì che il loro progetto di cambiamento manchi del presupposto fondamentale per essere concretizzato. C’è motivo di dubitare che a questo riguardo esistesse piena consapevolezza 348


nella leadership politica del nuovo corso, a partire dallo stesso Dubcek. Mancando questa capacità di superare gli schemi dell’economia politica, è inevitabile che ogni intervento non rappresenti un’alternativa al sistema esistente, ma costituisca al massimo un semplice aggiustamento e miglioramento dello stesso. Oltre a questo limite è da rilevare che il processo di rinnovamento è posto sotto la guida e il controllo del partito comunista cecoslovacco nell’ambito della dottrina del XX congresso (Dubcek non può del resto fare altrimenti se intende conquistarsi il benestare del Cremlino) e questo condizionamento stride con le stesse proclamate ambizioni di instaurare la democrazia. Per di più, i cecoslovacchi hanno la presunzione di compiere un tale processo di cambiamento in piena solitudine. Seppure esistano altri Paesi del socialismo reale che sono impegnati nella ricerca di nuove vie autonome (Jugoslavia, Cina, Romania) e con i quali potrebbero stabilire un’alleanza e mettere così in difficoltà i sovietici, coinvolgendo al tempo stesso nell’impresa i partiti comunisti occidentali, essi preferiscono “far da sé”, ripetendo così le tragiche esperienze di Ungheria e Polonia. Una diecina circa di anni dopo, 300 intellettuali cecoslovacchi danno vita al movimento di “Charta 77”, testimoniando che il dissenso e il protagonismo sociale non può essere eliminato nemmeno con la forza dei carri armati. Questo movimento, però, non ha le pretese dei fautori del nuovo corso, poiché si limita ad avanzare rivendicazioni che quasi due secoli prima erano state formulate dalla borghesia francese: libertà di espressione e diritti umani. Solo con l’avvento al potere di Gorbacev in Urss e con l’affermarsi della “perestrojka” e della “glasnost”, riprende piede in Cecoslovacchia la speranza di poter cambiare le cose. Ma anche in questa circostanza le aspirazioni di fondo del nuovo corso e il programma di riforme di Dubcek si rivelano un patrimonio relegato alla memoria di pochi. Eppure, quel tentativo di dare un “volto umano” al socialismo reale rappresenta una delle pagine più affascinanti della storia del movimento comunista. Si tratta di un’esperienza che non può essere dimenticata, ma che anzi deve servire da pietra miliare nel lungo cammino dell’emancipazione umana. A vent’anni dalla “primavera di Praga”, Alexander Dubcek, ormai quasi dimenticato dal mondo e costretto a vivere nella condizione di un qualsiasi semplice lavoratore, così ripropone il suo credo di comunista: “Sono convinto da sempre che il socialismo può e deve essere quell’ordinamento sociopolitico, economico e culturale capace di comprendere nel modo più pieno e totale e soddisfare i bisogni e gli interessi della classe operaia e degli strati più larghi di lavoratori, delle nazioni. Al centro deve avere il massimo di umanesimo, eticità e moralità. La storia di diversi Paesi socialisti ci dice che le crisi economiche e politiche sono possibili in queste società. L’esperienza della costruzione del socialismo ci conferma che la semplice presa di possesso dei mezzi di produzione fondamentali non significa di per sé una loro socializzazione e che sono necessari mutamenti sociali ed economici e riforme capaci di armonizzare la trasformazione dei rapporti produttivi con le forze produttive. La nostra pianificazione aveva separato nettamente i valori, la legge del valore agiva, ma non regolava, non divenne una norma in grado di unificare bisogni sociali e produzione. La sottovalutazione dei rapporti mercantili-monetari e del mercato ha avuto certo un peso, ma è stata solo una conseguenza e non una causa. E’ questa storia concreta a smentire la teoria che nel socialismo non ci sia conflitto fra interessi sociali e interessi individuali. Questa contraddizione agisce e non è possibile, semplicemente, ignorarla. Quando si scalza la democrazia interna, nel partito si paralizza la creatività che deve essere base della sua azione. Chi non ha visto, saputo, vissuto, sentito, difficilmente può capire quale forza morale e ideale avesse cominciato a mutarsi in forza materiale. E’ proprio questa forza che un partito di tipo nuovo deve alimentare in continuazione con un programma forte e convincente”. Solo se si è disposti a un’autocritica così impietosa e se si è animati da un autentico spirito di innovazione sociale e da una volontà democratica, come quella manifestata dal leader del nuovo 349


corso cecoslovacco, diventa possibile indicare all’umanità nuovi percorsi e nuove mete di progresso. 10.6 – La dissoluzione del socialismo reale Se fino alla fine degli anni ’50 tra i Paesi dell’Est europeo (fatta ovviamente eccezione della Jugoslavia di Tito) regna un clima di concordia fondato su una struttura ideologico-organizzativa unitaria e tutti i documenti di Stato vengono sottoscritti all’unanimità, con gli anni ’60 i rapporti fra le loro dirigenze politiche cominciano a essere caratterizzati da divergenze, tensioni e addirittura da scismi. Alla base delle discordie non ci sono solo gli errori e i ritardi che l’edificazione del socialismo incontra nelle singole realtà, ma a questi si aggiungono le contraddizioni del sistema, quello ereditato da Stalin, e che la leadership di Chruscev, pur criticandolo, si dimostra incapace di modificare e superare e riversa questa impotenza sugli Stati satelliti. Il persistere dei vecchi mali finisce per rendere queste società dense di scompensi e di squilibri provocando insofferenze popolari e rivalità nazionaliste. A imperare è la burocrazia la quale assolve al ruolo di supremo regolatore e controllore dei rapporti sociali imponendo alla società civile censure e violenze. La politica degli interessi statali finisce per prevalere sullo spirito internazionalista, cioè sui principi di solidarietà e di fratellanza fra i popoli che vengono relegati alla retorica. Alla fine degli anni ’60, difatti, tra l’Urss e la Cina si scatena non solo una feroce disputa ideologica, ma si apre addirittura un vera e propria contesa territoriale che sfocia in guerra aperta sui fiumi Ussuri e Amur. L’Unione sovietica ha ormai da tempo cessato di sostenere le insurrezioni, poiché mettono in discussione lo status quo, e si limita a sfruttare le congiunture favorevoli al consolidamento del proprio potere nazionale. Essa è il maggiore importatore di prodotti argentini da quando in quel Paese c’è al potere la giunta militare e blocca ogni azione di condanna da parte delle Nazioni unite delle violazioni dei diritti dell’uomo compiuti dalla stessa giunta. Altrettanto fa il governo cinese che per le importazioni di rame sceglie come fornitore il Cile di Pinochet. Alla fine degli anni ’70, Andre Gunder Frank così commenta questo processo d’involuzione: “Una crisi nell’Occidente e dell’Occidente, che una volta era vista come un fatto positivo (e ancora oggi in via di principio) oggi viene considerata nei Paesi socialisti come un fatto decisamente pericoloso, proprio per via della crescente integrazione e dipendenza dal mercato del mondo capitalistico e dalla sua divisione del lavoro. La leader-ship politica è stretta tra l’inflazione importata dall’Occidente e la ridotta capacità di quelle economie di sostenere il commercio con l’estero attraverso le esportazioni verso l’Occidente, per via delle restrizioni nella domanda generate dalla crisi economica. Un risultato di questa situazione è che il debito estero dell’Unione sovietica e dell’Europa orientale verso l’Occidente è salito da alcuni miliardi di dollari nel ’72 a circa 50 miliardi di dollari nel ’78”. E’ in queste condizioni che il mondo del socialismo reale affronta il processo di globalizzazione determinato dal capitalismo. Nonostante le economie dei Paesi dell’Est siano controllate dall’Unione sovietica che dispone delle necessarie risorse petrolifere, anche loro si ritrovano danneggiati dalla crisi energetica del ‘73. A creare loro lo stato di difficoltà sono i legami che hanno con il mercato mondiale e, non ultimo, il pesante indebitamento verso l’Occidente, in specie con l’Europa. La Polonia e la Romania si rivelano addirittura incapaci di pagare gli interessi dei debiti contratti. Il caso della Polonia è estremamente significativo del travaglio che investe questi Paesi nel momento in cui le leggi del libero mercato mondiale premono sulle loro anchilosate economie. Come abbiamo visto, è da anni che anche in Polonia viene emergendo una volontà di razionalizzazione del sistema. Nel ’70, con l’arrivo di Gierek al potere si registrano alcuni positivi risultati. Le misure prese dal nuovo segretario del Poup puntano su uno sviluppo selettivo di alcuni settori industriali che dovrebbe assicurare la competitività sui mercati esteri, socialisti e non. La sfera politico-istituzionale, però, è lasciata intatta, il che mortifica la spinta dal basso verso un 350


mutamento qualitativo profondo. Il rapporto fra partito e società, fra direzione centralizzata e autogestione della produzione, è dominato dai vecchi condizionamenti. Emerge l’incapacità e la non volontà del partito di creare un’autentica base di massa per la gestione delle riforme di cui il Paese ha bisogno al fine di rendersi competitivo sui mercati internazionali e migliorare le condizioni sociali della popolazione. A metà degli anni ’70, a seguito del grande sciopero spontaneo dei lavoratori polacchi contro l’aumento dei prezzi, nasce il Kor, un comitato d’azione sociale che, nel ’78, sul suo organo di stampa il “Robotnik, l’operaio” (tiratura di 15 mila copie), pubblica un documento di analisi e di proposta riguardante lo stato del regime. In questo pamphlet viene denunciato che “sul mercato non manca solo la carne, ma la maggior parte dei prodotti. Non si può comprare pressoché niente senza fare la fila e, spesso, senza raccomandazioni o mafie… Pessima organizzazione del lavoro e pessimo approvvigionamento delle materie prime… Il ventaglio salariale comprende 15 livelli…. Si assiste a una crescita delle differenze sociali… La costruzione di case è molto in ritardo rispetto ai bisogni della popolazione… e gli affitti sono alti, accessibili solo se in famiglia lavorano due o tre persone… Si registra una crescita allarmante del consumo di alcool, tra il ’71 e il ’76 l’aumento è stato del 64%... Gli autisti, ma anche i minatori e i lavoratori edili, lavorano spesso dieci e anche dodici ore al giorno… La corruzione regna nell’apparato amministrativo centrale”. Viene ricordato poi che “la Polonia è uno dei Paesi dell’Est più indebitati con l’Occidente capitalistico.... Nel ’77 il debito estero è arrivato a 15 miliardi di dollari, la metà del reddito nazionale annuo”. E che “i comitati del partito garantiscono uno statuto sociale di impunità al direttore-dirigente e coprono la sua attività, anche quando si discosta dal piano o dalla legalità… Esistono gruppi di pressione, vere e proprie lobby, che agiscono e si servono di funzionari devoti, per portare avanti le proprie rivendicazioni. Si dovrebbe permettere, almeno in campo economico, lo sviluppo di un dibattito, a cui partecipino esperti indipendenti e uomini che conoscono le situazioni nella loro concretezza (ma così non è)… Si pubblica solo propaganda ufficiale e non si lascia alcuno spazio alla descrizione della realtà vissuta dai polacchi”. Infine, il Kor suggerisce come rimedi: “l’instaurazione di un voto preferenziale in modo che ciascuno si pronunci sui candidati che figurano sulla lista ufficiale e l’inserimento – in numero limitato – su questa lista di candidati indicati dal basso; il sindacato deve essere democratizzato. E’ urgente creare comitati di impresa, non soltanto in tutte le fabbriche, ma anche nelle scuole e nelle università e in tutti i luoghi di lavoro; i salari non si possono aumentare se non moderatamente a causa dell’indebitamento del Paese. Il ventaglio salariale dovrà essere ridotto da 15 a 6 livelli”. E si precisa che “soltanto l’aumento della produttività potrebbe assicurare un tasso di crescita soddisfacente”. Poi si dovrà “ridurre drasticamente la speculazione nel settore edilizio”. La situazione negli altri Paesi dell’Est europeo non è molto diversa da quella della Polonia. L’economia della Germania orientale è un gigantesco bluff. Le statistiche che vengono rese pubbliche non solo altro che uno strumento della “guerra fredda”. In esse, infatti, figura che nelle fabbriche tedesche orientali sono in funzione 17 mila robot, ma la definizione di robot è diversa da quella impiegata nelle analisi dell’Onu. Gli impianti automatizzati effettivamente operanti sono circa un migliaio. La condizione di lavoro è talmente pesante che, alla fine degli anni ’70, i lavoratori cercano di fuggire dal lavoro turnificato e dalla catena cambiando azienda o professione. In alcune fabbriche, ogni quattro operai c’è un guardiano. Anche l’operaio delle Rdt si oppone all’installazione degli strumenti di controllo. Si verifica altresì un incredibile disordine e spreco dei più preziosi materiali e delle più costose attrezzature. Poiché c’è scarsità di forza lavoro, gli operai ricorrono all’uso della minaccia dell’autolicenziamento come mezzo di pressione offensiva. Rallentano coscientemente il lavoro, mercanteggiano le norme e il taglio dei tempi e con gli straordinari si assicurano vantaggi salariali. Per il salario e per l’approvvigionamento dei beni di consumo ricorrono anche allo sciopero. Soltanto una piccola parte della classe operaia è convinta di avere reali poteri di partecipazione alle 351


decisioni dell’azienda. La richiesta di un maggior potere di partecipazione riguarda soprattutto le decisioni economiche del rispettivo reparto. La maggior parte non partecipa all’iniziativa degli organismi di democrazia diretta. L’atteggiamento prevalente è quello della rassegnazione e dell’apatia. A queste gravose condizioni di lavoro si aggiunge un insoddisfacente status sociale che è contraddistinto da una inaccettabile restrizione dei diritti civili e della libertà di parola e di organizzazione. Basti ricordare che la Stasi, cioè la polizia politica, vanta al suo servizio 93 mila dipendenti a tempo pieno e 173 mila “spioni” non ufficiali; che la convivenza civile è guastata da una diffusa pratica della delazione e che il detenuto politico è tenuto in condizioni di annientamento psicologico. Centinaia, forse migliaia di bambini, figli di persone considerate “sbandate”, come le prostitute, o chi ha contatti con persone residenti in Occidente (e per questo vengono sospettate di essere degli oppositori), sono sottratti alla potestà dei genitori, dichiarati “asociali”, e vengono fatti adottare da altre famiglie. Metodi analoghi contraddistinguono gli altri Paesi del socialismo reale. In Ungheria, Gyorgy Konràd e Itszvàa Szelényi, appartenenti alla Scuola di Budapest, sentendosi sorvegliati persino quando si trovano nel loro rifugio, confessano che ogni notte sotterrano nel loro giardino il manoscritto che stanno scrivendo e che denuncia la loro pesante condizione di vita, in maniera che esso non venga trovato in caso di perquisizione. Un regime che tratta in questo modo le persone può forse considerarsi una società libera e ugualitaria e nella quale il potere è prerogativa del proletariato? E’ chiaro che una situazione del genere non può reggere a lungo, né dal punto di vista economico né da quello politico. Nel 1980 l’indebitamento della Polonia raggiunge livelli colossali. Nelle scuole si fanno cinque ore di lingua e letteratura russa e la gente non impara nulla poiché scatta il rifiuto istintivo nei confronti della russificazione. I consigli operai, nati sull’onda della spinta al rinnovamento del ’56, subiscono un ulteriore arresto nel loro sviluppo. I sindacati operai vengono incapsulati in una politica di gestione degli obiettivi del piano che li rende corresponsabili dei pessimi risultati e mantenuti di fatto estranei alla elaborazione delle grandi scelte di sviluppo dell’economia. La loro credibilità fra le masse è ridotta a zero quando gli operai di Stettino e Danzica si ribellano al regime. Essi eleggono dei comitati di sciopero che sono formati da iscritti e non iscritti al partito, i quali si sostituiscono di fatto ai sindacati, e impongono la trattativa diretta con la direzione aziendale e con i dirigenti di partito sulle questioni economiche e politiche, assumendo così la rappresentanza dei lavoratori. Il Partito comunista è allo sbando. Ben un milione e mezzo di iscritti lo abbandonano per confluire in Solidarnosc che è forte di 10 milioni di militanti. Nei 21 punti che questo sindacato, guidato dal cattolico Lech Walesa, propone per la trattativa, ai primi posti si trovano il diritto di sciopero, la piena libertà sindacale, la soppressione della censura, la liberazione dei prigionieri politici e la diffusione via radio delle messe domenicali. All’entrata dei cantieri di Danzica su uno striscione domina la scritta: “Si al socialismo, no alle sue deformazioni”. A soffiare sul fuoco della ribellione contribuisce anche il papa polacco Karol Wojtyla, sostenuto nella sua azione dalla Cia americana. I lavoratori polacchi vengono così incitati alla lotta contro la direzione del partito comunista e in tutto il Paese si diffonde un intenso sentimento antisocialista e antisovietico. La situazione si fa esplosiva, e non solo in Polonia, quando Gorbacev attua in Urss la “perestrojka” e la “glasnost”. Il dissidente cecoslovacco Jirj Pelikan ha sostenuto che sarebbe sbagliato vedere le rivoluzioni democratiche del ‘89 come un risultato voluto dal leader sovietico, poiché questi intendeva riformare il socialismo senza mettere in discussione la proprietà collettiva dei grandi mezzi di produzione e il ruolo dirigente del partito comunista. Che però l’azione di Gorbacev sia risultata devastante per quel mondo e un dato innegabile. Non va dimenticato che l’ultimo inquilino sovietico del Cremlino ha più volte rimproverato Honecher, segretario generale del partito tedesco, 352


per aver ordinato di fare fuoco lungo il confine della Rdt e che due anni prima della caduta del “muro” ha dato il consenso al Kgb di mettere a punto un piano per rovesciarlo. Egli non ha contrastato i tentativi di riforma nei Paesi del blocco, ma li ha sostenuti e incitati. Come ha fatto osservare giustamente il polacco Mieczyslaw Rakowski, il punto è che “l’ideologia socialista nella vita (delle società dell’Est) ha perso la sua attrattiva. Le ragioni sono molte. Fra le altre, c’è la fossilizzazione della teoria e della prassi… Con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione.. la giovane generazione associa l’idea di progresso soprattutto con il livello tecnologico esibito dai Paesi a capitalismo avanzato. Il socialismo è arrivato a un punto di svolta storico: o trova in se stesso sufficienti forze creative, coraggio e fantasia, per liberarsi dalle idee che oggi non sono più utilizzabili e dai giudizi antiquati; o si condanna da solo a una lenta agonia”: requisiti, questi indicati da Rakowski, che il socialismo reale ha dimostrato di aver esaurito. Più nessuno ormai, nemmeno gli stessi governanti, credono in quel sistema. A questo scadimento teorico e culturale vanno aggiunte le contraddizioni oggettive e anche gli errori compiuti e i danni materiali causati alla collettività e agli individui nel corso di decenni e sui quali la riflessione della sinistra è colpevolmente mancata. Non si è infatti riflettuto abbastanza sul fatto che nei Paesi dell’Est europeo si è persa la stessa nozione di iniziativa e che le menti sono state plasmate in modo da pensare il meno possibile. Non si è fatto alcuno sforzo per darsi ragione degli scempi e dei disastri ambientali che in questi Paesi sono stati compiuti in nome del socialismo. Cernobyl altro non è che il caso che più di altri ha fatto scalpore. In Polonia, ad esempio, esiste una regione, la Slesia, che è una delle più inquinate del mondo. Qui c’è il cuore minerario del Paese, dove l’industrializzazione forzata è stata accompagnata da un’urbanizzazione scriteriata. Alla fine degli anni ’90 il tasso di mortalità infantile si rivela altissimo, molti bimbi nascono con malformazioni alle ossa, mentre gli adulti sono colpiti da tumori, anemia, diabete e ipertensione. Si coltiva frutta e verdura ad alto contenuto di piombo, di zinco e di rame. La maggior parte delle fabbriche mancano di impianti di depurazione e molti insediamenti urbani sono sprovvisti di fognature. A rischio, oltre al patrimonio boschivo, c’è la potabilità delle acque. Le politiche del governo non sono condizionate dalle logiche del profitto e della speculazione, perciò la salvaguardia ambientale dovrebbe essere una discriminante imprescindibile, ma così non è. Il fatto che durante le manifestazioni di massa “del lunedì”, nel periodo della transizione dell’89, i tedeschi dell’Est gridino in coro “se il marco non viene qui, andremo noi da lui”, non può che suscitare stupore e inquietudine, e forse spiega meglio di tante indagini lo stato avanzato di decomposizione di quel sistema sociale. E mentre il popolo invoca il “benessere” capitalistico, i dirigenti della Sed, in occasione del 70° anniversario della fondazione del Kdp, riconfermano miopisticamente con solennità e imperturbabilità la loro ortodossia neostaliniana. La “cortina di ferro”, simbolo della “guerra fredda”, inizia a essere abbattuta in Ungheria, a colpi di cesoie e di bulldozer, nel maggio dell’89. Sei mesi dopo cade il “muro” di Berlino. E’ la fine del blocco dell’Est e del socialismo realizzato. I partiti comunisti di questi Paesi cedono il potere e cessano di esistere senza che un sol colpo d’arma da fuoco venga sparato, tranne che in Romania. Non c’è un solo comunista disposto a morire per salvare il sistema. Questa è forse la dimostrazione più eloquente che il socialismo reale non è stato sconfitto dai suoi nemici, ma si è suicidato. 10.7 – La singolare esperienza jugoslava Come ho già ricordato, la Jugoslavia è il primo Paese dopo la Russia a costruire il socialismo e lo fa conquistando il potere con le proprie forze. A guidare i comunisti nello scontro con gli occupanti tedeschi e italiani è Josip Broz Tito. Soldato nell’esercito austro-ungarico, nel ’15, egli viene fatto prigioniero dai russi e, nell’ottobre del ’17, si schiera a fianco dei bolscevichi divenendo uno dei protagonisti della rivoluzione socialista in quel Paese. Rientrato in patria, nel ’37 ricostruisce il Partito comunista il quale, oltre che trovarsi in condizioni d’illegalità, è diviso in frazioni ed è 353


perseguitato sia dal fantasma socialdemocratico che da quello staliniano. Per merito suo, mentre nella generalità dei partiti comunisti a simili scontri di natura ideologica di solito si accompagnano devastanti contese di potere, nel partito jugoslavo la soluzione dei contrasti avviene senza spargimenti di sangue. Nella storia del movimento comunista Tito emerge come personaggio singolare: egli rifiuta per principio di legare l’idea del sacrificio e della sofferenza alla costruzione del socialismo, e si dimostra rispettoso dei sentimenti di autonomia e di indipendenza delle popolazioni che risiedono nei territori della penisola balcanica i quali vantano peculiari tradizioni etniche. “Sempre e soprattutto abbiamo avuto presente una visione umanistica del socialismo”, chiarisce e s’impegna perchè “in futuro i produttori diretti” siano messi in condizione di “disporre realmente del loro reddito e una parte, in base all’accordo sociale, la destinino alle necessità comunitarie”. Anche per questa sua visione filantropica e duttile del socialismo, nel momento della liberazione dal nazifascismo, egli può contare su un esercito composto da ben un milione di combattenti, vantando un’adesione tanto massiccia da non avere riscontri in altri Paesi europei. Proprio in forza di queste condizioni, la Jugoslavia è il primo Paese socialista che entra in conflitto con la patria del socialismo. Essa diviene, infatti, vittima della ferrea logica staliniana che colpisce tutto ciò che si muove nella ricerca di vie nazionali e specifiche al socialismo. Nel ’48, il capo del Pcus prospetta per la Jugoslavia uno sviluppo prevalentemente fondato su un’economia agricola e solo marginalmente sulla trasformazione di materie prime; in pratica, un’economia da aggregare e rendere funzionale a quella sovietica. Tito, invece, si propone di sfruttare le risorse naturali dei territori balcani e dare corpo a un Paese industrializzato aperto ai mercati internazionali. La Jugoslavia è una realtà multinazionale e Tito punta a dare vita a una confederazione di Stati dalle ampie autonomie. La socializzazione è da lui concepita non come un atto unico e risolutivo, ma come un processo, perciò assai diversa dal modello sovietico. Il suo disegno non è frutto di un orgoglio nazionale e balcanico, ma rappresenta una vera e propria alternativa al modello sovietico di socialismo e al concetto monocentristico del comunismo staliniano. Stalin però non sopporta l’eguaglianza fra le nazionalità, non tollera l’idea dei consigli di gestione espressi dalla base, detesta la democrazia partigiana e si dimostra irritato per il rifiuto degli jugoslavi di creare una giustizia speciale riservata ai membri di partito. Di fronte a tali pretese e dinieghi Tito rompe gli indugi e, sfidando il dittatore georgiano, si premura di assumere il pieno controllo non solo politico, ma anche economico e militare della Jugoslavia, rompendo così i rapporti con l’Urss. Per questo suo intransigente atteggiamento viene considerato il combattente che è vincitore di due guerre: la prima contro Hitler e Mussolini, la seconda contro Stalin. Subito dopo la rottura con lo Stato guida, e conseguentemente con i suoi satelliti, nel Paese viene compiuto un esame analitico degli ostacoli incontrati nella fase iniziale della pianificazione e viene anche avviata una riflessione critica sulla stessa esperienza sovietica. A conclusione vengono vagliate le possibili soluzioni alternative. I comunisti jugoslavi decidono di aprire la via alla sperimentazione di una nuova interpretazione del marxismo e s’impegnano in una lotta drammatica per difendere non solo la loro specifica via al socialismo, ma la loro stessa esistenza nazionale. Proclamano la politica di coesistenza pacifica attiva come la sola capace di salvare il mondo dalla catastrofe totale. La concezione jugoslava del socialismo nasce dunque come sfida aperta nei confronti dell’esperienza staliniana. Pur in condizioni molto sfavorevoli, i comunisti jugoslavi cominciano a modificare concretamente le strutture statalistiche del socialismo mediante la creazione dei consigli operai e l’applicazione del “modello autogestionale”, il cui obiettivo fondamentale è di far gestire direttamente alla classe lavoratrice, a tutti i livelli, il “pluslavoro”. Ovviamente questo processo si svolge per tappe. Alla fine degli anni ’40 in Jugoslavia non esiste un tessuto industriale evoluto, perciò è assente una classe operaia capace di intervenire direttamente per sviluppare rapporti sociali di autogoverno. E questo rende ancor più complessa l’impresa. La consistenza della popolazione rurale, rispetto al 354


totale della popolazione, è pari al 67% e ciò dimostra lo stato di arretratezza del Paese. Essendo queste le condizioni oggettive, il peso della costruzione di un socialismo di tipo nuovo ricade pertanto totalmente sull’avanguardia politica della classe operaia. Nel ’49 viene realizzata la collettivizzazione dell’agricoltura che, però, si dimostra ben presto una soluzione inadeguata dal punto di vista sia economico che politico. Poiché la centralizzazione non si concilia con la volontà dei contadini di poter disporre della propria forza lavoro e di quella della famiglia, e anche di mezzi tecnici moderni, una simile prospettiva viene da subito abbandonata. A partire dagli anni ’50 viene dato il via al decentramento dell’economia e introdotto il meccanismo di mercato. Mentre la società jugoslava attraversa una profonda crisi di trasformazione, lungo le frontiere gli eserciti dei Paesi confinanti svolgono minacciose manovre che ogni giorno provocano incidenti anche mortali. La decisione di affidare ai lavoratori il diritto di decidere e di amministrare la produzione nelle singole aziende è anche la diretta conseguenza della necessità di fortificare la base sociale e stimolare, nelle condizioni drammatiche createsi dopo la rottura con il Cominform, un consenso popolare simile, se non superiore, a quello ottenuto nel corso della guerra di liberazione. Lo stesso carattere multinazionale dello Stato jugoslavo (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Serbia con Vojvodina e Kosovo e Macedonia) assume una parte importante nell’orientare le dirigenze verso una soluzione decentrata. La volontà dei comunisti jugoslavi è quella di costruire il socialismo sulla base dell’esperienza dei soviet, di realizzare cioè la democrazia socialista attribuendo all’assemblea non soltanto funzioni deliberative, ma anche esecutive, eliminando così il dualismo tra il momento legislativo e quello gestionale. Tale sistema di rapporti democratici basati sull’autogoverno nasce e si sviluppa gradualmente attraverso i Comitati popolari che sono sorti all’inizio dell’insurrezione e della rivoluzione socialista nel corso della seconda guerra mondiale. Scrivono nelle loro memorie Tito e Kardeli: “Quando fummo costretti ad imboccare la strada dell’autogestione, a consegnare le fabbriche in gestione agli operai e la terra ai contadini, sapevamo di farlo in un paese arretrato… All’inizio, date le condizioni obiettive, dato il livello della coscienza e delle conoscenze, l’autogestione era, per la sua base materiale, per il suo contenuto sociale, economico e democratico, limitata in gran parte alla gestione della produzione da parte dei lavoratori e alle loro decisioni relative alla riproduzione semplice”. “A nostro avviso non si può lavorare senza commettere errori, ma riteniamo meno pericolosi gli errori che si commettono quando l’iniziativa dal basso si fa liberamente sentire che non quelli commessi dai burocrati che si siano messi in testa di essere infallibili”. La dottrina jugoslava limita l’attività economica diretta dello Stato ed estende il terreno delle decisioni autogestite attraverso un crescente decentramento del controllo sull’economia. Determinante per la sua elaborazione è la scuola di “Praxis” formata da esponenti non del tutto organici al marxismo. Le forze politiche dirigenti, i filosofi, i sociologi e gli economisti jugoslavi hanno un’impostazione decisamente antiburocratica. Essa viene identificata con la versione marxiana dell’“estinzione dello Stato”. Alle cellule del partito viene suggerito, per essere studiato, “Stato e rivoluzione” di Lenin, testo che Stalin ha fatto togliere dalla circolazione in Unione sovietica. Con un chiaro riferimento agli scritti di Marx sulla Comune di Parigi, gli jugoslavi definiscono il socialismo “un sistema sociale basato sulla socializzazione dei mezzi di produzione, in cui la produzione sociale è guidata dai produttori diretti associati”. Tre sono gli elementi salienti del modello autogestionale: a) la critica al modello istituzionale staliniano; b) il superamento di una concezione amministrativa della pianificazione e la valorizzazione piena del mercato socialista; c) il grande ruolo attribuito ai consigli operai nella gestione delle imprese.

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L’autogestione è un sistema economico, politico e democratico che permette al lavoratore di manifestare liberamente i propri interessi autentici e che, nel contempo, lo organizza in modo democratico al fine di armonizzare questi interessi. La gestione delle aziende viene solennemente affidata alle maestranze e il processo di decentramento si fa via via sempre più incisivo. Lo Stato non acquisisce alcun diritto di proprietà nella gestione dei complessi realizzati per questa via; il diritto di gestione spetta ai lavoratori. La socializzazione dei mezzi di produzione non equivale alla nazionalizzazione e nemmeno alla collettivizzazione nel senso di metamorfosi in proprietà di gruppo. L’autogestione è intesa come elemento di democrazia in economia e come elemento fondamentale di democrazia politica. La stessa pianificazione economica cessa di essere uno strumento del monopolio centralizzatore dello Stato per diventare innanzitutto un fatto di libera e volontaria intesa autogestita, di accordi sociali fra le organizzazioni del lavoro associato. Il modello non presuppone però la soppressione di una coordinata politica economica, cioè del centro di decisioni, ma lascia a questo un ruolo residuale e, in ogni caso, tale da non mettere in pericolo la sovranità dei sub-sistemi. Viene rifiutata recisamente l’idea per cui le aziende autogestite possano diventare proprietà di gruppo. La proprietà sociale non deve essere il monopolio né degli individui né dei collettivi, né appunto dello Stato. La proprietà sociale stricto sensu è la proprietà sociale diretta che fa scomparire non solo la monopolizzazione della proprietà, e di conseguenza del potere politico ed economico ad opera di individui o ristretti gruppi di proprietari privati, ma anche una monopolizzazione simile da parte dello Stato socialista. E’ in sostanza l’autogestione dei produttori. Il sistema prevede che tutte le forme di reddito nella produzione e nella riproduzione si concentrino esclusivamente nelle mani dei lavoratori, delle organizzazioni di base del lavoro associato, e che nessuno all’infuori di queste possa disporre del reddito senza il loro consenso. Relativamente alla ripartizione del reddito, la dottrina jugoslava fonda sul principio della distribuzione secondo il lavoro. La scelta dell’autogestione è il tentativo di realizzare il potere operaio in uno Stato socialista senza passare necessariamente attraverso l’esperienza statalistica, con tutti i pericoli di burocratizzazione che essa comporta. Lo Stato guida il mercato, armonizza i prezzi per mezzo del piano sociale e di altre misure d’intervento nella ripartizione del reddito sul mercato. La sfera dei problemi regolati dal centro è relativamente ristretta e riguarda soprattutto le decisioni immediate sull’allocazione delle risorse. Le autorità centrali economiche sono impegnate a ridurre la propria ingerenza e a elaborare le ipotesi per le tendenze generali di sviluppo, a reagire contro i sintomi di imperfezione del mercato in riferimento al pericolo di comportamenti monopolistici, a correggere i processi di mercato. Postulato di questa impostazione è la graduale limitazione del ruolo dello Stato fino alla sua estinzione quale momento essenziale per il superamento dell’alienazione economica e politica. Non solo le funzioni dello Stato, ma anche quelle del partito assumono un nuovo carattere facendo cadere vecchie idee, abitudini e privilegi ormai consolidati nel mondo comunista. Il partito cessa di funzionare come organo supremo di amministrazione politica ed economica. Perché possa svolgere il ruolo di ispiratore e di promotore del processo di socializzazione, esso deve essere escluso il più possibile dall’esercizio del potere statale e le tendenze burocratiche non devono prendere il sopravvento sulla sua organizzazione. In conclusione, il partito non deve governare in modo diretto. Secondo tale principio, nel ’52 viene messa a punto una riforma del partito che esteriormente si manifesta col cambiamento del nome da Partito comunista jugoslavo in Lega dei comunisti jugoslavi. Infine, viene sottolineato con forza che l’autogestione è un processo in continua evoluzione. Avviene così che i soviet jugoslavi gestiscono l’organizzazione del lavoro (fabbrica, azienda di distribuzione, scuola, università, teatro, ecc.) e decidono del modo, del genere e del volume della produzione, della realizzazione dei prodotti e dei servizi, dell’aumento dell’attività delle imprese. Solo una parte del reddito generale dell’azienda viene prelevata dagli organi comunali, repubblicani e federali, mentre il restante (all’incirca i due terzi) resta nelle mani dei lavoratori che ne decidono 356


la ripartizione tra il reddito personale e il fondo per i servizi sociali (abitazioni, scuole, assistenza sanitaria, ricreazione, ecc.) o lo destinano ai fondi per lo sviluppo dell’azienda, per l’ammodernamento dei macchinari. Oltre che sul sistema della riproduzione semplice si fa sempre più leva su quello della riproduzione allargata, affidando ai produttori stessi il potere di ripartire le risorse non solo su scala aziendale, ma anche tra le imprese associate, tra i diversi settori della società, tra le nazionalità e le repubbliche che formano la Federazione. Nel ‘54 Kardelj può ufficialmente affermare che in Jugoslavia si sta lavorando per rendere operante un meccanismo di democrazia diretta la quale assicura il più alto grado di autogoverno dei lavoratori mediante organi adeguati di gestione della produzione e degli altri settori della vita sociale. E che il socialismo autogestito jugoslavo è impegnato a conseguire la piena indipendenza delle imprese e la “mercatizzazione” dei rapporti tra di loro, e pure tra queste e le comunità in generale. Una caratteristica essenziale della pianificazione autogestita è costituita dalla programmazione del lavoro e dello sviluppo realizzato mediante varie forme di associazione, di collegamento e di cooperazione. Come ricorda ancora Tito in “Autogestione e socialismo”, “gli operai e le loro organizzazioni di lavoro associato insieme agli altri lavoratori e alle altre organizzazioni e comunità autogestite stabiliscono, attraverso un accordo sociale, interessi ed obiettivi comuni dello sviluppo economico e sociale nel Comune, nella Regione, nella Repubblica e nella Federazione. La collaborazione economica con l’estero avviene in modo che l’inserimento nella divisione internazionale del lavoro non significhi anche l’inserimento nella dinamica internazionale del capitale e che si possano mantenere i rapporti di produzione sulla base dell’autogestione socialista. Si agisce senza un’organizzazione adeguata per l’importazione delle licenze, dei brevetti, delle attrezzature e della tecnologia, il che spesso porta a una troppo grande dipendenza tecnologica della nostra economia dalle aziende straniere e dai trust mondiali”. La formulazione più autorevole dei principi teorici del modello di socialismo autogestito è rappresentata dal Programma di Lubiana della Lega dei comunisti jugoslavi elaborato nel 1958. 10.8 – Evoluzione, crisi e disgregazione della società autogestita Dal ‘49 fino agli anni ‘70 il tasso di crescita della Jugoslavia è tra i più alti d’Europa. Se nel ’51 la popolazione rurale era pari al 67%, nel ’71 risulta ridotta al 38%. Questo dimostra che la sperimentazione dell’autogestione garantisce uno sviluppo accelerato dell’economia e un conseguente progresso sociale. Nel ’63 viene approvata la nuova costituzione e il modello autogestionale viene concepito anche come momento decisivo sulla via dell’abolizione “di tutte le cause fondamentali dell’alienazione della personalità umana”. Nel ’65 viene varata una riforma economica che dà inizio a una nuova fase dello sviluppo durante la quale l’autogestione è estesa all’intera riproduzione sociale, cioè al complesso della società. Si procede così alla “destatizzazione” e al decentramento dei fondi sociali di investimento. La riforma mette in discussione non solo la gestione economica, ma anche i metodi e gli strumenti della direzione politica e poiché accanto ai consigli di gestione operano ancora le istituzioni sociopolitiche che continuano a decidere le scelte generali e a stabilire la sostanza degli interessi sociali ed individuali, viene posto l’obiettivo di superare anche questo condizionamento. Il sistema produttivo e riproduttivo viene sottratto alla gestione centralizzata di Belgrado. Le aziende, il sistema del credito e il settore dei servizi sociali vengono progressivamente resi autonomi e indipendenti gli uni dagli altri in modo che ognuno di questi enti decida a riguardo del proprio sviluppo. La pianificazione assume il carattere di espressione diretta dei rapporti socialisti autogestiti sia nella sfera produttiva che in quella della riproduzione. La nazionalizzazione è concepita non più come un modo per sostituire lo Stato all’imprenditore, ma come uno strumento per trasferire all’operaio, al “produttore”, anche le funzioni dell’imprenditore. 357


Con il lavoro associato e autogestito i lavoratori gestiscono e dispongono, in rapporti di interdipendenza e di reciproca responsabilità, l’intero reddito realizzato con il loro lavoro (corrente e accumulato) e anche gli stessi mezzi della riproduzione allargata. Protagoniste del sistema della pianificazione diventano quindi le organizzazioni di base del lavoro associato. Le aziende, quali organizzazioni di base, sono libere di scegliere gli sbocchi più convenienti sui mercati internazionali; possono trattenere in cassa fondi di valuta estera, aprire conti correnti in divisa forte, fondare con altre aziende holdings di autofinanziamento, potenziare l’autonomia dei manager industriali negli scambi commerciali con l’estero. Contemporaneamente, in accordo con gli organismi monetari internazionali, il dinaro viene svalutato per essere adeguato al sistema finanziario occidentale: una scelta questa che tra l’altro rappresenta un riscatto della Jugoslavia dallo stalinismo. Verso la fine degli anni ’60 il direttore dell’azienda viene nominato dal consiglio operaio e le delimitazioni riguardano solo la cerchia dei candidati proposti da una commissione. Sono esclusi dal modello autogestionale la magistratura, il dicastero della difesa e le forze dell’ordine pubblico. Negli anni ’68, ’71 e ’74, anche la costituzione viene modificata e adeguata ai cambiamenti introdotti nella società e ai bisogni della popolazione la quale risulta composta da ben otto etnie: i serbi, i croati, gli sloveni, i montenegrini, i macedoni, i musulmani, gli ungheresi e gli albanesi. Con queste innovazioni viene sancito il principio dell’”autogestione integrale”, sottintendendo con ciò che l’integralità del sistema socialista, in un’economia concorrenziale, non comporta soltanto diritti ma anche rischi e responsabilità. Si tratta in sostanza di un principio inteso a stimolare lo spirito di autonomia aziendale e di competitività, in netto contrasto con la vocazione all’assistenzialismo autoritario dei sistemi staliniani dell’Est. Viene quindi rimesso a punto anche il sistema dei rapporti socio-economici e politici del socialismo autogestito. Nelle singole comunità i lavoratori attuano il libero scambio del lavoro e decidono da pari a pari del volume di queste necessità e del modo in cui esse possono essere soddisfatte. In questa nuova situazione, però, si espande e prende purtroppo corpo il ceto dei burocrati e dei tecnocrati i quali, svolgendo un ruolo chiave sul piano politico e sociale, proliferano su tutto il tessuto sociale e avanzano rivendicazioni nei confronti della classe operaia, cioè dei produttori. Essi sono interessati a mantenere in uno stato relativamente subalterno il ruolo del lavoratore e cercano di rendere autonome le proprie necessità spingendo per un aumento progressivo del plus-lavoro senza preoccuparsi della crescita della produzione e della produttività. Al posto dell’antica burocrazia accentratrice si va dunque formando una nuova tecnocrazia affaristica, una sorta di oligarchia imprenditoriale che, senza disporre dei mezzi di produzione, tende alla confisca del plusvalore operaio e all’arricchimento di gruppo. Con il crescere di questo ceto, le forze che da sempre si oppongono all’autogestione fanno leva sul potere economico e finanziario dei centri amministrativi condizionando la gestione dell’economia e della società. A conseguire gradualmente il dominio del sistema produttivo e riproduttivo è pertanto un monopolio tecnocratico-manageriale il quale introduce nella società autogestita pericolosi elementi di anarchia. Mentre i lavoratori vengono relegati socialmente alla categoria di salariati e posti per di più in una condizione che spesso è di sopravvivenza, nel sistema si fanno avanti orientamenti e fenomeni di privatizzazione. Di conseguenza, incominciano a entrare in conflitto gli stessi rapporti tra Stato federale, Repubbliche, Regioni e Comuni. In contrapposizione a un tale processo di degenerazione anarchica e affaristica, scendono in campo i nostalgici del socialismo amministrativo i quali come rimedio ripropongono i vecchi metodi burocratici e autoritari. Nonostante la proclamazione dei nobili principi, la società dell’autogoverno finisce per entrare in una fase di grave fibrillazione. L’autogestione si riduce spesso a un rapporto mediato tra lavoratore e direzione tecnica dell’impresa, cioè a un rapporto simile a quello che nella società capitalistica intercorre tra azionisti e managers. Lo sviluppo estensivo dell’economia nasconde in quasi tutte le aziende un’eccedenza di forza lavoro che si traduce in disoccupazione latente. 358


La base dei produttori reagisce all’insorgente situazione di difficoltà con la pratica degli “arresti temporanei del lavoro” che equivalgono allo sciopero, i quali provocano oggettivamente antagonismi sociali e territoriali. In conseguenza dell’intensificarsi di una sfrenata concorrenza tra le imprese e tra le diverse aree del Paese, si aggravano le sperequazioni alle quali si accompagnano disfunzioni produttive e forme di spreco delle risorse. La formulazione del piano di sviluppo fa emergere particolarismi nazionali e registra istanze e interessi contrastanti tra di loro. Il grado di sviluppo già differente tra Stato e Stato si accentua. Mentre la Slovenia vanta un reddito pro capite di 1.200 dollari, il Kosovo si deve accontentare di appena 200 dollari. Le aziende più importanti e competitive risultano concentrate nelle regioni più sviluppate, soprattutto in Croazia e in Slovenia, e queste realtà territoriali si oppongono alla centralizzazione dei fondi e dei mezzi che sono destinati alla redistribuzione, nonostante che alla fine degli anni ’70 alle istituzioni centrali vada solo il 30% delle risorse disponibili, contro il 70% degli anni ’60. Del resto, nel corso degli anni nelle regioni povere, la pianificazione autoritaria ha prodotto solo “cattedrali nel deserto”, vale a dire immense e costosissime “industrie del nulla”. Nella commissione economica dell’ultimo congresso della Lega dei comunisti, le posizioni che tendono ad abolire il fondo di compensazione vengono battute di stretta misura, ma la polemica nello stesso partito anziché attenuarsi si intensifica. Nel ’74 è lo stesso Tito a riconoscere i ritardi e le disfunzioni e a denunciare le resistenze al processo innovativo. “Fino ad oggi – egli afferma – non si è riusciti a creare una pianificazione nuova, autogestita. E’ vero che nel corso di una gran parte del periodo precedente abbiamo avuto i piani quinquennali e altri ne abbiamo in corso, ma non c’è stato, in effetti, un efficace coordinamento pianificato dello sviluppo economico. A determinare questa situazione sono il basso livello di sviluppo dei rapporti socio-economici di autogestione, la funzione predominante delle forze tecnocratiche e burocratiche nelle scelte dei mezzi di riproduzione sociale, la loro opposizione a una linea nuova, la loro tendenza a mantenere in vita i rapporti attuali”. A risultare vincenti, difatti, sono proprio le forze della conservazione, cioè quel ceto di tecnocrati e di burocrati che non sono disposti a subire una innovazione delle forme del sistema perché considerata lesiva dei loro stessi poteri. Alla fine degli anni ’70 Kardeli rilancia con forza i propositi riformatori dell’autogestione, precisando che la politica deve cessare di essere “un monopolio degli uomini politici di professione e dei cartelli politici dietro le quinte”, ma deve diventare “attività diretta e potere decisionale diretto degli autogestori”. E ammonisce che “né lo Stato, né un sistema, né un partito politico può portare la felicità all’uomo. La felicità, l’uomo può crearsela soltanto da sé. Ma non da solo, come individuo isolato, bensì unicamente in rapporto con altre persone su base di parità”. I suoi proclami però si rivelano soltanto dei patetici auspici, seppure nobili. A seguito della morte di Tito, nel 1980, ad opera delle forze di centro-destra i comunisti subiscono una sconfitta elettorale in Slovenia, in Croazia, in Bosnia e in Macedonia. Dopo di che, ha inizio una lunga fase di crisi e stagnazione. Verso la fine del decennio, la Jugoslavia viene investita da una devastante inflazione che scardina il sistema monetario. Le repubbliche più produttive e ricche, nelle quali affluisce una considerevole quantità di valuta estera, si trincerano nella difesa dei loro privilegi e alla fine proclamano la loro indipendenza dallo Stato federale. I forti sentimenti nazionalistici che da anni covano in larghi settori della popolazione esplodono e il Paese va incontro alla disgregazione, nonché a una guerra fratricida. L’autogestione diviene un ricordo storico. Eppure l’esperimento jugoslavo è storicamente quello che si rivela più vicino al concetto marxiano di socializzazione rappresentando il tentativo di un’audace costruzione dal basso della società socialista. Esso, in effetti, costituisce una forma unica, originale di “dittatura del proletariato”. Si tratta di un esperimento condotto in piena coscienza e libertà da parte della stragrande maggioranza del popolo jugoslavo, sostenuto non solo dai politici, ma anche dagli stessi filosofi jugoslavi (gli autori della rivista “Praxis”), i quali nella realizzazione dell’“associazione dei liberi produttori” 359


hanno intravisto la possibilità storica di superare il lavoro salariato e le varie forme di alienazione della società moderna. E nel corso di questa sperimentazione non sono nemmeno mancate le loro puntuali e sistematiche critiche alle disfunzioni e deformazioni del sistema che si andava costruendo, mettendo così in condizione i protagonisti dell’autogestione di correggere le loro scelte. Perché mai, allora, questo modello non ha funzionato? Cos’è che l’ha sospinto alla deriva? Anche di fronte a questo fallimento la sinistra dell’Occidente è venuta meno alle sue funzioni dimostrandosi non interessata a comprendere l’accaduto, rifiutando di dare una risposta a tali legittimi interrogativi che fosse fondata su un’analisi approfondita. Io credo che i motivi dell’insuccesso del “modello autogestionale” jugoslavo siano da individuarsi in almeno tre ordini di questioni. La prima delle ragioni di questo cattivo esito consiste nella parzialità del processo di decentramento dei poteri e nella sopravvivenza sino all’ultimo di forme di centralizzazione che hanno condizionato negativamente la socializzazione. E’ evidente che, dato il contesto storico e internazionale in cui l’esperimento jugoslavo è maturato, queste forme di centralizzazione non potevano essere assolutamente evitate, ma una tale constatazione può solo aiutarci a comprendere il fallimento, non certo a giustificarlo. Se all’inizio era inevitabile che certe decisioni chiave venissero affidate agli organi dello Stato centrale, in particolare quelle relative alla distribuzione delle risorse e alla politica degli investimenti, con il procedere dello sviluppo del sistema la responsabilità di queste scelte avrebbe dovuto essere trasferita ai soggetti periferici, ovviamente messi in condizione di assumerla integralmente in un contesto ben definito di competenze e in un disegno strategico organico. Se è pur vero che il coordinamento della pianificazione su larga scala avveniva attraverso un sistema di accordi e che i piani sociali venivano definiti attraverso la concertazione, la base economica dell’autogestione operaia si è rivelata un soggetto debole, mentre le prerogative statali e federali, non solo nei rapporti economici, hanno continuato a mantenersi forti. Come già ho evidenziato, nelle stesse aziende produttive e di servizi ad avere il primato nelle decisioni sono stati gli apparati tecnico-amministrativi, mentre agli organismi dell’autogestione sono rimasti poteri residui. Che questo stato di cose abbia determinato un’alterazione del potere politico ed economico dei produttori, è un dato che era stato avvertito da coloro i quali avevano la responsabilità di governare il Paese; e non è un caso che i tentativi di innovazione del sistema siano stati ricorrenti e sistematici, ma ogni qualvolta essi abbiano fallito nell’intento. Ciò è dovuto proprio alla debolezza di potere degli organismi di base. Per ridurre il potere economico dell’amministrazione statale sarebbe stato necessario spostare il centro di gravità della riproduzione allargata e degli investimenti sui collettivi operai, abolire ogni intralcio amministrativo nella determinazione dei prezzi, sviluppare sempre più la democrazia socialista, ma tutto questo è risultato impossibile fare, anche perché questi soggetti sono rimasti subalterni al ceto tecno-burocratico. La stessa sfera politica, poi, è rimasta tale e quale per un quarantennio, con la Lega dei comunisti quale unico e insindacabile supervisore dei poteri, e ciò non può certo aver agevolato la marcia verso l’obiettivo dell’estinzione della politica nonché dello Stato. Poteva forse reggere un esperimento di autogestione, in una società densa di diversità etniche e di conflittualità latenti, se ad essere aperta al pluralismo lo era solo in economia (e con gli squilibri che abbiamo evidenziato), mentre in politica risultava chiusa nel monopartitismo? La seconda ragione del fallimento, a mio modo di vedere, sta nell’incapacità degli stessi comunisti jugoslavi di andare oltre l’economia politica. La dottrina jugoslava elabora il modello di “socialismo di mercato” e a differenza del sistema capitalistico, dove è il profitto per unità di capitale ad essere massimizzato, pone quale leva teorica di sviluppo il guadagno netto per ciascun membro del collettivo autogestito. Obiettivo di fondo di questa impostazione è la promozione di una imprenditorialità collettiva da parte dei lavoratori. Quale meccanismo di regolazione dell’economia è la fiducia nel mercato su cui vengono determinati taluni aspetti del decentramento. Si tratta indubbiamente di un modello originale che si differenzia sia dal sistema fondato sul profitto sia da quello regolato dalla pianificazione 360


centralizzata. Esso, però, ha il difetto di fondare le sue radici sul modo di produzione tayloristico, cioè su quel modo di produrre e di consumare che – come ci ha insegnato Gramsci – è destinato a generare il feticismo della merce e del denaro. L’errore che ha compiuto Lenin nella edificazione del socialismo in Urss viene dunque ripetuto dai comunisti jugoslavi. Non basta, cioè, evocare la “produzione mercantile socialista” quale panacea per tutti i mali, ma per dare corpo a un sistema socialista occorre necessariamente mettere in campo un nuovo, inedito modo di produzione: operazione questa, che i teorici dell’autogestione non hanno saputo fare. Terza e ultima causa dell’insuccesso, è a mio avviso da imputare allo stato di isolamento in cui l’esperimento jugoslavo ha avuto compimento. Per decenni lo sforzo di ricerca di una via alternativa al socialismo sovietico è stata vissuta non solo nell’indifferenza, ma addirittura nell’avversione di tutti gli altri partiti comunisti i quali, in omaggio alla tradizione staliniana, l’hanno considerata provocatoria e non degna di considerazione alcuna. Tanto è che gli jugoslavi, come abbiamo visto, hanno dovuto rivolgersi ai mercati dei Paesi occidentali e del “terzo mondo” per assicurarsi i referenti commerciali a livello internazionale. La mancanza del supporto dello stesso mondo comunista sul piano economico, oltre che su quello politico, ha così accentuato il carattere autarchico del loro sistema. Lo stesso socialismo, del resto, come ci insegna ancora Marx, è un processo che non può maturare in uno stato di isolamento, ma richiede necessariamente uno sviluppo a dimensione internazionale, comunque una prospettiva del genere. 10.9 – Il sopravvento dello spirito capitalistico nei Paesi post socialisti Dissolta l’Urss, in diverse aree del Paese si sono scatenate diverse guerre civili quale prodotto del diffondersi di sentimenti e movimenti nazionalistici. Mentre il regime sovietico era riuscito a mantenere insieme i cento popoli che costituivano la grande Russia, la “libera” e “democratica” repubblica di Boris Eltsyn, dopo aver scientemente fomentato la rivolta, non ha saputo reggere alla forza centrifuga delle spinte indipendentiste e autonomiste che appunto sono sfociate in sanguinarie guerre come nel caso della Cecenia. Anche in Cecoslovacchia, dopo il crollo del socialismo reale, sono esplosi i nazionalismi e il Paese si è diviso in Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca. Il caso più drammatico è però da considerarsi quello della Jugoslavia. In questo Paese, composto da sei repubbliche federate con una popolazione di 24 milioni di persone, il processo di transizione al libero mercato e alla “democrazia” si è tradotto in una cruenta lotta fratricida. Le contrapposizioni di carattere economico si sono intrecciate con quelle di natura etnica e religiosa e hanno provocano un vero e proprio flagello. Nell’insistere giustamente sulle responsabilità che il regime della Serbia, guidata da Milosevic, ha avuto in questo tribale scontro di nazionalismi, si è data a mio avviso poca importanza a due aspetti. Anzitutto, al fatto che la maggioranza della popolazione jugoslava, almeno stando ai sondaggi, prima della dissoluzione della Federazione si era espressa per il mantenimento dello Stato federale. Questo sta a significare che a portare il Paese alla dissoluzione e poi alla guerra, sono stati i gruppi dirigenti di tutte le nazionalità e non solo quelli della Serbia. Poi, che a fomentare i dissidi fra le diverse etnie, hanno concorso gli stessi Paesi dell’Occidente, i quali hanno intravisto nella frantumazione dello Stato federale jugoslavo la possibilità di soddisfare i loro appetiti mercantili. A riconoscere per primi l’autonomia della Croazia e della Slovenia sono stati, infatti, proprio alcuni governi europei, sollecitati e benedetti dalla Santa Sede dello Stato Vaticano. Evidenziando questi aspetti, non intendo certo sminuire la responsabilità che ricade sui comunisti jugoslavi, i quali sono persino giunti a praticare odiose forme di pulizia etnica. Voglio, invece, sottolineare che quanto di inumano è seguito al tracollo dei regimi di oltrecortina è anche farina del sacco della “civiltà” occidentale. Al capezzale dei Paesi dell’Est sono difatti accorsi, prontamente e cinicamente, i teorici del mercato e si sono anzitutto prodigati a prescrivere alle nuove dirigenze le loro interessate ricette. Tutti i Paesi che si sono liberati del socialismo reale hanno adottato oltre al 361


pluralismo politico l’economia di mercato. Del resto, come abbiamo visto, in quei regimi non era maturata nessuna altra alternativa, per loro non esisteva alcun altro modello di riferimento che non fosse quello del capitalismo avanzato. Tutte le forze riformatrici presenti in quelle società avevano davanti a sè un unico orizzonte: il mercato, appunto, considerato il toccasana ai loro mali e alle loro inefficienze. Sepolta l’esperienza cecoslovacca del “socialismo dal volto umano” e demonizzata l’autogestione jugoslava, l’alternativa poteva forse maturare nella Polonia di Solidarnosc, ma anche qui la pressione dell’Occidente e della Santa Sede, e pure l’esasperata religiosità di questo popolo, nonché il diffuso spirito conservatore che lo caratterizza, hanno sospinto il Paese verso l’integrazione capitalistica. Ovunque, anche a causa del generale disgusto fino alla nausea per lo Stato centralizzato, si è optato per il capitalismo, o meglio per il liberismo più esasperato. Si poteva ipotizzare che a gestire la transizione e a realizzare l’alternativa fossero le espressioni politiche che avevano come riferimento le esperienze socialdemocratiche europee, almeno laddove queste avevano dato segno di esistere; queste componenti invece si sono rivelate inconsistenti, senza radici, mentre ad aver successo sono stati proprio quei dirigenti di regime che non hanno avuto scrupoli a convertirsi tout court all’ideologia capitalistica. Quasi ovunque, infatti, i vecchi partiti al potere, dopo aver cambiato nome, si sono messi a imitare il modello occidentale, nei casi più fortunati quello della Spd o del Labour Party. E laddove questa operazione di trasformismo non è avvenuta, si sono imposte le formazioni di centrodestra che sono riemerse con prepotenza dopo il crollo del socialismo reale. Negli anni ’90 e nel primo decennio del secolo duemila, nei Paesi postcomunisti sono state vissute le esperienze più disparate e sconcertanti. Fenomeno ricorrente è stato l’alternarsi al potere quasi ovunque di formazioni di destra e di centrosinistra quale segno non già di democrazia, ma di grande confusione politica. Si è poi verificata un’impressionante affinità tra le espressioni di estrema destra e quelle di estrema sinistra, le quali si sono date da fare soprattutto per conseguire politiche protezioniste e stataliste basate su un forte sentimento nazionalista. E non sono mancate nemmeno esperienze di alleanze ibride e inconcepibili prima di allora: ex dirigenti del vecchio regime hanno tranquillamente dimostrato di saper convivere armoniosamente con gli anticomunisti più esasperati. A dominare la scena è stato spesso il nazionalpopulismo che si è rivelato una pratica diffusa ed efficace al fine di catturare consenso popolare. In alcune situazioni si sono presentati quali candidati al governo dei loro rispettivi paesi, ex monarchi che da mezzo secolo erano esuli all’estero, richiamati e sorretti addirittura da formazioni politiche ai cui vertici si erano insediati ex comunisti. Non sono mancati nemmeno tentativi di instaurare Stati teocratici o imperniati sull’“aiuto divino”. Nell’indifferenza generale, al potere ci sono andati avventurieri e personaggi condannati per reati penali. A questi loschi figuri è stato sufficiente appellarsi a una qualsiasi identità etnica o religiosa o linguistica per ottenere la delega al comando. Ex capi di una delle polizie più spietate del mondo (si pensi al caso Putin) sono diventati premier; ex funzionari di partito e di Stato si sono riciclati come uomini d’affari e si sono impossessati di favolose ricchezze. Emblematico a questo riguardo, è il caso sovietico. Quando il ministro Anatolij Chubajs ha deciso la pubblica distribuzione di voucher (buoni o coupon), ciascuno dei quali corrispondeva a una piccolissima percentuale della proprietà dell’industria di Stato, sono entrati in scena questi personaggi i quali poi diventeranno degli oligarchi. In genere si è trattato di persone giovani, intelligenti, furbe, ambiziose, intraprendenti, qualità acquisite durante la loro militanza nelle organizzazioni giovanili del partito. Grazie alle amicizie nell’apparato politico-amministrativo, hanno ottenuto prestiti di favore, hanno usato il denaro per comprare i voucher e lo hanno restituito quando l’inflazione a due cifre ha drasticamente ridotto l’ammontare del debito. Hanno quindi investito in gas, petrolio, legno, minerali, hanno esportato e trattenuto all’estero gran parte del ricavato, evadendo peraltro il fisco e dimostrando di aver acquisito un alto senso di responsabilità civile. Un tempo i nababbi erano una razza che proliferava soprattutto nella terra dello zio Sam o in quella di Mille e una notte, ora invece popolano anche quel mondo che per milioni e milioni di uomini ha rappresentato la speranza di un nuovo e radioso avvenire di uguaglianza e di giustizia sociale. Il 362


cuore del nuovo sistema di mercato dell’ex mondo socialista è stato, infatti, occupato proprio dai vecchi funzionari comunisti che si sono trasformati in magnati industriali, banchieri e oligarchi finanziari. Come ha denunciato il dissidente sovietico Jurij Karjakin verso la fine degli anni novanta, “la massa dei politici-cinici del mio Paese in un sol giorno ha rifiutato la tessera del partito, e questa velocità nel cambio di idea è indice che l’unico obiettivo che li muoveva era l’interesse per il potere”. Purtroppo questa è un’altra riflessione che la sinistra occidentale non ha avuto il coraggio e l’onesta intellettuale di fare, la quale sta a dimostrare che il comunismo non può assolutamente conciliarsi con il burocratismo e il carrierismo. Fatto è che le rivoluzioni “arancione” o di altro qual si voglia colore, purché non rosso, hanno contribuito ad accrescere il qualunquismo al punto tale da far salire il tasso dell’astensionismo elettorale a livelli inimmaginabili: a metà del primo decennio del duemila in Polonia ha raggiunto la quota del 60%, in Romania è andato oltre il 70%. Nella stragrande maggioranza dei Paesi dell’Est europeo, con la restaurazione del regime del libero mercato e della “democrazia”, si è aperta una fase in cui si è registrata una brusca caduta del prodotto interno lordo, la produzione industriale e agricola ha subito cali consistenti e si è verificato un arresto del trend di sviluppo. Le società sono state investite da un’inflazione galoppante, da un alto tasso di disoccupazione, e sono venute meno quelle garanzie sociali che il regime socialista aveva comunque assicurato ai lavoratori, anche se in quantità e qualità insufficienti. Le privatizzazioni sono avvenute in tempi così rapidi e con criteri tanto indiscriminati che nel giro di pochi anni sia il reddito nazionale prodotto che la forza lavoro sono risultati dipendenti dall’iniziativa privata per oltre il 50% del totale. Scelte tanto precipitose e dissennate hanno inevitabilmente provocato un netto peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni, in particolare hanno colpito le famiglie dei lavoratori dipendenti. La liberalizzazione del lavoro e la chiusura di fabbriche hanno provocato ovunque disoccupazione. In alcuni Paesi si sono verificati fenomeni migratori di giovani in cerca di lavoro e di fortuna causando gravi squilibri demografici; in altri si è verificato un preoccupante abbandono della scuola. Alla metà degli anni ’90, la condizione di vita di una parte consistente delle popolazioni dei Paesi dell’Est meno sviluppati economicamente risultava al di sotto della soglia di povertà. A Bucarest si è addirittura scoperto che centinaia di giovani giunti da tutta la Romania vivevano nel sottosuolo, nelle fogne fra topi, melma e droga sintetica. Li avevano soprannominati “i ragazzi dei tombini”. In Bulgaria, per alcune categorie di lavoratori i salari risultavano essere al di sotto degli indici ufficiali di povertà. Mentre i redditi delle grandi masse popolari perdevano di valore a causa dell’inflazione, il costo della vita, in specie quello delle abitazioni, cresceva senza alcun freno. In diversi di questi Paesi i nuovi governi ispirati alla libera iniziativa hanno eliminato le differenziazioni d’imposta sui redditi e hanno introdotto un’unica tassa per tutti, ricchi e poveri, rinnegando così le stesse innovazioni di civiltà introdotte dalla rivoluzione borghese. In Ungheria, il nuovo esecutivo ha addirittura riconosciuto il privilegio di non pagare le tasse alle sei mila famiglie che risultavano essere al vertice della graduatoria dei redditi. Nei primi anni ’90, in Russia, Bulgaria, Estonia e nella Germania dell’Est il numero delle morti ha superato quello delle nascite e si è registrato un aumento della mortalità infantile e un abbassamento delle aspettative di vita. Fatta eccezione della Repubblica Ceca, di quelle Slovacca e Slovena, nella generalità dei Paesi ex socialisti la mortalità da tbc ha fatto registrare indici alti e allarmanti, mentre si è verificato il diffondersi di malattie tipiche del “terzo mondo”. Ai danni alla salute si sono accompagnati quelli all’ambiente. In Romania e in Ungheria, per incuria dei nuovi liberi produttori, sono avvenuti disastri ecologici che hanno messo a rischio le acque del Danubio nelle quali sono state riversate sostanze altamente nocive, sia per il patrimonio ittico che per la vita dell’uomo.

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Mentre in alcuni Stati appartenenti all’ex Urss, alle minoranze etniche sono stati negati i diritti civili, in Ungheria il governo populista ha adottato una legge bavaglio sulla stampa, oltre ad aver abolito l’autorità di controllo del bilancio, e per questo è stato richiamato dall’Unione europea. In Polonia si è proceduto alla “decomunistizzazione” e alla conseguente epurazione (la lustracja). Il governo di centro destra ha poi messo al bando le bandiere rosse, i poster del “Che”, il libretto di Mao; tutto quello che è stato prodotto durante gli anni del dominio sovietico è stato dichiarato fuorilegge. I gemelli Kaczynski, ex Solidarnosc, hanno annunciato di voler abolire la festività del 1° maggio perché “troppo rossa”. Una legge ha stabilito che canticchiare l’Internazionale avrebbe potuto costare due anni di carcere. E mentre nell’ex Cecoslovacchia è stata varata una norma che vieta la negazione dei crimini del comunismo e punisce col carcere i “revisionisti” (nonché chi si propone di fare la rivoluzione per rovesciare il capitalismo), in Ungheria è stata messa fuori legge l’effigie della falce e martello. Il timore di un ritorno al passato è divenuto talmente ossessivo che il governo populista di Victor Orbàn ha approvato una nuova carta costituzionale ultraconservatrice che fa riferimento a dio come “elemento unificante”. La stessa Unione europea ha dovuto intervenire per impedire che entrassero in vigore le leggi sul “doppio genocidio” e sul “negazionismo rosso” che Ungheria, Romania, Lituania, Lettonia, Bulgaria, Repubblica Ceca si erano proposte di varare per punire coloro che negano o sminuiscono i crimini storici del comunismo. L’anticomunismo è talmente radicato e diffuso che al posto dei simulacri abbattuti dei leader del vecchio regime, vengono santificati gli zar ed erette statue a Ronald Reagan, meritevole di aver sconfitto “l’impero del male”. E mentre queste società sono risultate sempre più in preda alla corruzione e alla malavita, è aumentata la presenza al loro interno dei movimenti nazionalistici, di estrema destra e perfino di quelli neonazisti. La confusione ha preso il posto della ragione. E sì che la liberazione dal comunismo avrebbe dovuto significare una purificazione sociale! Dopo il crollo del socialismo reale a mantenere una presa nella coscienza delle persone è stato sicuramente il sentimento religioso. Anche questo però non pare avere le dovute garanzie di genuinità e devozione alle sacre tradizioni, visto che di quando in quando, nel nuovo clima liberatorio, in qualche strana mostra viene con successo esibito al pubblico il membro virile di Rasputin che gli venne asportato poco dopo la morte e che qualcuno si è preso la briga di mantenere integro nei decenni. Si tratta cioè di una religiosità che continua a mischiare il sacro con il profano, la fede con la superstizione. Si è assistito, in sostanza, a uno sconcertante ritorno al passato che avrebbe suggerito una riflessione sulla funzione e sull’eredità dei regimi destituiti, la quale però non c’è stata. Ingo Schulze, uno scrittore tedesco ha sostenuto che in questo “nuovo mondo”, cioè quello del postsocialismo, si vive senza futuro, ma si può avere una cosa dopo l’altra. In esso esiste un vuoto smisurato che corrisponde al “tempo infinito e potente” nel quale è sospeso, e risulta diffuso un elementare istinto camaleontico volto ad adattarsi alle circostanze e a sfruttare al meglio le opportunità che esse offrono. E accenna a uno “spirito negatore” che persuade Faust a mettere in gioco la propria anima. Se si ritiene che Schulze abbia interpretato in modo giusto questa realtà, diventa naturale interrogarsi sull’eredità spirituale del socialismo reale. E un tale interrogativo induce a riflettere ancora più a fondo sugli errori che nel primo tentativo di costruzione di una società fondata sulla giustizia e sull’uguaglianza, sono stati compiuti e sulle responsabilità che l’insieme del movimento comunista internazionale si è assunto non rendendosi pienamente conto di quanto stava succedendo in queste società. Se, però, ieri si sono chiusi gli occhi per non vedere e non si è voluto contrastare siffatte degenerazioni, oggi non si può, non si deve assolutamente restare con gli occhi bendati di fronte a tanto strazio. Chi è interessato a capire è anche indotto a chiedersi cosa queste società siano diventate dopo che i regimi comunisti si sono dissolti e se e quale ruolo possono avere in una prospettiva di un’eventuale riproposizione del socialismo. 364


All’indomani del crollo dell’89, Ralf Dahrendorf ha sostenuto che “i Paesi dell’Est non hanno abbandonato il sistema comunista per abbracciare quello capitalista. Hanno invece inteso abbandonare tutti i ‘sistemi’, ritenendoli tutti sbagliati, per abbracciare l’idea di una ‘società aperta’”. Secondo Alexander Adler, che dell’Est europeo si è lungamente occupato, staremmo invece assistendo alla nascita di un nuovo modello di sviluppo che egli definisce “capitalismo postcomunista” il quale si aggiungerebbe ai tre modelli già esistenti, cioè al capitalismo anglosassone, a quello renano e a quello giapponese. Si tratterebbe – a dir suo – di un fenomeno sperimentale, inedito che si caratterizzerebbe per la coesistenza “di un settore statale molto ampio ma di scarsa produttività e di una nebulosa di piccole e medie imprese che realizzano la maggior parte della crescita”. A me sembra che la questione sia un po’ più complessa di quanto l’hanno descritta Daharendorf e Adler, e che per esprimere un giudizio e formulare una classificazione occorra attendere che la situazione in questi Paesi sedimenti e si stabilizzi. Trovo perciò molto più convincente il ragionamento svolto dal sociologo ungherese Ivan Szélenyi il quale a metà degli anni ’90 ha condotto una ricerca pubblicata dal quotidiano “Mayar Hirlap” sui dirigenti di circa tremila imprese sparse tra Russia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovenia e dalla quale ha dedotto che le economie post-comuniste si fondano su rapporti di proprietà alquanto confusi. Egli ha documentato come la proprietà delle imprese, anche in paesi decisamente liberisti come le Repubblica Ceca, sia suddivisa tra managers, banche di Stato, agenzie di privatizzazione e costituisca un complesso mix di poteri. Si è detto poi convinto che “il monetarismo sta alla nuova classe manageriale come il marxismo-leninismo stava alla classe dirigente del socialismo di Stato” e ha concluso definendo questo nuovo sistema in formazione “capitalismo manageriale” o “tecnocratico”. Sono anche convinto che il socialismo reale non abbia rappresentato un’esperienza vana da seppellire nell’archivio della storia. Si è trattato certo di un’esperienza deludente, dai risvolti drammatici per le forze che sinceramente si sono battute e si battono per l’emancipazione umana, ma non inutile. E credo che gli stessi processi che oggi investono le società postsocialiste, i quali hanno chiaramente un’impronta capitalistica, non riusciranno assolutamente a cancellare la memoria di quanto di buono e di valido, seppure insufficiente, ha significato l’esperimento socialista. Soprattutto, sono convinto che la trasformazione dell’homo sovieticus in homo oeconomicus non potrà mai soffocare il senso di dignità e il bisogno di giustizia sociale che sono insiti nell’essere umano e i quali erano e restano alla base del progetto socialista. Oggi, alle popolazioni dell’Est europeo il mercato potrà anche apparire un indispensabile toccasana per la realizzazione delle loro aspirazioni di progresso, ma verrà sicuramente il momento in cui l’impatto con le leggi del capitalismo aprirà loro gli occhi e le sospingerà a ricercare nuove prospettive, anche in forza dell’esperienza vissuta in regime di socialismo reale. A distanza di alcuni anni dalla liberazione dai vecchi regimi, del resto, gli orientamenti politici di parte dell’opinione pubblica di alcuni di questi Paesi sono venuti modificandosi proprio nel segno del ripensamento. La stessa formazione delle coalizioni di governo nel corso degli ultimi tempi ha premiato non a caso, almeno in alcuni paesi, le coalizioni di centro-sinistra sfiduciando quelle di centro-destra che inizialmente si erano rivelate vincenti. Non mancheranno di certo nuove alternanze, ma alla fine una riconsiderazione del passato risulterà inevitabile. E’ mio convincimento che, nella cosiddetta era post-moderna, la costruzione di un nuovo modello di società socialista può avere un felice compimento solo in realtà sociali che hanno conosciuto i livelli più maturi del capitalismo e nelle quali si sono sviluppate a pieno le condizioni per l’autogoverno. Persuaso di questo, ritengo assuma un’importanza vitale, ai fini della messa a punto di un progetto di transizione, una riflessione critica sull’esperienza del socialismo reale.

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10.10 – Cina: ibrido di socialismo autoritario e capitalismo aggressivo Nel suo libro “Il grande fallimento, ascesa e caduta del comunismo nel XX secolo”, scritto nell’89, Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza del presidente americano Carter, ha sostenuto che i tentativi di riforma di Gorbacev erano destinati al fallimento, mentre ad avere successo sarebbe stato il riformismo cinese. E’ il caso di prendere atto che Brzezinski ha saputo prevedere quello che i leader politici e i più prestigiosi studiosi delle scienze politiche e sociali, marxisti e non, si sono dimostrati incapaci di presagire. La Cina, infatti, assieme al Vietnam, alla Corea del Nord e a Cuba, è sopravvissuta al tracollo dell’Urss e dei regimi dell’Est europeo, anzi ha dimostrato una sorprendente capacità di sviluppo. Mentre la Corea e Cuba sono rimaste ligie agli originari orientamenti politici realizzando di fatto un “socialismo della povertà”, la Cina e il Vietnam si sono convertiti al mercato capitalistico. Tutti e quattro questi Paesi sono in ogni modo accomunati da una caratteristica che già fu del primo Stato socialista: mentre sono la rappresentazione del capovolgimento dell’interpretazione secondo cui il socialismo sarebbe il prodotto delle contraddizioni del capitalismo al suo grado massimo di evoluzione, la loro esistenza è assicurata dalla sopravvivenza del monopolio politico del partito comunista. Non è peraltro da trascurare il fatto che questi regimi, sin dal momento del loro insediamento, hanno mostrato delle significative differenze nella costruzione del socialismo rispetto all’esperienza russa, e credo sia proprio anche in forza di questa diversità che si giustifica la loro sopravvivenza . La Cina, ad esempio, ha rappresentato un caso di socialismo originale che potrebbe definirsi il risultato dell’applicazione della teoria marxista a una società in cui era diffuso e profondamente radicato il confucianesimo. A dire di Molotov, Mao avrebbe confessato di non aver mai letto “Il capitale” di Marx. In effetti, avendo egli privilegiato i classici del suo Paese piuttosto che il teorico del socialismo scientifico, la sua formazione culturale non può certo considerarsi marxista ortodossa. Anche se qualcuno ha definito il maoismo come il tentativo più significativo che sia stato compiuto di un ritorno alle origini marxiane, precisamente al radicalismo di Marx, poiché ha fatto suo il principio della rivoluzione ininterrotta, l’opera compiuta da Mao (si pensi al famoso “libretto rosso”) mostra impronte e caratteristiche che sono estranee al pensatore di Treviri, e fanno giusto parte dell’eredità spirituale di Confucio. Altro aspetto che è bene non dimenticare, è costituito dal fatto che la Cina è il Paese in cui il modo di produzione asiatico si è conservato più a lungo che altrove, sopravvivendo alla stessa rivoluzione socialista, e questo non solo in forza di cause oggettive, ma anche perchè i comunisti cinesi hanno manifestato una forte resistenza ad accettare la teoria marxiana del modo di produzione asiatico. Se è poi vero che lo sviluppo industriale della Cina ha seguito un modello che ha molte analogie con quello sovietico, l’evoluzione del suo sistema socio-economico presenta delle caratteristiche che lo rendono differente e originale in alcuni aspetti di fondo. Essendo il partito comunista cinese saldamente radicato fin dagli anni ‘30 e ’40 nelle popolazioni rurali, quando realizza la collettivizzazione delle campagne, contrariamente a quanto avvenuto in Urss, nei confronti dei contadini esso ha un atteggiamento positivo, non infierisce cioè contro i proprietari di terra piccoli e medi, ma si limita a combattere il latifondismo. Nel ’47, il “grande timoniere” tiene a precisare che la rivoluzione della nuova democrazia mira a “liquidare soltanto il feudalesimo e il capitalismo monopolistico, soltanto la classe dei latifondisti e dei capitalisti-burocrati (la grande borghesia), non già il capitalismo in generale, la piccola borghesia agiata o la media borghesia”. La rivoluzione è perciò concepita da Mao come un grande movimento contadino ispirato al principio secondo cui “il popolo soltanto è la forza motrice, il creatore della storia” e ad esso viene concessa una certa autonomia d’iniziativa. E questa, come abbiamo visto, non è certo stata la prassi di Stalin in Russia. La transizione in Cina si configura dunque come una commistione di statalismo e proprietà privata. I dirigenti cinesi cercano di fare del marxismo soprattutto uno strumento di esortazione morale e 366


politica al fine di aggregare pratiche sociali diverse e sostituirsi al confucianesimo senza cancellare le condizioni culturali tradizionali; tanto è che Mao stesso nel giustificare le sue scelte, fa più volte riferimento agli insegnamenti del grande filosofo cinese vissuto tra il 500 e il 400 a.C.. Per dirla chiara, anche Mao è uno di quei comunisti che hanno sepolto Marx sotto tonnellate di retorica ideologica. Quando tra il ’56-‘57 e l’inizio degli anni ’60, i cinesi rompono con il revisionismo sovietico, lo fanno proprio rifiutando la concezione e l’applicazione dei modelli economici e tecnologici sperimentati in Urss. Loro obiettivo è di passare rapidamente dal sistema estensivo al sistema intensivo, e attuano questo passaggio attraverso forme autonome di gestione su base territoriale, accompagnate da una forte attenuazione delle variazioni salariali in nome dell’unità del ciclo. Tappe di questo processo sono il “grande balzo” e la “rivoluzione culturale”, eventi che contrariamente alle aspettative dei loro autori provocano una forte conflittualità e si concludono con delle profonde crisi economico-sociali. Diversamente da Stalin, Mao è un dirigente tollerante. Egli sostiene che “a coloro che lanciano delle ingiurie contro di noi dobbiamo assicurare materialmente la loro esistenza permettendogli di dir male di noi” e la polemica nei confronti del partito comunista è considerata legittima. In forza di questo principio, alla metà degli anni ‘50, in Cina sono presenti numerosi partiti democratici sorti durante la guerra di resistenza al Giappone e alla lotta contro Chiang Kai-shek. Al fine di conciliare le contraddizioni esistenti in seno al popolo, Mao attribuisce un primato alla sovrastruttura e sollecita la discussione, la critica, la convinzione e l’educazione; sostiene che mentre “i lavoratori devono appropriarsi della cultura, gli intellettuali devono essere abituati al lavoro manuale”, cercando in questo modo di superare la storica divisione fra i due ambiti dell’attività umana. Egli considera il partito un’entità destinata ad estinguersi e sostiene che quando ciò avverrà non sarà per niente un momento penoso, ma i comunisti ne gioiranno. Ed è talmente convinto della giustezza delle sue idee che nel difenderle e imporle alle masse causa crudeli repressioni, semina discordia nel partito e nella società creando un’atmosfera di terrore, proprio come aveva fatto Stalin. La rivoluzione culturale combinata con il culto della personalità e con la “teoria del complotto” produce, infatti, una sorta di “grandi purghe” e provoca situazioni paradossali: chi non porta il distintivo – ad esempio – rischia grossi guai, mentre a chi viene sorpreso a strappare un tatsebao può anche capitare di essere fucilato con un colpo alla nuca. Ancora a metà degli anni ’70, prima che Mao muoia, tutti i reazionari sono considerati dai comunisti cinesi delle “tigri di carta” e la prospettiva del socialismo nel mondo è per loro una certezza: “I comunisti sono in tutto il mondo superiori alla borghesia, conoscono le leggi dell’esistenza e dello sviluppo delle cose e dei fenomeni, conoscono la dialettica e vedono più lontano… La sconfitta del capitalismo e il trionfo del socialismo sono una tendenza ineluttabile dello sviluppo storico: nessuna forza potrà impedirli”, sostengono. Il maoismo, dunque, non ha rappresentato una dottrina conforme alla teoria marxiana, ma è risultato essere una mescolanza di precetti e di pratiche che sono stati considerati consoni alla regolazione di una comunità complessa non ancora liberata da una condizione semifeudale. Se ovviamente una tale mistura, la quale differenzia il percorso compiuto dai cinesi da quello seguito dai russi, non giustifica di per sé la sopravvivenza della Cina al tracollo del socialismo dell’Est europeo, essa rappresenta sicuramente una particolarità che contribuisce a determinare una sua autonoma prospettiva. Dopo la morte di Mao nel grande Paese asiatico ha inizio un corso nuovo. Il giudizio che viene espresso sull’operato del defunto leader è che egli è stato “per tre parti cattivo e per sette parti buono” e tanto basta per avviare il processo di demaoizzazione. Mentre la retorica del “grande timoniere” resta patrimonio dei soli nostalgici e l’onnipotenza del partito viene drasticamente ridimensionata, la Cina si affida al libero mercato e dà inizio al decentramento dei poteri conseguendo rapidamente sul piano dello sviluppo economico eccellenti risultati. Mentre il tasso di accumulazione, dal ’49 in poi, non è mai sceso al di sotto della media del 25%, con l’inizio degli anni ’80 incomincia a raggiungere quote attorno al 40%. La transizione 367


dallo statalismo al socialismo di mercato avviene con una certa rapidità, dopo che per anni i comunisti cinesi hanno condotto una feroce polemica con i compagni di Mosca accusandoli di voler restaurare il capitalismo. E’ da notare che questo processo ha svolgimento sotto la direzione dello stesso partito comunista e prima ancora che Gorbacev dia avvio alla prerestrojka. I cambiamenti indotti dall’ascesa al potere di Deng Siao-ping producono profonde disuguaglianze e disfunzioni che causano un movimento di protesta il quale, nella primavera dell’89, sfocia nella rivolta di piazza Tien An Men. In prima fila, contro la nuova politica economica e contro la dilagante corruzione, vi sono gli studenti i quali vantano l’appoggio di centinaia di milioni di lavoratori e soprattutto di disoccupati agricoli e urbani. Com’è risaputo, quella contestazione viene repressa nel sangue di migliaia di manifestanti. All’indomani del crollo dell’Urss e dei Paesi dell’Est europeo, la Cina è quasi sganciata del tutto dalle regole dell’etica del comunismo ortodosso e il suo sviluppo è imperniato anche sui principi dettati da Adam Smith. All’egualitarismo viene sostituita la parola d’ordine “chi può si arricchisca prima, gli altri seguiranno” e nonostante che il Paese sia governato dal partito comunista, a imperare è la libertà d’iniziativa economica. Nelle scuole vengono eliminati i corsi di marxismoleninismo, mentre nella società persiste un restringimento dei diritti civili e della libertà di espressione politica. A metà degli anni ’90 il prodotto nazionale registra un incremento che è pari a circa cinque volte l’indice di vent’anni prima, raggiungendo un tasso annuo di quasi il 10%. Questo fa sì che il reddito dei contadini aumenti di circa quattro volte e quello dei residenti urbani di tre volte, mentre il numero delle popolazioni povere residenti nelle zone agricole subisce una significativa riduzione e il potere d’acquisto dei lavoratori continua a crescere in maniera spedita. Nonostante questo straordinario progresso, però, i fenomeni dell’inflazione e della disoccupazione non vengono eliminati e la disparità sociale tende ad accentuarsi. Prende corpo il “partito degli eredi” (quello che i cinesi chiamano taizidang) il quale è costituito dai figli degli alti dignitari dello Stato che hanno investito ingenti capitali di famiglia nelle imprese industriali e commerciali. E si aggrava pure la situazione ambientale: prima del processo di modernizzazione, il cielo sopra Pechino era terso, splendente, mentre con il libero mercato incomincia ad avere il sopravvento l’inquinamento; hanno pure inizio i fenomeni di esondazione dei corsi d’acqua. Grazie alle sue proprietà intensive ed estensive, il fenomeno cinese ha rappresentato per molti osservatori e commentatori economici un vero e proprio rompicapo. Eric Hobsbawm ha definito la Cina odierna “un grande mistero”. Altri intellettuali di sinistra l’hanno classificata una società del “socialismo liberista”, una forma di “capitalismo apocalittico”, una “economia di mercato inward looking”, cioè interiormente bella perché giudicata non aggressiva ed espansionistica come quelle dell’Occidente capitalistico. E in molti si sono chiesti se questo modello sia destinato a fare la fine dell’Urss, oppure a seguire il percorso compiuto dall’imperialismo, o se rappresenti invece una novità assoluta. Si tratta di una comprensibile curiosità la quale, però, al momento appare difficile da soddisfare. La storia insegna che tutto è possibile, anche ciò che a noi può sembrare improbabile. E poiché l’individuare la prospettiva di un tale modello sociale è un’impresa non semplice, torna saggio, a mio giudizio, limitarsi a riflettere su alcune sue caratteristiche e cercare almeno di capire cosa con molta probabilità non potrà rappresentare dal punto di vista di una sua continuità con la tradizione marxista. Appare intanto chiaro che i comunisti cinesi, nel prendere lezione dai ritardi registrati nell’evoluzione tecnologica dai Paesi del Comecon, hanno commesso l’errore di esagerare per eccesso nell’imitare il capitalismo. Pur mantenendo salda nelle mani dello Stato la proprietà dei mezzi di produzione e destinando spazi limitati all’iniziativa privata e alla spontaneità del mercato, essi si sono mossi in una logica di capitalismo globale. E non intendendo rinunciare alla loro eredità culturale, hanno dato vita a un sistema economico-sociale ibrido: la logica del capitale è stata innestata su un tessuto sociale rigorosamente regolato da un regime di socialismo autoritario. Oggi la Cina presenta le caratteristiche di una superpotenza che non si limita a operare scambi sui mercati mondiali, ma investe i suoi capitali nelle industrie e nelle finanze di una infinità di Paesi. Se 368


per un verso queste attività internazionali la avvantaggiano economicamente, per altro espongono la comunità cinese alla pratica e all’ideologia borghese, il che è appunto in netto contrasto con il regime politico. Questa contraddizione può rappresentare una minaccia alla stessa stabilità del potere comunista, perché il processo economico che gli eredi di Mao hanno messo in moto, è destinato a entrare inevitabilmente in collisione non solo con la memoria storica di questo Paese, ma anche con le condizioni materiali esistenziali della popolazione. Se fino ad ora, alle dirigenze è stato possibile controllare e domare l’insorgenza di conflitti sociali, non è detto che con l’accentuarsi delle contraddizioni la situazione possa sfuggire di mano, facendo così precipitare il Paese nel caos. Non avendo, dunque, cambiato il modo di produrre e di consumare, ma avendo adottato i principi economici del sistema capitalistico conciliandoli con una sovrastruttura di natura opposta, per di più autoritaria e con residui semifeudali, ben difficilmente la Cina potrà rappresentare un nuovo modello di socialismo capace di assicurare il raggiungimento di quegli obiettivi di emancipazione umana che restano il fondamento di una società comunista. Come ho già lasciato intendere, e come argomenterò più avanti, sono convinto che una esperienza di socialismo autenticamente nuovo e in grado di garantire democrazia, libertà e uguaglianza di diritti e di doveri non può sortire da realtà arretrate e per comando di una sola componente della società; per realizzarsi, l’alternativa al capitalismo ha bisogno del massimo sviluppo dell’attività umana e soprattutto di uno sforzo corale e consapevole dell’insieme della società civile. E questo processo, a mio avviso, non può che avvenire nei punti alti dello sviluppo capitalistico e più precisamente nel cuore dell’antico continente europeo. 10.11 – I regimi del “socialismo della povertà” Anche il socialismo cubano ha una genesi particolare e sul marxismo di Fidel e Raul Castro ci sarebbe molto da discutere. Qualche anno fa il “leader maximo” ha dichiarato a un giornalista che “di comunisti veri al mondo ne sono rimasti solo due, Oscar Niemeyer (il famoso architetto brasiliano) e il sottoscritto”. Io considero una simile affermazione un atto di millanteria non degna di chi si rifà alla teoria marxiana. Con buona pace di Fidel, di comunisti fortunatamente ne esistono ancora tanti, molti dei quali sono sicuramente più coerenti e credibili del dittatore cubano. Figlio di un agricoltore benestante, Fidel Castro frequenta scuole riservate ai ricchi fra cui un collegio diretto dai gesuiti. Si iscrive alla facoltà di diritto e aderisce alla Lega antimperialista che si batte per l’indipendenza di Cuba. Divenuto avvocato si distingue nel difendere la povera gente e nel nutrire una radicale avversione per Fulgencio Batista, protagonista di un colpo di Stato. Nel ’53, organizza un disastroso assalto alla caserma della Moncada e viene arrestato e condannato a 15 anni di carcere. Rilasciato poco dopo, fugge prima in Messico e poi negli Stati Uniti. Rimpatriato clandestinamente, nel ’56 fonda il “Movimento del 26 luglio” e con dodici uomini, tra cui il fratello Raul e “Che” Guevara, si rifugia sulla Sierra Maestra e dà inizio alla guerriglia contro Batista il quale, sconfitto militarmente, il primo di gennaio del ’59 abbandona l’isola. Prima della conquista del governo del Paese, Castro si scontra con il Partito comunista cubano che non condivide la sua strategia. Come provvedimento immediato, dopo l’insediamento al potere, egli riforma l’agricoltura e nazionalizza le società statunitensi e solamente all’indomani dell’embargo decretato dal governo americano e dello sbarco dei rivoltosi alla Baia dei Porci dichiara Cuba una repubblica democratica socialista. Lo sviluppo del socialismo nell’isola caraibica avviene in tre fasi. La prima (1960) è quella in cui, oltre alla riforma agraria, viene attuata un’equa distribuzione dei redditi e viene compiuto uno sforzo per concentrare l’attività produttiva nel settore dei beni di consumo. Si tratta di una forma di capitalismo di Stato senza caratteristiche socialiste. La seconda, cosiddetta di transizione, è caratterizzata dal rafforzamento del settore pubblico e da un cauto tentativo di commercio aperto con tutti e tre i mondi (socialista, non allineati, capitalista). La terza (1961), è ispirata al marxismoleninismo e si contraddistingue per una pluralità di interventi e cioè: una più avanzata riforma 369


agraria con la creazione di un settore statalizzato a fianco di quello cooperativo; l’inquadramento dei piccoli proprietari in un’organizzazione destinata a favorire la loro evoluzione verso forme di lavoro associato; un processo di industrializzazione e la creazione di un ministero ad hoc. Il commercio sia interno che estero viene sottoposto alla diretta gestione dello Stato, mentre tutte le attività economiche pubbliche vengono inquadrate in un “piano socialista”. Nel 1963, il blocco decretato dagli Usa dopo la vicenda della installazione dei missili sovietici sull’isola, viene attuato da buona parte degli alleati atlantici e la situazione economica del Paese si aggrava. Problema serio è quello rappresentato dalla mancanza dei pezzi di ricambio dei macchinari. Per di più, Cuba si trova a dover far fronte alle attività armate dei controrivoluzionari e ai continui sabotaggi. Si impone così una revisione della politica economica. Viene data la priorità all’agricoltura rispetto all’industria e riorganizzato il settore attraverso la nazionalizzazione delle medie proprietà terriere. Nelle imprese viene adottato un sistema di incentivazione basato sul cottimo quale stimolo di tipo materiale alla produttività. Su questo insieme di misure nel governo e nel partito si apre una vivace discussione. Sull’incentivazione e sulla legge del valore, in particolare, sorge una polemica tra “Che” Guevara, ministro dell’industria, e altri ministri nella quale intervengono anche gli economisti Charles Bettelheim e Ernest Mandel. Il “Che” ritiene che il solo modo di essere della società socialista sia quello della pianificazione centralizzata, ma rigetta l’equazione pianificazione uguale burocratismo. Parimenti, avversa l’introduzione dell’incentivazione quale stimolo materiale, perché a suo avviso ritarda lo sviluppo della morale socialista. Dopo aver svolto una serrata critica a riguardo delle scelte compiute in campo economico, mentre accusa la leadership cubana di aver commesso un errore nel voler copiare tout court le esperienze dei Paesi socialisti, denuncia la “mancanza di interesse da parte dell’individuo a rendere un servizio allo Stato”. Lo scontro con Castro è inevitabile e il dissenso lo induce ad abbandonare Cuba per tentare di dare corpo al suo proposito di estendere la rivoluzione nei Paesi dell’America latina (“creare due, tre, molti Vietnam”). Il motto che ha caratterizzato il suo agire politico è: “Noi lottiamo contro la miseria, ma al tempo stesso contro l’alienazione. Uno degli obiettivi fondamentali del marxismo è far scomparire l’interesse, il fattore interesse individuale e il lucro dalle motivazioni psicologiche”. La Cuba che si sta costruendo non è certo quella sognata dal “Che”. Dalla metà degli anni ’60 in poi, il suo impianto economico appare sempre più simile al modello sovietico (nel ’72, infatti, aderisce al Comecon), con l’aggravante che il Paese è privo di risorse proprie, salvo la produzione di zucchero e l’estrazione di nickel e cobalto, e anche per questo rimane in condizioni di sottosviluppo. Fintanto che esiste l’Urss, i cubani usufruiscono di sostegni al commercio e di aiuti finanziari, nonostante che Castro si pronunci contro la politica riformatrice di Gorbacev. Ma quando crolla il socialismo reale la recessione assale l’isola. La carenza di materie prime industriali e di fonti energetiche sia combustibili che idriche, lo stato di obsolescenza di buona parte degli impianti in funzione e la mancanza di personale specializzato, complicano la situazione. Nello stesso settore saccarifero si registra un calo della produttività e della produzione. A metà degli anni ’90, dopo che per anni al rilancio del settore agricolo si è alternato senza successo il tentativo d’industrializzazione, il governo adotta alcune misure di stampo capitalistico: istituisce cioè i ristoranti familiari, consente il lavoro in proprio e apre le porte ai turisti facendo diventare questo settore il motore dello sviluppo. Autorizza quindi l’uso del dollaro come moneta alternativa al peso e sollecita la costituzione di joint-venture con imprese straniere. Queste misure danno un po’ di respiro all’economia, ma le difficoltà nello sviluppo permangono. Se c’è chi guadagna bene con l’attività turistica, chi svolge altri mestieri deve farsi in quattro per sbarcare il lunario. I salari percepiti dalla stragrande maggioranza dei lavoratori, alla fine del primo decennio del 2000, oscillano tra i 17 e i 20 dollari al mese e non mancano disparità di trattamento: un contadino guadagna più di un medico. Cuba si situa al 95° posto nella graduatoria mondiale del reddito procapite. Soprattutto, nell’isola esiste una diffusa disoccupazione. A seguito della recente crisi che investe l’intero Occidente, gli esponenti del governo de L’Avana hanno annunciato che dovranno essere tagliati non solo gli “esuberi” nella pubblica amministrazione e nelle aziende statali (dove 370


trova collocamento l’85% dei 5 milioni di lavoratori cubani), ma anche i sussidi ai disoccupati che fino ad ora sono stati riconosciuti a tempo indeterminato. Nel 2008, lo stesso Raul Castro ha dovuto ammettere che “a Cuba si lavora poco, sempre meno” e ha denunciato che “in otto anni un terzo delle terre coltivabili sono state abbandonate”. Eppure Cuba è al secondo posto nella graduatoria mondiale per il tasso di alfabetizzazione, dispone delle migliori scuole del mondo, la sanità è gratuita e l’aspettativa di vita è oltre i 76 anni. Lo stato abitativo, invece, è tutt’altro che soddisfacente. Le ultime costruzioni edificate nel centro storico della vecchia L’Avana risalgono agli anni ’50. Di recente Raul Castro ha dato ai cubani la possibilità di costruirsi la propria casa, ma la popolazione si aspetta che venga concessa la possibilità di vendere e comprare immobili senza passare dalla finzione della permuta con mazzetta che purtroppo regola da anni il mercato. Da poco è stato fatto cadere il divieto, in vigore da 50 anni, di comprare e vendere automobili, dato che del parco macchine fanno parte i veicoli giunti sull’isola prima della rivoluzione. Indubbiamente, l’embargo pesa sull’economia cubana come un macigno; anche se numerose sono le imprese europee che operano sull’isola. A denunciare il criminale effetto che questa ritorsione dell’Occidente ha sull’isola, ci ha provato anche Giovanni Paolo II in occasione della sua visita alla fine degli anni ’90. E oltre al blocco economico il regime è continuamente soggetto a una furiosa campagna anticastrista e a ricorrenti tentativi di rappresaglia. La situazione, insomma, è tale da non rendere certo agevole l’azione di governo. A rendere difficile il conseguimento di una forma avanzata di socialismo contribuiscono però anche fattori che non sono imputabili ai “nemici” di Cuba. E questi fattori riguardano la natura stessa del regime e gli errori compiuti dalla sua stessa classe dirigente. Ecco alcuni esempi! Nell’amministrazione del settore pubblico è presente un processo di degenerazione burocratica che ha prodotto un’elefantiasi dei quadri, non poche incompetenze e pratiche dello scaricabarile e forme di corruzione che seppur marginali vanificano i postulati costituzionali di giustizia sociale e di uguaglianza. Non sono poche le scelte sbagliate compiute anche nel governare l’economia. Alla rapida espansione del mercato popolare non ha fatto seguito un adeguato aumento della produzione di beni di consumo, persino di generi di prima necessità. Si è poi proceduto all’aumento dell’occupazione e all’elevamento dei salari senza aver compiuto le indispensabili scelte economiche per garantire il loro mantenimento nel tempo ed essersi preoccupati di conseguire un corrispondente accrescimento degli indici di produttività sociale. A questi errori vanno poi aggiunti quelli riguardanti le libertà politiche e i diritti civili. Il dissidente Carlos Franqui ha accusato Fidel Castro di mantenere il potere con il terrore e di non aver mai permesso l’esistenza nel Paese di un’opposizione. Avendo combattuto al suo fianco sulla Sierra Leone, egli non può certo essere considerato un avversario della rivoluzione. La sua critica può essere condivisa o meno, sta però di fatto che l’area del dissenso, nel tempo, anziché restringersi si è allargata. Almeno stando alle cronache giornalistiche, i gruppi di opposizione presenti a Cuba, ai primi degli anni 2000, ammontano a circa 200 unità, tra cui il Movimento cristiano di liberazione e la Corrente socialista democratica cubana, due formazioni queste che vantano una certa consistenza. Esiste anche il gruppo “Progetto Varala” che si batte per l’affermazione della democrazia. Essendo elevato il grado di religiosità di larga parte del popolo, le chiese sono liberamente frequentate da molte persone di tutti i ceti, specie dopo la visita di Papa Wojtyla. Formalmente, una certa libertà di espressione esiste, tanto è che a L’Avana è insediata la sede della Grande Loggia massonica la quale conta 314 sedi periferiche diffuse in tutto il Paese e alle quali, a metà degli anni ’90, aderivano 24.000 affiliati. I cubani vengono anche chiamati a eleggere l’Assemblea nazionale e nel 2008 si è recato alle urne il 91% degli aventi diritti al voto i quali hanno scelto i 614 deputati proposti dal regime su un’unica lista. Nel 2002, a dire sì alla proposta di riforma costituzionale che ha riconfermato la scelta di Stato socialista, sono stati quasi 10 milioni di cubani sugli 11 milioni residenti.

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Nonostante le aperture che di recente il governo ha fatto sul fronte della democrazia, il malcontento è diffuso e la richiesta di maggiore libertà è continua. Già alla metà degli anni ’70 Fidel ha deciso di accentrare nella sua persona la carica sia di capo del governo che di presidente della repubblica, operando in questo modo un accumulo di poteri che è tipico dei regimi dittatoriali. E non è certo da considerarsi un atto di democrazia la stessa surrogazione del fratello Raul a seguito della precarietà del suo stato di salute. Sono queste, pratiche degne dei sovrani assolutisti, non confacenti certo a chi si ripromettere di costruire una società nuova e più giusta. Il fatto stesso che dal ’59 ad oggi, cioè in più di mezzo secolo, il Partito comunista cubano abbia convocato solo sei volte il proprio congresso (l’ultimo è stato celebrato nel ’97), è la testimonianza di una prassi tutt’altro che democratica. Se poi si considera che i tre più influenti dirigenti del regime (Raul Castro, Josè Machado Ventura e Ramiro Valdez) hanno un’età che somma a quasi due secoli e mezzo e che dei 15 membri del politburo, attualmente in carica, solo tre sono da considerarsi nuovi dirigenti, il quadro che si compone davanti agli occhi non è certo incoraggiante. E’ poi una vera e propria contraddizione il fatto che a Cuba (ma questo avviene anche in Cina, in Corea del Nord e nel Vietnam) sia ancora vigente la pena di morte. E’ pur vero che il terrorismo anticastrista ha provocato 3.000 vittime, che lo stesso Fidel ha subito 638 attentati e che il regime è preso di mira sia dai rivoltosi interni che esterni sostenuti dai servizi segreti americani, ma il ricorso alla condanna capitale non può certo conciliarsi con il proposito di dare corpo a una società più evoluta e più umana di quella sottoposta alle leggi del capitale. Nel codice penale cubano è oltretutto contemplato il reato di “pericolosità sociale e pre-delittiva” la cui applicazione consente ampi margini di discrezionalità e favorisce comportamenti discriminatori lesivi della libertà di pensiero e di espressione. Nel 2006, nelle carceri cubane risultavano reclusi 316 dissidenti. Nei decenni passati sono state in funzione le “unità militari di aiuto alla produzione” che rappresentavano una sorta di campi di lavoro forzato in cui erano reclusi coloro che contestavano il regime. Per gli omosessuali, ritenuti elementi degenerati, è prevista la rieducazione. Da noi un simile atteggiamento è considerato tipico dei più ostinati conservatori e giustamente combattuto da ogni democratico. Ai cubani è poi reso difficile o quasi impossibile accedere a internet e alle televisioni straniere. Si comprende pertanto perché mentre in Occidente molti giovani indossano le magliette del “Che”, quelli cubani preferiscono le t-shirt di Dolce e Gabbana. L’anomia sembra essere un fenomeno diffuso sull’isola e il socialismo più che essere vissuto dal popolo con la convinzione di chi sta tentando di costruire un nuovo mondo, sembra essere semplicemente sopportato. Sono in molti a chiedersi quale sarà il futuro di Cuba e del suo sistema sociale. Si dice che Raul Castro, convinto – come ha dichiarato a un giornalista americano – che è troppo grande il ruolo che lo Stato ha nell’economia, insegua il modello cinese di “socialismo liberista”, promettendo più ampie aperture sul piano delle libertà economiche, ma poche concessioni su quello delle libertà politiche. “O cambiamo o finiamo dritti al fallimento”, ha dichiarato di recente. Una prospettiva questa, tutt’altro che incoraggiante. Anche dal socialismo sperimentato a Cuba, dunque, c’è poco da attendersi dal punto di vista di un’innovazione del modello socio-economico oltre che sul fronte politico-culturale. L’esperienza ”socialista” della Corea del Nord è addirittura paradossale. Pare che in quell’angolo della Terra il tempo si sia fermato all’epoca della dinastia di Yi Song-ye, fondata oltre sei secoli fa. a rimpiazzarla è la stirpe dei Kim: Kim Il-Sung, il padre della patria considerato presidente anche da morto; Kim Jong-Il, il “caro leader” morto di cancro; il figlio Kim Jong-un suo successore alla maniera dei regnanti. La filosofia dei Kim non è di certo il marxismo, ma è la Juche secondo la quale “l’uomo è signore e artefice del suo destino”, un principio che ovviamente vale per i Kim, ma non per i restanti 23 milioni di coreani del Nord.

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Nella Corea “socialista” si muore addirittura di fame. Se negli anni ’70 i contadini sopravvivevano mangiando erbe e scorze, alla fine degli anni ’90, anche a causa di calamità naturali, il 30% dell’infanzia risultava essere in stato di denutrizione. Dopo che sono venuti meno gli aiuti di Mosca, l’economia è entrata in una fase di recessione che sembra non avere fine. Gran parte delle fabbriche sono improduttive per mancanza di carburante. Il reddito pro capite medio annuo è di 1.700 dollari, pari a 4,6 dollari al giorno. Anche la Corea del Nord è strozzata dall’embargo decretato dalle potenze occidentali, ma ai disastri causati dall’isolamento è da aggiungere l’incapacità del sistema di garantire alla popolazione le condizioni di una pur modesta, ma dignitosa esistenza. Mancano le risorse per il progresso sociale anche se ci sono per l’armamento bellico. Il governo “socialista” di questo Paese, profondamente segnato dalla miseria, ha trovato il modo di diventare, nel 2006, l’ottava potenza nucleare del mondo e si è dimostrato in grado di rimediare i mezzi necessari per mantenere in vita un esercito di 1.200.000 soldati, di dotarlo di 4.000 carri armati, 500 aerei caccia e bombardieri, un centinaio di missili e 1.000 tonnellate di armi chimiche e batteriologiche. Nel 2009 l’Onu è intervenuta per bloccare la costruzione presso un cantiere navale italiano di due mega yacht dal costo di 13 milioni di euro che erano stati ordinati da Kim Jong-Il, in barba alle esigenze primarie del suo popolo e al principio socialista di eguaglianza sociale. A chi protesta per le ingiustizie del sistema vengono riservati campi di concentramento (situati a Kyungsung, Hichon, Kaecho e Jungpyung) nei quali è in funzione la tortura e si rischia di morire. In questi gulag finiscono anche i familiari di chi tenta la fuga dal Paese. A meravigliare e a procurare rabbia, è il fatto che si consenta a simili regimi di autodefinirsi socialisti. Infine, anche il Partito comunista del glorioso Vietnam ha pensato bene di rivolgersi al mercato per far uscire il Paese dalla sua storica situazione di miseria. Anche qui i tentativi compiuti nel corso degli anni di riformare un sistema fondato sulla statalizzazione dell’economia e della società e sul controllo del partito-Stato non hanno funzionato. Le speranze che in quel martoriato Paese sortisse un nuovo modello di socialismo degno del prestigio conquistato durante la lotta di resistenza agli invasori, sono svanite. Solo dopo che la classe dirigente si è messa sulla scia delle riforme cinesi, il corso economico ha cambiato segno: mentre nell’80 il reddito pro capite era di 429 dollari, nel 2005 ha raggiunto quota 3.024 dollari. La popolazione in stato di povertà che nel ’93 raggiungeva il 58%, sempre nel 2005 era scesa a meno del 20%. Entrato nella Wto, l’Organizzazione mondiale del Commercio, il Vietnam ha stabilito permanenti relazioni commerciali con gli antichi oppressori, gli Stati Uniti d’America, firmando accordi bilaterali con la reazionaria presidenza Bush. I figli dei vietcong che trent’anni fa hanno sconfitto l’esercito dello zio Sam, ora vanno a scuola dai marines per apprendere l’arte militare e la medicina di guerra. Da quando è stata compiuta la svolta di orientamenti, la dirigenza vietnamita è diventata anche più tollerante nei confronti dei dissidenti. Duong Thu Huong, già comandante di una brigata comunista durante la guerra contro gli americani, e poi in disgrazia per dissenso, è stata espulsa dal partito e dopo sette mesi di carcere le è stato consentito di prendere la strada dell’esilio. Nonostante i miglioramenti conseguiti in questi ultimi anni, il nuovo stato sociale non soddisfa ancora il popolo. Prima di morire, Vo Nguyen Giap, mitico generale vietnamita che ha sconfitto prima i francesi e poi gli americani, ha ripreso la parola per reclamare più democrazia e trasparenza nel governo. Per un quarto di secolo, del resto, egli è stato tenuto lontano dalla politica perché troppo ingombrante e fuori degli schemi. Quasi centenario, ha scatenato la sua ultima battaglia anche in difesa dell’ambiente che è minacciato da mastodontici progetti minerari. A testimoniare come siano cambiate le cose nel Paese che per decenni ha rappresentato un simbolo di resistenza all’imperialismo suscitando manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo, ci stanno le aspirazioni del suo primo ministro Nguyen Min Triet. Quando questi si è recato in Italia, in una delle sue prime apparizioni davanti ai teleschermi si è premurato di far sapere che era ansioso di incontrare Berlusconi, non certo per contestargli l’anticomunismo viscerale che lo contraddistingue, ma per pregarlo di riportare il Milan in cima alle classifiche. 373


E’ sufficiente una simile testimonianza per comprendere che neanche da quello che fu il glorioso e irriducibile Vietnam non c’è proprio nulla da aspettarsi in termini di rinnovamento del socialismo.

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