I racconti del nonno

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Vittorio Moioli

I racconti del nonno Ricordi degli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza

Settembre 2016 1


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Indice Premessa

Pag.

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1. Le mie origini e parentele

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2. Il ricordo di mio padre

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4. Il trasferimento nella casa dei nonni

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5. La fuga dai bombardamenti

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6. I tribolati anni dell’adolescenza

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7. Le mie prime esperienze sessuali

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8. Dopo la scuola, le vacanze in Svizzera

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9. Apprendista tintore a 15 anni

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10. Le passioni della prima gioventù

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11. Delusioni e patimenti dello studente lavoratore

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12. L’avanzamento a impiegato

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3. Un cattolico convinto che si è sacrificato sull’altare della farneticazione fascista

13. L’incontro con Mariarosa

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14. I ricoveri in sanatorio

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15. La scoperta di un altro mondo

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16. Le goliardate irresponsabili

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17. Il rientro dall’Albania della salma di mio padre

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18. Il ritorno a casa e le dimissioni dalla Legler

“ 113

19. La fine di un’epoca e l’inizio di un “nuovo ordine” di vita

“ 120

20. Conclusioni

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Appendice

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Premessa La stesura di questa sommaria ricostruzione dei primi venti e rotti anni della mia vita mi è stata richiesta e sollecitata insistentemente da mia nipote Daniela. Superate le perplessità sull’opportunità di assecondare tale desiderio, il suo invito, per un verso, mi ha stimolato a fare un riepilogo della mia prima fase di esistenza e dare quindi significato a quanto mi è capitato di sperimentare, sia nel bene che nel male; per altro, mi ha convinto che avrebbe potuto rappresentare una qualche utilità anche per gli altri nipoti interessati a conoscere meglio il vissuto di uno dei loro nonni. Ricordare loro i momenti di dolore e di gioia che ho vissuto – ho riflettuto – può servire a comprendere la diversità di condizione sociale e culturale delle diverse generazioni che è determinata dal progresso economico e civile. E il confronto tra i miei comportamenti, i miei condizionamenti sociali e culturali, le mie aspirazioni e la loro esperienza potrebbe rappresentare una modesta lezione di vita da cui trarre insegnamento. Ho così stimolato la memoria e ho passato in rassegna gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima gioventù. Ho compiuto un tale sforzo con la consapevolezza delle inevitabili tare che qualsiasi ricostruzione storica porta con sé. Non solo la vecchiaia rende più opaca la memoria, ma la coscienza di sé non è mai un’identità invariabile, al contrario; infatti, qualsiasi narrazione è ipotecata dai cambiamenti che si subiscono incessantemente nel corso dell’esistenza i quali attribuiscono maggiore o minore importanza ad alcuni aspetti piuttosto che ad altri. Pertanto, può essere che io abbia ecceduto nel raccontare certi episodi e abbia invece trascurato o sminuito altri accadimenti. Per questo chiedo comprensione. Del resto, è legge di natura che pochissimi dei nostri ricordi ci pervengono nella loro autentica purezza. Nella stesura e nella composizione di questi Racconti mi sono avvalso dei consigli e della preziosa collaborazione dei miei figli, nonché di quella dei parenti che mi hanno fornito il materiale fotografico. A tutti esprimo un cordiale ringraziamento. L’augurio che mi faccio è che questo mio lavoro ottenga il loro apprezzamento. Settembre 2016

v.m. 5


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1. Le mie origini e parentele Sono venuto al mondo in quel di Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo, alle ore 2 del 27 marzo 1938, uno degli anni più bui del ventennio fascista. Avevo pochi mesi quando Mussolini ha decretato la difesa della razza nelle scuole dando avvio all’olocausto italiano. Il 1938 è anche l’anno in cui è stata abolita la stretta di mano nelle relazioni sociali e introdotto il saluto fascista, imposto il “voi” al posto del “lei” e adottato il passo dell’oca nelle marce militari e nelle manifestazioni di regime. Il meglio degli italiani era discriminato e perseguitato e coloro che non accettavano di sottostare all’ideologia e alle direttive del regime fascista si ritrovavano nella condizione di dover abbandonare il Paese e riparare all’estero per assicurarsi un’esistenza degna di essere vissuta. La resistenza armata non era ancora praticata. La casa in cui mia madre mi ha partorito era situata in via Garibaldi, sulla sponda sinistra del fiume Brembo, di fronte all’hotel ristorante Bellavista, a poco più di un centinaio di metri a Sud della Cooperativa Legler. A quel tempo Ponte San Pietro era un paesotto che vantava la presenza di alcune importanti industrie tra cui il cotonificio Legler e la Caproni, fabbrica di aerei, e contemporaneamente aveva un notevole ruolo commerciale a livello di zona, pur mantenendo viva la sua tradizione agricola attraverso la presenza diffusa di nuclei contadini composti prevalentemente da affittuari e mezzadri. Mia madre, Giuseppina Bonacina, mi ha dato alla luce quando aveva 26 anni (era nata a Brembate Sopra il 19 marzo 1912 ), mentre mio padre, Riccardo, ne contava 28 (era nato anch’egli a Brembate Sopra il 24 agosto 1910). Si erano sposati dieci mesi prima. Ambedue provenivano da famiglie che oggi vengono considerate numerose e le cui condizioni economico-sociali erano modeste. Mio nonno paterno si chiamava Ernesto Angelo (nato nel 1883). In prime nozze ha sposato Rosalinda Rotigni con la quale ha messo al mondo sei figli: Antonietta, Riccardo, Abele, Elso, Oreste e Vittorio. Della vita dei nonni e degli zii paterni la mia conoscenza è parziale, sia a causa della morte prematura di mio padre, sia perché tra questo ramo della parentela e la mia famiglia, i rapporti non sono stati costanti e spesso per nulla sereni a causa dell’insorgenza di dissidi e controversie al cui riguardo ho avuto solo vaghe spiegazioni. La famiglia di mio padre si è trasferita da Brembate Sopra a Ponte San Pietro all’indomani della morte di Rosalinda (deceduta nel 1925) quando Riccardo era ancora adolescente. Rimasto vedovo, mio nonno Ernesto Angelo, che era un “capo” tessitore presso il cotonificio Legler, si è risposato con un’avvenente signora il cui consorte era pure defunto da poco tempo. Quando egli ha contratto il secondo matrimonio, mia zia Antonietta (nata nel 1907) era già fuori casa giacché maritata, mentre i tre figli Riccardo, Abele, che era suo gemello monozigote, ed Elso (nato nel 1915) vivevano ancora in famiglia. Oreste (nato nel 1913) si trovava invece ricoverato in un istituto neuropsichiatrico a causa di 7


1 - Hotel Bellavista via Garibaldi, Ponte San Pietro.

2 - Giuseppina Bonacina e Riccardo Moioli, nel giorno del loro matrimonio. 8


3 - Rosalinda Rotigni ed Ernesto Angelo Moioli nel giorno delle nozze.

4 - Gli stessi nonni in etĂ avanzata.

5 - Nonna Rosalinda. 9


6 - Zia Antonietta Moioli.

7 - Zio Abele Moioli.

8 - Zio Elso Moioli.

9 - Zio Oreste Moioli. 10


una grave malattia: la polioencefalite; mentre l’ultimogenito Vittorio è morto poco dopo la sua nascita (nel 1918). La permanenza di Riccardo, Abele ed Elso nella nuova abitazione di via Piave è stata di breve durata. La matrigna, che aveva un figlio nato nel precedente matrimonio, nel governare la nuova famiglia considerava normale assecondare nei bisogni e nei capricci il proprio pargolo, mentre trascurava i figli adottivi. A questi faceva mancare il necessario e un tale comportamento ha determinato un clima di antagonismo e di tensione continua nei rapporti familiari. Mio zio Elso mi ha raccontato che lui e i suoi fratelli, al mattino quando si alzavano, dovevano spesso contendersi addirittura i calzini, mentre il fratellastro poteva disporre del meglio di tutto; e pure che la matrigna era soprattutto interessata a “farsi bella”, ad apparire in pubblico, mentre in casa era sfaccendata. Anche mia madre mi ha raccontato che la suocera acquisita amava il lusso, sperperava i soldi nell’acquisto di vestiario e di cosmetici e per soddisfare le sue ambizioni aveva dilapidato i risparmi che nonno Ernesto Angelo aveva accumulato nel corso degli anni. Fatto è che quando il nonno è morto, mente Abele ed Elso hanno trovato ospitalità in famiglie di amici e conoscenti, mio padre, che nel frattempo si era fidanzato con mia madre, ha dimorato per alcuni mesi presso l’oratorio diretto da don Alessandro Ceresoli, in un vano messo a disposizione di quei giovani che non erano in buoni rapporti con le loro famiglie o che ne erano addirittura privi. Le poche notizie raccolte e i giudizi che esprimevano i miei parenti sulla matrigna di mio padre, mi hanno profondamente impressionato sin da quando ho incominciato a fare uso della ragione e credo di aver somatizzato parecchio al riguardo, al punto che i miei atteggiamenti nei confronti della mia nonna adottiva erano contrassegnati da un senso di ripulsa. Quando durante la mia adolescenza ho avuto modo di conoscerla, forse anche per le vicende che mi erano state riferite a mezza bocca, non sono mai riuscito ad avere con lei un rapporto di stima e di affetto, anzi in più occasioni le ho persino manifestato avversione e rigetto, tanto da rifiutarle il saluto e fuggire alla sua vista. Ricordo che ogni volta ero in procinto di incontrarla per strada, nel timore che lei mi invitasse ad assecondarla e a chiamarla “nonna”, invertivo il mio cammino non riuscendo a dominare la mia avversione. Mi risultava non solo antipatica, ma a tratti mi appariva addirittura una fattucchiera. Mi ero convinto addirittura che avesse sposato mio nonno per motivi d’interesse e non per amore. Ernesto Angelo, almeno come mi è stato descritto da chi l’ha conosciuto, era un uomo interessante, forse anche un tipo piacente, e per le sue scorribande amorose era soprannominato “l’òsél”; era in sostanza un personaggio tale da risultare affascinante anche sotto l’aspetto sessual-amoroso. Per mia nonna adottiva, però, era probabilmente considerato soprattutto fonte di un buon salario e quindi garanzia di una dignitosa sistemazione. Egli è morto il 5 maggio del 1936, precisamente ventidue mesi prima che io nascessi. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo di persona, magari anche per manifestargli il mio disappunto per il discutibile atteggiamento assunto nei confronti dei suoi figlioli, ma il destino ha voluto che di lui mi giungessero solo sparute narrazioni. 11


La famiglia Bonacina era composta da mio nonno Battista (nato nel 1878), dalla nonna Angela Ratti, chiamata anche Carola (anche lei nata nel 1878), e oltre a mia madre, da Lucia (nata nel 1900), Maria (1902), Teresa (1904), Vittorio (1907), Clementina (1909), Angelo (1914) ed Elvira (1916). Dalla “cà di erem” (casa dei vermi), situata nel territorio di Brembate Sopra, a NordOvest del cotonificio Legler, sulla strada provinciale che congiunge il paese con Ponte San Pietro, la famiglia Bonacina si è trasferita in uno dei primi otto edifici dei “Giurati”, quartiere di case operaie originariamente destinate al personale di vigilanza dello stabilimento (da qui il nome “Giurati”) situato a Sud dello stesso stabilimento Legler, sulla sponda destra del fiume Brembo. I genitori di mia madre, ambedue originari di famiglie contadine, dopo le nozze si sono inseriti nel mondo della nascente classe operaia. Mio nonno Battista era soprannominato “Minoss”. Aveva un fratello che era un fittavolo e coltivava un appezzamento di terra in mezzo ai boschi in località Fontanella, al confine tra i comuni di Mapello e Sotto il Monte. Aveva anche una sorella la quale abitava a Mozzo. Per molti anni egli ha svolto il ruolo di guardia giurata presso il cotonificio Legler dopo di che, raggiunta l’età pensionabile, ha ricoperto il ruolo di giardiniere nella villa del presidente dello stesso cotonificio dal quale era apprezzato e benvoluto. Mia nonna era una casalinga. Quando avevo quattro o cinque anni ho conosciuto sua madre, cioè la mia bisnonna. Si chiamava Maria Atonia Roncelli, vedova Ratti, ultraottantenne aveva una forte personalità al punto tale da impressionare anche un adolescente qual io ero. Ricordo di averla vista in casa dell’ultimo dei suoi figli, alla Merena, un quartiere a ridosso del confine di Ponte San Pietro con Curno (a quel tempo Curdomo). Sedeva accanto a un vecchio camino e il suo sguardo era severo, il suo contegno incuteva rispetto. Mia nonna mi aveva spiegato che dopo aver perso il marito e cessato di lavorare i campi, aveva intrapreso il commercio del carbone, un mestiere che di per sé richiedeva determinazione e grinta. Mia nonna Angela aveva due sorelle e cinque fratelli, in maggioranza occupati in attività agricole. La sorella minore era stata gravida ben diciotto volte, però solo sei o sette figlie sono sopravvissute, poiché aveva avuto diversi aborti e la maggior parte dei nati sono deceduti durante il parto o immediatamente dopo. Suo marito era un mezzadro che manifestava scarsa resistenza ai piaceri dell’alcol, ragion per cui, dopo le fatiche della dura giornata nei campi, pretendeva la disponibilità della moglie all’accoppiamento prima di addormentarsi, procurandole così gravidanze a ripetizione. L’altra sorella viveva a Brembate Sopra ed era coniugata con un personaggio assai singolare, noto per essere un autentico giullare, il “Mégna”; mentre i fratelli erano affittuari e mezzadri ed abitavano rispettivamente in paesi diversi: uno a Mozzo, un altro alle Ghiaie di Bonate Sopra, un altro ancora a Prezzate di Mapello e l’ultimo a Curno. Da parte di padre ho acquisito due zii: i due mariti di Antonietta, rispettivamente Antonio Beretta e Carlo Carrara, e due zie, le mogli di Abele (Silvia Assolari) e di 12


10 - Famiglia Bonacina. Mancano Angelo ed Elvira perchĂŠ non ancora nati.

11- Bisnonna Maria Antonia Roncelli.

12 - Nonno Battista Bonacina. 13


13 - Zia Lucia Bonacina.

14 - Zia Maria Bonacina.

15 - Zia Teresa Bonacina.

16 - Zio Vittorio Bonacina. 14


17 - Zia Clementina Bonacina.

18 - Mamma Giuseppina Bonacina.

19 - Zio Angelo Bonacina.

20 - Zia Elvira Bonacina. 15


21 - Nonna Angela con Elvira.

22 - Nonna Angela con Ernesto.

23 - Il quartiere “Giurati� delle case Legler per operai e impiegati. 16


Elso (Annita Armanini). Da parte di madre, invece, una zia (Maria Sana) sposata prima con Vittorio poi con Angelo, e 2 zii, i mariti di Lucia (Lorenzo Zanni) e di Elvira (Rodolfo Maestretti, cittadino svizzero il quale dopo la morte della zia si è risposato con Teresa Maggi). Maria, Teresa e Clementina sono invece rimaste nubili. Di cugini ne ho avuti nove: cinque femmine (Federica e Vittorina Zanni, Marina e Vittoria Bonacina ed Emma Beretta) e quattro maschi (Giovanbattista Beretta, Guglielmo Zanni, Riccardo e Luciano Moioli). Due figli di zia Elvira sono invece morti poco dopo la loro nascita, mentre un figlio di zio Vittorio, Angelino, è deceduto per ustioni in tenera età dopo essere caduto accidentalmente in una tinozza colma d’acqua bollente pronta per il bucato in casa di mia nonna.

2. Il ricordo di mio padre Suppongo che mia madre e mio padre si siano conosciuti sul luogo di lavoro, cioè al cotonificio Legler, dove mio padre era assistente nel reparto tessitura e mia madre operaia in filatura. Prima di sposarsi, lei viveva con i genitori e le sorelle ai “Giurati”, mentre dopo le nozze, la coppia ha preso in affitto l’appartamentino nel quale sono nato, in via Garibaldi. Situata in un vecchio edificio rurale, l’abitazione era distribuita su due piani: la cucina a pian terreno e le due camere da letto al primo piano. I servizi igienici erano invece in comune, posti in un angolo del cortile erano costituiti da un bugigattolo privo d’acqua corrente e di luce elettrica. A farne uso erano almeno una diecina di persone adulte, tutte residenti nell’agglomerato urbano. Uno dei tre nuclei familiari che occupavano il rustico, oltre a coltivare i campi, nel periodo autunnale era dedito alla produzione di vino e pigiava l’uva in un vecchio impianto che, nei mesi autunnali, infondeva nell’ambiente circostante un gradevole profumo di mosto. I miei primissimi anni di vita hanno avuto pertanto svolgimento in un ambiente contadino prossimo a subire le conseguenze della rivoluzione industriale. Del periodo che intercorre tra la mia nascita e l’età di poco più di tre anni, ho pochissimi e vaghi ricordi i quali sono legati soprattutto alla memoria di mio padre. Un giorno, credo fosse un sabato, mia madre stava apprestandosi a preparare il pranzo e grattugiava il formaggio da versare sulla pasta asciutta. Io le ho espresso il desiderio di avere un po’ di quel formaggio, ma essendo ormai prossimi all’ora di pranzo, lei me lo ha negato. Indispettito da quel rifiuto, ho fatto la pipì nelle brachette. Di fronte al quel mio capriccioso atteggiamento, lei mi ha rimbrottato e ha auspicato che fosse presente mio padre per castigarmi a dovere. Un istante dopo quel suo monito, ho avvertito sul culetto una violenta sberla che mi ha spostato di alcuni centimetri. A sferrarla era stato proprio mio papà che, rientrando dal lavoro, sopraggiunto sulla soglia di casa, dietro la tenda della porta della cucina ha udito i miei strilli e notato la pipì sul pavimento. E’ stata l’unica volta, che io ricordi, in cui il mio genitore ha perso la pazienza di fronte alle bizze che ero solito fare; anche a dire di mia madre, egli è sempre stato molto tenero nei miei confronti e giacché mi adorava non era sua abitudine usare le 17


maniere violente. Più volte, dopo aver legato con lo spago sul canotto della sua bicicletta un cuscino a mo’ di seggiolino, sul quale mi faceva sedere agganciato con le mani al manubrio, mi ha portato a spasso. Mi è rimasta impressa l’immagine di quel giorno che mi ha condotto con sé, in bicicletta appunto, al bar Piccardi per mostrarmi ai suoi amici. L’ultimo ricordo che ho di lui risale all’autunno del 1940, quando era di consegna in una caserma a Bergamo. La sera del giorno prima di partire per l’Albania, è tornato a casa per salutare i familiari. Io ero dai nonni ai “Giurati” e poiché era sera, ero già coricato nel letto accanto a nonno Battista. Lui è entrato nella camera semibuia e mi ha abbracciato e baciato ripetutamente: era in divisa e quell’istante mi è rimasto impresso nella mente in modo indelebile. E’ stata l’ultima volta che l’ho visto. Ai primi di febbraio, dopo alcuni giorni d’istanza in Puglia, con la sua compagnia è stato trasportato in aereo a Tirana. Un mese e mezzo dopo, cioè il 18 marzo 1941, sul fronte greco-albanese, in Valle Vojussa, la sua giovane vita è stata stroncata da tre colpi di mortaio. Oltre a lasciare vedova la sua sposa, la sua scomparsa ha reso orfani me e mio fratello Ernestino il quale è nato nel mese di febbraio dell’anno precedente la sua morte. Papà Riccardo è caduto in battaglia da eroe ed è stato decorato dal regime fascista con medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Come tanti altri italiani, è stato vittima di una guerra assurda (supposto che possano esserci guerre giuste), quella voluta da Mussolini, dai suoi accoliti fascisti e dai monarchici per fare dell’Italia un impero. A “spezzare le reni” alla Grecia, oltre all’esercito, in Albania era stata inviata anche una divisione di “camice nere” la quale, però, non è stata impiegata nelle zone dove lo scontro armato era più cruento e l’offensiva più problematica, come nel caso del fondo valle Vojussa. Al sicuro massacro sono state inviate le forze di complemento, cioè i soldati-cittadini richiamati alle armi, le quali sono state tragicamente decimate. Beffa del destino, mio padre è caduto qualche giorno dopo che le autorità governative, su richiesta della direzione del cotonificio Legler, avevano deliberato il suo esonero dal servizio militare per motivi professionali.

Telegramma con cui, due mesi dopo, il governo annuncia alla famiglia la morte di Riccardo

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24 - Riccardo in divisa prima di partire per il fronte.

25 - La fossa (prima a sinistra) in cui sono stati raccolti i suoi resti, in località Tepelene, ValleVojusssa.

Motivazione della decorazione Medaglia d’oro al valore militare Fante Riccardo Moioli “Portafucile mitragliatore durante violento improvviso attacco nemico contribuiva efficacemente, con il tiro preciso della sua arma, ad arrestare e respingere il nemico. Ferito una prima volta alle gambe, rifiutava ogni soccorso e rimaneva sul posto. Colpito una seconda volta da bomba di mortaio al petto e al viso che lo rendeva quasi cieco, persisteva nella lotta. Raggiunto una terza volta dal piombo avversario, in piedi, proteso verso il nemico in fuga, cadeva al grido di “Viva l’Italia” immolando così la giovane vita alla Patria. Fulgido esempio di valore e di indomita tenacia. Fondo valle Vojussa – Fronte greco – 18 marzo 1941-XIX 19


Cartolina di Riccardo alla moglie, scritta il giorno prima della morte. Carissimi, godo nel sapervi in ottima salute, come pure lo sono io. Ho ricevuto i due pacchi così pure tutta l’altra roba. Non preoccupatevi che tutto va a gonfie vele. Vedrete presto l’Italia in giubilio per la sua vittoria in Grecia. Tanti auguri a tutti e tanti bacioni ai piccoli. Salutami la tua famiglia e Renzo. Riccardo !7 marzo 1941-XIX

Cartolina di Riccardo a don Giacomo Drago, dello stesso giorno. Reverendo don Giacomo, Vi voglio mandare i miei più sinceri saluti e auguri, così pure a tutti gli uomini di Azione cattolica augurandovi ogni bene nel Signore. Io godo ottima salute. Con la speranza di una presto vittoria. Porto i saluti di tutti i sampietrini che si trovano con me in combattimento, sarà un po’ dura, ma la vittoria è certa. Tanti saluti e auguri in Cristo. Riccardo Moioli 17 marzo 1941-XIX

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Lettera di Giuseppina a Riccardo scritta il 19 marzo 1941, giorno successivo alla sua morte. Carissimo Riccardo, con molto piacere ricevetti la tua lettera in data 11 marzo la quale era da me molto desiderata perché era già da 11 giorni che non mi scrivevi. Io vorrei che tu avessi a scrivermi ogni 4-5 giorni, non come tu fai, cioè ogni 9-10 giorni. Per me scrivi troppo poco, ti pare? Sapessi quanta è la mia pena quando ritardi a scrivermi! Ora l’unico mio conforto è il tuo scritto. Credo basterà dirti questo perché tu abbia a scrivermi un po’ più di sovente. I bambini stanno bene, così pure noi. Sono contenta che hai ricevuto il pacco e spero che in questi giorni tu riceva anche l’altro pacco che ti ho spedito il 25 febbraio scorso. Oggi Abele è stato dal Piccardi e ha trovato il signor Giorgio Hefti il quale gli ha comunicato che nei giorni scorsi è arrivato il tuo esonero, ma dato che ti ritrovi già al fronte è impossibile che tu possa tornare a casa. La Ditta farà comunque lo stesso le pratiche necessarie. Speriamo che possa andare bene. Prova anche tu ad informarti se essendo al fronte puoi essere lo stesso esonerato e poi fammi sapere cosa ti dicono. Oggi il Parroco ha detto che venerdì 21 marzo, alle ore 8, celebrerà una messa cantata a S. Clemente per voi soldati. Sono contenta che voi vi ricordate dei nostri sacerdoti e di più ancora che mandiate anche dei soldi perché vengano fatte delle preci per voi. Vedrete che Dio vi contraccambierà col proteggervi e vi aiuterà in tutti i vostri bisogni. Ti faccio sapere che è morta la moglie del tuo caposala Leidi, cioè il “Pacio” e oggi hanno fatto il funerale. Oggi ho pregato tanto S. Giuseppe per te ed essendo il mio compleanno spero che abbia ascoltato le mie preghiere. Termino col salutarti tanto e molti baci dai bambini e da tua moglie. Ciao, baci tanti. Ciao. (Giuseppina) Tanti saluti da sua cognata Elvira e pure dalla mia famiglia. Tutte le lettere che scrive a Giuseppina dice sempre che scrive anche a noi, ma noi ne abbiamo ricevuta una sola. Scriveremo a giorni. (Elvira) 19 marzo 1941 – P.S.P. 21


3. Un cattolico convinto che si è sacrificato sull’altare della farneticazione fascista Mio padre era un apprezzato assistente di tessitura e il fatto che i suoi dirigenti d’azienda, per riaverlo sul posto di lavoro, abbiano richiesto ufficialmente il suo esonero dal servizio militare al fronte ne è una testimonianza. Probabilmente, se non fosse caduto in guerra e avesse potuto riprendere la sua attività lavorativa, avrebbe avuto davanti a sé una prospettiva di dirigente tecnico, come del resto è avvenuto per un altro suo collega di lavoro di pari grado. Da giovane, dopo essere stato assunto al cotonificio Legler, aveva frequentato una scuola professionale domenicale specializzandosi nell’attività che svolgeva e l’esperienza lavorativa successiva lo ha reso un valido esperto in tessitura. Mia madre me lo ha sempre descritto come una persona poliedrica e socialmente impegnata. Egli era straordinariamente dinamico e manifestava uno smisurato amore per il prossimo, tanto da dedicare molta parte del suo tempo libero alla visita e al sostegno dei bisognosi e degli ammalati. Era un uomo di fede, profondamente cristiano, e oltre a frequentare assiduamente le funzioni religiose era un animatore dell’oratorio. Già a quindici-sedici anni partecipava alle attività sportive e ricreative e con il passare del tempo ha ricoperto ruoli di responsabilità nelle organizzazioni cattoliche divenendo segretario della sezione locale dell’Unione Uomini di Azione Cattolica e insegnante di catechismo. Alla sua morte è risultato essere il primo esponente bergamasco dell’Azione cattolica decorato di medaglia d’oro al valor militare. Nell’esplicazione del suo impegno di militante cattolico, ha goduto del pieno consenso e dell’incondizionata solidarietà della sua sposa la quale pure era una assidua frequentatrice delle funzioni religiose. In fatto di concezione dell’esistenza e di fede in dio, infatti, tra mio padre e mia madre vi era una completa sintonia di pensiero; il loro impegno religioso era vissuto come un dovere, quasi come scopo stesso della vita. Nel corso dei diciotto mesi di leva trascorsi a Roma, Riccardo ha assunto il ruolo di segretario del Convegno Militare “S.Sebastiano”, l’organizzazione cui facevano riferimento i militari di leva cattolici, e ha frequentato in modo assiduo gli ambienti del Vaticano. Assolto il servizio militare, ha trascorso molte delle sue ore di libertà all’oratorio. Qui aveva gli amici con i quali amava viaggiare, apprezzare l’arte, fare sport e divertirsi. Con loro, prima che si sposasse, ha visitato diverse città d’Italia, in particolare quelle ricche di storia e di arte tra cui Roma, Bologna, Firenze, Napoli e Pompei. Amante della montagna, ha partecipato con i giovani dell’oratorio a moltissime escursioni sui monti bergamaschi. I suoi amici hanno raccontato che in occasione di una camminata sul pizzo Coca, in un tratto di sentiero scosceso, egli è scivolato per un centinaio di metri finendo in un burrone. Credendolo spacciato, il curato don Alessandro Ceresoli gli ha impartito la benedizione. Fortunatamente, però, egli se l’è cavata con alcune escoriazioni. A 16 anni ha fatto parte della squadra di calcio riserve della “Pro Ponte”, mentre più 22


Tessera dell’Unione Uomini di Azione Cattolica del 1941.

26 - In vetta al Pizzo Coca – 1934, Riccardo è al centro della foto.

27 - Sul Resegone – 1936, Riccardo è quello a destra.

28 - A Napoli nel 1036.

29 - A Pompei nel 1936, Riccardo è nel mezzo. 23


tardi nel tempo, sempre all’oratorio, ha svolto la funzione di maestro di tennis. Era pure membro della compagnia filodrammatica “Ars e veritas” risultando un apprezzato attore. Memorabili sono due sue interpretazioni. Nel dramma “Gli aquilotti” egli ha interpretato la parte di un giovane soldato che immola la vita alla patria prefigurando così il suo tragico destino. Per la recita di “Una finestra sul giardino” è stato premiato con medaglia d’argento. Egli amava tra l’altro scrivere. Quand’era al fronte, ha mantenuto una fitta corrispondenza oltre che con i parenti, con amici e conoscenti spedendo persino lettere e cartoline prive di francobolli. In una corrispondenza con la moglie ha confessato di avvertire un vero e proprio bisogno di scrivere considerandolo il modo migliore per superare i momenti di tensione e di difficoltà che inevitabilmente era destinato a incontrare in quella drammatica condizione. Seppure gli siano stati unanimemente riconosciuti meriti e virtù e io sia sempre stato orgoglioso delle sua gesta eroiche, un tratto del suo comportamento ha suscitato in me motivi di dubbio e di meditazione. E’ chiaro in me il fatto che l’epoca in cui egli è vissuto è densa di nefandezze, di contraddizioni di ordine politico e morale, ed è dominata da una retorica asfissiante. Mi torna perciò evidente che la sua formazione culturale e spirituale ne ha pesantemente risentito e la sua stessa esistenza e il suo pensiero sono risultati parecchio condizionati. Se fino all’entrata in guerra dell’Italia, cioè alla soglia degli anni ’40, il rapporto tra la Chiesa cattolica e il regime fascista era informato all’insegna dell’intesa e della reciproca tolleranza, con l’applicazione delle leggi razziali, la stretta alleanza di Mussolini con il nazismo e le tragiche conseguenze sociali del conflitto militare, hanno indotto le gerarchie vaticane e soprattutto una parte significativa del clero e dei cattolici, a una riflessione critica e a una virata di posizioni. Salvo alcuni casi eccezionali, solo con la caduta del fascismo, avvenuta nel luglio del 1943, la parte più consapevole del mondo cattolico si è ribellata al regime e si è associata alle espressioni politiche del movimento socialcomunista dando unitariamente corpo alla Resistenza. Come ho ricordato, mio padre ha vissuto il suo impegno di militante cattolico soprattutto all’oratorio di Ponte San Pietro la cui direzione, a quel tempo, era affidata a don Alessandro Ceresoli il quale era noto per una sua visione autonoma nella gestione degli stessi affari di Chiesa, differenziandosi così dal suo stesso parroco il quale invece era schierato con il regime fascista. Tant’è che durante il periodo della Repubblica di Salò, questo curato è stato internato dai tedeschi nei campi di concentramento con l’accusa di aver aiutato i patrioti e contribuito a dare riparo ai partigiani. Dunque, sia l’ambiente in cui è vissuto sia la condotta che egli ha tenuto durante il periodo che va dagli anni ’30 al richiamo al fronte, fanno supporre che verso il regime non manifestasse grandi simpatie. La sua dimensione morale e spirituale era tale da aborrire ingiustizie, discriminazioni, violenza. All’indomani della sua morte un giornale di regime ha scritto che egli era iscritto al Partito nazionale fascista. Nei documenti e nei manoscritti che lui ha lasciato e che 24


30 - Riccardo in Piazza S. Pietro a Roma nel 1932.

31 - Compagnia della Filodrammatica “Ars e veritas” – Bergamo 1932 o 1933, Riccardo è il primo a destra. 25


sono stati gelosamente conservati da mia madre, non si trova traccia alcuna di questa supposta sua adesione al fascismo. Iscritto al partito di Mussolini era invece suo fratello gemello Abele il quale in quell’organizzazione ha ricoperto anche ruoli di responsabilità e per questa sua appartenenza, dopo la Liberazione, è stato incarcerato per un certo periodo a Sant’Agata. E’ da supporre che l’autore dell’articolo che attribuiva a Riccardo l’appartenenza al partito fascista lo abbia confuso con il fratello. Chiarita l’infondatezza di una sua sospetta adesione al fascismo, resta il fatto che dalle lettere da lui scritte dal fronte emerge un atteggiamento politico e morale per nulla conseguente alla condotta che ha caratterizzato la sua vita cristiana da borghese. Dagli scritti indirizzati alla moglie, ai parenti e agli amici si ricava, infatti, una sua improvvisa conversione alla causa e alla retorica mussoliniana. Alla moglie e agli amici manifesta la convinzione che la guerra dichiarata ai greci e agli inglesi è un atto da considerarsi giusto e, oltre a dichiararsi orgoglioso di difendere (sic!) la patria da questi nemici, si dice certo dell’imminente vittoria. Dopo che, in Albania, il suo reggimento è stato passato in rassegna dal “duce”, egli esprime ammirazione per lui e contravvenendo ai principi del cristianesimo, confessa di aver goduto nel vedere abbattuto dall’artiglieria un aereo nemico. Insomma, il suo spirito umanitario, la proverbiale pietas cristiana che ha contraddistinto la sua esperienza oratoriana, nel periodo in cui si trova al fronte sembrano essere svaniti. Il Riccardo che traspare dai racconti di parenti e amici che lo hanno conosciuto in famiglia, sul luogo di lavoro, nelle pratiche religiose, sportive e ricreative e al bar, non esiste più; sotto le armi egli ha subito una profonda trasformazione, è diventato un estimatore del dittatore forsennato che ha scatenato una guerra assurda e mandato al macello migliaia e migliaia di giovani per un’ambizione imperialista. Nel periodo in cui, da ragazzo, frequentavo le manifestazioni patriottiche in onore dei caduti in guerra, ho avuto modo di conoscere, tra gli altri, alcuni ufficiali e sottoufficiali reduci della campagna greco-albanese e da loro ho appreso che una delle pratiche seguite dai comandi per suscitare ardore e temerarietà nei soldati era quella di somministrare loro, attraverso l’occultazione nel cibo e nelle bevande, di sostanze stimolanti e inebrianti. Sono pertanto indotto a pensare che una spiegazione alla trasfigurazione a livello dei sentimenti registrata in mio padre sia da ricercarsi proprio nelle condizioni materiali e spirituali in cui erano relegati i soldati prossimi a ingaggiare lo scontro con il nemico. Il fatto stesso che un testimone oculare della sua morte, un suo commilitone, abbia ufficialmente testimoniato che prima di morire Riccardo ha gridato “viva Cristo, viva l’Italia, via il duce”, mentre nella motivazione ufficiale, formulata otto mesi dopo la sua morte, quando cioè il fascismo era ancora al potere, sia stato riportato solo il grido di “viva l’Italia”, mi porta a supporre che l’atteggiamento da lui assunto negli ultimi giorni di vita sia dovuto più che a un cambiamento dei suoi principi morali e a una lucidità di pensiero, allo stato di costrizione psicologica e materiale del momento. Una tale versione dei fatti è supportata anche dai racconti di mia madre la quale mi ha più volte ribadito l’esclusione da qualsiasi suo coinvolgimento nell’ideologia e nelle pratiche fasciste. Ho più volte maledetto il destino per avermi privato di poter avere con lui un 26


32 - La squadra di calcio delle riserve della “Pro Ponte” nella stagione 1926.27. Riccardo è il primo a sinistra degli inginocchiati.

33 – Riccardo, primo a sinistra, maestro di tennis all’oratorio nel 1939.

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Stralcio dell’articolo di Giuseppe Belotti, futuro parlamentare costituente. “Dal suo volto traspare tanta giovane impetuosità, tanto amore alla vita… egli richiama i soldati che hanno le loro energie insperate, resistenze fisiche da epopea. C’è in lui la solidità della nostra stirpe montanara, c’è in lui, vivo e parlante, il carter de la rassa bergamasca, scolpito dal poeta vernacolo: ‘fiàma, de rar: sòta la sènder, brasca’. Ma in lui c’è anche la fiàma. C’è l’apertura mentale, la comunicativa, il brio, l’impeto della gente operosa delle nostre borgate industriali”. 29


chiarimento a questo riguardo in maniera di dissipare qualsiasi dubbio. La privazione della sua presenza, in specie negli anni dell’adolescenza e della prima gioventù, ha costituito per me, come per mio fratello, motivo di grande sofferenza. A mancarmi non è stato solo la sua vicinanza fisica e il suo amore paterno, cioè la garanzia di avere chi ti consola e ti protegge nei momenti difficili della vita, ma anche e soprattutto la mancanza di una guida nelle scelte esistenziali, di un consigliere che vuole il tuo bene. A sostituirlo ci ha provato mia madre la quale, avvertendo quel vuoto, ha cercato intelligentemente di riempirlo riuscendoci però solo in parte a causa dell’oggettiva diversità dei ruoli. E ancor più frequentemente ho maledetto coloro che, sottovalutando il fascismo e i danni che ha prodotto alla comunità, non hanno avuto il coraggio di opporsi alle scelte di un pazzo dittatore e impedire che la sua follia avesse il sopravvento.

Cartolina postale inviata a Riccardo il 23 marzo 1941 dal dirigente del cotonificio Legler Voegheli che annuncia la concessione dell’esonero. 30


4. Il trasferimento nella casa dei nonni La morte di mio padre ha rappresentato un dramma non solo per la sua sposa e per me ed Ernesto, ma anche per l’intera parentela, soprattutto per quella di mia nonna e delle mie zie Clementina e Maria che si sono adoperate in tutti i modi per assisterci e aiutarci. La sofferenza di mamma Giuseppina, com’era inevitabile, è durata a lungo e seppur si sia affievolita con il passare del tempo, ha avuto fine solo con la sua morte. Rimasta vedova a 29 anni, dopo soli 40 mesi di convivenza con il suo amato sposo, non ha voluto maritarsi di nuovo nonostante avesse avuto alcune proposte di matrimonio. Ha vissuto il resto della sua esistenza nel ricordo del suo Riccardo, fiera del gesto eroico che egli ha compiuto. Allorquando qualcuno le chiedeva perché mai non intendesse unirsi con un altro uomo, con tono ironico rispondeva che erano i suoi figli a non volerlo. In realtà è lei che ha scelto di mantenere fede alla promessa di eterno amore per suo marito. Dopo aver appreso la notizia che mio padre era caduto in guerra, ha abbandonato l’abitazione di via Garibaldi e si è trasferita con noi ai “Giurati”, ospite dei nonni e delle zie. Poiché in famiglia era venuto a mancare il sostentamento, ha dovuto riprendere il lavoro in fabbrica come operaia affidando noi due alle cure della nonna Angela. A quel tempo la famiglia Bonacina era composta dai nonni e dalle zie Maria, Teresa, Clementina ed Elvira le quali pure erano occupate. In un appartamento di quattro vani vivevamo in nove. La convivenza non era certo agevole, specie per le quattro zie una delle quali era costretta a dormire nel vano destinato a soggiorno e cucina, ma l’affetto e la comprensione compensavano i disagi. E’ all’indomani del trasferimento ai “Giurati” che ho cominciato a frequentare l’asilo materno. Dapprima esso era allocato nelle vicinanze della portineria Est del cotonificio Legler, mentre poi è stato trasferito in uno degli edifici delle stesse case operaie, vicino alla mia dimora. Era gestito dalle suore e il metodo pedagogico adottato era fondato soprattutto sulle attività ludiche e sulla preghiera collettiva. I primi anni ’40 sono stati tempi di crisi e molti generi alimentari erano contingentati; alla popolazione venivano distribuite tessere annonarie e per reperire certi generi alimentari occorreva ricorrere al mercato nero. Soprattutto noi bambini subivamo le conseguenze negative del regime autarchico decretato dal governo fascista e pertanto la nostra alimentazione lasciava molto a desiderare. Per anni il mio olfatto ha avuto impresso lo sgradevole odore e insieme il disgusto delle minestre che venivano servite all’asilo le quali venivano cucinate con uno strano condimento surrogato, il “liebig”. Nella primavera del 1943, in occasione del secondo anniversario della morte di mio padre, la Federazione fascista di Bergamo ha deciso di commemorarlo organizzando una solenne manifestazione al cinema Italia alla quale hanno partecipato molti sostenitori del regime. Si era alla vigilia del crollo del fascismo, ma tra la popolazione Mussolini godeva ancora di largo consenso, nonostante le misure restrittive sul piano economico e delle libertà personali. 31


34 - 1939-40 – Con zio Abele.

35 - 1941-42 – Ernesto con zio Abele.

36 - 1941-42 – Con mamma ed Ernesto in un prato ai “Giurati”.

37 - 1943-44 – Con mamma ed Ernesto in zona Briolo 32


38 - 1941-42 – Con mamma vestito da “figlio della lupa”. 39 - Il giorno della . 1a comunione.

40 - 41 - Primi settembre 1943 – Alla colonia fascista di Ama a Selvino con la mamma. 33


Nel mese di marzo mia madre si è recata con lo zio Abele a Torino per la consegna della decorazione che era stata assegnata a Riccardo. Ad appuntarle la medaglia d’oro al petto è stato il cugino del re, il duca di Torino. Io, invece, sono stato arruolato nei “figli della lupa” e con mia madre, nell’estate di quello stesso anno, sono stato ospite onorario della colonia montana fascista di Ama, una frazione di Selvino, in Valle Seriana, la quale era destinata alle sole donne iscritte al partito. Quando ai primi di settembre Badoglio ha firmato l’armistizio con le forze alleate provocando l’occupazione del Paese da parte dei tedeschi, io mi trovavo ad Ama e ricordo che il mattino dell’8 settembre tutte le ospiti della colonia, impaurite dalla presenza sui monti vicini delle formazioni partigiane, hanno abbandonato l’edificio e si sono dirette a piedi verso il fondo valle per rientrare alle loro residenze con il trenino che da Alzano Lombardo portava a Bergamo. Per me quella fuga ha rappresentato un vero e proprio supplizio avendo dovuto percorrere sentieri e mulattiere, a tratti scoscesi e sassosi, di tutta fretta e con il timore di essere malmenati da coloro che erano avversi al regime fascista. Contrariamente a quanto si era supposto, io e mia madre siamo ritornati alla nostra abitazione senza che nessuno ci importunasse. L’assenza di mio padre era compensata, almeno in parte, dalla presenza di nonno Battista. Mi sono augurato molte volte che a soddisfare il bisogno di protezione e di affetto che era in me fossero i miei zii, in specie lo zio Abele nel quale vedevo i tratti somatici del mio genitore, ma la loro presenza si è sempre fatta desiderare. I rapporti tra mia madre e i suoi cognati, fatta eccezione per zio Oreste che dopo la morte di mio padre è stato ricoverato in manicomio, non erano per nulla idilliaci. Una costanza di contatti era limitata a questo zio malato, giacché mia madre lo andava a trovare con una certa regolarità accompagnando qualche volta anche me. Ho ancora in mente le effusioni che mi riservava e le raccomandazioni che mi faceva. Più volte ha insistito nel convincermi che nonostante lui fosse costretto a vivere con i malati di mente, non lo dovevo considerare un matto; mi ha più volte assicurato che lui sapeva difendersi bene da tutti quelli che avevano intenzione di picchiarlo. L’ambiente in cui era relegato era desolante: spesso mi è capitato di vedere pazienti immobilizzati sul letto con la camicia di forza. Quand’ero bambino, Elso non è mai venuto a trovarmi a casa dei nonni, mentre Abele, che doveva aver avuto problemi d’amore con zia Elvira al punto che lei, delusa, ha deciso di emigrare in Svizzera, se all’inizio era quasi di casa, dopo il suo fidanzamento con Silvia ha gradualmente allentato le sue visite. Ho ricordo di una volta che, in occasione di Santa Lucia o di Natale, mi ha portato a casa di un suo amico per mostrarmi, e regalarmi, un burattino di legno snodabile che si animava tirando i fili di spago. Il suo distacco dalla mia famiglia mi ha molto addolorato. Anche con zia Antonietta i rapporti non sono stati buoni. Non ho mai capito le ragioni del suo scarso interesse per noi, almeno in quel periodo. Negli anni della mia adolescenza mi è stato riferito che aveva avuto con mia madre uno scontro a causa del possesso di un tavolo, una vicenda quella che non mi è mai stata chiarita. L’affetto l’ho avuto invece in maniera costante dalle mie cinque zie materne le quali hanno avvertito la forte esigenza di affetto che noi due orfanelli avevamo e perciò si 34


42 - Marzo 1943 – Cinema Italia, Ponte S. Pietro - Celebrazione da parte dei fascisti dell’anniversario della morte di Riccardo.

43 - 44 - 1943 - Consegna della medaglia d’oro a Giuseppina da parte del duca di Torino nel capoluogo piemontese. 35


sono prodigate in tutti i modi per farci sentire benvoluti. Esse si sono comportate da autentiche supplenti mamme. Al nostro sostentamento e a soddisfare i nostri bisogni corporali e affettivi hanno poi contribuito in modo determinate i nonni. Nel periodo in cui andava a lavorare nel giardino dei Legler, mio nonno Battista mi portava più volte con sé. In quel luogo ho conosciuto e giocato con coloro che da adulti sono poi diventati gli eredi del cotonificio. Una volta, mentre ero sotto una pianta di ciliegie a osservare mio nonno che su una scala le raccoglieva dai rami, sono stato aggredito dal cane lupo che presidiava la villa. L’animale mi ha morso un orecchio facendomi uscire del sangue e quell’inaspettato assalto mi ha spaventato a morte. Forse è anche a causa di una tale brutta esperienza che non mi è mai riuscito di amare i cani. Quando eravamo in casa, mi sedevo sulle ginocchia di mio nonno e gli pettinavo i baffi e i capelli e lui si sottoponeva di buon grado ai miei voleri dimostrando molta pazienza e non curandosi degli improperi che la nonna gli rivolgeva accusandolo di sdolcinatezza e perditempo. Nonno Battista aveva un carattere affabile e subiva il forte temperamento della sua sposa. La domenica pomeriggio, dopo la dottrina, era solito recarsi all’osteria a giocare a carte e alla “mora” e parecchie volte, un poco alticcio, ritardava il rientro a casa per la cena. Indispettita, la nonna Angela chiamava mio cugino Guglielmo e lo incaricava di andarlo a prendere per obbligarlo a rientrare senza indugio a casa. Al suo ritorno non mancava di rimbrottarlo e qualche volta di mandarlo a letto senza cena. Dietro le apparenze di donna burbera si nascondeva però in lei un animo sensibile e generoso. Era molto ospitale e aveva un forte senso della famiglia. Brava cuoca, oltre a governare la casa e provvedere ai bisogni di ogni suo componente senza alcuna discriminazione, amava coltivare l’orto per rimediare prodotti genuini da cucinare. Fino a quando abbiamo abitato ai “Giurati”, la mia famiglia non ha mai comperato frutta e verdura proprio perché venivano prodotte in proprio attraverso la coltivazione del piccolo appezzamento di terreno che era di pertinenza di ogni famiglia residente nelle case operaie. A ridosso degli orti sorgevano pollai e gabbie nei quali venivano allevati pollame e conigli, perciò l’acquisto di carne era limitato a quella rossa che ovviamente veniva acquistata solo in occasione delle festività natalizie e pasquali. La tradizione contadina aveva continuato a condizionare la vita dei miei nonni anche quando essi si sono inseriti nell’ambiente industriale. La nostalgia della vita di campagna si evidenziava in molti dei loro comportamenti. Mia nonna mi ha portato spesse volte a far visita alla famiglia di suo fratello maggiore la quale era dedita alla coltivazione, in stato di mezzadria, di un appezzamento di terreno alla Merena. Nella loro cascina vi era anche uno stanzone nel quale venivano allevati i bachi da seta e quel luogo suscitava in me molta curiosità. Verso la fine del ’43, nonna Angela è caduta in uno stato di depressione e di deperimento organico che l’ha resa vittima di una paralisi alle gambe, risultando immobile a letto per alcuni mesi. Il suo medico di famiglia le aveva diagnosticato un’artrosi acuta oltre alla presenza di acidi urici nelle gambe e di una forma di asma provocata dall’ansia. La famiglia di Matteo Legler senior presso cui nonno Battista prestava servizio come giardiniere, l’ha fatta ricoverare a proprie spese presso la 36


45 - 1944 - Nonna Angela.

46 - 1944 – Nonno Battista.

47 - Maggio 1944 – Ghiaie di Bonate Sopra. Luogo in cui la piccola Adelaide Roncalli ha affermato di aver assistito all’apparizione della madonna e dove nonna Angela è guarita dei suoi mali. 37


Clinica Gavazzeni per gli accertamenti medici del caso e quella degenza ha consentito di accertare che non esisteva alcun rimedio per guarirla di quei mali. Di fatto nonna Angela era molto provata psicologicamente. In un breve corso di tempo aveva dovuto assistere alla morte del figlio Vittorio (nel 1935), poi del nipote Angelino tragicamente affogato nella tinozza del bucato (nel 1936), e infine a quella di mio padre (nel 1941). Come se non bastasse, nel febbraio del ’43 le è stata data notizia che Angelo, l’unico figlio maschio rimastogli, era da considerarsi disperso sul fronte russo, in Ucraina. Poco dopo, ad aggravare ulteriormente il suo stato emotivo è intervenuta la morte improvvisa della nipote Federica di soli 19 anni e poi nonno Battista ha incominciato ad avere problemi di salute. E’ da supporre dunque che di fronte a una così tragica sequela di lutti e di dispiaceri, mia nonna si sia sentita sconvolgere l’esistenza e sia subentrata in lei una ripulsa della vita stessa. Nel maggio del 1944, una bambina residente alle Ghiaie di Bonate Sopra ha sostenuto che le era apparsa la madonna. Questa presunta visione celeste ha avuto svolgimento in un campo agricolo coltivato dal fratello di mia nonna. Una tale combinazione ha indotto Angela a esprimere il desiderio di essere condotta sul posto per assistere alle annunciate future apparizioni. L’avvenimento aveva avuto una vasta eco, anche perché la bambina visionaria aveva rivelato che la “signora in bianco” che le era apparsa le aveva vaticinato la fine della guerra e la sconfitta del nazismo. Una profezia questa che ha preoccupato il superstizioso Hitler il quale ha immediatamente mandato sul posto i suoi agenti al fine di raccogliere informazioni dettagliate sull’avvenimento. Due o tre giorni dopo la prima apparizione, come da suo desiderio, mia nonna è stata portata con un triciclo da suo cognato, il “Mégna”, a casa di suo fratello. L’abitazione distava solo un centinaio di metri dal luogo delle visioni. La notte del giorno successivo al suo trasferimento, quando verso le 2 suo fratello si è recato nella camera in cui lei soggiornava, e che si trovava al primo piano dell’edificio, per verificare se avesse necessità di qualche aiuto, ha scoperto che nel letto la nonna non c’era più. Sconcertato dalla misteriosa scomparsa, si è precipitato al piano di sotto e sulle scale ha scorto le calze nere che abitualmente lei indossava. Preso dal panico ha svegliato i familiari e tutti si sono messi alla sua ricerca frugando in ogni dove senza però alcun risultato. A un tratto, il fratello ha avuto un’intuizione e si è diretto verso il luogo dell’apparizione. Con stupore se l’è trovata inginocchiata in preghiera ai bordi del recinto che delimitava il luogo in cui, secondo la veggente, la madonna sarebbe apparsa. Era a piedi scalzi e aveva percorso il tragitto in piena solitudine. Dal momento che i medici avevano escluso qualsiasi possibilità di guarigione, ai familiari e ai conoscenti di nonna Angela è parso naturale gridare al miracolo, attribuendo la sua guarigione all’apparizione della madonna. E’ mia convinzione, invece, che si sia trattato di un fenomeno di autosuggestione e che di soprannaturale in questa sua guarigione non ci sia proprio nulla; difatti, la psiche a volte fa cose che la scienza non è ancora nelle condizioni di interpretare e giustificare. Sta di fatto che da quel giorno mia nonna ha ripreso regolarmente a camminare e a governare la famiglia come aveva sempre fatto, anche se i suoi dolori e le sue difficoltà non hanno avuto mai fine. E questa sua ripresa di fiducia nella vita ha avuto 38


continuità nonostante che nei tempi immediatamente successivi abbia dovuto affrontare nuove tragiche situazioni.

5. La fuga dai bombardamenti Un giorno, ai primi di luglio del 1944, mio nonno ha deciso di portarmi con sé a trovare suo fratello a Fontanella (località in collina situata tra Mapello e Sotto il Monte) e ha invitato mio cugino Guglielmo ad accompagnarci. Suo fratello era un contadino affittuario e la sua abitazione era situata nel mezzo del bosco che era oggetto delle sue cure, unitamente a un appezzamento pianeggiante che era coltivato a frumento e granturco. Per raggiungere questo luogo, partendo da Ponte San Pietro, era necessario recarsi a Mapello e poi, seguendo un sentiero, salire in collina per almeno due o tre chilometri attraversando vigneti, prati e boscaglia. Dopo aver percorso il tratto di strada in bicicletta, io avevo trovato sistemazione su quella di mio nonno, ci siamo incamminati sul sentiero. Mio nonno aveva sulle spalle uno zaino in cui erano riposti cibo e acqua e tutti e tre eravamo muniti di un bastone. Appena raggiunto il viottolo in salita, davanti a me si è presentato una piccola serpe, non ricordo se fosse una vipera o una biscia. La sua apparizione mi ha spaventato a morte: era la prima volta che mi capitava di vedere dal vivo un rettile e oltre a provare ribrezzo, ho temuto mi mordesse. Prontamente mio nonno lo ha allontanato con il bastone rassicurandomi che non mi sarebbe successo nulla; io però, preso dalla paura, tremavo e l’ho perciò implorato affinché mi stesse al fianco. Quando siamo stati prossimi alla casa del prozio, abbiamo sentito un sordo rumore di motori che proveniva dall’alto e, alzati gli occhi al cielo, abbiamo notato che in direzione est-ovest stava transitando una folta squadriglia di aerei. Dopo essere stati attratti da quell’insolita visione, abbiamo ripreso il cammino e pochi istanti dopo abbiamo udito un boato che veniva da lontano. Osservando dall’alto l’orizzonte pianeggiante verso Sud-est abbiamo notato una colonna di fumo salire al cielo. Gli aerei che avevamo avvistato appartenevano alle forze militari alleate e avevano bombardato gli stabilimenti della Dalmine. L’attacco è durato alcune decine di secondi e noi, dall’alto della collina, abbiamo udito e visto alcune esplosioni avvenute a ripetizione e seguite da sordi boati. Siamo rimasti allibiti e mio nonno, presagendo la tragedia umana che stava per compiersi, ha recitato una preghiera. Quel bombardamento, infatti, non ha solo causato ingenti danni all’acciaieria in cui veniva prodotto materiale bellico, ma ha provocato la morte di 278 tra lavoratori e civili e il ferimento di altre 800 persone. Quando siamo giunti alla casa del fratello di mio nonno eravamo sconvolti. Da quel momento anche per noi abitanti di Ponte San Pietro ha avuto inizio il coprifuoco essendo considerato il nostro paese un obiettivo strategico a causa della presenza del ponte ferroviario sul Brembo su cui transitavano i treni con i quali i tedeschi trasportavano truppe e materiale bellico. Ogni volta che suonava la sirena annunciando l’approssimarsi degli aerei bombardieri, eravamo obbligati ad abbandonare le abitazioni e raggiungere i rifugi antiaerei sotto casa. Nei giorni successivi a quella drammatica esperienza, la famiglia Bonacina ha dovuto 39


48 - 49 - 50 – Immagini di Ponte San Pietro dopo i bombardamenti dell’ottobre 1944. 40


assistere a un altro tragico evento: dopo lunga malattia e sofferenza, zia Teresa è deceduta per cancro. I miei temevano che nonna Angela riprecipitasse in uno stato di disperazione com’era già avvenuto nel passato, ma sorprendentemente non è stato così. Forse ancora sotto gli effetti della straordinaria ripresa attribuita alla madonna, essa ha saputo reagire all’avversa sorte con determinazione infondendo peraltro coraggio all’intera famiglia. Alcuni giorni dopo che Dalmine è stata bombardata, gli aerei alleati sono ritornati su Ponte San Pietro e dopo aver distrutto la palazzina “Tripoli”, a nord dello stabilimento Legler, hanno bombardato a tappeto la zona adiacente al ponte nell’intento di distruggerlo. Erano le prime ore del mattino e quando la sirena ha suonato l’allarme io e mio fratello eravamo ancora a letto. Nostra nonna, la sola rimasta in casa poiché tutti gli altri erano al lavoro, ci ha fatti alzare e ci ha trascinato di forza nel rifugio in cantina. Addosso avevamo solo la camicia da notte, giacché a quel tempo il pigiama era un indumento a noi sconosciuto. Le bombe hanno distrutto diverse abitazioni tra cui l’edificio posto di fronte al nostro e nello scoppio ha perso la vita una giovane donna. Cessato il bombardamento, sono rientrati a casa mia madre, mio nonno e le mie zie. Erano preoccupati che fossimo anche noi sotto le macerie. In fretta e furia hanno raccolto il necessario, ci hanno fatto indossare i vestiti e condotto nei campi, in un luogo lontano dagli obiettivi militari. Transitando davanti alla casa bombardata, ho avuto modo di notare che sui rami di un albero posto di fronte ad essa vi erano dei vestiti: ho saputo dopo che erano gli indumenti della poveretta che aveva rifiutato di scendere nel rifugio ed era rimasta in casa. Quell’immagine mi ha impressionato a tal punto che nelle notti successive è diventata motivo d’insonnia e di incubi. Quel giorno siamo stati nei campi per lunghe ore, fino a sera quando sono venuti a prenderci con un carro trainato da un cavallo su cui erano state caricate alcune masserizie e ci hanno portato a Mapello in casa di una vedova di guerra, amica di mio zio Abele, la quale ci ha dato ospitalità per spirito di solidarietà. Nell’ottobre dello stesso anno Ponte San Pietro è stato di nuovo presa di mira dai bombardieri alleati i quali, nel vano tentativo di abbattere il ponte ferroviario, hanno distrutto la cooperativa Legler e la zona circostante, compresa la casa di via Garibaldi in cui sono nato. Il tragico bilancio è stato di 22 morti e 50 feriti. Nei cinque mesi successivi ci sono state altre tre incursioni aeree, l‘ultima alla vigilia del 25 aprile, le quali però hanno causato danni meno gravi delle precedenti e non hanno provocato altri morti. Il ponte ferroviario è stato solo sfiorato dalle bombe e nonostante le tante incursioni non ha subito danni tali da essere danneggiato. La casa in cui abbiamo trovato sistemazione a Mapello era situata ai piedi della rampa di scale che porta alla chiesa parrocchiale. A poca distanza, in una corte agricola, era sfollata anche la famiglia di mia zia Lucia. In essa abbiamo alloggiato fino all’estate dell’anno successivo. Nonno, mamma e le zie, salvo Elvira che faceva la camiciaia, erano tutti occupati presso il cotonificio Legler e ogni mattino presto erano costretti a recarsi sul luogo di lavoro percorrendo a piedi il tragitto da Mapello a Ponte San Pietro. Si trattava di un percorso di quattro, cinque chilometri che doveva essere ripetuto la sera per rientrare a casa. Spesso, in 41


particolare nel periodo invernale, queste lunghe camminate mattutine e serali venivano fatte sotto la pioggia e sulla strada innevata e ghiacciata. A dover affrontare simili sforzi erano tutte quelle persone di Ponte San Pietro, ed erano migliaia, le quali, per non rischiare di perire sotto i bombardamenti, si erano provvisoriamente trasferite nei paesi limitrofi. A Mapello ho incominciato a frequentare la scuola elementare. Mio fratello invece andava all’asilo. La prima maestra che ho avuto mi voleva molto bene e mi seguiva con grande cura. Anni dopo ho saputo che era una staffetta partigiana e che aveva più volte rischiato di essere deportata in Germania nei campi di concentramento. Se in occasione di quel forzato soggiorno il disagio per i componenti adulti della famiglia è stato notevole, per noi bambini le sofferenze non sono state di meno. Nonostante ci trovassimo in un ambiente contadino, non ci era data possibilità di nutrirci secondo le nostre abitudini. Non solo era difficile rimediare generi alimentari come il pane bianco, lo zucchero, la pasta di frumento, la carne, ma addirittura solo eccezionalmente potevamo disporre del latte. I contadini, alle esigenze di noi bambini, privilegiavano quelle dei loro piccoli vitelli e a noi destinavano il caglio. A causa dell’overdose di questo alimento per decenni io non ho tollerato gli yogurt. Il pane che si trovava nei negozi era fatto con il granturco ed era duro, di color giallo, quasi immangiabile. Lo zucchero era nero, probabilmente ricavato dalle barbabietole, mentre il caffé era costituito da un surrogato dal sapore disgustoso. Una sera nonno Battista è ritornato a casa dal lavoro con una lepre morta. L’aveva trovata lungo il tragitto, probabilmente catturata da una trappola. Mia nonna l’ha cucinata in salmì e l’ha suddivisa in porzioni tanto piccole da far durare il suo consumo per un’intera settimana. Per la famiglia quel ritrovamento è stato motivo di grande gioia considerato che a quel tempo la carne era un bene prezioso e costoso. Altri momenti di festa erano quelli in cui i contadini ammazzavano il maiale e, come da loro tradizione, distribuivano anche al vicinato le parti che non potevano essere insaccate o conservate a lungo. Del soggiorno a Mapello conservo ricordi di felicità ma anche di tensione e paura. Era per me una gioia muovermi tra i filari degli alberi da frutto e di vite e gustare i prodotti genuini della terra. Così come mi affascinavano le scampagnate e le gite al santuario di Prada o le sortite in collina. Per due o tre volte, la sera, ho accompagnato mia zia Clementina nei pressi del Barachì dove s’incontrava con un suo corteggiatore che arrivava in motocicletta dalla quale ero affascinato. A questi ricordi gioiosi e di serenità se ne alternano però altri che mi suscitano ancora oggi tristezza e sgomento. In più occasioni mi è capitato di rivedere nel cielo il passaggio degli aerei alleati che puntavano sui siti strategici per sganciare le bombe e questa visione mi riportava alle drammatiche scene del bombardamento dei “Giurati” incutendomi paura e angoscia. Un giorno poi a Mapello è giunto uno squadrone di soldati a cavallo provenienti dai paesi dell’Est. Credo fossero mongoli o cosacchi appartenenti a quel contingente militare che i tedeschi avevano reclutato nelle zone del Caucaso per impiegare nella lotta alle formazioni partigiane nell’Oltrepò pavese. Questi militari erano noti per la loro aggressività e crudeltà e per la loro abilità nelle arti marziali, pertanto incutevano terrore solo a vederli. 42


51 – Con Ernesto, nel 1944, nel cortile dei Ghezzi a Mapello.

52 - Con Ernesto al mare su una spiaggia della Liguria.

53 - Periodo successivo alla Liberazione – Secondo seduto a sinistra, sulla spiaggia di Spotorno, colonia marina di Ponte San Pietro. 43


54 - Fine anni ’40 – Quarto da sinistra, seduto sulla panca, alla mensa della colonia marina di Spotorno.

55 - 1947 – Primo a destra in ginocchio col pallone, in gita scolastica sulle Mura venete di Bergamo. 44


Il periodo dello sfollamento si è per noi concluso all’indomani del 25 aprile del 1945, cioè dopo la Liberazione, e ai primi di maggio siamo rientrati con immensa gioia nella nostra abitazione di Ponte San Pietro, ai “Giurati”.

6. I tribolati anni dell’adolescenza La sconfitta del nazifascismo, la fine della guerra e di una condizione sociale fatta di restrizioni, sacrifici e discriminazioni, avrebbe dovuto essere anche per la famiglia Bonacina motivo di gioia e tranquillità. Così però non è stato. Un mese dopo la Liberazione nonno Battista ha cessato di vivere. Alcuni mesi prima aveva scoperto di avere un tumore e ha vissuto i suoi ultimi giorni nel dolore fisico e nella sofferenza morale. La sua morte ha significato per l’intera famiglia un vero e proprio dramma che si è aggiunto ai precedenti. Pure in questa tragica circostanza nonna Angela ha saputo reagire con sorprendente forza, divenendo addirittura soggetto di conforto per tutti i familiari i quali hanno vissuto quel triste evento nel timore di un suo nuovo collasso fisico e morale. Questo suo comportamento le ha procurato ancor più affetto e stima da parte di tutti. Essendo sia mia madre che le zie Maria e Clementina occupate presso il cotonificio Legler, a provvedere ai nostri bisogni e a sorvegliare noi due adolescenti durante la giornata, era nonna Angela, la quale nei nostri confronti non si è mai abbandonata a smancerie e ha pensato solo a farci rigar diritto. Il suo era un atteggiamento più o meno analogo a quello assunto da nostra madre, ed era giustificato dall’assenza di una figura maschile in famiglia, dunque prodotto di uno sforzo teso a sostituire l’autorità che era venuta a mancare. Diverso era invece il comportamento delle due zie le quali, specie zia Menta (Clementina), erano sempre pronte a giustificare e coprire i nostri capricci, a difenderci in presenza di ramanzine e a consolarci. Noi non eravamo certo degli stinchi di santo e alle quattro donne che ci governavano non abbiamo proprio evitato di creare fastidi e problemi. Quando avevo più o meno dieci anni, infatti, sono stato artefice di una vera e propria birbonata che ha messo in subbuglio tutto il parentado. Era abitudine di noi bambini giocare all’aperto, almeno quando il tempo lo permetteva, e certe volte ci divertivamo a spostare pietre e quant’altro tornasse utile per costruire trincee e rifugi entro cui ripararci. Un giorno spostando un lavandino di pietra (allora erano fatti così quelli destinati alle famiglie proletarie), ho compiuto uno sforzo che mi ha procurato un’ernia inguinale. Per un certo periodo mia madre, nell’intento di evitare che s’ingrossasse, mi ha fasciato il ventre poi, anche dietro insistenza del medico, ha incominciato a farmi pressione affinché mi sottoponessi a un intervento chirurgico, prospettiva che io escludevo nel modo più assoluto, sia perché avevo paura di soffrire sia per non sopportare un distacco da casa. Quando si trattava di abbandonare i miei anche per un limitato lasso di tempo, io vivevo un dramma. Per alcune settimane ho resistito nei miei propositi, quando però il fastidio e i dolori hanno incominciato a tormentarmi, mi sono convinto della necessità di rivolgermi a chi era in grado di porre rimedio ai miei mali. Mi era stato riferito che in alternativa all’intervento chirurgico era possibile applicare un cinto all’inguine per impedire la 45


56 - Fine anni ’40 – Sui banchi della scuola elementare di Ponte San Pietro.

57 - Fine anni ’40 – Primo a destra, in gita con i ragazzi dell’oratorio. 46


fuoriuscita dell’ernia e quella soluzione mi appariva la più sopportabile. Mia madre, dopo avermi assicurato che era sua intenzione rivolgersi a uno specialista nell’applicazione di cinti, ha chiesto a don Alessandro Ceresoli, il curato, la disponibilità ad accompagnarmi in uno studio specializzato a Bergamo. Qualche giorno dopo il prete mi ha accompagnato in città. Scesi dal tram, con un suo braccio sulle spalle, ci siamo incamminati in direzione dell’ambulatorio dello specialista, almeno così mi era stato assicurato. A un tratto però mi sono reso conto che eravamo giunti davanti all’entrata dell’allora Ospedale Maggiore. Io avevo memoria di quell’edificio perché qualche tempo prima vi ero stato ricoverato unitamente a mia madre e a mio fratello perchè affetto di scabbia (avevo contagiato anche loro). Quella scoperta mi ha fatto sospettare che la soluzione del cinto era una menzogna e che in verità mi si voleva ricoverare in ospedale per l’intervento chirurgico. Presa coscienza del pericolo, con un movimento rapido mi sono sottratto alla custodia del sacerdote e, fatta marcia indietro, ho imboccato di corsa viale XXIV maggio per riprendere la strada per Ponte San Pietro. Non avendo conoscenza del percorso, ho seguito le rotaie del tram convinto che mi avrebbero riportato a casa. Ho compiuto tutto il tragitto di corsa, timoroso di essere inseguito e acciuffato. Sono arrivato sotto casa che ero esausto. Prima di salire le scale e suonare il campanello dell’abitazione, ho esitato molto perché temevo la razione di mia nonna, ma non esistendo alternative ho preso coraggio sperando di avere la sua comprensione. Quando le sono apparso di fronte si è messa le mani nei capelli e senza proferire parola si è precipitata dalla famiglia accanto pregando la signora Bonalumi di mandare qualcuno ad avvisare mia madre, che era al lavoro, del mio atto di ribellione. Le due ore successive sono state per me un vero e proprio calvario. Dal lavoro è rientrata prima mia madre poi le due zie; in casa mia sono quindi confluiti altri parenti e conoscenti. A un tratto è apparso anche Zecchetti, l’autista di piazza al quale è stato affidato l’incarico di riportarmi immediatamente all’ospedale. Con la forza, sono stato introdotto nell’auto e seduto in mezzo a mia madre a mia zia sono stato immobilizzato e zittito. Giunto in ospedale sono stato preso in consegna dagli infermieri che mi hanno portato in reparto e sistemato in una stanzetta in cui era degente un mio amico, Giorgio Beretta, pure lui residente ai “Giurati”, e ricoverato per la stessa mia ragione. Dopo avermi visitato, il medico mi ha fatto i complimenti per la corsa di sette chilometri, ma mi ha anche ammonito avvertendomi che avevo rischiato di strozzare l’ernia mettendo a rischio la vita. Quando ci hanno comunicato che il mattino successivo ci avrebbero operato, con Giorgio ho incominciato a studiare la possibilità di fuggire dall’ospedale e abbiamo trascorso la notte quasi insonni. Al mattino, quando sono venuti a prelevarci per condurci in sala operatoria, prima che riuscissero a immobilizzarci, abbiamo messo a soqquadro la stanza. Per non essere distaccati dal letto ci aggrappavamo alle lenzuola, ai comodini gridando come dannati. Abbiamo messo in allarme l’intero reparto, tant’è che nei giorni successivi siamo diventati oggetto della curiosità dei degenti. 47


Mentre mi sdraiavano sul tavolo operatorio ho più volte insultato il chirurgo e ho gridato fino al momento in cui mi è stata applicata sul viso una maschera contenente etere, dopo di che ho perso i sensi. Dopo quell’esperienza mi sono ben guardato dal sollevare massi e dal compiere sforzi di alcun genere. All’ultimo anno di scuola elementare e alle scuole medie, per quell’ernia mi sono addirittura fatto esonerare dalle ore di educazione fisica. Anche Ernesto non ha mancato di procurare alla famiglia motivi di preoccupazione, anche se nei confronti delle mie mariolerie le sue trasgressioni erano all’acqua di rosa. Per mia madre la bestia nera ero io, e lo sarei stato fin da bambino, cioè da quando a mio padre al fronte scriveva che “Ernestino è molto carino, mentre Vittorio è molto birichino e anche un po’ cattivo”. Un giorno Ernesto giocando con l’acqua si era bagnato i pantaloncini e preoccupato di sentirsi rimproverare dalla mamma quando sarebbe ritornata dal lavoro, mentre mia nonna era impegnata nell’orto, ha tentato di asciugarli con il ferro da stiro. Solo che, compiuta l’opera, nella fretta di ritornare in cortile, ha lasciato il ferro da stiro sul tavolo ancora attaccato alla presa di corrente. Quando mia nonna è rientrata in casa si è trovata il ferro da stiro ancora rovente sul pavimento: aveva trapassato il tavolo provocando in esso un enorme buco. Si trattava di un vecchio tavolo di legno pregiato, di noce, molto caro a nonna e a mamma perché antico e di un qualche valore economico. Oggi quel tavolo esiste ancora e porta il segno della ferita inflittagli. Da piccolo, mio fratello era un po’ originale. Quando si giocava a calcio pretendeva di vincere sempre e ogni volta che perdeva si metteva a frignare, quando non attaccava addirittura briga con qualcuno. Conoscendo questa sua debolezza, io giocavo sempre nella squadra avversa della sua e quando ero costretto ad assistere alle sue rogne, lo invitavo al cambio di campo cedendogli il mio posto e rimpiazzando il suo. Se nei giochi mi capitava spesso di avere problemi, a scuola avevo un discreto rendimento; non ero il primo della classe ma nemmeno l’ultimo e me la cavavo in tutte le materie. Potevo contare su un bravo insegnante (il maestro Dolci) e su una classe composta da alunni che tra loro non hanno mai litigato. I contrasti e i litigi si creavano appunto tra i compagni di gioco sfociando a volte in veri e propri scontri fisici. Reduci di uno stato di guerra, le nostre famiglie non disponevano di mezzi per soddisfare le esigenze e le aspirazioni che sono proprie degli adolescenti e dei ragazzi, pertanto eravamo costretti ad accontentarci di quel poco che avevamo a disposizione e ad aguzzare la nostra fantasia e inventiva. I giochi ricorrenti erano quelli con le biglie, quindi la costruzione di piste nella sabbia su cui farle scorrere, la messa a punto di spade di legno per giocare ai moschettieri, l’allestimento di capanne con i rami degli alberi, e poi le corse e le rincorse, il tirasassi, la “sgarèlla”, cioè la lippa: un gioco con un bastone lungo e uno piccolo, a doppia punta, su cui battere per alzarlo da terra e scaraventarlo il più lontano possibile. Parecchi giochi ci mettevano a contatto con la terra e molte volte risultavamo essere vittime di escoriazioni e di infezioni che ci procuravano la presenza di malattie e spesso anche di vermi. In questo caso, piuttosto che rivolgersi al medico, i parenti di alcuni ragazzi ricorrevano all’ausilio di una fattucchiera, la “Scartésa”, la quale per liberarli dalla presenza dei 48


58 - Ragazzi all’oratorio maschile alla fine degli anni ’40.

59 - Fine anni ’40 – Una corsa con i cerchi.

60 - 61 - Fine anni ’40 – Giochi di gruppo. 49


vermi, depositava dei pezzetti di filo in una bacinella piena d’acqua e recitava parole magiche intimando agli odiosi ospiti di sparire. E pensare che molti ci credevano! Molto tempo lo passavamo scambiandoci le figure dei calciatori, poi facendo le corse con il cerchio, oppure disponendoci chini in fila e scavalcandoci a vicenda. Le bambine giocavano soprattutto disegnando quadrati col gesso in terra e saltando da uno all’altro con un piede solo, oppure saltellando mente la corda passava sotto i lorodei pezzetti di filo in una bacinella piena d’acqua e recitava parole magiche intimando agli odiosi ospiti di sparire. E pensare che molti ci credevano! Molto tempo lo passavamo scambiandoci le figure dei calciatori, poi facendo le corse con il cerchio, oppure disponendoci chini in fila e scavalcandoci a vicenda. Le bambine giocavano soprattutto disegnando quadrati col gesso in terra e saltando da uno all’altro con un piede solo, oppure saltellando mente la corda passava sotto i loro piedi. Per noi maschi il gioco principe era quello del pallone. Immediatamente dopo la guerra eravamo poveri al punto che nelle famiglie operaie non c’erano soldi da spendere per acquistare palloni di gomma, tanto meno di cuoio che a quel tempo erano rarissimi e a disposizione solo delle squadre ufficiali. Si rimediava a quella carenza costruendo palle di stracci e si giocava con quelle. Solo con gli anni ’50 sul prato dei “Giurati”, quello compreso tra le quattro nuove palazzine destinate alle abitazioni dei “capi” e degli impiegati, si è incominciato a giocare con i palloni di gomma. Al posto delle canoniche porte di legno, noi sistemavamo a terra dei sassi e su un terreno sconnesso e pieno di ciottoli, si organizzavano anche dei piccoli tornei. Meglio attrezzato era il campo dell’oratorio, ma su di esso si svolgevano molti incontri tra squadre già formate e selezionate per cui il suo accesso era difficile. Ci ho giocato anch’io alcune volte quando ho fatto parte di formazioni ufficiali. L’oratorio era da noi frequentato con una certa costanza, giacché si era costretti dai genitori a essere presenti ai riti religiosi (messe, dottrine, confessioni, comunioni, scuola di catechismo, ritiri spirituali, ecc.) solo dopo dei quali potevamo divertirci un po’ giocando a calcetto da tavolo, a ping-pong e soprattutto a calcio. Quando si rientrava a casa ci si divertiva invece a suonare i campanelli delle abitazioni e fuggire via come fulmini per non essere riconosciuti e rimbrottati. Vivevamo nelle ristrettezze eppure nonostante tutto eravamo sereni. Il terrore della guerra ci aveva insegnato a non avere pretese e ad accontentarci del poco che avevamo.

7. Le mie prime esperienze sessuali Un desiderio che negli anni dell’adolescenza non sono riuscito a soddisfare appieno e che ha costituito un assillo nella mia mente, è quello della scoperta dei piaceri del sesso. Purtroppo, così com’è stato destino per la generalità dei miei coetanei, sono cresciuto alla scuola cattolica la cui morale mi ha inculcato il divieto di ogni desiderio e manifestazione sessuale. Mi è stato insegnato che toccarsi i propri genitali, masturbarsi, il solo pensare di fare sesso con una ragazza o una donna, era peccato 50


mortale. La legittimità di questi atti scattava solo con il matrimonio. Quando andavo a confessarmi, la violazione del sesto comandamento che ordina di “non commettere atti impuri”, era l’oggetto principale delle rituali deposizioni davanti al sacerdote. Spesso i particolari mi venivano addirittura sollecitati, quando non addirittura estorti, dal confessore di turno: “Quante volte l’hai fatto, figliolo? Come l’hai fatto? A cosa pensavi mentre lo facevi?” e via di questo passo. Non solo i ministri della Chiesa di Cristo, a quel tempo, non erano disposti ad ammettere la lezione di Freud secondo cui il sesso è un’indiscutibile importante espressione della natura umana, un bisogno al pari di quello della fame o della sete; un bisogno che, oltre a essere il fondamento della riproduzione, costituisce uno dei pochi piaceri di cui ogni essere umano è dotato per natura e che non è del tutto condizionabile dal possesso e dal denaro. Ma la morale cattolica su questo argomento era intransigente (e in larga parte lo è tuttora ) imponendo ai propri sacerdoti e fedeli un comportamento da sepolcri imbiancati. Facendo peraltro finta di non sapere che nel suo stesso esercito si celavano (e si celano) molti sacerdoti omosessuali e persino dei pedofili, oltre a quelli, e non sono pochi, che invece mantenevano (e mantengono) rapporti costanti, ma segreti, con persone dell’altro sesso, inducendo spesso anche all’adulterio che pure è da annoverarsi tra i peccati mortali. Anche a me è capitato di incontrare alcuni preti e seminaristi omosessuali e pedofili. L’episodio più eclatante l’ho vissuto all’oratorio quando avevo circa dieci anni. Ogni sabato pomeriggio noi ragazzi eravamo soliti confessarci per fare poi la comunione la domenica mattina durante la messa. Dopo aver partecipato alla scuola di catechismo, ci mettevamo in fila davanti ai confessionali che erano situati in alcuni sgabuzzini entro i quali ci stavano a mala pena una sedia per il confessore e un piccolo banco per il confessante. Ovviamente erano dotati di una porta in maniera che la confessione non venisse udita da chi stava all’esterno. Quel giorno era presente in confessionale un prete esterno che io non avevo mai visto. Era anziano, un tipo dal comportamento bonario e affabile. Durante la confessione, giunti al fatidico sesto comandamento, mi ha rivolto alcune domande sui particolari del mio peccato e mentre me le faceva mi sono sentito posare la sua mano sui genitali. Con voce roca e visibilmente eccitato mi ha invitato a dimostrargli come facevo. Ho avuto uno shock e alzandomi con uno scatto dal banco, mi sono appoggiato con le spalle alla porta afferrando la maniglia in procinto di abbandonare lo sgabuzzino. Lui si è alzato preoccupato e precisando che scherzava, mi ha invitato a proseguire la confessione. Non ho avuto il coraggio né di interrompere il rito né di denunciare l’accaduto. Quel suo atteggiamento mi ha molto turbato e mi ha indotto a riflettere a lungo sul ruolo sia dei preti che della religione. Tempo prima, alcuni coetanei mi avevano avvertito che all’oratorio succedevano cose del genere, ma io avevo stentato a crederci. Poco tempo dopo a propormi un rapporto omosessuale è stato un ex seminarista il quale alla vigilia dell’ordinazione aveva deciso di rinunciare alla vita sacerdotale e di ritornare allo stato laicale. Anche lui era un frequentatore dell’oratorio. In precedenza avevo già vissuto due insidie da parte di due anziani pedofili. Uno straccivendolo, dopo che ebbe scoperto che io ero attratto dal suo motorino, un 51


62 - Fine anni ’40 - Con nonna Angela Ernesto e la piccola Federica, figlia di Vittorina.

63 - Fine anni ’40 – Elvira con il fidanzato Rodolfo a Romanshorn, in Svizzera.

64 - Zia Maria verso la fine degli anni ’40.

65 - Fine anni ’40 - Nonna Angela con figlie, nuora, nipoti e parenti a una scampagnata. 52


“Guzzi 65”, mi ha proposto di portarmi a fare un giro. Dopo che mi ero sistemato sul sedile posteriore del piccolo motociclo, egli ha scorrazzato un po’ per il quartiere e poi si è inoltrato in una zona boschiva. A quel punto gli ho chiesto dove intendesse portarmi e non avendo ottenuto alcuna risposta, ho pensato che avesse cattive intenzioni. Senza esitazione sono allora sbalzato dal mezzo buttandomi a terra e non avendo subito danni ho raggiunto di corsa l’abitato. Più tardi ho saputo che era un personaggio noto per l’odiosa abitudine di circuire i ragazzini. L’altro episodio mi è accaduto invece in treno. Nella calca di viaggiatori a un tratto mi sono sentito mettere addosso le mani da un signore che mi stava vicino. Poiché mi sono messo a ingiuriarlo ad alta voce, il losco figuro si è rapidamente allontanato da me e approfittando della fermata è sceso velocemente dal veicolo. Più avanti negli anni, quando ho frequentato la Casa dello studente di Bergamo che era diretta dai preti del Sacro cuore, durante una confessione mi è capitato di imbattermi in un altro sacerdote che aveva strani comportamenti e mi faceva domande che inducevano a pensare fosse un omosessuale. Essendo però io ormai smaliziato in seguito alle esperienze precedenti e avendo raggiunto una maggior autonomia comportamentale, gli ho fatto capire di non gradire affatto le sue avance e di colpo il suo modo di fare è mutato. Peraltro avevo già avuto sentore della presenza anche in quell’istituto di un prete che infastidiva i giovani e che era oggetto di scherno tra gli studenti. E pensare che giusto all’età di dieci, undici anni, in conseguenza delle pressioni che su di me esercitava un missionario monfortano che frequentava la famiglia Bonalumi, e che spesso si recava anche in casa mia, ero entrato nell’ordine di idee di farmi prete. Ad alimentare una tale prospettiva era anche mia nonna la quale avrebbe considerato grazia di dio avere un nipote sacerdote. La mia generazione, ma non solo quella ovviamente, ha duramente pagato lo scotto di un’egemonia bacchettona della Chiesa la quale era favorita da un dilagante conformismo farisaico tra la popolazione. Se si voleva mettere in difficoltà una famiglia cattolica, bastava invitare i genitori a spiegare ai loro figli loro come nascevano i bambini. L’argomento era tabù. Perciò noi abbiamo sofferto una totale mancanza di educazione sessuale e a questo riguardo le responsabilità delle famiglie, della scuola e della società sono state grandi. In casa mia, negli anni della mia infanzia e adolescenza, non è mai stata intavolata una sola discussione sul sesso. Solo una volta mi è capitato di fare ingenuamente a mia nonna una domanda che alludeva all’argomento: ho chiesto se si era mai abbandonata a effusioni con nonno Battista. Per niente imbarazzata, lei mi ha candidamente confessato che suo marito non l’aveva mai vista una sola volta nuda. E pensare che avevano avuto otto figli! Ai miei tempi, insomma, il sesso era argomento proibito e come la storia dell’uomo insegna, quando su un qualsiasi comportamento o su un qualsiasi bene viene posto il vincolo del proibizionismo, gli atteggiamenti degli individui si fanno anormali e all’ultimo a essere favorita è la perversione. Credo di avere avuto uno sviluppo piuttosto precoce della libido. In seguito a un mio insistente atteggiamento verso una coetanea, ho fatto conoscenza di un corpo 53


femminile a quattro o cinque anni. Già a quell’età privilegiavo giocare “al dottore” con le bambine. Ricordo che l’episodio è avvenuto nel cortile della casa in cui sono nato, nel periodo successivo alla morte di mio padre e precedentemente al bombardamento della stessa casa, in occasione di una visita con la mamma a una famiglia che era stata nostra coinquilina. Tempo dopo sono stato sorpreso da mia madre, mentre rientrava dal lavoro, dietro il portone dell’edificio dei “Giurati” in cui abitavo, nell’istante in cui stavo togliendo le mutandine a un’amichetta. Sono stato non solo rimproverato, ma addirittura mandato a letto senza cena. Mia madre non ha avvertito l’importanza di una spiegazione e di un dialogo e per alcuni giorni non mi ha rivolto la parola. Un’altra volta mi ha sorpreso sul letto mentre mi masturbavo e anche in quell’occasione ha avuto una reazione da fervente puritana rimproverandomi e accusandomi di essere invaso dal demonio. Eppure, mai una sola volta ha avuto l’accortezza o il coraggio di affrontare con me apertamente l’argomento. E non si trattava certo di un suo limite; il suo comportamento era il prodotto di una cultura consolidata, tramandata nel tempo. Simili atteggiamenti moralistici e bigotti, frutto appunto di arcaici retaggi, inducevano me stesso al rifiuto del dialogo e contemporaneamente stimolavano la mia curiosità e mi sollecitavano a scoprire ciò che mi si voleva nascondere. Da naturale bisogno, in quel clima di omertà, il sesso si trasformava nella mia mente in un’ossessione: il godimento diventava il frutto proibito e il contatto fisico con l’altro sesso una morbosa esigenza. E questo non era affatto un esclusivo stato d’animo mio, ma la condizione della generalità dei miei coetanei. I numerosi esempi di una diffusa frustrazione generazionale affollano ancora oggi la mia memoria. Nella mia classe di scuola elementare vi era un ragazzo che era pluriripetente e che essendo più avanti di noi negli anni, sul pube vantava l’affiorare della prima peluria. Per tutti noi era motivo di curiosità e così accadeva che durante le lezioni, approfittando dell’assenza o disimpegno del maestro, ci alternavamo al suo banco e infilavamo la mano nei suoi pantaloni per costatare dal vivo l’eccezionalità della sua condizione. E mentre si sperimentava questa novità provavamo tutti il piacere dei sensi che poi diventava oggetto di conversazione e di scambio di confidenze tra di noi. Durante i soggiorni in colonia marina, nelle ore serali e notturne, in una camerata affollata di ragazzi, era invalsa l’abitudine di confidarci ad alta voce i nostri reconditi desideri e dare corso a manifestazioni erotiche collettive vissute come gare di virilità. A quel tempo, accanto alla scarpata del ponte della ferrovia, di fronte al campo sportivo, vi era una grande buca piena di sassi e di sterpi. In quel luogo ci rifugiavamo eclissandoci nei piccoli antri che avevamo rudemente costruito, in compagnia di una o più ragazze che solitamente erano sorelle di qualcuno degli stessi membri del gruppo. Coloro che le reclutavano, in cambio di una biglia o di alcune figurine, invitavano (o meglio, ordinavano) a queste ragazzine di togliersi le mutandine e mostrare a noi l’agognato incantevole panorama. Dopo aver versato l’obolo, noi passavamo davanti alle bambine con l’ansia di scoprire com’era fatto l’altro sesso. Impegno pattuito era quello di limitarci a guardare, poiché toccare era proibito. 54


66 - Fine anni ’40 – Accasciato col pallone, in gita in Città alta.

67 - Anno scolastico 1951-52 – Classe di terza media della scuola “Donati-Petteni” sita in via Borfuro a Bergamo. Terzo da sinistra in seconda fila. 55


Con diversi amici, tra cui uno che poi ha deciso di farsi prete, era invalsa l’abitudine di fare giochi erotici collettivi e sperimentare le più strane posizioni e combinazioni. Con una ragazza più grande di me ho avuto un rapporto sessuale orale, mentre lei era affacciata a una finestra e chiacchierava con un’amica che stava in cortile la quale era ovviamente ignara di ciò che stava accadendo alla sua interlocutrice. E’ stata un’esperienza molto piacevole sia per me che per lei e che io non l’ho mai dimenticata. Una notte, mentre dormivo nel letto accanto a una parente, mi sono dato da fare con tutte le cautele del caso per non svegliarla, per sfiorarle le cosce con la mano e infilare delicatamente le dita nelle sue mutandine. Lei ha continuato tranquillamente a dormire e non ho mai capito se per mia abilità o per sua connivenza. Insomma, nel periodo dell’adolescenza, l’ansia di conoscere, di scoprire e quindi di godere dei piaceri del sesso in me era grande e si ingigantiva diventando un’idea fissa di fronte agli atteggiamenti bigotti e alle proibizioni che subivo. Ripensandoci oggi, sono portato a concludere che le tesi di Freud, che naturalmente a quel tempo io non conoscevo, avevano un decisivo sopravvento sulla falsa moralità dei preti e di tutti coloro che seguivano le loro direttive. Il fare sesso si rivelava un bisogno naturale. Gli innamoramenti, cioè quelle attrazioni che non sono strettamente limitate all’interesse sessuale, ma che suscitano fascino e sentimenti amorosi, sono maturati più avanti nel tempo. La prima cotta l’ho vissuta a dodici, tredici anni quando frequentavo la scuola media. Concludendo, in quella fase della mia vita il bisogno e il desiderio di sesso hanno giocato un importante ruolo nella formazione del mio carattere e della mia educazione morale contribuendo a liberarmi dalle ottuse eredità di una cultura ipocrita.

8. Dopo la scuola, le vacanze in Svizzera Conclusa la scuola elementare con un discreto profitto, su consiglio del maestro Dolci che mi ha seguito per tre anni, mia madre mi ha iscritto alla scuola secondaria che a quel tempo era facoltativa. E poiché a Ponte San Pietro non esisteva, ha dovuto far riferimento alla Scuola media “Donati Pettini” che era situata in via Borfuro a Bergamo. Per far fronte ai costi (tasse scolastiche, libri, retta per il doposcuola, abbonamento del tram, ecc.) lei faceva ore straordinarie alla Legler adattandosi a pulire i servizi igienici. La frequenza ha comportato il mio trasferimento giornaliero in città con il tram, il che mi ha consentito di acquisire una certa autonomia di movimento e conseguire un processo di sprovincializzazione attraverso l’inserimento in un ambiente diverso da quello in cui ero vissuto fino a quel tempo. La mia classe era composta da ragazzi appartenenti al ceto medio, alcuni erano figli di professionisti e di imprenditori e io, per un certo periodo di tempo, ho vissuto una sensazione di inferiorità di natura sia intellettuale che sociale. Mi rendevo conto di essere meno preparato culturalmente e meno disposto a fare i conti con le novità e i cambiamenti: chi proviene dalla provincia, difatti, manifesta generalmente una certa 56


68 - Tra un gruppo di allievi della Casa dello studente di Bergamo nei primi anni ’50.

69 - Primi anni ’50 – Tra i partecipanti agli esercizi spirituali nel cortile del collegio S.Alessandro di Bergamo. 57


inadeguatezza nei comportamenti rispetto a chi vive in città. A questo condizionamento si aggiungeva poi la palese differenza di stato sociale. Erano tempi in cui nella mia famiglia vigeva ancora la tradizione di rivoltare i vestiti indossati dei parenti più anziani per adattarli alla corporatura dei più giovani. Io ho portato per due o tre anni un cappotto che era stato rivoltato ben tre volte. Non disponendo di denari per comperarmi un vestito nuovo, mia madre si era rivolta al sarto affinché mi confezionasse una giacca e un paio di calzoni alla zuava usando uno scampolo di fustagno che veniva prodotto dal cotonificio Legler e distribuito in regalo ai dipendenti. A scuola mi recavo dunque con tale abbigliamento e persino la borsa dei libri e il sacchetto delle provviste erano confezionati con lo stesso tessuto. Mi consideravo l’”omino di fustagno” e accanto a parecchi miei compagni ben vestiti e curati, mi sentivo un diverso, seppure io non abbia mai avuto alcun motivo di lagnarmi a riguardo dell’atteggiamento assunto dai compagni nei miei confronti, ho appunto sofferto lo stesso per lungo tempo un senso di inferiorità. Mi sentivo a mio agio solo alla Casa dello studente, luogo in cui mi recavo dopo le lezioni per il doposcuola. L’istituto era gestito da preti ed era frequentato soprattutto da ragazzi appartenenti alle classi sociali meno abbienti. Oltre a contribuire a integrare l’insegnamento scolastico, questo doposcuola garantiva tranquillità ai genitori che in genere erano occupati al lavoro e non potevano seguire i propri figlioli. Poiché era preoccupazione costante di mia madre che io non fossi esposto alle insidie della strada e che oltre a essere sorvegliato impiegassi utilmente il mio tempo, la frequenza di quel luogo la rassicurava. Soprattutto perché a sorvegliarmi ed educarmi erano i preti. Dopo aver consumato il pranzo che veniva portato da ognuno di noi da casa, non esistendo a quel tempo la mensa, ci dedicavamo ai compiti, poi alla ricreazione e quindi alla preghiera. Giocavamo soprattutto a calcetto da tavolo, a ping-pong, a pallone e ci divertivamo a camminare sui trampoli di legno. Ho superato i tre anni delle medie anche grazie agli spintoni dei miei insegnanti. Mia madre era puntuale nel sentirli per verificare il livello del mio rendimento negli studi. A volte, per accattivarsi la loro benevolenza, portava loro in dono qualche scampolo di tessuto prodotto dalla Legler che veniva donato a tutti i dipendenti del cotonificio. Si assicurava così una particolare sorveglianza e attenzione alle mie prestazioni scolastiche. Godevo infatti di una particolare cura da parte dei miei insegnanti, anche perché ero orfano di guerra e figlio di un decorato con medaglia d’oro al valor militare. Ci sono stati periodi in cui ero insufficiente in italiano e latino e pure in matematica, ma l’aiuto e la clemenza degli insegnanti hanno impedito che venissi bocciato. Anche dai preti della Casa dello studente ho ricevuto un particolare aiuto nello studio che mi ha consentito di superare le difficoltà e le insufficienze senza grandi traumi. Durante i periodi estivi, per non lasciarmi in condizioni di ozio e per impedire che mi esponessi a pericoli di sorta, mia madre mi spediva in Svizzera da mia zia Elvira dove ci andavo molto volentieri, non solo perché ero molto benvoluto da lei e da zio 58


Rodolfo ed ero accontentato in tutto, ma anche perché subivo il fascino del paese straniero. Nel cantone Thurgau, sul lago di Costanza, ai confini con l’Austria e la Germania, si parla tedesco, per di più in forma dialettale, lingua di cui io non avevo la minima conoscenza. Viene però parlato anche il francese e la possibilità di integrare e arricchire le mie nozioni scolastiche era di mio interesse. Per la verità quelle permanenze non mi sono servite un gran che ai fini dell’acquisizione e del perfezionamento delle lingue straniere, però mi hanno aperto la mente consentendomi di conoscere persone, costumi e ambienti nuovi. Non avendo figli, i miei zii hanno avuto particolare cura di me anche portandomi un po’ ovunque a conoscere luoghi e città a me sconosciuti, permettendomi così di soddisfare le mie curiosità e pure certi miei capricci. Per due volte, durante quelle vacanze, ho dato luogo a episodi che hanno creato seri problemi a mio zio e a mia zia. Affinché potessi recarmi ai bagni pubblici, sulle rive del lago di Costanza, che distavano circa un chilometro e mezzo dalla loro abitazione, loro hanno chiesto in prestito a una vicina una vecchia bicicletta e con quella ho scorazzato parecchio per le vie di Romanshorn. Un giorno, mentre mi stavo recando al lago a velocità sostenuta, ho investito un’anziana signora. Mentre lei è rimasta sorprendentemente in piedi, io sono rovinato a terra procurandomi una slogatura del polso e diverse escoriazioni sulle braccia e sulle gambe. Un cerchio della bicicletta si è contorto per il colpo subito e il pneumatico è scoppiato. Sono rimasto a terra dolorante mente attorno a me si sono radunate alcune persone le quali, nell’evidente intendimento di prestarmi soccorso, mi chiedevano, in tedesco, quali fossero le parti del mio corpo lesionate dalla caduta. Oltre al dolore, in quel momento ho sofferto anche l’umiliazione di non saper rispondere. Fortunatamente una signora ha intuito dai miei lamenti che ero italiano e, conoscendo la mia lingua, mi ha prestato l’aiuto necessario a riprendermi. Dopo essere stato medicato, sono rientrato a casa accompagnato da due ragazzi i quali hanno avuto la gentilezza di trasportare a braccio anche la bici ormai fuori uso. Quando la sera gli zii sono rientrati dal lavoro, ho vissuto istanti di panico, ma la loro comprensione ha presto fugato i miei timori e il loro benevolo contegno mi ha rasserenato. L’altro episodio, invece, data la sua gravità, mi ha procurato una ramanzina che mi ha fatto star male per alcuni giorni. A quel tempo, com’era sancito dalla legge svizzera, mio zio era obbligato a prestare ogni anno un breve periodo di servizio militare per mantenersi aggiornato nell’uso delle armi e quindi pronto a un eventuale richiamo. L’esercito lasciava in dotazione al cittadino-soldato la divisa che portava e l’arma che usava, strumenti questi che venivano gelosamente conservati nella propria abitazione. Un giorno, mentre i miei zii erano al lavoro, senza alcuna malizia, rovistando nel fondo dell’armadio, ho scorto il fucile che era in dotazione di mio zio. L’ho tolto dal fodero e l’ho imbracciato. Pur essendo per me molto pesante e poco agevole da maneggiare, mi sono divertito a “fare il soldato” e fissando al poggiolo della finestra il fucile, ho preso di mira alcuni uccellini che stavano su un albero del cortile. Dopo aver puntato il bersaglio tiravo il grilletto, ovviamente senza inserire i proiettili che 59


70 - 1951 – Alle cascate del Reno a Schaffhausen

71 - 1951 – Con zia Elvira e zio Rodolfo a Sankt Gallen.

72 – 1951 – Con Ernesto a una manifestazione patriottica a Ponte S. Pietro 60


pure erano a portata di mano. Probabilmente, qualche vicino ha notato il mio ingenuo ma pericoloso movimento e preoccupato ha avvisato la polizia. Dopo una mezz’oretta ho sentito suonare il campanello di casa e quando ho aperto la porta mi sono trovato di fronte due gendarmi. Solo in quel momento mi sono reso conto di aver compiuto una sciocchezza e di aver procurato un grosso guaio a mio zio, il quale nei giorni successivi è stato convocato dalla gendarmeria locale e sottoposto a una requisitoria che lo ha profondamente scosso. E’ stata quella una vicenda che ha procurato anche a me grande preoccupazione e pure una mortificazione insegnandomi ad essere più responsabile nei comportamenti. L’aspetto che più di altri durante quei soggiorni mi ha colpito, rimanendo fisso nella mia mente addirittura per decenni, è il modo in cui a quel tempo venivano considerati e trattati i lavoratori italiani dai cittadini svizzeri. Ho cominciato allora a conoscere la xenofobia e una tale esperienza mi ha indotto più avanti negli anni, quando l’Italia da Paese di emigranti è divenuto Paese ospite di immigrati dalle zone povere del mondo in cerca di pace e lavoro, a comprendere l’ottusità e l’egoismo che genera e dunque la sua pericolosità sociale. A Romanshorn vi era una folta comunità italiana formata soprattutto da veneti, bresciani, bergamaschi e meridionali. I maschi erano occupati in prevalenza nei settori meccanico ed edilizio, le femmine nell’abbigliamento. Generalmente essi abitavano nei quartieri di periferia e negli edifici usurati dal tempo, abbandonati dalla popolazione autoctona e a volte fatiscenti. Come punto di ritrovo degli immigrati italiani esisteva un vecchio ristorante gestito da una coppia di trevisani. In quel locale vigeva un clima di solidarietà che compensava le intolleranze e le umiliazioni subite nel contesto sociale di quel Paese straniero. Gli svizzeri erano persone da uno spiccato senso civico, quando ti incrociavano per la strada ti salutavano, anche se non ti conoscevano, Dietro questo fare educato, però, si celava un diffuso disprezzo (e insieme un timore) per gli stranieri, per quelli poveri naturalmente. Gli immigrati bergamaschi e bresciani venivano soprannominati “cincal”, un nomignolo che stigmatizzava le espressioni del tradizionale gioco della “mora” (confronto del numero delle dita che si espongono contemporaneamente e previsione della loro quantità). Per me, dunque, i soggiorni in Svizzera, oltre a essere stati un’occasione di relax e di turismo (ho visitato numerose città elvetiche e sono stato anche in Germania e in Austria), hanno rappresentato motivo di maturazione sia sul piano comportamentale che su quello sociale. In particolare, ripeto, l’impatto con le tendenze xenofobe mi è servito negli anni dell’impegno politico a comprendere meglio le cause e le dinamiche del fenomeno leghista.

9. Apprendista tintore a 15 anni Conseguita la licenza di scuola media e raggiunta l’età lavorativa, nella mia famiglia si è aperta la discussione su quale potesse essere il mio avvenire. A quel tempo mia madre frequentava in modo assiduo le manifestazioni patriottiche alle quali erano presenti autorità civili e militari. In occasione di una di quelle cerimonie, un alto 61


ufficiale dell’esercito le aveva suggerito l’ipotesi di una mia frequenza dell’Accademia militare i cui costi, trattandosi di orfano di decorato con la medaglia d’oro, non avrebbero gravato sul bilancio familiare e mi avrebbero assicurato la carriera militare. Per accedervi, però, avrei dovuto conseguire la maturità, perciò avrei dovuto frequentare per cinque anni una scuola superiore i cui costi sarebbero ricaduti completamente sulle spalle della mia famiglia. Quella prospettiva a me francamente non interessava per due ragioni: la prima perché l’idea di fare il militare non era assolutamente compatibile con la mia visione della vita, anzi era decisamente contrastante con le mie aspirazioni; poi perché, testimone dei tanti sacrifici che mia madre era già costretta a fare per assicurarci la possibilità di studiare, non intendevo aggravare la sua condizione per l’avvenire. Occorreva peraltro tener conto delle esigenze di mio fratello Ernesto il quale stava frequentando la scuola secondaria e, nel caso io avessi scelto di continuare gli studi, a lui sarebbe stata preclusa ogni possibilità di frequentare una scuola superiore. Confrontandomi con mia madre, ho quindi deciso che l’ipotesi dell’Accademia militare non era per nulla percorribile e che l’unica scelta responsabile che io mi sentivo di fare era quella di trovarmi un’occupazione ed eventualmente continuare gli studi attraverso la frequenza delle scuole serali. Su quel mio orientamento sono convenuti tutti i familiari e ha avuto così inizio una frenetica ricerca di un posto di lavoro per me. Mia madre era costantemente preoccupata di non lasciarmi in stato d’ozio e di tenermi lontano da possibili pericoli. Giusto in quei mesi nel vicino fiume Brembo erano annegati un giovane che abitava ai “Giurati” e un mio coetaneo figlio di un dirigente della Legler e il rischio che incidenti simili potessero accadere anche a me e a mio fratello, la tormentavano. I nostri familiari ci avevano letteralmente terrorizzato sui pericoli della balneazione, perciò ci hanno proibito in maniera categorica di recarci al fiume. Tra le poche possibilità di divertimento che ci erano concesse in quel periodo vi era la presenza alle partite di calcio, prima della “Vita Nova” poi del “Ponte San Pietro”, per assistere alle quali a noi orfani di guerra era stato concesso dalla società sportiva un abbonamento gratuito. Qualche giorno dopo aver sostenuto gli esami di licenza media, mia madre si è subito data da fare per convincere il Provveditore agli studi di Bergamo a concedermi una sorta di praticantato presso gli uffici di via Crispi. Ho difatti frequentato quotidianamente quell’ambiente per sei mesi, svolgendo il ruolo di fattorinopassacarte presso la segreteria dello stesso Provveditore, e per quella mia prima esperienza lavorativa mi è stato assegnato un compenso di 5.000 lire: si è trattato del mio primo introito guadagnato con il sudore. Esaurita quell’esperienza, sempre per merito di mia madre, sono stato “assunto” come scrivano presso l’Ufficio di collocamento di Ponte San Pietro, senza però avere diritto ad alcun compenso. Allora quell’ufficio era diretto dal signor Consoli il quale svolgeva il ruolo di factotum ed era l’unico addetto. Ricordo di avergli scassato l’unica macchina da scrivere “Olivetti” che aveva in dotazione e di averlo messo in seria difficoltà nello svolgimento della sua importante funzione sociale. 62


73 - 1952 – Con mamma a una manifestazione patriottica.

74 - 1952 –Con mamma e un militare. 63


Nel frattempo, per alcune settimane, nei giorni in cui non era impegnata al lavoro, mia zia Clementina, meglio conosciuta da tutti come Menta, che era maestra al reparto “Rocche” e lavorava a turni di squadra, al mattino presto mi accompagnava nel tratto di strada che dalle abitazioni dei Legler portava alla portineria dello stabilimento, e nel momento in cui apparivano questi signori, lei si prodigava a presentarmi a loro e a perorare una mia assunzione al cotonificio. Era una scena che a me disgustava, non solo perché mi faceva sentire un accattone, ma anche a causa dell’umiliante condizione in cui mia zia stessa era costretta a porsi. Spesse volte, infatti, i “signori padroni” non la degnavano della loro attenzione e la liquidavano con scarne e non sempre gradevoli parole. Era a quel tempo convinzione diffusa che gli orfani di guerra e soprattutto i figli di decorati al valor militare, godessero di uno stato di privilegio e della considerazione da parte delle pubbliche autorità. Io, oltretutto ero figlio di un assistente tessitore dello stesso cotonificio Legler per il quale la direzione aziendale aveva richiesto l’esonero dalla guerra ed essendo in possesso della licenza di scuola media, il che non era requisito di tutti, venivo considerato un “raccomandato”. Ingenuamente, io stesso supponevo di poter godere di una prelazione nella scelta occupazionale, ma l’esperienza ha smentito quel luogo comune. Sono stato assunto alla Legler ai primi del 1953 unitamente ad altri ragazzi, figli di dipendenti, e assegnato al reparto tintoria come apprendista tintore. Da principio ho lavorato con un operaio che mi è stato maestro su una macchina foulard, poi dopo aver appreso il mestiere, mi è stata concessa una responsabile autonomia e mi è stato affidato un jigger. L’ambiente era uno dei più nocivi alla salute. Per otto ore si aveva a che fare con alcali, acidi oltre che con i colori. I tre elementi chimici che più non sopportavo e che temevo erano la soda caustica, la formaldeide e l’acido acetico. L’ambiente era costantemente denso di vapori e di umidità che penetrava nelle ossa e a volte la respirazione diventava faticosa. In quegli anni le misure di prevenzione e sicurezza erano praticamente sconosciute. Si portavano gli zoccoli e ogni mattino (io facevo costantemente la squadra tra le ore 6 e le 14) mi legavo attorno ai piedi fin sopra le caviglie degli stracci per proteggermi da eventuali schizzi di sostanze chimiche, spesso irritanti. I pantaloni e le magliette che indossavo erano sempre pieni di macchie e di buchi e dovevo cambiarli di frequente. Per certe lavorazioni vi era l’obbligo di bere il latte, mentre non era previsto nessun controllo medico periodico. Solo in caso di incidenti o di svenimenti si aveva assicurata l’assistenza del piccolo presidio infermieristico che era allestito nei pressi della portineria principale dello stabilimento. Di quel periodo lavorativo ho ancora presenti nella memoria due episodi che mi avevano sconvolto. Un giorno mi è stato affidato come collaboratore il figlio del direttore del reparto il quale si era appena laureato in chimica e suo padre lo aveva obbligato a fare pratica manuale nei punti nevralgici della lavorazione. A differenza di noi, egli indossava una tuta blu e scarpe normali. Dopo alcuni giorni di sua presenza in reparto, gli è stato chiesto di travasare da una damigiana di vetro un quantitativo di soda caustica necessaria alla lavorazione. Nel fare tale operazione, probabilmente avendo compiuto 64


75 – Tipo di macchina “foulard” per la tintura di tessuti su cui ho lavorato.

76 - Tipo di jigger simile a quello su cui ho operato per oltre un anno. 65


una manovra sbagliata, egli ha urtato la damigiana la quale per il colpo subito si è spezzata a metà, provocando conseguentemente la fuoriuscita in ogni direzione di consistenti schizzi di soda caustica. Mentre l’ingegnere è stato investito in pieno, anch’io che stavo a due passi da lui sono stato raggiunto dalla pioggia di quella sostanza corrosiva. Dagli operai che mi avevano addestrato, ero stato avvertito delle gravi conseguenze che un accidentale contatto di quel tipo avrebbe comportato e pertanto, come loro stessi mi avevano consigliato, mi sono precipitato verso la botte che mi stava vicino la quale era colma di sostanze acide e me le sono versate addosso per neutralizzare immediatamente i residui alcalini. Mentre io mi accingevo velocemente a compiere quest’operazione riparatrice, il luminare chimico, smarrito, si è adagiato sul pavimento dimostrandosi incapace di reagire. Quando venne soccorso dai compagni di lavoro, oltre ad aver bruciacchiato la tuta blu divenuta in larga misura bianca, aveva le scarpe di cuoio afflosciate, mentre il cinturino del suo orologio si era letteralmente polverizzato. L’hanno dovuto portare immediatamente al pronto soccorso dell’ospedale dove è stato ricoverato e per una ventina di giorni è stato convalescente. Io me la sono cavata con qualche leggera bruciatura agli arti. Quell’episodio mi ha fatto molto riflettere e mi ha insegnato che seppure importantissima, la conoscenza teorica non basta di per sé a metterci al riparto da spiacevoli accadimenti e che altrettanto preziosa è l’esperienza pratica. L’altro memorabile avvenimento ha riguardato invece lo stato di subordinazione e di umiliazione cui a quel tempo erano sottoposti i lavoratori dipendenti. Non è che la situazione sia di molto cambiata con il passare dei decenni, per la verità, certo è che allora le stesse organizzazioni sindacali avevano poco potere contrattuale. Mi era stata da poco affidata la gestione della macchina foulard in autonomia quando, per inesperienza e a causa di una cattiva miscela dei colori, su una pezza che stavo trattando sono apparse ombre e piccole macchie. Appena accortomi dell’anomalia, ho avvertito il capo che è immediatamente intervenuto e a sua volta ha convocato il capo reparto. Da questi mi sono beccato una ramanzina che non finiva più. Smontata la pezza dalla macchina e portata altrove per un lavaggio, sono stato chiamato a rapporto dal direttore il quale mi ha fatto presente che se il disastro da me provocato non avrebbe trovato una positiva soluzione, i costi che avevo causato all’azienda mi sarebbero stati addebitati in busta paga. Si tenga conto che per risarcire quel danno avrei dovuto rinunciare almeno per dieci mesi al magro salario che mi veniva riconosciuto. Fortunatamente per me, la pezza è stata recuperata con una gradazione di colore leggermente più scuro e io me la sono cavata con il subire due processi verbali e provare tanta paura per le possibili conseguenze. Da allora ho fatto molta attenzione per non incorrere nello stesso errore. Ho lavorato in quel reparto per circa due anni poi sono stato prima assegnato al reparto finissaggio con il compito di controllare le pezze che avevano superato i processi di tintoria e di candeggio, poi a quello della piegatura. Anche quelle erano mansioni che impegnavano non solo le braccia, ma anche il cervello; si trattava di posti di responsabilità per un giovane della mia età, l’ambiente di lavoro però era meno nocivo di quello del reparto tintoria. 66


77- 1954 – Con l’amico e compagno di lavoro Riccardo Cisana.

78 – Metà anni ’50 – La squadra di calcio del reparto “tintoria-finissaggio”. 67


Per un anno ho avuto il piacere di lavorare in un grande salone dove trovava occupazione anche mia madre e il vederla spesso mi consolava. E’ stato soprattutto nel reparto controllo pezze che ho avuto costanti rapporti con l’allora sindacalista della Cgil Giovanni Milani. Io ero acerbo sia in materia di diritti del lavoro che nel campo politico e con lui ho avuto infinite e proficue discussioni nonostante le nostre idee fossero contrastanti. Se la cultura che avevo ricevuto in famiglia e all’oratorio mi induceva a mettere in discussione la cosiddetta “lotta di classe”, al tempo stesso le mortificazioni, le umiliazioni e le minacce che avevo subito da parte dei “capi” aziendali mi sollecitavano alla rivolta. Gli scioperi, a quel tempo, erano ancora tabù per la mia morale, anche se in occasione della loro proclamazione io precipitavo in uno stato di crisi di coscienza. Solo più tardi, quando sono stato trasferito negli uffici, al di là del “Brembo”, ho acquisito coscienza e coraggio sufficienti per dare inizio alla mia contestazione.

10. Le passioni della prima gioventù Rimediata finalmente un’occupazione, come è facile immaginare, ho provato una gioia indicibile che presto, però, è stata bruscamente interrotta, prima dalla morte di mia nonna Angela e successivamente dal decesso di mio zio Oreste. Le loro condizioni erano già da tempo precarie e in famiglia eravamo preoccupati per la loro sorte. Mia nonna ha avuto problemi di asma e per alcuni mesi ha trascorso la quasi totalità delle giornate a letto a causa di difficoltà respiratorie. Aveva allentato di molto l’appetito ed era parecchio dimagrita. L’ultima volta che sono andato con la mamma a trovare zio Oreste all’ospedale neuropsichiatrico, l’avevo trovato molto provato. Parlava a stenti e pure lui era costantemente a letto. Che questi miei due familiari fossero ormai giunti al termine della loro esistenza era un dato palese anche ai miei occhi ingenui, ma come succede a tutti, non si vorrebbe mai che le persone che si amano venissero a mancare. Il mio dolore per il loro decesso è stato grande. Nonna, seppur sempre severa, a noi due orfani in particolare ha voluto un gran bene e ci ha fatto anche da mamma. Zio Oreste mi ha sempre suscitato tenerezza e ogni volta che ho avuto occasione di vederlo, dentro di me provavo un profondo e straordinario sentimento di affetto, anche pensando al fatto che gli erano venuti meno sia l’amore sia le cure assicurategli da mio padre. La morte del resto è parte stessa della vita e i sopravvissuti sono messi in condizione di accontentarsi di aver loro voluto bene e di serbare ricordo dei momenti felici trascorsi insieme. E come è stato per tutti gli altri miei parenti, anche per nonna Angela e zio Oreste conservo ancor oggi cari ricordi. Essendo titolare di un salario, seppur modesto, e coltivando da tempo il sogno di disporre di una bicicletta, mia madre dopo lunghe insistenze si è convinta a soddisfare il mio desiderio. Avrei voluto acquistare una bici da corsa, essendo però il suo costo fuori portata del bilancio familiare, mi sono accontentato di un modello 68


79 - 1953 – Funerale di nonna Angela.

80 - Parenti al seguito del feretro di nonna Angela. 69


sportivo (manubrio orizzontale con telaio quasi da corsa, triplo cambio, cerchi stretti e fissaggio dei piedi ai pedali). La soddisfazione di poter disporre di quel mezzo è stata immensa. Quando avevo tempo libero mi facevo delle passeggiate e durante alcuni fine settimana con gli amici scorazzavo per le valli bergamasche, scalando il passo del Ghisallo e percorrendo le sponde di alcuni laghi lombardi. Negli ambienti della Legler un giorno è stata organizzata una corsa a cronometro a coppie per dilettanti: Ponte San Pietro-Capriate San Gervasio e ritorno. Mi sono iscritto anch’io, in coppia con una compagno di lavoro. Per due o tre settimane, seguiti da un altro compagno di reparto esperto di corse, ci siamo allenati con grande impegno macinando chilometri e chilometri di strada sia in pianura che in collina. Alla vigilia della gara alcuni osservatori ci davano per probabili vincitori. Il giorno della competizione ci sentivamo decisamente in forma e attorno a noi si era costituito un piccolo club di fan. Siamo partiti nelle ultime posizioni e abbiamo avuto il vantaggio di controllare i tempi degli avversari che ci precedevano. Fino ai tre quarti della corsa abbiamo stabilito il tempo migliore e ciò faceva preludere a una nostra vittoria, quando però abbiamo percorrendo il tratto di strada tra Madone e Bonate Sopra, il cambio di testa tra noi due ha cominciato a diventare difficoltoso. Il mio partner non aveva più le energie per mantenere il ritmo conseguito fino a quel momento. Negli ultimi chilometri ho dovuto “tirare” sempre io e la caduta di velocità ci ha fatto perdere il primato. Siamo giunti solo al terzo posto. Per me è stata una vera e propria delusione e quella gara ciclistica ha rappresentato la prima e l’ultima di carattere competitivo cui ho partecipato. Nel triennio ’54-’56, oltre all’impegno lavorativo, ho frequentato un corso domenicale di tintoria e chimica presso l’Esperia di Bergamo, ma mi rimaneva abbastanza tempo libero per le mie passioni. Oltre alle gite in bicicletta, mi divertivo a strimpellare con una vecchia fisarmonica che mi era stata regalata da un parente. Avevo preso passione alla musica a seguito di alcune frequentazioni degli ambienti della lirica sollecitato da due colleghi di lavoro. In loro compagnia una volta ho assistito alla rappresentazione, al teatro Donizetti di Bergamo, dell’“Elisir d’amore” interpretato da due artisti famosi: Maria Callas e Ferruccio Tagliavini. Per rimediare un posto sul loggione abbiamo dovuto fare la fila per quattro ore e dopo aver preso posto abbiamo aspettato altre due ore perché iniziasse lo spettacolo. Data la qualità della rappresentazione ne è valsa comunque la pena. Mentre eravamo stipati sulle panchine di legno del loggione, anche per rendere meno disagevole l’attesa, i miei amici mi hanno raccontato due episodi che mi hanno fatto ridere ogni volta che mi capitava di ricordarli. E’ notorio che il loggione è frequentato dai più genuini cultori della musica lirica e che molti cantanti, per accertare i loro successi o insuccessi, osservano attentatamene il grado di consenso che proviene da questo settore del teatro, non già dagli applausi della platea che in genere è gremita di “gente bene”, spesso incompetente e ipocrita. Com’è successo a me, per assicurarsi un posto sul loggione occorreva (e credo sia così anche oggi) fare la fila e poi le corse, e rimanere in attesa per lunghe ore. Qualcuno di questi appassionati si portava degli alimenti da casa per non patire la 70


fame. I miei amici mi hanno raccontato che l’ultima volta che avevano partecipato a una rappresentazione operistica, qualche istante prima che iniziasse lo spettacolo, uno di questi appassionati, appoggiato al parapetto, si stava gustando un risotto contenuto in un pentolino di alluminio. A un tratto, a seguito di uno spintone del vicino, il pentolino gli è scivolato dalle mani ed è precipitato in platea sollevando vibrate proteste dei signori in abito da sera che vi avevano preso posto sotto di lui. Dal loggione, invece, sono partite sarcastiche risate e fragorosi applausi. Mi hanno poi raccontato che in occasione di una rappresentazione dell’Aida, il teatro era gremito all’inverosimile e nel momento in cui Radames invoca il famoso “Oh dolce Aida, dove sei tu?”, proveniente dal loggione si è udita una voce gridare “So che schisciat in sima al logiù” (“Sono qui schiacciato in cima al loggione”), il che ha provocato una generale risata dei presenti nei settori popolari e una misurata disapprovazione degli spettatori che erano nei palchi e in platea. La fisarmonica che mi era stata donata dal parente era ormai consunta e in stato di disfacimento; a poco sono valsi i miei tentativi di rimetterla in sesto. Quello strumento, assieme a quelle brevi esperienze operistiche, mi ha però invogliato ad avere un approccio serio con la musica e ipotizzare l’acquisto di un violino. Quella passione, ahimé, ho dovuto reprimerla dopo solo qualche giorno dalla sua nascita. Quando mi sono informato sul prezzo d’acquisto di quello strumento e insieme ho appreso che per suonarlo avrei dovuto ricorrere alle lezioni di un maestro di musica, il cui costo era altissimo e insopportabile per la mia borsa, con grande dolore ho rimosso dalla mente il mio desiderio. Mi sono consolato con la musica leggera. Erano i tempi in cui apparivano a livello di massa i primi moderni grammofoni con i dischi a 78 giri in vinilite. Il mio amico Ambrogio, colui che poi deciderà di farsi prete, mi ha inserito in una compagnia di ragazzi e ragazze di Curno e ogni domenica pomeriggio insieme ci recavamo in quel paese a ballare in case private. A 16, 17, 18 anni tutti vivono la stagione degli amori. Già tempo prima avevo vissuto momenti di innamoramento con una ragazza più giovane di me di due anni e con la quale avevo provato a fare l’amore. Poi ho flirtato con altre due o tre senza però comprometterle sessualmente. A quel tempo mi succedeva spesso di innamorarmi di qualche ragazza, ma anche di qualche signorina senza però avere il coraggio di confessare loro la mia passione. Di alcune ricordo ancora i nomi: Mariacarla, Maria, Marisa, Angela, Fanny, Rosaria. Con le ragazze della compagnia di Curno non ho avuto avventure perchè non corrispondevano alle mie aspettative; con loro ballavo soltanto. Mi divertivo di più con gli amici maschi con i quali imbastivo degli scherzi. In occasione di un carnevale con due di loro sono andato addirittura a sfilare in maschera sul Sentierone a Bergamo. Anche in quel periodo di spensieratezza, pur se in modo assai parziale, ho saputo mantenere vivo in me il senso dell’impegno culturale. La direzione del cotonificio Legler ha organizzato un concorso di disegno e pittura riservato ai dipendenti: operai, impiegati, tecnici e dirigenti. Sin da bambino io mi divertivo a disegnare e, in occasione della frequentazione di casa mia di un ex 71


81 - 1956 – Con gli amici di Curno.

82 - 1956 – Con Mino Finazzi e Ambrogio Gandolfi in maschera con indosso gli abiti da moschettiere. 72


ufficiale combattente che partecipava alle manifestazioni patriottiche, avevo imparato anche a dipingere a olio. Mi iscrissi perciò al concorso partecipando con sei opere: tre disegni a carboncino e tre oli su compensato. Non me la sarei mai aspettata, ho vinto il secondo premio della prima categoria e ho avuto segnalata dalla giuria un ritratto a olio. Poco tempo dopo quel concorso dal mio direttore mi è stato chiesto se ero disposto a trasferirmi all’ufficio posta del cotonificio che era situato nel palazzo della direzione. Quel trasferimento ha rappresentato il mio passaggio da apprendista operaio ad apprendista impiegato. Sono ancora oggi convinto che a favorire tale avanzamento sia stato proprio il successo di quella partecipazione al concorso artistico. Dopo alcuni anni, da uno dei membri del collegio giudicante le opere, sono venuto a sapere che in prima battuta la maggioranza dei giurati aveva assegnato a me il primo premio di disegno, ma che poi su suggerimento dell’illustre rappresentante del cotonificio, è tornato conveniente insignire di tale onoranza un dirigente di origini svizzere che era appena stato assunto dall’azienda. Quell’episodio ha contribuito a rafforzare in me la convinzione che ero destinato a vivere in un mondo di ingiustizie. A riguardo della qualità dei miei disegni e dipinti, dopo una quindicina d’anni ho avuto un inaspettato e straordinario complimento. Nel ’72 o ’73, una notte ha pernottato a casa mia Luigi Pintor, il quale osservando le opere che avevo eseguito a 17 anni, mi disse che ero da considerarsi “un fesso”. A suo dire, anziché alla politica, avrei dovuto darmi all’arte. Il suo giudizio mi ha indubbiamente gratificato, ma non convinto. Ai tempi in cui traducevo i classici greci, mi ero imbattuto in un brano della “Repubblica” di Platone che sosteneva essere sia la pittura che la poesia delle arti imitative che si fermano all’apparenza, prodotti della passione più che della ragione, e quel giudizio mi era parso fondato fino al punto di farlo mio. Era mia determinazione agire, cambiare lo stato di cose presente, perciò l’idea di esaltare ciò che già esisteva, seppur bello, non mi attirava. Questa convinzione, però, non mi ha impedito di disegnare e dipingere ancora, ma si è trattato di momenti particolari sotto sollecitazione di motivi affettivi.

11. Delusioni e patimenti dello studente lavoratore La frequenza della scuola professionale domenicale mi aveva procurato una passione per la chimica e poiché non avevo abbandonato l’idea di continuare gli studi, ho preso la decisione di sentire la direzione dell’Esperia se a un giovane lavoratore come me era possibile frequentare il regolare corso di perito chimico. Senza rifletterci molto e senza consultare nessun altro, ho chiesto un appuntamento direttamente al preside dell’Istituto. Egli è stato molto comprensivo e gentile e mi ha convocato nel suo ufficio un pomeriggio, dopo che avevo terminato la mia giornata lavorativa. A lui ho prospettato le mie intenzioni: desideravo diplomarmi in chimica e poiché non potevo smettere di lavorare, chiedevo la possibilità di poter frequentare la scuola solo al pomeriggio concentrando in tre-quattro ore le lezioni teoriche e le pratiche di laboratorio. 73


83 - Piazza vecchia di CittĂ alta Bergamo. Carboncino presentato al concorso Legler.

84 - Veduta dal ponte sul Brembo di Ponte San Pietro. Carboncino presentato al concorso Legler. Vincitore del secondo premio categoria disegni 74


85 - Ritratto del padre. Olio presentato al concorso Legler. L’opera è stata segnalata dalla giuria. 75


Mi fece anzitutto i complimenti per le mie buone intenzioni, ma con evidente imbarazzo mi disse che quanto io chiedevo era impossibile da realizzare, le norme ministeriali non consentivano eccezioni, avrei dovuto frequentare la scuola sia al mattino che al pomeriggio. Quella gentile ma laconica risposta ha rappresentato per me una vera e propria delusione; ricordo di aver percorso in bicicletta il tragitto da Bergamo a Ponte San Pietro con le lacrime agli occhi. Giorni dopo ho condiviso la mia frustrazione con una persona che stimavo e che mi voleva bene, Silvino Bonalumi, un ex commilitone di mio padre che abitava sullo stesso pianerottolo e che era capo degli scout di Ponte San Pietro. Da lui ho avuto parole di consolazione e anche un prezioso suggerimento. Dopo avermi confessato che anche a lui da giovane sarebbe piaciuto poter studiare e che non aveva mai abbandonato l’idea di riprendere gli studi, mi propose di metterci ambedue d’impegno e studiare insieme latino e greco. Alle medie avevo fatto per tre anni latino, con alterni risultati, però l’idea mi stimolava, soprattutto poi ero curioso di fare i conti con il greco. Successe così che per almeno sette-otto mesi, con l’ausilio di una giovane insegnante di scuola media, abbiamo studiato in maniera sistematica le due antiche lingue. E devo confessare che quell’esperienza mi ha arricchito ed entusiasmato. Passavamo lunghe ore a tradurre e a commentare i classici antichi con interesse e passione e tra di noi, nonostante la diversità di età, era nato un feeling culturale di cui ho sempre avuto nostalgia. Abbiamo anche ipotizzato di affrontare come privatisti gli esami di ginnasio, però, com’è evidente, non bastava avere nozioni di latino e di greco, occorreva essere preparati anche in tutte le restanti materie previste dai programmi ministeriali, e un tale handicap ci ha indotti a desistere dai nostri propositi, supposto che le normative ministeriale non ce li avessero stroncati. Un po’ di tempo dopo, anche in forza delle ferree ragioni esistenziali, ho deciso di frequentare la scuola serale. Mi sarebbe piaciuto potermi iscrivere a un liceo, ma anche questo desiderio era per me impraticabile a causa delle regole scolastiche. A quel tempo a Bergamo esistevano solo i corsi serali per l’abilitazione di geometra e di ragioniere. Scelsi quest’ultimo indirizzo e mi iscrissi alla Scuola privata “Dante Alighieri” di via Galliccioli. Qui ho frequentato il primo anno con profitto e direi anche con una certa piacevolezza, nonostante la fatica quotidiana di otto ore di lavoro (dalle 6 alle 14) e di quattro ore di lezioni (dalle 18 alle 22), oltre allo studio a casa. Con me frequentava quel corso un amico di Ponte San Pietro. Nella stagione invernale ci recavamo a scuola con il tram, nelle giornate di bel tempo percorrevamo il tragitto in bicicletta e c’era sempre motivo di divertirci e di fare scherzi. Una volta, ricordo, che con un pretesto siamo usciti da scuola dieci minuti prima e abbiamo chiuso il cancello d’entrata della scuola con del fil di ferro in maniera che diventasse difficile a chi stava dentro aprirlo senza attrezzi. A quel tempo i tram diretti verso le periferie della città effettuavano il loro ultimo viaggio poco dopo le 22 ed è così avvenuto – com’era del resto nei nostri propositi – che molti degli studenti hanno dovuto ritornare alle loro case a piedi o con mezzi di fortuna. Il giorno dopo la scuola ha aperto un’inchiesta per accertare chi fossero i responsabili 76


86 - Metà anni ’50 – Intento allo studio del greco.

87 - Metà anni ’50 – Alle prese con la macchina fotografica.

88 - Metà anni ’50 – In gita sul lago di Garda. 77


di quell’atto vandalico, ma su di noi non è mai caduto alcun sospetto. Alla fine è stato attribuito a degli scapestrati di strada. In altre circostanze siamo stati artefici di scherzi non solo ai compagni, ma anche agli insegnanti. Memorabili è stata quella volta in cui all’insegnante di fisica abbiamo inserito nel testo una bustina di polverina che provoca gli starnuti e, un’altra, al professore di matematica abbiamo posto sotto le gambe della sedia due capsule contenenti sostanze puzzolenti. Fatta eccezione per i malcapitati, il divertimento è stato generale. Dopo aver conseguito la promozione al secondo anno di ragioneria a Bergamo mi sono riscritto allo stesso Istituto “Dente Alighieri”. Quando però si è trattato di iniziare il corso, siamo venuti a sapere che presso il ministero era insorto un contenzioso: qualcuno aveva denunciato l’Istituto di irregolarità amministrative e poiché la sua attività è stata bloccata, tutti gli iscritti hanno dovuto richiedere l’iscrizione ad altre scuole serali. Con il mio amico sono finito all’Istituto San Marco del quale, però, non mi avevano parlato bene. Circolava voce che fossero stati proprio i dirigenti di quella scuola a bloccare l’attività del “Dante Alighieri”. Dopo solo un mese di frequenza, una sera al mio amico hanno rubato la bicicletta da corsa che era custodita entro il recinto della scuola. Appena accorti del furto, ci siamo precipitati in direzione denunciando il furto e rivendicando il risarcimento del danno. Anziché avere comprensione, il direttore ci ha precisato che la responsabilità era nostra e ci ha fatto sapere che non avrebbe risarcito assolutamente nulla. Ne è nato un diverbio e di fronte a un mio improperio, mi ha mollato un ceffone. Sono ritornato a casa pieno di rabbia e con il mio compagno sul canotto della bicicletta. Avevo avuto la conferma che avevo a che fare con gente disonesta. Il giorno appresso mia madre è stata convocata dal presidente dell’Istituto il quale, dopo averle dato le spiegazioni del caso, le ha comunicato la mia sospensione dalle lezioni per una diecina di giorni. Da quando ho ripreso a frequentare quella scuola l’ho fatto con grande disagio e con un intenso desiderio di disertare le lezioni. Per alcune sere, anziché recarmi al “San Marco”, ho frequentato i cinema della città. Quell’andazzo però, oltre che risultarmi insopportabile, mi ha posto assai presto seri problemi di coscienza, perciò ho preso la decisione, con il disappunto di mia madre, di sospendere il pagamento delle quotetassa mensili e di ritirarmi dal corso. Mi sono messo a studiare da solo. Nonostante il mio impegno, alla vigilia degli esami per l’abilitazione al terzo anno non mi sentivo preparato a sufficienza. Dietro insistenza dei familiari e degli amici, però, mi sono iscritto per le prove ancora all’Istituto Statale Ragionieri di Bergamo dove mi sono presentato come privatista integrale. Dopo aver svolto gli scritti, ho affrontato gli orali con l’esame di matematica. Il problema scritto non l’avevo svolto in modo giusto, pur avendo individuato la soluzione finale: avevo mostrato una grave insufficiente preparazione in algebra, mentre me l’ero cavata in geometria. La promozione era comunque compromessa e sarei stato rinviato di sicuro a settembre. Ebbe seguito l’esame di educazione fisica e anche quello fu un disastro. A seguito di un mancato salto del cavalletto e della mia reazione inconsulta nei confronti dei 78


commenti ironici del professore esaminante, sono stato cacciato dalla palestra e rinviato per la riparazione. Terzo esame orale è stato quello di italiano. Il docente era il professor Severino Cittaristi, colui che 12-13 anni dopo è divenuto presidente della Provincia di Bergamo quando io sono stato eletto consigliere, e più tardi il leader dei tangentisti della Prima Repubblica. Mi accolse con una gentilezza inusitata, il che mi sorprese molto. Mi chiese com’erano andati gli esami precedenti e dopo che io gli feci brevemente il resoconto, dimostrandomi scoraggiato, mi fece una confidenza. “Non ti devi preoccupare, caro Moioli – mi disse – tu sei un raccomandato del Provveditore in persona, vedrai che te le caverai”. Ero già scosso per il cattivo andamento, ma quella notizia mi ha letteralmente annichilito. Ricordo di avere avuto con lui un breve dialogo, dopo di che ho rifiutato di procedere all’esame e, in uno stato di confusione, ho abbandonato la scuola. Per tre o quattro ore ho vagato per le vie di Bergamo chiedendomi com’era possibile che mia madre mi avesse messo in quella imbarazzante situazione. Era mia ferma intenzione conseguire il diploma per merito e non per raccomandazioni e spinte; considerai l’accaduto un torto alla mia intelligenza. In corpo mi era montata una rabbia incontenibile. Rientrato a casa, mi sono ritrovato un’altra sorpresa. Ad attendermi c’era il segretario del Provveditore che io ben conoscevo per aver lavorato con lui durante quei sei mesi di praticantato svolti in via Crispi. Evidentemente, Cittaristi l’aveva avvertito del mio abbandono. Dopo avermi rassicurato sulla comprensione dei professori che mi esaminavano, mi scongiurò di ripresentarmi il mattino successivo agli esami. A dargli manforte è poi sopraggiunta anche mia madre. Le insistenze hanno però suscitato in me un effetto opposto a quello da loro desiderato: il mattino seguente non mi sono affatto presentato alla scuola e ho deciso che mai più avrei fatto gli esami in una scuola di Bergamo. Ho così perso l’anno, ma ho conservato la mia dignità e stima interiori. L’ammissione al terzo anno di ragioneria l’ho conseguita a Lecco; quella al quarto a Sesto San Giovanni, quella al quinto a Milano. Come dirò più avanti, il diploma mi è stato concesso, anche se forse immeritatamente, a Sondrio.

12, L’avanzamento a impiegato L’insediamento nell’ufficio “posta” della direzione Legler ha rappresentato per me un notevole miglioramento sul piano della condizione di lavoro e della qualità della vita. Ero destinato a operare in un ambiente sano, al riparo di elementi chimici e umidità e avevo rapporti con persone ben vestite, istruite, gentili, affabili, almeno in apparenza. Il responsabile dell’ufficio, il signor Teli, era un vecchio conoscente di mio padre e mi voleva bene; mi considerava al pari di un suo figlioccio. L’ufficio era adiacente alla segreteria personale e agli stessi locali in cui si trovavano i titolari del cotonificio che a quel tempo erano: Matteo Legler senior, presidente, Riccardo Legler, vice presidente, Fredy Legler senior, Matteo Legler junior, Enrico Legler e Fredy Legler junior. 79


89 - Metà anni ’50 – In vespa, a Ponte San Pietro e sul Passo Spluga.

90 - Metà anni ’50 – Zia Elvira in vespa a Romanshorn 80


Dovendo recapitare la corrispondenza e i documenti, io avevo libero accesso ai loro uffici: era sufficiente che bussassi e attendere che mi dicessero “avanti!”. Alcune volte venivo intrattenuto da loro; mi rivolgevano domande oppure mi raccontavano avvenimenti di cui erano stati protagonisti. Avevano conosciuto anche mio nonno, al tempo in cui svolgeva la funzione di giardiniere nelle loro residenze, perciò ero apprezzato anche per quella parentela. I titolari anziani del cotonificio erano in genere molto seri, in specie Riccardo, mentre quelli giovani a volte avevano con me atteggiamenti espansivi. Enrico era un pochino ingenuo e spesse volte con lui ho fatto delle gustose risate. Fredy junior, invece, era una persona intelligente e dinamica, un imprenditore aperto e scaltro, amava viaggiare e circondarsi di belle donne, nonostante avesse una splendida moglie. In più occasioni mi ha parlato delle sue conquiste amorose nei vari paesi in cui si recava per ragioni di lavoro. Quand’ero apprendista operaio ho provato avversione nei confronti della “razza padrona”. Ciò era dovuto non solo a ragioni ideologiche, ma anche a precisi avvenimenti. Uno di questi era rappresentato dalla celebrazione nelle ville Legler di una grande festa con invitati rigidamente selezionati e modellata sulle tradizioni africane. Era appunto la “festa dell’Africa”, come alcuni giornali hanno scritto. Per questo avvenimento l’azienda aveva sostenuto costi esorbitanti mentre erano in corso gli scioperi dei lavoratori dal momento che veniva loro negato l’aumento di salario e di stipendio. Avuto il contatto diretto con i “padroni” e, soprattutto, sotto l’influsso del passaggio di categoria, il senso di ritrosia nei loro confronti che era in me è venuto gradualmente stemperandosi, almeno in quella stagione della mia vita. Distribuendo la posta, avevo accesso a tutti gli altri uffici (contabilità, acquisti, vendite, stampa, trasporti, ecc.) e con tutto il personale dirigente e impiegatizio vantavo ottimi rapporti. Fatta una sola eccezione: nei confronti del responsabile dell’ufficio corrispondenza con l’Inghilterra e gli Stati Uniti avvertivo un’antipatia di cui non riuscivo a liberarmi. Questi era un anziano britannico dal portamento tipico del colonizzatore. Trattava i suoi collaboratori come subalterni non degni di considerazione, con loro era sempre in polemica e questo suo arrogante atteggiamento non mi riusciva di sopportarlo. Bastava che lo vedessi e in me scattava un senso di ripulsa. Mi sono chiesto spesse volte perché io abbia sempre avuto difficoltà a imparare l’inglese e ogni volta ho imputato la responsabilità di questo mio deficit alla figura di quel neoschiavista. Dietro insistenza e assistenza di un impiegato dell’ufficio stampa ho preso passione per la fotografia e per il suo stesso suo sviluppo in camera oscura. Per almeno due anni ho scattato foto, oltre che in occasione di viaggi, di panorami e di scene di vita sforzandomi di far emergere una vena artistica che non possedevo. Avendo accresciuto, seppur di poco, l’entità del mio compenso mensile, dopo averne discusso a lungo con mia madre, in famiglia si è deciso di acquistare una moto “Vespa”. Era un sogno nel cassetto che ritenevo difficile da realizzare e quando ciò è avvenuto ho provato un piacere tale da promettere a tutto il parentado che avrei scorazzato chiunque in ogni momento e in qualsiasi luogo. Per non esporla al rischio 81


di farmela rubare, tutte le sere con il generoso aiuto di zia Maria la riparavo in cantina facendola scivolare per le scale tramite un’assicella di legno. I primi viaggi compiuti sono stati quelli fatti in Svizzera a trovare mia zia Elvira. Ci sono andato almeno cinque o sei volte, due con il marito di mia cugina, Vittorino, poi con mio fratello Ernesto e con Silvino Bonalumi. Partivamo da Ponte San Pietro, raggiungevamo Chiavenna e a seconda dei periodi e degli orari, varcavamo o il Passo dello Spluga o quelli del Malòja e dello Julier per raggiungere Coira e quindi Bad Ragaz, Rorshach e Romanshorn: un percorso di 380-400 chilometri circa. Alcune volte lo abbiamo affrontato in condizioni di pioggia, specie sui passi alpini, e al freddo nelle ore notturne. Quei viaggi hanno rappresentato per me delle vere e proprie avventure dal momento che non eravamo attrezzati di caschi, di giacche a vento, di indumenti impermeabili. Quando viaggiavamo di notte facevamo tappa per la benzina a Coira e per il ristoro ricorrevamo ai distributori automatici disseminati sul percorso dai quali si potevano rimediare cioccolata, biscotti e bibite. In genere arrivavamo a Romanshorn al mattino quando gli zii si alzavano per andare al lavoro e ci infilavamo nel loro letto che era ancora caldo. Ci si fermava una o due giornate e poi si ritornava a casa. Ci caricavamo di sigarette (che per non denunciare alla dogana nascondevamo nei cerchioni della “Vespa” e sotto i giubbotti), di cioccolati e di “servelas”, i famosi wurstel tedeschi. Il viaggio che ho fatto con Silvino è stato un disastro. Quella volta avevamo i caschi che lui aveva rimediato alla Legler sotto i quali, sulla via del ritorno, avevamo sistemato tre o quattro pacchetti di sigarette ciascuno. Quando siamo giunti alla frontiera sembravamo degli esseri dalla testa oblunga, ma nonostante questa evidente anormalità i doganieri ci hanno lasciato passare. Nel tratto Chiavenna-Colico, si è spezzato il filo conduttore che dal motore porta corrente al dinamo e la “Vespa” è andata in panne. Abbiamo dovuto percorrere sette-otto chilometri a piedi e al buio, e poi caricare sul treno la moto. Io bestemmiando, Silvino recitando le preghiere. Durante la notte, in attesa del passaggio dei treni, abbiamo dormito nella sala d’attesa della stazione e il mio accompagnatore è caduto dalla panchina su cui era sdraiato facendo un fracasso preoccupante e svegliandomi di soprassalto. Fortunatamente non si è fatto male. Insomma, è stato un viaggio allucinante. Altri viaggi, oltre che in Lombardia, li ho fatti nel Veneto: lago di Garda, Padova, Treviso, Venezia, Trieste dove ci sono andato con zio Rodolfo che era interessato a conoscere la città di San Giusto e del Castello di Miramare. I viaggi in “Vespa”, che condividevo con Ernesto, erano apprezzati anche da mia madre e dalle mie zie le quali amavano essere accompagnate da parenti e amici. Dopo neanche due anni di permanenza all’ufficio posta sono stato trasferito all’ufficio vendite Italia. Anche questa nuova collocazione mi ha soddisfatto e gratificato dal punto di vista professionale. Mi hanno fatto da maestri papà Villa, Ombrati, Limonta, Ubiali e Ornella Vallara. Mi sono fatto amico Luigi Lazzari, rinomato pittore addetto all’archivio. Durante la mia permanenza all’ufficio vendite mi è accaduto un episodio che ha messo a repentaglio la mia esistenza. La Legler disponeva di una piscina che io ho frequentato alcune volte assieme ai colleghi di lavoro. Un tardo pomeriggio di mezza 82


91 - 92 - 93 - 94 - 1957 – In gita a Venezia, Padova e Trieste 83


estate, dopo aver abbandonato l’ufficio, mi ci sono recato a fare il bagno e probabilmente avendo ancora in corso la digestione, quando mi sono immerso nell’acqua ho perso i sensi rischiando di affogare. Fortunatamente poco lontano a vigilare sui bagnanti c’era il bagnino Cavalli il quale si è accorto del pericolo che stavo per correre ed è immediatamente venuto in soccorso consentendomi così di continuare a vivere. Dopo quell’esperienza mi sono ben guardato dall’immergermi in acque fredde e in orari critici per la digestione. Se con i colleghi dell’ufficio vendite avevo stabilito buoni rapporti, con i “capi” non posso dire altrettanto. Il direttore, all’apparenza uomo tutto di un pezzo, si comportava come un essere superiore e con i propri dipendenti manteneva un contegno distaccato, autoritario. Il capo ufficio, invece, era un poco di buono, farfallone con le impiegate (solo con quelle carine, naturalmente) e servizievole verso i superiori. Aveva anche l’aria del questurino. Era il tempo in cui io avevo incominciato a fare gli scioperi e da questi due personaggi ero visto con sospetto e vissuto come un rivoltoso. Un giorno nel fare un abbuono a un cliente di Como per una pezza fallata, ho sbagliato a calcolare l’entità del rimborso che gli spettava per un valore equivalente a due metri di tessuto. Sono stato chiamato nell’ufficio del direttore il quale mi ha “alzato da terra” minacciando di farmi detrarre dallo stipendio la quota in più che avevo accreditato al cliente. La mortificazione per me è stata grande. Una diecina di anni dopo, questo stesso inflessibile dirigente è stato denunciato dall’azienda per aver compiuto raggiri nelle vendite e sottratto soldi alle casse ed è finito davanti ai giudici che l’hanno condannato. E pensare che mi aveva accusato di essere un sabotatore! Dopo la deludente esperienza delle scuole private con due amici, pure loro studenti lavoratori, ho intrapreso un percorso inedito: preparazione agli esami di abilitazione al quarto anno di ragioneria attraverso lezioni private di gruppo. Non potendo ovviamente coprire con questo metodo tutte le materie, abbiamo dovuto compiere delle scelte e quindi deciso di chiedere l’ausilio di esperti per ragioneria, italiano e diritto. Per il resto ci arrangiavamo da soli come autodidatti. Ogni settimana frequentavamo l’abitazione di due professori di scuola superiore per italiano e diritto e quella di un dirigente d’azienda per ragioneria. Il loro contributo è risultato per me decisivo. Nelle tre importanti materie avevo acquisito un buon grado di preparazione, mentre per le rimanenti è valsa soprattutto la volontà e la determinazione. Per mesi la notte del sabato sera la trascorrevamo a rotazione nelle nostre rispettive abitazioni studiando fino al mattino. Quando questo rito avveniva in casa mia, a tenerci compagnia era mia zia Maria la quale verso le due di notte, dopo aver lavorato a uncinetto, cucinava per noi i “borfadèi”, cioè una polentina di mais poco densa versata in latte freddo. Era quello un modo non solo per nutrirci, ma anche per tenerci svegli. Quelli sono stati tempi duri eppure felici perché pieni di soddisfazioni e risultati positivi. Decidere di fare lo studente lavoratore non è certo una scelta facile, ma quando la si compie con determinazione e ci si mette d’impegno, si prova un appagamento interiore straordinario, ci si sente padroni di se stessi e si conseguono 84


per merito proprio le aspirazioni che si coltivano. Soprattutto, ci si rende conto che contrariamente a quello che è il senso comune, c’è qualcosa che vale ancor più del vile denaro: il sapere.

13. L’incontro con Mariarosa Tra la primavera e l’estate del 1957 sono stato assalito da un eritema in tutto il corpo. Mi è stata diagnosticata una paracheratosi per curare la quale sono stato costretto a ricoverarmi in ospedale. Esistendo alla Legler una mutua-assicurazioni malattia per gli impiegati, ho avuto diritto a una degenza in camera privata presso il reparto di Dermatologia. Era ancora il tempo in cui il pubblico poteva far visita ai degenti in ospedale solo per un’ora e mezza, verso l’ora di cena. Per i privati, invece, l’ingresso era libero, bastava che in portineria si dichiarasse il nome del paziente e il reparto di degenza. Una domenica pomeriggio, una ragazza del gruppo di Curno che frequentavo, intendendo far visita a una sua amica che aveva partorito, si è recata in ospedale assieme ad altre tre sue compagne ed è entrata dichiarando al portiere il mio nominativo. Conclusa la visita alla partoriente, questa amica si è sentita in dovere di venirmi a trovare e ha pregato le ragazze che l’accompagnavano di seguirla. Tra di loro c’era Mariarosa. Come anni dopo la stessa Mariarosa mi ha confidato, quando la mia amica ha comunicato loro che ero ricoverato in Dermatologia, le ragazze hanno dato avvio a una disquisizione. Una ha avanzato il sospetto che mi trovassi in quel reparto a causa di una malattia venerea, un’altra ha addirittura ipotizzato che fossi sifilitico. Insomma, le tre giovani a me sconosciute si sono recate in reparto per incontrarmi con curiosità, ma anche con dei pregiudizi. In effetti, a quel tempo, la Dermatologia degli Ospedali Riuniti di Bergamo ospitava anche malati di quel genere, il reparto infettivi non era ancora stato istituito. E seppure quel tipo di pazienti fossero segregati in apposite stanze separate, l’accesso al loro capezzale era possibile. Il timore del contagio dunque non era fuori luogo. Io ero sistemato in una stanzetta insieme a un malato di psoriasi. Nella stanza accanto vi era un paziente che ha suscitato scalpore nell’opinione pubblica e fatto cronaca: era affetto di priapismo ed era considerato il cinquantesimo caso accertato ufficialmente dalla scienza medica nel corso della sua storia. In pratica, gli si era gonfiato il pene e non c’era mezzo per riportarlo alla normalità. C’è stato un momento in cui i medici avevano ipotizzato una sorta di parziale evirazione. Alcuni suoi conoscenti lo avevano soprannominato “il toro di Caprino Bergamasco”. Era un tipo originale, allegro, celibe, sarto di professione. Più volte mi ha raccontato che oltre ai vestiti confezionava anche reggiseni ed era uso calcolare la misura con il palpeggiamento; e che a quel tipo di prestazioni lui era molto interessato. Il giorno del ricovero, quando l’ho conosciuto, ero in uno stato depressivo e lui, nell’intento di farmi coraggio, mi ha preso la mano e l’ha infilata nei suoi pantaloni per testimoniarmi materialmente l’eccezionalità e insieme la gravità della sua malattia. 85


95 - Giugno 1957 – Vittorio con altri degenti del reparto “Dermatologia degli Ospedali Riuniti di Bergamo. Alla sua sinistra il “toro di Caprino”.

96 - 97 - 1957 – Mariarosa in Città Alta. 86


98 - 99 - 100 - 101 – La famiglia Rota: papà Stefano, mamma Genoveffa, Daniele e Mariarosa. 87


Quando Mariarosa mi ha visto per la prima volta, ero in pigiama con il corpo quasi completamente fasciato per coprire lo strato d’unguento che mi veniva spalmato sulle parti in cui l’eritema mi procurava prurito. Più volte mi sono chiesto come abbia potuto fare colpo su di lei in quello stato pietoso. Sta di fatto che quell’incontro si è rivelato positivo sia per me che per le quattro ragazze che mi hanno fatto visita. Ci siamo lasciati con il proposito di rivederci subito dopo le dimissioni e così infatti è avvenuto. In occasione della festa patronale di Ponte San Pietro le ho invitate tutte e quattro alla fiera e ho offerto loro il gelato. E’ da quel momento che sono iniziate le mie frequentazioni di Mariarosa. Lei lavorava come apprendista allo stabilimento di confezioni Reda. Per un certo periodo ci siamo incontrati durante la pausa di pranzo, ci appartavamo sulle panchine della stradina che a quel tempo dal Villaggio Santa Maria portava alla Villa Mapelli Mozzi e mano nella mano ci sbaciucchiavamo. Ci siamo innamorati e abbiamo iniziato a frequentarci assiduamente. A quel tempo portava i capelli a coda di cavallo e mi trasmetteva un fascino irresistibile. Mariarosa abitava con i genitori e il fratello alle “Fornaci”, al confine tra Curno e Bergamo e qualche settimana dopo esserci conosciuti ho incominciato a frequentare casa sua. Successivamente, l’ho fatta conoscere ai miei familiari e dopo alcuni mesi ci siamo fidanzati. Quando avevamo un po’ di tempo libero ci incontravamo, andavamo al cinema, facevamo scampagnate con amici e pure brevi viaggi in “Vespa” nelle zone collinari e lagunari. Un giorno di pioggia, mentre ci stavamo recando al cinema, a causa del manto stradale viscido, sono scivolato con la “Vespa” in via XX Settembre, a Bergamo, e lei che era seduta sul sellino posteriore della moto è caduta assieme a me. Mentre io sono rimasto per un attimo disteso sull’asfalto, lei è scattata in piedi come una molla meritandosi i complimenti di un passante che era accorso per assisterci. Fortunatamente siamo rimasti ambedue illesi e pure la moto non ha subito danni. Mentre il fidanzamento con Mariarosa ha comportato una profonda modificazione della mia vita affettiva e sentimentale, il trasferimento dall’ufficio vendite alla Sala controllo” della tessitura avvenuto circa un anno dopo, ha comportato per me un salto di qualità nell’ambiente lavorativo aprendomi oltretutto la strada a un possibile avanzamento professionale. In questa nuova funzione avevo non solo responsabilità amministrative, ma anche di assistenza e supplenza del capo reparto alle cui dipendenze vi erano decine di lavoratrici e lavoratori. La Sala controllo della tessitura mi era molto più confacente rispetto agli uffici commerciali. Ero ritornato nell’ambiente del lavoro manuale e il fatto di poter stabilire con i lavoratori un rapporto che non fosse informato esclusivamente ai puri criteri di subordinazione tra dirigenti, impiegati e operai, mi sublimava. Quell’esperienza, infatti, mi ha procurato care amicizie e soddisfazioni interiori. Contemporaneamente, ho dato continuità allo studio preparandomi per l’ammissione al quinto anno di ragioneria. Per gli esami mi sono iscritto presso un istituto privato parificato di Milano e ricordo di essere stato artefice di un fatto che considero 88


102 – 103 - 104 - 1957-1958 – Mariarosa sul prato, in “camporella” e sui colli di Bergamo. 89


105 - 1957-1958 –Sulle sponde del Brembo.

106 - 1958 – A San Pellegrino

107 - 1958 – A Venezia. 90


eccezionale: nel corso di un pomeriggio e di una sera ho sostenuto una decina di esami e sono stato giudicato positivamente per il passaggio all’ultimo anno.

14. I ricoveri in sanatorio Ci frequentavamo da poco più di anno quando a Mariarosa è stata riscontrata la tbc. A quel tempo la tubercolosi era una malattia assai diffusa e solo da qualche anno la penicillina scoperta da Alexander Fleming alla fine degli anni ’20, veniva prodotta industrialmente in Italia. Quando al Consorzio provinciale antitubercolare i medici le hanno fatto gli accertamenti radiografici, la malattia di Mariarosa si è rivelata a uno stadio avanzato: in entrambi i polmoni aveva delle vere e proprie “caverne” e, oltre ai farmaci, i medici le hanno dovuto praticare d’urgenza il pneumotorace: immissione periodica di aria tra la pleura e il polmone con una grossa siringa per permettere la cicatrizzazione delle lesioni. Si è trattato di una pratica assai dolorosa oltre che fastidiosa la quale è durata più di un anno. E’ stata ricoverata nel sanatorio di Torre Boldone e seguita costantemente dal direttore dello stesso Consorzio antitubercolare. Si può immaginare l’angoscia che hanno provato i suoi genitori, suo fratello e pure io, unitamente ai miei familiari, di fronte a un così drammatico evento. Quando l’ho accompagnata per la prima volta dal direttore del Consorzio antitubercolare per la visita di accertamento, nel sottolineare la serietà delle condizioni di Mariarosa, questi mi ha detto che la medicina avrebbe fatto la sua parte per rimetterla in sesto, ma che anch’io avrei dovuto fare la mia. E mi ha spiegato l’importanza di una mia assidua assistenza, della necessità che io le fossi vicino e continuassi ad amarla, ad assecondarla, in modo da impedire che cadesse in uno stato di depressione e non cessasse di avere voglia di guarire e di vivere. Ho fatto miei quei consigli e quelle raccomandazioni e per un anno ogni giorno le telefonavo e l’andavo a trovare tre volte la settimana; credo perciò di essermi comportato da zelante innamorato e di aver contribuito alla sua guarigione. Così però, ahimé, non la pensavano molti di coloro che mi giravano attorno. In quel frangente, mentre da mia madre e dai miei familiari ho avuto piena comprensione e solidarietà e la stragrande maggioranza dei miei parenti mi è stata vicina, accrescendo così l’affetto e la stima che già avevano verso Mariarosa, alcuni di loro non si sono degnati nemmeno di sapere o di chiedere quali fossero le sue condizioni. Ho avuto amici che mi sono stati solidali, altri invece che hanno allentato i rapporti fino ad estinguerli. A quel tempo la tubercolosi era temuta a livello di senso comune e la paura del contagio induceva a prendere distanze dai possibili untori. A scioccarmi sono state però le posizioni di due sacerdoti. Da anni io avevo già abbandonato le pratiche religiose, però i legami con questi due ministri di dio li mantenevo ancora vivi per motivi familiari. Si trattava di don Alessandro Ceresoli, curato dell’oratorio ai tempi di mio padre, divenuto poi parroco di Bariano, e di don Pino Locatelli, curato dell’oratorio in carica, colui che mi aveva 91


108 - 109 - 110 - 1959 – Mariarosa nei giardini del sanatorio di Torre Boldone. 92


sequestrato i libri dei romanzieri russi. Ambedue, quasi si fossero accordati, mi hanno fatto una filippica sul fatto che io ero giovane, avevo davanti a me l’avvenire, non potevo compromettere le mie prospettive di vita per restare fedele a una ragazza che avevo conosciuto da poco e che sicuramente sarebbe stata per me di peso. In sostanza, questi uomini ispirati dall’amore cristiano mi hanno invitato a riconsiderare la mia scelta e consigliato di abbandonare Mariarosa al suo destino. Mai da loro mi sarei aspettato discorsi simili! I loro consigli hanno comunque avuto l’effetto inverso: da un lato mi hanno rafforzato nel convincimento che stavo facendo una cosa giusta; dall’altro mi hanno fatto capire che la religione non era proprio compatibile con i miei sentimenti e la mia morale. Da quel giorno don Ceresoli non l’ho più rivisto, mentre con don Pino i rapporti si sono ulteriormente deteriorati. Mi ha voluto incontrare anni dopo, quando ero consigliere comunale per perorare la sistemazione della sua chiesa nel momento in cui i suoi amici democristiani gli avevano dimostrato indifferenza. Fu l’ultima volta che lo invitai a cena a casa mia assicurandogli che mi sari prodigato per soddisfare il suo desiderio, perché lo consideravo espressione di un’intera comunità. Tra il 1959 e il 1960 ho trascorso un anno durante il quale mi sono limitato a fare tre sole cose: andare al lavoro, prepararmi per gli esami di maturità e assistere in modo assiduo Mariarosa. E’ stato un periodo assai duro, ma del quale non ho mai avuto motivo di lamentarmi. Avevo la piena comprensione sia dei miei cari sia degli anziani genitori di Mariarosa e ciò mi dava forza e mi aiutava a superare le difficoltà. In quel periodo studiavo da solo e nonostante le tante preoccupazioni che avevo, sono riuscito a conseguire nello studio dei risultati che mi soddisfacevano. Lo stato di salute di Mariarosa migliorava gradualmente e ciò rappresentava per me non solo motivo di felicità, ma anche la conferma che avevo scelto un comportamento giusto. Nell’autunno del ’60 lei è stata finalmente dimessa e anche se doveva ricorrere periodicamente ancora al trattamento di pneumotorace, aveva ripreso una vita normale. Trascorsi poco più di sei mesi, ho incominciato ad avere problemi io. Accusavo tosse, sudorazioni, qualche linea di febbre e un leggero stato di astenia. Il mio medico di famiglia mi ha immediatamente prescritto l’esecuzione di una radiografia toracica dalla quale si è evidenziato che avevo un inizio di tbc all’apice del polmone sinistro. Sono stato preso in cura dallo stesso direttore del Consorzio antitubercolare il quale mi ha consigliato un ricovero al sanatorio di Sondalo. C’era ovviamente motivo di essere preoccupati, ma essendo intervenuta una diagnosi precoce, la situazione non sembrava disperata: la probabilità di una guarigione in tempi brevi veniva considerata quasi una certezza. Avrei però dovuto ricoverarmi subito. Avevo in programma la presentazione agli esami di abilitazione, ma a quel punto non avevo scelta. Più ancora di me, a risultare sconvolti da quel drammatico accertamento e dalle spiacevoli conseguenze che avrebbe comportato il mio ricovero in sanatorio, sono stati i miei familiari: mia madre in primis, poi mio fratello, le mie zie e con loro la stessa Mariarosa e i suoi familiari. Probabilmente, nonostante le precauzioni, il contagio della malattia era causato anche 93


111 - 1959 – Con Mariarosa nell’atrio del sanatorio di Torre Boldone.

112 - 113 - 1960 – Mariarosa con alcune compagne di sventura.

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dallo stato di stress psico-fisico cui sono stato irrimediabilmente sottoposto per un lungo periodo di tempo. Non era bastato che avessi sofferto per la malattia della mia fidanzata, ora dovevo soffrire ancora per i rischi che correva il mio stato di salute. Una mattina dell’estate del 1961 sono stato accompagnato in automobile dai miei familiari al Villaggio sanatoriale “Morelli” di Sondalo dove avrei trascorso anch’io un anno di villeggiatura forzata.

15. La scoperta di un altro mondo Il mio impatto con l’ambiente del Villaggio sanatoriale di Sondrio è stato drammatico. Osservarlo da lontano, dalla statale dello Stelvio mentre lo raggiungevo, costituiva motivo di meraviglia, ma quando ho varcato la portineria e mi sono inoltrato verso l’ottavo padiglione dei nove esistenti, ho provato una sensazione di tristezza e scoramento. Non sapevo ancora che anziché sei mesi di ricovero, come aveva presupposto il direttore del Consorzio antitubercolare, ci avrei soggiornato un anno intero, ma in quel momento ho avuto il presagio che la mia permanenza in quel desolato luogo sarebbe stata dura e lunga. In quegli anni il Villaggio ospitava tra i duemila e duemilacinquecento ospiti ad assistere i quali vi erano numerose decine di medici e di paramedici, oltre al personale inserviente che era costituito soprattutto da donne. Due giorni dopo il ricovero sono stato visitato dal primario del padiglione. La sua conoscenza, nonché le spiegazioni che egli mi ha fornito circa il mio stato di salute e le prospettive di cura e guarigione, hanno contribuito a farmi uscire dallo stato di avvilimento che mi aveva assalito. Il primario era un insigne professore cattedratico di Pavia ed era una persona molto affabile e comprensiva. Una delle prime cose che mi ha comunicato è stata la sua ferma volontà di visitare Mariarosa la quale si trovava a casa sua e portava ancora il pneumotorace. Mi ha quindi sollecitato ad avvisarla affinché si predisponesse a un prossimo viaggio a Sondalo. Ho iniziato immediatamente la terapia, sostenuto anche dalla solidarietà dei compagni di soggiorno, specie da quelli che erano veterani, i quali per tutto il periodo iniziale non mi hanno mai lasciato solo. Mi ero sistemato in un camerone in cui erano disposti otto letti; era costituito da tre pareti e una grande veranda aperta sia in estate che in inverno sulla quale erano sistemati dei lettini-sdraio sui cui ci sistemavamo durante la giornata. Con il passare dei giorni mi sono ripreso dallo shock e seppure a fatica mi sono ambientato. Ho legato in particolare con tre o quattro degenti che erano in camera con me e con loro ho trascorso al meglio le giornate. Chiacchieravamo, giocavamo alle carte, facevamo passeggiate, a volte anche fuori dal recinto del Villaggio attraverso i buchi che alcuni pazienti avevano fatto nella rete in maniera di poter recarsi in paese senza bisogno di chiedere il permesso che veniva concesso a pochi e solo in casi eccezionali. Durante la giornata erano disponibili giochi vari: calciobalilla, tavolo di ping-pong, dama, scacchi, mentre due sere la settimana, nel salone della mensa, 95


114 - 115 - 116 - 1961 – Al Villaggio sanatoriale di Sondalo. 96


venivano proiettati dei film. La giornata tipo aveva inizio con la formazione delle code per la somministrazione da parte del personale infermieristico delle iniezioni, eseguite con scarse misure precauzionali, e dei farmaci, dopo di che si andava a colazione. Ogni settimana ci si sottoponeva alla radiografia e quindi alla visita del medico. Dopo i pasti ci si disponeva sulle brandine in veranda per riposare e respirare l’aria asciutta della Valtellina. Si chiacchierava, si dormiva, io leggevo spesso testi scolastici per la preparazione all’esame di abilitazione. Poiché la biblioteca del padiglione era scarsamente fornita, un giorno mi sono preso la briga di scrivere ad alcune case editrici perché mi inviassero gratuitamente delle pubblicazioni fuori corso che avevano in magazzino. Ho ricevuto diversi pacchi di libri e alcuni di questi fanno parte ancora oggi della mia biblioteca. Essendo tutto il giorno a riposo e nutrendoci in base delle diete stabilite dai medici, poco dopo aver iniziato la terapia si manifestava in ognuno di noi, almeno per i più, un innalzamento del peso corporeo e contemporaneamente si risvegliavano gli istinti sessuali. Il problema del “far sesso”, infatti, diventava per molti, in specie per i più giovani, quasi un’ossessione. Le “portantine”, cioè il personale femminile addetto alla mensa, erano oggetto non solo di attenzione, ma di bramosia, avvenenti o meno, giovani o anziane che fossero. Verso la fine della degenza ho scoperto che nella barretta di cioccolato che ci davano a merenda vi era inserito del bromuro, proprio allo scopo di contenere l’istinto erotico che veniva sollecitato dallo stato di relax in cui ci si trovava, nonostante ciò però il desiderio non si estingueva. Un giovane, mio compagno di stanza, frequentava una portantina che aveva circa sessant’anni e mi raccontava che ogni volta che si appartava con lei in camera d’albergo, per tutto il tempo (due, tre ore) faceva sesso. I problemi di chi era costretto a vivere in quell’inferno erano dunque molti. L’aspetto più rilevante dell’impatto che ho avuto con la rèaltà del Villaggio è però stata la scoperta di un mondo che a me, fino a quel momento, era sconosciuto. I degenti provenivano da tutta Italia e molti di loro erano in condizioni non buone, alcuni con più patologie. Costretti a stare separati per lungo tempo dalla propria famiglia, anche a causa delle difficoltà di spostamento che in quegli anni erano notevoli, soffrivano di solitudine e di nostalgia. Alcuni erano stati addirittura abbandonati dai loro cari e più nessuno, oltre al personale sanitario, si prendeva cura di loro. Nel periodo che sono stato ricoverato ho assistito a diverse sepolture di malati deceduti e sepolti nel campo santo di Sondalo proprio perché le loro famiglie avevano addirittura rifiutato di riprendersi la salma. Di fronte a quello scenario io mi consideravo un fortunato e cercavo di darmi da fare per stabilire con questi poveracci un rapporto di amicizia e di solidarietà. L’orrore che mi stava sotto gli occhi aveva suscitato in me sentimenti contrastanti. Nei confronti delle pratiche religiose avevo preso le distanze da tempo, però nel mio animo restavano ancora residui di spiritualità tali da non consentirmi una recisione netta del senso di religiosità. Era il tempo in cui la Chiesa di Cristo era governata dal bergamasco Papa Roncalli il quale da giovane aveva frequentato Ponte San Pietro e conosceva parecchi giovani cattolici tra cui mio padre. Ebbi l’ispirazione di scrivergli 97


117 - 118 - 1961 – Parenti, amici e colleghi di lavoro della Sala controllo di tessitura in visita al Villaggio sanatoriale di Sondalo. 98


per descrivere quell’ambiente e perorare un suo intervento. Ne ricavai una cocente delusione. Una quindicina di giorni dopo avergli spedito la lettera, mi è giunto un plico nel quale erano contenute delle immaginette dei santi e un cartoncino stampato con l’effigie e la benedizione papale. La mia rabbia è stata tale che ho strappato il tutto e ho giurato a me stesso di non avere più a che fare con la religione. In una cameretta poco distante dalla mia si trovava ricoverato un fraticello dell’ordine dei francescani. Indignato, gli raccontai il fatto e da quel momento tra di noi è nato un feeling che mai avrei immaginato. Appena avevamo occasione ci appartavamo discutendo e scambiandoci le opinioni sull’universo, sull’esistenza o meno di un essere supremo, sulla nostra condizione di mortali, sulla storia e sui comportamenti non sempre lineari della Chiesa. Il mio intento era di chiarirmi le idee, il suo di riconvertirmi alla fede. Quell’incontro è stato per me decisivo nell’abbandonare la sfera idealista e assumere una visione materialistica dell’esistenza. Allo studio delle materie scolastiche in preparazione dell’esame, intercalavo difatti letture di filosofia, di morale e di carattere scientifico. Avevo poi conosciuto un giovane giornalista che proveniva dalle “regioni rosse” il quale era comunista e con lui ho iniziato ad apprendere nozioni di marxismo. Il sentimento di rivolta che era in me nei confronti di una società che emarginava in quel modo la parte debole della società, mi ha indotto a un timido impegno politicosociale. Nel padiglione avevo una certa notorietà perché giocavo bene a ping-pong e avevo vinto delle gare. Quel poco di fama che avevo mi ha consentito di accreditarmi come rappresentate dei diritti degli ammalati e di avere l’appoggio di una larga parte dei ricoverati. Mi sono quindi impegnato a inviare reclami, sia alla direzione dell’ospedale che a Roma, a organizzare piccole manifestazioni di protesta, a sottoscrivere petizioni, fino a dare vita, assieme ai responsabili “sindacali” degli altri padiglioni, a una manifestazione fuori del Villaggio nel corso della quale abbiamo bloccato per un seppur breve lasso di tempo la statale Sondrio-Stelvio. Un giorno ho perso il lume e ho compiuto un atto che avrebbe potuto costarmi l’espulsione dall’ospedale. Era abitudine del medico di turno, ogni qualvolta veniva dimesso un paziente, di ispezionare la sua valigia prima che questi abbandonasse il Villaggio. Un mattino sono stato chiamato d’urgenza dai compagni perché nella portineria del padiglione il medico aveva sollevato questioni a un paziente dimesso. Nella valigia di questi aveva trovato una notevole quantità di cioccolatini che noi degenti gli avevamo ceduto in segno di solidarietà perché li portasse a casa ai suoi figlioli. Il medico pretendeva che il malcapitato restituisse quei dolciumi alla mensa e non intendeva derogare dalla sua decisione. Dopo aver questionato con lui per alcuni minuti, forte dell’avere alle spalle altri pazienti disposti a disobbedire alla sua insensibilità e ottusità, ho preso per il petto il medico minacciandolo di violenza. A quel punto lui ha rinunciato a far eseguire il suo ordine e, andandosene impaurito, ha promesso di farmi espellere dall’ospedale. A togliermi da quel pasticcio e a impedire che mi venisse interdetta la permanenza a 99


Sondalo ci ha pensato nei giorni successivi lo stesso primario al quale spettava il compito di sancire il provvedimento. Il luminare si è limitato a farmi una ramanzina dimostrandomi non a parole, ma nei fatti che l’atto che avevo compiuto non era per nulla delinquenziale. Era un'altra testimonianza dell’affetto e della stima che quell’uomo di scienza e dalla grande umanità nutriva nei miei confronti. La sua comprensione e magnanimità verso di me sono state tali che, quando gli ho comunicato la mia decisione di prepararmi agli esami di abilitazione, mi ha eccezionalmente concesso l’uso di uno stanzino per non essere disturbato e poter così accrescere la mia serenità e rendere fattivo il mio impegno.

16. Le goliardate irresponsabili Nei primi giorni del 1962 Mariarosa è stata accompagnata s Sondalo e ricoverata alla clinica convenzionata con il sistema sanitario nazionale “Vallesana” la quale ospitava esclusivamente donne ed era diretta dallo stesso mio primario. Il ricongiungimento, anche inizialmente se più platonico che fisico, ha rappresentato per me un’immensa gioia. Anzitutto perché mi rassicurava circa la possibilità di una sua guarigione definitiva, era in buone mani e godeva dell’attenzione dello stesso primario, poi perché potevo sentirla telefonicamente tutti i giorni. Il suo stesso stato di salute registrava un progressivo miglioramento e l’obiettivo primario era quello di abbandonare al più presto il pneumotorace e riportarla in condizioni di normalità. Quello stato di felicità, però, è durato assai poco. Una quindicina di giorni dopo ci è giunta notizia che sua madre era improvvisamente deceduta in seguito a un blocco renale. Già da tempo la sua salute non era buona anche perché aveva mal sopportato la malattia della figlia e poi la mia. Siamo ritornati ambedue a casa due giorni per rivederla per l’ultima volta e per partecipare al suo funerale, dopo di che siamo rientrati in sanatorio. Per giorni ho temuto che quel tragico evento facesse precipitare Mariarosa in uno stato di prostrazione, invece, superato il momento di crisi, la cura dei medici e la mia vicinanza hanno fatto sì che riprendesse coraggio e piuttosto che al passato pensasse al futuro. A rassicurarla nello spirito è intervenuto anche il fatto che a sostituire nelle faccende casalinghe sua madre e ad assistere suo padre che pure era malato, oltre che suo fratello, a casa loro si è insediata mia zia Maria la quale era nubile e viveva con me. Il suo gesto ha rappresentato una straordinaria testimonianza di solidarietà di cui siamo andati tutti fieri. Rispetto agli altri ricoverati a Sondalo, noi ci consideravamo dei privilegiati. Ci era stato concesso un permesso di otto ore per un giorno di ogni settimana e avevamo modo di stare insieme in libertà. Spesso ci recavamo in una pensione del paese e dopo aver pranzato trascorrevamo tutto il tempo a letto a far l’amore e a chiacchierare. Facevamo anche delle passeggiate a piedi e alcune volte ci mettevamo in compagnia con altri degenti che ci erano amici. Insomma, nei cinque mesi successivi trascorsi in sanatorio, abbiamo vissuto una prolungata, seppure 100


119 - 120 - 1962 – Mariarosa con alcune degenti di Villasana a Sondalo

121 – 1962 – Mariarosa a Sondalo con sullo sfondo la Valtellina. 101


intermittente, luna di miele senza avere il vincolo del matrimonio. Il concetto di “peccato” non apparteneva ormai più al nostro lessico morale. Paradossalmente quello è stato uno dei momenti più felici della nostra unione. Saltuariamente venivano a trovarci i nostri parenti e diversi amici. Zia Elvira e zio Rodolfo, residenti in Svizzera, ci hanno fatto visita ben due volte. Mia madre, mio fratello e le zie ci raggiungevano almeno una volta al mese. Anche la loro vicinanza ci ha aiutato a superare i momenti di difficoltà. A non essersi degnati di venirmi a trovare sono stati invece gli zii paterni e la loro assenza, il loro disinteresse mi ha procurato molto dispiacere. Seppure impegnato con zelo nella preparazione agli esami di abilitazione e nel formare un collettivo di degenti disposti a battersi per i nostri diritti, non disdegnavo ritagliarmi momenti di spensieratezza i quali, del resto, mi compensavano dello sforzo di concentrazione e di tensione. Non con tutti i miei compagni di disgrazia vantavo un rapporto di amicizia e di solidarietà. Da quando avevo deciso di scendere in campo in difesa dei più deboli e bisognosi mi ero creato alcuni avversari. A seguito di un plateale litigio verbale con un giostraio veneto, il quale spesso si comportava in modo prepotente con altri malati e soggiornava nella mia stessa stanza, un giorno venni da lui minacciato con un coltello che usava tenere sotto il cuscino. “Una di queste notti mentre dormi ti sgozzo!”, mi disse. Per la verità, conoscendo la sua esuberanza verbale, non l’ho preso molto sul serio, però ho trascorso alcune nottate insonne e con l’incubo di essere aggredito. Alcuni giorni dopo abbiamo fatto pace; intimamente, però, non sono mai riuscito a perdonargli quella sua minaccia. Con altri degenti, invece, al compagno di camera che stava alla mia destra ho combinato degli scherzi. Si trattava di un bergamasco di città, dirigente di uno spaccio comunale di alimentari, una persona dabbene, sulla cinquantina, fervente cattolico praticante. Eravamo amici e ci stimavamo a vicenda. Quando però con lui affrontavo il tema delle ingiustizie sociali e della religione, i suoi atteggiamenti mi apparivano spesso ipocriti e ciò mi induceva a scontri verbali, bonari s’intende, per metterlo in imbarazzo e in contraddizione. In questo spirito, unitamente agli amici, gli ho combinato alcuni scherzi che, pensandoci con il senno di poi, rasentavano un fare provocatorio e decisamente irresponsabile. Una sera in cui si era coricato prima degli altri e nella camera erano state spente le luci, siamo andati a chiamare il fraticello francescano, siamo scesi nella chiesetta situata nel piano interrato, abbiamo raccolto quattro candelabri e i paramenti sacerdotali. In punta di piedi e con la massima cautela siamo entrati nella stanza e mentre lui dormiva, ai lati del suo letto abbiamo piazzato e acceso i ceri. Ci siamo messi in sette o otto attorno al letto con a capo il fraticello addobbato di cotta e di stola e con tono in crescendo abbiamo dato avvio alla recita del requiem. Via via che la tonalità del coro aumentava lui dava segni di risveglio fino al punto che, aperti gli occhi, si è trovato di fronte a una scena che non poteva certo tornargli gradita. A un tratto si è alzato di soprassalto smarrito, poi dopo una diecina di secondi ha realizzato lo scherzo e ci ha insultati. In quel momento noi non avevamo coscienza del rischio 102


122 - 1962 – Con parenti e amici nelle vie di Grosio.

123 - 124 – 1962 – A Sondalo poco prima di essere dimessi. 103


che gli stavamo facendo correre, difatti, poteva restarci per un infarto. Lo scherzo si è concluso con una risata generale, ma credo che al malcapitato siano rimaste giustificate riserve sulla nostra condotta. In un’altra occasione, mentre assisteva a una proiezione cinematografica in sala mensa, abbiamo collegato il suo materasso al rubinetto del lavandino che era accanto al suo letto tramite i tubicini con cui ci venivano somministrate le flebo e poco prima che rientrasse in stanza per coricarsi, noi che già ci eravamo distesi a luci spente in attesa delle sue reazioni, abbiamo aperto il rubinetto dell’acqua inondando il pagliericcio. Quando è entrato in camera, con grande riguardo si è spogliato dei vestiti e si è infilato nel letto. Un minuto dopo l’abbiamo sentito gridare e imprecare. E’ sobbalzato sul giaciglio, ha acceso le luci e con gli indumenti intimi vistosamente bagnati si è messo a sbraitare contro di noi avendo compreso che anche quel tranello era farina del nostro sacco. Il più terribile, però, è stato l’ultimo. Si è trattato di uno scherzo macabro compiuto senza alcuna preventiva riflessione, prodotto di un atteggiamento goliardico ma soprattutto incosciente. Quel giorno era morto un anziano paziente che non aveva più famiglia. Da giovane era un corridore di auto e si vantava spesso dei suoi successi. Il suo corpo è stato sistemato in sala mortuaria situata nel seminterrato in attesa delle esequie e della sepoltura. Uno dei degenti più fantasiosi ha suggerito di fare uno scherzo al bergamasco mio vicino di letto e di traslare la salma dal piano interrato al suo letto mentre lui era al cinema. La proposta incontrò l’entusiasmo di alcuni di noi e l’esperimento prese corpo. Caricato il rigido corpo del vecchio su una barella con le rotelle, l’abbiamo furtivamente portato nella camera al secondo piano e infilato nel letto dello sventurato coprendolo accuratamente con le lenzuola in modo che si scorgesse il meno possibile. Appollaiati chi nel proprio giaciglio chi sulle sdraio nella veranda, abbiamo atteso che il nostro amico rientrasse. Com’era consuetudine, quando qualcuno aveva già preso sonno nella stanza per riguardo non veniva accesa la luce, perciò lo sventurato si e spogliato al buio e si è accinto a mettersi sotto le coperte. Nell’istante in cui è entrato in contatto con il corpo freddo e rigido del vecchio ha emesso un grido che è stato udito in tutto il padiglione. Sghignazzando abbiamo acceso le luci e nei suoi occhi abbiamo visto il terrore. Fortunatamente per lui e per noi il macabro atto ha avuto conseguenze di natura solo emotiva; infatti, a lui avrebbe potuto costare un accidente, mentre noi avremmo potuto pagare cara, non solo sul piano morale ma anche su quello giudiziario, la nostra incoscienza.

17. Il rientro dall’Albania della salma di mio padre Ai primi del 1962 mia madre ha ricevuto notizia che nel mese di aprile sarebbero giunti a Bergamo i resti di mio padre. Già nel 1954 aveva inoltrato domanda al Ministero della difesa per la traslazione della salma, ma a quel tempo le relazioni diplomatiche tra l’Italia e l’Albania erano tali da non consentire ancora una tale operazione. 104


Negli anni successivi avevo avuto modo di affrontare anch’io l’argomento con alcuni dei frequentatori delle manifestazioni patriottiche cui partecipavo. Da un generale di Stato Maggiore e da un Ministro della difesa avevo avuto l’assicurazione che il mio desiderio di essere presente all’esumazione in Albania dei resti del mio genitore avrebbe potuto essere esaudito attraverso una mia aggregazione alla commissione incaricata e che al momento opportuno mi avrebbero avvisato. Da allora, però, non ho più avuto alcuna notizia in merito e il fatto che non sia stato avvertito in tempo come mi era stato assicurato, ha suscitato in me alcuni interrogativi. Erano trascorsi ormai vent’anni da quando mio padre era caduto al fronte, avevo le foto della fossa e del cimitero, ma mi chiedevo se quel luogo fosse rimasto integro e se i nomi sulle croci di legno fossero ancora identificabili nonostante l’usura del tempo. Il fatto che avessero ignorato la mia richiesta, m’induceva a dubitare sull’autenticità dei resti. Non mi restava però che aver fiducia in chi si giustificava attribuendo quella dimenticanza alle non buone relazioni con il governo albanese e alle inadempienze della burocrazia. Informato il mio primario del futuro evento, sia a me che a Mariarosa è stato concesso un permesso di dieci giorni e così ai primi di aprile siamo tornati a casa. Assieme a quelle di mio padre, a Bergamo, sono rientrate anche le spoglie di altri 141 caduti. Le celebrazioni civili, militari e religiose si sono svolte tra un sabato pomeriggio e la mattina di domenica. Dopo di che la piccola bara contenente le ossa di papà è stata trasferita a Ponte San Pietro. Mia madre, mio fratello e io abbiamo visto per la prima volta il feretro di mio padre nel mentre eravamo postati in attesa del corteo nella piazzetta antistante la caserma Montelungo, in via San Giovanni. La camionetta che lo trasportava era il primo delle decine di automezzi militari bardati con la bandiera tricolore utilizzati per il trasferimento ed era scortata da sei carabinieri in alta uniforme, secondo il protocollo militare riservato ai decorati di medaglia d’oro. Quando l’ho vista spuntare da via Battisti, ho avuto un sussulto, mi sono sentito investire da un’emozione che mai prima di allora avevo provato. Stretto a mia madre e a mio fratello, ho avvertito un forte bisogno di piangere senza peraltro riuscirci. Mio padre era finalmente lì davanti a me, ridotto nella sua forma materiale, ma più che mai vivo nello spirito e nella mente. Quel momento l’avevo sognato molte volte, ma mai ho immaginato di vivere quelle sensazioni. Un groppo alla gola mi impediva di esprimermi. Stringevo a me mia madre sul cui volto erano sputante le lacrime. Non so spiegarmi come quello stato di forte emozione ci abbia risparmiato le forze per rimanere in piedi, forse la nostra resistenza è stata favorita dall’esserci stretti in maniera tale da sostenerci a vicenda. Ultimata la sfilata delle camionette ci siamo accodati a piedi, unitamente agli altri parenti, alle autorità e alle persone presenti, alla coda del corteo che era diretto prima a Palazzo Frizioni, dove il sindaco ha portato il suo saluto, e poi alla chiesa di S. Bartolomeo nella quale le piccole bare hanno trovato sistemazione per la notte. Il giorno successivo si sono svolte le celebrazioni ufficiali. La parata militare ha percorso alcune vie del centro città per dirigersi in piazza Vittorio Veneto sotto la 105


125 - 1962 – L’annuncio della stampa del rientro delle salme dei caduti.

126 – L’ingresso in Bergamo delle jeep con le bare contenenti i resti dei caduti. 106


127 - La piccola bara contenente i resti di papĂ Riccardo.

128 - Il corteo per le vie di Bergamo. . 107


129 - 130 - La parata militare. 108


131 - La commemorazione del sindaco di Bergamo.

132 - 133 - La commozione sul volto dei familiari. 109


Torre dei caduti. Ultimata la manifestazione, la piccola bara contenente le spoglie di mio padre, assieme a quella di un altro caduto residente a Ponte San Pietro, ha trovato ospitalità nella cripta della chiesa dell’oratorio maschile. Era il luogo in cui mio padre aveva trascorso non solo la sua gioventù, ma anche gli anni della maturità. In quel luogo c’è stata per l’intera settimana, cioè fino alla seconda celebrazione ufficiale. Nel corso di quei sei giorni davanti ai due feretri si sono soffermate a meditare e a pregare centinaia e centinaia di persone. Mia madre, mio fratello e io ci siamo alternati in continuazione in modo di assicurare la nostra presenza in ogni momento. Il giorno del funerale pioveva a dirotto. Nonostante le cattive condizioni ambientali, ad accompagnare i resti dei due caduti, prima in piazza della Libertà per la cerimonia commemorativa, poi in chiesa e infine al cimitero, è intervenuta una moltitudine di amici e conoscenti, oltre ovviamente ai parenti. Presenti erano anche la sorella di Riccardo, Antonietta, e i fratelli Abele ed Elso. La vasta e sincera solidarietà che ci è stata dimostrata in quell’occasione ha lenito di molto il nostro dolore consolandoci con la testimonianza della positiva memoria che nostro padre aveva lasciato nella popolazione di Ponte San Pietro. Un altro momento commovente di quell’evento è stata la tumulazione al cimitero. Dopo le orazioni del sindaco e la benedizione del parroco, il trombettiere della Divisione Legnano, che era presente con lo staff degli ufficiali e un plotone di militari, ha suonato il “silenzio” provocando nella generalità dei presenti un brivido di emozione. La bara è quindi stata tumulata in una delle fosse situate proprio in prima fila del cimitero. L’amministrazione comunale aveva generosamente deliberato di cedere gratuitamente alla famiglia quel luogo di sepoltura. Trascorso il resto della giornata con i nostri cari, il giorno appresso Mariarosa e io siamo ripartiti per Sondalo. I nostri animi erano densi di emozioni , ma insieme anche di speranza. Quella settimana trascorsa a casa nostra accanto ai nostri cari nel corso della quale abbiamo ricevuto un’infinità di attestati di affetto e solidarietà, ha avuto l’effetto di incrementare la nostra voglia di vivere e di ritornare definitivamente alle nostre case in buona salute. Un mese e mezzo dopo sono stato invitato a ritornare a Ponte San Pietro e ho vissuto quella nuova sortita dal sanatorio con immensa gioia. Ai primi di maggio il comandante della Caserma R.R.R. Divisione Legnano di Presezzo aveva annunciato a mia madre che quel presidio militare sarebbe stato intitolato alla memoria di mio padre. La cerimonia ha avuto svolgimento nella terza decade dello stesso mese ed è stata sollecitata la presenza sua, dei figli, della sorella e dei fratelli di Riccardo. Il comandante si è messo in contatto anche con me auspicando la mia presenza alla cerimonia e assicurandomi al riguardo che avrebbe provveduto lui stesso al viaggio di andata e di ritorno. Ottenuto il permesso dal primario di altri due giorni di congedo, il sabato pomeriggio sono stato raggiunto in sanatorio da un mezzo militare sul quale viaggiavano un 110


134 – 135 - La celebrazione funebre a Ponte San Pietro 111


136 - Le esequie in chiesa.

137 - Il silenzio.

138 - La tumulazione. 112


militare, autista, un ufficiale e un sott’ufficiale e da loro sono stato accompagnato a casa mia. L’indomani mattina ci siamo recati a Presezzo dove siamo stati ricevuti con tutti gli onori militari. Il vedere il nome di mio padre a grandi caratteri dominare sulla facciata dell’edificio militare è stato un altro momento commovente. Nel corso della cerimonia sono state evocate le gesta del mio genitore e, a differenza di altre manifestazioni, nell’orazione ufficiale del generale di divisione, sorprendendomi, il suo sacrificio è stato posto in relazione alla lotta per la pace e la fratellanza fra i popoli. Prendendomi da parte, il comandante della caserma mi ha sussurrato all’orecchio che una parte di quella struttura militare apparteneva a me. Questa sua lusinga mi è rimasta impressa a tal punto nella memoria che anni dopo, quando ero divenuto funzionario del Pci, in occasione di un fortuito incontro con lui, gli reclamai con sarcasmo la mia parte del complesso e di ciò che conteneva al fine di contribuire alla rivoluzione socialista. Egli è stato così comprensivo nei miei confronti che mi ha sorriso e mi ha fatto un’amorevole carezza. In quel momento mi è venuto alla memoria che una parte consistente della Divisione cui apparteneva era passata alla lotta antifascista e antinazista. Trascorso il resto della giornata con i miei, il mattino del lunedì i militari sono venuti e riprendermi e mi hanno riaccompagnato a Sondalo.

18. Il ritorno a casa e le dimissioni dalla Legler Nella primavera del 1962 avevo preso contatto con la segreteria dell’Istituto Tecnico Commerciale di Sondrio per l’iscrizione agli esami di abilitazione i quali si svolgevano a giugno. Giunto alla vigilia della prova, però, mi sono reso conto che non ero preparato a dovere. Gli eventi dei mesi precedenti mi avevano imposto un rallentamento nello studio e sul piano psicologico mi avevano messo nelle condizioni di dubitare del risultato che avrei conseguito. Oltretutto, ero prossimo alle dimissioni e anche questa coincidenza mi ha sconsigliato di presentarmi. Ricontattato l’Istituto e data una spiegazione della mia particolare situazione, ho ottenuto il permesso di presentarmi alla sessione autunnale. In luglio Mariarosa e io siano rientrati alle nostre rispettive abitazioni in buono stato di salute. Le cure dei medici avevano debellato il morbo e, oltre alla somministrazione di qualche farmaco, avevamo solo l’incombenza di gestire al meglio la convalescenza che avrebbe richiesto almeno sei mesi di riposo. Come ho già raccontato in “Oltre la delega e la politica”, uno dei primi impegni che ho voluto onorare è stato quello di recarmi presso la Federazione di Bergamo del Partito comunista italiano per chiedere la tessera e ottenere ragguagli sulla militanza politica. Ho compiuto questo passo senza né consultare né informare i miei familiari, consapevole che per loro avrebbe significato un sicuro dispiacere. Solo col tempo e gradatamente ho svelato loro la mia scelta politica e le sue ragioni. Gli esami di abilitazione a ragioniere sono stati per me una dura prova, non solo perché mi sono presentato come privatista, ma anche per essermi preparato da solo 113


senza alcun contributo di insegnanti ed esperti. Ero preparato in alcune materie, ma in altre accusavo dei deficit di conoscenza, non vantavo un adeguato approfondimento. Per fare un esempio, quando ho sostenuto l’orale di inglese, dopo aver svolto discretamente lo scritto, un commissario mi chiesto se ero andato in Arabia a impararlo. In compenso mi sono distinto in ragioneria e questo mi ha aiutato ad avere la comprensione dei miei esaminatori i quali, senza alcun dubbio, mi hanno dato la spinta necessaria perché fossi valutato positivamente. Forse mossi da compassione dalle mie disgrazie. La gioia e la serenità che mi ha procurato l’abilitazione, però, è durata poco, qualche settimana dopo la mia famiglia è stata colpita da un nuovo lutto: la prima sorella di mia madre, Lucia, è deceduta a causa di una leucemia. Nei mesi successivi ho riposato e ho realizzato un obiettivo che mi ero posto mesi prima, esattamente all’indomani del rientro dei resti di mio padre. Il Comune di Ponte San Pietro ci aveva assegnato la tomba sulla quale era necessario realizzare una lapide. Dopo averci riflettuto a lungo ho deciso che l’avrei ideata e realizzata io, quale gesto di amore e di gratitudine nei confronti del mio genitore per il suo eroismo. Ne ho parlato con i miei e da loro ho avuto il pieno consenso, dopo di che ho preso contatto con il marmista che era un mio amico e con lui ho definito il progetto. Sono quindi tornato in Valtellina per acquistare una lastra e un cippo di pietra rocciosa grezza e mentre lo scalpellino l’ha lavorata e messa a punto secondo il disegno che avevamo elaborato insieme, io sono andato ad acquistare della creta necessaria a realizzare un basso rilievo da applicare sul cippo. Nel torno di una quindicina di giorni, sulla base di uno schizzo che avevo fatto, ho modellato la creta, quindi ho fatto il calco in gesso e l’ho portato in una fonderia di Cernusco sul Naviglio per la fusione in bronzo. Un mese dopo la lapide era realizzata. I miei familiari, gli amici e i conoscenti che hanno visto la mia opera, tra cui il segretario comunale il quale era anche presidente della Sezione locale dei “Lupi di Toscana”, hanno apprezzato il mio lavoro, se non per il suo valore artistico, per lo spirito con cui l’avevo eseguito. Non tutti però sono stati di quel parere. Mia zia Antonietta la quale, essendo rimasta vedova si era di nuovo coniugata con un cultore delle belle arti, mi ha fatto partecipe del suo disappunto: ha giudicato il mio lavoro opera da naif, non meritevole di essere esposta al pubblico sulla tomba di un eroe. Poteva essere che la sua osservazione fosse giusta e comprensibile dal punto di vista artistico, ma io non sono riuscito a giustificarla dal punto di vista umano. Non comprendere che quel mio artigianale lavoro rappresentava il tributo, seppure ingenuo, di un figlio verso il padre caduto in nome degli ideali in cui credeva, mi è tornato come un insulto. Con lei ho avuto un alterco tanto vigoroso da portare alla rottura dei rapporti. Da quella volta non ci siamo più rivisti. E quando lei, una decina di anni dopo, è deceduta si è fatta promettere da sua figlia Emma che mi avrebbe trasmesso la sua volontà: non voleva che io partecipassi al suo funerale. Con grande dolore e con dentro il mio animo un senso di colpa, qualche giorno dopo le sue 114


139 - 1962 – La fine della “Vespa” travolta dall’autobus.

140 - 1963 – Le sorelle Bonacina e Rodolfo sul terrazzo ai “Giurati”.

141 - 1963 – Zia Clementina mentre fa il bucato.

142 - 1963 – Zia Maria mentre lavora con l’uncinetto. 115


esequie ho rimediato alla forzata diserzione recandomi da solo a visitare le sue spoglie al cimitero. Alla fine del 1962 mio fratello Ernesto ha subito un incidente stradale che ha provocato la distruzione della “Vespa”. All’altezza di Largo IV Novembre, in via Vittorio Emanuele a Ponte San Pietro, è stato travolto da un autobus dell’Atb e ne uscito illeso per miracolo. Per ottenere il risarcimento dei danni ho dovuto brigare per mesi con l’azienda tranviaria di Bergamo la quale non intendeva riconoscere la responsabilità dell’incidente. A quel punto, in ragione anche del fatto che dalla Legler avevo ricevuto un gruzzolo di denaro a titolo di liquidazione, abbiamo deciso di acquistare un’automobile. La scelta è caduta su un’auto usata, una 1.100 Fiat la quale aveva una caratteristica: il proprietario, per farla viaggiare più veloce, aveva abbassato la testa del motore. Con quel mezzo in casa mia è entrata una ventata di felicità collettiva. Seppure preoccupate, la mamma e le zie non mancavano di trovare occasione per farsi trasportare sia per necessità che per svago. Il pomeriggio del giorno stesso in cui mi è stata rilasciata la patente dalla Prefettura, mi sono recato fuori della portineria della Legler in attesa che uscisse dal lavoro mio cugino Guglielmo e l’ho convinto ad accompagnarmi in Svizzera dagli zii Elvira e Rodolfo. Siamo partiti la sera stessa e dopo aver superato di notte il Maloja e lo Julierpass, ci siamo diretti a Romanshorn. Ogni volta che penso a quel viaggio sono indotto a riflettere sul coraggio che mio cugino ha avuto nell’assecondare la mia richiesta. Pur consapevole che non ero affatto un autista provetto, ma un neopatentato che osava sfidare il destino inoltrandosi su percorsi tortuosi e scoscesi nel buio della notte, ha accettato di buon grado di rischiare. Durante il periodo di convalescenza, per la prima e l’ultima volta ho sostituito mia madre a una manifestazione patriottica. Doveva recarsi a Scandicci presso la Divisione “Lupi di Toscana”, ma non essendo lei in buone condizioni di salute ha insistito perché ci andassi io. Le ubbidii, ma quell’esperienza, come ho già raccontato in “Oltre la delega e la politica”, mi ha a tal punto disgustato che non l’ho voluta più ripetere. Con il nuovo anno e con il diploma in tasca ho dato le dimissioni dal cotonificio Legler. I miei familiari erano contrari, erano ancora vincolati all’idea che il cotonificio fosse da considerarsi dal punto di vista lavorativo una “botte di ferro”, ma io non me la sentivo più di ritornare a lavorare in quell’ambiente. Desideravo fare altre esperienze e acquisire una professionalità compatibile con le mie aspirazioni. Quando mi sono recato sul vecchio posto di lavoro, per la verità, avendo provato un poco di nostalgia ho avuto un ripensamento. I miei vecchi colleghi di lavoro mi hanno difatti accolto con effusioni e attestati di solidarietà e si sono dichiarati dispiaciuti per la mia decisione. Persino dalla segretaria personale dei signori Legler in quell’occasione ho ricevuto testimonianza di stima e di amicizia; al punto che, sapendo che non avrei mai più lavorato in quell’azienda, dal suo archivio ha estratto e mi ha mostrato una scheda sulla quale erano minuziosamente segnate tutte le mie giornate di sciopero e le conseguenti valutazioni dei miei capi. Per me è stata la conferma della fondatezza delle mie preoccupazioni e della giusta decisione di non 116


143 - 1963 – Alla Caserma di Scandicci, sede centrale dei “Lupi di Toscana”.

144 - 1963 – Mamma con la sorella di Antonio Locatelli

145 - La tomba di papà con il bassorilievo contestato. 117


146 - 1963 – Alle cascate del Reno

147 - 1964 – Al passo del Maloja. .

148 - 1964 – Sul passo dello Spluga. 118


149 - 150 - 1964 – A Romashorn sul lungo lago e in casa di zia Elvira. 119


ritornare più in fabbrica. Una quindicina di giorni dopo venivo assunto da una commerciate in abbigliamento di Bergamo come contabile.

19. La fine di un’epoca e l’inizio di un “nuovo ordine” di vita L’esperienza come amministratore di un negozio d’abbigliamento è stata decisamente negativa, tant’è che dopo soli alcuni mesi mi sono trovato un’occupazione alternativa accettando l’offerta di svolgere l’attività di procacciatore di clienti per una ditta di Milano che era diretta da un noto dirigente dell’Inter. Anche questa attività, però, non mi soddisfaceva e così, dietro pressione di un cugino acquisito, ho deciso di rilevare una piccola impresa commerciale in Bergamo il cui titolare aveva raggiunto l’età della pensione. Oltre alla rappresentanza locale di alcune note aziende dolciarie, tra cui la Zaini e un’importante produttore francese di biscotti dell’Alsazia, avevo un deposito all’ingrosso e commerciavo in coloniali, pizzette preconfezionate e altri generi alimentari. Con me, in funzione di segretaria d’ufficio, lavorava Mariarosa quindi il cugino che aveva perorato la sua acquisizione e un altro collaboratore. Poco dopo aver assunto la gestione, Mariarosa e io abbiamo deciso di sposarci. La scelta era ovviamente dettata dall’amore, ma anche dalla preoccupazione di essere soggetto a controlli da parte della Guardia di Finanza e avere problemi per la presenza della fidanzata che non risultava in regola con il rapporto di lavoro. Il contratto di matrimonio, infatti, avrebbe reso legale la sua presenza divenendo mia congiunta. Ci siamo sposati nel primo pomeriggio dell’ultimo giorno d’ottobre del 1963, in Comune a Bergamo. Dell’evento abbiamo tenuto all’oscuro i nostri familiari, consapevoli che non avrebbero mai approvato né il matrimonio civile né il rifiuto di una celebrazione in pompa magna. A mio cugino e al collaboratore piazzista abbiamo chiesto di farci da testimoni e di mantenere il segreto sulla circostanza. Ci ha congiunti legalmente un assessore poco esperto di unioni civili. Non solo, dato il mio abbigliamento da lavoro, questo pubblico ufficiale ha scambiato mio cugino per lo sposo, il quale si era messo il vestito scuro di cerimonia, mentre io ero in tenuta da lavoro, ma poiché nella sala c’era corrente d’aria, ha sollecitato l’usciere a chiudere la porta non rendendosi conto che violava la normativa di legge secondo cui l’ingresso nel luogo di celebrazione di matrimoni deve essere aperto a chiunque abbia qualche motivo di impedire l’unione in atto. Ai nostri familiari abbiamo comunicato le avvenute nozze mesi dopo e a quel punto, seppure con grandi riserve di mia madre, Mariarosa è venuta ad abitare con me ai “Giurati”. Abbiamo trovato sistemazione nella stanza dei nonni e come giaciglio goduto del loro vecchio letto matrimoniale. Per noi non contava l’arredo, ma lo stare finalmente insieme. Felice dal punto di vista sentimentale, ero insoddisfatto della nuova attività intrapresa. Nei primi anni ’60 si è registrata una crisi economica e i risultati di quella 120


forma di lavoro autonomo non corrispondevano nemmeno alle aspettative economiche. Soprattutto, nel corso dei primi mesi mi ero reso conto che per reggere la concorrenza bisognava non avere scrupoli. L’ambiente commerciale è fondato non su criteri di convivenza e di solidarietà, bensì sui principi della lotta spietata per la supremazia sugli altri e per l’accumulo di denaro. Nella mia attività quotidiana vivevo perciò in modo sofferto la contraddizione tra i comportamenti quotidiani cui ero indotto per reggere la baracca e i sentimenti che avevo maturato durante e dopo l’esperienza sanatoriale. A un tratto mi sono reso conto che dalla padella ero finito nella brace. Frequentavo la sezione del partito, però non bastava a compensare le mie aspirazioni. A volte avevo l’impressione di vivere come il dottor Jekyll che la notte si trasformava in mister Hyde; era differente solo la scansione di tempo. Un giorno ebbi modo di manifestare questo mio travaglio a Eliseo Milani, allora segretario federale del partito, il quale qualche tempo dopo mi avanzò una proposta. Il responsabile provinciale della Legacoop intendeva lasciare l’incarico e vi era la necessità di rimpiazzarlo. Pertanto sono stato invitato a valutare quella prospettiva e a prendere una decisione in merito. Per la verità non ho impiegato molto tempo a riflettere su quell’offerta di impiego socialmente utile e dopo averne parlato con Mariarosa ho confermato il mio interesse. Dopo essermi accordato sui tempi, ho dato inizio alla smobilitazione dell’ufficio di rappresentanza. Nell’estate del ’64 mi sono presentato in federazione rendendomi disponibile a intraprendere il nuovo lavoro. Nel frattempo, però, il responsabile provinciale della Legacoop ha maturato un ripensamento e così l’esigenza di sostituirlo è venuta a cadere. A quel punto Milani mi ha proposto di lavorare come funzionario del partito e io ho accettato quella soluzione. Il 1964, ha dunque ha rappresentato per me l’anno della svolta, difatti, da quel momento ha avuto inizio una nuova vita. Mesi dopo mi è stato proposto di frequentare la scuola di partito all’Istituto di Studi comunisti alle Frattocchie di Roma. Sotto l’aspetto affettivo e sentimentale, il ’64 è stato invece un altro anno di sofferenza. Dopo lunghi mesi di malattia, a causa di un cancro, è deceduta in Svizzera mia zia Elvira. A lei ero molto affezionato e la sua scomparsa mi ha pesato per lungo tempo. Verso la fine dell’anno, la direzione del cotonificio Legler ha decretato l’incompatibilità di residenza nelle vecchie case operaie di chi non era più dipendente dello stabilimento. Sia mia madre che mia zia Clementina erano ormai sulla soglia dell’età pensionabile, perciò a noi si è posto il problema di ricercare una nuova abitazione. Dopo sondaggi e riflessioni, siamo giunti alla conclusione che piuttosto di affittare un appartamento era più conveniente e più saggio impiegare i soldi delle loro liquidazioni nell’acquisto di un piccolo appezzamento di terreno e costruirci sopra una modesta villetta bifamiliare. Più che al loro all’avvenire, mia madre e le mie zie pensavano al mio e a quello di mio fratello. E poiché il denaro a disposizione era 121


151 - 1966 – La nuova abitazione di via Silvio Pellico.

152 - 153 - Fine anni ‘60 – Mamma Giuseppina e zia Clementina nella nuova abitazione. 122


modesto e non sarebbe bastato per realizzare quel loro sogno, si sono date la prospettiva di chiedere un mutuo alla banca e una dilazione dei pagamenti, attraverso cambiali, all’impresario che avrebbe costruito l’edificio. Nel 1966, dopo aver sottoscritto un pacco di cambiali destinate a rinnovarsi nel tempo, ci siano trasferiti dai “Giurati” in via Silvio Pellico, al “Palazzo”. Anche dal punto di vista residenziale aveva inizio un nuovo corso.

20. Conclusioni I Racconti del nonno finiscono qui. Parte di quel che è successo dopo il 1966, in particolare sul fronte dell’impegno politico, l’ho già raccontato in “Oltre la delega e la politica”. Restano da passare in rassegna gli eventi e gli aspetti più personali. E poiché intendo procedere alla stesura di ulteriori riflessioni sulla mia esperienza di vita, mi propongo di riempire il vuoto che ho lasciato prossimamente. Per la cronaca, dal punto di vista affettivo e sentimentale, i due decenni successivi sono stati anche per me, così come succede alla generalità degli esseri umani, forieri di gioie e di dolori, soprattutto però di lutti. Nel 1966 è nata mia figlia Nadia. Nel 1967 è morto zio Lorenzo. Nel 1968 mi sono innamorato di Liliana e ho dovuto fare i conti con le contraddizioni che le convenzioni sociali spesso procurano alla natura dell’uomo. Ancora nel 1968 mio fratello Ernesto è convolato a nozze con Tiziana Cortesi. Nel 1970 è morto il papà di Mariarosa, Stefano. Sempre nel 1970 è nato mio nipote Fabrizio. Nel 1972 è morta zia Antonietta ed è nato mio figlio Riccardo. Nel 1973 Liliana ha dato alla luce mia figlia Rossana. Nel 1975 è morto zio Elso. Nel 1981 è deceduta zia Maria. Nel 1985 se n’è andato zio Abele. Nel 1986 è improvvisamente morto d’infarto mio cognato Daniele. Nel 1987 ha finito di vivere zia Clementina. Nel 1988 ho perso mia madre.

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Appendice

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154 - Nadia e Nicola Bresciani.

155 - Riccardo e Antonella Ronconi. 127


156 - Rossana e Stefano Cielok

157 - Ernesto e Tiziana Corresi. 128


158 - Nipote Fabrizio Moioli

159 - Zio Lorenzo Zanni

160 - Zia Maria Sana

161 – Zio Antonio Beretta

162 – Zio Carlo Carrara

163 – Zia Annita Armanini

164 – Zia Silvia Assolati

165 - Zio Rodolfo Maestretti 129

166 - Zia Teresa Maggi


I cugini

167 - Federica Zanni

170 - Marina Bonacina

173 – Battista Beretta

168 – Guglielmo Zanni

171 – Vittoria Bonacina

174 – Riccardo Moioli 130

169 – Vittorina Zanni

172 – Emma Beretta

175 – Luciano Moioli


La famiglia Riva

176 – Liliana Riva

177 – Mario Riva

178 – Claudia Corna

179 – Annalisa Riva

180 – Giorgio Riva

181 – Bruno Riva 131


Nonno Vittorio visto dai suoi nipoti (Disegni eseguiti all’età di…)

Daniela Bresciani, a 8 anni

Sofia Moioli, a 9 anni

Inés Cielok a a 7 anni

Alessandro Moioli, a 6 anni

Irene Cielok a 5 anni

Vittoria Moioli, a 4 anni 132


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