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Arte, letteratura, musica e scienza

ANNO IV N. 6 2010 copia gratuita

PERIODICO SEMESTRALE DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE “L’ARTE IN ARTE” URBINO

Raffaello e Urbino. La formazione giovanile e i rapporti con la città natale

Storia Lisippo di Silvia Cecchi e Alberto Berardi pag. 3

di Bonita Cleri La mostra londinese del 2004 dedicata a Raffaello ha evidenziato la formazione urbinate: come è noto la biografia vasariana voleva che il padre pittore lo avesse indirizzato alla bottega di Pietro Perugino consapevole della propria inadeguatezza. Per quanto nel tempo la critica si sia resa conto della non attendibilità di tale episodio, cancellava completamente l'impronta del padre nella formazione del giovane Raffaello, che troviamo documentato a Città di Castello ad appena diciassette anni: siglava insieme con Evangelista da Piandimeleto, valido collaboratore e uomo di fiducia nella bottega del padre morto oramai da qualche anno, l'impegno per la realizzazione di una pala d'altare per la quale riscuotevano il saldo il settembre successivo. A Città di Castello Raffaello realizzava altre opere: lo stendardo per l'oratorio della Trinità, la Crocifissione Gavari-Mond e lo Sposalizio della Vergine, terminato per l'estate del 1504, prima del trasferimento a Firenze. A questo arco di tempo ha fatto riferimento la mostra tenutasi in Urbino che ha ottenuto un notevole successo di pubblico e che ha sollecitato la critica a riflettere sulla formazione del famosissimo artista. La cornice del Palazzo federiciano è stata quanto mai funzionale alla rivisitazione di un Raffaello in parte derivato dalla cultura urbinate, anche se l'allestimento ha saputo quasi schermare gli ambienti rinascimentali per dare piena fruibilità alle opere esposte, il cui percorso ha rappresentato una sorta di amarcord del ragazzino che fino ad undici anni aveva seguito l'attività del padre Giovanni

Santi, pittore, scenografo, poeta. La mostra inoltre ha rappresentato l'occasione per alcune opere di tornare a respirare l'atmosfera del luogo per il quale furono realizzate: le Muse (di Giovanni Santi e di Timoteo Viti), collocate in origine nel tempietto omonimo ed ora alla fiorentina Galleria Corsini, fresche di restauro hanno permesso di recuperare parte della cultura del Santi che aveva mosso i primi passi all'interno dell'emporio paterno, Sante da Colbordolo che effettuava a sua volta piccoli lavori artigianali. Il padre di Raffaello aveva percepito la grande operazione culturale di Federico Raffaello Sanzio, Autoritratto da Montefeltro e di Battista Sforza ed aveva avvertito la necessità documentarsi presso altre realtà culturali per colmare il vuoto formativo (in quegli anni la bottega stanziale presente in Urbino era quella di fra' Carnevale ed è probabile che per lui abbia rappresentato un punto di riferimento). Inoltre le Muse evidenziano l'attenzione di Giovanni Santi per la cultura fiamminga, che aveva trovato porte aperte in Urbino agli inizi degli anni settanta con la realizzazione della nota Comunione degli apostoli, ma l'interesse nella corte era ancora precedente stando a quanto scrive Bartolomeo Facio alla metà del secolo che descrisse un Bagno muliebre di Van Eyck nella collezione di Ottaviano degli Ubaldini, fratello di Federico. E' presente uno spaccato della città sia attraverso diverse opere del Santi che con dipinti di artisti che avranno rapporti con il giovane Raffaello: lo stendardo di Santo Spirito di Luca Signorelli è dirimente nella comprensio-

Arte La “voce” e il silenzio figurato di Umberto Franci di Floriano De Santi pag 6

Kéramos 2009 La ceramica delle associazioni della Provincia di Pesaro e Urbino di Emanuela Mencarelli pag. 8

Artisti e attività dell’Associazione L’Arte in Arte pag. 9

Letteratura Il laboratorio critico di Gualtiero De Santi di Maria Lenti pag. 13

Disavventure di un aspirante scrittore di Alberto Calavalle pag. 14

Musica De Divina Proportione. Dalla produzione musicale all'evento teatrale di David Monacchi e Simone Sorini pag. 16

Cinema L'Italia di Pier Paolo Pasolini di Andrea Carnevali pag. 18


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DITORIALE ne della formazione del nostro e proprio su esempi signorelliani incontrati anche a Città di Castello egli si eserciterà ed eseguirà diverse prove grafiche riprendendone sia la tecnica che le tematiche. Signorelli sigla, seppure non personalmente, un contratto proprio nel giugno del 1494 e probabilmente la sua entrée urbinate fu dovuta al Santi che ben lo conosceva per averlo citato nella sua Cronaca rimata percependone con finezza il carattere artistico e quasi certamente fu lui ad aprire la strada tifernate a Raffaello che si trova coinvolto nella sua prima commessa insieme con l'aiutante del padre, a dimostrazione che ne aveva ereditato la bottega tenuta in piedi, data la sua giovane età, dal fido collaboratore paterno. Oltre allo stendardo del pittore figuravano alcune opere di Timoteo Viti, che venne chiamato da Raffaello a Roma attorno agli anni dieci del Cinquecento, mentre era meno documentato Girolamo Genga, che necessita di un approfondimento di conoscenza per l'importanza che ha avuto non solo per Raffaello ma per la cultura urbinate. La pubblicazione dei documenti urbinati dimostra da un lato le diatribe tra l'unico erede maschio del Santi ed il fratello don Bartolomeo con la giovane vedova e la piccola Elisabetta, nata dopo la sua scomparsa, dall'altro il rapporto intrattenuto con i parenti e gli investimenti fatti nella città natale. La pala di Città di Castello, identificata con una Triplice incoronazione di San Nicola che schiaccia il demonio, purtroppo tagliata a fine Settecento e conosciuta ora solo in parte attraverso ritagli conservati in diversi musei, si trovava affiancata al disegno preparatorio autografo di Raffaello che ne dimostra, tra i diciassette anni e i diciotto anni, le grandi capacità. La mostra quindi proseguiva con altri esempi, come il citato stendardo della Trinità, i ritratti dei duchi di Urbino, piccoli quadretti e due scomparti della predella della Crocifissione Gavari insieme con Madonne che denunciano il rapporto con Leonardo: tutte opere che danno ancora conto del rapporto con il territorio (come dimostrano i ritratti dei signori del ducato e la raffigurazione della chiesa di San Bernardino nella Madonna Cowper). Lo snodo della formazione, si sa, è legato al rapporto con Pietro Perugino ed in mostra era presente la predella della pala di Durante di Fano - per la chiesa di Santa Maria Nuova per la quale aveva lavorato anche il Santi - che parte della critica tende ad assegnare a Raffaello mentre in mostra veniva presentata come autografa del Vannucci, quantomeno uscita dalla sua bottega già definita da Roberto Longhi "editoriale umbra". Il problema è se il rapporto tra i due sia avvenuto negli anni giovanili o se Raffaello vi si sia accostato una volta trasferitosi in Umbria. A chiusura di mostra ha destato interesse la sezione relativa alle maioliche e alle incisioni derivate da temi raffaelleschi, mentre meno avvincente è stata quella relativa ai ritratti. (Catalogo della mostra: Raffaello e Urbino, a cura di L. Mochi Onori, Electa, Milano, 2009)

Vivarte. Un primo pensiero: il piacere di lavorarci perché ci sia, così come ci dicono i riscontri e le attese di quanti la conoscono; il piacere di farla uscire, aspirando, ogni volta, la redazione a un più e a un meglio rispetto ai numeri precedenti; il piacere di vederla stampata interrogandosi, i collaboratori, su quel più e meglio che spetta infine ai lettori. L'intento della rivista, far parlare la realtà artistica e culturale di Urbino - per quella vitalità espressa dalla città feltresca e proiettata oltre le sue mura,da sempre, direi, se sempre fosse meno compromissorio e assoluto - facendo parlare anche i dintorni allargati, si snoda, anche in questo numero, attraverso la riflessione sia su eventi passati calati nella cronaca sia su presenze di oggi. Da Raffaello di Bonita Cleri, alla vicenda di Lisippo di Silvia Cecchi e Alberto Berardi, da un artista dalle radici nella Scuola del Libro di Urbino (non bisognosa di aggettivi), Umberto Franci di Floriano De Santi, a Pasolini di Andrea Carnevali, la rivista si inoltra nella conoscenza di intellettuali nati a Urbino e qui formatisi, che, da anni, spaziano fuori Italia, sia per la vastità del loro orizzonte, sia per la "sede" delle loro ricerche: scorre il "laboratorio" critico di Gualtiero De Santi chi firma questo editoriale; David Monacchi, musicista, docente universitario, insieme a Simone Sorini indaga e analizza i nuovi suoni (raccolti persino nelle foreste tropicali), le probabilità diverse intorno alla produzione musicale odierna. Di Alberto Calavalle, con il racconto Disavventure di un aspirante scrittore , lo spazio "creativo". Emanuela Mencarelli entra nelle attività di Kéramos, il cui terzo appuntamento nella provincia di Pesaro e Urbino è stato ospitato nella sala del Castellare del Palazzo Ducale di Urbino. Una novità in questo numero di Vivarte, nata come estensione di L'Arte in Arte, associazione culturale urbinate in cui confluiscono molti artisti non solo di qui - pittori, incisori, scultori, ceramisti -. L'inserto dedicato agli artisti, fino ad ora corpo a sé stante, è legato a doppia spillatura, per così dire, alla rivista stessa: sì che le opere riprodotte dialogano con i testi, tutti gli autori sono in relazione tra loro e con chi avrà in mano Vivarte. Allora… Idee per una cultura che non si fermi all'evidenza e alla superficie delle cose culturali e artistiche. Interrogativi più che certezze, se le certezze sono le certezze poco o nulla stimolanti. Aperture al nuovo, alla sperimentazione, alla ricerca. Scavo all'interno del già dato. Consapevoli che il più e il meglio, sul piano culturale e artistico, sono illimitati e mai finiti. Maria Lenti

Bonita Cleri, docente di Storia dell’arte marchigiana nell’Università di Urbino. Autrice di studi su diversi artisti e periodi. E’ nella redazione di “Notizie da Palazzo Albani”, rivista dell’Istituto di storia dell’arte dell’ateneo urbinate. Presidente del Centro Studi “G. Mazzini”, ne dirige le collane “La valle dorata” e “La via lattea”, dedicate ad autori e beni culturali della valle del Metauro e oltre. E’ stata vicepresidente del Consiglio regionale delle Marche nella Legislatura 1995-2000: ha seguito leggi e disposizioni sui beni culturali.

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Lisippo di Silvia Cecchi e Alberto Berardi

L'Atleta confiscato. La statua attribuita a Lisippo è divenuta italiana per effetto di meccanismi acquisitivi (taluno semplice, altri più complessi) ampiamente dibattuti e verificati in sede giudiziaria e oggi statuiti con l'ordinanza emessa nel febbraio scorso dal Giudice di Pesaro, la quale, accertata la proprietà statuale sul bene, ne dispone la confisca, in seconda proposizione, conseguenza obbligata della prima. La questione dell''italianità' del bronzo, contestata a oltranza (attualmente mediante ricorso per Cassazione contro l'ordinanza) dall'attuale detentore (il Paul Getty Trust) e, presenta dunque un profilo eminentemente giuridico. Come è noto, contemporaneamente alla vicenda dell'esportazione illecita e per le stesse finalità, la statua subì un periodo di clandestinità che va dai sei agli otto anni, dapprima in Italia, in condizioni tali da comprometterne l'integrità di conservazione, ed quindi una (prima) serie di interventi selvaggi di disincrostazione e 'restauro' all'estero (in Germania) che le hanno procurato danni gravi, indelebili e irreversibili (né emendati dagli interventi della seconda fase di trattamento): vulnus ampiamente riconosciuto dagli esperti dello stesso museo californiano che acquisì la statua nell'agosto del 1977 dal restauratore-venditore tedesco. Tali danni sono gli effetti di danno 'secondario' rispetto alle condotte contestate nel procedimento penale da poco concluso, e l'oggetto diretto e 'primario' di altro procedimento penale tuttora pendente presso l'Ufficio della Procura di Pesaro (il reato in questo caso è di natura permanente e come tale imprescrittibile): giacché non vi è dubbio che simili danni sarebbero ben stati impediti dagli organi pubblici italiani preposti alla conservazione e restauro dei beni artistici e del patrimonio archeologico, ove il bene non fosse stato sottratto illecitamente alla loro competenza: la circostanza assume un rilievo indiscutibile, di fronte a qualunque obiezione contraria, non solo nel nome del rispetto dovuto alle norme e alle istituzioni, ma per chiunque condivida comuni sentimenti di responsabilità (di tutela, cura) riguardo ai beni archeologici o di valore artistico. La risonanza della vertenza giudiziaria è stata assai grande, come è noto, e ha suscitato un dibattito tra i sostenitori del ritorno della statua nell'ambiente da cui storicamente proviene e i sostenitori di una indifferenza per il sito (sia pure remoto ed eccentrico) in cui un'opera d'arte finisca per 'stabilizzarsi' all'esito di peripezie dettate da illeciti traffici e condotte censu-

rate dal diritto penale nazionale ed internazionale: indifferenza giustificata nel nome di un quid 'assoluto' che renderebbe l'opera d'arte per così dire 'ubiqua' e affrancata da vincoli di contesto. A questi soli aspetti (culturali ed etici insieme) credo necessario dedicare qui alcune brevi riflessioni, avendo già avvertito che in nessun caso esse potrebbero oscurare il primato giuridico che compete alla vicenda. 1. Nella relazione inviata al Governo italiano nel 2006 da parte della Direzione del Getty Museum (e poi più volte, successivamente) si sostiene intanto la tesi del 'legame tenue' tra la statua e il nostro Paese, con evidente riferimento, per antitesi, al criterio del 'legame rilevante' menzionato nella Convenzione Unesco del 2001. Si obiettò in quella circostanza, e già più volte in precedenza, che la statua è di indubbia origine greca e che l'Italia non può rivendicare di essa né un'origine italica o vetero-romana, né l'esistenza di un sito archeologico inscritto con sicurezza nel proprio ambito territoriale. Ma intanto è certo che il collegamento tra la statua e l'Italia non deriva da scavo abusivo o furto in terra greca, non da un bottino di guerra né da un saccheggio, giacché è necessario comunque distinguere, in fatto di trasferimento e provenienza beni, tra canali commerciali legali e bottini bellici, tra requisizioni di Imperi o Stati invasori od occupanti e regolari transazioni intercorse tra soggetti privati o pubblici, tra canali neri ed eventi storici in senso lato. Nel nostro caso per vero non sappiamo con certezza neppure quale fosse la direzione della rotta della nave che trasportava la statua di bronzo prima del naufragio, se dalla Grecia all'Italia o viceversa (la seconda ipotesi oggi sembra guadagnare maggiori consensi), né sappiamo con certezza se si tratti davvero di un originale (tesi peraltro assolutamente prevalente) ovvero di copia romana di statua greca. Sappiamo che era consuetudine nel periodo del tardo impero portare in esposizione di luogo in luogo esemplari di particolare pregio di statue greche a guisa di modello da imitare, in varie località dell'Impero, a scopi di pedagogia etico-estetica, per dire così. D'altronde grande fu la notorietà che la statua ebbe nell'antichità (addirittura esiste una copia conservata al museo archeologico di Costantinopoli): ciò che rende ancor più plausibile la congettura che essa abbia svolto il ruolo di modello itinerante in varie località dell'Impero, per la sua straordinaria bellezza: quella levità della figura in rotazione, quel peso ed energia con-

Lisippo

centrati su un lato della figura ove è una gamba a reggere il peso del corpo e del braccio. Dobbiamo però presumere fondatamente che la statua sia stata oggetto di legittima committenza o di altra disposizione di trasferimento che la portò in Italia, ovvero che analoga disposizione ne abbia deliberato il 'ritorno' in Grecia o a Costantinopoli, e infine che in entrambi i casi sia naufragata a causa di tempesta marina o avaria della nave che la trasportava. Sappiamo in ogni caso con certezza che il trasferimento era in corso fra due località dell'Impero, in esso essendo ricompresi sia il luogo di destinazione quanto quello di provenienza. Poco più di un secolo dopo la morte di Lisippo, la Grecia, già 'romana', diviene 'governatorato' e poi provincia romana: la Grecia era dunque tornata territorio romano, qualora si ritenga che la statua sia opera di discepoli di Lisippo e appartenga al c.d. periodo ellenistico, fin dal momento della sua creazione. D'altronde è pur sempre l'opera del tempo e della storia, così come la profondità della fusione tra civiltà, ad

autorizzare espressioni quali 'civiltà greco-romana 'o civiltà 'romano-bizantina', e così via. Se così stanno le cose, conosciamo un solo 'legame forte': la civiltà greco-romana (ma quando giunse la statua in Italia per la prima volta? durante il Primo impero o nella tarda antichità? in periodo bizantino o addirittura in età medievale?). Secondo le congetture più accreditate degli studiosi, la statua avrebbe goduto dunque di una permanenza in Italia variabile fra i due e i dodici secoli: ciò che significa che "il naufragio è avvenuto quando la lezione (della statua di Lisippo) era così diffusa e radicata nella prassi figurativa (in terra italiana) da non potersi più smarrire", come sostiene acutamente Paolo Moreno. In altre parole, secondo l'Autore, la lezione era così profondamente metabolizzata in terra italica che ne danno dimostrazione talune pitture pompeiane, alcune sculture medievali e rinascimentali, e addirittura figure tratte dagli affreschi michelangioleschi. Non dovremmo allora più dubitare che lo Stato italiano sia davvero il soggetto

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cultural-politico erede della civiltà di cui lo splendido esemplare bronzeo attribuito a Lisippo è figlio; in questa prospettiva, l'opera ci si presenta come elemento (chiave di volta, secondo i critici del'arte) di una millenaria e complessa genealogia procedente fino a noi, che di quella civiltà siamo senza dubbio gli eredi. Allora e per converso non vi è alcun dubbio - in ciò consta l'oggetto specifico della vicenda giudiziaria - che nessuna vicenda se non di tipo affaristico - criminale, poté condurre oltre venti secoli dopo quella statua sulle coste della California. 2. I pescatori romani si trovarono così di fronte ad una res inventa, conservata per quasi due millenni dagli abissi marini, dopo essere naufragata in corso di viaggio. La fortuna la perse e la riportò alla luce. Il luogo del rinvenimento è stato individuato con una certa approssimazione ma è possibile asseverare che esso ricada in zona di acque internazionali, secondo la mappatura geo-giuridica delle 'zone marine' di cui alle convenzioni internazionali (Convenzioni Unesco - Montegobay), in una fascia del Mare Adriatico al largo di Pedaso, per modo che la nazionalizzazione del bene è l'effetto delle analizzate vicende giuridiche che concorrono univocamente verso tale conclusione. Si tratta certamente di un sito archeologico marino tuttora aperto ed in gran parte ancora inesplorato. Una sorta di sito archeologico 'di fortuna', nel senso anche di 'fortuito', sottomarino, che attende di essere ulteriormente indagato ed esplorato, ma che non smentisce affatto la pertinenza originaria della statua all'area italicoromana, giacché ogni ipotesi interpretativa sul punto converge sulla conclusione che il reperto non solo gravitava in tale area, ma, fino a prova contraria, vi gravitava e vi si muoveva 'legalmente'. E' dunque in questa area che la statua può essere capita (dirò meglio: può continuare ad essere capita, dato che a tutt'oggi non è completata la sua disamina storica, archeologica ed estetica) e studiata, contestualizzata, comparata e goduta. D'altronde il luogo di un naufragio è spesso l'unica traccia e prova di un itinerario storico interrotto, altrimenti destinato all'oblio. Per questo esso appartiene alla storia. Ben sappiamo quante volte le civiltà abbiano fatto di un approdo di fortuna, di un 'provvidenziale' naufragio, il proprio luogo leggendario delle origini, e vi abbiano imbastito il proprio mito di fondazione: è accaduto al grandi cittàciviltà (a Roma stessa) come a cittàsantuario sorte dall'approdo fortunoso di una reliquia, dallo sbarco di un santo scampato a peggior fine.

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Combinazione di storia e destino, d'immaginario e di leggendario che così spesso con la storia si mescolano: nel nostro caso luogo di eventi storici documentati e ulteriormente documentabili. 3. Ognuno sa quanto l'espressione artistica in generale abbia a che vedere con i dati paesaggistici, con le forme di natura, con gli altri segni dell'uomo e i rispettivi reciproci rinvii (ben sappiamo che non vi sarebbe Raffaello senza la dolcezza delle colline urbinati, né Mantegna, Piero o Leonardo senza i metafisici sfondi umbro-toscani, né Vermeer senza il borghese interno borghese-fiammingo, né la Venere di Cranach senza l'allegorismo metafisico germanico, né il fondo-oro di Giotto senza il mistico paesaggio umbro e senza i segni contigui dell'influsso bizantino e si potrebbe proseguire senza fine). Allo stesso proposito, mi viene spontaneo aggiungere quanto scrisse il celebre 'positivista' francese Hyppolite Taine: "Anche l'opera d'arte, come i mari, i fiumi, i laghi, si colorano del cielo che riflette": l'affermazione piacque ad Alberto Savinio che così la commenta "sono gli elementi ambientali che finiscono per fare corpo con l'opera d'arte pur restandole esterni". Meno intuitivo forse è immaginare che anche l'intelligenza di un'opera d'arte, dalla parte di chi la guarda e intenda recuperare il senso di quelle stesse relazioni richiede di conservare i medesimi legami con l’ambiente. Nella recisione dei segni contestuali, delle misure e proporzioni reciproche fra un'opera e quanto l'opera circonda, nella recisione della storicità delle tracce del prima e dell'ora, è il vulnus della decontestualizzazione. La lettura integrata, congiunta degli elementi interni ed esterni dell'opera è quel senso intero che l'opera è capace di restituire all'osservatore che sappia leggerlo. Ciò è vero per ogni oggetto d'arte. Massimamente però ciò è vero per una statua che, per destinazione e proporzioni, era sicuramente destinata, come nel nostro caso, ad una collocazione in externo, e per di più tendenzialmente fissa: circostanza che impone riflessioni diverse da quelle che competono al rapporto fra un quadro, per esempio, ed il suo ambiente. Che un'opera d'arte perda valore fuori del suo ambiente d'origine ben sapeva anche Cicerone, quando rifletteva su come una statua greca già a Roma mutasse di bellezza e di significato ("le statue greche una volta portate a Roma non sono più le stesse"). Se tale perdita oggi si è in un certo senso attenuata, per effetto dell'allungamento di prospettiva storica,

nella comparazione tra bene in Grecia e bene in Roma, quello 'spaesamento' che già avvertiva Cicerone, siamo però ben in grado di coglierlo noi tra mondo greco-romano e California: e d'altra parte il tema di un'appartenenza culturale, eventualmente condivisa, di questa opera sia allo Stato italiano che a quello greco, è aspetto che potrà essere rivalutato, a tempo debito, e ciò a riprova, ancora una volta, che non si tratta di difendere pregiudizi nazionalistici, bensì ragioni di diritto e le riflessioni implicate nell'intelligenza di un'opera d'arte. Lo sappiamo noi, che stupiamo della 'piccola misura' di una statua greca confrontata con la grande misura delle statue romane o rinascimentali italiane. Ma più che mai sappiamo che a Malibu si perde irrimediabilmente ogni riferimento, in assenza di qualsiasi modulo esterno di confronto: non una scala di beni contemporanei o prossimi nel tempo, non una stratificazione di testimonianze oggettive storicamente collegabili all'opera, non un universo segnico di riferimento che siano in grado di posizionare il bronzo e darne la sua vera misura artistica, senza la quale va perduto proprio quell'ideale umano che la statua esprime ed insegna. Nel momento in cui l'opera nasce e viene posta in un luogo, da quel momento inizia il suo colloquio ininterrotto con il mondo circostante, con l'insieme dei segni in cui è immersa. Vogliamo rivederla anche noi, fin dove possibile, proprio così come la videro con i propri occhi il suo artefice, il suo committente, i suoi ammiratori, i visitatori, i viandanti, gli oziosi, i viaggiatori, i sedenti. Vogliamo celebrare una sorta di rito, attraverso l'atto dell'osservare, dell'ammirare: il rito della memoria, della storia, della bellezza, dell'identificazione, della sublimazione. Davanti all'osservatore che voglia immedesimarsi con i suoi predecessori, l'opera avrà il potere di rimettere in vita un organismo storico-culturale e l'universo di relazioni che le appartiene: potere della forma formante e della fitta rete 'magica' dei rinvii che l'oggetto d'arte tesse e l'ambiente conserva (tanto quanto che il reato spezza una volta per sempre, finché non sia riparata l'offesa). 4. Non altro è il senso profondo dei codici deontologici museali e trasfusi nelle convenzioni internazionali, se non quello di impedire che un museo sia ricettacolo di condotte di speculazione finanziaria e di malaffare, asilo dato a criminali comuni, anziché il risultato e il vertice di un'operazione culturale. Taluno vorrebbe concedere all'Italia (il Paese fra tutti che più ha

fatto le spese delle logiche speculative ed affaristiche dei sodalizii criminali specializzati nel settore) un premio di consolazione: le opere d'arte italiane sono pur un ottimo 'biglietto da visita' dell'Italia all'estero. Riflessione piuttosto spicciola e stretta. Prendiamo nondimeno l'argomento per quello che è, pur nel suo modesto pregio: ebbene, non vi è dubbio che la ben nota e invalsa politica degli imprestiti, delle mostre itineranti, delle esposizioni 'tematiche' organizzate nelle sedi più disparate del globo, sarebbero state (e sono) il mezzo più adeguato e sufficiente al medesimo scopo, senza alcun bisogno di colludere col (o plaudire al) crimine, nella specie con il contrabbando, l'esportazione illecita delle opere d'arte, la ricettazione, le associazioni per delinquere costituite agli stessi fini, il reato di interventi abusivi in spregio e a sfregio delle opere d'arte, condotte la cui mira, come ognuno ben sa, è solo quella di conseguire il maggior lucro possibile e non certo quello di diffondere biglietti da visita dell'arte italiana, ed anche a costo di danneggiare irreparabilmente (o rompere nel maggior numero di frammenti autonomamente vendibili) manufatti di inestimabile valore. Vi è da temere d'altra parte che il Grand Tour ricordato da alcuni pubblicisti e di cui l'Italia può vantarsi ancora di essere mèta, resterebbe in pochi anni vanificato dalla massiccia evacuazione di opere d'arte avvenuta con il ritmo intensificato degli ultimi decenni e che può anche valersi dell'irresponsabile apologia che si è letta recentemente in alcuni articoli di giornale. Né il prestigio artistico dell'Italia sarebbe mai minorato da un'ampia diffusione di ottime copie, di cui sono ricchi i migliori musei d'Oltralpe e di tutto il mondo. 5. Una parola infine va spesa circa la nozione di "patrimonio dell'umanità" spesso invocata ma sulla quale non ci si intende bene. Giustamente è stato a questo proposito citato (Fabio Isman) il grande Quatremère de Quincy, (1755-1849) laddove il filosofo afferma che un'opera d'arte deriva la sua universalità dal radicamento nelle condizioni originarie. Profonda intuizione di un connubio tra universalità e particolarità, che è il segreto dell'opera d'arte nel suo momento genetico, nel momento del suo linguaggio espressivo (la sua 'poetica') e infine nel momento della sua fruizione estetica. Non vi è alcuna antinomia tra i due termini: in quanto patrimonio dell'umanità, tutti hanno l'interesse e il dovere di tutelare il significato dell'opera salvaguardandone le sue radici storico-culturali, all'interno del relativo ambiente.


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Superfluo aggiungere che il principio di una globalizzazione culturale non significa affatto perdita di un'identità e di una radice, bensì contiene l'idea di una interconnessione tra identità e realtà culturalmente definite. Un'importante lezione deve essere allora tratta da queste brevi considerazioni: la piena coincidenza tra le conclusioni a cui perviene il codice giuridico e quelle a cui ci conducono i codici etici e culturali oggi universalmente condivisi. Silvia Cecchi La lunga vicenda de "L'Atleta di Fano", la statua greca attribuita al grande Lisippo, pescata in mare da un battello di Fano in acque internazionali nel lontano 1964 si è temporaneamente conclusa con una ordinanza illuminata ed illuminante del GIP di Pesaro Lorena Mussoni. Ordinanza che impone la "confisca della statua (…) ovunque essa si trovi". La nuova vicenda giudiziaria aveva avuto inizio con un esposto dell'Associazione "Le Cento Città" a firma del Presidente pro tempore avvocato Tullio Tonnini e dopo il respingimento delle eccezioni presentate dai difensori del Getty Museum di Malibù (U.S.A.), ha avuto un esito positivo. Ma la storia era cominciata molto prima, esattamente il 18.5.66 con l'assoluzione per insufficienza di prove presso il Tribunale di Perugia di quattro imputati (gli eugubini Pietro, Fabio e Giacomo Barbetti ed il prete Giovanni Nagni) che erano entrati illecitamente in possesso della statua. A condannare i tre per ricettazione ed il Nagni per favoreggiamento fu invece la Corte d'Appello di Perugia il 27.1.67, sentenza annullata dalla Corte di Cassazione il 22.5.68 e seguita da una nuova assoluzione della Corte di Appello di Roma il 18.11.70 per la impossibilità di accertare l'interesse artistico, storico od archeologico del reperto. Il tutto avvenuto quando la statua era ancora nascosta in Italia. Mai accertata è la storia che fu "un antiquario milanese" nel 1971 a vendere la statua al tedesco Heinz Herzer, ancora più misteriosa è poi la versione che la statua lasciò Gubbio con una spedizione di forniture mediche mandate in Brasile presso una missione in cui operava un religioso parente dei Barbetti già riportata dal giornalista Bryan Rostron sulla Saturday Review del 31.3.79. Certo è che Herzer dichiarò di aver acquistato la statua per "Artemis", consorzio internazionale d'arte, "da una collezione sudamericana" e che nell'ottobre del 1971 la fece sottoporre ad analisi presso il Doerner Institut in Barer Str. 29 di Monaco.

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Thomas Hoving, Direttore del Metropolitan Museum, esaminò la statua nel 1972 in quella città senza procedere al suo acquisto per i dubbi sulla legalità della provenienza, come egli stesso dichiarò a Rostron. La statua fu invece acquistata dal Getty Museum per 3.950.000 dollari (purtroppo anche con l'avallo di Federico Zeri, allora consulente del Getty Museum) dopo la morte del vecchio Getty che di fronte all'impossibilità di avere la documentazione sulla legittimità dell'uscita dall'Italia aveva sempre rinviato l'operazione. E' infine certo che il Direttore generale dei Beni culturali nel 1990 segnalò al Ministero degli Esteri che in Italia era stato rinvenuto nel 1989 un frammento della concrezione marina che al momento del recupero ricopriva quasi interamente la statua. Esattamente quella concrezione che personalmente feci consegnare, da colui che la deteneva, alla Procura della Repubblica di Pesaro retta allora dal dottor Savoldelli Pedrocchi. Era la prova provata che si cercava da anni. Nessuno da allora osò più sostenere che la statua del Getty non fosse la stessa recuperata dai pescatori fanesi. La concrezione marina si era staccata, dichiarò il signor Dario Felici, proprietario del terreno in cui la statua era stata temporaneamente seppellita , per un colpo di vanga da lui stesso inferto all'atto del dissotterramento "all'altezza di uno stinco". Quindi l'opera ripescata in mare durante una battuta di pesca "in acque internazionali", come ha sempre sostenuto con me il capobarca Romeo Pirani, fu sbarcata a Fano dove rimase per un breve periodo, poi sotterrata in un campo di cavoli nella frazione di Carrara ed infine trasferita a Gubbio presso i Barbetti. A Gubbio della stessa si perdono le tracce. Certo è che, poiché non esiste nessun autorizzazione all'esportazione e gli avvocati del Getty pur sfidati a farlo dal sostituto procuratore Silvia Cecchi, dall'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli e dall'avvocato de "Le cento città" Tristano Tonnini si sono ben guardati dall'esibire qualsiasi documento, l'opera è uscita illegalmente dall'Italia, in altre parole, è uscita di contrabbando. Lo sosteniamo da trent'anni per una atavica fiducia nella Legge in opposizione alla "legge" ieri della forza ed oggi del denaro che per molte, troppo persone, sono gli unici strumenti che regolano le cose del mondo. Siamo alle battute finali. L'impegno di pochi tra i quali alcuni validissimi servitori dello Stato: i carabinieri guidati dal Capitano Salvatore Strocchia, l'avvocatura dello Stato, alcuni magistrati, qualche giornalista e

"Le Cento Città" nel silenzio, lungo, troppo lungo, della politica nazionale, uniche eccezioni i Ministri dei BBCC Buttiglione e Rutelli, è stato finalmente ripagato da coloro che hanno riportato nei suoi esatti termini una vicenda che se la cupidigia non avesse ottenebrato le menti non sarebbe neppure nata. La statua fa parte del patrimonio indisponibile dello Stato ed è uscita illegalmente dal nostro Paese, la Repubblica italiana ha non solo il diritto ma il dovere di confiscarla ovunque si trovi. Et de hoc satis. Alberto Berardi

Lisippo, particolare

Silvia Cecchi, vive a Pesaro, città in cui è nata e dove esercita la professione di magistrato. Diplomata in pianoforte, ha collaborato con la rivista letteraria pesarese “Lengua” diretta da Gianni D’Elia. E’ autrice di raccolte poetiche e testi in prosa (racconti, saggi e romanzi brevi). In collaborazione con il compositore Adriano Guarnieri, ha scritto il testo dell’azione lirica “Solo di donna” (2004) ed il testo dell’opera da camera “Processo a Costanza”, che sarà eseguita nella primavera del 2008.

Alberto Berardi, è nato a Fano, dove vive e lavora, nel lontano 1943. Dopo aver dedicato una parte rilevante della sua vita alla politica, intesa nel senso più nobile del termine, si dedica oggi prevalentemente agli studi sui beni culturali e sulle tradizioni popolari, pubblicando saggi e libri. Collabora con “Il Messaggero”. E’ vicepresidente della “Fondazione Gioachino Rossini”, membro dell’”Accademia Raffaello”, consigliere della “Fondazione Cassa di Risparmio di Fano”, Presidente della Federazione Italiana Carnevali.

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La “voce” e il silenzio figurato di Umberto Franci di Floriano De Santi

Nata a dipresso con il secolo che va ormai estinguendosi e cresciuta in bella giunzione con la scuola, l'Istituto del Libro di Urbino, con cui per anni e anni si è identificata, la compagine degli incisori operanti nel centro montefeltresco, o attorno ad esso, ha raggiunto quella vetustà che consente periodizzazioni e varianti, archetipi e moduli tematici. I punti di massima espressione vennero toccali nel periodo tra il 1930-35 e gli anni '50: segnatamente - potremmo dire - con la produzione grafica di Leonardo Castellani. Ma grandi autori anteriori, o collaterali, o autonomamente defilati, quasi percorsi sottotraccia o "a margine" rispetto a quelli che la critica anche recente ha individuato per essenziali, ci sono stati e hanno bene arricchito il quadro generale. Tra questi petits maîtres, o anche maestri rimasti relativamente in ombra, a scambiare con i maggiori (e con i propri allievi) peculiari distillati di universi metaforici, c'è indubitabilmente Umberto Franci, tuttora vivente e attivo a dimostrare e squadernare la perizia acquisita nel firmamento dei tratti xilografici. La peculiarità stessa della tékhne incisoria di Franci, incline sin dall'inizio all'approfondimento della visione piuttosto che al suo rapido esplicarsi, all'ispessimento dell'immagine oltre il dato fenomenico che pure ne è all'origine, faceva sì che la matrice lignea, per la segreta tessitura d'ombra e di luce che consente, sembrasse il luogo più consono al manifestarsi di un simulacro che non ha mai amato il clamore, sebbene la penombra, in cui agevolmente trovare spazio l'attitudine all'ascolto della celata voce dell'anima. La cultura figurativa sul cui sfondo Franci si muove è quella dell'ambiente urbinate dominato dall'impassibile candore illustrativo di Francesco Carnevali e dall'indipendenza linguistica di Mario Delitala (insegnante di xilografìa e direttore, a partire dal 1934, dell'Istituto d'Arte), e dove le ricerche "nuove", l'opera degli artisti che coraggiosamente interpretano - per dirla con Montale - l'inquieto "male di vivere", hanno sì il piglio 6

dell'espressione che cerca un senso nella provvisorietà delle cose, ma perseguono un'immagine filtrata, una Stimmung delicata che, se da un lato suona come un appello ad una non obliata tradizione "classica", dall'altro rivela la volontà di cogliere le occasioni di poesia che si presentano ai margini del fluire del mondo. Si pensi - tanto per restare nell'ambito solamente della provincia di Pesato ed Urbino - ad Orlando Sora, ad Alessandro Gallucci, ad Anselmo Bucci e all'ironica e delicata rêverie di Nino Caffè. Senonchè, Franci non è estraneo a quanto accade nell'arte contemporanea anche in un raggio più vasto che include attenzioni a più istantanei modi di comprensione della vita: la frantumazione dello spazio che annette temporalità molteplici alla cifra figurativa, le disponibilità verso materiali estetici di tipo diverso. Ma in lui, come nelle memorabili pagine de Il sipario ducale di Paolo Volponi, l'attualità dei mezzi e l'evidenza reale delle situazioni di partenza appaiono come arretrate in una lontananza, che per lo scrittore è nostalgia di un'età mitica, per l'artista il tempo della memoria. In effetti, Franci non va considerato per quell'intimistica luce in cui le sue prime prove xilografiche (Costumi calabresi e Donne al mercato, entrambe del '35) indurrebbero a collocarlo, ma la sua appartenenza al clima di un'epoca che spinse la giovane arte italiana alla ricerca della poesia nell'assenza. È così distante la tronfia e monumentale poetica del "Novecento" da fogli quali Lorenzo apparve nel sonno del '34 e Processione ad Amantea dell'anno seguente da indurre a vedere il nostro artista come un solitario compagno di strada di Lorenzo Viani. L'incidere di Franci, nella sua risentita ispirazione aliena da ogni dolcezza, è certo diverso da quello espressionistico di Viani. Ma c'è qualcosa di comune in quel sentire dolorosamente il destino fragile dell'esistenza, in quel mettere a nudo trasalimenti, commozioni ed angosce nello spegnersi o nell'im-

Umberto Franci, Il podere I Cipressi, disegno a china, 1994

Umberto Franci, La base di Montescopio, disegno a china, 1997


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provviso accendersi delle nere inchiostrature, dove la materia non illustra, ma insegne il vero e ne esprime in umida traccia la sostanza: questo Franci ha avvertito nella sua folle corsa verso il silenzio come conseguenza ultima e ultimativa al di là dell'occasionalità del racconto, significato supremo - il silenzio metamorfico - di ogni immagine dopo che questa ha spremuto, al pari di una stella cadente dans l'air, la sua arcana possibilità di emettere, per contrasto con l'atmosfera, luce. I fantasmi che vivranno nella visione di Franci nel dopoguerra sono, del resto, tutti annunciati in xilografie del tipo Attesa del '40 e Soldati di guarnigione del '41. È singolare, ma non stupisce avendo inteso la segretezza tutta interiore del suo affacciarsi all'arte, come l'incisore urbinate nell'intera sua opera sostanzialmente approfondisca e sviluppi sempre i medesimi soggetti: cascinali di periferia (Sosta dei cacciatori del '45), colline silenziose (La selva dei Cappuccini del '46), greti deserti (Le Cesane del '48). Come sottrarsi al potere di seduzione di un leitmotiv sfiorato, toccato, scandagliato, quasi fosse cosa concreta nella sua pienezza fisica e insieme una memoria, un'evocazione, o un'ossessione, se questo motivo-guida è tenuto sul registro di una meditazione alta eppure profondata nei turbamenti più intimi e indicibili, in una sorta di malinconia corrosiva e stordente? Franci in Mietitura del '46 e in Solitudine del '49 manifesta alcune ansie creative fondamentali che rimangono poi alla base della sua intera opera. L'oggetto è sempre un frammento di natura: albero, campo di grano, cespuglio, nuvola. La figura è sostanzialmente, più che un'individualità, una presenza; e come tale soggiace al dubbio sulla sua identità sfuggente, pronta a reincarnarsi in qualunque icona ne perpetui in modo impreveduto il senso di inafferrabile mistero. Nel 1970, dopo il dialogo metafisico (non di pittura metafisica) sull'essere e il nulla che sono i suoi pastelli a cera su cartoncino, in

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quel cosmo si apre, come in una pausa di attesa e di ricarica poetica, un campo trepido, una grande parete di tenera materia, di umide ombre, di foglie, di trascoloranti luci, senza cielo, senza terra, come se l'erba confinasse con le fronde, il prato col bosco, senza confini. Solo in quel punto in cui qualcosa sembra pur mostrare che dall'orizzontalità si passa alla verticalità, sulla fine della baraggia e quindi sul limitare della selva, una macchia nera di segni nervosi incisi da Franci con la sgorbia e il bulino a pettine diventa figura. Mentre nella "stampa d'arte" l'emozione dell'artista ha un tempo, una durata difficilmente determinabili, nei pastelli colorati l'immagine, quella silhouette lontana e senza contorni, e pur piena di verità, si formula unicamente dopo che l'emozione è caduta, e non ne sussiste più che l'eco o il ricordo. Non per nulla di fronte a tavole eseguite a cera quali La cava del '74 e Lo scheggione del '82 invece di avvicinare e precisare le immagini Franci le allontana e le dissolve: le sottrae all'esperienza: le confonde in una vibrazione ritmica e illimitata; ma nello stesso tempo le spoglia di ogni analogia naturalistica, le propone come pure immagini o sia pur soltanto come possibilità di immagini, in una distanza remota e irraggiungibile, dove nessuna emozione è più possibile e dove non potrà più sussistere una distinzione tra la "veduta" e la "visione", né tra una realtà esterna ed una realtà interna all'artista. Nondimeno, in taluni esempi xilografici degli ultimi trent'anni - da Campo chiaro del '77 a Viale dei quattro venti dell'87, da Rupe dei Faeti del '77 a Nevicata del '93 -, quel sentimento è portato da Franci ancora più avanti. In essi è l'horror vacui a scandire i ritmi e a tenere le fila di un doppio svolgimento semantico: da un lato infatti, segno dopo segno, viene percorsa la via di una tessitura che si fa struttura; dall'altro la frequenza dei segni, il loro infittirsi o diradarsi, è direttamente correlato agli effetti timbrici del bianco e nero, alla stimolazione retinica e alla fluttuazione percettiva che ne consegue.

Umberto Franci, Congressisti, disegno a china, 1965

È uno spazio che si dilata al di là dell'orizzonte, si divincola insomma dall'hic et nunc e tende a una dimensione senza più accidentalità limitative, corre all'infinito, come un cielo; e in questa inedita intuizione i brevi fenomeni di crepuscolo cedono a una luce verticale che, rotti gli argini, prorompe nella scena come una simbolica alluvione esistenziale.

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Kéramos 2009 - La ceramica delle associazioni della Provincia di Pesaro e Urbino di Emanuela Mencarelli

Nelle Sale del Castellare del Palazzo Ducale di Urbino si è rinnovato il terzo appuntamento con Kéramos. Dal 22 agosto al 9 settembre 2009, l'evento ha proposto un percorso espositivo dedicato alla ceramica contemporanea e tradizionale realizzata dalle associazioni della Provincia di Pesaro e Urbino. Tra le importanti iniziative che negli ultimi anni stanno sostenendo nella provincia la rinascita di una nuova stagione dell'arte ceramica, Kéramos porta in primo piano l'operato silenzioso, ma ormai maturo per essere espresso, del sistema associativo presente nel territorio. L'intento è far conoscere e valorizzare il lavoro di una folta e non arrendevole comunità di artisti, artigiani o semplici amatori della ceramica e di tutto ciò che ruota intorno a questa forma di espressione, che ha acquistato nel tempo un importante significato. Come sostengono Giovanna Ucci e Oliviero Gessaroli che hanno dato avvio a questo progetto nel 2005, dare spazio a questa vitale realtà offre una concreta possibilità di non far svanire nel nulla, soffocata dalla mancanza di adeguate politiche, una tradizione nata negli anni d'oro del Rinascimento e continuata nel lavoro di grandi maestri contemporanei. Non dimenticare è il senso della prossima meta che il progetto vorrebbe raggiungere, e che speriamo trovi un positivo consenso e l'appoggio nelle istituzioni: la fondazione di un premio per i giovani nella prossima edizione del 2011, che avvicini le nuove generazioni a questa materia sempre aperta ad infinite determinazioni. La ceramica è un impasto primordiale di semplice acqua e terra alchemizzate dal fuoco, dal carattere indocile, ma duttile e soprattutto capace di registrare fedelmente l'impronta umana e di rigenerare continuamente la ricerca artistica. Seguire il filo rosso dell'argilla attraverso le rassegne Kéramos, permette di depositare le nuove esperienze, contribuisce a creare un nuovo linguaggio della ceramica saldato alla contemporaneità e all'identità territoriale e, contemporaneamente, fa accrescere il valore della terra lavorata ad arte nel territorio del Montefeltro. Con questo appuntamento biennale, che è diventato ormai un punto di riferimento e che continua a riscuotere un ampio successo di pubblico, le associazioni della ceramica della Provincia di Pesaro e Urbino si sono fatte interpreti di un'esperienza collettiva dove i principi della condivisione e della mutualità, basi aggreganti di ogni realtà associativa, esaltano la ricerca individuale cresciuta negli spazi personali o nei tanti labo-

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ratori creatisi. Il processo di creazione di questo evento, oltre ad aprire un'occasione di confronto con le radici della ricca storia del passato e con una delle attività vocazionali del territorio, di fatto dà un impulso concreto ad innalzare quella che viene chiamata 'intelligenza collettiva', che si nutre anche di iniziative organizzate utilizzando uno stile bottom up, dal basso verso l'alto, che stimolano a pensare creativamente e a sentirsi coinvolti nello sviluppo di un progetto che accresce la qualità della vita comune. Nel percorso espositivo, costellato di tecniche inedite e di sperimentazioni che contaminano la ceramica con il retroterra di altri linguaggi come l'incisione, il mosaico o la fotografia, si ritrova la storia di una tecnica millenaria con i suoi 'abiti', i materiali e le forme, e le sue 'famiglie' di stile, le tecniche. Abiti e stili che hanno saputo cogliere le esperienze delle tecniche provenienti dalle tradizioni di culture lontane come quella della ceramica raku o appartenenti al nostro passato ma cadute in disuso, vedi il recupero delle terre sigillate e, nondimeno, delle innovazioni raggiunte nella ricerca dei materiali e delle tecniche. Ma, soprattutto, nelle opere presentate si racconta il viaggio dell'intelligenza delle mani che rielabora, con il concorso della ragione e dei sensi, i sentimenti, le emozioni e le avventure individuali che determinano uno sconvolgimento o un sereno modificarsi dell'animo. Così hanno preso voce sia la ricerca tradizionale che non fa sopire l'antico sogno della bellezza attraverso la rilettura dei registri stilistici classici, sia l'espressione di carattere sperimentale che più spesso interpreta lo sradicamento ed i rumori di fondo della vita del nostro tempo. I partecipanti, che provengono da diverse esperienze, hanno trovato nella lavorazione di questa antica materia un terreno di incontro dal quale partire verso una ricerca personalissima, e spesso inconsueta o inedita, che privilegia il rapporto tra l'esperienza sensibile vissuta e l'astrazione, guidati dal convincimento che la bellezza e la condivisione possono essere dei buoni 'medicamenti' per rinsaldare i tessuti connettivi umani e sociali attraverso l'espressione artistica. Negli ultimi decenni, con la diffusione delle nuove tecnologie visuali e comunicative, si vive invasi di una miriade di oggetti e di figure virtuali che non lasciano il tempo per costruire la minima esperienza o per dare un valore affettivo al vissuto. Bisognerebbe più spesso ricordare che in un pugno di terra c'è tutta la storia dell'uomo.

Catalogo della mostra Kéramos 3a edizione Quattroventi, 2009

E' vil materia il fango Io t'el consento! Ma se i vasi d'Urbino tu vedrai Io non ho dubbio alcun che tu dirai Pregiato esser fango e vil l'argento. Bernardino Baldi (1533-1617)

Questa semplice affermazione contiene un invito ineludibile a stabilire un rapporto diverso tra noi e il mondo in cui viviamo. Seguiamo allora il suggerimento della poetessa Mariangela Gualtieri, di tenere sempre due pugni in tasca di terra. Perché la terra è capace di diventare tutto, è una polvere magica.

Emanuela Mencarelli, vive a Roma. Per lavoro si occupa di ricerca nell'ambito della formazione e dell'occupazione in campo ambientale. Dal 2007 fa parte dell'associazione L'Arte in Arte. Sperimenta il suo linguaggio espressivo attraverso la ceramica, la fotografia, l'incisione e la scrittura.


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Attività culturali e artistiche dell'Associazione L'Arte in Arte Urbino - Palazzo Ducale, "Kéramos" 3a edizione, 2009

Emanuela Mencarelli “Mnemosyne” 2009

Paola Malato “Trittico” 2009

Angela Torcivia “Reportage” 2009

Silvestro Castellani “Personalità umana” 2009 9


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Urbino - Collegio Raffaello, “Gli artisti leggono la scienza”, 2008

Saltara (PU) – Museo del Balì “Gli artisti leggono la scienza”, 2009

George Ro

Guerrino Bonalana

“Albert” 2009

“Inquadrato” 2009

Nazzarena Bompadre “Uccello di fuoco” 2007

Susanna Galeotti “Achille, Medusa, Ettore, Enea” 2008 10


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Vigonza (PD), Castello dei Da Peraga "Espressioni d'arte... al Castello...", 2007

Fabrizio Battesta “Cappuccetto rosso” 2009

Oliviero Gessaroli “Lapillo” 2009

Regine Lueg “Carro blu” 2009

Laura Scopa “Istantanea” 2008

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Urbino – “Incontri di ceramica sperimentale”, cottura con forno a carta, 2006

Gianfranco Ceccaroli “Crocefissione” 2009

Anita Aureli “Paesaggio” 2009

Guido Vanni “Nello studio oltre la rupe” 2009

Fulvio Paci “Cavaliere in parata” 2010 12


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Il laboratorio critico di Gualtiero De Santi di Maria Lenti

Urbino: poesia, incisione, arte. Voci plurime, un pensiero vivo, oggi e nel passato. A fianco, l'attività critico-saggistica (letteraria, artistica, storica), nata qui o qui sviluppatasi, con apporti e confronti con la cultura italiana e internazionale. Due nomi: Carlo Bo, critico letterario e non solo; Paolo Volponi e i suoi scritti d'arte, o di cultura, di politica, segnano ancora il presente. Sugli scritti dei due intellettuali, che hanno connotato ambiti e risvolti della vita e delle lettere molto e ben al di là delle mura cittadine, sulla loro intensità, si è formata una generazione di giovani studiosi, studiosi che hanno poi preso una loro strada. Come Gualtiero De Santi. Appare fin dall'inizio, in De Santi, una molteplicità di interessi. Ripercorrendone la bibliografia, lo si trova a muoversi tra poesia, narrativa, arte, cinema, teatro. Né va taciuta una sua singolare traduzione di una lirica di Léopold Sédar Senghor, "Estate, estate splendida", uscita su "Ad libitum", primi anni sessanta del novecento. Vi si muove de visu: libri, film, dischi, quadri e incisioni, teatro sono suoi interlocutori (e argomento di frequentazioni amicali quotidiane). Propende per lo scrittore o il poeta, il regista, l'artista consapevole dei propri mezzi e dalla salda bibliografia per la sua predilezione (oltre la formazione universitaria) di discussione e raffronti. E' attento, però, anche all'esordiente, allo sperimentatore, al poeta alla prima prova: la sua fiducia ricorda il Carlo Bo prefatore di chi gli si rivolgeva per averne giudizi, o, rovesciando il cono, il Pier Paolo Pasolini dei "maestri in ombra". Due Castori, su Louis Malle e Sandro Penna, rispettivamente del 1977 e del 1982, i primi suoi studi in volume. Nel 1979 cura Rime d'encomio e di morte dello scrittore cinquecentesco Dionigi Atanagi, e, prima ancora, si rivolge a opere minori di Manzoni, Nievo, al Collodi giornalista (saggi raccolti, con altri di vario tenore, in L'angelo della storia, 1988). Del 1980 la cura per Einaudi di Poesie e poemetti 1946-66 di Paolo Volponi. "Paragone" ospita il suo primo saggio (1983) su Rebora, autore, in anni vicini a noi, di molti suoi studi confluiti nei "Nuovi Quaderni Reboriani" (Marsilio) da lui diretti. Si ferma, quindi, su poeti (poi in Lo spazio della dispersione, 1988, e in I sentieri della notte, 1996) sia della sua generazione (Bellezza, Cavalli, De Angelis, Piersanti, Scalise, Valduga, ecc.), sia già "maestri" come Caproni e Volponi, o il Sanguineti di Scartabello. A scritti su Bruno Fonzi, su Leonardo

Castellani e Osvaldo Licini poeti, su L'antica moneta di Volponi, (edizione del 2000), segue, inaspettato, Teresa de Jesus ed altri mistici, nel 2002. Anno in cui spicca Ritratto di Zavattini scrittore: all'autore di Suzzara De Santi restituisce una tutta sua vitalità accostandolo a Pirandello e Pasolini, ai surrealisti, a Breton, a De la Serna, a Kafka e Brecht. E' poi la volta della "scoperta" di Marino Piazzolla "francese" (2006), di La poesia della Resistenza (2009), Tuttora in corso la ricognizione, iniziata nel 1994, dei dialettali romagnoli fermati in "Il parlar franco" da lui fondata e diretta. Nel cinema, dopo Malle, Pasolini (1978 e, in seguito, diverse riviste), Cinema e poesia negli anni '80 (1985), Lumet (1987), De Sica (2003), Lizzani (2007), insieme a profili di numerosi registi, film e cinematografie, europei ed extraeuropei, De Santi si distende in una biografia di Maria Mercader (2007). "Prende" l'attrice, donna rivoluzionaria e anarchica, dalla natia Catalogna e la segue attraverso i film girati in Francia, poi in Italia - fino al ritiro seguito al rapporto con De Sica e alla nascita dei due figli - e alle ultime superbe interpretazioni (filmiche, con Ferreri soprattutto; teatrale - Savannah Bay - di Hermann Bonnin). Dalle pellicole e dalle pièces estende l'analisi a costumi, musiche, scenografia: per lui e nella migliore critica del settore, l'opera è la somma di più componenti, coordinate, come gli attori, dal regista. I particolari e l'intero: ossia, struttura ma non strutturalismo. E, nella libertà della libera immaginazione, della scrittura che si determina facendosi (né, in questo, può venir meno), della fantasia tesa a scuotere parti e protagonisti, Gualtiero De Santi, immerso nei suoi tempi, negli autori guarderà come diano "forma" o "informino" tali tempi; se, in questi, aprano finestre o confermino l'esistente; se esprimano conflittualità, di classe o soggettiva, la conflittualità che innesca proiezioni al di fuori di un ritorno del perduto o del refoulé. Così come in Manzoni, in Nievo, in Collodi, in De Amicis ricerca la loro coerenza "civile". Negli anni, in De Santi, tuttavia, qualcosa è mutato. Il pensiero "filato", ricco di pericopi e incisi, di dati, di riferimenti, si è fluidificato. Il critico da una decina di anni filtra le conoscenze nelle sensazioni. E non si nega il sorriso. Che l'oggi (o ieri) soffra, secondo lo studioso, di assenze, non significa soltanto essere contornati di debiti e da opacità: semmai, cuneo di una riflessione sul presente e sul passato, la

"sofferenza" potrebbe spingere di più la ricerca, l'orizzontalità potrebbe volgersi in verticalità, la cronaca potrebbe guardare di più alla storia, il dettaglio slargarsi in creatività, la critica, secondo l'etimo, distinguere. Non è venuto meno, in Gualtiero De Santi, il rigore passa, nella sua scrittura, il calore dell'esistenza, qualunque ne sia la dinamica: le recensioni, i saggi, gli approfondimenti su riviste e pubblicazioni collettanee, oltre i volumi citati, ne dicono colori e suoni.

Maria Lenti è nata a Urbino. Saggista (letteratura e arte, in volumi collettanei e in riviste), poeta, ha pubblicato le raccolte: Un altro tempo (1972), Albero e foglia (1982), Sinopia per appunti (1997), Versi alfabetici (2004), Il gatto nell’armadio (2005), Cambio di luci (2009). È autrice anche di racconti, Passi variati (2003), Due ritmi una voce (2005). Altri racconti, in via di uscita. Recente il suo Amore del cinema e della resistenza (2009).

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Disavventure di un aspirante scrittore di Alberto Calavalle

C'era stato un periodo molto prolifico nella sua vita. Scriveva con disinvoltura, come se qualcuno gli dettasse dentro e gli spingesse la mano sul foglio. Sono stati giorni felici, ma poi le cose sono cambiate. Tra impegni inattesi e grattacapi di vario genere si era deconcentrato e non riusciva a trovare un po' di tempo per un raccoglimento produttivo di qualcosa. Per non assistere a un malinconico tramonto della professione, si era imposto di dedicare alla scrittura almeno due ore al giorno, al mattino presto, quando la mente è più sgombra da problemi che si accumulano via via durante la giornata. Ma si era accorto che scrivere a un'ora fissa, come se si trattasse di un lavoro impiegatizio, non si può. L'ispirazione non veniva su comando. E allora? Non rimaneva che aspettare. Una notte, tra un dormiveglia e un altro, l'ispirazione arrivò improvvisa così bene e senza che l'avesse chiesta, con quella forza che lo spingeva a tradurre nel foglio quello che gli correva così bene nella fantasia. Ma la carta dov'era? E la penna? Decise di rinviare la scrittura al mattino seguente. Ma al mattino, davanti al foglio bianco, la penna rimase sospesa in aria, perché nella mente non era rimasto nulla di quell'ispirazione improvvisa. Memore del "carpe diem" degli studi giovanili, si convinse che bisognava cogliere l'attimo. Così si dotò di carta e penna a portata di mano sul comodino. Quando, la notte successiva la musa ispiratrice tornò improvvisa, subito pensò di non lasciare che si perdesse nel vuoto quanto gli veniva dettato dentro. Ma bisognava accendere la luce e mentre il respiro leggero di sua moglie che gli dormiva accanto, si spegneva in un lamento e in una protesta: "Ma io domattina devo andare a lavorare!" non gli restava altro che comprendere le altrui esigenze e tornare al buio più fitto. Ma era talmente forte e chiaro il messaggio che gli ballava in testa, che la mano, come spinta da un comando involontario, prese a muoversi e la penna a tracciare sulla carta parole, parole, periodi, frasi in un intercalare, avanzare, scorrere frenetico. Presto una pagina si riempie e il foglio gira sul retro con un fruscio leggero, che però non sfugge a sua moglie che scende ancora in una protesta, ma più remissiva: "Ma cosa fai?" Lui non risponde neppure, mentre la mano si ferma in un momento di

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deconcentrazione, per riprendere a muoversi sempre più veloce su altre parole, periodi, frasi. Presto, tre fogli sono pieni di scrittura su entrambe le facciate ed egli riprende a dormire soddisfatto, perché domani potrà tradurre tutto nella memoria del suo computer. Ma! Al mattino l'aspirante scrittore resta a bocca aperta davanti a interi fogli pieni di geroglifici, di righe sovrapposte, di frasi accavallate, di parole illeggibili. Mostra a sua moglie il risultato disastroso del suo notturno lavoro, come a dire che la colpa è sua se tanta fatica non ha prodotto nulla. Ma lei non è disposta a recitare il mea culpa. Anzi esce in un'esclamazione incoraggiante: "Ma è un bellissimo quadro astratto!" Poi dopo un momento di silenzio: "Per completarlo basterebbe qualche pennellata di sghimbescio e sarebbe un capolavoro!". E giù una mezza risata ironica. Lui resta muto come un pesce e la moglie capisce che deve farsi perdonare. Il giorno dopo lei torna con un pacchetto: "Un regalo per te". Lui scarta con evidente frenesia e curiosità e rigira tra le mani il piccolo oggetto che è comparso. "E' una piccola lampada a batteria da applicare col morsetto al tuo blocknotes" dice lei. Egli abbozza un sorriso, intuendo che la lampada, sebbene piccola sia sufficiente a illuminare la pagina, salvaguardando il sacrosanto diritto della consorte a continuare il suo riposo. Torna a guardare la moglie con un sorriso riconoscente, pronto a sperimentare l'originale invenzione la notte successiva, agganciando subito la lampada al notes in modo tale che sia pronta all'uso. Ma quella notte non si prepara nessuna veglia, perché il sonno continua profondo fino al mattino e così le notti successive, mentre la lampada, la penna e il notes restano lì sul comodino inutilmente a portata di mano. Che la stagione primaverile gli concili proprio il sonno? Non gli resta che aspettare. E una notte, dopo un dormiveglia di un tempo indeterminato, giunge un'idea fantastica, che egli decide di tradurre subito sulla carta a portata di mano. Ma la mano tasta a vuoto sul comodino dove aveva posato il notes. E neppure la penna e neanche la piccola lampada si riesce a trovare. Egli si allunga allora in uno scricchiolio infinito del letto, cercando di arrivare un po' più lontano. Ma la mano

Fulvio Paci, particolare schizzi di amanti e cavalli acquaforte-acquatinta


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urta il bicchiere dell'acqua che cade allagando mezzo pavimento, mentre il bicchiere stesso si perde in mille pezzi e in un botto che nel silenzio della notte diventa un boato che rimbalza di parete in parete, di stanza in stanza, da un piano all'altro, facendo sobbalzare la moglie e chissà quanti altri: "Cos'hai combinato? " Quando le spiega, lei esce in un commento compassionevole: "Ma non trovi mai pace?" Lui approfitta del momento per chiedere: "Ma il notes dov'è?" "L'ho messo nel cassetto. In un mese non hai scritto nulla!" Lui apre il cassetto, ma la moglie gli suggerisce: "Dovresti raccogliere i cocci, se domattina non vuoi tagliarti un piede". Poi un velato rimprovero: "Avrai svegliato mezzo condominio". Lui si sente in colpa e per farsi perdonare da lei, non solo raccoglie i cocci, ma prende il moccio e il secchio e con diligenza asciuga pure il pavimento. Quindi si corica soddisfatto per aver fatto il suo dovere. Sul suo petto ha posato il notes con la piccola lampada accesa. La mano e la penna sono pronte. Ma compare improvvisa una piacevole distrazione. L'effetto della mano sospesa sul notes è sorprendentemente fantastico! L'ombra della mano si proietta sul soffitto della camera, come l'ala di un gabbiano si ferma nell'azzurro del cielo. E' tutto troppo bello per pensare ad altro. Un quadro di vera poesia. Ora occorre tradurre sulla carta queste sensazioni ed emozioni. Purtroppo nei meandri del cervello dell'aspirante si determina una confusione tra l'ispirazione del gabbiano e la precedente. Insieme si intrecciano, si confondono, si sovrappongono. Il risultato è qualcosa di comico: gabbiani che volano nell'azzurro del soffitto nero di una sala cinematografica dove si sta proiettando il film: "Uomini e topi". L'aspirante scrittore resta sconcertato. Non riesce a scrivere più nulla. La mano resta sospesa, mentre gli occhi piano piano si chiudono. Resta solo la piccola lampada accesa a vegliare su di lui. L'appuntamento con la scrittura sarà per la prossima notte. Ma la notte successiva quando le emozioni arrivano e le parole anche, la piccola lampada non si accende. Le pile si erano esaurite. Il giorno dopo, la notizia delle disav-

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venture notturne dell'aspirante diventano di dominio pubblico, perché la moglie, interpellata dai condomini su quel rumore a notte fonda, deve pur spiegare l'accaduto a tutti quanti. Quando lui esce in giardino, i commenti, le pacche di incoraggiamento e le risate si sprecano. Una coinquilina che puntualmente legge i suoi scritti, con un sorriso colmo di premurosa ironia, lo consiglia di dotarsi di una più efficiente lampada da minatore, da fissare alla fronte prima di addormentarsi. Tutti ridono da sganasciarsi. Lui resta muto. La figlia della coinquilina che condivide con la madre l'interesse per i suoi scritti, temendo che egli possa essersi offeso e che lei debba privarsi in futuro di piacevoli letture, promette di regalargli la lampada dei piccoli esploratori che usava quando frequentava gli Scouts. E lo guarda con tenera comprensione. Si emoziona anche lui. Intanto piovono altre risate, ma più contenute e più comprensive, come di approvazione, mentre si coglie negli occhi di tutti un segno di velato incoraggiamento. "Ad maiora!" lo esortano infine tutti insieme in un coro allegro e festoso.

Susanna Galeotti, Bird, penna a sfera su carta

Alberto Calavalle, è nato e risiede in Urbino. Scrive su alcuni periodici, è redattore della rivista Vivarte ed è impegnato nel sociale. Ha pubblicato una plaquette di tre poesie con acquaforte di Adriano Calavalle (1990); il libro di racconti Il tempo dei cavalli (Rimini, Guaraldi 1993), ristampato in edizione d'arte dell' Isa (Scuola del Libro di Urbino, 1997); il romanzo Sulla frontiera della Vertojbica (Teramo, Editoriale Eco, 1997); il libro di poesie Infinito passato (Urbino, Quattroventi, 2000), ristampato in edizione d'arte dell'Isa (Scuola del Libro di Urbino, 2008); il libro di saggi e racconti brevi Finestre sulla città (Urbino, 2003); il libro di racconti Racconti urbinati (Urbino, Quattroventi, 2007); il libro di saggi e racconti brevi Finestre sulla città e dintorni (Urbino Argalia Editore, 2009).

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De Divina Proportione. Dalla produzione musicale all'evento teatrale di David Monacchi e Simone Sorini

In occasione della Mostra "Raffaello e Urbino" (4 aprile - 12 luglio 2009) si sono svolte a Urbino numerose manifestazioni artistiche e musicali. Tra esse ha destato particolare interesse la prima dello spettacolo De Divina Proportione che, partendo dall'omonimo lavoro di Luca Pacioli, ha saputo raccogliere in una felice fusione varie discipline artistiche e scientifiche: musica, danza, video-art, matematica. In sintesi presentiamo le idee che ci hanno guidato nella realizzazione dello spettacolo. Filosofia dello spettacolo Attraverso le molteplici fasi di realizzazione di questa nuova opera, si intende cercare il punto d'incontro tra la civiltà umanistica quattrocentesca e la contemporaneità, partendo dalla musica intesa come dottrina del "quadrivium", arte liberale per eccellenza strettamente imparentata con la matematica, la geometria e l'astronomia. Sono proprio questi aspetti razionali e numerici della musica ad ispirare tale obiettivo, gli stessi aspetti che nell'antichità la ponevano come "elevatissima scienza" tra le scienze esatte. L'intento è quello di rielaborare con le tecnologie contemporanee le complesse strutture della musica sacra del primo '400. A tale scopo si utilizzeranno le più ardite tecniche compositive, proprie della musica elettroacustica e della computer-music con elementi di paesaggio sonoro e musica concreta. Sarà necessario un punto di partenza, già individuato in un manoscritto di musica sacra appartenuto alla biblioteca dei duchi di Urbino, e soprattutto un unico e sovrano parametro sul quale si baserà l'intera interpretazione, la costruzione dell'edificio sonoro e la sperimentazione musicale: tale parametro è individuato nella sezione aurea e nella antica dottrina dei cinque solidi platonici, discussa nel trattato rinascimentale "De Divina Proportione" di Luca Pacioli. Il pubblico sarà di fronte ad un palcoscenico con 7 musicisti, 2 danzatori, elementi scenici e proiezioni 3D su grande tulle, immerso in uno spazio tridimensionale di amplificazione e riproduzione del suono costituito da un cubo di 8+2 altoparlanti inscritto nel teatro. Il suono live e quello di sintesi verranno visualizzati in tempo reale, su una grande superficie che fungerà da partitura e traccia dinamica della narrazione musicale, dando così al pubblico la possibilità di entrare nell'articolazione sonora dello spettacolo. In tal senso l'opera è intesa come sintesi ed unione di diversi linguaggi che evocano quello spirito sincretico di

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"arte e scientia" proprio delle istanze del 'proto-rinascimento' italiano. Cenni storici Il "De Divina Proportione", scritto e raccolto in fogli manoscritti nel 1498 a Milano (l'edizione a stampa si avrà soltanto nel 1509 ad opera di stampatori veneziani), è un testo della fine del Quattrocento, opera di Luca Pacioli (1445-1517) frate francescano docente e matematico di Borgo San Sepolcro. Pacioli, che ebbe come maestro il concittadino Piero della Francesca, eccellente matematico e pittore, con continui rimandi ai testi monumentali di Euclide, Vitruvio e Platone, e con un suo particolarissimo modo di porre le questioni di profondissima e "segretissima" scienza in lingua volgare, dunque accessibile ai più, seppe diffondere i precetti della geometria, la meditazione sulle alte cose della matematica, facendo percepire il mondo, la natura, la vita stessa, come una grande occulta organizzazione di entità numeriche, manifestazione di un ordine primigenio. Questi scienziati sentirono quindi la necessità di determinare un codice che avrebbe permesso loro di decifrare il mondo visibile e quello invisibile, un canone con cui avrebbero saputo dar peso e misura a tutto ciò che fosse Uomo, Cosmo, Dio e Natura. "Dio è il grande geometra" scrive Platone, "razionalizza sempre e il suo essere supremo si rivela solo attraverso i numeri che di lui sono la più chiara manifestazione". Inoltre, come dice il libro biblico della Sapienza, Dio nel suo imperscrutabile disegno ha creato il mondo "secondo numero, peso e misura", un versetto che Pacioli cita volentieri. Il mondo stesso è costituito secondo le figure geometriche dei poliedri regolari: corpi solidi animati da proporzioni costanti tra gli spigoli e il diametro delle sfere che li racchiudono. Tra le proporzioni quella privilegiata è la "divina proportione", ossia quella che chiamiamo proporzione continua, caratterizzata dall'uguaglianza dei termini medi. Il frate Pacioli tenta una riorganizzazione del pensiero filosofico e matematico antico. Il suo libro è composto di concetti teologici e soprattutto matematici, in quanto i segmenti della sezione aurea stanno tra loro in "divina proportione". Sempre la "divina proportione" è alla base della costruzione del pentagono e del dodecaedro, il poliedro regolare composto da 12 pentagoni. Qui interviene la cosmologia platonica perché il dodecaedro, il più nobile dei 5 poliedri regolari, è la forma delle particelle che compongono quell'etere cristallino, o quintessenza,

Frontespizio del programma di sala

che riempie tutto l'universo: il mondo sta insieme per la "divina proportione". Oltrepassando Platone, frate Luca insiste spesso nel mostrare come la "divina proportione" abbia proprietà in tutto simili agli attributi del Cristo: come Dio si incarna diventando uomo e restando Dio, così la proporzione "divina" possiede proprietà uniche; come la Trinità è uno in tre persone, così la proporzione aurea è unica in tre termini; una proporzione che come Dio è invariabile, ma può estendersi all'infinito. Dalla città degli Sforza, la Milano di Ludovico il Moro, frate Luca, ormai vecchio, assieme all'amico Leonardo da Vinci, comincia a codificare la sua ultima opera, la più ardita. Questo lavoro, che gli costerà anni di fatiche, sarà destinato a diventare una sorta di ponte, una mediazione del pensiero filosofico e speculativo antico filtrato da una mente umanistica. Leonardo, che prima di incontrare Pacioli nulla


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sapeva di geometria, lo elesse a suo maestro e curò la parte grafica dell'immortale libro. Cenni compositivi Tre parti distinte dello spettacolo, proporzionate temporalmente in 'sezione aurea', realizzano un percorso allegorico che, a partire dai dogmi pitagorici, si snoda attraverso frammenti di musica antica e di improvvisazione strumentale, per giungere all'esecuzione di una delle 'cattedrali' della polifonia quattrocentesca, il mottetto isoritmico Nuper Rosarum Flores di Guillaume Dufay, 'icona' delle analogie tra musica, numero e architettura. A livello della composizione elettroacustica, la prima parte è realizzata unicamente con sinusoidi sommate in 'spettri sonori geometrici', le cui componenti semplici stanno in rapporto di quinta, quarta, terza maggiore e sezione aurea. I numeri che costruiscono i 5 poliedri (numero di facce e forma della figura piana, vertici, spigoli, aree delle circonferenze inscritte e circoscritte) sono stati utilizzati per una trasposizione sonora in veri e propri 'poliedri elettroacustici', che si potranno ascoltare e visualizzare nel sonogramma, lo strumento di analisi del suono che visualizzerà le frequenze, ovvero le altezze dei vari suoni, sull'asse verticale, e gli eventi sonori, ovvero il tempo, sull'asse orizzontale a partire dall'estrema destra dello spazio di proiezione. Si noti, ad esempio, il numero di righe orizzontali - suoni puri componenti lo spettro - che denota il numero di facce poliedriche, e l'intervallo musicale tra queste righe che corrisponde alla forma della figura piana di detta faccia - ad esempio tetraedro di facce triangolari = quattro righe in rapporto di quinta, esaedro di facce quadrate = sei suoni in rapporto di quarta, ecc. Mentre nella prima parte i suoni utilizzati sono unicamente suoni puri sinusoidali, ovvero suoni non presenti in natura ma solamente producibili con mezzi elettronici, la seconda parte è interamente costituita di suoni naturali, molto complessi dal punto di vista timbrico, composti liberamente per una congiunzione con le improvvisazioni strumentali dal vivo. La terza parte invece è essenzialmente una elaborazione elettronica del materiale compositivo del mottetto di Guillaume Dufay, una sublimazione del pensiero musicale rinascimentale. Livelli espressivi 1. La musica (live e riprodotta con sistema 3D): - musica vocale, brani sacri e

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profani del '400 dal vivo (da 1 a 5 voci di polifonia) - musica strumentale, interventi improvvisativi di liuto, flauto bansuri e salterio. - composizioni elettroacustiche realizzate con software originali per la creazione dei 'poliedri elettroacustici', software per la modellazione del suono live e del suono in generale. - suoni ambientali registrati unicamente nelle aree limitrofe ad Urbino (luogo dove anche la musica del Rinascimento è stata composta) 2. Il video (proiezione su grande tulle antistante e schermo retrostante): - 5 poliedri realizzati in 3D con elaborazioni dinamiche - elaborazione di disegni e pitture - del Rinascimento - analisi sonografiche della scena sonora live, proiettate in tempo reale 3. La coreografia (2 danzatori): - interazione con i poliedri virtuali - interazione con i musicisti - azione sull'intero spazio teatrale attraverso sticks e fili trasparenti 4. Il testo (2 voci fuori campo): - voce femminile - lettura parti storico/filosofiche dell'opera De Divina Proportione - voce maschile - lettura parti matematico/geometriche dell'opera De Divina Proportione Programma di sala I - Numero e Suono - 40.00 min. Mondo Metafisico - Rapporti e intervalli - La Divina Proportione ovvero la 'sezione aurea' - Poliedri Elettroacustici - Ordinarium Missae 1. Tetraedro - KYRIE 2. Esaedro - GLORIA 3. Ottaedro - CREDO 4. Icosaedro - SANCTUS 5. Dodecaedro - AGNUS DEI Iscrizione dei poliedri nella sfera II - Elementi Naturali - 24.44 min. Mondo Fisico 1. Aria (ottaedro) - flauto 2. Acqua (icosaedro) - liuto 3. Terra (esaedro) - salterio 4. Fuoco (tetraedro) - voce 5. Quintessenza (dodecaedro) elettronica III - Grandis Templum Machinae 15.16 min. Uomo e Misura Nuper Rosarum Flores di Guillaume Dufay

Copertina del dvd dello spettacolo

(mottetto isoritmico diviso in 7 parti) Intro - Esposizione ed elaborazione del tenor 1. Tempus Perfectum Prolatio major (misura di 6 movimenti) 2. Elaborazione elettroacustica di color e talee 3. Tempus Imperfectum Prolatio major (misura di 4 movimenti) 4. Elaborazione elettroacustica di color e talee 5. Tempus Imperfectum Prolatio minor (misura di 2 movimenti) 6. Elaborazione elettroacustica di color e talee 7. Tempus perfectum Prolatio minor (misura di 3 movimenti) Conclusione - Amen

David Monacchi (flauto, regia del suono) Con il contributo straordinario di: Piergiorgio Odifreddi e Lucia Ferrati (voci recitanti) Coordinamento scenico e light design: Andrea Maria Mazza Elaborazione Video: Pierluigi Alessandrini Area promozionale e commerciale: Claudia Viviani Software originali utilizzati per la generazione elettroacustica: Tonharmonium di David Monacchi e Aaron McLeeran, Stria di Eugenio Giordani www.de-divina-proportione.it www.bellagerit.it

Spettacolo di: Simone Sorini e David Monacchi Con la partecipazione di: Damien Fournier e Giota Kallimani (danza contemporanea) Mauro Morini e Andrea Angeloni (tromboni) Enea Sorini (salterio, baritono) Mauro Borgioni (basso) Angelo Bonazzoli (controtenore) Simone Sorini (tenore, liuto)

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L'Italia di Pier Paolo Pasolini di Andrea Carnevali

Gli articoli ed i documenti di Pier Paolo Pasolini, raccolti in Scritti corsari (citiamo dall'edizione Garzanti Elefante, Milano 1990), sono testi che rivelano ancora una volta l'attenzione del grande scrittore per il nostro paese, testi nei quali insieme si indicano e ragionano questioni e contraddizioni che nessuno vedeva e considerava in quell'inizio anni '70, molto vicine alla Scuola di Francoforte. Abbiamo in questi interventi il Pasolini analista della degradazione antropologica italiana e dell'apocalisse futura. Documenti in questo senso che entrano a fare parte di una linea positiva di ricerca, nonostante vi venga perseguita una aperta linea critica nei riguardi dell'apparente progresso ottenuto dall'Italia e dai giovani del '68. In quel periodo - alla metà degli anni Sessanta - si entrava in un vortice di cambiamenti, che tuttavia non modificavano radicalmente l'assetto istituzionale del paese. L'intervista rilasciata a Massimo Fini vedi "L'Europeo" del 26 dicembre 1974 - chiede indipendenza e libertà dall'intolleranza che si era venuta a creare (dopo la rivoluzione del '68) e dall' antirivoluzione1. Gli Scritti corsari rifiutano la libertà raggiunta, per ritornare a discutere su un'omologazione di comportamenti che aveva prodotto una forte ondata di violenza. Che - in questo estremo Pasolini - si traduce in opposizione al pensiero dominante marxista, per riaffermare e guardare direttamente senza schemi la nuova realtà sociale. È una Italia chiusa e servile quella che Pasolini stenta a riconoscere, dando ancora una volta conferma dell'appiattimento generale e dello spirito conformista diffusosi nel paese. Facile è pensare - in conseguenza ai grandi promiscui agglomerati delle città ed alla circolazione di beni nel mercato culturale - in che modo il rinnovamento avesse stimolato le nuove forme di pensiero intellettuale. L'Italia tra l'altro aveva cercato di aprirsi verso i mercati internazionali, riportando scarse risposte e rimanendo nel proprio ristagno. L'arte ne aveva migliorato l'aspetto estetico nelle città, ma la società più produttiva non ne era stata appena toccata. Gli Scritti Corsari muovono da una dimensione privata per entrare nella sfera pubblica, con uno spirito polemico di ricerca di verità e giustizia. Tuttavia, la costruzione di fondo della raccolta è affidata al lettore. Ci sono molti punti divergenti e polemici, che vanno ripensati. Pensando anche che questi articoli e saggi sono stati messi insieme da Pasolini (con una struttura

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molto calcolata) prima della sua morte2. Dicevamo che l'Italia che il poeta analizza si era impoverita culturalmente. Il processo di secolarizzazione delle masse si era a sua volta interrotto, non aveva portato a un vero rinnovamento culturale dello Stato (Chiesa, famiglia, scuola, ecc.). Sulla scuola lo scrittore si sofferma lungamente in primo luogo analizzando il ruolo assunto da don Lorenzo Milani3. L'emergenza sociale ed educativa espressa nella esperienza pedagogica e metodologica di Barbiana aveva avuto aspetti unici. Pasolini vi legge intanto il rifiuto della Chiesa, rimasta lontana dalla struttura sociale tradizionale. Una protesta che sta su un piano di sodalizio tra gli ideali di giustizia ed eguaglianza del socialismo marxista condivisi dai manifestanti nelle piazze italiane del '68, con quelli dei poveri. In Barbiana, Pasolini vede la luce di "una necessità morale di organizzazione"4 che don Lorenzo Milani aveva sentito emotivamente e politicamente. Accanto alla forte affettività che il sacerdote nutriva verso i suoi ragazzi, viene però marcata anche una natura imitativa del comportamento educativo. C'è infine una sorta di specularità nel modo in cui quei ragazzi, nella loro rivolta, potevano guardare e imitare il sacerdote. Il miraggio di riscatto sociale e morale espresso da don Milani poteva entrare nella nostra società grazie all'impeto di rottura degli schemi convenzionali che quell'esperienza pedagogica mostrava. Il pericolo era una disaffezione che nei ragazzi di Barbiana avrebbe potuto portare ad un loro totale allontamento dall'istituzione. Pasolini, lucido e spietato affronta in "Lettera alla mamma" * (o meglio "Lettere di un prete cattolico alla madre ebrea”) - "Tempo", 8 luglio 1973 - una ricostruzione "che ha stabilito nessi". Scrive: "ho fatto supposizioni e ho tentato interpretazioni, esattamente come si fa con un'opera di immaginazione, nei suoi rapporti con la realtà biografica e la cultura"5. Polemicamente e antagonisticamente egli si scaglia contro ogni potere; e anche contro l'antipotere. È critico con Lorenzo Milani e le sue osservazioni investono il sistema scelto. Per Pasolini non si può rimediare alla immobilità e debolezza del rinnovamento educativo lasciando da parte l'aggressione del neocapitalismo verso la società (giovani, donne, lingua, società cultura ecc.). È insomma necessario salvare i ragazzi dalla storia, soprattutto dai finti modelli del dopo rivoluzione che hanno spazzato via il passato (il mondo


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contadino, la vita domestica che accomuna vecchi, donne e bambini nei sentimenti), un mondo che aveva consentito allo scrittore di ritrovarsi schierato con il movimento operaio e comunista, e dove l'alienazione esistenziale poteva in piena naturalezza essere riscattata nella ragione marxista. La presa di posizione contro il potere non si ferma alla richiesta di una nuova ideologia, ma si allarga alla realtà politica dei partiti. Ecco la richiesta di un processo alla DC per come aveva distorto il paese, omologandolo e facendogli perdere i tratti originari delle culture, lo slancio, facendogli smarrire la capacità di lavorare, di inventare, di creare e di innovare. I testi raccolti negli Scritti corsari parlano di un cambiamento di idee estranee al pensiero dominante e in grado di evidenziare un profondo radicalismo. La diversità vissuta in chiave mitologica si mette a confronto con gli altri diversi ed emarginati. In qualche modo la diversità è una forma di Mito e anti-mito che attraversa l'Italia6. La figura del disadattato, infatti, ha perso il suo ruolo, perché la povertà è entrata nelle culture del tempo. L'emigrazione ha rotto ogni margine. La voce di Pasolini descrive già un nuovo tipo di disadattato che non ha più modelli cui attenersi. Del resto lo sviluppo ed il progresso cercati, si configurano come transnazionali. Tutto ciò porta a pensare alle speranze ed alla libertà democratica, anche in una prospettiva di un nuovo pensiero che dovesse ricreare lo Stato. Ma era quello un problema da porre senza confondere mai, neanche per un solo istante, l'idea di "progresso" con la realtà di questo "sviluppo"7. Giacché ad esempio (per stare alla base elettorale della sinistra, nell'ordine dei milioni di cittadini), la situazione era che un lavoratore vivesse nella coscienza l'ideologia marxista, e di conseguenza, vivesse nella coscienza l'ideale di "progresso"; e però vivesse contemporaneamente nell'esistenza l'ideologia consumistica, e di conseguenza, i valori dello "sviluppo". Un lavoratore dunque dissociato. Per Pasolini, non "il solo ad esserlo"(scritto inedito)8. Ma infine, la richiesta di accettazione ideologica e politica che lo scrittore rivolge allo Stato è a sostegno della pluralità e della diversità dell'esistenza. Non la si può non riaffermare, considerando che i grandi movimenti sociali non hanno liberato dalla paura del terrorismo e insieme dei "diversi" e delle loro scelte. E tuttavia l'adulazione "ai giovani da una parte, e la soggezione prodotta dal loro atteggiamento terroristico, ha impedito agli intellettuali di pronunciarsi con since-

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rità e con la necessaria libertà critica" (Andrea Valcarenghi: "Underground: a pungo chiuso", "Tempo", 4 novembre 1973)9. Il Pasolini intellettuale inquieto e innovativo ha soprattutto saputo indagare il carattere e i mali della nostra società. Ma è stato anche in grado di mettere a fuoco quali ne erano le ansie maggiormente diffuse. Con il suo lavoro di scrittore e regista, ha saputo essere maestro eretico e visionario. Ma la sua è anche una ricerca che entra dentro i comportamenti (soprattutto dall'esperienze del Neorealismo in poi). In lui antropologia e ontologia sono continuamente riaffermate dal cinema e dall'indagine giornalistica10. Conta infatti il tipo di approccio verso la società e verso i suoi meccanismi di potere. Il dibattito sociale che doveva rinnovare il tessuto italiano per Pasolini non è mai avvenuto. Così l'intellettuale - l'intellettuale Pasolini - non ha potuto fare altrimenti che criticare i discorsi della classe politica che avrebbe dovuto rinnovare il paese11 e l'attacco che rivolge ai giovani quasi si trasforma in scontro fisico12. Gli scritti assumono infine i toni della derisione e della rabbia. Lo dimostra l'aperta polemica sui capelli lunghi - in fondo, un cambiamento culturale superficiale. La società si era venuta trasformando, ma solo nel linguaggio del corpo13 e negli abiti. E i giovani avevano assunto i toni del cambiamento nelle evidenze fisiche14. I capelli lunghi parlavano un nuovo linguaggio che non contestava più. Anch'esso era divenuto omologazione e per questo non più contrapposto alla politica e non aprente spiragli di cambiamento15. "La perdita di valori nei quali riconoscersi - riconoscendo al contempo una propria identità culturale e sociale - è la conseguenza del massacro (dice Gualtiero De Santi) compiuto dalle classi dirigenti. I "figli" sono arroganti e violenti e più conformisti dei "padri" per colpa di questi ultimi. Ciò non toglie che essi abbiano dimesso ogni istanza morale ed ideale, accettando i miti della cultura borghese: trincerandosi dietro un asserto di progresso, non più che verbale ed estremistico, che serve anche da alibi"16. Pasolini fa un'analisi sociologica e semiologia assai precisa della società17, ma avrà insieme la forza di guardare i giovani anche da un'altra ottica. Così, in una "lettera luterana", alla fine della sua vita e della sua esperienza intellettuale e creativa, affermerà di affidare proprio ad essi il compito di continuare a battersi per una cultura finalmente diversa e per il futuro.

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Pasolini Pier P., "Fascista" (L'Espresso, 26 dicembre 1974) in Scritti Corsari, Edizioni Garzanti Elefante, Milano, 1990, pp.232-236 2 Bazzocchi M. A., Pier Paolo Pasolini, Edizioni Bruno Mandadori, Milano, 1998, pp. 173-174 3 cfr., Pasolini Pier P., Don Lorenzo Milani: "Lettera alla mamma" o meglio: Lettere di un prete cattolico alla madre ebrea, pp. 148-153 4 op. cit., p. 151 5 op. cit., p. 148 6 cfr., Pasolini Pier P., 7 gennaio 1973. Il "Discorso dei capelli", pp. 5-11 7 cfr., Pasolini Pier P., Sviluppo e progresso, pp.175-178 8 op. cit, p. 177 9 cfr., Pasolini Pier P., Andrea Valcarenghi: "Underground: a pungo chiuso”, pp. 155-161 10 cfr., Pasolini Pier Paolo, 11 luglio 1974. Ampliamento del "bozzetto" sulla rivoluzione antropologica in Italia, pp. 56-64 11 AA.VV, Collettivo redazionale di "Salvo Imprevisti": Dibattito su "scritti Corsari" in Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Gammalibri, Milano, 1976, pp.123-174 12 cfr., Bazzocchi M. A., Pier Paolo Pasolini, pp. 175 13 cfr., Pasolini Pier P., 7 gennaio 1973. Il "Discorso dei capelli", pp. 5-11 14 op. cit., p. 176 15 Barzocchi A. M., Corpi che non parlano più: il nudo nella letteratura italiana del Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2005, pp. 12-21 16 De Santi Gualtiero, Lo spazio della dispersione, Acropoli Edizioni, Coriano, 1998, p. 125 17 Novello N., Pier Paolo Pasolini, Liguori Editore, (e-book), 2007 p. 15

Andrea Carnevali, è nato a Ancona, ma vive Filottrano. È giornalista e saggista ed ha pubblicato articoli, recensioni e saggi di arte e letteratura. Collabora a riviste e quotidiani.

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N°6 2010 Semestrale di arte, letteratura, musica e scienza dell'Associazione Culturale "L'Arte in Arte" Via Pallino, 10 61029 Urbino cell. 347 0335467 cell. 338 6834621

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