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Arte, letteratura, musica e scienza

ANNO II N. 4 Dicembre 2008 copia gratuita

PERIODICO SEMESTRALE DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE “L’ARTE IN ARTE” URBINO

Renato Bruscaglia incisore di Andrea Emiliani La vita artistica di Renato Bruscaglia non si lascia chiudere dentro un agevole paradigma critico, dove riepilogare la sostanziale qualità e l'ampiezza dei caratteri peculiari del suo mondo espressivo. Il fatto è che egli ha adottato una volontà d'arte, si direbbe un Kunstwollen, di complessa costituzione. Intanto, la sua vocazione alla figuratività si è avvalsa fin dalle origini d'una spiccata e addirittura assoluta predilezione per la calcografia. Nel prescegliere quel vettore, e cioè l'uso dell'acquaforte, Bruscaglia ha deciso di ritagliare nel corpo stesso della disciplina della grafica artistica, che già non è molto vasto, un ambito altamente specialistico e dotato di caratteri forti, decisamente intellettuali. La prima formazione di Bruscaglia deriva da un laboratorio scolastico di elevata qualità, guidato dagli anni della Guerra da Francesco Carnevali, artista e scrittore, che ha vissuto per decenni la vita e la ridotta, spesso preziosa fortuna della Scuola d'Arte di Urbino. Nella disciplina dell'incisione Bruscaglia si è inoltrato con la cordiale amicizia di Leonardo Castellani, e già nell'immediato dopoguerra la sua formazione poteva dirsi conclusa. L'evoluzione artistica si presta ad alcune periodizzazioni che, pur articolandosi sulla costante tematica del paesaggio, decisivamente prevalente nell'arco della sua intera opera, scandiscono tempi e peculiarità di stile scalati secondo variazioni sensibili; insieme consentono interpretazioni connesse anche a eventi e a ragioni di vita. Una prima stagione è certo quella che si distende, con qualche discontinuità, tra la fine della guerra e l'inizio degli anni

'50. Da questi ultimi in poi, decorre un periodo improntato generalmente a una marcata esperienza di immersione naturalistica che copre l'intero decennio. Come si dirà, la struttura globale dell'invenzione cresceva accanto alla evidente autorevolezza dell'assetto immaginativo di tipo morandiano: nel contempo Bruscaglia veniva elaborando varianti che concludevano progressivamente in uno sganciamento del gesto incisorio, della maglia grafica, dal sistema incrociato del maestro di Bologna, come anche dal tocco più impressionistico ereditato da Castellani. A cavaliere tra gli anni '50 e il nuovo decennio '60 si avvertono sintomi sottolineati di disagio espressivo, parte consistente dei quali assale la forma della veduta e dello specchio paesistico, agitandone il breve palcoscenico e in certo qual modo rimuovendo da quella serenità dello spirito narrativo, quasi elzeviristico, certezze di natura accostabile, di visualità acquisite nella elementare misura del riflesso. Contrada del vento (1991). Il periodo più risentito di elaborazione della forma è certamente compreso tra il 1965 circa e il 1980, dotato di una produttività artistica attestata sul piano d'una innovazione continua di acqueforti molto selezionate e decisamente innovative. L'ultima fase, infine, che è soprattutto quella che si distende dal 1980 all'incirca fino alla sua scomparsa, offre all'osservazione una mutata dimensione espressiva. Il segno appare fermo e d'una sottigliezza grafica immediata, talora lancinante. Nonostante la ben percepibile inquietudine. Sotto il profilo tecnico, l'acquaforte di Bruscaglia, priva ormai di precedenti come anche di imitatori, si impone quale risultato d'u-

Letteratura La poesia dei versi alfabetici di Maria Lenti di Domenico Cara pag. 3

Dalle Carte liriche di Mengacci di Gualtiero De Santi pag. 4

Il ritorno del cancelliere di Alberto Calavalle pag. 5

Storia Vittoria Accoramboni di Giovanni Murano pag. 6

Musica Le limacciose acque della Fortuna di Filippo Venturini pag. 9

Scienza Emozioni della scienza: percorsi d'arte sul patrimonio strumentale urbinate di Roberto Mantovani pag. 10

Analisi scientifica sui paesaggi del Dittico dei Duchi di Urbino di Rosetta Borchia e Olivia Nesci pag. 12

Toponomastica Il cortile d'onore onorato a San Pietroburgo di Sanzio Balducci pag. 15

Inserto Artisti dell’Associazione Culturale “L’Arte in Arte”


DITORIALE na lunga, solitaria analisi storica. Il percorso spirituale di Bruscaglia ha compiuto un'evoluzione che dal conoscibile naturalistico è transitata presto subito dopo il '60, attraverso una prolungata esperienza - e si direbbe con un forte raffinamento delle sue doti intellettuali - verso una realtà di valori altamente simbolici: e ciò senza che la dimensione conoscibile venisse diminuita oppure portata ai possibili livelli di astrazione. La quota simbolica della forma-paesaggio poggia sul naturale e sul soggetto, a differenza di altre espressioni o contenuti dell'arte specie novecentesca. La forma del paesaggio, inteso tutto insieme come luogo e come sentimento, e dunque come ambiente denso di riflessi e di rispecchiamenti, è destinata a durare ancora a lungo. Non c'è dispersione allegorica nell'acquaforte matura, bensì una accentuazione disperata del dramma espressivo all'interno di un realismo fitto di identificazioni e di realtà. La sua verità afferma che il mondo della bellezza, della forma storica sospesa nella luce dell'orizzonte e aggredita dall'ombra della valle nuda in cui ci troviamo a giacere, la sera, resiste in alto nell'infinito dell'orizzonte. Una stella brilla nell'oscurità traslucida della volta celeste, al di sopra della nera forma della montagna. Eppure la nostra condizione terrena è ormai affondata nella dissoluzione. Rimane intera, ineludibile ad ogni sguardo gettato attorno, la forma vitale, una sorta di diagramma visivo, l'evidenza del paesaggio. Tutta la vita e l'intera attività di Renato Bruscaglia hanno fatto di questa entità umanistica inestinguibile, il paese e la sua forma poetica, il segno della volontà figurativa: che tuttavia non è consolatoria così come non consente la modestia di un'arcadia ricorrente e gratificante. Al contrario, è volontà esacerbata dalla serie delle reazioni che appaiono sul diagramma, provocate dal contrasto tra la visione poetica e la difficoltà della condizione dell'uomo.

Le viole nello studio (1952).

Andrea Emiliani si può a buon diritto ritenere di formazione culturale urbinate, avendo egli abitato a lungo a Urbino con la famiglia, frequentandovi le scuole fino alla maturità classica. Insigne storico dell'arte, egli è stato un avveduto, prudente e sagace amministratore culturale, avendo ricoperto la carica di Soprintendente ai Beni Artistici e Storici di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna e di Direttore della Pinacoteca Nazionale di Bologna, ove ha fondato l'Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia Romagna (1974). Attualmente è il Presidente dell'Accademia Clementina di Bologna ed è anche membro dell'Accademia Raffaello in Urbino, dell'Accademia Torricelli di Faenza, dell'Accademia Nazionale di San Luca e dell'Accademia Nazionale dei Lincei di Roma. Prosegue la sua attività come apprezzatissimo organizzatore e curatore di mostre internazionali sull'arte bolognese. Inoltre è autore di importanti pubblicazioni (Barocci 1975, Carracci, 1956, 1983, 1992, Reni 1954, 1988, e Simone da Pesaro, 1957, 1992) nonché del Catalogo della Pinacoteca Nazionale di Bologna, 1967, di quello dedicato ai Materiali dell'Istituto delle Scienze, 1979, e dei volumi: Una Politica dei Beni culturali, 1974, Dal Museo al territorio, 1972.

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Col presente fascicolo n. 4/2008 Vivarte conclude felicemente la sua intensa fanciullezza di appena due anni d'età, vissuti tutti con stupefacente vigore giovanile al di là d'ogni fiduciosa aspettazione e al di sopra d'ogni allettante auspicio. Di tale successo fanno fede le continue richieste dei tre numeri precedenti, che insistono a pervenire all'indirizzo della redazione, costituendo un motivo di vanto seppur non disgiunto dall'imbarazzo di dover rispondere che gli esemplari richiesti sono ormai esauriti da tempo. Sono certo che tale favore di pubblico farà sicuramente piacere anche a tutti i patrocinatori e sostenitori finanziari, senza i contributi e le garanzie dei quali non sarebbe assolutamente possibile la pubblicazione della rivista, che ha potuto attecchire, germogliare, crescere, incrementare, svilupparsi e perfezionarsi anche grazie ai contributi di tutti gli stimati collaboratori, i quali hanno concorso con entusiasmo a dare qualità alla giovane pubblicazione. E ciò soprattutto essi hanno fatto e seguitano a fare sempre in modo assolutamente gratuito, la qual cosa mi piace sottolineare particolarmente in questa nostra epoca, ondeggiante tra eleganze sardanapalesche rasentanti sovente l'estrema pacchianeria, nella quale s'è quasi perduto il mero, sobrio e disadorno significato dell'incommensurabile valore della gratuità. Alla realizzazione di questo quarto fascicolo di Vivarte hanno offerto la loro ricercata collaborazione intellettuale: Andrea Emiliani, che ci presenta magistralmente la delicatezza espressiva dell'arte incisoria di Renato Bruscaglia, specialmente godibile nella "forma del paesaggio, inteso tutto insieme come luogo e come sentimento"; Domenico Cara ci propone la poesia dei Versi alfabetici di Maria Lenti, ove "tutto riaffiora da un libro abitato da mimetiche oscillazioni di pensiero e dai significati che esso configura, conservando per sé istanze, malumori, intermezzi fuggevoli, polveri di un deserto costante nella vita che soffre e che si offre"; Gualtiero De Santi ci introduce ne Le Carte liriche di Egidio Mengacci "un poeta riservato e insieme eccentrico, per ciò stesso nel giudizio di alcuni addirittura inclassificabile entro i parametri e il canone dei generi e delle correnti poetiche dell'ultimo cinquantennio"; Alberto Calavalle ci delizia con uno dei suoi gradevolissimi Racconti urbinati, "Il ritorno del Cancelliere", che la costrizione in forma ridotta ad uso della brevità dello spazio concesso non toglie alcunché alla piacevolezza della lettura; Giovanni Murano con inoppugnabili e inediti documenti d'archivio ci rivela la fosca vicenda di Vittoria Accoramboni, nobildonna originaria del Ducato d'Urbino, la quale "ebbe sicuramente più fortuna da morta che in vita, fortuna letteraria s'intende, forse perché la suggestiva tragicità della sua fine, la qualità dei personaggi che vi furono coinvolti, l'avvicinarono più ad una delle eroine del dramma antico che ad una banale vittima della cupidigia dei suoi parenti"; Filippo Venturini ci immerge nelle saghe immaginifiche dei blues, accompagnandoci in un tuffo profondo ne Le limacciose acque della Fortuna; Roberto Mantovani ci guida con entusiasmo in un emozionante percorso d'arte contemporanea, seguendo il filo ispiratore del patrimonio strumentale scientifico urbinate; anche Rosetta Borchia e Olivia Nesci con la loro Analisi scientifica sui paesaggi del dittico dei Duchi di Urbino ci conducono in un affascinante percorso alla ricerca dei paesaggi reali dipinti da Piero della Francesca come sfondo dei due celebri ritratti di Federico e della moglie Battista Sforza; pervaso di lirica suggestione è l'ariosa pagina scritta da Sanzio Balducci sul suo recente viaggio nella vastissima Russia, dove, dopo aver ammirato all'Ermitage la ricchissima collezione di ceramiche urbinati e durantine, in un altro museo di San Pietroburgo si è imbattuto per puro caso in un quadro raffigurante il cortile d'onore del Palazzo Ducale d'Urbino.

Luciano Ceccarelli è nato in Urbino nel 1942. Nella sua città ha completato tutto il suo curriculum scolastico. Nel 1967 è andato ad insegnare a Cirò Marina (KR), rimanendovi ininterrottamente fino al 1983, concludendo, poi, la carriera di insegnante di lettere nella Scuola Media di Mercatello sul Metauro. Nel settembre del 2001 è stato designato come socio ordinario dell’Accademia Raffaello in Urbino, dove tuttora collabora alle iniziative culturali patrocinate da quell’antico e insigne Sodalizio.


La poesia dei versi alfabetici di Maria Lenti di Domenico Cara

In versi della levità di Versi alfabetici la serie di timbri può essere moltiplicata a piacere ottenendo una rarefatta soluzione onomatopeica che resta nella folta silloge la cifra esemplare (e più invadente). Nel gusto di una musicalità ossessiva, articolata per insistenze di criterio semplice, ma complesso per disappunti di lingua e fervore mimetico, la fatica dell'identità ritmica rimane solerte e affatto sterile. Maria Lenti lavora con un insinuante bulino la parola comune, disponendo di una materia "alfabetica" irsuta, senza decorazioni barocche, ricami liberty, senza risvolti allegorici e surreali. Le tracce poetiche scorgono l'ilare e tensiva vitalità nei loro anfratti, riaffiorando sulla pagina in sigle, frammenti, segnali del conflitto chiusi in una simmetria predisposta, esile, recitante. La parola è elencata in icastici duetti e strofe brevi, come pretesto e rarefatta modalità visuale. Ogni voce del vocabolario è buona a trasformarsi in tema gioviale, allusività monologante, rima baciata e itinerario fulmineo. Mucillagini e atomi vispi elaborano un discorso poetico spinto su civile sobrietà in cui non è invisibile un riscontro puro di esemplare, allusiva indignazione. Essi variano ad ogni titolo, scivolano in filigrane sospese alla medesima verticalità formale e, direi, di uno stile nascosto, audace e umilissimo. I loro germogli sono sobri, profondi; cercano la vita e la non-vita, come si cerca un gioco turbato, funambolo, negativo. Tutto avviene per cenni, schegge, accensioni improvvise di parole antiche, per l'occasione duttili, enigmatici neologismi. Ma la loro vicenda e possibile fiaba nascondono, anzi avvicinano, la cantilena interna ed esterna ad una pensosa ansietà. In questa continua opposizione verbale (strofica, jacoponica, fraseologica, iconica, ilare, secca, paziente ed impaziente, senza limacciosità), l'accumulo della trasparenza si volge in esercizio formale in cui è rintracciabile una cauta disputa, in apparenza scomposta, in effetti dilatazione di una psiche fervida e colta. Lungo l'intero arco del linguaggio si nota una tersità assai diversa dagli sperimentalismi del

Novecento, sempre insoddisfatti, sempre più astuti e spesso inutili. Le costruzioni infatti non sono mai seriali, né mediocri, e ogni labilità è precisa. Ad ogni finta trama ciò che potrebbe apparire banale è solo dominio della sensibilità e già, nel percorso, un ardito aver fatto a meno della punteggiatura, in ciò dissociandosi da una tradizione ritualizzata per comunicare quello che rinasce per la lettura e che l'essenziale salva dal non capire, insieme alle stabili esigenze dell'immediatezza. Lo stesso scintillio si esprime così in tic felici, in un canto per gioco che sfiora certe derive e tessiture di liricità somiglianti a spunti di romanzo che un librettista ottocentesco scriveva per voci soavi e a mimesi ironica per la pubblica pantomima, diventata diffusa e popolare. Fa effetto, nelle riprese di respiro, sia che abbia intenzione di assumere atonalità, sia che insegua superfici elegiache o del sarcasmo totale, il magnetismo con cui Maria Lenti conquista chi l'ascolta. Senza dire di quegli incroci, qua e là scissi dalla stroficità riattualizzata fra risvolto morale e fluidità del leit-motiv di una definizione, o della tenerezza spietata di vivificare il troppo adulto male del mondo o di una realtà tormentata, chiusa in un ordito retorico, infecondo. Il verso epigrammatico ha quindi trovato una via di uscita dalla tensione del suo scherno, coinvolgendo gli interposti sottovoce-refrains tutt'altro che speciosi o soffocati per volgere al corrosivo tratteggio di pensiero, riassuntivo del "molteplice" o melopea che aspira all'esaustività comica e devota, alla funzione catalizzatrice della realtà. Tutto riaffiora da un libro abitato da mimetiche oscillazioni di pensiero e dai significati che esso configura, conservando per sé istanze, malumori, intermezzi fuggevoli, polveri di un deserto costante nella vita che soffre e che si offre. Mentre Jolanda Insana vibra "fendenti fonici" espressionistici e gutturali, per disporre della propria ira (che "fa il poeta" secondo Marziale), Maria Lenti riassume, in una serena trasposizione, l'oggettività del suo progetto e l'aver trovato nell'Ovunque dell'immaginazione,

così come nell'esperienza quotidiana, una causalità per far poesia e, forse, il superamento per rinnovare le estasi e le prospettive precedenti. Nel clima della stessa spontaneità (senza cantilene filtrate o l'esigenza di idealizzare il vissuto) usa l'esattezza per fissare la sua ricerca, la cui dimensione elabora una propria innocenza, raggiunta come proposta "alfabetica", assunta come concretezza e illustrata da modelli fantasiosi, densi di pathos non fittizio né posto su un piano inferiore tra i linguaggi di questi anni attenti a porsi come risposte al proprio tempo. Tale genere di favola è poesiascrittura da collocarsi nella migliore delle provocazioni, mai blasfema e mai sintassi d'immoralità o incontrollabile enfasi a torsione poematica, consecutiva ricaduta nell'ombra di una scontata brutalità a furia demoniaca, in godibile, estrema coscienza riflessa in un'infausta

incandescenza del mondo. E' questa la sua trascendenza? Nella scelta di rinunciare al piacere (e alla protezione) delle parole, Maria Lenti ha salvato la creatività, facile e non angusta, nel cui richiamo la poesia al femminile ha affermato un'esigenza di novità, quasi una spontanea intesa con l'irrealtà che di tante cronache conserva "l'oggetto poetico", simultaneamente lo difende, senza romantici o labili ghirigori.

Domenico Cara nato in Calabria, vive da molti anni a Milano. Saggista, aforista, poeta, ha fondato e diretto riviste letterarie e artistiche. Dirige l'editrice "Laboratorio delle Arti". Tra i suoi libri recenti: I flautini dell'occhio (2002), Il dilagare dell'ascolto (2003), Fisica dei sensi (2005), Lento periplo (2006), Interni d'immolazione (2007), Lume degli occhi (2008).

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Dalle Carte liriche di Mengacci di Gualtiero De Santi

Non è trascorso un decennio dalla scomparsa di Egidio Mengacci. Come ben sanno gli urbinati, almeno i non tanti che prestano attenzione alla cultura, la sua presenza e la sua attività e intuizione hanno avuto il potere di arricchire il tessuto formativo e civile della nostra città. Rimangono memorabili - quantomeno nel ricordo di chi scrive - le mostre approntate per Osvaldo Licini e Tono Zancanaro nella ormai leggendaria Galleria dell'Aquilone; ma, forse, ancor più meritorio e rimarchevole è il supporto dato ad artisti e incisori di più di una generazione. Mengacci, tuttavia, è stato principalmente un poeta: riservato e insieme eccentrico, per ciò stesso nel giudizio di alcuni addirittura inclassificabile entro i parametri e il canone dei generi e delle correnti poetiche dell'ultimo cinquantennio; costantemente attento, in ogni caso, a una dimensione espressiva che salvaguardasse quella istanza - umana, ideale, anche religiosa - che lo aveva spinto a prender parte alla lotta di liberazione dal nazi-fascismo e che lo aveva in questo fortificato nelle sue convinzioni. A Mengacci è stato dedicato nelle giornate del 7-8 agosto 2008 un Convegno di Studi, di cui ho personalmente curato la direzione scientifica tanto quanto l'organizzazione (Le Carte "poetiche" di Egidio Mengacci), sotto l'egida della Università degli Studi "Carlo Bo" e più particolarmente del Dipartimento di Letterature Moderne e Scienze Filologico-Linguistiche, con la collaborazione del Circolo Acli nella cui sede urbinate è stata ospitata la prima parte della manifestazione. Qui - e l'indomani, l'8 agosto nell'Aula del Parnaso a Palazzo Veterani (abituale centro dell'italianistica universitaria urbinate) - si sono avvicendati i relatori: coloro che hanno direttamente e più precipuamente affrontato e trattato gli aspetti letterari di Mengacci (Fabio Ciceroni, Maria Lenti, io stesso, più un lodevole e agguerritissimo manipolo di giovani studiosi: Silvia Tiboni, Mirco Ballabene, Matteo Martelli); altri che hanno illustrato le vicende e gli anni dell'Aquilone (Silvia Cuppini), oppure la scelta etica della lotta giovanile nelle file della Resistenza (Ermanno Torrico) e ancora le molteplici e sempre singolari forme di partecipazione alla vita culturale e civile della nostra città e del territorio (Gastone Mosci). Del buon esito della manifestazione e del livello notevole delle relazioni darà sicuramente conto il volume degli Atti, di già annunciato. Sulle pagine di VivArte si vuol tuttavia portare un con-

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Egidio Mengacci riceve il premio “Valerio Volpini per la poesia”, l’8 ottobre 2000. Gli viene consegnato da Carlo Bo, Presidente del Premio Nazionale di Cultura Frontino Montefeltro.

tributo a un'ulteriore conoscenza della figura poetica di Mengacci presentando alcuni suoi testi inediti risalenti alla fine degli anni '40 (e altri successivi senza indicazione di data). Testi che dichiarano l'influsso tra l'altro della poesia spagnola novecentesca, mediata e agevolata da Bo con le sue traduzioni lorchiane e dunque decisamente presente all'attenzione del giovane Egidio non fosse altro per il legame che lo univa al grande critico e alla nostra università; in certi casi ancora composti e involti in operazioni metriche di ascendenza pascoliana (Muta) e comunque latamente scolastica; in altri passaggi inevitabilmente esclamativi, ma allo scopo di liberare dal denso involucro terreno un io che oscillava tra le umane fatture e limitazioni da un lato, e dall'altro quella tensione spirituale (e qualche volta spiritica e spiritata oltreché spiritosa, insomma di pieno esprit) che è la virtù maggiormente preclara del Mengacci poeta e scrittore. In fondo, la scrittura di Egidio Mengacci è anch'essa, come in tanti casi del Novecento, una ricerca e un'interrogazione della verità. E in questo egli ha corrisposto a un'immagine e a una pratica che lo rendono tutt'affatto coevo dei grandi autori del suo tempo.

Muta Non velata città mi pare Da un manto grigio in una notte nera Sebben l'adombri un vento di bufera Anzi è scoperta ignuda nella coltre Giace assopita e l'odo palpitare La sento respirare la sua vita! Sento che freme come sottoterra Fa il seme… Il brulichio degli uomini è cessato Dileguato il vespaio degl'intrighi Nell'aria come per incantamento Attiva fremente: finirebbe una torre di Babele Mentre così: risorgerà non vinta come il sole L'odo e l'ascolto: palpita, si muove, batte il polso. 1948

Gualtiero De Santi, è saggista e studioso di Comparatistica. Tra i suoi interessi figurano infatti la letteratura, il cinema, la musica, la filosofia e ovviamente le arti figurative. Insegna all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.


Il ritorno del cancelliere di Alberto Calavalle

Quando il cancelliere del tribunale di una città del nord, per ragioni del tutto private giunse nel cimitero monumentale di Urbino, mancavano sette minuti all'appuntamento delle quattro del pomeriggio … Il cancelliere si diresse verso l'area indicata nella cartolina. Ricordava vagamente la tomba del congiunto. Erano trascorsi parecchi decenni dal giorno della sua tumulazione. Da allora egli non era più tornato. Quand'era arrivato quel lavoro nella cancelleria del tribunale di una città del nord, egli lo aveva accettato con gioia, ma in seguito si era trovato a lottare ogni giorno con montagne di carte. Quindi mai più un viaggio, mai una vacanza. Quelle carte invadenti e polverose erano diventate il suo incubo. Di notte sognava di venirne sommerso e di morire sotto il loro peso e si svegliava all'improvviso rosso in volto e spossato. Dai vaghi ricordi che conservava da ragazzo, la tomba di Alcibiade poteva essere quella che aveva di fronte … Alle cinque meno un quarto la cerimonia era terminata. Le ossa di Prospiceri Alcibiade giacevano allineate in una piccola cassa. Vi sarebbero rimaste sino alla fine dei tempi. Il cancelliere tirò un sospiro di sollievo. Poco dopo prese il tram numero sette. Scese alla fermata della stazione, giusto in tempo per vedere partire il treno sotto i suoi occhi. Non rimaneva che rassegnarsi a passare la notte nel vicino albergo "I cipressi". Seduto nella hall, attese l'ora di cena sfogliando i giornali. Ma quando i pochi clienti scesero nella sala da pranzo, egli rifiutò l'idea di unirsi a loro. Cenare era l'ultima cosa a cui avrebbe pensato. Si sentiva stanco e svogliato. Si diresse verso la camera e si distese sul letto. Sfogliò alcune pagine di un settimanale, quindi chiuse gli occhi per raggiungere un completo stato di distensione. Subito dopo, in un barlume di sogno, l'uccellaccio della tomba gli balzò sugli occhi cercando di strapparglieli. Cacciò un urlo strozzato e si rizzò ansimante sul letto. "Il signore ha chiamato?" chiese il portiere bussando alla porta. "Non sono io" rispose il cancelliere in un sussurro stendendosi e cercan-

do di trasferire i suoi pensieri altrove. Poco dopo un altro sogno lo condusse fra montagne di ossa che gli franavano addosso da ogni parte fino a soffocarlo e fargli compiere un altro balzo e un grido rauco. "Il signore desidera?" tornò a chiedere con premura il portiere. "Non sono io" rispose il cancelliere e cercò di prendere sonno accarezzando ricordi meno macabri. I vestiti ora occupavano la sua mente. Quegli indumenti avevano dimostrato di sopravvivere al disfacimento del corpo, di essere immortali. Pensare a loro era confortante. Si appisolò, ritrovandosi poco dopo in una grande lavanderia dove folle di inservienti maneggiavano montagne di vestiti, sottoponendoli a trattamenti di rimessa a nuovo. Con uno scatto di insofferenza si tolse i vestiti di dosso e si avvolse nel lenzuolo, provando una sensazione di libertà e di purezza. "Vorrei essere sempre vestito così" diceva "e quando morirò, chiederò di essere avvolto in un lenzuolo, come Gesù". Ora era più sereno, però non voleva più dormire. Temeva le allucinazioni. Per allontanare il sonno riprese a sfogliare assente e assonnato il settimanale. "Da oggi sulle nostre teste volano le bare spaziali" lesse con grande angoscia. "No! Ma è una persecuzione!" gridò scuotendosi dal torpore. "Il signore desidera?" chiese il portiere bussando. "Non sono io. È il mio inconscio" rispose il cancelliere. "Inconscio? Ma!" fece il portiere andandosene perplesso. L'occhio del cancelliere era tornato su quell'articolo: "È bello che le ceneri dell'uomo possano volare nell'infinito. D'ora in avanti non più cimiteri grandi come metropoli, non più costosissime ghirlande di fiori, non più vestiti e scarpe per defunti. Soprattutto non più esumazioni, ma incenerimento. Le ceneri verranno lanciate con missili e ruoteranno per anni nell'azzurro terso dei cieli e quando rientreranno verso la nuda terra, una fiammata simile a una stella filante dissolverà le ceneri nello spazio!" Il cancelliere ora rideva. Sì. Rideva nel senso più vero del termine. Dopo anni di mugugni tra montagne

Leonardo Castellani.

di carte, dopo ore di angoscia succedute all'esumazione, era scoppiato a ridere forte. "Il signore desidera?" chiese il portiere bussando. "Ridere" rispose il cancelliere. "Ma!" fece il portiere ritirandosi. "Sì. Ridere!" continuò il cancelliere a voce alta. "E non tanto per l'idea balzana di chi vorrà trasformare il cielo in un cimitero, perché allora la poesia dell'infinito morirà. Ma voglio ridere per quel fuoco purificatore che riduce un corpo a un mucchio di cenere". Il cancelliere era contento di fermarsi al traguardo della cremazione, non approvando il volo spaziale e sentiva di essere grato al fuoco. La morte non gli faceva più paura. Tornò invece ad angosciarlo subito dopo la montagna di carte che lo attendeva in ufficio. Ebbe un lampo improvviso: Il fuoco avrebbe potuto liberarlo anche da quell'ossessione. Sarebbe bastato un corto circuito. Sarebbe stato sufficiente il mozzicone di una sigaretta abbandonato distrattamente da un cliente e in pochi minuti "bffff". Tutto in fumo! Il cancelliere scoppiò in una risata ancora più forte e incontenibile. "Il signore desidera?" chiese ancora

il portiere. "Sognare!" gridò forte il cancelliere. "Faccia pure! Non è ancora giorno" rispose il portiere con voce sommessa. Riduzione del racconto omonimo Da "Racconti urbinati" Urbino, Quattroventi, 2007

Alberto Calavalle è nato e risiede in Urbino. Ha svolto attività di docente e giornalista. Ha pubblicato: il libro di racconti Il tempo dei cavalli, Rimini, Guaraldi, 1993; il romanzo Sulla frontiera della Vertojbica. Editoriale ECO, Teramo, 1997; il libro di poesie Infinito passato, Quattroventi, Urbino, 2001; i saggi brevi Finestre sulla città, Urbino, 2003; i Racconti urbinati, Quattroventi, Urbino, 2007.

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Vittoria Accoramboni di Giovanni Murano

Efferatezze nei confronti delle donne, la storia ne ha conosciute e ne conosce tuttavia; efferatezze che nella seconda metà del XVI secolo hanno toccato culmini di grandiosità tale che solo nella finzione scenica il teatro tragico greco ha saputo esprimere e che, pur a volerle guardare attraverso l'indulgente cannocchiale del tempo, non trovano altra giustificazione se non nell'ostinata convinzione culturale degli uomini e delle istituzioni di quei tempi di identificare l'esistenza sociale delle donne con il loro corpo e dunque le loro caratteristiche psicologiche con le sue pericolose inclinazioni e le sue tante debolezze. Il catalogo dei numerosi episodi di violenza misogina è lungo e non conosce scale di rilevanza né mai ha conosciuto distinzione di ceto. La violenza, nonostante gli atteggiamenti etici e mentali dissimili, si è sempre manifestata per cause e con modalità ricorrenti, appartenessero le vittime al più vasto impluvio sociale o fossero donne dell'élite. Ovvie ragioni di spazio impediscono qui d'illustrare tutte le cause che vi diedero luogo, tuttavia per semplificare giova di queste ricordare almeno le più frequenti, giacché ebbero parte decisiva nel terribile fatto di cui ci occuperemo. Prima fra tutte la libertà dei sentimenti che in modo abbastanza frequente veniva identificata in un'azzardata pretesa femminile di voler sottrarre il proprio corpo alle prescrizioni; è vero che un margine più ampio di discrezionalità, rispetto alle popolane, era concesso alla dame di ottima nascita, ma non era loro facile sfuggire al sospetto di bramare per sé maggiore arbitrio di quanto non fosse già sufficientemente accordato. Vi erano poi gli interessi economici, che erano concausa di numerose liti e molteplici delitti, e infine lo sconfinato orgoglio di casata e il nuovo senso dell'onore che era andato ipertrofizzandosi via via che si erano diffusi i ridondanti modi spagnoli. Vittoria Accoramboni ebbe sicuramente più fortuna da morta che in vita, fortuna letteraria s'intende, forse perché la suggestiva tragicità della sua fine, la qualità dei personaggi che vi furono coinvolti, l'avvicinarono più ad una delle eroine del dramma antico che ad una banale vittima della cupidigia dei suoi parenti e della sua stessa imprudenza, come venne allora percepita la sua rovina. Fu indubbiamente l'atmosfera di pugnali e veleni che vi aleggia che fece amare questa torva storia di sangue ai letterati e agli storici cresciuti nel fosco clima romantico d'Oltralpe, i quali peraltro ereditavano una tradizione secentesca, ma nessuno è riuscito ad andare oltre la convenzionale

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immagine esotica dell'Italia confezionata dal Burckhardt e spacciata poi come tipica dai suoi epigoni. Un denso alone di pregiudizi ha impedito ai generosi amanti di questa ipotizzata tipicità italiana di comprendere la realtà storica della bella Vittoria e la fascinosa modernità del suo personaggio. Il primo travisamento però si ebbe nel 1612 con The tragedy of P. J. Orsini or The Withe Devil di John Webster, cui forse accenna Paolo Emilio Santorio, arcivescovo di Urbino dal 1623 al 1635, nelle sue Historiae temporis sui, una tragedia di qualche intensità, ma che già dal titolo emana insopportabili stravaganze. Molti altri seguirono la medesima scia, soprattutto in Età romantica, nell'ignoranza delle cose più note e confusione di uomini e tempi. Miglior fortuna ebbe Vittoria con i Francesi, il più famoso dei quali fu sicuramente Stendhal che ne pubblicò la vicenda nelle Chroniques italiennes. La sua Vittoria Accoramboni, benché derivi da una scorretta cronaca manoscritta e confonda due storie in una, mantiene ancora oggi malgrado la sua brevità un indubitabile fascino, insito nell'esplicita spietatezza dei travagliati personaggi che agiscono con naturale disinvoltura perché ancora "la vanité n'enveloppait point toutes les actions des hommes d'une auréole d'affectation". La cronaca di Stendhal, così come altre histoires de la vie de Victoire Accoramboni, è tributaria di quella mesta cronachistica spesso romanzata, cui già dall'anno dopo la morte dell'Accoramboni fu affidata la sua tradizione. Nel 1586 infatti fu stampato adespoto in Brescia Il miserabile compassionevole caso della morte dell'illustrissima signora Vittoria Accoramboni, successo nella città di Padova. Anonimo fu pure il manoscritto nelle mani del duca Strozzi sin dal 1690, chiamato comunemente "anonimo del Campidoglio", cui sembra aver fornito la dotazione documentaria il cardinale di Montalto, nipote di Sisto V, non è chiaro se per postuma pietà o per ulteriore vendetta nei confronti di Vittoria. La tradizione venne vivificata nell'Ottocento, quando si ebbe finalmente tra le altre una ricostruzione puntuale della vicenda da parte di Tommaso Gnoli, che raccolse una solida documentazione, e dal figlio Domenico che la redasse e la pubblicò nel '70 in volume col titolo di Vittoria Accoramboni, storia del secolo XVI. Su questo lavoro, quantunque vi scorra più d'un rigagnolo di antica polemica antifemminile, si basano le narrazioni successive comprese le più recenti. Tutte comunque sarebbero sostanzialmente prive di novità se non

avessero come sostrato una delle fonti più originali sulla vita romana del XVI secolo, gli Avvisi di Roma, nel nostro caso il ms. Vat. Urb. 1049, fogli di notizie che coprono oltre mezzo secolo, dal 1545 al 1605, in cui possiamo intravedere i primordi del giornalismo. Sono raccolti nella collezione detta Urbinatensis, la più rilevante e completa di quelle esistenti, conservata oggi nella Biblioteca Apostolica, ma un tempo di proprietà del duca di Urbino, perché fu da lui messa insieme grazie ai dispacci non diplomatici e ai "giornali" che settimanalmente i suoi agenti gli spedivano da Roma e da altri luoghi per informarlo delle cose occorrenti nel mondo. Penultima di ben undici figli, Vittoria nacque a Gubbio il 15 febbraio del 1557 da Claudio Accoramboni e Tarquinia Paluzzi Albertoni. La famiglia paterna si era distinta più negli studi che nel mestiere delle armi. Girolamo, avo di Vittoria, fu ai suoi tempi celebratissimo archiatra di ben tre pontefici, mentre suo padre, ultimo dei tre figli nati da Agnesina degli Ubaldini, alle tradizioni familiari seguite dai fratelli Fabio, che fu eminente giurista dello Studio di Padova, e Felice, medico e filosofo, preferì attività meno meditative. Fu infatti al seguito in Francia e in Italia di Pietro Strozzi nel suo vano tentativo di vendicare il padre contro il duca Cosimo I de' Medici e, negli anni 1543 e 1558, gonfaloniere di giustizia della propria città, mentre a Roma nel 1577 venne eletto fra i tre conservatori. Fu molto caro a Paolo III che nel 1459 lo consigliò alle nozze con Tarquinia, da cui ebbe: Mario, Ottavio, che fu dapprima vescovo di Fossombrone e quindi dal 1621 arcivescovo di Urbino, Giulio, Scipione, Marcello, Camillo, Pompeo, Giacinto o Cinzio, Flaminio, Vittoria e Massimilla. Presto la famiglia si trasferì a Roma, dove ancora giovinetta Vittoria prese confidenza con gli ambienti più ricercati della città, apprezzando le lodi di non ignobili poeti che in lei esaltavano la vivacità dell'ingegno, la grazia e la smisurata bellezza, legandola addirittura ai fati dell'Urbe. Chiunque ne scrisse, la celebrò bellissima tra le belle del suo tempo, anche un velenosissimo epigramma apparso dopo il suo assassinio dovette riconoscerla "ante caeteras omnes pulcliritudines pulcherrima", e tale ce la mostra un quadro di Scipione Pulzone. La bellezza di Vittoria era contesa spesso con spargimento di sangue da numerosi giovani romani e tra questi vi era Francesco Mignucci, figlio di Camilla e nipote del cardinale Felice

Vittoria Accoramboni di mano del pittore Scipione Pulzone, XVI sec.

Peretti di Montalto, il futuro papa Sisto V, che lo aveva adottato dandogli il proprio cognome dopo la morte prematura del padre. Francesco fu il prescelto, ma molti amici sconsigliavano queste nozze al già dubbioso cardinale e così pure la sdegnosa Tarquinia non le gradiva, giudicando poco vantaggioso imparentarsi con un cardinale francescano senza blasone e per di più di umilissime origini. Comunque di malavoglia vi accondiscese e anche il cardinale infine si disse d'accordo; era stato il padre di Vittoria a perorare il matrimonio intuendo i benefici che poteva trarre dalla dignità cardinalizia del nuovo parente. Le nozze furono celebrate la mattina del 28 giugno 1573 e Vittoria a 16 anni lasciò il palazzo avito per andare a vivere nella più modesta abitazione del marito. Prestissimo Francesco deluse la moglie, la quale, per niente disposta alla sobrietà, stimava poco l'amore del marito e ancora meno la ruvidezza del suo carattere che egli, a dire il vero, neanche si peritava di digrossare. A rendere maggiormente insopportabile il malinconico menage vi erano pure l'infecondità della coppia e la taccagneria di Francesco, che afflisse tanto Vittoria da indurla più volte, spalleggiata dalla propria famiglia, ad abbandonarlo per tornarsene alla casa paterna. Gli Accoramboni rinfacciavano al cardinale di Montalto di non saper provvedere alle necessità della giovane sposa. Soprattutto la madre aggiungeva all'insoddisfazione della figlia la propria. Non era un segreto per nessuno a Roma che avrebbe desiderato per lei un partito più cospicuo, tuttavia al punto in cui erano giunte le cose, consumate le recriminazioni, occorreva mutare stile e obbligare il cardinale ad adempire il contratto di nozze per non


sfigurare agli occhi di tutti. E così, il 12 dicembre 1577, gli Accoramboni gli fecero istanza per provocarne l'orgoglio. Il cardinale di Montalto l'accolse prestando misurato soccorso al nipote oberato dai debiti contratti soprattutto dalla moglie, inutilmente, perché le cose dopo poco tempo ritornarono nello stato di prima. Vittoria aveva tante necessità e molto costose, partecipava assiduamente ai riti del gran mondo, gareggiando in splendore con le maggiori nobildonne di Roma, ma con i limiti imposti dalla modestia dei mezzi e senza neanche il cocchio che, come lamentava, era "quasi necessario". Difatti né Francesco Peretti né tantomeno lo zio potevano alimentare le sue ambizioni, in primo luogo per il cronico stato di povertà ostentato dal frugale frate cardinale e poi perché la maggior parte delle entrate veniva oculatamente messa da parte per l'acquisto di proprietà fondiarie. Monsignor Santorio nelle Historiae temporis sui non lesina fiele sul comportamento della giovane donna, di lei traccia un ritratto post factum inutilmente rabbioso che convalida quanto si è detto a proposito dell'identificazione dell'esistenza sociale delle donne con i pregiudizi sul loro corpo, per cui ogni ulteriore commento appare chiaramente superfluo. È utile invece dire che all'arcivescovo di Urbino piaceva indossare i panni del severo Catone e che però più di questa amava la parte della malalingua, tanto che nei suoi scritti non risparmiò neppure il duca di Urbino, amareggiandogli gli ultimi anni di vita. Non è solamente un sospetto pensare che dietro il suo moraleggiante turbamento non vi fosse tanto la necessità di fustigare, attraverso l'Accoramboni, gli scandalosi costumi del tempo, quanto piuttosto qualche piccolo malumore nei confronti del fratello Ottavio, che lo aveva preceduto sulla cattedra arcivescovile urbinate. Vittoria era sicuramente donna sdegnosa, incline alla vanità ed amante del lusso, erano pure tempi di sontuosa superbia, ma la sua era ben lontana dalle enfatiche dimensioni asserite da Santorio. Come la precedente generazione, anche i fratelli di Vittoria avevano intrapreso le due sole vie all'epoca convenienti agli uomini di un certo lignaggio, abbracciando, chi l'una chi l'altra, l'azione o la meditazione. Tra coloro che avevano seguito il mestiere delle armi vi era Marcello che di soldatesco però aveva soltanto l'animo limaccioso e cupido. Nel 1580, era stato costretto a fuggire da Roma colpito da bando perché aveva ammazzato in strada Matteo Paravicino, fratello di

mon-signor Ottavio, futuro cardinale di S. Giovanni a Porta Latina. Non fu il suo unico delitto: aveva già ucciso un servo di corte ed in seguito si rese partecipe di numerosi altri delitti, che lo fecero del triste novero di altri blasonati banditi che infestavano la campagna romana protetti dai più eminenti vassalli del papa. Tra questi vi era Paolo Giordano Orsini, capo della potente casata di Bracciano, che ospitò il fuggitivo accordandogli generosa protezione in cambio però d'indicibili servigi. Alla corte del duca di Bracciano, Marcello trovò degnissima compagnia grazie alla quale qualche volta gli riusciva di tornare in città. Sembra che durante i suoi segreti ritorni dimorasse in casa del cognato Francesco Peretti e che gli uffici del cardinale di Montalto lo rendessero invisibile ai curiosi. Fu sicuramente nel corso di queste visite che per proprio spregiudicato tornaconto non esitò a sviare in modo decisivo il destino della sorella, spingendola tra le braccia del suo ricco e potente padrone. Corpo grossolano e temperamento contraddittorio, tanto collerico e violento quanto di maniere cortesi e di gesti magnifici, Paolo Giordano Orsini dei suoi avi più illustri non aveva ereditato che la smisurata superbia. Aveva sposato Isabella de' Medici, figlia di Cosimo I, ricavandone la protezione del suocero e il favore di papa Pio IV de' Medici, milanese, che, per onorare nel genero il supposto parente, eresse il feudo di Bracciano in ducato. Strangolò la moglie nella villa di Cerreto Guidi, il 16 luglio 1576, con un raccapricciante stratagemma, per vendicarsi dell'oltraggiosa relazione amorosa che Isabella aveva intrecciato col cugino Troilo Orsini, e poi raccontò che la povera vittima era stata colta da un colpo apoplettico. Una menzogna cui finsero di credere tutti, il granduca Francesco I, che del delitto pare fosse stato il suggeritore, così come il fratello cardinale. Nessuno di loro mai fece accenno alle vere cause di quell'orribile morte, nemmeno quando due anni dopo Troilo fu trucidato a Parigi per mano di sicari medicei. Archiviata così la pratica matrimoniale e lasciati i figli, Leonora e Virginio, nelle cure dello zio granduca, Paolo Giordano Orsini se ne tornò definitivamente a Roma, riprendendo senza rimorsi le responsabilità sociali proprie del suo rango e le distrazioni mondane che peraltro non aveva mai trascurato. Non è noto dove e quando conobbe Vittoria Accoramboni, ma sicuro è che galeotto fu il fratello di lei Marcello, tutto il resto lo fecero l'ambizione della gentildonna e le ricchez-

ze del duca, che peraltro non pare fosse propriamente un adone. La passione divampò tanto furiosa da imporsi all'Orsini come la preoccupazione sua principale ed indurlo ad assumere la risoluzione che cambiò fatalmente la propria esistenza e quella di molti altri. Sicuramente aiutato da Marcello Accoramboni, ordinò l'assassinio di Francesco Peretti, che fu attratto in un tranello e ammazzato ad archibugiate la notte del 17 aprile 1581. Al corrente del piano o solo sospettosa, Vittoria cercò di farlo fallire senza riuscirvi, non fu nemmeno capace d'impedire al marito di uscire di casa; le restò forse solo il rimorso. Altra fu la reazione del cardinale quando seppe della morte dell'amato nipote. Rimase muto, imperturbabile, all'apparenza rassegnato come se avesse riconosciuto in quella morte il volere di Dio; con questo stato d'animo andò a consolare la sorella e la vedova. Non mutò nulla nelle abitudini quotidiane e in quelle della sua corte, mantenne tutti gli impegni. Fece seppellire il nipote e la mattina dopo si presentò in Concistoro sbalordendo tutti per la sua totale impassibilità, persino il papa ne restò sorpreso riconoscendo in quel contegno i segni di un animo grande. Terminato il Concistoro, Gregorio XIII lo ricevette in udienza privata per manifestargli la propria fraterna solidarietà e l'esecrazione per quell'orrendo delitto. Pronunciò parole di fuoco verso gli assassini e la promessa di un notabile castigo. Il disegno del cardinale era però ben altro, non gli era sufficiente la punizione dei soli complici, non bastava, voleva più di tutto la rovina del mandante, di cui conosceva benissimo il nome e il movente. Perciò ringraziò il pontefice, lo pregò di tralasciare persino le indagini e di perdonare come egli aveva già fatto. Si ritirò poi in una dolente solitudine nella sua villa fabbricata da poco e lì ricevette le condoglianze di coloro che andarono a visitarlo. Vi andò pure con espressione compunta Paolo Giordano Orsini, come per sincerarsi delle parole di remissione che il Montalto aveva espresso in ogni occasione. Il cardinale rispose a quell'impudenza con i modi più affabili di cui potesse disporre, tanto che il duca ne restò enormemente impressionato e convinto di essere fuori dalla lista dei sospettati. Era proprio ciò che il cardinale voleva e, per rafforzare questa opinione, rimandò Vittoria alla famiglia lasciandole ogni cosa che il marito le aveva donato. Ritiratasi nella casa paterna, l'Accoramboni condusse dapprincipio vita vedovile, ma, tempo qualche giorno, cedette alle insistenze dell'Orsini

Papa Sisto V di anonimo, fine XVI sec., Montalto nelle Marche, Pinacoteca Civica, Sala Sistina.

che nel frattempo era andato spesso a visitarla col chiaro proposito non di consolarla ma di sposarla. Il matrimonio fu celebrato in gran segreto per non destare la prevedibile irritazione del papa e soprattutto del cardinale Ferdinando de' Medici che aborriva quell'unione in tutela degli interessi del nipote Virginio. Precauzione inutile, perché il 5 maggio 1581 Vittoria fu convocata a nome del pontefice e le fu letto un monitorio che le vietava di maritarsi senza espressa licenza. Il papa non si aspettava di certo che Vittoria confessasse di aver realizzato già quello che ora voleva impedirle, se non altro perché voci ne circolavano tante, appena sussurri che presto divennero boati. Il matrimonio fu infatti scoperto e gli sposi clandestini furono separati ed inquisiti. In un primo momento i due per far placare le acque simularono totale ubbidienza, ma non perseverarono molto. Il papa ritornò nuovamente sul caso e con maggiore severità, ordinando l'arresto della sola donna e l'annullamento del matrimonio. Appresa l'intenzione del duca di conformarsi alla volontà del pontefice, quando era ormai da sei mesi rinchiusa in Castel Sant'Angelo, Vittoria tentò il suicidio ma con scarsa determinazione, più autentico fu invece lo stato di prostrazione in cui cadde quando si sentì oltraggiata dal trattamento che le fu riservato dopo la scarcerazione, avvenuta quasi un anno dopo, l'11 novembre 1582, grazie all'intercessione del cardinale Carlo Borromeo. Le fu ingiunto di ritirarsi "a fare l'obedientia in Agobio" con un pesante precetto: rinunciare all'unione

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col duca, il quale frattanto era stato riammesso nella buona grazia del papa. Ma la storia era ben lontana dall'epilogo, era soltanto il primo atto di un tragedia che rapidamente stava scivolando verso la catastrofe. Seguì un crescendo di errori, primo fra tutti un secondo matrimonio segreto, dopo che Paolo Giordano, con la scusa di un pellegrinaggio a Loreto, si era recato a Gubbio per ripigliarsi Vittoria. Le nozze furono celebrate in gran segreto a Bracciano il 10 ottobre 1583. Nessuno degli amici romani vi era stato invitato, anzi l'Orsini scrisse una lettera al cardinale de' Medici per metterlo in guardia sulle possibili calunnie a proposito. Continuò a mentirgli sfacciatamente anche quando lo pregò d'intercedere in favore del suo matrimonio pubblico presso il papa, che peraltro era già ben informato delle nozze avvenute due anni prima. Aveva deluso il de' Medici e ancor di più acuito l'ultrice pena del cardinale di Montalto, commettendo la sfrontatezza di andarlo a visitare insieme a Vittoria. Il risultato fu un nuovo monitorio di Gregorio XIII e un'altra inquisizione ancora più insidiosa della prima. Fu presa di mira nuovamente la sola Vittoria, su di lei si adunarono pesantissimi sospetti: adulterio e assassinio del marito; mentre al duca di Bracciano, solo dopo l'intervento del cardinale de' Medici e altri potentissimi amici, fu lasciata l'unica opzione ammissibile, quella di rinunciare a Vittoria. Finse di piegarsi per guadagnare tempo, perché intanto esplorava, attraverso il cugino Ludovico che già vi risiedeva, la possibilità di riparare nei territori veneziani, ma restò a lungo incerto sul da farsi. Il 10 aprile 1585 Gregorio XIII morì. L'evento consentì alla coppia di riprendere fiato. Ora importava solo che dal conclave non uscisse eletto il cardinale di Montalto. Ipotesi giudicata diffusamente assai remota, soprattutto perché fra Felice Peretti, provenendo dai più bassi ceti sociali, non aveva alcuna possibilità di spuntarla sul più favorito cardinale Farnese. Ma intanto vigeva l'interregno e Paolo Giordano ne volle approfittare per sposare di sorpresa e per la terza volta Vittoria, ma alla cerimonia di nozze non seguirono le consuete allegrezze. Corse immediatamente la voce che il vento era soffiato proprio sul frate inquisitore marchigiano. Assunse il nome di Sisto V. Nulla di peggio poteva capitare agli sposi novelli. Il nuovo papa mise subito in chiaro le cose: il giorno stesso della sua consacrazione solenne, mentre si recava a cavallo al Laterano, gli piacque attraversare ponte Sant'Angelo tra

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due ali di forche, da cui penzolavano quattro giovani che avevano infranto il divieto di portare le armi. A questa esecuzione ne seguirono tante altre senza distinzione di grado e condizione. In capo a due anni lo Stato della Chiesa divenne il luogo più sicuro d'Italia. Lo zelo riformatore del papa volle esercitarsi persino sul piano dei costumi privati, il che ci lascia pensare che egli non avesse mai smesso di rimuginare sulla rovina del nipote: fra le sue intenzioni più pie vi fu infatti quella di punire capitalmente l'adulterio. La protervia comunque impediva a Paolo Giordano d'intendere ciò che banalmente era al cospetto di tutti. Non concepiva che un umile frate francescano, benché fresco pontefice, potesse misurarsi con la grandezza della sua antica casata. Spinse allora stupidamente la propria insolenza fino a chiedere al papa due udienze, nella seconda si accorse di trovarsi ormai in pericolo e finalmente si risolse a fuggire con familiari e famigli. Il 21 maggio 1585, gli Orsini presero la strada per Loreto e poi risalirono lungo la costa adriatica fino a Fossombrone per salutarvi il vescovo Ottavio, da lì l'11 giugno raggiunsero Urbino dove furono accolti dal duca Francesco Maria II della Rovere, che si dimostrò assai gentile con Vittoria facendo ciò che molti altri avevano trascurato di fare, la riverì come duchessa. Da Urbino scesero a Pesaro e qui rimasero qualche giorno in attesa di due galee veneziane. Intanto Paolo Giordano si era gravemente ammalato e, temendo di morire, aveva dettato testamento lasciando 40.000 scudi a Vittoria, pur non nominandola moglie, e la tutela del figlio Virginio al cardinale de' Medici. Guarito l'Orsini, la mesta carovana s'imbarcò per Venezia, dove giunse il 28 giugno. L'Accoramboni non aveva dimenticato le cortesie di Francesco Maria II della Rovere e il medesimo giorno dell'arrivo in laguna gli aveva scritto ringraziandolo pure dei favori che la Repubblica accordava loro, riconoscendone l'origine nella "protettione di Sua Altezza Serenissima". Ovviamente non era vero: cerimoniosità usuali in voga in quegli anni come quelle del duca di Urbino, che invece nel privato del suo diario aveva distinto i titoli dell'uno e dell'altra. Neppure era vero che la Signoria veneziana avesse accolto l'Orsini con così tanto entusiasmo. Dopo qualche mese di rumoroso soggiorno, trascorso tra Venezia, Padova e le terme di Abano, infatti, era sfumata pure la carica di governatore generale che gli era stata promessa. Nessuno a Venezia era tanto imprudente da contrariare Sisto V.

L'indagine sulla morte di Francesco Peretti marciava intanto speditamente e il cerchio si stava chiudendo. Ciò esasperava il duca di Bracciano più di quanto non lo facessero i tanti mali che lo affliggevano. Si sentiva braccato, ma non per questo rinunciava alle piacevolezze della vita di società. Ovunque andassero, gli Orsini erano accolti con cordiale amicizia mista a curiosità soprattutto per la bella Vittoria. Non durò a lungo, a novembre il duca dovette badare seriamente a curarsi, ormai era giunto allo stremo. Pensò perciò di ritirarsi sul Lago di Garda, ma prima di partire per Salò, il 30 ottobre 1585, fece un nuovo testamento. Nominò erede universale il figlio Virginio e ordinò che Vittoria fosse ottimamente dotata per il resto della sua vita. Esecutori testamentari i duchi di Urbino e di Ferrara. Il 2 novembre, Paolo Giordano consegnò alla moglie una copia autentica del testamento, ornata con l'arma matrimoniale dei due, e il 13 sera spirò. Non mancò chi avanzasse la solita tesi dell'avvelenamento, sospettandovi dietro la mano del cugino Ludovico su mandato del provetto alchimista Francesco I de' Medici, il primo in odio a Vittoria e l'altro per salvaguardare gli interessi di Virginio. Più tardi, Vittoria stessa, ripresasi dallo sgomento e dal tentato suicidio, informò del ferale evento Francesco Maria II della Rovere e Bianca Cappello affidandosi alla loro protezione: si sentiva isolata ed aveva molta paura. Dalla Cappello ovviamente non giunse alcun segnale, mentre il duca di Urbino, pur avendo in segreto assicurato la sua protezione, non osò tuttavia farsi esecutore testamentario per non dispiacere ai fratelli de' Medici. Va da sé che i cospicui lasciti testamentari furono inesorabilmente decisivi della sua sorte. Pochi giorni dopo, "A 22 fu ammazzata in Padoa l'Accorambona, con Flaminio suo fratello, dal signor Lodovico Orsino, il quale poi con molti de' suoi fu fatto morire dalla Giustizia". La morte di Vittoria fu tanto orribile che commosse la città di Padova e persino l'adusa Signoria veneziana. Pare che questa volta a guidare la mano assassina di Ludovico Orsini vi fossero veramente il granduca ed il cardinale de' Medici. Tra i pochi che erano scampati all'eccidio vi fu pure Marcello, che pensò di salvarsi imbarcandosi per Ancona. Appena vi giunse fu però catturato, condotto a Roma, processato e decapitato in carcere nel giugno del 1586, non per la morte del cognato, bensì per l'omicidio del fratello del cardinale Paravicino. Sisto V non volle mostrarsi neppure nell'ombra. Il 27

Duca Paolo Giordano Orsini.

Stemma del casato Accoramboni.

giugno di due anni dopo, furono officiati i funerali solenni e tardivi del nipote del papa. Il 20 marzo 1589, Flavia Damasceni Peretti, pronipote di Sisto V, sposò Virginio, figlio di Paolo Giordano Orsini e Isabella de' Medici.

Giovanni Murano si è laureato in Urbino e attualmente vive e lavora a Firenze. Vincitore del "Premio Tommasoli" per la ricerca storica, ha pubblicato alcuni saggi di storia medievale e del rinascimento urbinate. Ha in corso di pubblicazione per Monacchi Editore LA STREGONERIA NEL DUCATO DI URBINO ALLA FINE DEL CINQUECENTO. Processo a donna Laura di Farneta - Urbino 1587.


Le limacciose acque della Fortuna di Filippo Venturini

In Mannish Boy, Muddy Waters1 canta: "credo che me ne andrò giù in Kansas, e riporterò il mio secondo cugino John the Conqueroo" e in Hoochie Coochie Man: "Ho l'osso d'un gatto nero, un dente come amuleto, e John il Conquistatore". Nel film "Angel Heart, il protagonista a New Orleans entra, sorpreso da un temporale, in un negozio "di articoli magici" e chiede "la radice di John il Conquistatore", cioè la prima cosa che gli viene in mente, a caso, la più ovvia, infatti la venditrice gli risponde "sorpreso dalla pioggia eh?". Il John the Conqueroo parrebbe dunque essere un potente amuleto, finalizzato soprattutto a procurarsi favori femminili: nelle canzoni citate, si allude, infatti, al potere di fascinazione sulle donne di tale "oggetto", che parrebbe essere una radice, stando al film. La cosa continua a non essere chiara: perché quel nome, perché una radice, da dove l'origine del potere attribuitole? Alcune risposte sono in: The book of Negro Folklore di Langstone Huges, nel IV capitolo c'è un paragrafo intitolato "High John De Conquer2". "High John De Conquer era un uomo, e un potente uomo, ma non era un uomo naturale, all'inizio. Originariamente era un sospiro, una volontà di speranza, un desiderio di trovare qualcosa degno d'una risata e d'una canzone. Poi quel sospiro si fece carne, i suoi passi risuonarono attraverso il mondo in un low3 ritmo, come se il mondo sul quale camminava fosse un singing-drum … Divenne un uomo in carne ed ossa, per vivere e lavorare nelle piantagioni, e tutti gli schiavi lo conobbero. Il marchio di questo uomo era una risata, il suo singing-symbol era il ritmo del tamburo" Il racconto continua, descrivendo il viaggio compiuto dall'entità, volando dall'Africa, vegliando sulle navi schiavili "camminava sui venti e si muoveva velocemente". Poi si passa a descrivere le gesta dell'"uomo", a partire dall'aspetto: imponente, secondo alcuni, minuto, "Devil's doll-baby", secondo altri. Considerato in connessione con la musica alla quale John è legato, musica di tamburi, quindi dell'invasamento, questo polimorfismo potrebbe farlo sembrare una sorta di "Dioniso Nero". John appare coi tratti del trickster: se la cava nelle più complicate situazioni, con furbizia ineguagliabile, come quando riesce, per lungo tempo, a rubare i maiali del "Massa"4, fino a che, insospettito, quest'ultimo si reca nella baracca di John, che sta cucinando proprio uno di quei maiali. Il padrone dice d'avere fame e vorrebbe un po' di quello che bolle in pentola, John

dice che è "un piccolo opossum rinsecchito, il più rinsecchito che si sia mai visto", certo non è il cibo per un padrone bianco. John gioca con le parole: per dire che è il più rinsecchito opossum che abbia mai visto, usa il termine "slickiest", che significa anche e soprattutto: "scivoloso, falso". Nella pentola c'è uno dei maiali del padrone, ed il termine slick, potrebbe anche significare "eccellente, ottimo". Vengono alla mente Pseudolo o Palestrione: astutissimi servi Plautini. John in questo caso è uno schiavo. Il Massa vuole comunque mangiare, allora John s'appressa alla pentola, dicendo: " … io ho messo un opossum, ma se venisse fuori un maiale, non sarebbe colpa mia", del resto il padrone è stato avvisato quello è "the slickiest possum" mai visto. Viene alla mente anche Chichibio. Massa ride, sopraffatto dall'astuzia di John, e da quel momento concede carne di maiale a tutti gli schiavi della piantagione. Si noti la combinazione di vari elementi: schiavo astuto, furto, affidamento alla fortuna, al caso: "…ho messo un opossum, ma se venisse fuori un maiale…". La stessa combinazione c'è in ambito romano5: Servio Tullio fonda il più antico tempio di Fortuna a Roma, costui è un re d'origine servile, si distingue per furbizia ed abilità nel furto6. Fortuna era venerata dalla plebe e dagli schiavi, ad essa era legato il rito delle sortes, cioè: sassolini7 o bastoncini8 estratti da un contenitore, per interpretare il futuro. Allorchè John s'appresta ad estrarre il cibo dalla pentola, compie un gesto che richiama alla mente l'estrazione delle sortes, impressione rafforzata dal fatto che, quanto sta per prendere potrebbe essere un'opossum, come un maiale: ambiguità della fortuna, che può ribaltare tutto, tratto che ricorre in molte altre culture. In un altro caso John compare "oniricamente" agli schiavi che si stanno riposando dal lavoro, e li conduce in un viaggio ultraterreno: prima all'Inferno ove John fa cucinare alcuni dei maiali del Diavolo sul barbecue, poi si candida come High Chief the Devil e vince l'elezioni. Anche Herakles, al quale si possono riconoscere alcuni caratteri del trickster, diventa "una sorta di Plutone dispensatore di ricchezza"9. Dall'Inferno John ed il suo corteggio salgono in Paradiso, ove trovano: "un motivo che tu puoi arrangiare come vuoi, e porvi le parole ed il sentimento che hai". Se questo non è il Blues…!! La vicenda di "John uomo" termina con la fine della schiavitù, allorché costui si ritira nel suolo del Sud e

aspetta, che gli oppressi lo invochino. John the Conquer viene anche paragonato a Re Artù, come questi, infatti "aiutò il proprio popolo, e tornò di nuovo nel mistero. E come Re Artù non è morto, aspetta di tornare allorché invocato dalla sua gente. High John è tornato in Africa, ma ha lasciato il suo potere qua, e ha posto la sua residenza americana nella radice d'una certa pianta, possedendola lo si può evocare ogni volta". L' Ipomoea Jalapa, potrebbe essere tale radice: è un potente lassativo, ma era usata anche per incantesimi sessuali, nonché considerata di buon auspicio nel gioco d'azzardo. E' verosimile che l'Ipomoea Jalapa sia legata alla magia sessuale, perchè, essiccata, ha l'aspetto d'un testicolo. Inoltre tale radice potrebbe essere parte del contenuto della sacchetta del mojo10, concordemente con quanto dice Muddy Waters, che nomina John the Conqueroo, insieme al dente amuleto e all'osso di gatto nero. Ecco chi invoca Muddy Waters nelle sue canzoni, pur, riducendolo ad un semplice talismano sessuale: mirabile esempio di "degradazione del mito"11.Nero, sradicato dal Sud rurale, e trasferitosi nella meccanica Chicago, Waters non comprende più l'essenza di John De Conquer, tuttavia lo nomina, cantando, o meglio, salmodiando, in due brani, ove il ritmo ha il totale sopravvento sulla melodia, sposandosi con un riff ossessivamente sempre uguale, l'effetto è quello ipnotico, estatico della musica dei tamburi, il simbolo di John è il ritmo del tamburo, ciò conferma che, pur degradato, "l'archetipo continua a creare…"12. Dalle storie riportate, sia quella dell'opossum, che quella del viaggio alla ricerca della musica, risulta che, alla base della saga di John il Conquistatore, c'è una tradizione folklorica, assai profonda, e con assonanze in aree ed in epoche disparate, una tradizione riconducibile all'ambito schiavile e/o servile e plebeo. Per Seneca, "aristocratico" la fortuna si supera, neutralizzandola, nel bene e nel male13; invece, in born under a bad sign il bluesman nero Albert King canta: "sono nato sotto una cattiva stella…se non fosse stato per la sfortuna, non avrei avuto fortuna affatto". Si superi l'atteggiamento di patetica commiserazione del "povero nero", e di conseguente autoflagellazione per la cattiveria del bianco. Si consideri la tradizione legata al blues in un più ampio panorama comparativista, non solo in relazione, ovviamente, all'Africa, ma anche ad altre culture, i risultati potrebbero essere interessanti.

"Lighntin'Hopkins-Mojo Hand" di Stefano Mancini Acquafortre acquatinta punta secca su zinco. Tre lastre da 310 mm x 490mm. "Acque Fangose": pseudonimo di McKinley Morganfield. 2 De anziché The è scritto nel testo originale, per riprodurre la parlata dei neri. 3 Lasciamo il termine in inglese per non privarlo dei molteplici significati, che lo contraddistinguono, tutti calzanti al contesto. 4 Il padrone bianco Massa da Master. 5 A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle Origini, Roma 1976, pp. 17- 55. 6 Idem, pp. 50-51. 7 Fanum Fortunae. 8 Preneste. 9 G. Dumézil, Le problème des centaures, Paris 1929, p.159. 10 Altro potente amuleto, del quale sarebbe troppo lungo spiegare il significato in questa sede. 11 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 2004, pp. 394- 397. 12 Idem, p. 395. 13 De constantia sapientis, XV,4. 1

Filippo "Phil the Thrill" Venturini archeologo, studioso di mosaici; armonicista, da anni collabora col chitarrista e cantante Stefano "Steve" Mancini, che ha approfondito la conoscenza del Blues, soggiornando a New Orleans, suonando con musicisti locali. Stefano è anche incisore, recentemente (10/7-3/8, 2008) ha esposto le proprie opere ai Giardini della Biennale, a Venezia.

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Emozioni della scienza: percorsi d'arte sul patrimonio strumentale urbinate di Roberto Mantovani

L'antefatto Nel dicembre 2007 ricevetti da una giovane ma già quotata videoartista di origine del Bangladesh, l'insolita richiesta di venire da Londra, dove vive e opera, ad Urbino per girare un cortometraggio artistico sopra un nostro strumento scientifico. Pochi giorni dopo l'artista in questione, Runa Islam, formatasi presso il Royal College of Art di Londra, accompagnata da un gruppo di cineoperatori, si presentò presso il Museo del Gabinetto di Fisica dell'università di Urbino per iniziare le riprese. Islam mi spiegò che aveva intenzione di presentare per la mostra Lost Cinema Lost che, di lì a pochi mesi, era in programma presso la Galleria Civica di Modena: una sua opera cinematografica ispirata al tema dell'illusione ottica, al cinema perduto delle origini e della lanterna magica, luogo dell'illusione e della proiezione, dove la semplice sovrapposizione dei fotogrammi generava immagini nuove, irreali, adatte per raccontare, sognare e capire. Lo strumento scelto era il taumatropio (dal greco "thauma" meraviglia, sorpresa e dal tema del verbo "trepo" che significa volgere), un apparecchio molto popolare nell'ottocento, storicamente tra i primi ad essere inventato come prova della persistenza delle immagini sulla retina. La videoartista aveva selezionato il taumatropio urbinate dopo lunghe ed accurate ricerche presso i principali musei scientifici del mondo. La bellezza del pezzo ma anche la sua storia, la particolare tipologia (era un accessorio della macchina di rotazione) e le notevoli dimensioni la avevano convinta a compiere un lungo viaggio per realizzare la sua opera ad Urbino. Naturalmente quell'incontro accrebbe in me la piacevole consapevolezza di poter gestire un patrimonio scientifico di grande prestigio; contemporaneamente esso ebbe anche il benefico effetto di indurmi a riflettere sull'affascinante e diacronico dialogo tra il mondo dell'arte e quello della scienza e sulle molteplici connessioni interdisciplinari che un museo storico-scientifico, qual è quello presente nell'ateneo urbinate, poteva offrire, al di fuori del suo ruolo istituzionale, ad un pubblico curioso, colto ed interessato. Al di là, infatti, del classico utilizzo in chiave epistemologica e didattica del complesso ruolo svolto dalla strumentazione scientifica - reperti e testimoni della scienza passata nella costruzione e nell'evoluzione delle teorie scientifiche un siffatto materiale si presta molto bene anche a diversificati approcci culturali e, nello specifico, a considerazioni ed iniziative di tipo artistico.

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La mostra urbinate Quando, quindi, poco tempo dopo la venuta della Islam, ebbi la visita presso il nostro museo del presidente dell'Associazione culturale "L'arte in Arte" di Urbino, Oliviero Gessaroli, lanciai immediatamente l'idea di organizzare una mostra d'arte contemporanea che avesse come filo ispiratore i nostri antichi strumenti scientifici. Il presidente e il suo gruppo di artisti raccolsero immediatamente la mia "provocazione" e dopo alcuni mesi di intensa e reciproca collaborazione, svoltasi inizialmente con un primo seminario pubblico sulla storia, la tipologia e le caratteristiche tecnico-funzionali della collezione strumentale urbinate e in seguito proseguita con incontri, discussioni e visite presso il nostro museo, la mostra, concretamente, accese le proprie luci (Gli artisti leggono la scienza. Percorsi d'arte sul patrimonio strumentale urbinate, Collegio Raffaello, Urbino, 20 dicembre 2008 - 11 gennaio 2009). Su essa è stato prodotto anche un piccolo catalogo (non esaustivo di quanto esposto) iconograficamente interconnesso nel rapporto strumento scientifico-opera d'arte, con la peculiare presenza di note esplicative redatte dagli artisti medesimi. Queste espressioni verbali, -nonostante le riserve avanzate da alcuni critici d'arte e letterari - integrano, e in qualche caso esplicano, il processo creativo per lo meno nel suo stato larvale. Gli studiosi del linguaggio hanno a lungo dibattuto l'impatto dell'immagine visiva quale veicolo comunicativo delle esperienze e delle conoscenze di ognuno di noi. Essendo queste espressioni soggettive logico-emozionali non facilmente relazionabili in termini di un linguaggio simbolico comune, ne consegue che la sola immagine non è esaustiva del potere espressivo, evocativo e descrittivo del linguaggio logico-simbolico umano. Il grado di astrazione del linguaggio è infatti incommensurabile all'immagine visiva e una loro correlazione non può che selezionare e rafforzare il processo conoscitivo. Si pensi, ad esempio, alle meravigliose sensazioni che suscitano in noi i libri miniati, o più in generale alla grande pittura italiana del Rinascimento, fortemente ancorata a temi narrativi di storia antica e religiosa, frutto di committenze erudite che concepivano l'arte essenzialmente come glossa al testo. Al di là di queste tematiche di metodo, la mostra urbinate si presta anche ad ulteriori interessanti considerazioni, sul ruolo, come al ruolo nella storia, del manufatto scientifico quale oggetto d'arte e sul rapporto privilegiato arte-

Copertina del catalogo della mostra.

Taumatropio montato sulla macchina di rotazione. Lo strumento fu acquistato dal P. Alessandro Serpieri intorno al 1865 per il Gabinetto Fisico dell'Università di Urbino.


scienza sviluppatosi in Urbino nel primo Rinascimento. L'arte dello strumento scientifico Chi ha occasione oggi di visitare un laboratorio di ricerca scientifica può forse rimanere colpito dalla complessità delle macchine, dal groviglio dei fili, da uno sfavillio pulsante di luci e lucette, dai suoni metallici ma non certo dalla presenza di forme e materiali esteticamente attraenti. L'apparato strumentale contemporaneo è generalmente una scatola metallica piuttosto anonima dalle forme essenziali e dai colori bruniti, curatissima sotto l'aspetto funzionale, ma priva di un qualsiasi appeal emozionale. Nel corso dei secoli esso si è evoluto sul piano tecnologico raggiungendo livelli di sensibilità e precisione fino a poco tempo fa quasi inimmaginabili ma pur tuttavia perdendo, lungo il suo impetuoso percorso di sviluppo, una caratteristica originale molto specifica: il suo valore estetico. I primi costruttori di strumenti scientifici erano, infatti, artigiani in grado di coniugare alla più o meno asciutta capacità operativa dello strumento, anche una selezionata scelta dei materiali, quasi sempre nobili e di gran pregio, una lavorazione attenta e di cesello, un gusto per le forme e i particolari che dovevano rendere il manufatto esteticamente fruibile al tatto e alla vista; oggetti d'arte, dunque, ma non solo specchi incantati di una creatività fine a se stessa bensì efficaci indagatori delle regole della natura. È questa valenza estetica una caratteristica precipua della strumentazione scientifica urbinate: reperti che, al di là del loro pregnante significato storico, assolvono con le loro sapienti lavorazioni al piacere dell'occhio del visitatore rendendolo partecipe di una dimensione della scienza non strettamente tecnica bensì 'sensorialmente" fascinosa e in qualche modo culturale. D'altronde non è un caso se in questi ultimi anni prestigiose case d'aste mondiali quali Sotheby's e Christie's, abbiano inseriti con regolarità nei loro cataloghi congrui gruppi di antichi manufatti scientifici riconoscendo in essi le qualità di un bene antiquario, di un investimento d'arte in quanto dotati di una stima di mercato e di una certa ricercatezza. In quest'ottica, quindi, rivisitare la collezione strumentale urbinate con iniziative aperte al mondo dell'arte contemporanea ha un senso decisamente positivo in quanto recupera, quasi ancestralmente, quel ruolo estetico ed umano della scienza passata di cui, oggi, si è persa ogni traccia. Scienza nell'arte: il caso urbinate C'è un altro motivo che lega idealmente l'iniziativa della mostra prima citata

agli eventi storici più significativi della nostra terra: la rimarchevole e prestigiosa tradizione artistico-scientifica esplicatasi in Urbino soprattutto in epoca ducale. Parlare di essa significa primariamente soffermarsi sull'illuminato mecenatismo di Federico da Montefeltro, sul suo ancora vivissimo e splendido Palazzo Ducale e su alcune opere in esso conservate. E' a partire dagli anni 1460-1480 circa che, sotto la guida di Federico, il ducato raggiunse il suo massimo splendore diventando uno dei centri politici più importanti d'Italia e, dal punto di vista culturale, uno tra i più attivi dell'età umanistica. Eminenti personaggi quali Leon Battista Alberti, Paolo Uccello, Luciano Laurana, Piero della Francesca, Francesco di Giorgio Martini e Luca Pacioli, diedero lustro alla corte urbinate ponendo in essere una delle prime e più alte forme di commistione tra le arti ed il sapere tecnico-scientifico del primo Rinascimento. Basti pensare ai bassorilievi che un tempo ornavano il postergale del sedile in pietra della facciata ad ali del palazzo urbinate dove si trovano riprodotte, in un condensato tecnologico evoluto ed innovativo, molte macchine ad uso bellico o sociale. È questo fregio una traccia significativa dell'arte meccanica portata ad Urbino da Francesco di Giorgio Martini in un periodo che, storicamente, coincise con la più feconda e matura produzione tecnologica dell'artista-ingegnere senese; e come non ricordare, in una delle stanze più piccole e ombrose della città in forma di palazzo, la presenza della tarsia prospettica, una tra le più emblematiche e raffinate tecniche visive illusionistiche del primo Rinascimento? Merito certamente, agli inizi del quattrocento, di quella riconfigurazione dell'espressione artistica su basi razionali prodottasi attraverso l'invenzione della prospettiva, sulla quale, proprio in Urbino, è stata scritta una pagina importante. Ma le magiche tarsie lignee dello studiolo ducale forniscono anche ulteriori prove del carattere scientifico dell'impresa federiciana: tra i decori degli intarsi sono, infatti, splendidamente riprodotti i più antichi strumenti scientifici che la città di Urbino abbia registrato. Si tratta di apparati importanti per l'epoca quali la sfera armillare, l'astrolabio, il compasso e l'orologio meccanico. Con essi viene inaugurata quell'attenzione verso l'orologeria meccanica e la produzione di manufatti scientifici che avrà in seguito terreno fertile sotto la reggenza del Duca Guidubaldo II della Rovere (1539-1574). È precisamente in questo periodo che inizia ad affermarsi una qualificata officina degli

Questo splendido telescopio a riflessione, modello Gregory, venne venduto nel 1818 da Angelo Viviani all'Università di Urbino per sette scudi.

Ricostruzione dell'orologio meccanico a pesi presente negli intarsi dello "Studiolo" del Palazzo Ducale di Urbino.

strumenti scientifici che ebbe in Simone Barocci il suo illustre fondatore e propugnatore. Questa bottega di meccanici ed artigiani fu attiva dalla metà del Cinquecento alla metà del Settecento e al suo indubbio successo concorsero anche eminenti personaggi della scuola matematica urbinate quali Federico Commandino, Guidobaldo del Monte e Muzio Oddi. L'officina produsse elaborati strumenti finemente lavorati per architetti, ingegneri, matematici e meccanici assumendo ben presto un'importanza europea: Galileo commissionò ad essa un compasso geometrico e militare e i Duchi amavano inviare presso tutte le corti europee splendidi astucci di strumenti matematici. Conclusioni L'arte, nella sua accezione più generale, pur cavalcando il sogno di una sua valenza estetica universale, è sempre stata parte di un contesto storico, di un sistema culturale. In passato, come ha messo bene in evidenza Gerard Holton, l'immaginazione ha alimentato la scoperta scientifica come la creazione artistica. Basti pensare al famoso quadro di Joseph Wright of Derby, An Experiment on a Bird in an Air Pump (Londra, 1768) dove lo stupore e l'emotività della scena generano un istantaneo bisogno di spiegazione. Oggi arte e scienza sembrano apparire ai più attività molto diverse tra loro sia nei loro prodotti finali che nell'organizzazione sociale che li presiede. Eppure, se ci pensiamo bene, punti di contatto, affinità e metodi emergono nell'inconscio, in forme quasi insospettabili. Si

consideri il ruolo avuto e che continua ad avere l'illustrazione scientifica quale mezzo di aiuto nella didattica e nella ricerca. Essa, riproposta in chiave artistica, perde parte della sua funzione cognitiva e performativa in favore di quella emotiva; entrambe le esperienze, tuttavia, si fondano sulla medesima costruzione tecnica. Ancora, idea e realizzazione di un'opera si accomunano con ipotesi scientifica ed esperienza sperimentale in percorsi non troppo dissimili tra loro nei quali l'ordine estetico, personale o impersonale che sia, guida le esperienze. Simmetria, bellezza, eleganza e semplicità, ciascuna nel proprio linguaggio simbolico e comunicativo, contribuiscono ad arricchire le attività dello scienziato e dell'artista; sì, espressioni diverse, ma convergenti in un'unica cultura.

Roberto Mantovani E' attualmente ricercatore in Storia della Fisica presso l'Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo". Dal 1994 è curatore della Collezione Storica di Strumenti Scientifici conservata presso il Gabinetto di Fisica dell'Università di Urbino. Dal 2004 insegna Storia della strumentazione scientifica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Urbino. Le sue principali attività di ricerca riguardano la storia della Fisica in generale e, soprattutto, la storia della strumentazione scientifica. È autore di numerose pubblicazioni e comunicazioni a congressi nazionali ed internazionali e, dal 2006, è anche VicePresidente della Società Italiana degli Storici della Fisica e dell'Astronomia.

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Analisi scientifica sui paesaggi del Dittico dei Duchi di Urbino Rosetta Borchia e Olivia Nesci

INTRODUZIONE Il progetto "Il Paesaggio Invisibile: i veri paesaggi di Piero della Francesca", finanziato dal GAL, Montefeltro Leader e Flaminia Cesano, nasce nell'ottobre 2007 con il riconoscimento, da parte dell'artista urbinate Rosetta Borchia, del paesaggio che fa da sfondo al ritratto di Federico da Montefeltro, nel famoso Dittico dei Duchi di Urbino di Piero della Francesca. Per l'eccezionalità della scoperta, Rosetta Borchia, da sempre appassionata di paesaggio, dà inizio ad una serie di ricerche storico-artistiche che insieme alle indagini scientifiche di Olivia Nesci, docente dell'Università di Urbino ed esperta del paesaggio fisico, porteranno al riconoscimento anche degli altri due paesaggi che fanno da sfondo al Dittico. Il doppio ritratto dei duchi Federico da Montefeltro e Battista Sforza, dipinto ad olio (47x33) nel 1466 alla corte montefeltresca di Urbino, è considerato un capolavoro assoluto, tra i pochi che possano considerarsi veramente universali nell'arte di tutti i tempi (Maetzche, 1998). Il dittico è dipinto sia sul davanti che sul retro. Sulla parte anteriore il Duca e la Duchessa sono raffigurati a mezzo busto, di profilo, l'uno di fronte all'altro. Sulla parte posteriore i due personaggi sono seduti su carri trionfali e sembrano procedere l'uno verso l'altro. Nonostante i numerosi studi sull'arte pittorica di Piero della Francesca poco è stato scritto sui paesaggi rappresentati nello sfondo del dittico di Federico da Montefeltro e Battista Sforza e dei retrostanti Trionfi, giudicati generalmente paesaggi di fantasia o simbolici. La rappresentazione dell'infinitamente piccolo si inserisce in quella dell'infinitamente grande nell'intento, riuscito, di raggiungere la totalità della visione attraverso la somma degli opposti. Una rappresentazione del paesaggio talmente innovativa e imperscrutabile che fa di Piero della Francesca il primo studioso del paesaggio fisico nella sua globalità. Un paesaggio che con la sua perfezione geometrica e topografica, doveva comunicare un basilare messaggio religioso (Borchia e Nesci, 2008) ma che, sorprendentemente, rivela anche un altro aspetto importante, quasi geniale: la rappresentazione pittorica diviene un contributo alla conoscenza scientifica. Non solo come studio della prospettiva ma anche come studio evolutivo, nello spazio e nel tempo, delle forme del paesaggio. Dunque un "paesaggio invisibile" in quanto gli aspetti geografici e storici della rappresentazione pittorica sono di complessa lettura se non si parte da

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una analisi scientifica approfondita e puntuale degli elementi del paesaggio stesso. Obbiettivo della ricerca, quindi, è stato quello di dimostrare scientificamente la veridicità delle ipotesi sviluppate sui paesaggi retrostanti il Dittico. La presente trattazione costituisce una sintesi delle ricerche effettuate e dei risultati conseguiti. Metodologia La metodologia utilizzata per l'individuazione e la ricostruzione dei paesaggi è stata quella dell' analisi d'immagine, tecnica ampiamente utilizzata nello studio delle immagini satellitari e delle foto aeree per l'interpretazione della morfologia terrestre. Le immagini informatizzate ad alta risoluzione (gentilmente concesse dagli Uffizi, che qui ringraziamo) sono state sottoposte ad analisi del tono, tessitura, pattern e shape (Drury, 1997). Identica metodologia è stata riproposta nelle fotografie dei paesaggi attuali per poi operare il confronto. In parallelo è stata effettuata l'analisi geomorfologica degli elementi pittorici non più riconoscibili nella morfologia odierna. Sono stati eseguiti rilevamenti geomorfologici a scala dettagliata delle aree riconosciute nei dipinti, orientandosi in ricerche di tipo morfoevolutivo. Partendo dal concetto che il paesaggio di oggi è simile ma non uguale al paesaggio di 500 anni fa, la ricerca si è inoltre orientata sulle indagini bibliografiche presso le biblioteche del territorio marchigiano per reperire tutta la documentazione relativa agli studi climatici, geografici e storici nel paesaggio rinascimentale nord-marchigiano. Analisi geomorfologica La ricerca ha avuto inizio con il riconoscimento del rilievo posto sullo sfondo del dipinto che raffigura Federico da Montefeltro dipinto da Piero nel suo soggiorno urbinate. Il rilievo è il Monte Fronzoso, una piccola collina dalla forma piramidale che limita la grande piana del Metauro tra Urbania e Sant'Angelo in Vado. Il profilo del monte è straordinariamente identico alla collina nello sfondo di Piero sia nel generale che nel particolare (Fig. 1). La tessitura granulare e il colore scuro presenti sul lato verso il fiume si differenziano bene da quelle uniformi del versante opposto. Nell'attuale paesaggio gli elementi con lo stesso pattern del dipinto corrispondono rispettivamente alla copertura boschiva e al prato. Al di sotto del bosco affiora il Bisciaro, formazione della Successione umbro-marchigiana costituita da alternanze di calcari e cal-

Fig. 1 - Il Monte Fronzoso a confronto con il rilievo dietro al ritratto del Duca Federico. Le linee bianche tratteggiate evidenziano i limiti tra i prati e il bosco.

Fig. 2 - Schema geomorfologico del tratto della pianura alluvionale del Fiume Metauro con sezioni geologiche trasversali. Legenda: 1. paleoalveo del Metauro, 2. depositi terrazzati antichi, 3 depositi colluviali e di frana, 4. paleo meandro, 5. scarpata fluviale, 6. conoide alluvionale antica, 7. ubicazione dei sondaggi geognostici, 8. traccia delle sezioni.


cari marnosi. Nel versante opposto il cambiamento del pattern, con colore chiaro e tessitura omogenea, corrisponde, nell'attuale paesaggio, all'affioramento di unità litologiche più marnose. Le rocce più degradabili impediscono la formazione di suolo e quindi l'attecchimento di specie vegetali arboree, per cui la superficie rocciosa si mantiene generalmente a prato. Successivamente al riconoscimento di questo elemento morfologico sono stati riconosciuti tutti gli altri particolari del dipinto che, con precisa soluzione di continuità, costituiscono l'intera scenografia. L'unica morfologia, solo apparentemente estranea al paesaggio del ritratto del Duca, è l'ampio fiume che, meandrando, sfocia in una vasta superficie lacustre che si apre in primo piano. E' noto che per produrre allagamenti di aree prospicienti l'alveo è sufficiente un ostacolo trasversale al fiume, come una diga o una briglia. Tale situazione produrrà, a monte dell'ostacolo, una sedimentazione fluviolacustre molto lenta e a valle un' erosione fluviale con forte approfondimento dell'alveo. La prova indiretta dell'esistenza di una chiusa fatta costruire da Federico da Montefeltro attraverso il Ponte del Riscatto (di cui parla abbondantemente la tradizione popolare, anche antica) è basata su alcune fedeli riproduzioni dell'abitato di Urbania (Piccolpasso, 1500; Mingucci, 1646) in cui emergono chiaramente sia i segni dell'infrastruttura che le differenze di quota prima e dopo il ponte. Con un dettagliato rilevamento geomorfologico e delle stratigrafie ricavate da sondaggi geognostici si è cercato, su basi morfostratigrafiche e topografiche, di dimostrare la possibilità dell'esistenza della superficie fluvio-lacustre. Lo studio ha quindi permesso di stabilire che la posizione del lago, anche se non rilevata direttamente per mancanza di affioramenti, poteva essere plausibile con le quote del piano di campagna di 500 anni fa (Fig. 2). In seguito alla fase climatica fredda denominata "Piccola Età Glaciale" (Orombelli, 2005) l'area fu soggetta a intensa colluviazione prodotta dai versanti e da forte sedimentazione da parte dei corsi d'acqua minori. Il rilevamento geomorfologico ha evidenziato, in particolare, la presenza di una colata detritica in corrispondenza del corso d'acqua che si immette nella piana di Urbania, sulla sinistra idrografica, che potrebbe aver prodotto sia l'interrimento del lago che la migrazione dell'alveo verso destra. Questo evento può avere indotto l'apertura della chiusa per evitare pericolose tracimazioni. In concomitanza di ciò il fiume ha riac-

quistato potere erosivo e prodotto la significativa erosione tuttora visibile. Il secondo paesaggio ritrovato fa da sfondo a Battista Sforza, donna colta e apprezzata per i legami profondi con il territorio dei Montefeltro (Bonvini Mazzanti,1994). In primo piano è rappresentato un versante che nasconde parzialmente una cittadella fortificata; in secondo piano un'altra collina dalla forma asimmetrica ai cui piedi si estende un'ampia vallata fluviale, leggermente pendente verso destra, circondata da rilievi con ben definiti profili. L'analisi d'immagine (Fig. 3) eseguita sul dipinto ha prodotto pattern ben distinti e definiti e ha permesso di stabilire che la vallata è quella del fiume Marecchia e il rilievo la rupe di Maioletto (o di Maiolo) con i resti dell'omonimo castello. Il piccolo rilievo è costituito nella sua parte sommitale dalle arenarie e dai conglomerati del Pliocene inferiore; nella parte bassa affiorano le Argille Varicolori della Colata della Val Marecchia. Il versante sud occidentale, meno pendente, coincide con la stratificazione a franapoggio, quello nord orientale si presenta quasi verticale. A causa dell' intensa fratturazione del substrato, numerosi blocchi si staccano tuttora da entrambi i versanti del piccolo rilievo, si accumulano ai piedi delle scarpate e lentamente migrano verso gli impluvi, "galleggiando" sopra le argille plastiche. La rupe è stata fin da tempi storici sconvolta da numerose frane; la più rovinosa si verificò il 29 maggio 1700 e provocò la caduta della sommità del rilievo e la distruzione del borgo di Maiolo che sorgeva sulle pendici. Sebbene gli elementi del paesaggio siano inconfondibili, è molto difficile individuare l'esatto punto di vista di questo sfondo. La forma dei versanti è molto ben riconoscibile nei pendii stabili mentre il versante a sinistra della rocca di Maiolo, la cui sezione si discosta da quella del quadro, può avere subito un arretramento della parte superiore fino ad arrivare alle sottostanti Argille Varicolori che hanno poi sviluppato estese forme calanchive. Resta significativo il fatto che Piero della Francesca non abbia dipinto i calanchi: non ci sono, infatti, pattern che evidenziano queste forme di erosione. Anche in successive rappresentazioni, eseguite dal Mingucci nel 1640, i calanchi non sono rappresentati ma compaiono solo forme embrionali di ruscellamento concentrato. Ciò può essere giustificato dal fatto che i calanchi, per la loro morfogenesi, hanno bisogno di un clima mediterraneo con forti contrasti stagionali e,

Fig. 3 - La Rupe di Maioletto a confronto con il rilievo dietro al ritratto della Duchessa Battista. Le linee tratteggiate evidenziano i profili uguali e ricostruiscono quelli mancanti.

Fig. 4 - Variazioni climatiche degli ultimi 3500 anni dedotte dalle modificazioni del fronte del ghiacciaio Aletsch (da Holzhauser et al., 2005, ridisegnato e tradotto).

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essendo il periodo di Piero agli albori della piccola età glaciale (fig. 4), essi non si erano, evidentemente, ancora sviluppati. Veggiani (1991) riporta un'interessante testimonianza di Monsignor Giammaria Lancisi, archiatra pontificio, che nel 1705 visitò San Leo. Il Lancisi sostiene che la frana di Maiolo fosse stata favorita, oltre che dalle intense piogge, dalla rottura di un argine naturale che serviva di appoggio al monte da parte del torrente sottostante l'abitato. La descrizione del Lancisi indica chiaramente un processo torrentizio di erosione regressiva che, una volta superato le resistenti arenarie (argine naturale), si sia poi sviluppato velocemente sulle argille varicolori, formando i calanchi. La cittadella fortificata che si intravede dietro il versante in primo piano potrebbe essere quella di Castelnuovo, una cittadella fortificata a cinquecento metri da San Leo, nota e ben documentata dagli storici (Dominaci, 1993) e oggi scomparsa. Il terzo paesaggio scoperto fa da sfondo ai duchi nei carri trionfanti. Si tratta di un'ampia vallata con al centro un bacino lacustre, solcato da barche a vela, e un'isoletta. Oltre il lago un'infinità di colline sempre più piccole sfumano fino all'orizzonte. Nei Trionfi, Piero della Francesca riproduce e profili e i dettagli con particolare accuratezza tanto da rendere agevole il riconoscimento di alcuni elementi del paesaggio. La vallata dei Trionfi è la vasta pianura attraversata dal fiume Metauro nel tratto che va da Urbania a Fermignano. Il rilievo centrale è il glorioso ed imponente Mondelce o Monte d'Adrubale che, secondo la tradizione, sarebbe il luogo della sepoltura del grande condottiero sconfitto nella battaglia del Metauro (Luni, 2002). La collina in primo piano, sulla destra e con profilo tondeggiante, corrisponde al rilievo di San Lorenzo, la terza alla località Farneta, appena visibile dietro la duchessa (fig. 5). Il rilievo sulla sinistra, dietro al carro con il duca, è il Monte San Pietro. Per abbracciare la globalità del paesaggio, impossibile da riprendere da un solo punto di fuga, Piero della Francesca utilizza la tecnica di rappresentazione da tre punti di vista anziché da un solo, come nei precedenti dipinti. Anche nei Trionfi esiste un elemento che non si ritrova più: il lago al centro con la piccola isola. La formazione del lago in questo tratto di piana risulta di più facile interpretazione. Infatti le pendenze del tratto di valle sono notevolmente inferiori a quelle della precedente piana e il fondovalle ancora in alcuni tratti esibisce l'antica morfologia (Fig. 6). Il modello digitale del terreno evidenzia le aree depres-

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se e anche il tratto rilevato che rappresenta la parte emersa nel lago. Nel lato sinistro la depressione lacustre è sepolta dalla cospicua colluviazione prodottasi durante il deterioramento climatico del secolo successivo. Conclusioni Le analisi di immagine e gli studi geomorfologici confermano che i paesaggi sullo sfondo del Dittico e dei retrostanti Trionfi appartengono ai territori delle valli del fiume Metauro e del fiume Marecchia. La caratterizzazione delle forme del rilievo ha permesso di differenziare gli elementi del paesaggio che si sono conservati, e quindi pienamente riconoscibili, da quelli invece che hanno subito una evoluzione nel tempo. Questa metodologia, sperimentata per la prima volta su paesaggi pittorici, rappresenta un settore innovativo nelle ricerche di Geomorfologia Culturale e Archeologia del paesaggio e pone le basi scientifiche per eventuali indagini future nello scenario dell'interpretazione dei paesaggi di altre opere pittoriche italiane. Se i deputati all'amministrazione, alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio artistico e paesaggistico del territorio marchigiano sapranno cogliere il significato di questo contributo si apriranno nuove prospettive per la ricerca, la formazione e il turismo nell'ambito del ricchissimo patrimonio culturale del nostro territorio marchigiano. Opere citate Bonvini Mazzanti M. - Battista Sforza Montefeltro. Una principessa nel Rinascimento italiano. Quattroventi, Urbino (1994) 225 pp. Drury S.A. - Image Interpretation in Geology. Chapman & Hall. London (1997) 283 pp. Dominaci L., La regale San Leo, San Leo (1993). Luni M. - La Battaglia del Metauro: tradizione e studi, Quaderni di Archeologia delle Marche (2002). Maetzke A.M. - Piero della Francesca, Arti Grafiche Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo, Milano (1998) 301 pp. Orombelli G. - Cambiamenti climatici. Geogr. Fis Dinam. Quat., Suppl.VII,15-24 (2005). Veggiani A. - Ricorsi ciclici dei movimenti franosi nel Montefeltro marecchiese, in P. Persi et al. Le frane della Valmarecchia, Comunità Montana Alta Valmarecchia, 1538 (1991).

Fig. 5 - Le colline di San Lorenzo a confronto con i piccoli rilievi presenti sulla destra dei Trionfi.

Fig. 6 - Modello digitale del terreno che evidenzia la depressione nella piana di San Silvestro e relativo confronto con il lago dei Trionfi. Le linee bianche tratteggiate indicano i limiti del lago.

Borchia Rosetta Nasce a Cagli, vive e lavora a Urbino. Diplomata all'Accademia di Belle Arti di Urbino inizia la sua professione di pittrice nel 1980. Prosegue la sua carriera come fotografa e naturalista. È autrice di varie pubblicazioni e di un libro sul ritrovamento dei paesaggi di Piero della Francesca.

Olivia Nesci Nasce a Pesaro, vive e lavora a Urbino. È Professore Associato di Geografia Fisica e Geomorfologia nella Facoltà di Scienze e Tecnologie dell'Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo". È autrice di numerose pubblicazioni sul paesaggio fisico e la sua evoluzione.


Il cortile d'onore onorato a San Pietroburgo di Sanzio Balducci

Nel luglio scorso ho fatto un bel viaggio a San Pietroburgo e a Mosca. Quasi un pellegrinaggio, senza voler tirare in ballo i luoghi ritenuti sacri alla fede. Quante cose evocava in me la Russia prima che scendessi a Pulkovo, l'aeroporto di San Pietroburgo! E dopo che ho visto, il fantastico o il mitico che io sognavo non si è minimamente dissolto; anzi nuove realtà fiabesche mi hanno attratto, mi hanno spinto e stanno spingendo a conoscere la grande Russia. Quella civiltà che non si racchiude in settanta anni di potere comunista. Ho visto la tomba di Raissa Gorbaciova e quella di Lenin, il cui viso del colore di cera assomiglia a quello del Bambino di Praga sotto le campane di vetro sui vecchi comò d'una volta. E la tomba di Dostojevski e quella di Mussorski e di Maiakovski. Ho visto… eh quante meraviglie! La Cattedrale di Nostra Signora di Kazan, la Cattedrale del Sangue Versato, costruita sul luogo dell'assassinio dello zar Alessandro II nel 1881. Quanti ricordi passeggiando per i giardini fioriti del Cremlino e quante fantasie rasentando i palazzi scuri della via Lubianka! “Ich habe mein Herz in Heidelberg verlassen” 'o lasciato il mio cuore in Heidelberg': insegnavano le grammatiche di tedesco. Un po' del mio cuore l'ho veramente lasciato in Russia. A questi ricordi, che ora alimento con la lettura dei grandi romanzi russi, è legata una piccola scoperta che ho fatto per caso nella fortezza di San Pietro e Paolo, nell'isola toccata dal fiume Neva proprio difronte all' Ermitage. Dunque, mentre tornavo dalla grande chiesa dedicata ai due santi dove in massicce tombe rettangolari riposano le spoglie di quasi tutti gli zar della dinastia Romanov, ho visitato il museo dell'aeronautica dove fra l'altro è esposta una navicella Soyuz, e poi un po' svogliatamente mi sono inoltrato nel Museo storico della città di San Pietroburgo dando qua e là occhiate fuggevoli a tavolini, camere da letto e suppellettili varie del passato. Alle pareti erano attaccati tanti quadri con scorci della città, carrozze, slitte e forse tante altre cose che in quel momento attiravano pochissimo la mia attenzione. Quando c'è abbondanza…! Ma in un quadro, chissà perché, ho notato il disegno di un cortile che lì per lì mi ha dato come una scossa. Mi sono avvicinato; e non ho potuto fare a meno di ravvisare una somiglianza molto forte con il cortile del nostro Palazzo ducale di Urbino. Ho cercato una conferma nella targhetta scritta in russo e tradotta in inglese. Non vi era riferimento a Urbino. Qualche dubbio

perciò rimaneva, non potendo avere un riscontro immediato. Di cortili più o meno simili poi se ne possono trovare tanti. Ho pensato perciò di fotografare e il quadro e la targhetta accanto che parlava di un sanatorio in una zona a me sconosciuta della Russia. Quando sono tornato a casa, ho controllato le foto del Palazzo ducale, soprattutto le foto del primo Novecento, e i dubbi allora se ne sono andati. Si trattava proprio di una veduta, anzi del solito e più diffuso scorcio del cortile d'onore del Palazzo dei duchi di Urbino. Riporto qui in foto sia il quadro che la sua didascalia; evito il testo in cirillico (croce di tutti i visitatori della Russia), ed ecco invece il testo in inglese: Sanatorium "Piket" in Kislovodsk / Court Yard Design. Study / End of the 1930-s / Paper, pencel, water-colour, indian ink / N. I - b - 1094 - pa (l'ultima riga non è venuta chiara nella foto). Cosa c'entrava il Sanatorio di Piket con il Palazzo ducale? Ed esisteva quel sanatorio? Le solite piccole ricerche tramite Internet mi hanno confermato di un Sanatorio proprio a Kislovodsk, cittadina oggi abitata da circa 130.000 abitanti famosa per le sue acque e il suo clima 'miracoloso': si trova nella Russia europea meridionale (Kraj di Stavropol'), situata sulle pendici settentrionali della catena del Caucaso, 234 km a sudest del capoluogo Stavropol'. Piket è uno degli alberghi della città. Si può perciò pensare - questa la mia ipotesi - che un paziente in cura in quel sanatorio nel 1930 abbia dipinto il cortile ducale, traendolo probabilmente da una fotografia pubblicata in qualche rivista o in qualche manuale di architettura o di storia dell'arte. Ecco tutto. Forse non è gran cosa al paragone dei due Raffaello e della ricchissima collezione di ceramiche urbinati e durantine dell'Ermitage. Forse varrebbe la pena di scrivere al direttore di quel Museo e invitarlo a segnalare in didascalia che si tratta del più bel cortile dei duchi del Montefeltro.

Rappresentazione ad acquerello del Cortile del Palazzo Ducale di Urbino, esposta nel Museo della città di San Pietroburgo.

Traghetta con didascalia esplicativa dell’acquerello.

Sanzio Balducci, laureato in Lettere con una tesi sui dialetti pesaresi, è ordinario di Dialettologia e Storia della lingua italiana nella Facoltà di Lettere dell’Università di Urbino “Carlo Bo”. Ha svolto parecchie ricerche nell’ambito dei dialetti marchigiani, della musica e delle tradizioni popolari e di alcuni aspetti legati all’evoluzione della lingua italiana.

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Vivarte

N°4 dicembre 2008 Semestrale di arte, letteratura, musica e scienza dell'Associazione Culturale "L'Arte in Arte" Via Pallino, 10 61029 Urbino cell. 347 0335467 cell. 338 6834621

Agenzia Generale di Urbino P.le E. Gonzaga, 2 61029 – URBINO tel. 0722320262 - 0722327897

Provincia Pesaro e Urbino

Registrazione N° 221/07 registro periodico Tribunale di Urbino del 18 maggio 2007 Direttore responsabile Lara Ottaviani Redazione Alberto Calavalle Silvestro Castellani Luciano Ceccarelli Oliviero Gessaroli Collaboratore Fulvio Paci Hanno collaborato a questo numero Sanzio Balducci Rosetta Borchia Alberto Calavalle Domenico Cara Luciano Ceccarelli Gualtiero De Santi Andrea Emiliani Roberto Mantovani Giovanni Murano Olivia Nesci Filippo Venturini

Progetto grafico Susanna Galeotti Tipografia Industrie grafiche SAT Pesaro Sede legale Via Pallino, 10 61029 Urbino e-mail vivarte@larteinarte.it Alfabeto, Acqueforti (1747-1748) Joannes Nini Urbinas Fecit

La rivista può essere richiesta attraverso e-mail a vivarte@larteinarte.it oppure scrivendo all’Associazione “L’Arte in Arte” Via Pallino, 10 61029 Urbino (PU) ITALIA

Nunzio Gulino, "La chiave" mm 140X80 l'acquaforte qui riprodotta ci è stata data in dono da Nunzio Gulino in sostegno alla nostra rivista . Ringraziamo vivamente il maestro e invitiamo chi ne fosse interessato a venire in possesso della stampina a mettersi in contatto con la nostra redazione. cell. +39 3289121164


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