VIVARTE N°7

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Arte, letteratura, musica e scienza

ANNO V N. 7 2011

P E RI OD I CO SE ME S TR A LE DE L L’A S S OC IA ZI ON E CU LTU RA L E “L’AR TE I N A RT E” UR B I NO

I ritmi lineari sospesi e poetici di Gaetano Carboni di Stefano Papetti sospesi e attraverso una scelta cromatica filtrata e sensibile al dato luministico un approccio surreale pregno di valori poetici. Ascoli Piceno, la città di origine dell'artista, compare con i suoi monumenti in molte delle opere recenti di Carboni a fare da sfondo alle gentili immagini dei "Profeti" o di "Sant'Emidio" che sembrano galleggiare in una atmosfera rarefatta, allacciati ad un filo sottile contro sfondi campiti di lilla o di azzurro-giacinto nei quali rilucono come stelle i piccoli cristalli che il pittore utilizza per dare risalto alle sue composizioni. Il colore è spesso trattato con una tecnica pointilliste che crea delle suggestive vibrazioni atmosferiche consentendoci di conoscere un mondo onirico che già Enrico Crispolti aveva definito come approccio parasurreale, caratterizzato da una fantasia più libera e spigliata rispetto al Surrealismo storico. Le visioni dedicate al volo della Galleria Arte Villa Picena, organizzatrice dell'evento, i "Giardini dell'Eden" presentati presso la Galleria Insieme ed i "Profeti della città" esposti da febbraio alla Galleria L'Idioma segnano le altre tappe di un percorso carboniano che si snoda attraverso le istituzioni culturali pubbliche e private di Ascoli Piceno, facendoci conoscere in modo completo quanto Carboni ha realizzato nell'arco di cinquanta anni di attività.

Distribuita in tre sedi espositive, che completano il nucleo principale di opere esposte presso la "Galleria d'Arte Contemporanea Osvaldo Licini" di Ascoli Piceno, la rassegna dedicata a Gaetano Carboni curata da Floriano De Santi rappresenta una utile occasione per meglio conoscere un artista marchigiano che, nonostante la sua partecipazione a numerose rassegne nazionali di grande prestigio, ancora non gode della notorietà che

merita. Si tratta infatti di una opportunità imperdibile per ripercorrere l'intenso itinerario artistico di Carboni che, pur avendo scelto di vivere in provincia, ha saputo sintonizzarsi su una lunghezza d'onda di ampio respiro, interpretando nelle sue opere quelle tensioni morali e sociali che hanno caratterizzato il XX secolo per approdare oggi ad un linguaggio che, depurato da ogni forma di parossismo espressionista, traduce in ritmi lineari

Stefano Papetti, è Direttore delle Raccolte Comunali di Ascoli Piceno. Docente di storia dell'arte moderna presso il corso per operatori dei beni culturali dell'Università di Macerata, è dal 1996 vicepresidente Regionale del Fondo Ambiente Italiano e Direttore del Centro Studi sui Giochi Storici. E' Socio Onorario dell'Associazione per le Dimore Storiche Italiane e membro dell'Accademia Marchigiana di Lettere, Scienze ed Arti. Autore di monografie e molti saggi ed articoli relativi all'arte marchigiana dal XIV al XIX secolo, apparsi su prestigiose riviste (Paragone, Notizie da Palazzo Albani, FMR), ha svolto negli ultimi anni un'intensa attività nell'organizzazione di alcune importanti mostre. Con "La scultura lignea nelle Marche" ha vinto il premio FrontinoMontefeltro nel 2000.

co pia grat ui ta

Letteratura Anna T. Ossani: letteratura come reinvenzione di cosmicità di Maria Lenti pag. 3

Alessandro Serpieri botanico di Giovanna Giomaro pag. 4

Lingue e luoghi contemporanei di Manuel Cohen pag. 7

Il taccuino urbinate di Alberto Calavalle di Mirco Ballabene pag. 7

Storia Urbino, cultura memoria di Francesco Colocci ed Ermanno Torrico pag. 8

Giuseppe Garibaldi e Urbino di Alberto Berardi pag. 13

Arte Il dinamismo di Boccioni e di Pardo. Il "Monumento Nazionale delle Marche" di Castelfidardo di Andrea Carnevali pag. 14

Moenia et mores di Filippo Venturini pag. 16

Cottaterra di Emanuela Mencarelli e Michela Minotti pag. 18


Tra sogno e utopia Le figure mitopoietiche di Gaetano Carboni di Carlo Melloni

Si è chiusa da poco, alla Civica Galleria d'Arte Contemporanea "Osvaldo Licini" di Ascoli Piceno, una vasta mostra antologica del pittore ottantaduenne Gaetano Carboni. Sessanta opere documentano l'operoso percorso dell'artista ascolano. L'indice dei titoli tematici dell'itinerario artistico di Gaetano Carboni, dopo un primo quindicennio di esperienze figurative, espressioniste e astratto-geometriche, denuncia una predilezione dell'artista ascolano per il recupero di personaggi che tra storia e metastoria hanno ormai acquisito una dimensione mitologica. Un recupero, peraltro, filtrato da un'aura poetica che priva quegli stessi personaggi dei sovraccarichi drammatici che la tradizione gli attribuisce e li deposita - con qualche eccezione - in una sorta di eden purificatore. E' il caso della serie di dipinti che dal 1970 al 1972 dedica a “Icaro”, dove il dramma finale dell'aeronauta non è documentato, ma dove, significativamente, come stimmata identitaria di questo percorso a ritroso nel tempo, l'incipit è un autoritratto dello stesso artista. E' evidente che Carboni individua il suo alter ego in Icaro, un idealista che s'immagina di evadere dalla terrestrità per entrare nel mondo di utopia. Poiché Carboni conosce benissimo l'esito di questo sogno, omaggia Icaro di un gruppo di dipinti in cui appaiono giardini sontuosi, simili ad acquari luminescenti doviziosi di colori, di atmosfere surreali. Ma in precedenza, le scorribande dell'artista nei siti dell'imponderabile si erano esercitate (1966-1969) a scovare “Presenze totemiche”, costruite in chiave metafisica, con echi della precedente astrazione geometrica, e soprattutto, i Poeti, che sono la chiave di volta di tutta l'impalcatura ideologica e iconica futura di Carboni. Nel ciclo dei Poeti, infatti, c'è in nuce la traccia non soltanto segnica ma anche filosofica dei “Profeti” (2000-attuali), così come “Presenze 2” (1989-1994) anticipano chiaramente l'imminente apparizione di “Agamennone” (19941999). I Poeti sono figure dai volti irriconoscibili che vivono, da autoesiliati in un mondo iperuranio. Raffigurati quasi sempre in coppia, impegnati in misteriosi conversari peripatetici, sembrano sdegnare ogni contatto impuro con chi non ha la sensibilità necessaria per avvicinarsi all'apartheid dell'ineffabile, della poesia pura, della poesia non declamata. Con Agamennone, Carboni sembra voglia liberarsi dalle seduzioni del mito per approdare ad un piano emozionale in cui è evidente l'aggancio

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con il presente. In Agamennone - come ho già scritto altrove - ". Carboni ravvisa l'identikit dell'uomo contemporaneo eccellente, di colui che detiene il potere in modo carismatico, ma nello stesso tempo mostra la fragilità della sua umanità." Iconograficamente, il personaggio ha connotazioni filiformi al pari di altre figure di contorno, ma la sua regalità è messa in risalto dalla corona che indossa e la sua posizione all'interno della composizione, costruita secondo elementari dettami scenografici, è chiaramente quella di un primus inter pares. Con ciò l'artista riconduce il personaggio alla sua condizione primeva di mitico condottiero dei greci contro Troia, ma anche di protagonista e di vittima di torbide vicende parentali, che ci hanno narrato i grandi tragedi ellenici. E veniamo all'ultima stagione dell'artista, quella attuale dei “Profeti”, nel catalogo della mostra ascolana, denotati con il sovrattitolo di Arte sacra. Le figure che animano questo scenario, secondo una dichiarazione dello stesso Carboni, deriverebbero dalla sua lettura "dei libri evangelici e di altri testi fideistici..." (...); che gli hanno consentito una "conoscenza più approfondita della sacralità attuale" (...), quindi sono il frutto di una sorta di sua crisi mistica. L'osservazione di queste figure dovrebbe fugare ogni dubbio sulla loro "qualità" sacrale, anche se a prima vista la denominazione di Profeti e il fatto che essi disegnino criptografici percorsi nel firmamento li qualifichino più propriamente come "astrologi" (nel senso meno deteriore del termine), ma il loro abbigliamento li ascrive nettamente ad un look che è prerogativa dei prelati della Chiesa cattolica. La mitra, soprattutto, il caratteristico copricapo bicuspidato e, talvolta, la presenza del bastone pastorale dei principi della Chiesa. Ma l'arte figurativa non può definirsi "sacra" se ci mostra soltanto i ministri di un culto religioso, ecco allora apparire in questa serie pittorica, quasi per miracolo, una Crocefissione e una Natività, declinati dall'artista senza ombra di drammatizzazione nel primo caso e con toni di delicatezza intimistica nel secondo. Ma questi prelati che "giocano" con stelle e comete sembrano far parte di quel filone marchigiano, che non oso definire tradizionale, ma piuttosto culturale, che nelle arti visive offre accoglienza a esponenti del clero secolare. Tutti ricordano i "pretini" di molti dipinti di Nino Caffè e di non poche immagini fotografiche di Mario Giacomelli. Se volgiamo lo sguardo al passato, troviamo un Pierleone Grezzi,

oriundo di Comunanza (Ascoli Piceno), attivo a Roma nei primi decenni del '700, che può essere considerato un antesignano dei moderni caricaturisti. Ebbene tra i suoi bersagli, i rappresentanti del clero sono numerosi, raffigurati, per usare un giudizio di Pietro Zampetti, " con toni burleschi, ma bonari ". Se guardiamo all'oggi, possiamo registrare uno stuolo di artisti minori, spesso dotati di qualità pittoriche non disprezzabili, ma la cui notorietà non ha superato - talvolta immeritatamente - la cinta muraria della città in cui sono vissuti, che hanno preso a soggetto delle loro creazioni grafiche e pittoriche, sulla scìa degli autori sopra citati, sacerdoti e monaci, senza quel livore anticlericale tipico di altre regioni del nostro Paese. Un esempio per tutti, quello di Augusto Storani, nato a Fossombrone e vissuto in Ascoli dove è scomparso nel 1988, che io ho definito pittore on the road,

perché con taccuino e matita in mano percorreva le strade della città e del circondario per ritrarre, con la sua capacità disegnativa di tutto rilievo, figure di una umanità palpitante. Artista, come tanti altri, dimenticato.

Carlo Melloni è nato e risiede ad Ascoli. Si occupa di arte moderna e contemporanea dal 1955. Ha scritto numerosi testi introduttivi a mostre individuali e ha curato mostre collettive di rilievo. Tra queste, "Arte astratta nelle Marche" (Ascoli 1985, Civica Galleria d'Arte Contemporanea) e la grande - per qualità e numero di opere antologica di Osvaldo Licini (Ascoli 1988, Palazzo dei Capitani del Popolo). Ha collaborato e collabora intensamente a quotidiani e riviste d'arte. Ha fatto parte di giurie di rassegne e concorsi artistici nazionali.


Anna T. Ossani: letteratura come reinvenzione di cosmicità di Maria Lenti

Tra gli studiosi formatisi a Urbino, dagli anni Sessanta del Novecento, con i Maestri di questa università, Anna T. Ossani si distingue per l'appassionata ricerca dentro una "letteratura come reinvenzione di una cosmicità capace di scoprire - nei segni e nei ricettacoli di una immagine poetica - il senso della vita individuale e di quella collettiva". Il concetto, dal suo scritto del 1989 su Meriano, mi sembra possa valere per tutti i suoi studi. Letteratura come scatto di conoscenza, per domande non esauribili, in una linea sua da subito: dell'intersezione tra autori e sipari sociali, nella costante di una lente posta sul testo come pagina, pur sbilenca, di realtà da interrogare. Un suo primo interesse si concentra sui rapporti tra letteratura e politica. In Mazzini (1973), quindi in autori minori, ma non inesistenti né come poeti né per la scrittura esplicitata nel sociale: lo scapigliato Remigio Zena di Capricci minimi (1981); o, di anni pre e post prima guerra mondiale, Mario Morasso (1983), Francesco Meriano, Giuseppe Steiner, Tommaso Monicelli. Scrittori non estranei al dibattito culturale e politico spinto a destra anche dalle riviste cui collaborarono: "La Brigata" e "Humanitas" (saggi del 1983 e del 1988), "Il Marzocco", "Arte e Vita", "Ardita", "L'assalto", "Lacerba" e "La Voce". Di Morasso, poeta, Ossani rintraccia la "criptazione ideologica", del prosatore, poi convinto della bontà della macchina e della guerra, il suo ruolo di anticipatore, e non solo nel mito della velocità, del futurismo; di Meriano (1989), dal 1920 circa non più dedito ai versi ma a sostenere Mussolini e il fascismo, le poesie dal 1914 al 1919 di un "Fauno senza voluttà", poeta, sintetizzo dal saggio di Ossani, in prevalenza più di sensazioni che di sentimento. Ossani si dedica, in seguito, a Dino Garrone, alla sua inquietudine e alla pungenza stilistica. Garrone (di Novara, ma cresciuto a Pesaro) è visto nella cultura italiana degli anni VentiTrenta (1994). E nel carteggio (1996) con gli amici, nel tessuto di fermenti giovanilistici meno schermati rispetto ai testi creativi, più autentici dunque sulle idealità di quel "vitalismo" pubblico-privato rintracciabile dalla fondazione dei fasci all'inizio del Trenta. (Garrone muore nel 1931, a Parigi, dove si era trasferito per l'insofferenza verso il clima provinciale e le chiusure dell'Italia). Il passaggio alla cattedra di letteratura teatrale apre, in Anna T. Ossani, la stagione del teatro (Pirandello, 1993, Savinio, 1996) e della cultura e del tea-

tro marchigiano, contemporaneo e rinascimentale. Alla cultura dell'età federiciana è dedicato: Urbino zur Zeit Federicos in Der Ort und das Ereignis: die Kulturzentren in der europaischen Geschichte, 2002; alla rappresentazione urbinate di “Calandria”: Giochi spassi motti e garbugli. Con Calandria nel tempo ideale della festa in La Calandria. Un progetto di Luca Ronconi per il V centenario dell'Università degli Studi di Urbino, 2006, e Voi sarete oggi spettatori. Luca Ronconi e la Calandria a Urbino, a cura di Anna T. Ossani e Gilberto Santini, 2006. Non mancano un sottile excursus intertestuale, Armida in Tasso, Rossini, Savinio (1996), la lettura di Lohengrin di Aldo De Benedetti (in Lohengrin, a cura di Gualtiero De Santi, 2001), e indagini su attori: Ruggero Ruggeri (Una voce poco fa. Note sul codice recitativo di Ruggero Ruggeri nel volume di "Teatro di Marca" su Ruggeri, a cura di Francesca Romana Fortuni e Giulia Seraghiti, 2010), il giovane Fausto Paravidino e il suo Due fratelli (2005). A tutto tondo, su Valeria Moriconi (2008, 2008). Ossani riattraversa i ruoli di una attrice che ha calcato, in parti mai in ombra, i palcoscenici di tutta Italia e di mezzo secolo; che ha avuto ottimi registi in teatro, nel cinema e in tv. Attrice di tale carattere, personalità, "intemperanza" e preparazione che ha potuto vestire i panni di personaggi di grande spessore, di ieri e di oggi, tragici e comici, ironici o inclinati nel dolore se non nel conflitto interiore. Curatrice dal 2009 della collana "Teatro di Marca" dell'editrice Metauro, Ossani ferma lo sguardo su Antonio Conti (1998, 2008) - nativo di Acqualagna, pesarese d'elezione; certo della funzione civile del teatro ha fondato il Festival Nazionale D'Arte Drammatica di Pesaro -, drammaturgo "impegnato", in cui si intrecciano rigore ideale e politico, coerenza esistenziale, talora ostici sulla scena, ma coraggiosi in anni non sempre disposti a far propri i valori rappresentati. (Conti nasce nel 1897 e muore nel 1968).. Il saggio su Enrico Corradini (2009) e le sue opere incentrate su una "politica chiara di cose", le sue protagoniste "statuarie", offrono ad Anna T. Ossani l'occasione di cogliere più in dettaglio le figure femminili: situate in una tipologia di donna che deve rispondere ad un canone di vita fissato, va da sé per uno scrittore fermamente nazionalista, sul mos maiorum, mai al suo desiderio, che non può esistere se non imperniato sul pre-stabilito, esse devono essere

(altrimenti non sono) esempio e a loro volta modello. Anna T. Ossani fa emergere tale dato come dato critico. Anche nelle varianti, sostanziali, di Anna Bonacci (2001, 2003, 2004, 2007), le cui protagoniste, autonome ma nei ranghi, se trasgressive tuttavia non libere, fuori dal cliché dell'epoca ma non sulla scia della Nora ibseniana, fuoriescono dagli schemi degli anni Trenta-Quaranta. Si sofferma sulla "novità" del linguaggio teatrale di Bonacci, lontano dalle levità dei "telefoni bianchi" così come dalle rarefazioni pirandelliane, e nella "verità" di vicende snodate accanto (o contro, per allusione) il sentire soggettivo, dentro una scena, piuttosto ferma ma non statica, piena di atmosfere più che dei fatti che le generano. Si inoltra, la studiosa urbinate, sotto i dialoghi dei testi e nella vita di un'autrice nella quale azzardo e reticenza si bilanciano. Appartata e mondana, cólta senza darlo a vedere, perturbata (sarà in analisi negli anni Venti, in un periodo di sospetti culturali e medici su una pratica allora solo terapeutica), silente sulle proprie esperienze amorose, Anna Bonacci (Roma 1892-Ancona 1981) rilascia nuances che proiettano i suoi drammi oltre il tempo del loro cauto successo (dal 1936) fino all'esplosione degli anni cinquanta, anche a Parigi in teatro, con L'ora della fantasia, poi trasposta nel cinema da Mario Camerini e Billy Wilder. Bonacci appare sempre sul limite di significare, più che far esporre - chiaro il récit,

alonato il sottofondo -, le donne, mentre "taglia" con determinazione i profili maschili e le situazioni dal respiro corto. La reticenza e l'azzardo, come nel Don Giovanni, ingenuo convitato (Invito alla locanda) sorpreso in uno scacco impensabile in lui, lasciano ad Anna Bonacci, ricreata alla "cosmicità" da Anna T. Ossani, il palco ancora aperto.

Maria Lenti è nata a Urbino. Saggista (letteratura e arte, in volumi collettanei e in riviste), poeta, ha pubblicato le raccolte: Un altro tempo (1972), Albero e foglia (1982), Sinopia per appunti (1997), Versi alfabetici (2004), Il gatto nell’armadio (2005), Cambio di luci (2009). È autrice anche di racconti, Passi variati (2003), Due ritmi una voce (2005). Altri racconti, in via di uscita, come gli scritti Neodialettali romagnoli e altri dialettali. Recente il suo Amore del Cinema e della Resistenza (2009).

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Alessandro Serpieri botanico di Giovanna Giomaro

Chi ha avuto modo di leggere l'opera scientifica dello scolopio Alessandro Serpieri, docente di fisica ad Urbino (1847-1884), nonché Rettore del "Collegio dei Nobili" (1857 - 1884), ne trae l'immagine di una mente illuminata in grado di spaziare dalla meteorologia, all'astronomia, dalla fisica celeste alla fisica pura e in particolar modo alla sismologia; e molti, anche recentemente, ne hanno delineato le grandi doti scientifico-educatrici (Vv Aa, 2010, Puppi et al. 2009). A 160 anni dalla fondazione dell'Osservatorio "Alessandro Serpieri" nel momento in cui viene celebrato l'incancellabile apporto del Serpieri alla cultura urbinate, e, ancor più alla cultura universale, a mio sommesso avviso, la sua presenza scientifica nel campo botanico merita più che un fugace e marginale accenno, quale primo ideatore di quella branca scientifica chiamata fenologia intesa come espressione diretta dell'adattamento dei vegetali ai cambiamenti climatici. Tale aspetto, pur marginalmente, emerge con prepotenza nella sua opera. Nel "Saggio di una Flora dell'Agro Urbinate" del 1868 con acuto intuito precorreva i tempi asserendo: "la discesa di una pianta alpina, o il salire di una pianta littorale potrebbe pure alcuna volta indicare qualche inattesa modificazione del clima, essendo che la pianta concentra ed unifica nelle fasi di sua vita non solo tutta la somma delle influenze conosciute, ma di quelle che niun istrumento saprebbe misurare". Esattamente un secolo dopo, nel 1951, A. Messeri, scriveva: "Ciascuna specie porta in sé un patrimonio ereditario di caratteri coordinati al clima del paese e del periodo di origine e una data elasticità di questi caratteri al variare dell'ambiente. L'aspetto che esso assume è infatti la risultante di una continua tensione tra queste masse per l'accaparramento dello spazio, di una continua pulsazione in rapporto alla pulsazione dei climi". Più tardi ancora A. Marcello (1966), uno tra i più grandi sostenitori della ricerca fenologica in Italia, ribadisce il concetto: "non va dimenticato che ogni organismo vivente è posto tra i limiti di un ambiente fisico, il quale a sua volta pulsa ritmicamente, determinando ritmi esterni, che agiscono sull'organismo vivente. Le capacità di adattamento a questi ritmi esterni, di seguirli e oscillare con essi, dà misura della capacità potenziale al sopravvivere di una specie". La grande cultura del Serpieri e l'interesse per la ricerca non furono mai fini

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a se stessi ma piuttosto a disposizione degli altri e in particolare dei giovani che tanto amava: "Prepariamo dunque questi elementi, che per lo meno giovino ai nostri posteri. Ma soprattutto speriamo che possa tornar gradito il nostro lavoro ai cultori della Scienza Botanica, perché niuno mai imprese ad illustrare la Flora urbinate, la quale deve collegare la geografia Botanica delle coste adriatiche e quella delle cime Apenniniche profondamente studiate da molti, e specialmente da P. Raffaele Piccinini sul vicino M. Catria"; "….e confidiamo pure di raggiungere in questo modo un altro scopo importantissimo, qual è quello di nutrire nei nostri giovani scolari l'ardore delle scientifiche ricerche, alle quali o troppo tardi o troppo di rado suol dedicarsi l'italiana gioventù." (Serpieri 1868). Come iniziale premessa al commento della sua opera botanica, riporto alcuni brani presi dallo" Squarcio di una lettera fatta al pubblico" del 1867 in cui l'autore delinea il clima di Urbino definendolo conforme e proporzionato alla nostra altitudine e latitudine. Pur tuttavia ipotizza che gli inverni urbinati fossero stati, nel secoli passati, "più rigidi ed aspri che al presente" in base alle testimonianze di alcuni autori tra cui Bernardino Baldi (1704) convinto che "il freddo era qui eccessivo e i ghiacci e le nevi affliggevano lungamente i suoi concittadini…e l'asprezza della stagione costringeva gli Urbinati a rifugiarsi presso il focolare domestico”. A riprova di ciò, il Serpieri riporta anche un curioso aneddoto preso dalla Storia dei Duchi di Urbino (1859) del prof. Ugolini: "…i Religiosi di S. Bernardino, posti alla distanza di un miglio da Urbino, si trovavano una volta così assediati dalla neve, che fu loro impossibile di aprirsi una comunicazione con la città, onde mosso dal lungo e incessante suonare delle campane del convento, il duca Federico , radunato il popolo, andò primo fra tutti a spalar la neve, o, come si dice fra noi metaurensi, a far la rotta, traendo seco dietro buona quantità di provvisioni". La sua opera botanica inizia nel'1866 tra tabelle, dati meteorologici e accurate note. Gli sono collaboratori Padre Eusebio Scannavini, "molto istruito e pratico di botanica", e Antonio Federici, professore di botanica e chimica nell'Università urbinate nonché prefetto dell'Orto botanico. Nella breve introduzione il Serpieri, "dietro l'esempio dei celebri A. Quetelet e F. Zantedeschi", delinea con chiarezza lo scopo di tali studi: "… dare pei diversi

Ritratto fotografico di Padre Alessandro Serpieri conservato presso il Gabinetto di Fisica: Museo urbinate della Scienza e della Tecnica dell'Università di Urbino


anni una misura media del movimento più o meno avanzato della vita vegetale in questa località a seconda delle temperature che ebbero luogo." Localizza 281 piante in tre diverse stazioni prese come punti di riferimento geografico: la fortezza Albornoz, l'Orto Botanico e la campagna circostante Urbino. Di tutte le specie ne segna meticolosamente il giorno e il mese di fioritura relativi agli anni 1857-58-63-64-65. Compila ben sei tabelle precisando, con serietà scientifica, che "le epoche segnate si riferiscono all'apertura non già di un primo e raro fiore fra molti, ma di un numero sufficiente perché si potesse realmente dire che la pianta era in fiore". Interessanti sono le sue osservazioni sulle variazioni climatiche degli anni 1966-67: "questa modificazione profonda del clima invernale si manifesta chiaramente nel precoce ridestarsi della vegetazione e nell'anticipata fioritura di molte piante. Nel 1863 il Gennaio e il Febbraio ci davano molti fiori, 40 e 50 giorni prima delle epoche normali. Nell'inverno del 1864 fioriva il Corylus avellana il 26 Dicembre, essendo intorno al 20 di Gennaio la sua fioritura ordinaria. In quest'anno poi (1867) le anticipazioni sono state così straordinarie da equivalere a una diminuzione di latitudine di 10" (Serpieri 1868) Nel 1868, pubblica insieme al Federici "Saggio di una flora dell'agro urbinate". E qui amplia i suoi orizzonti di ricerca per dedicarsi "ad una impresa assai vasta, qual è quella di raccogliere tutte le piante spontanee del distretto Urbinate, e di formare la Flora del paese." Ne rese pubbliche cinque centurie ringraziando padre Piccinini e l'alunno Leurini di Rimini per la loro collaborazione. Il suo rigore scientifico emerge nella metodologia di lavoro, nell'elaborazione e trascrizione dei dati raccolti, nell'identificazione delle specie, secondo la Flora Italica del Bertoloni. Di ogni pianta egli cita l'epoca di fioritura relativa all'anno 1867, ne fa una media dedotta da 3 a 6 anni di osservazioni e un confronto con quella registrata a Bruxelles sottraendo 4 giorni per ogni grado di latitudine e 4 giorni per ogni 100 metri di altezza puntualizzando come quei dati potessero indicare le modificazioni del clima ed essere "utili a determinare i limiti che segnano le regole di diffusione delle specie". L'elenco delle 550 specie osservate nello spazio di circa tre kilometri intorno a Urbino fu importantissimo per delineare la flora locale, e, per questo motivo, ripreso da altri studiosi dell'e-

poca a completamento delle loro opere (Paolucci 1890). Singolare è la lunga descrizione di una orchidea trovata presso il bosco dei Cappuccini. Nel tentativo di identificarla e di lasciarne traccia ai posteri, il Serpieri ne fa eseguire una fotografia dal conte B. Castracane (personaggio di spicco della città ) e un disegno a colori dal prof. Serafini (di cui non ho potuto avere notizie), contemporaneamente ne invia un campione ai professori Parlatore e Bertoloni e ne inserisce uno anche nel suo erbario. Per motivi di spazio, ne riporto solamente alcuni stralci: "…Ma le forme particolari che presentano le varie parti dei fiori fanno pensare che sia un' ofridea del tutto nuova. Inoltre vi si trova una singolare anomalia, o, dirò meglio, uno sviluppo tale di organi, che non sappiamo se un fenomeno uguale fu mai incontrato da altri osservatori.... Curiosa e nuova è la forma del labello. Esso è un rettangolo tutto piano meno che sulla cima, dove ha la forma di ugna rivolta in basso: non ha né divisioni, né lobi, né appendici, né denti, né gibbosità alla base. Le sue macchie, alcune di rosso chiaro, altre atro-purpuree, formano un disegno non mai veduto e tutto geometrico…. . Meravigliati di trovare dei veri stami nel luogo delle foglioline interne, fummo anche maggiormente sorpresi quando il giovane L. Leurini scopriva l'esistenza di masse polliniche nei lati del labello, formati di due veli sovrapposti, i quali aperti con una punta d"ago hanno dato la stessa materia degli stami, del medesimo colore e delle forme stesse!”. Oggi sono conosciute diverse forme aberranti di orchidee spontanee di notevole interesse tassonomico. Precorritrici le sue osservazioni su due specie di Antirrhinum: il minus e il litorale nel crederle un'unica specie le cui differenze le attribuisce a variazioni ambientali: "Si trovano però alcune accidentali variazioni in qualche esemplare cresciuto all'ombra o nell'umido. Infatti i saggi raccolti all'aperto hanno il caule e i rami ben robusti, e le foglie di un verde cupo; mentre altri, trovati lì presso in un canneto sono gracili, teneri, molli e di un verde molto chiaro". Attualmente nella Flora Italica del Pignatti il genere è riportato come Chaenorhinum minus unica specie suddivisa in due sottospecie: minus e litorale di cui, per quest'ultima, viene riportata la diffusione anche nella zona di Pesaro. Sulla Listera ovata, altra orchidea, il Serpieri sottolinea: "Raramente, dice il prof. Parlatore, essa discende nella regione dell'ulivo: e poiché noi siamo sull' estremo confi-

"Osservazioni sull'epoca della fioritura di alcune piante". Bollettino Meteorologico del Collegio Raffaello in Urbino - anno 1866 -

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ne superiore della regione degli ulivi, è da credersi che qui si tocchino insieme i confini della listera e dell'olivo. Quindi è che questa pianta può offrire con l'andare dei secoli qualche dato importante sulle variazioni del clima urbinate." Chiare e precise sono anche le citazioni dei luoghi di osservazione delle specie: S. Cipriano, M. Soffio, i Capuccini, le Vigne, la Madonna dell' uomo, Risciolo, Villa dell'Orologio, la Selva del Sasso, la selva dei Zoccolanti, il ponte del Castagno, la Chiesina del Crocifisso, Villa Rondini nelle Cesane, la casa colonica il Monte, il mulino di Tajolino, il fosso delle Conce e di Bonajuti etc…: "una pianta singolarissima,… fu trovata il di 22 aprile del corr. anno 1867 dall'alunno Leurini, presso le mura del bosco dei Capuccini, sul greppo NNE che resta sopra la strada diretta ad Urbania, tra i pochi quercioli che si vedono a sinistra, appena passato il cancello della villetta Coen, cioè mezzo chilometro circa a OSO da Urbino". Oggi molti di questi luoghi sono soltanto nomi di una antica mappa urbica pressoché distrutti dagli interventi antropici susseguitisi nel tempo, dove le piante sono in parte migrate nelle scarpate, nelle aiuole spartitraffico, lungo i bordi dei campi arati minate dall'indifferenza dell'uomo, dal progresso delle tecnologie moderne, dalle strade concepite come piste, dal sorgere di centri abitati che hanno preferito circondarsi di giardini dal fascino esotico che nulla hanno più in comune con quell' armonico variare cromatico dei nostri prati e dei boschi nell'avvicendarsi delle stagioni così come ce li ha tramandati il Serpieri. "avrò sempre dinanzi agli occhi questi ampi, sublimi orizzonti….. questo clima fecondo…. Questo vario e mesto paesaggio di cui ho riconcorso a delinearne la flora". Bibliografia Aa, Vv., 2010 - L'Osservatorio "Alessandro Serpieri" 160 anni al servizio della meteorologia. Urbino. Baldi B., 1704 - Encomio della Patria (ca. 1580), Urbino. Barsali E., 1922 - Le osservazioni fenologiche del P. Serpieri ad Urbino dal 1857 al 1865, Boll. Soc. Bot. Ital., 4: 46-47. Bertoloni A., 1833-1854 - Flora Italica, Richardi Masii Bononiae. Mantovani R., Vetrano F.,1991 - Le ricerche e l'insegnamento dello scolopio urbinate Alessandro Serpieri, in "Didattica delle Scienze", anno XXVI, n. 152, pp. 12-19. Marcello A., 1950 - Ecologia e

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Sinfenologia, N. Giorn. Bot. Ital., 57: 669-671. Messeri A., 1951 - Ritmi climatici e ritmi vegetativi, N. Giorn. Bot. Ital., 58: 535-550. Paolucci L., 1980 - Flora Marchigiana - Pesaro. Parlatore F., 1848-1869 - Flora italiana, Le Monnier, Firenze. Piccinini R., 1867 - Erborizzazione al monte Catria -Piante trovate in fiore nel di 11 giugno 1866. In Bullettino Meterorologico dell'Osservatorio del Collegio Raffaello in Urbino, fasc. I, pp.49-52. Pignatti S., 1982 - Flora d'Italia, Edagricole, Bologna. Serpieri A., 1866 - Erborizzazione al monte Catria: piante trovate in fiore nel di 11 giugno 1866. Bullettino Meteorologico dell'Osservatorio del Collegio Raffaello in Urbino, anno 1866 (issued in 1867), fascicolo I, pp. 49-52. Puppi G., Zanotti A.L., 2009 - Old phenological data on wild plants in Italy (XIX and early XX century). Italian Journal of Agrometeorology xx-xx (1), pp. 17 - 21. Serpieri A., Federici A., 1867 - Saggio di una flora dell'Agro Urbinate e epoca della fioritura di molte piante. Bullettino Meteorologico dell'Osservatorio del Collegio Raffaello in Urbino, fascicolo II, anno 1967 (issued in 1868) pp.32-38, pp 48-56.. Serpieri A., 1866 - Osservazioni sull'epoca della fioritura di alcune piante. Bullettino Meteorologico dell'Osser vatorio del Collegio Raffaello in Urbino, anno 1866 (issued in 1867), fascicolo I, pp.12-40. Ugolini F., 1859 - Storia dei conti e duchi di Urbino, Firenze.

"Saggio di una flora dell'agro urbinate ed epoca di fioritura di molte piante". Bollettino Meteorologico del Collegio Raffaello in Urbino - anno 1867 -

Giovanna Giomaro, Prefetto dell’Orto Botanico dell’Univesità degli studi di Urbino”Carlo Bo”.

Ophrys aranifera Huds


Lingue e luoghi contemporanei

Il taccuino urbinate di Alberto Calavalle

di Manuel Cohen

di Mirco Ballabene

Giovanni Nadiani, Guardrail, introd. di F. Santi, peQuod, Ancona, 2010. Uno dei migliori libri di poesia del 2010, Guardrail, introdotto con acume da Flavio Santi, ha la firma di Giovanni Nadiani, classe 1954, fondatore di riviste cartacee e online, della casa editrice Mobydick, e personalità di punta della poesia neodialettale. L'autore scrive nel romagnolo di area faentina, affidandosi non più al recupero fuori tempo massimo di un idioma dismesso e sempre meno parlato, in un paesaggio non più riconoscibile né definibile, bensì innestandolo e arricchendolo con le parole della contemporaneità piovute dai linguaggi del pianeta e delle merci. Il lavoro di Nadiani, docente e traduttore dal tedesco, è il tentativo di far convivere la phonè romagnola con le altre lingue: una operazione di meticciato linguistico, ad onta di ogni attardata difesa purista, che attesti trasformazioni e migrazioni sociolinguistiche, urbanistiche, antropologiche. Il percorso di questo autore sembra indicarci che essere tra le lingue del mondo sia una modalità congrua a favorire la sopravvivenza di dialetti o lingue minoritarie o in via di scomparizione. La globalizzazione dell'economia e delle idee impone l'uso di lingue planetarie (l'inglese, il cinese) che assomigliano sempre più a enormi socioletto-contenitori, rottamando di fatto esperienze linguistiche millenarie. La storia della parola insegna che ogni lingua è spuria, si trasforma, si adatta o soccombe alla bisogna. In ragione di ciò Nadiani piega il faentino alle allotrie, lo nutre con il tedesco e l'inglese, con i linguaggi specifici e lo slang, lo conduce nei non-luoghi contemporanei: centri commerciali e tangenziali, aereoporti e

capannoni, strade e autostrade, autogrill e stazioni di servizio, carrozze di Eurostar e treni merci, TIR e Land Rover. Un linguaggio Rom, in movimento, in campiture di versi informali dal ritmo soul-blues che dice del nostro spaesamento, della deterritorializzazione culturale e morale, dell'assenza di centri nelle periferie diffuse: persino l'io lirico si fa plurimo, ricorre all'uso insistito del deittico pronominale "nó", noi, affidando ad esso gli stigmi di una traccia identitaria in movimento e l'ultima ipotesi di una comunità di riferimento. ? l'ultimo noi che ci riguarda da vicino, ancora in grado di resistere, di respirare per un attimo l'aria dei campi che viene oltre il guardrail dai finestrini dell'auto in corsa, di percepire l'essere e l'esserci tra sapori e colori della vita. Il paesaggio contemporaneo è un parcheggio notturno di facce senza nome antistante l'Ipercoop dove ragazze ucraine salgono a bordo di pick-up dai vetri neri per sbarcare il lunario. Luci di insegne luminose, di lampioni a neon, sirene e suoni meccanici di mezzi e merci, ci dicono dell'ora "e' mè? dla nöt", 'al centro della notte' che ci è toccata per sorte: "e la mia memoria dove va? Dove va a finire la mia storia?/ E anche gli errori che ho commesso dove saranno?".

Manuel Cohen, è critico letterario e consulente editoriale. Redattore de': “Il parlar franco”, “Carte urbinati” e “Ali”. ? nel comitato scientifico di “Punto. Almanacco di letteratura”, e dell'antologia L'Italia a pezzi: ultimi neodialettali (in uscita ). In poesia ha esordito con Altrove, nel folto (a cura di D. Bellezza, Ianua, Roma, 1990), e fresco di stampa il suo viaggio in versi per le Marche: Cartoline di marca (pref. di M. Raffaeli, Marte, Teramo, dicembre 2010).

"Finestre sulla città e dintorni" (Argalia) raccoglie una serie di articoli e testi raggruppati per aree tematiche aprendosi con quelli dedicati alla natia Urbino. Calavalle si immerge nel Rinascimento, interroga i quadri, si emoziona di fronte alla riproduzione della Bibbia di Federico con lo stupore e la passione di un bambino, ha una totale adesione e un culto incondizionato per ciò che Urbino fu durante la corte del Duca. La sua scrittura si compone e si integra di citazioni, sia dai testi antichi che da pagine di Bo e, mentre l'autore interroga i quadri e il passato, si sofferma sul presente, sull'ambiente che lo circonda, sulle persone che, straniere, si trovano di fronte ai capolavori del Rinascimento - e tutto ciò che lo colpisce negli sguardi altrui, nei comportamenti, è serbato come un tesoro. Uomini di varie epoche vengono evocati e parlano attraverso versi e pensieri, e la memoria si fa creatrice di un palcoscenico di civiltà in cui le grandi personalità della cultura italiana, e non solo di essa, intrecciano le loro storie con Urbino o con altre personalità legate alla città, una su tutte Carlo Bo, il quale diventa quasi una reincarnazione dell'anima umanistica del Duca Federico. Alberto Calavalle è un cronista che sa materializzare nella mente del lettore i personaggi che testimoniano l'importanza di Urbino e della sua Università agli occhi della cultura mondiale: una totale dedizione in cui egli si annulla, lasciando tutto lo spazio al suo oggetto per meglio farlo risplendere. Un annullamento, questo, che si manifesta in una prosa che poco lascia spazio all'invenzione e spesso si esprime in una cronaca umile e attenta, quasi a non voler disturbare con la propria persona l'oggetto dell'ammirazione.

Calavalle è insomma un innamorato di Urbino, dell'atmosfera che vi respira, dei suoi vicoli, dell'epoca in cui gli urbinati vivevano e frequentavano il centro storico, prima di spostarsi in periferia o andare ad abitare sulla costa più produttiva. Ma quest'amore non si rivolge solo alla città ducale e così quei "dintorni" evocati dal titolo si allargano al territorio e al mondo intero: dalle iniziative di piccoli centri del Montefeltro (Casinina o Belforte all'Isauro) ai commercianti improvvisati seduti sui marciapiedi di Istanbul e agli "orizzonti silenziosi" della Cappadocia. A un innamorato si perdonano certe ingenuità, perché sono frutto di una passione e di un sentimento sincero, anche se, e mi riferisco agli articoli che riguardano Urbino, ci si aspetterebbe un amore più maturo, un amore in grado di riservare più spazio alle carenze di una città che, proprio per le sue intrinseche qualità che Calavalle sa valorizzare, potrebbe essere molto più di quello che oggi è.

Mirco Ballabene, è laureato in Lettere moderne all'Università di Urbino, con la quale collabora tuttora. Ha pubblicato diversi interventi sulla letteratura italiana e sul cinema in varie riviste ed è diplomato in contrabbasso al conservatorio "G. Rossini" di Pesaro. Attualmente è docente di Italiano, Storia e Geografia presso la scuola secondaria di I grado.

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Urbino, cultura memoria di Francesco Colocci ed Ermanno Torrico

"Urbino cultura memoria" è un inedito testo/dossier di 59 pagine sullo stato degli archivi locali, diffuso artigianalmente verso tutte le istituzioni: Comune, Governo, procure, Unesco, ecc. Chi scrive? Due cittadini (Ermanno Torrico e Francesco Colocci). Già, due cittadini. Non sono presidenti, né segretari, né curiali, né partecipi di alcun potere. Due cittadini e basta. Hanno però sicura passione civica, oggi forse demodé. Sanno tuttavia che il problema della memoria e della cultura urbinate non è né di destra né di sinistra ma è la consistenza profonda della casa comune, il patrimonio fondamentale, la narrazione di quello che siamo stati ma anche la somma delle energie che dovrebbero esprimere le scelte future con il filtro della coscienza critica del già fatto e con lo sguardo al non ancora come progetto. Fra la storia della città e quella del suo archivio è rintracciabile un legame profondo e tenace che solo la dispersione può spezzare. Consapevoli di questo possibile tragico evento che è la morte di una civiltà, "i due cittadini" hanno avviato in proprio, la verifica delle vicende più recenti degli archivi urbinati, a partire da una emergenza clamorosa, il caso Fenera/Andreoni. Le due signore, dal 1° dicembre 1998 ad oggi, hanno cercato, senza esito nonostante tre sentenze favorevoli del Tar delle Marche, l'accesso agli archivi degli esposti della Fraternita di Santa Maria della Misericordia, dell'ufficio igiene e servizio ostetrico, del tribunale di Urbino. Cosa è successo e cosa sta succedendo? Ecco un passo del progetto, nella versione redatta dai tecnici della Direzione generale degli archivi (luglio 2005) in cui si certifica la precarietà conservativa e la difficoltà a tutelare il patrimonio documentario, di una pluralità di istituzioni, sul quale incombe il pericolo della dispersione. Un richiamo specifico riguarda l'archivio storico comunale, ubicato a palazzo De Rossi, le cui condizioni sono "inadeguate", così come inadeguati sono i locali che "attualmente ospitano la preziosa documentazione, ed inidonei, se non inesistenti, sono gli strumenti per la sua consultazione". Un referto impietoso che autorevolmente conferma relazioni ispettive molto più severe come quella della soprintendente agli archivi per le Marche dr. Maria Palma, relazione trasmessa al sindaco di Urbino il 18 ottobre 2005. Per ora, di certo, sia pure dopo una incredibile vicenda di tentativi falliti per assicurare all'archivio di Stato una sede, c'è il trasferimento del-

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l'archivio di Stato sezione di Urbino da palazzo Corboli a palazzo Pascoli Stando poi alle dichiarazioni del funzionario del Comune, è in corso il trasferimento degli archivi comunali da palazzo De Rossi e dai Forcuini in via Oddi presso la Scuola Volponi. Il problema non è affatto risolto. Si prospetta infatti un passaggio del materiale in un deposito di Gadana, in attesa di comprovare l'idoneità dei locali sottostanti la Scuola Volpòni. Anzi si accrescono le contraddizioni e le incertezze: nel 2005 si prospetta, pur in assenza di elementi concreti, la realizzazione di un polo archivistico prima definito "cittadino" ed in seguito "territoriale" (2007); ora è tutto fermo. Soprattutto manca la risposta cruciale alla domanda: che fine hanno fatto i seguenti archivi comunali: registro dei parti, archivio ex ufficiale sanitario, archivio ufficio igiene e sanità pubblica, archivio degli esposti, archivi degli enti assistenziali ipab/irab con relativi inventari dei materiali di arredo delle sedi e degli uffici, archivi ospedalieri, archivi del brefotrofio? Il dossier "Urbino cultura memoria"mostra inoltre il tentativo (1996) di destinare palazzo Chiocci (proprietà comunale) a sede dell'archivio di Stato per concludere definitivamente nel 2001 che non è idoneo ma dopo avere sperperato inutilmente oltre un miliardo di lire se si conta, come si deve, anche il trasferimento dell'archivio di Stato a piano terra di palazzo Corboli. Di lì a qualche tempo si prospetta il salto della quaglia a palazzo Gherardi. Ipotesi tuttavia tardiva e senza alcuna prospettiva concreta tanto che si perdono persino i finanziamenti richiesti (12 aprile 2007) per non aver inviato la domanda nei termini. Quali soluzioni meno vacillanti? Per mettere in sicurezza i diversi fondi archivistici ancora recuperabili compresi quelli dell'archivio di Stato a rischio "ammaloramento" nella scuola Pascoli a causa di una trasudazione di umidità dai muri non bonificati o non efficacemente bonificati, occorre prima trovare una sede certa, idonea sotto ogni profilo, appropriata e definitiva. Il dossier "Urbino cultura memoria" indica lo spazio della Data che non ha, finora, alcuna destinazione salvo quella generica di "osservatorio della città" suggerita da De Carlo. Quale migliore occasione per riottenere (forse) anche i due milioni di euro nel frattempo perduti proprio per mancanza di una destinazione d'uso? Ma non si può prescindere dalla partecipazione informata della città per cui si chiede non solo un

Consiglio comunale dedicato all'argomento sulla base di un progetto dettagliato e fattibile e di un piano finanziario serio e realistico, ma anche un ampio dibattito cittadino premettendo tutte le informazioni adeguate ad una valutazione della proposta. Al termine del processo, la sintesi della Giunta amministrativa. Urbino 24 nov 2010.

Francesco Colocci, studi classici, laureato in filosofia con Livio Sichirollo, Italo Mancini, Bruno Gentili, docente di lettere nella scuola media e media superiore, giornalista dal 1976 ha collaborato con il Corriere adriatico, La gazzetta di Pesaro, Il messaggero. Consigliere comunale a Urbino dal 1999 al 2004 e presidente commissione cultura e turismo.

Ermanno Torrico, docente a contratto di Storia Moderna presso la Facoltà di Sociologia dell'Università degli Studi di Urbino, Direttore dell'Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione "E.Cappellini" di Urbino. E' autore di volumi e saggi di storia politico-sociale con particolare riferimento alle Marche e al Pesarese. Collabora a diverse riviste tra cui "La Rassegna mensile di Israel", "Patria Indipendente", "Il Calendario del Popolo", "Storia e Problemi Contemporanei" ecc.


Attività culturali e artistiche dell'Associazione L'Arte in Arte "BONAE ARTES" Mostra Collettiva di pittura, scultura e ceramica Chiostro del Convento di S. Francesco a Gubbio - luglio 2010

Fabrizio Battesta “Presenze inquietanti” 2010

Emanuela Mencarelli “Tempo” 2009

Lucia Boldrini “Cercando il se autentico” 2009

Silvestro Castellani “Un riflesso mentale” 2009 9


"BONAE ARTES" Mostra Collettiva di pittura, scultura e ceramica Chiostro del Convento di S. Francesco a Gubbio - luglio 2010

Stefano Caffarri “Siamo tutti parabole (senza decoder)” 2010

Susanna Galeotti “Vento” 2010

Guerrino Bonalana “Sali sull’albero” 2009

Nazzarena Bompadre “Bianco e nero” 2010 10


"in quadrati" Mostra contemporanea Piazza C. Marx, Umbertide (PG), 2010

Alessio Spalluto “Dare sostanza alle idee” 2009

Fulvio Paci “Bouquet” 2010

Oliviero Gessaroli “Penetrazione” 2009

Anita Aureli “Autoritratto” 2009

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"in quadrati" Mostra contemporanea Piazza C. Marx, Umbertide (PG), 2010

Gianfranco Ceccaroli “Movimento” 2010

Guido Vanni “Fotoceramica Ville - case corti e borghi - Residenze di personaggi illustri di Castenaso (BO)” 2010

Maria Cristina Fabi “Pappagallo” 2011

Michela Minotti “Oltre” 2010

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Giuseppe Garibaldi e Urbino di Alberto Berardi

Che Giuseppe Garibaldi avesse una venerazione per Raffaello è cosa nota, meno noto è invece il fatto che nel 1873 avesse partecipato alla sottoscrizione: "aperta al pubblico per consiglio dell'illustre e benemerito Sig. Morris Moore, allo scopo di restaurare la Casa di Raffaello formando in essa possibilmente un Museo Raffaellesco Nazionale". Si legge infatti nell'elenco dei sottoscrittori sul periodico urbinate "Il Raffaello" del 10 giugno 1873: " Generale Giuseppe Garibaldi L. 10 " con la premura di aggiungere in nota le poche righe di accompagno del grande uomo: " Stimatissimo Sig. Presidente, V'invio 10 lire con cui voglio onorarmi sottoscrivere al museo che porterà il titolo del più grande dei pittori. Vostro - G.Garibaldi". D'altra parte il Generale figurava, come ricorda Anna Fucili nel suo volume: "L'Accademia Raffaello 1869-1969", insieme ad altri uomini illustri del tempo tra i soci onorari dell'Istituto di Belle Arti di Urbino previsto nel decreto Valerio (n. 740 del 6 gennaio 1861). Trascurando i sovrani in carica quella eletta schiera vedeva oltre a Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Verdi e Gioacchino Rossini accomunati ad Alessandro Manzoni e Niccolò Tommaseo, Victor Hugo ed Alessandro Dumas per non parlare dei pittori Ingrès ed Hayez. Ma il legame di Garibaldi con Urbino si articolò anche nel versante della solidarietà se è vero quanto riportato nelle Memorie della "Società Operaia di Mutuo Soccorso fra gli Artieri ed Operai in Urbino" inaugurata il 14 febbraio del 1861 in cui si legge: "Fra le cure, intese al miglioramento economico e morale della classe artigiana, la Società non dimenticava i generosi che offrivano la loro vita per unire alla Madre Patria le terre ancora soggette allo straniero, plaudendo alla loro azione ed incoraggiandone l'ardore con scritti pieni di liberi e forti sensi". Naturalmente tale premessa preludeva ad una decisione importante che così si esplicò: "Riconoscente al glorioso Duce di essi ne ascriveva il nome illustre nell'albo dei

soci proclamandolo Presidente onorario". L'onore era tale che il Generale rispose con lettera autografa da Caprera in data 20 marzo 1865: "Cari Fratelli, Operai, Vi ringrazio dell'affetto addimostratomi facendomi vostro Socio. Vado orgoglioso di questo titolo. In voi è riposto l'avvenire della Patria e dell'Umanità. Con la fermezza e la istruzione vogliate effettuare questo nuovo e grandioso periodo. Credetemi con affetto. Vostro sempre Giuseppe Garibaldi". Quanta ragione avesse il Generale di andare orgoglioso degli Operai di Urbino si vedrà nello stesso anno della sua adesione quando la Società accolse nel suo seno anche le donne operaie che: "ebbero comune agli uomini doveri e diritti", quando nel 1866, per incarico del Municipio, curò l'impianto di una Biblioteca popolare e quando nel 1874 contribuì all'apertura delle cucine economiche. In questa fase storica di rievocazioni, di celebrazioni e spesso di denigrazioni tutte legate al nome di Garibaldi vengono alla memoria le parole del necrologio che "The Times " di Londra, un quotidiano non sospetto di partigianeria, gli dedicò il 5 giugno 1882: "In qualità di ardente patriota - come tutti gli italiani erano quando non avevano patria - Garibaldi non ha mai tralignato, ed anche se ha sbagliato ha riparato ai suoi errori e li ha espiati prima che potessero sviluppare le loro conseguenze peggiori. Fate scrivere alla biografia di Garibaldi al suo peggior nemico, e vi apparirà pur sempre come il più sincero, il più disinteressato ed il meno ambizioso degli uomini. Egli non si è limitato a rifiutare per lunghi anni, con coerenza assoluta, ogni ricompensa e distinzione, ma ha schivato e temuto il clamore della folla, ed è stato disturbato e disgustato della degradante venerazione di cui era fatto oggetto". Et de hoc satis.

Ritratto fotografico di Giuseppe Garibaldi

Alberto Berardi, è nato a Fano, dove vive e lavora, nel lontano 1943. Dopo aver dedicato una parte rilevante della sua vita alla politica, intesa nel senso più nobile del termine, si dedica oggi prevalentemente agli studi sui beni culturali e sulle tradizioni popolari, pubblicando saggi e libri. Collabora con “Il Messaggero”. E’ vicepresidente della “Fondazione Gioachino Rossini”, membro dell’”Accademia Raffaello”, consigliere della “Fondazione Cassa di Risparmio di Fano”, Presidente della Federazione Italiana Carnevali.

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Il dinamismo di Boccioni e di Pardo. Il "Monumento Nazionale delle Marche" di Castelfidardo di Andrea Carnevali

Lo sculture veneziano Vito Pardo (Venezia 1871- Roma 1933) articola la forma del Monumento Nazionale delle Marche nella secolarizzazione del tema del cavallo e del cavaliere che troviamo - ripetutamente - nelle composizioni di Umberto Boccioni1. La raffigurazione dell'animale è un tema ricorrente nei lavori del calabrese. Tra l'altro è un esempio del suo stile il quadro La città che sale (1910), espressione di idee e di stati d'animo di cui fece numerosi schizzi2. L'idea di collegare il monumento e lo spazio nell'arte di Pardo è funzionale alla conservazione del verde della natura circostante dove il Monumento per la battaglia di Castelfidardo (inaugurato 18 settembre 1912)3 viene installato. La ricerca stilistica segue una linea interpretativa scenografica, concepita in una sequenza cinematografica in cui il regista-scultore lascia muovere i suoi personaggi: il generale a cavallo e i militari messi sullo stesso piano dell'osservatore. Allo stesso modo in cui l'animale si trasforma per Boccioni nel simbolo stesso del dinamismo e della velocità, ugualmente per Vito Pardo il cavallo è azione che conduce alla libertà le Marche4. L'effetto scenografico crea un certo equilibrio sull'artificio e sull'effettiva azione di guerra che si è conclusa vittoriosamente. "Partiva - e del cavallo/dal monte, e su dal vallo,/gli echi mi riportarono/frequente il galoppar!-/…Ivi rimasi immobile,/sparse le trecce al vento,/sin che nel firmamento/e stelle scintillar." (La violetta mammola, Ballata, Febbrajo 1861, Lopordo P.). Il parco dove sorge il monumento venne voluto da Giulio Monteverde. Questi fu sempre molto vicino all'artista (suo allievo) ed espresse un giudizio positivo sull'arte del veneziano: "sono convinto del suo risultato che potrà dare il Signor Comm. Vito Pardo con il suo progetto di monumento alla ricordanza della famosa battaglia di Castelfidardo, Duce vincitore Enrico Cialdini. Il modo con cui il Sig. Vito Pardo ha svolto in suo concetto è nuovo e senza cadere nell'inverosimile, trattandosi di un monumento da collocarsi in aperta campagna" (lettera del senatore Giulio Monteverde del 9 novembre 1906). L'opera muraria, nella quale è incastonata la parete del monumento, è del maestro Giordani di Castelfidardo. I soldati del monumento del Generale Cialdini - che si delineano da una massa quasi abbozzata - diventano soggetti precisi e delineati accanto al comandante del plotone. Il generale che, a cavallo del suo destriero, indica il

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nemico incoraggiando i suoi soldati alla carica. La forza è esaltata da Cialdini che incita i suoi uomini che lo hanno seguito nella battaglia a combattere valorosamente. La scena è drammatica: i proiettili sparati si traducono per i Piemontesi in tensione e morte, sotto il fuoco della guerra5. Le truppe del Generale, infatti, il 18 settembre si scontrarono a Castelfidardo con l'esercito del Papa che in poche ore furono costrette ad una fuga frettolosa e disorganica verso Ancona. Mentre il 20 settembre le truppe piemontesi entravano a Macerata ed il 29 settembre le truppe francesi si arrendevano ad Ancona 6. Vito Pardo rende la rappresentazione dell'evento bellico attraverso la metafora del movimento che ha consentito di raggiungere la liberazione. Ma l'intera struttura compositiva presenta elementi di innovazione nel linguaggio artistico, soprattutto se visti nell'ambito della scultura commemorativa. Tanto che il gruppo scultoreo è posto verso il mare (nell'attuale scalinata Dalmazia), quindi in una prospettiva discendente. Il rapporto tra Boccioni e Pardo si sviluppa sull'identità di significato del cavallo che è una parte fondamentale della realtà della guerra. L'adesione al linguaggio futurista di Boccioni costituisce per Vito Pardo il risultato più significativo del suo futurismo. È la testimonianza dell' uomo moderno che appare, anche, dal gruppo scultoreo dove nella scena dell'attacco ai Piemontesi si rievoca la guerra: fame, fatica, sangue e morte che sono nella memoria dei Marchigiani, dopo la Battaglia di Castelfidardo8. L'allusione non è causale perché il monumento si è conservato nonostante il cambiamento di indirizzo politico che avvenne al tempo di Mussolini, cioè dalla fascistizzazione del mito della guerra che fu parte del mito e della ricostruzione del paese. La commistione degli stili fa pensare anche a Roma, alle tante fontane rocciose 9. La capitale era stata, del resto, il luogo dove l'autore si era formato nello studio di Monteverde. Prima di terminare i lavori a Castelfidardo, a Vito Pardo venne commissionato dallo Speranza un Busto di Garibaldi a Grottammare, a ridosso della distrutta casa che ospitò il generale nel giardino pubblico. Esso richiama indirettamente il piccolo Monumento dell'Italia dell'Unità d'Italia (1911), realizzato dall'artista per il municipio di Pergola. L'aspetto più singolare del monumento di Castelfidardo è il culto dei caduti, già presente nelle tradizioni rituali dei

Vito Pardo

Umberto Boccioni, Carica dei Lancieri (1915)

diversi nazionalismi che fu la "prima universale manifestazione liturgica della sacralizzazione della politica del XX secolo e diede nuovo impulso alla santificazione della nazione. I cimiteri di guerra e soprattutto la diffusione dei monumenti alla memoria dei caduti in battaglia, restano come la testimonianza visibile del livello di universalità raggiunta dal culto della comunità nazionale" (scrive Silvia Cuppini)10. Ciò spiega anche la funzione descrittiva del cavallo - simbolo antichissimo che acquisisce in Boccioni e in Pardo una visione onirica dello spazio e della morte. Così come fin dal Quattrocento è frequente vederla nelle incisioni di Albrecht Dürer: le linee del corpo dell'animale sono adattate alla descrizione dei particolari delle gambe e degli

attributi anatomici11. È così anche per il cavallo di Vito Pardo che viene impaurito dal colpo delle armi perché ferisce a morte un soldato. La rabbia dell'animale che imbizzarrito dal fuoco delle armi disorienta l'armata che fa pensare all'intuizione del sua fine nel campo di battaglia. L'anatomia del cavallo accentua molto probabilmente l'ipotesi dello studio delle opere di Dürer (e secondariamente dell'osservazione diretta del cavallo) per la progettazione del gruppo in bronzo. Vito Pardo ha fatto della sua opera un'allegoria del percorso sofferto dell'Unità d'Italia che mostra con una matrice realista e sofferente. La Battaglia di Castelfidardo si prestava bene all'allegoria del ritratto dell'epoca che voleva mettere a fuoco l’evento storico, ma dal punto di vista


militare fu senz'altro di modesta portata, mentre nella direzione politica segnò una pagina gloriosa della storia nazionale12. Nel XXVI Battaglione Bersaglieri che il generale Cialdini, comandante dei Piemontesi, aveva posto a guardia della vallata sottostante il colle di Monte Oro Selva, si riconoscono i personaggi della storia garibaldina che cambiarono il volto delle Marche13. Il significato più forte del complesso monumentale è perseguito da Ernesto Garulli di Fermo che costituì una Commissione per l'erezione del monumento ai caduti della battaglia, la cui vittoria da parte dei piemontesi, guidati dal Generale Cialdini, aveva significato la "riduzione" dello Stato Pontificio e l'unione delle Marche e dell'Umbria all'Italia sotto i Savoia. Il conte Garulli pensava ad una opera grande degna della causa italiana perché la battaglia ed il suo condottiero meritavano riconoscenza. I soldati della fanteria dove spuntano tra il plotone alcune piume dei bersaglieri, superstiti di ritorno a trarre vendetta, sono alte tre metri, e il cavaliere raggiunge i cinque metri e mezzo. Tra i militari e posto in prima fila emerge Cialdini: eroico, modellato con vigoria e espressività. La muscolatura del cavallo conferisce un fremito di impazienza, trattenuta dalla mano forte e ferma del generale 14. La vivacità della vicenda e la sua formazione romana confermano la linea del realismo-impressionista con alcuni elementi del liberty16, che si intrecciano alle immagini-simbolo di Boccioni piene di coraggio, di audacia e di ogni ribellione. Vito Pardo, inoltre, aderisce al neo-impressionismo che rielaborò originalmente nella scultura17. Nella scelta di inserire nel gruppo di bronzo un giovane militare che sta morendo, c'è un desiderio di inneggiare alla guerra, sottolineando il privilegio di morire di alcuni eroi in battaglia. In guerra caddero 88 volontari pontifici e 63 militari piemontesi; un numero esiguo di vittime per una battaglia che - sotto l'aspetto politico e civile - fu fondamentale per le sorti delle Marche e dell'Umbria e la loro annessione al Regno d'Italia 18. Il monumento è protetto da due cancellate in ferro battuto, denominate le "Cancellate degli Allori" che furono disegnate dal Pardo nel 1925 e che sono le vie di accesso alla collina 19. Nella parte esterna della piramide dove si trova l'ossario - vennero scolpiti i nomi dei soldati piemontesi caduti nella battaglia, mentre la parte interna venne lasciata bianca in onore dei soldati pontifici dei quali non si conosceva il nome. Le ossa dei soldati furo-

no seppellite in avelli separati nella stanza sottostante al monumento con lo stesso criterio di separazione della fossa precedente. Simbolicamente il monumento (ossario) a forma quadrata rappresenta il paradiso, dove entrano dai due ingressi i caduti dei due opposti eserciti, mentre le piramidi tronche rappresentano la loro vita spezzata nella battaglia e la colonna centrale (che doveva essere un angelo del perdono), è il segno della pietà divina sopra le parti contendenti. Nel sacrario Vito Pardo tenta di rinnovare il linguaggio della scultura commemorativa attraverso il dinamismo e l'unione tra spazio circostante e opera d'arte. Come mai era accaduto prima di allora nell'ambito dei monumenti onorari, la fama di uno scultore si legava indissolubilmente al successo delle sua opere, al punto da concretarsi, alcuni anni dopo, nell'erezione del suo autoritratto in bronzo (1923) posto al centro di uno slargo della scala che conduce al sacrario, poco distante dal Monumento della battaglia di Castelfidardo. A differenza del busto il monumento è fissato al basamento con una base di roccia che rende vivace la scultura e recupera in maniera "ancora più totale" il tema degli spazi vuoti 20. All'origine il gruppo scultoreo non era sconsacrato, poiché i vincitori avevano combattuto contro il papa, poi nel 1956 la nobildonna Maria Lucrezia Lepetit duchessa Ferretti di Castelferretti chiese ed ottenne dal vescovo di Recanati di benedire il monumento e le spoglie dei soldati, e nella colonna centrale fu collocata una croce cristiana21. Attorno al monumento vennero piantati cipressi e siepi come cornice a quello che si considera la prima forma concreta di condivisione e fratellanza tra gli uomini europei.

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U. Boccioni, Dinamismo di un cavallo in corsa + case (catalogo a cura di Fred Licht), Guggenheim Foundation, 1996, pp. 95-96. 2 L.N. Belobrzeckaja-Costa, Il Dinamismo di Boccioni in http://belkosta.narod.ru/boccio/dinamboc.htm - trad. dalla lingua russa in italiano di Silvia Belloccio, a cura della prof.ssa Angela Siclari - Università degli Studi di Parma. 3 Il progetto per la realizzazione del Monumento Nazionale delle Marche al quale si decise di affidare l'incarico definitivo nell'adunanza del 2 gennaio 1907, tenutasi a Firenze. Il Senato e la Camera dei deputati "approvarono il disegno di legge per il concorso dello Stato nella spesa per il Monumento al generale Cialdini ed ai combattenti di Castelfidardo, il 17 marzo

1910 fu promulgato dal re d'Italia Vittorio Emanuele III e dai Ministri Sonnino e Salandra" […]. Estratto dalla tesi: P. Fabbri, Il Monumento ai Caduti di Castelfidardo opera di Vito Pardo (tesi) - Scuola di Perfezionamento in Storia dell'Arte, (relatrice Silvia Cuppini), Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Urbino, a.a. 1978-1979, pp. 42-43. L'incarico a Vito Pardo venne approvato con la legge n. 105 del 17 marzo 1910, sotto il Regno di Vittorio Emanuele II. Il monumento venne dichiarato di alta riconoscenza nazionale ed inaugurato in forma solenne il 18 settembre 1912: A. Piccioni, "Il monumento nazionale" in La Battaglia di Castelfidardo, p.36 inserto supplemento del "Corriere Adriatico" del 10 settembre 2010, edizioni Artema, Torino, p 10. 4 B. Condoleo, "I Cavalli di Boccioni" in Il Cavallo nell'arte - rubrica mensile ideata e curata da Bruna Condoleo http://www.crazyhorsenews.com/9P10.htm l. 5 Cfr. AA.VV., "Il generale Enrico Cialdini" in La Battaglia di Castelfidardo, p 10. 6 I. Manzi, "L'amministrazione Valerio" in Le Marche e l'Unità d'Italia (a cura di Marco Severini) Edizioni Codex, Milano, 2010, p. 50. 8 C. Bertelli, "Boccioni: e dal cavallo la città sale…", in "Corriere della Sera", 5 marzo 1996. 9 S. Cuppuni, "L'Ottocento e il Novecento" in Scultura nelle Marche - dalle origini all'età contemporanea (a cura di Pietro Zampetti), Nardini Editore, Firenze, 1996, pp. 463-466. 10 Ibidem. 11 AA.VV., Incisioni di Antichi Maestri in http://www.salamongallery.com/pdf/164.pd f, Salamon & C., 2005, pp. 18-19; 24-25; 28-29; 44-45. 12 Cfr. Castelfidardo - conoscere la città, pp.80-82. 13 AA.VV., Castelfidardo - conoscere la città, Poligrafica Bellomo, Ancona, 2001 pp. 85-85. 14 A. Piccioni, "Il monumento nazionale", p.36. "Garulli lanciò una circolare con la quale invitava tutti i volenterosi a partecipare all'attuazione della sua idea. Le adesione furono sollecitate e molte, tanto che un gruppo di cittadini ed autorità delle Marche si riunì a Firenze in Comitato, sotto la presidenza onoraria del S.A.R.". Però si decise in seguito a giudizio autorevole del Monteverde ed al voto concorde dei membri marchigiani del Comitato, riuniti ad Ancona l'8 ottobre 1906. "Il presidente si recò dagli altri componenti del comitato non intervenuti completando così la votazione che, all'unanimità, diede parere favorevole per il progetto del Pardo, al quale si decise di affidare l'incarico definitivo nell'adunanza del 2 gennaio 1907, tenuta a Firenze": Cfr., P. Fabbri, Il Monumento ai Caduti di Castelfidardo - opera di Vito Pardo, pp.32 e 36. Le fasi della battaglia vengono riassunte nel testo G. Piccinini, Verso l'Unità d' Italia - 150 anni dalla Battaglia di Castelfidardo in Marche Cultura - periodico culturale della Regione Marche n. 3 (testo on line) http://www.cultura.marche.it/Modules/ContentManagmen

Battaglia di Castelfidardo

t/Uploaded/CMItemAttachments/Rivista.p df. 16 M. Papetti, "La patria di marmo" - Gli scultori marchigiani e la celebrazione del Risorgimento in L'età dell'Eclettismo - arte e architettura nelle Marche fra Ottocento e Novecento (a cura di Fabio Mariano), Edizioni Nembrini, Firenze, 2004, pp. 183184. 17 Ibidem. 18 Il testo relativo al numero dei soldati morti in battaglia è pubblicato in sintesi nella pagina http://www.comune.castelfidardo.an.it/visitatore/index.php?id=50017. 19 Ibidem. 20 M. Papetti, "La patria di marmo" - Gli scultori marchigiani e la celebrazione del Risorgimento, cit., pp. 185-186. 21 Archivio delle Pillole di Storia Fidardense, a cura del Centro Studi Storici Fidardesi - 1582-2009: La Chiesa e l'Immagine del Crocifisso a Castelfidardo http://www.comune.castelfidardo.an.it/Visi ta tor i/Sto ria /a r ch ivio _pillo le /158 2chiesa_e_crocifisso_1.htm, pp. 1-3.

Andrea Carnevali, è giornalista e saggista ed ha pubblicato articoli, recensioni e saggi di arte di letteratura e di cinema.

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Moenia et mores di Filippo Venturini

Nell'area compresa fra il corso del Foglia e quello del Misa, sono attestati tre mosaici ritraenti mura turrite: uno a Pisaurum rinvenuto in via Gavardini1 (fig. 1) e due a Suasa: uno (fig.2) emerso presso la Domus dei Coiedii 2; l'altro che fa da cornice nel mosaico del cubiculum AK della Domus stessa3. Di questi due pavimenti il primo presenta un motivo più naturalistico, è il più antico, il secondo più schematico. Fra la fine della repubblica e l'inizio dell'impero, la scelta d'un simile tema decorativo ha un significato preciso, che va bene al di là dell'estetica. Quello delle mura cittadine è un motivo d'origine ellenistica, che parrebbe derivare da decorazioni tessili4, appare spesso associato al labirinto, e sia in questo caso, che quando è a sé stante, ha un forte valore semantico. La rappresentazione della città, infatti, comprende in sé la summa di valori legati sì alla sfera politica, ma anche di esigenze e comportamenti sciali, in una parola un vero e proprio stile di vita, di quella concezione di urbanitas, connessa indissolubilmente all'idea di centro urbano, che acquista un senso decisivo in questi nuovi territori, essendo segno della promozione sociale delle nuove classi dirigenti e del loro essere all'altezza di una "vita romana". La manifestazione del proprio ruolo pubblico, della propria potenza sociale, infatti, oltre che dalla proprietà di una domus adeguata, dipendeva anche da ciò che si era in grado di fare, anche in campo edilizio, di bello e utile per la città5. In sintesi le mura cittadine nei mosaici rappresenterebbero una sorta di compenetrazione della città nella casa e della casa nella città, quest'idea verrebbe rafforzata dalla presenza del labirinto6. A Pisaurum, però, questo tema potrebbe caricarsi d'un'ulteriore valenza, visto che il mosaico sarebbe ascrivibile al I a.C. in questo periodo infatti, si verificano nella città due “prodigia”: a Pesaro fu avvertito un fremito della terra, i merli delle mura caduti a terra, senza che ci fosse un terremoto, preannunciarono le guerre civili7; “Pesaro colonia di Antonio, lungo la costa adriatica, fu inghiottita da una voragine apertasi nel terreno8”.. Il primo di questi due episodi è ascritto al 97 a.C., inizio d'un torbido periodo per la repubblica romana: guerra sociale, guerre civili, fra Mario e Silla prima, fra Cesare e Pompeo, poi e, infine, fra Antonio ed Ottaviano e il secondo prodigium è proprio legato al momento culminante dello scontro fra questi due: la battaglia di Azio 31 a.C. Tutti questi fatti hanno forti ripercussioni su Pisaurum ed il territorio circo-

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stante, che si trovano schierati con la parte perdente, sia in occasione del conflitto fra Mario e Silla, che in quello fra Antonio e Ottaviano. Le mura sono la summa dei valori civili ed etici dei quali, per volere degli dei, è alfiere il popolo romano: bellum ingens geret Italia populosque feroces/ contundet moresque viris et moenia ponet9. Si noti il legame fra mores e moenia, che verrebbero imposti dalle armi romane, dopo avere sconfitto populos feroces, quale popolo si sarebbe potuto mostrare più ferox dei barbari Celti, stanziati proprio fra Utens ed Esino10? Si trattava di quegli stessi Senoni che avevano saccheggiato Roma nel 390 a.C. A questo episodio Pisaurum è legata da una tradizione secondo la quale Furio Camillo avrebbe qui recuperato l'oro romano 11. Diodoro Siculo, in una celebre descrizione, fa dei Celti un vero e proprio paradigma di ferocia: “(…)molti combattono nudi (…)appendono ai colli dei cavalli le teste mozze dei nemici (…) terribili d'aspetto emettono suoni gravi e orridi (…) Minacciosi, esaltati ed eccessivi (…)12”. Pisaurum era inoltre una colonia di Antonio, reso folle dall'orribile mostro Cleopatra, lo scontro con il quale venne presentato come una lotta contro la barbarie orientale. Non sarà certo un caso se Augusto sceglierà di restaurare, a proprie spese, la Flaminia, che attraversava un territorio che gli era stato ostile, alle città del quale diede moenia, quindi mores. Si ricordino: Fanum Fortunae, Ariminum e Pisaurum che fu rifondata come: Colonia Iulia Felix nel 27 a. C.13 Il portato semantico della raffigurazione delle mura cittadine in questo caso è verosimilmente amplificato dalle particolari vicende nelle quali Pisaurum si trovò coinvolta, in virtù di ciò saremmo tentati di attribuire il mosaico di via Gavardini agli anni immediatamente successivi alla rifondazione augustea della città. Il più antico dei due mosaici di Suasa è datato al I a. C 14, seppur con qualche oscillazione verso l'alto, infatti chi l'ha scavato lo inscriverebbe fra la fine II a.C. ed il principio del secolo successivo15. Non è un periodo qualsiasi, si tratta infatti dell'epoca nella quale il centro assunse lo status di municipium o poco prima, anche in questo caso, si riappalesa il nesso: moenia/urbanitas, confermato anche dal resto dei mosaici con raffigurazioni simili, presenti in Italia e soprattutto nel territorio della Cisalpina, ove i pavimenti di questo tipo sono ascrivibili ad un'epoca compresa fra il I a. C. ed il I d. C.: momento fondamentale dell'urbanizzazione e romanizzazione dell'area16.

Figura 1

Figura 2

La pregnanza semantica delle mura cittadine in questo periodo è confermata da dei rilievi, per lo più ascrivibili alla seconda metà del I a. C., che ritraggono porte urbiche e tratti di cinte murarie: si tratta di frammenti di monumenti funerari. Vediamo dunque che questo tema figurativo accomuna domus e sepolcro, cioè i due ambiti preminenti dell'espressione dello status sociale17. Il secondo mosaico di Suasa, è invece ascrivibile al III secolo d..C., quindi in piena età imperiale18, in questo caso il motivo ornamentale in questione è estremamente schematico, apparentemente, completamente desemantizzato, ridotto al rango di semplice elemento ornamentale. Anche nella Cisalpina a partire dal I d.C. il tema in questione viene completamente svuotato di significato e questo è stato ritenuto conseguente alla delusione dei locali ceti aristocratici, per la politica di Augusto dopo Azio19. È anche vero che: questo simbolo avrebbe potuto perdere la propria valenza per il lungo periodo di pace, benessere e sicurezza, che caratterizzò l'Italia dopo l'instaurazione dell'Impero. Va inoltre rilevato come: sia in connessione con il labirinto, che da sola, la cinta muraria è costantemente collocata in ambienti di passaggio, verso aree di notevole importanza nella domus: a Bedriacum segna il passaggio al triclinium; a Cremona precede un ambiente pavimentato in sectile; a Ravenna lo stesso tema si trova in un vestibolo; mentre a Pompei nella casa di M. Caesius Blandus, le sole mura con porta sono ritratte in una soglia, così come nella "Casa del Cinghiale" sono nell'area antistante il tablinum20. Ciò potrebbe fornirci qualche indizio per l'interpretazione del pavimento pesarese, che potrebbe scandire il passaggio ad un ambiente di particolare riguardo, o addirittura essere un vano di rilevanza

della domus, visto che a Pompei troviamo lo stesso tema ornamentale anche nel tablinum della "Casa di Trittolemo"21. Nel pavimento di Pesaro il campo centrale è costituito da un'area realizzata secondo la tecnica del lithostroton, che ricorre anche altrove in questo territorio: ad Urbino in via Veterani, in un mosaico attribuito, in base a dati stratigrafici22, al I d. C. A volte il portato semantico della cinta muraria, oltre che dalla connessione con il labirinto è rafforzato dalla raffigurazione di Teseo che uccide il Minotauro. L'eroe in quanto fondatore di Atene rimanda ai valori legati all'urbanitas e alla vittoria sulla barbarie impersonata dal mostro. Non a caso Augusto utilizzò Teseo per la sua propaganda, come dimostra la decorazione del frontone di Apollo Sosiano a Roma. Abbiamo dunque individuato un complesso semantico costituito da: mura, labirinto, eroe che uccide un mostro, simboleggiante i valori della civiltà, cioè un cosmo ordinato e contrapposto al caos, ovvero: il Minotauro 2 3. Bisogna aggiungere un altro elemento: il tempo, inteso come Chronos, secondo la definizione platonica 24, cioè lo scorrere dei gironi, degli anni, che i Romani non a caso contavano ab urbe condita. Fare vacillare l'ordine cittadino significava, fare vacillare, sovvertire anche il tempo, l'eroe è dunque anche signore del tempo e così, chi gli è assimilato o, chi vi si assimila. Augusto riforma il calendario e fa erigere, a fianco all'Ara Pacis, un grande orologio solare. Ritroviamo questo stesso complesso semantico, seppur, sub mutata specie, nel S. Michele di Raffaello (fig.3). L'opera è carica di simboli che sono stati ricondotti alla vittoria dei Montefeltro su Cesare Borgia, che si era impadronito di Urbino nel 150225,


in particolare si identificherebbe il Satana-drago con il Valentino, la città in fiamme sullo sfondo sarebbe la città di Dite dell'Inferno dantesco26 e alla sinistra di S. Michele: Gianni Fucci ladro, sacrilego, ricordato da Dante27; mentre la teoria di incappucciati rappresenterebbe gli ipocriti, sempre secondo la descrizione dantesca28. Il Borgia era ritenuto: ipocrita, assassino, traditore, saccheggiatore di città29, cioè: fautore del caos, come il Minotauro e, come quello, fu soppresso dall'eroe civilizzatore, in questo caso S. Michele, al quale sono assimilati i Montefeltro, come Augusto a Teseo. La città sullo sfondo è simbolo dell'ordine violato, che però viene ricostituito a seguito della soppressione del monstrum. Il valore semantico e la capacità persuasiva di certi simboli appaiono immutati, ugualmente potenti, dopo secoli, a prescindere dalle sovrastrutture retoriche con le quali vengono presentati, a seconda delle epoche. “Non si torna indietro verso il mito, il mito lo si incontra di nuovo quando il tempo vacilla sin dalle fondamenta, sotto l'incubo di un pericolo estremo30”. Così come il tempo aveva vacillato all'epoca dello scontro fra Ottaviano ed Antonio, l'aveva fatto anche ad opera del Valentino: seppur formalmente diversi, i simboli con i quali si rappresenta il caos e la restituzione dell'ordine sono, sostanzialmente, identici.

L. MERCANDO, I mosaici romani, in Pesaro nell'antichità, Venezia 1984, pp. 198-199. 2 S. DE MARIA, Moasici di Suasa: tipi, fasi, botteghe, in Atti del III colloqui dell'AISCOM, Bordighera 6-10 dicembre 1995, Bordighera 1996, pp. 414-415. 3 M.G. BERTANI, P.L. DALL'AGLIO, S. DE MARIA, Scavi nella città romana di Suasa, in Picus XIV-XV 1996, p. 141. 4 M. E. BLAKE The pavments of Roman buildings of the republic and early empire, Roma 1930., pp. 73-74; I. BALDASSARRE, Pittura parietale e mosaico pavimentale dal IV al II a.C., in Dialoghi d'Archeologia, 2 1984, pp. 65-76; G. L. GRASSIGLI, La scena domestica e il suo immaginario, Perugia 1998, p. 110 5 GRASSIGLI, op. cit., p. 107 6 IDEM, op. cit., pp. 101-112. 7 Giulio Ossequente, Liber Prodigiorum, 657, L. BRACCESI, Lineamenti di storia pescarese in età antica, in AA.VV., Pesaro nell'antichità, Venezia 1984, pp. 1-38, in particolare p. 18. " a Pesaro fu avvertito un fremito della terra, i merli delle mura caduti a terra, senza che ci fosse un terremoto, preannunciarono le guerre civili" 8 PLUT, Ant. 60, 2 " Pesaro colonia di Antonio, lungo la costa adriatica, fu 1

inghiottita da una voragine apertasi nel terreno" 9 VERG. Aen. I 263-264 "guerra grande farà in Italia, combatterà popoli fieri, darà usi civili e mura alla sua gente" 10 G. PACI, Umbria ed Agro Gallico a Nord del fiume Esino, in Picus XVIII, 1998, pp. 89-118, in particolare pp. 93-94. 11 BRACCESI, op. cit., pp. 9-13. 12 DIOD., V 26-31. 13 BRACCASI, 1984, p. 25. 14 L. MERCANDO, I mosaici romani, in Peasro nell'antichità, Venezia 1984, pp. 198-199; 15 S. DE MARIA, Moasici di Suasa: tipi, fasi, botteghe, in Atti del III colloqui dell'AISCOM, Bordighera 6-10 dicembre 1995, Bordighera 1996, pp. 414-415. 16 GRASSIGLI, op. cit., p. 108. 17 IDEM, op. cit., p. 110 18 BERTANI, DALL'AGLIO, DE MARIA, art cit., p.141. 19 IDEM, pp. 111-112. 20 IDEM, pp. 105-111. 21 BLAKE, op. cit., ss. 22 A.L. ERMETI, Rinvenimenti di mosaici pavimentali romani in Urbino, in Notizie da Palazzo Albani XX, 1991, pp. 18-19. 23 G. DAREGGI, I mosaici con raffigurazioni del labirinto: una variazione sul tema del "centro", in MEFRA 104, 1992, pp. 281-292, in particolare, p.291. 24 PLATO, Tim. 37-39; A. ZACCARIA RUGGIU, Le forme del tempo Aion, Chronos e Kairòs, Padova 2006, p. 29; F. VENTURINI, Il mosaico di Aion di Sentinum, un nuovo tentativo di lettura, in Picus XXVIII, 2008, pp.213-231, in particolare pp. 226-227. 25 D. DIOTALLEVI, San Michele, in L. MOCHI ONORI (a cura di) Raffaello e Urbino, Milano 2009, p. 178. 26 Inferno VIII 27 Inferno XXV 28 Inferno, XXIII. 29 DIOTALLEVI, art. cit., p. 178. 30 E. JÜNGER, Trattato del ribelle, Milano 2001, p. 60.

Figura 3

Filippo "Phil the Thrill" Venturini archeologo, studioso di mosaici; armonicista, da anni collabora col chitarrista e cantante Stefano "Steve" Mancini, che ha approfondito la conoscenza del Blues, soggiornando a New Orleans, suonando con musicisti locali. Stefano è anche incisore, recentemente (10/7-3/8, 2008) ha esposto le proprie opere ai Giardini della Biennale, a Venezia.

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Cottaterra di Emanuela Mencarelli e Michela Minotti

Nel percorso di sperimentazione ceramica dell'associazione L'Arte in Arte di Urbino, questa estate si è aggiunta un' interessante esperienza realizzata nelle colline del Montefeltro il 21 ed il 22 agosto nella bella casa della ceramista Regine Lueg. Guidati dal 'saper fare' dei ceramisti Roberto Aiudi, maestro d'arte ceramica della C orte della Miniera, e Orazio Bindelli, membro dell'Associazione degli Amici della ceramica di Urbania, il lavoro di molte mani curiose ed attente hanno trasformato un centinaio di mattoni refrattari, tante pagine di vecchia carta e la gialla terra locale in una fornace celtica e in un forno villanoviano. La costruzione dei forni è stata realizzata durante la prima giornata ed alla sera già la fornace celtica accoglieva la sua prima fiamma di preriscaldamento. Nel secondo giorno, una volta ben disposte le ceramiche preparate dai partecipanti, sono stati accesi i forni per la cottura sperimentale del bucchero nella fornace celtica e della tecnica pitfire nel villanoviano. Il fuoco è durato molte ore alimentando la curiosità di tutti e, soprattutto, il desiderio di proseguire nel prossimo futuro questa bella esperienza di ricerca iniziata insieme per estendere la conoscenza di nuove tecniche e linguaggi espressivi e per fare della terra una materia di sentimento condiviso.

Emanuela Mencarelli, vive a Roma. Per lavoro si occupa di ricerca nell'ambito della formazione e dell'occupazione in campo ambientale. Dal 2007 fa parte dell'associazione L'Arte in Arte. Sperimenta il suo linguaggio espressivo attraverso la ceramica, la fotografia, l'incisione e la scrittura.

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Partecipanti: Roberto Aiudi Orazio Bindelli Nazzarena Bompadre Silvia Caiti Angela Casaregola Gianfranco Ceccaroli Gabriella Edifizi Regine Lueg Oliviero Gessaroli Emanuela Mencarelli Michela Minotti Fulvio Paci Francesco Pernice Giampiero Sbarbati Pompea Pollini Guido Vanni Paola Zago

Antichi rituali che si fondono a sperimentazioni contemporanee, mani sapienti che danno vita e forma ad un progetto di ricerca e condivisione. È Cottaterra. Persone e artisti provenienti dalle più varie formazioni professionali arricchiscono l’esperienza di ognuno concedendosi a linguaggi diversi che si fondono in un unico grande lavoro di squadra. Nel fuoco rimane impressa la soddisfazione di chi, con fatica e professionalità, si mette in gioco ogni volta con rinnovato entusiasmo e i risultati inaspettati rendono vive e nuove le sensazioni di chi vi partecipa. Cottaterra diviene così un percorso personale attraverso la tecnica ceramica, il confronto col sapere altrui, la sensazione di ritrovare anche un po’ di se stessi nei propri manufatti. Ecco allora la meticolosa precisione di una piccola medaglia, l’immediatezza di una sigillata tornita, l’essenzialità geometrica prendere carattere e donare meraviglia e concitazione ai presenti. Sui visi non vi è traccia di pretese di perfezione, piuttosto il desiderio di assaporare ogni singolo passo facendo tesoro dell’insegnamento dei Maestri e di tutti gli artisti che con umiltà e dedizione si sono trasformati in preziose guide in grado di regalare sensazioni uniche e irripetibili.

Michela Minotti, Designer orafa e ceramista, studia Archeologia all'Università di Roma "La Sapienza" che la porta ad elaborare l'arte primitiva nella propria ricerca artistica contemporanea. Si dedica all'argilla e alle tecniche di riduzione post-cottura che le permettono di esprimere al meglio il suo stretto ed intimo rapporto tra ricerca, progettazione e spontaneità creativa attraverso una nuova lettura della materia a lei più congeniale; la Terra.


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Vivarte

N°7 2011 Semestrale di arte, letteratura, musica e scienza dell'Associazione Culturale "L'Arte in Arte" Via Pallino, 10 61029 Urbino cell. 347 0335467 cell. 338 6834621

Provincia Pesaro e Urbino Assessorato alle Politiche Culturali

Registrazione N° 221/07 registro periodico Tribunale di Urbino del 18 maggio 2007 Direttore responsabile Lara Ottaviani Redazione Alberto Calavalle Luciano Ceccarelli Gualtiero De Santi Oliviero Gessaroli Maria Lenti

EFFEPI’ di Feduzi Fabiola e Paolucci Davide s.n.c. Via B. Sforza, 1 URBINO (PU) Tel. 0722 327286 Fax 0722 327289

Collaboratore Fulvio Paci Hanno collaborato a questo numero Mirco Ballabene Alberto Berardi Andrea Carnevali Manuel Cohen Francesco Colocci Giovanna Giomaro Maria Lenti Carlo Melloni Emanuela Mencarelli Michela Minotti Stefano Papetti Ermanno Torrico Filippo Venturini

Via Fornace Vecchia, 13 61033 Fermignano (PU) Tel. e Fax 0722 33 12 10

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