Roma, una città, un impero - n 2

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Editoriale

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uesto numero è dedicato principalmente ai rinvenimenti archeologici (domus di piazza del Tempio di Diana; Thermae Decianae; mitreo di S. Prisca) avvenuti in tempi diversi sul Grande Aventino (Aventinus maior), situato nel settore meridionale della città, tra il Tevere e l’altura chiamata Piccolo Aventino (Aventinus minor), a cui era collegato tramite una sella. Le due sommità, incluse - almeno dal IV sec. a.C. - all’interno del circuito delle cd. Mura Serviane, furono divise in età augustea tra regioni diverse: l’Aventinus maior e la pianura sottostante, occupata dal porto fluviale (Emporium) e dai grandi horrea per la raccolta e lo smistamento di ogni tipo di mercanzie e derrate, furono assegnati alla Regio XIII, denominata appunto Aventinus, mentre l’Aventinus minor alla Regio XII, detta Piscina Publica. Proprio nella Regio XIII Aventinus, in occasione di alcuni sterri effettuati intorno al 1920 per la realizzazione di una fognatura nell’area della piazza del Tempio di Diana, furono rinvenuti - a dieci metri di profondità - diversi ambienti appartenenti ad una ricca dimora privata che conservano ancora parte dei pavimenti musivi e dell’elegante decorazione parietale ad affresco. L’ipotesi prospettata da diversi studiosi di riconoscere in questo edificio la (domus) privata Traiani, la casa in cui Traiano dimorò prima di accedere al principato, sembra confortata sia dall’inclusione dell’abitazione tra i monumenti della Regio XIII Aventinus citati nei Cataloghi Regionari di età costantiniana, sia dal fatto che le strutture rinvenute sotto la piazza moderna furono parzialmente coperte dalla Thermae Decianae, fatte costruire dall’imperatore Decio, che - come ha sottolineato Filippo Coarelli - assunse il nome Traianus proprio per ricollegarsi a questo imperatore. Ai resti delle Thermae Decianae, realizzate tra il 249 e il 251 d.C. e ancora visibili al di sotto della piazza del Tempio di Diana e nei sotterranei del Casale Torlonia, e soprattutto alla figura storica del loro committente, è invece dedicata la seconda parte dell’articolo che indaga il complesso periodo storico noto come Anarchia Militare (235-284 d.C.). Sempre sull’Aventinus maior, ma nell’area sottostante la chiesa di S. Prisca, gli scavi iniziati nel 1934 dai padri Agostiniani e continuati più tardi dalla Scuola Olandese sotto la direzione di C. Van Essen e J.M. Vermaseren, hanno riportato alla luce un mitreo ricavato agli inizi del III sec. d.C. all’interno di una casa privata, identificata dalla maggior parte degli studiosi con la domus di L. Licinius Sura, il potente amico di Traiano che ricoprì il consolato nel 97 d.C., ma ritenuta da altri la già citata (domus) privata Traiani. In linea con il numero precedente, un articolo è dedicato alla storia degli scavi di Ostia antica che, a differenza di Ercolano, sepolta nel 79 d.C. dall’eruzione del Vesuvio e riscoperta solo nel Settecento, rimase anche esposta a sistematiche spoliazioni già a partire dalla tarda antichità. Tra le mostre attualmente in corso abbiamo invece scelto quella allestita nelle sale del Museo della Civiltà Romana, “Machina. Tecnologia dell’antica Roma”, che illustra il livello tecnologico raggiunto dai Romani in diversi settori (edilizio, idraulico, bellico, agricolo, ecc.) attraverso ricostruzioni e reperti archeologici, e l’esposizione dedicata nella sede del Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo alle favolose argenterie dorate della città di Morgantina, rinvenute da scavatori clandestini e vendute al Metropolitan Museum of Art di New York, che nel 2006 ha firmato un accordo per la restituzione del tesoro con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Chiude la rivista un resoconto sui dati preliminari emersi dall’ultima campagna di scavo condotta dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma e l’Università di Roma ‘Tor Vergata’ nell’antica città di Gabii, al XII miglio della via Prenestina antica, che ha portato alla scoperta di un edificio tripartito di età arcaica, composto da una sala centrale più ampia e due ambienti laterali con ingressi decentrati, confrontabile da un punto di vista planimetrico e decorativo con le celebri dimore regali (regiae) note a Roma e in Etruria. Bernard Andreae


DIRETTORE RESPONSABILE MARIA TERESA GARAU DIRETTORE ESECUTIVO ROBERTO LUCIGNANI DIRETTORE SCIENTIFICO BERNARD ANDREAE

COMITATO SCIENTIFICO Paolo Arata Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Alessandra Capodiferro Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Fiorenzo Catalli Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Paola Chini Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Vincenzo Fiocchi Nicolai Prof. Archeologia Cristiana Univ. Tor Vergata di Roma Gian Luca Gregori Prof. Ordinario di Antichità Romane, ed Epigrafia Latina, Facoltà Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Eugenio La Rocca Prof. Ordinario Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana, Univ. Sapienza di Roma Anna Maria Liberati Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Luisa Musso Prof. Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana e Archeologia delle Provincie Romane, Univ. Roma Tre Silvia Orlandi Prof. associato di Epigrafia Latina presso la Facoltà di Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Rita Paris Direttore Museo di Palazzo Massimo alle Terme Claudio Parisi Presicce Direttore Musei Archeologici e d’Arte Antica Comune di Roma Giandomenico Spinola Responsabile Antichità Classiche e Dipartimento di Archeologia Musei Vaticani Lucrezia Ungaro Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Laura Vendittelli Direttore Museo Crypta Balbi CAPO REDATTORE ALESSANDRA CLEMENTI REDAZIONE LAURA BUCCINO - ALBERTO DANTI - GIOVANNA DI GIACOMO LUANA RAGOZZINO - GABRIELE ROMANO DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA ROBERTO LUCIGNANI TRADUZIONE DANIELA WILLIAMS GRAFICA E IMPAGINAZIONE STUDIOEDESIGN - ROMA WEB MASTER – PUBBLICITA’ MARIA TERESA GARAU REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE Via Orazio Antinori, 4 - ROMA

È vietata la riproduzione in alcun modo senza il consenso scritto dell’Associazione Rumon Tiber

4 IL MITREO DI SANTA PRISCA di Luana Ragazzino

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LA REGIA DI GABII di Gabriele Romano


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SOMMARIO

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ANARCHIA MILITARE

STORIA DEGLI SCAVI DI OSTIA ANTICA

I PRIVATA TRAIANI

GLI ANNI DEL TERRORE

di Alberto Danti

di Gabriele Romano

di Paola Chini

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IL TESORO DI MORGANTINA

MACHINA. TECNOLOGIA DELL’ANTICA ROMA

di Laura Buccino

di Anna Maria Liberati




IL RINVENIMENTO

IL MITREO SOTTO S. PRISCA ALL’ AVENTINO

A destra: Ambiente che costituisce attuale ingresso all’area archeologica, particolare delle macine del XVI sec. Nella pagina accanto, in alto: Macine del XVI sec., particolare

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l colle Av e n t i n o , incluso nella Regio XIII, fu popolato per la prima volta in maniera stabile all’epoca di re Anco Marcio (VII sec. a.C.) che vi avrebbe trasferito gli abitanti di alcuni centri vicini a Roma da lui conquistati e distrutti. Assegnato ufficialmente alla plebe nel V sec. a.C., con una legge speciale (lex Icilia de Aventino publicando), divenne un ‘quartiere’ fittamente popolato fino alla prima età imperiale quando, progressivamente abbandonato dalla stessa plebe, si andò trasformando in zona residenziale, come attestano i diversi ritrovamenti di domus appartenenti ad aristocratici. Rimanendo al di fuori del pomerio, cioè dal limite sacro della città, divenne sede di alcuni santuari dedicati a divinità straniere, come quelli dedicati a Giunone Regina e Vertumnus,

rispettivamente provenienti da Veio e da Volsinii (Bolsena). A questi si aggiunsero poi santuari dedicati a divinità di culti orientali come Giove Dolicheno, Iside e Mitra. Proprio sull’Aventino è situata la chiesa di S. Prisca dove, nel 1934, i Padri Agostiniani, l’ordine che regge la chiesa ancora oggi, eseguirono alcuni scavi sotto l’attuale basilica con l’intento di rinvenire il primitivo titulus S. Priscae, menzionato già nel sinodo romano del 499 d.C.. Ancor di più, essi indirizzarono le loro brevi ricerche al ritrovamento della casa di Aquila e Priscilla, i due coniugi menzionati negli Atti degli Apostoli (Atti 18, 26) e nelle lettere di S. Paolo (Rom. 16; 1 Cor. 16; Tm. 4, 19) che avrebbero abitato in una casa sull’Aventino. Lo sterro degli ambienti durò all’incirca un anno e l’unico ritrovamento


di rilievo, inaspettato, fu proprio il Mitreo. Dopo qualche decennio dalla sensazionale scoperta fatta dagli Agostiniani, la Scuola Olandese promosse e realizzò nuove campagne di scavo negli ambienti sottostanti la basilica. A capo di esse ci furono i due storici olandesi C. Van Essen e J.M. Vermaseren, cui si devono la pubblicazione delle campagne di scavo comprese tra il 1953 e il 1959 e le nostre conoscenze sulla storia e le fasi del Mitreo. Il Mitreo si impiantò, agli inizi del III sec. d.C., in ambienti sotterranei preesistenti, di cui si conservano alcune parti, riferibili ad una domus databile all’età traianea, inizialmente identificata con la (domus) privata Traiani. Oggi questa ipotesi identificativa, avanzata già dalla scuola olandese, è superata in favore di una più probabile identificazione di queste strutture con quelle

della proprietà di L. Licinius Sura ricordata dalle fonti. Il frammento della Forma Urbis con la rappresentazione delle Terme Surane dimostra che queste erano immediatamente ad ovest di S. Prisca; inoltre, le

arcate dell’Acqua Marcia che rifornivano le Terme passavano attraverso l’area poi occupata dalla chiesa. Il primo ambiente dell’area archeologica, a cui si accede sotto alla chiesa, è un grande vano con volta a botte ed abside, pertinente alla fase traianea, interpretato inizialmente dalla Scuola Olandese come ninfeo e utilizzato dalla stessa, negli anni ‘60, come Antiquarium per esporre i diversi materiali provenienti dagli scavi del Mitreo. Oggi l’ambiente è libero e rimangono visibili solo una porzione di pavimento musivo a grosse tessere, relativo ad una fase più tarda, e resti di macine in pietra, databili al XVI sec. e relative al più tardo monastero impiantatosi nello stesso periodo nell’area della chiesa. Attraverso un corridoio, aperto dagli stessi Olandesi durante gli scavi degli anni ‘50, si arriva alla Cripta della chiesa e solo da qui si accede al Mitreo vero e proprio. Dalle campagne di scavo eseguite negli anni ‘50 è emerso che il Mitreo ha avuto due fasi. Nella prima fase, databile all’incirca agli anni 195-202 d.C., il Mitreo ha occupato solo l’aula mitraica vera e propria. Esso fu diviso in

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un asse centrale con pavimento in mattoni e furono costruiti i due podia (banconi), alla fine dei quali furono erette le nicchie per i dadofori. L’entrata fu stuccata e dipinta di rosso e la volta dipinta in blu con le stelle (di tutto ciò oggi non rimane più alcuna traccia). I muri laterali al di sopra dei banconi furono decorati con tre processioni di mystae e con versi aggiunti sopra. Nel fondo dell’ambiente, ad est, è la nicchia di culto con il gruppo in stucco di Mitra Tauroctono. Alla seconda fase, databile intorno al 220 d.C., è inerente l’allargamento del Mitreo. Il primo ambiente, che originaria-

mente era un vestibolo, divenne parte integrante del santuario stesso. La porta fu allargata su un lato e nel vestibolo vennero aggiunti i banconi, in modo da costituire un prolungamento dell’aula mitraica. Gran parte del Mitreo fu ridipinta e nuovi affreschi vennero eseguiti sui muri laterali; la nicchia di culto fu parzialmente ridecorata con nuove figure in stucco. Superato il piccolo cancello in ferro, si percorre uno stretto passaggio e, attraverso la porta, si entra nel primo ambiente. Esso, originariamente, cioè nella prima fase del Mitreo, non apparteneva al santuario vero e

proprio, nel senso che non ne costituiva ancora il prolungamento. Infatti, proprio alla seconda fase appartengono i podia, le cui fronti furono stuccate e colorate in rosso come i podia dell’ambiente principale (alcune tracce del colore, visibili al momento della scoperta, oggi sono del tutto scomparse). La porta doppia fu creata nel momento in cui l’apertura posta al centro dell’aula mitraica cadde in disuso. Immediatamente a destra dell’entrata, i cui gradini sono stati completamente ricreati negli anni ‘50, c’è un piccolo recinto in


muratura formante un angolo, che nella parte inferiore interna e in basso conserva tracce di intonaco colorato in giallo ocra. Sulla parete a destra dell’entrata, all’interno del piccolo recinto, c’è un sporgenza non tanto larga da essere considerata un bancone, ma piuttosto usata forse per supportare oggetti di culto. Essa era colorata di rosso anche sulla fronte, come si vede ancora in alcuni punti. Sopra di essa era attaccata a parete una larga figura in stucco dipinto, di cui oggi rimangono solo pochi resti (parte di una coscia, gambe). Al momento della scoperta,

A sinistra: Corridoio con esposizione dei materiali inerenti all’area archeologica sotto la chiesa

Sotto: Aula di culto,particolare della nicchia con Caute

Sopra: Corridoio, particolare delle colonne reimpiegate nella domus di II sec. d.C.

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Sopra: Aula di culto, veduta generale Nella pagina accanto, in alto e in basso: Vestibolo, ambiente di accesso al mitreo. Particolare dei frammenti della statua di Gigante anguipede in stucco

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c’era ancora qualcosa del torso con parti genitali maschili. L’intonaco dello sfondo dietro la figura era colorato in giallo ocra; la figura, date le grandi dimensioni, potrebbe essere stata un Gigante, come asserito da Vermaseren, fatto non eccezionale all’interno di un mitreo. A tale proposito, proprio nel mitreo di S. Prisca è stata ritrovata la statuetta di un gigante stante, con i piedi di serpente. Poiché la battaglia tra Giove e i Giganti ricorre in molti monumenti mitraici, è possibile che la figura in stucco possa effettivamente rappresentare un Gigante, al quale furono donate offerte sul-

l’altare accanto. Inoltre, la posizione del Gigante nel vestibolo sarebbe appropriata, in contrapposizione al fatto che nell’aula mitraica venivano fatte offerte al dio della Luce, Mitra. All’interno del recinto si trova una base, anch’essa in muratura, dipinta di rosso sui lati, la cui funzione poteva essere quella di un piedistallo o di un altare. Superato il vestibolo, attraverso l’apertura si accede all’aula principale, il luogo deputato allo svolgimento del banchetto sacro durante il rituale mitraico. Nella prima fase del Mitreo vennero costruiti i due podia, caratterizzati dal piano inclinato verso


le pareti laterali e la mensa, originariamente rivestita in marmo. A metà circa del bancone destro, l’apertura centrale costituì, nella prima fase, l’ingresso al Mitreo. Quando questo venne allargato nella seconda fase con l’aggiunta del vestibolo e fu creato lì il nuovo accesso; l’entrata precedente fu trasformata in un thronus, un piccolo sedile (60 x 150 x 70 cm) costruito all’interno della stessa apertura. Da ciò risulta che nella prima fase il bancone destro non era continuo fino alla nicchia di culto, come lo vediamo ancora oggi. In corrispondenza dell’apertura centrale, inserito all’interno

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uno spazio tra essa e il muro, costituente un passaggio per arrivare all’ambiente retrostante. Sulle pareti laterali dell’aula, al di sopra dei podia, ci sono le pitture riguardanti alcuni momenti del rituale mitraico. Queste pitture non arrivano a coprire completamente le pareti. Infatti la parte inferiore del muro è spoglia e ora si vedono solo i mattoni; originariamente poteva, però, essere ricoperta di marmo poi asportato. Il motivo dell’assenza di affreschi in questo punto è perché, probabilmente, quella parte di parete veniva costantemente toccata dai piedi degli iniziati. Sul lato opposto all’entrata, in fondo ai due banconi, è la nicchia di culto con la rappresentazione in stucco di Mitra che uccide il toro. La nicchia fu costruita nella prima fase del Mitreo con mattoni e tegole nell’arco e in seguito stuccata e dipinta.

del bancone destro in basso, c’è un vaso lustrale con un’apertura. Accanto ad esso è un tubo in terracotta, che non sembra essere collegato al vaso. Sul lato ovest del podio, vicino la nicchia di Caute, ci sono due gradini creati già nella prima fase per rendere più agevole la salita sul bancone. All’inizio di ogni bancone, ad ovest, c’è una nicchia per le statue dei dadofori, Caute a destra e Cautopate a sinistra. Entrambe le nicchie sono state stuccate e dipinte, all’esterno di rosso e all’interno con colori diversi: quella sinistra in viola scuro (oggi completamente annerito), quella a destra in arancione. I colori indicano chiaramente che la nicchia a sinistra ospitava la statua, perduta, di Cautopate, il dadoforo rappresentato con la

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fiaccola rivolta verso il basso a indicare la notte; quella di destra ospita ancora Caute, con la fiaccola rivolta verso l’alto e il gallo ai piedi a simboleggiare il giorno. Essa, restaurata nel dicembre 2002, in origine doveva essere una statua raffigurante Mercurio, trasformata poi dai seguaci di Mitra in Caute con aggiunte in stucco. Infatti l’artigiano ha sbozzato entrambe i lati della statua per fare meglio aderire la tunica e il mantello in stucco dipinto. Di questo non rimane più nulla, mentre sugli arti inferiori sono ancora visibili le tracce di sbozzatura. Le due nicchie dei dadofori, pur essendo poste una di fronte all’altra, non sono simmetriche: quella di Cautopate, a sinistra, è infatti leggermente spostata verso est in modo da lasciare


Nella pagina accanto, in alto: Aula mitraica, particolare della nicchia che conteneva statua di Cautopate A sinistra: Aula mitraica, parete sinistra con processione di leones Sopra: Aula mitraica, nicchia con rappresentazione di Tauroctonia

All’interno, sulla parete di fondo e su quella laterale destra vennero attaccate delle pomici per rendere l’idea della grotta. Il colore con cui era dipinta internamente la nicchia era il blu chiaro ad indicare il cielo. Esternamente, le due ante che sorreggono la volta della nicchia erano anch’esse decorate in stucco giallo formante volute terminanti in rosette. Questa decorazione è oggi quasi completamente perduta e alludeva alla ricca vegetazione prodotta dall’uccisione del toro. Al centro della nicchia, sulla parete di fondo, c’è il gruppo in

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stucco di Mitra che uccide il toro. Già durante i primi scavi alcuni pezzi furono trovati sparsi all’interno del Mitreo, come ad esempio la bella testa di Mitra trovata dietro la nicchia di Caute. Questo fatto testimonia che i Cristiani, prima di chiudere definitivamente il Mitreo, hanno volontariamente danneggiato la nicchia di culto con Mitra. Nel biennio 1956-1957 il gruppo fu restaurato riattaccando anche i pezzi trovati nel Mitreo. Mitra si presenta in un’iconografia eccezionale: il suo corpo vigoroso è rappresentato frontalmente e i suoi occhi sono alzati come se volesse ascoltare il corvo dietro di lui sulla sinistra (deboli tracce delle sue ali furono viste al momento della scoperta). Inoltre non ha il tipico abbigliamento orientale costituito dal berretto frigio e dalla tuni-

Nella pagina accanto: Mitra che uccide il toro, stucco dipinto Sopra: Aula mitraica, nicchia di culto. Particolare della statua in stucco raffigurante Saturno-Chronos Sotto: Aula mitraica, iscrizione ex-voto dedicata a Mitra da parte di un ignoto iniziato

ca, ma solo un mantello a pieghe svolazzante verso sinistra, dipinto in rosso scuro. Del toro rimangono solo la testa e parte della coda, a sinistra del mantello di Mitra, trasformata in spiga. A destra del gruppo, la statua del cane, anch’esso restaurato nel 1957, di razza probabilmente danese con orecchie corte e muso lungo. Si tratta del cane da caccia che accompagna il dio. Completamente perduti sono gli altri animali tipici della tauroctonia, il serpente e lo scorpione. Davanti al gruppo centrale di Mitra tauroctono c’è una statua di grandi dimensioni, occupante la nicchia in tutta la sua lunghezza e raffigurante un dio recumbente. La parte più bassa del suo corpo e il suo piede sono coperti da un mantello pieghettato dipinto di blu; il resto del corpo è colorato in rosso. Le braccia sono scomparse, ma la mano destra che reca ancora tracce di doratura, è stata ritrovata e in seguito sarà riattaccata. La testa è coperta da un velum blu, larga parte del quale è conservato, e legato alla roccia cui il dio si appoggia. La particolarità di questa statua, a livello di tecnica, è di essere stata creata con parti di anfore ricoperte dallo stucco. Per quanto riguarda, invece, l’iconografia, possiamo affermare che le sue grandi dimensioni e la posizione in cui si trova la assimilano alle divinità fluviali


(cfr. Tevere, Nilo, ecc.); allo stesso tempo, il velum che copre il capo la identifica con Saturno Crono - Caelus, rappresentato allo stesso modo che nel mitreo di Dura Europos. Nel mitreo di S. Prisca, quindi, potrebbe avere il doppio carattere di Caelus Oceano, cosa possibile dato che entrambe queste divinità favoriscono l’azione creatrice rappresentata da Mitra che uccide il toro. Sempre di fronte alla nicchia di culto, su uno dei due gradini sulla destra, si trova un’iscrizione mutila in basso, recante la seguente dedica : Deo Soli invicto

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Mithre / quod saepe numini eius / ex audito gratias e[t vota] / [reddere moniti sunt]. Si tratta di un’iscrizione dedicatoria al dio Mitra, fatta probabilmente da un iniziato a noi rimasto ignoto, data la mutilazione della lastra. Da ciò che si legge al terzo rigo, si capisce che si tratta di una dedica fatta come ex voto per ringraziare il dio di qualche grazia ricevuta. L’invocazione a Mitra assimilato al Sole è molto frequente nel formulario relativo a questa divinità. Nella parete laterale sinistra si aprono tre ambienti laterali tra loro comunicanti, destinati pro-

babilmente alle cerimonie preliminari del culto. Per il primo ambiente a destra non è semplice definire quale fosse l’uso reale della stanza durante la vita del Mitreo. E’ certo che non era affrescato, poiché non si sono trovate tracce di intonaco o pittura. Si può comunque ipotizzare un uso riservato al Pater come officiante della liturgia, per il cambio degli abiti da usare durante la cerimonia (cfr. l’ambiente laterale nel Mitreo delle Terme di Caracalla). L’ambiente al centro, ha una nicchia che aveva due antae laterali originariamente dipinte di


mica rossa grossolana. Il bacino non reca alcuna iscrizione che possa identificarne l’uso, che in ogni caso si può ipotizzare. Infatti, si può immaginare che il mystes, si recasse davanti alla nicchia con il vaso. Inginocchiandosi sul podio e piegando la testa sopra il vaso, è rosso, di cui rimane solo qualche traccia. Lo sfondo era caratterizzato da una serie di cerchi concentrici in parte ancora visibili, che dovevano rappresentare le sfere planetarie con i segni dello zodiaco; esso era colorato in azzurro verdastro di cui rimane qualche debolissima traccia. Al momento dello scavo nel 1953, si vedevano resti di una piccola rappresentazione in stucco, forse di sole, posta sullo stesso zodiaco. Di fronte alla nicchia il livello del podio è stato tutto rialzato e all’interno di questa costruzione è ancora presente un bacino poco profondo (71 cm) di cera-

Nella pagina accanto: Ambiente centrale, c.d. caelus, per i riti di purificazione. Particolare del bacino lustrale Sopra: Ambiente centrale, c.d. caelus, particolare Sotto: Ambiente di servizio, c.d. apparatorium


possibile pensare ad una sorta di ‘battesimo’ dell’iniziato attraverso l’acqua. Lo stesso Tertulliano afferma che, sia nel culto isiaco che in quello mitraico, gli iniziati ricevevano una purificazione anche attraverso l’acqua. Un’ulteriore conferma verrebbe anche dal fatto che bacini simili, anche se di diverso materiale, sono stati ritrovati in altri mitrei come quelli di Carnuntum e Heddernheim. Un diverso utilizzo doveva invece avere l’altro bacino incassato nel podio di fronte alla porta p. Infatti in esso si notano tracce di bruciato e forse si può presumere che contenesse il fuoco. Avremmo così i tre elementi di purificazione, sangueacqua- fuoco, presenti anche nel culto mitraico. Nel terzo ambiente a sinistra, di fronte alla porta che affaccia sull’ambiente centrale, nel pavimento rialzato, è inglobato un dolium che conteneva un altro vaso con un’iscrizione graffita di dubbia interpretazione. Il nostro

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mystes, considerando l’ipotetico uso a cui poteva essere destinato il dolium, avrebbe forse ricevuto qui una sorta di ‘battesimo’ con il fuoco, anche se l’interno del dolio non riporta segni di bruciature ma poteva essere usato come incensiere. In questo modo, la funzione dei tre ambienti laterali sarebbe così quella della purificazione dell’iniziato attraverso i tre elementi del fuoco, dell’acqua e della terra, prima di partecipare nell’aula mitraica al momento più alto del culto che è quello del banchetto sacro. Nell’aula mitraica, sopra i podia, lungo le pareti è presente una serie di affreschi inerenti alcune fasi del rituale e del culto mitraico. Purtroppo queste pitture, già in parte ripulite negli anni ‘80, sono oggi meno visibili rispetto al momento della loro scoperta, a causa della forte umidità presente nel sito. Su entrambe le pareti dei muri laterali, le pitture si svolgono su un doppio strato. Lo strato inferiore, di cui

si vedono tracce in molti punti, presenta grosso modo le stesse figurazioni di personaggi afferenti al culto, presenti anche nello strato superiore, ma con una sostanziale differenza: in questo strato abbiamo una serie di iscrizioni (18 linee in tutto), per la maggior parte in pentametri, molto interessanti per il loro contenuto. Si tratta di brevi frasi, non sempre perfettamente leggibili, che possono essere interpretate come formule e preghiere, da pronunciare durante il rituale. Lo strato superiore delle pitture, cioè quello che noi vediamo osservando le pareti laterali dell’aula mitraica, presenta scene diverse inerenti al culto e riporta anch’esso alcune iscrizioni. Sulla parete settentrionale (entrando a sinistra), è visibile solo una piccola parte della figurazione presente. Abbiamo rappresentata una processione di Leones, cioè di iniziati al culto mitraico nel grado del Leone, che stanno portando in mano dei doni diretti a Mitra. È certo che si tratti di


Leones perché sopra le teste dei personaggi si leggono ancora delle parole che indicano il grado e il nome proprio del personaggio. Di queste figure, quella che oggi si distingue meglio è il personaggio situato oltre la metà della parete, progrediente verso destra, vestito con una tunica giallo marrone. La testa è contornata in giallo e i capelli sono corti. È possibile riconoscerla soprattutto dall’oggetto che porta in mano, una candela accesa, la fiamma della quale è colorata in giallo e rosso; la mano sinistra è tesa e porta un mazzo di quattro candele rivolte verso il basso. L’iscrizione sulla testa dice: Nama T[inet]lio Le[o]n[i]. Questo è l’ultimo personaggio facente parte della processione dei Leoni; subito dopo l’immagine cambia e si vede un fondo di colore blu scuro che indica il luogo, cioè la grotta, dove si sta svolgendo la scena di banchetto tra il Sole e Mitra. Deduciamo che si tratta di queste due divinità dal fatto che le figure sono sdraiate e sulle loro teste c’è un’aureola (quella visibile oggi è solo l’aureola di Mitra che si individua sulla destra della parete grazie ai raggi ). Accanto al Sole, leggermente più in basso e sulla sinistra della scena, è possibile scorgere un altro personaggio di cui si riconosce la parte superiore del corpo, con la testa caratterizzata da una maschera di corvo. Si tratta infatti del primo grado iniziatico, il Corax (“Corvo”) che nella scena serve a banchetto. Considerando, quindi, la parete nel suo insieme, abbiamo una processione di personaggi nel grado di Leones che stanno portando doni (pane, anfora, forse un gallo, candele) alla grotta, nella quale sono sdraiate a banchetto le divinità di Sole e Mitra. Evidentemente gli oggetti portati sono gli stessi che servi-

ranno per il banchetto sacro. L’ultimo dei Leones sappiamo che ha in mano delle candele e si può immaginare che questa luce servisse proprio ad illuminare la grotta dove si svolgeva il banchetto sacro tra le due divinità. Ma la cosa più interessante è che possiamo riportare l’immagine dipinta ad una situazione reale e quindi immaginare che sotto la scena rappresentante il pasto sacro tra Sole e Mitra, fossero sdraiati l’Heliodromus, facente le veci del Sole, e il Pater, rappresentante terreno di Mitra. Non è quindi casuale che anche il

Nella pagina accanto: Particolare dell’ambiente interpretato come stanza delle iniziazioni Sopra: Aula mitraica, parete sinistra, particolare Sotto: Aula mitraica, parete sinistra, particolare con scena di banchetto tra Sol e Mitra


podio posto sotto questa scena sia separato dalla parte restante, lasciando solo due posti. Sulla parete meridionale (entrando a destra), troviamo dipinti altri personaggi. Partendo da destra, all’altezza della nicchia con Caute, e procedendo verso sinistra, vediamo rappresentati su questa prima porzione di parete vari personaggi, assai meglio conservati rispetto al resto delle pitture. Si tratta ancora di una processione di Leones che portano oggetti e animali per il sacrificio che precede il banchetto sacro. Sulla destra distinguiamo molto bene una figura con capelli corti e barba, viso e mani rossicci come per altre figure, che tiene in mano un cratere; davanti, altri personaggi che portano un ariete, un gallo, un cinghiale e un toro bianco a capo della processione (purtroppo oggi la visibilità di questi animali è scarsa). Sopra le teste degli individui, troviamo ancora la parola nama, nel senso di “lode, onore a”, seguita dal nome proprio e dal grado rivestito da ciascuno di essi, trattandosi anche in questo caso del grado del Leone. L’impressione che si ha, analizzando soprattutto gli animali portati al sacrificio, è di trovarsi di fronte ad una raffigurazione

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simile a quella dei suovetaurilia romani, tenendo conto della presenza soprattutto del cinghiale e dell’ariete. Allo stesso tempo, l’esistenza del toro bianco e del gallo fanno riferimento esclusivo al culto mitraico. Infatti il toro è l’animale simbolo per eccellenza del sacrificio mitraico, in quanto ucciso dallo stesso Mitra; il gallo era l’uccello persiano consacrato soprattutto al dio Sole e connesso con Caute (cfr. statua di Caute nella nicchia, che presenta ai suoi piedi il gallo come simbolo del giorno). Sull’altra parte di parete, che va dall’apertura centrale sulla stessa fino alla grande nicchia, troviamo ancora un’altra processione, questa volta non di Leones ma dei sette gradi iniziatici. Partendo dall’apertura e procedendo verso sinistra si intravede qualche traccia di colore di un vestito pertinente al grado più basso che è quello del Corax (“Corvo”). Sopra di esso era la scritta, completamente perduta, [Nama Coracibus tutela Mercurii]. Segue una figura, di cui rimangono solo tracce del volto rivolto verso l’interno dell’aula, e coperto da una sorta di velum. Si tratta del Nymphus (“Sposo”), sopra il quale si legge: Nama [Ny]mphis tut[el]a [Veneris]. Il terzo personaggio è rappresentato con la

faccia rivolta verso la fronte, ma con gli occhi che guardano di lato. Sulla sua spalla sinistra (ora non più visibile) aveva una borsa militare (sarcina) che lo identifica nel grado del Miles (“Soldato”); sopra di lui l’iscrizione Nama Militibus tutela Mart[i]s. Della figura che segue rimangono parte delle gambe e tracce del volto; all’altezza delle mani, perdute, si intravede un oggetto oblungo, forse interpretabile come una stoviglia da fuoco, con residui di colore rosso e nero. Si tratta del grado del Leo (“Leone”); al di sopra la scritta Nama L[e]on[i]b[us] tutela Iovis. Il quinto personaggio è quasi completamente sparito, rimane solo qualche indizio della tunica dipinta di marrone e blu. Sappiamo che si tratta del grado del Perses (“Persiano”), perché al di sopra si conserva l’iscrizione Nama Persis tutela Lunae. Il penultimo personaggio raffigurato è abbastanza conservato: rimangono elementi di un lungo vestito rosso e lo vediamo nell’atto di camminare verso l’ultimo grado, il Pater, al quale rivolge una sorta di saluto con la mano destra sollevata. Si tratta infatti del grado dell’Heliodromus (“Corriere del Sole”), riconoscibile dalla testa circondata da un nimbo blu e una corona radiata e


dal globo che porta nella sua mano sinistra (questi particolari al momento non è possibile riconoscerli a causa del degrado dell’affresco). Sopra la sua testa troviamo la scritta [N]ama H[eliodro]mis tutela S[ol]is. L’ultima figura dipinta, ma non ultima per importanza, è raffigurata seduta su una sorta di sedia dall’alto schienale, con vestito rosso recante un’alta fascia gialla in vita e con la mano destra sollevata forse per rispondere al gesto rivoltogli dall’Eliodromo. Si tratta del Pater della comunità, e ciò è confermato anche dall’iscrizione posta accanto alla sua testa, Nama [Patribus] ab oriente ad occidentem tutela Saturni. La prima notazione da fare concerne proprio le iscrizioni che troviamo sopra ciascuno dei 7 gradi. Si tratta di una sorta di lode fatta a ciascun grado, indicato però al plurale, posto sotto la protezione di un pianeta. Abbiamo quindi: 1) Nama Patribus ab oriente ad occidentem tutela Saturni (“Onore ai Padri da Oriente a Occidente, posti sotto la protezione di Saturno”) 2) Nama Heliodromis tutela Solis (“Onore ai Corrieri del Sole posti sotto la tutela del Sole”)

3) Nama Persis tutela Lunae (“Onore ai Persiani posti sotto la protezione della Luna”) 4) Nama Leonibus tutela Iovis (“Onore ai Leoni posti sotto la protezione di Giove”) 5) Nama Militibus tutela Martis (“Onore ai Soldati posti sotto la protezione di Marte”) 6) Nama Nymphis tutela Veneris (“Onore agli Sposi posti sotto la protezione di Venere”) 7) Nama Coracibus tutela Mercurii (“Onore ai Corvi posti sotto la protezione di Mercurio”) Indubbiamente, un’evidenza che risalta leggendo queste dediche, è che i gradi vengono indicati al plurale, come se fossero rivolte non al rappresentante di ciascuno dei sette gradi raffigurati nel nostro Mitreo, ma ai gradi di tutte le comunità. Ciò potrebbe far supporre che il mitreo di S. Prisca sull’Aventino fosse nel III sec. d.C. uno dei più importanti di Roma, vista anche l’accuratezza e la particolarità delle decorazioni. All’interno dell’aula mitraica, sul lato sinistro dell’estradosso della volta della nicchia di culto, si trova inciso un graffito, molto interessante, che può aiutarci a dare una datazione più precisa sulla fondazione di questo Mitreo. Esso è posto a ca. 3 m. dal terreno ed ha lettere alte 5-6 cm. Si legge: Natus prima luce / duobus Augg(ustis) co(n)s(ulibus) / Severo et Anton(ino)/ XII K(alendas) Decem(bres) / dies Saturni / luna XVIII (“Nato nella luce primordiale sotto il consolato dei due Augusti (Lucio Settimio) Severo e (M. Aurelio) Antonino (Caracalla) il 20 novembre nel giorno di sabato, diciottesimo dopo la luna nuova”). L’iscrizione non riporta il nome del dedicante ma solo una data precisa, che è quella del 20 novembre del 202 d.C., anno del

Nella pagina accanto, in alto: Aula mitraica, parete destra, processione di leones che portano oggetti per il sacrificio In basso, al centro: Estradosso sinistro della nicchia di culto, iscrizione graffita di dedica del mitreo

consolato dei due imperatori Settimio Severo e il figlio Caracalla, nel giorno di sabato. Inizialmente si interpretò quest’iscrizione come un oroscopo di un iniziato dal nome ignoto, cioè riferito alla nascita mistica di un adepto. Tuttavia, sembra improbabile che un anonimo iniziato abbia osato graffire l’iscrizione proprio sull’edicola centrale del culto. Ma l’ipotesi più curiosa ed affascinante, nonché l’ultima in ordine cronologico, è quella data da Margherita Guarducci. Innanzitutto, la Guarducci esclude che possa trattarsi di un oroscopo perché mancano due elementi importanti nell’iscrizione, il nome dell’individuo e l’allusione ai pianeti. La data del 20 novembre del 202 d.C. potrebbe essere quella della dedica dello stesso Mitreo, poiché presso i romani il dies natalis di un dio poteva essere o il vero giorno di nascita stabilito dalla tradizione religiosa, o il giorno in cui il santuario era dedicato. Questa indicazione sarebbe ad oggi un unicum nei mitrei di Roma e si potrebbe ricondurre ad una propizia congiuntura astrale. M.J. VERMASEREN - C.C. VAN ESSEN, The Excavations in the Mithraeum of the Church of Santa Prisca in Rome, Leiden 1965; L. RAGOZZINO, in A. CAPODIFERRO, Il mitreo di S. Prisca all’Aventino. Guida, Roma 2009. I

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GLI ANNI DEL TERRORE

ANARCHIA MILITARE

N

el proseguire l’analisi GLI ANNI DEL TERROE delle vicende che caratterizzarono il cinquantennio dell’Anarchia Militare (235-285 d.C.), anche alla luce delle più importanti testimonianze archeologiche e documentarie, non si può prescindere dal gettare un rapido sguardo su quel conflitto tra pagani e cristiani che andava sempre più evolvendosi all’interno della civiltà romana in tutti i suoi molteplici aspetti (sociale, politico, economico e religioso). A destra: Sarcofago di Giunio Basso. San Paolo condotto al supplizio. Roma, Grotte Se, infatti, a partire dalla metà Vaticane. del I sec. d.C. e fino alla fine del II sec. d.C., il conflitto fu in parte In alto, a destra: Pannello musivo con la risolto a vantaggio dei pagani raffigurazione di una Ecclesia Mater mediante le sanguinose persecuNella pagina accanto, in alto: Mosaico zioni di Nerone, Domiziano, con scena di martirio Traiano, Marco Aurelio e Settimio Severo, fino a spingere i Nella pagina accanto, in basso: cristiani ad operare e riunirsi Catacombe di Domitilla (interno) esclusivamente in luoghi di culto nascosti e sotterranei (tituli e catacombe), all’inizio del III

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sec. d.C., la situazione sembrava in parte attenuatasi. Difatti, dopo la persecuzione di Settimio, che si limitò ad applicare leggi già in vigore, non disdegnando talvolta di difendere i cristiani, seguì un periodo di relativa pace, sostenuto anche dalla progressiva integrazione dei cristiani nella vita sociale e civile dell’Impero. Parallelamente cominciavano ad apparire sulla scena storica eminenti personalità che, salite


al soglio pontificio, diedero forza e carattere alla causa cristiana. Per questo periodo basterà ricordare i nomi di Vittore, Zefirino, Callisto e dell’antipapa Ippolito. Già sotto il principato di Commodo avvenne che, per la prima volta, l’Impero negoziasse con la Chiesa proprio nella persona del vescovo di Roma, Vittore. Marcia, favorita di Commodo, era anche sostenitrice del cristianesimo e in stretta relazione con

il Papa. Per questi motivi, l’imperatore non solo non confermò le persecuzioni avviate dal padre, ma volle avere una lista dei cristiani condannati ad metalla in Sardegna per liberarli: fra costoro vi era anche il futuro papa Callisto. Una certa tolleranza si ebbe anche con Caracalla e in seguito con Elagabalo, sotto il cui principato la Chiesa fu guidata proprio da Callisto, malgrado le accuse mossegli all’inizio dal

primo antipapa della Chiesa, Ippolito. Di quest’ultimo illustre ecclesiastico si conoscono diverse opere fra cui i Philosophumena, in cui si espongono i sistemi filosofici antichi e le eresie che ad essi si erano ispirati nel negare la vera conoscenza di Dio. A Ippolito è stata per molto tempo anche attribuita una statua rinvenuta nel 1551 nei pressi della via Tiburtina. In origine la statua non doveva raffigurare Ippolito ma l’immagine di una filosofa

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Sopra: San Callisto papa Sotto: Ritratto di Massimino il Trace

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Sopra: San Zefirino papa In alto, a destra: Statua di Sant’Ippolito presso la Biblioteca Vaticana

epicurea, simbolo della Sophia e trovare collocazione, secondo i più recenti studi, in una biblioteca posta nelle vicinanze del Pantheon. Ciò che vale ricordare è la presenza sul retro e sulle fiancate del trono di un’iscrizione con l’elenco di varie opere, nonché del Computo Pasquale, epigrafato ora a buon diritto e nell’intento di dare risalto alla pasqua cristiana rispetto a quella ebraica, a testimonianza di una nuova stagione di rapporti fra i cristiani e l’imperatore Alessandro Severo (ricordato nell’epigrafe stessa), considerato un filocristiano insieme alla sua famiglia. Ma il nuovo periodo assolutista che si instaura con gli anni dell’Anarchia Militare, necessitava di un riconoscimento totale ed indiscusso della sovranità imperiale anche sotto l’aspetto religioso, quale divinità. Fu così che Gaio Giulio Vero Massimino, appena prese il potere nel 235 d.C., si distinse per una nuova sanguinaria persecuzione che, per la prima volta, fu organizzata in modo sistematico, andando a colpire direttamente il clero e, indirettamente, le diverse comunità che a questo facevano capo. Lo storico Orosio, ecclesiastico vissuto a cavallo del III e IV sec.


del limes. Per fare questo si accaparrò immediatamente i favori delle truppe, grazie all’aumento del salario e ad altre copiose elargizioni, e poi - senza attendere ordini o consigli dall’Urbe - si mise in marcia verso i territori germanici, dove inflisse una pesante sconfitta agli Alamanni. Nel 237 d.C. si spostò quindi sul Danubio con accanto l’amato e giovanissimo figlio Massimo, nominato Cesare, penetrando anche in Pannonia e riportando, al termine della campagna bellica, vittorie sulle popolazioni dei Daci e dei Sarmati. Ma per alimentare questa militarizzazione dell’Impero e, soprattutto, per affrontare le considerevoli spese militari derivanti dalle sue spedizioni, Massimino dovette attuare un’intollerabile politica fiscale fino a giungere alla confisca dei beni di alcune città e al rastrellamento di oro e argento conservato nei sacri templi. Alla profonda frattura già esistente tra Massimino e il Senato, si aggiunse anche quella fra la popolazione civile e i militari, finché la provincia che maggiormente era stata penalizzata da d.C., descrive così l’ascesa al potere di Massimino: «Nell’anno 987 dalla fondazione di Roma, Massimino, creato ventiduesimo imperatore da Augusto, non per volontà del Senato, ma dell’esercito, dopo aver condotto con buoni risultati una guerra in Germania, fu sesto dopo Nerone a perseguitare i cristiani». Massimino, quindi, usurpò il potere e venne immediatamente mal visto da Roma. Dipinto a fosche tinte dagli storici come un selvaggio semibarbaro di umilissima estrazione, un energumeno dotato di forza eccezionale, il Trace (così soprannominato per le sue origini) si distinguerà, invece, nello sforzo di ristabilire l’ordine presso le popolazioni germaniche e lungo tutta la linea

Sopra: Ritratto di Gordiano I

Sotto: El Diem: anfiteatro


questa politica, l’Africa Proconsolare, non si ribellò. Durante il mese di marzo del 238 d.C., alcuni proprietari terrieri, infatti, legati al commercio dell’olio, esasperati dalle pressanti richieste del procurator fisci, si sollevarono, insieme ai loro schiavi e contadini, uccidendo sia il funzionario preposto alla riscossione dei tributi, sia i militari al suo seguito. Per suffragare questa insurrezione, i ribelli elessero imperatore il proconsole Marco Antonio Gordiano Semproniano, appartenente all’ordine equestre, che aveva la sua sede proprio a Thysdrus, l’odierna El Djem (Tunisia), dove si erano originati i tumulti. Questa città, che già nel II

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sec. d.C. aveva raggiunto una notevole importanza tale da essere definita come una vera «capitale dell’olio» (PICARD), toccò il suo apogeo proprio nella prima metà del III sec. con la

costruzione di grandi edifici, fra cui spicca il noto anfiteatro che per ampiezza e capienza era inferiore solo a quello di Roma e di Capua. Scavi e ricerche hanno anche riportato alla luce le rovine di un piccolo anfiteatro, di un circo, di terme pubbliche e soprattutto di numerose ville di lusso, magnificamente adornate di statue e mosaici, che attualmente sono ammirabili nei musei del Bardo e di Sousse in Tunisia. Gordiano I, dopo aver indugiato sulla sua nomina, accettò, eleggendo come co-Augusto l’omonimo figlio, Gordiano II, e dopo aver informato Roma della sua elezione, ne chiese l’immediata ratifica. Il Senato accolse la richiesta e iniziò a tramare contro l’usurpatore Massimino, gettando Roma in una morsa di ter-


Nella pagina accanto, in alto a sinistra: El Djem: anfiteatro (particolare)

Al centro: Moneta con l’immagine di Gordiano II

Nella pagina accanto, in alto a destra: El Djem: pannello musivo

Al centro, a destra: Ritratto di Pupieno

Nella pagina accanto, in basso: El Djem: domus romana (interno) In alto: El Djem: particolare di composizione musisa con corteo bacchico

Sopra: Denario di Clodio Macer per la Legio III Augusta

rore che portò prima all’uccisione di Vitaliano, il fido prefetto del pretorio del Trace, e poi al massacro di molti delatori e sostenitori del lontano imperatore da parte della folla. Sul fronte africano, intanto, un altro fedele ufficiale dell’esercito di Massimino preparava la sua opposizione ai Gordiani: Capelliano, che a capo della Legio III Augusta si oppose a Gordiano II in una terribile battaglia nei pressi di Cartagine, dove quest’ultimo venne ucciso e sconfitto. Gordiano I alla notizia dell’uccisone del figlio, si

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tolse a sua volta la vita, impiccandosi a Cartagine, onde evitare di cadere nelle mani di Capelliano. Siamo appena alla fine di aprile del 238 d.C. e Roma cade in un nuovo, pauroso, vuoto di potere, con Massimino pronto a marciare sull’Italia per riprendersi la porpora e scontrarsi definitivamente con il

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Senato. Roma quindi si apprestava a preparare la difesa dei suoi territori e della città e il Senato, prendendo in mano la situazione, istituì una commissione di venti uomini, tutti di rango senatorio, con il fine di gestire meglio gli eventi e la politica interna. Fu proprio in seno a questa commissione, riu-

nitasi segretamente nel tempio di Giove Capitolino o in quello della Concordia, che furono prescelti due personaggi cui destinare il potere supremo nell’ambito di una rinnovata diarchia consolare di stampo repubblicano: Marco Clodio Pupieno Massimo, già valente generale e proconsole di Bitinia, e Decimo Celio Calvino Balbino, di nobile nascita, già console e proconsole di diverse provincie dell’Impero.


Nella pagina accanto, in alto: Ritratto di Gordiano III Nella pagina accanto, in basso: Aquileia: il Foro Sopra: Aquileia: particolare degli scavi Sotto: Aquileia: il Porto fluviale A destra: Aquileia: veduta degli scavi

Avvenne però un fatto che avrebbe determinato il corso degli eventi futuri, di cui fu protagonista il popolo di Roma. L’elezione di Pupieno, infatti, non fu ben accolta né dalla plebe romana, né dai pretoriani e da alcuni membri del Senato, che obbligarono i due nuovi porporati a nominare, quale Cesare, il giovane Marco Antonio Gordiano Pio, il futuro Gordiano III, di aristocratica nascita e formazione, e molto apprezzato soprattutto da quella fazione del Senato legata alla famiglia dei Gordiani che tanto aveva fatto per opporsi all’assolutismo di Massimino. Per comprendere bene quale sia stato il clima di paura e di diffida che ogni cittadino romano provava verso il prossimo, basterà ricordare un singolare fatto accaduto nell’area del Foro

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A sinistra: Antoniniano di età gallienica per la Legio II Parthica Al centro, a sinistra: Ritratto di Balbino Al centro, a destra: Ritratto della consorte dell’Imperatore In basso: Sarcofago di Balbino presso le Catacombe di Pretestato Nella pagina accanto: Sarcofago di Acilia: scena della designazione di Gordiano III da parte del Senato

Romano, vicino alla Curia, che scatenò gravi disordini fino a trasformarsi in una vera e propria guerriglia urbana. Durante una riunione del Senato, due pretoriani, incuriositi, entrarono disarmati nella Curia, ma alla loro vista alcuni senatori, temendo un nuovo attacco alle istituzioni, si avventarono sui militari, uccidendoli. In particolare, il senatore Gallicano cominciò a fomentare il popolo contro i compagni dei pretoriani uccisi,

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che furono inseguiti finché questi non ripararono nel Castro Pretorio. La rivolta tuttavia non si fermò: i cittadini romani si armarono e aiutati dai gladiatori, portarono un rapido attacco contro il Castrum fino a tagliare le condutture di adduzione dell’acqua, scatenando così gli stessi pretoriani che, a loro volta, con rapide rappresaglie, incendiarono diverse parti della città. Solo la vista del giovane Gordiano III contribuì a placare gli animi e a riportare a Roma un clima di precaria serenità. Pupieno fu quindi inviato a contrastare l’esercito di Massimino che - abbandonando il Danubio e muovendo da Sirmio con un poderoso esercito - era già giunto a superare Emona (odierna Lubiana) per avvicinarsi pericolosamente ad Aquileia. Il piano strategico contro il Trace fu semplice: bisognava togliere ogni possibilità di rifornimento e di razzia al suo esercito. Fu quindi disposto che tutti gli abitanti di villaggi o cittadelle prive di difese abbandonassero le loro case, portando via viveri e bestiame per rifu-

giarsi nei centri urbani fortificati. In questo modo Massimino e il suo esercito, una volta giunto ad Aquileia, baluardo dell’Italia settentrionale, da assediante divenne assediato (MAZZARINO). Il bellum Aquileiense non cominciò quindi positivamente per Massimino che aveva già trovato un primo e notevole ostacolo nel guadare l’Isonzo, dal momento che gli abitanti di Aquileia avevano distrutto il ponte alla Mainizza. Una volta giunto a ridosso della città, i suoi attacchi vennero respinti grazie alle mura, che erano state adeguatamente rinforzate, e al coraggio con cui gli aquilensi si battevano. A questo punto si attuò un espediente da parte dei difensori di Aquileia che psicologicamente diede il colpo di grazia al già fiaccato esercito di Massimino: venne diffusa la voce che al fianco di Aquileia e in difesa della città era stato visto combattere il dio celtico del fuoco e della luce, Belen. Questa voce spinse i militari della II Legio Parthica, gli Albanesi, già stremati e timorosi di ritorsioni del Senato sui loro familiari, a rivoltarsi contro

Massimino, che fu ucciso insieme al figlio agli inizi del maggio del 238 d.C. Il Senato aveva di nuovo trionfato ed era stata vendicata la soppressione della rivolta africana da parte dei Gordiani. Il popolo esultava in tutta l’Italia. Erodiano e gli scrittori dell’Historia Augusta ricordano il macabro rituale riservato alle salme del Trace e di suo figlio: i corpi dati in pasto agli animali e le loro teste infilzate su lance e spedite prima a Ravenna e poi a Roma, dove furono arse nel Campo Marzio tra le ingiurie della plebe. Al termine di questa guerra civile si riaprirono immediatamente i problemi legati alla difesa del limes: in Oriente i Persiani avevano di nuovo invaso la Mesopotamia, mentre i Germani avevano varcato i confini del Danubio. Tra i due imperatori, inoltre, si generò qualche attrito, alimentato anche da un certo rancore di Balbino nei confronti Pupieno per i suoi trionfi militari, insieme al timore che l’uno volesse disfarsi dell’altro. Pupieno, quindi, una volta rientrato a Roma si trovò a rivivere,

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insieme all’altro Augusto, momenti di forte tensione dovuta alla rinnovata lotta fra pretoriani e senatori per il controllo dello Stato, e nell’intento di eliminare il pericolosissimo Cesare, Gordiano, imposto dal popolo, ordirono una congiura che fallì. Pupieno e Balbino caddero quindi in disgrazia e vennero eliminati nel luglio del 238 d.C., durante i Ludi Capitolini, da parte di un drappello di pretoriani penetrati nel Palazzo imperiale rimasto senza alcuna difesa. Seguì per loro la damnatio memoriae per un principato durato circa cento giorni. Gordiano III sembrò la persona giusta per porre fine alla profonda crisi politica di Roma e fu acclamato imperatore. Uno dei più importanti documenti artistici che ci siano pervenuti per questo periodo è rappresentato proprio dal grandioso sarcofago di Balbino. Rinvenuto sulla via Appia in numerosi frammenti, in parte ricomposti e restaurati, e conservato presso le catacombe di Pretestato, è l’unico sarcofago imperiale noto. Sul coperchio è raffigurata la coppia imperiale: Balbino e sua moglie, di cui purtroppo non ci è giunto il nome, sono distesi sulla kline e volgono lo sguardo l’uno verso l’altra. La

fronte presenta a destra il momento nuziale fra i due con il tema tanto caro ai romani della dextrarum iunctio. Al centro, invece, i due coniugi offrono un sacrificio di ringraziamento. Balbino, in abiti militari (lorica), è accompagnato anche dalla dea Vittoria che gli cinge la testa (perduta) con una corona di alloro. Assistono alla cerimonia alcune importanti divinità e personificazioni: Marte, in nudità eroica; l’ Abbondanza, riconoscibile dalla cornucopia che tiene in mano, e, infine, la dea Roma in abiti amazzonici. Di impronta classicista, questo monumento dell’arte scultorea del III sec. d.C., mostra - accanto al tradizionale rigore nella disposizione delle figure - un notevole aspetto psicologico che emerge dai ritratti della coppia imperiale, dove la componente fortemente espressiva è resa nella lavorazione delle superfici dei volti e dei tratti somatici. La designazione di Gordiano III prima a Cesare e poi ad Augusto da parte del Senato, dopo la morte di Pupieno e Balbino, è probabilmente ricordata su di un altro sarcofago ritrovato ad Acilia e conservato al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Si deve a Bianchi Bandinelli l’interpreta-

zione che vede nella figura di giovane rappresentato sul lato sinistro curvo Gordiano III, verso cui compie un gesto di indirizzo il personaggio barbato, togato e con diadema, identificabile con il Genius Senati. Il sarcofago, del tipo a tinozza, scolpito in un unico blocco di marmo pario, doveva appartenere a quel filone molto diffuso nel III sec. d.C. e caratterizzato dalla presenza di una coppia di sposi uniti nella dextrarum iunctio: al centro della cassa, anche se non più conservate, dovevano quindi apparire le immagini dei genitori di Gordiano III, Mecia Faustina e il console Giulio Balbo. Il giovane imperatore, ancora tredicenne, all’inizio del suo principato ebbe infatti al suo fianco tanto la madre, quanto altri importanti personaggi del Senato o della Prefettura del Pretorio che influenzarono molto le sue decisioni, sostituendosi non poche volte allo stesso sovrano nell’amministrazione dello Stato. La svolta nel suo breve periodo di supremo comando si avrà solo nel 241 d.C., quando - in età ormai matura - prenderà in sposa Furia Sabina Tranquillina. Questo


Nella pagina accanto: Sarcofago di Acilia: particolare della testa di Gordiano III Sopra: Rilievo rupestre sasanide con Shapur, Gordiano III e Filippo l’Arabo In basso: Il Parco dei Gordiani a Roma:Mausoleo

due gesti di particolare rilevanza simbolica, che ebbero grande impatto su tutte le popolazioni dell’Impero: l’apertura delle porte del Tempio di Giano e l’istituzione di una gara atletica in onore di Atena. Se con il primo gesto, Gordiano, volle riallacciarsi a quegli ideali guerrieri propri dei primi anni del principato, con il secondo l’intento fu più lungimirante. Onorare Atena significava onorare quella dea che aveva difeso Atene e la tutta Grecia contro quegli stessi nemici, i Persiani, che ora, nuovamente, minacciavano Roma e l’Occidente. In questo modo Gordiano chiamò a raccolta anche tutte le città dell’Oriente in nome di una sola civiltà e di una religione comune. E immediata fu la risposta dell’Oriente, che acclamò il giovane imperatore con termini entusiastici per la ritrovata felicità dell’epoca, come nell’esempio di Efeso dove

veniva già onorato quale Nuovo Sole. Tuttavia, per riorganizzare l’esercito e prepararlo ad una così vasta e annunciata spedizione, Gordiano non poteva contare solamente sui nuovi arruolamenti dei contadini e sulle vecchie milizie. Si assistette quindi, per la prima volta in maniera così massiccia, ad un fenomeno, che è stato definito come la «barbarizzazione dell’esercito», e che si concretizzò mediante l’arruolamento individuale di forze mercenarie, appartenenti soprattutto ai Goti e ai Carpi (provenienti dall’area dei monti Carpazi). Se da un lato questo fenomeno permise di conseguire nuovi successi militari nella difesa del limes da parte di Roma e di ampliare quel processo di integrazione e romanizzazione delle popolazioni barbariche, dall’altro creò non pochi problemi che si manifesteranno soprattutto nella seconda metà del III sec.

avvenimento portò il padre dell’Augusta, Timesiteo, personaggio autorevole e provvisto di grande esperienza in campo politico e militare, alla nomina a prefetto del pretorio. La stretta unione tra i due personaggi, in cui la perizia di Timesiteo primeggiava sull’inesperienza di Gordiano, giunse proprio al momento opportuno. In quello stesso anno, in Persia, Shapur (Sapore) prese il potere e da acerimo nemico di Roma, passata la Mesopotamia, invase la Siria, arrivando ad assediare e a conquistare Antiochia. Come al tempo di Alessandro Severo, si rinnovava così la secolare lotta fra Romani e Persiani e, soprattutto, tornava in auge il primato e l’importanza dell’esercito, dopo il momentaneo predominio dell’ordine senatorio. Agli inizi del 242 d.C., Gordiano III con al suo fianco Timesiteo, vero capo della spedizione, partì per la campagna d’Oriente dopo aver compiuto

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d.C. La marcia di Gordiano III e di Timesiteo fu immediata e coronata da diversi successi. Tra il 242 e il 243 d.C. i Persiani furono respinti nei loro territori con la liberazione di Antiochia e la riconquista di Carrhae e Nisibis, fino alla definitiva battaglia di Resaina (Mesopotamia). A questo punto si registra una divergenza tra le fonti. Da un lato, gli scrittori della Vita di Gordiano esaltano le vittorie riportate dai Romani, che si sarebbero spinti

fino a Ctesifonte, la capitale dei Sassanidi, per tentare di conquistarla, dall’altro, le Res Gestae di Sapore, pur ammettendo alcune perdite, narrano che i Romani vennero sconfitti ai confini con l’Assiria, determinando la fine di Gordiano III. Una cosa è certa: Timesiteo, durante la campagna persiana morì e il nuovo prefetto del pretorio, Marco Giulio Filippo (a cui fu anche attribuita la responsabilità delle morte di Timesiteo), approfittando del’inesperienza di Gordiano e di un

momento di sbandamento dell’esercito in battaglia, sollevò le truppe con un colpo militare e fece eliminare il giovane imperatore, prendendone il posto. Filippo, detto l’Arabo in quanto originario della Traconitide (a sud di Damasco) si affrettò a fare pace con Shapur, pagando al sovrano sassanide un pesante tributo tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo dell’anno 244 d.C. Per quanto riguarda l’opera di Gordiano III, nei suoi sei anni di principato la Vita Gordianorum ricorda la realizzazione di un maestoso doppio portico nel Campo Marzio, in cui trovarono posto una basilica, un deambulatorio e splendidi giardini. Diversa invece, allo stato attuale delle ricerche, la questione che tende a considerare i resti della villa romana posta sulla via Prenestina come pertinenti a quella Villa Gordianorum menzionata nella Historia Augusta. Il biografo ricorda la presenza nella Villa di un portico formato da duecento colonne (per ogni lato marmi diversi: cipollino, portasanta, pavonazzetto e giallo antico), oltre ad altri splendidi edifici, tra cui si distinguevano


tre basiliche e impianti termali tra i più fastosi dell’Impero. Il complesso, così come ci è pervenuto, si articola in diverse strutture per le quali sono state individuate almeno tre fasi edilizie a partire dall’età repubblicana (I sec. a.C.) fino agli inizi del IV sec. d.C. Fra i vari edifici conservati spiccano l’aula ottagonale, coperta a cupola, e soprattutto il c.d. Mausoleo di Tor de’ Schiavi, un sepolcro realizzato su due livelli e decorato da importanti pitture, stando anche ai numerosi disegni e acquarelli eseguiti nei secoli scorsi dai viaggiatori ammirati dalla campagna romana. Alla parte più antica della Villa dovevano appartenere i resti di un atrio, di un balneum privato, di un criptoportico e di un’area produttiva con cisterne, mentre agli interventi realizzati nel II sec. d.C. si deve attribuire una grande aula termale. E’ quindi evidente che siamo in presenza di una villa che nasce in età repubblicana con finalità produttive e si trasforma nel corso dei primi due secoli dell’Impero in residenziale, senza tuttavia raggiungere il fasto che in questo periodo avevano le dimore degli imperatori.

Di sicuro la villa entrò a far parte del demanio dell’imperatore alla fine del III sec. d.C., come testimonia la costruzione del Mausoleo, destinato senz’altro a un componente della famiglia imperiale. Con l’avvento di Filippo l’Arabo si consolidò il potere dell’esercito e soprattutto la supremazia del Pretorio sul Senato. Sotto questo imperatore ritornerà anche l’usanza, già

Nella pagina accanto, in alto: Il Parco dei Gordiani a Roma: veduta Nella pagina accanto, in basso: Shahba (Philippopolis) Veduta generale delle terme Sopra: Shahba (Philippopolis): il Philippeion Sotto: Shahba: (Philippopolis): le Terme

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Sopra: Shahba: (Philippopolis): il Teatro In basso, a sinistra: Shahba: (Philippopolis): Mosaico con la raffigurazione di Aion e le Stagioni In basso, a destra: Particolare del Mosaico con la raffigurazione di Aion e le Stagioni Nella pagina accanto, in alto: Moneta di Filippo l’Arabo con belva a ricordo dei giochi per il millennio dell’Urbe Nella pagina accanto, al centro: Aureo di Filippo l’Arabo a commemorazione del millennio dell’Urbe

attuata tra il principato di Antonino Pio fino a quello dei Severi, di cooptare alla reggenza dell’Impero un proprio familiare con l’intento di assicurare la successione nel creare una nuova dinastia, e di celebrare, pertanto, il prestigio della propria famiglia. Filippo, non a caso, dopo aver nominato Augusta la moglie ed aver divinizzato il padre (mai salito al porporato), nominerà prima Cesare e poi, nel 247 d.C., Augusto, il figlio Marco Giunio Severo Filippo,

che aveva appena sette anni. Dopo l’onerosa pace stipulata con i Persiani nel 244 d.C., Filippo si trattenne, durante la primavera e parte dell’estate, in Oriente, dove ebbe modo di intervenire su alcune città che erano state devastate da Shapur. In particolare, abbiamo testimonianze circa i suoi interventi in Palestina e Siria, soprattutto nelle attuali città di Nablus e di Bostra. A soli 12 miglia di distanza da quest’ultima, nel villaggio che aveva visto la sua nascita, fondò anche la Colonia di Philippopolis, l’odierna Shahba siriana. La città, con il suo impianto quadrangolare cinto da mura e le porte collocate ai limiti del cardo e del decumano, conserva


ancora oggi gran parte degli edifici realizzati da Filippo. Intorno al punto di incrocio fra i due principali assi viari, erano disposti i monumenti più rappresentativi: il teatro poggiato su di una collinetta, la basilica, il palazzo imperiale e due templi dedicati alla celebrazione della famiglia di Filippo e, in particolare, del padre Marino divinizzato (Philippeion). In zone più periferiche erano distribuiti gli impianti termali, le insulae, l’area della necropoli e alcune ville residenziali da cui provengono composizioni musive di notevole bellezza e valore artistico. La città, dopo la morte dell’imperatore, non venne completata rimanendo così, per certi aspetti, chiusa storicamente nella sua breve parentesi architettonica, e può essere a ragione considerata l’ultima delle città romane fondate nel Medio Oriente. Vale la pena soffermarsi su uno dei numerosi mosaici che la colonia di Philippopolis ha restituito, nel quale - oltre al valore artistico - è

possibile individuare alcuni spunti relativi alla mutata visione religiosa avvenuta durante il principato di Filippo l’Arabo. Conservato al Museo di Damasco, il mosaico, che ha subito qualche rimaneggiamento nelle epoche successive, è bordato da quadrati intorno ai quali si snoda il motivo della greca. Al centro si trova la figura di Gea, circondata da quattro puttini identificabili con le personificazioni romane delle Stagioni (Ore). Alle spalle di Gea, sempre in posizione centrale, sono rappresentati Trittolemo, il genio benefico delle terre coltivate, a cui Demetra insegnò l’uso degli strumenti per lavorare la terra, e la personificazione dell’Agricoltura, nota col nome di Gheorghia. Sulla destra compare Prometeo, intento a modellare la prima figura umana con accanto Afrodite e, sul registro superiore, Hermes fiancheggiato da due figure femminili, fra le quali è stata individuata l’immagine di Psiche. Sulla sinistra,

invece, sta seduta la figura di Aion, nel cui volto si è tentato di riconoscere l’effige dell’imperatore Filippo. Aion, il tempo assoluto, la divinità solare suprema e primordiale, opposta a Cronos proprio perché quest’ultimo rappresenta il tempo nella sua quantità e relatività, ha alle spalle le quattro Stagioni. Completa la composizione, in alto, la raffigurazione dei quattro venti principali, due per parte, con al centro due Geni che fanno sgorgare acqua sulla terra da due contenitori. Il carattere fortemente simbolico di tutta la rappresentazione si discosta dalle tradizionali scene mitologiche in cui compaiono cicli epici o divinità a sé stanti, come era d’uso nel panorama iconografico ellenisticoromano. Qui, invece, il principale soggetto a cui alludono tutte le figure, divinità comprese, è il ciclo naturale della vita, nelle sue continue e periodiche mutazioni e rinnovamenti. Siamo quindi di fronte alla celebrazione del Buon Governo e del Saeculum Aureum, in cui Aion (con il volto di Filippo) permette e favorisce tutte le attività. Tale visione si inserisce bene in quell’atmosfera di unificazione e pacificazione tra tutte le genti e le religioni che si stabilisce in questi anni di principato, riprendendo la tendenza già attuatasi sotto il regno dei Severi. E questo in special modo per quanto riguardava il rapporto con il cristianesimo. Filippo, infatti, secondo molti scrittori cristiani, da Eusebio di Cesarea a Orosio, viene considerato il primo imperatore cristiano anche attraverso il racconto di vari episodi, fra cui quello che lo vide presentarsi a una funzione religiosa alla vigilia della Pasqua e che gli fu impedito l’accesso dal vescovo del luogo, se prima egli non si fosse confessato e pentito. A questo Filippo si sottomise benevolmente, dimostrando il suo

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nuovo sentimento religioso (EUSEBIO). Ma l’imperatore siriano fu anche uno strenuo difensore dei valori pagani, da quelli che si leggono sulla sua monetazione, fino alla volontà di divinizzare il padre e, come vedremo, attraverso la forte aspirazione a ben celebrare il Millennio dell’Urbe. Meglio sarebbe considerare Filippo non solo tollerante verso ogni credo religioso, ma soprattutto desideroso di portare unità e pace nell’Impero, sotto la sovranità di una nuova famiglia, la dinastia da lui avviata, e accogliendo benevolmente tutte le nuove forze ed energie che stavano nascendo ed evolvendosi, secondo quel ciclo naturale della vita che viene così chiaramente espresso nel mosaico di Philippopolis. Giunto a Roma nel luglio del 244 d.C. e ben accolto dal popoIn alto: Ritratto di Traiano Decio A destra: Moneta con l’immagine di Traiano Decio Nella pagina accanto, in alto: Pianta delle Terme Deciane sull’Aventino Nella pagina accanto, in basso: Roma, Terme Deciane: particolare delle fondazioni

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lo e dal senato, il nuovo imperatore si dedicò per ben due anni a Roma realizzando anche nuove costruzioni, come ricorda Aurelio Vittore, tra cui una fontana monumentale nell’area di Trastevere e una nuova residenza sul Celio. Ma soprattutto l’opera di Filippo, nel pieno rispetto della migliore tradizione imperiale, fu quella di provvedere alla sistemazione e al rinnovamento del complesso sistema viario, come testimoniano i numerosi miliari che ci sono pervenuti e che riportano il suo nome. Nel frattempo, dalle provincie orientali della Mesia e della Dacia giungevano notizie circa le continue scorrerie dei Carpi. Filippo dopo averli placati con donativi, come fu per la pace ottenuta con Shapur, fu costretto a muoversi con l’esercito, riportando vittorie onorevoli che lo videro di ritorno a Roma nella primavera del 247 d.C. come trionfatore. Difficilmente, nei precedenti decenni, si era giunti, come con Filippo, ad un così grande consenso verso l’imperatore da parte non solo di Roma, ma anche di molte delle provincie romane. Territori pacificati e serenamente amministrati da un abile imperatore; la capitale finalmente riportata ai massimi allori per la sua secolare tradizione di guida politico-culturale. Quale migliore premessa, quindi, a quel primo Millennio di Roma che stava per celebrarsi e

per il quale fervevano imponenti preparativi. Le fonti si soffermano molto su questi festeggiamenti, avvenuti il 21 aprile del 248 d.C. Tre giorni e tre notti di feste ininterrotte, svolte in tutte le città dell’Impero e in particolare a Roma, dove si susseguirono spettacoli nei teatri e soprattutto nel Colosseo, nonché corse nel Circo Massimo ,a cui l’imperatore assistette dall’alto del sua residenza sul Palatino. Le monete di questo periodo ricordano ampiamente questi avvenimenti. Corredati dalla legenda Saeculares Augustorum vengono raffigurati sui conii animali esotici come ippopotami, stambecchi, cervi e leoni, proprio a ricordo delle fiere esibite in occasione dei giochi. Altre monete ripropongono invece il cippo o la colonna commemorativa dell’evento. Ma la situazione generale dello Stato, invece, non era proprio così radiosa. Nuove e pressanti difficoltà militari stavano nascendo in Persia; segnali di guerra giungevano dalle popolazioni della Dacia e soprattutto da quelle genti Gote, che solo pochi anni prima erano state al fianco di Gordiano III, come mercenarie, durante le campagne orientali, e che Filippo in seguito aveva liquidato con troppa superficialità, togliendo loro il soldo. A questo si aggiunsero le diverse nuove acclamazioni di imperatori da parte delle legioni stanziate lungo i


confini, sempre più affamate di bottino e di potere fino al punto di schierarsi con il primo generale disponibile ad accontentarle. Filippo, a questo punto, vide probabilmente sfumare il sogno di aver avviato una nuova epoca in cui l’Impero fosse felicemente unito sotto la sua guida. Si assistette pertanto a un evento che mai era accaduto nell’ambito della storia di Roma: Filippo si presentò in Senato per dare le sue dimissioni. Immediata fu la reazione dei senatori che rifiutarono tale proposta e, fra tutti, si distinse il prefetto urbano Caio Mesio Quinto Traiano Decio, suo leale collaboratore e amico. Fu così che l’Arabo, se pur sfiduciato, riprese il comando dell’Impero e inviò proprio Decio a far fronte agli attacchi dei barbari lungo le sponde del Danubio. E qui Decio si distinse per abilità ed esperienza, ricacciando i Goti e venendo in seguito acclamato imperatore dalle sue truppe. Le fonti ricordano il suo immediato rifiuto, visti anche i rapporti con Filippo e l’impegno profuso poco tempo prima nel farlo desistere dalla rinuncia al trono. Tuttavia

Filippo non gradì questa acclamazione e marciò subito contro Decio. Nel settembre del 249 d.C. i due imperatori-soldati si scontrarono a Verona e Filippo trovò la morte, come era d’uso, per mano amica, nella sua tenda. Poco dopo anche il figlio venne barbaramente trucidato a Roma. Così, dopo soli cinque anni e mezzo, ad un esponente del Pretorio e dell’esercito si sostituì un membro dell’ordine senatorio. E come i suoi predecessori anche Decio, espressione del Senato, impose nuovamente una politica reazionaria e fedele alla più profonda tradizione della romanitas. Uno dei primi atti del nuovo imperatore fu infatti quell’editto che è passato alla storia come una delle più feroci persecuzioni contro i cristiani. Ma a ben vedere e seguendo in parte una critica positivista sull’operato di Decio, il suo intento fu quello di verificare la fedeltà e la lealtà dei cittadini e dei militari verso quei valori che avevano reso grande Roma e il suo Impero e tra i quali il paganesimo aveva avuto un ruolo essenziale. Un gesto che perciò ben si

inseriva all’interno del potere assolutista degli imperatori di questo periodo. Decio pretese che ogni cittadino sacrificasse davanti a una commissione agli dei e al genio imperiale allo scopo di ottenere una certificazione che comprovasse il suo profondo legame con le istituzioni politico-religiose dell’Urbe. L’editto quindi non fu un atto contro la Chiesa di Roma, ma contro tutti coloro che non intendevano più seguire l’ordinamento dello Stato così come era stato costituito già all’inizio dell’età imperiale. Diversi dati archeologici confermano questa tesi, come il fatto che in nessuno dei diversi libelli (certificati) che ci sono giunti, si fa menzione del cristianesimo. Si aggiunge che l’atto di idolatria non venne richiesto solo ai cristiani e, poco tempo dopo (si pensa a un periodo di qualche mese), tali disposizioni furono interrotte senza vessare ulteriormente la comunità ecclesiastica. Anche le fonti cristiane testimoniano che nella maggior parte dei casi la pena si ridusse al carcere temporaneo e, in altri, si


Sopra: Moneta di Treboniano Gallo In basso: Statua in bronzo di Treboniano Gallo Nella pagina accanto: Sarcofago Grande Ludovisi: fronte

giunse addirittura ad un’assoluzione. Probabilmente la generale e positiva reazione di massa della plebe romana al paganesimo, ancora molto forte in quell’epoca, fu sufficiente a Decio per ottenere la risposta che desiderava in termini di devozione e di vincolo alla figura simbolica e religiosa del genio dell’imperatore. Ma è pur vero che in questi due anni di principato di Decio morirono martirizzati personaggi come Apollonia, Agata e soprattutto il vescovo di Roma, Fabiano, che sedeva sul soglio pontificio da ben quattordici anni. Quest’ultimo atto, comunque, si inserisce in problematiche di natura economica, come è stato ipotizzato dal Rostovtzeff, dal momento che si volle anche intervenire sulle sempre più crescenti e cospicue proprietà della Chiesa. E’ noto infatti il passo di Cipriano in cui viene ricordata una frase che Decio rivolse a

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Fabiano nell’indicare rispetto e stima nei suoi confronti: «Avrei preferito avere un qualunque forte competitore e rivale dell’Impero e non lottare col vescovo di Roma». Al contrario, in seno alla Chiesa romana, si attuò uno scisma. Molti furono infatti i lapsi (i cristiani che, con la paura di ritorsioni, fecero atti di adorazione agli dei pagani) e molti furono i libellatici (quelli che, attraverso documenti falsi, riuscirono a documentare l’avvenuto sacrificio agli dei). Questo determinò il problema se fosse stato lecito o meno riammetterli fra coloro che professavano la fede cristiana, dopo lo sbandamento che le comunità ebbero a subire a causa dell’editto di Decio. Il presbitero Novaziano, infatti, che successe per qualche mese a Fabiano come vescovo di Roma, si oppose fortemente ai moderati Cipriano e Cornelio e quando quest’ultimo venne eletto papa, fu necessario convocare un concilio per affrontare la questione, che chiaramente si risolse a vantaggio delle idee del nuovo successore di Pietro. Un’altro dei principali atti compiuti da Decio dopo la sua nomina fu quello di nominare Cesari i suoi due figli, Etrusco ed

Ostiliano. La sua permanenza a Roma fu brevissima. I confini dell’Impero erano di nuovo e sempre più seriamente messi in pericolo dal riaffacciarsi dei Goti lungo la linea danubiana. Questi ultimi, oltre ad aver stipulato diverse alleanze con altre genti barbariche, fra cui i già temuti Carpi, si erano riorganizzati sotto la guida di un comandante abile e deciso: Kniva. Tuttavia, nei mesi precedenti alla ripresa delle guerre, Decio ebbe modo di intervenire sulla manutenzione della viabilità e dotò Roma di nuove opere architettoniche. Sull’Aventino, infatti, fu realizzato un impianto termale che portava il suo nome: le Terme Deciane. Ricordate nei Cataloghi Regionari del IV sec. d.C., insieme a quelle di Licinio Sura, queste Terme vengono collocate nell’area compresa fra l’attuale piazza del tempio di Diana e il Casale Torlonia, che ne avrebbe riutilizzato parte delle murature, ancora visibili nei sotterranei dell’edificio. Nella seconda parte dell’anno 250 d.C. Decio mosse guerra contri i Goti di Kniva. Si susseguono in questi mesi diverse battaglie e scontri, in cui intervennero anche atti di sabotaggio, tradimento e altri tentativi ostili a Decio proprio da parte dei suoi stessi collaboratori, tra i quali va ricordato il generale Treboniano Gallo. Dopo aver trionfato su Kniva a Nicopoli


(sulla riva destra del Danubio in Bulgaria), Decio, nella primavera del 251 d.C., andò a difendere Philippopolis, che era stata attaccata e saccheggiata dai Goti. L’imperatore, tuttavia, non potendo impedire quella distruzione tentò di bloccare la ritirata dei Goti verso il Danubio. L’astuto Kniva seppe però tendere una trappola all’esercito romano così da scontrarsi di sorpresa in territori a lui favorevoli, riuscendo prima a uccidere il figlio di Decio, Erennio, e infine ad avere ragione anche dell’imperatore ad Abritto (importante città della Mesia, sui cui resti sorge l’odierna città di Razgrad in Bulgaria). Le fonti e, in particolare, Zosimo riportano le ultime, concitate, fasi della battaglia in cui ebbe un ruolo decisivo il tradimento di Treboniano. Decio, seguendo i consigli del suo fidato generale, si gettò nel guado di una zona paludosa pensando di attaccare i nemici, ma lì restò bloccato nel fango, subendo così una terribile fine. Treboniano fu quindi acclamato imperatore e per legalizzare la sua nomina, nascondendo anche il tradimento, volle accanto a sé come Augusto il figlio maggiore di Decio, Ostiliano, ancora in vita. Contemporaneamente il nuovo imperatore elesse a Cesare il figlio Volusiano e concesse ai Goti quanto chiedevano: bottino, prigionieri romani e un tributo annuo. Ma Ostiliano poco tempo dopo morì, probabilmente ancora per tradimento, lasciando così Treboniano e il figlio alla guida dell’Impero. Nel Museo di Palazzo Altemps a Roma è esposto il sarcofago noto come Grande Ludovisi, rinvenuto nel 1621 in una vigna fuori Porta S. Lorenzo. Quasi sicuramente - secondo gli studi più recenti - nella scena della fronte si potrebbe riconoscere la rappresentazione della

battaglia di Abritto. Romani e Goti combattono la furiosa battaglia in un groviglio di corpi; i loro volti esprimono con grande pathos la furia e l’angoscia dei vinti, nonché il fervore e l’esaltazione dei vincitori. I barbari sono raffigurati con pantaloni orientali e copricapi frigi, dimostrando come le genti gote avevano preso le abitudini e i costumi delle popolazioni del basso Danubio e del Ponto, in cui si erano stanziati da tempo. In alto, al centro, campeggia la figura del comandante delle truppe romane, circondato e difeso dalla sua caval-

leria (protectores) e da altri soldati che portano le insegne e incitano i compagni alla guerra con trombe e corni. Nella figura del comandante, fra le tante ipotesi, si è ora propensi a riconoscere l’immagine di Ostiliano (meno probabilmente quella del fratello Erennio), non solo per i confronti con altri ritratti noti, ma soprattutto per la presenza al centro della fronte di una croce-sigillo, simbolo della sua appartenenza al culto di Mitra, che si ritrova anche in altre immagini del giovane rampollo imperiale. I (Continua)

BIBLIOGRAFIA (alla bibliografia generale pubblicata nella prima parte, segue ora quella relativa alle principali fonti antiche pertinenti il periodo in questione): DIONE CASSIO, Historiarum romanarum quae supersunt (“Storia romana”), trad. a cura di G. NORCIO, BUR, Milano 1995; Epitome de Caesaribus. Libellus de vita et moribus imperatorum breviatus ex libris S. Aurelii Victoris, passim; ERODIANO, Tà metà Màrku basileìas historìas (?Storia dell’Impero Romano dopo Marco Aurelio?), trad. a cura di F. CASSOLA, Sansoni, Firenze 1967; EUSEBIO DI CESAREA, Ekklïsiastikè historía (?Storia ecclesiastica?), trad. a cura di F. MASPERO M. CEVA, Rusconi, Milano 1979; EUTROPIO, Breviarium ab Urbe condita (“Breviario dalla fondazione di

Roma”), trad. a cura di A. ARANCINI, Vallardi, Milano 1933; P. OROSIO, Historiarum paganos libri I-VII (“Le storie contro i pagani”), trad. a cura di A. BARTALUCCI - G. CHIARINI, Mondadori, Milano 1976; Res gestae Divi Saporis and Dura, in Berythus, 8, 1943, pp. 19-60; The History of Zonaras: From Alexander Severus to the Death of Theodosius the Great, trad. inglese a cura di T.M. BANCHICH - E.N. LANE, Routledge 2009; Vitae diversorum principum et tyrannorum a Divo Hadriano usque ad Numerarianum a diversis compositae (“Storia Augusta”), trad. a cura di F. RONCORONI, Rusconi, Milano 1972; ZOSIMO, Historía néa (“Storia nuova”), trad. a cura di F. CONCA, BUR, Milano 2007.

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I RINVENIMENTI

STORIA DEGLI SCAVI DI OSTIA ANTICA

In alto, a destra: Visita di Pio IX agli scavi di Ostia Nella pagina accanto, in basso: La battaglia di Ostia dell'849 raffigurata da Raffaello nelle stanze Vaticane

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er delineare una storia degli scavi di Ostia antica bisogna considerare brevemente l’epoca di declino della città, quando con il lento e progressivo spopolamento dell’area urbana ebbero inizio i primi riutilizzi di materiali e le prime spoliazioni di marmi e arredi degli edifici ostiensi. Dopo gli anni della Repubblica e i primi secoli dell’Impero, periodo di massimo splendore per le attività commerciali che caratterizzavano la città, l’inizio del declino avvenne a partire già dalla metà del III sec. d.C. con la crisi politica ed economica che colpì l’intero Impero romano. Nel caso di Ostia un ulteriore elemento critico si aggiunse durante il principato di Costantino: la cresciuta importanza di Porto che assunse il nome di Civitas Flavia Constantiniana Portuensis ed ottenne piena autonomia muni-

cipale, non dipendendo più da Ostia. Da questo momento le attività portuali che erano state la vera ragione di esistenza dell’abitato ostiense cessarono quasi completamente ed Ostia, che in un primo momento si trasformò lentamente in città residenziale, altrettanto lentamente cominciò a perdere abitanti. I dati archeologici mostrano come l’ultima fase di vita urbana, nel IV sec. d.C., fu caratterizzata da alcune eleganti domus, che sorsero riutilizzando decorazioni e materiali prelevati da altri edifici ormai in rovina, e da alcuni restauri degli edifici più importanti, come il Teatro e le Terme del Foro, effettuati anche in questo caso con i materiali degli edifici ormai abbandonati. Significativo il fatto che nei restauri del Teatro di questo periodo siano state utilizzate le


Caserma dei Vigili, strutture simbolo della ormai scomparsa attività portuale ed economica di Ostia. È in questo periodo e in questo scenario, verso la fine del IV sec. d.C., che S. Agostino giunge ad Ostia per imbarcarsi per l’Africa nel suo viaggio di ritorno da Milano, ed è proprio qui che sua madre S. Monica morì in un albergo durante il soggiorno di nove giorni, probabilmente a causa della malaria che cominciava ad invadere tutta la zona (anche S. Agostino si ammalò, ma riuscì a guarire). Tra il V e VI sec. d.C. avvenne il definitivo declino e abbandono della città testimoniato dal distico di Rutilio Namaziano che nel 414 d.C. visita questi luoghi: Laevus inaccessis fluvis vitatur arenis, hospitis Aeneae gloria sola manet. Di Ostia rimane solo la gloria dei tempi passati. Anche l’acquedotto che riforniva la città era ormai fuori uso e pozzi vennero scavati all’interno del centro abitato per procurarsi l’acqua, come quello situato sul Decumano in prossimità delle basi delle statue dei personaggi illustri che sorgevano al centro del Piazzale delle Corporazioni. Nel 359 d.C. Ammiano Marcellino ricorda un sacrificio effettuato dal prefetto urbano Tertullo in onore dei Dioscuri all’interno di un tempio ad essi dedicato al fine di calmare le acque del mare, notizia che consente di valutare come ancora alcuni edifici monumentali venissero utilizzati. La popolazione rimasta nel IV sec. d.C. comunque si concentrava soprattutto nel quartiere extraurbano fuori Porta Marina, dove la presenza sul litorale della via Severiana garantiva il passaggio e la comunicazione con la città di Porto. Tra gli edifici ostiensi ormai abbandonati e in rovina erano numerosi horrea dislocati in varie parti dell’abitato, il Piazzale delle Corporazioni e la

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Terme di Nettuno. Procopio nel 540 d.C. conferma il totale abbandono della città e delle sue vie di accesso descrivendo la via Ostiense come trasandata e invasa dai boschi ed il Tevere privo di barche perché di difficile navigazione. Ulteriore testimonianza dell’abbandono quasi totale dell’abitato è il fatto che durante l’invasione dei Visigoti di Alarico nel 408-410 d.C., la città venne ignorata e il saccheggio interessò soltanto la vicina città di Porto.

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Le poche persone rimaste all’interno del centro abitato, dopo il VI sec. d.C. e, soprattutto, dopo la guerra di Giustiniano contro i Goti che avevano occupato tutto il litorale, cominciarono a spostarsi più verso il fiume Tevere e, in particolare, nella zona centrale della città, intorno all’area del castrum, dove povere case costituite prevalentemente con materiale di riutilizzo si addossarono alle strutture, interrate per buona parte, degli edifici più antichi. Intanto un piccolo

Sopra: Stampa del XVII secolo con il Castello di Giulio II sulla riva dell'antico letto del Tevere Sotto: Pianta del 1804 eseguita da Pietro Holl degli scavi condotti sotto Pio VII Nella pagina accanto, in alto: Vista generale dei saggi nell'area del Foro di Ostia Nella pagina accanto, in basso: Il Foro di Ostia dopo la fine dello scavo visto dal Capitolium


agglomerato di case era sorto intorno alla chiesa di S. Aurea, costruita nel V sec. d.C. fuori le mura della città, nel luogo nel quale più tardi sorgerà il Borgo di Ostia antica. Le incursioni dei Saraceni sul litorale, che segneranno anche la fine della città di Porto nel IX sec., indussero anche le poche persone rimaste al centro di Ostia a spostarsi verso il Borgo, che fu creato proprio in questo secolo con la costruzione di edifici e strutture fortificate da papa Gregorio IV

(827-844 d.C.), prendendo il nome di Gregoriopoli. Fino a questo momento Ostia aveva fornito materiali per restauri del proprio abitato e per la costruzione del Borgo nato a difesa delle incursioni dei pirati, mentre proprio in questo periodo iniziarono vere e proprie spoliazioni dei monumenti ostiensi per la costruzione di edifici in altre città. In particolare, numerosi blocchi di marmo vennero presi e portati ad Orvieto per la costruzione del Duomo e altri

furono condotti a Pisa, dove servirono per l’edificazione e la decorazione di edifici all’interno della Piazza dei Miracoli. Il rischio delle invasioni da parte dei corsari rimase sempre vivo ad Ostia e questo è dimostrato sia dalle continue opere di fortificazione realizzate nel corso dei secoli fino al Cinquecento, sia dalle numerose battaglie combattute nelle acque del litorale laziale: Leone IV (849 d.C.) proprio ad Ostia benedisse la grande flotta che Napoli, Amalfi e Gaeta mandarono in aiuto di Roma e che sconfisse i nemici venuti dalla Sardegna, episodio immortalato nelle pitture di Raffaello nelle Stanze Vaticane. Ancora nell’856 d.C. il capo dei Musulmani, Albelcaysto, sbarcò ad Ostia, assediò Roma ed fu sconfitto da Berengario I; nell’877 d.C. Giovanni VIII, partito con la flotta da Ostia, disperse le navi saracene al largo di Terracina. Alle incursioni saracene si aggiunsero quelle dei Barbareschi, che minacciarono Ostia dal Cinquecento fino al XIX sec., e così quelle di altre

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forze militari provenienti da altre città italiane, come Pisa e Genova che la saccheggiarono, o le galee di Napoli che la cinsero d’assedio nel 1408 e nel 1482. A difesa ulteriore della costa si costruì prima la Torre Bovacciana, realizzata tra tra il 1451 e 1454 sotto Martino V, poi la Rocca al Borgo di Ostia, voluta nel 1485 da Giuliano Della Rovere (papa Giulio II) su disegno di Baccio Pontelli, e da ultimo, nel 1569, durante il pontificato di Pio V, la Torre di S. Michele. Tutti questi avvenimenti permettono di capire come nel corso dei secoli le rovine di Ostia

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siano state comunque oggetto di saccheggi e spoliazioni da parte di invasori e difensori grazie alla loro presenza alla foce del Tevere, punto di approdo per la risalita del fiume verso Roma. Proprio a causa di questo continuo passaggio e frequentazione della zona, il ricordo di Ostia non andò mai perduto e le spoliazioni e il riutilizzo di materiali, come già visto, iniziarono fin da subito. Indicativa la testimonianza del passaggio ad Ostia di Re Riccardo Cuor di Leone nell’agosto del 1190 tra boschi, resti di strade (la via Severiana) e rovine di edifici da cui si ricava-


va materiale per le costruzioni: Intravit Tyberim; ad cuius introitum est turris sed solitaria. Sunt et ibi ruinae maximae muro rum antiquorum (…) Vicesima sexta die Augusti transivit rex per quoddam nemus quater viginti miliaria. Una bolla papale di Celestino III, datata al 30 marzo 1191, indica nelle rovine di Ostia una località definita la Calcara: (...) non longe ab eadem Hostiensi civitate (…) in loco, qui vocatur Calcaria. Questo dato è stato confermato dal ritrovamento di molte calcare all’interno dell’abitato ostiense, con il relativo utilizzo delle rovine della città - già a partire

Nella pagina accanto, in alto: Scavo nella Piazzetta dei Lari A sinistra: Terra di risulta degli scavi intorno al Foro In alto, a destra: Scavo nelle Terme dei Sette Sapienti

Sopra: Scavo nel Caseggiato a pianta basilicale

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da epoca altomedioevale - come vera e propria cava di marmi e di materiale da costruzione. Abbiamo inoltre notizie della sicura presenza di materiali provenienti da Ostia a Salerno, Amalfi, Civitavecchia, Orvieto, Firenze, Pisa e in Sardegna. A Firenze si trovano molti materiali ostiensi, in particolar modo nel Battistero di S. Giovanni, dove si conserva, presso il Coro, la base dei Fabri Tignarii con dedica a Lucio Vero. Anche nella cattedrale di Pisa, iniziata nel 1063 e finita nel 1118 da papa Gelasio II, ci sono numerosi blocchi di marmo provenienti da Ostia e da Roma, tra i quali si distingue quello con la rappresentazione del Genio della colonia ostiense inserito nel lato sud-occidentale della navata trasversale. Da un punto di vista antiquario i primi ritrovamenti di iscrizioni ed opere d’arte ad Ostia, intenzionali ed occasionali, avvengono già a partire dalla prima metà del Quattrocento, quando Poggio Bracciolini accompagna sulle rovine Cosimo De’ Medici e molte statue ed iscrizioni ostiensi entreranno nel 1488 proprio nella collezione di Lorenzo il Magnifico, Nella pagina accanto, in alto: Operazioni di scavo nel Caseggiato degli Aurighi Nella pagina accanto, in basso: Lavori di scavo nel Caseggiato dei Triclini Sopra: Ricostruzione degli Horrea Epagathiana A destra: Dida

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tra cui una testa di bambino e gioielli d’oro. Ulteriori spoliazioni alle rovine vengono fatte da Eugenio IV (1431-1441) per restaurare i danni fatti agli edifici del Borgo dal re Ladislao di Napoli, che assediò e depredò Ostia all’inizio del secolo. Ma in questo periodo molti materiali ostiensi furono utilizzati anche per eventi bellici, come testimonia un documento del 15 luglio 1484 che informa di come un tale Domenico scalpellino e i suoi compagni ricevettero la somma considerevole di 205 fiorini per la produzione di palle e bombarde effettuate con marmi e pietre di scavo. Ulteriore informazione sullo stato degradato delle rovi-

ne di Ostia a causa dei saccheggi viene dai Commentarii di Pio II (1458-1464): Fuisse olim magnam (scil. Ostiam) ruine probant, quae multum agri occupant… Visuntur dirutae porticus et colomnae iacentes et statuarum fragmenta: extant et veteris templi parietes marmore spoliati, qui nobile quondam fuisse opus ostendunt. Cernitur et pars aquaeductus (…). Durante il Rinascimento iniziò la ricerca di tesori dell’arte antica e la raccolta di iscrizioni. Roma ovviamente aveva una via di accesso privilegiata al materiale ostiense anche grazie alla via di comunicazione del Tevere. Nel 1598, sotto il pontificato di Clemente VIII, si sancisce il dirit-


to di cavare marmi dalle rovine di Ostia per utilizzarli nella Fabbrica di S. Pietro e, in generale, per i lavori edilizi nella città. Un grande blocco di marmo africano proveniente dagli edifici ostiensi viene utilizzato come base per la statua di S. Pietro sulla sommità della Colonna Traiana, mentre altri marmi furono riutilizzati nella Basilica di S. Giovanni in Laterano. Dopo un periodo più o meno lungo di disinteresse per le rovine di Ostia, un nuovo ciclo di ricerche inizia nel Settecento con diversi scavi condotti all’interno dell’area urbana. Nel 1783 abbiamo notizie di scavi effettuati dal De Norogna, Ministro del

Nella pagina accanto, in alto: Veduta aerea degi scavi di Ostia eseguita dal pallone aereostatico nel 1911

Sopra: Scoperta della statua di Cartilio Poplicola ad Ostia Sotto: La via delle Tombe

Nella pagina accanto, in basso: Ritrovamento di un torso di Giove negli scavi di Ostia

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Portogallo presso la Santa Sede, che portarono alla scoperta di parecchi busti, statuette, colonne e mosaici pavimentali, tra cui quello con rappresentazione di Marte e Rea Silvia, prima entrato nella collezione della famiglia Altieri e successivamente portato a Lisbona, e quello con rappresentazione della testa di Medusa; circa trenta grandi dolia furono inoltre acquistati dal principe Chigi che li usò per ornare il piazzale di Castel Fusano e Villa Borghese a Roma. Nello stesso anno eseguì ricerche di antichità anche l’incisore Volpato e il pittore La Piccola con ritrovamenti di alcune statuette di bronzo e numerose monete; nel 1788 scavi condotti dal pittore scozzese Gavin Hamilton nella zona delle Terme di Porta Marina portarono sul mercato antiquario europeo numerose opere d’arte provenienti da Ostia che finirono nelle collezioni inglesi, francesi e russe. In particolare, fu trovata una statua di Venere seminuda, una statua colossale di Antinoo e, fatto indicativo per la storia medioevale di Ostia, una calcara con all’interno quattro gruppi scultorei antichi di Ercole, poi portati nella Sala degli Animali dei Musei Vaticani. Ancora nel


1796, ulteriori scavi vennero condotti dall’inglese Robert Fagan con numerosi ritrovamenti di statue (alcune delle quali presero la via per l’Inghilterra), busti ed erme. A partire dai primi anni dell’Ottocento Pio VII vietò questi scavi «che si facevano tumultuariamente qua e là da gente, la quale per lo più altro non aveva in cuore che di rinvenire cose di valore per farne commercio, senza verun utile per l’antichità, per l’erudizione e per la storia» e stabilì scavi pubblici per la conoscenza della città, spinto in verità anche da ragioni economicopolitiche legate in primo luogo al desiderio di incrementare le raccolte dei musei papali. Affidò quindi gli scavi condotti dal 1802 al 1804 a Giuseppe Petrini, sotto il controllo del Direttore Generale per l’Antichità Carlo Fea, scavi che in definitiva furono ricchi di ritrovamenti, ma poveri di dati storici. Si liberò in particolare l’area intorno al Tempio di Vulcano (Capitolium). Tra il 1824 e il 1825 altre indagini furono eseguite dal signor Cartoni nella zona del sepolcreto sulla via Ostiense e quindi da

Pietro Campana, su incarico del cardinal Bartolomeo Pacca, vescovo di Ostia, che portarono alla scoperta di molte iscrizioni e statue, sistemate in un primo momento nell’episcopio ostiense, ma in seguito portate nella villa romana del cardinale a Porta Cavalleggeri. Ancora tra il 1831 e il 1836 si scavò in più punti, presso Tor Boacciana e presso il c.d. Palazzo Imperiale. Ma il vero inizio delle ricerche archeologiche ad Ostia furono le indagini volute a partire dal 1855 da Pio IX e affidate alla direzione di Pietro Ercole

Nella pagina accanto, in alto: Restauro delle colonne del c.d. Macellum Nella pagina accanto, in basso: Restauri della pavimentazione nella domus di Amore e Psiche Sopra: Il quartiere meridionale visto dal Capitolium Sotto: Veduta aerea dal dirigibile degli scavi di Ostia nel luglio del 1919

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nosi esempi del suo sovrano favore verso di esse, ha di recente ordinato che siano riaperti e continuati gli scavi di Ostia, stati già fruttuosi e si celebri nel Pontificato del suo predecessore Pio VII». L’interesse di Pio IX per le rovine ostiensi è testimoniato dalle sei visite agli scavi effettuate dal pontefice nel periodo compreso tra 1855 e 1866, e dalla disposizione che le rovine venissero lasciate visibili e i marmi, per quanto possibile, lasciati sul luogo, mentre gli oggetti d’arte raccolti fossero conservati in due sale appositamente create nel Museo Lateranense. Con il progredire dei lavori e il susseguirsi delle scoperte si decise di stabilire un Museo degli Scavi all’inter-

In alto: Scoperta della statua di Giulia Domna ad Ostia Sopra: Gruppo di satue scoperte all'interno del cortile degli Augustal A destra: Il Teatro di Ostia prima della fine dei lavori di restauro

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Visconti. A questi scavi condotti con la manodopera di condannati ai lavori forzati, parteciparono anche Pietro Rosa e Rodolfo Lanciani. Scrive il Visconti all’inizio dei lavori: «la Santità di nostro Signore in mezzo alle tante e si gravi cure della Chiesa e dello Stato, avendo l’animo inteso a promuovere i vantaggi delle antichità e delle arti, dopo aver dato tanti lumi-


no di Ostia, e per questa funzione fu scelto l’antico Casone del Sale, che venne restaurato e sistemato per accogliere i reperti più significativi, ma che, come vedremo in seguito, entrò in funzione solamente un secolo più tardi. Nel 1857, dopo la fine dei lavori, vennero pubblicati alcuni rapporti di scavo, in cui risalta come il Visconti, pur obbedendo all’ordine papale di ritrovare opere d’arte, si preoccupò anche della topografia della città. In questi scavi si individuò la via dei Sepolcri e si identificò con la via Ostiense, poi si scavò la Porta Romana e i quartieri adiacenti. Si passò quindi alla zona del Campus della Magna Mater e ad altri edifici, in cui si recupera-

rono numerose opere d’arte che andarono ad impreziosire il Laterano, come una statua di Venere in bronzo e una statua raffigurante Attis giacente. Furono inoltre esplorate le tombe sulla via Laurentina, nelle quali si trovarono pitture che furono staccate e portate a Roma; si scavarono le terme marittime verso Tor Bovacciana e fu riportato alla luce il c.d. Palazzo Imperiale, dal quale si staccarano un grande e magnifico mosaico policromo, poi portato in Vaticano e inserito nella decorazione della Sala dell’Immacolata Concezione, e un mosaico con la rappresentazione delle stagioni, che fu inserito nel pavimento della chiesa

di S. Paolo alle Tre Fontane. Visconti proseguì anche le indagini nella zona del Capitolium, indagini che in seguito furono continuate dal nuovo Governo Italiano con la direzione di Pietro Rosa (1871-1872), che liberò la vasta area adiacente e scoprì abitazioni con eleganti pitture. I lavori furono poi affidati dal 1878 al 1888 a Rodolfo Lanciani, che proseguì gli scavi del Visconti nel Piazzale delle Corporazioni, indagò il Teatro, che fu completamente liberato, scoprì nelle immediate vicinanze il mitreo delle Sette Sfere, trovò inoltre il mitreo di Felicissimo, e intraprese gli scavi nell’area della Caserma dei Vigili e delle Terme di Nettuno. Dopo le inda-

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gini dirette dal Lanciani poco venne fatto. Si registra infatti soltanto uno scavo in via della Fontana ad opera di Gatti e Borsari tra il 1897 e il 1899, che fu contemporaneo all’inizio delle opere di bonifica di tutta la zona condotte dai coloni di Ravenna. In questo periodo i reperti e gli oggetti d’arte trovati sugli scavi vennero conservati all’interno del castello di Giulio II, in alcune sale con funzione di Antiquarium, ma abbiamo notizia che molte iscrizioni e statue andarono ad incrementare la collezione conservata all’interno

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del Museo Nazionale Romano. Con l’inizio del Novecento si studiò una nuova strategia di scavo per portare alla luce tutta l’area della città. A dirigere questi nuovi e innovativi lavori fu chiamato Dante Vaglieri che seguì l’andamento degli scavi dal 1909 fino al 1913, anno della sua morte. Indicativo il suo programma dei lavori, articolato in tre semplici punti: completare lo scavo degli edifici precedentemente non messi del tutto in luce, curando insieme la conservazione delle rovine già scavate; congiungere i singoli gruppi di

rovine; fare degli scavi in profondità e chiarire lo svolgimento della storia di Ostia. Seguendo questi propositi si riuscì a liberare i quartieri a nord del Decumano fino alla Caserma dei Vigili, con il ritrovamento importante dei quattro Tempietti Repubblicani. A queste indagini seguì la prima monografia dedicata ad Ostia ad opera di Ludovico Paschetto. I lavori furono in seguito affidati prima alla direzione di Roberto Paribeni (dal 1914 al 1922) e quindi a Guido Calza, che li guidò, a partire dal 1924, per oltre venti anni. Tutti questi scavi, che proseguirono abbastanza lentamente, portarono nell’anno 1938 alla scoperta di un terzo dell’abitato ostiense. Nei quattro anni successivi (1938-1942) la velocità delle indagini venne incrementata notevolmente, tanto che in occasione dell’Esposizione Universale Romana del 1942 l’area liberata fu raddoppiata, con un’estensione di 34 ettari e la scoperta di due terzi della città. Venne effettuata l’importante scoperta del Castrum di IV sec.


a.C., scavato e studiato, fu trovata la cinta muraria di epoca sillana e liberato il Foro, con la Curia, la Basilica e i portici circostanti. Così Guido Calza, sulla scia del Vaglieri, indicava i risultati raggiunti: «Lo scavo ha portato al congiungimento di tutte le rovine parzialmente scoperte, eccetto il cosiddetto Palazzo Imperiale; l’intero scoprimento delle due massime arterie della città, il Decumano Massimo da Porta Romana a Porta Marina, e il Cardine Massimo da Porta Laurentina al Tevere, con le costruzioni adiacenti; l’esplorazione di Ostia non solo sul lato

settentrionale dal Decumano al Tevere, come era stata praticata finora, ma anche sul lato meridionale verso le mura, in una zona cioè interamente ignota, raggiungendo di conseguenza i limiti della città sia dalla parte del mare (ovest), sia dalla parte di Laurentum (sud), in modo da conseguirne la più completa conoscenza topografica; la continuazione, dove è stato possibile della esplorazione del sottosuolo per la conoscenza della città repubblicana». Bisogna dire che in questo quadriennio, a causa della fretta - legata alle esigenze della propaganda fascista - di

Nella pagina accanto, in alto: Il Teatro di Ostia dopo il restauro Nella pagina accanto, in basso: Porta Marina subito dopo lo scavo Sopra: Il quartiere occidentale visto dal Capitolium Sotto: Restauri delle pitture alle pareti nella Casa delle Muse

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portare alla luce più strutture possibili, venne in pratica operato un grande sterro nel quale fu raggiunto freneticamente il livello di II sec. d.C., precisamente di età adrianea, senza un’adeguata documentazione degli strati più tardi, eliminati senza alcuno scrupolo. In questo modo molti dati relativi alla fase tardo-antica di Ostia vennero totalmente persi. Si aggiunge che molti restauri e ricostruzioni furono effettuati in modo sommario e spesso falsante. Prima di proseguire con la storia degli scavi è necessario fermarsi un attimo per descrivere la storia del Museo degli Scavi. Come già anticipato, al pontefice Pio IX e al Visconti si deve l’ideazione nel 1865-1866 di un museo posto direttamente all’interno degli scavi. Fu scelto a questo scopo il Casone del Sale (odierno Museo degli Scavi), costruito nel 1571 con materiali antichi. L’edificio fu restaurato ed adattato alla nuova funzione dall’architetto Romiti con la costruzione dell’odierna facciata neoclassica. L’iscrizione al disopra dell’ingresso ricorda proprio

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questa nuova sistemazione. Ma il sopraggiunto Governo Italiano preferì trasferire l’esposizione all’interno del castello di Giulio II, finché nel 1933 l’idea non fu ripresa da Calza e Gismondi con un’ulteriore sistemazione del Casone del Sale, usato fino ad allora come Direzione del Cantiere degli Scavi, e la costruzione di tre eleganti sale per l’esposizione delle opere ritrovate negli anni 1938-1940. La seconda guerra mondiale impedì la realizzazione dell’opera, che fu finalmente portata a termine nel dopoguerra con l’aggiunta di altre sale espositive e la creazione di un altro edificio legato all’originario Casone del Sale, che oltre alle opere d’arte antica ospita oggi anche gli uffici della Soprintendenza Archeologica. Nel secondo dopoguerra gli scavi subirono un momento di stasi, mentre continuò l’opera di restauro delle strutture riportate alla luce negli anni precedenti. Soltanto a partire dagli anni Sessanta del Novecento si assiste ad una ripresa delle indagini, questa volta limitate a singoli edifici e, in molti casi, specifica-

tamente dedicate al ritrovamento degli strati relativi al periodo repubblicano della città, come nello scavo del Caseggiato dei Dipinti. Sempre in questi anni si chiarì la complessa ristrutturazione edilizia di età adrianea del quartiere a nord del Decumano, e nel 1961 si scoprì anche la Sinagoga. Molti saggi vennero inoltre condotti nella zona delle Terme del Nuotatore, nel


Piazzale delle Corporazioni, nell’Insula dell’Invidioso e in quella delle Pareti Gialle. Queste indagini proseguirono negli anni Settenta e Ottanta del Novecento fino a ricevere un nuovo impulso dagli anni Novanta dello stesso secolo con l’entrata in scena dei ricercatori di Università ed Istituti stranieri, a cui si deve la scoperta di importanti edifici come la Basilica Cristiana di età costantiniana (scavi 1996-1999 dell’Istituto Archeologico Germanico), i Navalia e il Tempio dei Dioscuri (saggi di scavo 2000-2001), e la ripresa di scavi come quello nella Schola del Traiano a partire dal 1997. Nuove indagini furono inoltre eseguite su strutture ed edifici

Nella pagina accanto, in basso: L'area intorno al settore nord del Cardine Massimo. sulla destra è visibile il Nuseo degli Scavi ricavato nell'antico Casone del Sale In alto, al centro: Una sala dell'Antiquarium ostiense all'interno del castello di Giulio II

già scavati, come la Casa di Diana (scavi 1994-1997), che portarono all’acquisizione di ulteriori dati, utili a nuove ricostruzioni e interpretazioni sullo sviluppo degli edifici e dello stesso tessuto urbano della città. Si riprese anche lo scavo della cisterna terminale dell’acquedotto ostiense nel settore a sud di Porta Romana, iniziato negli anni Ottanta del Novecento e

Sopra: Il Decumano Massimo in prossimità di Porta Marina In basso: Disegno dell'Ottocento del Museo degli scavi, realizzato nell'antico Casone del Sale, con la nuova facciata eseguita sotto il pontificato di Pio IX

riaperto dal 2003 a cura di una équipe francese. Il nuovo interesse per le rovine ostiensi sollecitò inoltre il fiorire di dibattiti sulle prime fasi di vita di Ostia e sul periodo repubblicano, fino ad arrivare, in tempi recenti, a studi completi sulla vita economica della città e sui traffici commerciali che caratterizzarono intensamente la vita quotidiana di Ostia, antico porto di Roma. I

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: A. NIBBY, Analisi della carta de dintorni di Roma, Roma 1849; R. LANCIANI, Storia degli scavi di Roma, I-VII, Roma 1902-1916; D. VAGLIERI, Ostia, Roma 1914; G. CALZA, Ostia, Roma 1936; ID. (a cura di), Scavi di Ostia I. Topografia generale, Roma 1953; G. TOMASSETTI, La Campagna Romana, V, Roma 1977; R. CALZA - M. FLORANI SQUARCIAPINO, Museo Ostiense, Roma 1962; C. PAVOLINI, Ostia, Roma-Bari 2006.

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IL COLLE AVENTINO

’etimologia del nome Aventino è incerta e gli stessi scrittori antichi davano diverse spiegazioni. Per alcuni Aventinus era un re albano nato dall’unione della vestale Rea con Ercole (Virgilio, Aeneis, VII, 656 ss.), per altri il nome derivava da ab adventu hominum, riferendosi alla moltitudine che si recava al tempio di Diana situato sul colle (Varrone, de lingua latina, V, 43). Secondo una tradizione riferita da Servio (Ad Aeneis, VII, 657), Romolo concesse la rupe ad una popolazione della Sabina, che l’avrebbe chiamata Aventinus in ricordo del fiume Avens, che scorreva nel loro paese di origine. Anche la delimitazione topografica è stata oggetto di controversia presso gli antichi scrittori. Fino alla tarda età repubblicana sembra che sotto la denominazione di Aventino fossero comprese ambedue le sommità:

I PRIVATA TRAIANI

In alto, a destra: La zona dell’aventino nel particolare del plastico di Roma antica in età costantiniana. Museo della Civiltà Romana. Roma Nella pagina accanto, in basso: Tratto delle Mura Serviane ancora esistenti sull’Aventino

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L

l’una verso nord-ovest, prospiciente il Tevere, l’altra più a sud, confinante con il Celio. Tutte e due erano racchiuse, almeno dal IV sec. a.C., entro il circuito delle cosiddette Mura Serviane ed erano separate da un avvallamento percorso dal vicus Piscinae Publicae e dal suo prolungamento, il vicus Portae Raudusculanae. La strada prendeva il nome da una delle porte che si aprivano sul versante ovest del circuito. La Porta Naevia, dalla quale usciva la via Ardeatina, era invece situata a sud, e la Porta Capena, dalla quale aveva origine la via Appia, ad est. Le due alture, da alcuni scrittori antichi distinte in maior (collina settentrionale) e minor (collina meridionale), vennero sepa-


come un luogo in origine disabitato, ricoperto di boschi, ricco di pascoli e popolato soprattutto da uccelli, dobbiamo supporre che si riferissero a tutte e due le alture. Ugualmente non viene fatta alcuna distinzione riguardo a quale delle due aree, o se ad ambedue, fosse destinata la lex Icilia de Aventino publicando, con la quale nel 456 a.C. l’Aventino veniva assegnato ai plebei. Quindi, dobbiamo immaginare analoghe vicende storiche e trasformazioni topografiche per tutte e due le alture, comprese originariamente nella medesima regione: prima quartiere plebeo e mercantile (anche se non in maniera intensivo nella collina di S. Saba), poi, a seguito dello spostamento del porto fluviale nella pianura del Testaccio, luogo prediletto dall’aristocrazia romana. Anche dopo che le due colline furono separate in due regioni distinte, a partire dall’età augustea, si deve supporre, sulla base delle notizie desunte dalle fonti letterarie, una corrispondenza di insediamenti. Durante l’epoca tardo repubblicana e imperiale l’Aventinus (maior e rate nella divisione amministrativa augustea in due regioni: l’una nella Regio XIII, denominata Aventinus (comprendente il grande Aventino, la pianura di Marmorata e il Testaccio), l’altra nella Regio XII, detta Piscina Publica (collina di S. Saba). L’Aventinus minor (“piccolo Aventino”) era percorso da una strada principale, il vicus Portae Naeviae, dall’omonimo nome della porta del circuito murario serviano, che, partendo dal vicus Piscinae Publicae, tagliava l’altura uscendo dalla porta e proseguendo - come già detto - con la via Ardeatina. Se le fonti antiche (Virgilio, Aeneis VIII, 235; Plutarco, Numa, XV, 3) sono concordi nel dare una descrizione dell’Aventino

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minor) accolse ricche dimore, note perlopiù dalle fonti letterarie ed epigrafiche, le cui vestigia sono riemerse, parzialmente, durante l’urbanizzazione dell’area avvenuta soprattutto nei primi decenni del Novecento. Non sempre è facile distinguere quali abitazioni dei personaggi famosi citati dalle fonti fossero sull’una o sull’altra altura. Sembra che il poeta Ennio (239-169 a.C.) abitasse presso la porta Nevia e, nell’area dove poi sorsero le Terme di Caracalla, vi fossero le proprietà dei Servili (Horti Serviliani). Queste ultime erano impreziosite da sontuose opere d’arte, tra le quali sembra vada annoverato il famoso mosaico pavimentale denominato non spazzato (dal tipo di decorazione che ricorda un pavimento ricoperto di avanzi di cibi), copia di un’opera del celebre Sosos, mosaicista greco attivo nel II sec. a.C., che ora è conservato nei Musei Vaticani. Nella zona della chiesa di S. Balbina esistevano gli Horti Asiniani, dove, secondo Plinio

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(Naturalis Historiae, XXXV, 5, 10), era un’altra celebre opera d’arte, il Supplizio di Dirce, eseguita da Apollonio e Taurisco, scultori rodii attivi alla fine del II sec. a.C. Il gruppo scultoreo fu trasportato a Roma da Rodi per volontà di Asinio Pollione nel 40 a.C. circa, per ornare la sua residenza. La scultura è conosciuta oggi dall’altrettanto famosa replica, denominata Toro Farnese, realizzata probabilmente in età claudia (o secondo altri in età severiana), che adornava la palestra delle Terme Antoniniane, dove fu rinvenuta, e che attualmente è esposta nel Museo Nazionale di Napoli. Vanno ricordate, inoltre, le case prestigiose di proprietà imperiale o di personaggi della corte nominate dalle fonti letterarie: tra queste la domus di L. Licinius Sura, amico di Traiano, situata probabilmente nei pressi delle Thermae Suranae, identificate nell’area di S. Prisca (o secondo un’altra ipotesi più ad ovest, in un’area più vicina alla chiesa di S. Sabina). Sull’Aventinus maior (“Aventino maggiore”) va collocata la dimora di Pactumeia Lucilia (forse parente di Pactumeio Clemente, console nel 138 a.C.) che fece erigere la casa nell’area dove ora sorge la chiesa di S. Anselmo. In questa casa sembra che vi dimorasse

successivamente l’imperatore Vitellio. Altri imperatori avevano abitato sull’Aventino prima di essere eletti: Traiano, che andò a vivere non lontano dal suo amico Sura e Adriano che preferì stanziarsi sull’Aventinus minor. Il luogo dove sorsero i cosiddetti privata Hadriani è da ricercarsi

forse nella zona di S. Saba, o secondo altri è da identificarsi con la dimora successivamente data in dono da Settimio Severo all’amico L. Fabius Cilo (praefectus Urbis nel 203 d.C. e console nel 204 d.C.). L’edificio si è voluto identificare nel complesso sul quale poi sorse il convento di S. Nella pagina accanto, in alto: Particolare del mosaico denominato del “pavimento non spazzato” Musei Vaticani. Roma Nella pagina accanto, in basso: Particolare di resti antichi rinvenuti durante gli scavi del 1935 davanti al chiesa di Santa Balbina In alto: Il gruppo scultoreo denominato “Toro Farnese” esposto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli A sinistra: Viale Aventino. Pavimento musivo rinvenuto durante l’allargamento della strada nel 1931

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Sopra: Particolare di una parete affrescata rinvenuta durante gli scavi nel giardino di Sant’ Alessio sull’aventino Nella pagina accanto: Interno della Domus appartenuta a Annia Cornificia Faustina sull’Aventino

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Balbina (oggi ospizio di S. Margherita): le strutture in opera mista potrebbero risalire all’età adrianea con rifacimenti successivi dell’epoca di Marco Aurelio e severiana. Le indagini, eseguite anche recentemente all’interno dell’area, non hanno chiarito l’estensione e la planimetria dell’edificio che, dall’abbondanza di materiale marmoreo rinvenuto, sembra essere appartenuto sicuramente ad un personaggio di alto rango. Il complesso continuò ad essere abitato ancora nel IV sec. (forse di proprietà di Fabius Fortunatus, nipote ed erede di L. Fabius Cilo) e succes-

sivamente trasformato in titulus cristiano. Un’altra importante domus, ricordata dalle fonti letterarie, è quella di proprietà di Annia Cornificia Faustina, sorella minore di Marco Aurelio e moglie di Ummidius Quadratus (che aveva delle proprietà sull’Aventino, citate sopra a proposito della casa di Ummidia Quadratilla). La domus Cornificia si è voluta riconoscere nelle strutture rinvenute nel 1934 (parzialmente viste dal Lanciani nel 1887) durante le demolizioni di un casale che sorgeva su via della Porta di S. Paolo, odierna viale Aventino (corrispondente al tracciato del vicus Piscinae Publicae). Resti di un’altra domus furono rinvenuti intorno al 1920 nel corso di lavori di sterro effettuati per eseguire una fognatura nell’area della piazza del Tempio di Diana. Gli ambienti affrescati furono solo parzialmente indagati: almeno due stanze risultano ancora interrate. Questi ambienti erano stati forse già visti, tra il 1867 e il 1870, insieme ad altri conservati al di sotto di un fabbricato che si affaccia sulla piazza, il casale Torlonia. A quell’epoca il Casale era stato compreso all’interno di un sistema fortificato eretto in difesa dell’Aventino contro i Garibaldini. Durante i lavori per la costruzione della fortezza furono scoperti sedici ambienti, databili tra la fine del II sec. a.C. e i primi decenni del II sec. d.C., poi chiusi e distrutti dalle fortificazioni. Dopo la presa di Roma (1870) il sistema fortificato venne abbattuto e altre indagini furono eseguite sotto gli edifici appartenenti ai Torlonia, tra i quali la Casa del Giardiniere, che probabilmente si trovava nell’area dell’attuale piazza del Tempio di Diana. In quell’occasione furono forse visti nuovamente gli ambienti sottostanti la piazza, che poi furono obliterati


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e riscoperti negli anni ‘20 del Novecento. In quest’epoca venne probabilmente eseguita una planimetria schematica delle strutture (rielaborata recentemente), conservata nell’Archivio Disegni della Sovraintendenza Comunale. Sollevando un tombino, posto all’incirca al centro della piazza in prossimità di via S. Melania, si scende nel sottosuolo per circa 10 metri. Ci si ritrova in un’ampia stanza dall’alto soffitto a botte impostato agli angoli su piedritti in muratura e pavimentata a mosaico bianco (parzialmente conservato). La parete nord è stata inglobata all’interno di un muro a cortina laterizia la cui fondazione in opera cementiSotto: Particolare della scala di discesa, a destra, e del primo ambiente della Domus sotto l’attuale Via di Santa Melania sull’Aventino

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Sopra: Pianta dell’area con l’indicazione dei resti dei Privata Traiani

Sotto: Muro di fondazione riconducibile alle Terme Deciane


zia è costituita da scapoli di tufo e da materiale marmoreo di riutilizzo, nel quale si riconosce un’antefissa ornata da una foglia di acanto e un frammento di iscrizione. Nella parte inferiore sono riconoscibili le impronte del palancato dell’armatura lignea di “sbatacciamento” che rivestiva la fossa di fondazione, all’interno della quale era stata poi gettata “l’opera a sacco” (miscela di malta e sassi). All’epoca degli scavi, in corrispondenza dell’angolo nord-est, venne demolito un tratto di tale muro di fondazione e venne riportata alla luce la muratura affrescata dell’ambiente. Nella demolizione fu scoperto un discendente di scarico in terracotta che era stato inglobato nella struttura di fondazione. Sopra: Resti di affreschi inglobati nelle fondazioni delle Terme Deciane

Questo scarico scende ancora al di sotto dell’attuale piano pavimentale, probabilmente raccordandosi ad un sistema fognario probabilmente realizzato ad un livello inferiore. Tale fondazione e il muro in laterizio soprastante appartengono al complesso termale che venne eretto nell’area dall’imperatore Decio intorno al 251 d.C. e le cui strutture, solo parzialmente conservate, sono inglobate nel vicino Casale Torlonia. Il discendente è, quindi, da riferirsi ad uno scarico in fogna di acque termali. I cinque ambienti attualmente visibili, che inglobarono probabilmente le strutture di una precedente domus tardo-repubblicana, della quale si conservano scarsi resti (un muro in tufelli nella parete est e una colonna in travertino nel primo ambiente; un pavimento a scaglie colorate di marmo nel quarto ambiente), sono in opera laterizia di buona fattura. Il soffitto e le pareti del primo ambiente sono decorate da affreschi con partiture lineari a riquadri su fondo bianco, all’interno dei quali sono raffi-

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Sopra: Pianta degli ambienti dei Privata Traiani

gurati paesaggi idillico-sacrali e nature morte con maschere. Nella parte inferiore, al di sopra di uno zoccolo di marmo, ora quasi del tutto perduto, vi è una zona a riquadri rettangolari e romboidali resi con fasce di colore giallo e celeste. Lunghi ed esili candelabri separano gli ampi riquadri centrali. Al di sopra, inquadrate da due fasce, una gialla, l’altra azzurra, compaiono sottili paraste rese schematicamente da linee di colore grigio-marrone e giallo. Questa fase pittorica risale probabilmente ai primi anni del regno di Adriano, in accordo anche con la struttura edilizia degli ambienti, e trova confronti con gli schemi decorativi di età adrianea largamente usati ad Ostia, dove, a causa di un’urbanizzazione su vasta scala nel breve periodo fra il regno di Adriano e quello di Antonino, si rese necessario adottare un procedimento pittorico più semplificato.


nea o antonina, periodo in cui si riscontra l’uso di ornare i soffitti con una ripartizione dell’area in cerchi e ottagoni, complicata dall’accostamento di altre figure geometriche: rombi, rettangoli, quadrati. Ad un’ultima fase pittorica dovrebbe appartenere un tratto di affresco, rinvenuto nella volta dell’ultimo ambiente, ancora quasi del tutto interrato, decoraIn un secondo momento, probabilmente in occasione di una ristrutturazione della casa, fu praticata un’apertura nell’angolo sud-ovest del primo ambiente, deturpando lo schema compositivo della decorazione. Gli altri due vani, coperti da volte a crociera, sono affrescati da una decorazione lineare a riquadri all’interno dei quali compaiono ramoscelli fioriti, uccelli in volo, fiori e gazzelle. Questa decorazione sembra appartenere ad una fase successiva, probabilmente tardo-adria-

Nella pagina accanto e in questa pagina: Particolari degli affreschi parietali del primo ambiente



Nella pagina accanto: Particolare del soffitto con volte a crociera relativo agli ambienti 2 e 3 Sopra: Particolare dell’ambiente 3 con l’ingresso all’ambiente 4 A destra: Particolare del pavimento musivo a tessere bianche In alto, a destra e sotto: Particolari di affreschi parietali


Sopra: Particolare dell’ingresso all’ambiente 5

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to da larghe fasce di colore rosso-violaceo e rosso, e da un quadretto rosso-bruno nel quale è campito un cavallo marino. Al lato vi è una coppa ricolma di fiori, posta su un piedistallo. In un riquadro romboidale e in uno rettangolare (nei cui lati brevi sono inseriti due semicerchi), sono dipinte figurine di animali (un cavallo marino e uno stambecco). Questo tipo di decorazione, in cui predomina l’interesse per l’accostamento di colori contrastanti nelle fasce e nei pannelli, trova confronti con le fasi severiane delle case ostiensi, come ad esempio la III fase della

Casa delle Volte Dipinte, e a Roma negli affreschi del Criptoportico di via Lucullo. Possiamo supporre che questo affresco appartenga all’ultima ristrutturazione che la ricca dimora subì prima del completo abbandono dovuto alla costruzione delle terme Deciane. Negli ambienti individuati sotto piazza del Tempio di Diana, si è voluto riconoscere il complesso


Sopra: Particolare dell’ambiente 5 ancora del tutto interrato Sotto e a destra: Particolari degli affreschi relativi all’ultimo ambiente

dei Privata Traiani, la casa privata di Traiano (da altri identificata con gli ambienti sottostanti la chiesa di S. Prisca), che i Cataloghi Regionari localizzano sull’Aventino e citano nella lista subito dopo il Dolocenum di età costantiniana. I

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: D. FACCENNA, Criptoportico decorato con pitture nel giardino della Villa Boncompagni-Ludovisi, in Notizie degli Scavi, 1951, pp. 107-114; B. FELLETTI MAJ, in Ostia I-II, Le pitture delle Case delle Volte Dipinte e delle Pareti Gialle, Roma 1961, pp. 12-13, 36-37, tav. III; B. FELLETTI MAJ - P. MORENO, in Ostia III, Le pitture della Casa delle Muse, Roma 1967, pp. 3538, 58-59; H. MIELSCH, Hadrianische Malereien der Vatikannekropole “ad Circum”, in Rendiconti Pontificia Accademia Romana di Archeologia, 46, 1973-1974, pp. 79-87; ID., Verlorene

römische Wandmalereien, in Mitteilungen des Deutschen Archaeologhischen Instituts. Römische Abteilung, 82, 1975, p. 117 ss.; L. LA FOLLETTE, Le Terme Deciane sull’Aventino, in Archeologia Laziale, 7, 1985, pp. 139-144; F. COARELLI, La Casa Privata di Traiano, in Roma Sepolta, Roma 1984, pp. 157-165; L. LA FOLLETTE, The Baths of Trajan Decius, in Journal of Roman Archaeology Suppl., 11, 1994, pp. 5154.

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In basso: Pianta topografica con l’indicazione di Roma e Gabii

Nella pagina accanto: Panoramica aerea dell’area archeologica di Gabii

LA SCOPERTA

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’antica città di Gabii si trova a circa 20 km da Roma, all’altezza del XII miglio dell’antica via Gabina, poi Prenestina, sul limite meridionale del cratere di Castiglione, facente parte del sistema vulcanico dei Colli Albani e occupato fino alla fine del XIX secolo da un lago di origine vulcanica, il lago di Castiglione. L’area archeologica, oggi con un’estensione di circa 70 ettari, venne creata nel 1987,

LA REGIA DI GABII

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quando il demanio dello Stato comprò i terreni e li mise a disposizione della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici per la creazione di un parco archeologico. Caratterizzata dalla presenza del santuario di Giunone Gabina, l’area dell’antica città fu oggetto di scavi già a partire del Settecento, quando lo scozzese Gavin Hamilton, non distante da questo tempio, trovò i resti di quello che tradizionalmente viene identificato come il Foro della città. Da questo sito, riscoperto recentemente, furono estratte inoltre, sempre nella stessa epoca, molte statue e busti, tra cui l’Artemide Gabina, che vennero in un primo momento sistemati nel Museo Gabino (attuale Casino dell’Orologio a Piazza di Siena, Villa Borghese) e poi venduti nel 1808 alla Francia dalla famiglia Borghese, proprietaria del museo e dei terreni dai quali provenivano. Scavi condotti in seguito, fino a quelli più recenti, hanno permesso la scoperta di altre strutture e settori della città, tra cui il santuario orientale fuori le mura (campagne realizzate a più riprese negli anni settanta e novanta del Novecento e nel triennio 20072008), tratti del circuito di mura caratterizzato anche da un sistema difensivo con aggere (scavi 2007-2008) e un lungo tratto della via Prenestina antica, sulla quale si affacciano diversi edifici


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(scavi ancora in corso iniziati nel 1990). Importanti inoltre gli studi nel territorio gabino che hanno consentito di delineare anche le fasi precedenti la formazione urbana e hanno rilevato la presenza di diversi abitati situati sulla cresta del lago di Castiglione che ad un certo

Sopra: La statua di Artemide Gabina In alto: Particolare dell’area archeologica di Gabii

A destra: Il sottosegretario ai Beni e AttivitĂ Culturali On. Francesco Giro durante la presentazione alla stampa della scoperta

Nella pagina accanto, in basso: Un momento della conferenza stampa davanti i resti della Regia

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punto, verso l’VIII sec. a.C., si concentrarono nella zona in cui nascerà la città di Gabii. In particolare, l’importanza che questo territorio assunse nella sua fase protostorica e alto arcaica è testimoniata dalla grande necropoli di Osteria dell’Osa e dalla presenza, all’interno di questa, di

una tomba dove è stata trovata, secondo le interpretazioni di alcuni studiosi, la più antica testimonianza di scrittura in caratteri greci nata in Italia. Questo dato si accorda bene con le testimonianze degli autori antichi che ricordavano Gabii come uno dei centri culturali più

importanti, e dove, secondo Dionigi di Alicarnasso, gli stessi Romolo e Remo furono mandati per ricevere la loro istruzione, imparando il greco, le lettere, la musica e l’uso delle armi greche. L’interesse per l’antica Gabii sembra rinnovarsi grazie agli scavi recenti all’interno dell’area urbana, che hanno riportato alla luce strutture pertinenti ad un edificio di età arcaica che è stato riconosciuto come la dimora del re della città. Le indagini archeologiche, finanziate dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, condotte dall’archeologo Stefano Musco insieme all’Università di Roma Tor Vergata, e alla Scuola di Specializzazione in Archeologia di Matera (Massimo Osanna), sull’altura da tempo indicata come l’acropoli della città, i cui risultati sono stati recentemente presentati alla stampa dal sottosegretario ai Beni Culturali On. Francesco Giro e dal Prof. Marco Fabbri dell’Università di Roma Tor Vergata. Qui, sotto un cumulo di pietre, è stato ritrovato l’edificio, tripartito, composto da una grande sala centrale affiancata da due ambienti laterali. I muri che lo compongono sono in pietra gabina e sono conservati, caso unico in Italia per un edificio di epoca arcaica, fino a due


metri di altezza. Gli ambienti sono caratterizzati da ingressi indipendenti che si aprono su un’area esterna, che dovrà in seguito essere indagata archeologicamente, e sono tutti caratterizzati dalla presenza di sepolture infantili poste al loro interno e sotto l’originario piano pavimentale. Queste sepolture sono state collegate a complessi rituali di fondazione dell’edificio e di inaugurazione di uno spazio sacro, visto che si dispongono secondo i punti cardinali. Dal punto di vista strutturale questa ‘Regia’ può essere messa a confronto con le altre dimore regali

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ritrovate in Etruria (Murlo e Acquarossa) e soprattutto con la Regia di Roma. La struttura emersa dagli scavi a Gabii rappresenta probabilmente solo una parte di un complesso più articolato ed esteso che doveva avere almeno un cortile antistante i tre ambienti. La conoscenza completa dell’edificio sarà quindi obiettivo delle prossime campagne di scavo che dovrebbero essere intraprese nei prossimi mesi. I dati emersi dagli scavi finora effettuati rilevano che la Regia di Gabii, a sua volta preceduta da un edificio più antico (ancora solo parzialmente indagato) che

probabilmente aveva analoga funzione, venne costruita, utilizzata e alla fine distrutta nell’arco del VI sec. a.C. Gli scavi hanno infatti evidenziato come la cessazione della vita di questa dimora avvenne per mano umana. I muri della struttura vennero infatti rasati all’altezza di due metri e l’edificio, dopo essere stato privato del tetto, dei pavimenti e delle decorazioni che lo rivestivano, venne obliterato da un tumulo di pietre. Da questo pietrame, che caratterizza tutta la sommità della collina, sono usciti alcuni frammenti della decorazione architettonica, tra


Sopra: I tre ambienti identificati come appartenenti alla Regia In alto, a destra: Particolare di uno degli ingressi avente la strattura ad arco A destra: Particolare dei tre ambienti con gli ingressi indipendenti


Sopra: Particolare dell’interno di uno dei tre ambienti Sotto: Particolare della base della pavimentazione di uno degli ambienti

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Nella pagina accanto, in alto: Particolare di una tomba infantile rinvenuta all’interno di uno degli ambienti

Nella pagina accanto, al centro: Il prof. Marco Fabbri durante la conferenza stampa Nella pagina accanto, in basso: Particolare di una lastra con raffigurazione di Minotauro


cui, importante ai fini dell’identificazione funzionale dell’edificio, una lastra del fregio con raffigurazione del Minotauro associato a felini, motivo che, presente anche nella decorazione della Regia di Roma, rimanda alla celebre saga di Teseo impiegata da Servio Tullio per legittimare il proprio potere. Dovremmo dunque trovarci di fronte ad un chiaro rimando alla dinastia etrusca dei Tarquini che regnò su Roma alla fine del periodo monarchico. Questo dato archeologico può accostarsi alle notizie delle fonti antiche, soprattutto Livio (I, 53, 411; I, 54, 1-10; I, 60, 2), che ricordano come Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo, riuscì ad assumere il potere a Gabii grazie ad uno stratagemma e di come, una volta espulso il padre da Roma, i Tarquini furono cacciati anche da Gabii. Le fasi di vita dell’edificio risultanti dalle evidenze archeologiche potrebbero testimoniare materialmente la cessazione del potere monarchico a Gabii e a Roma, simboleggiato dalla distruzione e dall’oblio della dimora del re, e l’inizio di un nuovo assetto politico, la repubblica. Alla luce di questa recenti scoperte possiamo pertanto sottolineare l’importanza storicoarcheologica dei dati provenienti dall’antica città di Gabii, che può considerarsi, almeno per le sue fasi più antiche, una piccola Roma, e che, non avendo subito nel corso dei secoli le trasformazioni di Roma stessa, conserva ancora nel sottosuolo le tracce della città romana ed edifici, come quello ultimamente scoperto, che possono aiutare a conoscere e comprendere l’evoluzione storica e topografica di una città romana fin dalle sue origini. I

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RITORNA DA NEW YORK IL TESORO DI MORGANTINA

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IL TESORO DI MORGANTINA

al 20 marzo al 23 maggio 2010 Palazzo Massimo alle Terme, una delle sedi più ricche e funzionali del Museo Nazionale Romano, si arricchisce di un’ulteriore mostra, oltre a quella già in corso su I marmi dipinti di Ascoli Satriano. Anche nel caso del Tesoro di Morgantina si tratta del recupero di un complesso di manufatti straordinario, per qualità e materiale. Grazie alle indagini del meritorio Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e degli archeologi Malcolm Bell III e Pier Giovanni Guzzo è stato possibile ricostruire a ritroso la vicenda: gli argenti furono rinvenuti nel corso di uno scavo clandestino al principio degli anni Ottanta del XIX secolo a Morgantina, antico centro siculo ellenizzatosi sin dal VI secolo a.C., situato nel cuore della Sicilia, nei pressi di Aidone

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(provincia di Enna); finiti sul mercato antiquario, tra il 1981 e il 1984 gli argenti vennero acquistati dal Metropolitan Museum of New York, che ne ha deciso la restituzione all’Italia nel 2006. Infatti, sin dal 1987, Malcolm Bell III, professore di archeologia classica all’University of Virginia e direttore della missione americana di scavi a Morgantina dal 1980, identificò il tesoro esposto a New York con quello su cui circolavano voci circostanziate che fosse stato trovato a Morgantina, in base alla descrizione dei pezzi che componevano l’eccezionale rinvenimento. Gli scavi condotti tra il 1997 e il 1998 in una casa del quartiere occidentale di


Morgantina hanno confermato la provenienza degli oggetti: in uno degli ambienti al pian terreno della casa, estensivamente scavata dai clandestini, è stata rinvenuta una buca profonda, praticata al momento dell’occultamento del tesoro, occultamento datato fortunatamente alla fine del III secolo a.C. dal ritrovamento di una moneta bronzea del 216-212 a.C. Invece, il reperimento di una moneta da 100 lire del 1978 su uno dei pavimenti di terra battuta della casa ha permesso di fornire un terminus post quem per l’attività dei trafugatori! Molto probabilmente, così come ci è pervenuto, il complesso di oggetti preziosi apparteneva all’ultimo proprietario, che

Sopra: La Dott.ssa Rita Paris, direttore del Museo di Palazzo Massimo alle Terme, mentre presenta la Mostra ai giornalisti intervenuti alla conferenza stampa

Sotto: Il Dott. Giuseppe Proietti, al centro, nuovo Soprintendente archeologo di Roma durante la conferenza stampa

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Sopra: Pianta topografica della Sicilia con l’indicazione, in maiuscolo, della città di Morgantina

Nella pagina accanto, in alto e al centro: Iscrizioni incise sul fondo dei manufatti

Sotto: Panoramica dell’area archeologica di Morgantina

Nella pagina accanto, in basso: Pisside con il coperchio decorato a sbalzo

deve aver deciso di nasconderlo in momenti di grande difficoltà e agitazione: si può pensare all’approssimarsi dell’esercito romano, che nel 211 a.C., nel corso degli eventi bellici della seconda guerra punica, conquistò Morgantina. Il proprietario poteva essere un abitante della città, ma non possiamo escludere, anche per la raffinatezza degli argenti, che si trattasse di un soldato mercenario o di uno dei Siracusani che avevano trovato rifugio a Morgantina in seguito all’assedio e alla caduta della loro città in mani romane, appena un anno prima. È suggestivo pensare che il nome Eupolemos, inciso al genitivo di possesso (“(io sono) di Eupolemos”) sul fondo della pisside e dell’altarino (nonché forse abbreviato Eu. sull’orlo di uno dei grandi recipienti con piedi a forma di maschere teatrali), sia il nome dell’ultimo possessore del tesoro.


in origine a un elmo da parata, del tipo portato dai guerrieri italici, come documentano pitture funerarie campane, raffigurazioni su ceramica apula e il rinvenimento di analoghi esemplari in argento in una tomba di Canosa. Il resto degli oggetti appartengono a un servizio da simposio: tre coppe dal profilo conico, elegantemente decorate da medaglioni floreali al centro, in due casi con un granato incastonato al centro; una lamina sbalzata con la rappresentazione di Scilla che scaglia un masso contro malcapitati naviganti; un attingitoio (kyathos); una tazza con due anse (skyphos); una coppa emisferica decorata da pentagoni e una corona dorata; una brocchetta (olpe) e due grandi coppe con maschere teatrali applicate, nella prima all’attacco dell’ansa, nei recipienti come piedi sul fondo convesso. L’approfondito studio di Pier Giovanni Guzzo ha consentito di riconoscere nuclei di manufatti, legati da motivi decorativi e affiQuesto è costituito da oggetti diversi per produzione, cronologia e funzione, e quindi deve essersi formato progressivamente per aggiunte successive. I materiali sono realizzati in lamina d’argento parzialmente dorata, con alcuni elementi fusi a parte e saldati. I motivi decorativi geometrici, floreali e figurati, sono eseguiti a sbalzo. Le due bellissime pissidi con il coperchio decorato a sbalzo e l’altarino a corpo cilindrico ornato da un fregio dorico e bucrani, con i relativi piattelli, dovevano servire per contenere aromi da bruciare e compiere riti sacri, come confermano anche le iscrizioni di dedica agli dei incise in greco; aveva forse funzione sacra anche la bassa coppa ombelicata (phiale mesomphalos), decorata da raggi dorati, una tipologia utilizzata solitamente per le libagioni. Le due corna erano invece applicate

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Sopra: Pisside con il coperchio decorato a sbalzo

Al centro, in alto: Coppa ombellicata decorata con raggi dorati

Sotto: Altarino di forma cilindrica decorato con bucrani e fregio dorico

A destra: Coppa biansata in argento Al centro, in basso: Particolare della decorazione dell’altarino


In alto: Corna probabilmente applicate ad un elmo da parata Sopra: Lamina sbalzata con rappresentazione di Scilla A destra: Brocchetta in argento con decorazione in oro

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Nella pagina accanto, in alto: Grande coppa con “piedini” raffiguranti maschere teatrali Nella pagina accanto, in basso: Particolare del fondo della coppa In alto, a sinistra e sopra: Coppe elegantemente decorate con medaglioni floreali dorati In alto, a destra: Attingitoio in argento

nità stilistiche, oltre che dalla presenza di iscrizioni puntinate (le più antiche) e incise, molte delle quali consistono in notazioni ponderali espresse con un sistema numerale tipico della Sicilia, che conferma ancora una volta la provenienza del tesoro. Gli oggetti più antichi, databili in base ai confronti di forma e decorazione tra il IV e il III secolo a.C., sono lo skyphos (che reca inciso sul fondo il nome Erma), il kyathos e forse anche la phiale. Gli altri argenti risalgono invece alla fine del III secolo a.C. e trovano i paralleli migliori in manufatti di vetro e di argento rinvenuti nella Tomba degli Ori di Canosa e

nella pisside Rotschild, trovata a Taranto e conservata al Louvre, attribuiti in genere dagli studiosi alla produzione di lusso della grande capitale ellenistica di Alessandria d’Egitto, con la quale sicuramente la potente città di Siracusa era collegata da scambi commerciali, artistici e culturali. Il tesoro, dopo una sosta espositiva a Palermo, sarà restituito al Museo Archeologico di Aidone, che si sta arricchendo di capolavori antichi provenienti da Morgantina e man mano restituiti all’Italia: i due acroliti tardoarcaici, esposti al museo dal dicembre 2009, cui si aggiungerà, ben presto, anche la cosiddetta Dea di Malibu, una splendida scultura femminile eseguita in marmo e calcare. I

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PROROGATA AL 23 MAGGIO

IN MOSTRA AL MUSEO DELLA CIVILTÀ ROMANA

MACHINA. TECNOLOGIA DELL’ANTICA ROMA

In alto, al centro: Panoramica della prima sala Nella pagina accanto, in basso: L’ingresso alla mostra

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resso il Museo della C i v i l t à Romana è attualmente in corso la mostra dal titolo “Machina. Tecnologia dell’antica Roma”. Il tema oggetto dell’esposizione si riferisce ad un ambito abbastanza inconsueto e di solito quasi mai considerato nella panoramica delle discipline che interessano l’archeologia, la storia e la conoscenza in genere dell’antica Roma. Scorrendo le varie sezioni della mostra ci si rende invece conto di come ogni aspetto della vita e dell’attività dei Romani, in pace e in guerra, sia stato commisurato, arricchito o condizionato, in relazione all’applicazione di specifiche conoscenze di natura tecnica. La mostra, che si avvale dell’esposizione di reperti provenienti da diverse istituzioni museali, ha la caratteristica di presentare svariati modelli di macchine e

dispositivi antichi che costituiscono il polo d’attrazione e il carattere distintivo dell’iniziativa. Il termine generico machina veniva usato dagli antichi per indicare un meccanismo costruito sfruttando l’ingegno, allo scopo di migliorare l’attività dell’uomo in vari campi d’applicazione: è sintomatico che lo stesso termine stesse anche ad indicare espediente, astuzia, finanche insidia, quasi a sottolineare il significativo apporto concettuale sotteso a tali realizzazioni. In effetti, esaminando le machinae presenti in mostra si intuisce come l’uomo romano seppe tradurre in pratica ed adattare alle proprie esigenze un cospicuo bagaglio culturale mutuato il più delle


volte dai Greci o da altri popoli con i quali venne man mano a contatto, ma rivisitato alla luce di quello spirito pratico e razionale proprio della sua stessa natura. Grazie alle scoperte archeologiche si è venuti a conoscenza di numerosi dispositivi, strumenti ed anche oggetti d’uso quotidiano dei quali si percepisce l’importante valenza, pur non comprendendoli a volte in maniera immediata, poiché in alcuni casi ne risulta problematica persino l’identificazione. Molto spesso vengono in nostro aiuto le fonti letterarie, ma il più delle volte si rivelano di difficile interpretazione, trattandosi infatti per lo più di testi di natura tecnica. Raramente si ha la fortuna invece di poter usufruire di fonti iconografiche che, se non altro per la loro specifica natura, appaiono essere di maggior ausilio. In alcuni eccezionali casi le immagini forniscono la straordinaria testimonianza di meccanismi la cui rappresentazione è chiarificatrice anche del loro funzionamento, come nel caso della doppia sega idraulica per materiali

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Sopra: Ricostruzione del meccanismo di un orologio ad acqua secondo le indicazioni di Ctesibio Sotto: Ricostruzione di una groma. Lo strumento serviva a tracciare linee ortogonali e veniva usato per la suddivisione del terreno In alto, al centro: Ricostruzione di un corobate. Questa macchina aveva la funzione di una grande livella ad acqua. Era dotata anche di diversi fili a piombo In basso, a destra: Piccola meridiana portatile con disco metallico inciso per indicare l’ora

litici rinvenuta di recente a Hierapolis di Frigia, datata al III sec d.C. Detto ciò, occorre anche specificare che un campo d’applicazione, prima limitato all’estero, ma da alcuni decenni operante anche in Italia, è proprio quello dell’archeologia sperimentale, reenactment, che vede collaborare specialisti delle varie materie: risulta infatti sempre più spesso indispensabile unire diverse professionalità e permettere

all’ingegnere, all’architetto, al matematico, al giurista, al botanico, al musicologo, di poter lavorare insieme all’archeologo, al fine di ricreare la tecnologia e le tecniche artigianali del passato per costruire, con i mezzi di cui disponevano i Romani, macchine, strumenti e oggetti con l’obiettivo di raggiungere risultati attendibili e impedire la realizzazione di sperimentazioni unicamente teoriche e, quel che è peggio, scarsamente aderenti


sacrificale posta a lato del tempio stesso. Essendo l’altare posizionato al di sopra di un sistema idraulico collegato a pesi e carrucole, il calore provocato dal fuoco determinava un processo uguale a quello prodotto dalla macchina a vapore, che avrebbe alla realtà, ottenendo nel contempo la comprensione esatta delle potenzialità di ciò che si ricostruisce. Quando si parla di tecnologia dei Romani, la tendenza è quella di mostrarsi poco inclini a giudicarla sufficientemente avanzata, operando in maniera spesso superficiale e soprattutto compiendo l’errore di commisurarla secondo moderni parametri. Basterà infatti fornire alcuni esempi per dimostrare il contrario. La doppia sega idraulica di Hierapolis, sopra citata, era congegnata in modo tale che il moto impresso dalla forza dell’acqua alla grande ruota a pale andasse a incidere sull’oscillazione delle seghe: fino a non molto tempo fa si riteneva invece che la trasformazione di un moto circolare in orizzontale fosse stata ideata nel Rinascimento. Altro esempio interessante è costituito dal testo dello scienziato alessandrino Erone quando descrive il meccanismo grazie al quale le porte del tempio di Serapide ad Alessandria si aprivano e si chiudevano da sole, accendendo o spegnendo il fuoco dell’ara

Sopra: Abaco tascabile costituito da un supporto metallico con scanalature munite di piccole sfere mobili che servivano ad eseguire calcoli aritmetici Sotto: Gru calcatoria ricostruita in base al rilievo degli Haterii. Serviva per il sollevamento dei blocchi di pietra


zione dell’esercito. Come in altri campi, la scienza alessandrina rivestì molta importanza nella costruzione delle macchine belliche, comprendenti sia i meccanismi per il lancio di proiettili, dardi o pietre, sia quegli apparati destinati ad agevolare l’approccio e l’assalto alle difese

fatto la sua comparsa solo a distanza di molti secoli. Tale meccanismo, rimasto alla stregua di curiosità erudita, avrebbe potuto certamente dare avvio allo sfruttamento dell’energia derivante dai gas compressi, se non fosse stato per i costi altamente elevati delle materie prime indispensabili per il suo funzionamento. Le varie sezioni della mostra contemplano quasi tutti i campi dell’attività dell’uomo romano, si parla infatti di costruzioni, idraulica, medicina, comunicazioni, agricoltura, industria nelle sue varie applicazioni, spettacolo e guerra. Proprio lo studio della complessa macchina da guerra romana offre la possibilità di mettere in luce il raffinato tecnicismo alla base di tutti gli armamenti, comprendenti le armi dei

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singoli, sia quelle destinate all’offesa che quelle relative alla difesa passiva, come pure le macchine belliche. La ricerca di miglioramento delle prestazioni portò ad un continuo studio, svoltosi nell’arco di più secoli, che si avvalse anche delle conoscenze derivate dalle popolazioni con cui i Romani furono a contatto. Un esempio è offerto dal gladium, l’arma romana per eccellenza, con cui si identificano le stesse legioni e che costituisce un valido esempio di come le conoscenze tecnologiche proprie di altri popoli siano state abilmente sfruttate allo scopo di raggiungere un’elevata capacità di offesa. Il gladium, idoneo a colpire soprattutto in scontri ravvicinati, venne soppiantato solo in età tardo-imperiale dalla spatha, a seguito delle profonde trasformazioni in atto nell’organizza-


Nella pagina accanto, in alto: Ricostruzione di una gru secondo le indicazioni di Vitruvio Sopra: Valvola in bronzo usata per l’adduzione o l’arresto del flusso idrico

Sopra: Particolare della ricostruzione della coclea o vite di Archimede. Questa macchina era in grado di sollevare con il minimo sforzo grandi quantità di acqua Sotto: Ricostruzione di una torre arietata e di una testuggine coperta arietata. Queste macchine belliche erano usate negli assedi

fisse nemiche. Anche lo studio dell’ingegneria rivela le grandi capacità romane in campo tecnologico, basti pensare alle opere presenti lungo i vari limites dell’Impero, postazioni fortificate di varia natura, fossati, palizzate, per non parlare poi della costruzione di ponti, strade e accampamenti. La costruzione di un castrum costituiva di per sé un’opera complessa, per la cui realizzazione si coniugavano più competenze, dal geografo al gromatico, dall’architetto al legionario che sappiamo essere sempre impiegato sia per il semplice reperimento del materiale da costruzione, sia per l’edificazione di opere murarie. Anche nel campo delle comunicazioni e sulla conseguente possibilità di inviare e ricevere notizie nel minor tempo possibile sui teatri operativi, i Romani furono gli artefici di preziose codificazioni rielaborate dai Greci e perfezionate a tal punto da rendersi efficaci anche su lunghe distanze. I Romani sono generalmente ricordati anche per la sopravvivenza di molte delle loro opere che ancora oggi destano meraviglia, tra queste le strade, la maggior parte delle quali ancora percorriamo. La rete stradale pubblica si snodava lungo tutto

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montagne, mediante la risoluzione di problemi, anche complessi, di natura tecnica. Ogni acquedotto costituisce uno studio a sé ed è rappresentativo del grande genio romano. Le arcate, l’elemento più appariscente di queste opere, non sono altro che il mero sostegno del canale di scorrimento. L’acqua veniva condotta in città utilizzando semplicemente la forza di gravità, mediante un attento studio delle quote e delle pendenze tra la sorgente e il luogo di destinazione, perforando montagne e superando vallate. Nel caso in cui ciò si fosse rivelato impossibile a causa della presenza di valli lunghe e poco profonde, veniva adottato un sistema di condotte forzate, di cui rimangono ancora pochi ma efficaci esempi, sfruttando il principio dei vasi comunicanti. L’acqua era immessa anche in piscine limarie, appositi bacini per la decantazione e da ultimo nei castella di distribuzione, secondo criteri ben precisi, rispondenti alle disposizioni vigenti. l’Impero e grazie ad essa Roma riusciva a tenere insieme, controllandolo, un vastissimo territorio. Tali opere non furono secondo la famosa affermazione di Frontino - come le «inutili ma tanto celebrate opere d’arte dei Greci», ma rappresentarono l’espressione più eloquente della cultura e della civiltà di Roma antica. Come non parlare poi dei ponti, dei viadotti e soprattutto degli acquedotti che con i loro imponenti resti caratterizzano ancora le campagne intorno a Roma. Creazione tipicamente romana, la conduzione dell’acqua fu di fondamentale importanza per lo sviluppo e il benessere della popolazione. L’acqua, sovente captata anche in luoghi molto distanti, era fatta arrivare a destinazione superando valli e

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Nella pagina accanto, in alto: Ricostruzione di una ruota idraulica per il sollevamento dell’acqua Nella pagina accanto, in basso: Ricostruzione di un Tornio da vasaio. In primo piano un’anfora da trasporto Dressel 20 A sinistra: Ricostruzione di una sezione di nave romana della prima guerra punica. Sul ponte si nota la passerella girevole per gli arrembaggi denominata “corvo” Sotto: Cornice di stucco colorato. I sec. d.C.

Destano meraviglia per la loro semplice ma raffinata funzionalità alcuni apparecchi quali valvole, rubinetti, calices, ma soprattutto i rari e preziosi frammenti di pompe di sollevamento, di cui si conoscono svariati esemplari. Oltre agli acquedotti, ogni costruzione d’epoca romana in genere suscita ammirazione, basti pensare ai grandi monumenti pubblici quali teatri, anfiteatri, terme, circhi, con tutte le soluzioni tecniche che contribui-

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rono a caratterizzarli, alcune delle quali ancora apprezzabili, come quelle relative alle opere murarie, a particolari architettonici o a sopravvivenze d’altra natura, altre invece note solo attraverso le fonti. Conosciamo infatti l’esistenza di artifici scenici quali apparecchiature complesse, smontabili e rimontabili, per far apparire all’improvviso fondali e prospettive scenografiche o l’uso di attrezzature funzionali agli spettacoli con gli animali, come ascensori, piani inclinati e meccanismi quali la coclea, l’ericius e il contomonobolom. La tecnologia degli spettacoli comprendeva inoltre l’ottemperanza a precise e codificate regole di acustica, oltre che di ottica, di

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idraulica, con riferimento alle naumachie e ai tetimimi, e la padronanza delle conoscenze collegate alle manovre per il velarium o ancora al meccanismo di controllo dei giri nelle gare del circo, mediante l’ ovarium e il delphinium Ugualmente apprezzabile è il sistema di riscaldamento delle terme, basato sul semplice ma efficacissimo principio della circolazione dell’aria calda, sfruttando il quale si era in grado di raggiungere notevoli risultati. Un altro sistema, applicato anche nelle residenze più lussuose, è quello testimoniato da un singolare apparecchio rinvenuto nella villa della Pisanella a Boscoreale. Si tratta di una cal-

daia scalda acqua del tipo di quella descritta da Vitruvio, da cui si dipartivano diversi ordini di tubi, corredati da chiavi in bronzo, in grado di erogare l’acqua alla temperatura desiderata. Le stesse case inoltre, almeno quelle delle persone più benestanti, conservavano innumerevoli oggetti realizzati con l’impiego di precise conoscenze tecniche, basti citare ad esempio la produzione di particolari oggetti in vetro, bronzo ed argento. A questo proposito occorre ricordare le avanzate conoscenze tecniche che i Romani ebbero nel campo dell’estrazione dei minerali, senza dubbio tra le più significative fino al XIX secolo. Talmente incisiva fu l’attività in questo campo che recenti studi hanno dimostrato come i livelli di inquinamento causati proprio dall’estrazione mineraria romana si collocano tra i più alti in assoluto, uguagliati solo da quelli raggiunti all’epoca della rivoluzione industriale. Ciò in riferimento soprattutto all’estrazione di rame, argento e oro, dovuta alle consistenti emissioni monetarie che, tra il I sec. a.C. e il II d.C., dovettero supportare l’incremento dei traffici commerciali. La lavorazione della terra introduce all’utilizzo dell’energia animale, e riporta alla mente le parole del grande Vitruvio: «Quanto al nutrimento non avremmo poi abbastanza cibo se non fossero stati inventati i gioghi e gli aratri per i buoi e per tutte le bestie da soma». Ed ancora: «E se non fossero stati ideati per la torchiatura delle olive dei torchi, dei verricelli, delle leve, noi non avremmo potuto godere del piacere dell’olio limpido o dei frutti della vite; e il trasporto di questi prodotti sarebbe impossibile se non fossero stati inventati i congegni meccanici….». Le parole di Vitruvio fanno


riflettere su come tutte le conquiste del sapere operate dai Romani, arricchite dalle esperienze fatte in campo tecnologico, siano rimaste pressoché immutate dall’antichità all’avvento di alcuni dispositivi che, come la macchina a vapore, di cui si è parlato sopra, ‘riscoperta’ intorno alla metà dell’Ottocento, rivoluzionò il settore dei trasporti. Non di rado però accade di scoprire come nelle campagne o in alcune particolari aree si continui ad adoperare strumenti che ricalcano o si ispirano a quelli romani, azionati da energia umana, idraulica, eolica, termica e solare. Pare utile ricordare inoltre che, proprio nei confronti dell’energia solare, quale fonte alternativa, si è attivato da tempo un rinnovato interesse, incentrato tra l’altro anche sullo studio delle applicazioni romane in tale campo. Da ultimo, come non rimanere meravigliati nell’apprendere l’esistenza di congegni creati

anche «per generare meraviglia», quali ad esempio gli automata, destinati a stupire per il virtuosismo della loro realizzazione e l’originalità del funzionamento: fontane animate, giocattoli e addirittura gli antesignani dei moderni robot, in grado di muovere autonomamente gli arti. Forse non tutti sanno che l’esposizione del cadavere di Cesare si avvalse di una sapiente regia politica che mise in scena un meccanismo recante una statua di cera del dittatore che, fatta appositamente muovere, mostrava agli intervenuti la visione del corpo martoriato dalle numerose pugnalate. Non a caso Roma è descritta come «il paese degli automi» in un testo birmano dell’XI-XII sec., proprio a ribadire - se ancora ce ne fosse bisogno - la sua estrema vocazione tecnologica. In uno dei saggi introduttivi al catalogo Marco Galli scrive: «In Oriente, al tempo dell’Impero romano, si

Nella pagina accanto: Particolare della ricostruzione al vero di un mulino idraulico Sotto: Bottiglia a corpo sferoidale in vetro soffiato incolore. II – III sec. d.C.

favoleggiava di un paese dove vivevano molti fabbricanti di macchine veicoli di spiriti . Queste macchine venivano usate come strumenti di protezione (bloccano, arrestano, respingono, fanno ostacolo), svolgevano attività commerciali, coltivavano i campi, effettuavano catture ed esecuzioni. Questo paese era Roma…».

La mostra “Machina. Tecnologia dell’antica Roma”, ospitata nelle sale del Museo della Civiltà Romana del Comune di Roma, Sovraintendenza ai Beni Culturali - Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione, è a cura di Rita Correnti - Associazione Piazza Duomo, con la collaborazione dell’Università degli Studi di Roma “Sapienza”. Le macchine sono state ideate e ricostruite da Gabriele Niccolai. Il catalogo, edito da Palombi Editori, è a cura di Marco Galli e Giuseppina Pisani Sartorio. La mostra termina il 23 maggio 2010. I

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