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COLUMNs // DANNY “MAGOO” CHANDLER

dORiANO //Zacchilli’s COLUMNs

Magoo! Forse il nickname più iconico di sempre nel mondo del motocross. Alzi la mano chi non ha mai sentito questo nome! Crediamo pochissimi sia tra le vecchie generazioni, sia tra i più giovani che amano “smanettare” oltre che in pista, anche sui social. Basta dire Magoo e subito la mente va al più spericolato, veloce, ardimentoso pilota che la scuola a stelle e strisce abbia partorito nel suo periodo più fulgido, quello a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Non ce ne vogliano le nuove generazioni di piloti ma gli Stati Uniti in quel periodo hanno sfornato una quantità immane di super campioni che non solo hanno fatto sognare gli spettatori di mezzo mondo, ma che hanno dato il via a uno stile di guida talmente innovativo che ha permesso ai suoi rappresentanti di dominare almeno trent’anni di competizioni. E tra questi rappresentanti Danny occupa sicuramente di diritto un posto particolare nel cuore degli appassionati. Intendiamoci, non ha vinto quanto nomi più blasonati come Bailey, Johnson, Glover, O’Mara o Hannah e nessuno vuole accostarlo a questi mitici piloti a livello palmares, ma col suo stile di guida “tutto aperto o niente”, i suoi salti arditissimi, le sue evoluzioni e perchè no, le sue spettacolari cadute, in ogni caso si è ritagliato un degnissimo posto nell’Olimpo del cross mondiale. Purtroppo il suo gettare il cuore oltre l’ostacolo, è stato anche il suo più grande limite. Limite culminato con il gravissimo incidente nel Supercross di Parigi Bercy che nel Dicembre del 1985, pose tragicamente fine alla sua carriera, rendendolo tetraplegico e segnandolo nel bene e soprattutto nel male, per il resto della sua breve vita. Gli

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dANNY “MAGOO”

CHANDLER Il cavaliere del rischio

aneddoti che lo riguardano e che ancora vengono raccontati da chi lo ha conosciuto bene o da chi lo ha incontrato come avversario sulle piste, suonano sempre come a dire: “hey io c’ero quel giorno, io l’ho visto, io correvo con lui...” quasi a suggellare il fatto di aver assistito a qualcosa di incredibile o al limite dell’irreale. E di cose irreali Danny ne faceva ogni fine settimana, seminando il terrore nei suoi malcapitati avversari. Questo almeno fino a quando arrivò al professionismo, che impose al nostro eroe regole un po’ più rigide, ma fino ad un certo punto. Uno stile selvaggio e abbastanza al limite non solo nelle corse ma anche nella vita. Intendiamoci, il periodo in cui Danny compiva le sue imprese era quello degli anni ’70 e negli Stati Uniti una buona parte dei giovani dell’epoca, era tendenzialmente portata ad uno stile di vita un po’ fuori dalle righe. Insomma, moto da cross, highways, birra, rock & roll e belle ragazze. Non contava molto altro per questi giovani scavezzacolli californiani, soprattutto se con i guadagni delle corse, si aveva una certa disponibilità economica. Il buon Danny ad esempio non si preoccupava troppo dell’integrità dei mezzi di locomozione che poteva permettersi grazie ai contratti da pilota professionista. Distrusse una Porsche 928 e grazie a questo fu subito soprannominato “Porsche Destroyer”. Anche il suo vitaminizzato pick up fece una brutta fine e a suggellare questa sua, diciamo tendenza, quasi a compiacersene, si fece stampare sul retro dei pantaloni la scritta “Road Hog”, che in italiano suona come pirata della strada. Scritta che però entrò nella leggenda grazie ad una incredibile foto che lo immortalava all’uscita della mitica Gravity Cavity di Unadilla, impegnato in uno dei suoi salti più spettacolari. Ma andiamo con ordine; Magoo è nato il 5 Ottobre del 1959 a Foresthill, nei boschi del North California. I suoi genitori appena sposati, si mossero dalle pianure del Kansas per cercare migliori condizioni di vita nel Golden State. Secondo di tre figli, due femmine e un maschio, vide l’origine del suo popolare soprannome non come molti potrebbero pensare, dal famoso cartone animato ma dall’espressione usata da suo padre, che al momento della nascità del figliolo esclamò: ”mi sembra un Magoo” più attirato dal suono del nome che dal protagonista cieco del fumetto. Avrebbe potuto dire: “mi sembra un Batman” tanto per capirci... e da allora fu universamente Magoo. Dare un soprannone a tutti i membri della famiglia era un vezzo dei Chandler. Big Dan il papà, Big Red la

mamma, Little Red la sorella maggiore e Blackie la sorella minore che, detto per inciso, sulle minimoto era più veloce del fratellino. Come tanti ragazzini Danny cominciò in tenera età a muovere i primi passi nel motocross, spalleggiato dal papà che nel frattempo aveva intrapreso la carriera di meccanico. Dalle prime gare nella categoria mini a cavallo di una Steens con

un motore da motosega Mc Culloch senza marce, passò presto ad un vetusto CZ e a tal proposito ancora oggi molti si ricordano il buon Dan che lo aiutava a partire mettendogli una cassa del latte sotto i piedi per non fargli perdere l’equilibrio, vista l’esigua statura. Diventò abbastanza presto un idolo degli spettatori della sua zona, in quanto già da adoloscente il suo stile irruente e spettacolare calamitava l’attenzione degli appassionati, che si posizionavano in prossimità delle asperità più spettacolari del tracciato per incitarlo. E lui non si faceva certo pregare per accontentarli, producendosi in personali evoluzioni che, a detta di molti, furono all’origine del freestyle MX. Nel 1975 ci fu il primo contatto di rilievo con il concessionario Dirt Factory che gli mise a disposizione un KTM 125. Le cose cominciarono a diventare importanti quando Danny entrò a far parte della scuderia che faceva capo al negozio della famiglia Da Prato, il famoso Woodland Sports Center, concessionario Penton/KTM. I Da Prato conoscevano già Danny e anzi, lo avevano aiutato a modificare le sospensioni del CZ proprio per facilitargli le partenze. Big Dan chiese a Bill Da Prato se avessero potuto trovargli un KTM 250. Bill da ex pilota KTM e quindi conoscitore dell’ambiente riuscì nell’intento di ottenere una moto dagli austriaci. Alla fine del 1977 dopo anni di allenamenti e gare insieme agli altri ragazzi della scuderia, anni che contribuirono a scolpire il fisico di Danny, il negozio dei Da Prato cessò l’attività e Billy andò a lavorare come meccanico per il concessionario Maico Pro-Track. Grazie alla segnalazione di Billy, Danny fu contattato da Jim Moore, il titolare, che stava cercando un pilota a cui affidare un Maico 250. Danny non deluse le aspettative e nel 1978 vinse il popolare torneo californiano denominato Golden State Series. Dopo questa vittoria, Maico e KTM USA gli fecero un’offerta e Danny scelse la compagnia tedesca, firmando un contratto di due anni (1979 e 1980) e diventandone pilota ufficiale per gli Stati Uniti. Le cose con Maico purtroppo non andarono nel modo giusto. Le prime gare Danny le disputò con la moto di serie, migliorata notevolmente dal suo meccanico e amico Bill e senza le parti ufficiali previste dal contratto. Si arrivò alla rottura tra i due amici a livello professionale, quando ormai era palese che Maico, oltre a non mantenere le promesse, intendeva appropriarsi delle soluzioni studiate in proprio da Bill. Danny fu titubante nel rescindere il contratto, in quanto ancora giovane e intimorito dal fatto di veder interrompere la sua carriera, ma un mese dopo, come previsto dal suo amico, fu appiedato dalla factory tedesca. La vera svolta della carriera arrivò nel 1981 quando, dopo essere stato ingaggiato dal Team LOP, Danny si cimentò nella classe 500 a cavallo di una Honda e si aggiudicò tutte le gare a supporto della famosissima serie internazionale denominata Trans AMA. Fino a quel momento aveva la reputazione di essere un bravo ma sconsiderato motocrossista professionista. Il nome Magoo era sinonimo di orrendi crash misti a fantastiche esibizioni di spettacolo. Era quasi imbattibile a livello locale, ma le sue performance erano state semplicemente troppo irregolari per guadagnarsi il totale rispetto sulla scena nazionale. Questo appunto fino al 1981, perchè la sua serie di vittorie nella Trans AMA gli permise di ottenere un

contratto da pilota ufficiale del Team Honda USA per l’anno successivo. Sicuramente il team migliore per quello che sarà il suo magico 1982. Danny pur non essendo un gigante, era fisicamente un vero e proprio torello. I muscoli delle braccia e delle gambe erano impressionanti e grazie a questa sua struttura, si trovava particolarmente a suo agio nel domare i mostri a due tempi da 500 cc. Come già detto il 1982 fu il suo anno perfetto. Vinse il GP degli Stati Uniti a Carlsbad in California, una prova del National a Red Bud nel Michigan e soprattutto fu convocato dalla federazione statunitense per partecipare agli eventi a squadre più importanti del mondo e cioè il Trofeo delle Nazioni a Gaildorf in Germania per la classe 250 e il Motocross delle Nazioni per la classe 500 la settimana successiva a Wohlen in Svizzera. All’epoca le cilindrate erano divise e si correva in squadre da quattro componenti. Due manche per ogni singola manifestazione. Danny, unico e mai eguagliato, vinse tutte e quattro le manche a cui partecipò, entrando a pieno diritto nella storia di questo sport. Chi scrive ebbe la fortuna di assistere alla gara di Wohlen e vi possiamo assicurare che fino ad allora, mai avevamo visto un pilota essere così spudoratamente più veloce dei suoi avversari. Sempre nell’anno di grazia 1982, vinse la famosa gara Superbikers a Carlsbad, battendo con un rocambolesco sorpasso all’esterno sul tratto in asfalto lo specialista Steve Wise. La gara a differenza di quanto siamo abituati a vedere adesso in Europa, prevedeva tratti sterrati in salita e ripide discese mentre non vi era traccia di salti o asperità artificiali, favorendo quindi la partecipazione anche degli specialisti dell’asfalto come ad esempio Eddie Lawson. La gara fu trasmessa in diretta dalle rete televisiva ABC e contribuì quindi ad accrescere la fama di Danny a livello nazionale. A Dicembre del 1982, sulla scia del clamore suscitato dalla doppia vittoria nei trofei a squadre, fu ingaggiato per prendere parte al Superbowl di Genova, da un paio d’anni appuntamento fisso di fine anno del nostro calendario. A questo punto si deve aprire un capitolo a parte. Gli appassionati italiani avevano già imparato a conoscerlo grazie alle riviste del settore che riportava i suoi primi successi oltreoceano. All’epoca ovviamente internet era solo un esperimento in mano ai militari. Danny si presentò al palasport della fiera con forcelle, sospensione posteriore e marmitta personali, mentre la moto gli fu fornita dalla Special Cross di Asti, come era d’uso allora e durante le prove libere del sabato, non aperte al pubblico, gli addetti ai lavori cominciarono a rendersi conto di chi fosse veramente questo ragazzo californiano. La pista presentava due salti niente affatto ravvicinati per i canoni dell’epoca e qualcuno che conosceva il soggetto, si sbilanciò nel dire che Danny avrebbe provato il “doppio”. Chiaramente fu abbastanza deriso per questa sua considerazione, fino a quando Magoo appena entrato in pista, col motore in fuori giri, non solo fece il doppio salto, ma lasciò anche i piedi dalle pedane e, fu subito delirio. Delirio che continuò nelle due serate di gare. Il pubblico impazzì per il funambolo americano, che divise la posta in palio con il compianto, e grande amico per la

vita, Georges Jobè. L’anno seguente vide Danny ugualmente protagonista in patria, vinse tre gare del National 500 lottando fino alla fine con piloti del calibro di Broc Glover e Darrell Shultz, pluricampioni nazionali e fece un’altra ottima figura nel GP degli Stati Uniti pur senza vincerlo. In quel periodo in America il campionato indoor aveva ovviamente un’importanza massima e il nostro eroe vi partecipò con alterne fortune, in quanto il suo stile aggressivo mal si adattava alle dimensioni ridotte ed alla complessità dei tracciati supercross. Danny era più portato per i tracciati tradizionali, pieni di saltoni come il famoso Magoo Double o discese impressionanti come la Banzay Hill di Saddleback, dove poteva dare sfogo a tutta la sua aggressività e audacia. L’unico risultato di rilievo nel SX lo ottenne all’interno dello storico stadio Rose Bowl di Pasadena, dove si classificò al terzo posto finale nell’edizione del 1983. Risultato che comunque passò alla storia per le sue evoluzioni nel salto d’arrivo che furono immortalate in famosissime fotografie. Del resto una sua caratteristiche, mantenuta fino all’ultimo, era quella di deliziare gli spettatori inventandosi i primi doppi salti in situazioni apparentemente impossibili ma che per lui erano la norma. Chiaramente questa attitudine era un richiamo irresistibile per il pubblico, dibattuto fra il richiamo della probabile imminente caduta spettacolare e l’audacia dei suoi tentativi. La sua facilità nell’andare così forte ed essere nel contempo così spettacolare, gli attirò non poche antipatie da parte dei suoi titolati e famosi compagni di team, che nonostante le apparenze nutrivano una notevole invidia verso lo spericolato “red head”, e non erano neanche pochi gli avversari che lo giudicavano pericoloso. Situazione che fece soffrire parecchio Danny nel suo periodo in American Honda e che lo portò a momenti di vera depressione. A fine 1983 sulla scia dei successi dell’anno precedente, tornò in Italia per disputare il Superbowl di Genova e il Motor Show di Bologna, ma Danny non era più lo stesso e collezionò solo grandi cadute. Nell’inverno del 1983, durante una seduta di allenamento in preparazione all’imminente annata agonistica, cadde pesantemente e fu ritrovato svenuto vicino alla sua moto. A seguito di questo grosso incidente, i suoi risultati ne risentirono molto, rimase sordo da un orecchio e oltre al divieto di partecipare ai Supercross da parte del boss Honda Roger De Coster, venne candidamente messo alla porta a fine stagione. Si ritrovò quindi senza contratto e con poche prospettive di essere ingaggiato da un altro team ufficiale. Ma come? Quel fantastico e un po’ pazzo pilota che per protesta contro la federazione che lo aveva ingiustamente squalificato, tagliò il traguardo nella gara successiva alla squalifica a Unadilla girato al contrario sulla sua moto e che durante i festeggia menti per la vittoria, con lo champagne inondò tutti i documenti all’interno della direzione gara, era rimasto a piedi? Incredibile ma vero. Fortunatamente nell’inverno arrivò una chiamata dalla Kawasaki UK che gli proponeva di partecipare al campionato mondiale della classe 500, a fianco del titolato Georges Jobè. Danny prese la palla al balzo, si trasferì in Europa con la moglie Tracy al seguito, e adottò la licenza irlandese. Ma durante le prime gare della stagione gli fu comunicato che la sua moto non avrebbe avuto le specifiche ufficiali, e che il suo compito sarebbe stato quello di spalleggiare il pilota di riferimento del team e cioè il suo amico Jobè. Danny non accettò la cosa e declinò l’offerta, ma chiusa una porta si aprì il portone KTM che lo ingaggiò immediatamente. L’annata non andò male ma fu costellata da infortuni e incidenti. Il culmine

Danny lo raggiunse con la vittoria assoluta nel secondo gran premio della stagione in Francia. Era chiaramente un pretendente al titolo, nonostante le sue menomazioni fisiche e una moto non certo paragonabile ai missili ufficiali Honda dei grandissimi Thorpe e Malherbe. Chiuse comunque il campionato del mondo al settimo posto, nonostante avesse saltato per infortunio parecchie gare ed in altre non era in condizioni tali da poter ben figurare, come ad esempio nel gran premio di casa a Carlsbad. Vorremmo comunque aprire il capitolo Montevarchi, sede del prestigioso gran premio d’Italia che si disputava come tradizione per il nostro paese, nel mese di Giugno. Al sabato pomeriggio, dopo la sessione di prove ufficiali era prevista un ulteriore sessione di prove libere. Per i più giovani, ricordiamo che in quel periodo il circuito presentava un lungo rettilineo che immetteva sul piazzale di partenza, intervallato da due grossi salti. Danny andò in fissa per provare a saltarli in un’unica soluzione. Il classico doppio, solo che di doppio salto non aveva proprio niente data la distanza tra i due dossi. Ma Danny era sicuro di farcela e lo confidò ai suoi colleghi Malherbe e Thorpe. Provò almeno cinque volte e al primo tentativo ci andò molto vicino. Alla fine gli fu intimato di rientrare ai box dai suoi disperati meccanici che non sapevano più come fermarlo, ma a suggello dell’incredibile tentativo va detto che tutti, ma proprio tutti i suoi blasonati avversari, si fermarono a guardare Danny impegnato nella sua impresa ai limiti dell’ impossibile. La domenica nella prima manche fu protagonista di una infelice partenza e durante la velocissima rimonta fece addirittuta un testacoda di 360°. Durante la risalita verso le posizioni di vertice, il link della sospensione posteriore pensò bene di rompersi all’imbocco dell’ultimo discesone, causando l’ennesima disastrosa caduta e lasciando il suo amico Brad Lackey attonito in cabina di commento. Danny si risvegliò in ospedale a Montevarchi fortunatamente “solo” con una lussazione alla spalla e molti tagli sulla faccia. La fortuna andrebbe anche aiutata ma Danny era sicuramente in debito con essa. All’epoca nelle Marche era molto in auge un torneo internazionale che tutti ricorderanno, ovvero la Coppa 1000 $ che prevedeva tre gare: San Severino, Apiro e il gran finale il 15 Agosto a Esanatoglia. Nell’edizione del 1985 Danny fu ingaggiato per le prime due gare ed ebbe modo di raggiungere il suo grande amico Donnie Cantaloupi, anche lui in Europa sotto contratto Husky Italia per correre il mondiale 250. Il debutto avrebbe dovuto essere a San Severino ma il nostro, sempre per le conseguenze della caduta di Montevarchi, dovette rinunciare alla gara pur essendo presente in circuito. I rumours dell’epoca riportano che al momento di arrivare in paese, scese dalla macchina nella piazza principale completamente nudo, si era ai primi di Luglio, e allo strabuzzare di occhi dei presenti, candidamente si infilò un paio di shorts... un “classic Magoo”. L’appuntamento seguente del torneo prevedeva la tappa ai Piani di Apiro. Danny era ancora sofferente al punto che i meccanici dovevano aiutarlo a indossare la pettorina e addirittura non si qualificò per la gara lasciando profondamente delusi i tanti appassionati marchigiani. Si rese comunque protagonista, a suo modo, di un gustoso episodio durante le visite mediche del sabato, quando calò letteralmente i pantaloncini a Michele Rinadi che diventò rosso come un peperone. Insomma, il nostro eroe era l’incor-

reggibile burlone di sempre. Finita la stagione mondiale, Danny fu ingaggiato dal Team Kawasaki Italia gestito dal compianto Nazareno Cinti che grazie anche agli sponsor, gli garantì un ottimo ingaggio, si parlò di 400.000 $, per affrontare il mondiale 500 del 1986. Danny si sarebbe trasferito in Italia da fresco papà, vista la nascita della primogenita Keylight. La prima gara con i nuovi colori fu al Genova Superbowl dove però l’avversione ai tracciati indoor si manifestò in tutta la sua evidenza, con parecchie cadute che lo esclusero da posizioni di rilievo. Si arrivò quindi al prestigioso appuntamento con il supercross di Parigi Bercy. Danny era tra gli iscritti, insieme al gotha del motocross mondiale. L’inizio della fine. Sul salto del traguardo voleva prodursi nel suo solito show con moto di traverso e mano via dal manubrio ma il tentativo fallì e Danny cadde rovinosamente addosso ad un cameraman fratturandosi la vertebra C-5. Le urla che risuonarono all’interno del palasport non lasciavano presagire niente di buono e infatti Danny ne uscì, dopo giorni di ricovero in un ospedale parigino solo e abbandonato da tutti, tetraplegico. Una notizia devastante per i tanti appassionati che lo avevano ammirato negli anni e che ormai lo consideravano un vero e proprio mito. A nostro parere la perseveranza di farlo gareggiare nelle gare indoor fu una scelta assolutamente sbagliata sia per la sua attitudine, sia per le sue caratteristiche tecniche, come giustamente De Coster aveva intuito, ma probabilmente gli ingaggi erano così buoni che si sorvolò su queste sacrosante considerazioni. Tenendo comunque conto che il motocross è in ogni situazione uno sport pericoloso, visto anche l’incidente occorso un anno dopo a David Bailey, un pilota che come carattere e stile, era all’opposto di Danny. Decisamente un periodo maledetto per il motocross. Tornato in America, Danny dovette affrontare tre mesi di ricovero ospedaliero e sostenere spese mediche per 200.000 $ in

quanto non era coperto da assicurazione personale. Spese che dato il periodo erano veramente una cifra enorme, in parte mitigata dai fondi raccolti durante una gara organizzata in suo onore ad Hangtown che vide al via tutti i più grandi piloti statunitensi. Da questo terribile incidente Danny cominciò la sua nuova vita, forse la più significativa e formativa. Da una grossa tragedia si può uscire in due modi: o soccombendone o ripartendone con più forza interiore e con una diversa consapevolezza. Danny provò sulla sua pelle tutti gli aspetti legati a queste considerazioni. Visse le fasi più cupe della sua esistenza cercando in tutti i modi di farla finita e abusando di ogni vizio. Nel giro di poco tempo si separò da Tracy e perse per gravi malattie entrambi i suoi genitori. Le difficoltà economiche attanagliarono sempre più la sua esistenza e passò periodi della sua vita in condizioni veramente miserevoli. Solo gli amici più stretti erano quelli che in qualche modo riuscirono a fargli sentire la loro presenza anche a dispetto delle enormi distanze tipiche degli Stati Uniti. Ci fu ad esempio chi gli spediva dal Michigan carne di cervo e lui condidamente ringraziava evidenziando però il fatto di come non avesse nessuno che gliela potesse cucinare... cose che fanno ancora male ricordare. A parziale ma prestigiosa consolazione nel 1999 fu giustamente inserito da AMA nella prestigiosissima Hall of Fame, così come succede a tutti i più grandi campioni statunitensi. Poi, come in tutte le belle storie che ogni tanto la vita offre, la rinascita sotto forma della fondazione da lui creata insieme ad un paio di amici, per sensibilizzare i giovani sulla cultura della sicurezza nello sport del motocross e soprattutto per sensibilizzare i giovani sulla necessità di dotarsi di una assicurazione sanitaria personale perchè, vista la sua esperienza, non si poteva certo pensare di sopravvivere grazie alle sole donazioni nell’eventualità di gravi incidenti. Danny andava nelle scuole, organizzava incontri con i ragazzini, insegnava i rudimenti della guida. Questa attività gli creò nuovi stimoli per affrontare finalmente con positività, la sua condizione fisica che,

purtroppo, stava a poco a poco peggiorando. In Europa era rimasto nel cuore degli appassionati e l’ultima occasione di rivederlo fu grazie al promoter del campionato mondiale che lo invitò in occasione del Trofeo delle Nazioni a Franciacorta nel 2009, trattandolo con tutti gli onori. Il buon Danny, come testimoniarono in molti che ebbero la fortuna di incontrarlo per una foto o per uno stentato autografo, non era affatto in buone condizioni, magrissimo e con lo sguardo spento, ma nessuno avrebbe potuto immaginare che da li a qualche mese e più precisamente il 4 Maggio 2010, ci avrebbe lasciato a soli 51 anni per una maledetta e banale infezione alle vie urinarie, visto che il povero ragazzo non poteva permettersi di sostituire il catetere tutti i giorni, a causa delle persistenti difficoltà economiche. Sono cose terribili ma vanno dette per tributargli il giusto merito. Uno sportivo che non ha mai dato meno del

100% non meritava assolutamente una fine simile. Resta il rammarico nel pensare che se solo i social fossero stati rilevanti all’epoca come lo sono adesso nelle nostre vite, sicuramente il mondo del motocross avrebbe fatto di tutto per allievare le sue difficoltà. Difficoltà accentuate dal fatto che lui, da buon boscaiolo, era assolutamente riluttante nel chiedere qualsiasi forma di sostegno. Danny se ne andò proprio quando il suo caro amico Lackey era riuscito a raccogliere abbastanza fondi per acquistare un furgone attrezzato con cui avrebbe potuto muoversi più agevolmente per portare avanti le sue iniziative, ma tant’è. Oggi Danny riposa nel piccolo cimitero di montagna di Michigan Bluff. In mezzo ai suoi boschi che tanto avevano contribuito a forgiare il suo carattere. Riposa in pace piccolo grande Magoo.

P.S. Per chi ne volesse ripercorrere le gesta è possibile trovare su Youtube il documentario Wild Magoo. Si ringraziano Jeff Frank, Billy Da Prato e Jimmy “The Jammer” Robertson per la preziosa collaborazione.

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