Strumenti cres 57

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strumenti cres 57 – supplemento al n. 473 di manitese – luglio/agosto 2011

spunti di riflessione

03  Il dovere di studiare e la (finta) libertà di non studiare

parole, musiche, immagini

di Gianluca Bocchinfuso

41  Bibliografia ragionata

04  Un confronto illuminante

a cura di E. Assorbi, A. Di Sapio

43  La “costruzione del nemico”

In caso di mancato recapito inviare al CMP di Milano Roserio per la restituzione al mittente che si impegna a corrispondere i diritti postali.

a cura di Piera Hermann

07  Solo un danno collaterale?

Note a margine di un saggio breve di U. Eco

a cura di Elisabetta Assorbi

44  La rabbia del vento (S. Yizhar)

di Antonio Tricarico

12 Cibinviaggio

Inventa un gioco sul diritto al cibo, vinci la cena di classe a km zero! proposte didattiche

14  La terza R e Candelaria Romero

Un incontro che ha lasciato il segno

a cura di Valentina Rossi

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a cura di Dunia Martinoli

segnalazioni 45  Segnalazioni bibliografiche 46  Le nostre pubblicazioni

17  dossier

Parole, parole, parole …

Restituire senso e dignità alle parole


Parole, parole, parole … editoriale

Eppure … Il Cres invecchia! Non conforta il fatto che è fisiologico che i membri dell’associazione avanzino negli anni. Il punto è che non si profila quel ricambio generazionale che abbiamo sempre auspicato: “invecchiamo senza crescere” anche noi come l’Italia degli economisti? Da anni ci spendiamo sull’Educazione del Cittadino (quello necessario oggi!) come sintesi e coinvolgimento delle Educazioni ( pace, intercultura, sobrietà ecc.) che devono essere asse portante dell’insegnamento…..ecc. ecc. ecc. Non stiamo qui ad entrare nel merito di tutto ciò, ma può apparire innegabile che si vada nella direzione opposta! La scuola ha sempre meno cure, meno fondi, meno personale, meno prestigio. Gli insegnanti sono invitati a ‘tornare indietro’, al modello ‘io spiego e tu ripeti’, a canoni disciplinari acriticamente accolti, ad epistemologie ampiamente superate dal sapere contemporaneo. Lo vuole certa politica, lo vogliono i genitori che legano il prestigio di un istituto al numero delle bocciature e anche molti tra gli stessi insegnanti, indotti a pensare che ‘in queste condizioni!’ non si possa fare altro. E poi l’idea fondante di scuola pubblica è malmenata in ogni modo. Sempre più spesso nelle città le famiglie ‘bene’ mandano i propri figli in quelle scuole private facoltose che danno loro ciò che la scuola pubblica sperava di poter mettere a disposizione di un numero sempre maggiore di studenti: uscite e viaggi, esperienze, orientamento individualizzato, cultura cosmopolita, lingue (guarda che strano, nessuno di questi genitori sembra preoccuparsi dell’apprendimento del dialetto!) …

Eppure…

Eppure, nonostante tutto ciò, noi del Cres crediamo che la nostra fatica sia stata non solo ben spesa, ma conservi, forse oggi più che mai, tutto il suo valore di proposta non solo giusta, ma sensata.

Sensata perché ne abbiamo conferma dagli insegnanti che trovano i nostri libri, gli articoli, i corsi di formazione utili per i loro bisogni e per quelli degli studenti. Sensata perché ben radicata nella forza innovatrice che ha trasformato “dal basso” la scuola italiana; certo non nella sua totalità, ma portando molto spesso a risultati d’eccellenza che hanno il solo difetto di essere molto poco conosciuti perché nella collettività esiste solo un’immagine della scuola stereotipata e monocorde. Sensata perché portatrice di pathos e valore etico, la cui mancanza è tra i caratteri più urticanti della società che vorrebbe imporsi, come dimostrano ormai esplicitamente iniziative, movimenti, ecc. Sensata perché niente affatto isolata a livello internazionale, ma anzi in linea con l’Europa istituzionale e con le innumerevoli reti transnazionali di riflessioni e buone pratiche. Ma sensata soprattutto perché le idee che ci orientano sono già al lavoro nella società contemporanea! Molto più di quanto siamo portati a credere dalla dis– informazione in cui siamo immersi. Certo la famosa “Incertezza” ha generato paura, ma ha anche dato vita nel sociale ad un fiorire appassionante di sperimentazioni, innovazioni, contatti e confronti. Il mondo infatti, per fortuna, non ha solo il senso critico di una saggia vecchiaia, ma anche l’audacia e la fruttuosa creatività della gioventù. E allora concludiamo che lo slogan che invoca la ‘resistenza’ non ci basta! Non solo per noi, ma per tutta la scuola italiana ci vuole un vero e proprio scatto di orgoglio. Sentirsi solo vittime deprime l’iniziativa e finisce con l’avallare l’impotenza. Non parliamo solo di ciò che ci manca (è un circolo vizioso che invera sé stesso), ma soprattutto di quanto facciamo e vogliamo fare! Checché se ne dica, i protagonisti della scuola siamo noi insegnanti (e naturalmente i ragazzi, ma il loro protagonismo dipende da noi, altrimenti si girano altrove!).

E poi…

Periodico in pdf

Per ricevere il periodico in formato pdf scrivi a: cres@manitese.it. un piccolo gesto che permette di ridurre la nostra impronta ecologica quotidiana.

E poi ogni giorno abbiamo davanti i nostri allievi. Possiamo anche non condividere tante cose che ci dicono l’Europa, i pedagogisti, i disciplinaristi illuminati e, nel suo piccolo, il Cres: ma dobbiamo ricordare che ogni nostra scelta o non–scelta comporta sempre una responsabilità di quanto facciamo per loro. Poniamoci con empatia ed intelligenza. Noi che scriviamo e voi che ci leggete. Ci sarà un “ringiovanimento” del Cres? Piera Hermann


Strumenticres n°57 – ottobre 2011

Il dovere di studiare e la (finta) libertà di non studiare di gianluca bocchinfuso

«Tutti gli uomini per loro stessa natura desiderano imparare» – aristotele –

Il recente libro di Paola Mastrocola sulla scuola (Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda, Parma 2011, pp. 271), che tanto ha fatto discutere e scrivere, potrebbe essere licenziato in due punti: 1) è un finto saggio (per sua stessa ammissione nel testo) e quindi ha una visione parziale della scuola legata solo al percorso liceale (anche se non manca di bocciare in toto elementari e medie perché «non insegnano più a scrivere») e all’idea che l’autrice ha sull’argomento tra storia e memoria personale; 2) pone l’accento solo sugli studenti, caricandoli, in maniera generalizzata, di tutti i mali possibili – «il vero problema è che i nostri giovani non hanno nessuna voglia di studiare» (pag. 33) – e arrivando alla sintesi che la scuola è, esiste, vive solo per i bravi, per quelli che studiano. Sul verbo studiare torneremo più volte. Detta così, anche una lettura critica (che è sempre soggettiva) avrebbe poco senso perché il libro risulterebbe subito smontato nei suoi due pilastri principali e il resto lo seguiremmo con l’andamento romanzato del racconto. Smontato perché non ha il rigore del saggio soprattutto nella pagine centrali – Parte seconda. Breve storia del non studio – in cui Rodari, don Milani, la didattica per competenze e l’uso di internet sono affrontati da un punto di vista (legittimo!) talmente personale da diventare un’opinione tra le tante che, alla lunga, non giova alla discussione e al confronto sulla scuola. Col rischio di scivolare nel facile populismo e nella demagogia che spesso aleggiano tra chi si occupa – competente o non competente – di questioni scolastiche. Alcuni esempi di rinforzo rispetto a quanto affermo: «Com’è possibile far fuori così i contenuti (le “nozioni”!?). Eppure la pensiamo ancora così: oggi più che mai si vuole questo, e lo si teorizza con l’esaltazione

«Ogni parola che non capite oggi, è un calcio nel culo che prendete domani»

della metodologia, l’esecrabile vittoria dei metodi sui contenuti, dei “modi” di insegnare sulle “cose”, effettive e basilari, che dovrebbero essere insegnate» (pag. 111): un buon lavoro metodologico si fonda su una severa scelta dei contenuti (non sulla loro scomparsa) adatta allo sviluppo del curricolo o di parti di esso (non del programma ministeriale sempre uguale a se stesso) in relazione alla classe e alla fondazione/ rinforzo delle competenze; «Non facendo più grammatica e letteratura, noi stavamo implicitamente togliendo ai nostri ragazzi la possibilità di capire le parole, il senso astratto, simbolico, plurivoco delle opere più alte dell’ingegno umano» (pag. 112): è un’affermazione generica che tralascia il vero problema, cioè le competenze (e non solo le conoscenze mai ad usum Delphini) degli insegnanti per fare vivere e amare la letteratura e far emergere nello studente l’importanza della grammatica nella loro vita quotidiana; «[…] di colpo abbiamo ritenuto noiose materie come la grammatica,

– don lorenzo milani –

la storia, la letteratura, e abbiamo deciso quindi di non farle più, o di farle di meno. O di farle senza grande convinzione. O di trasformarle in una versione più allegra e divertente: in un gioco, appunto. Così abbiamo dato inizio alla “scuola del gioco”: la scuola è gioco, l’insegnante insegna giocando e gli alunni giocano imparando, e tutti sono felici e contenti» (pag. 118): «educa i ragazzi – ripeteva Platone – col gioco, così riuscirai meglio a scoprire l’inclinazione naturale»; aggiungo che non esiste una modalità per insegnare e fare apprendere tutto: il bravo insegnante sceglie, misura, verifica quale pratica è più consona all’apprendimento dei suoi allievi e, se scopre che il gioco in alcuni contesti è favorevole, lo gestisce da professionista facendolo agire in modo diverso ai sui allievi; «il sapere tout court non importa più a nessuno» (pag. 139): la coniugazione coerente tra sapere e sapere fare dovrebbe essere la bussola di ogni insegnante che sa interrogarsi, sa optare, riesce a capire i bisogni e non soltanto mettere numeri dopo lezioni dottrinali; «Guardare, leggere, stampare sono i verbi che hanno sostituito il verbo studiare: la cosa più grave è che, però, ci danno l’illusione di aver studiato. Noi usciamo da internet con l’illusione di sapere, questo è il guaio» (pag. 164): è vero, ma cosa fa la scuola per rendere realmente consapevole l’uso delle nuove tecnologie? In che modo le fa stare accanto ai libri? Cosa fa l’insegnante oltre a criticarle pur sapendo che il mondo non si ferma? Dove sta la ricerca? Dov’è il ruolo dell’educatore e del facilitatore? Solo accuse e il problema rimane. L’intento nostro è quello di entrare nel merito delle argomentazioni dell’autrice perché ella stessa è professoressa e quindi attrice–protagonista della scuola che vive e racconta. Chi scrive è insegnante di let-

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Parole, parole, parole … spunti di riflessione

UN CONFRONTO ILLUMINANTE

tere come l’autrice e non ha mai pensato che un ragazzo in formazione potesse fare a meno della scuola. Non l’ha mai pensato neppure per l’adulto, che dovrebbe ragionare e agire come se fosse in perenne formazione. Un libro sulla libertà di non studiare risulta un ossimoro anche per gli studenti delle classi agiate di cui tanto si parla: quelli che potrebbero fare a meno della scuola perché hanno già il futuro prospero, preparato da mamma e papà. Lo studio non è solo l’atto dello studiare – l’autrice spiega nel libro e lo ha sottolineato anche nella trasmissione di Fabio Fazio che «studiare significa stare fermo, seduto, per molte ore, chiuso in casa da solo. Studiare è fare entrare parole nella testa che apparentemente non rendono immediatamente» – ma è anche la capacità di avere un punto di vista sulle cose e i fatti; la possibilità di curiosare tra la conoscenza maneggiando strumenti e linguaggi adeguati; la consapevolezza che quello che impara una persona può essere appreso da altri in maniera condivisa; è partecipazione; assunzione di ruoli; responsabilità. Questi elementi dello studio sono filtrati dall’atteggiamento dell’insegnante che non può essere solo colui che «fa lezione e spiega» – con l’alunno «che ascolta, prende appunti, studia e ripete» – e poi «interroga» (pp. 22, 23): un insegnante così – solo così – non fa il minimo sforzo di vedere chi ha di fronte, quali bisogni stanno nella sua classe, quali contenuti scegliere, quali tematiche/argomenti/autori trattare, quali verifiche dare, cosa misurare e cosa valutare, quali potrebbero essere le “buone pratiche di insegnamento” per avere un minimo di apprendimento consapevole. L’insegnante della Mastrocola – …“io so, ho studiato, ho frequentato l’università, ho vinto un concorso, ho tutti i titoli per spiegare Tasso, Ariosto, Manzoni, Omero, ecc”… – si rifugia dietro la pratica più semplice (e anche più monotona e banale) dell’insegnamento: spiegazione–interro-

LIBERO ASSEMBLAGGIO DI FRASI DEL LIBRO “TOGLIAMO IL DISTURBO…” (di P.Mastrocola, Guanda) (…) tutti gli studenti (…) di tutte le scuole di Torino, d’Italia, d’Europa (…) sono così: ammassati fuori a parlare, parlottare, stazionare, sfumacchiare. Ombre, lemuri. Spettrali. (…) Hanno ciuffi scomposti e occhi addormentati. Giubbotti striminziti e jeans abbassati e lunghissimi, con la stoffa che si accascia esorbitante sul collo delle scarpe. Le mani in tasca, lo zaino in spalla, i cinturoni bassi, le scarpe da ginnastica grosse, gonfie, colorate. A volte dorate. Hanno zaini obesi, spropositati, appesi a una spalla, sbattuti a terra, carichi di scritte, adesivi, mostri, piccoli peluche, “peluscini”. (…) Hanno gli occhi cerchiati, tristi, il naso pieno di sonno, le spalle curve, la braccia penzole, inerti. Lo sguardo perduto nel nulla, la bocca semiaperta, i capelli stanchi, le orecchie assenti. Anche i brufoli, chi li ha, sono scoraggiati, pallidi brufoli, muti, apatici. (…) Forse una stanchezza cosmica impedisce loro la posizione eretta”.[Sono ragazzi che stanno] perdendo il dono della parola(…) pressoché muti, [che] parlano anche se non hanno niente da dire. (…) così vestiti tutti uguali, così omologati come un prodotto marchiato Ue. Da un anno all’altro si mettono i jeans larghi o stretti, la felpa col cappuccio o senza, le scarpe basse o alte, di tela o di pelle, colorate o bianche: dipende da come gira la moda. Come se passasse un vento fittizio che li chiama da un istante all’altro, tutti insieme, e li dirige, li comanda. (…). I capelli nero–viola tinto, i giubbotti troppo stretti, i piercing al naso, le loro ragazze strizzate nei jeans stretch, caviglie inanellate, scarpine traballanti sul tacco (…). Procedono in massa compatta, e tagliano

l’aria come un esercito lento e assonnato. [Le ragazze] compongono linee orizzontali a braccetto l’una con l’altra procedendo a far barriera, a lunghi passi, sicure, truccate, pantere. [I ragazzi] uno dietro l’altro e di lato, confusi, si ingrappolano cambiando di continuo posto, si sorpassano, strattonano, inciampano, sbracciano, scalciano. O sostano. Sostano l’intero pomeriggio. Davanti a negozi di elettronica, bar, mercati, outlet. Anche davanti a niente, sostano e basta. Rumorosamente stanno. Ridono, sgomitano, strattonano. Si appendono ai reciproci giubbotti e dondolano, ondeggiano. (…) Il loro modo di portare le mutande (siano Armani o Intimissimi) fuori dai pantaloni è orribile, servile e volgare. (…) Nessuna battaglia increspa mai le loro menti, le loro voci, i loro gesti. (…) Forse sono solo, qua e là, percorsi da un sottile malessere interiore, qualche piccola nuvola alta, leggera, che poi va via. (…) Fanno versi gutturali, mezze sillabe. Gracchiano, ululano, grugniscono, ruttano. Ogni tanto si spintonano, si insultano, si palpano. (…) entità fittizie, immagini virtuali, fantasmi, zombie che popolano le aule. Figurine disegnate sedute ai banchi, cartoni animati che fintamente aprono un libro, fintamente prendono appunti, fintamente parlano all’interrogazione, ma che nella sostanza non sono presenti. (…) Non voglio dare un giudizio negativo di questi ragazzi, anzi, sono persone gentili e simpatiche, educate, affabili, anche rispettose. (…) Semmai, mi suscitano una qualche compassione. E poi, sono figli del nostro tempo.”

Paola Mastrocola è scrittrice molto brillante che ha avuto grandi soddisfazioni editoriali e sicuramente, date le notevoli capacità più volte dimostrate, potrà scrivere ancora


Strumenticres n°57 – ottobre 2011

UNA METAFORA: DA “DIARIO DI SCUOLA” (di D. Pennac, Feltrinelli, pag.240–241) È vero, da noi è sconveniente parlare d’amore nell’ambi­to dell’insegnamento. […]. Meglio ricorrere alla metafora per descrivere il tipo di amo­re che anima[…] la maggior parte di quel­li che mi invitano nelle loro classi e tutti gli infaticabili che non conosco. Metafora, quindi. Una metafora alata, per l’occasione. […] Una mattina dello scorso settembre. Primissimi giorni di settembre. Mi sono addormentato tardi su una qualche pagina di que­sto libro. Mi sveglio ansioso di proseguire. Sto per saltar giù dal letto ma un sottile chiasso mi ferma. È tutto un garrire in­torno alla casa. Garriti diffusi, intensi e tenui insieme. Ah! si, la partenza delle rondini! Ogni anno, intorno alla stessa da­ta, si danno appuntamento sui fili della luce. Campi e bordi delle strade si coprono di spartiti come in un’immagine da quattro soldi. Si apprestano a migrare. E lo schiamazzo del ricongiungimento […], tutte frementi del desiderio di orizzon­te. Spicciatevi che si va! […] Volano velo­cissime. Vengono da nord, in schiere hitchcockiane, dirette a sud. Ed è esattamente l’orientazione della nostra camera da letto: nord, sud. Un abbaino a nord, una doppia finestra a sud. E ogni anno lo stesso dramma: ingannate dalla traspa­renza di quelle finestre allineate, un bel po’ di rondini vanno a schiantarsi contro l’abbaino. Niente scrittura, quindi, sta­mattina. Apro l’abbaino a nord e la doppia finestra a sud, mi rituffo nel letto, ed eccoci occupati per la mattina a guarda­re squadriglie di rondini attraversare la nostra stanza, im­provvisamente silenziose, forse intimidite dalle due figure co­ricate che le passano in rassegna. Il fatto

è che, ai due lati del­la doppia finestra, due sottili vetri fissi rimangono chiusi. […]. E, immancabilmente, tre o quattro di quelle scemotte vanno a sbattere contro i vetri fissi! È la nostra percentuale di somari. Le nostre devianti. Quelle che non stanno in riga. Che non seguono la retta via. E goz­zovigliano ai margini. Risultato: vetro fisso. Toc! Tramortita sul tappeto. Allora uno di noi due si alza, prende la rondine stordita nel palmo della mano – non pesa quasi niente, ossa piene di vento –, aspetta che si risvegli, e la manda a rag­giungere le sue amiche. La resuscitata vola via, ancora un po’ intontita, zigzagando nello spazio ritrovato, dopodiché pun­ta dritto a sud e sparisce nel suo avvenire. Ecco, la mia metafora vale quel che vale, ma è questo l’a­more in materia di insegnamento, quando gli studenti vola­no come uccelli impazziti. A questo la professoressa G. o Ni­cole H. hanno dedicato tutta la loro esistenza: salvare dal co­ma scolastico una sfilza di rondini sfracellate. Non sempre si riesce, a volte non si trova una strada, alcune non si ridesta­no, rimangono al tappeto oppure si rompono il collo contro il vetro successivo; costoro rimangono nella nostra coscien­za come le voragini di rimorso in cui riposano le rondini mor­te in fondo al nostro giardino, ma ogni volta ci proviamo, ci abbiamo provato. Sono i nostri studenti. Le questioni di sim­patia o di antipatia per l’uno o per l’altro (questioni quanto mai reali, ci mancherebbe) non c’entrano. Nessuno di noi saprebbe dire il grado dei nostri sentimenti verso di loro. Non di questo amore si tratta. Una rondine tramortita è una rondine da rianimare, punto e basta.

opere che avranno il meritato successo editoriale e un pubblico affezionato. Ecco perché, penso, potrebbe ragionevolmente dire alla scuola “Tolgo il disturbo”… Piera Hermann

gazione con l’indicazione tassativa di volere ascoltare solo ciò che è stato spiegato. Come non ricordare Antonello Venditti in Compagno di scuola: «Le otto e mezza tutti in piedi/ il presidente, la croce e il professore,/ che ti legge sempre la stessa storia/ sullo stesso libro, nello stesso modo, con le stesse parole/ da quarant’anni di onesta professione./ Ma le domande non hanno mai avuto una risposta chiara»; oppure Luigi Pirandello de L’esclusa: «Luca Blandino, professore di filosofia al Liceo, sui cinquant’anni, alto, magro, calvissimo, ma in compenso enormemente barbuto, era un uomo singolare, ben noto in paese per le incredibili distrazioni di mente a cui andava soggetto. Aggiogato per necessità e con triste rassegnazione all’insegnamento, assorto di continuo nelle sue meditazioni, non si curava più di nulla né di nessuno». Nel mezzo, il deserto. Perché spiegare e interrogare sono solo due delle pratiche dell’insegnamento. E il resto dov’è? Tutti gli elementi dell’insegnamento–apprendimento che rimettono in gioco – di anno in anno – l’insegnante! Lo ri–calibrano in relazione agli studenti che ha di fronte; lo impegnano a cercare soluzioni, strategie, modalità, tempi, contenuti adatti alla sua classe (e solo a quella) in una continua ricerca di equilibri e di risposte. Tutto questo – che l’autrice a più riprese nel libro sberleffa come innovazione fine a se stessa senza entrare nel merito del piano pedagogico e didattico: un rifugio coatto nel passatismo in nome del nozionismo e dei contenuti che nessuno ha mai eliminato – comporterebbe un decentramento continuo dell’insegnante. Acquisterebbe importanza lo studente con la sua storia, i suoi bisogni, la sua motivazione, le sue conoscenze, i suoi strumenti, le sue abilità. E l’insegnante, sul modello della Mastrocola, questo non lo sa e non vuole farlo. Significherebbe ricerca–azione, riflessività, co–gestione delle buone pratiche con i colleghi, lavoro in équipe, formazione permanente, misurazione

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Parole, parole, parole … spunti di riflessione degli esiti formativi, progettazione e programmazione curricolare, verticalizzazione del curricolo, merito. In maniera più semplice, l’insegnante non dovrebbe mai smettere di essere studente, di assumere un altro punto di vista sulle cose e di mettere in gioco il suo ruolo in relazione alla società che vive, ai linguaggi che cambiano, alle esigenze che nascono. Capite bene che, ognuna di queste voci richiederebbe un articolo a sé per essere sviscerata dal di dentro e per andare a svelare dove si annida il “male” della scuola e la poca voglia di imparare degli studenti. Temi che il libro della Mastrocola non tratta. La sua visione della scuola si ferma alla spiegazione e all’interrogazione: chi sa, sa; chi non sa, non sa, non ha studiato (in difesa degli studenti – da questi insegnanti! – viene in mente Oscar Wilde: «agli esami, gli sciocchi fanno domande cui i saggi non sanno rispondere»). Diventa semplice poi, come fa l’autrice e come ha ripetuto anche in televisione, proporre «una nuova scuola spazzando via quello che c’è e fare una scuola di quindici anni obbligatoria e durissima: italiano appreso in modo perfetto, matematica, lingue straniere, storia e geografia. Dopo questa scuola dell’obbligo uno studente sceglie se continuare o andare a lavorare». Questa proposta non risolve il problema perché uno dei protagonisti della

scuola, l’insegnante, non viene messo in discussione, non gli viene chiesto di assumere ottiche diverse e di diventare esperto della materia oltre che della disciplina. Il vero insegnante è quello che scende dal piedistallo della disciplina e la trasforma in materia, in sapere insegnato che trova forza e linfa attraverso metodi, strumenti, linguaggi, tempi adeguati allo scopo: cioè all’apprendimento di chi sta di fronte che, in quanto tale, è unico. Cambia di anno in anno. Presenta nuove istanze e obbliga a ripensare sempre i piani di lavoro. Difficile, certo, ma “questa” è la scuola. E, dato che «non si è mai troppo vecchi per imparare» diceva Seneca, l’insegnante deve ritornare ad imparare e farlo in maniera continua. Perché altrimenti ogni Riforma della scuola diventa una scelta reazionaria e ogni punto di vista diventa facile rifiuto del presente e rifugio in una posizione passatista e, per questo, fuori dalla realtà. E poi gli studenti. Conoscenza e sapere come attori della scuola non sono mai stati praticati e accettati dagli studenti tout court. Non sono mai esistite e non esisteranno generazioni di studenti innamorate dell’andare a scuola. Tutti siamo stati «gruppi marmorei» davanti ai cancelli della scuola, anche tra «nebbie mattutine». Sono esistiti ed esistono singoli studenti amanti dello studio. Ed è

Ugo Pierri Tarocchi: Il matto

normale. Gli studenti diventano «nonstudianti» (Parte prima del libro, pp. 13–84) quando sentono che l’adulto che hanno di fronte, il loro professore, non chiede a loro nulla, non cerca dentro di loro nuove risposte, non li spinge socraticamente a individuare stimoli, azioni, idee, modalità di ricerca. Non fa praticare lo studio. Li tratta come esseri non pensanti, parassiti ai quali dare un bel numero da 2 a 10. Ai «nonstudianti», il cattivo insegnante continua a ripetere se stesso, quello che ha imparato, in un rapporto docente–discente che diventa, dopo poco tempo, dicotomico e irreversibile. In classe domina la sfera dell’insegnamento perché non è curata per nulla quella dell’apprendimento: quest’ultimo, oggetto misterioso e difficile perché richiede sempre nuove cure, Tasso o non Tasso. Un’ultima riflessione, quasi un post–it. Per quanto mi riguarda, la scuola deve offrire agli studenti conoscenze e competenze che permettano ad ognuno di spendersi nell’arco degli studi e della vita. Questo sapere e questo sapere fare comprendono anche pezzi di conoscenza appresi per piacere, per passione: i cosiddetti contenuti inutili. Per fare questo, lo studente deve studiare, da solo e con gli altri; deve avere la possibilità di maneggiare giusti strumenti; deve sapere riconoscere tempi e modalità di lavoro a scuola e a casa. Ma queste cose, lo studente non le inventa da sé. Passano dal lavoro dell’insegnante che, in quanto tale, dovrebbe muoversi sempre da buon maestro, costruendo pezzo per pezzo persone assetate di risposte e di voglia di imparare. La scuola, nel triangolo docenti–studenti–genitori, deve ripartire da una seria riflessione sugli insegnanti e sul loro modo di lavorare. Gli studenti non li riconoscono più come tali. Ogni altro discorso rischia di diventare inutile. E un bravo insegnante, se lo lasci dire, professoressa Mastrocola, è colui che attende alla prima ora gli studenti già in classe, che dà loro importanza, che dà un “buongiorno” guardandoli uno ad uno negli occhi e rinnovando ogni giorno il “patto di conoscenza e di lavoro” già dal saluto. Perdersi tra loro e i loro peluche sulle scale, al suono della campana, è segno di scarsa importanza verso chi si deve incontrare. In una classe. Per un nuovo lavoro quotidiano. Pensato, organizzato e bidirezionale. Sempre misurabile e verificabile. Quindi in divenire.


Strumenticres n°57 – ottobre 2011

Solo un danno collaterale?

Alla ricerca di una via d’uscita per “tutti” i paesi del pianeta* di Antonio Tricarico, Coordinatore CRBM – programma di Mani Tese

“Condivido la visione che il controllo centrale dei movimenti di capitale, sia in entrata che in uscita [da un paese] debba essere una caratteristica permanente del sistema post–bellico”

– john maynard keynes –

(* Il presente articolo è il terzo ed ultimo di una serie di analisi e riflessioni sull’impatto della crisi finanziaria ed economica sui paesi in via di sviluppo realizzate nell’ambito del progetto finanziato dalla Commissione Europea “Towards a global financial system fit for development. Building awareness, mobilising opinion”)

La crisi finanziaria, divenuta poi una grave crisi economica e sociale, ha provocato un vivo dibattito sulle riforme, con centinaia di proposte discusse sui media, alle riunioni di esperti e nelle commissioni politiche. Se l’analisi delle sue cause scatena polemiche, alludendo a conflitti di interessi evidenti o nascosti, anche il dibattito sulle alternative è fumoso e pervaso da contraddizioni. I maggiori organi politici multilaterali presso i quali si stanno discutendo e in un certo senso anche elaborando concretamente delle riforme sono il G20, il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria,1 il Financial Stability Board2 e l’Unione europea. Vi sono inoltre anche alcuni tentativi di varare delle riforme a livello nazionale, specialmente negli Stati Uniti. Tuttavia complessivamente, finora, si sono registrate solo modeste migliorie. Il settore finanziario sta usando tutto il suo potere per contrastare qualsiasi riforma sostanziale. I politici, con un misto di incapacità e riluttanza verso le riforme, non riescono ad opporsi alla politica ostruzionistica della finanza. 1 Questo comitato ha sede a Basilea presso la Banca per i Regolamenti Internazionali. È formato da rappresentanti delle banche centrali e degli organi di vigilanza dei paesi OCSE. 2 Organismo creato dal G20 in seguito alla crisi finanziaria che comprende le banche centrali ed i governi dei paesi membri con il fine di supervisionare ed armonizzare le diverse regolamentazioni finanziarie.

La crisi finanziaria, il cui epicentro è stato negli Stati Uniti e nelle altre economie avanzate, è subito diventata una vera crisi globale con impatti pesanti anche nei paesi in via di sviluppo e nelle economie emergenti, data la profonda intergrazione a livello globale delle varie economie. La Commissione delle Nazioni Unite per le Riforme del Sistema Finanziario internazionale presieduta da Joseph Stiglitz ha cercato nel 2009 e 2010 di avanzare un ampio pacchetto di riforme che, nonostante abbia trovato il sostegno di diversi paesi in via di sviluppo, è stato rigettato dalle economie più influenti riunite nel G20 che hanno perseguito un approccio più limitato ed alquanto inefficace fino ad oggi. L’acuirsi della crisi finanziaria e monetaria in Europa ne è una riprova. Nel valutare le varie proposte avanzate finora per regolamentare la finanza mondiale, oggi ancora gestita principalmente da attori collegati alle economie avanzate, e trasformare l’architettura monetaria, finanziaria ed economica internazionale, è importante tenere a mente quattro criteri di base dai quali beneficerebbero non solo i cittadini dei paesi avanzati ma anche tutti i paesi del pianeta. Allo stesso tempo è utile chiedersi quali ulteriori regole sono necessarie per aiutare i paesi impoveriti nel loro cammino di sviluppo.

1. Chiudere il casinò, contrarre il settore finanziare e “de–globalizzare” Il primo criterio di base comporta decidere se chiudere il casinò o salvaguardarlo, magari rendendolo un po’ più sicuro per i giocatori, ossia gli investitori e speculatori. Se si sceglie di continuare a far funzionare la sala da gioco apportando dei cambiamenti, è facile prevedere un altro crac sul medio o lungo periodo. Andrebbe quindi avallata la valutazione dell’UNCTAD, in cui si afferma che solo chiudendo il “grande casinò” si otterrà una soluzione durevole.3 Questa affermazione è dettata dalla consapevolezza che i mercati finanziari liberalizzati e deregolamentati, nel loro assetto attuale, sono diventati un fattore che determina le sorti dei paesi e che è al di fuori di ogni controllo. Keynes, il padre della moderna macroeconomia ed architetto della finanza ed economia internazionale nel dopo guerra, lo sapeva. Egli era un deciso sostenitore della globalizzazione del commercio ma, allo stesso tempo, voleva mantenere i mercati finanziari sotto il controllo dello stato. Meglio avere molti piccoli predatori che possono essere gestiti dallo stato nazione, come fa un addestratore di animali, attraverso gli strumenti che ha messo a punto nei secoli, piuttosto che un mostro globale che 3 UNCTAD – United Nations Conference on Trade and Development (2009): The Global Economic Crisis: Systemic Failures and Multilateral Remedies. Report by the UNCTAD Secretariat Task Force on Systemic Issues and Economic Cooperation. Geneva; Pag. 60.

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Parole, parole, parole … spunti di riflessione nessuno riesce ad addomesticare. Keynes, quindi, proponeva che il controllo dei movimenti di capitale, sia in entrata che in uscita, diventasse una caratteristica permanente del sistema postbellico4. Egli propugnava inoltre un meccanismo di controllo dei tassi di cambio, consentendo al tempo stesso tutti i pagamenti derivanti dal commercio corrente. Asseriva che gli 4  Keynes, John Maynard (1941): “Proposte per una Unione internazionale delle monete” In: La raccolta degli scritti di John Maynard Keynes, Volume XXV, Attività 1940–1944; Londra: MacMillan.

stati nazione dovevano avere un controllo totale sulle transazioni di capitale dei loro cittadini, sia per quello che riguarda i flussi in entrata che quelli in uscita, unitamente al diritto di impedire transazioni non autorizzate. Questo, in pratica, comporta l’inversione di alcuni aspetti della globalizzazione dei mercati finanziari ed il controllo dei liberi flussi di capitale, che attualmente non sono sottoposti ad alcuna restrizione, ottenendo così una “de–globalizzazione” selettiva. Ed allo stesso tempo il ridimensionamento del settore finanziario: il

Box 1: La tassa sulle transazioni finanziarie La crisi finanziaria ha posto la tassa sulle transazioni internazionali (in inglese Financial Transaction Tax, con l’acronimo FTT) in cima alle priorità d’intervento. Questa riforma è stata caldeggiata ancheda importanti capi di governo, quali Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e Gordon Brown. La FTT introduce la tassazione di tutte le tipologie di attività finanziarie, dalle azioni a tutti i titoli commerciabili, quali obbligazioni, buoni del tesoro, cartolarizzazioni, derivati. Non sono comprese, invece, le altre categorie di trasferimenti finanziari, quali i pagamenti ordinari ed il sistema del credito e neanche le transazioni interbancarie, le operazioni delle banche centrali ed i trasferimenti di denaro da parte di lavoratori migranti. In pratica, la FTT si può equiparare alla tassa sul valore aggiunto. Infatti, mentre ogni etto di burro ed ogni maglietta sono gravati dall’IVA, il commercio di attività finanziarie è esente da tasse, rappresentando un enorme negozio duty free per tutti coloro che si possono permettere di farvi delle compere. L’FTT permetterebbe di prendere due piccioni con una fava: a. Avrebbe sempre un effetto di indirizzo e di riduzione della speculazione. Gran parte del commercio speculativo, infatti, sfrutta fluttuazioni anche minime dei tassi di cambio, anche dell’ordine di un centesimo dell’1%. Applicando la leva finanziaria, usando cioè capitale estero, se si mettono in gioco

volume dei capitali presenti sul mercato è tale da esercitare un’enorme sollecitazione a perseguire il profitto. In sostanza, c’è un’eccedenza di liquidità che va diminuita e convogliata nuovamente sull’economia reale. La questione principale è di spezzare il potere dei mercati finanziari sull’economia reale e sulla società per consentire un’organizzazione democratica dell’economia, basata su criteri di stabilità, giustizia sociale e sostenibilità ecologica. Alcuni strumenti utili a raggiungere tali obiettivi sarebbero, ad esempio, il controllo sui trasferimenti di capitale, che

svariate centinaia di milioni, si creano enormi opportunità di guadagno, soprattutto se queste operazioni vengono ripetute molte volte in un breve periodo. b. Una percentuale notevole di queste transazioni non sarebbe più redditizia e quindi cesserebbe già applicando un tasso di imposta di solo 0,1% o 0,05%. L’FTT riscuoterebbe un gettito molto alto anche con un piccolo tasso d’imposta, se si considera l’enorme dimensione dei mercati finanziari. Anche un tasso dello 0,1% porterebbe entrate globali per 734,8 miliardi di dollari in uno scenario in cui il volume d’affari risulterebbe ridotto in misura solo parziale a causa di questa imposta. Questa cifra corrisponderebbe a 321,3 miliardi per l’Europa ed a 313,6 miliardi per il Nord America. Le entrate proveniente dall’FTT potrebbero anche saldare interamente l’enorme aumento di debito pubblico statunitense nel giro di otto anni. In Europa, i tempi sarebbero ancora più brevi. Inoltre, l’FTT potrebbe fornire un notevole contributo al finanziamento di beni pubblici quali la protezione del clima e la giustizia sociale. L’FTT potrebbe anche essere introdotta a livello regionale, per esempio nell’UE o nell’Eurozona. Le organizzazioni sociali sostengono fortemente l’FTT e stanno organizzando delle campagne per chiedere la sua introduzione; in Italia lo fa la campagna ZeroZeroCinque di cui Mani Tese e CRBM sono membri attivi. (www.zerozerocinque.org)

www.zerozerocinque.it Si può far pagare agli speculatori finanziari almeno un po’ della crisi che hanno provocato? Sì, si può. Con una piccola tassa dello 0,05%: mezzo millesimo ogni euro coinvolto nelle loro frenetiche vendite e acquisti di titoli (transazioni finanziarie) La “Campagna 005” si batte proprio per questo.


Strumenticres n°57 – ottobre 2011 implicherebbe di porre un freno e una direzione alla circolazione transfrontaliera di capitali in entrata o in uscita, secondo i bisogni dell’economia nazionale. Esistono dei controlli di mercato sui trasferimenti di capitale, quali la tassazione delle operazioni transfrontaliere di capitale attraverso una tassa sulle transazioni finanziarie (vedi Box 1) e l’obbligo di deposito,5 o anche controlli puramente amministrativi, quali la determinazione di tetti massimi o il blocco temporaneo dei flussi di capitale in uscita. Inoltre, la realizzazione di un settore bancario pubblico forte e cooperativo rappresenta una parte importante di una strategia che mira a riaffidare il controllo del sistema finanziario alla politica democratica. C’è da aggiungere anche che bisogna rimpicciolire le grandi banche private. Se sono “troppo grandi per poter fallire” – e quindi gli stati sono obbligati a scialacquare i bilanci pubblici per salvarle dal fallimento, come successo nel 2008 in molti paesi – devono essere rimpicciolite o smembrate, in modo da scongiurare qualsiasi impatto sistemico in caso di fallimento. Per eliminare l’asimmetria tra gli attori dei mercati finanziari, che operano in modo transnazionale, ed i politici, le cui possibilità sono limitate ai loro contesti nazionali, la cooperazione multilaterale tra i governi dovrebbe sostituire la concorrenza nazionale. La concorrenza multinazionale basata su fattori di localizzazione permette ai mercati finanziari di mettere gli stati l’uno contro l’altro. Bisognerebbe quindi istituire una nuova Conferenza di Bretton Woods, con un mandato di ridefinire l’architettura finanziaria mondiale come avvenuto alla storica conferenza del 1944 negli Stati Uniti sul finire del conflitto mondiale.

5 L’obbligo di deposito infruttifero prevede che una parte del capitale venga depositata presso la Banca Centrale per un determinato periodo, ad esempio un anno, allo scadere del quale verrà restituita. Questo obbligo impedisce o rende svantaggiosa la speculazione sul breve periodo, come per esempio la speculazione sulle valute estere.

2. Controllo democratico dei mercati finanziari Un altro importante criterio di valutazione delle riforme è quello di stabilire se un determinato provvedimento contribuisca o meno a fermare il deterioramento della democrazia ad opera dei mercati finanziari. Questo criterio è attuabile attraverso le diverse misure. È necessario un ampio rafforzamento degli organi di vigilanza, che dovrebbero essere dotati di maggiore potere legale, personale e finanziamenti. Il settore finanziario è sempre un passo più avanti dei suoi supervisori, dato che finora gli organi di vigilanza non dispongono di un organico adeguato, rendendo impossibile un controllo democratico. Allo stesso tempo è necessaria una stretta collaborazione tra gli organi di vigilanza a livello internazionale. Questo permetterebbe loro di rafforzarsi ed al contempo di contrastare efficacemente gli attori finanziari, che operano sui mercati in modo transnazionale. Quindi il controllo degli organi di vigilanza deve essere esercitato su tutti gli attori finanziari , con la proibizione di qualsiasi forma di banca ombra, di ogni operazione fuori bilancio e di modelli economici non trasparenti. In particolare, il mercato fuori borsa (cosiddetto OTC, dall’inglese over the counter) deve essere ricondotto all’interno di un’istituzione pubblica, che potrebbe essere controllata dall’organo di vigilanza bancario. In ogni caso è necessario assicurare la trasparenza di tutti i prodotti e le pratiche finanziarie. Le cosiddette innovazioni necessiterebbero così dell’autorizzazio-

ne da parte di un’autorità di vigilanza bancaria e dovrebbero necessariamente essere sottoposte ad una valutazione d’impatto indipendente (un simile organo di controllo per i mercati finanziari esiste per i manufatti ed i motoveicoli).

3. Redistribuzione Il sistema del capitalismo finanziario ha una dimensione redistributiva di enorme importanza, purtroppo dal basso verso l’alto, ossia dai più poveri ai più ricchi con un’accentuazione della polarizzazione sociale. Di conseguenza, il terzo criterio per la valutazione delle riforme dei mercati finanziari riguarda i loro effetti distributivi. Oltre all’uso di strumenti quali la FTT, i cui effetti distributivi si basano sul gettito fiscale, i grandi patrimoni che generano un alto reddito devono essere tassati in maniera progressiva, così come le rendite finanziarie. Questo non solo limiterebbe la spinta al guadagno da parte dei ricchi, ma incentiverebbe investimenti in attività economiche e non puramente finanziarie ed aumenterebbe anche le opportunità dello stato di redistribuire la ricchezza con l’ausilio delle entrate fiscali. Contemporaneamente, si deve mettere fine alla privatizzazione dei servizi pubblici ed invertirne la rotta. I servizi di interesse pubblico, come la sanità, il sistema pensionistico e l’istruzione, ed i più importanti erogatori di servizi pubblici quali energia, acqua, rimozione dei rifiuti e trasporti, devono essere gestiti dallo stato, possibilmente con un nuovo coinvolgimento dei cittadini. Le enormi

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Parole, parole, parole … spunti di riflessione somme di denaro movimentate da questi settori fanno gola a qualsiasi speculatore, ma la loro importanza per la società e per ciascun individuo è tale da non poterli consegnare al profitto privato, specialmente perché si tratta di settori chiave per la modernizzazione sociale ed ecologica.

4. Stabilità dei mercati finanziari come bene comune La stabilità dei mercati finanziari è un bene comune. Qualsiasi provvedimento contribuisca ad aumentare la stabilità del sistema è valido e merita sostegno da parte della società. Le proposte su esposte contribuiscono anch’esse alla stabilità del sistema finanziario. Altre misure importanti comprendono: l’introduzione di requisiti più stringenti per le partecipazioni azionarie di banche ed altri investitori istituzionali; l’imposizione di limiti alla leva finanziaria; il miglioramento della gestione del rischio, considerando soprattutto i rischi macroeconomici; la proibizione di fondi di copertura, fondi di private equity ed altri modelli altamente speculativi, dato che non favoriscono l’economia e servono esclusivamente ad arricchire e creare un rischio sistemico: Al contrario la presunta utilità dei fondi private equity nel fornire capitale di rischio potrebbe essere svolta molto meglio da banche di sviluppo pubbliche. Inoltre è necessaria l’introduzione di regole rigide per il commercio di derivati, l’istituzione di un sistema di rating sotto controllo pubblico e non in mano ad oscure agenzie private ed infine la chiusura dei centri offshore e dei paradisi fiscali e l’abolizione della segretezza bancaria verso gli organi di vigilanza.

Quali implicazioni per il Sud del mondo

Oltre i criteri esposti, la dimensione Nord–Sud in materia di redistribuzione deve rappresentare una parte integrante delle politiche riformatrici. Nello specifico, è necessario porre fine ai programmi neoliberisti di aggiustamento strutturale imposti ancora oggi dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale sui paesi più impoveriti. La crisi ha evidenziato che i paesi che non hanno seguito o hanno abbandonato questo modello, come la Cina, l’India e la Malesia, hanno avuto migliori possibilità di affrontare la crisi. Soltanto in questo modo è possibile la creazione di una pluralità di modelli di sviluppo, in cui ogni paese ha il diritto di decidere il proprio percorso.

GATS – dell’Organizzazione mondiale del Commercio. Molti paesi impoveriti hanno bisogno di una cancellazione del debito. Per altro, i nuovi prestiti internazionali ricevuti per attuare misure anticicliche ed assorbire gli effetti della crisi rischiano di generare nuovo debito. In questi casi, questi paesi, dato che non sono stati quelli che hanno generato la crisi, dovrebbero ricevere dei doni e non prestiti. Un’altra questione centrale è l’eliminazione di qualsiasi attività speculativa dal commercio di commodity agricole, necessarie per garantire la sicurezza alimentare nei paesi in via di sviluppo. Si dovrebbe proibire agli investitori internazionali di trattare i contratti finanziari future o altri strumenti riguardanti queste commodity.

Allo stesso tempo la cessazione dei provvedimenti di liberalizzazione internazionale dei mercati renderebbe i paesi in via di sviluppo meno vulnerabili alle crisi globali. Si dovrebbero fermare, per esempio, le pressioni esercitate dall’Unione europea sulle economie in via di sviluppo e di recente industrializzazione affinché effettuino una liberalizzazione ed una deregolamentazione dei loro settori finanziari come previsto dall’Accordo Generale sul Commercio di Servizi –

Infine, le grandi potenze economiche esportatrici mondiali, quali la Germania e la Cina, dovrebbero incentivare la propria domanda interna aumentando il reddito da lavoro, riducendo così gli squilibri globali ed evitando di scaricare il proprio surplus produttivo sulle economie più deboli, dalla Grecia ai paesi sub–Sahariani, consentendo così uno sviluppo armonico ed equo a tutti. Questo vuole dire rilocalizzare ovunque le economie, e rivedere il dogma della globalizzazione dei mercati.


Strumenticres n°57 – ottobre 2011

BOX 2 La Cina e la crisi A prima vista, l’economia cinese sembra non essere stata minimamente toccata dalla congiuntura. Nel 2009, all’apice della crisi mondiale, la crescita economica della Cina era ancora dell’8,5%. Tuttavia, la congiuntura ha colpito duramente l’economia del paese, anche se la Cina non era in alcun modo coinvolta nelle speculazioni sui mercati finanziari. Intorno al 2000, le banche cinesi, prevalentemente di proprietà pubblica, decisero di non partecipare al commercio speculativo di derivati ed altri complessi prodotti finanziari, che consideravano troppo rischiosi (FT 2009b), riuscendo così ad uscire praticamente indenni dallo scoppio della bolla speculativa. Il sistema finanziario cinese si è scarsamente integrato nei mercati finanziari mondiali e l’economia del paese non dipende da istituzioni finanziarie internazionali. Eppure, anche la Cina è stata colpita dalla crisi ed ha sofferto una battuta d’arresto. Il mercato azionario ha praticamente subito un tracollo del 70 per cento del suo valore tra l’ottobre del 2007 e l’ottobre del 2008, dopo che dall’estate del 2006 all’ottobre del 2008, in Cina si erano riversati enormi flussi di capitali. La crisi ha anche raggiunto l’economia reale del paese quando la Borsa cinese era al suo minimo in seguito alla bancarotta di Lehman Brothers a settembre 2008. La congiuntura ha colpito il punto più debole dell’economia cinese, le esportazioni, che rappresentano quasi un terzo del

PIL. Questo era stato un settore che era cresciuto esponenzialmente per decenni, aumentando in media di oltre il 20% nei dieci anni precedenti alla crisi. Nel 2008, le esportazioni sono salite di appena il 10%, ma dal 2010 hanno ripreso a crescere di più anche se non ai valori pre–crisi. Nonostante ciò, prodigiosamente, l’economia cinese è rimasta stabile. La buona tenuta della crescita economica cinese di fronte alla crisi si deve al massiccio intervento dello stato. Allentando la politica monetaria, lo stato ha fatto sì che le banche con un buon livello di capitale potessero immettere nell’economia svariati miliardi di credito. Nel primo semestre del 2009, la sola Industrial and Trade Bank ICBC ha emesso prestiti aggiuntivi per oltre 90 miliardi di euro, equivalenti al PIL della Nuova Zelanda. Il governo ha anche varato un gigantesco pacchetto di stimolo per 460 miliardi di euro. I punti principali di questo programma comprendono l’erogazione di vasti investimenti in infrastrutture, la riqualificazione professionale per i lavoratori migranti, particolarmente colpiti dalla crisi, e ingenti finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo. Un successo di questo programma sono stati i cambiamenti a breve termine della struttura della crescita economica. La domanda interna è stata potenziata a tal punto che, grazie a questi notevoli investimenti, si è riuscito a compensare il calo delle esportazioni.

È ancora presto per definire gli effetti a medio e lungo termine delle contromisure adottate dal governo cinese a causa della congiuntura. Non è ancora chiaro se sarà possibile potenziare la domanda interna ad un punto tale da rendere la crescita economica meno dipendente dalle esportazioni. Analogamente, non si capisce ancora se le ingenti quantità di denaro immesse nel sistema dalle banche cinesi causeranno esse stesse una gigantesca bolla nell’economia interna. Ciò non toglie lo straordinario successo della risposta cinese alla crisi: le contromisure hanno notevolmente rafforzato l’economia del paese ed hanno scongiurato il peggio. Questo successo non può comunque nascondere il fatto che la società cinese è stata colpita duramente. La congiuntura ha causato una forte diminuzione dei salari ed una maggiore tensione sul mercato del lavoro, sul quale non sono disponibili dati affidabili. Degli studi effettuati su alcuni settori del mercato del lavoro, tuttavia, hanno registrato forti cali occupazionali in molti ambiti. Circa il 15% del gran numero di lavoratori migranti hanno perso il loro posto di lavoro, circa 20 milioni, secondo un’analisi svolta dal Ministero dell’Agricoltura cinese. In conclusione, si può affermare comunque che la Cina è riuscita ad evitare effetti congiunturali negativi ancora più disastrosi grazie alla sua buona condizione economica di partenza, al suo sistema finanziario chiuso ed all’adozione di rapide misure anticicliche.

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Concorso per le scuole Parole, parole, parole … parole, musiche, immagini

Cibinviaggio

Inventa un gioco sul diritto al cibo, vinci la cena di classe a km zero! Il concorso

Nell’ambito della Campagna Internazionale Food for World e in preparazione della Marcia per la Sovranità Alimentare, Mani Tese indice, per l’anno scolastico 2011 – 12, un Concorso per la realizzazione di giochi cooperativi sul diritto al cibo. Il Concorso, rivolto alle classi delle scuole primarie e secondarie di 1° e 2° grado , nasce con l’obiettivo di far crescere nei giovani una maggior consapevolezza riguardo al significato e al valore del cibo, inteso non come semplice merce ma come diritto umano universale. Attraverso il tema del viaggio le classi partecipanti saranno invitate a scoprire gli aspetti più nascosti dei generi di consumo che acquistiamo abitualmente (dove e come sono prodotti, come sono trattati e messi in commercio, quali sono gli impatti ambientali ed economici del loro consumo), per arrivare a riflettere sull’importanza delle proprie scelte alimentari quotidiane. Il concorso “Cibinviaggio” richiede alle classi partecipanti di ideare e realizzare un gioco, possibilmente cooperativo, sul tema del viaggio dei cibi intorno al mondo. Gli elaborati richiesti per partecipare sono: • Una scheda di presentazione del gioco, completa di regole e fasi di svolgimento; • Una ripresa video del gioco realizzato dalla classe.

Il gioco

I giochi cooperativi non hanno né vincitori né vinti, ma mirano piuttosto a sviluppare fantasia e creatività e favoriscono la cooperazione tra i partecipanti. L’interazione si sviluppa intorno ad una situazione all’interno della quale i giocatori impersonano dei ruoli o simulano dinamiche realmente esistenti. L’obiettivo è stimolare la classe a confrontarsi con il tema del diritto al cibo, individuando un contenuto da comunicare o su cui riflettere e veicolandolo in modo creativo e dinamico attraverso il gioco. Il gioco proposto dovrà dunque:

• veicolare un messaggio o stimolare una

riflessione sul tema del diritto al cibo; • essere “giocabile” dalla classe nella sua totalità; • essere facilmente realizzabile in luoghi diversi (in classe, in una piazza, in una palestra, etc); • essere realizzato con materiali “poveri” (carta, pennarelli, mollette, materiali di riciclo). I migliori elaborati saranno pubblicati nella raccolta: Giochi per cibi giusti, che sarà distribuita a tutte le scuole partecipanti.

Il tema

I cibi viaggiano. Attraversano oceani e inseguono le stagioni, imballati in quintali di plastica e ricoperti di etichette, per presentarsi puntuali all’appuntamento con noi negli scaffali dei supermercati. I cibi viaggiano: non solo percorrendo il pianeta in lungo e in largo a bordo di navi, aerei, camion, ma anche passando di mano in mano, incontrando agricoltori, commercianti, grossisti, esperti, pubblicitari, commessi, consumatori e netturbini. Molta della frutta che acquistiamo ha percorso più chilometri di quanti ne potremmo percorrere noi in un anno e potrebbe raccontarci storie incredibili, sballottata dalle logiche del commercio internazionale che vedono il cibo come semplice merce a vantaggio e profitto di pochi grandi attori. Che conseguenze ha tutto questo sui contadini e sull’ambiente? In definitiva: cosa sta dietro al cibo? Come ci ricorda Eduardo Galeano, “Lo sviluppo è un viaggio con più naufraghi che naviganti”. Parafrasandolo, potremmo dire che il cibo sembra essere un viaggio con più affamati che sazi. Ecco alcune delle tante tracce possibili per un gioco ispirato a questo tema:

• Qual è la storia dei prodotti che acquistiamo abitualmente? • Chi sono gli uomini e le donne che li hanno coltivati, prodotti, lavorati, trasformati, trasportati, venduti? Qual è il loro ruolo?

• Il mondo produce cibo a sufficienza per tutti? • Quanto viaggiano i cibi prima di arrivare sulla nostra tavola? • Quali sono i vantaggi di acquistare e mangiare cibo “a km zero”? • Che cosa comporta consumare cibi fuori stagione? • Dopo la produzione e il consumo c’è lo smaltimento dei rifiuti: quanta spazzatura produciamo prima di concludere il viaggio? • Chi ci guadagna e chi ci perde davvero nel viaggio della grande distribuzione? • Che cosa significa scegliere consapevolmente?

Modalità di partecipazione

La partecipazione al concorso non è intesa come la semplice produzione degli elaborati richiesti, ma come un percorso didattico utile ad affrontare la questione dell’abbondanza/scarsità di cibo nel mondo, delle sue fasi di produzione e dei suoi impatti ambientali e sociali, per educare gli studenti ad una nuova consapevolezza riguardo alle proprie scelte alimentari. Per questo motivo le classi che intendono partecipare dovranno compilare ed inviare il modulo di preiscrizione (scaricabile all’indirizzo: www.manitese.it/concorsoscuole) alla Segreteria del Concorso (Email: cibinviaggio@manitese.it, Fax: 02 40 46 890) entro e non oltre Giovedì 10 Novembre 2011. Il lavoro dovrà essere coordinato da un insegnante di riferimento, che all’atto della preiscrizione riceverà gratuitamente il Kit didattico: Nutrire il mondo per cambiare il pianeta, edito dal Centro Ricerca Educazione allo Sviluppo di Mani Tese, utile a inserire il tema della sovranità alimentare all’interno della progettazione curricolare e ad individuarne i collegamenti con le discipline. Nel corso dell’anno scolastico sarà possibi-


Strumenticres n°57 – settembre 2011 le inoltre richiedere:

UN ESEMPIO DI GIOCO

• Il corso di formazione per insegnanti: Nutrire il mondo per cambiare il pianeta, a cura delle formatrici del Centro Ricerca Educazione allo Sviluppo;

Titolo Fresco…di stagione! Obiettivi Scoprire in quale stagione crescono le verdure più comuni e riflettere sui motivi della loro presenza nei supermercati durante tutto l’anno Giocatori 24 giocatori. Dai 6 ai 12 anni.

Durata 1 ora compresa la riflessione finale Materiali di gioco 12 cerchietti da indossare con dei cartellini, uno per ogni mese dell’anno (Gennaio, Febbraio etc.) 12 verdure disegnate su cartoncino, da tenere appese al collo con dei fili di spago

Svolgimento e regole del gioco FRESCO…DI STAGIONE è un gioco cooperativo semplice e dinamico. Lo scopo del gioco è abbinare correttamente le 12 verdure disegnate su cartoncino con i 12 cerchietti riportanti i mesi dell’anno, secondo lo schema seguente:

concluso il primo turno di gioco e ritirerà i cerchietti e i cartoncini, per ridistribuirli in ordine casuale ai partecipanti e ripetere le stesse operazioni nel secondo turno. Lo scopo del gioco (si vince tutti insieme) è imparare a disporsi nel modo corretto prima dello “stop!” dell’animatore nel minor numero di

• il percorso didattico per studenti: Il cibo dei popoli, a cura degli animatori di Mani Tese. Entrambi possono essere svolti presso la scuola richiedente. Per maggiori informazioni su corsi e percorsi: www.manitese.it/concorsoscuole Gli elaborati che parteciperanno al concorso dovranno pervenire entro e non oltre Venerdì 30 Marzo 2012 in forma cartacea e mediante cd–rom al seguente indirizzo: Segreteria Concorso Cibinviaggio c/o Mani Tese Piazza Gambara 7/9 20146 Milano.

Il premio

Gli studenti e gli insegnanti delle tre classi selezionate vinceranno una cena di classe a Km Zero da svolgersi entro il 15 Giugno 2012 nella provincia della scuola vincitrice presso un luogo, che sarà scelto dalla commissione giudicante in accordo con l’insegnante di riferimento.

La cena sarà gratuita per i tutti i membri della classe e per l’insegnante di riferimento. Alla cena, che rappresenterà l’ideale conclusione del lavoro svolto durante l’anno, parteciperanno alcuni rappresentanti di Mani Tese per premiare ufficialmente la classe.

Approfondimenti

Si rimanda al sito www.manitese.it/ concorsoscuole per approfondimenti relativamente a: pubblicazione on–line del materiale in concorso, data di scadenza per l’invio degli elaborati, documenti da allegare, scelta dei vincitori, uso del materiale prodotto da parte dell’Organizzazione, originalità dell’opera.

Per ulteriori informazioni

Giacomo Petitti Responsabile Educazione e Formazione Mani Tese Piazza Gambara 7/9, 20146 Milano Tel: 02 40 75 165 Email: eas@manitese.it

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO

VERDURE A Broccoli Carciofi Finocchi Asparagi Piselli Ravanelli

Ai giocatori vengono distribuiti, in ordine casuale, i cerchietti dei mesi e i cartoncini delle verdure da indossare. Al “via!” dell’animatore i giocatori saranno lasciati liberi di muoversi nella stanza. I giocatori che impersonano le verdure dovranno trovare il “loro” mese (e viceversa) e prenderlo a braccetto. Allo “stop!” dell’animatore le coppie formatesi torneranno in cerchio mantenendosi a braccetto. A questo punto l’animatore chiederà a tutti di chiudere gli occhi e, NEL SILENZIO PIÙ ASSOLUTO, sposterà i giocatori (facendo mantenere loro gli occhi chiusi) dividendo le coppie “sbagliate” e ricostituendo quelle corrette. Quindi dichiarerà che è possibile aprire gli occhi e lascerà che i partecipanti si osservino nei nuovi accoppiamenti per 30 secondi, per memorizzare l’ordine esatto. Passati i 30 secondi l’animatore dichiarerà Broccoli Carciofi Finocchi Asparagi Piselli Ravanelli Pomodori Zucchine Melanzane Carote Cavolfiori Radicchio

LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE DICEMBRE

VERDURE B Pomodori Zucchine Melanzane Carote Cavolfiori Radicchio

turni possibili. I giocatori dovranno pertanto collaborare per ricostruire la sequenza esatta delle coppie senza “sprecare” turni di gioco. Eventuali spunti per una discussione finale Al termine del gioco l’animatore disporrà tutti in cerchio e cercherà di far emergere una riflessione sull’importanza di conoscere la stagionalità dei prodotti che consumiamo abitualmente e sui diversi impatti sociali e ambientali dei prodotti di stagione e fuori stagione. Sarà importante sottolineare come, rispetto al gioco, l’abbinamento mese/verdura naturalmente non è esclusivo (i carciofi ad esempio non crescono solo in Febbraio ma da Novembre ad Aprile). Infine si potrà costruire insieme ai ragazzi una griglia della verdura di stagione, secondo l’ordine che segue:

GEN FEB MAR APR MAG GIU LUG AGO SET X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X X

OTT NOV DIC X X X X X X X X

X X X

X X X

X X

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Parole, parole, parole … proposte didattiche

La terza R e Candelaria Romero

Un incontro che ha lasciato il segno a cura di valentina rossi, docente del liceo classico “l. ariosto“ di ferrara

L’articolo che segue è strutturato come una sorta di diario a due voci: le considerazioni di una prof e quelle dei suoi alunni riguardo ad un’esperienza didattica e a ciò che essa, a livelli diversi, ci ha dato; ovvero come lo studio di alcuni testi teatrali di Candelaria Romero, l’incontro con lei per intervistarla, ed infine la preparazione di lavori creativi ispirati alla sua opera da presentare ad un convegno, li abbiano fatti crescere come gruppo classe e come persone. Il punto di vista dell’insegnante

Partecipo solo da due anni con le classi al convegno Cultura e letteratura della migrazione (arrivato alla decima edizione). Lo considero un’occasione importante per riflettere e far riflettere sulle possibilità che la letteratura ha di conoscere la realtà e agire sul mondo: i ragazzi incontrano autori di diversi Paesi che hanno scelto la nostra lingua per raccontare le proprie esperienze e la propria visione del mondo, dagli scrittori si fanno raccontare il dolore, i rischi e le difficoltà della condizione del migrante, ma anche l’entusiasmo e la gioia di una nuova vita in un Paese che si sceglie come proprio. Quest’anno ho deciso fin da settembre che avrei fatto partecipare all’iniziativa la terza R, una classe dell’indirizzo di scienze sociali: ragazzi corretti, propensi al dialogo, ad un rapporto aperto e cordiale con i prof, dotati di sensibilità e vari interessi, ma poco propensi allo studio organizzato e costante, ad un lavoro che non mostri subito frutti concreti. Insomma simpatiche ed affettuose… canaglie! Da subito ci è stata affidata come scrittrice su cui lavorare Candelaria Romero, poetessa e autrice di testi teatrali di origini argentine, fuggita con i genitori dal suo Paese ancora bambina a causa della dittatura ed arrivata in Italia dopo aver vissuto in Bolivia ed in Svezia. Ho pensato ed utilizzato il lavoro sui testi di Candelaria per dare “una sferzata” al

metodo e al ritmo di lavoro della classe; dopo i primi mesi in cui avevo chiarito come (e, nei miei intendimenti, perché) studiare la letteratura, ecco ora una nuova opportunità: sospendere per alcune ore a settimana lo studio di trovatori e trovieri, o dei sonetti dei poeti siciliani, per piombare nella letteratura del Novecento. Dopo alcune lezioni introduttive, la storia della dittatura in Argentina e dei desaparecidos, motivi ritrovati poi nella lettura del testo teatrale Hijos, avevano già fatto breccia nei più curiosi, ma ero un po’ preoccupata: non c’erano ancora abbastanza entusiasmo e motivazione per un lavoro più approfondito. La svolta è arrivata in una mattina apparentemente cominciata male: dovevamo iniziare la lettura di Bambole, monologo teatrale contro la violenza sulle donne, argomento che la classe stava affrontando anche in scienze sociali. I ragazzi avrebbero dovuto stampare il testo che avevo spedito loro per posta elettronica, ma nessuno l’aveva portato. Dopo una sfuriata sulla mancanza di serietà e di correttezza nello studio, ho impostato la lezione nel modo didatticamente forse meno consigliabile: ho letto loro il testo confidando in un po’ di silenzio. Mano a mano che avanzavo nella lettura succedeva qualcosa che, negli anni, ho visto avvenire, qualche volta, solo durante la spiegazione in classe di alcuni canti dell’Inferno di Dante: è calato un silenzio sempre più profondo e partecipe,

gli unici rumori erano richiami all’ascolto che i ragazzi si scambiavano al minimo movimento incauto di qualcuno, e poi… qualche singhiozzo! Al suono della campana, che impietosamente ha interrotto la lettura e la magia, mentre mi allontanavo dall’aula, uno dei ragazzi (sguardo sicuro e sornione, ciuffo sempre curato, ultima fila) mi ha fermato e mi ha detto: “ha visto prof che, quando ci fate fare delle cose belle, noi siamo capaci di star buoni?”… L’incontro della terza R con Candelaria ed il dialogo con lei è cominciato quella mattina! Il pomeriggio del 10 marzo, poi, l’abbiamo invitata al nostro liceo. I ragazzi, di solito chiacchieroni e confusionari, sono stati intervistatori attenti e sensibili, a tratti anche un po’ stupiti ed emozionati di poter parlare con l’autrice dei testi che avevano letto. Nelle ore di lezione dopo l’incontro si è svolta una partecipata discussione per far emergere ciò che aveva colpito di più ognuno, sia nelle parole di Candelaria, che nel rapporto fra ciò che ci aveva detto e le opere che aveva scritto. A quel punto è bastato dividere la classe in piccoli gruppi e dare inizio a quella che si può chiamare una proficua “confusione creativa”: ogni gruppo ha lavorato su un concetto espresso dalla scrittrice con la tecnica che sentiva più consona: poesie, canzoni rap, lavori in power point,… il tutto accompagnato da entusiasmo, fatica, impegno, discussioni anche accese su


Strumenticres n°57 – settembre 2011

come lavorare, timore di non farcela e voglia di restituire a Candelaria tutte le emozioni che lei aveva fatto provare a noi. Tutti i lavori sono poi stati presentati dai ragazzi il 9 aprile, durante la seconda giornata del Convegno Cultura e letteratura della migrazione. Qui di fianco c’è il testo della lettera con la quale i ragazzi hanno introdotto i loro interventi. Non so se in quel momento era più emozionata l’alunna che leggeva la lettera dal palco (“guardando negli occhi Candelaria, si rende conto prof ?!”), Candelaria stessa, o io che assistevo alla scena!

Cara Candelaria, siamo la terza R, una classe del Liceo Classico “Ludovico Ariosto” dell’indirizzo Scienze Sociali. Abbiamo letto in classe alcuni dei suoi monologhi teatrali e inoltre siamo stati presenti all’incontro del 10 Marzo 2011 presso la nostra scuola. Quello che lei ha scritto nelle sue opere ci ha fatto riflettere sull’importanza dell’arte nella vita delle persone e su quanto questa possa essere utile nei momenti difficili della vita di ciascuno. Il primo monologo da noi letto è stato “ Hijos “ che ha riscontrato un grande interesse all’interno della classe perché attraverso la tecnica narrativa della favola ci ha fatto conoscere temi difficili come la vicenda dei desaparecidos e le sue conseguenze nelle famiglie, con una tale semplicità da poter essere compresi anche dai bambini. La seconda opera da noi letta è stata “Bambole”, che ha suscitato in noi sentimenti di indignazione perché tratta argomenti come la violenza e la discriminazione sulle donne con grande crudezza: non è facile pensare che, ai tempi nostri, possano compiersi simili atrocità. Anche i maschi della nostra classe sono rimasti molto impressionati e per certi versi si sentono anche in colpa. Siamo molto felici di averla conosciuta e di aver potuto intraprendere un percorso di lettura che ci ha permesso di venire a conoscenza di realtà passate che non devono essere dimenticate e di approfondire un tema delicato come la violenza sulle donne.

Foto in alto: 4Famiglie di desaparecidos espongono le foto dei famigliari scomparsi

La ringraziamo per averci incontrato e per ciò che ha scritto, perché ci ha dato modo di riflettere sui nostri comportamenti, sui nostri rapporti con gli altri e su ciò che vogliamo essere. La classe terza R

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Parole, parole, parole … proposte didattiche Il punto di vista degli alunni:

È mattina: le lancette dell’orologio sembrano impegnate in una forsennata corsa e, presto, nei corridoi del liceo, si sente l’eco della campanella che segna con rigore l’inizio delle lezioni. Raggiungiamo l’aula, entriamo: la professoressa è già davanti a noi. “Oggi facciamo letteratura…” dice. Brusio nelle ultime file. Mentre ci prepariamo alla lezione le labbra dell’insegnante si piegano e pronunciano un’altra parola: “… migrante”. È una sorpresa per noi! Non avevamo mai sentito parlare di letteratura migrante. “Di questa letteratura” continua l’insegnante “fanno parte tutti quegli scritti di autori di origine straniera che, dopo essere emigrati nel nostro paese, hanno scritto delle opere in italiano. È di una di questi artisti che ci occuperemo oggi e nei prossimi giorni: Candelaria Romero. Per quanto riguarda questa scrittrice, ci occuperemo di due dei suoi testi teatrali. In seguito la incontreremo e svilupperemo idee e progetti da presentare a un convegno futuro.” Questa notizia ha suscitato in noi diverse emozioni, molti hanno inizialmente pensato che fosse un diversivo per evitare la lezione di italiano.

Iniziando a leggere di lei scopriamo la sua vita avventurosa: fuggita con la famiglia dall’Argentina del Golpe è cresciuta fra le nevi e i boschi svedesi per poi arrivare nel 1992 in Italia. Abbiamo letto i due testi teatrali: “Hijos” e “Bambole”. Il primo ci è apparso più difficile e meno d’impatto del secondo, che ci è sembrato invece un modo originale per trattare problemi seri. Successivamente abbiamo avuto modo di vederla nella nostra scuola, per un incontro pomeridiano. Per qualcuno di noi questa è stata la prima occasione per incontrare uno scrittore di cui aveva letto i testi in precedenza. L’incontro è servito per conoscere meglio Candelaria; attraverso il dialogo con lei, siamo stati colpiti dal suo pensiero sui paesaggi interiori ed esteriori (landscape e inscape) che, sempre secondo l’autrice, anche se apparentemente lontani, sono legati dalla poesia. Così ci siamo messi all’opera! Lavorare per sviluppare progetti da presentare a teatro ci ha permesso di dare il meglio di noi : nonostante la fatica, la confusione iniziale e i tempi stretti, anche gli scettici hanno dato prova di buona organizzazione, i risultati sono stati lavori capaci di trasmettere emozione anche a chi non apparteneva al gruppo classe.

Il giorno prima del convegno l’emozione aleggiava nell’aria e più ci avvicinavamo al teatro più era tangibile, abbiamo presentato i nostri lavori in modo apparentemente tranquillo anche se eravamo abbastanza agitati, ci ha colpito la molteplicità di scrittori presenti al convegno per trasmettere alle nuove generazioni le loro esperienze di vita migrante. Abbiamo avuto modo di assistere a una piccola parte di “Hijos”, capendo che vederla era molto meglio che leggerla! In conclusione possiamo dire che questo è stato un percorso istruttivo, ci ha permesso di conoscere la letteratura migrante avvicinandoci ad un mondo non così lontano da noi. Elisa Mori e Valeria Nwobodo

Maria Candelaria Romero sul palco durante una recita di Hijos (qui sopra) e di bambole (in alto a destra).


Dossier

Strumenticres n°57 – ottobre 2011

dossier cres – maggio 2011

Parole, parole, parole …

Restituire senso e dignità alle parole Le parole sono fatte, prima che per essere dette, per essere capite: proprio per questo, diceva un filosofo, gli dei ci hanno dato una lingua e due orecchie. Chi non si fa capire viola la libertà di parola dei suoi ascoltatori. È un maleducato, se parla in privato e da privato. È qualcosa di peggio se è un giornalista, un insegnante, un dipendente pubblico, un eletto dal popolo. Chi è al servizio di un pubblico ha il dovere costituzionale di farsi capire. (T. De Mauro

20  Parole malate di Elena La Rocca

22  Il prolifico potere delle parole di Michele Crudo

27  Il razzismo dei “colti” G. Sensi a colloquio con G. Faso

29  Parole sporche, parole pulite di Giulio Sensi

32  Innamorarsi del mondo nonostante la Storia di Anna Di Sapio

35  Riprendiamoci le parole, a partire dalla scuola di Norina Vitali

Perché un Dossier sulle parole, sulla lingua, tema che sembra, apparentemente, lontano da quelli di cui ci occupiamo di solito? Non sarà un caso se recentemente autori di formazione e interessi diversi hanno deciso di rivolgere la loro attenzione a parole, espressioni, frasi che rischiano per ripetitività e stereotipia di trasformare i nostri discorsi in un chiacchiericcio privo di senso, focalizzando la loro attenzione su parole che discriminano e creano conflitto.1 Allo stesso argomento ha dedicato una puntata la trasmissione televisiva “L’Infedele”2 . Il motivo va forse ricercato nella situazione attuale in cui ci troviamo immersi e nella quale sembra essere entrato in crisi il rapporto lingua– democrazia. Oggi – scrive il linguista Gian Luigi Beccaria3 – viviamo immersi in un turbinio di parole che ci avvolgono per informare, suggerire, persuadere; giornali, televisione, internet, pubblicità moltiplicano all’infinito i messaggi, così che rischiamo di finire sommersi da questa mole di parole, le subiamo invece di dominarle e usarle. Rischiamo di perdere la consapevolezza del loro ruolo prezioso e unico. La lingua è un bene comune, un bene sociale e culturale, è un bene pubblico 1  V. la bibliografia ragionata 2  L’Infedele del 18/10/2010 www.la7.tv/richplayer/index. html?assetid=50192173 3  Gian Luigi Beccaria, Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi, Garzanti, Milano 2008, p. 9

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Parole, parole, parole … dossier perché con essa si esprimono le idee, le ragioni, le proposte. La lingua è invenzione e analisi, momento di scambio e di condivisione, è un fattore importante di integrazione e di partecipazione sociale, un elemento vitale per esercitare una cittadinanza attiva. In campo educativo l’area dell’educazione alla cittadinanza s’interseca con quella dell’apprendimento linguistico. Oggi è forte l’influenza del linguaggio dei media, della pubblicità, della politica, che fa leva su un modo di pensare diffuso, che riduce i cittadini a consumatori di ideologie e di beni. “Le parole sono potenti, rasserenano, guidano, terrorizzano, plasmano il pensiero e canalizzano i sentimenti dell’uomo, dirigono la sua volontà e la sua azione.” ma possono anche diventare trappola, persuasione forzata.4 Il linguaggio è uno strumento in più per avere un buon rapporto con gli altri, permette di esprimere le emozioni, i propri stati d’animo, di condividerli e di conseguenza di sdrammatizzare le emozioni negative o ci circoscriverle; quando manca la capacità di nominare le emozioni manca un meccanismo importante di controllo su se stessi e sulla realtà e si diventa facilmente vittime delle proprie emozioni inespresse. Chi non possiede le parole per esprimere la rabbia, la frustrazione, spesso per liberarsene usa la violenza fisica.5 Le parole servono a comunicare e a raccontare storie, ma anche a produrre trasformazioni e modificare la realtà. Quando le parole, che costituiscono il tessuto vivo di una lingua, vengono abusate, travisate, logorate, violentate, quando se ne manipola coscientemente il significato o lo si rovescia allora diventano involucri vuoti, privi di senso. Tutto questo inficia la nostra capacità di comunicare, di trasmettere idee, concetti, valori, posizioni politiche, prospettive sociali. Quando la lingua diventa mediocre, quando viene invasa da stereotipi viene meno lo spazio per 4  Gian Luigi Beccaria, Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi, Garzanti, Milano 2008, p. 11 5  Tina Simoniello, Rabbia e paura è meglio impararle da bambini, “La Repubblica” Salute del 5 luglio 2011, p. 40; si tratta di uno studio dell’università Bicocca sulle parole che indicano come gli stati d’animo influenzino il mondo interiore dei piccoli.

riflettere, viene meno lo spirito critico, in definitiva, opporsi al declino della prevale il conformismo. civiltà. Italo Calvino già nel lontano 1965 La lingua dei giornali, della televisioparlava di un’antilingua in cui “i signine, di internet, della pubblicità, degli ficati sono costantemente allontanati, slogan continuamente alla ricerca del relegati in fondo a una prospettiva di potenziale “cliente” moltiplica all’infinivocaboli che di per se stessi non voglio- to i messaggi, mentre si indebolisce la no dire niente o vogliono dire qualcosa coscienza del ruolo insostituibile della di vago e sfuggente. (…) La motivazione parole come momento di conoscenza psicologica dell’antilingua è la mane appropriazione della realtà, come canza d’un vero rapporto con la vita, momento di condivisione e di comuniossia in fondo l’odio per se stessi. La cazione con l’altro. La lingua italiana lingua invece vive solo d’un rapporto rischia di appiattirsi sullo stereotipo con la vita che diventa comunicazione, del linguaggio burocratico, sulle parole d’una pienezza esistenziale che diventa “alla moda” veicolate dalla pubblicità espressione. Perciò dove trionfa l’antie dai mass media; incalzata da neololingua – l’italiano di chi non sa dire ‘ho gismi e forestierismi, che rischiano di fatto’ ma deve dire ‘ho effettuato’ – la impoverirla.9 Nella rubrica “Parole in corso”10 lingua viene uccisa”.6 L’antilingua esclude la profondità espressiva dell’italiano Beccaria osserva che la vita pubblica si che ha tutte le prerogative per essere sta trasformando in un grande spazio una lingua agile, ricca, liberamente per pubblicitari e venditori di slogan, espressiva. e come ogni buon pubblicitario sa, le Una decina di anni dopo Calvino parole a furia di ripeterle finiscono per notava che nel linguaggio politico si entrare nella testa della gente. La scena era verificato un impoverimento con pubblica è dominata dalla rissa, è l’affermarsi di discorsi approssimatiscomparso il linguaggio del dialogo che vi, generici, imprecisi, mentre l’unico verte su contenuti concreti, che cerca atteggiamento onesto e utile sarebbe di chiarire o persuadere della bontà di quello di “cercare di pensare e di un programma. Nei dibattiti si urla, si esprimersi con la massima precisione interrompe l’avversario, si contrappone possibile proprio di fronte alle cose al ragionamento il non–ragionamento più complesse”.7 L’importante è saper delle urla, delle parole svuotate di dominare la complessità della lingua, la senso, si ripetono le stesse battute, in ricchezza e potenzialità espressive che questo modo viene meno lo spazio del offre. Chi parla l’antilingua ha paura di pensiero e della discussione costruttiva. dire pane al pane e vino al vino, usa Per fortuna negli ultimi mesi sembra in parole ridondanti, espressioni affettate, atto una inversione di tendenza. uno stile ampolloso, distante da chi “Una società in crisi si reinventa ascolta. Antilingua è il burocratese ma un nuovo vocabolario”, scrive David anche l’aziendalese. Grossman, “e pian piano sviluppa una In un saggio del 1946 8 George Orwell nuova varietà di parole che non descririflettendo sulla lingua inglese trova vono la realtà ma piuttosto cercano di che sia diventata brutta e imprecisa a causa di pensieri stupidi, a sua volta la trascuratezza della lingua rende più 9  Sull’influsso dell’inglese v. Ma ora parliamo facile avere pensieri stupidi. Combatitangliano? in G. L. Beccaria, Per amore e per tere questo cattivo linguaggio vuol dire, difesa. op. cit., pp. 146–197. Beccaria ricorda che i

7  Italo Calvino, Note sul linguaggio politico in Una pietra sopra op. cit., p. 307

forestierismi per lo più arricchiscono una lingua, che non esistono lingue pure perché tutte le lingue inglobano parole straniere, però critica gli eccessi, per cui talvolta finiamo per essere più inglesi degli inglesi, usando falsi anglismi che nessun inglese si sognerebbe di usare, o pseudoanglismi. Quando è possibile – sostiene – sarebbe bene usare sostituti nostrani.

8  George Orwell, La politica e la lingua inglese, http://initaliano.files.wordpress. com/2009/09/orwell_it_politics-and-theenglish-language4.pdf

10  Gian Luigi Beccaria, Ripetere, ripetere, ripetere. Lo slogan sostituisce il pensiero, la rissa soffoca il dialogo: l’esempio viene dall’alto, “TTL” 5 marzo 2011

6  Italo Calvino, L’antilingua in “Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980”, pp. 122–126


Strumenticres n°57 – ottobre 2011 nasconderla”. 11 C’è una relazione tra gli nessun passo avanti è stato fatto negli interessi del potere politico e le scelte ultimi cinquanta anni. 13 In un’intervista sul problema della linguistiche dei media. La ‘parola’ non rispecchia la realtà, ma la crea, traduce “dealfabetizazzione”, cioè la perdita di competenze linguistiche nella popoil mondo, esercita un potere decisivo lazione, Tullio De Mauro sostiene che nei rapporti fra gli individui e fra i in assenza degli strumenti linguistici gruppi. La lingua è l’espressione storica parti- e concettuali adatti gli istituti della colare dell’identità di un gruppo umano, democrazia rischiano di essere pure forme, perché la democrazia reale esiesprime la sua visione del mondo, ma si modifica nel tempo grazie al rapporto ste solo se c’è cultura e consapevolezza in chi vi partecipa.14 Senza la cultura, la con altre lingue, altre società. Ogni lettura, il sapere, la conoscenza non si lingua ha una sua storia e in questa posseggono i mezzi per rendersi conto storia – suggerisce Beccaria – è intedi essere sottoposti ad un controllo inressante andare a guardare il capitolo giustificato, a decisioni contro la volonche riguarda il rapporto tra linguaggio tà generale. Verrebbe meno, quindi, la e intolleranza, e tra le parole negative coscienza stessa di essere un individuo. che, a suo avviso, più hanno contrasDunque il tema della lingua si ricollesegnato il Novecento ci sono razzismo, ga alle tematiche dell’interculturalità e che ha aperto il secolo, e pulizia etnica della cittadinanza, ma. poiché è quanto che lo ha chiuso.12 Il linguaggio è anche il principale mai ampio, il Dossier non poteva certo mezzo di espressione del pregiudizio e essere esaustivo. Si limita a qualche della discriminazione. L’utilizzo di un riflessione su alcuni aspetti che a noi linguaggio sessista, ad esempio, tiene sono sembrati particolarmente imporin vita idee erronee e stereotipi di tanti per chi opera nella scuola. Nella genere. In tutti questi anni – sostiene bibliografia ragionata presentiamo alAlma Sabatini – si è discusso e legifera- cuni testi che, da angolazioni differenti, to in merito a discriminazioni di genere. danno conto di altri aspetti della lingua Ma nonostante gli sforzi fatti per manche non abbiamo trattato. tenere vigile l’attenzione sull’argomento, molto resta ancora da fare, perché la nostra lingua, continua ad essere concordata e declinata prevalentemen13  Alba Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, in www.comune.sassari.it/comune/…/articolo_ te al maschile. E se è vero che la lingua linguaggio_non_sessista.pdf è lo specchio della civiltà che rappresenta e che la società si identifica nel 14 http://ammiraglio61.wordpress. linguaggio che usano i suoi componenti com/2009/12/14/intervista-a-tullio-de-mauro11  Yonatan Mendel,Le parole per non dirlo, “Internazionale” n. 736, 21 marzo 2008 12  Federico Faloppa, Parole contro. La rappresentazione del “diverso” nella lingua italiana e nei dialetti, Prefazione di Gian Luigi Beccaria, Garzanti, Milano 2004, p. 7–14

Riproduzione di: Scrittura illeggibile di un popolo sconosciuto Bruno Munari, 1975.

--alfabetizzazione-e-democrazia/ v. anche Adolfo Morrone , Tullio De Mauro, Livelli di partecipazione alla vita della cultura in Italia , Fondazione Mondo Digitale, 2010; scaricabile al sito: http://www.lulu.com/items/ volume_68/4988000/4988156/3/print/Livelli_ di_partecipazione_alla_vita_della_cultura_in_ Italia_Testi_1.1.pdf

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Parole, parole, parole … dossier

Parole malate di elena la rocca

Se non ricordo male gli esquimesi del mondo. So che la cultura europea ha sognahanno più di cento parole per indicare to una lingua perfetta che esprimesse la neve, perché ogni lingua indica ed “l’essenza delle cose”, ma credo apesprime quello che conta per la civiltà punto sia stato un sogno, dato che la che la genera, illustra quella parte di lingua non raggiunge l’essenza delle mondo che le interessa ed il suo modo cose, ma racconta il mondo come noi di interpretarla. Per usare un paralo vediamo. Se così non fosse, tradudosso una civiltà marittima sarebbe cendo da una lingua all’altra le parole poco interessata alle piante e alle sarebbero perfettamente sovrapponibivarie tonalità di verde dell’erba e delle coltivazioni, mentre una civiltà agricola li, ogni vocabolo indicherebbe una cosa ben determinata, quella e solo quella chiamerebbe genericamente barca o e avrebbe un perfetto corrispondente nave qualsiasi cosa navighi o galleggi. nelle altre lingue, ma così non è come L’esempio è paradossale perché nei fatti le civiltà sono complesse ed hanno si scopre anche sui banchi di scuola quando si tenta la più semplice delle in sé componenti marittime, cittadine traduzioni. Sorge naturale una strana ed agricole che interagiscono tra loro, domanda: allora influenzare la lingua, ma spero sia servito a rendere l’idea: dare nuove significati alle parole vuol la lingua descrive il mondo che ogni dire influenzare la nostra visione del civiltà vede e su cui agisce. mondo? Colonizzare il nostro immagiNon ci si deve inoltre dimenticare nario? Non lo so, il fatto è che una volta che la lingua non si accontenta di dare il problema non si poneva neppure: un nome alle cose, cioè di descrivere nessuno era in grado di influenzare il mondo, ma in un certo qual senso lo coscientemente la lingua di un popolo, plasma, cioè esprime, in modo implicile parole subivano influenze incrociate to direi sotterraneo, i giudizi di valore, che si sovrapponevano e contrastavano la visione della vita della comunità l’un l’altra. I grandi scrittori lasciavano parlante. il segno, ma in modo molto indiretto e Per esempio l’italiano usa l’aggettivo alto in contesti molto differenti tra loro: mediato, mentre le parole acquistavano un uomo alto, alta tecnologia, alta cuci- nuovi significati nel corso del tempo na ecc. L’aggettivo sembra quindi avere adattandosi alla nascita di nuove idee e visioni nuove. Così l’anghelos greco, una valenza positiva, per cui immediail messaggero, è diventato l’angelo tamente si ha l’impressione che essere alti sia una bella cosa. Emblematico poi cristiano, l’upoctites, l’attore che recita con la maschera si trasforma in ipocriil caso di destra e sinistra, aggettivi che ta… e via elencando. non si accontentano certo di distingueLe vicende degli ultimi anni fanno re una mano dall’altra, ma che rimanperò pensare che i mezzi di comunicadano ad una serie di significati: destra zione di massa abbiano un forte peso in significati di tipo positivo (si pensi a destrezza), mentre sinistra di tipo nega- proposito: in Italia per esempio hanno certamente contribuito a diffondere la tivo. Come aggettivo significa infatti lingua italiana a discapito dei dialetti “di cattivo augurio, funesto” e come sostantivo “disgrazia, disastro, inciden- locali, ma hanno anche favorito varie trasformazioni linguistiche, ricordo te”. Cagna è un insulto, ma se pensi al cane femmina affettuoso e leale, dotato per esempio la diffusione di vocaboli inglesi. I giornali per civetteria, di un tale senso di responsabilità da esotismo a volte per semplice pigrizia, essere particolarmente adatto a fare il spesso hanno usato vocaboli inglesi cane guida per ciechi (nota: il maschio anche quando esisteva il perfetto è infatti meno affidabile) ti rendi conto corrispettivo italiano, in questo modo che l’insulto deriva da un pregiudizio hanno diffuso un inglese pasticcione ed antifemminile. La lingua quindi non impreciso e certamente hanno contridescrive il mondo, ma la nostra visione

buito ad un impoverimento dell’italiano. Si tratta però di fenomeni naturali, spontanei: diffusione della lingua nazionale a scapito dei dialetti, diffusione di vocaboli inglesi (lingua egemone), semplificazione dell’italiano colto, tutte logiche conseguenze della diffusione dei mass media, giornali e soprattutto televisione. Negli ultimi anni però abbiamo assistito ad un vero e proprio stravolgimento del linguaggio che sembra quasi pilotato per cui le parole, manipolate e svuotate del loro significato, rimbalzano da una trasmissione televisiva a un titolo di giornale imponendosi nello spazio pubblico e privato. La propaganda politica si è fatta pervasiva invadendo con i suoi slogan anche il linguaggio quotidiano: le parole della politica non sono più riservate ai comizi o alle tribune elettorali, ma hanno invaso il lessico civile deformandolo, contemporaneamente la politica si è impadronita di vocaboli di uso comune, in un certo qual modo privatizzandoli. Infatti vocaboli di uso comune sono stati assunti per indicare oggetti o movimenti specifici, quasi rubati all’uso collettivo. Il primo esempio in proposito credo sia “il Giornale” di Indro Montanelli, il giornale, nome comune di cosa, recita l’analisi grammaticale, diventa il nome di “una” cosa lasciando orfani tutti gli altri giornali. Sulla stessa scia si colloca “Forza Italia” grido normale sugli spalti dei mondiali di calcio diventato nome di un


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preciso movimento politico o “il partito dell’amore” (espressione particolarmente pericolosa, perché presuppone che gli altri siano il partito dell’odio). In questo processo i mass media hanno avuto un ruolo dominante. La veloce trasformazione di alcuni vocaboli che nel giro di pochi anni hanno acquistato un significato completamente diverso dall’originale o sono in un certo senso slittati verso un significato contiguo, ma sostanzialmente diverso, fa pensare che il potere di ridondanza dei mass media sia in grado di influenzare la lingua e quindi il nostro modo di interpretare il mondo: parlare sempre e solo di clandestini e non di migranti, vuol dire imporre un certo modo di percepire gli individui in questione; imporre il vocabolo ribaltone per definire qualsiasi cambio della maggioranza al governo vuol dire imporre una costituzione diversa da quella reale/scritta, ecc. ecc. Il problema diventa tanto più grave quanto più i mass media mancano di autonomia e dipendono in un modo o nell’altra dal potere politico, si pensi per esempio alla situazione della televisione in Italia: il rischio non è tanto che si diano o non si diano le informazioni, ma soprattutto che si impongano delle parole capaci di generare un modo di vedere la realtà. Di fronte a tutto ciò cosa può fare la scuola? Forse tornare all’analisi dei mass media, in particolare dei giornali, ma in un ottica molto diversa da quella che ricordano i più vecchi di noi: si scoprirono a suo tempo i giornali come strumento per conoscere la realtà che ci circondava, ponte tra il piccolo mondo separato della scuola ed il grande mondo reale, da qui l’attenzione all’informazione, e ai suoi contenuti con un atteggiamento un po’ subordinato; ora sarebbe necessaria soprattutto un’attenzione alle parole, parole da analizzare e da smontare con un atteggiamento non più subordinato, ma di distacco e di critica.

Strumenticres n°57 – ottobre 2011

Elenco NON ragionato di vocaboli significativi. Si tratta di vocaboli che nati o trasformati nel clima politico culturale degli ultimi anni, sono rimbalzati da un giornale all’altro, da un discorso ad una trasmissione televisiva fino a diventare di uso comune. clandestino

dall’avverbio latino clam: di nascosto; infatti come aggettivo vuol dire “fatto di nascosto, segretamente”, come sostantivo evoca l’immagine di un passeggero che si nasconde nel buio di una stiva, perché non ha i soldi per pagare il biglietto o non ha il passaporto o peggio ancora è ricercato dalla polizia. Usato come etichetta per chiunque, fuori dai circuiti ufficiali, arrivi in Italia, più che una descrizione è un giudizio e una condanna. Migrante indica la stessa realtà, ma è più neutro, meno carico di valenze negative. In alcuni casi i migranti sono “profughi”, vocabolo da usare con parsimonia perché sollecita la solidarietà con i perseguitati e come ha detto ultimamente Umberto Bossi “questi non li possiamo cacciar via”:

riforme

il riformare, il modificare uno stato di cose, un’istituzione ecc. per migliorarli (ecc. Dizionario Garzanti). Apparentemente il senso non è cambiato, ma se una volta si intendeva dare più possibilità, più diritti, oggi per migliorare si intende “togliere diritti” visti come “privilegi” che intralciano lo sviluppo economico e danneggiano le future generazioni. Come nel caso di privilegi l’ottica è sempre dall’alto della scala sociale verso il basso, per cui non si parla né di alta né di media borghesia, non si pensa cioè né ai grandi industriali né ai notai, ma agli impiegati statali o agli operai con contratto collettivo, i cui privilegi devono essere eliminati con le riforme. Ne consegue che se qualcuno cerca di difendere i propri diritti o sostiene politicamente chi li difende, questi bene che vada viene trattato da conservatore contrario alla modernizzazione o peggio da vetero comunista.

privilegi

apparentemente il vocabolo non ha cambiato significato, ma è cambiata l’ottica, la prospettiva da cui si guarda il problema: una volta era per così dire dal basso verso l’alto, stando sui gradini bassi della scala

sociale si guardavano quelli in cima: potere, lavori gratificanti, accessi a tutti i possibili ed immaginabili vantaggi (dalle case affittate a prezzi stracciati, alle varie rendite di posizione) li si chiamava privilegi e si chiedeva una maggior giustizia sociale. Ora si guarda per così dire dall’alto verso il basso. Per esempio dalla cima della scala si guarda in giù e si vede quasi in fondo il lavoro precario a tempo determinato, un po’ più su il contratto a tempo indeterminato, orrendo privilegio da abolire. Va da sé che se si abolisse il tempo indeterminato si scoprirebbe che anche il precariato a contratto è un orrendo privilegio rispetto a chi è disoccupato o cerca lavoro ogni mattino.

giustizialista

il termine originariamente indicava un aderente al Partito Giustizialista fondato in Argentina da Juan Domingo Peron: aspirava ad una politica di giustizia sociale “fondata sul legame tra interessi dei lavoratori e del capitale”. Oggi in Italia si usa per indicare un abuso (o presunto tale) del potere giudiziario nei confronti del potere politico al fine di cambiare il quadro politico contro la volontà espressa dal popolo nelle elezioni. Giustizialista è anche chi, in questo contesto, difende o appoggia la magistratura. Secondo Omar Calabrese lo slittamento semantico ha avuto successo per l’assonanza tra giustizialista e giustiziere. Mi sembra però che abbia avuto un forte peso in questo processo, il fatto che i suffissi ismo, ista sono stati caricati di valenze negative, come se indicassero una degenerazione del concetto.

ragazzo

il concetto in sé non è cambiato, ma ne sono stati cambiati i confini temporali al punto da stravolgerlo: capita di leggere di un ragazzo che ha avuto un incidente per scoprire poi, alla riga successiva, che l’infortunato ha 35 o addirittura 37 anni. Certamente la vita si è allungata e la nostra percezione del tempo è cambiata, per cui oggi nessuno direbbe più che a “quaranta si chiude l’anta”. Ma

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Parole, parole, parole … dossier la parola ragazzo ha conservato in sé un che di incompleto ed immaturo, per cui definire così un trentenne mi pare un modo di infantilizzarlo, deresponsabilizzarlo ed in definitiva imbrogliarlo: sei troppo giovane, non puoi assumerti responsabilità, avere un lavoro fisso, guardare la generazione dei tuoi padri da adulto ad adulto.

ribaltone

secondo il vocabolario si tratta di un “rovesciamento improvviso di un veicolo” oppure in senso figurato “improvviso rovesciamento o dissesto”. Si tratta quindi di un vocabolo con forti valenze negative e viene attualmente usato per indicare un cambio di maggioranza parlamentare.

comunista

il vocabolo ha un significato tanto estensivo da non voler dire più niente, se una volta non si poteva essere comunisti senza essere marxisti ortodossi, attualmente si può essere comunisti senza condividere nulla di Marx; il termine infatti ha assunto un generico significato di nemico, portato a criticare, oppositore ecc., connotato però in modo pesantemente negativo. Questo almeno da quando sono stati tacciati di comunismo Indro Montanelli, che aveva passato la sua vita a fare l’anticomunista o Oscar Luigi Scalfaro proveniente dalla destra DC (nota a margine: l’affermarsi del vocabolo ha lasciato privi di definizione e quindi di identità tutti coloro che, pur non essendo berlusconiani o neoliberisti sanno di non essere comunisti).

extracomunitario

tecnicamente il vocabolo dovrebbe indicare chiunque non faccia parte della Comunità Europea, nei fatti nessuno chiamerebbe mai extracomunitario un ricco banchiere svizzero, né un banchiere tunisino o un turista statunitense. In pratica si etichetta così “un povero” (sia magrebino o sudamericano non importa) che entra più o meno legalmente nella comunità europea in cerca di opportunità, di lavoro, di una vita diversa.

giustizia ad orologeria

costruito sul calco di bomba a orologeria, è di immediata comprensione. L’idea però di una giustizia che esploda prima di una tornata elettorale o di qualche altro fatto politicamente significativo non solo squalifica quella specifica azione della magistratura, ma tende a screditare l’idea stessa di giustizia e a politicizzare, in senso negativo, qualsiasi decisione o scelta della magistratura stessa.

Il prolifico potere delle parole di michele crudo

“Capivo che ogni mondo aveva il suo segreto e che la sola chiave per accedervi era la lingua. Senza di essa, il mondo che si voleva conoscere rimaneva impenetrabile e incomprensibile…”

– r. kapuscinski, in viaggio con erodoto –

Ultima componente dell’evoluzione della specie, il genere umano racchiude in sé la sofisticata sintesi degli organismi complessi e la disarmante inadeguatezza di un corpo sprovvisto dei più elementari mezzi di difesa. Scaraventato da madre natura in un ambiente irto di pericoli, l’uomo ha dovuto lottare per la sopravvivenza senza possedere le ali degli uccelli, lo scatto del leopardo, la corazza del rinoceronte, la mole dell’elefante, il veleno dei serpenti. A sue spese, nel corso di milioni di anni, ha imparato a imitare la collaborativa aggregazione dei lupi, sfruttando la stazione eretta per controllare un campo visivo che era negato ai suoi rivali a quattro zampe. Avvalendosi del pollice opponibile ha poi appreso l’arte della trasformazione, trasmessa in seguito di generazione in generazione. Così il ramo e il sasso sono stati lavorati per diventare un’ascia, cioè un arnese/arma assemblato empiricamente da un essere che aveva ormai sviluppato un’intelligenza tale da consentirgli di passare dalla mera osservazione dei fatti alla evocativa rappresentazione degli eventi. Le pitture rupestri di Altamira e Lascaux ne sono un’eloquente esemplificazione. È in quello stadio del Paleolitico che si presume sia nata una primordiale forma di descrizione orale, grazie alla quale si poté comunicare la mappa del territorio, le procedure per la fabbricazione degli utensili, le fasi e le modalità delle frequenti battute di caccia, gli itinerari dei periodici spostamenti del clan. L’uso di espressioni vocali, sempre più articolate con il passare del

tempo, contribuì a consolidare i legami all’interno delle prime tribù stanziali, che, raccolte nei villaggi neolitici, cominciarono a delineare narrazioni intorno al senso della vita, al mistero della morte, all’inspiegabilità dei fenomeni naturali, all’onnipresente conflitto tra il bene e il male. Le spiegazioni che venivano date si sedimentarono nel corso dei secoli e, con la nascita delle civiltà fluviali, costituirono il nucleo dei contenuti religiosi di cui erano custodi i re–sacerdoti, posti al vertice delle città–stato e delle successive organizzazioni statali. Con la formazione di agglomerati urbani abitati da decine di migliaia di persone, le credenze religiose trovarono la loro espressione in rituali di massa, mentre le norme che regolavano la convivenza furono codificate in leggi scritte. L’impiego della scrittura, reso necessario dalla registrazione di pagamenti, atti amministrativi, versamento di tributi e dalla regolarizzazione a distanza degli scambi di merci e di informazioni, fu così determinante da essere individuato dagli studiosi come la tappa che convenzionalmente decreta l’uscita dalla preistoria e l’ingresso nella storia. La crescente stratificazione e ramificazione sociale giustificò la creazione di un apparato di scribi specializzato nell’uso del linguaggio scritto, che, evolvendo dalla versione pittografica, geroglifica e cuneiforme a quella alfabetica, procedette verso una semplificazione del codice linguistico. La tradizione orale non si estinse, ma è proprio nella fase di alfabetizzzazione delle lingue che nell’area mediterranea,


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Parole diverse per una scuola diversa. Ci servono parole condivise che dicano le verità della scuola. La famigerata “condotta” che ha fatto da catalizzatore demagogico di tante discussioni, nella legge trentina sulla scuola si chiama invece “capacità relazionale”. La metafora militare lascia il posto a una costellazione di significati che riconoscono lo studente e i suoi comportamenti dentro un rapporto. Se la relazione è cattiva, la colpa non sta mai da una sola parte. E restituisce, questa espressione felice, la dimensione della responsabilità di tutti. E così, sempre a Trento, la disabilità è ricompresa, come insegna l’Europa, entro l’espressione “bisogni educativi speciali”. Che ha più declinazioni, che non richiedono tutte necessariamente la certificazione. Si tratta di misure integrative e compensative che possono riguardare per un certo periodo molti ragazzi. L’effetto è sfumare il confine fra normalità e disabilità, in un accordo con le famiglie che faccia uscire dalla guerra per le risorse (le ore di sostegno) e liberi le energie per arrivare agli obiettivi.

da Il potere delle parole di Maria Pia Valadiano in la Repubblica 10.09.2011

tra il 900 e il 500 a. C., le arcaiche narrazioni mitologiche furono raccolte per costituire il patrimonio identitario della cultura di appartenenza. Ne sono un duraturo esempio l’Iliade e l’Odissea, ma, più significativamente, la Torah. I primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco), infatti, contengono i comandamenti divini che le dodici tribù degli israeliti s’impegnarono ad osservare. L’impegno necessario all’adempimento del patto trasformò una massa confusa e nomade in una comunità religiosa coesa e combattiva. Quando gli Assiri invasero la Palestina, saccheggiando Gerusalemme e deportandone la popolazione, Israele perse il ruolo politico di centro nazionale. Fu allora che fiorirono le scuole della diaspora, che portarono a termine la composizione del Talmud, ovvero l’insieme degli studi e delle discussioni dei maestri sulla Mishnah (compilazione della tradizione orale). La scuola più prestigiosa fu quella di Babilonia, dove studiavano maestri che si specializzarono nell’interpretazione della scrittura. Essi, partendo dal presupposto che il linguaggio non esaurisce né rispecchia meccanicamente il pensiero in esso espresso, ricercarono il significato delle parole superando i confini del significante, in una concatenazione di espressioni che rinviavano a contenuti simbolici. La mitologia svolse per i greci la stessa funzione, ma con una differenza sostanziale rispetto alla tradizione ebraica. Verso il VI secolo a. C., ai racconti mitologici seguì l’elaborazione del lògos articolato in discorsi che, pronunciati e confrontati in piazza, costituirono l’atto fondativo della democrazia ateniese. L’agorà, luogo degli incontri della cittadinanza, divenne il centro privilegiato della negoziazione tra le varie componenti della polis. Inoltre, l’espansione del lògos comportò l’occupazione di aree che erano prima monopolio del sacro, come il teatro, dove la parola recitata svelava e trasmetteva empaticamente al pubblico l’intensità delle emozioni, la conflittualità dei sentimenti, la seduzione del potere sulla volontà degli individui. Quello stesso potere che non perse tempo ad addomesticare la parola, costruendo discorsi retorici che, con l’enfasi annebbiante della demagogia, mirava a illudere, convincere, mobilita-

re gli elettori. Successivamente, l’applicazione dei dispositivi cognitivi maturati all’interno del lògos ampliò la gamma delle conoscenze e avviò la conseguente settorializzazione del sapere. I saperi si moltiplicarono con l’estensione dei campi d’indagine e proliferarono i libri che ne racchiudevano i ragionamenti. Alessandria, il più importante centro del sapere dell’antichità, disponeva di una biblioteca con oltre 700.000 volumi e rotoli di papiro, in cui erano custodite le conoscenze acquisite dalle civiltà classiche in ogni campo, dalla filosofia all’astronomia, dalla matematica all’epica. Il crollo dell’impero romano provocò la dispersione di quell’immenso patrimonio e in alcuni casi anche l’irrimediabile perdita di segmenti della tradizione culturale tanto sapientemente sistematizzata. L’impoverimento che ne derivò fu così pervasivo che neanche la riorganizzazione avviata da Carlo Magno riuscì a ripristinare una struttura trasmissiva del sapere giuridico al servizio del sovrano. I monasteri rimasero perciò i luoghi di conservazione e riproduzione dei costosi libri in pergamena, che raramente lasciavano i banchi dello scriptorium per entrare nelle poche e poco frequentate aule delle università. Solo nel XIII e XIV secolo, con la crescita economica e l’incremento demografico, le sedi universitarie videro aumentare il numero degli iscritti, per lo più figli di mercanti e banchieri destinati alla gestione delle attività paterne, o giovani dell’emergente ceto intellettuale indirizzati verso la carriera burocratica incentivata dai regnanti che, per far funzionare la complessa macchina statale, avevano bisogno di contabili, giudici e notai. Nonostante le periodiche epidemie di peste del XV e XVI secolo, in un’Europa proiettata verso il rafforzamento delle monarchie nazionali i funzionari erano ormai indispensabili per assicurare la direzione centralizzata delle operazioni richieste per riscuotere le tasse, finanziare le guerre, approvvigionare le flotte lanciate alla conquista del continente americano. Tra i tumultuosi cambiamenti che introdussero l’Europa alla modernità, l’invenzione della stampa fu quella che

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Parole, parole, parole … dossier incise più profondamente sull’accelerazione del processo di trasformazione della mentalità medievale. La stampa a caratteri mobili rese accessibile l’acquisto dei libri a un maggior numero di persone grazie alla riduzione dei costi, che fece drasticamente diminuire il prezzo di quello che si avviava ad essere un bene usufruito non solo da un’élite. Lutero si avvalse di questa rivoluzionaria novità per far viaggiare rapidamente il suo messaggio di protesta che, per essere compreso anche dalle persone non istruite, fu divulgato in tedesco. Con la traduzione della Bibbia dal latino, l’artefice della separazione dalla Chiesa cattolica riassegnò alla lingua la sua prioritaria funzione comunicativa, archiviando nello stesso tempo una lingua morta che veniva artificialmente usata per mantenere un abissale distacco fra la casta sacerdotale e gli umili da essa indottrinati. La valorizzazione della lingua del popolo era coerente con il progetto di fede luterano, che era stato configurato per promuovere l’approssimazione dei bisogni spirituali dei credenti alla sfera del divino. Questo approccio passava attraverso la mediazione della lettura dei sacri testi, che erano oggetto di personali e assidue frequentazioni. La rivolta luterana contro la gerarchia ecclesiastica di Roma e la coeva circolazione delle idee su testi stampati negli idiomi parlati dai popoli europei delineò un contesto favorevole alla formazione di spiriti liberi che, eredi degli insegnamenti dell’Umanesimo, si apprestavano a mettere in discussione le verità teologiche e a criticare l’autorità dei pensatori antichi. Lo fecero Copernico, con l’eliocentrismo e Montaigne, con i suoi saggi sui costumi e la morale. Galileo nel campo della fisica e Shakespeare nel teatro, confermarono che il rinnovamento in atto era inarrestabile, nonostante l’ossessione inquisitoria che censurava e destinava al rogo i libri ritenuti eretici. La prosa piana e lineare del matematico pisano, adatta ad argomentare le sequenze logiche del metodo induttivo, e i graffianti versi del drammaturgo inglese, impietosi nel mettere a nudo i turbamenti dell’animo umano, confluirono nelle appassionate riflessioni di Spinoza. L’ebreo anticonformista di Amsterdam diede dignità

filosofica alla ricerca interiore, spinta oltre ogni impedimento posto dall’autorità religiosa e oltre ogni sanzione imposta dall’autorità statale. Gli illuministi furono i continuatori ideali del pensiero e dell’etica di Spinoza, assunti come guida di un coerente impegno civile. Essi diedero vita a una

caustici, che calibravano le parole con corrosivo sarcasmo per ridicolizzare l’asssolutismo dei sovrani, l’anemico immobilismo dei nobili, l’arrogante oscurantismo del clero, l’anacronismo della tortura e della pena di morte, la discriminatoria pratica della censura. Mai prima di allora la contrapposizione

frontespizio della bibbia in tedesco di Lutero in un edizione del 1541

corrente intellettuale che adoperò la lingua sia per comporre romanzi di formazione con esplicite finalità pedagogiche, sia per divulgare le conoscenze con chiari intenti didascalici. Il secolo dei Lumi fu attraversato da un fermento contagioso che si propagò dai caffè letterari e dai salotti aristocratici alle locande dei quartieri popolari. L’opera di persuasione fu condotta da polemisti

tra due concezioni del mondo era stata combattuta con un martellante impiego di discorsi stampati su agili giornali e fogli volanti. Né lo scontro politico era stato così coinvolgentemente supportato da costrutti ideologici schierati per il rovesciamento o il mantenimento del vigente stato di cose. Il percorso intrapreso dagli illuministi, seppure in contesti radicalmente muta-


Strumenticres n°57 – ottobre 2011 ti e con inedite connotazioni culturali, fu proseguito nel XIX secolo. Su un versante, la loro passione civile per la conquista di maggiori spazi di libertà andò a convergere nell’incontenibile flusso del patriottismo dei romantici, impegnati nell’affermare il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Su un altro versante, la loro inclinazione filosofica a una pragmatica soluzione dei problemi, ottenuta con la metodica applicazione delle energie intellettuali, sfociò in una incondizionata fiducia nel progresso, che fu alimentata dagli strepitosi successi tecnologici e scientifici, ottenuti sia nella produzione industriale sia con il miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. Anche il sogno settecentesco degli intellettuali, fautori di una progressiva scolarizzazione, trovò un inconfutabile riscontro nell’avanzamento del grado d’istruzione, che rese accessibile alle masse popolari la lettura di un prodotto letterario con il quale i romantici riuscirono a stabilire un rapporto simbiotico tra i sentimenti dei lettori e la percezione emotiva della realtà narrata. Nella seconda metà dell’Ottocento, il romanzo divenne un perfezionato congegno di trame che riuscì a far viaggiare mentalmente i lettori, trasferendoli in situazioni e rendendoli partecipi di dinamiche rivissute immaginariamente grazie alla potenza evocativa delle parole. Accadde con i popolari romanzi d’appendice, i contrasti cromatici degli affreschi narrativi di Hugo e Dickens, le raffinate rievocazioni psicologiche di Proust, la commossa ricostruzione di un’epopea vissuta collettivamente dai moscoviti in Guerra e pace, il lacerante scavo interiore dei tormentati personaggi di Dostoevskij, le concatenate deduzioni logiche di un flemmatico Sherlock Holmes. Il personaggio ideato da Conan Doyle fu entusiasticamente accolto da un pubblico urbanizzato desideroso di placare le proprie ansie con una terapeutica immedesimazione nell’investigatore, il quale, affidandosi alla stringente sequenzialità del ragionamento, ripristinava la normalità in un ambiente temporaneamente funestato da atti criminali. In una realtà in cui alle tensioni sociali si sovrappose l’inquietudine dell’anonimato, suscitata dal forzato ammassarsi di centinaia di migliaia di

persone nelle cinture periferiche delle città industriali, la rassicurante presenza nel testo di un detective illuminato da sensate intuizioni aiutava a esorcizzare la demoniaca presenza del male, che, al di fuori della finzione letteraria, assumeva le devastanti sembianze di Jack lo squartatore. L’alone di mistero che avvolgeva gli efferati misfatti metropolitani rese verosimile l’immaginaria figura di dottor Jekill e mister Hyde, la cui ispirazione scaturiva da suggestioni che non si discostavano di molto dall’accurata ma dirompente indagine che Freud stava conducendo sull’enigmatica convivenza di due dimensioni insospettabilmente complici: il conscio e l’inconscio. Per decodificare le sfuggenti intersezioni tra le pulsioni istintive e i tentativi di inibirle con rimozioni che però affioravano testardamente in paradossali reminiscenze oniriche, il medico viennese fece ricorso al linguaggio metaforico, con il quale si sforzò di dare corporeità all’esperienza soggettiva, spiegando il non conosciuto con il noto1. Questa ricerca, compiuta con l’intenzione di orientare il pensiero e conferire senso alle azioni quotidiane, fu inizialmente rifiutata in un’epoca in cui non si era disposti ad ammettere, nei singoli e nella collettività, l’ambigua e oscura coabitazione dentro di sé di ciò che era considerato l’estraneo da sé. Alla fine dell’Ottocento, un periodo storico in cui gli europei erano presuntuosamente impegnati a civilizzare il mondo, presero infatti forma visionarie teorizzazioni che individuarono nello straniero il nemico esterno e nell’ebreo il nemico interno da combattere. Fu così che il patriottismo degenerò in nazionalismo e le differenze culturali vennero pretestuosamente giudicate alla stregua di comprovate manifestazioni di una presunta diversità biologica. La xenofobia e l’antisemitismo divennero il tratto distintivo delle politiche governative e l’affare Dreyfus anticipò, con parole infuocate intinte nell’inchiostro dell’odio razziale, la conflagrazione bellica scoppiata all’inizio del XX secolo. Alla quale, per la prima volta nella storia, si accompagnò una persistente e sistematica persecuzione etnica, che 1 G. LAKOFF, M. JOHNSON “Metafora e vita quotidiana”, Bompiani, Milano, 1998

ebbe come conseguenza l’espulsione dei profughi e la drammatica deportazione degli armeni. I regimi totalitari, sprigionatisi dalle ferite infette della prima guerra mondiale, inasprirono i toni nazionalistici e guerrafondai di una propaganda che fu spregiudicatamente utilizzata per falsificare l’evidenza, distorcere i fatti, deformare la realtà. Furono inoltre organizzate mobilitazioni oceaniche, scenograficamente architettate per impressionare i presenti che, in un crescente stato di esaltazione, assorbirono discorsi deliranti. I risultati furono sotto gli occhi di tutti quando, nel 1945, le carneficine della seconda guerra mondiale svelarono l’inganno coercitivo di un vocabolario mistificatorio, che aveva camuffato lo sterminio degli ebrei come “soluzione finale” e le velleità espansionistiche come “conquista dello spazio vitale”. Scampato agli orrori di Auschwitz, Primo Levi affidò alla linearità della sua rigorosa sintassi il compito di perlustrare gli abissi di disumanità in cui si era sprofondati, dosando lucidamente le parole per raccontare un pietoso e umiliante precipitato di devianze che andavano annunciate e rese accessibili a chi le ignorava. I toni accesi del conflitto appena conclusosi non furono dismessi, anzi servirono a supportare la demarcazione manichea di un mondo diviso in promotori e annientatori della libertà. La “guerra fredda” favorì l’accumulo di ordigni nucleari e accreditò interventi armati combattuti localmente con armi tradizionali; ma lo scontro fra Stati Uniti e Unione Sovietica fu soprattutto pilotato da abili mosse ideologiche, che avvalorarono l’irriducibilità della polarizzazione mediante un’incessante demonizzazione del rivale. La contrapposizione si concluse infatti solo con la sconfitta di uno dei contendenti, stremato economicamente e perdente sul piano della legittimazione dei valori, che al contrario gli Stati Uniti erano riusciti a fare accettare su scala internazionale come princìpi universalmente riconosciuti. Il disastroso esito per i sovietici fu determinato da un’indubbia superiorità dell’avversario, dotato di un apparato propagandistico che ha saputo convincere l’opinione pubblica mondiale della bontà del modello,

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Parole, parole, parole … dossier tuttora garante di una competizione interna che assicura il pluralismo politico, stimola la produzione e il consumo di beni, mantiene un alto grado di benessere (anche se a scapito di milioni di persone delle aree povere del pianeta). Nonostante l’enormità del deficit statale, il recente crollo delle borse e il costo delle guerre in corso, il modello conserva una sua solidità perché ha saputo rinnovare la sua immagine di paese dinamico, capace di portare alla presidenza della repubblica il figlio di un immigrato di colore, che con i suoi discorsi ha ridato vigore agli ideali di pace e di giustizia sociale. Con Obama le parole che esprimono lealmente l’universo che ci circonda si sono prese

camaleontico che, grazie al monopolio televisivo, ha così disinvoltamente condizionato gli atteggiamenti mentali e i comportamenti sociali da attestarsi saldamente al potere, abilmente adoperato per neutralizzare sia il contraccolpo delle istituzioni, sia la resistenza di chi non si rassegna a piegarsi alla telecrazia della spettacolarizzazione. I resistenti, consapevoli che le parole non veicolano significati univoci né unilaterali, prediligono le sfumature del dubbio e continuano perciò a frequentare il mondo delle parole che aiutano a comprendere la realtà nel rispetto della libertà interpretativa e della coscienza critica dei soggetti. È una pratica che abitua al dialogo, esercita al decentra-

la rivincita sulle parole che fabbricano concetti illusori e depistano la mente. Ma la vittoria rischia di essere effimera per due esiziali motivi. In primo luogo, perché gli imprenditori della paura sono instancabilmente al lavoro per identificare un fantomatico nemico, la cui incombenza dovrebbe indurre i cittadini a barattare una porzione di diritti in cambio di una promettente sicurezza. In secondo luogo, perché si sono inesorabilmente abbassate le difese immunitarie contro l’uniformità di un pensiero e di un linguaggio colonizzati da un uso intenzionalmente manipolatorio delle parole, tipico dei messaggi pubblicitari nei quali prevale la forma sui contenuti, l’apparire sull’essere, l’enfasi retorica sull’analisi, l’eccesso sull’equilibrio, l’istigazione a consumare sul dovere di informare. Gli effetti del fenomeno li possiamo amaramente misurare noi italiani, travolti dall’imprevedibile ma non irresistibile ascesa di un personaggio

mento del proprio punto di vista, allena all’ascolto di chi racconta paesaggi esistenziali inesplorati. I cultori delle parole, senza le quali si bloccherebbe sia il processo di sedimentazione che il rivitalizzante aggiornamento delle lingue, sanno tuttavia che una sfida è in corso. Da una parte, si registra la strenua lotta per la sopravvivenza delle lingue, che muoiono al ritmo di 25 all’anno. Di questo passo, tra cento anni, su circa 5.000 lingue attualmente parlate potrebbero restarne 500, se non interverranno dei fattori a rallentare la velocità delle cause che le stanno portando all’estinzione2. Dall’altra, si assiste acquiescenti all’impetuosa invasione degli accessori elettronici e dei canali telematici dai quali è diventato impossibile separarsi, l’iPod e You Tube, “… la prima e seconda persona singolare dell’individualismo 2 C. HAGEGE “Morte e rinascita delle lingue”, Feltrinelli, Milano, 2002

di massa. L’Io e il Tu dell’umanità comunicante, i pronomi personali dell’interlocuzione globale. Nomi brevi, assonanti, allusivi. Misteri tecnologici, nuovi mondi da scoprire e da nominare. Sono questi i miti d’oggi, le bussole che aiutano l’homo tecnologicus a navigare nel mare del presente …”3. Siamo dunque entrati in una fase di transizione in cui vediamo scomparire aspetti di un mondo, mentre quello nuovo si profila con incognite che facciamo fatica a decifrare. Ma pur nell’incertezza della metamorfosi, una costante può fungere da filo conduttore ed essa è rintracciabile nella constatazione di un dato di fatto: l’uomo abita fisicamente il mondo, ma lo vive costruendo rappresentazioni. Le parole sono i mattoni, i discorsi sono i pilastri che costituiscono la struttura dell’impianto narrativo con il quale spieghiamo il senso delle rappresentazioni. Nel succedersi delle civiltà, le narrazioni hanno subìto variazioni, assumendo la natura di elaborazioni mitologiche, credenze religiose, rivelazioni profetiche, costrutti filosofici, teorie scientifiche, invenzioni letterarie, sistemi di valori più o meno legittimi. La sintetica ricostruzione illustrata in questo articolo ne ha ripercorso schematicamente le tappe, lasciandosi guidare dal filo di Arianna di parole– chiave che offrono una segnaletica per uscire indenni dal frastuono babelico delle parole urlate nei talk–show, asfitticamente affollate nelle colonne dei giornali, oscenamente strombazzate da politici impresentabili, impunemente sperperate nel vuoto e sterile bla bla quotidiano. A chi insegna, un tale quadro d’insieme può fornire la profondità temporale di processi che si sono presentati all’appuntamento della storia vestendo abiti di parole, alle quali gli esseri umani hanno sempre attribuito molteplici funzioni. È compito dei docenti far capire ai propri studenti sia l’organica inseparabilità che lega pensieri, parole e fatti, sia la straripante potenzialità delle idee che si concretizzano in azioni dopo essere state organizzate in discorsi. 3  M. NIOLA da la Repubblica del

26/7/2008


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Il razzismo dei “colti” Giulio Sensi a colloquio con Giuseppe Faso

Il titolo del suo libro è la sintesi del grande lavoro di ricerca che ha svolto in questi anni: in “Lessico del razzismo democratico” Giuseppe Faso, insegnante e attivista “sul campo”, svela le ipocrisie di un razzismo che si veste di una pretesa “raffinatezza”, di parole colte. È sottile e vorrebbe indossare un velo di democraticità, ma crea le condizioni per rendere “oggettiva” la pratica discriminatoria.

cittadinanza”, e si aggiunga il richiamo ai doveri, come ha fatto nel 2009 il sindaco di un Comune di sinistra. Il titolo ottenuto, “Assessorato ai diritti e ai doveri di cittadinanza”, ammiccando alla parte più retriva di quella popolazione, vanifica buona parte dell’eredità antifascista di quel territorio. Il terzo esempio riguarda gli effetti perversi che si ottengono manipolando l’ordine delle parole. Il lettore di quotidiani abituato a leggere sulla sinistra il tema, Giuseppe, quali sono le parole che magari sotto forma di caratteristica soescludono? ciale o di genere (anziana… muratore… Non ci sono parole che in sé esclufunzionario) e sulla destra l’informadano. L’esclusione è l’effetto della perzione, spesso sotto forma di participio formatività della lingua, che si avvale (colta da malore… morto precipitando in particolare del lessico, adoperato da impalcatura…arrestato per corruzioin certi contesti per indicare discrimine), può incontrare, magari sulla stessa ni e inferiorità. Ma esistono diverse colonna (come è accaduto sul “Corriere strategie linguistiche per ottenere tali della Sera”, cronaca di Milano, p. 51 effetti, dalla posizione delle parole alla del 9 aprile 2004) due usi differenti costruzione di enunciati svalorizzanti. del rapporto tra tema e informazione: Ci sono poi procedure più subdole, che “Arrestato marocchino” è un titolo che ricorrono al non–detto. convive con “Autista picchiato”. La vera notizia non è che una persona, peraltro Qualche esempio? indicata con l’appartenenza nazionale Ne faccio tre, diversi dal punto di (visto che deve aver fatto qualcosa di vista delle strategie. Il primo risale male) sia stata arrestata, ma che l’arreal 13 gennaio del 2009 quando una stato sia un “marocchino”. Cinque righe nota di agenzia di scommesse recitapiù sotto, viene ristabilita la normale va: “I bookmaker italiani raccolgono successione tema–rema, con “Autista gli umori dopo la prima puntata del picchiato”: solo leggendo per intero Grande Fratello traducendoli in quote. Il l’articolo si saprà che l’autista aveva favorito è Ferdi Berisa, il montenegrino altre caratteristiche, tra cui quella di di etnia rom arrivato da profugo in Italia essere salvadoregno: ma questa è stata e riscattatosi nel ruolo di cuoco”. Da taciuta perché si tratta di una vitticosa doveva riscattarsi Ferdi Berisa? Di ma. Si tratta di un uso subdolo della essere “di etnia rom”, o “montenegrino”, tematizzazione, studiato a suo tempo o “profugo”? la decisione è lasciata da Michael Halliday: purtroppo anche il al lettore, che decodifica la nota in cronista di mezza tacca ci riesce. base al senso comune, anche quando se ne vergogna. Secondo esempio: Chi adopera tali parole, o attua la parola “doveri”, in sé, è tutt’altro tali strategie, è consapevole dei loro che escludente. Anzi. La riflessione effetti? mazziniana le ha donato la capacità Abbiamo molte più competenze pragdi indicare percorsi di individuazione malinguistiche di quanto non siamo emancipativa e ancora cent’anni dopo consapevoli: non è detto che chi pratica una delle testimonianze decisive della una lingua dell’esclusione, e spesso “ne sensibilità antifascista (“Conversazione è parlato”, ne sia sempre conscio. Certo, in Sicilia” di Vittorini) fa dei “nuovi la resistenza a riflettere sull’uso di alcudoveri” uno slogan memorabile. Ma ni termini, da “clandestino” a “badante”, si prenda un “Assessorato ai diritti di è un sintomo allarmante: come se ci

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Parole, parole, parole … dossier fossero espressioni più “naturali” o più “comode” a cui è difficile rinunciare, senza porsi il problema della responsabilità che chi parla si assume. Ho fatto in tempo a percepire la presunta naturalezza con cui si diceva “serva” e si leggeva “negro”. Sono termini obsoleti, pur essendo sembrati, non molti decenni fa, del tutto “naturali” e “innocenti”. Altri oggi ce ne sono, che ci piace considerare similmente innocenti. E c’è chi per difenderne l’innocenza è disposto a uccidere, come ha scritto Luca Rastello. Perché hanno così successo? C’è un gioco di società che in alcuni momenti storici è facile da imparare: consiste nell’adeguarsi a gesti, parole, cenni e ammicchi volgari. Per analogia a un vecchio termine della sociologia delle migrazioni, si potrebbe parlare di “conformizzazione anticipatoria”. Ci vuole senza dubbio un certo talento per intercettare tale richiesta di parole al ribasso: chi ha inventato “buonismo” e “badanti” o ha rilanciato “efferato” e “clandestino” ha mostrato di saper frequentare con profitto questa zona di frontiera tra la resa al senso comune e la smania di anticiparne le parole d’ordine più becere. Credo che il successo di queste innovazioni o reinvenzioni non dipenda soltanto da una scarsa attenzione ai gesti e ai comportamenti (anche linguistici) che favoriscono la disumanizzazione. Molti fattori spingono a un abbandono delle forme anche più semplici di pensiero, che comportano comunque responsabilità. Ci si affeziona a ciò che parla in noi senza interrogarlo, ripetendo slogan ed etichette vuote di senso o ridicole (come ha mostrato di recente Zagrebelsky nel suo libretto sulle abitudini linguistiche). C’è una spinta alla conformità linguistica che probabilmente ha le radici ultime nella paura e nell’insicurezza sociale, e nella mancanza di prospettive culturali e politiche. Ed è diffusa un’immagine così deteriore di sé, da far accettare come “naturali” e “sincere” le espressioni più volgari. Nessun comico sarebbe riuscito a immaginare il lapsus sfuggito in TV (fine giugno 2011) a un esponente della maggioranza di governo: “Non abbiamo messo le tasche nelle mani degli italiani”. Ma in questi casi le armi del ridicolo,

affermerebbe presso il senso comune senza la mediazione di chi ha avuto il privilegio di apprendere strategie di persuasione e quello di avere accesso agli editoriali di quotidiani e riviste Quante responsabilità ha la politica e (magari per occuparsi di argomenti su cui non ha competenze migliori rispetquanta ne hanno i media? to all’uomo della strada, tanto che non Le responsabilità sono proporzionali fa che ripeterne tic volgari e pregiuall’accesso al discorso pubblico e alle dizi). La legittimazione colta della funzioni istituzionali che si è chiamati rappresentazione di senso comune dei a svolgere. È chiaro che non uso la parola “responsabilità” in senso debole, migranti passa attraverso varie modalità, dall’accondiscendenza al linguaggio ma facendo riferimento al “principio degradato, fino alla costruzione di dati, responsabilità” (Jonas)1. È vero, a volte bisogna fare uno sforzo per ricordarsi grafici e locuzioni scientificamente di quanto sia centrale “rispondere a…” scorrette: ricordo in particolare la e “rispondere di…” nella vita civile. Ma “propensione allo stupro” dei rumeni è una nozione che si può riconquistare, di un famigerato articolo di Ricolfi e per agire secondo giustizia. la presunta dimostrazione di Barbagli della non–selettività dei controlli sugli Che rapporto c’è fra la violenza immigrati da parte della polizia italiana, verbale e l’intolleranza che si afferma sopravvissuta per un decennio a riedinella società? zioni, e cassata solo di recente: tanto Un rapporto molto stretto. Le parole ci ha messo la “comunità scientifica” a svalorizzanti promettono impunità a indicarne l’assoluta implausibilità. Ma chi compie atti di discriminazione, e intanto per anni studenti sprovveduti di perfino gesti balordi, fino all’omicidio. sociologia e politici superficiali hanno E infatti spesso accompagnano il gesto. ripetuto la favoletta di Barbagli. Chi ha picchiato a morte Abdul Guibre, a Milano, urlava “negro”, un’etichetta Cosa si può fare per sradicare questo deumanizzante senza la quale forse il uso pericoloso delle parole? E in parragazzo sarebbe ancora vivo. L’intolleticolare nell’ambito scolastico? ranza per essere praticata ha bisogno “Sradicare” è un termine che eviterei. di un’asimmetria di potere, e sono le L’uso di tali parole e costrutti linguistici parole che assegnano posti svalorizzati. si può scoraggiare con efficacia, sopratGli esempi sono infiniti, purtroppo. Nel tutto a scuola, ma anche in ogni altro discorso pubblico la violenza verbale è luogo. Ci vuole pazienza, ironia, e un dilagata, e la richiesta di un controllo po’ di capacità decostruttiva. Basterà viene irrisa come un richiamo al “poliricordare che ogni comunicazione è tically correct”, un fenomeno pressoché anche negoziazione di senso, e che sconosciuto in Italia, ma il cui fantasma chi parla è responsabile (più o meno è combattuto in anticipo –con l’effetto consapevole) della scelta delle proprie di aver fatto sparire la virtù civica della strategie espressive, e di ogni singola mitigazione (che, s’intende, non ha parola. Converrà perciò mostrare questi nulla a che fare con la moderazione, dispositivi, e invitare a rendersene conridotta ieri a pusillanimità e oggi più to e decidere se assumerli consapevolspesso a maschera dell’intolleranza). mente. Il modo migliore per mostrare un dispositivo è quello di farlo incepCosa intendi per “razzismo dei colti” ? pare. L’ho imparato quando, anni fa, Si tratta del contributo che i colti, in ho deciso di riappropriarmi della sala maniera più o meno consapevole, ma professori della scuola in cui insegnavo, con una certa efficacia, danno alla da cui mi teneva lontano la frequenza riproduzione di stereotipi. Un interven- con cui due insegnanti galletti racconto lucidissimo di Balibar, tradotto in ita- tavano barzellette da caserma a uno liano nel 1991, ci ricordò che una serie stuolo di signore più o meno giovani. di parole d’ordine svalorizzanti non si Cominciai a fare da pubblico attento a ogni barzelletta, e alla fine chiedevo: “e 1  H. Jonas, Il principio responsabilità, poi?”, mostrando di non averla capita. Einaudi, Torino, 1990 L’incauto collega cercava di chiarirmedi cui parlava Leopardi, non bastano a convincere molti politici dell’opposizione a prendere le distanze da un’espressione che ormai dilaga nella loro bocca.


Strumenticres n°57 – ottobre 2011

Parole sporche, parole pulite

ne i passaggi, la raccontava di nuovo: nulla. Proprio non capivo. Dopo un paio di tentativi penosi, diventava evidente che c’era una differenza di presupposizioni che mi teneva al riparo dalla volgarità. La convinzione con cui mi calavo nella parte e l’autorevolezza che di giulio sensi mi si riconosceva pian piano portarono all’estinzione dell’abitudine volgare. Sull’immagine dello straniero nei Strategie plurali di decostruzione sono o vittime di reato. Gli stranieri sono media italiani domina l’etichetta della possibili dappertutto, e praticabili con più presenti degli italiani (di molti “clandestinità” che, prima di ogni altro divertimento (e signorilità). Se poco punti percentuali) come autori di fatti termine, definisce l’immigrazione in conosciuti in un luogo, appena si sente criminali. L’analisi delle parole ricorquanto tale. “Rom e rumeni –scrive dire “badante”, si può chiedere cosa renti nei titoli dei telegiornali su notizie significa. Tutti mostreranno stupore, ma un gruppo di ricerca dell’Università La riguardanti l’immigrazione mostra che basterà dire di essere appena tornati da Sapienza di Roma che da anni studia il “clandestino” è il vocabolo più presente una permanenza all’estero di 10 anni, e fenomeno– sono il gruppo etnico e la (43 volte), seguito da “sicurezza” (32), nazionalità più frequentemente citati sostenere (come è vero), che dieci anni “romeno” (30) e “governo” (27). fa in Italia non si usava tale termine. In nei titoli di Tg. Nei titoli dei quotidiani Se si considera che alcuni dei quotile questioni relative all’immigrazione questi casi il gioco riesce meglio se si diani analizzati non sono certo noti per sembrano persino più vincolate alla è in due: sarà x a dire che y è appena assecondare atteggiamenti che possocondizione giuridica dell’immigrato e tornata in Italia, etc. Ma sarà poi x a no risultare discriminatori, si capisce proporre un po di informazione, usando agli episodi di cronaca nera. Le parole, bene l’entità del problema. dunque, contribuiscono a tematizzare non solo strumenti filologici alti, ma Conoscere le “parole sporche” la presenza degli immigrati in Italia anche riferimenti alla portata di tutti. Il contributo dei media nella tematizAd esempio, nel film di Verdone “Viaggi con un riferimento forte alla minaccia zazione della presenza degli stranieri costituita dagli stranieri alla sicurezza di nozze”, del 1995, della signora che in Italia è uno dei nodi centrali del degli italiani”. esercita lavoro di assistenza domiciliaL’analisi dei ricercatori della Sapienza, libro “Parole sporche” di Lorenzo re a un certo punto un personaggio, in Guadagnucci, giornalista e attivista un contesto comico e con tono risentito, che inevitabilmente si riferisce ad un determinato periodo – il 2008 – riguar- sociale che ha promosso insieme ad dice “l’infermiera albanese”; mentre il altri giornalisti (Beatrice Montini, Carlo da anche il linguaggio utilizzato dai missionario di un altro film di Verdone, Gubitosa, Zenone Sovilla) un gruppo media, nella fattispecie telegiornali e del 2008, “Io loro e Lara”, di ritorno in chiamato “Giornalisti contro il razziquotidiani italiani (1084 servizi televiItalia dopo 10 anni, sbotta col padre smo”. Nel 2008, nel momento in cui, sivi e 1540 articoli): le edizioni serali in un improbabile: “Ti sei messo con anche per ragioni politiche assistevamo dei 7 telegiornali nazionali, i quotidiala badante!”. Naturalmente la scuola è all’apice delle campagne stampa contro ni Corriere della Sera, La Repubblica, un luogo privilegiato per tali strategie gli immigrati, ha lanciato il primo L’Unità, Il Giornale, Avvenire e Metro. I socratiche. E ci sono i primi repertori appello intitolato “I media rispettino di riflessioni decostruttive sulle “parole risultati sono preoccupanti: le notizie il popolo rom”. Dalla campagna è nato di cronaca nera o giudiziaria coprono che escludono”. Certo, non sempre si un sito (www.giornalismi.info/menel caso della televisione il 60% degli ottengono effetti positivi: per tornare diarom) che mette pubblicamente a spazi. In 76 casi su 100 protagonisti alla faccenda dei “diritti–doveri”, il disposizione argomenti e un glossario sono le persone straniere come autrici sindaco interessato ha avuto molte lettere private da altrettanti cittadini e intellettuali, ma non ha saputo tornare sui suoi passi. Ma sono casi estremi (e forse ci si è esposti ingenuamente all’odio nei confronti della cultura che accomuna tanti politici). Il più delle volte, pratiche nonviolente di negoziazione ottengono attenzione e curiosità. Lo strumento fondamentale, naturalmente, rimarrà la pratica di linguaggi La Spagna ha lanciato la campagna “Adotta una parola”, sani e di gesti di accoglienza. in Italia esistono un gruppo su Facebook e un blog analoghi: Adotta una parola www.facebook.com/group.php?gid=38923431950#! Parole Desuete: http://paroledesuete.wordpress.com/

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Parole, parole, parole … dossier per combattere questa deriva. L’analisi alla pericolosità dell’insistere, sopratdel libro di Guadagnucci affronta molti tutto nei titoli, sulla provenienza etnica punti: dal senso delle parole che vendi presunti autori di reati. Uno dei gono intese “neutre” senza provocare meriti della Carta di Roma (il cui nome un minimo dubbio (come clandestino, “proprio” è Protocollo deontologico extracomunitario, vu cumprà) alla linea concernente richiedenti asilo, rifudi confine che esiste fra la percezione giati, vittime della tratta e migranti) del pericolo e la sicurezza intesa come risiede anche nel fatto che fornisce un risposta ad un’emergenza. Il filo conglossario ai giornalisti per rispettare i duttore è la riflessione sulle parole, mai principi stabiliti dal Codice deontologineutre nei vari contesti come qualcuno co. La questione del linguaggio è cenvorrebbe far credere, usate dai giortrale, perché molti dei luoghi comuni nalisti. Fra le caratteristiche ricorrenti nascono e crescono proprio a causa di “dell’informazione che discrimina”, ve un utilizzo malsano delle parole, molto ne sono alcune su cui è importante spesso per scarsa conoscenza della soffermare l’attenzione. Ed esistono, materia, in particolare quando si è dacaso interessante, molte similitudini vanti a definizioni giuridiche, o talvolta con l’informazione che certa stampa per malafede. Il glossario chiarisce, ad israeliana fornisce sui palestinesi come esempio, che un richiedente asilo “è ricostruito da un giornalista israeliano, colui che è fuori dal proprio paese e Yonatan Mendel in un articolo ripreso presenta, in un altro stato, domanda di dal settimanale Internazionale nel asilo per il riconoscimento dello status 2008. “I nostri media –scrive Guadadi rifugiato in base alla Convenzione gnucci– hanno ben chiara la distinziodi Ginevra sui rifugiati del 1951, o ne fra autoctoni (“noi”) e immigrati per ottenere altre forme di protezione (“loro”). Parlano spesso di extracomuinternazionale. Fino al momento della nitari senza specificare le nazionalità, decisione finale da parte delle autorità li definiscono clandestini e li associano competenti, egli è un richiedente asilo alla criminalità. Gli immigrati nei nostri ed ha diritto di soggiorno regolare media sono “senza nome”, nelle notizie nel paese di destinazione. Il richiedi cronaca nera viene enfatizzata dente asilo non è quindi assimilabile l’appartenenza nazionale, a scapito di al migrante irregolare, anche se può altri dettagli comunemente usati per gli giungere nel paese d’asilo senza docu“autoctononi” (l’età, il lavoro, il nome menti d’identità o in maniera irregolare, e cognome). Gli immigrati sono senza attraverso i cosiddetti ‘flussi migratori voce e quando l’accusato è straniero o misti’, composti, cioè, sia da migranti rom o sinto, l’elementare precauzione irregolari che da potenziali rifugiati”. di riportarne la versione viene regolarUn rifugiato è invece “colui al quale è mente trascurata”. stato riconosciuto lo status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra Un codice di condotta: del 1951 sui rifugiati, alla quale l’Italia la Carta di Roma ha aderito insieme ad altri 143 PaePratiche spesso avvertite come “norsi. Nell’articolo 1 della Convenzione mali” dai giornalisti e da fruitori dei il rifugiato viene definito come una diversi mezzi di informazione ma che, persona che: ‘temendo a ragione di almeno in parte, sono oggi “sconsiessere perseguitato per motivi di razza, gliate” anche dalla Carta di Roma, il religione, nazionalità, appartenenza codice deontologico che l’Ordine dei a un determinato gruppo sociale od Giornalisti si è dato in risposta alle opinioni politiche, si trova fuori del campagne stampa che avevano calcato paese di cui ha la cittadinanza e non la mano nel criminalizzare, come nel può o non vuole, a causa di tale timore, caso della nota strage di Erba, gli avvalersi della protezione di tale paese’. stranieri con fatti di cronaca. La Carta Lo status di rifugiato viene riconosciuto di Roma è un codice che rappresenta a chi può dimostrare una persecuzione una conquista importante per la cateindividuale”. Ci sono poi i beneficiari goria dei giornalisti, ma che mantiene di protezione umanitaria: coloro che una certa debolezza nei contenuti. In –pur non rientrando nella definizione particolare, guardando alla questione di ‘rifugiato’ ai sensi della Convenzione lessicale, manca un chiaro riferimento del 1951 poiché non sussiste una per-


Strumenticres n°57 – ottobre 2011 secuzione individuale– necessitano comunque di una forma di protezione in quanto, in caso di rimpatrio nel paese di origine, sarebbero in serio pericolo a causa di conflitti armati, violenze generalizzate e/o massicce violazioni dei diritti umani”. In base alle direttive europee questo tipo di protezione viene definita ‘sussidiaria’. La maggior parte delle persone che sono riconosciute bisognose di protezione in Italia (oltre l’80% nel 2007) riceve un permesso di soggiorno per motivi umanitari anziché lo status di rifugiato. Quando si parla di vittima della tratta ci si deve riferire ad una persona che, a differenza dei migranti irregolari che si affidano di propria volontà ai trafficanti, non ha mai acconsentito ad essere condotta in un altro paese o, se lo ha fatto, ci è stato costretto dalle azioni coercitive e/o ingannevoli dei trafficanti o dai maltrattamenti praticati o minacciati ai suoi danni. Scopo della tratta è ottenere il controllo su di un’altra persona ai fini dello sfruttamento”. Per ‘sfruttamento’ s’intendono “lo sfruttamento della prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato, la schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo degli organi”. Anche nelle definizioni più comuni e apparentemente semplici è richiesta attenzione e precisione. Un migrante/immigrato “è colui che sceglie di lasciare volontariamente il proprio paese d’origine per cercare un lavoro e migliori condizioni economiche altrove. Contrariamente al rifugiato può far ritorno a casa in condizioni di sicurezza”. Un migrante irregolare è colui che: ha fatto ingresso eludendo i controlli di frontiera; oppure è entrato regolarmente nel paese di destinazione, ad esempio con un visto turistico, e vi è rimasto dopo la scadenza del visto d’ingresso (diventando un cosiddetto ‘overstayer’); oppure ancora non ha lasciato il territorio del paese di destinazione a seguito di un provvedimento di allontanamento.

Bandire la parola “clandestino”

Il migrante irregolare è comunemente definito “clandestino” il termine più diffuso e che ha assunto molteplici significati negativi. La Carta di Roma non raccomanda il non utilizzo di una parola pericolosa, come invece sarebbe

necessario. Una proposta in questo senso è stata invece fatta dal gruppo di “Giornalisti contro il razzismo” che ha lanciato l’appello per il rispetto del popolo Rom e per la messa al bando della parola clandestino a cui hanno aderito diversi mezzi di informazione. Lo stesso gruppo ha anche iniziato ad elaborare un glossario delle parole da non usare (clandestino, extracomunitario, vu cumprà, nomade e zingaro) con l’indicazione delle alternative corrette (irregolari, senza documenti, non comunitario, ambulante, venditore, sinto, rom).

Strumenti per decostruire

Lavorare sui luoghi comuni che il linguaggio, sia quello dei media sia quello della vita di tutti i giorni, crea quando si parla di temi legati all’immigrazione è una delle azioni più importanti per l’educazione alla cittadinanza. Lo è anche per le Organizzazioni Non Governative, le più attente delle quali stanno abbandonando progressivamente la distinzione geografica fra nord e sud del mondo per una distinzione fra nord e sud legata agli aspetti economici, sociali e ambientali. Giuseppe Faso, nell’intervista pubblicata su questo dossier, parla della possibilità di “scoraggiare con efficacia, soprattutto a scuola, ma anche in ogni altro luogo l’uso di tali parole e costrutti linguistici”. Serve, come afferma Faso, pazienza, ironia, e un po’ di capacità decostruttiva. Strumenti per accompagnare tali operazioni ne esistono molti. Uno di questi è stato tradotto e portato in Italia dall’Ong Cospe di Firenze e si chiama “A Diversity toolkit. Guida sulla diversità culturale nei programmi d’informazione del servizio televisivo pubblico” scaricabile anche dal sito www.tuningintodiversity.eu. Il toolkit è frutto di un progetto europeo che ha coinvolto 12 servizi pubblici di altrettanti paesi (l’Italia è rimasta fuori) e un gruppo di Ong. Il lavoro scaturisce anche da un’ammissione forte delle emittenti europee del servizio pubblico che –come si legge nell’in-

troduzione– hanno tutte “la mission di promuovere la diversità culturale, per servire l’intera popolazione nazionale e per riflettere i diversi caratteri culturali, etnici e linguistici della nostra società curandone sia l’aspetto dei contenuti, che quello della diversificazione all’interno della propria forza lavoro”. In questi ambiti si è raggiunta la consapevolezza che “tutti i programmi, molto spesso, possono rafforzare gli stereotipi e replicare le incomprensioni sulle minoranze”. Il manuale, che ha in allegato un dvd con preziosi video, contiene molti esempi ripresi da telegiornali di tutta Europa che vengono esaminati e de–strutturati per dimostrare distorsioni, stereotipi, pregiudizi. Contiene anche domande e spunti di riflessione utilizzabili da giornalisti in esercitazioni individuali. Il target del toolkit sono proprio i giornalisti, ma un suo utilizzo “educativo” è prezioso anche per quella grande fetta di popolazione che l’informazione non la produce, ma la fruisce e che è troppo spesso indifesa di fronte alle discriminazioni, rudi o sottili, dei media stessi.

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Parole, parole, parole … dossier

Innamorarsi del mondo nonostante la Storia

La ragion d’essere della letteratura di anna di sapio

Viviamo immersi in un oceano di parole, di slogan e frasi fatte, di formule stereotipate, circondati da grandi rumori consumistici, sottoposti a sollecitazioni continue alla comunicazione. La realtà contemporanea è dominata dall’invadenza pubblicitaria, dal consumismo, dal narcisismo, dalla spettacolarizzazione in ogni ambito della vita quotidiana, dai reality e dai talk show. Trionfa l’omologazione e le tecniche di persuasione dei mass media e della pubblicità favoriscono la diffusione dell’approssimazione Le nuove tecnologie stanno imprimendo cambiamenti sempre più rapidi e significativi nel modo di comunicare ed informarsi, dal momento che esse sembrano interferire direttamente con la nostra sfera cognitiva, plasmando così anche la nostra rappresentazione della realtà. “Alle volte – sostiene Calvino – mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. Non m’interessa qui chiedermi se le origini di quest’epidemia siano da ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass–media, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste

“La Storia è una dimenticata notte insonne; la Storia e il reverente timore primordiale accompagnano sempre i nostri inizi, perché il destino della poesia è di innamorarsi del mondo, nonostante la Storia”

– derek walcott –

del linguaggio.”1 Come si colloca il libro, la letteratura nella società attuale, una società in rapida e profonda trasformazione,? La scuola deve essere al servizio della competizione nel mercato globalizzato? Bisogna rassegnarsi alla tendenza che considera la scuola, l’istruzione e i saperi alla stregua di una merce? Le giovani generazioni devono essere preparate a competere sui mercati o vanno dotate di strumenti critici capaci di leggere la complessità e di agire consapevolmente? Oggi la tendenza generale nelle riforme europee della scuola è quella di penalizzare le discipline umanistiche (storia, filosofia, letteratura) a vantaggio di discipline ritenute più utili: un futuro perito, un informatico, un ingegnere che se ne fa della letteratura, tuttalpiù può servire al futuro letterato.2 Per rispondere a questa domanda sarà bene rivolgersi direttamente a poeti e narratori. Per Josif Brodskij la letteratura è “l’unica forma di assicurazione morale di cui una società può disporre (…) l’antidoto permanente alla legge della giungla”; essa offre “l’argomento migliore contro qualsiasi soluzione di massa (…) se non altro perché la diversità umana è la materia prima della letteratura, oltre a costituirne la ragion d’essere. (…) dobbiamo dire e ripetere che la letteratura è una maestra di finesse umana, la 1  Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Oscar Mondadori, Milano 2010, pp.66–7 2  Gian Luigi Beccaria, Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi, Garzanti, Milano 2008, p. 299

più grande di tutte, sicuramente migliore di qualsiasi dottrina; dire e ripetere che ostacolando l’esistenza naturale della letteratura e l’attitudine della gente a imparare le lezioni della letteratura, una società riduce il proprio potenziale, rallenta il ritmo della propria evoluzione e in definitiva, forse, mette in pericolo il suo stesso tessuto”.3 Concetto ribadito quando afferma che l’indifferenza, o il disprezzo verso i libri, è un delitto che una persona paga con tutta la sua vita, e se il delitto è commesso da un’intera nazione, essa lo paga con la sua storia. Ricorda Brodskij che esistono tre modi di conoscenza: quello analitico, quello intuitivo, quello dei profeti biblici, la rivelazione; la poesia, diversamente da altre forme letterarie, le usa tutti e tre, ma in particolare il secondo e il terzo. Tutti e tre questi modi sono presenti nella lingua, ma a volte accade che il poeta, grazie a una parola, a una rima, riesca a spingersi più lontano di quanto avesse immaginato. Chi scrive poesia lo fa perché “l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo.”4 Il mondo immaginario creato dai racconti, dai romanzi, dalle poesie aiuta a vivere, nutre l’intelletto e il cuore, offre una chiave per leggere il mondo, insegna a scegliere, offre argini alla 3  Iosif Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano 1988, pp. 14–16 4  Iosif Brodskij, Un volto non comune, in Daniela Padoan (a cura di), Tra scrittura e libertà. I discorsi dei premi Nobel per la letteratura, Editrice San Raffaele, Milano 2010, pp. 244–256


Strumenticres n°57 – ottobre 2011 Charlie Chaplin in una scena de “Il grande dittatore”

banalità e alla omologazione, ci aiuta a capire chi siamo e da dove veniamo, a comprendere le contraddizioni della modernità. Lo scrittore, l’artista più in generale, riesce a istituire rapporti nuovi, insoliti fra le cose. È l’infinita complessità del mondo e dell’avventura umana, che ci viene presentata da scrittori e poeti. “Ci preoccupiamo delle parole, noi scrittori. Le parole significano. Le parole indicano. Sono frecce. Frecce conficcate nella ruvida pelle della realtà. – scrive Susan Sontag – (…) Il primo compito di uno scrittore è dire la verità, non avere delle opinioni …. e rifiutarsi di diventare complice di menzogne e disinformazione. La letteratura è la casa della sfumatura e della contraddizione che si oppone alle voci della semplificazione. Compito dello scrittore è rendere meno credibile chi saccheggia il pensiero (…) Compito dello scrittore è raffigurare le realtà: le realtà ripugnanti, le realtà estatiche. (…) Gli scrittori seri, i creatori di letteratura, non dovrebbero soltanto esprimersi in modi diversi da quelli utilizzati dal discorso egemonico dei mass media. Dovrebbero opporsi al diffuso chiacchiericcio dei telegiornali e dei talk show. (…) sostenere la riflessione, perseguire la complessità (…) scuoterci. (…) Ricordarci che potremmo aspirare a diventare diversi, e migliori, di come siamo. Ricordarci che possiamo

cambiare”.5 Nella società dei consumi, nell’economia globalizzata, in tempi di imperante tecnologia – sostiene Sontag – la cultura è in ribasso, non gode di grande stima, così pure la letteratura, oggi l’ideologia dominante che passa per cultura si propone di rendere superato il compito critico e sovversivo del narratore . Perché tanti scrittori e poeti sono stati e sono perseguitati dal potere? La lista degli scrittori censurati, incarcerati, esiliati o addirittura assassinati è lunga, se ne trova traccia anche nei rapporti annuali di Amnesty International. La letteratura è refrattaria a qualsiasi potere, ideologia.6 Milan Kundera nell’Arte del romanzo sostiene che la Verità totalitaria esclude la relatività, il dubbio, la domanda e quindi mal si concilia con lo spirito del romanzo che si fonda proprio sulla relatività e l’ambiguità delle cose

5  Susan Sontag, La letteratura e la dittatura del moderno, “Sagarana” n. 18 gennaio 2005, www. sagarana.it/rivista/numero18/saggio2.html; si veda anche della stessa autrice La coscienza delle parole, “Sagarana” n. 32 luglio 2008, www. sagarana.net/rivista/numero32/saggio9.html 6  Esistono certo romanzi a tesi, come i romanzi del realismo sovietico, o scrittori che hanno messo la loro arte a servizio di una ideologia: in questi casi si tratta di opere che lasciano poca libertà al lettore di interpretare il mondo e l’esistenza. Come disse Camus nel discorso per il Premio Nobel, quali che siano le debolezze personali dello scrittore, la nobiltà del suo mestiere affonda “sempre le sue radici in due impegni (…) il rifiuto di mentire su ciò che si sa e la resistenza all’oppressione”.

umane.7 Gao Xingjian, scrittore cinese esule in Francia, ricorda che mai come nel secolo passato la letteratura è stata così segnata dalla politica e gli scrittori hanno subito un’oppressione senza precedenti. Ma è proprio nel periodo in cui il potere gli impedisce di esprimersi come artista e come uomo che lui arriva a comprendere quanto la letteratura sia importante, perché permette di conservare una coscienza umana. “La lingua è la cristallizzazione più alta della civiltà umana. Raffinata, penetrante, invadente, esplora il mondo emotivo e cognitivo dell’uomo stabilendo un nesso tra il soggetto sensibile e la sua conoscenza della realtà. La parola scritta è straordinaria perché permette a individui isolati, appartenenti a generazioni e paesi diversi, di comunicare tra loro (…) La lingua, nata con la civiltà umana, è prodigiosa come la vita e la sua forza di espressione è inesauribile; il lavoro dello scrittore consiste nello scoprire e svilupparne le potenzialità nascoste (…) laddove gli antichi hanno già detto, c’è ancora da dire, laddove gli antichi si sono arrestati, da lì si può anche ripartire.”8 Purtroppo – ricorda ancora Gao Xingjian – la civiltà non progredisce di pari passo con le acquisizioni scien-

7  Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano 1988 8  Gao Xingjian, La ragion d’essere della letteratura, in Daniela Padoan, op. cit., pp.121–136

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Parole, parole, parole … dossier tifiche e tecnologiche;9 nell’era della mercificazione globale anche i libri sono diventati prodotti commerciali, ma se le tendenze del mercato dovessero influire sul giudizio estetico dello scrittore allora la letteratura sarebbe votata al suicidio. Se nel passato lo scrittore doveva resistere al potere politico o alle pressioni della società, oggi deve lottare contro la società dei consumi e le leggi di mercato, e per sopravvivere deve accettare la solitudine, anche il rischio di non pubblicare e di non essere letto. Lo scrittore che scrive solo quello di cui ha voglia, senza fini di lucro afferma se stesso e implicitamente lancia una sfida alla società. Doris Lessing e JMG Le Clézio, anch’essi premi Nobel per la letteratura, si rendono interpreti di alcuni paradossi. La Lessing contrappone le nuove generazioni del mondo occidentale “sedotte dalla tv, dal computer, da Internet”, invenzioni di per sé affascinanti che però provocano un’apatia “che impoverisce le menti”, ai giovani africani che hanno fame di libri che non possono permettersi. “Siamo una massa satolla e logora, noi nel nostro mondo (…) Abbiamo una casa piena di tesori di letteratura, che risale agli egizi, ai greci, ai romani. È tutta là, la messe di letteratura da riscoprire ogni volta da capo per chiunque sia così fortunato da incontrarla. Supponiamo che non esistesse. Quanto saremmo impoveriti, vuoti.”10 Per Le Clézio già da tempo lo scrittore “non ha più la presunzione di credere che potrà cambiare il mondo (…) Più semplicemente vuole essere testimone”. 9  Già nel 1927 Henri Bergson ricevendo il Nobel aveva sottolineato l’importanza di un equilibrio tra progresso tecnologico e livello morale del genere umano, perché un accrescimento dei mezzi materiali a disposizione dell’umanità può perfino comportare dei pericoli, delle difficoltà sociali e politiche, se non va di pari passo con un corrispondente sforzo spirituale. (Henri Bergson, Il discorso del banchetto, in Daniela Padoan, op. cit., pp. 422 e segg.) Concetto ribadito da Octavio Paz nel 1990 quando afferma che “I benefici della tecnica moderna sono innumerevoli, ma è impossibile chiudere gli occhi davanti alle carneficine, alle torture, alle umiliazioni, al degrado e alle altre sofferenze patite da milioni di innocenti nel nostro secolo”. (Octavio Paz, La ricerca del presente, in Padoan, op. cit., pp. 225 e segg.) 10  Doris Lessing, Sul non vincere il premio Nobel, in Daniela Padoan, op. cit., pp. 67 e segg.

La letteratura non è destinata a cedere il passo all’invadenza di tutte le arti che si legano all’audiovisivo; è sì una strada complessa e difficile da percorrere, “ma ancora più necessaria oggi che ai tempi di Byron o di Victor Hugo”. E l’elemento che sorregge da solo e giustifica appieno l’esigenza della letteratura è rintracciabile, secondo Le Clézio, in quel fattore primario che la caratterizza: il linguaggio. Attraverso l’uso della lingua lo scrittore, il poeta e il romanziere sono creatori proprio perché creano bellezza, pensieri, immagini, plasmandoli con gli strumenti linguistici. Il compito dello scrittore è quindi quello di porsi come custode nel senso religioso, rituale, del termine. Custodire il linguaggio significa farlo vivere, non certo preservare una cosa morta. E, far vivere il linguaggio, non significa semplicemente utilizzare le parole, significa altresì, in un senso ben più sottile, essere al loro servizio. Gli scrittori, con la loro attività, “lo celebrano, lo affinano, lo trasformano, perché il linguaggio vive attraverso di loro, grazie a loro e accompagna le trasformazioni sociali o economiche della loro epoca”. Il linguaggio non è una cosa fissata una volta per tutte, si trasforma, evolve, seguendo le vicissitudini della storia dell’uomo; tenere in vita il linguaggio, oggi, significa porsi innanzi tutto il problema di come la lingua debba riflettere la condizione esistenziale, con tutte le sue sfaccettature, dell’uomo contemporaneo. In un mondo globalizzato, la letteratura è uno dei mezzi con cui uomini e donne del nostro tempo, che vivono in aree un tempo colonizzate, possono esprimere la loro identità, rivendicare il loro diritto alla parola e ad essere ascoltati. Ma in quelle aree il libro resta ancora un lusso inaccessibile ai più. Questo ci ricorda le due grandi urgenze della storia umana cui non abbiamo ancora saputo dare una risposta: l’alfabetizzazione e lo sradicamento della fame, problemi strettamente interdipendenti. L’auspicio di Le Clézio è che nel terzo millennio appena iniziato, su questa nostra terra comune, nessun bambino sia abbandonato alla fame e all’ignoranza, sia lasciato a margine del banchetto, perché questo bambino qualunque sia il suo sesso, la sua lingua e religione, porta in sé l’avvenire della nostra razza umana. Leggere dunque, ma oggi la scelta di-

venta quanto mai difficile vista l’eccessiva offerta dei libri; l’industria editoriale sembra aver scelto di seguire le leggi del mercato, privilegiando la quantità alla qualità; ogni giorno in Italia vengono pubblicati centinaia di titoli nuovi di cui il 30% resta invenduto, le classifiche premiano chi vende di più, chi più è presente in Tv, non chi vale di più.11 È il trionfo dell’usa e getta, tutto chiede di essere consumato rapidamente, anche il libro.12 La lettura richiede silenzio, calma, solitudine, concentrazione, un tempo di attenzione lento, che contrasta con la velocità che caratterizza il nostro modo di vivere, di ascoltare, di vedere. In una società sempre più digitale in cui il libro ha perso la sua centralità educativa, in cui giovani sembrano essere sempre più estranei alla lettura,come rifamiliarizzarli al testo letterario? La scuola dovrebbe essere il luogo privilegiato dove un giovane impara a riconoscere l’importanza della letteratura e della lettura, dove, soprattutto, impara ad amarle. Non sempre è così. Tzvetan Todorov rimprovera alla scuola di aver incentrato l’insegnamento della letteratura sugli strumenti dell’analisi letteraria più che sulle opere stesse, di aver soffocato il testo con un’enorme quantità di analisi tecnico–formali, con schemi e schemini ispirati al formalismo strutturalista, finendo per allontanare ancora di più i giovani dalla letteratura,13 Eppure – spiega Romano Luperini – compito delle discipline umanistiche è proprio quello di insegnare a dare senso a un testo, perché significa dare un senso alla vita. Nell’ultimo decennio, in Italia, si è assistito invece a un arretramento, si è tornati a una “concezione passiva di letteratura intesa come insieme di nozioni e di competenze neutrali impartite da un docente sempre più inquadrato e burocratizzato e sempre meno posto nelle condizioni di svolgere la propria funzione 11  Gian Luigi Beccaria, Per difesa e per amore, op. cit., pp. 313–4 12  Non possiamo affrontare qui il discorso su cultura ed egemonia internazionale, sul controllo dell’industria culturale come chiave del successo del dominio globale, si tratta di un argomento complesso che porterebbe lontano 13  Tzvetan Todorov, La letteratura in pericolo, Garzanti, Milano 2008


Strumenticres n°57 – ottobre 2011 intellettuale di mediatore culturale”, con conseguente frustrazione per un docente che avverte che la sua disciplina è sempre più negletta in un mondo tecnocratico e utilitaristico quale quello in cui viviamo. L’insegnante si trova a dover mettere in contatto il mondo del passato e quello del presente, ma anche il mondo degli studenti italiani con quello di studenti provenienti da culture lontane da quella nazionale; si trova a fare opera di traduzione, “di trapianto fra campi del sapere fra loro remoti e fra realtà storiche e sociali sinora prive di reciproca comunicazione.”14 Il riformatore allora avrebbe dovuto partire dal livello culturale e dall’immaginario del mondo giovanile e metterlo in relazione con l’immaginario del passato, favorire la qualità invece della quantità, conferire all’insegnamento della letteratura un taglio largamente culturale, storico, antropologico, esaltare la funzione intellettuale del docente come mediatore culturale. Invece le indicazioni della riforma Gelmini vanno nel senso opposto. “O la scuola – conclude Luporini – riuscirà a ri–legittimare la letteratura come grande serbatoio di simboli, di immagini e di esperienze attuali o comunque da ridefinire sulla base di interessi e esperienze contemporanei, e come spazio interpretativo di ricerca del senso della vita attraverso le opere, oppure l’insegnamento della letteratura diventerà marginale, come è oggi, per esempio, quello della storia dell’arte, pure così importante per il nostro paese.” Sarà in grado la scuola pubblica di “offrire un terreno di resistenza etico–culturale e di proporre una grande riforma pedagogica”? Se non lo sarà verrà travolta dalla crisi e sarà una sconfitta per un paese che ha le tradizioni culturali e umanistiche dell’Italia.15

14  Romano Luperini, Insegnare la letteratura oggi, www.griseldaonline.it/luperini.html 15  Romano Luperini, La riforma Gelmini e l’insegnamento scolastico della letteratura, “menodizero” anno I, n. 3, ottobre–dicembre 2010, www.menodizero.eu; v. anche AA. VV., Che cosa fare della letteratura? La trasmissione del sapere letterario nella scuola, a cura di Dorotea Medici, F. Angeli, Milano 2002

Riprendiamoci le parole, a partire dalla scuola. di norina vitali

Premessa.

Don Milani diceva “L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo lui è il padrone”. Chi di noi ha cominciato ad insegnare negli anni ’70 ricorda bene la frase di don Milani anche perché questo principio, tra l’altro, ha notevolmente influenzato il nostro modo di insegnare, la nostra didattica, soprattutto per quanto riguarda gli insegnanti di italiano. Oggi questo tema torna prepotentemente alla ribalta, viene fortemente ripreso, ma arricchito, sviluppato, attualizzato. Da una lezione sulla democrazia di Zagrebelsky: “… La democrazia è il regime della circolazione delle opinioni e delle convinzioni nel rispetto reciproco. Lo strumento di questa circolazione sono le parole. Si comprende come, in nessun altro sistema di reggimento delle società, le parole siano tanto importanti come in democrazia. Si comprende quindi che la parola, per ogni spirito democratico, richieda una cura particolare: cura particolare in un duplice senso, quantitativo e qualitativo. Il numero delle parole conosciute ed usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità…”1 E fino a qui si tratta di una rivisitazione del pensiero di don Milani, ma Zagrebelsky continua: “… Con il numero, la qualità delle parole. Le parole non devono essere ingannatrici, affinché il confronto delle posizioni sia onesto. … Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti…– e più avanti, citando Orwell (più che mai attuale) – … il che significa innanzitutto 1  Lezione di Gustavo Zagrebelsky di giovedì 23 aprile 2009 alla Biennale Democrazia, Torino, 22 – 23 aprile 2009

saper riconoscere e poi saper combattere ogni fenomeno di neolingua, nel senso spiegato da George Orwell, la lingua che, attraverso propaganda e bombardamento dei cervelli, fa sì che la guerra diventi pace, la libertà schiavitù, l’ignoranza forza.”2 Oggi insomma non si tratta più solo di “quantità”, ma di ”manomissione”, manipolazione delle parole a rischiare di inquinare la democrazia. “Una manipolazione che passa attraverso la scelta delle parole, che investe tutti gli aspetti della vita associata e che, in molti casi, si fa violenza. Palese o, più spesso e più pericolosamente, occulta. … Cambiare i significati – o, più semplicemente, confonderli e cancellarli – è la premessa per l’impossessamento abusivo di parole chiave del lessico politico e civile. Esse vengono distorte, piegate, snaturate, e infine scagliate con violenza contro gli avversari.”3 L’altro elemento messo in luce da questi autori è il pericolo della semplificazione del linguaggio, del suo impoverimento, funzionale a limitare la capacità di pensare, di riflettere e lo spirito critico. Questa, in sintesi, è la denuncia che, in modi diversi ma con un intento e un messaggio comune, hanno fatto in questo periodo una serie di autori di formazione ed interessi anche diversi come Gustavo Zagrebelsky, appunto, Gianrico Carofiglio e Stefano Bartezzaghi (dei loro e di altri libri sullo stesso tema si parla in altri articoli di questo dossier e nella bibliografia ragionata). Ma che fare? Cosa si può fare per ostacolare, opporsi a questo fenomeno di “manomissione”, impoverimento e 2 Ibidem 3  Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole, Rizzoli, 2010

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Parole, parole, parole … dossier semplificazione delle parole così ben descritto e svelato da questi autori? Loro stessi accennano delle risposte, indicano delle possibili reazioni: – scegliere, dice Carofiglio, di restituire senso, dignità e vita alle parole, scegliere di non lasciarsi trascinare nei luoghi comuni acriticamente accettati e nella ripetizione passiva di parole vuote; – ritrovare “l’orgoglio di parlare diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti” 4 dice Zagrebelsky. Durante una serie di incontri sul tema del rapporto tra linguaggio e politica che si sono svolti nell’aprile del 2009 a Torino in occasione della citata Biennale Democrazia, Giulio Ferroni, della Sapienza di Roma, Gian Luigi Beccarla, dell’Università di Torino e Vittorio Coletti, dell’Università di Genova, convergono tra l’altro su un punto: per riportare il linguaggio e il confronto a livelli accettabili occorrono meno televisione scadente e una valorizzazione della scuola pubblica. È evidente infatti quanto sia ancora una volta fondamentale il ruolo della scuola per affrontare questo tipo di compito e la scuola se lo deve assumere consapevolmente. Cerchiamo quindi di capire come, attraverso quali possibili percorsi didattici (in questo caso di italiano), perseguire queste finalità. Già questi autori ci danno delle indicazioni su come muoverci: “Cercare, se non di dipanare, almeno di mettere a fuoco i fili di queste matasse, è un modo per resistere alla forza omologante del linguaggio. Si tratta di stabilire e svelare collegamenti nascosti dietro parole che, per lo più, ci sono consuete. Proprio la loro quotidianità ne rende particolarmente insinuante il significato che esse, al tempo stesso, mascherano, trasmettono e amplificano.”5 Comunque, come prima cosa, penso che sia essenziale utilizzare il metodo adottato nei loro libri quando prendono in esame alcune parole “manipolate” e si interrogano, ampliano, problematiz4  Gustavo Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, Einaudi, 2010 5 Ibidem

zano, quindi assumere e far assumere ai ragazzi questo metodo, prendere e far prendere cioè l’abitudine di ragionare sull’uso, sulla scelta delle parole in ogni contesto (letture, narrativa, articoli sia di cronaca che di opinione, discorsi… ma anche, ad esempio, nei libri di storia). Ma non solo. Dobbiamo costruire, ideare percorsi che portino i ragazzi a scoprire, a stabilire collegamenti, ma soprattutto ad acquisire consapevolezza. Ritengo infatti che un elemento cardine di questo tipo di attività sia far acquisire consapevolezza dell’uso della lingua, dell’uso delle parole (sia come ricettori che come produttori) che si acquisisce abituandosi a porsi domande del tipo: “Perché quella parola? Quali stereotipi ci stanno dietro? Quale messaggio esplicito, ma soprattutto

la scuola media): il tema della comprensione del testo e più specificamente dell’individuazione del messaggio implicito il tema dell’espressione di sé in un contesto di educazione sentimentale.

Il metodo.

Sono profondamente convinta che la metodologia didattica influisca in maniera determinante sull’apprendimento di qualsiasi contenuto sia disciplinare che pluri/interdisciplinare. Ho approfondito questo argomento in un articolo pubblicato su questa rivista a proposito di educazione alla cittadinanza (“Possibili percorsi di educazione alla cittadinanza”, StrumentiCres n.55) e tutto quello che ho scritto in quella occasione vale anche per questo tipo di percorsi didattici.

“Ho giocato a smontare e rimontare le parole come certi bambini fanno con i giocattoli. Con lo stesso spirito: per vedere cosa c’è dentro, per capire come funzionano, per sperimentarne usi diversi. Senza seguire le istruzioni. E quello che conta non è il singolo risultato, ma l’idea stessa che questo gioco possa essere giocato…”

– gianrico carofiglio –

implicito, si vuole far passare?”. Si tratta di lavorare sulle parole, sia sul “vocabolario interno”, quello che si utilizza per esprimere se stessi, le proprie emozioni, i propri sentimenti, per riflettere su di sé e quindi per conoscersi nelle relazioni con l’altro, sia sul vocabolario “esterno”, quello che si utilizza per conoscere e parlare del mondo. In questa ottica, all’interno di un curricolo di italiano, si tratta di riprendere alcuni temi che già si affrontano, di attività che già si fanno, con una nuova, maggiore consapevolezza – da parte dell’insegnante – e con l’obiettivo di far acquisire consapevolezza ai ragazzi (ma anche ai bambini, infatti queste sono attività che, opportunamente adeguate, possono essere proposte nei vari livelli di scuola a partire dagli ultimi anni delle elementari). Ne considero qui alcuni (in questo caso il contesto è

Faccio qui solo alcune osservazioni metodologiche riferite a queste attività che vanno comunque lette in quel quadro. ▪▪ Il ruolo dell’insegnate non deve essere quello di “detentore del sapere”, le sue “azioni” non devono essere quelle di “dire, spiegare”, ma di allestire, proporre situazioni “dense/cariche di significati” nelle quali i ragazzi agiscano, “smontino e rimontino”, e riflettano su ciò che succede ponendosi domande. L’insegnante stimola, suscita le domande e cerca insieme ai ragazzi le risposte, facendo con loro ipotesi: “Perché l’autore/giornalista ha usato questa parola? Che cosa vuole trasmettere?…”. È chiaro che l’insegnante “sa”, che conosce le risposte alle domande, ma vi assicuro che questo non è sempre detto, non tutto si può prevedere. Utilizzare questo metodo può portare


Strumenticres n°57 – ottobre 2011 a delle sorprese, a delle reali scoperte anche da parte dell’insegnante che deve essere quindi disponibile a mettersi in gioco, pronto ad accettare diverse, ulteriori prospettive e possibilità se queste sono plausibili. Quando sono i ragazzi a “dirlo” a “spiegarlo” tra loro e all’insegnante dopo averlo scoperto insieme, può succedere che “dicano anche altre cose”, possono scoprire altre cose davvero nuove anche per l’insegnante che quindi partecipa alla scoperta e alla discussione in modo “autentico”. ▪▪ Il lavoro di progettazione didattica dovrebbe essere quindi centrato sull’”allestimento” delle situazioni di apprendimento (ricerca di materiale: articoli, racconti, immagini, video,…) che abbiano una serie di caratteristiche: che spiazzino, che mettano in discussione schemi prestabiliti,

stereotipi; che suscitino quindi domande, interrogativi; che favoriscano la formulazione di ipotesi, la ricerca di risposte; che permettano di fare scoperte. Tutto questo insieme, i ragazzi e anche l’insegnante, partendo da loro, dalle loro realtà, dalle loro esperienze per arrivare poi ad altri livelli, alla generalizzazione, all’astrazione. Parole chiave di questo percorso: spiazzamento (serve perché su questi temi c’è assuefazione), acquisizione di consapevolezza, porsi domande, fare ipotesi, scoprire insieme. ▪▪ L’altro aspetto essenziale della progettazione didattica deve essere l’organizzazione del lavoro in classe basato sulla conoscenza di quella classe, di quei ragazzi. Intendo che, per permettere quanto detto sopra, il lavoro in classe deve prevedere

un “intreccio”, un susseguirsi ben programmato e articolato di lavoro individuale, lavoro di coppia, di piccolo gruppo e lavoro a classe intera, in un’ottica di cooperative learning. Quando si parla di lavoro in coppia e/o in piccolo gruppo si parla sempre di gruppi eterogenei (nei quali sono rappresentati i diversi livelli) perché questo favorisce un reale apprendimento tra pari, infatti sappiamo bene che i ragazzi apprendono in modo più efficace dai compagni che dall’insegnante. In queste attività si partirà quindi quasi sempre da lavori individuali per passare a lavori in coppia e/o in gruppo (molta attenzione va prestata alla chiarezza delle consegne) per terminare infine con un confronto / discussione / negoziazione a classe intera.

Un’attività di comprensione del testo.

Un nodo essenziale su cui far riflettere i ragazzi e far acquisire consapevolezza è, nell’ambito della comprensione del testo, l’individuazione del messaggio implicito. Zagrebelsky parla di “… forza della lingua come strumento di omologazione del sentire comune, di orientamento delle coscienze, di trasmissione di convinzioni e atteggiamenti mentali con lo scopo di farli assumere da altri, inconsapevolmente. Dunque: la forza plasmatrice della lingua.”6 Si tratta di fare scoprire ai ragazzi attraverso delle attività come anche la più semplice e apparentemente ovvia scelta di una parola piuttosto che un’altra per dare un’informazione, raccontare un fatto, possa in realtà influenzare 6  Gustavo Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, Einaudi, 2010

fortemente la ricezione dell’informazione, trasmettere un preciso messaggio in modo occulto e indurre quindi un’opinione. I testi che più si prestano a questo tipo di attività sono naturalmente gli articoli dei quotidiani, ma, tra questi, quelli sui quali mi sembra più efficace lavorare non sono tanto quelli in cui manifestamente si esprimono opinioni (articoli di fondo, corsivi, ecc. cioè testi argomentativi), ma quelli di cronaca che dovrebbero informare in modo imparziale. Mi riferisco quindi al lavoro sui quotidiani. Una prima attività efficace è quella di far riflettere sui titoli, sulla scelta delle parole dei titoli degli articoli. Scegliere un titolo con “parole calde” (pensiamo a certi titoli ad effetto sulla ”invasione” degli extracomunitari o sulla ”emergenza rom”) e scegliere la più forte “parola calda”. Pronunciare solo quella parola, chiedere ai ragazzi di chiudere gli occhi e di scrivere tutto quello che viene loro in mente, ciò che quella parola suscita. Suddividere i ragazzi in piccoli gruppi, dare ad ogni gruppo il titolo e la consegna: ▪▪ confrontare ciò che hanno scritto; ▪▪ esprimere in almeno 3 modi diversi l’informazione data dal titolo; ▪▪ fare ipotesi sul motivo per cui sono state scelte quelle parole/parola. Far relazionare i gruppi sul lavoro svolto. Discussione. Si passa poi a lavorare sugli articoli. Riporto qui un’attività su un articolo di cronaca apparso qualche anno fa sulle pagine di cronaca di Milano. Non posso trascrivere qui l’intero testo dell’articolo, ma ne indico una serie di caratteristiche (sarà facile trovarne di simili). Nell’articolo, “Punkabestia alla Bovisa. Gli abitanti si ribellano”, si parla di un rave party che si è tenuto in una zona periferica di Milano. Circa 500 ragazzi sono arrivati non solo da Milano (naturalmente con i loro mezzi), si sono raccolti in un capannone abbandonato e dalla notte alla mattina seguente hanno ascoltato musica, ballato,… insomma hanno fatto ciò che ogni sera si fa nelle discoteche. Alcuni abitanti della zona si sono lamentati, hanno anche chiamato carabinieri e polizia che però non sono intervenuti (probabilmente perché non c’era un reale, grave motivo per intervenire).

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Parole, parole, parole … dossier La mattina dopo i ragazzi se ne sono sentimenti ed emozioni. traggono le conclusioni. andati. Questi i fatti accaduti, ma… Obiettivo di queste attività è, come Prima attività: un gioco. L’articolo inizia così: “Sono arrivati si è già detto, far acquisire consapeSi parte da un gioco: utilizzando cersabato, durante la notte. Da tutto il nord volezza, il controllo di questo tipo chi, punti e linee ad ogni ragazzo viene Italia, ma anche dall’estero, con i loro di “meccanismi”. Fatto questo, poi, si chiesto di disegnare tante facce stilizpulmini scassati pieni di cani e bottiglie può anche “giocare”… ad esempio si di birra. Hanno espropriato in silenzio possono far inventare diversi titoli per zate quante possono essere le combinazioni dei vari elementi. Indicazioni: per una fetta della città…” . Per raccontare i uno stesso fatto. il volto, cerchio grande; per gli occhi, fatti vengono usati termini come stato Un’attività di punti; per le sopracciglia, segmenti d’assedio… invasione… palazzina sequeorizzontali o obliqui; per il naso, segstrata… via devastata… e, a proposito dei produzione del testo. Spesso chiediamo ai nostri ragazzi: mento verticale; per la bocca, segmento ragazzi, sbandati… randagi di periferia… “Come ti senti? Cosa provi? Cerca di orizzontale o curve o cerchio piccolo. erano minacciosi… Insomma, a partire Tempo: 5 minuti (non di più perché le dal titolo e nel fare la cronaca, si usano esprimerlo…”. E molto spesso le risposte sono monosillabi: “Boh, non so…, – possibilità sono davvero tante). termini che nell’immaginazione del o al massimo – È stato bello / brutto …”. Lavoro in coppia: confrontano i loro lettore evocano timore, paura, e danno Noi insegnanti, soprattutto di italiano volti, individuano i comuni e cercano di l’idea che siano stati commessi crimini ma non solo, ben sappiamo come, gene- dare un nome al sentimento/emozione che, se si considerano i fatti, non ralmente sia povero, sempre più povero, che ogni volto rappresenta, devono daesistono. il vocabolario che i ragazzi utilizzano re un nome agli stati d’animo che i volti Ai ragazzi, individualmente, viene per esprimere se stessi, le proprie emo- rappresentano attraverso un aggettivo: chiesto di leggere l’articolo, di dire zioni, i propri sentimenti, per riflettere “Come è uno che ha questa faccia?”. Si brevemente cosa è successo, di esprisu di sé e quindi per conoscersi nelle sollecita a trovare lo stato d’animo più mere la loro impressione “a caldo” e di appropriato: c’è una varietà, ci sono sottolineare le parole che li colpiscono. relazioni con l’altro. Non “hanno le parole” per raccontare, hanno bisogno sfumature. Si possono utilizzare il Si propone poi un lavoro di gruppo. di un “vocabolario mentale” per descri- vocabolario e il dizionario dei sinonimi Consegna. vere, e quindi anche per trasformare, e contrari. Per analizzare l’articolo rispondete quello che sentono, che provano, parole Si socializzano poi i prodotti delle alle seguenti domande. attraverso le quali possano riconoscersi varie coppie e, a classe intera, si arriva 1 Titolo, giornalista. come persone pensanti. ad individuare un unico elenco di 2 Le 5 W: quando, dove, chi (tutti i Carofiglio sottolinea l’importanza di visi con varie espressioni e quindi di personaggi coinvolti e come sono aggettivi. Un esempio di lista di stati descritti), cosa (sinteticamente, ma in possedere un vocabolario per esprimere se stessi, ciò che si prova: “… quando d’animo prodotta: felice, triste, eccitato, modo esauriente i fatti, ciò che in efle parole fanno paura, e più di tutte arrabbiato, furioso, deluso, orgoglioso, fetti è accaduto), perché (i motivi per spavaldo, spaventato, preoccupato, cui sono avvenuti i fatti, questi spesso proprio le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza; quan- sollevato, stupefatto, vergognoso, sono impliciti e si devono dedurre). 3 Individuare gli “elementi di giudizio” do manca la capacità di nominare le cose, intimidito, imbarazzato, sorpreso, frustrato, impaziente, commosso, perfido, cioè aggettivi, sostantivi, avverbi, ecc. le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se sospettoso,… che sottintendono un giudizio del stessi. … I ragazzi sprovvisti delle parole Si arriva a stabilire che ogni volto giornalista, una sua presa di posizioper dire i loro sentimenti di tristezza, di rappresenta uno stato d’animo, ma ne nei confronti dei personaggi e/o rabbia, di frustrazione hanno un solo mo- dietro ad ogni stato d’animo c’è un dei fatti. do per liberarli e liberarsi di sofferenze sentimento. Durante la discussione 4 Riflettere su ciò che realmente è a volte insopportabili: la violenza fisica. probabilmente si arriverà a convenaccaduto, metterlo in relazione con zionare la differenza tra emozioni/ gli “elementi di giudizio” individuati e Chi non ha i nomi per la sofferenza la agisce, la esprime volgendola in violenza, sentimenti (es. rabbia, stupore,… – che chiedersi il perché. con conseguenze spesso tragiche.”7 sono “momentanei” e determinati da Es. Fatto: 500 ragazzi hanno organizQuella che qui si presenta sinteun evento) e aspetti del carattere zato un rave party in un capannone ticamente è un’attività che è stata (timidezza, arroganza,…– che fanno abbandonato… parte del modo di essere di ognuno, del Elementi di giudizio: sbandati, randagi proposta nell’ambito di un percorso di educazione sentimentale che ha modo personale di rapportarsi con gli di periferia… 5 Riflettere sul titolo (quali informazio- come finalità favorire lo sviluppo, tra le altri e con il mondo). altre, di alcune capacità: riconoscere i Insieme, attraverso la discussione e ni, quali elementi di giudizio, cosa si propri sentimenti e le proprie emozioni il confronto, si arriva ad individuare un vuole mettere in evidenza). e costruire un vocabolario per la loro elenco di sentimenti/emozioni. Si rileva 6 Individuare qual è l’opinione del verbalizzazione; riconoscere negli altri che i sentimenti si possono classificare giornalista e quale messaggio vuole a grandi linee in due gruppi: quelli comunicare. dell’area dello “star bene” e quelli dello Infine si socializzano i lavori dei 7  Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole, Rizzoli, 2010 “star male” (in effetti ce ne sono anche gruppi. Si sviluppa la discussione, si


Strumenticres n°57 – ottobre 2011 “neutri”…). Insieme si fa questa classificazione e nel farla si scoprono altri sentimenti. È utile lavorare sugli opposti e riflettere sulle sfumature (rabbia e ira sono la stessa cosa?) verificandone la comprensione ricorrendo a esempi concreti: “Quale “storia” ci può essere dietro questa espressione/sentimento, quale fatto può averlo determinato?”. Questo lavoro collettivo condotto, guidato dall’insegnante, ma “riempito di contenuti” dai ragazzi, è abbastanza lungo, ma molto ricco di potenzialità di acquisizione di consapevolezza. Va lasciato lo spazio maggiore ai ragazzi: sono i compagni che spiegano ai compagni il significato di certe parole–sentimento, dai più poco conosciute, facendo esempi. Un elenco prodotto da una seconda media (a fianco). Seconda attività: tante storie. Si comincia scegliendo un sentimento. Si scrive il sentimento alla lavagna e si domanda: “Cosa potrebbe accadere per farti sentire così?” (es. cosa ti rende, ti fa sentire soddisfatto o invidioso o …?). Si chiede di scrivere un breve racconto, un episodio concreto. Ognuno legge il proprio racconto. Ragionando sui racconti si guidano i ragazzi a fare una serie di riflessioni/ analisi. ▪▪ Si individuano luoghi, tempi e personaggi di ogni racconto e la concatenazione dei fatti. ▪▪ Si individua come chi prova quel sentimento lo manifesta. Domande: “Come manifesta questo personaggio la sua soddisfazione…? Cosa fa quando è soddisfatto, lo sguardo, i gesti, i movimenti, il modo di parlare, gli atteggiamenti, come reagisce? …” ▪▪ Si individuano le diverse situazioni (si sottolineano diversità/uguaglianze rispetto a ciò che rende soddisfat-

Sentimenti/Emozioni “STAR BENE”

“STAR MALE”

sicurezza

insicurezza

entusiasmo

apatia

interesse

disinteresse

curiosità

indifferenza

fiducia

sfiducia

soddisfazione

insoddisfazione

serenità

inquietudine

equilibrio

instabilità

amore

odio

piacere

dispiacere

sollievo

angoscia

felicità

infelicità

allegria

tristezza

decisione

indecisione

spontaneità

falsità

gioia

dolore

amicizia

inimicizia

spigliatezza

impaccio

appagamento

inappagamento

rincoramento

scoraggiamento

eccitazione

abulia

rilassamento

tensione

tranquillità

agitazione

attivismo

noia

sentirsi “nel gruppo”

sentirsi escluso

energia

svogliatezza

sentirsi realizzato, solidarietà,

paura, delusione, solitudine,

compiacimento, ...

irritazione, senso di inadeguatezza, invidia, gelosia, rabbia, ira, rancore, terrore, ribrezzo, sentirsi trascurato, vergogna, illusione, …

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Parole, parole, parole … dossier ti, si riflette sul fatto che possono essere azioni, oggetti,…). Si sollecitano i ragazzi a cogliere gli elementi comuni: ogni racconto è un caso specifico, ma quali sono gli elementi comuni, le “presenze costanti” della soddisfazione? Si cerca di individuare tutte le relazioni possibili (almeno quelle tra esseri umani, tra esseri umani e animali…). Ragionando, si individuano relazioni con altri sentimenti connessi a quello scelto. Si può poi proporre un lavoro di gruppo nel quale, utilizzando le riflessioni fatte, si arrivi a scrivere un racconto più ricco ed articolato. Possibile verifica. DELUSIONE … 1 Elenca alcune situazioni specifiche in cui puoi provare questo sentimento. 2 Elenca altri sentimenti/stati d’animo che possono essere connessi a questo e come (es. connesso alla gelosia c’è l’affetto per un’altra persona e la paura di perderla…). 3 Pensa a come puoi manifestare questo sentimento attraverso: cose che fai, cose che dici, gesti, modo di parlare, tono voce, movimenti corpo, sguardo, espressione del viso, atteggiamenti, … 4 Utilizzando le riflessioni che hai fatto, scegli una situazione e svolgi il tema: Quella volta mi sono sentito/a proprio deluso/a … Terza attività: l’altro. Cambiare il soggetto del sentimento: la prima volta “io”, la seconda una persona diversa da me. Ripetere la riflessione cambiando la persona che prova il sentimento (lo stesso o meglio un altro dell’elenco). Dare un elenco di persone (madre/ padre, insegnante, fratello/sorella, nonno/a, persona anziana, bambino più piccolo, ragazzo/a più grande –terzini?, conduttore di tram, bidello/a,…) e porre una serie di domande. ▪▪“Cosa potrebbe accadere perché questa persona si possa sentire così?” Racconta. ▪▪“Cosa potresti fare tu per far sentire così questa persona?” Racconta. Far notare legami, relazioni di sentimenti: una cosa può far felici contemporaneamente più persone, la felicità di qualcuno può essere motivo di felicità per qualcun altro, la felicità di qualcu-

no può essere motivo di infelicità per qualcun altro. ▪▪”Una cosa che fa sentire qualcuno in un modo, può suscitare un sentimento diverso in un altro?” (es. io felice / mia madre preoccupata). Racconta. Lavoro di gruppo: produzione di un racconto. Ogni gruppo sceglie la persona e il sentimento. NB. Anche gli insegnanti rispondono alle domande (alla lista delle persone si può aggiungere “alunno” ). Un possibile sviluppo di queste attività nell’ambito della comprensione del testo narrativo: far leggere un racconto (senza titolo) nel quale emerga chiaramente un sentimento provato dal protagonista, proporre un questionario di comprensione e far scrivere come titolo il sentimento. Alcuni racconti (tra i tanti) che si prestano a questo tipo di attività: “Il vestito sbagliato” di L. Romano; “La prima gelosia” di C. Castellaneta (da Un’infanzia sbagliata); “Malinconia” di G. Parise (da Sillabari). Le attività didattiche proposte in questo articolo sono solo alcuni esempi; all’interno del loro curricolo disciplinare gli insegnanti, mettendo alla prova la loro creatività, possono individuarne tante altre che possono essere riviste e proposte con questo tipo di finalità. Bello sarebbe raccogliere in un libro questo tipo di attività didattiche, un libro rivolto alla scuola che potrebbe supportare l’azione intrapresa dagli autori sopra citati.


Strumenticres n°57 – settembre 2011

PAROLE, MUSICHE, IMMAGINI

Bibliografia ragionata a cura di Anna Di Sapio ed Elisabetta Assorbi

PER DIFESA E PER AMORE. LA LINGUA ITALIANA OGGI Gian Luigi Beccaria – Garzanti, 2008 Il gran fiume del bla–bla universale sembra sommergerci con termini spesso sconosciuti, enigmatici, petulanti, che disorientano, ma anche attraggono, talvolta consolano. Attraverso le parole possiamo conoscere il mondo, plasmare il pensiero, per mezzo delle pagine dei grandi scrittori riceviamo emozioni decisive e profonde. L’Autore disegna una mappa di un italiano talvolta “di plastica”, talvolta fiorito eloquio. Ricco di citazioni , il libro è utile anche per padroneggiare meglio i nostri discorsi e soprattutto quelli di coloro che oggi pretendono di comunicarci la verità. Dello stesso Autore, ricordiamo:Il mare in un imbuto. Dove va la lingua italiana, Einaudi, 2010; Tra le pieghe delle parole, Einaudi, 2010 TRA SCRITTURA E LIBERTÀ. I DISCORSI DEI PREMI NOBEL PER LA LETTERATURA a cura di Gabriella Padoan Editrice San Raffaele, 2010 Tra i tanti discorsi pronunciati dai Premi Nobel per la Letteratura in occasione del premio, la curatrice ne ha selezionato 38, quelli che affrontano in qualche modo il rapporto scrittura–libertà e sembrano privilegiare un sentimento di responsabilità verso gli uomini. Attraverso la voce di scrittrici e scrittori per i quali la bellezza della parola è ricerca essenziale, ripercorriamo il Novecento – e l’ombra che esso continua a gettare sul nostro presente – attraverso immagini che poco concedono alla retorica, confortati dall’affermazione del poeta Czeslaw Milosz che «la letteratura impedisce che l’uomo si trasformi in una cosa» e di Derek Walcott, erede di schiavi caraibici, secondo cui “il destino della poesia è di innamorarsi del mondo, nonostante la Storia”.

LA LINGUA ITALIANA E I MASS MEDIA, STUDI SUPERIORI a cura di I. Bonomi, A. Masini, S. Morgana Carocci editore, 2003 I mass media sono stati uno dei fattori decisivi per la diffusione nazionale della lingua, raggiungendo anche strati sociali che avevano sporadiche occasioni di contatto con l’italiano. Oggi assolvono ecletticamente diverse funzioni: informativa, di divulgazione culturale, di intrattenimento più e meno leggero. Il volume illustra, con rigore scientifico e con linguaggio piano e lineare, l’italiano del giornale quotidiano, della radio, della televisione, del cinema, dei fumetti, della pubblicità, della canzone e di Internet. Si rivolge agli studenti universitari, ma anche agli operatori culturali, agli insegnanti delle scuole superiori, ai lettori non specialisti. PAROLE CONTRO Federico Faloppa – Garzanti, 2004 Le parole possono uccidere, ce ne rendiamo conto ogni giorno di più, mentre vocaboli come “nazione”, “patria”, “popolo”, “etnia” e nomi come “arabo”, “ebreo”, “negro”, “talebano” sono usati per umiliare il diverso, per difendere la nostra vera o presunta identità, per aggredire l’altro. L’Autore ripercorre con un piacevole e illuminante viaggio il lessico quotidiano, una vera ragnatela di parole e significati, che attraversano epoche e regioni non solo italiane. Viene tracciata una precisa geografia dei pregiudizi e dei luoghi comuni sedimentati nel nostro idioma. LESSICO E ALTERITÀ. LA FORMULAZIONE DEL “DIVERSO” Federico Faloppa – Edizioni Dell’orso, 2000 Questo saggio racconta le vicende di quelle parole che nella storia hanno individuato il diverso, l’altro, l’estraneo: parole come ebreo, turco, saraceno, arabo, negro, meticcio sono state spesso usate per deridere, offendere, ferire, ma sono da svelare, discutere, decostruire, per tentare di comprendere, con la loro storia, quella delle società che ne hanno fatto e ne fanno uso.

NUOVO IMMAGINARIO ITALIANO. ITALIANI E STRANIERI A CONFRONTO NELLA LETTERATURA ITALIANA CONTEMPORANEA M.Cristina Mauceri e M. Grazia Negro Sinnos editrice, 2009 Una dettagliata analisi comparata di opere di scrittrici e scrittori italiani, autoctoni e migranti, i un arco di tempo che va dal 1990 al 2008, messe a confronto, in un gioco di sguardi incrociati, facendole interagire in un dialogo interculturale. L’analisi dei testi italiani rivela un immaginario che corrisponde a quello proposto dai mass media: l’immigrato spesso è associato al clandestino, al delinquente che minaccia la stabilità degli italiani; assenti figure come i rifugiati politici. La rappresentazione dello straniero è stereotipata,. Nell’immaginario migrante domina invece la figura dello straniero a suo agio nella società di arrivo, che non ha dimenticato le difficoltà di inserimento, ma è orgoglioso di vivere nel nuovo paese ed è ottimista. Il testo si propone come un invito a scambi reciproci per una nuova cultura basata su una reciproca valorizzazione. LESSICO DEL RAZZISMO DEMOCRATICO. LE PAROLE CHE ESCLUDONO Giuseppe Faso – Derive Approdi, 2002 Il lento lavorìo delle parole razziste e la loro messa in comunicazione non solo nei grandi circuiti dei media,ma soprattutto in quelli del minuto transito quotidiano di massa, crea i presupposti delle pratiche razziste. La tesi di questo saggio è ancor più radicale: accanto a un linguaggio razzista ignorante, esplicitamente sguaiato e volgare, c’è quello colto e raffinato degli intellettuali che fanno sfoggio di convinta democraticità! L’Autore, spaziando tra sociologia, demografia, pedagogia e criminologia e passando al vaglio le strategie linguistiche e retoriche di uomini politici, giornalisti, ricercatori sociali, mostra una serie di esempi di termini razzisti, diventati ormai d’uso abituale quando si parla di immigrazione. Si dimostra in tal modo che spesso i luoghi comuni son divenuti fatti sociali e addirittura categorie d’analisi: la diceria ha espulso in molti casi la considerazione razionale dei fenomeni, che è l’unica, invece, capace di orientare verso positive soluzioni.

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Parole, parole, parole … parole, musiche, immagini

LA MANOMISSIONE DELLE PAROLE Gianrico Carofiglio – Rizzoli, Milano 2010 Un saggio sull’uso del linguaggio e sulle sue conseguenze nella nostra società. Quando si fa un uso sciatto e inconsapevole delle parole o si manipola deliberatamente il loro significato la conseguenza è il logoramento e la perdita di senso. Occorre una manutenzione attenta per ripristinare la forza originaria delle parole e renderle di nuovo aderenti alle cose. L’Autore propone un’indagine e una riflessione sul senso di termini come “vergogna”, “giustizia” “ribellione”, “bellezza”, “scelta” e, utilizzando riferimenti ed esempi letterari, poetici, filosofici, politici, smaschera l’uso distorto che media e politica ne hanno fatto. SULLA LINGUA DEL TEMPO PRESENTE Gustavo Zagrebelsky – Einaudi, Torino 2010 L’uniformità della lingua, lo spostamento di parole da un contesto all’altro e la loro continua ripetizione sono segno di una sorta di degenerazione della vita pubblica, che si esprime in un linguaggio stereotipato che proprio per questa facilità d’uso è ben accolto. L’Autore passa in rassegna una serie di luoghi comuni linguistici e denuncia il rischio che sia questa lingua a pensare per noi: i cittadini vivono immersi, senza rendersene conto, in una rete di significati che danno forma alla loro vita politica, limitandone invece le possibilità reali di comunicare. UNA PIETRA SOPRA. DISCORSI DI LETTERATURA E SOCIETÀ Italo Calvino – Arnoldo Mondadori, 1995 Si tratta di una raccolta di saggi letterari pubblicati su riviste e quotidiani tra il 1955 e il 1978. Le tematiche sono molto varie. Gli scritti sono stati selezionati in modo da formare una specie di autobiografia intellettuale: vi si leggono interventi critici, profili di autori, riflessioni sulla scrittura, sullo stile, sulla lingua e sulle tecniche dello scrivere. Segnaliamo in particolare i due saggi L’antilingua e Note sul linguaggio politico.

LETTERATURA COMPARATA AA VV., a cura di Armando Gnisci Bruno Mondadori, 2002 In Italia la letteratura comparata è ancora abbastanza sconosciuta. Il testo intende proporla come guida agli studi letterari e informare il lettore italiano sul dibattito mondiale contemporaneo circa il destino degli studi umanistico–letterari. Dopo una densa introduzione di Gnisci, seguono capitoli tematici affidati a diversi studiosi: la storia comparata della letteratura (Francesca Sinopoli), antichità europee (Francesco Stella), temi e miti letterari (Anna Trocchi), i generi letterari (Franca Sinopoli), la letteratura e le altre arti (Emilia Pantini), i viaggi e la letteratura (Domenico Nucera), la traduzione letteraria (Marina Guglielmi), imagologia e studi culturali (Nora Moll), multiculturalismo, studi coloniali e decolonizzazione (Francesca Neri), femminismo e ‘gender studies’ (Elena Gajeri), gli strumenti di lavoro del comparatista (Franca Sinopoli). LA LETTERATURA DEL MONDO NEL XXI SECOLO A. Gnisci, F. Sinopoli, N. Moll B. Mondadori, 2010 Il tema della Weltliteratur, posto da Goethe nei primi decenni del XIX secolo e quindi entrato nella riflessione letteraria fino a diventare un cliché, è qui affrontato per la prima volta con l’intento non di definirlo, ma di ricostruirne e di illustrarne la storia. Le poetiche e gli studi della decolonizzazione, il fenomeno planetario della letteratura delle diaspore, dell’esilio e della Grande Migrazione contemporanea, la massa ingente di traduzioni letterarie da tante lingue verso tante lingue sono le vie che, nella prospettiva degli autori, bisogna considerare per capire il senso del nostro tempo e della mondialità che in esso finalmente si compie, anche se tra imprevedibili contraddizioni.

INSEGNARE LETTERATURA OGGI Romano Luperini – Manni, 2006 Il libro intende affrontare la crisi della didattica della letteratura proponendone un rinnovamento radicale. L’insegnamento deve essere basato non più sulla centralità del testo, ma sulla centralità della lettura, intesa come esperienza vitale e partecipazione interpretante. Il libro rivendica anche il valore formativo della letteratura e la sua importanza oggi. Non intende soltanto suggerire come insegnare la letteratura nella scuola media superiore di oggi e di domani, ma anche spiegare perché va insegnata. Uno dei saggi è dedicato al tema della memoria e dell’oblio e della educazione come fondatrice del patto fra le generazioni, e uno al rapporto fra la letteratura e l’altro. IL RACCONTO DELL’ALTRO. EDUCAZIONE INTERCULTURALE E LETTERATURA Milena Santerini – Carocci, 2008 L’autrice, docente di pedagogia, vuole mostrare le intrinseche potenzialità di apertura all’altro, che si possono ritrovare nella letteratura. Il racconto, uno dei registri dominanti per costruire l’esperienza, ci fa abitare mondi stranieri in modo complementare, pur se differente, a quello della filosofia o delle scienze umane. Il libro, dando voce agli autori che hanno saputo renderci “stranieri a noi stessi” o simili all’altro, vuole quindi affermare l’importanza della letteratura per avvicinare i popoli ed educare all’umano. La letteratura fa attraversare i confini, parlare molte lingue, evocare storie, come quelle degli scrittori migranti. La narrazione può “mostrare a società impaurite e impoverite la ricchezza dell’incontro, educando alla fiducia e alla pazienza della comprensione, senza facili irenismi né paura del conflitto.”


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La “costruzione del nemico”

note a margine di un saggio breve di Umberto Eco a cura di Elisabetta Assorbi

La considerazione della diversità in tutte le sue implicazioni, tema a noi caro, ha molto da spartire con il linguaggio e l’uso s–considerato che se ne può fare. In un recente scritto occasionale1 Umberto Eco afferma che “Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità, ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro” (pag.10). Se di conseguenza per tenere a freno i popoli, di nemici è necessario sempre inventarne, possiamo ben dire che, fin dall’antichità il difficile rapporto con lo straniero ha coinciso anzitutto per ogni popolo con il rapporto linguistico intercorso tra etnìe diverse. In secondo luogo, la questione si è sempre accompagnata con l’atteggiamento di creduta superiorità che ogni popolo ha assunto nei confronti del “diverso” al quale si doveva o voleva rapportare. È sempre stata una questione d’identità e di preminenza, sostanzialmente di orgoglio etnico, che sappiamo a quali efferatezze possa condurre, come dimostra la vicenda balcanica, ultima di una tragica serie di guerre degli anni ’90 del secolo scorso, nella “civilissima” Europa. Nella storia europea, in greco esistevano due parole per indicare lo straniero, xenos e barbaros. Con xenos si indicava lo straniero da un punto di vista politico, cioè indicava il cittadino di un’altra polis, perciò il vocabolo non aveva valore peggiorativo; si trattava di un estraneo fra simili, che condivideva lingua e tradizioni elleniche. L’appellativo barbaros, invece, designava uno “straniero due volte”, non solo sul piano politico, ma anche su quello linguistico, indicando individui e popoli considerati 1 U. Eco, Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Saggi Bompiani 2011

inferiori, in quanto non condividevano alcun aspetto della civiltà greca, primo fra tutti la lingua, che letteralmente balbettavano, fatto che per i greci era considerato il segno di una inferiorità ineliminabile. Lo stesso Aristotele afferma che “il barbaro e lo schiavo sono per natura la stessa cosa”: si giustificava così il diritto, per i greci, di assoggettare i non–greci. Quando Roma venne a contatto con civiltà diverse, i celti a nord, Cartagine in Africa e le popolazioni orientali, la parola barbarus fu acquisita nella lingua latina e dal mondo romano. Anche per i romani la diversità di culture fu vista come barbarie, pesantemente connotata dall’incomprensibilità linguistica, ma in generale fu diverso l’atteggiamento e i nostri progenitori imperialisti ebbero anche a cuore il tema dell’inserimento dei popoli conquistati e delle loro risorse, in senso lato e non solo per appropriazione economica, e gli stranieri furono anche apprezzati per la loro cultura. Viene da chiedersi se questo modello, mutatis mutandis, adattandolo alla nostra epoca, non si possa poi applicare – con i dovuti riguardi ai termini della cittadinanza – nei confronti della molteplice diversità che ci percorre, in questi tempi di profughi e d’immigrati…

Costruire il nemico e altri scritti Umberto Eco, Saggi Bompiani, 2011

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Parole, parole, parole … parole, musiche, immagini a cura di dunia martinoli

La rabbia del vento S. YIZHAR Einaudi, 2005

S. Yizhar (pseudonimo di Yizhar Smilansky), considerato uno dei padri spirituali della letteratura israeliana, pubblicò nel 1949 questo piccolo libro, (scritto in ebraico e intitolato Khirbet Khiza), quando lo stato di Israele era appena stato proclamato (1948). Il narratore racconta del drappello dell’esercito israeliano, di cui fa parte, che viene mandato a sgomberare un villaggio palestinese (Khirbet Khiza, appunto), far esplodere le case di pietra, bruciare le capanne di argilla, arrestare i giovani e i sospetti, trasferire gli abitanti con dei camion in un campo profughi al di là del confine. In realtà trovano solo ciechi, zoppi, vecchi, deboli, donne, bambini. Dai commenti che i soldati fanno fra loro riguardo all’arrendevolezza degli abitanti palestinesi (“sono degli smidollati … non sono esseri umani”) si capisce la profonda disistima che provano nei loro riguardi. I soldati notano la ricchezza dei frutteti, i campi con sorgenti, la terra fertile, i raccolti copiosi, ma, dicono, sono abitati da “mascalzoni”, pronti a trucidare gli ebrei. “Che bei posti hanno!” dice un soldato. “Ormai sono nostri … Per quanto bello sia ciò che vediamo adesso, quando verremo noi sarà mille volte più bello, te l’assicuro!… Una volta i nostri vecchi si spremevano le meningi su come ottenere un pezzo di terra, oggi noi ci prendiamo tutte le terre che ci pare, come se niente fosse!” Quando inizia il tiro al bersaglio contro alcuni abitanti del villaggio che cercano di fuggire, il protagonista – narratore sente una voce inorridita dentro di sé, che mette in dubbio la sua sicurezza di invasore, ma si rende conto che nessuno dei suoi commilitoni condivide questo disagio. Un altro plotone inizia a far esplodere le case. I rastrellati (vecchi, donne, bambini) vengono radunati attorno a un sicomoro. Qualcuno cerca di parlare, ma viene brutalmente zittito. Poi vengono fatti salire sui camion e nessuno di loro protesta. C’è la sensazione di qualcosa di sbagliato, di ingiusto, ma nessuno obietta. Tuttavia si fa strada il malcontento fra qualche soldato: “Io preferirei dieci battaglie a questa roba qui!” Ma la visione di una donna con un bambino, che procede risoluta, cieca nel suo dolore, ma controllata, (“le lacrime le scorrevano sulle gote, quasi non fossero sue”) fiera di non degnare i soldati della minima attenzione, sconvolge il protagonista, che

ora capisce: “L’esilio, ecco, questo è l’esilio. È così che accade … Non sono mai stato in esilio”, ma “l’ho studiato a scuola, me l’hanno ripetuto a ogni angolo, nei libri e nei giornali, ovunque: l’esilio … Il grido del nostro popolo contro il mondo: l’esilio! … E cosa stavamo facendo qui noi oggi ? … Ma certo!… La nostra Khirbet Khiza.… Dispenseremo alloggi e accoglieremo con gioia” (gli immigrati).…”Evviva la Khiza ebraica! Chi penserà mai che prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione era stata cacciata e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti e avevamo sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato … Le mie viscere urlavano. Colonialisti (urlavano), bugiardi! Khirbet Khiza non è nostra … Che cosa non ci hanno raccontato sui profughi. Tutto, proprio tutto per i profughi, per il loro benessere e la loro salvezza … Naturalmente, i nostri profughi. Ma quelli che noi condannavamo ad esserlo … era tutta un’altra faccenda. Duemila anni di esilio. Come no. Uccidevano gli ebrei. Europa. Adesso eravamo noi i padroni…… E quanta indifferenza c’era in noi. Come se non avessimo mai fatto altro che mandare in esilio.” Queste disperate osservazioni ci fanno capire che anche nel ‘48, come oggi, c’era tra gli israeliani chi, nonostante gli sforzi propagandistici dello stato di Israele per mostrare i palestinesi, originari di quella terra, come un nemico usurpatore, si rendeva conto che non era giusto far subire a degli innocenti gli stessi patimenti che erano stati inflitti agli ebrei. Si capisce allora come mai questo libro possa aver suscitato tanto scalpore e polemiche alla sua pubblicazione in Israele nel ’49. S. Yizhar, anche se non assiste ai massacri più atroci, è ben consapevole di ritrovarsi coinvolto in un’azione profondamente ingiusta: nel ’48 furono distrutti 531 villaggi ed esiliati circa 800.000 palestinesi, come viene ben descritto e documentato dallo studioso israeliano Ilan Pappe nel suo libro “La pulizia etnica della Palestina” (Fazi 2008). Questa fu la “Nakba” (catastrofe) per i palestinesi, che ora lo stato israeliano impedisce ai cittadini israelo–palestinesi di commemorare.


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SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE LA LETTERATURA DEL MONDO NEL XXI SECOLO Armando Gnisci, Franca Sinopoli, Nora Moll, Bruno Mondadori, 2010 Posto da Goethe nei primi decenni del XIX secolo, diventato poi un cliché, il tema critico della “letteratura mondiale” viene qui esplorato ripercorrendone l’evoluzione e la storia. Dall’Universalismo letterario delle origini alle forme attuali della mondialità letteraria, il libro si sofferma su aspetti cruciali che hanno segnato la cosiddetta “Weltliteratur”. Le poetiche e gli studi della decolonizzazione, il fenomeno planetario della letteratura delle diaspore, dell’esilio e della Grande Migrazione contemporanea, la massa ingente di traduzioni letterarie, da tante lingue e verso tante lingue, sono la chiave di lettura per capire il senso del nostro tempo e della mondialità che in esso si compie finalmente, anche se tra imprevedibili contraddizioni. PASSAPORTO PER L’ITALIA Educazione alla cittadinanza e alla Costituzione per ragazzi stranieri E.G. Bettinelli, P. Russomando Vannini editrice, 2011 Sta aumentando in modo significativo il numero di ragazzi stranieri, nati in Italia, che hanno i requisiti per richiedere la cittadinanza italiana. Il testo, nato nell’ambito del Centro COME di Milano, vuole accompagnarli in modo colloquiale in questo cammino sottolineando che l’obiettivo è non solo entrare a far parte di un Paese e di una comunità ma anche sentirsi parte di essa, della sua storia e del suo presente. Nello stesso tempo vuole accompagnare i ragazzi autoctoni a capire che cosa significa essere cittadini in un contesto plurale, come quello italiano attuale. Il testo inaugura la collana Agorà, paesaggi dell’intercultura curata da Lorenzo Luatti per la Vannini Editrice, da sempre attenta a queste tematiche in modo innovativo e operativo.

VIAGGIO IN MAROCCO. TACCUINO DI VIAGGIO DI UN AVVENTURIERO DEL ‘500 Leone Africano Sinnos editore, 2011 Al–Hasan ibn Muhammed al–Wazzan al– Fasi, catturato nel Mediterraneo e fatto schiavo, viene regalato al papa Leone X. Anni dopo battezzato col nome di Giovanni Leone de’Medici diventa il geografo del papa e su sua richiesta scrive, in italiano, Descrittione dell’Africa un’opera che è una fonte primaria per la conoscenza geografica e cartografica dell’Africa. Il volumetto della Sinnos, deliziosamente illustrato da Monica Auriemma e curato da Cristiano Spila, riporta solo la parte riguardante Fez. Attraverso il racconto di Leone “primo scrittore migrante” facciamo conoscenza non solo delle case, dei palazzi, moschee, osterie e mulini, delle botteghe artigiane, ma anche degli usi e costumi e della cultura di Fez. L’italiano in cui scrive Leone è l’italiano del 1500, ma ancora comprensibile per il lettore contemporaneo perché, come spiegano i linguisti, la nostra lingua è rimasta molto vicina alle sue origini, al contrario di altre lingue.

DIRITTO AL FUTURO Renato Briganti (a cura di) Dissensi ed, 2011 Costruire un nuovo patto sociale tra i cittadini maggiormente capaci di immaginare un futuro migliore, in prima linea gli insegnanti, e i giovani studenti che vedono messo in pericolo il loro diritto al futuro. Questo l’ambizioso obiettivo di un agile testo che interseca temi come guerra, migrazioni e intercultura, cittadinanza e legalità, sviluppo e sostenibilità, mercato e consumo responsabile e lo fa attraverso contributi teorici di inquadramento, approfondimenti di taglio educativo e proposte di attività coinvolgenti da svolgere con i ragazzi. Tematiche e laboratori sperimentati con successo durante un corso di formazione per docenti svolto a Salerno da Manitese Campania.

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Pubblicazioni Collana Crescendo Cres Mani Tese – Emi 1. Arcipelago Mangrovia Narrativa caraibica e intercultura Rita Di Gregorio, Anna Di Sapio, Camilla Martinenghi pagg. 256 – 2004 – € 12,00 Il quaderno cerca di fornire una panoramica della narrativa caraibica insulare dell’ultimo secolo per favorire il superamento di stereotipi e offrire chiavi di lettura e spunti di riflessione per l’educazione alla differenza. Le schede di presentazione degli autori e delle opere sono suddivise per aree linguistiche. Ipotesi di percorsi didattici. e strumenti utili per gli stessi, completano il testo. 2. All’incrocio dei sentieri i racconti dell’incontro Kossi Komla–Ebri pagg.192 – 2004 – € 10,00 I racconti di Kossi Komla–Ebri, ambientati in Africa, in Francia e in Italia, attingendo al vissuto quotidiano, parlano di amore, di viaggi, di nostalgia, di fierezza e di dignità e smascherano gli stereotipi con lo strumento dell’ironia. I temi dei racconti sono approfonditi dall’autore stesso nelle interviste e nei documenti della seconda parte, completata da un apparato didattico per un’educazione interculturale.

3. Cittadini under 18 I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza Daniela Invernizzi pagg.213 – 2004 – € 11,00 Il testo presenta un approccio globale alle problematiche dell’infanzia e dell’adolescenza e, dopo aver descritto lo scenario culturale generale, propone esperienze di processi partecipativi locali e globali e suggerisce stimoli educativi per lo sviluppo di attività di ricerca e di sperimentazione centrate sulla tutela e la promozione dei diritti delle giovani generazioni.

5. “Terra è libertà” La questione agraria in America Latina Luca Martinelli, Annalisa Messina pagg.144 – 2005 – € 9,00 Terrà è il punto di partenza per riflettere sui concetti di latifondo, riforma agraria, migrazione, libero commercio, diversità biologica, risorse naturali, diritti dei popoli indigeni, movimenti sociali, assumendo un punto di vista interdisciplinare che spazia dall’ambito sociale a quello politico, economico, culturale.

4. “La tela del ragno” Educare allo sviluppo attraverso la partecipazione Michele Dotti, Giuliana Fornaro, Massimiliano Lepratti pagg.238 – 2005 – € 13,00 Questo Manuale pratico–teorico, frutto dell’esperienza sul campo degli animatori e delle animatrici del CRES di Mani Tese, analizza e decostruisce gli stereotipi più diffusi riguardo alla povertà mondiale e illustra tecniche di partecipazionee di coinvolgimento attivo utili per accompagnare i ragazzi verso la conoscenza e la comprensione critica delle problematiche attuali.

6. Uno, nessuno, centomila (ir)responsabili. Itinerari didattici di educazione alla cittadinanza Michele Crudo pagg.160 – €12 – 2006 L’Educazione alla cittadinanza, anche in rapporto ai controversi modelli sociali che la nostra società propone, può diventare una pratica didattica per aiutare lo studente a capire l’universo degli adulti, a mediare tra gli opposti e arrivare ad un proprio punto di vista in un’ottica di mondialità. Alcune esplorazioni didattiche realizzate attraverso l’uso sistematico dello strumento filmico completano il testo.

Kit didattico

Nutrire il mondo per cambiare il pianeta a cura di Mani Tese, CISV, Cres, COCOPA 2010 – gratuito su richiesta scritta Il kit didattico introduce nel mondo scolastico il tema della sovranità alimentare con proposte metodologiche di lavoro per gli insegnanti, schede tematiche, carte geografiche e una serie di video sul tema.

Errata corrige

Strumenti 56 pag.20 Nel sottotitolo va letto “Un progetto di Necofa e Slow Food” per combattere la fame … anziché “Un progetto di Necofa per …”


7. Ri/conoscersi leggendo Viaggio nelle letterature del mondo. – a cura di Rosa Caizzi pagg. 256 – 2006 – € 13,00 Un viaggio attraverso le letterature araba, nigeriana, sudafricana, indiana, afroamericana, cinese e la recente letteratura della migrazione può aiutare ragazzi e ragazze del Nord a stimolare la curiosità nei confronti della diversità, a combattere gli stereotipi sulle altre culture, a indagare la contemporaneità di altri paesi, a guardare con occhi nuovi la loro realtà, a relativizzare il proprio punto di vista. 8. Perché l’Europa ha conquistato il mondo? Massimiliano Lepratti pagg. 124 –2006 – € 10,00 L’Europa non ha conquistato il mondo per investitura divina, né in quanto civiltà superiore. Il capitalismo del Nord del mondo affonda le radici nello sfruttamento economico e nei contributi di pensiero e tecnico– scientifici di aree lontane. Il testo indaga la storia della costruzione di un sistema di squilibrio internazionale che non esisteva fino ad alcuni secoli fa, attraverso un approccio che integra i livelli politico, economico e culturale. A corredo carte storiche e un’appendice didattica.

9. Il cinema per educare all’intercultura Marina Medi 2007 – € 10,00 È importante che l’educazione all’informazione e ai media trovi spazio in modo organico nella programmazione curricolare diventando strumento di cittadinanza e di comunicazione interculturale. Il testo suggerisce una serie di riflessioni metodologiche per un uso critico dei media, che parta da alcune cautele indispensabili quando si propone agli studenti un lavoro che utilizzi il cinema, e presenta piste di lavoro da realizzare nelle scuole e percorsi didattici già sperimentati che possono servire da stimolo.

11. Il lontano presente: l’esperienza coloniale italiana. Storia e letteratura tra presente e passato Anna Di Sapio, Marina Medi pagg. 284 – 2009 – offerta minima € 5,00 Non può esistere futuro senza memoria. Il testo vuol essere uno strumento per rileggere pagine della nostra storia che abbiamo rimosso. Operazione particolarmente necessaria a scuola. Per coglierne la complessità non ci si può limitare ad un’analisi storiografica ma occorre mettere a confronto punti di vista diversi e utilizzare anche fonti nuove come romanzi e film.

10. L’economia è semplice Massimiliano Lepratti pagg. 125 – 2008 – offerta minima € 5,00 Basta spiegarla con parole non tecniche e diventa comprensibile a chiunque. L’economia viene scomposta nelle sue parti elementari presentando di ciascuna il funzionamento , il collegamento con gli altri aspetti della vita, la dimensione globale che coinvolge i paesi del Sud e le fasce povere della popolazione mondiale. È la conoscenza dell’economia internazionale a farci comprendere più a fondo la realtà di oggi e a motivare al cambiamento degli stili di vita e delle scelte di consumo.

Collana CrescendoCres Mani Tese – Ed Lavoro 1. Le migrazioni, a cura di D. Barra e W. Beretta Podini – 1995 2. Percorsi interculturali e modelli di riferimento, M. Crudo – 1995 3. Educare al cambiamento, AA. VV. – 1995 4. La conoscenza dell’altro tra paura e desiderio, M. Crudo – 1996 5. Lo straniero, L. Grossi, R. Rossi – 1997 6. Letterature d’Africa. percorsi di lettura, L. Bottegal, R. Di Gregorio, A. Di Sapio, C. Martinenghi – 1998 7. Penelope è partita, M. Crudo – 1998 8. Portare il mondo a scuola, a cura di ONG Lombarde, IRRSAE Lombardia, Provveditorato agli Studi di Milano – 1999 9. La gatta di maggio, R. Abdessemed – 2001 10. La sfida della complessità, M. Medi – 2003 Noci di cola, vino di palma. Letteratura dell’Africa sub sahariana L. Bottegal, R. Di Gregorio, A. Di Sapio, C. Martinenghi – 1997 (fuori collana)

PROMOZIONE: 3,00 € ciascun libro (spese di spedizione incluse)


Organismo contro la fame e per lo sviluppo dei popoli. Redazione

CHI MANGIA SOLO … SI STROZZA!

In caso di mancato recapito inviare al CMP di Milano Roserio per la restituzione al mittente che si impegna a corrispondere i diritti postali.

percorso didattico–teatrale È possibile immaginare un mondo dove ogni terra nutre la propria gente con i frutti delle diverse stagioni, in armonia con il territorio e nel rispetto dell’ambiente? Un mondo dove ogni comunità può decidere autonomamente cosa produrre e come vendere, nel rispetto delle tradizioni locali? CHI MANGIA SOLO… SI STROZZA è un percorso didattico–teatrale progettato per le scuole elementari. Un viaggio alla scoperta del più grande paradosso dei nostri tempi, che ad un miliardo di affamati ne contrappone almeno un altro che si nutre troppo e male. PRONTI A PARTIRE? Nella prima parte scopriremo insieme la stagione “giusta” di frutti e ortaggi, quanti KM fanno per arrivare nel nostro piatto e quanta spazzatura produciamo nel consumarli. Il percorso si concluderà con uno spettacolo–lezione–gioco che trasformerà la scuola in un… teatro i cui attori protagonisti saranno i bambini stessi, che avranno la possibilità di apprendere giocando. E l’esperienza ci dice che ciò che si impara divertendosi non si scorda mai!

Durata: due incontri di due ore ciascuno. Età: dai 6 ai 10 anni Numero di partecipanti: minimo 40 / massimo 80. Costo: 10,00 Euro a bambino PER INFORMAZIONI E ISCRIZIONI Mani Tese – 02 40 75 165 | eas@manitese.it | www.manitese.it A.P.E. – 02 99 068 747 | 333 12 63 87 associazioneape@gmail.com | www.apearte.net

Luigi Idili (dir.), Luca Manes (dir. resp.), Angela Comelli, Alberto Corbino, Chiara Cecotti, Giosuè De Salvo Elias Gerovasi, Giovanni Mozzi, Giacomo Petitti, Lucy Tattoli.

Gruppo redazionale per il supplemento “Strumenti Cres” Donatella Calati (segretaria di red.), Giacomo Petitti (responsabile di red.), Elisabetta Assorbi, Gianluca Bocchinfuso, Piera Hermann, Elena La Rocca, Laura Morini, Shara Ponti.

Direzione, redazione e amministrazione Piazzale Gambara 7/9, 20146 Milano Tel. 02/4075165 cres@manitese.it www.manitese.it

Stampa: Staff S.r.l. – Buccinasco (MI)

Progetto grafico e impaginazione: Riccardo Zanzi

Hanno collaborato a questo numero: Elisabetta Assorbi, Gianluca Bocchinfuso, Michele Crudo, Anna Di Sapio, Giuseppe Faso, Piera Hermann, Elena La Rocca, Dunia Martinoli, Giacomo Petitti, Valentina Rossi, Giulio Sensi, Antonio Tricarico, Norina Vitali.

Gli articoli pubblicati rispecchiano il punto di vista degli autori, non necessariamente quello della Redazione. Quando non specificato, gli autori sono formatori Cres.

Realizzato con il contributo finanziario dell’Unione Europea In nessun caso i contenuti espressi possono essere considerati come espressione delle posizioni dell’Unione Europea.

Si può sostenere la rivista StrumentiCres con un’offerta minima di 10,00 € specificando: “per Strumenti” Il Cres,costituito da esperti ed insegnanti, cura le attività formative di Mani Tese in campo scolastico. Obiettivo fondamentale della sua iniziativa di ricerca e di innovazione didattica è la diffusione di una nuova cultura dello sviluppo e della mondialità nella scuola.


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