Clare O'Dea: ‹Il giorno in cui gli uomini dissero No›

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Il giorno in cui gli uomini dissero No Clare O’Dea

ne, Quattro don una giornata Romanzo

Traduzione dall’inglese di Anna Rusconi


Con il contributo di:

Susanne und Martin Knechtli-Kradolfer-Stiftung www.smkk-stiftung.ch

Titolo originale: Voting Day Original-ISBN : 978-2-9701445-0-2 ISBN : 978-2-9701445-3-3 Traduzione dall’inglese di: Anna Rusconi Immagine di copertina: Alamy Stock Photo Revisione di: Simona Mambrini Impaginazione e design: The Fundraising Company Fribourg AG Clare O’Dea www.clareodea.com Tutti i diritti riservati Prima edizione: febbraio 2021 Stampato e rilegato in Svizzera da Druckerei Herzog AG ©2021 Clare O’Dea, Fribourg/Freiburg, Svizzera


Ogni epoca ha le sue illusioni preferite, e una tra le più amate del nostro secolo è quella della ‘donna moderna’, indipendente, di successo e con gli stessi diritti sul lavoro. Iris von Roten, Frauen im Laufgitter (1958)



Per le donne di allora e quelle di oggi



Prefazione Il primo febbraio 1959, in Svizzera, il diritto di voto alle donne venne respinto dal 66,9 per cento degli elettori: una giornata che conservo ancora nella memoria. Avevo appena compiuto sedici anni, ero minorenne e troppo immatura per comprendere l’importanza storica che quella data aveva per noi donne svizzere. La Confederazione Elvetica restò un «Volk von Brüdern», un popolo di soli fratelli, fino al 1971. Anche mio padre votò No. Le mogli potevano esercitare la propria influenza sugli uomini entro le mura domestiche, e le madri dovevano occuparsi della casa e dei figli: allora era questo il pensiero corrente. Io decisi molto presto che non sarei diventata come mia madre, che accettava senza lamentarsi la sua posizione di subalterna. Solo negli anni Settanta cominciò la mia militanza attiva contro la discriminazione, e ancora oggi ammiro le molte donne che con tenacia e coraggio lottarono per l’uguaglianza. Nel febbraio 2021 festeggiamo dunque il cinquantesimo anniversario del suffragio femminile: un momento importantissimo a cui tornare a guardare, perché le generazioni più giovani spesso non hanno idea delle condizioni in cui vivevano le loro madri e le loro nonne prima dell’introduzione a livello federale del diritto di voto. Il giorno in cui gli uomini dissero No, avvincente romanzo di Clare O’Dea, rende una testimonianza storica preziosa, raccontando in modo critico ma delicato il destino di quattro donne prive di diritti e ciononostante determinate a prendere in mano le redini della propria vita. E, a dispetto del tempo, possiamo ancora identificarci tutte profondamente con Vreni, Margrit, Esther e Beatrice. Barbara Traber, febbraio 2021 Worb BE, Svizzera

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Prima parte

Vreni La giornata si preannunciava delle migliori. A Vreni non importava della nebbia che da venerdì avvolgeva la fattoria, non le importava dei panini per il seggio o della brocca del latte rotta dal ragazzino in affido: tra qualche ora avrebbe passeggiato per Berna a braccetto con la figlia Margrit, avrebbe ammirato la città e si sarebbe seduta davanti a un caffè e a una fetta di torta. Adesso però era ancora tutta sola nel caldo della cucina, e mentre ci dava dentro con la grattugia il mucchio di patate diventava sempre più piccolo. Vreni era famosa per il suo Rösti. D’un tratto ripensò alla storia della ragazza che filava paglia trasformandola in oro e sorrise. Quando l’aveva sentita per la prima volta? Probabilmente in terza elementare, da Suor Jerome, che parlava con quel buffo accento francese. La ragazza era prigioniera di un principe che la costringeva a filare ogni giorno più oro, ma ecco che a un tratto arrivava una vecchia strega ad aiutarla con le sue arti magiche. Solo che in cambio voleva qualcosa. Di solito in quelle storie era il figlio primogenito. E così, come un sottile fil di fumo, si fece strada il vago ricordo del primo travaglio, ventitré anni prima. Ma non si sarebbe certo abbandonata a quel pensiero! Rievocò invece un’immagine della valigia aperta, con il suo contenuto ben riposto: il nuovo nécessaire, con ammennicoli vari, e il cardigan migliore, da indossare in ospedale. Perché no? Quella era gente di città e lei non voleva essere trattata come un’insensibile bifolca dell’Oberland. Si alzò e andò a mettere la padella sul fuoco. Meglio concentrarsi sul presente, sulla ricca colazione per i figli e il marito. Avrebbe perfino spedito il piccolo Ruedi nel pollaio a raccogliere qualche uovo. Perché oggi avrebbe preparato loro l’ultima colazione domenicale e poi più niente per sei settimane. Sei settimane tonde tonde. Se l’era fatto mettere per iscritto, il dottor Jungo aveva promesso.

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La pendola batté la mezz’ora. Tra poco i suoi tre figli si sarebbero alzati e trascinati in cucina coi loro piedoni e gli identici nasi camusi (ineludibile eredità dal lato paterno), e Peter avrebbe reclamato il suo posto a capotavola, probabilmente ancora immusonito per la questione dei panini. Ci sarebbe stato anche il piccolo Ruedi, timido e goffo come il giorno in cui era arrivato, una cosa esasperante. Stavolta avrebbe dovuto puntare i piedi e chiedere una femmina: le sarebbe tornata utile, adesso. Quand’ebbe finito con l’ultima patata, grattò un po’ di noce moscata e aggiunse sale e pepe all’impasto. Poi, facendo attenzione, trasferì la zuppiera sulla stufa e prese il bollitore. Perché doveva essere tutto così pesante? Nelle cucine del futuro, che a Zurigo aveva visto coi suoi occhi alla SAFFA, l’esposizione del lavoro femminile, al posto di quei pesi morti ci sarebbero state versioni molto più leggere, in plastica, di tutto il necessario, e lei sarebbe stata la prima in fila per procurarsele. Il grasso sfrigolava nella padella. Vreni versò anche le patate grattugiate e afferrò uno strofinaccio per ripulire il tavolo, rovesciando le bucce nel secchio degli scarti. Anche se le giornate cominciavano appena ad allungarsi, mancava un’ora buona all’alba e la notte nera premeva ancora contro le finestre appannate. Quante mattine invernali aveva passato là dentro, infornando, spazzando, facendo bollire calderoni? Migliaia. Alla fattoria le settimane scivolavano via confondendosi l’una nell’altra così come la natura procedeva prevedibile di stagione in stagione. Da fare c’era sempre tanto e albe e tramonti erano bellissimi, per carità, ma ormai le sembrava di averli visti in tutte le salse. Più tardi, oggi, avrebbe camminato su marciapiedi e lasciato passare le macchine per attraversare strade in mezzo a case così alte che non se ne vedevano i tetti. Sarebbe stato un sollievo incontrare tante facce diverse sapendo già che non ne avrebbe riconosciuta nessuna. Gente in abiti eleganti, e lei e Margrit che passeggiavano felici in mezzo alla folla. Vreni strinse i pugni e se li portò al viso in preda a un fremito di eccitazione, che tuttavia scatenò quella maledetta sensazione di pesantezza là sotto. Così, mentre schiacciava e appiattiva

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ben bene le patate nella padella, si mise a fare gli esercizi per il pavimento pelvico. In ogni caso, per niente al mondo avrebbe preparato i panini. Non si era nemmeno resa conto che fosse diventata una tradizione, finché ormai non era troppo tardi. Ecco il problema, quando fai un favore. Ti mostri gentile una volta, e passi; ma alla seconda rischi già di diventare schiava di un obbligo vita natural durante, specie con un marito come il suo. A Peter piaceva farsi coinvolgere in tanti progetti. Era membro del consiglio comunale e diceva di sì a qualunque comitato. In quel momento ciò significava sedere nel Comitato dei poveri, in quello della Viabilità, del Cimitero e in quello elettorale. Tutti avevano una qualche utilità, ma l’ultimo era il suo preferito. Il giorno del voto arrivava gente da tutte le parti: certe facce non si vedevano mai, se non quel paio di volte l’anno in occasione della transumanza, dunque era il momento migliore per scambiare due chiacchiere con gli uomini dei quattro angoli del comune. Si scopriva chi vendeva campi e animali, chi aveva trovato lavoro dove, a chi servivano braccia in più o chi aveva figli o figlie in cerca di un’occupazione. Peter trascorreva tutta la giornata saltellando di qua e di là nell’ufficio elettorale, impegnato soprattutto a dare il benvenuto ai votanti e di quando in quando aspettando al varco qualche vecchio compagno di caccia, ma se necessario era pronto anche a spalare la neve dal sentiero. Nel tardo pomeriggio, chiusa l’urna, se ne ritornava a casa tutto contento e congestionato per gli immancabili schnapps a coronamento di una buona giornata di esercizio democratico. E così cenavano tardi, con lui che li intratteneva con le ultime novità. Dal canto suo, il giorno delle votazioni Vreni confezionava sempre i panini per gli uomini che presidiavano le urne. A quanto pareva era anche famosa per quei panini a treccia, le Zopf, farciti di burro fresco, generose fette di prosciutto e un velo di senape. La ricetta non era certo segreta, ma loro ne facevano una tale storia! Avrebbe potuto prepararli anche un bambino, figurarsi suo marito a cinquantadue anni, e stamattina ci avrebbe pensato proprio lui, perché lei doveva prendere la corriera che l’avrebbe portata in valle,

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lontano da tutte quelle incombenze. Sì: ci avrebbe pensato lui, senza se e senza ma. La porta della piccola stanza che comunicava con la cucina si aprì e un biondino di dieci anni, tutto scarmigliato, comparve sulla soglia. Non c’era mai bisogno di andare a svegliare Ruedi: si presentava sempre al momento giusto, già vestito, come se intuisse l’attimo in cui Vreni aveva bisogno di lui. Una specie di istinto di sopravvivenza sviluppato nell’istituto da cui veniva, probabilmente. «Buongiorno, Frau Sutter» la salutò con la sua cadenza musicale. Ecco una cosa che Vreni aveva notato subito: la sua voce dolce, flautata. Difficile credere che Ruedi venisse da una famiglia tanto pessima, il padre un ubriacone e la madre originaria di uno di quei clan gitani. Era fortunato ad aver trovato una casa tanto accogliente, ma con quelli come lui c’era ben poco da aspettarsi e Vreni l’aveva constatato spesso: la natura finisce sempre per avere la meglio. «Mettiti le scarpe e va’ a prendermi tutte le uova che trovi.» Dopo essersi preparato, davanti alla porta di servizio Ruedi tentennò tirandosi un polso del maglione proprio come lei gli aveva raccomandato di non fare. Increspò le labbra come se avesse qualcosa da dire. «Che c’è?» «Oggi… va in ospedale.» Tanta fatica per tirar fuori tre parole in croce. «Esatto, ma fra tre settimane torno. Te l’ho già spiegato.» Vreni riprese le sue faccende intorno alla stufa. «Sì, ma…» «Cosa?» «L’ospedale è pericoloso. Forse non deve andarci.» «Vieni qui» gli disse allora, posando il cucchiaio di legno. Lui si guardò le scarpe, timoroso di sporcare il pavimento pulito. Fu lei ad avvicinarsi. «Perché dici che l’ospedale è pericoloso?» Lui si tirò ancora più forte la manica, che Vreni prevedeva già di dover tornare a rammendare presto. «Dänu, il mio amico dell’Istituto, è andato all’ospedale e…» Gli si riempirono gli occhi di lacrime. Vreni provò l’impulso di abbracciarlo, ma non era quello il suo

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ruolo. Ruedi non era più un bimbo, tuttavia era pur sempre il bimbo di qualcuno. Con una fitta di senso di colpa ripensò alle lettere lasciate senza risposta nel cassetto. Scritte con tale cura, ogni volta la stessa richiesta. Gli accarezzò la spalla. «Mi dispiace per il tuo amico, ma non preoccuparti per me. Un sacco di gente va in ospedale per farsi curare e quando torna a casa sta meglio. Sarà così anche per me e la mia anca. Allora, me le vai a prendere sì o no queste uova? Oggi colazione speciale.» Ruedi tornò a stringere le labbra e annuì. In realtà, Vreni lo conosceva pochissimo. Tornò al suo Rösti, che sotto era diventato bello dorato. La storia dell’anca aveva funzionato bene anche coi suoi figli. A proposito, loro dov’erano? Aveva bisogno di qualcuno che la aiutasse a travasare il Rösti sul grande piatto prima che bruciasse. Anche il pane era quasi pronto. Andò ad accendere la radio, alzando il volume. Un po’ di fisarmonica sarebbe servita allo scopo. Un minuto dopo ecco apparire Hugo, con un maglione di lana grossa sopra il pigiama. Andò dritto dritto alla radio e la spense. «Gli altri arrivano» disse quindi. Considerata l’ora in cui la sera prima si era infilato a letto e la rumorosità dei preparativi, Vreni immaginò che adesso fosse in preda ai postumi di una sbornia. Del resto, che male c’era? Dopo tre settimane in caserma aveva bisogno di sfogarsi un po’ con gli amici. «Scodellami questa, per favore» gli rispose, girando il manico della padella verso di lui. «Stamattina ho tante di quelle cose da fare.» Materializzandosi al suo fianco, Ruedi le tese il paniere delle uova. Vreni ebbe un brivido: era rientrato portando con sé il freddo. «Mettile lì e comincia ad apparecchiare. E attento coi piatti!» Marcel e Ueli arrivarono e si unirono al fratello, a tavola, mentre Vreni friggeva le uova e riempiva la cuccuma del caffè. Ormai i tre ragazzi erano grandi uguali, robusti e non troppo alti, come il loro padre. Sedevano scomposti, fissando il Rösti dorato e capovolto, senza prestare attenzione a Ruedi che gli sistemava davanti piatti, tazze

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e posate. Vreni dispose le uova fritte sopra le patate e si mise seduta al suo posto, di spalle alla finestra. Dove diavolo era finito Peter? Proprio mentre stava per perdere la pazienza, naturalmente senza alzare la voce ma con una delle sue esplosioni sotterranee, Peter fece il suo ingresso in cucina salutandoli con un «Buongiorno, miei cari.» Allora tutti si presero la mano e insieme pregarono: «Per il cibo e per l’acqua, per il nostro pane quotidiano, noi ti ringraziamo, Signore». Il pane! Vreni si precipitò alla stufa più in fretta che poteva, e tanto in fretta non era. Tirò fuori le pagnotte, ormai più scure del necessario, e posò il vassoio in cima ai fornelli. «Vieni a tavola, Vreni» disse Peter. Accaldata, e maledettamente infastidita dai suoi sintomi, Vreni servì gli uomini uno per uno, lasciando Ruedi per ultimo. Marcel versò il caffè e, quando lei gli porse la tazza, le lanciò un’occhiata d’intesa. Ma quale intesa, che cosa pensava di aver capito? Niente, ecco cosa. «Oggi per Ueli è una grande giornata» esordì Peter, dando una pacca sulla schiena al primogenito. «E voi due dovrete occuparvi della casa.» Indicò con la forchetta Hugo e Marcel. Ueli si raddrizzò per bene sulla sedia, sfoggiando tutti i suoi ventun anni. «A che ora devo scendere per votare, papà?» «Già, proprio una grande giornata.» Il capofamiglia si guardò intorno in cerca di approvazione. «Il mio primogenito è ormai un uomo fatto e oggi voterà per la prima volta. Ricordo ancora la prima volta in cui andai a votare io…» «E qui ti interrompo» si intromise Vreni. La mattinata che aspettava lei era la più impegnativa di tutte, lì dentro, e non aveva tempo per la politica. Ma fu Marcel a sovrapporsi ai genitori. «E farai anche la cosa giusta per tua madre oggi, Ueli, così la prossima volta ci verrà con te?» Ueli guardò il padre. «Farà la cosa giusta per il suo paese, un paese che da settecento anni è guidato da uomini capaci e perbene, l’invidia dell’Europa intera.» Peter ricambiò con fermezza lo sguardo del figlio. «L’imbarazzo dell’Europa intera, vorrai dire» ribatté Marcel, le guance rosse per l’indignazione. «Le donne svizzere non sarebbero

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forse capaci di votare come quelle francesi, tedesche o austriache?» «Sciocchezze» borbottò Peter, masticando uova e patate. «Non sei che un ragazzetto sfacciato, e le donne svizzere stanno molto meglio delle loro compari straniere, lo sai benissimo.» «Grazie a tutti, ma io ho cose più importanti di cui parlare, adesso» disse Vreni, sfilando la lista dalla tasca del grembiule. «Perciò finite di mangiare e ascoltatemi bene.»

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La figlia di sua cugina sarebbe arrivata subito dopo pranzo, perciò il passaggio delle consegne non sarebbe avvenuto di persona ma tramite le pagine di istruzioni che Vreni aveva scritto: cosa c’era nella dispensa in cantina, cosa cucinare ogni giorno della settimana, cosa comperare al negozio in paese e quando, quali vestiti lavare e quando, in che ordine rigovernare le stanze della casa. A Ruedi sarebbero toccati i lavori all’aperto, d’inverno fortunatamente più leggeri e meno numerosi. Lei non aveva idea di quanto pratica fosse la ragazza, ma quel che temeva era la sua resistenza fisica. L’ultima volta che l’aveva vista era stato al funerale della madre, tre anni prima, e per essere una figliola di quattordici anni l’aveva trovata decisamente pelle e ossa; chissà, forse nel frattempo si era arrotondata un po’. Comunque, a caval donato non si guarda in bocca e Vreni aveva la fortuna di poter contare su un altro corpo in grado di rimpiazzarla, e per giunta a buon mercato. Sua cugina Christina, che la sua anima riposasse in pace, aveva una casa come si conveniva e di certo le aveva insegnato quel che c’era da sapere. Sarebbe andato tutto bene. Vreni si era scritta anche le cose che il dottore le aveva consigliato di portare con sé. Quando fu il momento di prepararsi, controllò un’ultima volta la valigia e infilò in borsetta la lettera dell’ospedale. Diceva sempre la stessa cosa: «Domenica 01.02.1959 alle ore 17 è pregata di presentarsi in accettazione per la preparazione all’intervento di lunedì 2. Osservare il digiuno dalle ore 17 di domenica». Era tutto pronto. Vreni si sedette sul letto per cercare un po’ di sollievo dal dolore costante. Accanto a lei erano posati il cappello e il cappotto buono.

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Respirò a fondo per lasciar andare la scarica nervosa che la attraversava da capo a piedi opprimendole il petto. Da quando il dottor Jungo le aveva spiegato qual era il suo problema, era stata più che mai determinata a sottoporsi all’operazione. Poteva guarire solo con una cura drastica, e quanto più ci aveva pensato, tanto più era stata contenta all’idea e la contentezza aveva tenuto quasi sempre alla larga la paura. Qualche giorno di dolore non sarebbe stato nulla a confronto degli anni di disagio che aveva alle spalle. Riposo era stata la parola chiave mentre il dottore scendeva nei dettagli, e la prospettiva di riposare le dava le vertigini. Sarebbe stata accudita per due settimane in ospedale e una nel convalescenziario. Altri avrebbero provveduto a servirle pasti e tazze di tè, a cambiarle le lenzuola e a scaldarle l’acqua, e quando fosse tornata a casa non avrebbe potuto rimettersi subito in attività. Ciliegina sulla torta, prima di entrare in ospedale avrebbe trascorso una bella giornata con Margrit. Peter era troppo impegnato per accompagnarla: una coincidenza perfetta. Mancavano ancora un po’ di minuti. Vreni tornò in cucina, in tempo per intenerirsi dinanzi alla goffaggine infantile del marito nel preparare i panini. Si mise a imburrare il pane al posto suo e lo spedì ad affettare il prosciutto. «Come ti senti?» le chiese lui. «Pronta per domani?» Anche dalla sua voce le sembrò di sentir trapelare una punta di tenerezza. «Starò benone» gli rispose. «Ormai sono interventi di routine. Niente di complicato, ha detto il dottor Jungo.» Poi si corresse: «Certo, sempre una cosa seria, e il riposo è fondamentale per la ripresa: tre settimane anche a casa, su questo ha molto insistito». «Sì, sì, ce l’hai detto e ripetuto. Bene, allora domani pomeriggio chiamerò la clinica per avere notizie.» Andò al cassettone e prese il portafogli. «Prendi questi. Per il biglietto del treno e un po’ di frutta o una rivista, che ne so.» Vreni accettò la banconota da dieci franchi. La valigia aspettava accanto alla porta. «Scendiamo insieme, dai. Vado a prendere il cappotto.» I ragazzi uscirono dal porcile per andare a farle gli auguri. Hugo

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sperava di cavarsela con un bacetto sulla guancia, ma lei lo afferrò per un braccio e gli posò l’altra mano sul viso. «Fa’ buon viaggio, stasera, e stavolta non arrivare in ritardo. Non vorrai aspettare altre tre settimane per rimettere piede a casa, giusto?» Lui si strinse nelle spalle. «Se vuoi puoi anche scrivermi una lettera all’ospedale di Berna, reparto ginecologia. Un modo per occupare una noiosa serata in caserma, no?» «Guardate che faccia» disse poi, rivolta agli altri. «Neanche gli avessi chiesto di ricamarmi un cuscino!» Hugo aveva un vasto repertorio di espressioni imbronciate e a lei venne il dubbio di avere un po’ esagerato. I Sutter non apprezzavano gli sfottò. Gli fece l’occhiolino. Ueli le diede un mezzo abbraccio e Marcel un abbraccio come si deve. Ruedi invece rimase nascosto nell’ombra del porcile, e quando lei lanciò un’occhiata nella sua direzione le sventolò timidamente la mano. «Non preoccuparti» gli disse a fior di labbra. «Insomma, fate i bravi» li esortò infine, d’un tratto impaziente di andarsene. «E niente parolacce in presenza di vostra cugina.» La corriera sarebbe passata di lì a quaranta minuti, appena prima che il municipio aprisse, alle nove, per le votazioni. Marito e moglie si avviarono insieme giù per la stradina, seguiti dal cane. Procedevano nella nebbia fitta, con il frutteto alla loro sinistra. Peter portava la valigia e un canestro di panini. Ben presto la fattoria con i suoi vari annessi scomparve dietro di loro. Costeggiarono il campo più alto, dove poco prima che il terreno indurisse, in autunno, avevano piantato cavoli e barbabietole. Un bel campo, quand’era visibile, ampio e fertile, che scendeva fino al fiume occupando metà del fianco della collina. Cresciuta più su nella valle, là dove lo strato di terreno fertile era meno profondo, Vreni non smetteva di apprezzare la buona terra intorno al paese. Come sempre, il cane andò a fermarsi nel suo punto d’osservazione preferito, e anche se oggi non c’era molto da vedere assunse la consueta postura di vedetta, troppo orgoglioso per ammettere che era stato un viaggio inutile. Vreni sorrise. La strada era butterata da buche e dure asperità e il ghiaccio

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Il giorno in cui gli uomini dissero No Svizzera, 1 febbraio 1959. In una domenica fredda e umida, gli uomini decido­ no se accordare il diritto di voto alle donne. Ma loro, le donne, cosa fanno quel giorno? L’instancabile Vreni è moglie di un agricoltore e madre di figli già grandi, e ha ormai rinunciato ai suoi sogni. La figlia Margrit sembra aver trovato la propria fortuna in un ufficio di Berna, ma il principale l’ha messa in una posizione inso­ stenibile. Esther, una Jenish sottratta da piccola alla famiglia d’origine, fa le pulizie in un ospedale e lotta per riavere il figlio Ruedi, che le hanno portato via. Beatrice, la sua capa, ha fatto carriera nell’amministrazione dell’ospedale e, dopo aver pro­ fuso entusiasmo ed energie nella campagna per il Sì, teme che i No possano vincere. La storia commovente e coinvolgente di quattro personaggi indimenticabili, le cui strade finiscono per incrociarsi a sorpresa il giorno del voto per merito di un ragazzino di dieci anni.

“Con questo realistico spaccato di vita, Clare O’Dea ci offre una prospettiva un po’ diversa sulla storia svizzera e la vita delle donne nella Confederazione degli anni ’50.” Ruth Metzler-Arnold, ex consigliera federale


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