Il nuovo soldato. Mercenari ed esercito permanente nell'Europa moderna

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

DI

L ETTERE

E

F ILOSOFIA

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CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DEI BENI CULTURALI

“IL NUOVO SOLDATO” MERCENARI ED ESERCITO PERMANENTE NELL’EUROPA MODERNA

Relatore: PROF. GIUSEPPE MELE

Tesi di Laurea di: AGOSTINO P IRAS

ANNO ACCADEMICO 2010/2011



Ringraziamenti Desidero innanzitutto ringraziare il mio relatore, il professor Giuseppe Mele, per la disponibilità ed il contributo di idee e materiale offerti durante l’elaborazione. Un ringraziamento particolare va alla professoressa Rafaella Pilo per avermi sostenuto fin dall’inizio, nonché per i preziosi consigli di cui ho fatto tesoro. Ringrazio la mia famiglia, alla quale devo molto: per primi i miei genitori e mio fratello, che con tanta pazienza e affetto, mi hanno sempre sostenuto in tutti questi anni, incoraggiandomi e spronandomi a raggiungere questo obbiettivo. Ringrazio i familiari e gli amici, di cui vorrei citare tutti uno per uno per l’aiuto, le chiacchierate e i bei momenti passati insieme, ma ciò non mi è possibile, siete troppi! Un ultimo ringraziamento va ad una persona che mi ha sostenuto e sopportato, sia come collega di studi che, soprattutto, come compagna di vita, Maria Laura, senza la quale non sarei arrivato dove sono ora.

Un grande e sincero grazie a tutti

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Indice

- PREMESSA

P. 4

- LE GUERRE DI CARLO V

P. 9

- L’ITALIA DOPO LA PACE DI CATEAU-CAMBRÈSIS

P. 13

- LE PRIME FORME DI ASSOLUTISMO TRA ‘500 E ‘600

P. 23

- L’EVOLUZIONE DELL’ESERCITO

P. 39

- CONCLUSIONI

P. 63

- BIBLIOGRAFIA

P. 65

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Premessa

Fin dagli albori della storia dell’uomo, tutte le civiltà del mondo hanno dovuto risolvere i propri dissidi interni o i contrasti fra di esse attraverso la guerra. Se pensiamo in particolar modo alla civiltà spartana, a quella romana o a quella vichinga, ci rendiamo conto di come la guerra abbia influito enormemente sulla nascita stessa e sullo sviluppo di queste società. Ma gli esempi che si potrebbero fare sono molto più numerosi, tanto quanto i popoli che hanno abitato il nostro pianeta. Lo scopo di questo lavoro è quello di analizzare sia il modo di fare la guerra, sia quanto questa abbia influito sulla società europea in un determinato periodo della storia, quello compreso tra il XVI e il XVIII secolo: un periodo che alcuni storici ritengono tra «i più bellicosi in termini di percentuale di anni di guerra in corso, durata media annua, vastità e dimensione dei conflitti»1. Come dare torto a questa affermazione? Nel corso del Cinquecento la Spagna e la Francia furono quasi sempre in guerra, mentre nel Seicento l’Impero Ottomano, l’Austria asburgica e la Svezia furono in guerra due anni su tre, la Spagna tre su quattro e la Polonia e la Russia quattro su cinque. Nel Settecento in Europa vi furono solo dodici anni di pace generale. La scelta di circoscrivere la nostra indagine a tale periodo non è stata casuale: l’evoluzione dell’arte militare è stato infatti un passaggio obbligatorio nella formazione, maturata pienamente nel Settecento, dello stato moderno. Anzi, possiamo affermare che senza le guerre del Cinquecento e del Seicento, non esisterebbero gli stati moderni, o almeno non sarebbero come noi oggi li conosciamo. Il perché di tali affermazioni verrà spiegato nelle pagine che seguiranno. Il primo capitolo della tesi tratta la lunga guerra tra l’Impero asburgico di Carlo V e la Francia di Francesco I, che influenzò enormemente l’Europa agli albori dell’era moderna: oltre alla descrizione dei principali eventi bellici e degli eserciti 1

G. PARKER, La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell’Occidente, Il Mulino, Bologna 1990, p. 7.

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che ne hanno fatto parte, si parlerà anche delle tensioni religiose tra protestanti e cattolici, delle alleanze politiche fra gli stati, fino alla pace di Cateau-Cambrèsis con cui si pone fine allo scontro tra le due grandi potenze. Si presterà particolare attenzione alla abdicazione di Carlo V, al ruolo dell’Impero Ottomano e all’intervento della Persia che, sebbene limitato, lo ritengo di fondamentale importanza, in quanto per la prima volta dalla caduta dell’Impero Romano, la storia europea supera i propri confini per abbracciare quelli di altri continenti. Il secondo capitolo si concentra sulle ripercussioni che la pace di CateauCambrèsis ebbe sulla situazione politica italiana: verranno passate in rassegna tutte le maggiori formazioni politiche, dai Regni di Napoli, di Sicilia e di Sardegna che gravitavano nell’orbita spagnola, ai primi stati regionali indipendenti di Savoia e Venezia, ed ancora Genova, il Granducato di Toscana e il Regno Pontificio, sottolineando l’importanza che questi ebbero sulla politica internazionale. Il terzo capitolo offre una panoramica generale di come le principali potenze europee intrapresero il cammino verso la modernità. Parlare di assolutismo come fino a pochi decenni fa è un po’ improprio, visti gli ultimi studi che ridimensionano il fenomeno. L’ascesa della borghesia, l’accentramento dei poteri nelle mani del re, l’oligarchia dei ceti nobiliari, la burocrazia sempre più complessa, le guerre civili, sono tutti fattori che hanno contribuito alla nascita dello stato moderno. Verrà esaminata l’evoluzione politica dei principali stati europei, accompagnata da alcune teorie dei più importanti studiosi di storia politica dell’età moderna, mettendo così a confronto le varie scuole di pensiero circolanti in Italia ed in ambito internazionale. Il quarto capitolo verte propriamente sul tema centrale dell’elaborato e cioè la figura del soldato, inteso sia come unità militare che come individuo, o meglio come membro della società. Dal Cinquecento, per la prima volta dopo tanti secoli, le masse contadine e plebee finalmente si riappropriano dell’uso delle armi, negato loro per tutto il periodo del Medioevo dai grandi signori feudali. L’affermazione della fanteria ha decretato da una parte la fine del sistema vassallatico e il riequilibrio delle forze politiche e sociali, dall’altra ha favorito lo sviluppo tecnologico ed economico, ponendo le basi in alcuni Paesi, come

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l’Inghilterra e l’Olanda, di un sistema economico di tipo proto capitalistico; mentre in altri, come la Polonia nel Seicento e la Prussia nel Settecento, ha portato all’istituzione di nuove forme di servitù della gleba. Si presterà particolare attenzione all’evoluzione degli eserciti ed al loro finanziamento, alle armi e alle tattiche di battaglia, al reclutamento e all’addestramento dei soldati, al vettovagliamento e alla logistica. Il capitolo si chiude con la formazione dello stato prussiano, l’unico esempio in Europa di governo assolutistico nato di pari passo con la costituzione dell’esercito nazionale di leva.

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Le guerre di Carlo V

La prima metà del '500 è caratterizzata da una serie di conflitti che coinvolsero l'Impero di Carlo V in una guerra con i principali protagonisti della politica europea di quel periodo. Una guerra, le cui ragioni politiche e religiose si son spesso confuse dando forma ad un quadro storico enormemente complesso. Da un lato Carlo V dovette affrontare il problema religioso in Germania: dopo l'affissione delle 95 tesi di Martin Lutero nel 1517, tra i principi tedeschi si crearono due blocchi religiosi, uno cattolico legato alla Chiesa di Roma e al papa, l'altro protestante legato alla figura di Lutero e di Federico il Saggio di Sassonia, capofila di tutti i principi riformati e protettore del monaco agostiniano (va ricordato però che nella ondata protestante che agitò l'Europa, alla dottrina di Lutero ne vanno accomunate altre, come il calvinismo, l'anabattismo, quella dei “i profeti di Zwickau” ed altre minori)2. Tale movimento religioso nato per denunciare la corruzione e l'attaccamento alle cose terrene da parte della Chiesa, proponeva un nuovo modello di fede basato sulla semplicità e su un ritorno a un cristianesimo originale. Ben presto però affiorarono i presupposti politici: infatti, la nuova fede religiosa fu sfruttata dai principi tedeschi per controbattere al potere politico della Chiesa. Questa, dal canto suo, non intervenne tempestivamente nella “questione Lutero” per due motivi: in primo luogo perché molti pensavano che Lutero sarebbe stato uno dei tanti profeti destinati a una breve fortuna; l'altro motivo riguardava il fatto che, per contrastare l'egemonia politica di Carlo V, il papato puntava proprio su Federico di Sassonia come antagonista dell’Asburgo nell’elezione imperiale per la successione a Massimiliano I3. La situazione degenerò molto presto in un conflitto armato che durò fino al 1555, anno in cui, con la Pace di Augusta si pose fine alle tensioni tra le due fazioni religiose. Il trattato di Augusta prevedeva un principio fondamentale, quello del cuius 2

Per una panoramica generale sulle varie dottrine religiose in Europa: L. SCHORN-SCHÜTTE, Die Reformation. Vorgeschichte, Verlauf, Wirkung, München, Beck, 1996, ed. it. La riforma protestante, Il Mulino, Bologna 1998, p. 179. 3 E. BONORA, La riforma protestante, in AA. VV., La Storia, vol. VII, Utet, Novara 2007, p. 204.

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regio eius religio: ai principi tedeschi era concesso il diritto di scegliere liberamente la confessione religiosa (cattolica o luterana) mentre ai sudditi rimaneva la facoltà di scegliere di abbracciare la fede del proprio principe oppure emigrare. Le uniche realtà esenti da tale regola erano le città imperiali, in cui le due confessioni potevano essere professate liberamente. Al cuius regio eius religio era legato un altro principio noto come reservatum ecclesiasticum4 riservato a vescovi e abati: ogni governante di confessione cattolica che decideva di abbracciare la dottrina protestante era tenuto a rinunciare alla propria carica e, di conseguenza, alle rendite che da essa derivavano. Tale costrizione diede forma a vari conflitti di piccola entità, come quello sfociato tra il 1583 ed il 1588 in cui l'arcivescovo di Colonia, convertitosi al protestantesimo ma desideroso di conservare i propri privilegi ecclesiastici, venne costretto da una coalizione di fede cattolica a dimettersi5. Al di là di queste piccole scaramucce, il trattato di Augusta garantì la pace religiosa nell'impero per un sessantennio circa, fino alla Guerra dei Trent'anni, e fu proprio il reservatum ecclesiasticum una delle cause principali dello scoppio del conflitto. I privilegi concessi alla parte protestante da Carlo V (in realtà Carlo abdicò l'anno precedente il trattato di Augusta a favore del fratello Ferdinando, che però stipulò la pace in nome del fratello) furono il risultato della volontà di porre fine ad una situazione divenuta ormai irrisolvibile con l'uso delle armi. Non che Carlo V non avesse il potenziale bellico per sconfiggere il movimento protestante, ma quello religioso non fu l'unico fronte militare in cui fu impegnato: nel sud-est europeo, ad esempio, l'avanzata dell'impero ottomano difficilmente incontrava ostacoli. Dopo aver conquistato la città di Belgrado l’8 agosto 1520 e l'isola di Rodi nel 1521, il nuovo sultano Solimano il Magnifico (1520-1566) riuscì nel 1526, alla testa di un esercito di 100.000 uomini e 300 cannoni6, a sconfiggere il re di Boemia ed Ungheria Luigi II Jagellone nella battaglia di Mohacs (29 agosto 1526), conquistando buona parte del regno e spingendosi in un secondo tempo fino alle porte di Vienna, assediandola ma senza successo nel 1529. Nel frattempo

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G. PARKER, La guerra dei Trent’anni, in AA. VV., La Storia, vol. VIII, Utet, Novara 2007, p. 165. 5 Ibidem. 6 R. VILLARI, Mille anni di storia, Laterza, Bari 2000, p. 234.

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il pirata Khair ad-Din detto il Barbarossa, vassallo di Solimano, riuscì ad unificare tutti gli emirati del Magreb sotto l'egida ottomana diventando signore di Algeri nel 1529 e fornendo le basi per le incursioni dei pirati nel Mediterraneo occidentale. La conquista di Tunisi da parte di Khair ad-Din nel 1534 spinse Carlo V a reagire, riconquistando Tunisi l'anno dopo ma venendo sconfitto ad Algeri nel 15417. L’imperatore riuscì a mantenere solo alcune teste di ponte in Africa come Melilla e Ceuta senza riuscire a eliminare il problema dei pirati nel Mediterraneo che anzi si spinsero fino alla Puglia conquistando qualche città costiera e mantenendole per qualche anno. Il problema ottomano fu in realtà di secondo piano in quanto, a parte gli avvenimenti sopra descritti, lo slancio della guerra santa contro i cristiani iniziò a rallentare dopo l'assedio di Vienna, causa anche delle tensioni tra Solimano e lo Scià di Persia, per poi subire un arresto con la battaglia di Lepanto nel 1571. Le vere preoccupazioni per l'impero di Carlo V provenivano dalla Francia di Francesco I, suo eterno rivale. I due si incontrarono per la prima volta durante gli accordi di pace dell'agosto 1516 a Noyon. Pochi mesi prima era scomparso Ferdinando il Cattolico e Carlo si presentò alle trattative di pace come il nuovo sovrano spagnolo. L'accordo prevedeva la rinuncia da parte di Francesco I alle pretese sul regno di Napoli, trasferite però a sua figlia Luisa di appena un anno e promessa sposa a Carlo, in cambio della restituzione della Navarra, occupata pochi anni prima da Ferdinando d’Aragona8. Dopo anni di guerre finalmente per l'Europa e sopratutto per l'Italia sembravano prospettarsi anni di pace. I contrasti ripresero però nel 1519, quando Carlo ereditò i domini asburgici dopo la morte del nonno imperatore Massimiliano I, fino ad arrivare a un vero e proprio conflitto armato dopo che Carlo venne eletto imperatore col nome di Carlo V il 23 ottobre 1520. Lo scoppio della guerra fu causato dal timore, peraltro giustificato, da parte di Francesco I di essere circondato dai domini di Carlo V9. L'occasione per il sovrano francese fu la duplice rivolta dei comuneros e delle germanías in 7

Ivi, p. 246. P. MERLIN, La forza e la fede, Laterza, Bari 2004, pp. 48-49. 9 Alla luce di questi avvenimenti il ducato milanese acquisì una maggiore importanza strategica agli occhi del sovrano francese: M. RADY, The Emperor Charles V, Longman, London 1988, ed. it. Carlo V e il suo tempo, Il Mulino, Bologna 1997, p. 57. 8

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Spagna10. Egli ne approfittò invadendo inizialmente sia la Navarra che il Lussemburgo nel 1521 (con esiti negativi per l'esercito francese), per poi spostarsi rapidamente in Italia, dove le truppe imperiali erano riuscite a scacciare i francesi da Milano. La battaglia della Bicocca pose fine allo scontro tra i due schieramenti, nel quale quello francese fu sconfitto e costretto a cedere il ducato di Milano a Carlo V. Solo nel 1524 Francesco I riuscì a scendere ancora in Italia al capo di un grosso esercito, sostenuto da veneziani e dal papato di Clemente VII (al secolo Giulio de' Medici); occupò dapprima Milano per poi dirigersi verso Pavia dove si erano rifugiate le truppe imperiali in ritirata. Il risultato del conflitto sembrava oramai scontato ma l'assedio alla città fu fatale per i francesi che vennero pesantemente sconfitti (25 febbraio 1525) e Francesco cadde prigioniero di Carlo. Gli accordi di pace di Madrid del 152611 furono talmente svantaggiosi per il sovrano francese che appena venne liberato non solo si affrettò a sconfessare il trattato appena sottoscritto, ma si riorganizzò militarmente riuscendo a coinvolgere in una lega anti imperiale gli alleati di Carlo, preoccupati per il potere acquisito da quest’ultimo con la riconquista del Milanese. La lega, conosciuta come lega di Cognac, era costituita dalla Francia, dalla repubblica di Venezia, dallo Stato Pontificio, da Firenze, Genova e dallo stesso Ducato di Milano12. Il piano strategico prevedeva due fronti di combattimento, miranti a privare Carlo del regno di Napoli e del Milanese. Durante l'avanzata degli eserciti, prima ancora dell'inizio della guerra, i lanzichenecchi al servizio dell'imperatore, a causa della scomparsa del loro comandante Georg von Frundsberg e per il fatto di essere rimasti senza paga, si dettero al saccheggio più sfrenato scendendo fino a Roma e ponendo a sacco la città per diversi mesi ad iniziare dal maggio del 152713. Clemente VII fu costretto a capitolare così come la Repubblica di Firenze. Il sacco di Roma destò enorme scalpore in tutta Europa, tant'è che pure l'Inghilterra (fino allora più o meno neutrale) si schierò apertamente a favore della lega antiasburgica. Al comando del generale Lautrec l'esercito francese occupò dapprima Milano e Pavia per poi dirigersi verso il meridione d'Italia, deciso a 10

F. SENECA, L’Italia nell’età di Carlo V, in AA.VV., La Storia, vol. VII, Utet, Novara 2007, p. 42. 11 Ivi, p. 46. 12 Ivi, p. 47. 13 Ivi, pp. 48-50.

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scacciare gli imperiali dalla penisola. Il piano sembrava andare a buon fine per i francesi (Napoli fu posta sotto assedio nel gennaio del 1528) quando la flotta genovese di Andrea Doria abbandonò Francesco I per allearsi con Carlo V, privando così i francesi del sostegno logistico e delle comunicazioni con la madre patria14. Stanco e indebolito, l'esercito francese perse man mano tutte le conquiste acquisite fino a capitolare. Le trattative di pace iniziate nel gennaio del 1529 durarono circa otto mesi e furono gestite da Luisa di Savoia, madre di Francesco I, e da Margherita d'Asburgo, zia di Carlo V e reggente dei Paesi Bassi. Si arrivò così alla Pace di Cambrai, detta anche “Pace delle due Dame” (5 agosto 1529), con la quale Carlo rinunciava definitivamente alle pretese sulla Borgogna, mentre Francesco abbandonava le mire sui possedimenti asburgici in Italia. Nel frattempo i rapporti tra Carlo e la Santa Sede migliorarono in vista di una grande alleanza cattolica contro i Turchi che ormai assediavano Vienna. Col trattato di Barcellona del 1529 non solo si ribadiva l'amicizia tra pontefice ed imperatore ma quest'ultimo si impegnava di restituire al Papa le terre occupate recentemente dai veneziani e dal duca di Ferrara (Cervia, Ravenna, Modena, Reggio, Rubiera) e a riportare i Medici a Firenze, mentre Clemente VII concedeva a Carlo l'investitura del Regno di Napoli e l'impegno di incoronarlo imperatore in Italia15. Inoltre il trattato prevedeva la cessione della contea di Asti al duca Carlo III di Savoia16 da parte dell'imperatore in cambio della sua neutralità durante il conflitto, mentre il Milanese diventava uno stato formalmente indipendente nelle mani di Francesco II Sforza, a condizione che dopo la sua morte (avvenuta nel 1535) il ducato rientrasse nella giurisdizione imperiale17. A questo punto, sistemata la situazione italiana, Carlo tornò in Germania per affrontare i problemi legati agli Stati protestanti. Ma è proprio in Germania che si crearono le basi affinché Francesco I potesse riorganizzarsi. Alcuni stati protestanti dell'Impero, timorosi dell'accresciuto potere di Carlo dopo la pace di Cambrai, si riunirono nella Lega di Smalcalda per proteggere la dottrina

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Ivi, p. 52. Ivi, pp. 55-56. 16 AA. VV., Atlante storico Garzanti, Garzanti, Milano 1982, p. 245. 17 F. SENECA, L’Italia nell’età di Carlo V, cit., p. 59. 15

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protestante dai cattolici. Francesco I approfittò dell'opportunità quasi subito, stringendo accordi amichevoli con la Lega e contemporaneamente con Solimano il Magnifico. Carlo, preoccupato delle alleanze strette dal rivale, sopratutto con gli ottomani, decise a sua volta di creare una lega antifrancese. L'alleanza più particolare conclusa da Carlo V fu quella con lo Scià di Persia, appartenente alla dinastia dei Safawidi, che impegnò militarmente Solimano nei territori dell'odierno Iraq18. Il piano di Carlo prevedeva l'attacco e la conquista dell'Africa magrebina col duplice scopo da un lato di eliminare le scorrerie corsare nel Mediterraneo e sopratutto nel Regno di Valencia, da cui venne il principale finanziamento per questa impresa19, dall'altro di indebolire il principale alleato dei francesi, già respinto dai cristiani sotto le mura di Vienna e duramente impegnato in Asia Minore con i Persiani. Dopo l'audace conquista di Tunisi, a cui parteciparono tutti i territori dell'Impero e il papato, non seguì un'altrettanta brillante politica militare: infatti alla disfatta di Algeri seguirono ripetute incursioni corsare nel Mediterraneo e addirittura Carlo dovette subire per alcuni anni l'occupazione ottomana di alcune città dell'Italia meridionale e dell’isola di Corfù20. A parte questo il problema più grande per Carlo V rimaneva sempre la rivalità con la Francia. Non potendo rompere gli accordi di pace, Francesco I sfruttò qualsiasi occasione che gli si offriva per far valere i suoi diritti sul Milanese: dalla accusa nei confronti di Carlo di aver giustiziato ingiustamente un suo diplomatico, all'offerta a Francesco II Sforza di cedere lo Stato di Milano in cambio del Monferrato e di una cospicua pensione, fino al riconoscimento, dopo la morte dello Sforza (1535), di diritti ereditari sul ducato21. Queste pretese naturalmente non avevano molto fondamento ma rappresentano bene il grado di tensione tra le due potenze. Ad un certo punto, dopo l'ennesimo rifiuto di Carlo di cedere il Milanese, Francesco I decise di muovere guerra al Piemonte, allora governato dal debole duca Carlo II, imparentato con gli Asburgo in quanto marito di Beatrice di Portogallo, cognata dell'imperatore. Lo scopo di tale azione era di offrire il 18

Ivi, pp. 61-62. P. MERLIN, op. cit., pp. 188-192. 20 S. J. SHAW, L’impero di Solimano il Magnifico, in AA.VV., La Storia, vol. VII, Utet, Novara 2007, pp. 669-773. 21 F. SENECA, L’Italia nell’età di Carlo V, cit., pp. 68-70. 19

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Piemonte come merce di scambio con l'imperatore per ottenere il Milanese, ma Carlo anziché affrontare a viso aperto i francesi, invase direttamente la Francia, passando per la Provenza e la Piccardia. La resistenza delle guarnigioni di difesa e delle popolazioni portò ad una situazione di stallo per entrambi gli eserciti, a causa della quale si giunse alla firma della tregua di Nizza (8 giugno 1538), con cui si riconosceva ai francesi l'acquisizione del Piemonte e della Savoia, ad esclusione di Nizza e di altri centri minori che rimanevano in mano a Carlo II di Savoia sotto la tutela dell'impero, mentre il ducato di Milano rimaneva in mano asburgica22. La tregua venne rotta prima del suo termine naturale di dieci anni: questa volta la scintilla fu l'elezione a governatore del Milanese di Filippo II, figlio di Carlo. Tale investitura significava l'annessione completa del ducato nei possedimenti imperiali, operazione che Francesco I non poteva di certo permettere. Si fece promotore di una grande coalizione antiasburgica di cui fecero parte oltre i Turchi anche Danesi, Svedesi e Regno di Scozia, ognuno con un proprio ruolo specifico: dei Turchi abbiamo già parlato, compito loro era quello di premere lungo le frontiere orientali dell'Impero e sostenere la pirateria mentre Danimarca e Svezia, di confessione protestante, sostenevano la lega di Smalcalda e le rivolte luterane che scoppiavano all'interno dell'Impero. Un po' più complicato era invece il ruolo della cattolica Scozia: nemica da sempre dell'Inghilterra, le dichiarò guerra quando gli inglesi strinsero accordi di mutua protezione con l'Impero23. La Francia, dal canto suo, mosse contro i Paesi Bassi, il Lussemburgo, il Rousillon e il Piemonte con attacchi fulminei e imprevedibili, atti a logorare il morale degli abitanti e dei soldati. Purtroppo per Francesco I le cose non andarono come avrebbe voluto: non solo la pressione turca fu alquanto sterile, ma dopo una prima serie d’insuccessi la controffensiva imperiale diede finalmente i suoi frutti. L'esercito di Carlo penetrò nel cuore del regno francese fino stanziarsi a pochi chilometri da Parigi mentre gli Inglesi, dopo aver sconfitto l'esercito scozzese, cingevano d'assedio la città di Boulogne24.

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Ivi, pp. 64-66. F. GAETA, Carlo V e il declino del modello imperiale, in AA.VV., La Storia, vol. VII, Utet, Novara 2007, pp. 113-115. 24 F. SENECA, L’Italia nell’età di Carlo V, cit., p. 66. 23

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Con la caduta di questa città si pose fine alle ostilità con la Pace di Crepy (18 settembre 1544), con la quale si ripristinò lo status quo vigente prima del conflitto. Il trattato venne suggellato con un accordo matrimoniale tra le due nazioni antagoniste: una nipote dell'imperatore infatti ricevette in dote il Milanese per andare in sposa a Carlo, terzogenito di Francesco I, ma la prematura scomparsa del principe (8 settembre 1545) rese vani gli sforzi diplomatici per entrare in possesso del Ducato. Carlo V si sentì così libero dall'impegno matrimoniale ed investì definitivamente il figlio Filippo II dello Stato di Milano (5 luglio 1546)25. Con la scomparsa di Francesco I, nel 1547, la corona di Francia passò nelle mani dell'erede Enrico II, che momentaneamente abbandonò le mire verso l'Italia sia per combattere la diffusione della dottrina calvinista in Francia sia per risanare l'economia del Paese stremato da anni di guerre26. Libero dal timore francese, Carlo V poté dedicarsi ai problemi più urgenti dell'impero. Tra questi, cercò di risolvere la questione di Parma e Piacenza27: le due città appartenevano allo Stato pontificio dal 1521 e acquisivano un'importanza strategica fondamentale nello scacchiere politico italiano. Nel 1545 il papa Paolo III assegnò le due città al figlio Pier Luigi Farnese, erigendone i territori in Ducato come feudo della Chiesa. Tale azione impensierì profondamente l'imperatore in quanto il Farnese simpatizzava per la monarchia francese, oltre che essere un uomo dalle grandi ambizioni. Decise allora di appoggiare la congiura contro il Farnese che morì trucidato il 10 settembre 1547, mentre Ferrante Gonzaga occupava militarmente Piacenza per annetterla al Ducato di Milano28. La città di Parma fu occupata invece da Ottavio Farnese, figlio di Pier Luigi29. La situazione rimase in stallo fino alla morte di Paolo III, avvenuta nel 1550. Il successore Giulio III era più accondiscendente verso l'imperatore. La morte del nonno (con la conseguente perdita degli appoggi politici) ed il mancato 25

P. MERLIN, op. cit., p. 236. Ivi, pp. 237-238. 27 Ibidem. Oltre alla congiura antispagnola di Parma e Piacenza, ne vanno ricordate almeno altre due: quella di Lucca, con la quale si cercò di instaurare in Toscana uno stato repubblicano, e quella di Genova, con i Fieschi che cercarono l’appoggio dei francesi per sconfiggere i Doria. Per ulteriori approfondimenti: AA. VV., Atlante storico Garzanti, cit., p. 245. 28 F. SENECA, L’Italia nell’età di Carlo V, cit., p. 70. 29 AA. VV., Atlante storico Garzanti, cit., p. 245. 26

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riconoscimento imperiale come signore di Parma, spinsero Ottavio Farnese ad allearsi con la Francia. Enrico II rispose subito esercitando una forte pressione militare sia sui confini del Milanese sia su quelli germanici30. Mentre il primo fronte si chiuse con un nulla di fatto per entrambi gli eserciti, il secondo fu propizio per i francesi, che aiutati dai principi protestanti tedeschi occuparono nel 1552 i vescovati di Metz, Toul e Verdun31. Il 25 ottobre 1555 a Bruxelles accadde un fatto straordinario per la sua importanza: stanco, malato ed ormai rassegnato nel vedere sfaldarsi il suo sogno di un impero universale, Carlo V scelse di abdicare alla sovranità dei Paesi Bassi in favore di Filippo II e nel gennaio del 1556 gli cedette anche i suoi poteri sulla Castiglia, sull'Aragona, sui domini spagnoli in Italia e in America, mentre i domini ereditari della asburgici e la candidatura alla corona imperiale vennero affidati al fratello Ferdinando32. Intanto scoppiavano rivolte anti imperiali in alcune città italiane come Lucca, Genova (sedate nel sangue) e Siena, che nel 1555 venne conquistata dopo un lungo assedio dalle truppe di Cosimo I de' Medici, che sarà incoronato granduca di Toscana nel 157033. Vista la situazione di stallo che si era venuta a creare i due contendenti (Enrico e Filippo) scelsero di firmare una tregua quinquennale a Vaucelles (15 febbraio 1556), che però durò solo un anno. Fu Enrico a romperla, appoggiato dal nuovo pontefice Paolo IV, al secolo Giovanni Pietro Carafa. Dopo qualche successo iniziale i francesi furono pesantemente sconfitti: dapprima nella battaglia di San Quintino nelle Fiandre (10 agosto 1557) da parte dell'esercito imperiale comandato da Emanuele Filiberto di Savoia, figlio di Carlo II, e l'anno dopo a Gravelines nei pressi di Dunkerque (13 luglio 1558). Intanto, nel settembre 1557, il pontefice Paolo IV fu costretto, sotto assedio, a firmare la pace con Filippo34. Finalmente i contendenti, oramai esausti finanziariamente e preoccupati per l'avanzata del protestantesimo nei loro domini e nel resto dell’Europa, il 3 aprile 1559 firmarono a Cateau-Cambrèsis il trattato di pace che mise fine a circa 30

F. SENECA, L’Italia nell’età di Carlo V, cit., p. 71. Ibidem. 32 P. MERLIN, op. cit., p. 350. 33 AA. VV., Atlante storico Garzanti, cit., p.245. 34 F. SENECA, L’Italia nell’età di Carlo V, cit., p. 75. 31

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quarant'anni di guerre e tensioni tra le due forze politiche.

L'Italia dopo la pace di Cateau-Cambrèsis La pace di Cateau-Cambrèsis sancì in maniera inequivocabile la supremazia spagnola sull’Italia. Dopo la rinuncia di Enrico II di Francia alle mire sul Ducato di Milano e sul Regno di Napoli, il dominio spagnolo si estese incontrastato da un capo all'altro della penisola: ne facevano propriamente parte i Regni di Napoli, di Sardegna e di Sicilia, il Ducato di Milano e lo Stato dei Presidi in Toscana. Ognuno di questi territori assunse un'importanza strategica fondamentale nello scacchiere politico europeo, oltre naturalmente ai benefici economici che la Corona ne ricavava. Il Milanese, ad esempio, oltre che essere un naturale corridoio tra il porto di Genova ed i territori dell'Impero (utile sia per gli scambi commerciali che, soprattutto, per muovere gli eserciti), fungeva da stato cuscinetto tra il Ducato di Savoia e la Repubblica di Venezia, gli unici stati indipendenti in Italia35. Dopo la morte di Francesco II Sforza nel 1535, l'autorità regia venne rappresentata dalla figura del governatore, il cui operato era coadiuvato da un Consiglio segreto composto da membri facoltosi e di alto lignaggio. Esisteva anche un Senato, composto da membri dell'aristocrazia lombarda, i cui compiti rientravano nell'ambito amministrativo e giudiziario. Istituito al tempo di Luigi XII (quando Milano era sotto controllo francese) e conservato sotto Carlo V e Filippo II, tale organo perse però la sua autonomia col passare degli anni fino a diventare del tutto subordinato al volere del governatore36. Nei Regni di Napoli, di Sardegna e di Sicilia il potere regio era rappresentato dalla figura del viceré. I vecchi organismi politici, precedenti all'insediamento spagnolo (parlamenti e senati) furono mantenuti dall'autorità ispanica, ma persero in parte la loro indipendenza per via di una sorta di controllo esercitato dal

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G. FENICIA, Il regno di Napoli e la difesa del Mediterraneo, Cacucci, Bari 2003, p. 34. F. SENECA, Gli stati italiani nel secondo Cinquecento, in AA. VV., La Storia, vol. VII, Utet, Novara 2007, pp. 390-391.

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viceré37. Di fatto in Sardegna e in Sicilia questi organismi conservarono larga parte della loro autonomia anche a causa delle rivendicazioni avanzate da gruppi consistenti di nobili locali38. L'importanza che questi tre regni rivestirono per la Corona Spagnola fu enorme: oltre alla posizione geografica (la Sardegna al centro del Mediterraneo occidentale, la Sicilia linea di confine con l'Africa barbaresca ed il Regno di Napoli, bagnato da tre mari e confinante con Roma), fu importantissimo il drenaggio di ricchezze e di uomini. Il Regno di Napoli, ad esempio, riforniva di denaro e di vettovaglie il contingente di soldati (circa 800900 fanti) di stanza nel forte di La Goletta per tutta la durata dell'occupazione, mentre la Sicilia manteneva a proprie spese le guarnigioni presenti a Pantelleria, Lampedusa e nelle Eolie39. Ma non è tutto: l'importanza che il Meridione d'Italia rivestì nella politica economica e militare di Filippo II fu ancora più grande che ai tempi di Carlo. Il motivo è da ricercare nella lotta contro il Turco. Liberatosi del problema francese, Filippo poté infatti dedicarsi alle campagne militari contro gli ottomani (basti pensare alla battaglia navale di Lepanto del 1571) e Napoli rivestì un ruolo di primissimo piano in questo progetto: la flotta napoletana ad esempio passò da un contingente di sei galere nel 1560 ad un numero di molto superiore nel 1573, ben cinquanta40. C'è da dire che non tutte le imbarcazioni provenivano dai cantieri napoletani: sappiamo che almeno nove galere facevano parte del bottino di guerra conquistato a Lepanto, mentre la restante metà proveniva dalle dismissioni della flotta di stanza a Barcellona41. Nonostante ciò, le spese di armamento e di gestione gravavano tutte sulle casse napoletane. Stesso discorso per quanto riguarda le truppe di terra di stanza nel Regno: che fossero spagnole, italiane, tedesche o albanesi, il loro mantenimento ricadeva sempre sulle casse partenopee. Capitò più di una volta che Napoli si sobbarcasse spese che non le competevano come quando dovette mantenere circa seicento soldati tedeschi in Lombardia nel triennio 1571-73 (per un costo di 20.000 ducati l'anno)42, o

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Ibidem. Ibidem. 39 G. FENICIA, op. cit., p. 36. 40 Ibidem. 41 Ivi, p. 37. 42 Cfr. Ibidem, ma anche A. BUONO, Esercito,istituzioni, territorio. Alloggiamenti militari e «case 38

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quando, nel 1577, inviò milleduecento soldati nelle Fiandre per sedare la rivolta in corso43. Questo accadeva perché ancora nel secondo Cinquecento il Regno di Napoli era non solo il domino spagnolo più ricco (ad esclusione dei possedimenti oltre oceano), ma anche quello dove c’erano maggiori possibilità di reclutare soldati. D'altronde durante le guerre di Carlo V contro la Francia e i protestanti Napoli partecipò marginalmente alle spese di guerra, sostenute per la maggior parte dal Regno di Castiglia44, che proprio per questo motivo rischiò la bancarotta, per subirne poi quattro sotto il regno di Filippo II. Col possesso dello Stato dei Presidi, formato dalle fortezze costiere di Orbetello, Talamone, Porto Ercole, Porto Santo Stefano, l'Argentario e dal castello di Porto Longone, nell'isola d'Elba, Filippo poté tenere sotto controllo sia buona parte del Tirreno che il Ducato di Toscana (Granducato dal 1569), nel quale, sebbene fosse uno stato satellite della Spagna, non mancavano i complotti e i disordini anti asburgici45. La mappa dell'Italia ci mostra quanto fosse frammentata e precaria in quegli anni la situazione politica della penisola. Oltre gli Stati sopra menzionati facenti parte della Corona spagnola, ne esistevano altri che gravavano intorno alla sua orbita di influenza, più tutta una serie di entità statali indipendenti dalle dimensioni più svariate. Come prima è stato accennato, il Ducato di Milano fungeva da stato cuscinetto tra il Ducato di Savoia e la Repubblica di Venezia, non a caso i due stati territoriali indipendenti più grandi della penisola. Il Ducato sabaudo rientrò in possesso della famiglia Savoia all'indomani della pace di Cateau-Cambrèsis. Le condizioni in cui Emanuele Filiberto trovò lo stato furono veramente precarie: dopo più di vent'anni di conflitti la popolazione era assai diminuita mentre l'economia attraversava pesanti difficoltà a causa delle devastazioni e dei saccheggio compiuti dagli eserciti mercenari. Il problema più grande per il Ducato fu però l'accettazione di alcune clausole del trattato di pace che prevedevano l'occupazione di alcune città (compresa Torino) da parte di guarnigioni francesi in attesa che la madre di Francesco I, Luisa di Savoia,

herme» nello Stato di Milano, Firenze, University Press 2009. G. FENICIA, op. cit., p. 51. 44 P. MERLIN, op. cit., p. 191. 45 F. SENECA, Gli stati italiani nel secondo Cinquecento, cit., p. 389. 43

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presentasse eventuali pretese sulla corona sabauda, mentre alla Spagna venivano garantiti alcuni presidi militari secondo il principio dell'equilibrio46. Il lavoro di ricostruzione dello stato che spettò ad Emanuele Filiberto fu enorme: egli iniziò con l'eliminare i particolarismi feudali puntando ad una amministrazione accentrata di tipo assolutistico. Il modello di amministrazione cui egli s’ispirò fu quello francese, anche se introdusse alcune variazioni e semplificazioni. Nel 1563 spostò la capitale da Chambéry in Savoia a Torino, fondandovi la prima università sabauda. Fondamentale nella sua politica fu la riforma militare: consapevole dei limiti di un esercito mercenario introdusse la leva obbligatoria per gli uomini abili tra i diciotto e i cinquant'anni. Tale riforma permise tre importantissimi risultati: in primo luogo la creazione di un esercito permanente, disciplinato ed efficiente; in secondo luogo vennero a crearsi nel popolo i presupposti di quel sentimento nazionale che sta alla base di uno stato di tipo assolutistico; terzo, fu dato un forte impulso alla ripresa economica47. La creazione dell’esercito permanente fu uno dei principali volani dell'economia sabauda: con l’introduzione di questa riforma si rendeva necessario non soltanto costruire le caserme per l’addestramento delle truppe, ma anche avviare un sistema di approvvigionamento valido e funzionante (cibo, armi, vestiti, accessori vari...). Vennero quindi bonificate ampie aree improduttive incentivando l'agricoltura, si finanziò sia l'estrazione mineraria in Val d'Aosta che l'industria manifatturiera; le vie di comunicazione vennero notevolmente migliorate. Emanuele Filiberto era consapevole che alla base di uno stato moderno ci dovesse essere un esercito forte e un'economa altrettanto forte che lo sostenesse e su questa linea egli si adoperò, rassicurato dal fatto che, essendo il Piemonte uno stato cuscinetto, aveva una maggiore autonomia d'azione rispetto agli altri stati italiani48. Raggiunti gli obiettivi sopra elencati, Emanuele Filiberto si dedicò alla seconda parte del suo progetto politico: la ricostruzione territoriale dello stato. Nel 1562 la maggior parte delle piazzeforti in mano ai francesi ritornò in seno allo stato sabaudo e tale operazione ebbe fine nel 1575, seguita dalla restituzione dei presidi occupati dagli spagnoli. 46

Ivi, pp. 393-394. Ivi, p. 397. 48 Ivi, p. 394. 47

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Alla morte di Emanuele Filiberto gli succedette il figlio Carlo Emanuele I che regnò dal 1580 al 1630. La sua politica fu molto più spregiudicata di quella del padre: nel 1585 sposò Caterina d’Asburgo, figlia di Filippo II, e nel 1588, approfittando delle guerre di religione in Francia, occupò il Marchesato di Saluzzo. L'anno dopo, in seguito all'assassinio di Enrico III, invase il Delfinato e la Provenza rivendicando pretese sulla corona francese in quanto figlio della sorella di Enrico II, ma dovette ritirarsi e rinunciare al suo progetto49. La guerra con la Francia di Enrico IV riprese pochi anni dopo, grazie al sostegno della Spagna e terminò nel 1601 col trattato di Lione, con il quale venne riconosciuta l'acquisizione del Marchesato di Saluzzo e di altre terre in Piemonte e Savoia, mentre la Francia riceveva alcune città vicino a Lione50. Conquistato Saluzzo, gli sforzi sabaudi puntarono sull'acquisizione del Marchesato di Monferrato, un'entità statale appartenente al duca di Mantova situato all'interno del Piemonte. Sebbene gli sforzi fossero enormi, Carlo Alberto non riuscì mai a conquistare il marchesato. Non vi riuscirono né la diplomazia né tanto meno le due guerre che ne scaturirono (1612-1617; 1627-31). Con la pace di Cherasco del 1631 il nuovo duca Vittorio Amedeo I subì pesanti umiliazioni e da allora lo stato perse la sua autonomia per entrare nell'orbita francese51. Un altro grande stato territoriale indipendente fu la Repubblica di Venezia. Essa non subì grossi danni dalla pace di Cateau-Cambrèsis in quanto già da tempo aveva abbandonato la politica espansionistica o quanto meno di ingerenza negli affari europei, per chiudersi all'interno dei propri confini e salvaguardare la propria indipendenza. I suoi territori andavano dall'Adda all'Isonzo, più i vasti possedimenti dell'Istria, della Dalmazia, alcune roccaforti nel Peloponneso, le isole Ionie, dell'Egeo e l'isola di Cipro, il più lontano insediamento cristiano nel Mediterraneo orientale52. Il capo dello stato era il Doge, che costituiva il simbolo stesso della repubblica, coadiuvato da un gruppo di magistrature specifiche (Consiglio dei Dieci, Consiglio dei Baili, ecc...) di origine aristocratica. Nel corso della seconda metà del '500 furono diverse le insidie che minarono l'integrità della

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Ivi, p. 399. Ivi, p. 400. 51 AA. VV., Atlante storico Garzanti, cit., p. 253. 52 F. SENECA, Gli stati italiani nel secondo Cinquecento, cit., p. 421. 50

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Repubblica veneta. In primis vi fu il pericolo turco: furono due le guerre ingaggiate contro gli Ottomani (1537-40; 1570-73). La prima si risolse con la perdita per Venezia di Nauplia, Malvasia e delle isole dell'Egeo (mentre la conservazione di Zante e Cipro fu possibile soltanto con il pagamento di una grossa indennità annuale); la seconda vide la partecipazione alla guerra di un lega santa formata da Venezia, Santa Sede e Spagna53. Nonostante la grande vittoria navale di Lepanto del 7 ottobre 1571, Venezia si vide costretta a firmare nel 1573 una pace separata con gli Ottomani e cedere loro Cipro, Famagosta, Dulcigno ed altre piazzeforti, più il pagamento di un'indennità di guerra per mantenere Zante e Cefalonia54. La minaccia del Turco non fu l'unica per Venezia: già da tempo alcune potenze europee cercavano di intaccare la stabilità della Repubblica veneta contestando un principio che per i veneziani era più che sacrosanto, il “diritto di dominio sull'Adriatico”. Da questo nacquero tensioni con la Spagna, la Santa Sede (guerra dell'interdetto) e con l'Austria, che si avvalse dell'aiuto degli Uscocchi, pirati cristiani stabilitisi sulle coste della Dalmazia da dove partivano per compiere razzie atte a destabilizzare la situazione nell'Adriatico55. Come già accennato, la geografia politica italiana risultava molto complessa, sopratutto nel nord della penisola. Allo stato sabaudo e a Venezia, si aggiungeva una miriade di staterelli indipendenti le cui fondamenta poggiavano su antichi privilegi feudali o accordi matrimoniali come Sabbioneta, Novellara, Correggio, la Repubblica di San Marino, la Repubblica di Lucca, il Principato di Piombino ed altri. La loro indipendenza era garantita sopratutto dalle esigue dimensioni dei loro territori, dimensioni che di certo non impensierivano le grandi potenze europee e che permettevano loro di sopravvivere. Altre entità statali, la cui indipendenza risultava essere il più delle volte formale, erano in realtà sotto il controllo spagnolo: è il caso del Ducato di Parma, del Ducato di Mantova (a cui apparteneva il Marchesato del Monferrato), il Ducato di Modena e quello di Ferrara e di due grandi stati regionali come la Repubblica di Genova e il Ducato di Toscana. Chiudono lo scacchiere politico dell'Italia del nord i Vescovadi di 53

Ivi, p. 428. Ibidem. 55 Ibidem. 54

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Trento e di Bressanone, domini ecclesiastici dell'impero56. La repubblica di Genova occupava i territori dell'odierna Liguria più qualche roccaforte sparsa qua e là nel Mediterraneo occidentale e la Corsica, rientrata nell'orbita genovese dopo la pace di Cateau-Cambrèsis, a seguito di una ribellione scoppiata nel 1553 durante la quale l’isola si offrì ai francesi57. L'amicizia tra Genova e gli spagnoli nacque nel 1528, quando l'ammiraglio Andrea Doria “tradì” i francesi durante l'assedio di Napoli per allearsi con Carlo V in cambio dell'indipendenza. L'amicizia tra Spagna e la Repubblica genovese fu duratura e proficua da entrambe le parti: per la Spagna, Genova rappresentava strategicamente il porto più importante a disposizione per raggiungere il cuore dell'Europa. Mantenere buoni rapporti con Genova garantiva alla Spagna l'accesso più sicuro e veloce per proteggere i territori italiani. Qui, infatti, sbarcarono migliaia di soldati spagnoli diretti a Milano e nelle Fiandre e da cui partivano galere ben armate a disposizione degli spagnoli per le loro imprese navali e d'invasione. Basti pensare alle campagne d'Africa di Carlo V o alla battaglia di Lepanto, in cui Genova svolse un ruolo di primissimo piano. Senza dimenticare il fondamentale apporto finanziario che dato dai banchieri genovesi alla politica sia di Carlo che di Filippo II e dei suoi successori58. La storia del Ducato di Toscana rimane legata alla famiglia de' Medici. Ritornati alla guida di Firenze nel 1530 dopo un breve periodo repubblicano, ottennero con Alessandro il titolo di duca con diritto ereditario. Il legame con la corte spagnola si fece più stretto nel 1536 quando Alessandro sposò Margherita d'Austria, figlia naturale di Carlo. La sua politica mirava a un accentramento dei poteri a danno dell'aristocrazia al fine di creare uno stato forte capace di resistere alle ingerenze straniere e in grado di guidare la politica italiana. Il suo progetto finì purtroppo con la sua morte avvenuta nel gennaio 1537 per mano del giovane Lorenzino de' Medici, suo lontano parente e repubblicano convinto. La fuga di Lorenzino, l'incapacità del partito repubblicano di organizzarsi ed il succedersi di eventi internazionali, permisero l'ascesa al governo di Firenze di Cosimo I de'

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Ivi, pp. 384-385, masi veda anche AA. VV., Atlante storico Garzanti, cit., p. 253. E. GRENDI, La repubblica aristocratica dei Genovesi. Politica, carità e commercio fra Cinque e Seicento, il Mulino, Bologna 1987, p. 84. 58 Ivi, p. 91. 57

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Medici, figlio di Giovanni dalle Bande Nere. La sua politica riprendeva in maniera ancor più decisa quella del predecessore Alessandro. Dopo aver acquistato nel 1543 le fortezze occupate dalle truppe imperiali attraverso un grosso pagamento di denaro, e dopo aver annesso Pisa e Siena59, Cosimo poté puntare al riconoscimento del proprio operato attraverso l'investitura a granduca. Ciò avvenne nel 1569 grazie al pontefice Pio V che lo investì del titolo ereditario di granduca di Toscana. La concessione da parte del pontefice non venne riconosciuta però dall'imperatore, timoroso della rapida ascesa di Cosimo. Il titolo fu concesso solamente nel 1576 al figlio e successore Francesco I, succeduto a Cosimo dopo la sua morte avvenuta nel 1574. Data l'incapacità di Francesco di governare, preso com'era dall'amore verso la nobildonna veneziana Bianca Capello60, le sorti dello stato furono prese dal fratello Ferdinando I che, come i suoi predecessori, puntò su una sempre più forte autonomia, avvicinandosi addirittura alla Francia e concedendo in moglie ad Enrico IV, la propria nipote Maria de' Medici. Nonostante tutto, gli sforzi della famiglia de' Medici non permisero al Granducato di ottenere quell'autonomia tanto agognata, anzi il declino fu lento ed inesorabile grazie anche all'incapacità di governare mostrata dai successori di Ferdinando. Dei grandi stati italiani rimane da parlare dello Stato pontificio. Governato dalla figura del pontefice, si estendeva dal Lazio all'Emilia e, dopo l'acquisizione del Ducato di Ferrara verso la fine del secolo, i suoi confini arriveranno fino alle sponde del Po, lambendo i territori veneziani61. La politica dei vari papi succedutisi può essere accomunata da due grande obiettivi condivisi da tutti i pontefici, nonostante ciascuno di essi utilizzasse metodi diversi per raggiungerli62. Tali obiettivi riguardavano da una parte l'accentramento dei poteri nelle mani del pontefice a danno delle piccole Signorie locali; dall'altra la lotta contro la riforma protestante che, seppure in maniera assai limitata, riuscì a penetrare all'interno dello Stato pontificio. Per quanto riguarda il primo punto, l’azione più incisiva va riconosciuta sicuramente a Sisto V63 (al secolo Felice Peiretti), che nonostante un 59

F. SENECA, Gli stati italiani nel secondo Cinquecento, cit., pp. 404-405. Ivi, p. 405. 61 Ibidem. 62 Ivi, p. 406. 63 Ivi, p. 407. 60

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pontificato durato solo cinque anni (1585-90) riuscì in questo breve tempo non solo ad attuare riforme fiscali atte a migliorare quelle realizzate dai suoi predecessori, ma combatté in maniera energica il fenomeno del brigantaggio, che il più delle volte veniva fomentato proprio dai piccoli signori locali che egli intendeva soggiogare. Sisto V si distinse anche per aver avviato le bonifiche delle paludi Pontine e per aver favorito la trasformazione urbanistica di Roma (sua fu l'erezione della Biblioteca Vaticana) già iniziata agli inizi del '500 da Giulio II e Leone X (rispettivamente Giuliano della Rovere e Giovanni de' Medici) con la costruzione di San Pietro per mano del Bramante, di Raffaello e sopratutto di Michelangelo. Se, come già detto, si ebbe una certa uniformità tra i vari pontificati del '500 per quanto riguarda la politica interna, altrettanto non fu per la politica estera. La condotta del soglio pontificio altalenava tra l'appoggio all'impero, protettore della fede cattolica, ed i francesi, per contrastare lo strapotere imperiale in Italia, sopratutto all'indomani della conversione al cattolicesimo di Enrico IV di Francia (1593). Il perdono di Enrico IV da parte di Clemente VII (Ippolito Aldobrandini) ebbe due importanti conseguenze: da una parte lo Stato Pontificio riacquistò notevole prestigio grazie all'opera di moderazione attuata tra Francia e mondo cattolico, dall'altra si riequilibrò il potere politico in Italia grazie alla ripresa dei contatti diplomatici tra Francia e stati italiani, naturalmente col dissenso dell'impero64. Come già accennato, l'altro obiettivo caro al soglio pontificio fu la lotta contro la riforma protestante. Nel corso della seconda metà del '500 le riforme e gli ordinamenti atti a preservare la dottrina cattolica dall'eresia protestante furono diversi: ad esempio Paolo IV (Gian Pietro Carafa) diede più poteri all'Inquisizione Romana e promulgò nel 1559 un indice dei libri proibiti che venne aggiornato nel 1571 da Pio V; inoltre, vennero incentivate le missioni cattoliche ed istituiti nuovi ordini religiosi, il tutto all'insegna di un rigore che andò contro l'atteggiamento di prudenza che il Concilio di Trento chiese verso la sua conclusione65. I risultati di questo rigore furono le innumerevoli persecuzioni a scapito sia del popolo minuto che degli uomini di cultura (talvolta con la condanna capitale come capitò a 64 65

E. BONORA, La Controriforma, Laterza, Roma - Bari 2003, p. 115. Ivi, p. 109.

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Giordano Bruno), sia i frequenti disordini nella capitale ogni qualvolta si dovesse eleggere un nuovo pontefice. Alla luce degli avvenimenti sopra descritti appare chiaro come la situazione politica italiana nel corso del XVI secolo fosse complessa, difficile e priva di scelte condivise dai vari stati. Eppure l'Italia visse nella seconda metà del secolo un periodo di pace interna che consentì alla penisola di riprendersi dai danni della guerra appena trascorsa, che vide consolidarsi gli stati regionali e che facilitò un generalizzato accentramento dei poteri, presupposto fondamentale per la nascita degli stati “moderni”. Il periodo di pace purtroppo non durò all'infinito: all'inizio del XVII secolo nuove tensioni e nuovi equilibri di potere sfociarono in guerre di carattere locale un po' in tutta Europa, degenerando in quello scontro di portata continentale chiamato la Guerra dei Trent'anni.

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Le prime forme di assolutismo tra ‘500 e ‘600 Le guerre di Carlo V contro la Francia di Francesco I, hanno caratterizzato, come abbiamo visto, la prima metà del ‘500 e influito pesantemente sulla situazione politica, specialmente in Italia ma un po’ in tutta Europa, nel periodo successivo agli accordi di pace di Cateau-Cambrèsis. Gli esiti dello scontro hanno sancito da un lato la divisione dell’Impero in due blocchi territoriali e politici ben distinti (Corona di Spagna e Corona d’Austria), dall’altro hanno decretato la Spagna di Filippo II come la super-potenza per eccellenza sul panorama politico militare europeo. Primato però che non conservò a lungo, in un periodo, quello a cavallo tra il XVI ed il XVII secolo, in cui un po’ in tutta Europa i poteri della monarchia si accentrarono sempre più nella persona del sovrano, inaugurando una fase storica della monarchia, definita assoluta, costellata da profondi sconvolgimenti sociali ed economici che portarono radicali cambiamenti sul panorama politico europeo. Le basi del successo spagnolo vanno individuate innanzitutto nelle vastità dei possedimenti territoriali della Corona: ai due regni iberici di Castiglia (che fungeva da cuore e motore dei domini spagnoli) e d’Aragona vanno aggiunti, oltre ai possedimenti italiani, i Paesi Bassi, la Franca contea, le colonie in America, le annessioni delle Filippine nel 1564 e dell’impero portoghese nel 1580. Tutti questi territori garantivano a Madrid l’approvvigionamento continuo di una serie infinita di merci preziose e di materie prime in un periodo di vero e proprio boom economico e demografico che durò circa fino agli anni Settanta66. Ma proprio in quegli anni emersero i primi segnali di una profonda crisi che caratterizzò gli ultimi anni del lungo regno di Filippo II. Dagli annali di stato conservati nell’Archivio generale di Simancas sappiamo che la popolazione spagnola crebbe di numero, passando dai 7.500.000 nel 1541 ad 8.500.000 cinquant’anni più tardi. Di questi però ben 80.000 si trovavano lontano dalla madre patria, inviati come soldati, come riferisce il Consiglio di guerra nel 157567. Il continuo invio di soldati all’estero comportò crescenti 66 67

J. CASEY, La Spagna di Filippo II, in La Storia, vol. VII, Utet, Novara 2007, pp. 446-452. Ivi, pp. 444-446.

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difficoltà nel reperimento di uomini abili alle armi (e di riflesso manodopera specializzata), soprattutto dopo le diverse carestie ed epidemie di peste che colpirono la Spagna verso la fine del secolo. Ma torniamo agli anni del boom demografico. Le città incrementarono il numero dei loro abitanti causando però la nascita di tensioni sociali. Le aumentate richieste di prodotti agricoli (soprattutto cereali) portarono la nobiltà ad acquistare a prezzi molto vantaggiosi i terreni più produttivi lasciando invece quelli meno fertili e destinati al pascolo ai piccoli contadini. L’aumento delle tasse nel corso degli anni, stabilite per mantenere le sempre più costose spese militari, portò molti agricoltori ad indebitarsi con i grandi signori, fino a cedere il loro piccolo appezzamento di terra nelle loro mani. Molte volte capitava che i contadini, per poter sopravvivere, prendessero in affitto lo stesso terreno dallo stesso compratore a cui l’avevano ceduto. La sottrazione di terreno al pascolo per l’agricoltura, fu una delle cause della crisi dell’allevamento ovino, e produsse questa ripercussioni nel settore tessilelaniero. I prodotti fiore all’occhiello del settore agricolo spagnolo erano l’olio e il vino, fortemente richiesti dalle colonie americane insieme ai tessuti di lana e seta, agli utensili di metallo e al mercurio, utilizzato su larga scala per l’estrazione dell’argento. L’incremento del traffico commerciale comportò lo sviluppo non solo di città portuali come Barcellona, Alicante e Valencia, ma anche l’aumento del numero di cantieri navali, grazie alla crescente domanda di imbarcazioni commerciali e militari. In questo periodo positivo per l’economia spagnola iniziarono tuttavia ad affiorare i primi problemi, segnatamente verso gli anni Settanta. Mentre dall’America aumentavano le richieste di tessuti e di utensili, diminuivano quelle riguardanti prodotti agricoli, in quanto le colonie erano ormai in grado di produrli da sole. La Spagna non riuscì più a fornire adeguatamente le colonie, perdendo così “fette di mercato” a favore dei mercanti stranieri. Colpa anche della scarsità di manodopera specializzata: il continuo “stato di guerra”, anche in periodi di pace, privò il paese di una quota non trascurabile di popolazione attiva. A questa condizione si aggiunsero verso la fine del secolo

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alcune carestie ed una epidemia di peste che flagellarono in particolar modo il centro della Spagna, causando la morte di circa 600.000 persone, più o meno l’8% della popolazione68, da cui il paese non riuscì a riprendersi velocemente. Un altro fattore del declino spagnolo fu l’enorme debito pubblico: le continue bancarotte che il paese fu costretto ad affrontare, a causa soprattutto delle ingenti spese militari, diedero il colpo di grazia ad un’economia ormai divenuta precaria. Nell’arco di un cinquantennio vi furono ben 4 bancarotte: nel 1557, nel 1560, nel 1575 e nel 1596. Mentre le prime due furono la conseguenza della politica militare di Carlo V, le altre dipesero direttamente dagli errori del governo di Filippo II69. Tra questi spicca sicuramente la lotta all’eresia, che il sovrano attuò sia a danno della popolazione protestante, sia (e soprattutto) contro quella dei musulmani convertiti al cristianesimo, i cosiddetti moriscos, una numerosa minoranza dedita ad attività produttive e al commercio. A partire dagli anni Sessanta la lotta ai moriscos ed alla loro cultura si inasprì fortemente, anche a causa del pericolo turco che si rafforzava nel Mediterraneo. Scoppiarono rivolte soprattutto in Andalusia che degenerarono presto in scontri armati (la rivolta delle Alpujarras negli anni 1568-1570), in cui si affrontarono da una parte circa 25.000 miliziani andalusi per conto del re e circa 30.000-35.000 tra musulmani di Spagna e volontari nord africani. Le rivolte terminarono con la sconfitta dei moriscos e la deportazione di larga parte dei sopravissuti, non pochi si dispersero in Nord Africa e sul continente europeo (molti emigrarono in Francia). Il loro allontanamento ebbe diverse conseguenze: oltre che una perdita culturale e sociale, si ebbero ripercussioni in ambito economico, in quanto molti moriscos lavorarono nel commercio e nell’agricoltura. Inoltre molti di loro rivestirono una doppia funzione, quella dell’agricoltore-colonizzatore e la loro partenza determinò l’abbandono di molti coltivi, che così andarono persi dalle comunità dei villaggi. Come sopra è stato accennato, i soldati impiegati in missioni di guerra o più semplicemente di “controllo del territorio” raggiunsero la cifra di 80.000 unità nel 1575. Non è dunque un caso che questo fosse anche l’anno di una delle bancarotte più gravi. Le conseguenze del default furono percepite in tutto il regno e a ben 68 69

Ivi, p. 446. Ivi, p. 453.

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poco servirono i vari tentativi di risanamento, concentrati più sull’aumento delle tassazioni che sul controllo delle spese, oppure sull’afflusso continuo di argento dalle colonie. Ogni azione da parte del governo fu poi compromesso da una seconda bancarotta nel 1596, due anni prima della morte del sovrano. La domanda che ora dobbiamo porci è se la Spagna avrebbe potuto evitare la crisi o meno. Sembrerebbe che non fosse in grado, e questo per diverse ragioni. Innanzitutto dobbiamo tenere presente che la crisi della Spagna si inserì in un quadro di regresso economico quasi generale dell’Europa, al quale ogni regno rispose in maniera diversa. Inoltre va tenuto conto, come ci fa notare Corrado Vivanti, un fattore che accomunerebbe un po’ tutti gli stati (dai regni più grandi a quelli più piccoli, come molti degli Stati italiani). Questo fattore fu la volontà per alcuni, o la necessità per altri, di dotarsi fin dalla seconda metà del Quattrocento, di apparati amministrativi e politici via via più ampi e complessi70. Tali apparati furono sostenuti dall’economie di ogni singolo Paese in un momento storico di espansione economica dell’Europa. Quando, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, si entrò in una fase di ristagno economico, gli apparati precedentemente creati non poterono essere ridotti «e il contrasto fra mezzi e bisogni si fece sempre maggiore»71. La crisi europea di fine Cinquecento inoltre, ebbe ripercussioni di tal portata da superare i confini stessi della sfera economica. Tra le varie conseguenze si ebbe da un lato una tendenza all’accentramento del potere nelle mani del sovrano a discapito dell’aristocrazia, dall’altro un inasprimento del regime feudale un po’ in tutto il continente (ad esclusione dell’Inghilterra e dei Paesi Bassi)72. Le cause di tale fenomeno sono diverse: alcuni studiosi come Braudel vedono nel “tradimento” della borghesia rispetto ai possibili sviluppi del sistema economico in senso capitalistico una delle ragioni principali; altri come Hobsbawn preferiscono parlare di una borghesia debole, incapace di penetrare in un mondo agricolo costruito su strutture feudali e dominato dalla nobiltà terriera, e quindi di creare «una bilancia di pagamenti attiva rispetto ai mercati asiatici». Nel caso

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C. VIVANTI, Gli stati europei nella crisi generale del Seicento, in A. CARACCIOLO, La formazione dello Stato moderno, Zanichelli, Torino 1970, pp. 87-88. 71 Ivi, p. 88. 72 Ibidem.

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della Spagna sembra cogliere nel segno J. Gentil da Silva73 quando mette sotto accusa anche la politica fiscale ed economica della Corona. In effetti, le crescenti spese militari e di corte portarono la Corona ad indebitarsi continuamente e a recuperare i denari necessari attraverso tassazioni straordinarie e la vendita di cariche politiche. Mentre le prime frenarono la crescita economica, le seconde crearono un fitto intreccio di rapporti clientelari, tra il sovrano e i cortigiani, simile a quello che si instaurava tra il signore e il subalterno in età medievale. Ma questi furono solo fattori che contribuirono alla “rifeudalizzazione” della Spagna. Il motivo determinante per James Casey74 fu la bancarotta del 1575, che creò uno sconcerto tale tra i mercanti, che essi preferirono investire i capitali più nell’acquisto di terre che nel commercio, timorosi che il governo non fosse in grado di ripagare i propri debiti. Tale comportamento ebbe dei risvolti particolari che non registriamo in nessuna delle grandi monarchie dell’Occidente europeo: infatti la borghesia, anziché emanciparsi e fungere da antagonista della nobiltà (come successe appunto in altre realtà europee), si fuse con essa, o come sostiene da Silva cercò almeno di equipararvisi. Il risultato fu che la nuova aristocrazia, nata dall’unione della vecchia feudalità con la nuova, si rafforzò enormemente a scapito della Corona, che dovette accettare a malincuore un indebolimento della propria autorità. Come reagirono a tutto ciò i possedimenti spagnoli in Italia? Gli studi di importanti storici non fanno che confermare il processo di “rifeudalizzazione” della società italiana e l’indebolimento del potere monarchico: Caizzi, Aleati75 e De Maddalena concordano con le osservazioni già espresse dal Chabod76 sull’alta borghesia, che «anziché rimettere il capitale nella circolazione commerciale, preferiva investirlo in sempre più larga misura nell’acquisto di terreni, di diritti giurisdizionali, di censi e redditi della Camera, di feudi veri e propri». Anche Cipolla77 è d’accordo su questa lettura del fenomeno economico e sociale appena descritto, sottolinea la drammaticità del declino dell’Italia centro-settentrionale, 73

Ivi, p. 89. J. CASEY, La Spagna di Filippo II, cit., p. 453. 75 C. VIVANTI, op. cit., p. 93. 76 Ibidem. 77 Ibidem. 74

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definita «una delle aree economicamente più sviluppate dell’Europa occidentale, con livelli di vita per quei tempi eccezionalmente alti», anche se ridimensiona il fenomeno della vendita delle cariche, condizionato dalla particolare situazione politica degli Stati italiani. Un discorso un po’ diverso, per quanto riguarda il Regno di Napoli, viene fatto da Villari, il quale conferma che anche nel sud della penisola si ebbe il limitato sviluppo di un regime assolutistico, nonostante un passato ricco di esperienze accentratrici, ma la causa non fu tanto l’acquisto di grandi superfici terriere da parte della borghesia quanto da una condizione di vera e propria decadenza di cui soffriva il Mezzogiorno d’Italia. Scrive Villari che «il dominio aristocratico si consolida e si espande, ed i nuovi nuclei differenziati, nella misura in cui non sono in grado di integrarsi nelle strutture feudali, vengono ridotti ai margini e sconfitti […]. La crisi non si manifesta soltanto come un più accentuato spostamento di capitali e di iniziative dalle manifatture e dall’attività mercantile verso l’agricoltura o verso posizioni di rendita privilegiata, ma come un ristagno secolare, che investe tutta la realtà umana, economica e politica; come il trionfo di un meccanismo sociale che esclude la formazione e l’ascesa di forza tendenzialmente indipendenti dalle strutture feudali»78. La mancata emancipazione della borghesia o di altre forze sociali, capaci di tener testa all’aristocrazia, ha impedito quindi l’affermarsi di un sistema assolutistico nel Regno di Napoli. Può sembrare paradossale, ma sono state determinate scelte di governo a favorire questa situazione. Sempre secondo Villari «proprio sotto il regno di Olivares, nel momento del maggiore sforzo accentratore della Spagna verso i vari Stati del suo impero, compiuto al fine di sopperire alle gravi necessità finanziare della corona, la condizione essenziale che permise un più massiccio contributo da parte del regno, furono le ulteriori concessioni fatte alle forze alle quali spettava tradizionalmente il compito di approvare e regolare i tributi e i donativi, e che, più in generale, potevano garantire la fedeltà del regno. Così il periodo del più esasperato fiscalismo è caratterizzato da una accentuata carenza di potere da parte degli organi di governo»79.

78 79

Ivi, p. 94. Ivi, p. 95.

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Negli altri stati europei i rapporti tra il sovrano, la nobiltà e la borghesia ebbero invece degli sviluppi diversi. In Francia, per esempio, dopo la morte di Enrico II venne a crearsi un pericoloso vuoto di potere in quanto l’erede al trono Carlo IX aveva solo 10 anni. La reggenza dello stato venne affidata alla regina madre Caterina de’ Medici, che approfittò della rivalità tra due grandi famiglie aristocratiche, i protestanti Borbone e i cattolici Guisa, per poter combattere gli avversari politici della Corona. Senza entrare nello specifico delle vicende drammatiche che hanno portato alle guerre di religione francesi, basti dire che la situazione precipitò quando Caterina diventando reggente decise una politica d’apertura nei confronti degli ugonotti. Con l’Editto di Saint Germain (17 gennaio 1562) venne riconosciuto ai protestanti una serie di diritti tra cui la libertà di religione e di culto fuori dalle città. Questa iniziativa della Corona fece indignare fortemente i cattolici, che al comando dei Guisa organizzarono il massacro di Vassy, dando inizio così alla prima guerra di religione (1 marzo 1563). Furono ben otto le guerre tra le due fazioni religiose, intervallate da brevi periodi di tregua e da svolte drammatiche come la pace di Saint Germain del 1570, con la quale gli ugonotti ricevettero in garanzie alcune roccaforti, o la strage di San Bartolomeo, in cui morirono circa 20.000 persone (24 agosto 1572). Un momento particolare delle guerre di religione fu la cosiddetta “Guerra dei tre Enrichi”(158589), così denominata per il fatto che i protagonisti portavano tutti lo stesso nome: il sovrano Enrico III di Valois, Enrico di Guisa, capo del partito cattolico, ed Enrico di Borbone, re di Navarra e figura preminente del partito protestante. Le morti del Guisa prima e del sovrano poi, entrambi assassinati, portarono il Borbone sul trono di Francia col nome di Enrico IV. Questa fase della guerra vide anche l’intervento di alcune potenze straniere, la Spagna in primo luogo. Per il timore che in Francia salisse al potere un sovrano protestante80 Filippo II appoggiò apertamente il partito cattolico con l’invio di soldati dai Paesi Bassi. L’Inghilterra decise invece di sostenere il nuovo sovrano. A questi vanno aggiunti i paesi che avevano avuto un ruolo marginale: da una parte l’Irlanda, alleata con gli spagnoli per combattere gli inglesi dentro i loro 80

Filippo II sostenne la figlia Isabella Clara Eugenia, avuta dal matrimonio con Elisabetta di Valois, come erede al trono di Francia al posto dell’eretico Enrico IV. Cfr. H. LAPEYRE, La Francia e le guerre di religione, in La Storia, vol. VII, Utet, Novara 2007, p. 571.

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confini, e Svizzera, Olanda e alcuni stati tedeschi che appoggiarono la causa protestante81. L’atto di abiura verso la fede ugonotta per abbracciare quella cattolica permise ad Enrico IV di riconciliarsi con gran parte dei suoi avversari (25 luglio 1593). Mentre con l’editto di Nantes, che garantiva libertà di culto ed uguaglianza di diritti agli ugonotti, il nuovo sovrano pose definitivamente fine alle guerre di religione (13 aprile 1598). La guerra con la Spagna durò ancora qualche anno e terminò con la pace di Vervins del 2 maggio 1598. In questa occasione la Spagna rinunciò definitivamente ad ogni ingerenza negli affari interni della Francia. Il risultato più importante di quasi quarant’anni di guerra civile fu senza dubbio il riconoscimento di minoranze protestanti sul suolo francese. Negli ultimi anni, alcuni autori hanno sostenuto però l’ipotesi che le guerre di religione fossero pretesto per nascondere, alla maggior parte della popolazione, guerre di natura diversa. Henri Hauser, ad esempio, sostiene che col prolungarsi dei disordini e con l’inevitabile indebolimento della Corona, alcuni grandi signori abbiano colto l’occasione per creare dei veri e propri principati indipendenti all’interno dei confini francesi (tentativo tra l’altro non riuscito); Lucien Romier invece esprime la possibilità che la piccola nobiltà, inattiva dai tempi delle guerre d’Italia, sia scesa in guerra non per motivi religiosi, ma attratta dalle possibilità di guadagno che le guerre offrono; altri storici come J. R. Major e Roland Mousnier concordano con l’idea che i rapporti clientelari che si instaurarono tra padroni e clienti non fossero altro che un’evoluzione dei rapporti feudali tra signori e vassalli, sottolineando come la fedeltà di molti uomini nei confronti dei grandi signori fosse offerta loro in cambio di protezione82. Il dibattito è ancora aperto e non sta a questo lavoro trarre conclusioni in tal senso. Possiamo però notare come la monarchia perse, durante gli scontri civili, gran parte della sua autorità. Nonostante le diversità in ambito religioso, alla fine prevalse il senso di responsabilità da parte dei francesi, che scelsero la sopravvivenza dello Stato alle differenze confessionali. Tale scelte iniziarono a radicare nei francesi quei concetti di patriottismo e di tolleranza religiosa che si affermeranno definitivamente un paio di secoli più avanti, ma che nel frattempo 81 82

Ivi, p. 564. Ivi, pp. 573-574.

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permisero alla monarchia di recuperare l’autorità regia e di eliminare le sacche di resistenza interna che la minacciavano83. Una volta insediatosi, Enrico IV riuscì gradualmente a recuperare il controllo di quelle parti del paese cadute in mano ai rivoltosi e la sua morte, avvenuta il 14 maggio 1610 per mano di un fanatico cattolico, non interruppe il processo di accentramento dei poteri nelle mani del monarca. Per quanto riguarda l’Inghilterra il discorso è in larga parte diverso: in questo paese l’autorità del sovrano si affermò non solo attraverso i disordini civili e le guerre ma anche attraverso questioni di carattere politico sulle quali interferirono risvolti della vita privata della famiglia reale. Dopo la morte di Arturo I, avvenuta nel 1509, sul trono di Inghilterra salì il fratello Enrico VIII il quale poche settimane dopo la sua incoronazione sposò Caterina d’Aragona, la vedova di Arturo. Enrico VIII fu un vero e proprio principe rinascimentale. Desideroso di rivaleggiare con le grandi corti europee, si circondò di umanisti come Thomas More e Polidoro Virgilio ed egli stesso scrisse un trattatello, l’Assertio septem sacramentorum, in cui attaccò le tesi di Lutero e che gli fece ricevere il titolo di Defensor fidei da papa Leone X84. Intraprese anche delle guerre contro la Francia di Francesco I e la Scozia, ma non riuscì ad ottenere i risultati e la gloria sperati. Nonostante la forte personalità di Enrico la monarchia dovette affrontare un grosso problema, che fu tra l’altro una delle cause principali della guerra delle due Rose: la mancanza di discendenza maschile. Nel timore che la casata dei Tudor si estinguesse, nel 1527 Enrico si adoperò in tutti i modi per convincere il papa ad annullare il matrimonio con Caterina, dalla quale non riusciva ad avere figli. Ma il pontefice, per via del saccheggio di Roma da parte dei lanzichenecchi, dovette accettare le pressioni di Carlo V, nipote di Caterina, affinché l’annullamento non avvenisse85. Solo nel 1529 il papa decise di affrontare il problema. Nel maggio dello stesso anno il sovrano venne convocato di fronte al tribunale ecclesiastico, suscitando numerosi malumori nella popolazione, la quale lamentava i limiti della Corona sul panorama internazionale, a maggior ragione dopo il diniego opposto

83

Ivi, p. 580. M. AMROSOLI, L’Inghilterra dei Tudor, in La Storia, vol. VII, Utet, Novara 2007, p. 497. 85 Ivi, p. 499. Per una panoramica completa si veda anche K. O. MORGAN, Storia dell’Inghilterra, Mondadori, Bologna 2001. 84

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dalla curia papale all’annullamento. La reazione di Enrico VIII a tale affronto non si fecero attendere: dapprima licenziò il cancelliere nonché cardinale e nunzio papale Wolsey, accusato di non aver saputo (o voluto) far prevalere i diritti della Corona sulla Chiesa romana; nel 1531, attaccò i privilegi del clero inglese accusato anch’esso delle stesse colpe di Wolsey e sequestrò il 5% delle entrate ecclesiastiche destinate a Roma86. Riorganizzò il parlamento, mettendo in forte minoranza il clero nella camera alta (House of Lords) e dando invece ampi spazi ai portavoce dei comuni, i quali poterono scegliere ben due rappresentanti per contea87. Nel 1532, ad un ennesimo rifiuto del papa di annullare il matrimonio, Enrico VIII sposò in segreto la sua amante Anna Bolena, che era già in attesa di un figlio, e riuscì a far nominare primate della Chiesa inglese un suo uomo fidato come Thomas Cranmer. Questi, diventato il nuovo arcivescovo di Canterbury, annullò il matrimonio tra Enrico e Caterina il 23 maggio 1533 e il 1 giugno consacrò Anna Bolena nuova regina d’Inghilterra88. Il 7 settembre nacque la figlia Elisabetta e nel novembre successivo sia Enrico VIII che Cranmer vennero scomunicati. A tale azione, tra il 1533 ed il 1534 seguì una serie di leggi fatte emanare dal sovrano: l’Act against Appeals, l’Act against Papal Dispensation, l’Annates Act, con le quali si «tagliavano definitivamente i legami di dipendenza con il potere spirituale di Roma. Il re, per bontà e scelta di Dio, era l’autorità suprema del regno che governava un popolo unico, diviso in due corpi, spirituale e temporale. In pratica si affermava il principio dell’uguaglianza dei sudditi, clero e laici, di fronte all’autorità suprema del re»89. Mentre l’arcivescovo di Canterbury s’impadronì dei poteri prima esercitati dal papa, Enrico VIII, con l’Atto di Supremazia (Act of Supremacy) venne eletto capo supremo e protettore della Chiesa inglese da un clero che non mostrava nessuna volontà di resistenza. Non possiamo non notare come tale Riforma non attaccò affatto i principi della fede cristiana, ma soltanto il potere e l’ingerenza della

86

M. AMBROSOLI, op. cit., p. 500. L. NAMIER, Un sistema “misto” fra corona e parlamento: l’Inghilterra, in A. CARACCIOLO, La formazione dello Stato moderno, Zanichelli, Torino 1970, p. 129. 88 M. AMBROSOLI, op. cit., p. 500. 89 Ibidem. 87

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Chiesa di Roma negli affari di stato90. D’altronde ad essere perseguitato non fu solamente il clero ma chiunque, indipendentemente dal fattore religioso, non riconoscesse la superiorità del sovrano. Intanto, grazie ad un miglioramento dell’apparato amministrativo e burocratico e alla soppressione dei monasteri, la Corona fu in grado di estendere la propria influenza su vaste zone del paese in cui prima non riusciva a imporre la propria autorità. Utilissimo fu l’appoggio del ceto medio e dei proprietari terrieri che, in cambio di concessioni e libertà in campo economico e del coinvolgimento nel parlamento e nella pubblica amministrazione, offrirono al sovrano i finanziamenti necessari per affrontare le guerre contro l’Irlanda91, la Francia e la Scozia. Nel 1536 prese forma una congiura organizzata dal partito filo spagnolo a danno di Anna Bolena, che venne decapitata nella torre di Londra, mentre il matrimonio di Enrico con Jane Seymour diede finalmente l’erede maschio tanto desiderato: Edoardo. Negli ultimi anni del regno di Enrico le guerre contro Francia e Scozia furono segnate dall’alternarsi di vittorie e sconfitte. I costi di guerra fecero crescere il debito pubblico e nonostante le tassazioni si dovette ricorrere alla vendita dei possedimenti ecclesiastici. Il breve regno di Edoardo VI (1547-1553) non permise di continuare l’opera accentratrice di Enrico, causa anche la giovane età del sovrano, per cui il governo venne affidato al duca di Somerset, zio di Edoardo. I principali avvenimenti accaduti in questo breve periodo furono il Second Act of Supremacy, con cui si scelse il protestantesimo come religione di Stato, la creazione di un esercito permanente durante le guerre con la Scozia e la modifica della linea di successione in favore di Maria, una sorella di Edoardo. Il regno di Maria è ricordato tra i più violenti del XVI secolo, nonché per la scelta della regina di restaurare il cattolicesimo in Inghilterra. La scelta fu fatta per motivi “spirituali” in quanto Maria era sentitamente cattolica e devota. L’approvazione del parlamento per il ritorno alla confessione cattolica non bastò 90

D’altronde mentre Enrico combatté politicamente con la Chiesa di Roma in Inghilterra continuarono ad essere bruciati sul rogo gli eretici. Le rivolte contadine scaturite dalla propagazione delle tesi riformiste vennero duramente represse. 91 Gli irlandesi non riconobbero mai la riforma religiosa di Enrico VIII, che nel 1540 si autoproclamò capo della Chiesa d’Irlanda.

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alla regina per contenere i disordini scoppiati tra la popolazione ormai ostile al cattolicesimo. Alcuni esponenti del clero anglicano, piuttosto che giurare fedeltà alla Chiesa di Roma, preferirono andare in esilio e quelli che non poterono farlo furono processati dal tribunale ecclesiastico. Le vittime delle persecuzioni che finirono sul rogo furono più di trecento92. Tra queste ci fu l’arcivescovo di Canterbury Thomas Cranmer. La brutalità delle sentenze fece guadagnare a Maria l’appellativo di Sanguinaria. La decisione di dichiarare guerra alla Francia nel 1557 per sostenere l’intervento militare di Filippo II (suo marito) prosciugò le casse dello stato. La perdita di Calais nel 1558, l’ultimo avamposto inglese sul continente, complicò le cose, soprattutto in vista di una restituzione alla Chiesa di Roma di tutti i beni confiscati durante il regno di Enrico VIII. Alla morte di Maria subentrò Elisabetta I. La prima azione del suo governo fu quello di compilare e far approvare dal parlamento due leggi, l’Uniformity Bill e il Supremacy Act, con i quali si ricostituiva la Chiesa d’Inghilterra. Questa riforma non fu imposta dall’alto ma venne condivisa dal parlamento, nonostante questo fosse la stessa assemblea che aveva sostenuto le iniziative di Maria la Sanguinaria. Alcuni autori sostengono che si trattò di una scelta dettata da uno spirito nazionalistico in forma embrionale, una sorta di atto di responsabilità, in cui il parlamento «mostrò di comprendere bene i termini della questione e alla lotta per l’ortodossia religiosa preferì una scelta nazionalista che teneva conto della situazione politica»93. D’altronde fu interesse comune evitare che i beni ecclesiastici confiscati al clero cattolico tornasse alla Chiesa di Roma. Risolto il problema religioso, Elisabetta si adoperò per continuare il rafforzamento della monarchia: introdusse la sterlina d’argento, dando così una boccata d’ossigeno alle casse regie, e appoggiò le forza economiche e sociali che la sostennero incentivando una politica di tipo coloniale. In politica estera, dopo la morte di Francesco II di Francia Maria Stuart, regina di Scozia e fervente cattolica, tornò in patria per cospirare contro Elisabetta, pretendendo un trono che ella ritenne usurpato. Il fallimento della congiura portò al suo arresto, scatenando però l’ira del partito cattolico che iniziò ad ordire complotti contro Elisabetta, supportati da Roma e dalla Spagna di Filippo II. I 92 93

M. AMBROSOLI, op. cit., p. 501. Ivi, p. 508.

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rapporti con quest’ultima furono determinati sia dalle divergenze religiose sia dal supporto che gli inglesi offrirono ai rivoltosi dei Paesi Bassi. La strategia inglese per combattere gli spagnoli consistette nell’intercettare le navi iberiche che provenivano dall’America per interrompere il flusso dei metalli preziosi che servivano a finanziare le guerre di Filippo. Ammiragli come Raleigh, e soprattutto Francis Drake, con le loro gesta resero famosa la Marina Britannica. Quando Drake compì nel 1587 un’incursione nel porto di Cadice affondando diverse navi, Filippo decise di porre definitivamente fine al pericolo inglese organizzando un imponente flotta di invasione, l’Invencible Armada, costituita da 130 navi (con un tonnellaggio complessivo di 70.000 tonnellate) e da circa 30.000 soldati, ai quali se ne sarebbero uniti altrettanti provenienti dai Paesi Bassi94. Era evidente la volontà di Filippo II di ripetere l’audace vittoria ottenuta a Lepanto, ma le cose andarono diversamente. Nel 1589 l’imponente flotta spagnola si diresse verso lo Stretto della Manica per imbarcare le truppe di stanza nei Paesi Bassi. Le navi spagnole erano certamente ben armate ma le loro dimensioni, troppo ingombranti per le acque dello stretto, causarono non poche difficoltà di manovra. Quando le navi inglesi, più piccole ma più agili e capaci di colpire a grande distanza, incontrarono gli spagnoli, li chiusero tra due fuochi costringendoli, dopo una settimana di scontri, alla ritirata. Essendo stata bloccata l’uscita dalla Manica dagli inglesi, le navi spagnole furono costrette a circumnavigare la Scozia e l’Irlanda per tornare a casa. Sia le tempeste che gli agguati nemici ridussero drasticamente il numero delle navi iberiche, tant’è che solo metà delle imbarcazioni ed un terzo degli equipaggi fecero ritorno a casa. Lo scalpore per l’avvenimento fu enorme in tutta Europa ma la marina inglese non seppe ripetere vittorie simili; lo stesso Drake morì in un fallito attacco alle colonie americane. Nonostante le guerre con la Spagna, le dure rivolte in Irlanda e i tentativi di colpi di stato (basti pensare a quello del conte di Essex), il cammino verso la centralizzazione del potere a favore della monarchia non subì grossi rallentamenti. D’altronde nel corso degli eventi sopra descritti, la politica dei Tudor, in tal direzione, si presentò abbastanza lineare e decisa. 94

Ivi, pp. 512-514. Ma si veda anche G. Parker, La rivoluzione militare, cit., p. 149.

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Il problema principale per qualsiasi monarchia d’Europa intenta a sviluppare un tipo di potere assolutistico, fu sempre il difficile rapporto con la nobiltà terriera. I Tudor seppero sfruttare a proprio vantaggio tali rapporti, operando non tanto tra i ceti sociali, quanto tra i gruppi di famiglie all’interno dei ceti95. Fino al XV secolo le famiglie aristocratiche inglesi esercitarono un’influenza molto forte sulla Corona, grazie al potere derivante dalla proprietà terriera96. Dalla fine del 1400 sino al 153697 però, la Corona aumentò enormemente il proprio patrimonio fondiario a danno della nobiltà, grazie soprattutto alle confische dei terreni della Chiesa ma anche a quelle ordinate contro gli oppositori. Negli anni successivi, fino al Seicento ed oltre, la monarchia ridistribuì tali ricchezze secondo le proprie necessità finanziarie e politiche98. La ridistribuzione delle terre interessò, come sostenuto prima, non classi sociali ma gruppi, appartenenti non solo alla grande nobiltà ma anche a quella piccola, nonché al ceto medio borghese. Il fine di questa operazione consistette nell’indebolimento di quella parte aristocratica avversa alla Corona, senza per questo rinunciare al sostegno politico dell’intero ceto. Inoltre, l’inserimento all’interno di strutture politiche come il consiglio privato, la camera stellata o il parlamento di membri appartenenti a ceti non aristocratici, ridimensionò l’influenza nobiliare a livello regionale, evitando così il rafforzamento degli oppositori. Il conseguimento di questo risultato fu ottenuto grazie anche ai valori ed ai principi di cui l’umanesimo protestante si fece portavoce, e cioè la rinuncia all’ozio e l’enfatizzazione del lavoro, della proprietà e del rispetto delle leggi. Sostenendo i ceti imprenditoriali, la Corona riuscì in un tempo relativamente breve ad acquisire un consenso popolare pressoché diffuso in tutto il paese, ed ottenerlo in seguito nelle terre d’Irlanda e di Scozia una volta che queste vennero conquistate intorno alla metà del 1600. Nell’Europa centro orientale i tempi necessari per la maturazione di forme di centralizzazione dei poteri risultano essere invece molto più lunghi, in particolar modo per quanto

riguarda l’Impero,

a causa soprattutto dell’enorme

95

M. AMBROSOLI, op. cit., p. 541. Ricordiamo che fino a quel periodo in Inghilterra esisteva un sistema sociale di tipo feudale. 97 M. AMBROSOLI, op. cit., p. 542. 98 Ibidem. 96

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frammentazione del territorio e della caparbia resistenza opposta dai principi ad ogni tentativo di unificazione. A queste ragioni, ne vanno aggiunti almeno altre due: la divisione religiosa sancita dalla pace di Augusta e la perdita dei Paesi Bassi, pilastro portante dell’economia dell’Impero. Come ha sottolineato Franco Gaeta «Risulta dunque impossibile trattare delle vicende storiche tedesche della seconda metà del Cinquecento in termini di «Stato»: l’evoluzione verso strutture statuali moderne, non si registrò, in zona tedesca, a livello dell’Impero, ma al livello di alcuni grandi principati territoriali della Germania centrorientale»99. A questo punto ci sembra però opportuno rinviare al prossimo capitolo la questione dell’Impero (o meglio, dell’unico dei principati imperiali che riuscì ad evolversi in chiave assolutistica, cioè la Prussia) e limitarci in queste pagine a descrivere brevemente la situazione politica di paesi come la Polonia e la Russia. Il grande Regno di Polonia, dopo la morte di Casimiro IV nel 1492, venne diviso tra i suoi due figli, Giovanni Alberto e Alessandro, a cui andarono rispettivamente il Granducato di Lituania e il Regno di Polonia. Nonostante gli sforzi dei vari sovrani succeduti a Casimiro, e alcune annessioni territoriali, non si riuscì mai a creare uno stato di tipo assolutistico. Il caso della Polonia è molto particolare, in quanto rappresenta l’unica monarchia europea nella quale non riuscirono ad affermarsi forme di assolutismo regio. La particolarità sta nel fatto che nel corso degli anni la nobiltà riuscì a penetrare in tutte le istituzioni politiche, come la dieta, il senato e la camera dei deputati, riuscendo allo stesso tempo a precludere l’ingresso in tali ordini a qualsiasi esponente appartenete ad una classe sociale diversa, in primis quella borghese. Man mano che il potere dei nobili si rafforzava, i vari re si trovarono costretti ad ampliare i loro privilegi a danno della Corona. Mentre in Inghilterra ed in altri Paesi l’affermazione politica della borghesia fu sfruttata dai sovrani per bilanciare il potere della nobiltà, in Polonia, la sua esclusione ebbe come risultato quello che J. Bardach definisce “democrazia nobiliare”. Praticamente «il re perse la sua superiorità nei confronti della dieta e si ridusse ad uno degli elementi dell’assemblea nobiliare100». In tale situazione, ogni decisione presa in seno al parlamento, affinché fosse valida, aveva bisogno 99

F. GAETA, L’Europa centrorientale, in La Storia, vol. VII, Utet, Novara 2007, p. 584. J. BARDACH, Un caso d’involuzione: il Regno di Polonia, in A. CARACCIOLO, La formazione dello Stato moderno, Zanichelli, Torino 1970, p. 139.

100

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dell’approvazione unanime delle due camere più quella definitiva della dieta. Inoltre, la supremazia della nobiltà si esprimeva anche nei periodi di interregno: in questi casi, i tribunali e tutti gli organismi amministrativi che agivano nel nome del re venivano sospesi e l’autorità suprema veniva adottata dalla «confederazione del tempo d’interregno, cioè all’insieme della nobiltà del regno unita in una lega e operante al posto del potere reale vacante101». Per quanto riguarda la Russia, l’accentramento dei poteri fu strettamente connesso con l’espansione territoriale: nell’arco di poco più di un secolo, il territorio del Gran Principato di Mosca si estese in tutte le direzioni, soprattutto nelle profondità delle steppe siberiane ad est e a scapito della Repubblica di Novgorod ad ovest. I sovrani Ivan III (1462-1505), Basilio III (1505-1533) e specialmente Ivan IV (1533-1584) utilizzarono un metodo molto semplice nell’imporre la loro autorità: in ogni territorio conquistato, tutte le forze di opposizione o di dissenso al regime zarista venivano deportate o uccise, mentre i villaggi venivano messi a ferro e fuoco. Anche la nobiltà contraria allo zar veniva deportata e sostituita con membri dell’aristocrazia fedeli alla Corona. A questo riguardo merita di essere ricordato l’atteggiamento che assunse Ivan IV nei confronti dei boiari, l’antica aristocrazia terriera. Sospettoso di una congiura ai suoi danni, lo zar instaurò un vero e proprio regno di terrore (da qui il nomignolo che gli è stato affidato di Ivan il Terribile), confiscando le loro terre e consegnandole agli ufficiali del suo esercito102.

101 102

Ibidem. F. GAETA, op. cit., p. 612.

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L’evoluzione dell’esercito

Abbiamo visto come dalla seconda metà del Cinquecento abbia preso il via una fase storica durante la quale le monarchie europee iniziarono a costruire solide strutture burocratiche e organismi di governo centralizzati che saranno il preludio delle monarchie assolute del XVII secolo. Il concetto di assolutismo ha preso forma in Europa verso la fine del XVI secolo, grazie all’opere di alcuni tra i più alti intellettuali del secolo. Figure della levatura di Jean Bodin, che con le Six livres de la republique pose la sovranità come fondamento stesso dello stato; o di Giusto Lipsio, che riprendendo i concetti di Machiavelli, espresse la necessità di usare “prudenza” da parte del sovrano al fine di preservare il bene del regno; o di Giovanni Botero, che con Della ragion di Stato del 1589 indicò una sorta di vademecum dei comportamenti e delle azioni del sovrano nell’amministrazione del regno come gli interventi in sostegno dell’economia, le alleanze sociali e la politica demografica, l’incentivazione delle arti e delle scienze. Un fattore importante, comune a tutti gli stati sulla via dell’assolutismo, è stato la religione: con lo sviluppo del concetto di ragion di stato, prese forma gradualmente l’idea di indipendenza del potere regio da ogni ingerenza delle sfere ecclesiastiche. Ciò comportò una “nazionalizzazione” della religione, nel senso che spesso venne subordinata allo Stato. E’ su questo terreno che si svilupperà in seguito il concetto di diritto divino della monarchia. Ma quale è stata la scintilla che ha dato fuoco all’evoluzione della monarchia? Tralasciando per un attimo i concetti teorici che svilupparono l’idea di assolutismo, quale fu il mezzo con cui concretamente i sovrani d’Europa riuscirono ad imporre la propria sovranità sullo Stato? Gli storici oggi concordano nell’affermare che il protrarsi delle guerre nel corso del Cinquecento fu la principale causa del processo di centralizzazione delle monarchie, ma per spiegare meglio la funzione degli eserciti bisogna fare un passo indietro nella storia e descrivere alcuni aspetti delle società europee in età medievale. In quell’epoca il diritto ad esercitare l’uso delle armi era privilegio esclusivo di una ristretta cerchia di uomini. La cavalleria pesante, espressione militare della

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classe aristocratica, era tenuta ad offrire i propri servizi ai signori a cui si legava attraverso rapporti di fedeltà e di vassallaggio. Il mito del cavaliere che va in guerra con la lancia in resta, idealizzò un metodo di combattimento in cui il valore del singolo e la forza del suo braccio potevano decidere le sorti di una battaglia. La particolarità della cavalleria consisteva nel dualismo tra cavaliere e cavallo. Entrambi pesantemente corazzati, si univano in un tutt’uno nel momento di sferrare l’attacco esprimendo il massimo della loro potenza d’urto. Contro di loro, ben poco poterono fare i contadini con le loro armi e le loro barricate. Durante le rivolte sociali che periodicamente infuocarono l’Europa, furono migliaia i contadini massacrati dalle cavallerie pesanti, contro le quali nessuno sembrava in grado di resistere. Solo con la guerra dei Cent’anni, per la prima volta, ai popolani venne concesso il diritto di usare le armi e di partecipare alle azioni belliche. Le vittorie di Crecy (1346), di Poitiers (1356) e di Azincourt (1415), riportate dai bowmen (i temibili arcieri inglesi armati di arco lungo) sulla cavalleria francese, sancirono il valore della fanteria. I bowmen erano liberi contadini che venivano reclutati e dotati di arco lungo per sostenere la cavalleria leggera e i reparti di fanteria d’origine anch’essa plebea. La loro arma, con una gittata nettamente superiore a quella degli agli archi normali, raggiungeva il bersaglio anche a trecento metri di distanza e consentiva di tirare dieci o dodici frecce al minuto, contro un paio di dardi scagliati al contempo dalle balestre103. Alle scariche di frecce che piovevano contro lo schieramento nemico, seguiva l’attacco della fanteria appiedata e della cavalleria leggera. Gli arcieri stessi, una volta esaurite le frecce, si trasformavano in fanti. Con tale strategia venne ripetutamente sconfitto il nerbo della cavalleria francese e di conseguenza l’idea stessa della guerra d’elite. L’impiego dei reparti di fanteria da parte dell’Inghilterra fu causato dal perdurare della Guerra dei Cent’anni e dall’inferiorità della cavalleria inglese di fronte al nemico francese104. Fu una situazione di ripiego, adottata da Edoardo III, che diede ottimi frutti. L’utilizzo della fanteria divenne da allora sempre più

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S. E. FINER, La formazione dello stato e della nazione in Europa: la funzione del militare, in CH. TILLY, La formazione degli Stati nazionali nell’Europa occidentale, a cura di R. Falcioni, Il Mulino, Bologna 1984, p. 109. 104 R. PUDDU, La guerra nel Cinquecento, in La Storia, vol. VII, Utet, Novara 2007, p. 104.

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incisivo, fino a sostituire del tutto la cavalleria di tipo feudale. La difesa del territorio venne affidata alle milizie popolari, reparti di coscritti, alle quali spettavano compiti di difesa interna come sedare rivolte o proteggere i confini dagli attacchi dell’esercito scozzese, mentre le missioni sul continente venivano affrontate prevalentemente da truppe mercenarie straniere105. La possibilità per l’aristocrazia di commutare il servizio in cavalleria nel versamento di un contributo in denaro (pratica possibile fin dal 1294), permise al sovrano di disporre delle risorse finanziarie necessarie per ingaggiare un esercito a proprie spese. L’arruolamento veniva affidato a gentiluomini scelti dal re, che in cambio di una certa somma s’impegnavano a procurare un determinato numero di soldati equipaggiati106. Anche in Francia si sviluppò un modello simile, ma in ritardo rispetto all’Inghilterra per via delle maggiori resistenze da parte dell’aristocrazia a mutare le tecniche di guerra. Il successivo grande passo nell’evoluzione della fanteria venne messo in campo durante le tre battaglie di Grandson, Morat e Nancy107, quando gli eserciti di Carlo il Temerario vennero ripetutamente sconfitti dai picchieri elvetici. La novità consisteva nel fatto che, per la prima volta, la fanteria si proponeva all’attacco contrapponendo alla cavalleria borgognona un numero elevato di picche. La forza d’urto della cavalleria corazzata si scontrava contro un muro impenetrabile di pesanti picche che avanzava in maniera coordinata e continua. L’esercito svizzero era costituito prevalentemente da contadini liberi, generalmente molto poveri. La società elvetica, organizzata in vari cantoni riuniti in una lega, risultava molto differente da quella francese, strutturata invece su basi feudali. La scarsa ricchezza della popolazione e le caratteristiche del territorio montano, resero impossibile la nascita di una cavalleria pesante simile a quella schierata dal nemico borgognone, mentre le armi in dotazione ai picchieri altro non erano che arnesi da lavoro dei contadini, modificati ed adattati alle esigenze della guerra. Inizialmente venne utilizzata l’alabarda, un tipo di lancia lunga da punta e da taglio, con il ferro formato da punta lanceolata e un lato a forma di scure, molto simile a quelle ancora oggi adottate dalle guardie svizzere in 105

S. E. FINER, op. cit., p. 110. Ivi, p. 94. 107 Le prime due si svolsero nel 1476 mentre l’altra l’anno successivo. 106

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Vaticano. In seguito si avvicendarono varie versioni sempre più lunghe, fino a quella finale con aste di circa 5 o 6 metri dotate di punte d’acciaio di un metro108. Il quadrato svizzero (è questo il nome dato alla milizia elvetica) contava circa seimila soldati. Il termine quadrato si riferisce al tipo di schieramento adottato: i soldati dovevano serrare i ranghi in modo tale che venisse impedito al cavallo di passare tra un fante e l’altro109. Le prime quattro file, dotate di picche, respingevano gli attacchi della cavalleria, mentre le altre, dotate di alabarde, disarcionavano i cavalieri o spezzavano le lance avversarie. Ciò permetteva efficacia sia in termini di difesa che di attacco. Alcune varianti tattiche prevedevano la presenza di arcieri simili a quelli inglesi, ma solo molto tempo dopo e a declino già avvenuto questi vennero sostituiti dai moschettieri. Il modello svizzero venne studiato ed adottato senza grosse varianti in Svevia. In questa parte della Germania, strutturata anch’essa su basi contadine, vennero creati i lanzichenecchi, i quali sconfissero Luigi XI di Francia nella battaglia di Guinegatte del 1480. Dopo tale sconfitta, venne definitivamente consacrato il successo del modello elvetico e l’esercito francese fu tra i primi ad adoperare stabilmente sia reparti mercenari svizzeri che lanzichenecchi all’interno delle proprie fila, coadiuvati però da altri tipi di unità. Il quadrato svizzero aveva naturalmente dei punti deboli, ed essi consistevano nel mancato utilizzo di reparti d’artiglieria, di moschettieri e di cavalleria. Il suo declino può essere stabilito dopo la battaglia di Melegnano del 1515: in quell’occasione, le truppe elvetiche vennero decimate prima dal bombardamento dell’artiglieria francese e poi dalle fanterie mercenarie tedesche. Tale sconfitta privò definitivamente gli svizzeri di ogni peso politico e militare sul panorama europeo, venendo di conseguenza inglobati dall’esercito francese che li adoperò molte volte, ma mai in modo esclusivo110. La decadenza del modello svizzero non oscurò l’importanza che questi reparti militari ricoprivano agli occhi dei grandi sovrani europei. D’altronde la loro fama

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S. E. FINER, op. cit., p. 86 S. E. FINER, Ibidem. 110 Questo avvenne perché dopo Melegnano la Svizzera passò sotto l’influenza francese; i lanzichenecchi, provenienti dai territori dell’Impero, vennero incorporati dagli eserciti imperiali e spagnoli. Per ulteriori approfondimenti R. PUDDU, Il soldato gentiluomo, Il Mulino, Bologna 1982. 109

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venne riconosciuta anche da Machiavelli111, che li scelse come modello di esercito capace di far rivivere gli «ordini antichi» di Roma repubblicana. Coloro che seppero migliorare e perfezionare il modello svizzero furono gli spagnoli, i quali riuscirono ad imporre la loro egemonia militare sul panorama europeo. Dopo le campagne d’Italia, il Gran Capitan di Spagna, Consalvo de Cordoba, riuscì a sviluppare una formazione di fanteria molto versatile ed agile, il tercio. Questa consisteva in tremila soldati suddivisi in tre coronelías, dotate ciascuna di picche, balestre e fanteria leggera munita di daga e rotella (rispettivamente spada e scudo), più il supporto della cavalleria leggera schierata sui fianchi112. Intorno al 1540 il tercio venne modificato in maniera incisiva, mantenendo solamente i picchieri e la cavalleria d’appoggio e sostituendo le altre unità inizialmente con gli archibugieri e poi, definitivamente, con i moschettieri. Inizialmente la proporzione tra le unità si attestava in due picchieri ogni bocca da fuoco, ma già verso la fine del secolo, grazie alle innovazioni tecnologiche delle armi, il rapporto era di uno a uno113. Venne modificata anche l’organizzazione delle unità, non più in coronèlias ma in compagnie di duecento soldati ciascuna, per un totale di quindici compagnie più quella direttamente guidata dal capitano del tercio (nei vice regni italiani si chiamava maestro di campo), che di unità ne contava trecento114. I soldati del tercio erano mercenari che venivano reclutati dagli stessi capitani che li avrebbero comandati, attraverso un mandato reale. Dietro il rilascio da parte del sovrano di una certa somma di denaro, il capitano, o appaltatore, si impegnava a reclutare un certo numero di soldati ed ufficiali, dotarli di vestiario e armamenti e addestrarli. I volontari ricevevano in cambio del loro servizio una paga mensile, decurtata delle spese di vitto, alloggio ed armamento115. Inizialmente, la maggior parte dei soldati componente il tercio era di origine castigliana, in quanto si riteneva che i soldati spagnoli fossero i più abili nel fare la guerra. Col perdurare delle guerre però la disponibilità di uomini si fece più rara, aprendo così l’ingresso 111

N. MACHIAVELLI, Dialoghi dell’arte della guerra, libro III. S. E. FINER, op. cit., p. 100. 113 Ibidem. 114 Nei viceregni italiani, la figura del capitano generale si identificava in quella del viceré. Per ulteriori approfondimenti cfr., G. FENICIA, op. cit., ma anche R. PUDDU, Il soldato gentiluomo, cit. 115 G. FENICIA, op. cit., p. 34. 112

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a numerosi stranieri, prevalentemente italiani e tedeschi. Un secondo motivo per cui si preferiva ricorrere ai mercenari stranieri riguardava il rischio di diserzioni, molto maggiore quando si utilizzavano truppe indigene. Per prevenire questo inconveniente la Spagna praticava un sistema di trasferimenti frequenti, in modo che i soldati che prestavano servizio lo facessero non solo lontano da casa propria, ma anche non troppo a lungo nello stesso posto. In questo modo si voleva evitare che i soldati instaurassero rapporti familiari o di altro tipo nei luoghi di stanza, prevenendo così le diserzioni116. Il costume di utilizzare stranieri per combattere in guerra divenne una prassi, come abbiamo visto, già verso l’inizio del XVI secolo, ma è nel Seicento che il fenomeno raggiunse proporzioni enormi: secondo le più recenti stime sembrerebbe che la sola Francia di Luigi XIV reclutò dai 273.000 soldati nel 1691 a 395.000 nel 1696, di cui la maggior parte stranieri, e che durante le guerre civili inglesi furono mobilitati circa centomila armati; nel corso di tutto il secolo si stima siano stati arruolati circa 10-12 milioni di europei117. Il ruolo degli appaltatori risultava quindi fondamentale, in quanto era impossibile per i governi arruolare mercenari perché sudditi di altri stati. Ma come funzionava l’arruolamento? Il sistema era praticamente uguale in tutto il continente: una volta ricevuto l’incarico, l’appaltatore si recava in una determinata zona e cominciava il reclutamento. Si iniziava con la ricerca degli ufficiali e sottoufficiali, mentre i soldati venivano arruolati in un secondo momento. Quando le guerre iniziarono ad essere sempre più frequenti, soprattutto con la guerra dei Trent’anni, i posti di ufficiale vennero occupati permanentemente, in modo che i tempi di organizzazione di un reggimento fossero ridotti. Una volta sul posto, il banditore annunciava il reclutamento, al quale potevano rispondere tutti gli uomini, abili e sani, con un’età compresa tra i 16 e i 40 anni, possibilmente «non sposati né figli unici, in modo da non recare danno ai genitori e al villaggio»118. Le categorie che venivano esonerate dall’arruolamento erano i nobili, gli ecclesiastici, i minatori e gli operai delle fabbriche d’armi, mentre tutte le altre

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G. PARKER, Il soldato, in R. VILLARI, L’uomo barocco, Laterza, Bari 2005, p.36. G. PARKER, La rivoluzione militare, cit. 118 G. PARKER, Il soldato, cit. p. 32. 117

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erano potenzialmente iscrivibili ai registri militari119. L’arruolamento era generalmente volontario, anche se non mancarono episodi di reclutamento coatto, come quando in Danimarca vennero spedite intere guarnigioni di carcerati scozzesi a combattere; o quando in Germania vennero prelevati dalle strade i vagabondi, i mendicanti o semplicemente i disoccupati; o come nel 1646 a Madrid, quando le autorità governative realizzarono delle retate nelle osterie e nei bordelli della città120. A questo metodo comunque si ricorreva molto raramente, di solito in caso di assoluta necessità di uomini. Si preferiva più che altro arruolare carcerati in cambio della libertà e del giuramento di non tornare nel luogo di origine, ma da tale “privilegio” erano esclusi coloro che si erano macchiati di delitti atroci. La maggior parte dei reclutati erano perciò contadini o disoccupati che tentavano l’esperienza militare nella speranza di uscire dalla condizione di miseria in cui si trovavano. E infatti era proprio la miseria il motivo principale per cui un individuo si arruolava. Certo, ve ne erano anche di altri, ma questo era quello che portava il maggior numero di uomini ad abbracciare la vita militare. In effetti, una persona appartenente al gradino più basso della scala sociale poteva trovare nella guerra la via più facile per migliorare il proprio status. Il vantaggio della vita da soldato consisteva nella possibilità di saccheggiare le città che non si arrendevano agli eserciti o che magari si rifiutavano di pagare le contribuzioni dovute. Per contribuzioni si intende il pagamento, generalmente in natura (alimenti, materiali, animali, vestiti) ma anche in denaro, a cui ogni città era sottoposta. Tale forma di pagamento, sostituiva la classica riscossione delle imposte: quando alla città veniva chiesto di pagare la propria parte, in cambio il governo scalava la quota di contribuzione dal versamento annuale d’imposta, oppure rimborsava le spese affrontate. In teoria era un procedimento che poteva anche funzionare bene, ma i problemi sorgevano nei periodi di guerra. Capitava che la cifra richiesta fosse anche dieci o dodici volte più alta dei rimborsi del governo121, oppure che tali rimborsi non arrivassero mai. I casi più eclatanti di ritorsioni verso le città che si erano sottratte all’obbligo delle contribuzioni militari avvennero nella Francia di Luigi XIV. Egli stesso 119

Ibidem. Ivi, p. 38. 121 È il caso della Svezia. Si veda ivi, p. 45. 120

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riferiva al maresciallo Catinat nel 1691 quanto fosse:

terribile essere costretti a bruciare villaggi per costringere la gente a pagare le contribuzioni, ma poiché non si riesce a farle pagare né con le buone né con le cattive è necessario continuare a usare mezzi estremi122.

Casi simili accadevano quando nei pressi delle città passavano eserciti di venti, trenta, cinquantamila soldati o anche di più. Ottenere adeguati rifornimenti per un così gran numero di uomini era praticamente impossibile, per cui si procedeva al saccheggio ed alla distruzione del villaggio. Questa sorta di riscossione forzata non venne però praticata a lungo per due motivi ben precisi e strettamente connessi tra loro. Il primo era che ci si rese conto della reale incapacità dei centri urbani di soddisfare tutte le richieste di contributi e del danno arrecato agli eserciti e all’erario con la distruzione dei villaggi, in quanto per molto tempo in quelle aree non sarebbe più stato possibile riscuotere i tributi. Il secondo aveva risvolti puramente pratici, ovvero le ritorsioni da parte delle comunità contadine contro gli autori dei saccheggi. Geoffrey Parker riporta in una sua opera le parole di Robert Monro, un colonnello dell’esercito di Gustavo Adolfo di Svezia, che meritano di essere ricordate. Entrato in Baviera con il suo esercito nell’estate del 1642, Monro riferiva che

Lungo la marcia i contadini trattavano crudelmente i nostri soldati (che si disperdevano per saccheggiare), tagliando loro il naso e le orecchie, mani e piedi, strappandogli gli occhi, e usando molte altre crudeltà; ed erano giustamente ripagati dai soldati, che lungo la marcia bruciarono molti villaggi, lasciando i contadini morti là dove si trovavano123.

Episodi del genere erano tutt’altro che rari, per cui si preferì cercare, dove possibile, l’appoggio delle popolazioni locali. Il primo ad attuare questo nuovo sistema fu Ambrogio Spinola, comandante dell’esercito di Fiandra dal 1603 al 1628, il quale raccomandava ai suoi ufficiali di avere più cura della gente del posto in quanto «i […] soldati, mentre si estrae la loro paga [dalle miniere

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Ibidem, p. 45. Ivi, p. 42.

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d’argento] in Perù, in Fiandra possono morire di fame; ma se trattate la popolazione con riguardo, vi darà pane e benedizioni»124. Principalmente per questo motivo le retribuzioni vennero regolarizzate, ad ogni fornitura si rilasciava una ricevuta e i costi venivano dedotti dalle paghe dei soldati e dalle contribuzioni spettanti alle popolazioni coinvolte. Si rilasciavano inoltre dei preavvisi (in modo che i villaggi potessero organizzarsi prima dell’arrivo dei soldati) e delle lettere di protezione, ovvero documenti che esentavano le comunità dal dover fornire assistenza ad altri reparti dell’esercito. Le pene per i soldati che si abbandonavano al saccheggio dei villaggi che avevano offerto loro ospitalità divennero severissime, fino a comprendere la fucilazione. Abbiamo già detto che il motivo principale per cui si diventava soldato era la necessità di sfuggire a una vita di privazioni. Tuttavia ci si poteva arruolare anche per fuggire ai creditori, ai nemici o alla famiglia, oppure per spirito di avventura. Qualcuno sceglieva questa vita perché desideroso di combattere ed acquistare la gloria in battaglia o perché era spinto da fervori religiosi; ma non mancavano coloro che assecondavano la propria inclinazione alla violenza o che sceglievano di combattere perché avendo sempre fatto la guerra non conoscevano un altro mestiere. Qualsiasi fosse il motivo che li spingeva ad arruolarsi, difficilmente ritornava sani e salvi alle loro abitazioni. Poiché non esistono stime precise, dobbiamo attenerci ai dati sommari disponibili, secondo i quali circa tre soldati su quattro cadevano in battaglia. Per fare due esempi soltanto, si ritiene che durante la guerra dei Trent’anni morirono circa 600.000 persone (circa 20.000 ogni anno) e che durante la guerra di Successione spagnola i caduti furono ben 700.000, circa 64.000 l’anno125. Sono cifre enormi, che probabilmente danno conto solo in parte delle reali perdite di vite umane ma che spiegano appieno le crisi demografiche, le carestie e l’abbandono di vasti territori alla natura selvaggia dopo le devastazioni della guerra. In un’epoca in cui i soldati venivano considerati alla stregua di “carne da macello”, si svilupparono intorno alla metà del Seicento le prime iniziative volte alla loro tutela, consistenti soprattutto nella fondazione di asili per invalidi di guerra ed ospedali militari, sia stabili che da campo, in cui si curarono tutti i tipi di 124 125

Ivi, p. 44. Ivi, p. 52.

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infermità, dalle ferite in combattimento alle malattie contagiose come la sifilide e la malaria fino, in alcuni casi, ai traumi ed agli stress psicologici, definiti dai medici spagnoli mal de corazón126. Ma ritorniamo a parlare dello sviluppo e del progresso delle unità militari da un punto di vista tecnologico e tattico. Le formazioni del tercio furono il principale modello adottato e copiato da molte nazioni europee. Le innovazioni tattiche d’inizio Seicento minarono però tale modello, rendendolo per certi versi obsoleto, fino alla sua decadenza intorno alla metà del secolo. Una tra le più importanti novità fu senz’altro il nuovo utilizzo che si fece della cavalleria: non più reparti di sfondamento, bensì di inseguimento, disturbo e di attacco rapido. La tecnica del caracollo, prevedeva l’utilizzo da parte della cavalleria di un paio di pistole d’arcione per ogni cavaliere; quando questi si avvicinavano al nemico, scaricavano le pistole su di esso, per poi tornare rapidamente dietro le linee amiche, ricompattare i ranghi e caricare nuovamente le armi per un’altra incursione127. Tale tecnica permetteva maggiore capacità di movimento e agilità da parte della cavalleria, che riusciva così ad evitare lo scontro con i picchieri. Le pistole divennero parte integrante dell’armamento della cavalleria, che poteva utilizzarle anche in caso di inseguimento o di agguato. La figura del picchiere perse inevitabilmente parte della sua importanza, ma rimase comunque fondamentale nei combattimenti ravvicinati. È su tali presupposti che lo statolder d’Olanda Maurizio di Nassau, agli inizi del XVII secolo, abbandonò il modello del tercio, divenuto ormai troppo lento, per adottare unità più agili e snelle, costituite nella loro forma più semplice da soli trenta uomini, capaci poi di riunirsi in grandi unità, non superiori alle dieci file, secondo un tipo di formazione definito a “scacchiera” e derivante dai modelli tattici descritti nei libri di Eliano e Leone VI128. Fu un adattamento ai metodi della Roma imperiale e di Bisanzio, a cui tanto si raccomandava Machiavelli. L’adozione di questi modelli comportò il perfezionamento della tecnica del fuoco di fila. Non a caso si scelsero reparti da dieci file: dieci infatti, erano le azioni di caricamento e sparo, che permettevano un ciclo di fuoco ininterrotto. 126

G. PARKER, La rivoluzione militare, cit., p.114. S. E. FINER, op. cit., p. 100. 128 Ivi, p. 102. Ma si veda anche G. PARKER, Il soldato, cit., p. 54. 127

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Quando un moschettiere sparava, si ritirava nelle retrovie per ricaricare e il compagno che gli stava dietro, con l’arma già carica, si preparava allo sparo, per poi ritirarsi a sua volta e lasciare spazio agli altri129. Un ulteriore merito da riconoscere a Maurizio di Nassau, fu la reintroduzione dell’addestramento, indispensabile per far apprendere ai soldati le nuove tattiche di battaglia. Egli aveva capito che solo con un esercito ben addestrato sarebbe stato in grado di resistere alle terribili e numerose fanterie spagnole. La ricerca quasi maniacale della coordinazione e della precisione nei movimenti delle truppe, gli permise di comandare eserciti altamente specializzati ed ordinati, i quali si disponevano sul campo di battaglia in schieramenti dalle forme geometriche più svariate, tanto care alla cultura barocca. Le innovazioni introdotte da Maurizio di Nassau ispirarono numerosi manuali militari, nei quali con l’ausilio di illustrazioni venivano spiegate le varie tattiche e i metodi di combattimento. Nel 1616, inoltre, venne aperta a Nassau la prima accademia militare per ufficiali130. La figura che più si contraddistinse nel campo delle innovazioni tecnologiche e tattiche fu Gustavo Adolfo di Svezia, grande ammiratore dello statolder olandese. Tralasciando le sue imprese durante la Guerra dei Trent’anni, vanno a lui riconosciute alcune delle più importanti invenzioni nella storia militare, come la creazione di un tipo di cartuccia che consentiva una maggiore rapidità di fuoco, accompagnata dall’alleggerimento del moschetto (in modo da essere utilizzato senza forcella), fino alla costruzione del primo pezzo d’artiglieria leggera campale, che poteva essere spostato da due soli uomini131 ed era in grado di lanciare una palla di ferro da nove chili ogni sei minuti, alla distanza di 1.700 metri132. Dal punto di vista tattico, il re svedese rivoluzionò notevolmente il proprio esercito: ogni formazione di fanteria, costituita da moschettieri al centro e 129

Le azioni sono nell’ordine: 1) il moschettiere prende la mira e spara; 2) il moschettiere si ritira nelle retrovie; 3) si toglie la polvere scoppiata; 4) pulizia dell’innesto; 5) si prende la polvere da sparo; 6) si inserisce la polvere nella canna; 7) si prepara il grilletto e si sblocca il picchetto; 8) s’accende la miccia; 9) si punta il picchetto a terra; 10) si ripetono le azioni del primo punto. Per una miglior comprensione del meccanismo, si veda R. PUDDU, Il soldato, cit., pp. 374-375. 130 G. PARKER, Il soldato, cit., p. 52. 131 S. E. FINER, op. cit., p. 98. 132 G. PARKER, Il soldato, cit., p. 55.

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picchieri ai lati, veniva accompagnata da linee di moschettieri poste di fronte in qualità di difesa; altri picchieri difendevano l’artiglieria, costituita in genere da quattro pezzi per reggimento, mentre la cavalleria, posta alle ali, adottava la sciabola a scapito del caracollo, senza per questo rifiutare l’uso delle pistole. Le linee di moschettieri, che proteggevano la fanteria, abbandonavano il quadrato, tipico del tercio, per disporsi su linee col fronte più esteso dei fianchi133 e riducendo la profondità a sole sei righe134. Un’altra intuizione felice del sovrano riguardava l’introduzione della “scarica doppia”: praticamente il fronte di fuoco era costituito da tre sole file, posizionate rispettivamente in ginocchio, inchinate e in piedi, in modo tale che la scarica di fucileria potesse recare più danni possibili135. La consacrazione del nuovo sistema militare svedese arrivò con la vittoria di Gustavo Adolfo a Brieintenfeld nel 1631, a danno degli imperiali. Altre innovazioni permisero di ridurre la profondità delle formazioni da fuoco fino a tre-quattro righe: l’impiego, nel decennio 1630-40, del meccanismo d’accensione per le armi da fuoco per mezzo della pietra focaia, soppiantò quelli a miccia o a ruota, diventati ormai obsoleti perché meno efficienti. Ciò permise la riduzione del numero delle linee a favore della larghezza del fronte di fuoco, che a volte si estendeva persino per cinque miglia136. La migliore delle innovazioni fu però l’adozione della baionetta a scatto, una sorta di spadino innestato sulla volata del moschetto. Inventata nel 1680 da Vauban, univa in una sola arma la potenza di fuoco dei moschettieri e la forza d’urto dei picchieri. Inizialmente fu adottato un modello fisso, ma questo risultò pericoloso e poco pratico, come dimostrò il massacro dei soldati inglesi a Killicrankie nel 1689137. Da allora la baionetta a scatto venne adottata da tutti gli eserciti d’Europa, segnando il tramonto dei picchieri e di tutte le unità d’arma bianca che avevano caratterizzato le guerre per oltre due secoli. Di pari passo con l’evoluzione della fanteria, si svilupparono nuove artiglierie sempre più potenti e letali, alle quali i governi risposero con la creazione di nuove

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In termini geometrici si passò dal quadrato al rettangolo. G. PARKER, Il soldato, cit., p. 54. 135 Questo modulo è stato adottato anche durante la rivoluzione americana da entrambe le parti in lotta. 136 S. E. FINER, op. cit., p. 100. 137 Ibidem. 134

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fortificazioni che rispondevano ai criteri geometrici del barocco e che inaugurarono quella che S. E. Finer definisce l’età degli assedi e degli ingegneri. Infatti le nuove fortificazioni soddisfarono criteri di costruzione totalmente nuovi: le mura vennero abbassate acquistando profondità, mentre le forme se a volte risultavano particolari (ve ne erano di pentagonali, stellate, ecc.) si mostrarono tuttavia pienamente funzionali agli scopi difensivi138. La tecnica degli assedi ebbe come conseguenza lo sviluppo e il perfezionamento dei sistemi di approvvigionamento. Col perdurare delle guerre e con l’aumento delle dimensioni degli eserciti, l’affidarsi a soluzioni improvvisate come le contribuzioni forzose si rivelò sempre meno in grado di soddisfare le richieste: sappiamo ad esempio che la Francia, verso l’ultimo decennio del Seicento, si affidò alle contribuzioni solo per il 20% del totale delle entrate finanziarie139. Le autorità militari preferirono rivolgersi a paesi neutrali come la Svizzera per l’acquisto di carne o all’Inghilterra per i panni e così via. La difficoltà nel mantenere eserciti così numerosi (verso la fine del XVII secolo erano composti anche da centomila soldati), costrinse i governi a sostituirsi agli imprenditori militari nel compito di reperire le risorse, ma tale pratica iniziò ad entrare nell’uso comune solo dalla seconda metà del secolo. È necessario a questo punto, distinguere le risorse tra i viveri e i beni di altra natura, per poter spiegare meglio come vennero strutturati i rifornimenti e fare il punto della situazione sull’equipaggiamento sia degli eserciti che dei singoli soldati. Innanzitutto bisogna dire che quando un esercito si spostava veniva seguito da un corteo di persone di vario genere: donne, bambini, servitori, lacchè, vivandieri e gente di ogni risma e categoria sociale. Nel 1646, ad esempio, due reggimenti bavaresi impegnati in Germania durante l’assedio di Bergen-op-Zoom erano formati da 480 fanti e 481 soldati di cavalleria; ad essi si aggiungevano 310 servitori, 12 vivandieri, 416 tra donne e bambini e 1.072 cavalli140. In genere il numero delle persone al seguito non superava il 50% delle truppe, perciò l’esempio sopra riportato è un caso limite, ma non unico. Se consideriamo un esercito di 30.000 soldati, possiamo dunque ipotizzare che di norma vi fossero in 138

Ivi, p. 101. G. PARKER, Il soldato, cit., p. 45. 140 G. PARKER, La rivoluzione militare, cit., p. 125. 139

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totale circa 45.000 bocche da sfamare. Considerando che la razione media quotidiana per un soldato era di 750 grammi di pane, mezzo chilo di carne o di formaggio e due litri di birra, possiamo calcolare la quantità necessaria per sfamare l’intero gruppo giornalmente: 80.000 kg di farina per produrre il pane, 22.500 kg di carne (equivalenti a 2.500 pecore o 250 manzi), 90.000 litri di birra. Naturalmente dobbiamo tenere conto anche di tutto quello che serviva per la produzione di tali alimenti (ad esempio i forni per il pane) andava costruito nelle vicinanze delle città assediate (quando si ipotizzavano assedi che potevano durare anche mesi) o lungo le linee di confine. Si consideri inoltre che per la costruzioni di ogni forno erano necessari almeno 500 mattoni; per di più bisognava provvedere alla legna necessaria, agli attrezzi del mestiere, ai carri per il trasporto ed agli animali da traino. I cavalli necessari per un esercito di questa portata potevano essere anche 20.000, distribuiti tra la cavalleria, l’artiglieria, gli ufficiali, le salmerie, ecc. Per il loro sostentamento occorrevano all’incirca 90 quintali di foraggio al giorno, ossia la disponibilità di circa 160 ettari di pascolo141. Sono quantità incredibilmente alte, e lo erano ancor di più in quei tempi, dato che le disponibilità alimentari non erano certo paragonabili a quelle odierne, ma in alcune zone d’Europa, come l’Olanda e l’Inghilterra, l’economia era in pieno sviluppo e le classi borghesi approfittarono dell’occasione di fare profitti rifornendo gli eserciti con le loro industrie. La scelta di rifornirsi da privati, piuttosto che dagli appaltatori, pare sia nata anche dalla necessità di uniformare l’equipaggiamento. Nei primi decenni del XVII secolo, infatti, non era insolito incontrare eserciti dai colori delle divise più vari, dato che ad ogni soldato era permesso vestirsi a proprio piacimento, a patto che fosse provvisto di scarpe grosse, brache robuste e calze spesse, due camicie pesanti, giubba di pelle, con un mantello per ripararsi dalla pioggia, capello largo di feltro per proteggersi dal sole e dall’acqua. Gli indumenti dovevano essere di taglio abbondante, per dare più calore; ma senza pelliccia e con poche cuciture, che erano un vivaio di parassiti142.

La mancanza di regolamenti precisi nella scelta dell’abbigliamento dipendeva 141 142

Ivi, p. 45. Ivi, p. 46.

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dal fatto che non tutte le truppe che formavano un esercito appartenevano allo stesso signore; inoltre una stessa unità poteva essere composta da uomini reclutati in tempi e in luoghi diversi, rendendo così più difficile, se non a volte impossibile, l’uniformità dell’abbigliamento. Abbiamo testimonianza di eserciti eterogenei e variegati che si distinguevano in campo di battaglia attraverso l’utilizzo di un segno distintivo come un foulard colorato legato ad un braccio o una piuma sul cappello. Le truppe austriache e spagnole, ad esempio, utilizzavano contrassegni rossi, i svedesi gialli o gialli-azzurri, i francesi azzurri, gli olandesi arancioni, e così via143. Quando due eserciti si coalizzavano, sceglievano allora un ulteriore contrassegno. Qualche tentativo di uniformare l’abbigliamento fu intrapreso verso gli anni Quaranta del XVII secolo: in alcuni eserciti bavaresi, ad esempio, una volta arruolato il soldato riceveva un’uniforme standard; in poco tempo però i vestiti si consumavano e venivano sostituiti con altri rubati alle popolazioni o ai morti. In Francia, invece, nel decennio 1640-50 si ordinavano uniformi in tre taglie diverse (piccole, medie, grandi) ma senza specificarne il colore. Nel 1645 il conte Gallas, comandante dell’esercito imperiale, ordinò ben seicento uniformi di colore grigio inviando ai fornitori i campioni di tessuto da utilizzare ed includendo nell’ordine anche fiaschette per la polvere da sparo e cartucciere144. Grazie a queste e ad altre iniziative verso la fine del secolo tutti gli eserciti avevano raggiunto un discreto livello di uniformità sia per il vestiario che per l’equipaggiamento. La standardizzazione delle armi avvenne un po’ più tardi, soprattutto per quelle da fuoco che, verso la fine del secolo, superavano in proporzione gli altri tipi di arma. Le varie tipologie esistenti (moschetti a miccia lunga e corta, archibugi, pistole) offrirono ai governi la possibilità scegliere quale tipo di arma meglio si adattava alle proprie esigenze, e la creazione di armerie sotto il proprio controllo fece raggiungere un buon livello di omologazione. Anche radunare così tanti cavalli era complicato, soprattutto nella prima parte del XVII secolo, ma la continua richiesta di animali permise agli allevatori di organizzarsi e stabilire vantaggiosi contratti di fornitura con i governi. Il primo Paese che sperimentò con risultati estremamente positivi 143 144

Ivi, p. 47. Ivi, p. 48.

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l’organizzazione dei rifornimenti fu l’Inghilterra. All’indomani dell’esecuzione di Carlo I l’esercito inglese, comandato da Oliver Cromwell, si apprestò ad invadere e conquistare l’Irlanda. In gran parte la vittoria fu sicuramente merito del suo condottiero, che non solo seppe sfruttare al meglio le potenzialità del suo esercito ma fu capace di rifornire al meglio i suoi soldati evitando di far mancare loro il necessario. Per rifornire il contingente di 16.000 uomini inviato per la missione, il governo di Londra spedì circa 6.000 tonnellate di grano e segale, 250 di formaggio, 150 di gallette e 5.000 ettolitri di birra, oltre a quantità minori di sale, riso ed altri beni di prima necessità. Per capire meglio le proporzioni di tale “impresa logistica” basti pensare che le quantità di alimenti inviate ricoprivano il 90% del pane, il 50% del formaggio e il 40% della birra necessari quotidianamente145. Per quanto riguarda beni di altra natura, vennero inviati 17.950 serie di indumenti comprendenti scarpe, calze, pantaloni e camicie, più 17.000 metri di panno per confezionare soprabiti e 19.000 metri di tela per costruire tende146. Inoltre Cromwell portò con sé una scorta considerevole di denaro per l’acquisto di eventuali beni supplementari, mentre un decreto garantiva a chiunque volesse vendere provviste all’esercito il pagamento in contanti. Naturalmente i soldati che sorpresi

a

saccheggiare

venivano

severamente

puniti,

in

genere

con

l’impiccagione. L’organizzazione logistica facilitò e velocizzò la conquista dell’Irlanda e venne riproposta, con gli stessi esiti positivi, nella campagna di Scozia del 1650-51. Il modello anglosassone venne studiato ed adottato all’estero, soprattutto dalla Francia, la quale sperimentò il sistema degli approvvigionamenti durante la breve alleanza con gli inglesi del 1657-59 in funzione antispagnola. Dobbiamo però tener conto degli sforzi maggiori che Luigi XIV dovette affrontare: infatti l’esercito francese contava in tempo di pace circa 150.000 uomini, quasi dieci volte tanto il numero di soldati che parteciparono alla campagna d’Irlanda, il che lascia immaginare quali fossero le proporzioni e le necessità dell’organizzazione logistica francese. Anche qui però, grazie alla costante domanda di viveri e di materiali, si riuscì in breve tempo a costruire un solido apparato di rifornimenti 145 146

Ivi, p. 50. Ivi, p. 49.

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simile al modello inglese, e già prima della fine del secolo l’esercito francese poté vantare un grado di standardizzazione pressoché completa147. È però il caso di portare un chiarimento sull’argomento in questione: infatti è sbagliato credere che con i nuovi metodi di fornitura potessero risolvere il problema dell’approvvigionamento alimentare della popolazione. Ancora per tutto il secolo, ed anche in quello a venire, la disponibilità di cibo per il popolo minuto variò in base alle necessità degli eserciti, oltre che per le condizioni ambientali e per il tipo di agricoltura di sussistenza ancora praticata. I casi di ribellione per mancanza di cibo non furono rari e gli stati europei furono costretti ad imporre prezzi controllati sulle merci importate (è il caso di Madrid per il grano), su quelle prodotte (come in Catalogna per il pane), oppure introdurre il blocco delle esportazioni (come avveniva solitamente in Inghilterra)148 per garantire il regolare approvvigionamento alimentare delle popolazioni. Abbiamo analizzato, fino a questo punto, l’evoluzione degli eserciti in paesi già formati, se non dal punto di vista burocratico, almeno da quello politico. È ora il caso di dare uno sguardo ad un’altra realtà, lo stato di Brandeburgo-Prussia, il quale prese forma durante la Guerra dei Trent’anni e che comprendeva alcuni principati del mosaico politico dell’area tedesca appartenenti tutti alla famiglia degli Hohenzollern: la marca del Brandeburgo, il ducato di Prussia e di Kleve, la Renania, più alcuni territori affacciati sul mar Baltico. Il nuovo principe, l’elettore Federico Guglielmo, salito sul trono nel 1640, si ritrovò davanti un paese in gran parte lacerato e diviso dalle guerre. Col finire dei conflitti e ristabilita quindi la pace, Federico inaugurò una politica di riforme inerenti l’accentramento dei poteri e il controllo del territorio (1650). Il punto di partenza da cui iniziò il suo operato fu la richiesta, rivolta ai ceti, del denaro necessario ad assoldare truppe di mercenari, da aggiungere agli appena 1.300 soldati che gli erano rimasti, appena sufficienti per soddisfare i compiti di guarnigione149. Il problema che Federico Guglielmo dovette affrontare fu il rifiuto da parte dei ceti di adottare un tipo di tassazione indiretta generale, l’Akzise,

147

Ivi, p. 114. CH. TILLY, Approvvigionamento alimentare e ordine pubblico, in La formazione degli stati nazionali, cit, p. 286. 149 S. E. FINER, op. cit., p. 127. 148

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studiata sul modello olandese, in sostituzione del già citato sistema delle contribuzioni. Per recuperare il denaro necessario, quindi, il sovrano si vide costretto a rilasciare cospicue concessioni alla nobiltà in cambio di una quota di mezzo milioni di talleri da corrispondersi in sei anni, oltre la possibilità d’imporre l’Akzise nelle città150. Tale operazione garantì all’elettore, già nel 1653, l’arruolamento di 4.000 soldati, tutti mercenari. Quando due anni dopo scoppiò il conflitto tra la Svezia e la Polonia, Federico Guglielmo decise di intervenire. Per cominciare si mise alla ricerca del denaro necessario per finanziare l’impresa. Al rifiuto dei ceti, decise ugualmente di raccogliere i soldi necessari utilizzando la forza delle armi a scapito dei contadini e degli abitanti delle città. Nonostante l’emigrazione di molte famiglie, in soli due anni venne reperita la stessa somma versata in sei anni dai ceti nobiliari. Il felice esito delle riscossioni indusse il sovrano a continuare su quella strada. Il valore dei prelievi aumentò in proporzione con l’aumento del numero delle truppe per tutta la durata della guerra fino alla pace del 1660, dopo la quale l’esercito venne ridimensionato da 22.000 a 10.000 unità, che divennero in seguito la base dell’esercito regolare permanente151. La scelta di adottare un doppio sistema fiscale (di tassazione indiretta per le città e delle contribuzioni per le campagne), decretò la formazione di nuove figure di funzionari: gli Steuerräte, atti alla riscossione delle imposte indirette nelle città, e i Kreisdirektor, rappresentanti del sovrano e gestori insieme ai nobili del sistema di recupero delle contribuzioni. Nel giro di pochi anni il sistema si diffuse dal Brandeburgo al ducato di Kleve e in Prussia; gli Steuerräte riuscirono a controllare tutti gli affari municipali grazie ad un sistema burocratico sempre più complesso, mentre il sindaco e i consigli eletti localmente sparirono gradualmente. Come conseguenze si ebbero da una parte l’estinzione dell’autogoverno delle città, dall’altra l’annullamento delle assemblee dei ceti nobiliari: infatti, con un tipo di tassazione indiretta estendibile in teoria a tutti i beni di consumo, il sovrano non ebbe più bisogno di convocare

150

Le concessioni riguardavano la promessa di rinunciare alla tassazione indiretta, un aumento delle tutele sui beni immobili della nobiltà e, soprattutto, l’adozione dell’istituto della servitù della gleba. 151 Ivi, p. 129.

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gli organi di rappresentanza dei ceti per proporre nuove tassazioni. «Con la nuova imposta, la burocrazia, l’esercito permanente, il tramonto del potere dei ceti e l’estinzione dell’autogoverno locale, l’elettore si ritrovò sovrano assoluto152». Le resistenze dei ceti vennero ben presto soffocate mentre ai nobili schierati col sovrano, in cambio della perdita del proprio peso politico, vennero rinnovate e in alcuni casi ampliate le esenzioni fiscali. Sistemata la questione fiscale, Federico Guglielmo si occupò del mantenimento dell’esercito permanente, pilastro portante del suo disegno politico. Se facciamo un confronto con il periodo precedente alla guerra dei Trent’anni, notiamo che gli elettori erano soliti affidarsi normalmente al sistema degli appaltatori per il reclutamento e il mantenimento di eserciti poco numerosi, costituiti in genere da volontari pagati, sia nativi che stranieri. Nel 1688, invece, l’esercito raggiunse le dimensioni di 30.000 unità in stanza permanente, mentre l’approvvigionamento alimentare e logistico passò interamente sotto la gestione diretta del governo centrale. Non solo, anche il corpo degli ufficiali subì delle modifiche: con l’ampliamento e il miglioramento dell’apparato militare e burocratico, il numero degli ufficiali dipendenti dal governo centrale aumentò gradualmente a scapito di quelli di ventura. Possiamo tralasciare la figura del figlio Federico I, che ottenne il titolo regio nel 1701, ma che non introdusse grandi novità sul fronte dell’esercito. Con il successore Federico Guglielmo I (1713-1740) il ritmo delle innovazioni subì una forte accelerazione. Da sempre attratto dalla vita militare, rivoluzionò profondamente il sistema prussiano: innanzitutto tagliò tutte le spese ritenute superflue, destinando più risorse possibili all’esercito; in seguito sostituì i funzionari regi e gli agenti governativi con gli ufficiali dell’esercito153. Per quanto riguarda le forza militari, esse raggiunsero le 80.000 unità, ponendo dei seri problemi di gestione e soprattutto di disponibilità di risorse umane. Le difficoltà che si presentarono vertevano principalmente su chi dovessero essere gli ufficiali e dove si sarebbero dovuti reclutare i soldati necessari. Alla

152 153

Ibidem. Finer riporta sulla sua opera già citata un aneddoto curioso su Federico Guglielmo: egli alterò talmente profondamente il protocollo che sostituì i primi ciambellani di corte con ufficiali militari. Si veda Ivi, p. 132.

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prima questione Federico Guglielmo rispose con la fondazione nel 1722 della Kadettenhaus, la prima scuola ufficiali del regno di Prussia, a cui dovevano accedere i rampolli delle famiglie nobili. Chi si rifiutava veniva costretto con la forza a parteciparvi; ma ben presto la nobiltà fu più che favorevole all’iniziativa. A chi accettava infatti venivano concessi numerosi incentivi: innanzitutto il riconoscimento sociale del rango di ufficiale regio, con relativa paga proporzionata al servizio svolto. Il sovrano stesso adottò l’uniforme d’ordinanza uguale a quella del corpo degli ufficiali e dei cadetti154. In secondo luogo, i gradi di ufficiale permettevano l’accesso alle cariche di Steuerräte e Kreisdirektor. Ciò ebbe conseguenze importanti: la doppia carica di ufficiale-burocrate permise ai nobili di riscuotere le tasse e, contemporaneamente, di gestire le contribuzioni e gli arruolamenti. Inoltre venne decretato che il territorio fosse diviso in cantoni, ciascuno dei quali avrebbe dovuto essere in grado di fornire i rimpiazzi per un reggimento di fanteria o di cavalleria: cinquemila famiglie di base per il primo, milleduecento per il secondo. Ogni nato maschio doveva essere notificato all’ufficiale reclutatore, il Landrat155, da parte del prete locale; ogni bambino, all’età di dieci anni, veniva visionato dall’ufficiale suddetto e se ritenuto idoneo doveva indossare una cravatta rossa come segno distintivo per la sua futura destinazione all’esercito. L’addestramento durava due anni e veniva curato dal nobile proprietario terriero, dopodiché il servo tornava a lavorare i campi del suo signore che lo addestrava per fornire le corvée per circa dieci mesi all’anno mentre i restanti mesi, in primavera, prestava servizio nelle manovre di esercitazione156. Il sistema delle esenzioni e delle licenze fu perfezionato: gli abitanti e gli operai delle manifatture venivano esonerati dalla chiamata alle armi, mentre i contadini erano iscritti nei registri d’arruolamento in base alle esigenze produttive di ogni nucleo familiare157. In una società in cui vigeva la servitù della gleba, in cui ogni signore poteva disporre dei suoi contadini come meglio credeva, in cui i nobili stessi mostravano 154

Ibidem. G. CORNI, La nascita dello stato prussiano, in AA. VV., La Storia, vol. VII, Utet, Novara 2007, p. 687. 156 S. E. FINER, op. cit., p. 134. 157 G. CORNI, op. cit., p. 676. 155

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totale fedeltà al sovrano, Federico Guglielmo poteva finalmente assumere il ruolo di monarca assoluto, in una forma ancora più accentuata di quanto non fosse concesso a Luigi XV di Francia. A ben riflettere possiamo affermare che riorganizzando l’esercito Federico Guglielmo aveva raggiunto un risultato non meno importante politicamente che militarmente: egli non aveva creato soltanto una grande potenza europea, ma anche una nuova forma di governo. Infatti nell’appoggiarsi così decisamente sul suo esercito, e traendo da esso un potere tanto illimitato, egli venne a plasmare un nuovo tipo di monarchia: lo stato prussiano dell’epoca non assomigliava tanto alla struttura politica francese governata da Luigi XV, bensì anticipava le moderne forme di burocrazia militare, tanto che il modello prussiano fu quello a cui attinse Napoleone Bonaparte158.

158

S. E. FINER, op. cit., p. 134.

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Conclusioni

A partire dal XVI secolo in Europa prendono il via una serie di trasformazioni e cambiamenti politico-sociali che porranno le basi per la nascita degli stati nazionali nell’Ottocento. Il percorso che le grandi potenze continentali scelsero di intraprendere varia naturalmente da stato a stato, ma in ognuno abbiamo riconosciuto alcuni elementi comuni che caratterizzano il periodo storico analizzato. Il tramonto della cavalleria pesante medievale, sancito con le battaglie di Crecy e Anzicourt, e più avanti con quella di Nancy, ha determinato la fine stessa dell’organizzazione militare di stampo feudale. Ciò ha decretato in primis l’affermazione della fanteria sul panorama militare europeo, e un nuovo modo di combattere che per certi versi ricorda quello dell’antica Roma: dopo secoli dai tempi dei Cesari, il diritto all’uso delle armi viene nuovamente riconquistato dalle grandi masse plebee e contadine, determinando così un nuovo equilibrio tra le forze sociali. L’ascesa della borghesia ha permesso ad alcuni paesi come l’Inghilterra, di sciogliere il vincolo di fedeltà e dipendenza con la nobiltà, ed intraprendere così un percorso di accentramento dei poteri nelle mani del sovrano, mentre in altri, come la Polonia e la Prussia del Settecento, il rafforzamento della classe aristocratica a scapito delle altre realtà sociali ha facilitato l’instaurazione della servitù della gleba. Analizzando il caso specifico di ogni singolo paese, abbiamo visto come l’arruolamento di eserciti permanenti abbia decretato lo sviluppo di un apparato burocratico più complesso ed efficiente ed un sistema di riscossione delle tasse sempre più articolato, capaci entrambi di sostenere gli eserciti sia dal punto di vista finanziario che della logistica e dei rifornimenti. L’adozione di nuove tattiche di combattimento ha determinato la necessità di prevedere un’adeguata preparazione da parte delle truppe, nonché degli ufficiali. Verso la fine del Seicento prendono inoltre vita le prime forme di tutela del soldato. Non possiamo negare l’importanza che i fatti esposti hanno avuto sulla nascita degli stati moderni: essi gettarono le basi di quello spirito nazionalistico che, dopo Napoleone, si diffuse in tutta Europa, dando vita alle Guerre d’Indipendenza e agli

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Stati nazionali. Ma questo appartiene già ad un’altra epoca. Con la Rivoluzione Francese si chiude un capitolo drammatico della storia d’Europa, fatto di guerre e di violenze, ma anche di uomini e soldati, che scelsero la vita militare per vincere la miseria o per acquistare fama e gloria.

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