Il valore culturale del paesaggio geografico: l'esempio del territorio di Bosa

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

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CORSO

DI

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DEI

BENI CULTURALI

IL VALORE CULTURALE DEL PAESAGGIO GEOGRAFICO: L’ESEMPIO DEL TERRITORIO DI BOSA

Relatore: PROF.SSA VALERIA PANIZZA

Tesi di Laurea di: ALBERTO CORDA

ANNO ACCADEMICO 2009/2010



Indice

Introduzione

1.

Il paesaggio culturale: valore culturale del paesaggio nell’insieme del suo patrimonio umano e geografico

2.

pag. 1

pag. 3

Le relazioni e i significati del paesaggio culturale

2.1. Interrelazioni uomo-paesaggio

pag. 10

2.2. Dimensione simbolica e spirituale del paesaggio

pag. 16

3.

L’area di studio: Bosa – la fascia costiera dalla foce del fiume Temo a Capo Marrargiu

3.1. Caratteristiche geografiche, geologiche e geomorfologiche 3.2. Storia delle origini di Bosa e del suo territorio

4.

pag. 24 pag. 31

I siti più importanti del tratto costiero dalla foce del fiume Temo a Capo Marrargiu

4.1. Ritrovamenti a s’Abba Druche

pag. 40

4.2. Miniera e cava di Sas Covas

pag. 48

4.3. Villaggio minerario s’Ortu ‘e su Giuncu in prossimità di Tentizzos: condizioni di vita dei lavoratori 4.4. Giacimenti di Capo Marrargiu

5.

pag. 52 pag. 60

Le risorse ambientali e naturalistiche di interesse paesaggistico: i due SIC del territorio di Bosa

pag. 65

Conclusioni

pag. 75

Bibliografia

pag. 77



Introduzione

Nei primi due capitoli di questo lavoro si affronterà il tema del “paesaggio culturale” partendo dall’analisi del significato del termine e delle varie interpretazioni che del vocabolo ne hanno fatto gli esperti della materia. Si cercherà di argomentare tutti gli aspetti predominanti correlati al termine, analizzando in particolar modo l’aspetto antropologico legato al concetto, perciò, tentando di porre in risalto, il significato dell’aggettivo “culturale”. Si evidenzieranno le considerazioni espresse dagli specialisti di geografia e antropologia nello studio delle relazioni che collegano le due discipline e, quindi, il rapporto che l’ambiente e in specifico il paesaggio, ha con l’uomo, e come quest’ultimo, con il susseguirsi dei secoli, è intervenuto sul paesaggio, modificandolo e lasciando nel tempo i segni della sua presenza. Segni che, quindi, hanno una valenza simbolica e spirituale, cioè dell’anima. Si cercherà di evidenziare come i vari simboli del paesaggio assumano diverso significato diventando, così, fonte di rappresentazione del paesaggio stesso; cercando anche di mettere in risalto ciò che provoca

nell’uomo

l’osservazione

del

paesaggio,

cioè

le

suggestioni intellettuali che nascono nei diversi osservatori. Nei restanti capitoli si compierà un confronto con una realtà in particolare, appartenente al territorio di Bosa, analizzando così una zona in specifico di questo Comune. Zona, dove la Natura continua ancora con energia ad essere la protagonista principale. Perché la scelta di questo luogo? Innanzitutto per la Natura che, come già detto, ancora ne fa da protagonista ed è pressoché incontaminata, ma soprattutto per il fascino che questo territorio possiede, essendo formato da una gran varietà di biotopi e paesaggi geomorfologici. Altro fattore molto importante che ha determinato la scelta di quest’area sono i segni lasciati dall’uomo fin da epoche remote. 1


Manufatti esaminati ancora da pochi esperti e in molti casi abbandonati a se stessi. Infine si tenterĂ di prendere in esame le risorse che questo territorio possiede, cercando di spiegare le iniziative giĂ messe in atto o quelle che si devono ancora attuare per poter sostenere la salvaguardia delle zone contraddistinte da elevata biodiversitĂ e geodiversitĂ che devono essere giustamente conservate.

2


1. Il paesaggio culturale: valore culturale del paesaggio nell’insieme del suo patrimonio umano e geografico

Il termine "paesaggio" deriva da "paese", sull’esempio del francese paysage, e accoglie in sé l'idea di un territorio uniforme sotto un definito aspetto. Particolarmente, esso può essere definito come l’individuale conformazione di un territorio che risulta dall'insieme degli aspetti fisici, biologici e antropici. Questa immagine del paesaggio come prodotto finale dell'azione di diversi fattori è ancora più chiaro nel termine equivalente inglese, landscape, che mette insieme la parola land, "terra", con un verbo di origine germanica, scapjan/shaffen, "trasformare, modellare", per significare, testualmente, "terre trasformate". Le regioni erano allora considerate come modellate dalle forze naturali, ed i dettagli caratteristici di tali landshaffen ("terre modellate") divennero esse stesse il soggetto dei dipinti paesaggistici. All'inizio del XX secolo, al geografo Otto Schluter è stato attribuito l’uso, per la prima volta, del termine "paesaggio culturale", in cui per paesaggio intendeva un’associazione di forme differenti, un insieme di oggetti sia fisici sia culturali. Principale area di interesse della geografia è il paesaggio visibile e la necessità di iniziare ad elaborare tale paesaggio dallo stato naturale allo stato culturale. Nei primi anni del secolo scorso la geografia giunge a darsi la denominazione di scienza e per Schluter l’idea di paesaggio indicava la probabilità di completare la geografia in senso culturale. Per i geografi tedeschi ma anche francesi il concetto di paesaggio culturale diviene oggetto di indagine, verso cui si dirigono con maggior interesse e con forte impegno (Andreotti, 2008). Dalla seconda metà del secolo scorso per un certo numero di studiosi la geografia si immedesima nella scienza del paesaggio, contrassegnato dalla natura e inoltre dalla cultura e dalla storia 3


dell’uomo ed è per questo che la geografia giunge ad essere associata allo studio del paesaggio. I geografi dedicano interesse alla cultura ponendola alla base della loro dottrina, tenendo conto che, il paesaggio contrassegnato dalla cultura ritrae uno degli argomenti più graditi alla geografia. La storia e l’antropologia sono quelle scienze che mostrano maggior interesse per la cultura e quindi possono aver influenzato con i loro principi e sviluppi la geografia. La visione storica consente di mettere in evidenza le diversità culturali delle tante aree, specificando dove e come tali diversità si sono generate Il paesaggio culturale è conosciuto nel significato tipico di insiemi di modelli creati nel paesaggio naturale da un certo gruppo culturale. Si perviene, così, dal paesaggio naturale a quello culturale nell’idea di trasformazione sotto l’influenza della cultura. Fu probabilmente Carl Ortwin Sauer, un geografo umano, il più influente studioso a promuovere e sviluppare l'idea dei paesaggi culturali. Sauer era determinato a sottolineare l'azione della cultura, come forza capace di modellare i tratti visibili della superficie terrestre in aree limitate. Nell'ambito della sua definizione, l'ambiente fisico mantiene un significato centrale, come il mezzo con il quale e attraverso il quale le culture umane agiscono. La classica definizione di un "paesaggio culturale" è la seguente Vallega, 2003):

“il paesaggio culturale è foggiato da un paesaggio naturale ad opera di un gruppo culturale. La cultura è l'agente, gli elementi naturali sono il mezzo, il paesaggio culturale è il risultato.”

Si può affermare, quindi, che uno degli argomenti principali della geografia è il paesaggio perché esso viene considerato lo scenario visibile in cui l’uomo svolge le sue attività, esso è la realtà prima nella quale l’uomo s’imbatte. Il paesaggio è considerato materiale, in quanto racchiude oggetti, come per esempio gli insediamenti. 4


Per paesaggio è intesa la porzione visibile di un luogo; con questa asserzione si crede di riprendere la riflessione di un gran numero di geografi nel riconoscere come definitore prima di tutto il carattere di veduta. Infatti, il suo significato, in senso comune, è quello di panorama, insieme di bellezze naturali. Solitamente, il vocabolo, assume un significato positivo, in quanto, è continuamente riferito all’immagine piacevole che un insieme di luoghi offre alla vista (Andreotti, 1998). Esiste una sostanziale differenza tra il significato di territorio e quello di paesaggio; per territorio si intende una determinata parte della superficie terrestre, stimata nella consistenza dei suoi elementi fisici e di quelli relativi all'organizzazione dell’uomo. Questi elementi, valutati nel loro insieme, sono quelli che consentono di cogliere il paesaggio umanizzato o paesaggio geografico, per cui è necessario definire con precisione la differenza tra paesaggio e territorio. Il paesaggio si distingue dal territorio perché viene definito il “sistema superiore” ossia ne è la cognizione, la singolarità, la riflessione. E’ in sostanza un qualcosa di profondo e vivo con una memoria e un linguaggio. Vita, memoria e linguaggio, assimilati con il lungo accumularsi di processi e di interazioni tra uomo e ambiente; è un insieme impareggiabile di sottili e infiniti legami geomorfologici, idrologici, atmosferici, biologici, storici, economici, demografici, ideologici e addirittura estetici; tradizionalmente, esso è sempre stato fascino e appagamento dello spirito. Piuttosto, il territorio è realtà spaziale pianificata che ogni generazione rimodella per meglio soddisfare le esigenze di vivere, produrre e scambiare; se esso è in grado di memorizzare parte di se stesso e di proiettare le informazioni assimilate nel futuro, rappresenta pur sempre una realtà in veloce cambiamento che si colloca nel “sistema superiore” del paesaggio (Andreotti, 2008). A questo punto, appare completamente giusta la considerazione che ha fatto Richard Hartshorne, secondo la quale, i geografi hanno stabilito che la geografia dovesse essere lo studio del paesaggio, 5


senza averne, però, precisato il significato. Presumibilmente, fu la particolare rappresentazione di un territorio, probabilmente la sua caratteristica estetica, a far sì che si iniziasse a utilizzare il termine paesaggio (Vallega, 2003). Oltre a ciò, per paesaggio culturale intendiamo quel territorio o quella porzione di territorio dei quali l’osservatore o il visitatore riescono a comprenderne il linguaggio, grazie al bagaglio culturale diretto o indiretto. Il bagaglio culturale diretto sussiste quando il patrimonio culturale di un determinato territorio è già conosciuto all’osservatore mentre esso è indiretto quando la ricchezza culturale di un territorio è ancora tutta da scoprire da parte di chi osserva. Adesso, è necessario definire che cosa si intende per paesaggio culturale dal momento in cui l’uomo, che svolge le sue attività, diviene l’artefice del territorio e quindi del paesaggio geografico. Le stesse attività sono attività culturali, per cui, non esiste gruppo di persone che non porti con sé, nell’operare, una sua tipica cultura. Per stabilire cosa sia un paesaggio culturale bisogna astenersi da classificazioni, di fatto, esso è quello che in un determinato momento è presente in una definita regione (Andreotti, 2008). Il paesaggio può presentare uno o più aspetti predominanti e in base a questi essere definito e riconosciuto (umanistico, economico, turistico, etnico, storico) non dimenticando, però, che ciò che non appare, può comunque aver avuto un ruolo nella sua formazione. Per paesaggio culturale si dovrebbe intendere quel luogo che osservato, innanzitutto attraverso conoscenze storico, artistiche e letterarie, si evidenzia come motivo di arricchimento intellettuale. Il concetto di paesaggio culturale è acquisibile prima di tutto attraverso un procedimento di analisi e perciò attraverso l’interpretazione del paesaggio stesso. L’analisi storica è quindi la più corretta per arrivare alla comprensione del paesaggio culturale: un percorso d’indagine obiettiva che non si lascia distrarre dalla ricerca di ciò che è esteticamente “bello” o piacevole. Il paesaggio arricchito dai segni della storia racchiude in sé tutta la storia dell’uomo e tutta la storia della cultura in cui esso ha 6


operato, tramandando i segni della sua presenza. Tuttavia, le influenze culturali non sono solo oggettive e a senso unico (dal paesaggio all’osservatore) ma si costruiscono diversamente per ogni osservatore, portatore di una sua propria cultura e, quindi, di una sua propria interpretazione. Inoltre si potrebbe dire che esistono un paesaggio culturale attivo e un paesaggio culturale passivo: nel primo caso, s’intende quel paesaggio che manifesta la cultura del gruppo sociale che l’ha plasmato e, nel secondo caso, in che misura quel paesaggio provochi nell’osservatore stimoli emotivi (Andreotti, 2008). Del paesaggio culturale appare messo in risalto l’aspetto antropologico, e questo in quanto, oltre all’immagine culturale che quel paesaggio svela, esso ripropone tutti i significati che le passate culture, che storicamente vi si sono succedute, hanno espresso. In geografia il carattere “culturale” è usato per definire il segno delle attività umane sui vari territori, dunque, è stato definito culturale quel paesaggio che si rende noto per l’intervento di comunità umane, presa ognuna nelle sue particolarità (Vallega, 2003). Il paesaggio geografico è fondamentalmente un paesaggio culturale, ma quest’ultimo, è esaminato da un punto di vista cosciente della centralità della cultura, quindi, è paesaggio culturale anche quello espresso come unità della geografia dell’arte o della memoria. Una geografia dell’arte e della memoria, quando per arte o memoria si comprendano non solo, e non tanto, quelle direttamente manifestate e individuabili ma anche quelle che vengono ricordate. Non occorre che un paesaggio offra la visione di opere artistiche ma sarà sufficiente che per memorie, per toponimi, per riferimenti storici o religiosi o di costume dispensi ispirazione e fascino, emozione e richiami (Andreotti, 2008). La geografia è, come già detto, anche lo studio del paesaggio culturale che un insieme di persone, munite di particolare cultura, producono sulla base del paesaggio naturale. Infatti, seguendo Carl Ortwin Sauer (Vallega, 2003): 7


il paesaggio culturale è forgiato da un paesaggio naturale da un gruppo culturale. La cultura è l’agente, l’area naturale è il mezzo, il paesaggio culturale il risultato. Sotto l’influsso di una data cultura, essa stessa mutevole nel tempo, il paesaggio si sviluppa passando attraverso fasi e probabilmente raggiungendo alla fine il limite del suo ciclo di sviluppo. Con l’introduzione di una cultura diversa, cioè estranea, si stabilisce un ringiovanimento del paesaggio culturale o un nuovo paesaggio si sovrappone alle tracce di uno più antico. Il paesaggio naturale è ovviamente di fondamentale importanza poiché esso fornisce i materiali di cui è formato il paesaggio culturale. La forza condizionante, tuttavia, si trova nella cultura stessa.

In questo saggio è evidente lo stretto legame di Sauer con gli antropologi, in particolar modo la vicinanza ad Alfred Kroeber1. Il paesaggio mostra la storia visibile e incancellabile sul terreno, degli eventi naturali e delle opere dell’uomo, tutto in un incessante mutare; sembra quasi, che tutto ciò, non riesca ad essere inserito in un prestabilito studio nemmeno concettuale; nel modo in cui, invece, pare realizzare Sauer. Perfino i vari periodi storici ben documentati, registrati nei minimi particolari, difficilmente possono essere individuati con precisione, al momento della loro nascita e al momento della loro fine. Esistono paesaggi così carichi di suggestioni e ricchi di suggerimenti, siano essi mitici, storici, letterari, artistici, estetici che l’osservatore subisce a tal punto che si indebolisce in lui qualunque indipendenza critica (Andreotti, 1998). Osservare il paesaggio geografico significa studiarne l’esistenza, osservare un paesaggio culturale significa intuirne l’essenza; probabilmente, sta proprio in questa affermazione la differenza fra i 1

. Kroeber approfondì il concetto di cultura. Il saggio Il superorganico (1917) costituì la proclamazione di indipendenza anti-riduzionistica contro il predominio della spiegazione biologica dei fenomeni culturali.

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due paesaggi, poiché, la constatazione che un paesaggio sia uno spaccato di cultura realmente presente, la si ha quando si osserva quanto di naturale si manifesti nell’interazione tra il paesaggio e il trascorrere quotidiano (Andreotti, 2008). Recentemente, una revisione accademica degli sforzi combinati del Comitato per il Patrimonio dell'Umanità, dei vari specialisti nel mondo e delle nazioni per applicare il concetto di paesaggi culturali osservò e concluse che,

anche se il concetto di paesaggio è stato per qualche tempo sganciato dalle sue originali associazioni artistiche,... c'è ancora una visione dominante dei paesaggi come una superficie incisa, affine ad una mappa o a un testo, dalla quale possono essere letti in modo semplice il significato culturale e le forme sociali.

In ambiente accademico, qualsiasi sistema d'interazione tra l'attività umana e l'habitat naturale è considerato come un paesaggio

culturale

(“Operational

Guidelines

for

the

Implementation of the World Heritage Convention”, 2008, pp. 8486). In conclusione, si può affermare che, il paesaggio è un semplice aspetto geografico quando si propone a un osservatore distratto, però, diventa culturale non appena l’input che casomai racchiude viene capito dall’osservatore interessato. Quasi certamente, per riconoscere la soggettività di giudizio dall’oggettività di significato, sarebbe più appropriato definirlo paesaggio dell'intelletto, cioè, presente soltanto nella mente dell’osservatore.

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2. Le relazioni e i significati del paesaggio culturale

2.1 Interrelazioni uomo-paesaggio

Le relazioni tra popolazioni e ambiente sono forti ed esprimono un passato millenario durante il quale le popolazioni si sono incrementate e le culture hanno subito variazioni e spostamenti. Anche tra geografia e antropologia sono riscontrabili forti relazioni rispetto ad altre scienze. Così, Carl Ortwin Sauer riferendosi a una definizione dell’antropologia di Clark Wissler2 che poteva andar bene anche per la geografia, richiamò l’attenzione di geografi e antropologi (Andreotti, 2008):

“l’antropologo non tenta solo di mostrare cosa tutte le forme e forze della natura hanno fatto all’uomo, ma anche, con più enfasi, cosa l’uomo ha fatto alla natura.”

L’avvio di un crescente accorpamento delle due scienze in una più vasta scienza dell’uomo fu suggerita da Sauer (Andreotti, 2008):

“se i nostri studi sull’uomo e sul suo lavoro hanno largo successo

nella

sintesi,

una

graduale

fusione

dell’antropologia e della geografia potrebbe rappresentare la prima di una serie di fusioni in una più larga scienza dell’uomo.”

Gli antropologi, in realtà, si impegnarono a classificare e delimitare aree culturali. Classificazione e delimitazione sono il fondamentale impegno professionale per un esiguo numero di 2

. Wissler analizzò il rapporto che si crea con l'ambiente naturale, con le aree culturali limitrofe e con il cosiddetto modello culturale, che indica l'insieme strutturato dei meccanismi attraverso i quali avviene l'adattamento all’ambiente.

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antropologi. La delimitazione areale è stata messa in pratica in base al linguaggio, ai mezzi di sussistenza e ai vari elementi della cultura materiale. Perciò, il concetto antropologico di area culturale coincide con quello geografico di regione culturale, di fatto i problemi metodologici a cui devono far fronte gli antropologi sono gli stessi di quelli dei geografi regionali. Anche Claude Lévi- Strauss (Bruxelles, 28 novembre 1908 – Parigi, 30 ottobre 2009), antropologo, psicologo e filosofo francese, evidenziò le relazioni che collegano le due discipline e analizzò come l’antropologia miri a una comprensione generale dell’uomo comprendendo le culture in tutta la loro dimensione storica e geografica (Vallega, 2003). Valutando l’uomo in base alle sue produzioni la via culturale è quella che più accomuna le due scienze. I geografi fanno riferimento a Julian Huxley (Londra, 22 giugno 1887 – 14 febbraio 1975), biologo, genetista e scrittore britannico che nel ripartire la cultura individuò in essa tre parti integranti diversamente arricchitesi: prodotti mentali, che includono la religione, il linguaggio, le tradizioni, la magia, il folclore; prodotti sociali che considerano identiche le relazioni tra individui e gruppi e che contengono strutture familiari, comportamento sessuale e riproduttivo, allevamento della prole, ma anche, sistemi politici ed educativi; infine prodotti materiali, che riguardano le forme della tecnologia materiale che consentono di appagare i bisogni di cibo, ricovero e trasporto. Rientrano in questo settore la produzione agricola e i differenti modelli di impiego del suolo, gli abiti e gli utensili (Andreotti, 2008). Antropologia e geografia sono in collegamento per importanti sovrapposizioni nel contenuto e nei criteri, anche se, tra le due discipline esistono rilevanti discordanze; la sovrapposizione principale riguarda lo studio che tutte e due hanno a lungo rivolto alle relazioni tra l’uomo e l’ambiente, un tempo considerato solo come ambiente naturale, successivamente però valutato anche in termini sociali, invece, le discordanze riguardano il differente 11


rilievo dato a certi argomenti, in specifico il maggior interesse dato dai geografi all’ambiente e alle cause ambientali, alla delimitazione regionale e, negli ultimi tempi, al ragionamento spazialista, o meglio, all’atteggiamento spaziale. Larry Grossman agli inizi del XX secolo analizzò le analogie e le diversità di approccio alle relazioni uomo-ambiente e concluse come anche lo studio di Marwin W. Mikesell sia efficace nelle prospettive ambientali dei vari campi disciplinari. Mikesell ipotizzò che antropologia e geografia costituiscono un campo di studi interdisciplinare, data la basilarità del concetto di cultura per entrambe; e laddove, nei differenti studi vengono messi in luce i contrasti tra le due scienze non riconoscendone le affinità, lui si comportò in modo del tutto inverso e perciò ritenne incredibile che, sino al momento del suo studio, nessuno si fosse occupato di iniziare un’analisi precisa sul tema dei rapporti tra le due materie. Per Mikesell, l’idea di area culturale, è un presupposto tanto fondamentale nell’ analisi e nell’insegnamento antropologico, nella stessa misura che il concetto di regione lo è nello studio e nell’insegnamento geografico (Andreotti, 1998). In riferimento al paesaggio, bisogna dire quindi, che esso, è il risultato di un processo culturale che affonda nei secoli, e per questo motivo, è il risultato di una specificità nella quale gli uomini sono confluiti e le componenti si sono legate interagendo tra loro, esso si genera dal territorio e questo significa che il paesaggio rappresenta già il pensiero dell’uomo che si solleva non appena soddisfatti i bisogni più importanti. E’ ovvio che non esiste paesaggio senza uomo, il paesaggio come cosa in sé sarebbe una falsa immagine, quello esistito prima dell’uomo è più giusto definirlo

ambiente.

Da

questa

affermazione

nasce

una

considerazione che si definisce risoluta ed è quella che vede l’uomo come spaccatura del sistema ecologico; perché l’uomo trasforma il sistema in modo tale che esso, in qualsiasi maniera o in qualsiasi misura, cambi. Perciò, esso è l’ambiente realizzato e provato dall’uomo e in qualche modo esso rappresenta un ecosistema 12


spezzato, di fatto, non narra la natura perfetta, secondo il suo fluire, ma una natura imperfetta, ovverosia corretta, mutata. Se parliamo di paesaggio naturale facciamo riferimento a un ambiente fisico nel quale non sono intervenuti cambiamenti ad opera dell’uomo. In una certa maniera, il paesaggio è ciò in cui e intervenuto l’uomo e quello che l’uomo avverte, inoltre, l’ambiente della natura, dove l’uomo ha messo piede, diviene paesaggio come risultato di una trasgressione; in altre parole il paesaggio è un’ alterazione dell’ecosistema (Andreotti, 2008). Il paesaggio può essere considerato un rapporto d’attaccamento e di vantaggio tra l’uomo e il luogo; esso è un contratto, una relazione tra l’uomo e il luogo, una relazione che non ci sarebbe se mancasse uno dei due contraenti. Il rapporto uomo-luogo si riconosce nelle diverse definizioni di paesaggio, perchè esso si fonda nell’equilibrio tra le necessità dell’uomo e la stabilità di un ambiente o di un territorio tanto più favorevole ad esso, però, c’è da dire, che non si riesce a immaginare dove sia il rapporto armonioso tra l’uomo e i luoghi, ma al contrario, il rapporto tra l’uomo e i non-luoghi. In questo senso, accorre in sostegno, una teoria pronunciata dall’antropologo Marc Augé, la quale suppone l’esistenza dei non-luoghi, quando il progresso si proietta sul territorio, cancellando gli originari prodotti culturali (Andreotti, 1998) :

se un luogo può definirsi come identitario, relazionale e storico, uno spazio che non può definirsi né come identitario, né come relazionale, né come storico, definirà un non-luogo. L’ipotesi qui difesa è che l’ultramodernità è produttrice di non-luoghi, cioè di spazi che non sono essi stessi dei luoghi antropologici….

Fondamentalmente Augé vuole sostenere che il luogo, e in questo caso il paesaggio, esiste nel momento in cui si istituisce un rapporto fra l’uomo e l’ambiente. Non accogliere la tesi del paesaggio come 13


relazione tra uomo-luogo significa rispondere alla difficoltà di esprimere una definizione stessa del paesaggio, perciò, sorge il dubbio, che la difficoltà di definire il paesaggio sia data in particolare nel ritenerlo una realtà oggettiva, però, se così fosse, sarebbe chiaramente descrivibile. Per questo, la relazione, tra un singolare territorio e un singolare uomo, è talmente speciale che sarebbe difficile descriverla oggettivamente con una definizione scientifica, perché, quello che lega l’uomo al paesaggio è il sentimento della nostalgia, ossia, provare il desiderio del ritorno, sentire la mancanza di un luogo in cui si vorrebbe tornare; tuttavia, si può però dire, che il rapporto tra l’uomo e il luogo, e con esso la nostalgia, possono essere variabili, infatti non tutti i rapporti uomo-luogo sono caratterizzati dal sentimento della nostalgia, ma la maggior parte di così grandi rapporti si stabilisce anche tramite la conoscenza, cioè la cultura, con questo siamo in grado

di ritrovare i cosiddetti paesaggi

culturali; essi sono, tra i prodotti della cultura, il più vulnerabile aspetto del rapporto uomo-natura (Andreotti, 2008). Inizialmente, il paesaggio veniva analizzato considerando come base di partenza la natura ed esaminandola in rapporto alle condizioni

geologiche,

geomorfologiche,

climatologiche

e

idrografiche; in seguito, l’interesse si concentrò sulla presenza umana, che è stata valutata principalmente in termini di uso del suolo e di insediamenti, magari con qualche occasionale attenzione per gli scenari visivi ed estetici (Vallega, 2003). La rappresentazione convenzionale del paesaggio si basa sulla fisionomia materiale della realtà e arriva ad una comprensione oggettivistica

del

paesaggio,

principalmente

destinata

a

comprendere le forme del territorio, mentre la rappresentazione alternativa, pur non ignorando le forme, parte dal soggetto e fa del rapporto tra uomo e paesaggio il principio delle rappresentazioni. La comprensione oggettivistica del paesaggio non richiede che il paesaggio mostri forme di equilibrio tra uomo e natura e che sia guidato da un ordine, anzi assume un atteggiamento critico nei 14


riguardi di questa impostazione; invece, la rappresentazione alternativa fornisce il meglio di sé quando considera spazi con l’obiettivo di cogliere le conseguenze dei processi fisici insieme alle manifestazioni dell’esistenza umana. L’impostazione alternativa accoglie qualche accenno attinente alla bellezza del paesaggio e qualche valutazione sulla fisionomia estetica del territorio ma non vi è dubbio che il paesaggio sia principalmente assunto come una realtà esterna al soggetto che possiede peculiarità sicuramente identificabili, ma è anche, un insieme di elementi, naturali ed umani, tra loro in relazione (Andreotti, 1998). Rifacendoci al pensiero del filosofo tedesco Martin Heidegger, si potrebbe dire che, il paesaggio costituisce la rappresentazione dello spazio esistenziale dell’individuo in cui i luoghi, siano essi luoghi naturali, oppure realizzati dall’uomo, si rivestono di valori, ci presentano narrazioni e ci aprono finestre emotive per mezzo delle quali componiamo visioni del mondo, in realtà, non esiste ambiente naturale che, direttamente o indirettamente, non sia stato condizionato dall’uomo (Vallega, 2003). Vicino all’abbinamento paesaggio naturale-paesaggio culturale si accosta,

infatti,

antropogeografico.

la

coppia

Almeno,

paesaggio in

naturale-paesaggio

apparenza,

al

termine

antropogeografico si assegna un significato molto esteso, che dovrebbe comprendere ogni aspetto tratto dalla presenza umana, non scartate, perciò, tutte le manifestazioni culturali.

15


2.2 Dimensione simbolica e spirituale del paesaggio

Antonino Buttitta sostiene (Buttitta, 1979, pp. 38-40) :

“la cultura è il momento in cui il rapporto tra l’uomo e la natura si esprime e realizza un sistema di segni.”

Segni che nel tempo, oltrepassano la funzione materiale per cui sorsero e che agiscono con una valenza molto varia, anche simbolica e spirituale. La cultura è considerata come un insieme di simboli che assegnati a luoghi e a spazi istituiscono oggetto di ricerca geografica (Vallega, 2003). L’antropologo Edward Burnett Tylor introdusse il concetto di cultura come questione sociale, su cui, attualmente, si basa la teoria culturale. Ritenne che la cultura di una società fosse fondata soprattutto da fatti intellettuali, conoscenze, capacità immaginative, vale a dire da elementi che rientrano nell’ambito spirituale (Andreotti, 2008). Un altro antropologo, Leslie A. White, riferendosi all’uso di simboli, dichiarò ( Vallega, 2003) :

la categoria o ordine culturale di fenomeni è costituita da fatti che dipendono da una facoltà peculiare alla specie umana, cioè la capacità di usare simboli. Questi fatti sono le idee, le credenze, le lingue, gli utensili, le usanze, i sentimenti e le istituzioni che costituiscono la civiltà - o cultura, per usare il termine antropologico - di ogni popolo, al di là di ogni considerazione di tempo, luogo o grado di sviluppo.

Il comportamento umano si manifesta producendo simboli che sono principalmente il prodotto delle nostre reazioni nei riguardi dei contesti con cui entriamo in relazione; produzione, che 16


compare, come espressione intellettuale che esaminata nel contesto sociale di riferimento dà forma alla cultura. Sulla base di questo esempio gli antropologi sostengono che la specie umana sia esistita in un tempo precedente alla cultura e che si sia sviluppata mettendo in atto e affinando capacità di produzione simbolica. Fondata dalla lingua, dalle credenze, da codici di comportamento, la cultura è però divenuta una realtà a se stante, che si autodefinisce e si autoalimenta e che, inoltre, si trova nella società perché è stabilita da patrimoni di simboli e significati che si tramandano con le generazioni, le quali, raccolgono i simboli, li fanno conoscere e li modificano a causa di spinte che hanno origine dalla società stessa. Per questo motivo, quando la cultura è concepita come un insieme di simboli raccolti lungo un percorso storico da una comunità umana e tramandati da una generazione all’altra, diviene il contesto della vita in cui gli esseri umani realizzano significati (Andreotti, 2008). In conclusione, la cultura è un insieme integrato e condiviso di modelli di pensiero e azione, tramandati di generazione in generazione. Il simbolo è oggetto della scienza dei segni (semiotica), perché, in realtà, costituisce un segno che riveste valore simbolico, sia esso materiale o immaginario; quando è costituito da un oggetto materiale nasce già con una funzione simbolica, più esattamente, con una funzione di riconoscimento. Il riconoscere la cultura di una comunità dal patrimonio di simboli, realizzati nel corso della sua storia, dà modo di indagare la sua identità culturale, che è manifestata dalla diversità tra il suo patrimonio e i patrimoni di simboli di altri gruppi (Vallega, 2003). Per questo la geografia, tratteggia la cultura, come un insieme di simboli assegnati ai luoghi e agli spazi di vita di una distinta comunità umana; perciò, i luoghi e gli spazi di vita, costituiscono gli aspetti attorno alla quale ruota la rappresentazione geografica della cultura.

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Sostanzialmente il simbolo, vale, non tanto per quello che dice, ma per quello che lascia oscuro, indeterminato e vago. Solleva, in ogni momento, un problema di interpretazione; esso, è uno strumento creativo, nel senso che consente di mettere insieme ragione e immaginazione; questa sua particolarità, fa sì che, quando la cultura sia assunta come produzione e accumulo di simboli, crei una realtà imprecisa, piena di aree oscure nelle quali non si possono segnare vie sicure di comprensione, ma soltanto vie insicure e confuse, che non possiamo tracciare tramite metodi rigorosi; vie, che in ogni istante, attaccano le nostre capacità immaginative, incoraggiano a percepire collegamenti non visibili, danno forza al pensiero, collegando ragione ed emozione (Vallega, 2003). Ernst Cassirer considera la simbolica come un procedimento essenziale del pensiero perché ogni espressione spirituale poggia assolutamente sulla creazione di segni e di simboli. La sua struttura riflessiva, parte dall’assunto, che l’attuale cultura umana si sostiene su un’attività simbolica precedente, e che, la ricomposizione della storia umana, si componga quindi, in un susseguirsi di attività simboliche; bisogna, perciò individuare, i prodotti simbolici che la primitiva attività simbolica, cioè, quella originaria, ha prodotto. Così, determinando i prodotti simbolici, si ricostruiscono, attraverso la rappresentazione, i contenuti dei luoghi e degli spazi creati da comunità umane. Il simbolo, è dunque, un segno speciale, partendo dal quale si giunge a dei significati, più o meno precisi, che cambiano da comunità a comunità e mutano col trascorrere del tempo (Andreotti, 2008). Per la sua struttura di segno, con un significato che può essere oscuro, e per il fatto di essere uno strumento di ricognizione all’interno di una cultura, il simbolo, svolge una funzione specifica nei confronti di una realtà; quest’ultima, è vista come produzione di relazioni tra i componenti del territorio e l’uomo. Considerando il paesaggio, si può approvare che esso sia una realtà accettata e creata in modo spontaneo, pertanto, la sua rappresentazione approfondisce ed esalta la cognizione esatta del 18


mondo e porta al riconoscimento di valori, innanzitutto di significati spirituali, per mezzo dei quali si concretizza la nostra esistenza. Qualora il paesaggio sia valutato come un insieme di simboli, bisogna concentrare la riflessione sulla reazione emotiva che provoca nel soggetto e sulle rappresentazioni che il soggetto realizza. La funzione fondamentale dell’emozione consiste quindi nel farci capire, riconoscere e rappresentare i simboli da cui il paesaggio è caratterizzato e, con questo principio, nell’approdare al suo significato; compare, così, al centro della questione, la dimensione simbolica del paesaggio (Vallega, 2003). Attualmente,

è

maturato

nei

geografi,

l’interesse

per

la

rappresentazione del paesaggio in questa dimensione. Maria Clara Zerbi. ad esempio, mette in rilievo un argomento approvato più volentieri, secondo il quale (Zerbi, 1993),

tutti i paesaggi prodotti dall’uomo nei processi di appropriazione o di trasformazione dell’ambiente sono dei paesaggi simbolici. Il simbolismo sarà tanto più evidente quanto più intenso è stato l’esercizio dell’azione umana su di essi – come nelle città, nei giardini – anche se, entro specifiche culture, possono assumere un valore simbolico paesaggi disabitati e selvaggi.

Valutando il paesaggio, al modo di un manto simbolico della cultura steso sul territorio, la riflessione si concentra più sui luoghi, vale a dire sui singoli posti in cui si manifestano e nascono i simboli, invece che sui grandi spazi. Ora possiamo chiederci, se per concepire un paesaggio, sia essenziale che i simboli che caratterizzano i luoghi, contenuti in un distinto spazio, siano distribuiti in modo ordinato e siano legati tra loro da reciproche influenze. In questa direzione, è importante un’affermazione di Roger Brunet, secondo la quale, i simboli non si distribuiscono come un

19


insieme ordinato, dando origine, perciò, a un impedimento nella rappresentazione del paesaggio (Vallega, 2003). Al contrario, Christian Norberg-Schultz, afferma che, pur non formando un insieme ordinato, i simboli del luogo, possono in ogni caso, essere messi insieme dal soggetto, a tal punto da conquistare la veste di prodotto culturale. I simboli, riuniti per mezzo della rappresentazione che ne fa il soggetto, diventano in questo modo la finestra attraverso la quale si realizza una visione d’insieme della nostra realtà. In questo modo, il paesaggio rivela per intero la sua potenza generatrice di emozioni e, per mezzo di queste, diamo avvio alla comprensione del luogo di cui la nostra vita si sente parte (Norberg-Schultz, 2000). Secondo il geografo tedesco Herbert Lehmann (1878-1963), un insieme di simboli, da vita a una realizzazione estetica, rendendola totale nel paesaggio. La totalità estetica non è data da un insieme di forme, fisiche e umane, tra loro collegate, ma da un insieme di percezioni, immaginazioni, valori che danno vita a un’esperienza esistenziale a sfondo essenzialmente estetico riferita a un luogo o a uno spazio. Secondo Herbert Lehmann, difatti (Bonesio, 1997),

percepiamo inconsapevolmente una quantità di flussi e di impressioni - di cui solo in parte prendiamo coscienza – che rimangono nascoste nei diversi strati della nostra esperienza, senza connettersi in una unità registrata dalla coscienza. Quando invece appare il paesaggio, ci rendiamo conto, al di là dei singoli fenomeni, di una unità ad essi sovraordinata: prendiamo coscienza del paesaggio in quanto immagine dotata di valore, totalità significativa. Ciò che la costituisce è un atto creativo dello spirito.

Sicuramente è più semplice rappresentare il paesaggio come una realtà oggettiva, di quanto sia rappresentarlo come un insieme di simboli. Nel primo caso si tiene conto di oggetti, naturali e umani, e si cerca di sistemarli per rappresentarli in un insieme provvisto di 20


unione interna, mentre, nel secondo caso, è necessario rifarsi ai valori, ai significati profondi, a cui ci indirizzano i simboli. Secondo l’impostazione di Herbert Lehmann, ripresa da Giuliana Andreotti, l’insieme di simboli può essere concepito al modo di un aspetto visuale integrato (Andreotti, 1998).

Integrazione deve consistere nell’osservare il paesaggio, non con il distacco oggettivo, ma con la partecipazione di tutto il patrimonio culturale, tenendo ben presente che per accostarsi a quel paesaggio è necessario un atteggiamento storico e spirituale che riporti l’osservatore nel pathos temporale dal quale esso trasse origine e del quale tramanda le emozioni.

Ci si chiede, se vi sia un modo stimolante per manifestare questa “integrazione”, la cui natura è principalmente culturale e spirituale; “integrazione”

che,

afferriamo

nel

paesaggio

quando

ci

emozioniamo reagendo alla sua visione, e così facendo, ci avviamo verso rappresentazioni del territorio. Esiste una certa approvazione nel ritenere che questo modo possa essere ritrovato nel termine genius loci “genio del luogo”. Genius loci è termine nato dall’antichità romana, un ambito culturale in cui era certo che i singoli luoghi fossero difesi da uno spirito. Questa superstizione diede luogo a rappresentazioni cariche di sentimento e di spiritualità, prodotte ed esaltate dai più grandi poeti di quei tempi. Per questa ragione, il termine genius loci, si mostra adatto per pronunciare le particolarità e le personalità stesse del paesaggio (Norberg-Schultz, 2000).

Se ogni percezione del paesaggio è indiscutibilmente preformata da modelli culturali, da poetiche precise o anche solo da clichè non avvertiti come tali, è altrettanto vero che nell’interpretazione di ogni territorio data da una determinata comunità o cultura, che trasforma una terra in un paesaggio, si dà a vedere – purché se ne abbiano gli strumenti – la 21


sottolineatura di una specifica potenzialità formale dei luoghi che si traduce in espressività paesaggistica. In altre parole, il riconoscimento dello specifico, individuale, carattere di un luogo si attua in una segnatura, da parte della comunità che vi abita, accordata al suo genius loci. Il risultato di questa sofisticata interazione simbolica – non si tratta dunque di una armonia spontanea, paradisiaca, bensì comunque sempre di una relazione artificiale – fra natura e uomo si dà a vedere come paesaggio, espressività peculiare di un luogo, il suo stile inconfondibile e unitario portato a visibilità dalla persistenza, nell’incessante trasformazione, di determinati tratti formali che ne tramandano la riconoscibilità e l’identità.

Tuttavia, se comprendiamo il paesaggio come insieme di simboli che individuano i singoli luoghi e che rimandano a significati, non avremo bisogno di aggiungere l’aggettivo culturale al sostantivo paesaggio; questo, sarebbe recepito come un prodotto culturale di per sé, né vi potrebbe essere una maniera culturale per capire il paesaggio; sarebbe percepito come realtà nata dal fatto che aspetti naturali del territorio sono stati dominati dall’umanità, che assegna loro simboli, e così facendo, li spinge in una dimensione esistenziale e in un clima di spiritualità (Vallega, 2003). Il paesaggio è la rappresentazione del modo di proiettarsi del soggetto nella realtà; una rappresentazione che si compone in segni di forte prerogativa intellettuale e spirituale, i quali legano memoria e progetto, passato e futuro. Nel paesaggio culturale il soggetto ha la priorità sulla realtà esterna e i luoghi non sono apprezzati come realtà a sé, ma in termini di contenitori di simboli; simboli, che sono considerati come le manifestazioni culturali del paesaggio. La realtà non è più definita, ma compresa nel suo insieme, condizione che porta a rappresentazioni in cui i simboli non sono osservati come elementi collegati assolutamente da relazioni di causa ed effetto. 22


Così, il simbolo, diviene la fonte della rappresentazione e si accetta che il singolo simbolo possa far arrivare a più significati; questa rappresentazione non porta solo a significati carichi di senso, ma meglio, pone in evidenza le armonie che la cultura ha prodotto tra esistenza, natura, società, e ha mostrato per mezzo dei segni sul territorio. A questo, si deve aggiungere la condizione, secondo la quale, i luoghi, non più i grandi spazi, sono l’oggetto primo della rappresentazione e in essi si cerca l’identità e la personalità culturale (Vallega, 2003).

23


3. L’area di studio: Bosa – la fascia costiera dalla foce del fiume Temo a Capo Marrargiu

3.1 Caratteristiche geografiche, geologiche e geomorfologiche Bosa3 sorge sul fondovalle del fiume Temo, non lontano dal mare occidentale della Sardegna. E’ una città sovrastata dal Castello dei Malaspina sul colle Serravalle (fig.1), nei pressi del quale si accostano le case della cittadina medioevale che arrivano fino alla sponda del Temo, che con il suo corso serpeggiante percorre la città da est a ovest.

fig. 1. Panorama del Castello Malaspina sul colle Serravalle.

Bosa è ubicata sulla costa nord occidentale della Sardegna, in una zona, la Planargia, formata da piccoli paesi agricoli, di cui la città è il capoluogo. E’ una cittadina di mare, con molte spiagge, alcune raggiungibili solo in barca. La costa, ben conservata, regala a chi la visita, paesaggi naturali di esclusivo fascino. Nel territorio bosano è possibile identificare diversi tipi di paesaggio, per esempio,

il

paesaggio fluviale (fig. 2), rappresentato dalla presenza del fiume Temo, elemento di unione tra la costa e il centro abitato. Parte integrante del paesaggio fluviale è la coltivazione dell’olivo sui pendii collinari delle sponde del fiume.

3

. Comune della provincia di Oristano di 8126 abitanti.

24


fig. 2. Paesaggio fluviale: veduta di Bosa dal Castello Malaspina.

Questa è una particolarità paesaggistica nella quale alle vitali parti geografiche naturali si affiancano i piccoli spazi diversamente strutturati del luogo antropico della campagna. L’area, che tuttavia, sta alla base di questo lavoro, per un analisi del paesaggio, è la fascia costiera che dalla foce del Temo si estende fino a Capo Marrargiu, caratterizzata dai rilievi montani di origine vulcanica diversamente stratificati e articolati. Rientra nel Foglio al 50.000 n°497 dell’IGM (Istituto Geografico Militare) dell’ultima edizione della Carta Topografica d’Italia. Tutta la zona si caratterizza per un susseguirsi di promontori e cale suggestive. Proseguendo da sud verso nord la costa si presenta, oltre la foce del Temo, alta ed incisa, e a tratti, scandita da insenature profonde e ben protette; alcune di queste costituiscono luoghi di attracco, al riparo dai venti. L’accesso da terra non è sempre facile malgrado la vicinanza della strada Bosa-Alghero. Il tratto di costa in prossimità di Capo Marrargiu (fig.3) ha un andamento in forte pendenza, con tanti strapiombi alla cui base si aprono meravigliose grotte naturali. A monte del tratto di costa il paesaggio è predominato dalla presenza di macchia mediterranea, caratterizzata da vegetazione arbustiva e povera di elementi arborei.

25


fig. 3. Panorama del litorale di Bosa col promontorio di Capo Marrargiu.

Dal

punto

di

vista

geologico

l’area

è

caratterizzata

prevalentemente dalle vulcaniti oligo-mioceniche, che emergono dal confine occidentale della depressione tettonica del Logudoro, sino al tratto di costiero compreso tra Capo Marrargiu e Alghero. Margini di sedimenti miocenici, appartenenti all’esteso bacino sedimentario terziario della Sardegna occidentale, emergono ad est del fiume Temo, gravitanti direttamente sulle vulcaniti oligomioceniche stesse. Le effusioni basaltiche plio-pleistoceniche si appoggiano, invece, sia in aderenza con i sedimenti terziari che direttamente sulle vulcaniti più remote. In riepilogo la successione stratigrafica esempio, per la zona in questione, può essere riassunta come segue, dalle formazioni più remote alle più vicine (Panizza e Cannillo, 1994): -

vulcaniti oligo-mioceniche

-

sedimenti marini e continentali del Miocene

-

vulcaniti plio-quaternarie

-

depositi continentali e marini del Quaternario. L’entroterra lungo il tratto costiero tra Bosa e Alghero è

interessato da forme tabulari a gradinata, attraversate da brevi e scoscesi corsi d’acqua, che tratteggiano nel complesso un paesaggio molto affascinante. Le piattaforme di abrasione marina 26


hanno superficie più o meno grande, alcune ancora attive, dove il materiale prodotto dal processo di arretramento della falesia è ancora in fase di asportazione da parte dell’ azione del mare. Come, invece, si può osservare presso le località di Tentizzos e s’Abba Druche, emerge la piattaforma di abrasione versiliana, in parte posta a qualche metro sopra l’attuale livello del mare e in parte compresa nella fascia intertidale attiva (Panizza e Cannillo, 1994). Molteplici insenature che spesso contengono spiagge di testata di baia, concorrono ad aggiungere all’area un importante valore paesaggistico, nonostante si tratti di forme di interesse locale. Un’apprezzata piccola insenatura a forma di trapezio, situata allo sbocco di una scoscesa valle, attraversata da un modesto corso d’acqua, a regime prettamente stagionale è la baia chiamata Compultitu (fig.4). Le pareti circostanti questa insenatura sono ripide e interessate da ampie cavità, da queste sono franati blocchi, anche di grosse dimensioni, depositati al confine interno della spiaggia emersa. Sui lati della baia sono presenti piattaforme di abrasione marina.

fig. 4. Veduta dall’alto dell’insenatura di Compultitu.

Un sito di particolare interesse è la già citata costa di s’Abba Druche, ove concorrono molteplici tipologie genetiche (costiera, 27


fluviale,

eolica)

e

che

consente

interessanti

ricostruzioni

paleogeografiche. La successione sedimentaria è contemporanea a un’imponente attività vulcanica rappresentata da una varietà di prodotti effusivi ed esplosivi con composizione da basalticoandesitica a riolitica (Carmignani et al., 2001). Questo potente complesso vulcano-sedimentario è in parte associato a una importante tettonica trascorrente responsabile delle più evidenti strutture terziarie della Sardegna. Infatti, il vulcanismo oligomiocenico sardo rappresenta uno degli eventi geologici terziari più importanti del mediterraneo occidentale. L’importanza di questo ciclo vulcanico è testimoniata dalla grande estensione degli affioramenti e dai cospicui spessori delle successioni vulcaniche che raggiungono parecchie centinaia di metri. In Planargia la stratigrafia vulcanica è difficile da ricostruire a causa delle numerose interdigitazioni tra i flussi lavici andesitici e quelli piroclastici e per la mancanza di livelli marini databili paleontologicamente. Sulla base delle datazioni radiometriche, dei rapporti stratigrafici e dei caratteri vulcanologico-petrografici, la successione vulcanica risulta composta da flussi lavici e domi andesitici, che si intercalano con depositi piroclastici pomiceocineritici sia poco saldati che saldati (Carmignani et al., 2001). La zona del promontorio di Capo Marrargiu si differenzia per un territorio aspro e selvaggio, costituito da un sistema collinare spesso impervio, che si alterna a campi e ad ampi avvallamenti e si affaccia sul mare con falesie più o meno verticali caratterizzate da scenari eccezionali, tra piccole insenature e baie dall’acqua limpida. La natura incontaminata è il vero patrimonio di questo straordinario paesaggio. Il territorio, geologicamente riconoscibile da un importante complesso di colate laviche di età terziaria, è in parte composto da rocce acide: lipariti, daciti e trachiti oltre che da trachi-andesiti e andesiti. In specifico le andesiti spiccano per il fatto di essere una eccezionalità geologica sull’intero perimetro costiero della Sardegna. I litotipi del Marrargiu costituiscono notevole interesse mineralogico, data la presenza di vari minerali 28


metallici, in particolare ferro, manganese, galena, calcopirite, pirite e minerale di rame. Le rocce mineralizzate sono ben visibili lungo la zona costiera, e si presentano sotto forma di vene e piccoli filoncelli (Piras, 2010). Una delle particolarità geomorfologiche di questa regione, è la presenza di alcune cavità marine: la forza meccanica delle onde, in corrispondenza di fratture, ha causato crolli e allargamenti della roccia. Alcune presentano dimensioni di rilievo con estensione d’alcune decine di metri. All’interno delle fratture si ritrovano depositi di metallo (pirite e calcopirite). In realtà la forza del mare ha smantellato grandi porzioni di minerale. In immersione, lungo il fondale all’interno di questi antri, sono visibili incassamenti di vene mineralizzate, a volte sotto forma di cristalli metallici contenenti tracce di oro (Piras, 2010). L’area del bosano costituisce una delle aree più rappresentative del paesaggio vulcanico oligo-miocenico. Il vulcanesimo nella zona di Bosa è stato calcolato in circa 2000 m di spessore e ciò rende chiara l’imponenza di questa attività. I termini lavici sono costituiti, come già detto, prevalentemente da andesiti e riodaciti che determinano un paesaggio collinare con rilievi a forma di cupola, questi affiorano estesamente nell’area di Capo Marrargiu. L’azione selettiva dell’erosione produce vistosi effetti dove la tettonica PlioPleistocenica ha dislocato questi complessi portandoli talvolta a quote elevate, per questo, il paesaggio che ne deriva è ricco di rilievi tabulari i cui versanti risultano interrotti da imponenti rotture del pendio che formano gradoni e scarpate dove affiorano i livelli più resistenti nella successione degli episodi vulcanici (Ginesu, 1999). La fascia costiera compresa tra la città di Bosa e quella di Alghero mostra un tipico esempio di questo modello, i versanti a mare dei rilievi degradano rapidamente mostrando i banchi ignimbritici e tufacei con potenti scarpate fino al livello del mare. L’intero complesso di questi affioramenti, in esposizione per circa 700 m dal livello del mare, appartiene ad un edificio vulcanico di proporzioni assai più vaste e la cui continuità và ricercata sotto il 29


livello del mare attuale, lungo la piattaforma continentale dell’isola o perduta nei fondali del Mar di Sardegna durante la deriva dell’isola verso oriente. Quello stesso movimento che ha generato queste intense attività vulcaniche è stato anche responsabile della loro parziale o totale scomparsa. Le forme che accompagnano più frequentemente tali affioramenti sono comunque quelle tabulari e sub pianeggianti, entrambe dettate dalla presenza di orizzonti tufacei ed ignimbritici che, per la loro più elevata resistenza all’erosione, finiscono per costituire piccoli altipiani o paesaggi dai pendii debolmente inclinati e dai versanti gradonati che geomorfologicamente prendono il nome di “paesaggi a cuestas”4 (Ginesu, 1999). Tra le forme più tipiche del paesaggio vulcanico si possono ricordare anche i centri di emissione, o necks, oramai isolati ed emergenti nel paesaggio come quelli del complesso del monte Rocca Pischinale (fig. 5) che domina la città di Bosa, di età oligomiocenica.

fig. 5. Veduta monte Rocca Pischinale dal Castello Malaspina.

4

. Il paesaggio a cuestas è determinato da fattori strutturali legati alla natura e giacitura delle formazioni rocciose. L’erosione agisce in maniera selettiva asportando maggiormente i livelli meno resistenti. Col tempo questo processo dà origine a profonde nicchie d’erosione in corrispondenza del livello tenero e gradoni corrispondenti alle testate più dure.

30


Il tratto di costa tra Bosa e Alghero rimarca queste litologie e queste forme, esasperando le quote e la spettacolarità delle falesie, seguendo il versante gradonato con un paesaggio a cuestas sul mare. La sequenza delle bancate tufaceo cineritiche presenti lungo questo tratto di costa è riconducibile all’imponente attività vulcanica che ha caratterizzato la Planargia durante le fasi di distacco della Sardegna dal continente europeo e la formazione del rift. Nell’area di studio rimangono a testimonianza di ciò le lave andesitiche, le ignimbriti e i tufi che affiorano sia sulla costa che verso l’interno con i lembi oramai dispersi sulla piattaforma continentale dell’isola e oggi sommersi dal livello del mare.

3.2 Storia delle origini di Bosa e del suo territorio

L’origine della fondazione di Bosa è dimostrata da un’iscrizione fenicia del IX secolo a.C., ma le conoscenze più numerose risalgono all’età romana quando la Bosa Vetus sorgeva in prossimità della presente chiesa di San Pietro, interessante dimostrazione di architettura romanica, elevata nel 1602, sempre lungo il corso del fiume, ma più a monte rispetto all’attuale posizione (fig. 6).

fig. 6. Zona San Pietro-Messerchimbe dove sorgeva la Bosa Vetus.

31


L’odierna Città, invece, andò formandosi dopo l’edificazione, nel 1112, del Castello Malaspina, fatto costruire dal marchese Alberto Malaspina che si insediò sul colle Serravalle; fortificazione militare ancora oggi visibile (fig. 7), da cui si gode un’affascinante panorama sulla vallata e al cui interno si trova la piccola chiesetta di Regnos Altos, con splendidi affreschi di scuola Toscana. Sul colle Serravalle si sviluppò il centro medioevale, oggi noto come quartiere Sa Costa, caratterizzato da una rete di vicoli, portici e slarghi.

fig. 7. Fortificazione del Castello Malaspina.

Un manoscritto spagnolo dell’inizio del Settecento, conservato alla Biblioteca Universitaria di Cagliari, intitolato Relacion de la antigua ciudad de Calmedia y varias antiquedades del mundo, racconta miticamente le origini della città, dichiarandola fondata dalla moglie (Calmedia) dell’eroe libico Sardus pater, uno tra i primi colonizzatori dell’isola. Calmedia, arrivata nella valle del Temo, avrebbe fondato sulla sponda sinistra del fiume una colonia di africani, che da lei avrebbe preso il nome e che si sarebbe ben presto estesa, divenendo ricca e popolosa soprattutto in epoca fenicio-punica e romana (Mastino, 2003).

32


Il geografo egiziano Tolomeo, vissuto in età antonina, pone la città di Bosa inventariata tra le città interne della Sardegna sullo stesso parallelo dell’Hermaion acron (Mercuri promunturium, il capo di Mercurio)5, l’odierno Capo Marrargiu e di Macopsissa (Macomer), appena più a Sud di Gurulis vetus; leggermente più a Nord dei Mainomena ore (i Montes Insani), di Gurulis nova e di Cornus (Santa Caterina di Pittinuri) (Mastino, 2003). Il toponimo Bosa, di origine pre-indoeuropea e di significato incerto, è documentato già in un’iscrizione fenicia, incisa nel IXVIII secolo a.C. su un blocco di arenaria ritrovato in Bosa Vetus; essa è stata paragonata per la forma dei caratteri con la più conosciuta epigrafe di Nora. Le altre testimonianze antiche sono principalmente rappresentate da Tolomeo, che nel II secolo d.C. indica una Bosa tra le poleis mesogheioi, dunque tra le città interne della Sardegna; dall’ Itinerario Antoniniano che nell’età dei Severi conosce Bosa lungo la strada costiera occidentale della Sardegna, tra Cornus e Carbia; alla fine dall’Anonimo Ravennate e da Guidone (Mastino, 2003). La posizione della colonia fenicio-punica è di difficile identificazione per quanto si possa pensare alla località San PietroMesserchimbe ed al posto di Sa Idda Ezza (la città vecchia), ai bordi del monte Nieddu (nero), sulla sponda sinistra del Temo, specie grazie ai tanti ritrovamenti di monete sardo-puniche e di altri prodotti. Il nucleo romano, invece, venne fondato sulle due sponde del Temo, più a monte della città attuale, lungo l’asse segnato dall’ itinerario costiero occidentale che collegava Sulci (e da qui Karales) con Tibula (Castelsardo), detto Itinerario Antoniniano, che nel III secolo a.C. ricordava le tappe contigue Cornus (Santa Caterina di Pittinuri), probabilmente colonia romana, collocata a 18 miglia a Sud di Bosa, e Carbia (presso Alghero) a 25 miglia a Nord (Mastino, 2003).

5

. Promontorio dedicato al Dio Mercurio protettore dei naviganti: doveva esserci un sacello allestito dai fenici allo scopo di fornire una protezione divina a tutti quei naviganti che si ponevano a ridosso del capo per scampare alle frequenti tempeste marine della costa occidentale sarda (Piras, 2007, pag. 17).

33


In Planargia, esistono attestazioni di età fenicio-punica, ma non paiono documentare la presenza di centri abitati di grande importanza. Il territorio di Bosa, alla foce del Temo,

ben si

prestava all’ubicazione di un approdo costiero fenicio, innanzitutto considerando l’originaria conformazione della costa, adesso decisamente mutata dagli apporti alluvionali del fiume. Per di più, lo

scalo

del

Temo

riparato

dall’Isola

Rossa

rispondeva

completamente alle esigenze di un nucleo costiero fenicio (Moravetti, 2000). A testimoniare una probabile presenza fenicia nel territorio esisteva solamente una nota epigrafe rinvenuta nella seconda metà dell’Ottocento ed ora purtroppo perduta, che riportava le lettere bs’n interpretata come prima testimonianza del toponimo Bosa, o meglio del “popolo dei bosani”. Sono pochi i segni della più antica frequentazione fenicia del territorio, mentre sono certamente più considerevoli le testimonianze per la posteriore età punica, a partire dalla fine del VI sec. a.C. Un altro frammento di iscrizione, ora smarrito, proveniva dalle rovine di un tempio fenicio, nella zona dove sorgeva la Bosa Vetus, questa però, è una notizia ancora difficilmente riscontrabile. Tuttavia, è possibile che l’area del ritrovamento del frammento potesse essere quella di San Pietro-Messerchimbe, in prossimità della chiesa omonima, che nel XIX secolo, proprio a seguito dei molti rinvenimenti di antichità puniche e romane, era abitualmente ritenuta l’area dell’antica città di Bosa del II secolo d.C. Questa di San Pietro, è probabile che sia l’area cimiteriale dell’antico nucleo fenicio-punico di Bosa, l’abitato doveva ubicarsi, invece, sulla riva opposta, in località Terridi, mentre alcuni lo collocano sul colle dove sorge il Castello dei Malaspina (Moravetti, 2000). Bosa in età romana continuerebbe a conservare il toponimo di origine fenicia testimoniato dalla dibattuta iscrizione bs’n. Inoltre delle testimonianze epigrafiche sembrerebbero testimoniare la condizione di municipium della città, probabilmente già dalla seconda metà del I sec. d.C. Un apprezzabile nucleo di origine nuragica, ma che conobbe un importante sviluppo in epoca romana, 34


sulla costa Nord di Bosa, è quello di s’Abba Druche (fig. 8); esso è situato nell’area, dove già era presente un nuraghe complesso con villaggio e relativa area funeraria e di culto che si sviluppò, a partire dalla fine del III sec. a.C., uno stanziamento agricolo con necropoli ad inumazione. Una specie di azienda agricola che nel corso dei secoli assunse le caratteristiche di un importante centro di lavorazione per la concia delle pelli: una precoce anticipazione, molto probabilmente, di quella che costituirà la principale attività di Bosa dal medioevo fino al secolo scorso (Moravetti, 2000).

fig. 8. Zona di s’Abba Druche.

In questa direzione un importante testimonianza, come già detto, di attività produttiva, in località s’Abba Druche, forse legata alla concia delle pelli (le vasche), è stata indagata da Maria Chiara Satta (Satta, 1992) e successivamente riproposta da Alberto Moravetti (Moravetti, 2000). La storia di questo territorio si muove lungo una strada che da Turris Libisonis (Porto Torres) portava ad Othoca (Oristano), l’antica via romana, che probabilmente già dal periodo nuragico si percorreva per arrivare ai villaggi della costa occidentale. Questa via continuava il suo tracciato sul pendio di Villanova Monteleone, tagliando gli altipiani che scendevano fino alle scoscese coste che 35


plasmano il Marrargiu, il già citato Hermanion Acron, per arrivare fino ai colli di Gurulis Vetus (Padria), e poi dentro la gola rocciosa del Temo, e ancora più a valle fino a Bosa Vetus, il cui significato stava per “bocca”, in attestazione alla “bocca del fiume” (Piras, 2010). La stessa strada romana aveva diramazioni anche lungo la costa, dell’attuale località di s’Abba Druche e Tentizzos (fig. 9). L’antico tracciato abbandonato nel tempo, collegava i villaggi della costa occidentale; gli insediamenti avevano in comune, oltre la strada, le risorse minerarie (tenaci metalli e dure pietre), che mai sono state prese in considerazione nel contesto storico del territorio, per poter attribuire loro quel significativo rapporto che si aveva con il sistema sociale dell’antichità (Piras, 2010).

fig. 9. Zona di Tentizzos.

I terreni, come già detto, nel precedente paragrafo, sono vari e di diversa origine, in prevalenza vulcanici, ma anche sedimentari, indubbiamente di rilevante importanza geologica. Si tratta di: trachiti, andesiti, basalti, calcari e arenarie; tutti materiali, soprattutto la trachite, che generalmente ritroviamo utilizzati nell’edificazione di diversi monumenti. L’importanza delle risorse petrografiche e mineralogiche dell’area è attestata dal loro sfruttamento che risale ad epoche molto antiche. 36


Anche per quest’area come per il Sulcis-Iglesiente, gli archeologi hanno attestato una qualche relazione tra presenza di risorse minerarie e insediamenti (Piras, 2010). Un analisi recentissima della zona, che mette anche in luce ipotesi differenti rispetto a quelle di Maria Chiara Satta e Alberto Moravetti, è stata svolta da Vincenzo Piras, di questa se ne parlerà più nello specifico nel prossimo capitolo. Sempre lungo la fascia costiera, a settentrione di Bosa, presso Tentizzos, è nota la necropoli costituita dalle numerose domus de janas (case delle fate); esse, scavate nelle rocce, sono identificabili sia a valle che a monte della provinciale per Alghero. Queste cavità sono costituite da diversi ambienti e sono state scavate a scopo di sepoltura in età pre-nuragica e poi spesso riutilizzate anche successivamente (Piras, 2010). Nell’insieme, alcune risultano distrutte a causa dell’incontrollato avanzamento di un recente fronte di cava per il taglio delle pietre, che era attivo poco a settentrione di Sa Domo Rutta (fig. 10).

fig. 10. Sa Domo Rutta.

Si rintracciano tombe, anche, sul colle di Coronalzos, luogo in cui, quasi certamente, vi era un altro punto di difesa in considerazione delle numerose schegge d’ossidiana che si 37


rinvengono sul percorso. Queste sono poco distanti da dove è stato rilevato l’ importante insediamento di epoca nuragica e poi riutilizzato in età romana; questo si affacciava verso il mare e i ridossi di Torre Argentina (fig. 11) e Compultittu, risultando protetto da una robusta cerchia muraria molto estesa e stabilmente piantata nel terreno (Piras, 2010). Le ricognizioni e gli studi svolti hanno permesso di stabilire tutta una serie di evoluzioni antropiche: l’area archeologica è stata identificata lungo l’asse della provinciale Bosa-Alghero, che in parte si sviluppa parallela all’antico tracciato romano, ancora visibile per alcune decine di metri.

fig. 11. Località Torre Argentina.

Per ciò che concerne la regione del Marrargiu (fig. 12), l’analisi dei

manufatti

risulta

ugualmente

affascinante.

La

zona,

comprendente anche i rilievi circostanti, costituisce uno dei territori tra i più ricchi di concentrazione metallifere, anche di genere pregiato, perché, la presenza di recenti scavi minerari lascia supporre precedenti attività di estrazione con la possibilità che gli scavi recenti siano stati iniziati sovrapponendosi ai precedenti lavori di estrazione. Simile conclusione scaturisce da un’ analisi

38


relativa alla presenza della civiltà nuragica a settentrione della stessa regione del Marrargiu (Piras, 2010).

fig. 12. Rilievi in prossimità di Capo Marrargiu.

In sintesi, in quest’ultima zona, rapportando più di ogni altra cosa l’estensione del territorio e delle risorse rispetto ad altre zone di pari valenza, risultano povere le testimonianze di uomini e civiltà succedutesi nel tempo. Infatti, si rileva una modesta presenza di antichi insediamenti e la totale mancanza di torri nuragiche, anche lungo la linea di costa, pur ricca di favorevoli approdi, come Managu e Cala Benalzu. Un possibile, se pur piccolo centro abitativo, poteva esistere nei pressi di Monte Ladu, in alto rispetto al favorevole approdo di Managu; in questo probabile nucleo abitativo, oltre a resti di modesti manufatti, coperti dalla vegetazione, si rilevano elementi che potrebbero essere noti come segni e aspetti di antropizzazione (Piras, 2010).

39


4. I siti più importanti del tratto costiero dalla foce del fiume Temo a Capo Marrargiu

4.1 Ritrovamenti a s’Abba Druche

Lungo la costa settentrionale di Bosa vi è la località di s’Abba Druche, un insenatura compresa fra la linea di costa e la provinciale Bosa-Alghero, nell’area sono presenti testimonianze di età nuragica, punica e romana (fig. 13): un nuraghe complesso con relativo villaggio, tomba di giganti e pozzo, un nucleo abitativo e un impianto produttivo (le vasche) di età romana con relativa necropoli (fig. 14).

fig. 13. Resti del villaggio di s’Abba Druche.

Un nuraghe complesso è stato individuato sulla collina che domina il corso del Rio s’Abba Druche e la fascia costiera. Purtroppo, il monumento è stato demolito per utilizzare le sue pietre nella costruzione della struttura di età romana che insiste sulle sue rovine: emerge appena il profilo di base del nuraghe e intorno numerosi resti pertinenti alle capanne del villaggio (Moravetti, 2000). 40


In qualche tratto la nuova struttura romana fu impiantata sui muri residui nuragici e si risparmiarono alcuni filari di base del nuraghe. Nell’ambito delle ricerche nell’area di s’Abba Druche, in un terreno oltre la provinciale Bosa-Alghero, è stata individuata una tomba di giganti della quale si conservano il corridoio funerario e il corpo tombale. Intorno al monumento resti di altre strutture coperte da un enorme crollo e per questo non valutabili (Moravetti, 2000). Poco distante dall’area indagata, ai margini del recente tracciato stradale per la spiaggia di s’Abba Druche, si nota anche la presenza di uno “strano pozzo nuragico” dalle geometrie atipiche, che meriterebbe uno studio più approfondito. L’interno del pozzo risulta colmo di pietrame e questo non consente di valutare la presenza della scala, della quale, tuttavia, sembra intravedersi il primo gradino. L’opera muraria interna dell’edificio è costituita da blocchi di calcare rifiniti con cura, di varie dimensioni e disposti in struttura isodoma: la muratura esterna, ove ancora visibile, è data da lastroni rettangolare disposti in verticale. Questi nuovi elementi, di cui ancora non si capisce la funzione, non rientrano nei canoni architettonici dei pozzi sacri finora conosciuti, e sembrano, anche dal punto di vista strutturale, elementi aggiunti in un secondo tempo (Moravetti, 2000). In seguito ad un casuale ritrovamento di alcuni resti scheletrici, fu riscoperto l’insediamento rurale di questo sito e, finalmente, venne data considerazione alle cosiddette vasche presenti nella zona. La natura dei manufatti non è stata, però, definita con certezza. Nella primavera del 1985, a seguito del ritrovamento fortuito di alcuni resti scheletrici, come già detto, la Soprintendenza Archeologica per le Province di Sassari e Nuoro effettuò uno scavo d’emergenza nella località di s’Abba Druche, in un insenatura naturale a circa 4 km da Bosa, sulla strada litoranea per Alghero. La zona, compresa tra la battigia e la strada, è costituita da rocce vulcaniche modellate da fenomeni erosivi in piccoli rilievi, interrotte da deboli incisioni torrentizie (Rio s’Abba Druche), che rendono la morfologia della zona ondulata (Satta, 1992). 41


fig. 14. Vasche in prossimità del Rio s’Abba Druche.

Su questo paesaggio nella parte più prossima al mare si appoggiano depositi eolici di una certa potenza, costituenti un limitato campo di dune. Maria Chiara Satta descrive, che nel corso dell’intervento, circoscritto al solo sito interessato dalle sepolture, si eseguì un’attenta ricognizione di superficie di tutta la zona, che permise di individuare numerose strutture, alcune appena emergenti, di età nuragica e romana, per un’area di notevole estensione, oltre 4000 mq. I materiali ceramici provenienti dalla raccolta sul terreno forniscono indicazioni cronologiche assai ampie: confermano la presenza e la frequentazione del luogo continuativamente dall’epoca preistorica sino all’età romana tardo imperiale, testimoniando almeno tre distinte fasi di vita (Satta, 1992). Nella primavera del 1991 un’ulteriore indagine di superficie ha permesso di verificare nel sito rilevanti evidenze archeologiche riferibili ad un vero e proprio insediamento abitativo, ed anche ad un impianto produttivo, sfruttato assai a lungo e sicuramente attivo anche in età romana (Satta, 1992). Allo stato attuale delle conoscenze non è possibile proporre con precisione una periodizzazione storica che definisca la cronologia relativa delle singole fasi: si è osservato anche un parziale riutilizzo 42


in età romana dei resti nuragici. Il centro individuato riveste quindi un notevole interesse essendo ubicato in un punto nel quale concorrono diversi aspetti particolari: oltre alla vicinanza con la strada, che lo collegava con l’importante polo urbano, anche la caratteristica del tutto particolare di insediamento produttivo. Può quindi essere inteso come esempio di un nucleo, seppure di relativa entità, inquadrabile come vicus pagus, insediamento a destinazione rustica, dipendente da un più importante centro urbano (Satta, 1992). Nel maggio del 1985 per recuperare le sepolture individuate casualmente da un pescatore, a circa 20 m dalla linea di costa attuale, si rese necessario eseguire un saggio di scavo abbastanza ampio. Venne rimossa un’enorme duna sabbiosa che obliterava quasi totalmente tre inumati, tutti orientati a nord. Probabilmente per il movimento della sabbia, che provocò un parziale slittamento dei resti scheletrici, solo una sepoltura si è conservata completa. La sepoltura è da collocarsi in età tardo repubblicana, tra la metà e la fine del I sec. a.C. Malgrado l’estrema scarsità dei dati di scavo, si può presumere nel luogo l’esistenza di una necropoli, anche piccola, obliterata forse dalla macchia mediterranea e dalle enormi dune di sabbia. Le tombe dovevano essere connesse con il centro abitato poco distante (Satta, 1992). Nella zona più elevata del terreno, ad una quota di circa 40 m. s. l. m., su un rilievo artificiale in prossimità di una casa colonica, si sono osservate appena emergenti, le strutture di base di un nuraghe complesso, ed intorno numerose murature circolari pertinenti alle capanne del villaggio. All’interno del villaggio, in un’area depressa, circoscritta,

è stata esaminata una struttura circolare

forse pertinente ad un pozzo. Ad ovest nel costone roccioso, oltre il fiume, è stato individuato un pozzo di modeste dimensioni, in cattivo stato di conservazione. Ad epoca romana sono da ascriversi, oltre le sepolture, numerosi resti murari. Costituiscono una serie di ambienti a modulo rettangolare, tipici di un insediamento abitativo, forse una villa rustica od anche un vicus (Satta,1992). 43


Un particolare interesse per la valutazione dell’intero complesso, sia in età romana che preromana, presenta una vasta zona lavorativa, incentrata principalmente su tre strutture costituite da vasche rettangolari con gli angoli arrotondati, accuratamente scavate, a breve intervallo l’una dall’altra, in una superficie ondulata di tufi andesitici affioranti in prossimità del corso finale del rio s’Abba Druche. Ciascun impianto è formato da due vasche di diverse dimensioni, disposte in pendenza, adiacenti lungo l’asse longitudinale e collegate fra loro da un foro pervio a sezione circolare. Intorno ad ogni struttura, che mostra un’ottima tenuta stagna, corre su tre lati, una larga cabaletta a sezione semicircolare, atta a convogliare verso il fiume le acque piovane o di risulta. La presenza di numerosi fori, presumibilmente per pali, praticati intorno alle canalizzazioni, a distanza sempre regolare, induce a pensare che una tettoia o una sorta di copertura, riparasse le vasche dagli agenti atmosferici. Tuttavia l’area lavorativa doveva essere assai estesa e complessa. Infatti sulla sommità del rilievo sono presenti, oltre a canalizzazioni di scolo a sezione rettangolare, diversi fori, alcuni passanti, altri simili ai precedenti (Satta, 1992). Tutto il vasto impianto produttivo doveva essere delimitato e protetto sul lato del mare da una lunghissima struttura muraria individuata ad ovest, che seguendo la morfologia del terreno s’impostava sulla roccia affiorante, per buon tratto integrandosi con questa. Poiché la muratura mostra numerose integrazioni con embrici e mattoni romani appare più che giustificato credere che il settore produttivo, utilizzato in epoca nuragica, abbia continuato a funzionare anche in età romana (Satta, 1992). Secondo la Satta, le vasche comunicanti, scavate nella roccia, furono probabilmente realizzate per la spremitura di olii vari o di vini. La presenza di questo tipo di vasche è largamente attestata in Sardegna ed anche nel territorio di Bosa. Per Maria Chiara Satta, tuttavia, la vicinanza con il fiume e con il mare, l’ubicazione dei manufatti in un luogo di abbondante macchia

mediterranea

(e

più

specificatamente

di

mirto), 44


l’estensione e la complessità dell’area lavorativa, che sembra indicare una differenziazione di fasi produttive, le peculiarità strutturali delle vasche, permettono di formulare un’ipotesi diversa sull’uso specifico di questi manufatti: secondo loro venivano utilizzati forse per la concia delle pelli (Satta,1992; Moravetti, 2000). Finora non sono stati identificati impianti atti alla concia, e quindi non è possibile definire esattamente né i procedimenti in uso, né le eventuali strutture utilizzate a tale scopo. Non si hanno comunque notizie di strutture simili osservate in altre zone della Sardegna o della penisola. Presumibilmente, dopo una preparazione preliminare, si adottava la concia in salamoia, o la concia vegetale a base di tannino (Satta, 1992). I metodi di conservazione conosciuti erano basati principalmente sull’essiccamento, che avveniva a mezzo del sole e del vento combinando con la salatura. In seguito si ha anche notizia dell’utilizzo (continuato anche in epoca recente in Sardegna) del mirto nella concia delle pelli. L’ipotesi di impianto per la lavorazione delle pelli, che sembra attualmente essere la più probabile, non ha per il momento il conforto di testimoniante probanti. Tuttavia le strutture sembrano idonee anche da un punto di vista tecnico a diversi bagni conciati più o meno diluiti con acqua, al lavaggio in acqua dolce, alla salatura ed all’essiccatura. Dopo un primo seccaggio, seguiva forse l’impilatura, la lisciatura e la stesura per il seccaggio all’aria, al riparo dal sole. Anche i Romani erano grandi produttori e compratori di cuoio (Satta, 1992). E’ noto che tra le corporazioni vi erano quelle dei conciatori, dei fabbricanti di cinghie, dei finimenti, di scudi e di calzature, tutti manufatti che non sempre dovevano essere importati, ma che si può presumere venissero fabbricati in loco. Appare evidente l’interesse del luogo per quanto concerne l’attività economica praticata e per gli eventuali rapporti commerciali con il vicino polo urbano di Bosa Vetus (Satta, 1992). L’insieme degli elementi osservati è stato sufficiente per stabilire un utilizzo produttivo-artigianale dell’area, con gli impianti (le vasche) per il trattamento e la concia delle pelli (fig. 15). 45


fig. 15. Particolare impianto produttivo di s’Abba Druche.

La storia cronologica decorre dal periodo nuragico a quello romano imperiale. Ciò che attira maggiormente l’attenzione sono, quindi, le vasche ricavate nella roccia, a pochi metri dall’alveo del Rio Baddaggiosu (o di s’Abba Druche). Giampiero Dore e Salvatore Colomo, a differenza degli esperti, nella loro “Guida alle coste e alle immersioni della Sardegna”, considerano le vasche, uno “stabilimento”, dove i sardo-romani, intorno al I-III secolo d.C., producevano la tipica “salsa” di pesce chiamata garum (Dore e Colomo, 2002, pp. 478-480). Secondo Vincenzo Piras, le vasche (come, pure, le chiamano i bosani), continuino ad essere strane e misteriose. Più si osservano e meno convince, la funzione, loro attribuita, dagli esperti. Non è detto che un manufatto “depresso” (in qualche modo scavato sotto il piano di campagna), e che sarà assegnato ad un qualsiasi funzionamento,

debba

necessariamente

funzionare

come

“contenitore di liquidi” (Piras, 2010). La posizione geografica del sito appare rilevante, centrale rispetto ai vari giacimenti metalliferi del territorio. Sulle colline adiacenti, distanti poche centinaia di metri, vi sono gli ammassi di ferro e manganese di Tentizzos (di cui parleremo nei prossimi paragrafi).

46


Forse non è azzardata l’ipotesi che pone in relazione le vasche di s’Abba Druche con qualche impianto di trattamento dei giacimenti minerari lì prossimi. Nel contesto generale dei ritrovamenti si riconosce un denominatore comune: la vicinanza ai giacimenti metalliferi e all’acqua (Rio s’Abba Druche), il che lascia immaginare un utilizzo di queste vasche in funzione di quegli impianti (fig. 16). I singolari scavi presentano una serie d’elementi strutturali che ricordano una qualche architettura riconducibile a grandi fornaci (Piras, 2010). Un impianto primario di fusione, mediante il quale si riducevano le ganghe contenenti i diversi minerali metalliferi. Una sorta d’officina per la separazione dei metalli nobili dai solfuri, per il successivo stoccaggio in “pani”. Metalli grezzi, pronti per essere sottoposti

alle

diverse

attività

di

trattamento

(fusione

e

manipolazione).

fig. 16. Impianto produttivo di s’Abba Druche.

I “forni minori”, diversi, d’altro genere, concepiti per le piccole lavorazioni, assolvevano, poi, alle specifiche necessità: militari, arredi e monili, utensileria, monetaria, con colature all’interno degli appositi stampi (Piras, 2010).

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A s’Abba Druche, i forni sono scavati su un lieve pendio roccioso, a sud ovest dell’insediamento abitativo, posto poco distante, hanno orientamento a sud (quello maggiore), e verso est gli altri. Le vasche non si presentavano sotterrate, ma erano agli occhi di tutti, ad accrescere l’immaginazione dei curiosi. Sorgono a pochi metri dal letto del torrente e a poche decine di metri dalla spiaggia. Di altre, probabilmente, almeno dello stesso numero, si intravedono pochi resti, distrutte dal tracciato di un recente sterrato (Piras, 2010).

4.2 Miniera e cava di Sas Covas

Una planimetria del 1867, conservata presso l’archivio storico del Comune di Bosa, indica chiaramente l’ubicazione di due miniere nel territorio bosano. Una aveva il toponimo di Sas Covas, (accovadu, ovvero luogo riparato, o che dava riparo) oltre la miniera, s’indicavano diversi spazi, sia ai piedi del colle Sa Sea, dove si possono notare i residui dell’attività di alcune cave di pietra, che in corrispondenza della foce del fiume Temo (fig. 17).

fig. 17. Foce del fiume Temo e colle Sa Sea.

48


L’area della foce era particolarmente importante per i bosani, sia per i bagni, ma anche per la raccolta di cozze, telline, arselle, il cui habitat sono le acque salmastre, ancora oggi ricercate e presenti in quantità tra i sedimenti di sabbie grossolane detritiche trasportate dalle correnti. L’imbarco dei minerali, è possibile che fosse effettuato nel Porto di Terridi (indicato nell’antica cartografia), situato sul lato opposto dell’odierno molo commerciale, sul lato destro del fiume che riporta sempre lo stesso toponimo (Sas Covas). Nell’area sono ben visibili i segni di un’intensa attività umana riguardante, con molta probabilità, proprio operazioni di trasporto e imbarco. Riconoscibili, ma senza storia, i resti di un antico porto, di forma quadrangolare pare costruito con l’uso di pietra rozza. Vicino a questo, un altro elemento molto importante sono i solchi lasciati sulla roccia dal continuo passaggio dei pesanti carri che sono la dimostrazione più evidente della presenza e dell’attività recente dell’uomo nella zona (Piras, 2010). Il porto di Sas Covas si completava con un breve tratto di selciato stradale, costruito con blocchi di trachite rossa messi in opera a regola d’arte. L’utilizzo della trachite rossa, piuttosto che quella bianca (tufiti), potrebbe dare un indicazione del periodo di costruzione del manufatto. Certamente la pietra fu utilizzata precedentemente al 1906, perché infatti, prima di tale periodo non si estraeva ancora la trachite bianca dal colle Sa Sea, la cui cava, si trova poche decine di metri più in alto rispetto al luogo d’ancoraggio. Molti sono i manufatti d’ormeggio per le gomene, consistenti in spezzoni di travi di ferro, utilizzati recentemente. Osservando attentamente, vi sono quelli molto più antichi, rudimentali manufatti per l’ormeggio, creati modellando la pietra nuda, fino a realizzarne un incavo ideale per le cime d’attracco. La storia di questo luogo di fatiche è scritta sulla roccia, non solo per gli ormeggi delle imbarcazioni, ma anche perché sono state ricavate scalinate, delle quali oggi si vedono pochi gradini, oltrepassati ormai, dal più recente tracciato stradale (Piras, 2010).

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La roccia stessa, si pensa, potesse offrire rifugio ai braccianti in occasione del cattivo tempo: conosciuto con il nome di Su Pelcione de Donna Masina, significativo esempio di caverna naturale (Piras, 2007): si trova nei pressi dell’antico porto, a poche decine di metri dalla foce del Temo. Questa caverna, probabilmente, fu un comodo riparo in occasione delle brusche piogge, a favore non solo degli operai incaricati alle operazioni del porto, ma anche dei pescatori, che lo hanno usato sino a tempi recenti, identificandolo come luogo comune di ritrovo, ideale per avere sotto controllo lo stato del mare quando dovevano partire per le escursioni di pesca. Nelle antiche fotografie, relative agli anni ’30, è ancora visibile l’ingresso della cavità dall’insolita forma di cuore. L’azione del mare e dell’acqua salata portata dal vento hanno modellato questa caverna, ai piedi della falesia, sulla cui sommità sorgono alcune case (fig.18). Nel 1943, fu murata, per ricavarne una costruzione, a difesa, ancora una volta, della foce del Temo, per via del previsto sbarco da parte degli alleati.Un’opera difensiva, dotata di mitragliatrice, come tante altre presenti lungo le insenature del litorale bosano e in tutta la costa occidentale della Sardegna (Piras, 2010).

fig. 18.Punta del colle Sa Sea.

50


Tra la fine della seconda metà dell’800 e il primo trentennio del ‘900, la Prefettura rilasciò numerosi permessi di ricerca dei minerali. Le zone interessate dai lavori di ricerca spesso si trovavano in luoghi distanti dai centri abitati, non godevano perciò delle facilitazioni geografiche che miniere come quella di Sas Covas, invece, poteva avere. Quindi nei siti di maggior interesse e di maggiore potenzialità estrattiva furono edificati insediamenti, in prossimità delle stesse aree d’estrazione; umili edifici che permettevano al personale occupato nei lavori di estrazione di soggiornare per brevi periodi. Di alcuni di questi insediamenti, come le modeste costruzioni situate nelle località di Porto Satonaera, Porto Baosu e Cala Fenuggiu, vicine tra loro, non si tramanda nessuna memoria che permetta di ricostruire la storia di questi habitat. La permanenza in luoghi così isolati avveniva in maniera molto difficile. Nel passato, le persone, vivevano in comune, con la continua sopportazione di molteplici scomodità. Si trovava nella consuetudine di alcune professioni abitare in campagna, lontani dalle case d’origine, anche per lunghi periodi di tempo (Piras, 2010). La presenza di estesi giacimenti di pirite, calcopirite, galena argentifera, rame, ferro, manganese in abbinamento ai giacimenti di pietre dure, quale silice calcedoniosa e trachiti rilevati in questa zona, potrebbe evidenziare un interesse specifico da parte delle antiche popolazioni verso questo luogo (Piras, 2010).

51


4.3 Villaggio minerario s’Ortu ‘e su Giuncu in prossimità di Tentizzos: condizioni di vita dei lavoratori Il villaggio minerario di s’Ortu ‘e su Giuncu è ubicato in un pianoro, in prossimità del gruppo montuoso che sovrasta la regione costiera di Tentizzos. Si può accedere transitando la litoranea che da Bosa porta ad Alghero fino al km 6; bisogna inoltre lasciare la strada e salire faticosamente a destra, per poche centinaia di metri sulla collina. Seguendo questa strada d’accesso la visione del piccolo nucleo abitativo risulta chiaramente individuabile (Marras, 1991). Arrivati sul posto, non potrà sottrarsi allo sguardo d’insieme l’intonazione caratteristica dei luoghi, l’alternarsi di rilievi scoscesi a quelle parti ancora intatte di macchia mediterranea, a tratti coperte da querce secolari, reduci al taglio e principalmente alle insidie degli incendi (fig. 19).

fig. 19. Gruppo montuoso che domina Tentizzos.

Infine, si potrà notare, come l’insediamento si dispone con equilibrio, con la sua sostanziale tipologia, con gli elementi della natura, così, Pasquale Mistretta afferma (Marras, 1991):

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“è importante rilevare che la sintesi degli elementi fisici e antropici è così perfettamente compiuta da suggerire la conservazione dell’habitat anche attraverso riqualificazioni funzionali, che non escludono del tutto il rapporto con l’attività mineraria e soprattutto non distruggano il paesaggio, saturandolo oltre misura”.

Nel 1924, quando il villaggio fu edificato, non esistevano strade battute e il posto era raggiungibile da Bosa solo a piedi, impiegando circa due ore di tragitto, oppure a cavallo o con l’asino. I tecnici e i dirigenti della società olandese per la produzione di minerali, che possedeva le concessioni di ricerca sull’intera zona, se non erano impediti dalle brutte condizioni del mare, di solito, sceglievano di muoversi con un motoscafo ormeggiato nel porto della marina (Marras, 1991). L’area estrattiva si identificava principalmente con i cantieri di Tentizzos e Giolzi Moro, e l’habitat del villaggio viene ricordato come s’Ortu ‘e su Giuncu o Sa Miniera. Uno dei cantieri, era stato nominato Giolzi Moro, era tra le miniere più famose nel contesto di ricerca produttiva di Bosa. Sorgeva ai piedi della scogliera della Casa del Vento, sulla formazione di tufi trachitici bianchi, simili a quelli della miniera di Sas Covas. Al momento dell’esaurimento del giacimento, l’ingresso fu fatto crollare con una carica di dinamite, chiudendo per sempre l’accesso ai curiosi e alle future esplorazioni. La galleria principale era lunga più di 150 metri con sviluppo in direzione est, verso il contatto sulla formazione trachitica poligenica (Marras, 1991). L’abitato di s’Ortu ‘e su Giuncu è certamente il più significativo e probabilmente il più consolidato perchè da qui giungono la maggior parte delle testimonianze riferite alla vita del piccolo insediamento. Resistono faticosamente al tempo e alla mano dell’uomo solo i ruderi precari, che lasciano un piccolo spazio alla fantasia, mentre ci si aggira all’interno d’immaginari ambienti, rifatti per usi legati alla pastorizia, ma che un tempo ospitavano, 53


oltre agli uffici della direzione, gli alloggi dei numerosi operai, che faticavano nei diffusi cantieri. Uno sfruttamento massiccio era coltivato a cielo aperto, in seguito al taglio della galleria Giulio, che presentava lo stesso genere di mineralizzazioni (Marras, 1991). Il villaggio minerario di s’Ortu ‘e su Giuncu era organizzato con un agglomerato di edifici disposti a ferro di cavallo, per una superficie totale di circa 720 mq. A valle, in località Tentizzos (fig. 20), sul lato sinistro del torrente di Riu ‘e sa Canna, vi sono tuttora i resti d’altre due costruzioni, impiegate come impianto di lavaggio. Importante è la presenza d’altri manufatti che, da sempre, sono elementi del contesto paesaggistico: la casa del pastore, e la torre aragonese seicentesca (Torre Argentina), che non avevano attinenza con l’impianto minerario, almeno quello recente. L’impianto del lavaggio, in prossimità del mare, si componeva da una successione di vani a pianta rettangolare, con l’andamento planimetrico lineare impostato su di un unico livello, e con la copertura ad unica falda inclinata.

fig. 20. Località Tentizzos.

L’insieme occupava una superficie di 150 mq. Ad est della torre aragonese, sulle rive dell’insenatura di Sa Codulera, vi sono ancora i resti di un terzo edificio che è noto ai bosani con il toponimo di Sa 54


Domo Rutta. E’ una costruzione eretta con blocchi di trachite bianca, estratti dalle vecchie cave adiacenti alla costa. Fu realizzata per esigenze di sbarco e imbarco, di supporto alle attività estrattive. Il rudere è compromesso nel suo equilibrio, con il rischio di un definitivo crollo (Piras, 2010). L’ultimo edificio è posto a poche centinaia di metri verso nord, presso la Casa del Vento, in prossimità della strada litoranea: era un secondo deposito d’esplosivo, in uso nei cantieri di Giolzi Moro e Mariani. Nell’ambiente minerario, la sede per le sostanze e i materiali esplosivi veniva ritenuto un luogo molto importante, quindi scelto con assoluta cura ai fini della sicurezza. Su Pelcione ‘e Mariani fu detta la cavità (un riparo sotto roccia) dentro la quale fu murata una piccola costruzione adibita, appunto, a contenere gli esplosivi, adoperati negli scavi prossimi al villaggio (Piras, 2007). Il modesto vano, costituito da due ambienti separati, era di complessivi 30 mq. La scelta di sfruttare un riparo sotto roccia, per finalità di servizio o abitative, era già ampiamente in uso nell’antichità, in particolare negli ambienti agro pastorali. Alcuni di questi rifugi sono ancora fortunatamente in uso. Per la valenza antropologica e naturalistica che essi rappresentano, onde evitarne la scomparsa, meriterebbero senz’altro un’azione di tutela (Piras, 2010). A s’Ortu ‘e su Giuncu, la dislocazione dell’insediamento era posta nell’entroterra, e isolato dai paesi vicini, detta posizione si poteva considerare strategica. Non a caso il nucleo abitativo è progettato in una posizione centrale tra la città e i territori del Marrargiu, dove erano in atto, già dalla fine dell’800, attività di ricerca su formazioni metallifere di assoluto interesse. Il sorgere dell’attività estrattiva vedeva i primi coltivatori sfruttare i giacimenti di roccia prossima alla superficie del terreno, pieni di minerale, il più vicino possibile alle trincee superficiali o ai stretti pozzetti, praticati in corrispondenza delle vene mineralizzate, mentre, una seconda fase, prevedeva lavori più impegnativi, com’è appunto avvenuto nell’area di s’Ortu ‘e su Giuncu (Piras, 2010). 55


Il territorio era comunque frequentato già prima che si facesse il piano di sfruttamento del sottosuolo. Un gran numero di pastori e contadini, ma anche di carbonai e legnaioli, attraversavano l’area per necessità, passando nelle ripide stradine, mossi sempre più da interessi discordanti a contendersi i pezzi di terreno della zona del Marrargiu. Questi spostamenti della popolazione non possono che aumentare l’impressione di un fattore antropico ormai generale dell’area in questione, ben saldo per quanto riguarda lo svolgimento delle più tradizionali attività agro-pastorali, malgrado l’assenza di una rete stradale adatta al passaggio di una linea di traffico e di commercio diretto tra le città di Bosa e di Alghero. Non si può, nemmeno, esitare sul fatto che ad orientare i consecutivi flussi di manodopera sia intervenuta in maniera decisiva l’apertura di alcune miniere, della cui presenza da tempo si era avuta notizia (Marras, 1991). Dalla prima metà degli anni ’20 la società olandese aveva, difatti, iniziato un sostenuto programma di ricerche che racchiudeva lavori in sotterraneo e a cielo aperto. A s’Ortu ‘e su Giuncu, così, venne attivata la galleria di Santa Barbara, destinata all’estrazione di filoni misti di ferro e manganese, e inoltre un campo a cielo aperto che mostrava lo stesso tipo di mineralizzazioni. Anche a Torre Argentina, su Riu ‘e sa canna, Punta Cabuzzu, e soprattutto nella miniera di Giolzi Moro erano in funzione cantieri di lavoro per l’estrazione di questi minerali, mentre il piombo argentifero si portava alla luce dall’ l'interno di Kallankeo (Marras, 1991). Questa nuova situazione definì un grande segnale economico nell’ambito di un tessuto sociale che in Planargia si mostrava stabile, con la conseguenza di cambiare abitudini e rapporti di lavoro, non solo in considerazione alla maggioranza dei lavoratori cui si dava l’opportunità di troncare, almeno in parte, i legami di dipendenza con gli avari proprietari terrieri. In generale erano gli stessi pastori e contadini, e tra loro pescatori e muratori che prendevano la decisione di lasciare provvisoriamente i mestieri familiari per essere assunti negli scavi di miniera. Tutto ciò 56


avveniva per la durata di un breve periodo di tempo, spesso limitato alla sola stagione invernale. In primavera, al termine di questo intervallo produttivo, si rientrava al mestiere tradizionale, forse meno redditizio ma senz’altro di migliore condizione. Per essere assunti alle dipendenze della società olandese, il più delle volte bastava presentarsi sul posto di lavoro e chiedere di essere presi. A quanto pare, senza avere grosse difficoltà (Piras, 2010). Ciò nonostante, il titolo di assunzione non dava diritto ad un regolare contratto di lavoro scritto né ad a nessuna forma previdenziale. In sostanza si trattava di adattarsi alle condizioni padronali. Il senso di precarietà prevalente nei rapporti di lavoro dipendeva dalla mancanza di una linea aziendale che non superava i caratteri generali di ignoranza nei confronti delle relazioni con i lavoratori. Tra l’altro, una indecorosa usanza prevedeva di retribuire il salario in forma anonima, consegnandolo dentro una busta chiusa e priva d’intestazione. La totale assenza di personale specializzato trovava riscontro nell’ abbassarsi dei lavoratori a compiti di fatica, per cui non altro requisito si mostrava necessario alla Direzione delle miniere quanto quello di saper usare il piccone, intervenire allo scoppio delle mine, quindi svuotare la galleria o avere buona volontà nello spingere carrelli. Se questa era più o meno la situazione iniziale, è pur certo che negli anni successivi si cercò di portare qualche modifica, inserendo mano d’opera “forestiera” non sprovvista di esperienza (Marras, 1991). Le costruzioni, visibili ancora oggi a s’Ortu ‘ e su Giuncu, fanno parte dell’epoca prima degli scavi di miniera, pur senza corrispondere, se non in parte, a quelle originarie che, invece, erano state realizzate in legno: fatta eccezione per la sede del personale direttivo costruita fin da subito in pietra e malta. Solamente in una fase successiva di stabilizzazione, sul finire degli anni ’20 venne presa la decisione di riorganizzare cabine e ricoveri utilizzando anche per essi il più stabile impianto costruttivo in muratura. Questa situazione migliorava in qualche modo le condizioni di vita

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degli operai, rimaste a tutti gli effetti immutate come nei resoconti degli Atti parlamentari redatti agli inizi del secolo (Marras, 1991). Negli anni ’30 una crisi economica senza precedenti finì per abbattersi sul settore minerario dell’isola. Questa situazione da una parte favoriva la concentrazione economica dei grandi gruppi multinazionali, dall’altra attivava un processo a catena che doveva portare alla distruzione delle piccole imprese attive nel settore minerario. A s’Ortu ‘e su Giuncu l’insediamento minerario si gestiva autonomamente da un punto di vista logistico: disponeva di tutti quei servizi essenziali per il buon funzionamento delle piccole comunità isolate. Dotato d’attrezzature e laboratori ben organizzati al fine di garantire la riparazione dei guasti e la gestione degli impianti, spesso costosi e complessi, questi richiedevano continui interventi. Con una certa misura capitavano incidenti che arrecavano notevoli disagi, date le problematiche in gran parte causate dalla particolare orografia dei terreni e delle coste, in cui si attrezzavano le coltivazioni (Marras, 1991). Attualmente, per quel che si può guardare, s’Ortu ‘e su Giuncu conserva in modo smorzato i segni delle attività umane, i segni profondi degli scavi, le cave aperte, le gallerie murate e attorno, per un lungo tratto, tante raschiature nella roccia. La natura momentanea del nucleo, consente di chiarire, nel caso preciso, come l’attività mineraria, in conclusione, non è riuscita ad esprimere le relazioni fra mezzo principale, modo di abitare e modo di vivere nell’ambiente circostante da cui viene fuori il vero habitat. Questo non esaurisce l’interesse del suo esistere in uno spazio ecologico dove niente è mutato. La continuità culturale dell’insediamento accenna a qualcos’altro, a niente di classificato, inserendosi nel passato recente della città, vorremmo dire alla sua storia, sicuramente in quella personale di tanti bosani. Dunque, s’Ortu ‘e su Giuncu, rappresenta una breve testimonianza del passato. Ad ogni modo, benché le attività d’estrazione, soprattutto quelle a cielo aperto, abbiano creato un impatto ambientale da non sottovalutare, la nascita e lo sviluppo di un villaggio minerario nel 58


territorio della Planargia non diede luogo a contrasti ambientali o economici rilevanti, dato che le miniere sono quasi sempre state aperte in terreni poco o niente affatto interessati da altre forme consistenti di sfruttamento (Marras, 1991). Nel 1940 la struttura di s’Ortu ‘e su Giuncu venne per sempre abbandonata. In verità questa situazione doveva realizzarsi solo in parte, dal momento che le attività collegate alla pastorizia e all’agricoltura avevano sempre avuto un ruolo predominante nello scenario sociale ed ambientale del territorio. Ai fini della pastorizia e dell’agricoltura si tornerà ben presto a riusare gli impianti del villaggio minerario (fig. 21), che verranno adattati a rifugi di fortuna, ovili e porcilaie. Sulla base delle nuove necessità lavorative non pochi cambiamenti vennero arrecati alle costruzioni nel corso del tempo, per esempio, la suddivisione delle dimore in ambienti più contenuti e meglio gestibili, la demolizione di muri e pareti divisorie, la chiusura delle aperture per la luce, la distruzione delle coperture a una falda e molte altre ancora. Oggi sarebbe difficile individuare i caseggiati riferendosi alle sedi di un tempo, se pure la relativa importanza della struttura in cui abitava il direttore dei lavori e la sua famiglia, si trasforma a pochi resti, ormai, sommersi dalla vegetazione (Marras, 1991).

fig. 21. Località mineraria nei pressi del villaggio.

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Comunque, nel caso di s’Ortu ‘e su Giuncu, ma anche negli altri siti di Baosu e Cala Fenuggiu, l’area venne impiegata in precedenza per funzioni agricole o di allevamento del bestiame, come, del resto, si pratica ancora oggi. Tra le attività dei primi del ‘900, l’agricoltura e la pastorizia formavano, insieme a quella meno diffusa della pesca, le forme lavorative prevalenti. Questo territorio, per un dato periodo di tempo, almeno sino al 1957, fu sfruttato per la semina del grano e la pastorizia, con l’impiego d’estesi appezzamenti terrieri (Piras, 2010). Il bestiame, allevato spesso allo stato brado, si componeva per lo più di capre, pecore, vacche e maiali, con una notevole produzione d’insaccati, latte e famosi formaggi. Alle eventuali morie di bestiame ovviava, e ovvia ancor oggi, la provvidenziale azione di bonifica degli avvoltoi Grifoni, veri spazzini di queste distese sconfinate. Costituiscono un rapporto d’equilibrio tra le attività dell’uomo, la natura e le particolari esigenze alimentari. L’Avvoltoio Gyps fulvus, specie protetta e in via d’estinzione, costituisce nel territorio di Bosa la maggiore colonia nidificante d’Italia (Oppes, 1994).

4.4 Giacimenti di Capo Marrargiu L’istituzione delle ricerche minerarie ha contribuito, ed in ogni modo è servita, a rafforzare la presenza antropica nel settore di Capo Marrargiu: il primo tratto della litoranea, sino alla Casa del Vento, fu completato nel 1953, ed ultimato sino ad Alghero solo nel 1978. Sino allora la via, su Caminu Etzu (il cammino vecchio), era percorribile sull’antico tracciato romano. Alla difficoltà dal pessimo stato delle strade di collegamento, spesso ridotte a miseri sentieri, si aggiungeva il non facile trasporto su carri a buoi o trainati da cavalli (Piras, 2010). Una miniera riduce o chiude la sua attività per ragioni economiche diverse, che sono principalmente due: la prima consiste nell’effettivo esaurimento del giacimento, ovvero sia i filoni sono divenuti improduttivi; la seconda, più frequente, in un calo del suo rendimento in proporzione ai costi di gestione, tale da 60


non consentire più profitti. In seguito a queste vicende un grande sconforto invase gli animi del tessuto imprenditoriale locale. Una piccola realtà mineraria dimenticata. Non è azzardata l’ipotesi riguardo le potenzialità produttive dei giacimenti minerari del territorio di Bosa e della Planargia: se avessero avuto uno sviluppo di rilievo, si sarebbero potute realizzare una serie di strutture industriali per la lavorazione. Forse si sarebbe potuto anche assistere alla nascita di più piccoli centri abitati, come invece è avvenuto diffusamente in località con autentica vocazione mineraria (Piras, 2010). La zona, geologicamente riconoscibile da un importante complesso di colate laviche di età terziaria, è in parte composta da rocce acide: lipariti, daciti e trachiti oltre che da trachi-andesiti e andesiti. In modo particolare si notano le andesiti per il fatto di essere una rarità geologica sull’intero territorio costiero della Sardegna. I litotipi del Marrargiu, o vicini alla regione, costituiscono rilevante interesse mineralogico, data la presenza di vari minerali metallici, in particolare ferro, manganese, galena, calcopirite, pirite, minerale di rame (Piras, 2010). Le rocce mineralizzate sono ben distinguibili lungo la zona costiera e si presentano sotto forma di vene e piccoli filoni. Fonti letterarie rilasciano dati sulla presenza, anche, di minerale aurifero (oro). Come, per esempio, Michele Deriu scrive in uno dei suoi celebri lavori sul territorio di Bosa, descrivendo l’area geografica del Marrargiu (fig. 22), con riferimento ai minerali metalliferi di piombo, zinco, e rame, riferendo, anche, la presenza di questo nobile minerale. Il ritrovamento di questo sito, oltre a rappresentare la testimonianza diretta di un’attività produttiva, sarebbe da considerarsi come una testimonianza dell’estesa attività estrattiva dei minerali metalliferi nell’isola. Sfortunatamente, ciò che resta di questo slancio metallurgico è quasi per intero cancellato, sia dalle modificazioni

ambientali

e

geologiche,

che

dall’intenso

sfruttamento moderno (Piras, 2010). Poche sono le testimonianze in questo senso, rappresentate solamente da isolati ritrovamenti, 61


soprattutto riguardo le attrezzature per la lavorazione, quasi inesistenti sono i resti di veri e propri impianti di fusione. Generalmente, la datazione di quanto ritrovato nel corso dei lavori moderni è stata ricavata appunto dal rinvenimento d’attrezzi da lavoro e anche da monete e lucerne. Le realtà verificate, permettono la ricostruzione storica di un breve periodo, principalmente di quello romano o poco più precedente (Piras, 2010).

fig. 22. Rilievi del Marrargiu.

La storia ci porta indietro di qualche millennio (4000 a.C.). L’uomo percepì che con il calore del fuoco poteva riscaldare il minerale, fonderlo e colarlo, per poterlo modellare in un metallo morbido e duttile (Piras, 2010). Fu verso il 1400 a.C. che adattò alcune nuove tecniche come l’ escoriazione del minerale metallico e le connesse lavorazioni a caldo. Estraeva i minerali disponendo solo d’umili e primitivi attrezzi, per esempio, per lo scavo, utilizzava mazze e scalpelli, forche e zappe, picconi e pale, leve, cunei e spine, usate anche per sagomare gli occhielli di zappe e picconi. L’impianto di fusione, di qualunque realizzazione e utilizzo, era una chiara conseguenza dell’estrazione del minerale (Piras, 2010). 62


Pochi sono i ritrovamenti riguardanti gli impianti per la fusione generale (ferro e altri metalli), e quando vi sono state, ugualmente difficile è stato comprendere il giusto funzionamento del manufatto, ed il combustibile usato. E’ anche probabile che, manufatti ritrovati nel corso delle ricerche, non siano stati definiti come tali. La sola procedura, della quale si conoscono con una sicura precisazione i modi di lavorazione, è quella per il trattamento dei metalli nobili, Argento e Oro. La coppellazione (separazione dei metalli nobili dai minerali primari), così viene chiamato questo procedimento, ben conosciuto fino al secolo scorso (Piras, 2010). Per via della rinascita economica del X-XI sec., riferita particolarmente agli sviluppi e ai progressi dell’agricoltura, con i rinnovamenti tecnologici ad essi correlati, si avviarono alcune attività industriali: il settore estrattivo e della metallurgia, sono stati i meno floridi, proseguendo ancora con metodi arcaici. Solo verso il XIV sec., con l’introduzione di forni più efficaci, la siderurgia progredì: il raggiungimento di temperature più alte, permise la creazione di alcune leghe, come l’eventualità di mutare il ferro in ghisa. Per quanto riguarda il combustibile impiegato per alimentare i forni, la legna e il carbone appaiono i più comuni (Piras, 2010). L’argento continuava ad essere trasformato attraverso il procedimento della coppellazione, tale sistema prevedeva una prima fusione del minerale, con enormi fuochi, e dove fosse possibile, anche incanalare gettiti d’acqua per agevolare lo spostamento della parte non buona del minerale. Lo scioglimento e lo spezzettamento si svolgevano, normalmente, in spiazzi fuori dall’ingresso delle gallerie, o a preferenza, se vi erano le condizioni, lungo il letto dei più prossimi corsi d’acqua. Per i giacimenti minerari di Capo Marrargiu vi sarebbero i presupposti, per concepire con la fantasia, un eventuale trattamento delle rocce, anche aurifere, in precedenza ai lavori minerari della prima metà del ‘900. In realtà, la natura delle particelle, la loro dimensione e la composizione chimica, le rende estraibili in base alle conoscenze 63


tecnologiche e metallurgiche delle popolazioni del passato (Piras, 2010).

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5. Le risorse ambientali e naturalistiche di interesse paesaggistico: i due SIC del territorio di Bosa I beni ambientali e culturali rappresentano le risorse più significative di tutta la zona esaminata. Gli esperti confermano che si tratta di un complesso ambientale di notevole interesse pubblico, che merita una particolare protezione e valorizzazione. La zona costiera (fig. 23) che finora è stata presa in considerazione, ancora per fortuna quasi integra, è già assoggettata a vincolo paesaggistico, ai sensi della Legge Galasso6. La Legge Galasso, difatti, si preoccupa di classificare le bellezze naturali in base alle loro

caratteristiche

peculiari

suddividendole

per

classi

morfologiche (Comunità Montana n. 8, 1989).

fig. 23. Zona costiera.

6

. La Legge n° 431, 8 agosto 1985, nota come Legge Galasso è una legge italiana del 1985, che ha introdotto a livello normativo una serie di tutele sui beni paesaggistici e ambientali. Prende il nome dal politico e storico Giuseppe Galasso.

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Il vincolo della legge ha limitato fortemente le attività nell’area, anche quelle legate al turismo. Queste attività, quando viene concesso il permesso di poterle attuare, devono potersi conciliare con le eventuali restrizioni di tutela cercando di convivere e svilupparsi in un’interazione uomo-ambiente tendente ad un armonico sviluppo tra territorio ed attività umana. Sempre più spesso gli amministratori locali si trovano a dover affrontare dei vincoli che, a loro dire, ostacolerebbero lo sviluppo economico del paese. Sono le IBA, le ZPS, i SIC…7 tante sigle a cui molti non riescono a dare un significato se non quello di “vincoli, impedimenti, imposizioni”. La paura invece non è altro che dettata dalla scarsa conoscenza del loro significato e del loro potenziale come risorsa unica e preziosa per il nostro territorio. Tutte queste sigle non sono altro che un’opportunità per il futuro di molte regioni che non significa limitazione delle attività, se queste sono sostenibili

per l’ambiente e non incidono sull’integrità

dell’area o sulla conservazione delle specie e degli habitat (Temi s.r.l., 2008). Nel 1992 gli Stati Membri dell’UE hanno approvato all’unanimità la Direttiva “Habitat” (92/43/CEE) che promuove la protezione del patrimonio naturale della Comunità Europea. Le aree caratterizzate da elevata biodiversità, ossia ricche di specie vegetali ed animali ormai rare o minacciate, che devono essere adeguatamente conservate vengono proposte come SIC. La Commissione Europea seleziona, in accordo con gli Stati Membri, la lista dei SIC che andranno a fare parte della “Rete Natura 2000”, che implica la redazione di appositi Piani di Gestione che devono bilanciare in modo appropriato gli interessi economici, sociali ed ecologici in un’ottica di sviluppo sostenibile. La gestione e la conservazione della “Rete Natura 2000” richiede importanti investimenti e molte opportunità finanziarie devono essere a disposizione. Inoltre, essa costituisce nuove opportunità di sviluppo rurale attraverso l’introduzione di “marchi di qualità ambientale” per prodotti locali 7

. Sigle: IBA (are importante per gli uccelli), SIC (siti di importanza comunitaria), ZPS (zone di protezione speciale).

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(formaggi, miele, vino, olio, ecc.) e di sviluppo turistico. In poche parole la “Rete Natura 2000” crea e diversifica le opportunità occupazionali con attività compatibili e spesso redditizie. Un unico

esempio per tutti gli agricoltori i cui terreni ricadano in SIC o ZPS, a cui viene data una priorità dai “Piani di Sviluppo Rurale” rispetto ai terreni che non ricadano nelle aree della “Rete Natura 2000”, e che questi,

possono usufruire di specifici finanziamenti per la

realizzazione di pratiche a minor impatto o addirittura per mantenere e ripristinare habitat naturali o elementi di naturalità all’interno delle aree agricole (Temi, s.r.l., 2008). I siti della “Rete Natura 2000” non sono aree protette nel senso tradizionale, non hanno i vincoli delle Riserve, ma devono essere gestite in funzione della conservazione della biodiversità, in particolare delle specie e degli habitat per i quali sono stati indicati. Sono quindi penalizzate tutte quelle attività suscettibili di impatti negativi sul sito o sulle specie, come ad esempio le centrali eoliche e gli elettrodotti. Una corretta gestione di questi siti prevede la realizzazione di valutazioni di impatto ambientale per qualsiasi attività che potrebbe avere ripercussioni negative su habitat e specie (Temi s.r.l., 2008). Nel territorio di Bosa sono presenti due SIC uno è quello “Valle del Temo” , l’altro, che riguarda la zona che finora è stata presa in considerazione è quello dell’ “Entroterra e zona costiera tra Bosa, Capo Marrargiu e Porto Tangone”.

● SIC “Valle del Temo”. Il SIC “Valle del Temo” è individuato dal codice Natura 2000 con l’identificazione del sito ITB020040, così come indicato dal Decreto Ministeriale del 3 aprile 2000, ai sensi della Direttiva Habitat dell’Unione Europea (92/43/CEE). Il sito si trova nella Sardegna nord-settentrionale, nella nuova Provincia di Oristano, e ricade nei territori comunali di Bosa e Suni, facenti parte della subregione della Planargia, comprendente dieci Comuni; ad un altezza 67


compresa tra 0 e 239 metri s.l.m. Il SIC si estende su una superficie di 1.947 ha e prende il nome dal fiume omonimo che lo attraversa, il fiume Temo (fig. 24), lungo 60 km (unico fiume navigabile della Sardegna per 6 km) che nasce dalle alture di Villanova Monteleone, scorre fra trachiti e basalti prima di raggiungere la città di Bosa, dividerla in due, e gettarsi in mare fra il colle di “Sa Sea” e l’ “Isola Rossa” (Temi s.r.l., 2008).

fig.24. Vista verso la vallata del fiume Temo dal Castello Malaspina.

Il SIC è caratterizzato nel territorio bosano dalla valle interna attraversata dal fiume Temo e parte dei suoi affluenti, contornata da pendii poco ripidi e da ripiani. Un ambiente rimasto quasi interamente non inciso dall’opera dell’uomo. Nella parte del territorio di Suni invece appare per la maggior parte, pianeggiante è utilizzato dall’uomo per le attività agropastorali (Temi s.r.l., 2008). La varietà dei biotopi (ambienti fluviali, stagni temporanei, ambienti rocciosi, foreste di querce, macchia mediterranea ed ambienti steppici) presenti in un ambito relativamente ristretto come quello del SIC, utilizzati esclusivamente in modo estensivo, accresce notevolmente la diversità biologica, tanto da rendere l’area d’importanza nazionale. Sono, infatti, presenti estesi ambienti boschivi, costituiti prevalentemente da sughera e da 68


leccio, con formazioni di sottobosco ben strutturate. Sono rappresentativi anche la macchia mediterranea e gli ambienti rocciosi dell’interno, con scoscendimenti che spesso raggiungono altezze di oltre 50 m, nelle strette vallate del fiume Temo e dei suoi principali affluenti (Temi s.r.l., 2008). La zona è di particolare interesse anche dal punto di vista avifaunistico, per la presenza del raro Avvoltoio Grifone minacciato di estinzione, dell’Astore, dello Sparviere, del Grillaio e del Falco Pellegrino. Attorno all’altopiano basaltico di Pedrasenta (Suni) si riproducono diverse coppie della rara Gallina Prataiola e dell’Occhione, mentre lo stagno di “Pischina Paule” costituisce un sito d’interesse regionale per la sosta e lo svernamento di molti uccelli acquatici (Temi s.r.l., 2008). All’interno del SIC è presente la diga di Monte Crispu, realizzata nel 1961 per cercare di contenerne le periodiche piene del Temo, causate dal progressivo interramento della foce, ma attualmente non ancora terminato (Temi s.r.l., 2008). Il Piano di Gestione realizzato dalle amministrazioni comunali di Bosa e Suni per il SIC “Valle del Temo” è lo strumento gestionale del sito e ha come finalità generale quella di garantire lo stato di conservazione degli habitat e delle specie che hanno determinato l’ affermazione del sito. Tale fine sarà perseguito dal presente piano mettendo in atto strategie di tutela e gestione integrate con la presenza di attività umane già esistenti nel territorio. E’ quindi mirato ad individuare misure di conservazione e tipologie di interventi accettabili, previa valutazione dello status degli habitat e delle specie di interesse comunitario e delle relative criticità. I Piani di Gestione, insieme agli altri strumenti di governo del territorio, contribuiscono alla pianificazione per garantire la tutela e la valorizzazione dei sistemi ambientali (Temi s.r.l., 2008). Il Piano di Gestione vuole quindi consentire l’accesso e la fruizione sostenibile nel sito con la possibilità di usufruire di una serie di servizi nelle aree a minore sensibilità ambientale, migliorando contemporaneamente lo stato di conservazione degli 69


habitat e delle specie di interesse comunitario nelle aree a maggiore valenza naturalistica tramite un’attività di controllo, osservazione costante ed una serie di interventi di salvaguardia e recupero (Temi s.r.l., 2008). La grande valenza naturalistica del territorio può offrire spazio all’ecoturismo, che permette di accogliere un pubblico attento alle bellezze paesaggistiche e interessato alla conoscenza degli aspetti naturalistici. Attività come l’arrampicata sportiva, l’escursionismo a piedi, a cavallo, in bicicletta o in canoa richiamano già oggi numerosi turisti, i quali, se indirizzati verso idonee strutture ricettive e indotti a praticare tali attività ricreative nel rispetto dell’ambiente, potranno costituire una importante fonte di reddito per il territorio (Temi s.r.l., 2008). L’elevato valore ecologico del SIC “ Valle del Temo”, oltre ad essere testimoniato dalla presenza di numerosi habitat e specie faunistiche di interesse comunitario in esso presenti, come riportato da “Rete Natura 2000” e confermato dalle perlustrazioni sul campo, è evidenziato anche dal contesto ecologico in cui esso si inserisce, caratterizzato dalla vicinanza con altre aree appartenenti alla “Rete Natura 2000”. Infatti, il sito oltre a confinare nella parte occidentale col SIC “Entroterra e zona costiera tra Bosa, Capo Marrargiu e Porto Tangone” , esso si trova, anche, all’interno della ZPS denominata “Costa e entroterra di Bosa, Suni e Montresta” (Temi s.r.l., 2008).

● SIC “Entroterra e zona costiera tra Bosa, Capo Marrargiu e Porto Tangone”.

Il SIC riguardante la zona che finora è stata analizzata in questo lavoro è quello dell’ “Entroterra e zona costiera tra Bosa, Capo Marrargiu e Porto Tangone”, esso è individuato dal codice identificativo “Rete Natura 2000” come ITB020041. Il sito si estende per una superficie di 29634 ha coperti da varia tipologia di vegetazione. L’area del SIC ricade nelle province di Sassari e 70


Oristano. L’altezza massima (802 m) è rappresentata dal Monte Mannu (Domus s.r.l., 2006). L’area si estende totalmente su una formazione di rocce vulcaniche, prevalentemente trachiti, su cui poggiano, in prossimità degli ammassi montuosi, formazioni tufacee. Il territorio costiero, con le sue falesie e le grotte naturali, offre paesaggi di particolare bellezza, ammirabili dalla strada Alghero-Bosa. E’ caratterizzato da una costa frastagliata nella quale spicca la presenza di un gran numero di insenature profonde e ben riparate (fig.25). Proprio a causa della sua notevole acclività, esso risulta estremamente difficile da raggiungere via terra, anche se a pochi metri passa la strada provinciale Alghero-Bosa. Verso Capo Marrargiu, invece, le pareti rocciose presentano un andamento molto scosceso, con strapiombi alla cui base si trovano grotte naturali (Domus s.r.l., 2006).

fig.25. Insenatura Compultitu vista dalla strada Aghero-Bosa.

In questa parte di costa si segnala una grande varietà di flora e fauna. La vegetazione comprende la formazione di gariga costiera, di macchia mediterranea degradata e caratterizzata da vegetazione arbustiva (lentischio e mirto) povera di elementi arborei, residui di 71


leccete e, limitatamente alla zona di Monte Mannu, praterie montane (submontane). Dal punto di vista faunistico l’area assume importanza comunitaria e nazionale in quanto ospita il nucleo più consistente di Avvoltoio Grifone (Gyps fulvus) su tutto il territorio nazionale. La zona è di particolare interesse anche per la presenza del Nibbio reale, dell’Aquila reale, dell’Aquila del Bonelli, del Falco pellegrino, della Gallina Prataiola, dell’Occhione, del Gabbiano corso,

del

Martin

pescatore

e

della

Magnanina.

Della

mammalofauna dell’area fanno parte il Gatto selvatico e la Martora. Raggiunge buona densità anche il Cinghiale che assume importanza rilevante per l’attività venatoria (Domus s.r.l., 2006). L’area del SIC risulta molto importante anche dal punto di vista storico, in quanto sono presenti molte testimonianze del passaggio dell’uomo nelle diverse epoche storiche. Nell’area sono presenti, infatti, diversi nuraghi e costruzioni romane. Tuttavia, l’area è gravemente esposta al rischio di incendi a causa di carenze di ogni sistema di rilevamento, dalla scarsa presenza di insediamenti sparsi e dalla mancanza di una rete stradale efficace (Domus s.r.l., 2006). Da una proposta, negli anni ottanta, della VIII Comunità Montana, si intendeva istituire una Riserva marina nell’area costiera tra Capo Marrargiu e la foce del fiume Temo. Fu effettuato uno studio che culminò con l’idea della Riserva, ma questa venne bocciata dall’amministrazione bosana dell’epoca. L’idea della Riserva marina aveva come obiettivo la tutela del patrimonio faunistico e floristico marino, prevalentemente della Posidonia, e la messa a reddito delle bellezze naturali dell’area. Infatti, i fondali sono caratterizzati dalla presenza di canyons e grotte fino ad una profondità di 50-60 metri, sono frequentati da un’abbondante e ben differenziata fauna ittica (murene, gronghi, saraghi, ombrine, …). E’ stato segnalato, anche, l’avvistamento di esemplari di Foca Monaca, ma attualmente non si hanno dati certi sulla presenza di questo animale (Domus s.r.l., 2006).

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Oggi, a distanza di vent’anni, l’idea della Riserva marina ha trovato largo consenso, e la si ripropone all’interno del Piano di Gestione. Infatti, l’elevata concentrazione di specie faunistiche di grande interesse ha permesso che si creassero il “Parco Biomarino tra Capo Marrargiu e Bosa”, molto ricco di fauna ittica ed avicola, e la “Riserva Naturale orientata di Badde Aggiosu, Marrargiu e Monte Mannu” costituita da ecosistemi gravemente compromessi e utilizzati solo per la pastorizia (Domus s.r.l., 2006). L’obiettivo generale del Piano di Gestione del SIC “Entroterra e zona costiera tra Bosa, Capo Marrargiu e Porto Tangone” è quello di assicurare la conservazione degli habitat e delle specie vegetali e animali presenti a livello comunitario ai sensi della Direttiva Habitat. A tal fine è importante garantire, con opportuni interventi di gestione, il mantenimento e il ripristino degli equilibri ecologici che caratterizzano gli habitat e che sottendono alla loro conservazione. Il raggiungimento di tale obiettivo di conservazione rende necessario in particolare conciliare le attività umane che influiscono direttamente e indirettamente sullo status di specie e habitat presenti nel SIC con la loro conservazione (Domus s.r.l., 2006).

In conclusione, per il futuro, lo scopo principale dev’essere quello di assicurare le condizioni naturali necessarie per proteggere le specie rare o minacciate della flora e della fauna, al fine di garantire la loro continuità. La tradizionale conflittualità tra esigenze di conservazione ambientale e gli obiettivi di sviluppo socio-economico fu superata dalla “Strategia Mondiale di Conservazione”, almeno a livello concettuale, già dal 1948 quando Julian Huxley istituì l’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura e delle Risorse Naturali) tuttora attiva, essa fornisce una nuova definizione di conservazione, intesa come la gestione da parte dell’uomo della biosfera, degli ecosistemi e delle specie che la compongono in modo tale da ottenere il massimo utile sostenibile per le 73


generazioni presenti mantenendo il suo potenziale per soddisfare le necessità e aspirazioni di quelle future (Comunità Montana n. 8, 1989). Mentre lo sviluppo tenta di raggiungere i suoi obiettivi principalmente attraverso l’utilizzazione delle risorse naturali, la conservazione cerca di garantire che tale uso sia sostenibile e duraturo. Sotto questo aspetto la conservazione diventa anche un imperativo etico nel senso che (Comunità Montana n. 8, 1989),

“non abbiamo ereditato la terra dai nostri genitori, ma l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli”.

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Conclusioni

Emerge, a conclusione di questo lavoro, ciò che in parte è stato anticipato in apertura: i paesaggi sono dei contenitori di simboli e dei quali esistono interpretazioni elaborate da diversi punti di vista; ogni paesaggio suggerisce sempre percezioni diverse, sia per chi le vive e sia per chi le osserva. Il paesaggio, dunque, fa parte dell’identità di ogni persona perché suscita emozioni e stati d’animo sempre diversi e, inoltre, appartiene al patrimonio culturale di una popolazione; il paesaggio è simbolico e spirituale, in quanto, per poter arrivare ad una sua rappresentazione, vengono presi in considerazione i simboli ed i segni che esso contiene, e per questo, i significati che questi trasmettono. Sia gli avvenimenti naturali (agenti esterni, come aria, acqua, fuoco, vento…) che quelli creati dall’uomo, a causa delle sue esigenze, hanno agito intensamente nel corso del tempo, modificando così, la nostra terra. Ogni luogo ha subito vari mutamenti e nella sua metamorfosi non c’è stato un semplice cambiamento fisico, ma anche, un cambiamento dell’animo umano, che muta al mutare di ciò che lo circonda. Come abbiamo visto, il paesaggio, è anche un contenitore di memoria: ogni sito comunica eventi del passato che possono essere positivi o negativi, per questo il paesaggio fa parte della nostra cultura perché col tempo influenza usi, costumi, credenze, fantasie e soprattutto i bisogni dell’uomo. Questa particolarità è sempre esistita, nel susseguirsi delle epoche, nell’evolversi dell’uomo e nella sua cultura. Esaminando e descrivendo il territorio di Bosa, e con specificità, l’area che va dalla foce del fiume Temo fino al promontorio di Capo Marrargiu, sono stati presi in considerazione i siti di maggiore importanza; siti, in cui l’uomo, ha lasciato i segni della 75


sua esistenza, perché, secoli addietro, in questa zona, l’uomo ha vissuto e lavorato, lasciando i segni della sua presenza e fatica. Sono stati quindi, osservati, i resti del suo intervento, in specifico, nelle località di Sas Covas e s’Abba Druche, ma anche quelli di Tentizzos e in particolare di s’Ortu e su Giuncu. Territorio quest’ultimo, che ha valenza non solo ambientale, ma prima di tutto, storica e antropologica. Per questo, al termine della ricerca, considerato che questa zona è un complesso ambientale e culturale di notevole interesse pubblico, e perciò, merita una particolare protezione e valorizzazione, si è arrivati a concludere che nel futuro l’obiettivo principale dev’essere quello di garantire sia la conservazione che lo sviluppo di questo patrimonio ambientale e culturale, indispensabili per l’esistenza dell’uomo.

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