Consulenza educativa e consulenza filosofica: analogie e differenze

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

DI

L ETTERE

E

F ILOSOFIA

___________________________

CORSO

DI

LAUREA

IN

S C I E N ZE

D E L L ’E D U C A ZI O N E E D E L L A

FORMAZIONE

CONSULENZA EDUCATIVA E CONSULENZA FILOSOFICA: ANALOGIE E DIFFERENZE

Relatrice: PROF.SSA M. FRANCESCA GHIACCIO

Tesi di Laurea di: ALESSANDRA C ANU

ANNO ACCADEMICO 2010/2011


INDICE

Introduzione

1

I. Epistemologia pedagogica

3

1.1 Pedagogia: un problema d'identitĂ

4

1.2 Johann Friedrich Herbart: la pedagogia diventa scienza autonoma

6

1.3

9

La pedagogia come scienza filosofica 1.3.1 Il discorso gentiliano ripreso in Giuseppe Lombardo Radice

11

1.4 Le scienze della natura e le scienze dello spirito

12

1.5 John Dewey

14

1.6 Verso una pedagogia come scienza

15

1.6.1 Il paradigma empirico sperimentale

16

1.7 Dalla pedagogia alle scienze dell'educazione

19

1.8 Il recupero della dimensione teoretico-filosofica

21

1.8.1 Pedagogia e Filosofia dell'educazione

1.9 Quale statuto epistemologico?

II.

23

26

1.9.1 Pedagogia critica

27

Quale consulenza?

29

2.1 Per una definizione di consulenza

31

2.2 Il consulente: qualitĂ umane, competenze e ruolo professionale

33

2.3 La consulenza educativa

35

2.3.1 Carl Rogers

36

2.3.2 La terapia centrata sul cliente

38

2.3.3 La dimensione del comunicare

39

2.3.4 L' ascolto attivo

40


2.4 Il consulente educativo

41

2.4.1 La condivisione delle emozioni: l'empatia

43

2.4.2 La gestione del colloquio

45

2.5 Approccio filosofico al counseling

46

2.6 La consulenza filosofica

47

2.6.1 Gerd B. Achenbach

49

2.6.2 E' una professione d'aiuto?

50

2.6.3 L'assenza di un metodo

52

2.7 Il filosofo consulente

53

2.7.1 Quale dialogo?

54

2.7.2 Il ruolo dell'empatia

55

2.7.3 Dialogo centrato sul cliente e natura dialogica del processo

56

2.8 Due pratiche a confronto

58

2.8.1 Le analogie

59

2.8.2 Le differenze

61

2.9 Un caso di approccio filosofico-educativo

63

Conclusioni

65

Appendice

67

Tavola A

68

Tavola B

73

Bibliografia

78

Ringraziamenti

85


INTRODUZIONE

Cosa accomuna e cosa differenzia la consulenza educativa dalla consulenza filosofica? Quali peculiarità e quali caratteri queste due forme di consulenza condividono o meno? Rispondere a tali quesiti è l'obbiettivo che ha animato e mosso il presente lavoro, nel tentativo di riflettere e spiegare le caratteristiche principali di due pratiche di consulenza, apparentemente così lontane tra loro ma in realtà sostanzialmente vicine. Il rapporto tra una forma di consulenza definita educativa e una forma di consulenza denominata filosofica ha necessariamente condotto all'analisi del rapporto turbolento che nel corso degli anni ha contraddistinto il legame esistente tra pedagogia e filosofia. Un legame che tutt'oggi si presenta come una

delle

tematiche

più

dibattute

laddove

si

riflette

sull'identità

epistemologica della pedagogia. Pertanto, attraverso la rivisitazione del pensiero di diversi autori che si sono espressi in merito ho ritenuto doveroso evidenziare le difficoltà che quest'ultima ha dovuto affrontare nel scovare una propria collocazione scientifica attraverso l'acquisizione di un proprio e rigoroso metodo d'indagine. In questo modo partendo da una definizione generale di consulenza, quale professione di sostegno, si è cercato di individuare quello che è il ruolo della pedagogia e della filosofia all'interno di un contesto di lavoro pratico, esaminando le effettive competenze che un consulente deve avere all'interno di una relazione educativa e allo stesso modo le peculiarità più proprie della consulenza filosofica nonchè del rapporto

tra

un

consulente

e

il

suo

interlocutore.

Mediante

la

somministrazione di due interviste in profondità a un consulente educativo e a uno filosofico è stato possibile esaminare da due diversi punti di vista 1


entrambe le pratiche, cogliendone le differenze e le similitudini, al fine di comprendere quale intervento sia più adatto alle possibili ed eventuali difficoltà che si presentano nella vita di una persona. Il presente lavoro di ricerca mi ha permesso di sviscerare queste due prassi esaminandole nella loro essenzialità e avanzando quesiti e perplessità che in realtà ancora non trovano risposte.

2


CAPITOLO I EPISTEMOLOGIA PEDAGOGICA

Il problema prioritario che intercorre da sempre nella pedagogia è stabilire se essa sia o meno una scienza. In questo senso, il '900 va configurandosi come un secolo innovativo, in grado di accogliere e promuovere il suo radicale rinnovamento e che la vede imponendosi come una pratica sociale sempre più centrale, articolata e diffusa1. L'intensa vitalità del dibattito sulla natura costitutiva e sullo statuto epistemologico della pedagogia, è documentata dal ricchissimo repertorio di studi, riflessioni e approfondimenti che contraddistingue questo specifico settore di ricerca pedagogica. Si tratta di un campo d'indagine che studia la difficoltà della pedagogia di definirsi quale scienza, legata a una molteplicità di fattori strettamente correlati tra loro. Uno di questi è il legame di dipendenza vissuto per lungo tempo dalla pedagogia nei confronti della filosofia, dalla quale la pedagogia riuscirà ad affrancarsi con molta fatica e il problematico rapporto con le altre scienze, rapporto fondamentale per gli obiettivi specifici della pedagogia ma, proprio per questo, talvolta molto rischioso rispetto alla ricerca di una propria specificità e di una chiara autonomia epistemologica. Nell'ambito più strettamente pedagogico le innovazioni sono state essenzialmente tre e riguardano principalmente l'affermarsi delle scienze dell'educazione, lo sviluppo dell'epistemologia pedagogica con il costituirsi di un modello di pedagogia critica, che si è imposto come neo paradigma nel pensiero pedagogico di fine millennio e lo sviluppo della pedagogia sociale, diventata poi uno dei settori più importanti della pedagogia generale2.

1 F. Cambi, Le pedagogie del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2005, p.9. 2 Ivi, p.10.

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1.1.

1.1 Pedagogia: un problema d'identità

Nel corso dell'Ottocento lo statuto empirico di molte di queste scienze è andato sviluppandosi, promuovendo il ripensamento totale del loro ruolo, nonché dell'idea stessa di scienza. Si impone un modello epistemologico basato sull'oggettività e l'esattezza nelle quali, alcune di queste scienze, possono ritrovare uno statuto fondato su basi più solide. La pedagogia non fu certamente estranea al processo di cambiamento che attraversò la cultura nella seconda metà del XIX secolo, anni contrassegnati dall'idea positivistica di progresso, nonché da una fama di sviluppo illimitato, governato dalla razionalità scientifica. Quando si parla di pedagogia oltre a un rimando all'educazione come dato di fatto, si ricorre a un riferimento in cui si tiene conto anche di rimandi di natura teorica in direzione scientifica (si pensi alla riflessione, al possesso di una competenza superiore rispetto alla pura e semplice pratica quotidiana)3. Da tempo, infatti, questa disciplina ha sviluppato al proprio interno un filone di ricerca orientato alla costituzione di una struttura epistemologica del proprio essere scienza dato che in tante concezioni ormai ben consolidate e situate nel tempo, la pedagogia è sempre stata considerata secondo uno schema che si può definire di identificazione con altri tipi di sapere, come la psicologia, la filosofia, la politica o ancora la biologia. Il dibattito riguardante l'entità e la definizione della pedagogia in termini scientifici ed il suo rapporto con altri ambiti disciplinari dotati di una propria legittimazione epistemologica inizia a delinearsi tra il XIX ed il XX secolo. E' infatti a partire dal XIX secolo che la ricerca educativa non si nasconde la richiesta di un oggetto proprio, da cogliere in una sostanziale organicità, e prende a costruire, attraverso il confronto con diversi settori della cultura quel mosaico che si viene

precisando nel suo ambito e nelle sue

problematiche come pedagogia4. La dipendenza della pedagogia dalla sua matrice filosofica costituisce senza dubbio 3 F. Frabboni, L. Guerra, C. Scurati, Pedagogia. Realtà e prospettive dell'educazione, Milano, Mondadori, 1999, p. 3. 4 M. Striano, Introduzione alla pedagogia sociale, Roma- Bari, Laterza, 2004, p.4.

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il maggior ostacolo alla definizione di una sua identità che, almeno in Italia, può vantare una riflessione altamente qualificata5. Ci si chiede allora quali sono i contorni di quella che si definisce “pedagogia” e quale sarà lo statuto epistemologico di questo campo del sapere che oltre a doversi liberare ancora dalle tutele della filosofia e delle scienze, dovrebbe definire oggetti, metodi e linguaggi autonomi per poter superare una soglia di epistemologia in senso positivista. In primo luogo abbiamo gli sviluppi del cosiddetto herbatismo, cospicui in Germania ma notevoli anche in altri paesi, compreso l'Italia: con Herbart si assiste a una prima legittimazione della pedagogia come scienza autonoma, si ha l'affermazione del positivismo, al quale va riconosciuto il merito di avere affermato il diritto della scienza di andare “oltre il mondo visibile”. Infatti, pare, che solo nel clima generale creato dal positivismo può svilupparsi anche nel campo pedagogico quell'indagine autenticamente scientifica senza la quale verrebbe a mancare una delle condizioni essenziali per l'attuazione del piano educativo proposto dalla civiltà contemporanea. La ricerca di identità da parte della pedagogia si presenta, quindi, come un processo aperto e in continuo divenire, in cui la pedagogia appare contraddistinta da una naturale disponibilità a lasciarsi contaminare da altri saperi ma allo stesso tempo sviluppa propri punti di vista. Tutto questo, utilizzando conoscenze talora provenienti dai saperi extra-pedagogici, ma interpretandoli e orientandoli alla luce di quello che è l'oggetto costitutivo della ricerca in ambito pedagogico6. Se la parola “educazione” rinvia a uno dei possibili nodi dove convergono i fili della riflessione filosofica e pedagogica, l'impianto conoscitivo della pedagogia non sembra potersi esimere dall'instaurare con la filosofia un rapporto dialogante7. Pertanto come la pedagogia richiede l'aiuto del sapere filosofico, così la filosofia ha bisogno della conoscenza pedagogica nel momento in cui si rapporta ai significati educativi che coinvolgono l'uomo. Tuttavia la storia della pedagogia risulta segnata dal dominio della filosofia in cui nel cercare di dare un fondamento 5 R. Laporta, L'assoluto pedagogico , Roma, La Nuova Italia, 2007. 6 F. Frabboni, F. Pinto Minerva, Introduzione alla pedagogia generale, op. cit., p.9. 7 Ivi, p. 28.

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teorico e uno statuto epistemologico alla pedagogia spesso non si faceva altro che valorizzare la sola dimensione filosofica8. Le voci del dibattito pedagogico contemporaneo sono prevalentemente orientate a identificare nella pedagogia una forma di sapere non dipendente ma comunque non mai autosufficiente dalla filosofia o, meglio, quale disciplina interdisciplinare in cui le idee filosofiche e la prassi educativa si confrontano tra loro e lasciano spazio a un dialogo critico.

1.2 Johann Friedrich Herbart: la pedagogia diventa scienza autonoma E' con Johann Friedrich Herbart che la pedagogia appare impegnata nello stabilire condizioni e limiti della propria scientificità. Egli fu la figura più rappresentativa della filosofia europea del XIX secolo e soprattutto un deciso avversario dell'idealismo in tutte le sue forme. Compito della filosofia è per Herbart l'elaborazione dei concetti in cui la filosofia si precisa prima di tutto come logica, poi come metafisica e, infine, come etica ed estetica. La pedagogia è una scienza filosofica applicata alla cui costituzione concorrono etica e psicologia e nella quale il sapere filosofico è capace di elaborare, determinazioni concettuali, che partono solo dall'esperienza. Egli stesso nei riguardi della pedagogia compie il lavoro che molti secoli prima per quanto riguarda il sapere filosofico aveva compiuto Aristotele, attraverso un lavoro di definizione e di differenziazione, con il quale aveva fissato, nell'ambito della filosofia, i limiti della logica, della metafisica, della filosofia naturale e dell'etica. In altri termini,si pose, dunque, il problema della definizione e determinazione del contenuto teorico della pedagogia intesa come forma del sapere filosofico. Per il pedagogista tedesco la distinzione di pedagogia e filosofia risulta “interna” alle scienze filosofiche. Nelle “Prime lezioni di pedagogia”, Herbart definisce scienza un insieme ordinato di punti di dottrina, che formano un complesso di idee e che derivano possibilmente gli uni dagli altri, come 8 Ivi, p. 29.

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le conseguenze dai principi e i principi dalle idee fondamentali9. La pedagogia in Herbart rimane in bilico tra la filosofia e la scienza propriamente detta, per il carattere peculiare della psicologia herbartiana, che discende dalle sue concezioni metafisiche10. Nel 1806, Herbart pubblicherà “Pedagogia generale”, in seguito completato e tradotto in “Pedagogia generale derivata dal fine dell'educazione”11, nel quale, oltre a teorizzare sull'esigenza della pedagogia di attingere, per fondarsi come scienza, da altri saperi, si pone attenzione nuova ai modi, ai tempi e agli strumenti dell'educare. Herbart reagisce all'idealismo e porta la pedagogia a una svolta, sia nel senso di renderla problematica, sia in quello di vedere l'educazione come processo fondamentalmente intellettualistico contenuto da istanze etiche e da conoscenze psicologiche nell'ambito di un sapere da costruire e da verificare12. Con questo filosofo emerge con chiarezza un impegno della pedagogia a costituirsi come scienza, se pure come scienza filosofica e, quindi, l'avvio di una ricerca epistemologica in campo pedagogico sulla base di fondamenti etici e psicologici che la conducono a costruirsi come scienza autonoma, avente un proprio oggetto specifico e una propria metodologia. L'obbiettivo finale della pedagogia rimane pertanto quello di formare l'uomo e di formarlo come persona responsabile, nonché come totalità armonica. La pedagogia deve realizzarsi come scienza ed avere “forza di pensiero”, questo avviene provando a riflettere con la maggior precisione possibile sui concetti che le sono propri13, come pure coltivando maggiormente un pensiero indipendente14. E' significativo il fatto che Herbart, ponendo il problema del rapporto tra filosofia e pedagogia all'interno del sapere filosofico, pone allo stesso tempo le condizioni metodologiche per cui questo stesso rapporto possa essere preso in considerazione dall'esterno, una volta che la psicologia, anziché costituirsi su base speculativa, tenderà a darsi un fondamento esclusivamente 9 L. Volpicelli, La pedagogia. Storia e problemi, maestri e metodi. Sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento. Le forme dell'educazione, op.cit., p.154. 10 Ivi, pp. 154- 155. 11 J. F. Herbart, Pedagogia derivata dal fine dell'educazione, tr. it. (A cura di) L. Volpicelli, Firenze, La Nuova Italia, 1997. 12 G. Vico, Pedagogia generale e filosofia dell'educazione. Seminari itineranti interuniversitari di pedagogia generale, Milano, Vita e Pensiero, 2006 , pp. 50-51. 13 G. Sola, Epistemologia pedagogica, op,cit., p.12. 14 F. Cambi, Storia della pedagogia, Bari, Laterza, 1995, p.355.

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sperimentale e a svilupparsi indipendentemente dalla filosofia. Allora non si tratterà più di considerare la pedagogia nell'ambito del sapere filosofico, ma fondarne la sua autonomia teoretica e metodologica considerandola scienza allo stesso modo delle forme particolari del sapere, e cioè al di fuori e anzi in opposizione alla stessa filosofia. Herbart criticò notevolmente le teorie idealistiche, accusando l'idealismo di essere troppo distante dalla realtà, condannerà l'idealistica identificazione della pedagogia con la filosofia e dall'altra non accettando una pedagogia priva di fondamento e di giustificazione scientifica, come quella del fatto educativo ( Rousseau) o ancora la prospettiva che pretende di giustificarsi con l'esperienza, (Pedagogia Empirica). Non era un caso, quindi, che Gentile sviluppando le linee fondamentali della propria intuizione pedagogica, rivolgesse sin dalle prime battute le sue critiche verso Herbart. Il punto di disaccordo tra i due filosofi verteva più propriamente sui termini stessi in cui il filosofo di Oldenburg aveva ritenuto di poter impostare e risolvere il problema della derivazione della pedagogia concepita come una scienza filosofica strettamente dipendente nelle sue finalità dalla filosofia pratica, e per ciò che in particolare concerneva i mezzi e gli ostacoli per conseguire tali finalità, dalla puntuale cognizione delle modalità e delle leggi che sottendono la psicologia15. Questo significava che la pedagogia come scienza dipendeva dalla filosofia pratica e dalla psicologia, dove la prima indica il fine della formazione e la seconda il cammino, i mezzi e gli ostacoli. Così come sosteneva negli “Aphorismen zur Padagogik”: “Com'è certo che la filosofia ha da parlare della destinazione e della natura dell'uomo, con la stessa certezza rimane stabilito che la pedagogia vuole e deve essere una scienza filosofica. Essa deve esserlo, poiché l'uomo deve venire educato alla virtù, nel senso completo e pieno della parola; essa deve esserlo poiché senza conoscere la natura dell'uomo, si rimane del tutto all'oscuro intorno alla possibilità della sua formazione e deformazione”16. La pedagogia è una scienza pratica con un proprio contenuto, fondata precisamente sull'etica in modo di fornire 15 J. F. Herbart, Compendio delle lezioni di pedagogia, Roma, Armando Editore, 1971. 16 J.F. Herbart, Aphorismen zur Padagogik, in Id., Samtliche Werke, hrsg. v., Gustave Hartestein, Bd. XI, L. Voss, Leipzig, 1851 p.421.

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a ciascun uomo la capacità di giudicare, valutare la realtà naturale, nonché le azioni proprie ed altrui. Il suo pensiero rivela in ogni caso delle ambiguità, sia per quanto riguarda la dipendenza o meno della pedagogia dalla filosofia, sia per ciò che concerne la fondazione scientifica. Nel concepire i rapporti tra pedagogia e filosofia Herbart da una parte non cede alle teorie filosofiche romantiche, le quali a suo avviso minacciano di soffocare un problema vitale con presupposti astratti, ma dall'altra, non può ignorare l'insopprimibile esigenza filosofica per la quale come lui stesso scriveva “La pedagogia è affare della filosofia, di tutta la filosofia, sia della filosofia teoretica che della filosofia pratica, sia della più profonda indagine trascendentale che del ragionamento che si limita semplicemente a raccogliere fatti di ogni genere”17. Qui Herbart è convinto che la pedagogia sia il cuore della filosofia pratica e il suo procedimento per essere rigoroso non può discostarsi da quello delle altre discipline filosofiche. La separazione tra pedagogia e filosofia in Herbart può essere ricercata nella sua stessa filosofia e ha un significato storico nel senso che si distacca pienamente dalle filosofie idealistico-romantiche del suo tempo.

1.3 La pedagogia come mera scienza filosofica

Gentile fu il primo a riconoscere i limiti del pensiero pedagogico di Herbart accusandolo di non aver dimostrato pienamente perché e in che modo la pedagogia dovesse concepirsi come disciplina scientifica. Facendo coincidere “la pedagogia nella filosofia”, Gentile nega la possibilità alla pedagogia di definirsi come scienza autonoma con un proprio statuto epistemologico18. Il filosofo del '900, pone esplicitamente e criticamente

il problema del rapporto della pedagogia con la

filosofia, dopo aver assoggettato a una severa critica demolitrice la pedagogia positivista, ritenuta responsabile di una visione troppo materialistica dell'educazione 17 L. Carboni ,P. Zeppa, F. Salvestrini , Pedagogia, Storia e problemi, Milano, Massimo Editore, 1975, p.54 18 G. Sola, Epistemologia pedagogica, op,cit., p. 13.

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ridotta a fatto oggettivo. Per conferire dignità alla pedagogia bisognava isolarla dalle altre scienze; la defilosofizzazione della pedagogia, conseguita dalla fondazione Herbartiana o da una scientificità comunque derivante dall'assunzione a fondamento della pedagogia di un sapere che avesse raggiunto uno statuto scientifico, snaturava, secondo Gentile, il valore spirituale dell'atto educativo19. E' proprio nell'assunto dell'idealismo, come riduzione di tutta la realtà a pensiero, la necessità di far coincidere senza residui la pedagogia con la filosofia, intendendo quest'ultima come scienza della realtà spirituale nel suo svolgimento dialettico. Poiché il concetto della filosoficità della pedagogia è stato riguadagnato dal Gentile in rapporto al concetto della realtà che è pensiero, una scienza empirica dell'educazione potrebbe sussistere solo a condizione che l'uomo fosse per un suo aspetto natura e che la natura avesse effettivamente realtà; si tratta del procedimento inverso al positivismo dove è possibile solo una teoria scientifica, ridotta a meccanismo20. Alla definizione del concetto di pedagogia il filosofo italiano dedica uno dei suoi primi scritti, una memoria pubblicata nei ‟Rendiconti della Regia Accademia dei Lincei", nel 1900, dal titolo “Il concetto scientifico della pedagogia”21, in cui polemizza contro la concezione herbartiana della pedagogia come scienza filosofica in quanto applicazione dell'etica, legata nello stesso tempo a una conoscenza della psicologia. Rifiuta il concetto di una pedagogia intesa come arte, come scienza normativa, nonché scienza pratica e, per la prima volta, afferma esplicitamente che ‟la pedagogia coincide puntualmente con la scienza o filosofia dello spirito"22, si risolve cioè nella filosofia. L'idealismo concepisce l'educazione come momento dello Spirito laddove il fine fondamentale di questo approccio è che l'educazione non venga ridotta a mera dimensione strumentale e materiale. La pedagogia tende a coincidere con la filosofia. Quest'ultima è la scienza dello Spirito che si esplica in un divenire continuo, passando dallo stadio della coscienza a quello dell'autocoscienza. Questo processo è esattamente quello che Gentile 19 K. Colombo, La pedagogia filosofica di Giovanni Gentile, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 9. 20 L. Volpicelli, La pedagogia. Storia e problemi, maestri e metodi. Sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento. Le forme dell'educazione, op.cit., p. 152. 21 G. Gentile, Il concetto scientifico della pedagogia, Milano- Roma, Treves, 1932. 22 G. Spadafora (a cura di) Giovanni Gentile. La pedagogia la scuola, Firenze, Armando editore, 1988.

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intende per educazione, affidando così alla pedagogia il ruolo di scienza filosofica. Il legame tra aspetto filosofico e pedagogico costituisce uno dei caratteri sostanziali delle speculazioni del filosofo. Come dalla sua opera, “Sommario di pedagogia come scienza filosofica”23, “la pedagogia che si riduce è la pedagogia empirica, che si pone autonoma rispetto alla filosofia; e la pedagogia che riduce, è la pedagogia filosofica o meglio filosofia come critica della pedagogia”24. Nell'opera sopra citata, Gentile espone i postulati della sua pedagogia filosofica, attraverso un confronto con le posizioni che sono ad essa antagoniste e dove, l'obiettivo principale è quello di rimuovere tutte le opposizioni che hanno da sempre influenzato e caratterizzato il pensiero pedagogico rendendo irrisolvibili i suoi problemi di identità. Una seconda opera, rilevante in tale contesto di riflessione è “La riforma dell'educazione”25 che nel raccogliere le lezioni di filosofia dell'educazione tenute a Trieste per un “corso magistrale”, si promuoveva un ripensamento dei fondamenti attualistici del suo pensiero. Come è stato affermato, l'idealismo di Gentile si ribellava alle concezioni troppo materialiste del positivismo per le quali la pedagogia è tecnica, configurandosi come quell'azione con cui “uno Spirito promuove lo sviluppo di un altro spirito”26. Di conseguenza, tali pedagogie separano la teoria e la pratica, il conoscere e il fare, provocando una serie di inutili complicazioni all'interno del processo educativo.

1.3.1 Il discorso gentiliano ripreso in Giuseppe Lombardo Radice

Il discorso gentiliano fu ripreso da Giuseppe Lombardo Radice27, anche se con caratteristici aspetti intimistici e coscienziali nati da un profondo radicamento nella sua esperienza di insegnante e dalla sua partecipazione ai problemi dell'educazione 23 24 25 26 27

G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica II, Roma- Bari, Laterza, 1925. Ivi, p.16. G. Gentile, La riforma dell'educazione, Firenze, Sansoni Editore, 1975. F. Cambi, Le pedagogie del Novecento, op. cit., p.38. G. Lombardo Radice, Lezioni di didattica (1913), Saggi di propaganda politica e pedagogica (1910), Pedagogia di apostoli e di operai (1936).

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quali si presentavano nel concreto delle situazioni scolastiche. I concetti di educazione, di pedagogia e di didattica vengono sviluppati da Lombardo Radice secondo i criteri indicati da Gentile28, ma l'inflessione particolare dell'idealismo di Lombardo Radice manifesta non soltanto un'acuta consapevolezza di difficoltà di ogni sorta, ma anche l'impossibilità di risolvere in una formula e in una condanna tutta la cosiddetta rinascita idealistica. Le oscillazioni di Lombardo Radice si manifesteranno come una tensione feconda suscitata dall'esperienza concreta dei problemi scolastici e delle loro esigenze pratiche in urto con i quadri teorici generali. La superiore onestà dell'uomo, mentale e morale, che non si smentì mai, gli impedì di eludere con espedienti verbali le difficoltà reali: “Per questo tradusse a livello teorico le contraddizioni e ne alimentò il proprio discorso". La pedagogia è perciò in realtà critica di singoli atti, circostanziati storicamente, fatti al lume della filosofia, è educazione nel senso largo di questa parola: dalla politica, dallo studio delle condizioni sociali di un popolo e dei suoi bisogni storici, alla compilazione di un abbecedario29. Si assiste pertanto al rifiuto di una pedagogia intesa come una ‟scienza di norme", nonché il rifiuto di un empirismo tendente a frantumare l'attività e la persona umana in una serie di momenti e di attività particolaristici.

1.4 Le scienze della natura e le scienze dello spirito

Con la distinzione introdotta da Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito la posizione della pedagogia viene a problematizzarsi in quanto essa va collocandosi su due piani diversi che la considerano ora come scienza atta alla comprensione, ora come scienza in grado di fornire spiegazioni30. La novità della 28 Opere di Giuseppe Lombardo Radice in cui lo schema gentiliano appare arricchito e specificato: Lezioni di pedagogia generale (1916), Educazione e diseducazione (1922), Vita nuova nella scuola del popolo (1926), Il problema dell'educazione infantile (1927). 29 G. Lombardo Radice, Pedagogia e critica didattica, Venezia, La Nuova Italia, 1926. 30 M. Striano, Introduzione alla pedagogia sociale, op.cit., p.5.

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sua posizione teorica è segnata senza dubbio dalla originale comprensione dei rapporti tra filosofia e scienza dello spirito e tra queste ultime e le scienze della natura. Se il disegno diltheyano da un lato si avvicina alle posizioni teoriche del positivismo, dall'altro lo inducono a diffidare delle sue soluzioni. Le risposte date da Comte e dai positivisti, così come da Mill e dagli empiristi, appaiono a Dilthey come effettive mutilazioni della effettiva realtà storica, al fine di adattarla ai concetti e ai metodi delle scienze naturali31. Il pericolo in corso era quello di subordinare la conoscenza scientifica della realtà a qualcosa di estraneo a essa per cui, il programma di Dilthey, indica un fondamento sicuro nell'esperienza interna, nei fatti della coscienza, ai quali ogni conoscenza può e dev'essere riportata. Le scienze dello spirito si distinguono dalle scienze della natura in primo luogo per il fatto che queste ultime hanno come loro oggetto di studio fenomeni che compaiono nella coscienza come provenienti dall'esterno, come fenomeni singoli, mentre le scienze dello spirito prendono ad oggetto fenomeni interni32. Il campo della validità universale della teoria pedagogica risulta limitato, in quanto, l'autonomia della pedagogia verrà raggiunta nella misura in cui quest'ultima raggiungerà un'unione stretta con la vita33. La pedagogia si viene a considerare come scienza dello spirito e arriva alla sua maturità solo quando individuerà un ambito autonomo del sapere. E' a partire da Dilthey che la pedagogia si appoggia al concetto del comprendere laddove la comprensione dell'educazione si realizza per la sua connessione con il mondo oggettivo. L'aspetto sistematico dell'educazione si può comprendere solo tenendo presente il suo divenire storico34.

31 F. Bianco, Introduzione a Dilthey, Roma-Bari, Laterza, 1985, p.9. 32 Ivi, p.10. 33 G. Pérez Serrano, Pedagogia sociale. Educazione sociale. Costruzione scientifica e intervento pratico, op. cit., p. 31. 34 Ivi, p.33.

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1.5 John Dewey

In questo contesto problematico si colloca la posizione di John Dewey che viene via via a sostenere la fondamentale necessità da parte della pedagogia di collocarsi su un proprio piano scientifico attraverso l'acquisizione di un rigoroso metodo d'indagine e l'apertura dialogica con altre scienze35, la pedagogia si configura in questo senso come una scienza aperta e in continuo sviluppo. Il problema della pedagogia e dei suoi rapporti con la filosofia sono esaminati da John Dewey nell'opera “Le fonti di una scienza dell'educazione”36. Fonti, che per il pensatore americano, implicano un’origine discorsiva alla quale ci si abbevera per elaborare quel discorso in un’ottica scientifica specifica, coordinata, sintetizzata e unificata secondo una prospettiva squisitamente pedagogica37. Anche la pedagogia si fa scienza autonoma tanto in relazione alle fonti quanto ad una sintesi orientata in senso educativo. Questo breve e denso saggio resta tuttora fondamentale per comprendere e spiegare le origini e l'unità delle scienze dell'educazione. La pedagogia, sostiene Dewey, è una scienza che deve avere il suo ambito d'indagine, il suo campo di osservazione, le sue ipotesi direttive, la possibilità di sperimentare, controllare e verificare le sue ipotesi38 e dove più che configurarsi come una scienza unitaria risulta essere l'insieme di una molteplicità di forme del sapere, unificate dallo scopo educativo. La pedagogia è tanto filosofia quanto psicologia, sociologia e medicina, anche se la filosofia ha una posizione privilegiata nei riguardi della pedagogia in quanto ha il compito di formulare ipotesi e progetti perché questi ultimi assumano una funzione orientativa e propedeutica nella ricerca di soluzioni educative39. Il compito della filosofia è meramente regolativo e strumentale in grado di respingere la pretesa della filosofia di stabilire fini oggettivi e fissare principi generali dell'educazione. Il legame della filosofia con la pedagogia non è reciso da 35 36 37 38 39

Ibidem, p. 5. J. Dewey, Le fonti di una scienza dell'educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1909. Ivi, p.35. Ibidem, p.35. L. Volpicelli, La pedagogia. Storia e problemi, maestri e metodi. Sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento. Le forme dell'educazione, op.cit., p.36.

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Dewey, ma si tratta di un legame estrinseco, che la pedagogia ha dall'esterno e non dall'interno40. La pedagogia di Dewey si viene a delineare in generale come una scienza ispirata al pragmatismo e quindi a un permanente contatto del momento teorico con quello pratico, come intrecciata con le ricerche delle scienze sperimentali, alle quali l'educazione deve ricorrere per definire il proprio oggetto d'indagine e infine come impegnata a costruire una filosofia dell'educazione41. E' nel ricorrere alle cosiddette scienze ausiliare, attingendo ipotesi da esse, che la pedagogia si configura come un sapere ancora tutto da costruire42.

1.6 Verso una pedagogia come scienza: gli interpreti italiani

In Italia il paradigma deweyano ha avuto interpreti che si sono proposti come dei continuatori di esso, andando alla ricerca costante della scientificità della pedagogia. Nel secondo dopoguerra, lo sforzo di superare la riduzione della pedagogia a mera scienza filosofica mette in atto delle prospettive di indagine volte a garantirne la scientificità. Ora la pedagogia, rifiutando ogni legame con la filosofia viene a costituirsi come scienza, intesa come un insieme di direzioni articolate di ricerca empirica e sperimentale, ma non come una specifica disciplina scientifica43. Vengono introdotti vari dibattiti che, seppure spesso in opposizione tra loro rinunciano in tutti i casi ad una possibile identità filosofica della pedagogia. Quando De Bartolomeis pubblica La pedagogia come scienza44, nel 1953 viene affermata la prismaticità del sapere pedagogico per ragioni che fanno capo alla preoccupazione di salvare la multi-dimensionalità della pedagogia, contro il rischio che essa sia sacrificata ad ottiche parziali, se non addirittura sottomessa al dominio incontrastato 40 J. D. Landsheere, Storia della pedaggogia sperimentale. Cento anni di ricerca nel mondo, Roma, Armando Editore, 1988. 41 F. Cambi, Le pedagogie del Novecento, op.cit., p.54. 42 M. Striano, Introduzione alla pedagogia sociale, op.cit., p.6. 43 Ivi, p.7. 44 F. De Bartolomeis, La pedagogia come scienza, Firenze, La nuova Italia, 1961.

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di qualche disciplina superiore45. Il discorso pedagogico viene revisionato ancorandolo alla razionalità della scienza, egli afferma: L'intento di questa ricerca è stato quello di distruggere l'idea di pedagogia come scienza d'impronta schiettamente filosofica e che per acquistare indicazioni e dati accessori scenda a compromessi con la psicologia o la sociologia46. Nel 1965, Aldo Visalberghi, con I problemi della ricerca pedagogica47, segnava la propria adesione al deweysmo in particolare a quello prospettato ne “Le fonti di una scienza dell'educazione”48, per il riferimento al concetto scientifico della pedagogia. Per Visalberghi l'unità della pedagogia è funzionale o pragmatica, come quella dell'ingegneria, o meglio della scienza delle costruzioni. L'arte di costruire dispone di un corpo scientifico unitario nel quale confluiscono varie scienze pure [...]. Egli pone in evidenza come la complessità e l'eterogeneità dell'oggetto educativo non permettano alla pedagogia di costituirsi quale scienza ma, le sue conclusioni in merito a una sua collocazione da un punto di vista epistemologico permettano di considerare la pedagogia una scienza con una propria unità funzionale49. Anche Carmela Metelli Di Lallo, nel volume “Analisi del discorso pedagogico”50 evidenziava lo statuto logicosperimentale della pedagogia, parlando di una scienza dell'educazione che si pone come scienza positiva e che prende le distanze da una direzione ideologica e metafisica51. Per Raffaele Laporta52 il problema dell'autonomia della pedagogia è urgente ed egli individua tale spazio autonomo nella pedagogia come scienza empirica; ma a differenza delle altre scienze empiriche il problema dei fini è centrale per la pedagogia, ed è proprio la sua dimensione assiologica a dover essere sottoposta a formalizzazione e chiarificazione epistemologica nella definizione di una razionalità scientifica. Secondo Santoni Rugiu, il sapere pedagogico si delinea come una struttura dotata di un proprio nucleo significante, il cui contenuto è 45 F. E. Erdas, L'educazione interminabile. Un viaggio nell'utopia, Roma, Armando Editore, 1996, pp. 1920. 46 V. Burza, Pedagogia, formazione e scuola. Un rapporto possibile, Roma, Armando Editore, 1999, p.60. 47 A. Visalberghi, I problemi della ricerca pedagogica, Firenze, La Nuova Italia, 1965. 48 J. Dewey, Le fonti di una scienza dell'educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1961. 49 Ibidem, p.7. 50 C. Metelli Di Lallo, Analisi del discorso pedagogico, Padova, Marsilio, 1966. 51 M. Striano, Introduzione alla pedagogia sociale, p.61. 52 R. Laporta, L'assoluto pedagogico. Saggio sulla libertà in educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1996.

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relazionale53. In questa prospettiva la pedagogia non viene più intesa come scienza filosofica ma come scienza avente regole e norme in una direzione di ricerca empirico-sperimentale.

1.6.1 Il paradigma empirico- sperimentale

La pedagogia, criticata negli anni della contestazione in quanto sapere compromesso e scientificamente molto debole, nell'intento di caratterizzare la specificità della propria struttura di sapere autonomo, cerca nella scienza la possibilità di orientare la riformulazione del suo statuto teorico e prassico54 e di ridefinire il suo ruolo. Rispetto a questa esigenza di cambiamento e di ridefinizione si produce a partire dal secondo dopoguerra con la messa in discussione del rapporto totalizzante che aveva tenuto subordinata la pedagogia alla filosofia, cercando di guardare con interesse ai contributi

conoscitivi

che

altre

scienze

avrebbero

potuto

portare

alla

riconsiderazione autonoma e critica del suo oggetto55. La corrente che in un primo momento sembrò poter al meglio interpretare queste esigenze di rinnovamento scientifico della pedagogia fu quella dell'empirismo. La pedagogia scende in questo modo nel terreno empirico dell'osservazione, della sperimentazione e della verifica, ancorando la ricerca alla concretezza dell'esperienza. Con l'esperimento, il metodo empirico-sperimentale sottopone a verifica la veridicità delle ipotesi e attraverso l'oggettività rende il sapere controllabile, calcolabile e comunicabile. L'adozione di un punto di vista scientifico si identifica in un primo momento con l'adesione al modello del pragmatismo di John Dewey in cui l'incontro tra la pedagogia e la scienza si realizza con il richiamo alla padronanza del metodo attraverso il quale è possibile conoscere, ossia il “metodo 53 Ibidem, p.6. 54 G. Sola, Epistemologia pedagogica, op.cit, p.26. 55 F. Frabboni, F. Pinto Minerva, Introduzione alla pedagogia generale, op.cit., p. 10.

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investigativo dell'intelligenza”, che poi è lo stesso che contrassegna il procedere della scienza56. L'adozione della pedagogia intesa come scienza empirica dell'educazione trova in Italia e in particolar modo nella riflessione di Raffaele Laporta57 la sua sintesi più esaustiva e rigorosa. La pedagogia è scienza empirica nel senso che il fine ultimo è quello di ricercare, costruire e realizzare progetti di intervento legati a "concretizzare" le possibilità educative che si rendano necessarie per un singolo o un gruppo di individui. Il rischio della pedagogia vista e analizzata da un punto di vista empirico era quello di attuare delle scelte determinate da osservazioni su fatti oggettivi e non originate da intenzionalità pedagogiche. A proposito del metodo empirico non si negano gli aspetti di positività presenti in tale modello, ma è utile segnalare come questo metodo sia uno dei tanti metodi che accompagnano la ricerca pedagogica. Questo perché benché per studiare alcuni ambiti in campo educativo risulti necessario un approccio di tipo sperimentale, quest'ultimo non è sufficiente per istituire il metodo pedagogico in quanto, concentrandosi nell'aspetto sperimentale, si perde di vista il concetto di scientificità della pedagogia58. La Metelli di Lallo nel suo lavoro di “Analisi del discorso pedagogico”, afferma la necessità di un approccio pluralistico al suo oggetto di indagine, in base a una pedagogia che diventa scienza su una base sperimentale e osservativa, attraverso procedure di controllo sui processi generalizzati , nonché lavorando su dati accertati intersoggettivamente e collegati da costrutti teorici che, attraverso una catena di proposizioni, li riconducono a fatti accertabili59. In tale direzione, i processi educativi vengono a essere considerati come una serie di dati determinati da cause necessarie in cui il prezzo da pagare è che essi non siano più frutto di intenzionalità pedagogiche ma date da scelte e decisioni determinate. A questo proposito, Riccardo Massa afferma che nei confronti del metodo sperimentale la riflessione epistemologica della pedagogia deve sospettare, ovvero, assumere un atteggiamento critico capace di filtrare solo i contributi che possono 56 57 58 59

G. Sola, Epistemologia pedagogica, op.cit., p. 34. R. Laporta, Educazione e scienza empirica, Roma, Rai, 1980. G. Sola, Epistemologia pedagogica, op.cit., p.33. M. Striano, Introduzione alla pedagogia sociale, op.cit., p.8.

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essere utili ai fini della ricerca. Massa pone in evidenza come la pedagogia prima che la propria sperimentalità farebbe bene meglio a difendere la propria scientificità60. La pedagogia generale tende ad accogliere i contributi che una corretta indagine sperimentale è capace di produrre, senza cadere in quel riduzionismo metodologico che ne soffocherebbe la forza conoscitiva61.

1.7 Dalla pedagogia alle scienze dell'educazione

Il tentativo di comprendere le problematiche interne al discorso pedagogico portano la riflessione epistemologica a prendere in considerazione i rapporti che legano la pedagogia alle altre discipline. Tra questi saperi si collocano le scienze dell'educazione. Sviluppatesi inizialmente come ambito specifico di conoscenza del sapere educativo le scienze dell'educazione si sono in seguito appropriate dell'oggetto di studio della pedagogia, creando forti squilibri nel sapere pedagogico62 e destando non poche preoccupazioni. Una delle caratteristiche essenziali della pedagogia è la sua interdiscipliarità perché nel momento in cui tende verso le scienze dell'educazione, le semantiche sviluppate nel dialogo saranno sufficientemente forti da permettere alla pedagogia di distinguersi quale sapere orientante63. Tra le due guerre mondiali si determinano le condizioni per una trasformazione profonda del pensiero pedagogico, tale da riproporre, in particolare dopo il secondo conflitto, il rapporto tra pedagogia e scienze dell'educazione in termini nuovi. Lo stimolo venne, probabilmente, dalla divisione operata dal sociologo francese Emile Durkheim64 tra “scienza dell'educazione” e “pedagogia”, divisione che a molti parve mettere in crisi la 60 61 62 63 64

Ibidem, p.33. Ivi, p.35. Ivi, p.44. Ivi, p.51. E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Firenze, La Nuova Italia,, 1893; Le regole del metodo sociologico, Einaudi editori, Torino, 1895; Il suicidio, Edizioni Bur Rizzoli, 1896 ; Le forme elementari della vita religiosa, Roma, Meltemi Editore, 1912.

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concezione tradizionale della pedagogia in cui si fondevano, in un'unica sfera disciplinare, teorie ed enunciati scientifici, o suscettibili di essere tali, con formule di carattere ideologico, valutativo, morale e pratico65. Ci sono state delle cause per la maggior parte interne che hanno portato la pedagogia a perdere almeno in parte la sua unità di scienza dell'educazione nella pluralità dei saperi che formano l'educativo. Queste cause si ritrovano nel fatto che la pedagogia non è riuscita ad affermarsi quale sapere unitario, configurandosi principalmente quale sapere periferico, conducendolo a sua volta a definirsi come un sapere generico incapace di dare voce al suo statuto scientifico e permettendo in questo modo alle scienze dell'educazione di prendere il posto della pedagogia quale scienza unitaria66. Gaston Mialaret, in “Introduzione alla pedagogia”67, qualifica le scienze dell'educazione come discipline che studiano, da diversi punti di vista, i fatti e le situazioni dell'educazione e, in questo senso, in quanto saperi dei fatti, si distinguono dalle scienze pedagogiche, intese come saperi degli interventi. Egli ammette il passaggio dalla pedagogia alle scienze dell'educazione, una transizione avvenuta nel XX secolo, è proprio in questo contesto, infatti, che la pedagogia si trova a filtrare i contributi che potrebbero essere preziosi ai fini del suo discorso, e ad evitare che le altre scienze si approprino degli oggetti della propria ricerca. Mialaret distingue le scienze dell'educazione dalle scienze pedagogiche, queste ultime intese come saperi degli interventi in quanto ne studiano la loro modificazione e dove le scienze dell'educazione sono intese quali discipline che da diversi punti di vista studiano i fatti educativi68. In Francia le scienze dell'educazione mostrano un profilo poco definito mentre, in Germania, come afferma De Giacinto nel volume “Epistemologia pedagogica tedesca contemporanea”69, è l'articolazione del linguaggio a indicare la pluralità di scienze centrate sull'educativo70. Anche per quanto riguarda l'Italia i saperi sull'educativo non hanno una chiarificazione esatta 65 G. Giraldi, Storia della pedagogia. Fondamenti filosofici, basi scientifiche, orientamenti didattici, problematica pedagogica, Roma, Armando Editore, 1984. 66 G. Sola, Epistemologia pedagogica, op.cit., p.46. 67 G. Mialaret, Introduzione alla pedagogia, Roma, Armando Editore, 1984. 68 M. Striano, Introduzione alla pedagogia sociale, op.cit., pp. 12 13. 69 S. De Giacinto ( a cura di), Epistemologia pedagogica tedesca contemporanea, Brescia, La Scuola 70 G. Sola, Epistemologia pedagogica, op.cit., p. 47.

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dal punto di vista concettuale, ci si muove ancora tra scienze pedagogiche e scienze dell'educazione, indifferentemente sia nella forma linguistica che nella forma semantica71. Franco Cambi pone in evidenza come negli ultimi anni si è verificata una crescita delle scienze dell'educazione tant'è che spesso si è pensato a una conversione totale della pedagogia in esse, arrivando quasi a determinare la cosiddetta “morte della pedagogia”. La pedagogia entrata presto in crisi come sapere unitario diviene sempre più tributaria di saperi specializzati assunti come ausiliari ma che, in realtà, ne hanno descritto l'identità interna, frazionandola e disseminandola in vari settori relativi alle altre discipline. Bisogna precisare che il discorso pedagogico sarà più fertile quanto meglio riuscirà a non isolare la propria conoscenza dai saperi prodotti in altre scienze. Nella tensione disciplinare la pedagogia sarà in grado di contribuire a quell’opera di ricostruzione di un’unità perduta72.

1.8 Il recupero della dimensione teoretico-filosofica

In un quadro così delineato il dipanarsi della pedagogia nelle scienze dell'educazione, sembra comportare una visione alquanto riduttiva delle scelte educative che riguardano il soggetto. Si tratta ora di una pedagogia che si ricostruisce confrontandosi dialetticamente con le altre scienze umane, attraverso anche un recupero della dimensione filosofica, senza però recidere quel rapporto che aveva costruito con le scienze ausiliarie. Si ritrovano nella filosofia tutti quei strumenti concettuali necessari per affrontare una nuova problematizzazione epistemologica della pedagogia. Significativo da questo punto di vista sono i contributi di alcuni autori da un lato di orientamento laico e dall'altro di orientamento marxista che hanno dato vita a differenti discussioni su questo punto di vista. Sul versante marxista vengono messi in evidenza gli scopi politici da cui è 71 Ivi, p.48. 72 Ivi, p.50.

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investita la pedagogia. Esemplificative, in questo senso, le figure di Manacorda, Giuseppe Lombardo Radice e Broccoli che sulla scia di Gramsci affermano come non ci sia continuità tra politica, filosofia della prassi e pedagogia73. Laporta delinea la necessità di una teoria scientifica dell'educazione che, riconoscendo come materia della propria riflessione i contributi delle scienze positive dell'uomo, sia in grado di mettere in campo differenti livelli di approccio al suo oggetto e insieme di realizzare una composizione globale sei risultati74. Rispetto a un versante cattolico i diversi autori cercano di riportare la pedagogia a un sapere unitario. Mauro Laeng75 pone in evidenza come la pedagogia ha una specifica connotazione epistemologica, che la rende scienza né tanto descrittiva da escludere una prospettiva normativa, né tanto normativa da trascurare le condizioni di fatto da cui e in cui si muove76. Per Flores D'Arcais77 l'oggetto della pedagogia, ovvero il problema educativo, non deve limitarsi a un determinato momento ma deve essere capace di estendersi in tutte le sue forme78. La pedagogia non può considerare l'uomo se non a tutto campo, nella totalità delle sue dimensioni personali. La pedagogia presenta le sue più urgenti richieste per il futuro, tanto più realizzabile, quanto più la riconsiderazione del vincolo tra teoria e prassi sarà tenuta presente79. L'approccio filosofico considera l'educazione un insieme di processi che chiamano in causa la dimensione scientifica e quella pratica, prendendo in considerazione degli approcci normativi quali l'emancipazione umana e la libertà. La pedagogia presenta un carattere prettamente filosofico perché è sapere che pensa l'educazione per l'uomo, per la persona80. Per Giuseppe Acone81 pensare l'educazione oggi significa riportarsi all'unità di una sola dimensione, quella filosofica, che ha il carattere dell'universalità perché fornisce un orizzonte di senso all'educazione umana. 73 74 75 76 77 78 79 80 81

M. Striano, Introduzione alla pedagogia sociale, op.cit., p.9. Ivi, pp.10-11. M.Laeng, Problemi di struttura della pedagogia, Brescia, La Scuola, 1960. Ibidem, p.10. G. Flores D'Arcais, La ricerca pedagogica, Bari, Laterza, 1964. Ibidem, p.10. V. Burza, Pedagogia, formazione e scuola. Un rapporto possibile, Roma, Armando Editore, 1999, p. 68. Ivi, p.69. G. Acone, L'ultima frontiera dell'educazione, Brescia, La Scuola, 1986.

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1.8.1 Pedagogia e Filosofia dell'educazione

Anche nella filosofia dell'educazione la cultura pedagogica ha subìto un doppio processo, di riduzione e di specializzazione, passando da una posizione predominante e generale ad una collaterale e particolare. Collaterale perché anziché rivolgersi a tutti gli elementi che caratterizzano il processo pedagogico, oggi è diventata oggetto di una funzione metodologica e meta-pedagogica. Particolare perché per assumere il suo nuovo ruolo ha dovuto specializzare il proprio approccio, assumendo un atteggiamento più epistemologico rispetto all'approccio più generico e globale di prima82. E' dentro la pedagogia che, imponendosi come sapere articolato e dialettico, si colloca la filosofia dell'educazione, come suo settore chiave e specifico, nonché come un suo ambito di auto-riflessione. Da ambito primario della pedagogia si è determinata come ambito particolare in cui la pedagogia si riflette quale sapere meta-riflessivo, specializzandosi al proprio interno e delineandosi come frontiera specifica, necessaria e costante, ma anche articolata e complessa83. Il ruolo critico-regolativo della pedagogia, se da una parte ha convissuto con la natura scientifica della disciplina, dall'altra ha contribuito a individuarne anche l'intima scissione tra filosofia e pedagogia, attribuendo in questo modo alle scienze dell'educazione il compito di esprimerne la natura empirica e prassica e affidando invece alla filosofia dell'educazione, il compito di esprimerne la funzione di raccordo di metalivello come mediatrice tra una pluralità di discipline diverse, orientate dall'intenzionalità educativa84. Per troppo tempo si è creduto che con l'espressione filosofia dell'educazione si riproponesse come una forte identificazione idealista tra filosofia e pedagogia. La filosofia dell'educazione si presenta invece come non sovrapposta né alla pedagogia come totalità, né alla filosofia, alla storia del pensiero pedagogico o all'epistemologia pedagogica, pur interagendo con esse dal proprio punto di vista. Il 82 F. Cambi, Manuale di filosofia dell'educazione, Roma- Bari, Laterza, 2004, p.24. 83 Ivi, p.1. 84 P. Orefice, V. Sarracino, Cinquant'anni di pedagogia a Napoli. Studi in onore di Elisa Frauenfelder, Napoli, Liguori, 2006, p. 177.

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processo di articolazione del sapere pedagogico nelle scienze dell'educazione, precedentemente descritto ha determinato che si delineasse l'esigenza a livello pedagogico di recuperare una prospettiva di filosofia dell'educazione, considerato il solo modo attraverso cui si potessero affrontare dei problemi di natura epistemologica85. Questa disciplina nell'inscriversi all'interno delle scienze umane attiene tanto alle scienze dell'educazione, quanto alle discipline filosofiche e può contribuire autonomamente tanto alla ricerca teorica sviluppata in ciascuno di questi ambiti, quanto al loro arricchimento reciproco. Il livello teoretico della pedagogia generale costituisce la base per la formazione della filosofia dell'educazione dal momento in cui la pedagogia in quest'incontro con la filosofia comprende in sé una riflessione a livello teoretico86. Un contributo forte di questo cammino è stato dato da Franco Cambi con il suo Manuale di filosofia dell'educazione87, in cui l'autore porta avanti il discorso sull'importanza della filosofia in campo pedagogico. Mentre la pedagogia generale attraverso la riflessività si confronta in un processo di analisi e sintesi, la filosofia dell'educazione è caratterizzata dalla meta-riflessività con cui si rapporta con la pedagogia stessa. Cambi afferma: La filosofia dell'educazione è un po' il luogo dove si trattano criticamente i problemi ricorrenti della pedagogia, che non toccano solo le dimensioni epistemologiche bensì anche le scelte valoriali, strutture antinomiche, problematiche ricorsive88. La filosofia dell'educazione si pone in una condizione di apertura, continuità e relazione con il sapere dell'educazione e in primo luogo con la pedagogia generale, per renderlo più rigoroso e allo stesso tempo un sapere critico, in una funzione di controllo e di rivitalizzazione costante89. Per Visalberghi90, la filosofia ha un ruolo analiticocritico, di riflessione sul linguaggio, ha una funzione chiarificatrice delle componenti che articolano il discorso pedagogico e in sostanza meta-discorsiva. Per Flores D'Arcais91 essa è l'ultima frontiera della pedagogia, in quanto non esiste 85 86 87 88 89 90 91

M. Striano, Introduzione alla pedagogia sociale, op.cit., p. 10. G. Sola, epistemologia pedagogica, Milano, Bompiani, 2002, p. 40. F. Cambi, Manuale di filosofia dell'educazione, Roma- Bari, Laterza, 2000. G. Cives, La mediazione pedagogica, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 78. Ivi, p. 45. A. Visalberghi, Pedagogia e scienze dell'educazione, Roma, Mondadori, 1978. G. Flores D'Arcais, Itinerario pedagogico, Ist. Editoriali e Poligrafici, 2000.

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pedagogia senza filosofia, essenziale e necessaria per farci pensare l'unità dell'educazione. La filosofia dell'educazione si definisce allora come un sapere settoriale e allo stesso tempo generale che si occupa dei temi sempre aperti della pedagogia da trattarsi in maniera critica e radicale per arrivare a definire una trattazione della pedagogia in un'ottica razionale. Si presenta come l'esercizio di una critica radicale nei confronti della pedagogia e dei suoi saperi, intorno a oggetti e strutture che la caratterizzano e verso i quali esercita una riflessione continua e interminabile92. A questo punto emerge la seconda caratteristica della filosofia dell'educazione che è connessa alla sua funzione critico-regolativa. Lo stesso esercizio critico opera una funzione regolativa, indica compiti, fissa obbiettivi così da svolgere il ruolo di regolatori di un universo discorsivo93. Per Massa la filosofia dell'educazione è il momento riflessivo del pedagogico, momento che deve configurarsi al di fuori di ogni modello riduzionistico di tipo scientifico o filosofico, deve dar corpo a una teoria della formazione articolata e poliforma, ma centrata sulla categoria della formazione, che risulta irriducibile da altre scienze diverse dalla pedagogia, e che va pensata in forma filosofica, ma a partire da una filosofia rielaborata capace di integrarsi con la pedagogia. In questo modo la filosofia dell'educazione viene ad articolarsi come sguardo critico e strutturale sul pedagogico, di cui costituire identità e senso, assimilando l'idea di formazione e disponendosi intorno ai problemi del soggetto94.

92 F. Cambi, Manuale di filosofia dell'educazione, op.cit., pp.26-27. 93 Ibidem, p.27. 94 A. Rezzara, Dalla scienza pedagogica alla clinica della formazione. Sul pensiero e l'opera di Riccardo Massa, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 80.

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1.9 Quale statuto epistemologico?

Il campo d'indagine che riguarda il dibattito sulla natura costitutiva e fondante della pedagogia, sul suo statuto epistemologico e sulla sua stessa ragione di esistenza è legata a una molteplicità di fattori strettamente interagenti tra di loro. Pur nella varietà dei modelli interpretativi che hanno contraddistinto le varie fasi di trasformazione della pedagogia, la ricerca teorica trova un elemento unificante nell'impegno, di tipo concettuale, a indagare le coordinate strutturali del sapere pedagogico. Nel tentativo di delineare uno statuto epistemologico della pedagogia Frabboni e Pinto Minerva offrono un'accurata sintesi epistemologica. Il paradigma di legittimazione della pedagogia è riconosciuto dai due autori all'interno del macroparadigma della complessità, a causa dell'insufficienza di procedure esplicative semplici, della debolezza di modelli esplicativi che hanno portato anche la pedagogia ad assumere un ruolo attivo, critico, capace di auto-riconoscersi e autoaffermarsi come sapere95. La complessità caratterizza l'oggetto della pedagogia, la sua formazione pluridirezionale e multidimensionale mentre la pluralità costituisce il linguaggio e il metodo della pedagogia, consentendole di muoversi tra codici diversi e vari ambiti di ricerca. Il principio euristico interviene a problematizzare, interconnettere e ricomporre le antinomie strutturale della pedagogia: a partire dalla teoria e dalla prassi, dai fini ai mezzi, dalla realtà e dall'utopia 96. Nella dimensione utopica la pedagogia si identifica quale scienza, svolgendo una funzione decostruttiva-ricostruttiva, creativamente proiettata verso il futuro e aperta alle trasformazioni. L'obiettivo euristico del sapere pedagogico è la chiarificazione critica e aperta, che si muove tra istanze di evoluzione, alla ricerca di mondi possibili. Tale paradigma, disponibile al superamento di prospettive unilaterali e parziali, utilizza il dispositivo della speculazione che si esplica sul piano della teoria, e il dispositivo dell'azione che equivale al piano contingente della prassi in 95 M. Striano, Introduzione alla pedagogia sociale, op. cit., pp. 26-27. 96 F. Frabboni, F. Pinto Minerva, Introduzione alla pedagogia generale, op.cit., p. 39.

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un percorso di circolarità, laddove la pedagogia vive in un permanente stato di crisi e provvisorietà. A livello critico vengono affrontate e interpretate le problematicità della realtà educativa, le molteplici forme di dipendenza che intervengono a impoverire e a ridurre i processi di formazione. E' nella valenza utopica che la pedagogia ha modo di dispiegare pienamente la propria natura di scienza impegnata allo stesso tempo su un duplice versante,

quello critico e

quello

progettuale. Se da un lato è impegnata a produrre un'analisi critica del presente, volta a far emergere le eventuali contraddizioni, dall'altro lato è impegnata a progettare possibili percorsi di trasformazione dell'esistente97.

1.9.1 Pedagogia critica

La pedagogia critica si evolve in un contesto in cui accanto a una linea di ricerca che aveva considerato la pedagogia all'interno di un modello neopositivista in cui essa è vista esclusivamente come scienza avente un proprio oggetto d'indagine, è possibile coglierla in un rapporto dialettico con la razionalità filosofica98. Si tratta di una scienza che non considera la pedagogia come un sapere articolato e ridotto al suo interno a filosofia dell'educazione anche se il rapporto con la filosofia rimane indiscusso e presente. Per Alberto Granese tale specifico pedagogico si discute in un congegno critico- radicale che orienta in termini “trascendentali” gli altri saperi e intende districarsi attraverso “procedimenti ermeneutici” nel labirinto della pedagogia e nella porta stretta dell'educazione99. La pedagogia critica vuole attuare una riflessione radicale o se si può dire estrema dei concetti pedagogici sia presenti nell'elaborazione pedagogica sia, spesso in modo implicito, nella filosofia, nell'epistemologia e nella scienza100. Secondo Granese, fare della pedagogia critica significa: “Forzare i limiti concettuali dei discorsi già volti, prospettando un piano 97 Ivi, p. 18. 98 Ivi, p.45. 99 A. Granese, Il labirinto e la porta stretta. Saggio di pedagogia critica, Firenze, La Nuova Italia, 1993. 100 P. Triani, Il dinamismo della coscienza e la formazione. Il contributo di Bernard Lonergan a una filosofia della formazione, Milano, Vita e Pensiero, 1999, p. 39.

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di riflessioni più radicali, sia nel senso di un salto più qualitativo verso categorie più comprensive e consistenti di quelle fino ad allora individuate e utilizzate, sia nel senso di strategico verso categorie soggiacenti e in quanto tali non sempre individuate, al fatto educativo e a quella considerazione storico- critica che costituisce il contenuto fondamentale e tipico della disciplina pedagogica”101. L'indirizzo critico pur avendo comunque un collegamento con la filosofia, affronta direttamente il problema tra filosofia e pedagogia ridotta a scienza filosofica, rivendicando con forza l'importanza primaria di un pensare filosoficamente la formazione all'interno della pedagogia. Non è soltanto la riflessione filosofica esterna al pedagogico che può venire in aiuto alla riflessione filosofica dentro la pedagogia, ma ancora di più è il pensare radicalmente, dentro l'esperienza, i problemi pedagogici nella loro irresolubilita', che svela la riflessione pedagogica di molte filosofie e rimanda alla filosofia una serie di questioni aperte invitandola, così, a sua volta, ad una maggiore radicalità. La filosofia ritorna al centro del discorso pedagogico, ma secondo un decisivo approccio critico che esclude ogni riduzione empiristica e dove l'approccio filosofico si caratterizza come epistemologia e metateoria102, come indagine sulle strutture del discorso pedagogico e sul suo congegno interno103.

101 Ivi, p. 43 102 Ivi, p. 41 103 Ibidem

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CAPITOLO II QUALE CONSULENZA?

“Oggi la vita delle persone è meno lineare e prevedibile.. Tutti i cittadini possono avere bisogno di aiuto in certi momenti della vita. E quindi, se l'obiettivo è la promozione del benessere e della coesione sociale, le politiche sociali devono essere politiche di aiuto alla normalità della vita delle persone [...]”104

Individuare le peculiarità che contraddistinguono la consulenza educativa e la consulenza filosofica così da poter procedere cogliendone le analogie e le differenze che sussistono tra queste pratiche, ha condotto inevitabilmente ad esaminare il rapporto turbolento che nel corso degli anni ha contraddistinto la relazione tra pedagogia e filosofia. La pedagogia e la filosofia si collocano sul piano pratico della consulenza, un intervento questo, volto a fornire un orientamento agli uomini che, nel corso del proprio sviluppo, possono vivere situazioni di difficoltà, dovute sia ad avvenimenti imprevisti che mettono a dura prova le capacità del loro adattamento, sia alle normali transizioni evolutive insite in ogni esistenza. Stabilire con esattezza quando il Counselling sia nato e come si sia sviluppato nel corso degli anni significa risalire alle sue origini e prendere in considerazione quell'insieme di associazioni che tutt'oggi continuano ad operare in questa direzione. Fortemente diffuso nella realtà anglo-americana, il counselling si è ampiamente affermato anche a livello europeo funzionando da messaggero di una rivoluzione interpersonale con la capacità di facilitare la piena realizzazione della persona in una società equilibrata105. Le maggiori associazioni che si occupano di 104 Dal discorso del ministro della solidarietà sociale di presentazione della legge 285/97. 105 A. Di Fabio, Counseling. Dalla teoria all'applicazione, Firenze, Giunti Editore, 1999, pp. 158-159.

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counselling hanno fornito definizioni piuttosto esaustive del processo di consulenza offrendo sintesi dei concetti che si basano su questo processo, stabilendo specifici standard e rispettando le leggi esistenti e le norme vigenti in ogni nazione di riferimento. La British Association for counselling definisce questo processo come una relazione nell'ambito del quale il cliente viene aiutato a elaborare una migliore conoscenza di sé attraverso l'accettazione dei propri problemi emotivi106, mentre, secondo la National Association of Young People's Counselling and Advisory Services, il counselling indica un modo di agire che collabora con le persone e che dispone come obbiettivo il cambiamento volontario da parte del cliente107. Grazie all'associazione che prende il nome di European Association for Counseling è stato distribuito un codice etico professionale, il cui valore primo è il rispetto per i diritti umani e le differenze tra individui e in cui le caratteristiche essenziali che definiscono il processo in questione sono il rispetto, l'autorità, l'autonomia, la responsabilità, la confidenzialità e la competenza. In questa sede, il counselling è considerato come una pratica avviata da un consulente verso uno o un gruppo più numeroso di clienti per risolvere specifiche questioni o promuovere una consapevolezza personale108. In Gran Bretagna intorno al 1970, tale pratica si sviluppa come servizio di orientamento pedagogico, nonche' strumento di supporto nei servizi sociali e di volontariato, tanto che nel 1977 nasce la British Association for Counselling (BAC), associazione che, dal 2000, diventerà British association for Counselling and Psychotherapy (BACP). Anche quest'associazione istituisce un codice etico-pratico, i cui valori i cui valori base si identificano con l'integrità, l'imparzialità e il rispetto, al fine di stabilire e mantenere gli standard per i counsellor109. Nel 1993 in Italia nasce l'associazione italiana di Counseling (S.I.Co) che persegue lo scopo di 106 F. Telleri, Consulenza e mediazione pedagogica. Esperienze e prospettive, Sassari, Carlo Delfino Editore, 2006, p.49. 107 Ivi, p.46. 108 Ibidem, p. 46. 109 C. Fuligni, P. Romito, Il counselling per adolescenti. Prevenzione, intervento e valutazione, Milano, 2002, pp. 45-46.

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favorire lo studio e la diffusione del Counseling professionale e la costituzione di un Albo Professionale. Le associazioni e le organizzazioni citate sono tra le organizzazioni più conosciute che hanno cercato di apportare significativi contributi alla pratica del counselling.

2.1 Per una definizione di consulenza

Oggi, molto spesso, si sente parlare di Counselling nonostante il significato del termine non sia sempre chiaro, in quanto esso sovente da luogo a delle sovrapposizioni concettuali. Il termine inglese counselling deriva dal verbo to counsel che letteralmente significa “dare consigli”. L'aderenza stretta al significato originario, ha gradualmente indotto a un misconcetto sulla complessa attività che la parola Counselling indica che è divenuto il pregiudizio per cui questa attività sia in realtà esclusivamente un dare consigli [...]110. A differenza di quanto è avvenuto nei paesi anglossassoni, in Italia, il termine consulenza (counselling) stenta ad affermarsi nei vari ambiti operativi, così come pure fatica a imporsi la figura del consulente (counsellor). Questo concetto, pur non essendo esattamente sovrapponibile a quello di counselling, esprime nel modo più consono la nozione che si vuole descrivere111. L'European Association for Counselling, nata nel 1994, descrive brevemente la storia della consulenza sottolineando come, nell'evoluzione delle varie civiltà, siano sempre esistite figure di aiuto, guaritori al servizio di chi soffriva che ogni volta andavano assumendo le vesti di oracoli, sommi sacerdoti, stregoni o esperti in medicina. A seguito degli enormi mutamenti sociali e culturali che coinvolsero l'Europa occidentale e gli Stati Uniti, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, si fece sentire la necessità di un riscontro più specifico dal punto di vista professionale. Compito del consulente è, una volta acquisiti gli elementi che il 110 C. Fuligni, P. Romito, Il counselling per adolescenti. Prevenzione, intervento e valutazione, Milano, McGraw- Hill Companies, 2002, pp. 45-46. 111 F. Telleri, Consulenza e mediazione pedagogica. Esperienze e prospettive, op.cit, p.44.

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cliente possiede, di aggiungervi quei fattori della sua competenza, conoscenza e professionalità che possono promuoverne sviluppi nel senso desiderato, da ciò si evince come, in tale contesto, è sostanziale il rapporto di fiducia tra il committente e chi fornisce la consulenza. Oggigiorno, si reputa necessario, a causa dell'emergere di esigenze sempre più esplicite di tipo educativo, l'utilizzo di servizi territoriali quali centri educativi, comunità alloggio o consultori familiari in modo di favorire la crescita delle persone attraverso relazioni di aiuto efficaci. Nel contempo, a tali servizi si tende ad attribuire una funzione educativa e di promozione nel territorio in cui sono ubicati, nella prospettiva del concretamento di una “comunità educante”112. In questa direzione è da segnalare la rinnovata attenzione da parte dei consultori familiari, per la consulenza educativa alle famiglie. Nel complesso del territorio, emerge una richiesta diffusa di consulenza, la quale, esigendo risposte adeguate e competenti, interpella direttamente la riflessione pedagogica113. I bisogni educativi e la conseguente ricerca di sostegno emergono in modo più evidente nei momenti cruciali delle varie fasi della crescita personale e familiare. Il counselling è appunto una strategia di aiuto in cui l'operatore non ha il compito di fare qualcosa o di dare qualcosa a chi chiede aiuto, piuttosto, ha la funzione di aiutare la persona a definire il problema ed imparare a gestirlo114. Questo avviene attraverso un processo di collaborazione, corresponsabilizzazione e compartecipazione che ha lo scopo di indagare e riconoscere schemi di pensiero e azione, per aumentare il proprio livello di consapevolezza, per utilizzare al meglio le proprie risorse nonché raggiungere un maggiore benessere. Esso ha, inoltre, la finalità di accrescere le strategie di coping e di autodeterminazione con la possibilità di acquisire nuove ipotesi e scoprire altri punti di vista, di elaborare emozioni e conflitti interiori, di prendere decisioni e superare il momento di crisi, [...] di migliorare i rapporti con gli altri, affinchè la persona possa operare costruttivamente nella propria realtà e mantenere la propria 112 A. Ascenzi, M. Corsi, Professione educatori- formatori. Nuovi bisogni educativi e nuove professionalità pedagogiche, Milano, Vita e pensiero, 2007, p.42. 113 G. Bert, S. Quadrino, Il counselling nelle professioni di aiuto, In animazione sociale, Roma, Change Edizioni, 1996. 114 A. Di Fabio, Counseling. Dalla teoria all'applicazione, op.cit., p.166.

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indipendenza e autonomia. Ovvero essa si configura quale processo per dare aiuto a una persona nell'esplorazione della natura dei propri problemi in modo che egli stesso possa decidere in maniera autonoma cosa fare”115. Il counselling, poiché mira a realizzare un cambiamento reale, comporta necessariamente che il cliente rifletta su una possibile ridefinizione di sé, del contesto e delle situazioni in cui vive, in altre parole egli deve intraprendere un percorso di autoanalisi in cui egli stesso sarà il responsabile del proprio cambiamento.116.

2.2 Il Consulente: qualità umane, competenze e ruolo professionale

Tutti quegli operatori impegnati in relazioni interpersonali che promuovono il benessere della persona e ai quali spetta il compito non già di offrire soluzioni, bensì di strutturare un luogo e un'atmosfera (setting) in cui i problemi possono essere discussi, chiariti e compresi dal soggetto interessato, possono considerarsi counsellor. E' necessario, a tal fine, che la persona sia messa a proprio agio, possa esprimersi senza paura di essere giudicata, viva il processo di consulenza come qualche cosa del cui andamento è corresponsabile117. La professionalità dell'esperto in qualsiasi relazione di consulenza è chiamata ad assolvere un ruolo preventivo e di sostegno, non già in un ruolo terapeutico, giacché nel campo delle relazioni la precocità e preventività dell'intervento risulta preziosa. Il consulente pertanto muove dalle persone e dalla situazione, cercando nelle une e nell'altra la leva necessaria a rendere dinamico e produrre cambiamento118, egli è un esperto di comunicazione e relazione, che, attraverso l'esercizio del non consiglio e del non giudizio è in grado di facilitare il percorso di autoconsapevolezza dell'interlocutore. L'operatore non ha il compito di fare qualcosa per qualcuno ma l'aiuto che viene 115 C. Fuligni, P. Romito, Il counselling per adolescenti. Prevenzione, intervento e valutazione, op.cit., p. 18. 116 S. T. Meier, S. R. Davis, Guida al counseling. In 40 regole fondamentali cosa fare e non fare per costruire un buon rapporto d'aiuto, Milano, 1994, p. 30. 117 D. Simeone, Dimensione pedagogica della relazione d'aiuto, op.cit., pp. 142-143. 118 R. Cerri, Dimensioni della didattica. Tra riflessione e progettualità, Milano, Vita e pensiero, 2002, p. 100.

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offerto è teso a colmare le carenze del cliente, con la speranza che lui stesso riesca a definire il problema e possa imparare a gestirlo. Necessita di conoscenza di sé attraverso un training di formazione in grado di consentire la decodifica, la consapevolezza e l'accettazione del piano organismico-affettivo simbolico e personale, di competenze integrate relative ai vari livelli comunicativi, di conoscenze approfondite sulle dinamiche relazionali119. Il counselor parte dal presupposto che gli individui abbiano in se stessi ampie risorse che lo aiutino ad auto comprendersi, modificare il concetto che ognuno ha di se stesso, gli atteggiamenti di base e gli orientamenti comportamentali. Il counselling è quindi una relazione d'aiuto volta ad aiutare la persona in stato di bisogno a definire il problema che lo affligge e, attraverso l'utilizzo delle proprie risorse interiori, imparare a gestirlo. Il compito dell'operatore è orientare la persona in difficoltà a prendere consapevolezza del problema, sostenerlo nel superamento degli equilibri raggiunti e nella riorganizzazione dei nuovi assetti relazionali, aiutarlo nell'utilizzo di risorse proprie per risolvere determinate difficoltà e incrementare le competenze progettuali e decisionali che permettano agli individui di essere artefici del proprio cambiamento, partendo dal presupposto che gli individui hanno in se stessi ampie risorse che lo aiutano ad auto comprendersi, modificando il concetto che ognuno ha di se stesso, gli atteggiamenti di base e gli orientamenti comportamentali. Queste risorse possono emergere quando può essere fornito un clima definibile di atteggiamenti psicologici facilitanti120. Delineate quelle che sono le caratteristiche generali della consulenza come professione di sostegno, l'obbiettivo che si vuole raggiungere è quello di porre in evidenza le peculiarità che deve avere un consulente, per poi declinare queste sia nell'ambito pedagogico, sia in quello filosofico, per capire come, in entrambi i casi, ci si trovi di fronte a due pratiche tese al sostegno della persona.

119 D. Simeone, Dimensione pedagogica della relazione d'aiuto, op.cit.,p.6. 120 C. Rogers, Un modo di essere, Firenze, Psicho, 1983, p. 100.

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2.3 La consulenza educativa Solo da qualche anno si è posta l'attenzione sulla consulenza educativa vista come modalità di sostegno alla persona, alla coppia e alla famiglia in difficoltà121. Nonostante questo, soprattutto in istituzioni come la scuola o per le famiglie si discute dell'utilità dell'inserimento di particolari figure professionali con funzioni di consulenza. Quest'ultima si configura come un compito che ha come destinatari ora la persona, quale valore centrale nella famiglia, ora la coppia, entità costitutiva e generatrice della famiglia, ora la famiglia stessa in quanto sistema di relazioni. La consulenza in ambito educativo è uno strumento utile per rafforzare le competenze del soggetto e aiutarlo a superare i problemi che si presentano, offrendo alla persona bisognosa la possibilità di raggiungere un nuovo modo di vedere le cose, nonché una nuova consapevolezza di sé, in quanto egli stesso è il protagonista del proprio cambiamento. A volte questo può significare semplicemente mettere le persone in grado di passare dalla percezione vaga del disagio, alla definizione del disagio stesso e a un'espressione più o meno articolata dei bisogni. In questo senso, la consulenza educativa si configura come un intervento in cui prevale un aspetto maieutico, legato al “tirar fuori”, al far emergere quell'insieme di risorse personali unite alla capacità di saperle utilizzare favorendo in questo modo un processo di cambiamento munito degli strumenti per individuare e definire il disagio sostenendo la ricerca di soluzioni122. Nella consulenza educativa l'operatore ha il compito di aumentare la consapevolezza della persona circa le problematiche connesse alla sua situazione educativa che va vivendo, promuovendo le potenzialità educative insite nei soggetti. Essa non può essere identificata con un intervento di tipo riparatorio bensì come un'esigenza di perfezionamento delle qualità individuali del soggetto. La relazione educativa ha lo scopo di favorire in ciascun uomo il compiersi della totalità della dimensione umana che lo definisce nella sua unicità e nella sua irripetibilità. In questo senso, si vuole favorire il risanamento di un tessuto 121 D. Simeone, Dimensione pedagogica della relazione d'aiuto, op.cit., p. 10. 122 F. Susi, Come si è stretto il mondo. L'educazione interculturale in Italia e in Europa: teorie, esperienze e strumenti, Roma, Armando Editore, 2008, pp. 198-199.

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relazionale deteriorato, attraverso una prospettiva di globalità, per cui si va alla ricerca del vissuto personale profondo di ognuno non soltanto a partire dai cardini della sua personalità psicologica, ma integrando in lui una rete più vasta di relazioni costruite sui valori, le relazioni , la progettualità. La rete cioè che costituisce il contesto educativo di riferimento e che si concretizza nella dinamica sociofamiliare, dalla famiglia in cui ciascuno è cresciuto a quella in cui ciascuno vive123. La consulenza educativa segue la logica del farsi carico ed è finalizzata a favorire la fiducia nelle proprie possibilità, la sensazione di poter influire sugli eventi della propria vita e di governare il cambiamento124. Essa trova la sua ragione di esistere nella natura relazionale dell'uomo in cui l'intersoggettività implica necessariamente la promozione della persona, la risposta all'appello inviato dall'altro e il dialogo, favorendo il superamento dell'egocentrismo e l'instaurarsi della relazione con l'altro125. La consulenza educativa è definita da Rogers nel 1951 una relazione d'aiuto ovvero una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato126. Questa pratica è capace di innescare un processo di cambiamento , che libera il soggetto dalla situazione in difficoltà , offrendogli nuove opportunità di crescita e di avveramento personale. In quanto tale, essa esalta il protagonismo dell'utente, anche quando questi manifesta conflitti, ambivalenze e incongruenze suscettibili di limitarlo nell'esercizio della funzione educativa127.

2.3.1 Carl Rogers

Carl Ramson Rogers si avvicina alla consulenza educativa nel 1942 quando, con la 123 124 125 126 127

R. Cerri, Dimensioni della didattica. Tra riflessione e progettualità, op. cit., p. 103 D. Simeone, Dimensione pedagogica della relazione d'aiuto, op.cit., pp. 97-98 Ivi, p.78 C.R. Rogers, La terapia centrata sul cliente, Martinelli, Firenze 1970, p.68 D. Simeone, Dimensione pedagogica della relazione d'aiuto, op.cit., p.75

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pubblicazione del suo terzo libro “Counseling and Psychoterapy”, segna una tappa storica nel campo della psicoterapia. Egli si configura come il primo psicoterapeuta che si assume il rischio di rendere pubblica nella sua completezza l'interazione con un cliente per la verifica scientifica delle proprie ipotesi. Nel 1942 sarà la sua opera a gettare le basi del client-centered therapy128 e del movimento di psicologia umanistica. Proprio per questo motivo venne definito rivoluzionario silenzioso, per le sue capacità di creare profondi cambiamenti nella psicoterapia e, in generale nelle relazioni umane. Arriva a rifiutare la definizione di paziente che sostituisce con quella di cliente configurandosi quale esplicitazione formale di un cambiamento di prospettiva in cui la persona viene messa al centro della relazione di ascolto. La teoria di Rogers, basata principalmente sulla sua vasta esperienza clinica, coglie la terapia come l'incontro tra due essere umani in crescita, impegnati in una relazione d'aiuto in cui uno dei partecipanti cerca di favorire, in una o in entrambe le parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto ed più elevata possibilità di espressione129. Sulla base del presupposto che una persona matura e bene adattata fondi i suoi giudizi su elementi intrinseci di soddisfacimento e autorealizzazione, Rogers ribalta la condizione secondo cui è lo psicologo che deve dirigere la conversazione. Nel dare sistemazione al proprio metodo d'intervento, lo psicologo si accorse che una delle peculiarità che differenziavano il suo da altri approcci terapeutici era l'assenza di metodi direttivi. Il termine “non direttivo” non equivale al non esercitare alcun influsso sull'utente bensì esso suggerisce al terapeuta l'astensione da interventi “strutturanti”. Il consulente non mantiene un ruolo passivo ma stimola attivamente l'impegno della persona in stato di bisogno a chiarire la situazione e ad assumere decisioni costruttive, prendendo coscienza sia degli elementi esterni che la condizionano sia dei dinamismi interiori che determinano il suo campo percettivo, attraverso un intervento definito informante130. 128 C. Rogers, La terapia centrata sul cliente, Firenze, Martinelli, 1970. 129 E. Caffo, Consulenza telefonica e relazione d'aiuto. La qualità dell'ascolto e dell'intervento con I bambini e gli adolescenti, op. cit., p. 29. 130 A. Di Fabio, La consulenza educativa. Dimensione pedagogica della relazione d'aiuto, op. cit., p. 146.

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2.3.2 La terapia centrata sul cliente

Dialogo e comunicazione sono alla base della “terapia centrata sulla persona”. La rivoluzione attuata da Carl Rogers nella pratica della psicoterapia è stata fondamentalmente quella di centrare l'attenzione sulla persona invece che sul problema. L'obiettivo della seduta di counseling, dell'intero ciclo di sedute, non è più il superamento del sintomo, o il raggiungimento di risultati specifici, ma la maggior indipendenza e integrazione dell'individuo131. I modelli umanistici nascono in contrapposizione al pessimismo antropologico della psicoanalisi freudiana, acquisendo il titolo di ‘terza forza’ accanto alla psicoanalisi e al comportamentismo. La persona è considerata in modo positivo, l’idea di base è che tutti stanno combattendo per raggiungere la propria auto realizzazione, che è considerata la spinta dominante e motivante dell’esistenza e determina le azioni che influenzano la persona nella sua totalità132. In principio Rogers definì il suo approccio terapia non-direttiva per il ruolo di incoraggiamento e di ascolto svolto dal counselor. Più tardi adottò il termine approccio centrato-sul cliente per la responsabilità totale data ai clienti rispetto alla loro crescita. Infine, passò ad approccio centrato-sulla persona, nell’ottica di un’ulteriore umanizzazione del processo di counseling133. L’approccio centrato sulla persona sostiene che ogni persona è in grado di trovare il proprio senso e il proprio scopo della vita. La considerazione positiva comprende l’amore, il calore, la cura, il rispetto e l’accettazione. Partendo dal presupposto che il cliente è il centro del processo di aiuto, Rogers, sottolinea l’importanza di aiutare le persone ad apprendere come affrontare le situazioni riconoscendo e utilizzando le proprie risorse. Si tratta di costruire un contesto in cui vi sia un clima di fiducia, di accettazione, di non giudizio, di reciproco rispetto, in cui venga dato maggiore rilievo alla situazione attuale che non al passato dell'individuo, in cui sia possibile la gestione del 131 M. Danon, Counseling. L'arte della relazione d'aiuto attraverso l'ascolto e l'empatia, Milano, Red Edizioni, p.57. 132 C. A. Dahir, The national standards for school counseling programs: Development and implementation. Professional School Counseling, 2001, pp.320-327. 133 C. Rogers, La terapia centrata sul cliente, Firenze, Martinelli, 1970.

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conflitto, poiché non si tratta di trovare che cosa non funziona nel cliente ma insegnargli a conoscere se stesso134. Il counseling, quindi, persegue l’obiettivo di aiutare i clienti a crescere e autorealizzarsi, promuovendo una più realistica percezione di sé, l’accettazione di sé e degli altri, la fiducia e una maggiore capacità di adattamento e integrazione135. Obbiettivo della terapia è quello di offrire alla persona quella facilitazione che gli è mancata in modo che egli possa facilmente riprendere il proprio percorso di crescita: ritrovare il coraggio di compiere delle scelte di responsabilità, nonché avere fiducia in sé e nelle proprie potenzialità. Nella terapia centrata sul cliente il setting è il “teatro” all'interno del quale si realizza l'accoglienza dell'altro e dove il percorso di crescita del cliente può ritrovare un nuovo impulso.

2.3.3 La dimensione del comunicare

La comunicazione, intesa genericamente come passaggio continuo di informazioni, è un fenomeno che riguarda tutti gli esseri viventi, tant'è che è noto che l'uomo non può non comunicare. La comunicazione interpersonale è l'essenza della consulenza educativa e riguarda la relazione tra due persone, in cui si realizzano tutte le potenzialità e la ricchezza che la comunicazione conduce con sé. Nell'interazione interpersonale, il comportamento comunicativo assume un ruolo privilegiato136 tanto che è universalmente riconosciuta come l'elemento centrale del rapporto educativo. La comunicazione educativa affonda le proprie radici nella dialogicità dato che, è proprio nell'incontro e nella comunicazione che gli uomini manifestano una cultura comune e fondano i propri rapporti relazionali che si trovano alla base di qualsiasi tipo di socializzazione. La relazione educativa ha luogo in uno spazio dialogico e intersoggettivo, uno spazio interattivo in cui si colloca l'evento educativo137. Gioca 134 135 136 137

M. Danon, Counseling. L'arte della relazione d'aiuto attraverso l'ascolto e l'empatia, op.cit., p.58. Ivi, p.56. A. Di Fabio, Counseling. Dalla teoria all'applicazione, op.cit., p.1. D. Simeone, Dimensione pedagogica della relazione d'aiuto, op.cit., p.103.

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un ruolo fondamentale nello sviluppo di relazioni intersoggettive la comunicazione non verbale, ossia tutte quelle espressioni corporee che integrano la comunicazione verbale e concorrono alla trasmissione delle informazioni personali. Per capire e conoscere la persona che si ha di fronte nella sua totalità e per instaurare un'adeguata relazione d'aiuto non si può prescindere dalla comunicazione non verbale, che ha lo scopo di arricchire la dinamica interpersonale e orientare la relazione al buon esito del processo educativo138. Mediante lo scambio comunicativo intenzionalmente strutturato viene sollecitata la persona bisognosa di aiuto ad avviare un processo di cambiamento, quindi a dare soluzione alle difficoltà che la limitano nelle relazioni interpersonali. Questa prospettiva promuove una “pedagogia dell'empowerment”, volta a coltivare nella persona in stato di bisogno il senso di autoefficacia, nella sua possibilità di contrattazione nelle situazioni di difficoltà attraverso l'utilizzo delle sue stesse risorse139.

2.3.4 L'ascolto attivo

Se la comunicazione è fondamentale ai fini del processo educativo, l'ascolto è una delle attività principali in qualsiasi consulenza o relazione d'aiuto. Esso in questo senso si caratterizza per le sue capacità di comprensione in quanto deve essere aperto verso la sua fonte comunicativa con un'attenzione centrata sui messaggi dell'emittente, comportando la capacità di riprendere o di riassumere ciò che l'interlocutore ha appena detto ottenendo la sua approvazione140. Si configura come un momento in cui chi ascolta si colloca in una posizione di empatia e di partecipazione per quanto gli viene detto, attraverso il silenzio e un comportamento non-verbale accettante141. L'ascolto ha lo scopo di aiutare il cliente a parlare di ciò che lo affligge, dei suoi problemi, dato che quest'ultimo non sempre ha una visione 138 Ivi, pp.138-139. 139 Ivi, pp.220-221. 140 A. Di Fabio, Counseling. Dalla teoria all'applicazione, op.cit., p.171. 141 C. Arcidiacono, B. R. Gelli (a cura di), Psicologia di comunità ed educazione sessuale. Verso un modello di educazione socio-affettiva sessuale, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 132.

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coerente del problema che lo affligge e tanto meno non sempre ha voglia di parlarne142. Per poter acquisire competenze di ascolto comprensivo è necessario avere una formazione specifica. E' richiesto acquisire capacità di liberarsi dal proprio modo abitudinario o quotidiano di vedere e gestire gli avvenimenti e i casi, potersi avvicinare e comprendere il punto di vista dell'altro. Il colloquio come sostegno reciproco, come rapporto paritario, come dialogo, è quello che si avvicina di più alla modalità ottimale con cui gestire la seduta di counseling. Presuppone un atteggiamento di fiducia, “un essere nella relazione, ma essere contemporaneamente in ascolto di se stessi”143. Le competenze fondamentali che caratterizzano l'ascolto attivo comportano che l'operatore sia capace di neutralizzare i condizionamenti personali, compresi gli stereotipi sociali, di cui ciascuno è imbevuto, per poter accedere al sistema valoriale dell'altro e al significato autentico di ciò che stiamo percependo e con cui stiamo misurando le nostre capacità di ascolto comprensivo o empatico , vale a dire i reali significati che l'altro attribuisce144.

2.4 Il consulente educativo

Da quanto detto emerge come la consulenza educativa si identifichi come un rapporto strutturato intenzionalmente in modo da aiutare colui che versa in condizioni di bisogno. Attraverso il processo di auto comprensione, la valutazione delle proprie esperienze e il controllo delle proprie emozioni, l'educatore mira a far sì che l'utente chiarisca a sé stesso le possibilità di scelta, rilievi i cambiamenti a cui può dare inizio e definisca le competenze che lo portino ad effettuare i cambiamenti previsti145. Egli mentre incoraggia i soggetti in difficoltà a comprendere e superare i problemi che li allontanano dal raggiungimento delle mete prefissate, li sprona a intraprendere un cammino in cui, responsabilmente, mettere in gioco le proprie 142 M. Reddy, Il counseling aziendale. Il manager come counselor, Roma, Edoardo Giusti Editore, 1987, p.49. 143 M. Danon, Counseling. L'arte della relazione d'aiuto attraverso l'ascolto e l'empatia, op.cit., p.116. 144 Ivi, p.172. 145 D. Simeone, Dimensione pedagogica della relazione d'aiuto, op.cit., p.142.

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risorse compiendo scelte consapevoli. Ora il consulente non ha la funzione di prescrivere tutta una serie di soluzioni possibili ma bensì di strutturare un'atmosfera (un setting) in cui i problemi possano essere discussi ed esaminati. E' necessario, quindi, che l'utente viva il processo di consulenza in maniera serena, senza la paura di essere giudicato, con la consapevolezza che sarà lui stesso il responsabile del proprio cambiamento146. Nella prospettiva rogersiana il processo di consulenza è contraddistinto dalla non-direttività, dalla considerazione positiva incondizionata; dall' autenticità dell'operatore e dalla comprensione empatica147. La comunicazione che fa i propri i caratteri della non direttività si fonda sul rapporto interpersonale centrato sul soggetto che chiede aiuto, al fine di facilitare l'esposizione volontaria del suo problema con atteggiamenti di piena comprensione e accettazione. Quest'ultima si basa sulla capacità da parte del consulente di accettare l'utente in maniera incondizionata, accogliendo l'altro nella sua specificità senza valutarlo. Non-direttività, per Rogers significa rispetto della libertà e dell'autodeterminazione del cliente, nonché autoeducazione del terapeuta che è in continua crescita148. L'intervento non-direttivo non equivale al non esercitare alcun influsso sull'utente, quest'approccio suggerisce al terapeuta di astenersi da interventi strutturanti, cioè da quelle azioni terapeutiche che propongono o impongono alla persona determinate strutture psicologiche, questo permette, in ogni caso, al consulente di mantenere un ruolo attivo nei confronti dell'utente, stimolando in lui la possibilità di prendere decisioni costruttive149. Un'altra condizione necessaria, affinché si crei un clima di fiducia reciproca è la capacità di comprensione e la considerazione positiva incondizionata. In questo modo la persona che chiede aiuto, sentendosi accettata pienamente, si dispone con serenità a riflettere sulle proprie esperienze e a costruire una relazione significativa con il consulente150. Egli si mette al servizio dell'altro, in un atteggiamento di ascolto, cercando di capire il vissuto reale dell'utente, evitando di sostituirsi a lui nel prendere decisioni e incoraggiandolo a trovare la sua strada 146 147 148 149 150

Ibidem, p.142. C. Rogers, La terapia centrata sul cliente, Firenze, Psycho, 2000, p.51. Ivi, p. 30. D. Simeone, Dimensione pedagogica della relazione d'aiuto, op.cit., p.146. Ivi, p.150.

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autonomamente. La considerazione positiva incondizionata porta notevoli vantaggi sull'utente, sentendosi invogliato ad entrare nel proprio mondo interiore e prendere coscienza del problema che lo perseguita. L'autenticità all'interno della relazione interpersonale è la condizione prima di ogni rapporto, essa è esigenza di spontaneità e diventa condizione prima dell'esperienza degli altri151. Il consulente svolge la funzione di depositario del sapere e di responsabile della relazione, egli agisce con ciò che è piuttosto che con ciò che ha, percui il suo atteggiamento interiore è più importante della “facciata” con cui si presenta e la sua esperienza personale e la sua capacità di saper vedere al di là delle problematiche del cliente è più importante di qualsiasi preparazione teorica152.

2.4.1 La condivisione delle emozioni: L'empatia

Nell'ambito della relazione d'aiuto l'empatia occupa un posto di rilievo. Questo concetto postula che si possa uscire da se stessi a tal punto da poter realmente entrare nell'altro153, in una condivisione delle esperienze altrui. L'esperienza dell'Altro, nella sua interezza è sempre e solo dell'altro, rimane un'esperienza indiretta anche se, l'empatia attraverso l'immaginazione ne favorisce una comprensione profonda154. Essa non è perciò identificazione, ma sensibilità eterocentrica che riconosce bisogni, interessi, nonché la natura delle preoccupazioni altrui. Essa, inoltre presuppone la negazione di ogni interpretazione dell'altro, di ogni intervento di giudizio. Nell'approccio centrato sulla persona l'empatia segue un unico obbiettivo: arrivare alla comprensione per promuovere la sicurezza e la fiducia in se stessi155. Rogers attribuiva all'empatia un ruolo determinante nel fornire al cliente un ambiente ottimale atto a promuovere il cambiamento. Nella terapia 151 Ivi, p.152. 152 M. Danon, Counseling. L'arte della relazione di aiuto attraverso l'ascolto e l'empatia, op.cit., p. 127. 153 C. Rogers, La terapia centrata sul cliente, op.cit, p.45. 154 M. F. Ghiaccio, L'educatore familiare. Tra esigenza e scommessa, Roma, Aracne Editrice, 2009, p.23. 155 E. Giusti, M. Locatelli, L'empatia integrata. Analisi umanistica del comportamento motivazionale nella clinica e nella fomazione, Roma, Edoardo Giusti Editore, 2007, pp. 17-18.

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centrata sulla persona l'obbiettivo è fornire un clima sicuro all'interno del quale gli utenti possano ancora accedere a quelle parti di sé che hanno distorto o negato alla loro consapevolezza, in modo da permettere il raggiungimento di un modo di essere più soddisfacente. Le risposte empatiche svolgono tre funzioni principali per costruire l'alleanza: convalidano la comprensione della percezione soggettiva del mondo del cliente, aiutano il cliente ad articolare e simbolizzare il proprio senso e il proprio modo di costruire i propri problemi ed aiutano l'utente e il consulente a formulare gli obbiettivi e i compiti della terapia156. Empatia significa letteralmente “ciò che si prova dentro”, dal greco empàtheia, termine introdotto per la prima volta da E. Titchener157 nel 1909 nel tentativo di tradurre il termine tedesco einfuhlung, usato nella filosofia estetica158. Con l'atto empatico il soggetto assume l'angolo della visuale dell'altro senza confondersi con lui, proprio questa distinzione tra IO e TU favorisce l'incontro159. Empatia significa quindi “rendersi conto”, cogliere la realtà del dolore o della gioia dell'altro, condividere temporaneamente e sperimentare i sentimenti dell'altro in una condizione di non giudizio. L'empatia si diversifica dalla percezione esterna, quest'ultima riferita a una cosa che noi percepiamo perché davanti a noi, perché siamo in grado di osservarla. L'empatia mi pone davanti a un oggetto che non è presente, ma deve essere “presentificato” e in cui l'esperienza dell'Altro è percepibile a patto che il vissuto venga colto dalla prospettiva di chi lo vive. La comprensione empatica è un aspetto fondamentale della relazione operatore-utente e, secondo Rogers, è proprio su essa che poggia la consulenza. Non si tratta di una tecnica ma di un atteggiamento che si basa non sugli aspetti espliciti e verbali della comunicazione interpersonale ma sul non detto, su ciò che sta dietro le apparenze, sui sentimenti profondi160. L'empatia nella pratica rogersiana, è lo strumento relazionale attraverso cui l'operatore può facilitare il processo di “riappropriazione”, ovvero il recupero e l'esplorazione da parte dell'utente dei propri sentimenti. E' questa specie di empatia profondamente sensibile che è importante 156 157 158 159 160

Ivi, p. 20. E. Titchener, Experimental Psychology of the Trought Process, New York, 1909. D. Simeone, Dimensione pedagogica della relazione d'aiuto, op.cit., p.155. Ivi, p.158. Ivi, p.164.

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per rendere capace una persona di avvicinarsi a sé stessa, di imparare, di modificarsi e di evolvere161.

2.4.2 La gestione del colloquio

Tutte le caratteristiche sopraelencate fanno parte dell'incontro tra consulente e utente che si realizza nel colloquio. Il counseling è essenzialmente un colloquio a motivazione intrinseca, la cui conditio sine qua non è che sia richiesto dal cliente e non subìto per imposizione, in questo modo il versante comunicativo è facilitato162. La conduzione del colloquio deve realizzarsi con un intervento intenzionale di facilitazione dell'espressione dell'utente da parte del counselor che non può e non deve improvvisare ma punta sulle sue qualità personali e sulla padronanza di precise tecniche acquisite con apposita formazione. Dal colloquio l'utente capirà se fidarsi dell'operatore o meno, in quanto i due collaborano alla definizione di una relazione, da intendere come spazio di reciproca e libera scelta. Il colloquio è una situazione con caratteristiche proprie che influisce sui comportamenti degli interlocutori e che si basa su uno sforzo di comprensione del counselor nei confronti del cliente che non è reciproco, in quanto quest'ultimo è impegnato al contrario in uno sforzo di comprensione e chiarificazione di se stesso163. Il colloquio all'interno del processo educativo è regolato da variabili come gli atteggiamenti impliciti e i fenomeni di induzione

delle

risposte.

Gli

atteggiamenti

impliciti

sono

atteggiamenti

inconsapevoli, sulla base della spontaneità del soggetto164. Le induzioni delle risposte sono suggestioni involontarie inviate all'interlocutore, durante la comunicazione, a livello non verbale165. Da queste caratteristiche si evince che le interazioni comunicative possono essere manipolate inconsapevolmente, il che comporta che siano costituite in prevalenza da atteggiamenti reattivi di risposta. 161 162 163 164 165

C. Rogers, La terapia centrata sul cliente, op.cit, p. 93. A. Di Fabio, Counseling. Dalla teoria all'applicazione, op.cit., p.185. Ivi, pp. 186-187. Ibidem, p.148. Ibidem.

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Nell'interazione educativa l'elemento che è in grado di svolgere un'azione di facilitazione sulla comunicazione dell'interlocutore è l'ascolto attivo e la modalità di comprensione- facilitazione, che di necessità implica ascolto e accettazione di sé e dei propri vissuti166. F. Del Corno e M. Lang nel testo “Modelli di colloquio in psicologia clinica”167, definiscono il colloquio come un processo interattivo, che ha luogo almeno tra due persone, diverso dalla conversazione, in quanto l'interazione è finalizzata al conseguimento di un obbiettivo predeterminato168. Un buon colloquio dovrebbe permettere di ottenere le informazioni necessarie alla risoluzione del problema e allo stesso tempo una buona alleanza con l'utente.

2.5 Approccio filosofico al counseling

La filosofia è da sempre una pratica, poiché si caratterizza come una prassi, un fare, uno specifico modo di agire che si riconosce come filosofico. Fare filosofia significa cercare le possibili ragioni del nostro stare al mondo, significa assumere una determinata condotta nel tentativo di attribuire senso alla vita per favorirne la sua più piena realizzazione: in questo senso la filosofia è la ripresa della vita nel pensiero169. La filosofia, quindi, tramanda un’arte del vivere, promuove pratiche di cura e, infine, fornisce una terapia tesa al benessere e al ben vivere, che promuove nella

persona

una

maggiore

apertura

alla

saggezza,

intesa

come

autoconsapevolezza e autoresponsabilizzazione170. La filosofia si pone quindi in ascolto del dolore, in tensione dialogica e di cura, un ascolto caratterizzato da capacità di attenzione e sospensione del giudizio. Essendo un modo di vivere, la via filosofica conferisce molta importanza alle pratiche e richiede un forte legame fra teoria e prassi, che si traduce nell’incitamento a cambiare la propria vita. Vivere 166 167 168 169

Ivi, p.188. F. Del Corno, M. Lang, Modelli di colloquio in psicologia clinica, Milano, Franco Angeli, 1995. A. Di Fabio, Counseling. Dalla teoria all'applicazione, op.cit.,p.178. C. Brentari, R. Màdera , S. Natoli, L. V. Tarca , (a cura di), Pratiche filosofiche e cura di sé, Milano, Mondadori, 2006. 170 Ivi, p.97.

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seguendo la via filosofica significa vivere secondo il bene, nel tentativo di raggiungere la più piena realizzazione di sé coltivando ogni aspetto del proprio essere: razionale, intellettuale, pratico, emotivo, fisico e spirituale. In questo senso, la pratica filosofica comporta la coltivazione di sé171.

2.6 La consulenza filosofica

Riflettere di pratica filosofica significa introdurre una tematica, che negli ultimi anni sta iniziando ad avere visibilità anche in Italia, ovvero la consulenza filosofica. Nata in Germania con il nome di Philosophische Praxis, diffusasi nel mondo anglosassone con la semplice traduzione del nome tedesco Philosiphical practice, essa è approdata in Italia abbastanza recentemente, tra il 1999 e il 2000 assumendo ancora più nomi, tra cui Consulenza filosofica o counseling filosofico172. Quest'ultimo è un libero dialogo in cui si mette il pensiero in movimento e si filosofa173, considerata oggi un'alternativa alla psicoterapia, un istituzione per le persone che nel corso della loro quotidianità incontrano problemi e difficoltà e non riescono a trovare soluzioni adeguate, infatti l'intento è quello di avere una spiegazione sui frequenti intrecci e sul percorso, spesso arduo, della loro vita. Socrate è stato spesso considerato il modello della consulenza filosofica, il motivo principale è il suo disconoscimento della conoscenza, cioè il principio del non sapere: il più sapiente è colui che sa di non sapere174. Inoltre Socrate, non usa mai il termine metodo né si preoccupa di definirne il concetto. Il filosofare è per lui un mettere in discussione se stessi e un atteggiamento da praticare in ogni circostanza della vita quotidiana. La filosofia non risolve i problemi ma li contestualizza cercando di dar loro un senso. L’unico “strumento” non strettamente filosofico 171 Ivi, p.120. 172 Ivi, p.34. 173 N. Pollastri, Consulente filosofico cercasi, Milano, Feltrinelli Editore, 2007. 174 N. Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Milano, Feltrinelli, 2003.

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utilizzato da Socrate è l’ironia che mira a investire di responsabilità il dialogante per indurlo alla ricerca e alla personale riflessione. L’approccio socratico, sembra quindi costituire le basi dell’agire della consulenza filosofica e una salvaguardia da ogni sua possibile ibridazione con attività psicoterapeutiche175. Anche la filosofia di Hegel, secondo Neri Pollastri, non è lontana da questo spirito: il movimento del concetto, la ricerca di senso. Lo stesso si può dire per il pensiero filosofico orientale in cui si rinuncia alla categoria di Verità, in cui non c’è un fine, non ci sono i mezzi, né un metodo, ma solo una via (Tao) da seguire176. La consulenza filosofica si configura come un'attività professionale nella quale il filosofo, esclusivamente in quanto filosofo, si mette a disposizione delle donne e degli uomini che, individualmente o in gruppi ristrettissimi, sentono l'esigenza di affrontare con rigore, attenzione, spirito di ricerca e confronto dialogico, questioni e problemi che la vita pone loro. Il fine ultimo di questa pratica è quello di proporre un modo nuovo di aiutare le persone a riflettere sulla propria vita e a chiarificarne gli aspetti problematici, senza però dare soluzioni o risposte già pronte. Instaurare un libero dialogo accompagnando l'individuo nella riflessione. La pratica in questione non lavora con i metodi, ma sui metodi, per cui è la riflessione nel dialogo con il consulente che crea di volta in volta, a seconda del caso che si presenta, il suo modo di procedere177. In altri termini, l'esperienza, comune a tutti noi di non riuscire a considerare un problema se non sotto una sola prospettiva, cosa che di norma ci fa cerdere di essere senza via d'uscita e di non riuscire a risolverlo, è il caso tipico della consulenza filsoofica che, attraverso la riflessione aiuta l'individuo a districare il pensiero178.

175 Ivi, p.3 176 Ibidem, p.3 177 G. B. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità di vita, Milano, Feltrinelli Editore, 2004, p.4-5 178 S.C. Shuster, La pratica filosofica. Una alternativa al counseling e alla psicoterapia, Milano, Feltrinelli, 2006, p.15

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2.6.1 Gerd B. Achenbach

Gerd B. Achenbach è considerato il padre della consulenza filosofica. Fu lui, infatti, a dare inizio agli studi dedicati a questa disciplina che lo portarono a fondare nel 1982 la prima associazione mondiale per la consulenza filosofica179 con sede a Bergisch Gladbach, nei pressi di Colonia. Da più di vent'anni, quindi, la consulenza filosofica esiste in Germania come una particolare forma di filosofia applicata, egli fu ufficialmente il primo nel mondo ad aprire uno studio professionale sulla base di un'unica specializzazione: essere filosofo. Suo grande pregio è stato quello di risvegliare il desiderio di “filosofare” per comprendere o risolvere questioni della vita pratica e offrendosi, egli stesso, come guida in questo percorso, spinto dall’insoddisfazione nei confronti della filosofia accademica troppo astratta rispetto al mondo reale e riservata esclusivamente ai filosofi. Divenuta scienza utile solo a se stessa e ridotta a ghetto all’interno del mondo accademico, la filosofia aveva finito col perdere qualsiasi contatto con la realtà problematica degli uomini: questa alienazione, che produce sterilità nella filosofia e perdita di senso nella vita quotidiana, viene superata dalla Philosophische Praxis180”. Inoltre, Achenbach sentì l’esigenza di promuovere questa nuova professione perché insoddisfatto delle relazioni d’aiuto, che erano radicate nel paradigma strumentale o terapeutico. Il termine Praxis in tedesco non rinvia solo al concetto di pratica, ma denota anche lo studio professionale tanto che nel parlato significa “Gabinetto del medico”. Utilizzando il neologismo composto come “Philosophische Praxis”, Achenbach poteva in questo modo avvicinare la filosofia all'attività professionale, ponendola in riferimento, da un lato alla pratica, dall'altro all'attività terapeutica. In entrambi i casi, il collegamento era orientato alla differenza: l' attività dello studio del filosofo non era né teorico, in quanto rivolto a concrete difficoltà esperire nella realtà della vita quotidiana dai suoi ospiti (termine con il quale Achenbach indica i suoi clienti), né terapeutico, in quanto basato interamente sulla specificità della filosofia e perciò 179 Gesellschaft fur die Philosophische Praxis ( Associazione per la consulenza filosofica) 180 G. B. Achenbach, Philophisce Praxis, Koln, Dinter, 1987

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sistematicamente abdicante dal paradigma medico181. La posizione radicale e originale di Achenbach non è stata accolta e perseguita da tutti i suoi epigoni, forse anche per alcuni nodi problematici che il filosofo non aveva sciolto: come sopperire le lacune in materia di relazioni interpersonali e come svolgere una pratica senza metodo e obiettivo182. Queste difficoltà si traducono nel mondo anglosassone attraverso un avvicinamento della consulenza filosofica al Counseling e quindi un assimilazione alle professioni d’aiuto. Un nodo cruciale della disciplina è infatti il rapporto tra consulenza filosofica e terapia. Non viene negata l’efficacia di quest’ultima o l’esistenza della malattia, ma ci si disinteressa del paradigma terapeutico e ci si occupa dei problemi in modo diverso, ossia facendo filosofia. Vi è circolarità tra le forme del pensare e i processi psicologici, ma l’agire filosofico deve far un uso informativo e problematico delle conoscenze psicologiche, non tecnico e terapeutico. Per quanto riguarda l’aspetto di transfert/controtransfert Pollastri afferma che è stata frequente l’accusa alla disciplina di non aver tenuto conto di questo elemento ma, secondo lui, il transfert si verifica in ogni relazione interpersonale e la consulenza filosofica non si deve focalizzare su questo aspetto pena il tradimento del suo atteggiamento e la caduta su un piano psicologico strumentale183.

2.6.2 E' una professione d'aiuto?

Identificare la consulenza filosofica quale professione d'aiuto è facile e doveroso insieme, in quanto da sempre si occupa di problemi che riguardano la sfera psicosociale, ma in realtà essa non lo è. Una professione d'aiuto prevede che il professionista si faccia carico dell'altro, che se ne assuma la responsabilità, che lo consideri in qualche modo “minorato” rispetto

181 N. Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, op.cit., pp. 38-39. 182 Ivi, p.40. 183 Ivi, p.5.

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a lui, incapace di affrontare da solo scelte e decisioni184. Ebbene la consulenza filosofica si impone come un modello paritario, in cui il dialogo e necessariamente paritetico quanto a dignità, responsabilità e valore delle idee. Nella sua forma originaria quindi non si impone come una professione d'aiuto ma come un dialogo che si avvia dalla narrazione delle difficoltà del consultante ma che non ha di mira delle risposte risolutive, bensì la ricerca di nuove e più ricche modalità di pensare il mondo185. Un filosofo consulente anziché “prendere in carico” l'ospite, gli attribuisce di fatto la sua dignità di essere razionale e lo reinveste della propria responsabilità di uomo. Questo atteggiamento è da un lato il presupposto per poter svolgere realmente un dialogo e una ricerca di stampo filosofico e, dall'altro, fa vivere all'ospite del processo di consulenza, una situazione ideale, nella quale egli, pur vivendo un momento difficile, può lavorare alla pari del suo compagno e può recuperare un rapporto di fiducia filosofando186. Tutto questo non avverrebbe se il filosofo svolgesse una professione d'aiuto e la condizione perché questo si verifichi è che egli abbia l'intenzione di cooperare con il suo compagno, senza assumere nei suoi confronti alcuna posizione d'autorità. All'ospite, in ogni momento del dialogo, viene lasciata ogni responsabilità in merito alle valutazioni e alle scelte, sia pratiche che teoriche. L’avvio della consulenza filosofica avviene da un problema, al consultante spetta la prima parola, racconta la propria esperienza e le proprie difficoltà mentre il consulente ascolta per poter comprendere. Questa è spesso, una narrazione ambigua, imprecisa, con degli impliciti, il filosofo deve mettere ordine razionale al discorso del consultante entrando in relazione con esso. È necessario un rapporto paritetico per consentire un autentico dialogo filosofico ovvero nella consulenza filosofica tra consulente e consultante si crea un rapporto essenzialmente simmetrico in quanto il consulente in questione non presuppone di avere qualcosa da insegnare al suo interlocutore, egli si pone in dialogo con lui e quel che avviene non è scontato ma dipende dalla capacità di entrambi di saper gestire la conversazione. Il con- filosofare della consulenza non vuole avere un' 184 N. Pollastri, Consulente filosofico cercasi, op.cit.,p.34. 185 S. Zampieri, La consulenza filosofica spiegata a tutti, Milano, Ipoc, 2010, p.18. 186 Ibidem, p.34.

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unica direzione, ma prevede un interscambio in cui anche il consulente si mette pienamente in gioco e si interroga al pari del suo ospite. Il contratto è escluso da questo rapporto, deve solo essere comunicato il fattore economico, il fatto che la filosofia non mira a soluzioni e che il numero delle sedute è limitato. Non bisogna stabilire scadenze, frequenza e durata degli incontri. Alla questione posta si può rispondere che la consulenza filosofica non è decisamente una professione d'aiuto, ma un dialogo cooperativo idealmente paritetico187.

2.6.3 L'assenza di un metodo

Una delle peculiarità della consulenza filosofica è il fatto che questa non è costituita da metodi. Secondo Achenbach, infatti, la consulenza filosofica è un work in progress che non possiede regole e metodi predefiniti ma si sostanzia soltanto un dialogo ritenuto libero. Il nodo problematico è proprio questo perché non esiste una precisa descrizione di come avviene una consulenza filosofica, al contratrario di quanto accade per le altre pratiche. La consulenza definita da Achenbach vuole tenersi il più lontano possibile da schematismi che bloccano il pensiero piuttosto che aprirlo188, gli schemi in filosofia sono sempre analitici o orientativi. Achenbach rifiuta il metodo inteso come scientifico e rigoroso che, essendo applicato indistintamente ai singoli casi, non può rendere conto delle peculiarità di ogni individuo. L'idea della consulenza filosofica intesa quale pratica senza metodo restituisce unicità al singolo, prende in considerazione l'individuo non più come oggetto e lo sottopone a teorie che si costruiscono di volta in volta. E' il dialogo che durante il processo di consulenza crea il modo di procedere189. Non utilizzando metodi definiti la consulenza filosofica si basa su una tradizione millenaria del pensiero da cui essa può continuamente attingere utilizzando una filosofia 187 Ivi, p.34. 188 G. B. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità di vita, op.cit., p.5. 189 Ibidem, p.5.

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riconsiderata sotto la nuova luce dell'applicazione pratica della vita190.

2.7 Il filosofo consulente

La competenza specifica del consulente, in tale tipologia di consulenza consiste nel suo carattere di esperto di filosofia, che gli deriva dall'aver compiuto un approfondito percorso di formazione di livello superiore nelle discipline filosofiche. Il posto del consulente filosofico nel conflitto degli interessi tra medici, psicologi e pazienti è quello di formatore filosofico neutrale. Il consulente filosofico dovrebbe lavorare in una terra di nessuno, tra la visione diagnostica dei terapeuti e l'interpretazione libera degli agnostici, tra la medicina e l'etica, tra le scienze e le arti. I consulenti filosofici possono sentirsi a casa in questa terra desolata: diversamente da molti loro predecessori, il loro diritto a filosofare è salvaguardato191. Nel testo “La consulenza filosofica”192, Andrea Poma, descrive il consulente filosofico quale “esperto in filosofia e non “filosofo”, spiegando il fatto che il termine filosofo risulta di difficile e ambigua determinazione. In secondo luogo, la competenza specifica del consulente filosofico non consiste nella sua capacità di elaborare dottrine filosofiche da offrire al consultante, ma piuttosto nella sua conoscenza di dottrine, metodi e strumenti filosofici, da mettere a disposizione del consultante affinché questi ne possa usufruire nella propria elaborazione del problema193. Le capacità che un consulente filosofico deve avere corrisponde nella sua struttura al saper “suonare improvvisando” dei musicisti, i quali necessitano di molte competenze, senza però che nessuna di queste, isolatamente presa, sia mai né necessaria, né sufficiente a renderli capaci di essere buoni improvvisatori194. Nell'insieme di tutte le 190 191 192 193 194

Ibidem, p.5. Ivi, p.4. A. Poma, La consulenza filosofica, Firenze, University press, 2002. N. Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, op.cit.,p.197. N. Pollastri, Consulente filosofico cercasi, op.cit., p.67.

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competenze necessarie a un consulente, sarà la capacità di utilizzarle a fare la differenza.

2.7.1 Quale dialogo?

La caratteristica essenziale della consulenza filosofica è che questa è essenzialmente un dialogo, privo di sistematismi, norme e regole. La sua essenza dialogica gioca un ruolo decisivo195. Ovviamente la differenza sostanziale è che il dialogo della consulenza filosofica è un dialogo filosofico. In esso consultante e ospite hanno una pari dignità razionale e per questo anche umana ed etica ovvero eticamente il consulente si mette alla pari dell'ospite, adottando un approccio non giudicante. Non ha alcuna importanza che uno dei due sia più colto o più esperto nell'elaborazione concettuale, che uno sia retribuito o che l'altro debba pagare, entrambi sono considerati dal punto di vista umano aventi proprie idee e opinioni. Consulente e ospite sono capaci di filosofare insieme e insieme sono in grado di esaminare la vita assumendo pari dignità di dialoganti196. Essendo lo scambio dialogico lo strumento principale del consulente filosofico, i suoi compiti iniziali all'interno del dialogo sono quelli di ascoltare e quindi di comprendere quello che il cliente o in questo caso l'ospite desidera ottenere. Attraverso domande critiche e commenti il consulente spinge l'interlocutore a considerare altre opinioni, a considerare i propri atteggiamenti da altri punti di vista, riconsiderare o rivedere il punto di vista originale e così integrare impostazioni diverse197. L'esperto ha l'opportunità di creare un dialogo libero e aperto, in cui le sue domande non seguono una metodologia predefinita ma sono ispirate dalle idee del cliente o da quello che il consulente pensa in quel momento e danno origine a una comunicazione armonica. Il cliente beneficerebbe da questo dialogo in quanto, anziché dover lottare con la propria 195 Ivi, p.27. 196 Ivi, p.28. 197 P. B. Raabe, Teoria e pratica nella consulenza filosofica, Milano, Feltrinelli Editore, 2001, p.14.

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comprensione limitata e le proprie opinioni in conflitto, può esplorare con il consulente punti di vista diversi198. Nel parlare non si utilizzano sistemi filosofici, non si costruisce alcuna filosofia, non viene somministrata nessuna opinione filosofica, ma mette esclusivamente il pensiero in movimento: si filosofa. Il dialogo con un filosofo potrebbe allargare gli orizzonti, ampliare le prospettive, far capire e scoprire qualcosa di nuovo e inaspettato, rendere l'apertura a una ricerca consapevole di sé, chiarificare e rivelare le idee che guidano l'esistenza quotidiana, saper procedere con una buona qualità, non devono esserci elementi che impediscono di ascoltare, comprendere e interagire. E quando ci sono limiti in questo senso il consulente deve essere pronto a interrompere il proprio lavoro riconoscendone l’impossibilità e consigliando altri professionisti.

2.7.2 Empatia o intesa?

Connessa al tema della relazione l'empatia entra nell'ampio dibattito della consulenza filosofica, sempre per il fatto che quest'ultima viene assimilata all'ambito delle psicoterapie. Argomento già sviluppato nell'ambito della consulenza educativa è l'empatia ovvero come si è già accennato la capacità di immedesimarsi in un'altra persona fino a coglierne i pensieri e gli stati d'animo”199. Il concetto nasce nell'ambito della filosofia, più precisamente ha origine nell'estetica e nel romanticismo, dove veniva usato per spiegare i sentimenti prodotti dalla fruizione di opere d'arte. In seguito il termine empatia è stato ripreso da filosofi, quali Dilthey, Jaspers e Scheler, assumendo varie configurazioni, non sempre coerenti l'una con l'altra ma sempre relativi alla sfera dei sentimenti. Partendo da quanto detto è necessario esplicitare come nella consulenza filosofica non è fondamentale che ci sia empatia tra i due dialoganti. Infatti, se la relazione di consulenza filosofica si configura essenzialmente come un dialogo tra esseri aventi pari dignità ovvero se 198 Ivi, p.15. 199 N. Pollastri, Consulente filosofico cercasi, op.cit., p.37.

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tra consulente e consultante esiste un rapporto simmetrico, se entrambi collaborano insieme in un processo di ricerca di significato e laddove l'empatia sia comunque presente è neccessario che tra i due si instauri un rapporto d'intesa. Il compito del filosofo è quello di comprendere, ma egli lo fa in maniera diversa dallo psicologo e non richiede una compartecipazione immedesimante200. L'esperto in filosofia non condivide tale stato d'animo ma si limita a osservarlo e a comprenderne, anche criticamente, le ragioni e il senso affinché possa favorire, la consapevolezza del consultante. Ecco che il termine empatia nella consulenza filosofica non viene utilizzato volentieri a causa di possibili fraintendimenti. Il consulente deve intendersi col suo consultante sul piano linguistico e concettuale, deve saper cogliere in profondità la visione del mondo che l'ospite gli propone, desumendola dai modi con cui l'altro descrive se stesso e il suo mondo (e non per comprensione empatica, o per supposta competenza filosofica). Deve condividere questa visione con l'altro, attraverso una progressiva messa in luce dei nodi, pronto anche a rivedere la propria valutazione ove necessario: non c'è, insomma, una "diagnosi" dell'esperto con conseguente prognosi, bensì un "camminare insieme" verso una consapevolezza più profonda. Per rispondere al titolo del paragrafo si può affermare sebbene l'intesa sia la caratteristica essenziale del rapporto tra consulente e ospite che favorisce l'accordo tra i due dialoganti, questa non esclude l'empatia che permette a questi ultimi di entrare in sintonia e focalizzare al meglio il problema.

2.7.3 Dialogo centrato sul cliente e natura dialogica del processo

Due degli aspetti più importanti della consulenza filosofica sono la “terapia centrata sul cliente” e la natura dialogica del processo. Il lemma “centrato sul cliente” come è stato esaminato per quanto riguarda la consulenza educativa è stato coniato da Rogers intorno agli anni cinquanta ed esso si basava sull'assunto che le persone 200 Ivi, p.38.

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siano sostanzialmente degne di fiducia, nonché ampiamente in grado di capire se stessi senza l'intervento diretto del terapeuta201. Oggi i consulenti filosofici condividono l'idea di Rogers che spiega come il punto di osservazione migliore per capire come si comportano le persone sia all'interno del loro stesso quadro di riferimento. La consulenza filosofica deve essere centrata sul cliente, deve partire da quello che il cliente o l'ospite pensa e crede e mai su quello che invece dovrebbe sapere o sul fatto che possa avere sentimenti repressi. Il cliente viene visto dal consulente non come l'ospite di una malattia isolata che ha bisogno di un trattamento, ma come una persona completa, un agente morale autodiretto la cui dignità e autonomia meritano il rispetto del consulente202. Il consultante così come considerato da Rogers al centro del processo di consulenza ha una propria visione del mondo, chiamata da Achenbach Weltanschauung, attraverso la quale interpreta la realtà che lo circonda, reagisce ad essa, la giudica, vi interviene. Di fronte alla complessità che caratterizza le società moderne appare però problematico il conseguimento di visioni della realtà sufficientemente comprensive e coerenti. Sempre più spesso, anzi, si ha a che fare con dubbi e incertezze, causa di insicurezza e stati di crisi. Fino ad ora soprattutto la psicoterapia sembrava essere la disciplina in grado di fornire una possibile risposta alle difficoltà esistenziali dei singoli. Se però il disagio ha radici nel modo in cui si interpreta la realtà, se le origini di dubbi e prostrazioni si trovano nella propria Weltanschauung, non sarà tanto opportuno rivolgersi ad un medico che cerchi una cura, quanto piuttosto a un esperto nell’elaborazione delle idee e dei pensieri, che cerchi di chiarificare i complessi rapporti che intercorrono tra interpretazione del mondo e scopi, valori e significati, concetti e aspettative. Lo scambio dialogico è un'altro strumento del consulente, che all'inizio del colloquio dovrà ascoltare e comprendere quello che l'ospite desidera ottenere. Per questo è possibile che il consulente debba oltrepassare la soglia tra l'essere un partner alla pari in un incontro dialogico con il suo cliente e l'assumere il ruolo dell'insegnante203. La pratica filosofica si presenta 201 P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, op.cit., pp.13. 202 Ibidem, p.13. 203 Ivi, p.14.

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come il territorio della narrazione, del racconto e della riattivazione della funzione di ascolto che si ricostruisce sperimentando l'ascolto altrui. Essere un consultante o un consulente non significa abdicare alla propria autonomia dal momento che il consulente non è visto come un esperto che espropria il cliente della sua responsabilità di pensare e parlare per sé204. Il consulente aiuta il cliente a sviluppare la propria capacità di trovare una soluzione al proprio problema o a ciò che lo preoccupa, in modo che sia per lui soddisfacente. Il punto di riferimento di qualsiasi seduta di consulenza filosofica è il cliente e la sua comprensione. Il metodo utilizzato è quello del dialogo Socratico ovvero un dialogo in cui l'argomento è meno importante del metodo utilizzato, e il processo di ogni seduta di consulenza è più importante di qualsiasi conclusione possa essere raggiunta.

2.8 Due pratiche a confronto Dopo aver esaminato a fondo entrambe le pratiche di consulenza, diviene doveroso trarre delle conclusioni e approfondire qualora ve ne fossero, le analogie e le differenze che sussistono tra le due. Come sottolineato il counseling si presenta come un

modo nuovo di affrontare problemi che coinvolgono l'individuo, di

impostare la relazione d'aiuto in sintonia con l'esigenza di valorizzare le risorse personali di ognuno205.

2.8.1 Le analogie

Una delle analogie rilevate riguarda il fatto che in entrambi i casi ci si trova ad avere a che fare con delle pratiche che prevedono una relazione d'aiuto che si sviluppa attraverso una terapia “centrata sul cliente”, laddove l'intento comune di 204 Ibidem, p.14. 205 M. Danon, Counseling. L'arte della relazione d'aiuto attraverso l'ascolto e l'empatia, op.cit., p. 30.

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questi approcci è la crescita della persona, alla quale si attribuisce valore, competenza, libero arbitrio e responsabilità. Il cliente è al centro della relazione di consulenza che deve orientarsi a partire dalle assunzioni ultime e dai sistemi proiettati dal consultante. E' importante mettere in evidenza una comune matrice dal momento che il counselling socio educativo nasce all'interno del paradigma umanistico sviluppato da Maslow e da Rogers, manifestando pertanto profonde radici umanistico-filosofiche. La comunicazione interpersonale è alla base delle due pratiche laddove l'essenza della consulenza educativa è la comunicazione e la necessità di porre l'attenzione sulla dimensione relazionale, dei processi di comunicazione educativa nasce dalla constatazione che ogni processo di cambiamento e di crescita può concretarsi soltanto se le persone stabiliscono relazioni interpersonali. Allo stesso modo, lo strumento principale del consulente filosofico è lo scambio dialogico e i suoi compiti all'interno del dialogo sono quello di ascoltare e quindi comprendere quello che il cliente desidera ottenere. Il consulente filosofico è innanzi tutto un esperto di filosofia, un professionista che conosce gli strumenti della filosofia quali il dialogo, la speculazione, la domanda e il dubbio e li propone al servizio di chi ne fa richiesta per affrontare una questione206. Una delle caratteristiche centrali di tutte le relazioni terapeutiche è l'empatia sebbene nella consulenza filosofica non acquista lo stesso rilievo, anzi il termine viene spesso evitato. Il concetto di empatia occupa un posto di rilievo nella consulenza educativa ma acquista piena cittadinanza nella riflessione filosofica. L'empatia è la capacità di cogliere e comprendere l'esperienza soggettiva del cliente, mettendosi nei suoi panni, guardando le cose dal suo stesso punto di vista. Nonostante nella consulenza filosofica si parli più spesso di intesa per non usare parole abusate dall'ambito psicologico e perchè il consulente cerca prima di tutto di entrare in un rapporto di intesa con il proprio ospite, in realtà l'empatia è presente anche in questa pratica. Ogni ospite nella consulenza filosofica e ogni cliente nella consulenza educativa portano con sé anche il proprio visssuto, la propria problematica. Se il consulente non entrasse in empatia con l'altro, se non venisse 206 Cfr. Appendice, Tavola B, Intervista n. 2.

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accolta la sua sofferenza, egli si sentirebbe solo un individuo, uno tra tanti. In entrambi i casi empatia ed intesa dovrebbero costituire la base delle relazioni di consulenza. L'intesa, intendendo con questo termine il raggiungimento di un accordo linguistico-concettuale tra i due dialoganti, è necessaria a instaurare una comprensione dei reciproci discorsi e a cooperare nella produzione di un discorso intersoggettivo207. Il rapporto tra consulente e consultante in entrambe le pratiche è un rapporto assimetrico in cui l'operatore e il cliente portano risorse e competenze diverse, ma in cui il vettore relazionale non è unidirezionale, non va soltanto dall'operatore verso il cliente bensì coinvolge in un processo dinamico entrambi gli attori della relazione208. Il cliente, così come l'ospite viene considerato nella sua struttura etica e valoriale, nel rispetto della dignità morale e valoriale di entrambi. Sia nella consulenza educativa che in quella filosofica la relazione che si viene a creare è certamente assimetrica se la si considera dal punto di vista della professionalità, delle competenze che il filosofo o l'educatore ha acquisito in più rispetto all'ospite o al cliente, con la differenza che nella consulenza filosofica l'aspetto professionale viene spesso tralasciato perchè cosiderato nocivo ai fini del rapporto dialogico. La relazione diventa simmetrica in entrambe le consulenze dal momento che il dialogo si disputa tra due esseri razionali, tra due persone che hanno parità dialogica e valoriale con la differenza che nel con-filosofare il consulente si interroga e si mette in gioco alla pari del suo ospite senza esercitare delle pressioni legate al suo avere delle competenze in più. Entrambe le pratiche si prestano al lavoro in equipe, in quanto per la consulenza filosofica, il lavoro in équipe è la sua dimensione più alta perché nel gruppo di delineano più orizzonte che vengono messi a disposizione del benessere e del miglioramento della condizione dell’altro209. Il consulente socio-educativo, come già accennato precedentemente, può prestare la sua opera all’interno di una equipe che può avere carattere multidisciplinare o accomunare la professionalità dello stesso. Per la sua natura dialettica e per la sua caratterizzazione fondata sull’accoglienza e sull’ascolto, 207 N. Pollastri, Consulente filosofico cercasi, op. cit., p.38. 208 D. Simeone, La consulenza educativa. Dimensione pedagogica della relazione d'aiuto, op.cit., p.17. 209 Cfr. Appedice, Tavola B, Intervista n. 2.

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anche la consulenza educativa si presta in modo efficace al lavoro di equipe210.

2.8.2 Le differenze

La prima differenza riscontrata riguarda la consulenza filosofica. Ci si chiede se ques'ultima sia o meno una professione d'aiuto ovvero una relazione volta ad aiutare la persona in difficoltà. Nella consulenza educativa questo tipo di relazione è definita come una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire, in una o in ambedue le parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto ed una maggiore possibilità di espressione211. Tale professione abbraccia una specificità del counseling, che è inteso come un intervento che mira ad accogliere i bisogni e le richieste di un cliente per specificarne le caratteristiche esplicite ed individuare obiettivi concreti in merito a un percorso di crescita212. Tutto questo è però impossibile in filosofia, dove il dialogo deve necessariamente essere paritetico quanto a dignità, responsabilità e valore delle idee. La risposta ad una chiamata di aiuto è e deve essere implicita e non esplicitata come promessa, la possibilità che l'ospite risolva i suoi problemi esistenziali nella consulenza filosofica è presente, auspicabile ma non necessaria, perché in essa non c’è una scuola, un metodo, un protocollo, e seppure si delineano i tratti di una “diagnosi” essa non è trattabile attraverso una terapia o una cura213. Il consulente filosofico lavora sui metodi e non con i metodi laddove l'obbedienza a un metodo è tipico delle scienze e non della filosofia, egli si propone come obiettivo la chiarificazione del problema del suo ospite ma senza l'utilizzo di una metodologia. Si hanno a disposizione seimila anni di tradizione filosofica e attraverso le proprie conoscenze il consulente, compie un persorso insieme all'ospite di cui si conosce il punto di partenza, ma non il punto di arrivo dato che nessun consulente filosofico opera anamnesi e diagnosi del proprio 210 211 212 213

Cfr. Appendice, Tavola A, Intervista n. 1. A. Di Fabio, Counseling. Dalla teoria all'applicazione, op. cit., p.166. Cfr. Appendice, Tavola A, Intervista n. 1. Cfr. Appendice, Tavola B, Intervista n. 2.

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ospite. Siamo di fronte a due professioni che, sebbene distinte, hanno il compito di sostenere la persona nella risoluzione di un problema specifico o di un disagio emergente. In entrambi i casi grazie al dialogo ma soprattutto grazie al rapporto che si instaura con il counselor, il cliente ha la possibilità di alleggerire il peso delle preoccupazioni e dei dolori che lo affligono, condividendoli con un ascoltatore attento e partecipe. Sono proprio le qualità personali del counselor, più che una vera e propria tecnica i fattori di successo di questi nuovi approcci alla persona, un'alternativa alla psicoterapia o meglio come diceva Rogers “un nuovo modo” di fare psicoterapia. Nessun consulente filosofico andrà a esaminare il vissuto del suo ospite dalla nascita, il vissuto della sua storia personale serve a delineare degli aspetti che, per l'indagine filosofica risultano assolutamente irrilevanti. Ci si concentra sul presente proiettati verso il futuro, sull'analisi del problema e sulle difficoltà che il problema crea al soggetto. Il counseling filosofico è impregnato dallo spirito socratico per cui è importante il sapere di non sapere e per cui il processo di conoscenza non si conclude mai, e allo stesso tempo si pone come ponte per calare questo atteggiamento nei confronti delle problematiche della vita quotidiana214. Il counseling agisce nel qui e ora, puntando a far emergere contenuti della vicenda presente del cliente, dalla quale ricavare con chiarezza e accurata precisione la richiesta di cambiamento, e costruire insieme al cliente (grazie a un rapporto

di

alleanza

e

fiducia

professionale

con lui) un ventaglio di possibili percorsi di soluzione e trasformazione consapevole della tematica portata dal cliente. Questo è un aspetto davvero delicato perchè costituisce l'etica del counseling, la sua ragione, il suo senso, la sua direzione. E' vero che ciascun cliente è accolto secondo l'ottica dell'Io narrante portatore di esperienze, nel senso che non è possibile pensare a un vissuto svuotato della sua storia, ma il consulente non entra per questa ragione nei dettagli, che fra l'altro, visti gli obiettivi del counseling (anche quello socioeducativo)

potrebbero

risultare

inutili

e

fuorvianti.

214 M. Danon, Counseling. L'arte della relazione d'aiuto attraverso l'ascolto e l'empatia, op. cit., p.88.

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La


formazione

del

counselor

è

notoriamente

basata

sul

destrutturare

l'atteggiamento investigativo che spesso si ha nelle relazioni comuni, quindi non è compito del counselor indagare la vita personale del cliente. E' invece compito del counselor, nel caso in cui il cliente avvii una narrazione retrospettiva fuorviante dal focus centrale (che ha come soggetto temporale il qui e ora), riportarlo al presente, perchè il presente è l'area di interesse del counselor. La consulenza filosofica a differenza di quella educativa stimola preferibilmente la riflessione e la capacità di ampliare l'orizzonte cognitivo e noetico dell'ospite. A mio parere la differenza principale si ritrova nella consulenza filosofica in quanto questa è disposta a trascendere a quel giusto distacco formale, affrontando il rischio di distruggere quella cornice protettiva (setting) che è la base del rapporto di aiuto professionale tra un consulente competente e un cliente. Il non prendere in considerazione il rapporto assimetrico tra consulente e consultante, dando importanza piuttosto alla sfera personale ed emotiva apre dei rischi e dei dubbi di natura deontologica, destrutturando quello che nell'aspetto socio-educativo si intende per consulenza. Nella consulenza filosofica i rapporti simmetrici sono importantissimi più che per le pratiche educative in quanto un rapporto più vicino all'amicalità permette di sentirsi liberi, di obbiettare assumendosi le responsabilità delle proprie idee, di comprendere tanto i propri limiti quanto quelli dell'altro, ed infine di essere attratti dall'idea di contribuire in proprio alla scoperta del nuovo.

2.9 Un caso di approccio filosofico- educativo

La Philosophy for children rappresenta una delle più significative esperienze pedagogiche contemporanee elaborata intorno agli settanta da Matthew Lipman, filosofo

di

formazione

deweyana

profondamente

interessato

alle

varie

problematiche pedagogiche. Secondo Lipman, l’esercizio critico del pensiero, l’incontro con temi e problemi che stimolassero una ricerca di conoscenza, il confronto con diverse ipotesi di interpretazione del mondo e con diversi percorsi 63


logici, l’apertura alla dimensione filosofica dell’esperienza dovevano invece essere un elemento essenziale in ogni percorso di formazione. Era necessario, tuttavia, che fossero offerti molto precocemente, addirittura già a livello di scuola elementare. Da qui l’idea di scrivere racconti strutturati in forma dialogica, che costituissero una base di lavoro per esperienze educative in cui venisse messo in gioco il pensiero di tutti e di ciascuno attraverso la discussione, l’argomentazione, il dialogo. Da qui, inoltre, la creazione di una metodologia didattica che vedesse ogni gruppo di apprendimento (dalle classi di scuola materna ed elementare ai gruppi di formazione degli insegnanti) configurarsi come "comunità di ricerca" in cui tutti, insieme, potessero costruire conoscenza condividendo una comune responsabilità euristica. E' in questo contesto che prende corpo la Philosophy for Children, un progetto educativo costituito da una serie di racconti in forma dialogica ( tutti scritti dallo stesso Lipman) in cui i protagonisti, bambini, adolescenti e adulti, dialogano su problemi di natura filosofica. Tale attività educativa, appartenente al variegato mondo delle pratiche filosofiche ha avuto ampia diffusione dapprima negli Stati Uniti e successivamente in tutto il mondo con l'istituzione di numerosi centri di studio e sperimentazione del programma. L'idea di Lipman si è rivelata feconda e ha conosciuto una rapida diffusione tanto che questa pratica educativa è stata sperimentata con particolare successo in istituti scolastici situati in ambienti sociali ad alto tasso di rischio. Dove un compito primario dell'educazione è anche quello di fornire ai ragazzi le armi intellettuali per imparare a sostenere il confronto senza ricorrere alla violenza215. A mio avviso questo è il maggior punto d'incontro tra la filosofia e l'approccio educativo, in cui la filosofia appunto viene utilizzata per un fine pedagogico.

215 M. Beltrani, Gli strumenti della persuasione. La saggezza retorica e l'educazione alla democrazia, Perugia, Morlacchi Editore, 2009, pp. 292-293.

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CONCLUSIONI

Giunti a questo punto della riflessione, dopo aver esaminato prima nella loro specificità e successivamente nel loro raffronto queste due prassi di supporto alla persona, non rimane che “tirare le somme” e concludere ribadendo da un lato la positività insita in esse quali pratiche di aiuto e, dall'altro le perplessità che animano la loro comparazione. Infatti, se da un lato in quanto consulenze manifestano l'esigenza dell'uomo contemporaneo di essere aiutato a riflettere e a rivisitare se stesso e la forma di vita assunta, a causa di una società sempre più materialistica, scevra di autenticità e di sostegni promozionali all'individuo, dall'altra nella comparazione del loro esplicarsi che le vede articolandosi quali pratiche operative, emergono non poche perplessità. I dubbi che sono emersi riguardano pecualiarità e finalità, formalmente differenti ma sostanzialmente simili. Una delle ambiguità riscontrate a mio avviso riguarda il piano dell'asimmetricità che caratterizza un rapporto di consulenza e che crea un dislivello tra le due pratiche laddove sul piano formale della consulenza filosofica si cerca di far emergere maggiormente la simmetricità del rapporto tra consulente e interlocutore. Posso affermare che se rispetto alla competenza filosofica che il consulente possiede, il rapporto si delinea come asimmetrico, nel con-filosofare egli forse è disposto a rinunciare a un rapporto più formale laddove un rapporto più vicino all'amicalità permetterebbe di sentirsi più liberi e di comprendere i propri limiti. Allo stesso modo la medesima perplessità riguarda i concetti di intesa e di empatia che a mio parere sul piano formale della consulenza filosofica diventano quasi sinonimi. Quest'ambiguità diventa ancora più complessa dal momento in cui anche tra i consulenti filosofici esistono dei pareri contrastanti sull’esistenza o meno dell’empatia in una relazione di consulenza. Se per alcuni è preferibile 65


non parlare di empatia, per altri l’empatia convive con l’intesa e si configura come una delle caratteristiche fondamentali di un processo di consulenza. In conclusione si può affermare che se da un lato entrambe si presentano come due pratiche utili al sostegno dell'individuo con una storia evolutiva differente, laddove la consulenza filosofica si sviluppa abbastanza recentemente e la consulenza educativa può vantare di un proprio passato ma ha ancora un cammino evolutivo da percorrere, dall'altro non si può non tenere in considerazione che nelle loro differenze, nelle perplessità che contraddistinguono il loro raffronto, nei tanti punti irrisolti, di fatto entrambe si configurano quali strumenti promozionali dell'individuo e quali pratiche supportive alle fragilità dell'uomo contemporaneo.

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Appendice

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Tavola A

Intervista n. 1

Nome: Nuccio Salis

Professione: Counselor socio-educativo CNCP di secondo livello, formatore a orientamento umanistico e transazionale, educatore professionale (area ADH)

Chi è il consulente educativo? Il consulente educativo è un professionista in grado di offrire orientamenti e indicazioni circa i complessi temi dell’educazione e connesse tematiche a forte rilevanza educativa. La consulenza può rivolgersi a persone singole, comunità o gruppi distinti per livelli di formalità e organizzazione strutturale interna. L’utenza deve inoltre essere distinta in diretta, quando la richiesta proviene per iniziativa della medesima, ed indiretta quando la stessa è sollecitata da terzi a fruire della consulenza. Lo strumento principale attraverso cui questa opera può essere efficacemente esplicata è il colloquio.

Cosa è la consulenza educativa? La consulenza educativa è il processo attraverso cui un consulente esperto e formato conduce il cliente ad attivare le proprie risorse cognitive, emozionali e contestuali, affinché questi arrivi ad esplicitare chiaramente in primo luogo a se stesso la natura dei propri obiettivi, definendo bisogni e richieste; ed in un secondo tempo ad individuarne i percorsi di problem-solving ritenuti dallo stesso più opportuni in seno alla propria griglia di valori e personalità. E’ molto importante, dunque, sottolineare, che la consulenza non offre risposte preconcette e già impacchettate, in quanto 68


potrebbero risultare astratte, acontestuali, inefficaci, antistoriche se non addirittura irriguardose nei confronti dei vissuti e della biografia personale del cliente. Inoltre in questo modo, il professionista depotenzia l’individuo paralizzandone l’iniziativa, incoraggiando una relazione di interdipendenza negativa con lo stesso. La consulenza educativa è dunque un processo di accoglienza e accettazione incondizionata dell’altro, basata su modalità di ascolto comprensivo diretto a responsabilizzare attivamente il cliente.

Dove lavora il Consulente educativo? Il consulente educativo lavora in tutti i contesti in cui la tematica socio educativa risulta rilevante o addirittura caratterizzante il luogo e il “setting” di intervento. Tutte le agenzie che erogano servizi alla persona, in termini educativi, ricreativi, culturali, formativi, possono avvalersi della collaborazione del counselor socio educativo. Egli può prestare privatamente la sua opera, e nel caso in cui collabori con enti pubblici può, con la sua specificità, collaborare nell’ambito di un intervento multidisciplinare, misurando le sue competenze con altri professionisti di altri orientamenti, nell’ottica della fruttuosa e costruttiva collaborazione.

Come lavora il Consulente educativo? Quali sono gli strumenti del mestiere? Il consulente educativo, nel prestare la sua opera, fa riferimento a una serie di norme etiche e deontologiche tradotte in via ufficiosa da associazioni di professionisti di cui ciascun operatore può far parte. Gli strumenti del mestiere di un consulente socio educativo rientrano nella piramide di abilità che viene definita sotto il nome di “colloquio intenzionale”. Con questo termine si intende la consapevolezza, da parte del counselor socio educativo, di disporre di vari strumenti di azione finalizzata, e di poterli utilizzare in modo integrato, con flessibilità e saggezza secondo le richieste e le caratteristiche dell’utente e del complesso delle variabili contestuali. Le principali abilità contenute in tale piramide, molto

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sinteticamente sono: l’uso delle tecniche non direttive dell'ascolto attivo, semi direttive e direttive della comunicazione efficace; il tutto congiunto ad una irrinunciabile crescita nell’area del “saper essere”, che nel professionista della consulenza educativa si traduce nel saper continuare ad imparare e personalizzare il proprio stile di intervento.

Cosa distingue la consulenza educativa con la consulenza filosofica? Premetto di non essere esperto del counseling filosofico in quanto non è l’area di mia pertinenza. Tuttavia posso affermare che oltre alle differenze è importante mettere in evidenza una comune matrice. Il counseling socio-educativo ha come radice primaria la filosofia, intesa come idea di persona, di società, di mondo. Il counseling socio-educativo nasce all’interno del paradigma umanistico sviluppato da Maslow e da Rogers, quindi ha profonde radici umanistico-filosofiche. L’intento comune di questi due approcci, dunque, è la crescita della persona, alla quale si attribuisce valore, competenza, libero arbitrio e responsabilità. La differenza sostanziale probabilmente consiste nell’impegno di far emergere successivamente dalle narrazioni il “mondo possibile” da realizzare nella concretezza della quotidianità, in seno alla persona. Il counseling socio-educativo si prende cura di questi aspetti, prevedendo una tassonomia di obiettivi da poter verificare nella concretezza, come misura di un reale cambiamento in divenire.

Si può definire una professione di aiuto? Il counselor socio educativo è una professione di aiuto. Tale professione abbraccia una specificità del counseling, che è inteso come un intervento che mira ad accogliere i bisogni e le richieste di un cliente per specificarne le caratteristiche esplicite ed individuare obiettivi concreti in merito a un percorso di crescita. I clienti di un consulente socio-educativo possono essere per la maggior parte persone che desiderano sviluppare e maturare competenze personali per affrontare con

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efficacia importanti momenti di transazione nella loro esistenza. Nello specifico delle aree di intervento è possibile aiutare studenti demotivati in difficoltà, insegnanti ed altre figure educative deluse e frustrate, genitori con vissuti di vulnerabilità e rassegnazione. Occuparsi di queste persone, significa offrire aiuto.

Come si diventa consulenti educativi? Personalmente sono diventato counselor socio-educativo frequentando il master universitario biennale di 468 ore attivato dalla scuola IFREP (Istituto di Formazione e Ricerca per Educatori e Psicoterapeuti), che fa capo all’Ateneo della Università Pontificia Salesiana, a Roma. È all’interno di quella Università che un maestro di vita e di scienza umanistica che risponde al nome di Pio Scilligo (scomparso nel luglio del 2009), svolse importanti ricerche all’interno del LARSI (Laboratorio di Ricerca sul Sé e sull’Identità), che condusse ad una importante rilettura dell’analisi transazionale di Eric Berne in chiave socio-cognitiva. La sua eredità di conoscenze è legata ad altri autorevoli esponenti che hanno fondato e diffuso il counseling socio-educativo in Italia: Raffaele Mastromarino ed Eugenio Fizzotti. La formazione del consulente socio-educativo è rigorosa e monitorata da seri esperti nell’ambito della psicoterapia clinica. Essa prevede inoltre un tirocinio pratico da documentarsi per un totale di 80 ore, da svolgersi presso enti (pubblici o privati) eroganti servizio socio-educativo. Alla fine di tutto il percorso teorico-pratico si elabora una tesina finale da discutere con la commissione interna dei docenti formatori. Superato lo stesso si riceve il diploma universitario, di primo o di secondo livello, quest’ultimo ottenuto per riconoscimento di un titolo di studio universitario precedente nell’ambito educativo; e ci si può iscrivere all’albo del CNCP (Coordinamento Nazionale Counselor Professionisti).

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È una professione che si presta al lavoro in equipe o si pone come sostitutiva o alternativa di altre professioni di aiuto? Il consulente socio-educativo, come già accennato precedentemente, può prestare la sua opera all’interno di una equipe che può avere carattere multidisciplinare o accomunare la professionalità dello stesso. In qualunque caso, il professionista dovrà approcciarsi in termini collaborativi e sinergici con il resto dell’equipe, affermando la propria specificità e aprendo spazi di possibile convergenza costruttiva specie se diretti verso un comune obiettivo. Per la sua natura dialettica e per la sua caratterizzazione fondata sull’accoglienza e sull’ascolto, tale professione si presta in modo efficace al lavoro di equipe.

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Tavola B Intervista n. 2 Nome: Daniela Donatini Professione: Consulente filosofica per Phronesis, prima associazione italiana di consulenza filosofica

Chi è il consulente filosofico? Il consulente filosofico è innanzi tutto un esperto di filosofia, un professionista che conosce gli strumenti della filosofia quali il dialogo, la speculazione, la domanda e il dubbio e li propone al servizio di chi ne fa richiesta per affrontare una questione.

Cosa è la consulenza filosofica? Così come la intende il suo fondatore Gerd B. Achenbach è: “una istituzione per le persone le quali, afflitte da preoccupazioni o da problemi, assillati da domande alle quali non riescono a dare una risposta, cercano il colloquio con il consulente filosofico che in quanto filosofo è lo specialista del non-speciale, del generale e del chiaro sia di ciò che è contraddizione e devianza e dell’individuale e dell’unico”. La consulenza filosofica non è: - non è una psicoterapia né si occupa dei problemi dell’individuo in modo sistematico e tecnico strategico. - non è psico-sofia perché le due discipline sono due cose compatibili ma ben distinte. - non si tratta di Counseling filosofico di orientamento psicologico. La consulenza filosofica è un incontro tra due persone dove uno vuole dipanare un pensiero e l’altro si mette a disposizione per ascoltarlo, capirlo e stimolare in lui il dubbio e la riflessione intorno a quegli orizzonti non ancora osservati.ù

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Dove lavora il Consulente filosofico? Non esiste un luogo dove poter osservare il consulente filosofico al lavoro. Lo puoi trovare in dialogo con il suo ospite a passeggio in un parco o seduto in un Caffè, alcuni poi aprono uno studio professionale dove ricevono i loro consultanti. Achenbach sottolineava l’esigenza, per dare dignità professionale al consulente filosofico, di avere uno studio, un luogo dove poter esercitare la propria attività. In realtà il consulente filosofico lavora con le imprese, con il personale di un azienda o il manager per problematiche relazionali, lavora con i privati per affrontare questioni esistenziali, metafisiche, religiose, lavora con i medici per questioni di bioetica. Tutti in qualche modo facciamo uso della filosofia, tutti ripensiamo alla nostra esistenza in termini di scelte, di destino, di moralità, di sentimenti e se troviamo qualcuno che riesce ed allargare i nostri orizzonti o rendere meno pesanti i nostri problemi, ben venga!

Come lavora il Consulente filosofico? Quali sono gli strumenti del mestiere? Galimberti nel suo libro “Il segreto della domanda” sostiene che non è necessario rispondere alla domanda ma è fondamentale “radicalizzarla”, ridurre la drammaticità dell’interrogazione attraverso il commento e non il conforto o la consolazione. Attraverso la domanda, chi si occupa di pratica filosofica, non da consigli ma indica la via, allarga l’orizzonte. Il consulente filosofico quando riceve il proprio ospite mette a disposizione i suoi strumenti, prima di tutto la curiosità, senza la quale non c’è pensiero. La curiosità permette al consulente di ascoltare e di crearsi un’immagine della questione posta e permette, altresì al consultante di dettagliare, di esprimersi e dipanare la sua questione. Il consulente usa la domanda come strumento principale in quanto, il suo lavoro è quello di chiedere chiarezza, definizione dei termini utilizzati, è quello di ritornare sulla questione spostando la prospettiva di osservazione del problema. Fare consulenza filosofica è una attività molto faticosa per entrambi gli attori perché li impegna in uno sforzo speculativo

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non indifferente ma, ogni volta che i due concludono l’incontro, il consultante si sente più forte e in qualche modo alleggerito dal peso della questione posta.

Cosa distingue la consulenza filosofica con le pratiche di counseling e consulenza pedagogica? La consulenza filosofica è fatta da un filosofo e non da un pedagogista o da uno psicologo. Quanti di noi si chiede qual’è la differenza tra un filosofo, uno psicologo o un pedagogista? Molti ovviamente comprendono che ogni professionista ha la sua specificità, è vero anche che la filosofia come madre del pensiero occidentale un po’ comprende e ha dato vita a discipline che oggi vengono definite scienze umane. La filosofia è costitutivamente umanista, si occupa dell’umanità in tutte le sue forme. La questione che si pone tre le scienze umane è la distinzione dello statuto epistemologico di ognuna di esse. La filosofia si può definire una meta disciplina in quanto le comprende ma si rende autonoma contemporaneamente. Il pensiero fondamentale del fondatore della consulenza filosofica, Gerd Achenbach sostiene che la specificità di questo professione è la sua specificità e l’assenza di un vero e proprio metodo di lavoro. Secondo Achenbach lavorare con il dubbio, la critica e la speculazione non si può creare un metodo rigoroso e imbrigliante, altrimenti snaturerebbe le stesse filosofia e la pratica di consulenza che invece è sempre nuova, creativa e dinamica.

Si può definire una professione di aiuto? Va bene essere cauti, ma non dobbiamo essere ipocriti, il consulente risponde ad una chiamata, e cerca di dare un aiuto, così come dichiara palesemente chi fa counseling. La risposta ad una chiamata di aiuto è e deve essere implicita e non esplicitata come promessa, l’aiuto nella consulenza filosofica è possibile, auspicabile ma non necessario, perché in essa non c’è una scuola, un metodo, un protocollo, e seppure si delineano i tratti di una “diagnosi” essa non è trattabile 75


attraverso una terapia o una cura. Nella consulenza si cerca di far emergere i contorni di una sofferenza per entrare in contatto, non tanto con la causa di tale disagio, ma con il soggetto che la percepisce, che la vive, le cause e gli effetti del malessere sono materia del medico. Indagare insieme alla persona che vive il disagio o la sofferenza, è il senso della consulenza che si pone come elemento chiarificatore delle problematiche. Tale impostazione ha come effetto, solitamente, quello di alleviare la sofferenza o a trasformarla in qualcos’altro però, è opportuno sottolineare che può capitare di proporre al consulente un problema e concludere l’incontro moltiplicando i problemi o modificandoli. In questo caso si può interpretare che la consulenza filosofica non è stata in grado di soddisfare la richiesta di aiuto del consultante, ecco perché l’aiuto non è l’obiettivo primario della consulenza filosofica ma è importante il percorso di interpretazione che si fa insieme. Definirla una professione di aiuto è imbrigliante, si può aiutare una persona se ti chiede di risolvergli un problema, il consulente non promette soluzioni o cure ma se un ospite, al termine degli incontri di consulenza, si sente di aver risolto un problema, è implicito che la consulenze gli è stata di aiuto. L’aiuto non è mai esplicito nel “contratto” di consulenza, anzi talvolta la consulenza può complicare la dimensione problematica dell’ospite perché lo porta a riflettere su questioni impegnative o dolorose emotivamente.

È una professione che si presta al lavoro in equipe o si pone come sostitutiva o alternativa di altre professioni di aiuto? La Schuster nel suo libro la pratica filosofica, cercando di individuare la collocazione del consulente filosofico sostiene: “il posto del consulente filosofico è nel conflitto degli interessi tra medici, psicologi e pazienti è quello di formatore neutrale, lavorare in una terra di nessuno, tra la visione diagnostica dei terapeuti e 76


l’interpretazione libera degli agnostici, tra la medicina, l’etica, tra le scienze e le arti”. La Schuster riconosce al consulente il compito di formatore, intendendo la formazione al pensare, insegnare al proprio ospite a creare connessioni tra eventi di vita e ad arricchire i concetti. Secondo una conseguenza sillogistica, se la filosofia è madre delle scienze umane e per questo affine e compatibile, la consulenza filosofica è affine e compatibile con le altre professioni di aiuto, ognuna può dare il suo contributo così come nella scuola di Palo Alto ogni professionista presta il suo ingegno alla ricerca dei processi che costituiscono la comunicazione. Il lavoro in équipe è la dimensione più alta della consulenza filosofica perché nel gruppo si delineano più orizzonti che vengono messi a disposizione del benessere e del miglioramento della condizione dell’altro.

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CONCLUSIONI

Giunti a questo punto della riflessione, dopo aver esaminato prima nella loro specificità e successivamente nel loro raffronto queste due prassi di supporto alla persona, non rimane che “tirare le somme” e concludere ribadendo da un lato la positività insita in esse quali pratiche di aiuto e, dall'altro le perplessità che animano la loro comparazione. Infatti, se da un lato in quanto consulenze manifestano l'esigenza dell'uomo contemporaneo di essere aiutato a riflettere e a rivisitare se stesso e la forma di vita assunta, a causa di una società sempre più materialistica, scevra di autenticità e di sostegni promozionali all'individuo, dall'altra nella comparazione del loro esplicarsi che le vede articolandosi quali pratiche operative, emergono non poche perplessità. I dubbi che sono emersi riguardano pecualiarità e finalità, formalmente differenti ma sostanzialmente simili. Una delle ambiguità riscontrate a mio avviso riguarda il piano dell'asimmetricità che caratterizza un rapporto di consulenza e che crea un dislivello tra le due pratiche laddove sul piano formale della consulenza filosofica si cerca di far emergere maggiormente la simmetricità del rapporto tra consulente e interlocutore. Posso affermare che se rispetto alla competenza filosofica che il consulente possiede, il rapporto si delinea come asimmetrico, nel con-filosofare egli forse è disposto a rinunciare a un rapporto più formale laddove un rapporto più vicino all' amicalità permetterebbe di sentirsi più liberi e di comprendere i propri limiti. Allo stesso modo la medesima perplessità riguarda i concetti di intesa e di empatia che a mio parere sul piano formale della consulenza filosofica diventano quasi sinonimi. Quest'ambiguità diventa ancora più complessa dal momento in cui anche tra i consulenti filosofici esistono dei pareri contrastanti sull’esistenza o meno dell’empatia in una relazione di consulenza. Se per alcuni è preferibile non parlare di empatia, per altri l’empatia convive con l’intesa e si configura come una delle caratteristiche fondamentali di un processo di consulenza. In


conclusione si può affermare che se da un lato entrambe si presentano come due pratiche utili al sostegno dell'individuo con una storia evolutiva differente, laddove la consulenza filosofica si sviluppa abbastanza recentemente e la consulenza educativa può vantare di un proprio passato ma ha ancora un cammino evolutivo da percorrere, dall'altro non si può non tenere in considerazione che nelle loro differenze, nelle perplessità che contraddistinguono il loro raffronto, nei tanti punti irrisolti, di fatto entrambe si configurano quali strumenti promozionali dell'individuo e quali pratiche supportive alle fragilità dell'uomo contemporaneo.


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