Il colloquio di servizio sociale. Comunicazione e ascolto nella relazione tra operatore e utente

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

DI

L ETTERE

E

F ILOSOFIA

___________________________

CORSO DI LAUREA IN SERVIZIO SOCIALE A INDIRIZZO EUROPEO

IL COLLOQUIO DI SERVIZIO SOCIALE. COMUNICAZIONE E ASCOLTO NELLA RELAZIONE TRA OPERATORE E UTENTE

Relatore: PROF. ANDREA VARGIU

Tesi di Laurea di: CHIARA MONICA L EPORI

ANNO ACCADEMICO 2010/2011



A mia mamma



Indice Introduzione

1

Capitolo I. Servizio sociale e cura della persona 1.1 Il servizio sociale come arte: cenni preliminari

4

1.2 L’agire professionale in un contesto di vincoli e risorse

8

1.3 La persona al centro dell'agire professionale

12

1.3.1 La persona come valore

12

1.3.2 Dai valori ai principi

15

1.3.3 Il codice deontologico del servizio sociale

18

1.4 Il servizio sociale come arte: il lavoro di cura con cura

20

Capitolo II. La comunicazione come comprensione dell’altro 2.1 La relazione d’aiuto

23

2.2 La comunicazione

26

2.2.1 La comunicazione verbale e non verbale

26

2.2.2 La comunicazione e l’empatia

32

2.2.3 La comunicazione e l’ascolto

34


Capitolo III. Il colloquio di servizio sociale 3.1 Il metodo come arte

37

3.2 Il colloquio con l’altro

41

3.2.1 Il colloquio

41

3.2.2 Gli obiettivi

45

3.2.3 i momenti del colloquio

47

3.2.4 La cornice spazio temporale

50

3.3 Le capacitĂ relazionali

54

Conclusioni

58

Bibliografia

60

Sitografia

65


Introduzione Il servizio sociale è una professione che ha come destinatario l’uomo in quanto persona, considerata in senso individuale ma nel quadro delle relazioni collettive, che si propone di dare risposte a situazioni di bisogno e interviene in modo professionale per assisterla e affiancarla nel cammino di risoluzione di tali condizioni. È in questo senso che il servizio sociale è collocato tra le professioni di aiuto che hanno il compito primario di prevenire e risolvere situazioni problematiche che le persone possono incontrare nell’arco della vita. Il servizio sociale è presentato in questo lavoro come un’arte, come un metodo per offrire l’aiuto grazie ad una professione che si qualifica con atteggiamenti educativi, solidali e umani nei confronti di chi ha bisogno, e si distingue da altre professioni di cura grazie a uno specifico corpo di teorie e tecniche di intervento che la qualificano. L’assistente sociale come un buon artigiano nel porsi al servizio dell’uomo e della società utilizza il proprio “saper essere” inteso come esperienza di vita, il proprio “sapere” inteso come corpo teorico di riferimento, e il proprio “saper fare” inteso come capacità operativa che si sa convertire in pratica dall’insieme di conoscenze, metodi e strumenti della professione. La professione presenta un sapere tecnico non disgiunto dalla dimensione conoscitiva del sapere ed emotiva del saper essere, per questo il colloquio, strumento tecnico utilizzato nella pratica quotidiana dell’assistente sociale, viene introdotto a partire dalla descrizione dello sviluppo dell’approccio professionale tipico del servizio sociale. Nel primo capitolo di questo lavoro viene presentato il percorso di nascita del servizio sociale professionale italiano e il suo riconoscimento giuridico, sociale e accademico. La professione dell’assistente sociale è presentata con riferimento al contesto di azione, agli obiettivi e alle funzioni che la identificano. Sono poi presentati i valori e principi che il servizio sociale ha assunto come propri, “che costituiscono l’ethos della professione, inteso nel suo significato di casa comune nella quale la comunità professionale si identifica”.1 Accanto ai valori e ai principi che costituiscono l’etica della professione, è presentato il codice deontologico, ovvero la deontologia 1

M. Diomede Canevini, Codice deontologico dell’assistente sociale: cenni di storia e attualità, in Rassegna di servizio sociale, EISS, Roma, n. 4/1999, p. 9.

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come insieme di norme che guidano l’azione professionale. Dagli aspetti etici e deontologici emerge la concezione che la professione ha dell’uomo. “Il servizio sociale si basa sulla concezione che l’uomo è un valore in quanto dotato di infinite potenzialità, capace di libertà e di autonomia, in grado di compiere scelte consapevoli e creative, di assumersi responsabilità e di prendersi cura degli altri […]”.2 Per il servizio sociale l’utente deve essere il protagonista consapevole del suo percorso di aiuto e il compito dell’operatore è di accompagnare le persone nel percorso che porta a sviluppare e riconoscere le proprie capacità per compiere scelte coscienti. Per favorire questo percorso di accompagnamento è necessario sviluppare disponibilità, comprensione, e ascolto. Nel secondo capitolo viene presentata la relazione di aiuto nel suo significato di strumento con il quale nel servizio sociale si attivano percorsi di aiuto caratterizzati da collaborazione e partecipazione sia dell’assistente sociale sia dell’utente e orientati alla risoluzione di un problema, o una situazione conflittuale, o un disagio. “La costruzione del processo di aiuto è possibile solo attraverso il riconoscimento che l’operatore, e in particolare l’assistente sociale, offre al soggetto attraverso una lettura adeguata del problema e una ristrutturazione della domanda rivolta al servizio, tradotta poi in una proposta di aiuto che coinvolge il soggetto e ne potenzia le capacità presenti: bisogna lavorare “con” e non “sulla” persona”.3 Questa modalità di operare, che considera la persona soggetto attivo del suo percorso di aiuto, richiede all’assistente sociale un metodo di lavoro, la conoscenza delle basi teoriche e scientifiche della professione e la padronanza delle tecniche della comunicazione. La comunicazione è esaminata come un mezzo per entrare in relazione con l’altro, non può essere semplicemente definita come uno scambio di parole tra soggetti in relazione, ma esige chiarezza, disponibilità, osservazione e un clima costruttivo di ascolto e comprensione. La comunicazione nella sua forma verbale e non verbale appare una componente fondamentale di ogni relazione di aiuto. Legato alla comunicazione è l’ascolto, che deve essere comprensivo e attivo e capace di far sentire l’altro accolto e compreso. Proprio per questo si parla anche di empatia come condizione che consente

2

M. Dal Pra Ponticelli, Lineamenti di servizio sociale, Astrolabio, Roma, 1987, p. 67. M. T. Zini, S. Miodini, Il colloquio di aiuto. Teoria e pratica nel servizio sociale, Carocci Faber, Roma, 2008, p. 23.

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all’utente di sentirsi “com-preso”4 nei suoi sentimenti e vissuti personali e quindi coinvolto in una relazione significativa. Nel porsi in relazione con l’altro l’assistente sociale deve possedere una competenza comunicativa, intesa come abilità che semplifica lo scambio delle informazioni, consente di comprendere il linguaggio nelle forme verbali e non verbali, e i sentimenti attraverso un ascolto attento ed empatico. L’agire professionale necessita di abilità tecniche, nel terzo e ultimo capitolo si descrive infatti il colloquio come principale strumento dell’azione professionale, si evidenziano le peculiarità, e si mette in rilievo l’importanza e la necessità di utilizzare un metodo per la sua realizzazione. L’utilizzo di un metodo di lavoro impegna l’assistente sociale a osservare e a rispettare delle fasi logiche e cronologiche per “un saper fare e un saper essere adeguatamente strutturati e consapevoli”.5 Il colloquio con l’altro è presentato come una relazione tra l’assistente sociale, esperto dell’arte comunicativa, l’utente, beneficiario e compartecipe del percorso di aiuto e il contesto istituzionale che legittima l’operato dell’assistente sociale e vincola e influenza l’interazione. Il colloquio è proposto con riferimento agli obiettivi di aiuto e di cambiamento, richiede consapevolezza e condivisione degli scopi tra gli interlocutori e un tempo e uno spazio di svolgimento. La caratteristica peculiare del colloquio di servizio sociale è di essere una relazione dialogica ed empatica orientata a promuovere l’autodeterminazione e l’autonomia nell’utente considerato parte attiva di un processo d’interazione con l’assistente sociale. Dalla sua descrizione il colloquio si configura come un’attività complessa che non si risolve in una semplice chiacchierata o scambio di parole e necessita di essere condotto con adeguate competenze e con una profonda attenzione a gesti parole espressioni perché tutto nell’interazione ha una valenza comunicativa.

4 5

R. Masini, L. Sanicola, Avviamento al servizio sociale, Carocci Faber, Roma, 2005, p. 184. M.T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 22.

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Capitolo primo

Servizio sociale e cura della persona

1.1 Il servizio sociale come arte: cenni preliminari Il servizio sociale è una professione d’aiuto che si propone come compito primario l’interesse della persona, considerata come unica, portatrice di diritti e doveri, dotata di una propria dignità e capace di fare scelte autonome. Nel definire il servizio sociale si parla di “arte” per orientare l’attenzione al miglioramento della situazione di vita dell’individuo che vive uno stato di bisogno e al rapporto tra la persona e il suo ambiente di vita. Mary Richmond nel 1915 definisce il servizio sociale come “l’arte di svolgere servizi diversi per e con persone diverse, cooperando con loro a raggiungere il loro miglioramento e insieme quello della società”6 e nel 1917 come “l’arte di aiutare uomini, donne e bambini a raggiungere il miglior adattamento nelle loro relazioni sociali”.7 Anne Garret nel 1919 ritiene che il servizio sociale sia “l’arte di portare le persone che versano in condizioni di disagio sociale a stabilire le migliori possibili relazioni con tutti quelli che costituiscono il loro ambiente”.8 Nel 1958 il servizio sociale è presentato da Giovanni De Menasce come “un’arte educativa esercitata da un funzionario professionalmente qualificato al servizio della libertà dell’assistito o di un gruppo determinato di assistiti alle prese con difficoltà personali che tendono ad annullarla”.9 Nel 1960 Emilio Colagiovanni definisce la professione come “un’arte con base scientifica”.10 Con riferimento a questi autori si parla di pratica del lavoro sociale per indicare l’affermarsi di una professione caratterizzata da un atteggiamento solidaristico, disponibile e umano nei confronti delle

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M. Richmond, La diagnosi sociale, New York, 1917, cit. in O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, Franco Angeli, Milano, 1991, p. 37. 7 Ibidem. 8 A. Garret, in A. Poggi, Problemi di definizione del servizio sociale, in “La rivista di servizio sociale”, Roma, 1965, cit. in O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 37. 9 G. De Menasce, Il servizio sociale al servizio del cittadino, Cinque Lune, Roma, 1958, cit. in O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 38. 10 E. Colagiovanni, Il servizio sociale - Principi teorici, Malipiero, Bologna, 1960, cit. in O Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 38.

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persone che vivono situazioni di bisogno, ma anche per indicare la teoria e le tecniche di intervento che caratterizzano e distinguono la professione. Il servizio sociale è storicamente inserito tra le professioni sociali, attinge le conoscenze teoriche e scientifiche da varie scienze sociali, quali la sociologia, la psicologia, l’antropologia culturale, e si fonda su metodi, principi e valori propri. In Italia la nascita del servizio sociale professionale11 si colloca nel periodo tra le due guerre mondiali, quando, intorno al 1920 sorge a Milano l’istituto italiano per l’assistenza sociale con lo scopo di formare segretarie sociali con il compito di offrire informazioni sulle prestazioni previdenziali, sanitarie e d’assistenza ai lavoratori da inserire nelle aziende. Durante il regime fascista, nel 1928, viene istituita la scuola femminile di assistenza sociale di San Gregorio al Celio a Roma, per la formazione delle assistenti sociali di fabbrica, il cui accesso era limitato alle sole donne nubili in possesso del diploma di scuola media superiore di età compresa tra i 21 e i 45 anni. La scuola sarà chiusa nel 1943 senza aver ottenuto un inquadramento istituzionale. La nascita del servizio sociale italiano è associato allo sviluppo delle sedi di formazione degli assistenti sociali.12 Dopo la guerra, e con le conseguenze che comportò un evento di tale portata, si assiste alla nascita delle scuole di servizio sociale e all’istituzione delle prime sedi di formazione anche a carattere universitario. Un evento rilevante per l’affermazione della professione fu il convegno di Tremezzo svoltosi in provincia di Como dal 15 settembre al 6 ottobre del 1946. In questa sede “furono poste le basi etico - filosofiche e contenutistico - metodologiche della professione e della sua formazione”.13 All’assistente sociale venne riconosciuta la capacità di esprimere un proprio bagaglio teorico di riferimento e specifici metodi e strumenti di intervento, per superare l’idea di un operatore altruista e caritatevole e creare un operatore chiamato a difendere i diritti delle fasce deboli della popolazione, come mediatore tra i bisogni dei cittadini e le risorse. Il Convegno di Tremezzo ha rappresentato per la professione un momento fondamentale per la particolare attenzione dedicata alla formazione tecnica e

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A questo proposito cfr. M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, Carocci Faber, Roma, 2009, p. 63. 12 A questo proposito cfr. A. Bartolomei, A. L. Passera, L’assistente Sociale. Manuale di servizio sociale professionale, Edizioni CieRre, Roma, 2002, p. 35; M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 76. 13 A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 39.

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all’organizzazione delle "scuole nuove"14di servizio sociale. Tra il 1945 e il 1947 nascono numerose scuole distinte in scuole d’ispirazione cattolica e laica, gestite da privati o da enti locali che nascono al di fuori del sistema pubblico della formazione, sono prive di inquadramento giuridico, e quindi rilasciano titoli di studio non legalmente riconosciuti. Sono scuole a orientamento confessionale L’ONARMO (Opera nazionale assistenza religiosa e morale degli operai) che crea la prima scuola a Roma nel 1945/1946 e l’ENSSIS (Ente nazionale scuole italiane di servizio sociale). Sono scuole a orientamento laico l’UNSAS (Unione nazionale per le scuole di assistenti sociali) e la scuola del CEPAS (Centro di educazione professionale per assistenti sociali).15 Nel 1956 all’Università di Siena viene istituita la prima scuola diretta a fini speciali, seguita dalle Università di Roma nel 1966, Parma e Firenze nel 1969, e Pisa e Perugia nel 1972. Con il D. P.R. 162/8216 si assiste ad una riorganizzazione delle scuole di servizio sociale, e si stabilisce che solo le università sono autorizzate a rilasciare i diplomi abilitanti, e più tardi con il D.M. 30/04/8517 che l’abilitazione alla professione si raggiunge solo con il percorso universitario. La professione giunge al riconoscimento giuridico e alla legittimazione in ambito accademico con il D.P.R. 14/87

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con il quale si riconosce il valore legale del titolo di

studio, si dà avvio alla regolamentazione delle sedi di formazione e si prende atto che l’assistente sociale è un professionista che opera con conoscenze, principi e metodologie proprie. Con la legge 84/9319 si delinea la professione, si istituisce l’albo professionale e l’obbligo dell’esame di stato e si afferma che “l’assistente sociale opera con autonomia tecnico-professionale e di giudizio in tutte le fasi dell'intervento per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e

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D. A. Gristina, P. Benvenuti, La donna e il servizio sociale. Identità sessuale e professionale dell’assistente sociale, Franco Angeli, Milano, 1998, p. 101. 15 A questo proposito cfr. M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., 66. 16 Decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162: Riordinamento delle scuole dirette ai fini speciali, delle scuole di specializzazione e dei corsi di perfezionamento (G.U. 17 aprile 1982, n. 105). 17 Decreto Ministeriale 30 aprile 1985: Ordinamento delle scuole universitarie dirette a fini speciali per assistenti sociali (G.U. 5 febbraio 1987, n. 29). 18 Decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1987, n. 14: Valore abilitante del diploma di assistente sociale in attuazione dell'art. 9 del Decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162, (G.U. 5 febbraio 1987, n. 29). 19 Legge 23 marzo 1993, n. 84: Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell'albo professionale (G.U. 1 aprile 1993, n. 76).

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di disagio”.20 Nel 1998 viene promulgato dall’ordine professionale il codice deontologico costituito dai principi e dalle regole che si devono osservare nell’esercizio della professione e che guidano le decisioni nei diversi livelli di responsabilità in cui si opera. La riforma universitaria con il D.M. 509/9921 ha previsto l’istituzione delle classi di laurea in scienze del servizio sociale e di laurea specialistica in programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali e il successivo D.M. 270/0422 ha trasformato la laurea specialistica in laurea magistrale. Oggi la formazione si ha su due livelli: laurea triennale in servizio sociale e laurea magistrale in servizio sociale e politiche sociali, con le quali si distinguono l’assistente sociale e l’assistente sociale specialista, cosi come definito dal DPR 328/01.23 Questo percorso di professionalizzazione dell’assistente sociale ha consentito un graduale passaggio da un approccio caritatevole e basato sul buon senso a un approccio tecnico al problema sociale. Oggi “Il servizio sociale è chiamato a progettare processi di aiuto partecipati, responsabilizzati ed educativi, assumendo il ruolo di una nuova scienza sociale orientata a fare conoscere e meglio interpretare l’intervento assistenziale come percorso di crescita sociale, in quanto processo di efficacia educativa”24 e il compito di un operatore è quello di garantire un aiuto professionale e promozionale alle persone che vivono uno stato di bisogno, e questo aiuto comporta un rapporto diretto con le persone, le istituzioni, le risorse presenti nel territorio e si sviluppa in un contesto normato. La costruzione e la gestione di questo insieme complesso di fattori richiede all’assistente sociale un’adeguata miscela di professionalità e creatività: ciò che ci porta a definire il suo impegno sociale e professionale come un’arte.

20

Ivi art.1. Decreto Ministeriale 3 novembre 1999, n.509: Regolamento recante norme concernenti l'autonomia didattica degli atenei (G.U. 4 gennaio 1999, n. 2). 22 Decreto 22 ottobre 2004, n. 270: Modifiche al regolamento recante norme concernenti l'autonomia didattica degli atenei, approvato con decreto del Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509 (G.U. 12 novembre 2004, n. 266). 23 Decreto del Presidente della Repubblica 5 giugno 2001, n. 328: Modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per l'ammissione all'esame di Stato e delle relative prove per l'esercizio di talune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti (G.U. 03 ottobre 2001, n. 230). 24 E. Samory, Manuale di scienza di servizio sociale, Clueb, Bologna, 2004, vol. II, p. 15. 21

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1.2 L’agire professionale in un contesto di vincoli e risorse “L’assistente sociale è un professionista che agisce, nell’ambito di un sistema organizzato di risorse ed in base ad uno specifico mandato professionale ed istituzionale, secondo principi, valori e obiettivi propri […]”.25 L’ambito di azione dell’assistente sociale è l’organizzazione dei servizi preposti all’assistenza delle fasce deboli della popolazione, enti che hanno il compito di applicare le disposizioni legislative e i regolamenti per portare solidarietà alla collettività, che si caratterizzano con un’organizzazione interna, procedure di accesso, orari e risorse umane ed economiche che specificano e rendono possibili gli interventi. L’area in cui opera è quella del disagio economico, sociale e relazionale, nel quale persone singole, gruppi e famiglie vivono in condizioni di marginalità, esclusione e arretratezza. Il compito del servizio sociale è quello di aiutare queste tipologie di utenti a risolvere i problemi attraverso il cambiamento delle situazioni personali e familiari, utilizzando le capacità delle persone coinvolte e le risorse individuali, collettive e istituzionali disponibili. Le risorse si distinguono in personali, interne ed esterne alle persone, ambientali, istituzionali o informali. Il concetto di risorsa è stato definito da Elisabetta Neve come capacità sia umana che materiale in grado di compensare una situazione di bisogno.26 L’assistente sociale opera per recuperare, attivare, sviluppare, trasformare le risorse e renderle usufruibili alle persone interessate attivando le loro possibilità personali e le loro capacità per un utilizzo autonomo e cosciente. Fabio Folgheraiter afferma che l’autonomia delle persone si realizza con la capacità di aprirsi alle relazioni con gli altri, di farsi aiutare in caso di bisogno, di essere disponibili a migliorare la propria condizione di vita e il compito dei servizi socio-sanitari è quello di formare i cittadini alla costruzione del proprio destino.27 L’autonomia indica che l’intento della professione non è risolvere un problema, ma rendere la persona capace di affrontare i propri problemi con l’utilizzo di risorse proprie e di quelle messe a disposizione dall’ambiente di vita. 25

A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 55. Cfr. E. Neve, Il servizio Sociale. Fondamenti e cultura di una professione, Carocci Faber, Roma, 2000, p. 178. 27 A questo proposito cfr. F. Folgheraiter, Saggi di Welfare. Qualità delle relazioni e servizi sociali, Edizioni Erickson, Gardolo, 2009, p. 80. 26

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Per il servizio sociale, l’utente non è un soggetto passivo che subisce l’intervento del professionista, ma il principale attore del proprio progetto personale che, una volta consapevole delle proprie risorse e di quelle a disposizione, si impegna attivamente per liberarsi dal suo bisogno. In questo progetto l’assistente sociale aiuta l’utente a procedere verso il raggiungimento degli obiettivi, senza sostituirsi a lui per permettergli di prendere le decisioni in libertà e in modo responsabile. Le funzioni svolte dall’operatore sono definite dall’istituzione con regole, limiti e modalità di intervento. Si definisce mandato istituzionale l'insieme delle competenze, dei contenuti e delle modalità organizzative indicate dalle normative specifiche (leggi statali, regionali e regolamenti) che il professionista deve tener presente quando eroga un servizio, e mandato sociale l’insieme delle competenze che la comunità professionale, sulla base dei principi, dei valori, della metodologia, della deontologia, offre per rispondere ai bisogni individuali e collettivi. 28 L’oggetto dell’intervento sociale è la persona nella sua globalità intesa come mondo psicologico, giuridico, previdenziale e sanitario, che costituiscono il suo ambiente di vita, e “l’obiettivo specifico del servizio sociale è quello di dare risposte, individualizzate e personalizzate, a situazioni di bisogno, o a problemi originati, ad esempio dai rapporti tra le persone, tra le persone e le organizzazioni sociali e istituzionali, mediante l’utilizzo e/o promozione di risorse presenti o latenti, in un contesto ambientale e territoriale dato”.29 Gli obiettivi trovano fondamento nei valori e principi della professione, sono scelti in base ai mezzi e alle risorse, possono essere generali o specifici e orientati ad un cambiamento individuale o collettivo. Maria Dal Pra Ponticelli individua tra gli obiettivi:30 •

Creare dei raccordi tra bisogni e risorse con l’attivazione di sistemi di aiuto intorno al problema (singolo o collettivo) volti a migliorare i rapporti e le relazioni tra le persone e le persone e il loro contesto di vita trasformato in ambiente promozionale ed educativo.

28

A questo proposito cfr. A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 71; M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., pp. 81-85; F. Lazzari (a cura di), Servizio sociale trifocale. Le azioni e gli attori delle nuove politiche sociali, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 169. 29 A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 60. 30 M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 89.

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Aiutare le persone a sviluppare conoscenze e capacità per affrontare e risolvere i propri problemi assistenziali in modo responsabile e autonomo con l’attivazione di risorse personali, familiari e quelle predisposte dalla società.

Aiutare le persone a riconoscere i propri bisogni e ad attivare forme di solidarietà e processi di partecipazione e per la soluzione delle situazioni di disagio.

Progettare, organizzare, gestire i servizi e le risorse in modo personalizzato e non emarginante, per poter dare risposte ai bisogni della società.

Studiare e analizzare i problemi collettivi per progettare e realizzare un sistema di servizi rispondente alle linee guida delle politiche sociali locali e nazionali. Dalla descrizione degli obiettivi indicati derivano le funzioni31, intese come le

attività che competono all’operatore all’interno del sistema dei servizi alle persone, sintetizzabili in: •

Funzione curativo - riparativa: viene attivata con persone o gruppi che chiedono aiuto a causa di situazioni particolarmente problematiche che possono riguardare il profilo fisico, psichico e sociale. È prevista l’attivazione di risorse personali, istituzionali e comunitarie al fine di avviare il processo di cambiamento e il raggiungimento dell’autonomia. L’obiettivo è quello dell’aiuto e dell’accompagnamento, affinché attraverso l’offerta delle risorse e l’accrescimento delle capacità personali si possano trovare risposte adeguate alle loro difficoltà.

Funzione organizzativa - gestionale: è una funzione propria delle organizzazioni che devono adeguare i servizi e le prestazioni alla lettura dei bisogni e alla domanda sociale, nell’ottica del potenziamento delle risorse. I bisogni della comunità devono trovare risposte efficaci e adeguate, e l’operatore è chiamato ad attivare risorse in base ai problemi rilevati, e a formulare specifici progetti di intervento tenendo conto delle politiche sociali dell’ente di riferimento, e dei vicoli legislativi e finanziari.

31

A questo proposito cfr. A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., pp. 57-59.

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Funzione preventivo - promozionale: è un’attività che si estende all’esterno dell’organizzazione e vuole favorire i processi di integrazione tra servizi, la cooperazione, lo scambio delle informazioni, il cambiamento delle politiche sociali in base all’evoluzione dei bisogni. Dall’analisi del territorio, dalla conoscenza dei fenomeni sociali, con questa funzione si propone la creazione di un’organizzazione di servizi con il compito di ridurre o risolvere situazioni di disagio. Ci sono poi delle funzioni condivise con altre professioni che riguardano attività

di indagine, studio, ricerca, monitoraggio, programmazione, organizzazione e gestione di servizi sociali. Dalla descrizione delle funzioni emerge che il rapporto con le persone, il rapporto con la comunità e il rapporto con l’istituzione sono i tre principali ambiti del lavoro sociale, definiti “i tre fuochi”32 che conferiscono alla professione carattere di multidimensionalità. Quando si parla di intervento trifocale ci si riferisce “all’attivazione, al potenziamento e allo sviluppo delle risorse (personali istituzionali e comunitarie) in un processo di empowerment33 che favorisca l’autonomia, sia delle persone, sia della comunità (promozionale personale e sociale) ”.34 In un’ottica tridimensionale il servizio sociale include le azioni indirizzate alla persona in condizione di bisogno, considera il suo contesto di vita e le regole dell’organizzazione di appartenenza dell’operatore, per un intervento che veda operare queste dimensioni in modo contemporaneo. Rispetto a queste dimensioni l’assistente sociale assume il ruolo di “regista”35 con funzioni promozionali ed educative, funzioni di mediazione tra i cittadini portatori di bisogno e le istituzioni sociali presenti nel territorio preposte alla loro soddisfazione.

32

F. Lazzari (a cura di), Servizio sociale trifocale. Le azioni e gli attori delle nuove politiche sociali, cit., p. 175. 33 NOTA: con questo termine si intende un processo di rafforzamento della capacità del singolo o dei gruppi per un miglior uso delle proprie risorse o l'acquisizione di altre potenziali, in funzione del miglioramento della qualità della vita. 34 M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 89. 35 S. Baccaceschi, A. M. Zilianti, Assistente sociale specialista, Edizioni Del Cerro, Tirrenia, 2007, p. 26.

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1.3 La persona al centro dell'agire professionale

1.3.1 La persona come valore Ogni professione possiede una propria etica, considerata come un insieme di valori che accompagnano i comportamenti professionali. “I valori nel servizio sociale si possono definire in termini generali come criteri simbolici la cui funzione è quella di orientare l’azione e di valutarne l’adeguatezza come mezzi a un fine”.36 I valori costituiscono quindi il presupposto per il consolidamento degli atteggiamenti e delle linee di comportamento che qualificano la professione. Il servizio sociale si basa sulla concezione che l’uomo è un valore, dotato di libertà e autonomia, capace di scelte coscienti, di assumersi responsabilità e prendersi cura degli altri.37 Il servizio sociale confida nel fatto che tutte le persone sono capaci di apprendere e di modificare i propri comportamenti e stili di vita, sono dotate di libertà di azione e consapevoli delle risorse e dei limiti del proprio ambiente. Il compito del servizio sociale è quello di tutelare le persone e permettere loro di compiere scelte consapevoli per garantire loro le condizioni per assumere tali decisioni. L’assistente sociale cerca di adempiere a questo compito con interventi che aiutano le persone ad accrescere e riconoscere capacità spesso sconosciute e a comprendere meglio se stessi. Il riconoscimento della dignità dell’uomo e la consapevolezza della libertà dell’uomo sono riconosciuti come valori assoluti della professione38, e sono comuni anche ai codici etici di altre professioni che hanno come interesse primario l’uomo. Sono definiti valori assoluti perché sono stabili nel tempo e riconosciuti in tutte le democrazie moderne. Il servizio sociale pone al centro del proprio agire la persona, si interessa di tutto ciò che riguarda la dignità dell’individuo e quindi dei diritti fondamentali dell’uomo che nel corso della storia non sono stati sempre riconosciuti e 36

Aurelia Tassinari, voce Valori, in M. Dal Pra Ponticelli (dir.), Dizionario di Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma, 2005, p. 749. 37 A questo proposito cfr. M. Dal Pra Ponticelli, Lineamenti di servizio sociale, cit., p. 67. 38 A questo proposito cfr. A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 60; M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., pp. 171-172; E. Samory, Manuale di scienza di servizio sociale, vol. I, cit., pp. 168-169; R. Masini, L. Sanicola, op. cit., pp. 121-122; F. Villa, Dimensioni del servizio sociale. Principi teorici generali e fondamenti storico-sociologici, Vita e pensiero, Milano, 2000, p. 77.

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tutelati per tutti gli uomini. La dignità è un valore riconosciuto sin dai tempi antichi, ma attribuito solo ad alcuni gruppi della società, ad esempio nella Grecia classica avevano dignità i poeti, i filosofi e i nobili, nel mondo ebraico i profeti e i sacerdoti, e nel mondo romano i soli cittadini dell’impero. Solo con il cristianesimo la dignità viene estesa a tutti gli uomini e diventa un valore proprio della persona a prescindere dalle condizioni sociali culturali o civili. L’uomo, infatti, per l’ideologia cristiana, essendo creato a immagine e somiglianza di Dio, è dotato di dignità e infinite potenzialità.39 Questi valori trovano fondamento giuridico nella Carta costituzionale del nostro paese, dove il concetto della dignità della persona è più volte citato ed è presente anche in forma implicita. In modo particolare esso è centrale nella prima parte della nostra Carta costituzionale, dove sono indicati i valori fondamentali sui quali i padri costituenti hanno individuato il fondamento comune della convivenza democratica del nostro paese. Nell’articolo 1, ad esempio, che proclama la Repubblica fondata sul lavoro, si sottolinea implicitamente che il lavoro è alla base della dignità della persona. All’articolo 2 si enuncia che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale”.40 L’articolo 3 afferma che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.41 Si afferma che la dignità è un valore che va riconosciuto nel rispetto dell’altro, deve sempre riferirsi alla persona umana come questa è, e non come ci si aspetta che sia secondo punti di vista religiosi, culturali o ideologici. La dignità non appartiene a chi se la merita secondo criteri di valutazione delle leggi dello Stato o della cultura dominante, ma a tutte le persone, qualunque sia o sia stato il loro comportamento. 39

A questo proposito cfr. E. Samory, Manuale di scienza di servizio sociale, vol. I, cit., p. 168; R. Masini, L. Sanicola, op. cit., pp. 121-122. 40 La Costituzione della Repubblica Italiana, 22 dicembre 1947, Principi fondamentali. 41 Ivi.

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ll fulcro del servizio sociale è la persona provvista di una dignità unica e irrinunciabile, e questa dignità si attua nella libertà, infatti Maria Dal Pra Ponticelli afferma che: “La dignità si estrinseca nella libertà della persona […]”42 e la libertà, come valore del servizio sociale indica il diritto ad essere stimati in quanto tali e la capacità delle persone di operare scelte autonome, senza che nessuno si sostituisca a loro. I valori assoluti oltre ad essere presenti nella nostra Carta costituzionale, sono richiamati anche in documenti internazionali come quelli approvati dall’Organizzazione delle nazioni unite (ONU) quali ad esempio, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la Carta dei diritti del fanciullo del 1959, la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale deliberata nel 1965, la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata nel 1979 , la convenzione sui diritti dei bambini del 1989 o testi promulgati dall’Unione Europea, quali la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 e da ultimo la Carta della costituzione europea del 2004.43 In particolare si sottolinea che i diritti umani sono indicati e tutelati da tutte le costituzioni democratiche moderne, tra cui quella italiana che affidano allo Stato e alle loro istituzioni, attraverso l’emanazione delle leggi, il riconoscimento e la protezione di tali diritti.

42 43

M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 176. A questo proposito cfr. A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 61.

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1.3.2 Dai valori ai principi I valori assoluti del servizio sociale, riconosciuti a livello giuridico nazionale e internazionale, descritti nel paragrafo precedente, si traducono per la professione in principi operativi.44 Maria Dal Pra Ponticelli afferma che “i valori possono essere interpretati come una meta, un fine ultimo; per divenire veramente fruibili nel contesto dell’operatività professionale, devono essere trasportati dal livello di astrattezza che li connota a una dimensione di maggiore concretezza, mediante la loro traduzione in indicazioni più concrete: i principi operativi”.45 I principi acquistano quindi significato di guida dell’azione professionale in funzione della realizzazione dei valori assoluti. Il rispetto della persona si traduce in termini professionali nel principio di accettazione e discende dal valore della dignità e integrità di ogni persona. Avere rispetto significa considerare l’altro un valore, indipendentemente dalla sua condizione personale e sociale, dalla sua cultura o dalle sue idee ma soprattutto, da parte dell’operatore, indica l’accettare l’altro e il non giudicarlo, saper creare una relazione in un’atmosfera di ascolto e comprensione per poter accogliere la persona come realmente è, con i suoi punti di forza e lati deboli, aspetti di simpatia e antipatia, ma ancor di più per fargli vivere quel momento come un confronto costruttivo e non come un fallimento, perché spesso chi chiede aiuto è una persona che sente di avere fallito, e questo sentimento causa la mancanza di autostima e di fiducia in sé, mentre sentirsi accolto e rispettato consente alla persona di compiere i primi passi verso un nuovo e consapevole percorso di vita. Il principio della personalizzazione e individualizzazione degli interventi indica che l’operatore riconosce il valore della singola persona attraverso l’erogazione di interventi e servizi adatti a quell’utente, per tutelare l’unicità e la soggettività della persona. Credere nell’unicità della persona significa, infatti, pensare che essa sia diversa dalle altre, ad esempio per il modo in cui vive la sua situazione problematica, per la percezione e comprensione del problema, per le risposte e le aspettative rispetto allo stesso, ed è per questo che l’intervento dovrebbe essere costruito in base alla specificità 44

A questo proposito vedi A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 61; M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit. p. 180; E. Neve, op. cit., p. 153; E. Samory, Manuale di scienza di servizio sociale, vol. I, cit., p. 170. 45 M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 180.

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della persona a cui e rivolto. “Il primo compito di un servizio sociale che svolge una funzione “personalizzata” sarà dunque quello di restaurare la dignità dell’utente”,46 infatti, il disagio sociale spesso priva le persone di autostima, di fiducia nelle proprie possibilità, e incute sentimenti di svalutazione e di esclusione sociale. Il rispetto della persona include il principio del rispetto e della promozione della globalità della persona. L'assistente sociale accoglie la persona considerandola come unica rispetto alle altre, perché unico è il modo in cui le persone vivono i loro bisogni all’interno dei propri contesti di vita. La persona è meritevole di rispetto semplicemente perché è una persona, e accettarla, vuol dire rispettare il valore e la dignità di ogni essere umano. Il compito degli operatori nel riconoscere e valorizzare la persona è quello di predisporre interventi che non siano unicamente rivolti alla cura e risoluzione della patologia o stato di bisogno, ma orientati a migliorare le funzioni del singolo, del suo contesto di vita e delle istituzioni presenti. Si cerca di sviluppare le capacità e le risorse della persona, sostenendola nel ricercare e utilizzare le risorse proprie e quelle offerte dalla società e dal sistema dei servizi. Il principio del rispetto e della promozione dell'uguaglianza deriva dalla certezza per il servizio sociale che gli uomini sono tutti dotati di dignità e godono dei diritti fondamentali. Questo principio si ritrova nel contenuto dell'art. 3 della nostra Carta costituzionale, già citato nel paragrafo precedente, e “non solo non nega le differenze, ma anzi da un’appropriata constatazione delle differenze impone attività differenziate in modo che tutti possano disporre di pari opportunità e godere effettivamente di uguali diritti, in un’ottica di giustizia ed equità sociale”.47 È un principio che riguarda sia la dimensione individuale del lavoro, quando nel rapporto con le persone non si dovrebbero operare discriminazioni di alcun genere, sia la dimensione rivolta alla comunità e alle istituzioni, quando si dovrebbe operare per garantite il rispetto dei diritti sociali. Il principio dell’autodeterminazione è quello che specifica l’operato dell'assistente sociale distinguendolo dagli altri operatori, infatti la persona è considerata dal servizio sociale il principale attore che si impegna all’interno di una relazione o processo di aiuto con l’operatore, per la risoluzione del suo stato di bisogno con un uso consapevole delle proprie risorse. In ogni progetto di aiuto il compito dell’operatore è quello di aiutare la 46 47

E. Samory, Manuale di scienza di servizio sociale, vol. I, cit., p. 196. A questo proposito cfr. E. Neve, op. cit., p. 159.

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persona al raggiungimento degli obiettivi, senza sostituirsi a lui, permettendogli di valorizzare e comprendere i suoi bisogni, le sue aspettative e aspirazioni, per prendere decisioni in modo responsabile e in totale libertà. È importante riconoscere il diritto e il bisogno della persona alla libertà di compiere scelte e prendere decisioni, l’assistente sociale deve saper rispettare questo bisogno e guidare le capacità di autonomia del soggetto. Dal rispetto della dignità della persona deriva il principio della riservatezza il quale, indica una precisa responsabilità dell’assistente sociale e, nel rapporto operatoreutente contribuisce a creare una relazione di aiuto basata sulla fiducia. La riservatezza e il segreto professionale fondano le loro motivazioni sul rispetto della persona e l’esercizio della professione porta ad instaurare dei rapporti di tipo fiduciario che non possono essere traditi, esigenza determinata anche dal fatto che l’operatore si relaziona con persone che si trovano in uno stato di debolezza e di bisogno. La riservatezza e il segreto professionale sono un diritto dell'utente e un dovere dell'assistente sociale. Tale principio è approfondito nel Codice Deontologico degli assistenti sociali, ma è sancito anche da una specifica normativa, la legge 119/200148 sull’obbligo per l’assistente sociale al segreto professionale.

48

Legge del 3 aprile 2001, n. 119, Disposizioni concernenti l'obbligo del segreto professionale per gli assistenti sociali (G.U. 14 aprile 2001, n. 88).

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1.3.3 Il codice deontologico del servizio sociale Il servizio sociale per essere definito una professione possiede oltre ad una propria etica, già definita come insieme di valori che guidano e orientano l’azione, una propria dottrina dei doveri, la deontologia, intesa come insieme di norme che indicano il comportamento che l’assistente sociale deve avere nell’esercizio delle sue competenze. Si è già affermato che il primo codice deontologico dell’assistente sociale è stato assunto come documento ufficiale dall’ordine professionale su iniziativa del Consiglio Nazionale dell’Ordine Professionale istituito ai sensi della legge 84/93, il 18 aprile 1998 e ufficialmente presentato il 4 giugno 1998.49 “L’elaborazione di un codice deontologico non è stato dunque un optional, ma la scelta di fornirsi di uno strumento, l’unico che ancora mancava al servizio sociale per essere pienamente una professione, per acquisire a tutti gli effetti lo status e per potersene avvalere nello svolgimento della pratica professionale”.50 Il significato che il codice ha per la professione è spiegato da Milena Diomede Canevini in un contributo presentato nella rassegna di servizio sociale.51 L’autrice sottolinea che il codice deontologico della professione fa riferimento alle basi etiche e valoriali, delle quali si è parlato nei paragrafi precedenti, che hanno caratterizzato sin dalla nascita il servizio sociale, e dunque deve essere considerato come un elemento di continuità della cultura e del patrimonio della professione. È un “documento vincolante cui ci si deve riferire nel processo di aiuto alle persone, ai gruppi, alle famiglie, alle comunità per operare le scelte affidate alla libertà, alla coscienza, alla competenza, alla responsabilità dell’assistente sociale”.52 Si compone in sette titoli: Definizione e potestà disciplinare, Principi, Responsabilità dell'assistente sociale nei confronti della persona utente e cliente, Responsabilità dell'assistente sociale nei confronti della società, Responsabilità dell'assistente sociale nei confronti di colleghi ed altri professionisti, Responsabilità dell'assistente sociale nei

49

NOTA: a oggi il codice è alla terza edizione; il nuovo codice deontologico dell’assistente sociale approvato il 7 luglio 2009, è entrato in vigore dal 1 settembre 2009. 50 T. Amadei, A. Tamburini (a cura di), La leva di Archimede. Il codice deontologico dell'assistente sociale tra responsabilità e appartenenza sociale, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 29. 51 Vedi M. Diomede Canevini, op. cit. 52 Ivi, p.15.

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confronti dell'organizzazione di lavoro, Responsabilità dell'assistente sociale nei confronti della professione.53 All’interno del codice è evidente che la professione colloca la persona - utente al centro dell’agire professionale e opera per il raggiungimento del bene comune. Si richiamano i valori e i principi della professione, quando si parla di riconoscimento e rispetto della dignità della persona indipendentemente dalla sua condizione problematica o condizione di vita, quando si parla di uguaglianza come riconoscimento della dignità e pari opportunità delle persone, quando si afferma che la professione promuove e sostiene una cultura solidaristica che si realizza con un atteggiamento di disponibilità e di aiuto da parte dell’operatore, quando si parla di responsabilità del professionista che si assume il compito di salvaguardare l’interesse di colui che ha bisogno di aiuto, tutelando la persona anche con l’obbligo del segreto professionale, e nonché, quando si afferma che si deve favorire l’emancipazione delle persone per la creazione di comunità che si pongano il fine di migliorare la qualità della vita. I destinatari del codice deontologico sono l’assistente sociale, l’utenza e i servizi. L’assistente sociale si presenta alla società con funzione di professionista grazie alla presenza del codice deontologico che specifica e caratterizza tale figura professionale. Sono tenuti a rispettare il codice sia gli assistenti sociali che operano in servizi pubblici o privati sia coloro che esercitano la libera professione. È un documento che regola la professione e la qualità dell’intervento attuato da un professionista ma, anche un mezzo di tutela delle persone che si affidano a questo professionista per trovare una soluzione ai propri problemi. Infatti, si rivolge anche all’utenza, quando si indicano i criteri che regolano la relazione d’aiuto, le modalità e gli interventi da porre in essere e gli obiettivi da perseguire. Si fa poi riferimento anche ai servizi e a tutti coloro che collaborano con gli assistenti sociali per definire le condizioni operative e le finalità dell’agire professionale. La persona all’interno del codice è considerata un valore etico assoluto, e in quanto tale, il compito dell’assistente sociale è quello di tutelarla e rispettarla.

53

Codice deontologico dell'Assistente Sociale, Testo approvato dal Consiglio Nazionale il 17.07.2009.

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1.4 Il servizio sociale come arte: il lavoro di cura con cura Gli studiosi delle professioni ritengono che un’attività umana assuma la dignità di professione quando possiede le seguenti caratteristiche: un corpo sistematico di conoscenze teoriche, un’autorità professionale intesa come identificazione in specifiche conoscenze, una sanzione della comunità come riconoscimento sociale e giuridico delle attività svolte, un codice etico che regola e guida l’attività professionale e una specifica cultura professionale.54 Sulla base di questi presupposti il servizio sociale si presenta come una professione che ha avuto nel tempo una forte affermazione, infatti, in merito a quanto già affermato nei paragrafi precedenti, è una disciplina scientifica appartenente alle scienze sociali, riconosciuta a livello giuridico e inserita in ambito accademico, è dotata di un proprio codice deontologico e di realtà associative per la tutela dei propri professionisti. “ Oggi la professione è quindi non solo istituita e regolamentata, ma al pari delle altre professioni, anche d’aiuto, medico, psicologo, avvocato, ecc. con le quali essa si relaziona, può essere riconosciuta per l’importante lavoro scientifico, metodologico e di ricerca, e può essere collocata tra le professioni sociali come la più importante, per i valori etici e deontologici che riesce a esprimere nel proprio agire professionale”.55 Tra gli aspetti che hanno determinato la crescita professionale dell’assistente sociale si ricorda lo stretto rapporto tra la teoria e la prassi56, con la particolarità di una teoria intesa come “conoscenza che orienta l’operatività”.57 Si parla di un’operatività basata su principi, conoscenze e metodi specifici, che dà senso e forma alla professione e si muove in un contesto culturale in cui la conoscenza è orientata all’azione per un “sapere” che sia orientato ad un “saper fare” e a un “saper essere”58. Con il termine “sapere” si fa riferimento all’insieme di teorie, conoscenze, metodologie e strumenti appresi con la formazione universitaria. Per “saper fare” si intende invece, l’insieme delle capacità che si sanno trasformare e mettere in pratica, nel passaggio dalla teoria

54

A questo proposito cfr. A. Bartolomei, A.L. Passera, op. cit. pp.47-48; F. Villa, op. cit., pp. 168-172. L. Brizzi, C. Cannoni, Servizio sociale professionale e medicina legale, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN), 2009, p. 15. 56 A questo proposito cfr. L. Gui, voce Teoria del servizio sociale, in M. Dal Pra Ponticelli (dir.), Dizionario di Servizio Sociale, cit., pp. 686-700. 57 M. Dal Pra Ponticelli, Lineamenti di servizio sociale, cit., p. 79. 58 A questo proposito cfr. M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 77. 55

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alla prassi. Il “saper essere” riguarda la dimensione individuale e personale e quindi le caratteristiche soggettive dell’operatore. Il servizio sociale professionale può essere definito “come l’attività che si esercita applicando i contenuti teorici della disciplina che costruisce il proprio campo di conoscenza sull’individuazione delle regole atte a comprendere ed aiutare l’uomo”.59 Le definizioni di servizio sociale che sono state presentate nel primo capitolo di questo lavoro fanno riferimento alla dimensione artistica come fattore distintivo della professione. Quando si parla di arte, si intende un’ “abilità”60 dell’uomo caratterizzata da talento e creatività che diventa professione con l’utilizzo di particolari metodi e tecniche. Gli autori citati si riferiscono al servizio sociale come ad “un’arte” senza escludere la dimensione scientifica a cui la professione alla nascita ha fatto riferimento per superare il passaggio da un’attività basata sulla carità ed il volontariato ad un’attività di tipo professionale. L’artigiano, al quale si può accomunare la figura professionale dell’assistente sociale, è presentato da Charles Wright Mills come “il lavoratore che ha senso del suo mestiere si impegna nel lavoro per il lavoro; la soddisfazione di lavorare è la sua ricompensa; nella sua mente, i particolari del lavoro quotidiano sono messi in collegamento con il prodotto finale; […] l’abilità si sviluppa all’interno del processo lavorativo; [...]”.61 L’arte del “pensare e fare contemporaneamente”62 unitamente al “desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso”63 sono caratteristiche tipiche dell’artigiano. Anche l’assistente sociale, come l’artigiano si impegna a “lavorare per il bene della comunità”64 quando, come già visto, offre un aiuto professionale e promozionale orientato a migliorare situazioni di vita individuali e collettive e mirato a educare in modo responsabile i cittadini alla costruzione del proprio destino, pone al centro del suo interesse “il conseguimento della qualità”, e “ il lavoro ben fatto”

65

frutto di

competenza tecnica, creativa e progettuale. Il servizio sociale è presentato come un’arte 59

E. Samory, Manuale di scienza di servizio sociale, vol. I, cit., p. 24 A questo proposito cfr A. Marradi, Metodo come arte, in Quaderni di sociologia, XL, 10 (1996), pp. 7192. 61 C. W. Mills, White Collar: The American Middle Classes, Oxford University Press, New York, 1951, pp. 220-223, cit. in R. Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 34. 62 R. Sennet, op. cit., p. 47. 63 Ivi, p. 18. 64 Ivi, p. 35. 65 Ivi, p. 33. 60

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rappresentata da atteggiamenti di disponibilità e umanità nei confronti dell’altro, e un insieme di teorie e tecniche di intervento che qualificano la professione. Gli interventi del servizio sociale hanno origine da assunti teorici e si basano su azioni concrete orientate alla cura dell’altro, caratterizzate da capacità e padronanza operativa quali elementi distintivi del professionista che lavora con cura per valorizzare il fare e trasformarlo in un sapere. L’assistente sociale come “un bravo artista intellettuale”66 dovrebbe servirsi di questo sapere, inteso come esperienza di vita, come passato che si trasforma in esperienza futura, per arricchire il proprio lavoro a livello intellettuale (teoria) e a livello pratico (metodo) e utilizzarlo nel porsi a servizio dell’uomo e delle società.67 L’arte nell’attività professionale dell’assistente sociale si presenta come un sapere e un saper fare e si qualifica con la messa in opera delle attitudini e delle abilità professionali tipiche della professione.

66 67

C. W. Mills, L’arte intellettuale, in L’immaginazione sociologica, il Saggiatore, Milano, 1962, p. 234. A questo proposito cfr. Ivi, p. 208.

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Capitolo secondo

La comunicazione come comprensione dell’altro

2.1 La relazione d’aiuto Il servizio sociale, quale arte orientata alla cura della persona, si avvale di strumenti professionali per promuovere percorsi di aiuto rivolti a sviluppare la crescita personale degli utenti e la ricerca di una soluzione ai loro problemi. È secondo questa prospettiva che la relazione di aiuto nella metodologia del servizio sociale si presenta come un mezzo per favorire questo lavoro promozionale di cura dell’altro. Il termine relazione deriva dal verbo latino refero-refert-relatum-referre che viene tradotto con i termini di: riportare, riferire, menzionare, ricordare.68 Questi verbi indicano un contatto, un’interazione tra due o più persone che si richiamano l’una all’altra attraverso un qualcosa che dà vita ad un rapporto. Olga Cellentani69 spiega il concetto di relazione con i principi di identità e di differenza, e la definisce “una vicenda in cui le parti, nella costruzione della propria identità e nella ricerca del proprio senso, si determinano ed influenzano reciprocamente”.70 Si parla di un’interazione tra due soggetti distinti: “ego” e “alterego”, che grazie all’esperienza della relazione sono capaci di “ri-conoscersi” per il principio dell’identità e “differenziarsi” per il principio della differenza, per definirsi come “specificità”. I principi di identità e di differenza si ricongiungono ad alcuni principi del servizio sociale (principio di accettazione, principio di personalizzazione e individualizzazione degli interventi) di cui si è parlato nel capitolo precedente, in quanto sottolineano l’unicità e la specificità delle persone coinvolte nell’interazione. Nell’ambito del servizio sociale, con il termine relazione d’aiuto si rimanda ad un legame tra un professionista capace di comprendere il bisogno e fornire l’aiuto e l’utente che ha necessità di riceverlo. L’aiuto emerge dal rapporto tra l’operatore che 68

A questo proposito cfr. G. Campanini, G. Carboni, Nuovo Campanini Carboni vocabolario: latino italiano: italiano latino, Paravia, Torino 1993, pp. 1334-1335. 69 O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 105. 70 Ibidem.

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mette a disposizione le proprie competenze ed esperienze e l’utente portatore del bisogno con il quale si attiva il progetto di aiuto. Si giunge alla costruzione di “un’interazione tra due persone, l’utente e l’operatore, aventi pari dignità, che collaborano alla soluzione di un problema: l’uno, l’utente è il soggetto portatore del disagio (soggettivo, coniugale, familiare, sociale); l’altro, l’operatore, è la persona che, per la sua competenza di ruolo, possiede gli strumenti materiali ed immateriali indispensabili a costruire un progetto di lavoro comune; il processo di cambiamento richiede il contributo attivo e partecipato di entrambi”.71 La particolarità della relazione di aiuto nel servizio sociale è data dal fatto che “il rapporto che si stabilisce tra i due è sbilanciato in termini di potere: da una parte l’assistente sociale esperto del sistema dei servizi, dei processi di presa in carico delle difficoltà, delle problematiche che vengono considerate, dall’altro la persona, interprete di una situazione-problema in possesso di strategie operative deboli o perdenti”.72 La relazione di aiuto è dunque una relazione di tipo “asimmetrico”73 con l’assistente sociale che assume il compito di guidare l’interazione in virtù delle sue competenze professionali all’interno dell’istituzione di riferimento. Si è già parlato infatti nel capitolo precedente che il lavoro dell’assistente sociale è condizionato da regole, funzioni, limiti e modalità di intervento, e quindi, è opportuno precisare che la relazione di aiuto non può essere esclusivamente una relazione operatore-utente in quanto il contesto istituzionale è “una realtà concreta che vincola, condiziona, regola i comportamenti tanto dell’operatore quanto dell’utente risveglia sempre aspettative, fantasie e sentimenti che andranno a declinare il campo relazionale che è sempre il risultato di un’ interazione triangolare: operatore-utente-istituzione”.74 Un altro elemento distintivo della relazione d’aiuto del servizio sociale è dato dalla particolarità delle persone che la richiedono. L’utenza del servizio sociale spesso è priva di regole, di modi di fare e comportamenti che rientrano nella consuetudine, e il compito dell’operatore è di capire queste regole, questi comportamenti e modi di vita. La comprensione dell’altro da parte del professionista nella relazione di aiuto, consente di trovare delle soluzioni per risolvere un problema, o una situazione conflittuale, o un 71

M.T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 22. F. Ferrario, Il lavoro di rete nel servizio sociale, Carocci Faber, Roma, 1992, p. 148. 73 A. Campanini, L’intervento sistemico, Carocci, Roma, 2005, p. 155. 74 O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 114. 72

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disagio, e allo stesso tempo, promuove impegno, collaborazione e partecipazione sia nell’operatore sia nell’utente, per un uso consapevole e cosciente delle risorse personali familiari e sociali che devono essere attivate e utilizzate.75 La relazione con le persone è un luogo di apprendimento per l’assistente sociale ma soprattutto per l’utente. Con riferimento a quest’ultimo “è molto importante l’aspetto educativo della relazione, che tende a favorire nella persona-utente una riflessione sulle radici profonde del malessere denunciato, una coscienza e responsabilizzazione dei suoi diritti e doveri, anche per attivare tutte le sue risorse e capacità di progetto e di relazioni con il contesto familiare e sociale, perché possa giungere ad una soluzione adeguata del suo problema”.76 È in questa ottica che la relazione “diventa luogo della manifestazione attiva e creativa del sé per entrambi gli interlocutori”77 e sinonimo di “autorealizzazione”,78 sia dell’utente, in quanto persona capace di dare risposte ai propri problemi e capace di farsi carico di se stessa, sia dell’operatore, in quanto professionista capace di entrare in relazione con l’altro e cogliere la sua visione del mondo per progettare e attivare adeguate soluzioni.

75

A questo proposito cfr. C. Prizzon, voce Relazione d’aiuto, in M. Dal Pra Ponticelli (dir.), Dizionario di Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma, 2005, pp. 534-535. 76 O. Cellentani, F. Facchini, P. Guidicini (a cura di), Dimensione relazionale e sistema dei valori nel servizio sociale, Franco Angeli, Milano, 1991, p. 23. 77 E. Bianchi, La relazione d’aiuto nel sociale, in P. Grigoletti Butturini, G. Nervo (a cura di), La persona al centro nel servizio sociale e nella società: il contributo di Elisa Bianchi, Fondazione Emanuela Zancan, Padova, 2005, p. 60. 78 Ibidem.

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2.2 La comunicazione

2.2.1 la comunicazione verbale e non verbale “La competenza primaria che caratterizza il lavoro dell’assistente sociale è la capacità di costruire relazioni di aiuto attraverso il processo della comunicazione”.79 Poiché ogni relazione di aiuto si esprime attraverso la comunicazione, per un assistente sociale è importante possedere conoscenze e competenze che si riferiscono al mondo della comunicazione, che, in questa prospettiva è considerata un mezzo di cambiamento e uno strumento per la professione. “La comunicazione è il processo che consiste nel trasmettere o nel far circolare delle informazioni, cioè un insieme di dati tutti o in parte sconosciuti al ricevente prima dell’atto comunicativo”.80 Si Parla di uno scambio di informazioni e quando questo scambio si realizza all’interno di relazioni sociali strutturate ha la capacità di regolare, migliorare e consolidare i rapporti tra gli individui.81 “Per avere un atto comunicativo sono essenziali almeno sei fattori: l’emittente, cioè chi produce il messaggio; un codice, che è il sistema di riferimento in base al quale il messaggio viene prodotto; un messaggio, che è l’informazione trasmessa e prodotta secondo le regole del codice; un contesto, in cui il messaggio è inserito e si riferisce; un canale, cioè un mezzo che rende possibile la trasmissione del messaggio; un ricevente (o destinatario) che riceve ed interpreta il messaggio”.82 Ogni comunicazione si realizza in un contesto costituito da quattro elementi: la dimensione fisica, psicologica, temporale e sociale.83 La dimensione fisica fa riferimento all’ambiente in cui si realizza l’atto comunicativo. La dimensione psicologica si riferisce agli stati d’animo e ai sentimenti vissuti dai soggetti in comunicazione. La dimensione temporale riguarda il tempo quotidiano e il tempo 79

M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., p.18. P. E. Ricci Bitti, B. Zani, La comunicazione come processo sociale, Mulino, Bologna, 1983, p. 23. 81 A questo proposito cfr. G. Giovannini (a cura di), Colloquio psicologico e relazione interpersonale, Carocci, Roma, 1998, p. 49. 82 P. E. Ricci Bitti, (1992) voce Comunicazione, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1991-2001, vol. II, p. 156. 83 A questo proposito cfr. E. Monti, voce Comunicazione, in Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, Tea, Milano, 1993, p. 448. 80

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storico in cui si ha l’atto comunicativo. La dimensione sociale si riferisce alle relazioni di status tra i partecipanti in relazione al ruolo che essi hanno nel rapporto comunicativo. Il procedimento della comunicazione ruota intorno al soggetto che invia il messaggio, il trasmittente (l’utente), e a chi lo riceve, ricevente (l’assistente sociale), i quali devono sapere quale codice e quale canale utilizzare. Uno dei comunicanti predomina rispetto all’altro, infatti “un partner assume la posizione che è stata descritta in vario modo come quella superiore, primaria o one-up, mentre l’altro tiene la posizione corrispondente: inferiore, secondaria o one-down”84 (per il servizio sociale l’assistente sociale assume la posizione primaria e l’utente quella secondaria). Nella comunicazione l’elemento centrale è l’emissione del messaggio e il suo ritorno all’emittente, e quindi, da parte del trasmittente è opportuno, pensare il messaggio, pensare quale bisogno esprimere, con quale codice inviarlo e con quale canale emetterlo85. Chi riceve lo ascolta, lo interpreta, lo rielabora e gli attribuisce un significato. A tal fine è importante individuare un codice comunicativo comune al trasmittente e al ricevente per comprendere e capire i messaggi dell’altro. Nell’analisi dei principali elementi comunicativi si può far riferimento al modello di Claude E. Shannon e Warren Weaver86 che considera la comunicazione come un trasferimento di informazioni con segnali da una fonte ad un destinatario. Nel modello di comunicazione da loro proposto, il messaggio viene codificato in modo da poter ottenere un segnale da inviare al ricevente attraverso un trasmettitore. Una volta ricevuto, il segnale sarà decodificato e riconvertito nel messaggio originale. Tra il trasmettitore e il ricevitore, c'è il canale, inteso come il mezzo attraverso il quale transita il segnale.87 Lo schema di Shannon e Weaver è stato rielaborato dal linguista Roman Jakobson,88 il quale, considera la comunicazione come un lavoro di donazione di senso da parte di tutti gli attori coinvolti nel processo comunicativo89. Nella sua teoria della 84

P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1971, p. 59. 85 A questo proposito cfr. O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 133. 86 C. E. Shannon, W. Weaver, La teoria matematica delle comunicazioni, Etas Libri, Milano, 1983. 87 Per un approfondimento cfr. Ivi, pp. 35-37. 88 R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 2002. 89 A questo proposito cfr. G. Trentini (a cura di), Oltre l’intervista. Il colloquio nei contesti sociali, Utet, Torino, 2000, pp. 90-92; O Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 134.

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comunicazione verbale Roman Jakobson ha schematizzato i sei elementi fondamentali di un processo linguistico: “ il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto, contesto che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario; infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consente loro di stabilire e di mantenere la comunicazione”.90 Secondo Jakobson, ai sei fattori della comunicazione verbale corrispondono sei funzioni: la funzione referenziale (contesto); la funzione emotiva (mittente); la funzione conativa (destinatario); la funzione fàtica (contatto); la funzione poetica (messaggio); la funzione metalinguistica (codice).91 L’importanza dello schema di Jakobson è data dal fatto che attraverso questi strumenti di comunicazione l’assistente sociale può nel colloquio con l’utente conoscere il suo vissuto dalle sue parole ma soprattutto comprendere e cogliere i sentimenti e le emozioni che questo sente.92 “Le emozioni, infatti, non si spiegano ma si vivono”.93 La Scuola di Palo Alto, e in particolare il gruppo di ricerca nelle persone di Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, ha approfondito lo studio della funzione pragmatica della comunicazione sostenendo che “l’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare”.94 La comunicazione è sempre collegata al comportamento ed è per questo che non ha luogo solo quando è intenzionale e consapevole, ma qualsiasi attività ha valore di messaggio e influenza chi ascolta e comunica. “L’attività o inattività, la parola o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri a loro volta non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro”.95 Ogni comunicazione è costituita dal linguaggio verbale e non verbale. “Parlare di comunicazione verbale significa prendere in considerazione l’uso del linguaggio, cioè

90

R. Jakobson, op.cit., p.185. Per un approfondimento cfr. Ivi, pp. 185-191. 92 A questo proposito cfr. O Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 133. 93 M.T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 39. 94 P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. Jackson, op. cit., pp. 40-41. 95 Ivi, p. 42. 91

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l’aspetto esplicito e dichiarato della comunicazione”.96 Al linguaggio verbale si associa il paralinguaggio, definito sistema vocale non verbale, che indica l’insieme dei suoni emessi con la comunicazione verbale. Sono elementi del sistema paralinguistico: il tono e il volume della voce, il ritmo del discorso, le pause e il silenzio. Questi elementi hanno la funzione di sostenere e avvalorare le informazioni espresse con il linguaggio.97 Accanto alla comunicazione verbale, la comunicazione non verbale prodotta attraverso il linguaggio del corpo, valorizza, completa e rafforza il discorso verbale, “manifesta in modo più o meno evidente gli stati d’animo della persona, che vengono sollecitati nella costruzione della relazione di aiuto con l’operatore”.98 Quadri Ugazio e Ricci Bitti propongono una descrizione simile sugli elementi non verbali che caratterizzano i processi comunicativi99 e introducono la cinesica, la paralinguistica, la prossemica e l’aspetto esteriore. La cinesica si riferisce ai movimenti corporei e facciali. Il volto, lo sguardo, le espressioni indicano sentimenti ed emozioni, i gesti e le posture del corpo denotano lo stato psicologico della persona e se vi è coerenza tra linguaggio verbale e non verbale. “Attraverso i gesti, le espressioni facciali, lo sguardo, il contatto oculare e gli altri movimenti corporei i soggetti sottolineano, illustrano, precisano, commentano quanto comunicato con le parole, inviano feedback su come la comunicazione è stata recepita, esprimono atteggiamenti interpersonali ed emozioni sperimentate nel corso del colloquio”.100 La paralinguistica riguarda il tono e la qualità della voce, i sospiri, le paure, tutti elementi che trasmettono informazioni sull’altro e possono attribuire al discorso un significato piuttosto che un altro. La prossemica è la disciplina che studia i modi che le persone individuano per gestire il proprio spazio sociale e ricordano ”la componente professionale dell’incontro, trasmettono l’informazione sulla distanza emozionale che deve esserci tra i partecipanti al colloquio e definiscono con chiarezza che l’incontro non è su basi amichevoli”.101

96

M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 38 A questo proposito cfr. E. Allegri, P. Palmieri, F. Zucca, Il colloquio nel servizio sociale, Carocci, Roma, 2007, p. 75. 98 M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 48. 99 A questo proposito cfr. A. Quadri, V. Ugazio (a cura di), Il colloquio in psicologia clinica e sociale, Franco Angeli, Milano, 1992, pp. 193-201; P. E. Ricci Bitti, (1992) voce Comunicazione, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, cit., pp. 159-160-161. 100 A. Quadri, V. Ugazio (a cura di), op. cit., p. 196. 101 M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 50. 97

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L’aspetto esteriore si riferisce ai modi con cui ci si presenta agli altri. Il volto, la statura, il modo di muoversi, l’abbigliamento sono dei segnali non verbali che forniscono informazioni sull’identità, la personalità, l’età, il ruolo sociale e professionale dell’altro.102 Nella relazione con l’altro la comunicazione non verbale assume un significato rilevante, nella misura in cui integra e completa le informazioni ricevute attraverso il linguaggio parlato, agevola la comunicazione quando spiega ciò che l’utente spesso non riesce a dire e a esprimere. Chi opera nel sociale è consapevole che i segnali non verbali possono essere importanti fonti di informazione, e quindi, devono essere osservati e compresi. Robert Carkhuff sostiene che “l’arte di aiutare è un’arte comunicativa” e che i professionisti del sociale che utilizzano nel loro lavoro competenze comunicative giungono a risultati importanti.103 “La competenza comunicativa è l’insieme di quelle capacità che facilitano lo scambio di informazioni attraverso il linguaggio parlato (nei suoi aspetti verbali e non verbali) e attraverso i segnali non verbali che vengono ricevuti mediante il canale visivo e inviati tramite movimenti del corpo o parti di esso”.104 È attraverso la competenza comunicativa che l’assistente sociale ha la possibilità di intervenire nella relazione con l’altro e definire la propria posizione all’interno del rapporto comunicativo. La comunicazione come mezzo per instaurare un rapporto con gli altri, necessita di chiarezza, disponibilità e conoscenza delle proprie possibilità e dei propri limiti, al fine di realizzare una relazione di aiuto in cui l’utente si possa esprimere nella sua unicità. Sulla base di questi presupposti la comunicazione dovrebbe essere impostata per valorizzare la crescita e le diversità dei partecipanti. La comunicazione è considerata da Michele De Beni “condizione per l’esercizio della prosocialità”105 intesa come insieme di comportamenti che accrescono le capacità dell’individuo “sul piano della consapevolezza di sé”.106 102

A questo proposito cfr. E. Allegri, P. Palmieri, F. Zucca, op. cit., p. 74. R. R. Carkhuff L’arte di aiutare, manuale e quaderno di lavoro, Erickson, Trento, 1989, cit. in F. Lazzari, A. Merler (a cura di), La sociologia delle solidarietà. Scritti in onore di Giuliano Giorio, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 303. 104 P. E. Ricci Bitti (1992), voce Comunicazione, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, cit., p. 161. 105 M. De Beni, Prosocialità e altruismo, Erickson, Trento, 1998, cit. in F. Lazzari, A. Merler (a cura di), La sociologia delle solidarietà. Scritti in onore di Giuliano Giorio, op. cit., p. 303. 106 Ibidem. 103

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In questo lavoro la comunicazione è intesa come uno strumento di crescita e di confronto costruttivo, il cui esercizio si deve basare su criteri di correttezza per evitare forme di dipendenza e far sì che si attui l’autorealizzazione delle persone. Per l’assistente sociale è importante curare e valutare questo aspetto della formazione professionale per elaborare forme di comunicazione chiare, corrette e funzionali.

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2.2.2 La comunicazione e l’empatia L'empatia è un elemento fondamentale per la costruzione di una comunicazione significativa nelle relazioni di aiuto. Il comportamento empatico indica un atteggiamento caratterizzato da uno sforzo di comprensione dell'altro, dei suoi sentimenti e vissuti personali. Nel linguaggio comune la parola empatia indica una compartecipazione, una capacità di condividere con l’altro il suo stato d’animo. “ Sentire il mondo più intimo dei valori personali del cliente come se fosse proprio, senza però mai perdere la qualità del “come se”, è empatia”.107 La comunicazione è stata definita nel paragrafo precedente come un ponte che mette in comunicazione l’assistente sociale e l’utente affidando al primo il compito e le competenze per creare questo collegamento. È attraverso un atteggiamento empatico che si può comprendere l’altro nelle sue sensazioni, nei suoi sentimenti, nel suo vissuto e nel suo universo di significati, senza implicazioni affettive e senza immergersi nel suo problema. Solo quando l’operatore ha compreso ciò che sente l’utente, la comunicazione può svolgersi in modo autentico, perché per chi soffre, non c’è niente di più gratificante che sentirsi capito, considerato importante tanto da voler essere compreso per quello che è, al fine di riacquistare la propria consapevolezza di sé e del proprio valore, ma soprattutto la propria dignità.108 L’empatia è una condizione necessaria a facilitare un rapporto comunicativo, infatti, ogni persona si apre alla comunicazione con l’altro nella misura in cui si sente ed è “com-preso”, preso insieme ad un altro, quindi coinvolto in una situazione affettivoemotiva significativa per lui e per l’altro.109 Carl Rogers indica gli atteggiamenti fondamentali110 che favoriscono i processi interpersonali. Introduce il concetto di “genuinità” per indicare che il terapeuta, cioè chi guida la relazione, deve essere una “persona reale e trasparente”111 e la trasparenza si ha quando vi è coerenza tra i sentimenti realmente provati e i sentimenti manifestati dai soggetti in relazione. 107

C. R. Rogers, La terapia centrata sul cliente, Martinelli, Firenze, 1970, p. 92. A questo proposito cfr. Ivi, pp. 92-93. 109 R. Masini, L. Sanicola, op. cit., p. 184. 110 C. R. Rogers, op. cit., p. 14. 111 Ibidem. 108

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Il secondo atteggiamento è definito “considerazione positiva incondizionata”112 e significa che il terapeuta accetta e rispetta l’altro, ha un interesse non contaminato da forme di giudizio personale indipendentemente da ciò che pensa, fa o dice l’altro. “Il terapeuta dà valore al suo cliente come persona […] si interessa al suo cliente in modo non possessivo, considerandolo una persona che ha delle potenzialità proprie”.113 Questo concetto si traduce in termini professionali nel principio di accettazione di cui si è parlato nel primo capitolo di questo lavoro, indica che l’altro è un valore, e come tale, deve essere rispettato, accettato e non giudicato dall’assistente sociale e accolto in un clima costruttivo di ascolto e comprensione. Il terzo atteggiamento è la comprensione empatica, come capacità dell’operatore di comprendere la situazione personale dell’altro rispetto a ciò che dice (comunicazione nei sui aspetti verbali e non verbali) e ciò che sente (stati d’animo ed emozioni).Per Rogers l’empatia è la capacità di “sentire il modo più intimo dei valori personali del cliente come se fosse proprio, senza però mai perdere la qualità del come se”.114 L’operatore sociale può realizzare un’autentica empatia, quando osserva il mondo dell’utente dal suo interno, vive queste sensazioni come se fossero le proprie, e solo in questo modo, può manifestare all’altro “un'accettazione incondizionata” e “una considerazione positiva.” L’empatia fonda la relazione d’aiuto, poiché per aiutare bisogna comprendere i bisogni e i vissuti dell’altro, e allo stesso tempo non può esistere una relazione significativa senza empatia perché questa consente ai soggetti di affermarsi come tali, dà loro la possibilità di vivere l’incontro con l’operatore come un confronto positivo che gli permetta di comprendere la propria situazione problematica e risolverla in modo autonomo, in richiamo al principio professionale dell’autodeterminazione dell’utente.

112

Ibidem. Ivi, p. 94. 114 Ivi, p. 92. 113

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2.2.3 La comunicazione e l’ascolto Nei paragrafi precedenti la comunicazione è stata presentata come uno strumento della professione sociale che è alla base delle relazioni umane. Infatti, come già anticipato, il comunicare non indica solo un trasmettere delle informazioni, ma riguarda anche la qualità delle relazioni che legano fra loro le persone. Nel servizio sociale è fondamentale istaurare una buona comunicazione tra gli interlocutori, in quanto la persona che si rivolge all’operatore, chiede un sostegno psicologico e sociale per comprendere e superare argomenti di vita personale individuale o familiare. L’importanza della capacità di ascolto si deduce dagli obiettivi che si perseguono in una relazione di aiuto, infatti, entrare nel mondo interiore dell’altro significa capire il significato che questo attribuisce al proprio modo di vivere. “L’ascolto è un aspetto fondamentale e attivo del colloquio essendo un processo orientato al reale, attento a cogliere gli aspetti verbali e non verbali della comunicazione, i fatti e gli elementi emotivi”.115 L’intervento dell’operatore sociale sarà efficace e avrà un senso solo quando saranno capite e decodificate le richieste dell’utente, al fine di garantire un aiuto corrispondente alla richiesta; a questo proposito Kaneklin afferma che “[…] da parte dello specialista tutto ciò che l’utente verbalizza viene ascoltato con attenzione e dall’altro internamente il materiale portato viene associato al modo con cui l’utente, parla dei propri problemi, alle espressioni che usa, al suo gestire , all’atteggiamento che mostra nei confronti dello specialista”.116 In una relazione di aiuto la comunicazione è efficace quando si fornisce ascolto, quando le persone coinvolte sono orientate l’una verso l’altra in un atteggiamento empatico, e quando si riconosce e si considera l’altro. Per l’operatore esercitare un ascolto attento significa comunicare all’altro “ tu per me sei qualcuno che è importante ascoltare”117 ed è attraverso l’ascolto attento e partecipe che s’inviano messaggi di accettazione e rispetto della persona per quello che è, in riferimento al valore della dignità e integrità della persona e al principio professionale di accettazione. Da quanto affermato si deduce che “l’ascolto non è soltanto una banale funzione fisiologica legata 115

A questo proposito cfr. E. Allegri, P. Palmieri, F. Zucca, op. cit., p. 22. A. Quadri, V. Ugazio (a cura di), op. cit., p. 196. 117 S. Mambriani, La comunicazione nelle relazioni di aiuto, Cittadella, Assisi, 1989, p. 65. 116

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all’organo di senso, ma è parte del processo di comunicazione, è un elemento fondamentale nella costruzione della propria identità e della relazione con l’altro”.118 Per l’assistente sociale ascoltare in modo vigile significa “porre attenzione ai significati delle cose che dice e che fa l’utente”119; ascoltare in modo orientato invece significa “restituire il senso di ciò che si è compreso”.120 Sono elementi dell’ascolto l’attenzione, la percezione, l’elaborazione e la restituzione.121 L’attenzione è intesa come la disponibilità dell’operatore di mettersi a disposizione dell’altro e offrire ascolto. Attraverso questo modo di operare l’assistente sociale esprime l’intenzione di accogliere l’altro e comprendere il suo messaggio negli aspetti verbali e non verbali, cercando di evitare qualunque forma di giudizio e di coinvolgimento emotivo. La percezione è intesa come la capacità di percepire un messaggio e quindi, di riceverlo, di riconoscerlo e comprenderlo, di qualificarlo e accettarlo. Spesso chi vive un disagio e lo racconta non comprende se questo bisogno sia un fatto reale o una propria impressione, e allo stesso tempo l’operatore potrebbe avere una diversa percezione del bisogno espresso. Quando il messaggio inviato dall’utente è stato capito e verificato da entrambi, ci sarà l’impegno di costruire insieme all’altro delle ipotesi di lavoro per rispondere al problema. L’elaborazione del messaggio è intesa come la capacità dell’operatore di comprendere attraverso il comportamento, lo stile e il modo di fornire le informazioni ciò che vive e sente l’utente per restituire in modo professionale la lettura del suo stato di bisogno. La restituzione è la rielaborazione di quanto l’operatore ha ascoltato con l’utilizzo di una propria punteggiatura con la quale si restituisce all’utente una risposta alla sua richiesta. Con la restituzione si comunica all’utente che la sua domanda è stata accolta e la sua situazione compresa. La capacità di ascolto insieme all’atteggiamento empatico è uno dei fattori che caratterizzano la competenza comunicativa e relazionale che consentono all’assistente 118

G. Trentini (a cura di), Oltre l’intervista. Il colloquio nei contesti sociali, cit., p. 265. P. Grigoletti, voce Ascolto, in M. Dal Pra Ponticelli (dir.), Dizionario di Servizio Sociale, cit., p. 47. 120 Ibidem. 121 A questo proposito cfr. A. Campanini, op. cit., pp.153-154; G. Trentini (a cura di), Oltre l’intervista. Il colloquio nei contesti sociali, cit., pp. 266-267; M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., pp. 56-58. 119

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sociale di intervenire nella relazione con l’altro e definire la propria posizione all’interno del rapporto comunicativo. Solo attraverso questi atteggiamenti di rispetto e accettazione dell’altro si possono inviare messaggi di disponibilità e interessamento, ed è in questo senso che l’ascolto è considerato la “posizione etica per eccellenza”.122 L’ascolto “è un processo complesso che richiede intenzionalità e disponibilità, conoscenza di sé e della propria visione del mondo, capacità di riconoscersi reciprocamente in una relazione senza confondersi o sovrapporsi”.123 Si richiede all’assistente sociale non solo di ascoltare ciò che dice l’utente ma anche avere la capacità di distinguere tra ciò che dice e ciò che vorrebbe dire, aiutarlo ad abbandonare atteggiamenti difensivi, indirizzarlo a comprendere il problema e a individuare le soluzione allo stesso. Solo quando si comprende ciò che la persona vive soggettivamente si può confrontare la persona con la sua richiesta di aiuto e guidarla verso un percorso di cambiamento.124

122

C. Marzotto, Il soggetto come fondamento dell’agire etico, in T. Vecchiato, F. Villa (a cura di), Etica e servizio sociale, Vita e Pensiero, Milano, 1995, cit. in M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 190. 123 A. Campanini, op. cit., p. 154. 124 A questo proposito cfr. P. Grigoletti, Famiglie con molti problemi: vincoli e risorse, Franco Angeli, 1998, p. 11.

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Capitolo terzo

Il colloquio di servizio sociale 3.1 Il metodo come arte Il legislatore con il D.P.R. 14/87 125 ha riconosciuto giuridicamente la professione dell’assistente sociale e ha affermato che “l’esercizio professionale […] consiste nell’operare in un rapporto di lavoro subordinato o autonomo con i principi, le conoscenze, i metodi specifici del servizio sociale e nell’ambito del sistema organizzato delle risorse sociali, in favore di persone singole, di gruppi e di comunità per prevenire e risolvere situazioni di bisogno”.126 Nel primo capitolo di questo lavoro il servizio sociale è stato presentato come una “scienza teorico-pratica”,127 in cui la teoria non rappresenta una conoscenza per la conoscenza, ma una conoscenza che è orientata all’azione e che si basa su proprie teorie, principi e metodi. L’operatività dell’assistente sociale è rivolta ad analizzare e migliorare con risposte adeguate, situazioni di disagio individuale o collettivo, conferisce un senso ed una forma alla professione sociale perché è il punto di incontro tra le componenti conoscitive (sapere), emotive (saper essere), e soggettive (saper fare). Per operare la professione deve avvalersi di un metodo, cioè di uno schema di riferimento concettuale, che guida l’insieme di indicazioni operative che consentono di raggiungere gli obiettivi del servizio sociale. I significati attribuiti al concetto di metodo sono numerosi128ma, “nonostante le differenze, le diverse definizioni convergono spesso su una declinazione particolare del termine che lo qualifica come una successione di passi procedurali atti a garantire un risultato, appunto, metodologicamente adeguato a quelli che comunità scientifiche particolari [...] o, più in generale le società entro le quali tali comunità si collocano, hanno individuato come criteri specifici cui deve sottostare una ricerca che deve

125

Decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1987, n. 14, op. cit. Ivi, art.2. 127 M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 160. 128 Per un approfondimento vedi A. Marradi, op. cit. 126

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considerarsi scientifica”.129 La definizione di metodo presentato come una successione di passi procedurali “si affianca a quella di arte”,130 intesa in questo senso, come abilità che il professionista mette in pratica nel proprio operare. Maria Dal Pra Ponticelli definisce in generale il metodo come “l’insieme delle regole, delle tecniche, degli strumenti che guidano, in ciascuna disciplina, il cammino, il processo per il raggiungimento di obiettivi legati all’acquisizione di conoscenza o alla realizzazione di un azione”,131 e nello specifico, sottolinea che è legittimo parlare di “metodo del servizio sociale” come uno “schema mentale che deve orientare, guidare il cammino per giungere al conseguimento di uno scopo”.132 Per il servizio sociale il metodo è presentato da Elisa Bianchi come una “concatenazione logica di operazioni poste per raggiungere determinati obiettivi [… ] e definito dagli obiettivi - e in stretta connessione con questi dalle funzioni - dalle conoscenze scientifiche necessarie per conoscere l’uomo e la società, che sono - nella loro relazione - l’oggetto del servizio sociale, dai valori e principi operativi e dalle basi teoriche, che costituiscono nel loro insieme i criteri di riferimento teorico della professione”.133 Il metodo nel servizio sociale consente di definire il procedimento da impiegare per la messa in opera delle attività, indica le capacità che l’operatore deve mettere in campo nel suo lavoro e l’ordine che deve seguire in base agli scopi che si vogliono raggiungere. Le fasi del metodo di servizio sociale sono le tappe del procedimento metodologico delle scienze sociali applicate, alle quali il servizio sociale appartiene. La prima fase si caratterizza con l’individuazione e l’analisi della situazione problematica (contesto informativo); la seconda fase riguarda la valutazione dei dati raccolti e l’individuazione di possibili soluzioni di intervento in rapporto agli obiettivi da perseguire (contesto valutativo); la terza fase si costituisce con l’elaborazione di in piano

di

intervento

e

di

un

contratto

per

la

sua

attuazione

(contesto

progettuale/contrattuale); con la quarta fase si ha l’attivazione del progetto di intervento 129

A. Vargiu, Metodologia e tecnica per la ricerca sociale. Concetti e strumenti di base, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 47. 130 A. Marradi, op. cit. 131 M. Dal Pra Ponticelli, voce Metodologia del servizio sociale, in M. Dal Pra Ponticelli (dir.), Dizionario Servizio Sociale, cit., p. 347. 132 M. Dal Pra Ponticelli, “L’unitarietà del metodo del servizio sociale: riflessioni e proposte, “Rassegna di servizio sociale”, 1, cit. in A. Campanini, op. cit., p. 19. 133 E. Bianchi, Contributo alla riflessione teorica sul metodo del servizio sociale, in P. Grigoletti Butturini, G. Nervo (a cura di), op. cit., p. 154.

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(contesto di trattamento); e nell’ultima fase si ha la verifica e la valutazione dei risultati (contesto valutativo/conclusivo).134 Questi momenti consentono di impostare in modo consequenziale l’intervento professionale, e il passaggio da una fase all’altra, nell’agire concreto deve prevedere un modo di operare flessibile, perché la presenza di variabili, quali ad esempio eventi improvvisi, modifica di comportamenti, o esigenza di riformulare alcuni aspetti, può comportare soste, riformulazioni o cambiamenti di programma. È in questo senso che si parla di “livelli” piuttosto che di “fasi” per indicare che nel lavoro sociale la successione in fasi è una sequenza atipica che presenta una netta distinzione delle fasi solo a livello teorico135, mentre a livello pratico, poiché si “opera in un sistema i cui elementi sono in relazione dinamica, ossia soggetti a cambiamenti [… ] si deve operare in una logica di stadi di avanzamento e di ritorni di verifica e valutazione, per progettare o riprogettare nuovi avanzamenti”.136 Da quanto affermato emerge che per l’assistente sociale “acquisire un’utile sensibilità metodologica”137 al pari di “un buon artigiano che, sceglie di volta in volta quale procedimento seguire”,138 è una condizione necessaria che garantisce un modo di operare professionale, ordinato e non casuale. In letteratura 139 vi è concordanza nel ritenere che nel servizio sociale si parli di un metodo professionale orientato ad un intervento unitario e globale a carattere promozionale, che ha lo scopo di scoprire le cause del bisogno, che agisce con funzioni di prevenzione e non unicamente di riparazione, e sia volto a sostenere il passaggio degli utenti da “utenti-assistiti a utenti-cittadini”.140 Come già detto nel primo capitolo, il servizio sociale ha come compito primario l’interesse dell’utente, il quale non può essere considerato semplicemente un assistito,

134

A questo proposito cfr. A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 109; M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 161; E. Bianchi, Elementi costanti nel metodo del servizio sociale, in P. Grigoletti Butturini, G. Nervo (a cura di), op. cit., p. 201. 135 A questo proposito cfr. A. Vargiu, op. cit., p. 140 136 Cfr. C. De Robertis, Metodologia dell’intervento nel lavoro sociale, Edizioni Zanichelli, Bologna, 1986, cit. in A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 104. 137 C. W. Mills, L’immaginazione sociologica, cit. in A. Marradi, op. cit. 138 Ibidem. 139 A questo proposito cfr. A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 100; A. Campanini, op. cit., p. 20; E. Bianchi, Contributo alla riflessione teorica sul metodo del servizio sociale, in P. Grigoletti Butturini, G. Nervo (a cura di), op. cit., p. 154. 140 A questo proposito cfr. A. Tassinari, Elementi per una ridefinizione della professionalità dell’assistente sociale, Torino, 1980, in E. Bianchi, Elementi costanti nel metodo del servizio sociale, in P. Grigoletti Butturini, G. Nervo (a cura di), op. cit., p. 200.

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ma un cittadino con problemi, con il quale l’assistente sociale cerca di risolvere il problema, per e con l’utente, con l’utilizzo di risorse umane e materiali. Oggi al professionista del sociale “è richiesta una competenza nella gestione di situazioni complesse, soprattutto nella prospettiva di valorizzarne la capacità di pensare, promuovere, realizzare progetti di cura, [...] di riabilitazione, di rieducazione e di prevenzione […].141 È in questo senso che il metodo del servizio sociale si presenta come un processo di aiuto che coinvolge il professionista ma soprattutto l’utente, perché rispetta la sua unicità, quando si interessa ai suoi problemi, la sua dignità, quando cerca di dare risposte a questi problemi, e infine, promuove l’autodeterminazione dell’utente, quando lo guida nella risoluzione dello stato di bisogno, nella scelta degli obiettivi da perseguire e nella ricerca delle risorse da attivare.

141

M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., p.18.

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3.2 Il colloquio con l’altro

3.2.1 Il colloquio Nell’esercizio della professione l’operatore utilizza degli strumenti che gli consentono di conseguire obiettivi di promozione, cambiamento e aiuto. Il colloquio è il principale strumento professionale che l’assistente sociale utilizza nel suo intervento operativo per conseguire questi obiettivi. Il colloquio è presentato da Garret come “un’arte, un’abilità tecnica che può essere aumentata e perfezionata attraverso l’esercizio continuo. Ma questo, da solo, non basta. Le doti tecniche possono svilupparsi in tutta la loro potenzialità soltanto se la pratica è integrata da conoscenze teoriche e da un’analisi consapevole del modo di applicarle.[…] L’aspetto più evidente del colloquio è di determinare una comunicazione tra due individui. […] Occorre stabilire un rapporto, una relazione, tali da rendere colui che chiede capace di rivelare i fatti essenziali della sua situazione e colui che ascolta capace di fornirgli il maggior aiuto possibile”.142 Il colloquio di servizio sociale ha elaborato un proprio sistema di riferimento teorico e pratico dal colloquio clinico e psicoterapeutico.143 Agli inizi della professione, quando il servizio sociale si manifesta in ottica prettamente assistenziale, il colloquio è orientato al “case-work”144 (servizio sociale individuale), privilegia un atteggiamento di tipo psicologico - individuale di cura e non presta attenzione alle componenti sociali che sono alla base dei problemi dell’utenza. La nascita del “group-work”145(servizio sociale di gruppo) e del “community-organization”146 (sevizio sociale di comunità) ha ampliato la prospettiva del lavoro sociale per uscire da una logica individuale di diagnosi e cura e muoversi in una prospettiva a carattere preventivo e promozionale nel quale l’utente ha una ruolo attivo e responsabile per diventare ciò che nel paragrafo precedente è stato definito un “utente-cittadino”. 142

A. Garret, Interviewing: Its Principles and Methods, Family Welfare Association of America, New York, 1942, (trad.it. Il colloquio, AAI, Roma, 1961), cit. in G. Giovannini (a cura di), cit., p. 14. 143 A questo proposito cfr. M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., pp. 15-16. 144 Per un approfondimento sulla storia dei metodi di intervento del servizio sociale cfr. O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., pp. 28-34. 145 Ibidem. 146 Ibidem.

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“Il colloquio di servizio sociale è […] una tipica relazione dialogica finalizzata alla promozione di percorsi, consapevoli e condivisi, per la soluzione e/o il cambiamento di problemi e bisogni, in virtù delle conoscenze tecniche dell’assistente sociale, delle motivazioni e delle risorse dell’utenza e di quelle disponibili a livello istituzionale ed ambientale”.147 Nella professione sociale il colloquio può essere descritto come una situazione interattiva tra persone caratterizzata da “uno scambio comunicativo” sollecitato dalla presenza di un bisogno in uno dei due soggetti, l’utente, dal quale giunge la richiesta di aiuto all’operatore che si attiva affinché tale bisogno possa essere soddisfatto. Il compito dell’operatore è di aiutare l’utente a trovare una soluzione efficace e soddisfacente per se stesso in quel momento della sua vita. Il problema dalla persona è la motivazione che attiva il colloquio, e si presenta come desiderio o necessità di vedere alleviato un bisogno, o di trovare una soluzione a una situazione esistenziale disagevole.148 Quando si parla del colloquio di servizio sociale, ci si riferisce alla relazione di aiuto condotta dall’assistente sociale nel contesto del processo di aiuto alle persone, con la consapevolezza che “è una situazione comunicativa composita in cui interagiscono l’operatore, l’utenza, l’ente, giacché si svolge, di norma, all’interno di un contesto istituzionale che legittima con apposito mandato l’operatore a prendere in carico professionalmente l’utenza stessa per aiutarla, attivando i mezzi e le opportunità di cui l’istituzione dispone per competenza normativamente definita, nonché le risorse formali e/o informali del contesto ambientale e/o del territorio”.149 Se si fa riferimento a quanto sviluppato nel capitolo sulla relazione di aiuto intesa come interazione triangolare “operatore-utente-istituzione” è facile comprendere questa rappresentazione del colloquio in cui il contesto socio-politico e istituzionale è sempre presente come una realtà che regola, condiziona e vincola i rapporti dei soggetti in relazione. Il colloquio di servizio sociale è soprattutto una relazione interpersonale in cui i soggetti si incontrano per discutere di un problema, l’assistente sociale, come esperto dell’arte comunicativa con funzioni di tecnico, e l’utente che si avvale del suo

147

A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 136. A questo proposito cfr. M. Lerma, Metodo e tecniche del processo di aiuto, Astrolabio, Roma, 1992, cit. in M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 21. 149 A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 136. 148

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intervento professionale per risolvere uno stato di bisogno; è definito psicologico nella misura in cui, l’operatore accoglie e comprende i problemi dell’altro, è definito sociale, perché il lavoro dell’operatore non si conclude con l’identificazione e la comprensione del problema, ma sarà orientato a intervenire concretamente nella vita dell’altro. La richiesta del colloquio può essere formulata da diversi soggetti, tra cui l’utente che vive la situazione problematica, altri che agiscono e formulano per lui la richiesta, oppure da richieste di intervento da parte di un’istituzione.150 L’importanza di questo aspetto è fondamentale ed è connessa sia al grado di consapevolezza del problema della persona che lo vive, sia al grado di motivazione al cambiamento che questa ha rispetto alla sua situazione-problema. Quando la richiesta di aiuto proviene dalla persona interessata, si può supporre che vi è consapevolezza di un disagio per il quale si è motivati ad intraprendere un percorso di soluzione. Differente è la situazione in cui la richiesta è formulata da altri o dalle istituzioni, perché in questo caso non vi è sicuramente consapevolezza o motivazione al cambiamento della situazione problematica, ma allo stesso tempo il compito dell’operatore sarà di accogliere questa richiesta e offrire un tempo e uno spazio di ascolto a chi la presenta per cercare di comprenderla. Una delle caratteristiche che in questo lavoro è stata evidenziata quando si è parlato della relazione di aiuto è la particolarità delle persone con cui l’assistente sociale è chiamato ad operare; si tratta di individui, gruppi e famiglie portatrici di gravi e complessi problemi che entrano in relazione con l’operatore quando rispetto al problema che vivono sono arrivati ad un punto di crisi. Tutto questo comporta per l’operatore “la capacità di leggere e decodificare la situazione dell’individuo che si ha di fronte, ossia la capacità di saper ricostruire l’orizzonte di comprensione e di significato di quella persona”151 per poter poi valorizzare e promuovere le sue risorse personali e sociali. Nel colloquio l’operatore deve mettere in campo tutte le sue competenze professionali e sapersi collocare in una relazione rivolta alla persona. Ciò vuol dire individuare un codice comunicativo comune per poter attraverso la comunicazione

150

A questo proposito cfr. A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 134; O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 143. 151 O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 50.

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verbale e non verbale, la comunicazione esplicita e latente, capire ciò che l’altro e l’operatore vogliono comunicare, ma soprattutto, vuol dire da parte dell’operatore favorire un clima che aiuti la comunicazione attraverso la capacità di non parlare e saper rispettare i tempi dell’altro, essere empatico, saper osservare e ascoltare, farsi guidare dall’utente per poter poi, suggerire e costruire insieme a lui un possibile percorso di aiuto.

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3.2.2 Gli obiettivi Ogni colloquio è istruzione di una relazione che si definisce in quanto costruita da interlocutori che la vivono e che sono motivati a realizzare un obiettivo comune. Lo scopo di un colloquio di aiuto è “di avere e dare informazioni, ma anche, e soprattutto, di creare un rapporto, una situazione di disponibilità, fiducia, comprensione da parte dell’assistente sociale al fine di motivare l’utente a continuare il processo di aiuto, ad assumersi responsabilità e impegni per la soluzione del proprio problema”152 Ogni volta che nella pratica professionale si utilizza il colloquio, ci si deve chiedere il perché si utilizza questo strumento di lavoro e quale è lo scopo per cui chiediamo all’altro di passare “dal silenzio alla parola”153 e di parlare di sé e dei suoi problemi. Dare a ogni colloquio uno scopo significa avere rispetto dell’altro, della sua dignità come valore portante della professione, ed evitare che la persona parli inutilmente di sé.154 L’assunto di base è che il colloquio di servizio sociale “è centrato sulla persona e condotto con la stessa”,155 si parla quindi, di una relazione in cui l’utente è parte attiva di un processo d’interazione con l’assistente sociale ed è per questo che la definizione degli obiettivi va effettuata per ogni specifico colloquio, e ciascun obiettivo deve essere compreso, accettato e condiviso da entrambi. In rapporto agli obiettivi, secondo Alfred Kadushin, si possono realizzare tre tipi di colloqui: informativi, diagnostici e terapeutici.156 Questa distinzione è stata riproposta e spiegata da Edda Samory.157 Con il colloquio informativo, o di indagine sociale, l’operatore e l’utente scambiano informazioni e dati. Lo scopo di questo colloquio è la raccolta delle informazioni che consente all’operatore di conoscere il bisogno dell’utente e la situazione che può aver determinato il problema sociale, per elaborare un percorso di aiuto.

152

M. Dal Pra Ponticelli, Lineamenti di servizio sociale, cit., p. 146. O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 151. 154 Cfr. Ivi, pp. 150-151. 155 A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 139. 156 A. Kadushin, Il colloquio nel servizio sociale, Astrolabio, Roma, 1980, cit. in M.T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 63. 157 Cfr. E. Samory, Manuale di scienza di servizio sociale, vol. II, cit., p. 199. 153

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Nel colloquio valutativo l’assistente sociale è rivolto a comprendere e valutare il bisogno, gli aspetti espliciti e latenti della richiesta di aiuto e il significato che il problema ha per l’utente. I dati raccolti dovranno essere restituiti all’utente per formulare con la sua partecipazione delle ipotesi progettuali di un percorso di aiuto e i risultati che con questo si aspira a ottenere. Il colloquio di trattamento assistenziale (operativo - terapeutico) consiste nel favorire un cambiamento nell’utente e nella sua realtà sociale a seguito degli interventi progettati con l’operatore. L’obiettivo è di guidare l’utente a diventare il principale attore del proprio progetto personale e a impegnarsi attivamente per liberarsi dal suo bisogno. Il compito dell’assistente sociale è di aiutare l’utente al raggiungimento di questi obiettivi, senza sostituirsi a lui per permettergli di prendere le decisioni in libertà e in modo responsabile. Le tipologie di colloquio presentate sono accomunate dalla caratterista peculiare del colloquio di servizio sociale di essere “ un colloquio di aiuto e per l’aiuto”.158 Il servizio sociale si presenta come una professione di aiuto che, attraverso lo strumento del colloquio, mostra interesse e cura per l’altro e favorisce l’elaborazione di percorsi educativi per rispondere in modo efficiente alla sua richiesta di aiuto.

158

A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 135.

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3.2.3 i momenti del colloquio All’interno del colloquio troviamo diversi momenti validi, ciascun colloquio infatti, presenta una progressione temporale, ha un inizio, un corpo centrale ed una conclusione.159 Nella relazione con l’utente c’è un tempo per accogliere, un tempo per conoscere e per capire, un tempo per pensare e un tempo per concludere. La prima fase è rappresentata dall’incontro. Quando si parla del primo incontro, la fase sociale di conoscenza, richiede rispetto ai colloqui successivi un tempo maggiore e stabilisce le basi della relazione che si strutturerà tra gli interlocutori. È in questa fase del colloquio che si è rivolti a “raccogliere la storia della persona che ci sta di fronte, quasi che questa storia abbia, in sé, la possibilità di spiegarci qualcosa”.160 Il primo passo da parte dell’assistente sociale è accogliere l’utente, presentarsi con una stretta di mano e indicare il posto che la persona deve occupare.161 Questa è la fase in cui ci si conosce, in cui le prime impressioni e fantasie di entrambi gli interlocutori sono soggette a verifica, infatti, ci si presenta con il proprio nome, ma anche con la mimica, il proprio modo di vestire e di atteggiarsi fisicamente. Le prime parole dell’utente saranno i gesti, e il primo linguaggio quello del corpo è quindi importante prestare attenzione agli aspetti della comunicazione non verbale. È in questa fase che l’assistente sociale dovrà utilizzare le capacità di discrezione, di tolleranza e di empatia, che consentono all’utente di lasciarsi andare, presentarsi e esporre la sua problematica. Il compito primario di questa fase è di configurare un quadro coerente e circostanziato della persona e della sua storia. Gli aspetti, o “fuochi di attenzione” su cui porre l’attenzione in questa fase per la raccolta delle informazioni riguarderanno i dati anagrafici del richiedente e del nucleo familiare, l’organizzazione di vita familiare sociale e lavorativa, la provenienza culturale, la condizione economica, il livello di istruzione, il livello di consapevolezza ed il significato del problema, nonché il grado di motivazione al cambiamento rispetto al problema vissuto, le precedenti richieste di aiuto 159

A questo proposito cfr. Haley, La terapia del problem-solving, Astrolabio, Roma, 1984, cit. in M.T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 63; A. Kadushin, Il colloquio nel servizio sociale, Astrolabio, Roma, 1980, cit. in A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 140. 160 A. Semi, Tecnica del Colloquio, Cortina, Milano, 1985, p. 4. 161 Cfr. Ivi, p. 40.

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e quali percorsi sono stati fatti per trovare una soluzione, quali sono i condizionamenti sociali, ambientali e culturali, e ancora analizzare la natura del problema e definire gli aspetti più urgenti a cui dare priorità, il perché l’utente si è rivolto all’assistente sociale, e quali sono le sue aspettative di soluzione o di risposta rispetto all’ente e al professionista. 162 È evidente che il primo incontro con l’utente è importante per l’avvio di un processo di conoscenza reciproca e di un’interazione tra i soggetti coinvolti che porta all’instaurarsi di un’esperienza di aiuto. La seconda fase si distingue per l’alta densità dello scambio informativo; rappresenta il corpo centrale, o “nocciolo del colloquio”163 ed è il momento in cui l’operatore riformula i contenuti che sono stati esposti e rilegge le comunicazioni che l’utente ha inviato. In questa fase l’operatore “è simile ad una persona che lavora al computer usando delle “finestre”, con diversi campi di elaborazione contemporaneamente sullo schermo. A livello cognitivo vi sono le informazioni che egli va accumulando e la percezione della personalità e delle risorse del paziente, a livello emotivo egli mantiene un monitoraggio costante e regolare dello stato emotivo del soggetto, registrando anche il proprio stato d’animo”.164 La riformulazione esercitata dall’operatore è un’operazione di valutazione e di scelta del percorso di aiuto da attivare, perché da un lato si aiuta l’utente a risolvere il suo problema, dall’altro, si cerca di comprendere quale tipo di investimento la persona è disposta a fare per migliorare la sua situazione di vita. Riprendere quanto la persona ha comunicato e riformulare i contenuti con una propria punteggiatura è il modo di comunicare che si è ascoltato in modo attento e orientato, è il modo per comprendere se si è capito e per consentire all’utente di perfezionare quanto ha detto, ed infine è il modo con il quale si comunica all’utente che la sua domanda è stata accolta, che si è compresa la sua situazione affettiva e il suo bisogno è stato compreso e studiato per suggerire nuove visioni del problema.

162

A questo proposito cfr. F. Ferrario, Le dimensioni dell’intervento sociale. Un modello unitario centrato sul compito, Edizioni NIS Roma, 1996, cit. in A. Bartolomei, A. L. Passera, op. cit., p. 113. 163 A. Campanini, op. cit., p. 161. 164 G. Giovannini (a cura di), op. cit., pp. 306-307.

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Il terzo momento valido del colloquio è la sua conclusione. È questa la fase in cui l'assistente sociale e l’utente dopo aver definito i confini del problema, consapevoli delle risorse a disposizione, definiscono l’impegno reciproco e la divisione dei compiti. Nella fase operativa si riconosce all’utente la capacità di superare le difficoltà, lo si considera come una persona in grado di affrontare un problema, e di essere lui stesso il protagonista di questa risoluzione. Rendere l’utente partecipe e protagonista in prima persona, significa inviare un segnale di coinvolgimento e riconoscimento delle sue competenze e promuovere e incoraggiare la sua autodeterminazione, in quanto persona capace di operare scelte autonome. Spesso accade165 che nella fase conclusiva di un colloquio compaiano nuovi e rilevanti argomenti che richiedono tempo e attenzione e che possono essere discussi e compresi in un colloquio successivo per non prolungare quello in atto. In questo modo si rispetta l’utente, si mantiene il controllo della relazione e si comunica di aver compreso questa nuova necessità. Questa fase segna la conclusione di una dinamica e l’interruzione di un rapporto in qualche misura affettivo, ma se la conclusione, come si approfondirà nel paragrafo dedicato al tempo del colloquio, è preparata da parte dell’assistente sociale con la comunicazione della sua durata all’utente non rimarrà la sensazione di un discorso non concluso. Il colloquio è considerato come uno strumento di cambiamento con il quale si cerca di “responsabilizzare la persona e di condurla ad un migliore funzionamento sociale”.166A tal fine dell’assistente sociale al termine del colloquio dovrà impegnarsi in una riflessione e analizzare in modo critico l’andamento della relazione appena conclusa, per chiedersi se ha accolto e compreso nel rispetto della sua dignità l’utente portatore del bisogno e se lo ha motivato ad aderire ad un progetto di aiuto per lui elaborato.167

165

A questo proposito cfr. A. Campanini, cit. in G. Trentini (a cura di), Oltre l’intervista. Il colloquio nei contesti sociali, cit., p. 275. 166 E. Samory, Manuale di scienza di servizio sociale, vol. II, cit., p. 199. 167 A questo proposito cfr. A. Campanini, op. cit., p. 63.

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3.2.4 La cornice spazio-temporale La situazione interattiva di un colloquio è intenzionalmente definita e limitata nello spazio e nel tempo. Lo spazio è l’ambiente in cui si realizza il colloquio e con questo termine ci si riferisce sia allo spazio mentale, sia allo spazio fisico.168 Per spazio mentale, si intende, da parte dell’operatore, l’effettiva disponibilità all’accoglienza e all’ascolto dell’altro, e per spazio fisico, il luogo in cui condurre il colloquio nel rispetto della riservatezza dell’utente e del suo diritto a beneficiare di un colloquio costruttivo. Il colloquio si svolge tra due o più persone in un luogo, e questo luogo assume una grande rilevanza nello svolgimento del colloquio stesso perché “influenza positivamente o negativamente l’idea di affidabilità rispetto a ciò che si sta costruendo”.169 Lo spazio che si sceglie comunica qualcosa, per questo l’operatore dovrà organizzarsi in modo che i disturbi legati al contesto siano ridotti al minimo. Nessuno accetterebbe di trovarsi con un amico col quale si ha bisogno di confidarsi, in un luogo confusionario, ma si cercherà un posto adatto, in cui non si sia disturbati, e dove si possa parlare di cose confidenziali, sapendo che saranno ascoltate e non saranno sentite da altri, ai quali si preferisce non comunicarle.170 Lo stesso vale per il colloquio di servizio sociale: se si riceve la persona in un corridoio o in una stanza aperta ad altri, l’utente può vivere la sua situazione come “uno spazio senza confini”,171 può percepire disinteresse nei confronti del suo problema ed essere portato ad esprimersi al minimo e limitare la comunicazione, se invece lo spazio utilizzato è adeguatamente tutelato si invia un messaggio di professionalità e di disponibilità all’ascolto del problema proposto. Vi sono degli elementi materiali che descrivono lo spazio del colloquio. Può qui valere la pena di soffermarsi e considerare brevemente alcuni di questi elementi. La stanza rappresenta lo scenario in cui si ha l’interazione, è delimitata da pareti e da un’apertura che consente di entrare e uscire attraverso la porta. La porta come 168

A questo proposito cfr. O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 148. M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 59. 170 Cfr A. Semi, op. cit., p. 17. 171 O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 149. 169

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elemento che delimita il luogo in cui avviene la comunicazione, rappresenta un confine, infatti “la chiusura della porta indica l’inizio delle prima battute del colloquio”,172 ma anche un limite al di là del quale non si direbbero cose che si dicono al di qua, perche ci sia un dentro, rispetto al quale si deve stare fuori.173 Da quanto affermato emerge l’importanza che la stanza durante lo svolgimento di un colloquio non sia frequentata da altri e la porta non sia aperta in continuazione come se non ci fosse. L’arredamento è il contorno del luogo in cui si svolge il colloquio e per creare un clima confortevole dovrebbe essere semplice e accogliente. L’arredamento presenta e simbolizza aspetti dell’operatore e contiene tutti quegli elementi che costituiscono la stanza. In particolare ci si riferisce ad una scrivania, sedie comode, pareti pulite e possibilmente addobbate da quadri, una luce diffusa, quindi, un ambiente umano.174 Fa parte dell’arredamento anche la scrivania intesa come elemento materiale che separa l’assistente sociale dall’utente. La scrivania simboleggia da una parte “la posizione di potere”175 dell’assistente sociale rispetto all’utente, in funzione del ruolo che ricopre all’interno dell’istituzione, e dall’altra rappresenta una garanzia di sicurezza per l’utente che l’operatore saprà stare “al suo posto”,176 condizione che consentirà all’utente di sentirsi accettato e compreso nell’esporre il suo bisogno. Un altro elemento dell’arredamento da considerare è il telefono e il suo uso, con la consapevolezza che utilizzarlo nel corso di un colloquio, per motivi non pertinenti allo stesso, comporta un’interruzione della comunicazione e un ostacolo all’impegno che il colloquio richiede.177 “La storia dei servizi conferma, purtroppo, la scarsa attenzione alla cura del contesto fisico, quasi ad affermare che la sofferenza deve essere gestita in “luoghi sofferenti”.[…] È idea condivisa che i locali dove lavorano gli assistenti sociali rispecchiano l’idea politico-economica della società, che considera il disagio più un “peso” che una realtà da affrontare […]”.178

172

E. Allegri, P. Palmieri, F. Zucca, op. cit., pp. 26-27. A. Semi, op. cit., p. 18. 174 Ivi, pp. 20-21. 175 E. Allegri, P. Palmieri, F. Zucca, op. cit., p. 27. 176 Ibidem. 177 Ivi, p. 28. 178 M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 54. 173

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Lavorare in luoghi ospitali e decorosi significherebbe invece ricompensare della sua opera il professionista, ma soprattutto, garantire a chi dovrà usufruire delle sue abilità, professionalità, disponibilità e interesse sincero. Un’altra variabile essenziale nella gestione del colloquio è il tempo da dedicare alla conversazione inteso come tempo fisico legato all’orologio. Gli orientamenti teorici e l’esperienza degli operatori indicano che il tempo medio di un colloquio oscilla tra i quarantacinque e i sessanta minuti, durante i quali la comunicazione ha un inizio, con la fase di accoglienza e di aiuto, uno sviluppo, con la chiarificazione e restituzione del problema, e una conclusione, con la definizione del programma di aiuto da attivare.179 Dal punto di vista metodologico è utile programmare più colloqui e fissare riguardo ad ogni richiesta, un appuntamento. Il tempo da impiegare va valutato in rapporto allo scopo di ciascun colloquio. Non si può infatti, pensare di parlare di tutto in un colloquio180, ogni colloquio dovrà approfondire argomenti precisi per giungere a conclusioni che possano facilitare il raggiungimento degli obiettivi stabiliti. La durata del colloquio da parte dell’operatore deve essere definita in maniera precisa e comunicata all’utente, sia per un’esigenza di tipo organizzativo legato al professionista, sia per rispetto della persona. “Ciò consente a entrambi gli interlocutori di controllare in qualche modo i tempi della relazione e di pensare a come possono fare un buon uso della risorsa tempo”.181 Nell’ambito del sistema organizzato dei servizi la gestione del tempo non è semplice, a volte non si riesce a contenere l’ansia dell’utente e si prolunga il tempo stabilito, così come, a volte, l’operatore non riesce a contenere la propria ansia e si difende da questo sentimento permettendo ad altri (colleghi o altri utenti) di invadere il tempo del colloquio. “Il tempo è un vincolo da rispettare, “vincolo” che non significa “gabbia rigida” e assoluta, ma orientamento e guida di modalità operative assimilabili nella pratica quotidiana ad un modus operandi dello specifico professionale e del contesto relazionale dell’intervento che si intende attivare”.182 179

A questo proposito cfr. E. Allegri, P. Palmieri, F. Zucca, op. cit., p. 30; O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 146. 180 A questo proposito cfr. E. Samory, Manuale di scienza di servizio sociale, vol. II, cit., p. 290. 181 E. Allegri, P. Palmieri, F. Zucca, op. cit., p. 29. 182 M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 59.

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Rispettare queste indicazioni metodologiche da parte dell’assistente sociale, significa rispettare l’altro e garantire la disponibilità ad accoglierlo in una dimensione operativa orientata ad attuare percorsi di aiuto costruttivi.

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3.3 Le capacità relazionali In questo lavoro, la relazione di aiuto è stata definita con le parole della Cellentani come “una relazione in cui due interlocutori si incontrano ed uno di questi, in virtù delle sue conoscenze e del suo ruolo che ricopre nell’istituzione ha il compito di comprendere ciò che accade in questa relazione e agire in base a questa conoscenza”.183 Il professionista è presentato come il conduttore della relazione di aiuto e ha il compito primario di guidarla. L’assistente sociale svolge questa funzione grazie all’insieme di teorie, conoscenze e metodologie che costituiscono il sapere, e gli consentono di dialogare in modo professionale con l’utente, ma anche per l’insieme delle capacità e degli strumenti che egli sa trasformare e mettere in pratica (saper fare), che gli permettono di entrare in relazione con l’altro per comprendere, in virtù del saper essere, la visione del mondo che ha l’utente e attivare adeguati processi di aiuto. Quando si rivolge ad un servizio l’utente ha di fronte a lui un mondo non familiare e spesso sconosciuto; sviluppa aspettative e fantasie, il suo desiderio principale è quello di risolvere un problema, rispetto al quale prova sentimenti di incapacità e di impotenza rispetto alle proprie possibilità di affrontare il bisogno. Al contrario, l’assistente sociale è l’esperto del sistema dei servizi, si muove con padronanza nell’ambiente in cui lavora ed è consapevole che la richiesta di un colloquio indica la disponibilità dell’utente a farlo entrare in un momento intimo e privato della sua vita; quando si presenta questa disponibilità, deve accogliere questo invito ed entrare nella vita dell’altro con le modalità appropriate.184 “Tali modalità si esplicano sempre attraverso comportamenti (ciò che viene detto o fatto) che possono caratterizzarsi come più o meno adeguati rispetto alla specifica situazione considerata e ai soggetti coinvolti […]. In quest’ottica ci si riferisce alle abilità relazionali come a quei comportamenti utilizzati nelle situazioni faccia-a-faccia che riescono a fornire un contributo per il raggiungimento di un utile risultato rispetto agli interagenti”. 185

183

O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, cit., p. 132. A questo proposito cfr. M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 51. 185 G. Giovannini (a cura di), op. cit., p. 72. 184

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Trentini indica le caratteristiche essenziali di una buona conduzione in un rapporto comunicativo orientato all’aiuto.186 Il primo requisito che si richiede al conduttore è di mostrare interesse e quindi accogliere l’altro con rispetto, metterlo a proprio agio e orientarsi ai suoi bisogni. L’assistente sociale è chiamato ad operare nel contesto di vita delle persone che chiedono aiuto, nel loro linguaggio, nella loro logica e in un mondo di valori che spesso è distante da quello proprio dell’operatore. Per entrare nella storia dell’altro e comprendere l’esperienza che sta vivendo (rispetto a se stesso, all’operatore e all’istituzione), l’assistente sociale, deve saper ascoltare, capire e riflettere, leggere il modo di fare dell’altro nel suo comportamento verbale e non verbale, deve garantire all’altro disponibilità, capacità empatica e comprensione nel rispetto della sua persona. Il rispetto nella relazione operatore-utente si manifesta nell’operatività con un “atteggiamento di riservatezza”187 nei confronti dell’utente e della relazione in atto, come base fondamentale per instaurare nell’esercizio della professione rapporti di tipo fiduciario che non possono essere traditi. Il secondo requisito è quello di favorire l’autodeterminazione del soggetto; nella relazione di aiuto l’assistente sociale deve promuovere e rispettare il diritto all’autodeterminazione dell’utente.188 “L’autodeterminazione garantisce il sostegno da parte del professionista senza un’azione di dominio”.189Attraverso una comunicazione costruttiva si può, infatti aiutare l’altro a valorizzare e comprendere necessità, desideri e ambizioni, a prendere decisioni in modo responsabile per arrivare in modo autonomo a soluzioni personali. L’operatore dovrà rispettare questo bisogno e guidare le capacità di autonomia del soggetto. L’ultimo requisito individuato da Trentini è quello di accogliere l’altro e mostrare rispetto con un atteggiamento non giudicante. “Un atteggiamento di accettazione consiste nell’accogliere qualsiasi persona per come è, per quello che è, qualunque sia la sua condizione personale, sociale, la sua cultura e le sue idee, la sua religione”.190

186

A questo proposito cfr. G. Trentini (a cura di), Oltre l’intervista. Il colloquio nei contesti sociali, cit., pp. 56-58. 187 M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 190. 188 A questo proposito cfr. E. Bianchi, La relazione d’aiuto nel sociale, in P. Grigoletti Butturini, G. Nervo (a cura di), op. cit., p. 65. 189 G. Trentini (a cura di), Oltre l’intervista. Il colloquio nei contesti sociali, cit., p. 57. 190 M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 189.

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Perché si possa creare un clima relazionale sereno in cui gli interlocutori si sentano a proprio agio, il conduttore non dovrebbe mostrarsi freddo e distaccato, disapprovare o dare peso ai comportamenti dell’altro, ma dovrebbe essere orientato a capire gli atteggiamenti dell’utente e non a stabilire la validità o meno di quei comportamenti. Se nella relazione si riesce ad instaurare un clima disteso, orientato alla comprensione e all’ascolto, il colloquio diventa “un occasione di riflessione a voce alta per l’intervistato: una situazione in cui l’intervistatore funge in qualche modo da “catalizzatore” che innesca processi riflessivi. Ciò è possibile attraverso uno stile di conduzione non direttivo”.191 È attraverso questa modalità di conduzione che l’utente viene guidato a raccontare i propri vissuti, la propria concezione di vita, le proprie ambizioni, in una relazione caratterizzata da comprensione e ascolto empatico.192 Come si è già avuto modo di vedere nella descrizione dei momenti del colloquio, per un conduttore è importante riprendere e ripetere i pensieri che la persona ha espresso. La riformulazione di quanto detto all’interno di una conversazione con l’altro secondo Rita Bichi193 ha tre obiettivi prioritari: fa capire alla persona che l’ascolto è attivo, permette la verifica della comprensione delle parole dell’intervistato e dirige l’attenzione dell’intervistato su uno degli argomenti da lui indicati. È attraverso la riformulazione che l’operatore mostra all’altro un attenzione priva di forme di valutazione e un atteggiamento di accettazione. Il conduttore dimostra interesse verso l’altro con un’attenzione ai bisogni, ai problemi, a quanto viene riferito e manifestato dall’altro, in un clima di ascolto autentico e nel rispetto dal ruolo istituzionale rivestito. Occorre infatti non dimenticare che la situazione comunicativa del colloquio è “asimmetrica”. L’operatore, in quanto conduttore, accompagna con cura l’utente nei diversi momenti del colloquio e nella scelta delle tematiche da affrontare, e “assume il compito primario di presidiare il contenitore del colloquio”194 in virtù delle sue competenze professionali all’interno dell’istituzione di riferimento.

191

A. Vargiu, op. cit., p. 250. A questo proposito cfr. Ivi, pp. 250-257. 193 A questo proposito cfr. R. Bichi, La conduzione delle interviste nella ricerca sociale, Carocci, Roma, 2007, p. 166. 194 E. Allegri, P. Palmieri, F. Zucca, op. cit., p. 43. 192

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Da quanto affermato emerge che le abilità relazionali di chi conduce un colloquio richiamano gli atteggiamenti della professione,195 e si identificano nella capacità di utilizzare un codice linguistico vicino alle risorse e alle scelte linguistiche dell’altro; nel prestare attenzione alla comunicazione verbale e non verbale; nel rispettare le idee e i vissuti della persona e comprendere le sue posizioni soggettive; nell’essere abile a capire e rispondere ai bisogni emotivi; nell’avere un atteggiamento non giudicante e di accettazione; nel manifestare il proprio interessamento per il soggetto creando le condizioni perché questo possa essere se stesso ed esprimersi liberamente. È in questo senso che il colloquio con l’altro è considerato come un insieme di comportamenti che sviluppano in un confronto costruttivo ed educativo le capacità degli interlocutori. 196

195

M. Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al servizio sociale, cit., p. 189-192. Cfr. M. De Beni, Prosocialità e altruismo, Erickson, Trento, 1998, cit. in F. Lazzari, A. Merler (a cura di), op. cit., p. 303.

196

57


Conclusioni La professione si basa su un sistema valoriale che pone al centro la persona, ha fiducia nell’utente e nelle sue possibilità di partecipare alla realizzazione di se stesso, ha rispetto dell’altro e lo manifesta nel riconoscere all’utente il diritto di ricercare soluzioni per i propri progetti. In questo lavoro il servizio sociale è stato presentato come un’arte, un metodo per aiutare gli utenti, per sostenerli a prendere coscienza dei propri bisogni e delle risorse personali, ambientali, istituzionali e ad acquisire le capacità di utilizzarle. L’assistente sociale è stato proposto nel ruolo di facilitatore di processi educativi di sviluppo e di promozione, e gli utenti sono stati considerati come soggetti e mai oggetti o destinatari dell’intervento, portatori di problemi e di bisogni, ma anche di potenzialità e desideri. Il colloquio come “ponte metaforico”197 che collega l’assistente sociale al soggetto portatore del disagio si presenta come un “dialogo speciale”198 in cui entrambi gli interlocutori sono soggetti attivi impegnati alla realizzazione di un progetto. Il colloquio di aiuto è infatti, il principale strumento professionale che permette di perseguire obiettivi di promozione e di cambiamento. L’interazione si caratterizza in rapporto di fiducia reciproca e di empatia che accompagna l’utente a una riprogettazione per un miglior livello di vita possibile sul piano emotivo, relazionale e sociale. L’educazione, la cura e l’aiuto offerti dall’operatore acquistano un senso solo se si mette l’altro nella condizione di essere guidato ad aiutarsi e a provvedere con autonomia al suo sviluppo e alla promozione delle sue risorse. Il colloquio di aiuto, quale strumento principale dell’azione professionale, ha indicato le strategie e le tecniche attraverso le quali è possibile guidare la persona in questo processo, centrando la relazione sull’utente e sul suo contesto di vita e concentrando l’attenzione sul clima empatico della relazione che permette di instaurare un’interazione capace di diminuire le resistenze del soggetto nell’incontro con l’operatore, stimola la riflessione sulla propria condizione e favorisce l’evoluzione di un reale percorso di cambiamento.

197 198

M. T. Zini, S. Miodini, op. cit., p. 23. Ibidem.

58


Nel corso del lavoro si è parlato anche degli aspetti critici che possono influenzare l’evoluzione e l’esito di un colloquio, quali ad esempio la particolarità delle persone con le quali si trova ad operare il professionista, l’asimmetria dei ruoli in termini di potere dell’assistente sociale nei confronti dell’utente, i problemi di carattere organizzativo che possono ostacolare la costruzione di adeguati tempi e spazi di ascolto e comprensione, i requisiti relazionali che l’operatore deve far propri nello svolgimento della professione, nella speranza che la loro consapevolezza guidi l’operatore ad impegnarsi per il bene della collettività, a promuovere la realizzazione di un lavoro di cura con cura e a sostenere una cultura del fare, detta “cultura della manutenzione”. “È una cultura fatta di tante piccole cose, di attenzioni, di disponibilità, […] di una costante elaborazione del bisogno, di continue risposte efficaci […]”199 perché, si possa promuovere uno sviluppo inteso come “ meta e metodologia di intervento”200 orientato a superare la logica assistenziale, al fine di evitare forme di dipendenza dai servizi, e far si che si attui l’autorealizzazione dell’utente. Il colloquio così presentato nella sua utilità operativa è importante sotto il profilo pratico, perché permette di valorizzare il ruolo dell’assistente sociale, ma soprattutto perché favorisce la crescita del potere di azione delle persone coinvolte nell’interazione professionale. Questo progresso riguarda l’operatore perché, così come il buon artigiano “sviluppa la propria abilità nel processo lavorativo”,201 l’assistente sociale con il colloquio perfeziona il suo “saper fare”. Ma si riferisce soprattutto all’utente, perché è nel colloquio di aiuto che si rispetta la sua unicità, quando si presta attenzione ai suoi problemi, la sua dignità, quando si cerca di dare risposte a questi problemi. E infine si promuove l’autodeterminazione, giacché nel colloquio l’utente tematizza in forma esplicita il proprio bisogno e le eventuali risorse attivabili, e co-costruisce assieme all’operatore gli obiettivi e le modalità concrete che possono indirizzarlo verso la risoluzione della situazione problematica.

199

A. Merler, La necessità di scegliere fra la “cultura del degrado”e la “cultura della manutenzione”in “Quaderni bolotanesi”, n. 12, anno 1986, p. 127. 200 Ivi, p.126. 201 Cfr. C. W. Mills, White Collar: The American Middle Classes, Oxford University Press, New York, 1951, pp. 220-223, cit. in R. Sennet, op.cit., p. 34.

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