Il progetto editoriale per conferire contenuti al prodotto giornale

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A.D. MDLXII

Università degli Studi di Sassari Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione

IL PROGETTO EDITORIALE PER CONFERIRE CONTENUTI AL PRODOTTO GIORNALE

Relatore: Prof. Livio Liuzzi Tesi di laurea di: Claudia Rum

Anno Accademico 2011/2012



Al mio nonni



Indice I. Introduzione

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II. Il progetto editoriale

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1. Le fasi del piano editoriale

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2. Previsione costi e ricavi

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3. I profitti della testata: la pubblicità

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4. Il ruolo del redattore contro la riduzione del budget

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5. La pianificazione strategica nel processo editoriale

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6. Gli elementi comunicativi del prodotto giornale

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III. Il Graphic Design

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1. Un processo creativo

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2. Communication Design e Visual Communication

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IV. L’Editorial Design

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1. Il graphic design e il prodotto editoriale

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2. La tipografia: un linguaggio multimediale

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3. Le finalità dell’intervento grafico

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4. Lavorare alla pubblicazione

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5. I progetti del graphic designer

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V. L’identità 1. Il Marketing e la testata editoriale

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2. Il significato del brand

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3. Lo sviluppo della copertina

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4. Realizzare una copertina efficace

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5. L’attitude

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6. Il Masthead

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7. Case study: Vogue

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VI. Conclusioni

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Bibliografia

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Sitografia

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Indice delle foto

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I. Introduzione

L’obiettivo della tesi è quello di affrontare il tema del processo editoriale in tutte le sue principali determinanti. Si tratta di un procedimento a più fasi, che richiede l’intervento di numerose figure professionali. La complessità del processo editoriale risiede nel trattamento dei contenuti – testo, immagini, dati - nello stabilire e monitorare il budget di cui una qualsiasi azienda che intende inserirsi sul mercato ha bisogno. Si dimostrerà quanto è importante che la testata valuti attentamente i comportamenti della concorrenza ed adatti a questi ultimi la propria linea d’azione. Per sottrarre lettori alle testate già presenti sul mercato, ciò che occorre è essere in grado di proporre un modello editoriale nuovo, che raggiunga fasce di pubblico finora escluse e che attragga quelle già sul mercato. Un modello alternativo non è tuttavia sufficiente. La partita con la concorrenza, basata in prima istanza su costi di gestione, copie vendute e gettito pubblicitario, si rivela cruciale nello stabilire quale azienda avrà la meglio. Fase particolarmente complessa è quella relativa all’ideazione e alla creazione di una testata rappresentativa. Non basta che un giornale o una rivista siano a posto con i bilanci e producano contenuti di qualità. Ciò che davvero conta affinché una testata esista e

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resista su un mercato altamente competitivo quale è quello attuale, è che deve essere in grado di creare un legame, una relazione, con i propri lettori. La testata deve possedere un’identità, l’insieme dei valori tangibili ed intangibili che concorrono a determinare la posizione, la vision e il modo di pensare ed operare dell’azienda. Il rapporto che il prodotto editoriale instaura col pubblico è l’elemento chiave per il suo successo. È un indice della misura di apprezzamento che una determinata fetta di mercato esprime nei confronti di un giornale o di una rivista. In tal senso la testata deve mantenere alta la propria credibilità ed essere in grado al contempo di offrire nuovi spunti di riflessione su se stessa e sulla realtà sociale, culturale, politica ed economica del Paese. Ogni fase del processo editoriale, da quella della previsione dei costi e dei ricavi da parte della proprietà, fino a quella della veste grafica curata dalla sezione di graphic ed editorial designer, si caratterizza in relazione al pubblico di riferimento. Anche le scelte grafiche contribuiscono notevolmente alla definizione del prodotto finale. Le immagini, i colori, il layout che una testata predilige, nonché la sua veste grafica, la sua immediatamente riconoscibile copertina, contribuiscono a definire l’identità della testata in ogni sua pubblicazione. Qualsiasi decisione è presa in base alle preferenze, ai gusti e alle aspettative del pubblico. Un prodotto editoriale di successo è quel prodotto che ha trovato la giusta formula che combina tra loro le esigenze della proprietà, quelle della testata e quelle del fruitore finale.

Il lavoro si articola come segue. Nel capitolo I si analizza il progetto editoriale nelle sue fasi. In particolare si approfondiscono i temi relativi alla previsione dei costi e ricavi, passaggio imprescindibile per qualsiasi azienda che punta a conquistare il mercato, alla pianificazione strategica messa in atto dalla testata e agli elementi comunicativi di cui essa dispone. Nel capitolo II ci si dedica alla disciplina del Graphic Design, un processo creativo che coinvolge numerose figure professionali e che cura la parte relativa all’immagine del prodotto, non solo quello editoriale. Una breve digressione è proposta in

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merito al Communication Design e alla Visual Communication, due discipline affini al Graphic Design. Nel capitolo III si analizza la relazione che esiste tra il Graphic design e il prodotto editoriale attraverso la presentazione della progettazione editoriale, o Editorial Design, disciplina di formazione e sviluppo piuttosto recenti. In tale ambito ampio spazio è dedicato alla tipografia, dalle origini all’avvento della digitalizzazione. Si presentano poi le finalità dell’intervento grafico e le tecniche che è bene applicare quando si lavora ad una pubblicazione. Infine si espone la posizione che le figure professionali impiegate nella sezione di progettazione grafica del prodotto, occupano nella struttura di giornali, riviste e quotidiani. Nel capitolo IV ci si cura dell’identità della testata. Si spiegano le relazioni che intercorrono tra un’azienda editoriale e il pruriginoso mondo del Marketing. Ci si sofferma sul significato di brand, elemento chiave nel richiamare il pubblico al prodotto e nell’instaurare un legame di fiducia e reciproco interesse. L’ultima parte è dedicata all’evoluzione della copertina, al suo significato, al ruolo e all’importanza che essa riveste nel catalizzare l’attenzione del lettore. Si analizzano le caratteristiche che deve possedere una copertina per essere efficace insieme al concetto, strettamente correlato a quello di identità, di attitude che indica il modo di operare e pensare della testata, le sue scelte e la sua posizione sul mercato e nei confronti del lettore. Infine è proposto un case study. L’esempio scelto è quello della nota rivista di moda e lifestyle Vogue. L’obiettivo di quest’ultima sezione del lavoro è quello di toccare alcuni dei principali temi trattati nei capitoli III e IV, dimostrando come la proprietà e la direzione grafica di una rivista possano, se in sintonia, rappresentare l’elemento chiave per il definitivo successo del prodotto editoriale.

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II. Il progetto editoriale

Il giornale, quotidiano o periodico, come qualsiasi prodotto è il risultato di diverse fasi di elaborazione che richiedono risorse finanziarie e professionali. Il messaggio, ovvero l’informazione pubblicata, è scelto in base a caratteristiche relative alla qualità in termini editoriali del contenuto e in base ad un target di riferimento. Tutte le decisioni prese in tal senso costituiscono quello che si definisce il piano o progetto editoriale, un lavoro di squadra piuttosto articolato. Che cos’è il progetto editoriale? Un progetto editoriale rispecchia da un lato il lavoro di un qualsiasi giornale, sia esso cartaceo o televisivo, e dunque le scelte che questo adotta nel definire i contenuti che intende comunicare, dall’altro ciò che i suoi fruitori si aspettano da esso. Referente ultimo sono i lettori con i quali la testata si confronta, più o meno direttamente, e ai quali essa risponde di scelte e decisioni prese nel breve e nel lungo periodo. Vedremo più avanti, nello specifico, il rapporto bidirezionale che si instaura tra giornale e lettore, fermo restando che si tratta comunque di un aspetto imprescindibile dell’attività editoriale, le cui implicazioni sono molteplici ed onnipresenti. Dedichiamoci ora ad un’analisi approfondita del piano editoriale e degli elementi di cui esso si compone.

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1. Le fasi del piano editoriale

Qualsiasi contenuto editato che ci troviamo di fronte, anche di una certa complessità espositiva, è il prodotto di una pianificazione editoriale, sia che si parli di giornali che di siti internet, produzioni audio-video, libri, etc. Ciò significa che esso ha alle spalle una costruzione strategica, basata sugli aspetti fondamentali di ogni processo di "presentazione" di un qualsiasi messaggio. Tale pianificazione definisce i modelli e i contenuti che andranno offerti. Editare viene dal latino "edere" (edo edis ...) ovvero, letteralmente, "mettere fuori", che col tempo si è arricchito, oltre che del più poetico "dare alla luce", di altri significati affini quali "pubblicare", nel senso di “rendere pubblico” ovvero di sottoporre all’attenzione di coloro che ne sono estranei. Il primo passaggio di questo "pianificare" consiste nell’individuazione del messaggio che si vuole trasmettere, del destinatario cui ci si rivolge e quindi del mercato che si potrà avere. Questa prima fase può essere riassunta in tre punti fondamentali: − descrivere brevemente l'idea, cioè il messaggio e il contributo da trasmettere; − definire uno o più pubblici di riferimento, cioè chi fruirà dell’informazione, chi godrà del contenuto ricevuto e come, eventualmente, interagirà in modo co-creativo con il prodotto editoriale; − analizzare in che contesto si inserisce il risultato del lavoro editoriale, ovvero conoscere la situazione del settore al quale ci proponiamo. È bene essere inoltre consapevoli delle potenzialità di sviluppo della testata, della sua capacità di resistenza o di consenso, a seconda che ci si trovi all'interno di uno scenario competitivo o di collaborazione. Tante altre sono le piccole o grandi variabili che possono determinare la necessità di

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trasformare in un senso o in un altro, e dunque di adattare, la forma del nostro contenuto o il contenuto medesimo. Ciò che segue questa prima fase preliminare, durante la quale il contenuto, passato al vaglio dei suddetti filtri analitici, è stato definito, è stabilire gli obiettivi editoriali e le soluzioni per raggiungerli, nonché i tempi entro i quali tutto questo dovrebbe avvenire. Di solito in un piano editoriale gli obiettivi sono strettamente connessi a richieste che provengono dall'alto, ovvero da chi gestisce in termini economici il lavoro della testata. Sono tali vertici a determinare, nelle linee generali, i contenuti e la forma secondo cui questi saranno editati. Obiettivo di qualsiasi progetto editoriale è, oltre a quello più nobile di informare, quello di “fare cassa” ovvero conquistare, nel vero senso della parola, una fetta quanto più ampia di mercato. È dunque necessario adottare scelte appropriate alla nicchia di riferimento e al contempo adatte a stabilire un legame con nuovi fruitori. Un progetto editoriale ha dunque alle spalle un piano economico o business plan che definisce in modo chiaro le risorse disponibili. Seguendo le preferenze del mercato è possibile raggiungere gli obiettivi editoriali prefissati. I tempi entro cui il processo deve di volta in volta concludersi dipendono dal singolo giornale e dalla frequenza con la quale questo si confronta col pubblico.

2. Previsione costi e ricavi

Fase fondamentale del processo editoriale per proseguire o avanzare un’iniziativa nel mondo delle pubblicazioni, è quella relativa alla previsione di costi e ricavi. È necessario avere le idee chiare prima di affrontare le considerevoli spese che la creazione di un prodotto editoriale richiede. Diverse sono le variabili che l’editore considera quando decide di inserirsi sul

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mercato. In prima istanza si stabilisce quale fetta di mercato si vuole aggredire. Ciò significa prevedere, attraverso apposite ricerche di mercato, quante copie è possibile strappare alla concorrenza con il nuovo prodotto. È l’editore a stabilire quale è la piazza più conveniente sulla quale agire. Una volta individuato il mercato, si definisce la struttura del nuovo prodotto, ovvero il tipo di rivista o giornale che si vuole editare. È importante che questo sia concorrenziale rispetto a quelli già presenti sul mercato, ma che al contempo rappresenti un valido modello alternativo. Il giornale deve attirare a sé quel pubblico di lettori finora fedeli ad un’altra testata. Nel definire la struttura del prodotto editoriale concorrono non solo le riflessioni relative al mercato che si aspira conquistare ma anche quelle relative ai costi delle diverse componenti per la produzione del giornale stesso. È importante definire un budget in base al quale sono determinate le diverse variabili. Prima tra queste il costo del lavoro, ovvero il costo delle figure professionali necessarie a portare avanti un progetto complesso quale è quello editoriale. Si fa dunque una previsione del numero di giornalisti, grafici, impiegati ed operai che l’azienda può assumere in base al costo dei diversi contratti di lavoro e del budget disponibile. Le cifre ottenute dalle ricerche sono indicative anche della qualità del prodotto editoriale. Una figura professionale più specializzata ha un costo più elevato per l’impresa ma garantisce al contempo un giornale o una rivista di qualità, che può rivolgersi quindi a un pubblico di livello intellettualmente elevato. È importante che i giornalisti siano scelti in considerazione del tipo di prodotto che si vuole produrre e del tipo di mercato che si vuole raggiungere. La testata e il lettore possono, attraverso la figura del giornalista, instaurare un legame. Anche la parte industriale del processo editoriale ha dei costi, che devono essere inclusi nella previsione annuale della testata. Lo stabilimento di stampa, le materie prime, carta e inchiostro, e gli operai addetti alla fase finale della produzione, incidono sul budget e i margini di profitto si assottiglino.

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Obiettivo ultimo dell’azienda è incrementare gli attivi a scapito delle imprese presenti sul mercato che essa intende aggredire. Un esempio di giornale ideato per battere la concorrenza attraverso schemi e contenuti alternativi è Il Giorno. Il quotidiano nasce per iniziativa dell'editore italo-francese Cino del Duca, che il 27 settembre 1955 costituisce la Società Editrice Lombarda (SEL). La nuova testata sfida l'egemonia sul mercato milanese de Il Corriere della Sera nato quasi un secolo prima. Il primo numero de Il Giorno esce il 21 aprile 1956, sotto la direzione di Gaetano Baldacci, giornalista prelevato dal giornale concorrente dallo stesso Del Duca. Il modello di riferimento del nuovo quotidiano è il londinese Daily Express. La struttura, lo stile ed il linguaggio scelti per Il Giorno fanno sì che il giornale rappresenti un concreto ostacolo alle vendite de Il Corriere, la cui produzione si convince, nei primi anni Sessanta, che la testata debba rinnovarsi. L’obiettivo di conquistare con un giornale generalista una fetta di mercato, portandola via alla concorrenza, è stato raggiunto da parte dell’editore Del Duca e del giornalista Baldacci grazie all’ideazione di schemi nuovi e contenuti alternativi rispetto a quelli già fruibili. Importante differenza ha fatto la scelta del linguaggio: non più indirizzato ad un pubblico elitario, il linguaggio de Il Giorno, moderno e scattante, è un quotidiano alla portata di qualsiasi lettore, comprensibile e facilmente accessibile. Per fare ciò la testata si è servita di giornalisti con le capacità giuste per intercettare nuovi lettori grazie alla fruibilità dei loro articoli, in grado al contempo di fare inchieste di qualità e, non ultimo, di soddisfare gli interessi dell’editore. Caratteristica distintiva del nuovo giornale è la prima pagina a vetrina, stampata in rotocalcografia, tecnica di stampa incavografica che rende la parte stampata in incavo rispetto al resto della pagina. Cambia inoltre la titolazione che è ora pragmatica, strutturata, contenente nel suo slogan il significato che il servizio vuole trasmettere. Il titolo di apertura, in sette colonne, è di politica estera e al posto dell'usuale articolo di fondo, un articolo scritto dal direttore responsabile del giornale, vi è una breve

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"Situazione" della prestigiosa firma di Baldacci. Il Giorno voleva stupire, suscitare nuove reazioni, essere dissacrante. « Se abbiamo fatto una prima pagina uguale o simile a quella del Corriere dobbiamo chiederci dove abbiamo sbagliato», così diceva Baldacci ai suoi collaboratori. Nell'estate del 1959, a soli tre anni dalla sua nascita, Il Giorno si colloca tra i maggiori fogli nazionali, raggiungendo le 150.000 copie. Un ottimo risultato anche se Il Corriere resta il quotidiano più venduto, i cui numeri superano le 400.000 copie.

Figura 1

Figura 2

Fig 1. 12 settembre 1973 – prima pagina de Il Giorno Fig 2. 5 marzo 1876 – prima pagina del Corriere della Sera

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Altro esempio che dimostra come una realistica previsione dei costi e dei ricavi e la scelta di modelli alternativi siano due elementi chiave per sottrarre lettori alla concorrenza, è quello de La Repubblica. Il primo numero del giornale esce nel 1976 grazie a Eugenio Scalfari, già direttore de L’Espresso, e del futuro capo della redazione politica Lucio Caracciolo. Il giornale si presenta al pubblico in un formato più piccolo rispetto a quello classico ed esce dal martedì alla domenica, per risparmiare sui costi di gestione. Rinuncia a pubblicare tutte le notizie, mancano, infatti, lo sport e buona parte della cronaca, per dare ai lettori articoli di approfondimento su cui riflettere. La Repubblica vuole essere un "secondo giornale", con le sole notizie importanti a livello nazionale, adatto ad un pubblico che ha già letto i fatti del giorno sull’abituale quotidiano cittadino. Per i primi anni di vita il giornale tratta esclusivamente temi di politica interna ed estera, strutturandosi secondo il modello francese Le Monde. Il pubblico di riferimento di tale giornale è, soprattutto nel primo periodo, quello della media borghesia, oltre agli intellettuali cattolici e di sinistra. Si tratta di una nicchia elitaria di lettori, che può acquistare un giornale il cui prezzo è quasi il doppio rispetto a quello degli altri quotidiani. In Italia tuttavia il modello Le Monde non ebbe fortuna. Gli italiani non sono abituati ad acquistare più giornali al giorno per avere una panoramica completa dei principali avvenimenti che coinvolgono il Paese. Preferiscono piuttosto un unico quotidiano che tratti tutti i temi, in particolar modo la cronaca. Tale considerazione e le scarse cifre delle vendite spingono la direzione della testata a definire un nuovo piano editoriale, che prevede, tra le altre cose, l’approfondimento della cronaca. Vengono assunte nuove figure professionali selezionate dal bacino di altre due testate quali Paese Sera e L’Unità, fondato quest’ultimo da Gramsci nel 1924. Si raggiunge il numero di cento giornalisti e non più quaranta, anche se iperspecializzati. Viene inoltre istituita la figura del redattore capo alla guida della gestione della macchina editoriale. Nel 1979, con una tiratura media di 180.000 copie, La Repubblica raggiunge

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il pareggio di bilancio. La seconda iniezione di organici ha luogo negli anni Ottanta e ciò comporta da un lato un aumento dei costi dell’azienda – ora il giornale esce tutti i giorni e i giornalisti di turno la domenica vengono pagati in straordinari – dall’altro un amento dei ricavi, grazie alle copie vendute che nel 1989 sono ben 627.000. Altro importante cambiamento, direttamente proporzionale al successo del giornale, è, ancora una volta, relativo ai contenuti: aumentano le pagine e il giornalista Gianni Brera è la figura a capo della nascente sezione sportiva. Il giornale adotta la cosiddetta formula omnibus, diventando un quotidiano che tratta tutti i temi, dalla cronaca alla politica, dallo sport alla cultura, diretto a un pubblico di lettori ampio ed eterogeneo. Da quel momento in poi, la concorrenza col Corriere della Sera si è giocata sui costi.

Figura 4

Figura 3

Fig. 3. 14 gennaio 1976 – prima pagina de la Repubblica Fig. 4. 8 maggio 1954 – prima pagina di Le Monde

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Per pareggiare i bilanci si lima sui costi di gestione. L’unica azienda editoriale che ha raggiunto il pareggio di bilancio nei primi anni di attività sul mercato è quella che edita Il Fatto Quotidiano, l’Editoriale Il Fatto S.p.A., una società per azioni priva di azionista di controllo. L’assenza di un’azionista di maggioranza è significativa: il quotidiano si propone come voce indipendente nel panorama giornalistico italiano, avente come unico riferimento la Costituzione. Il successo ottenuto dal giornale, nato nel 2009 ad opera di Antonio Padellaro, è almeno in parte riconducibile alla controversa situazione politica italiana di quegli anni. Due sono i principali motivi che spiegano le 120.000 copie vendute: la linea alternativa del quotidiano sotto il profilo dei contenuti – il giornale da notizie e tratta temi che gli altri media trascurano - e la lotta intrapresa dalla testata contro la monopolizzazione del sistema dell’informazione che il leader politico Berlusconi stava attuando. È dello stesso Padellaro (2010) la dichiarazione di indipendenza della testata: « Avevamo detto: proviamo a fare un giornale che abbia una proprietà e non un padrone. Che non debba mai chiedere il permesso a nessuno». Il successo iniziale del quotidiano non è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni tuttavia nel 2011 si è registrata una tiratura di oltre 147.000 copie. Ciò dimostra che il cardine de Il Fatto Quotidiano non è solo la situazione sociale, politica ed economica del Paese, che la testata si propone di sviscerare nei suoi aspetti più bui, ma anche un’efficace gestione della proprietà del giornale, un’accurata e quanto più realistica previsione dell’impatto dello stesso sul mercato italiano. Attraverso questi esempi si è voluta sottolineare l’importanza che la previsione e il monitoraggio di costi e ricavi ha nel processo di creazione e produzione del prodotto editoriale. La testata che sa meglio gestire il proprio budget, il proprio staff e i propri rapporti col pubblico è quel giornale che ottiene maggiori ricavi a costi concorrenziali. Tale previsione non si basa tuttavia solo sul numero di copie vendute, indice del grado di apprezzamento

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dei lettori nei confronti del giornale, ma anche sul gettito pubblicitario. È necessario che l’azienda editoriale valuti la propria disponibilità economica da investire in pubblicità, poiché quest’ultima rappresenta, insieme alle copie vendute, la principale fonte di ricavi. Esiste uno stretto rapporto tra le ricerche di mercato relative all’incidenza della testata sul mercato e il gettito pubblicitario. È una relazione automatica: l’agenzia valuta i propri clienti in base al grado di visibilità che i prodotti che essa pubblicizza possono ottenere. Per concludere, le domande che è necessario porsi quando si intende proporre un nuovo prodotto editoriale ad un determinato mercato sono fondamentalmente due: quanto capitale impegno a fondo perduto nel progetto? Quanto tempo e attraverso quali strumenti prevedo di raggiungere la linea di pareggio (costi=ricavi)? Ciò che è fondamentale è la capacità della testata di adeguarsi al mercato, pur proponendo un modello alternativo, e di valutare e modulare le proprie scelte in base ai comportamenti della concorrenza. Il discorso fatto finora sull’imprescindibile necessità di fare un’accurata e il più possibile realistica previsione di costi e ricavi è valido anche per gli altri mezzi di comunicazione quali la televisione e la radio, che, come la carta stampata, devono conquistare una quanto più ampia fetta di mercato entro le possibilità consentitegli dal proprio budget.

3. I profitti della testata: la pubblicità

Ogni giornale, così come ogni rivista, ha un editore, che talvolta condivide con un’altra testata. La figura dell’editore è essenziale dal punto di vista economico ma anche per ciò che concerne l’identità del giornale. La testata ha bisogno di un'unica vision, di qualcuno che si assuma la responsabilità, che sopporti il peso della sconfitta, quando le cose vanno male. Da tale figura dipende il modo di lavorare dell’intero staff e l’azione di strategie di business

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più o meno efficaci. Il mercato delle pubblicazioni è ampio e redditizio. Ciò che è possibile guadagnare soltanto attraverso la pubblicità si aggira in USA e in Canada intorno ai 16 bilioni di dollari all’anno. Si tratta di un bel business e sta crescendo. Così come ricordato dallo scrittore ed editore John Morrish nel suo libro Magazine Editing: How to Develop and Manage a Successful Publication (2003), per farsi strada nel mercato dell’editoria può essere utile seguire il consiglio dei giornalisti Carl Woodward e Bob Bernstein, adottato nel famoso caso Watergate: “seguite i soldi”. I giornali e le riviste dipendono primariamente dai soldi delle vendite, cioè dai lettori. La seconda fonte di ricavi è rappresentata dalla pubblicità. Alcune pubblicazioni ricevono inoltre un appoggio esterno attraverso finanziamenti da parte di chi ha qualcosa da promuovere o segue i propri interessi. A proposito di quest’ultimo è bene sottolineare che le aziende che investono in esso sono piuttosto numerose, nonostante si tratti di una strada insidiosa. La pubblicità, per quanto fonte di ricavi da parte della testata, non è mai la ragione del suo esistere e resistere sul mercato. Il supporto del lettore a giornali

e

riviste

resta

la

più

importante

variabile

per

valutare

l’apprezzamento di una pubblicazione. Non c’è da fidarsi di un editore unicamente interessato ai soldi, ma nemmeno di uno che non lo è affatto. In un settore commerciale, qual è quello dell’editoria, fare soldi è parte dell’essenza della pubblicazione e rappresenta un elemento di convalida dell’efficacia dell’attività. Il profitto è una misura che ci permette di valutare se le figure professionali e le risorse dell’azienda sono impiegate efficacemente. Un giornale o una rivista con buoni guadagni è una pubblicazione richiesta dal pubblico, apprezzata e che ha guadagnato il proprio diritto di stare sul mercato. Ci sono pubblicazioni che sono in costante perdita poiché ciò che fanno sì che l’editore ottenga non sono guadagni di natura economica, tra i quali l’ingresso in un particolare gruppo professionale o sociale, la dichiarazione

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della posizione della proprietà, la dimostrazione del talento della testata. Altre pubblicazioni si pongono come ultimo obiettivo la promozione di una causa. Tutti questi sono tipi diversi di “vanity publishing”, ovvero di pubblicazioni che rappresentano un vanto e un motivo di orgoglio per l’editore, non una vera e propria fonte di ricavi, quale è un prodotto commerciale. Si tratta tuttavia di casi piuttosto isolati nel panorama editoriale. Ciò che accade la maggior parte delle volte è che l’editore punti al profitto economico, marchio di successo, indipendenza e longevità. Uno dei più importanti contributi sugli imperativi dell’editore è quello di John Wharton nel suo libro Managing Magazine Publishing (2002). L’autore scrive franco: “ senza profitto una rivista non ha alcun senso o scopo e gli sforzi delle persone coinvolte sono sforzi vani”. Aggiunge poi che non tutto il profitto è, come accennato sopra, di tipo finanziario e che le riviste possono raggiungere altri obiettivi per i loro proprietari, ma, nel complesso, ciò che Wharton enfatizza è il successo commerciale, di cui ritiene l’editore il responsabile. Gli editori cercano le nicchie di mercato nelle quali introdurre la nuova rivista. Ciò significa catturare l’attenzione di un gruppo di lettori simili tra loro e con un interesse comune e non dei pubblicitari giusti, questa è solo una conseguenza. Le prospettive a lungo termine di una rivista dipendono in misura maggiore dall’accontentare i lettori e non dal fare felici i pubblicitari. Gli editori devono raggiungere buoni numeri. È il numero dei lettori e il loro potere d’acquisto che deve essere sufficiente ad attrarre abbastanza pubblicità che permetta all’azienda di sostenere i costi della pubblicazione. Una volta che il giornale è sul mercato, l’editore deve mantenere alti gli introiti e basse le spese. Il giornalismo è costoso e può portare alla perdita di bilancio. Così come Wharton afferma “gli editori e i giornalisti devono accettare che nel brutale mondo di giornali e riviste non andrebbe presa alcuna decisione che possa nuocere al profitto della testata o dell’azienda”. In ogni modo, è necessario

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operare in modo equo nei confronti di chiunque, dei lettori, delle fonti, dei pubblicitari reali e potenziali, considerati in gruppo o in quanto singoli. Il linguaggio di perdita e profitto è univoco, non ambiguo. Chi ne segue le regole ha il vantaggio di avere obiettivi chiari e percorsi lineari per raggiungerli. Tuttavia non è la contabilità la chiave per il successo quando si tratta di pubblicare un giornale o una rivista. La nuova industria editoriale è altamente competitiva e commerciale ma deve la sua esistenza ad editori e redazioni. Sono sempre i lettori a stabilire il valore di una pubblicazione. Alcun apprezzamento riceveranno un giornale o una rivista privi di valore editoriale. Se ottenere profitto è l’imperativo dell’editore, cos’è richiesto alla redazione? La risposta più frequente a questo interrogativo è “dire la verità”, ma ciò significa troppo o troppo poco. La realtà è che nessuna pubblicazione può dire soltanto ed interamente la verità, quest’ultima è solo un aspetto verso il quale tende la redazione, una guida. L’imperativo della redazione è quello di suscitare l’interesse di un particolare gruppo di lettori cercando informazioni nuove e rilevanti, garantendo che siano presentate con accuratezza e in forma accessibile. La pubblicità, pur essendo, in termini economici, uno dei pilastri della testata va gestita in modo rigido e attento. Un atteggiamento di distanza garantisce l’indipendenza e l’integrità della testata. Vi sono dei limiti all’influenza della pubblicità, cosa che i redattori sottolineano sempre ai nuovi assunti dell’azienda. È importante inoltre che la rivista sia adatta ad accogliere la pubblicità senza che sia necessaria alcuna opera di convincimento nei confronti dei pubblicitari. I numeri supplementari e nuovi prodotti editoriali possono agevolare dal punto di vista commerciale. Ciò che bisogna rifiutare è la possibilità che la pubblicità influenzi in qualche modo i contenuti della pubblicazione. Le decisioni prese in tal senso devono essere oneste e coerenti all’identità della testata. A parte questo il settore dell’azienda dedicato ad occuparsi delle inserzioni pubblicitarie deve essere libero e autonomo di

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esercitare la propria persuasione e il proprio ruolo. L’unica strategia che davvero conta nel valutare la pubblicità è il calcolo spietato della sua efficacia. L’editoria è un settore creativo ma la sua amministrazione e la sua componente manageriale devono essere padroneggiate. Una rivista è sempre più dell’insieme delle sue parti, ha una propria essenza, una propria personalità. L’editore ha un ruolo decisivo, che non andrebbe mai dimenticato, nel formare tale personalità. Da una parte la fraternità con la pubblicità, motivata e guidata dai soldi, e dall’altra l’editore, i cui obiettivi comprendono anche la parte creativa di scrittura ed immagine della testata.

4. Il ruolo dell’editore nella riduzione del budget

Come può agire il redattore per difendere il budget editoriale? È in grado di resistere alle pressioni per un taglio dei costi? Seguendo gran parte delle impostazioni giornalistiche, lungo la direzione indicata da Frank Finn (1991), si ritiene che da quando la redazione non ha una propria rete di ricavi, gli editori si persuadono che i tagli di bilancio non compromettano il reddito, almeno non nel breve periodo. "I lettori non lo notano", assicura l'editore (a se stesso). Il redattore si troverà ad essere tra l'incudine e il martello. Da un lato verrà ritenuto fuori dalle realtà aziendali dall’altro farà il possibile affinché il lavoro e gli sforzi editoriali non siano paralizzati dalla mancanza di fondi. I lettori e gli inserzionisti sono in grado di percepire l'indebolimento della testata e, presto o tardi, ciò porta al calo dei ricavi e degli introiti pubblicitari. L’editore, nel valutare la decisione di un taglio dei costi, può adottare, a volte singolarmente altre consultandosi con la redazione, i comportamenti migliori per evitare un calo nella qualità del prodotto editoriale. La risposta migliore alle situazioni difficili è quella di passare

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all'offensiva per far sì che il livello di investimenti in prodotti editoriali di qualità si mantenga alto. Diverse sono le strategie che si possono adottare : 1. Tracciare una posizione -

È bene che l’editore inizi col determinare la quantità minima di denaro necessaria per portare a termine il lavoro. L’editore perde di credibilità se non fa un serio sforzo per ridurre il budget.

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Deve evitare di restare intrappolato nelle sue stesse previsioni, ciò che può adottare è il cosiddetto zero-based budgeting. Con questo metodo si inizia da zero, dimenticando i numeri dell’anno passato e ripianificando le spese da capo. Come strutturare il personale se si stesse ricominciando? È opportuno avvalersi del supporto di costosi collaboratori freelance? O è invece preferibile reclutare nuove figure professionali, con meno esperienza e dunque con meno pretese sulla paga?

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Deve inoltre guardare oltre le principali voci di bilancio - gli stipendi, i manoscritti, l’arte e la fotografia - per trovare risparmi in settori quali i viaggi, gli abbonamenti, le compagnie telefoniche e i trasporti aerei. I numeri sono più piccoli, ma si moltiplicano rapidamente.

2. “Drammatizzare” -

Se l’editore confessa ai colleghi della sezione amministrativa che tagliare il budget significa che non sarà in grado di permettersi gli scrittori e fotografi che desidera utilizzare, probabilmente avrà in risposta sguardi fissi nel vuoto. Otterrà la loro attenzione se è, al contrario, in grado di dimostrare che la riduzione della qualità editoriale potrebbe costare loro annunci di vendita o rinnovi.

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Il modo migliore di “drammatizzare” l'editoriale screditato e danneggiato è quello di mostrare come la rivista subirà il confronto con la concorrenza. Ci sono settori popolari tra i lettori che

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distinguono la testata dalle altre che avrebbero dovuto essere sacrificati? Può essere il caso di noti collaboratori del quale talento professionale si può fare a meno, danneggiando ulteriormente la credibilità nei confronti di lettori e inserzionisti. -

Spesso l'editoriale che fa guadagnare alla rivista il massimo rispetto da parte dei lettori e degli inserzionisti è il più costoso da produrre. Le riviste che indeboliscono la loro posizione sul mercato, abbandonando le caratteristiche editoriali che le distinguono non riusciranno a recuperare il loro vantaggio competitivo.

3. Promuovere il valore -

Si dovrebbe sempre vantare la qualità del prodotto editoriale. Anche nel bel mezzo di una battaglia di bilancio, si potranno raccogliere punti citando prove di apprezzamento del lettore per il lavoro svolto.

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Le lettere al direttore che elogiano in particolare gli articoli faranno da contrafforte alla tesi del redattore di mantenere il budget inalterato. I sondaggi tra i lettori possono inoltre mostrare il grado di apprezzamento del pubblico per gli articoli e i servizi della rivista, in particolare quelli che mostrano che i servizi e le caratteristiche sono lette da molte persone.

4. Toccare alleati business-side -

Editori e direttori pubblicitari spesso combattono, ma questo non significa che il risultato non sia un prodotto editoriale forte. Mettendo da parte le differenze, si coglie che una rivista che attira i lettori è anche più facile da vendere agli inserzionisti.

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Fare appello al direttore della stampa e a quello della pubblicità espone la redazione alle critiche di entrambi sul lavoro editoriale. Non è necessario adottare tutti i loro suggerimenti per guadagnarsi il loro

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sostegno. Anche soltanto ascoltare con serietà le loro opinioni li renderà più disponibili. 5. Trovare efficienze produttive -

Col direttore di produzione la redazione può discutere sul budget editoriale e sul modo per minimizzare i costi di produzione. Non tutte le spese dipendono dal lavoro e dal budget della redazione ma alcune dipendono dalle scelte editoriali e di progettazione. L'editore probabilmente non si cura del fatto che risparmierà di più sulla produzione e meno sul lavoro editoriale se raggiunge il target di bilancio previsto.

-

Il primo passo per risparmiare sulla produzione è in fase di prestampa. Pianificare una sessione con il direttore artistico e il direttore di testata per rivedere i costi della pre-stampa consente di constatare che si può fare a meno di alcuni elementi di design, la fotografia o la stampa in quadricromia ad esempio, se il budget non consente altrimenti. È bene che il direttore artistico sia a conoscenza del costo di questi effetti di progettazione e che preveda alternative meno costose.

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Il secondo passo per recuperare fondi è nella fase di configurazione e composizione del programma. La disciplina in questa fase aiuta ad evitare gli sprechi e a proteggere il lavoro editoriale con un buon margine di risparmi.

5. La pianificazione strategica nel processo editoriale Il progetto editoriale è un prezioso strumento, così come tanti altri processi analitico-scientifici del settore comunicativo, di cui abbiamo spesso una superficiale consapevolezza. La pianificazione non è una nuova varietà del peccato di presunzione, come sosteneva anche il filoso francese Jacques

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Maritain, o la semplice volontà di avere tutto sotto controllo, ma piuttosto un elemento imprescindibile, anche se talvolta trascurato, del processo di “mettere fuori” contenuti. I messaggi devono essere trasmessi nella forma più chiara e fruibile, in considerazione dell’importanza di un aspetto, già più volte ribadito, ovvero il ruolo del pubblico. È quest’ultimo il fruitore finale della pubblicazione, nonché la fonte di critica o apprezzamento. Si crea dunque la necessità da parte di qualsiasi giornale di considerare sempre più attentamente i contenuti e le scelte stilistiche da adottare in relazione al mercato di riferimento. Ecco quindi che “presentare” diventa un aspetto ineludibile del processo di creazione del prodotto giornale, alla pari della produzione dei suoi contenuti (MEDIAXION, 2010).

In sintesi, il progetto editoriale o pianificazione strategica consiste nella traduzione degli obiettivi strategici individuati in obiettivi di comunicazione e nella scelta di strumenti e attività idonee al loro raggiungimento (Epifani, 2007).

6. Gli elementi comunicativi del prodotto giornale

Se il piano editoriale si caratterizza come un processo risultante dalla definizione di obiettivi strategici, quali sono dunque gli elementi di cui il giornale dispone per comunicare? In base a quali considerazioni ne vengono adottati alcuni e tralasciati altri? Vedremo in questo paragrafo quali sono i principali elementi comunicativi e quali le implicazioni nel confezionamento del prodotto giornale. Gli elementi comunicativi - contenuti, immagini, layout - sono svariati e con finalità

tra

loro

differenti.

Hanno

tuttavia

come

minimo

comun

denominatore la trasmissione chiara e piacevole dei contenuti. Un buon prodotto editoriale si distingue per l’accuratezza dei contenuti, per l’editing, ma anche per la qualità delle immagini, la scelta dei materiali e

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l’impostazione grafica. Gli elementi comunicativi sono indispensabili per illustrare le caratteristiche di una qualsiasi azienda o di un prodotto o servizio al fine di aumentarne notorietà e risonanza. Come già detto, i contenuti variano a seconda della testata, ovvero a seconda del target di riferimento. Nel caso di un periodico, il messaggio da trasmettere è scelto in base alla sua capacità di incontrare i gusti del pubblico, oltre che, chiaramente, alla sua rilevanza. Per quanto riguarda l’editing e le scelte grafiche, vale lo stesso discorso: il prodotto giornale è il frutto delle decisioni prese in relazione al fruitore finale, alle capacità comunicative di coloro che lavorano al progetto editoriale e all’identità del prodotto medesimo. Di questo ultimo aspetto discuteremo tuttavia più avanti, nell’analizzare cosa si intende quando si parla di identità del giornale. Ciò che è rilevante sottolineare è il ruolo essenziale di ogni elemento comunicativo, contenuti, materiali, impostazione grafica etc., nel processo di ideazione e produzione di prodotti editoriali e nella scrittura professionale per la stesura di testi efficaci, chiari e di grande qualità creativa e formale (UDB Studio, 2011). I paragrafi seguenti approfondiscono le scelte grafiche.

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III. Il Graphic Design

1. Un processo creativo

Il Graphic Design si è sviluppato per più di cento anni e attraverso tre secoli – dal suo primo riconoscimento come arte commerciale nel tardo XIX secolo, alla coniatura del termine da parte di William A. Dwiggins 1922, fino alla sua posizione attuale come disciplina di comunicazione visiva che comprende una miriade di specializzazioni. Nel corso dei decenni la professione ha attraversato diverse fasi, diventando da accademica, a pratica, a tecnologica. Ciò ha fatto sì che si stabilissero via via una serie di principi attraverso i quali il

Graphic

Design

può

essere pensato, capito, classificato, e

praticato.

Cogliere la varietà di termini, definizioni, tecniche e processi è essenziale per comprendere tale progettazione grafica. Il Graphic Design è un processo creativo, che coinvolge e congiunge il designer e l’utente, intrapreso al fine di comunicare uno o più messaggi informativi e emozionali. Nonostante si tratti di una disciplina con una storia relativamente breve, tanti sono gli esempi di attività di questo genere fin dagli esordi dell’umanità: dalle cave di Lascaux alla Colonna di Traiano, ai manoscritti decorati con iniziali, bordi e miniature del Medio Evo, agli

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abbaglianti neon di Ginza. Nella sua lunga storia e nella recente esplosione della comunicazione visiva nei secoli XX e XXI vi è una distinzione sfocata e una sovrapposizione di pubblicità, graphic design e arte, che condividono molti elementi, in particolare, le teorie, i principi, le pratiche e i linguaggi e lo stesso cliente/utente finale. Obiettivo ultimo della pubblicità è la vendita di beni e servizi. Nel Graphic Design, come afferma il graphic designer, professore e storico Philip B. Meggs (1983), “l’essenza è dare ordine alle informazioni, forma alle idee ed espressione e sentimento ai prodotti dell’esperienza umana”. Il termine graphic design è usato spesso in relazione ad altre discipline professionali

affini

quali

il

Communication

Design

e la

Visual

Communication, anch’esse focalizzate sulla presentazione grafica del messaggio. Vari sono i metodi utilizzati per creare e combinare tra loro parole, simboli ed immagini nel tentativo di produrre una rappresentazione grafica dell’idea o del messaggio, o più semplicemente di far sì che quest’ultimo sia correttamente offerto, non solo dal punto di vista dei contenuti ma anche della presentazione o veste grafica. È dunque un progetto parallelo, o per meglio dire parte del progetto editoriale stesso, che contribuisce ad ottenere il prodotto finito in tutte le sue determinanti. Un graphic designer può adottare una combinazione di tipografia, arti visive e tecniche di layout della pagina, per ottenere il risultato finale. La professionalità degli esperti del settore è richiesta ed applicata in editoria, e quindi in giornali, quotidiani e libri, nelle strategie di branding, relative cioè all’identità e alla testata, in pubblicità e nelle scelte di confezionamento di un prodotto, il cosiddetto packaging.

2. Communication design e visual communication

Come accennato sopra, discipline affini al Graphic Design sono il Communication Design e la Visual Communication.

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La prima è un mix di design e sviluppo dell’informazione che copre tutti quegli ambiti in cui l'ideazione e la scelta dei contenuti è in buona parte correlata alla loro comunicabilità visuale. Il Design della Comunicazione si propone

di attrarre, ispirare,

creare desideri e

motivare le

persone

a rispondere ai messaggi, avendo un impatto positivo nel valutare il lavoro del designer, sia che si tratti di creare un marchio e conquistare mercato, sia che gli scopi siano di carattere umanitario. Il processo, alla cui base stanno spesso ricerche di mercato, implica il possesso di un pensiero strategico di business e di capacità di problem-solving oltre che di creatività. Esempi

di

design

della

comunicazione

includono

l'architettura

dell'informazione, l’editing, la tipografia, l’illustrazione, il web design, l’animazione, l’advertising, l’ambient media, il visual identity design, di cui parleremo più avanti, le arti performative, il copywriting e la scrittura professionale nelle industrie creative. Communication design è il termine oggi usato anche per definire la progettazione di un qualsiasi prodotto di comunicazione purché questa sia comprensiva di tutti i livelli, dalla strategia alla creatività, fino all'esecuzione tecnica. La seconda disciplina affine al graphic design è la Visual Communication, che così come il nome stesso suggerisce, è la comunicazione che avviene attraverso un supporto visivo. È descritta come la trasmissione di idee ed informazioni in forma scritta o osservabile. La Visual Communication è basata, a seconda dei casi, in parte o interamente, sull’elemento visuale ed è principalmente presentata o espressa con due immagini dimensionali. Include: segni, tipografia, disegno, graphic design, illustrazione, colore e risorse elettroniche. Secondo tale disciplina, inoltre, un messaggio visuale accompagnato dal testo ha notevole forza espressiva nell’informare, educare o persuadere il singolo o il pubblico. Secondo alcuni Visual Design è il termine corretto per indicare tutti i tipi di design, ovvero di progettazione, applicati alla comunicazione che utilizzano canali visuali di trasmissione del messaggio. Questo perché il termine è legato

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al concetto di linguaggio visivo, o visuale per meglio dire, di alcuni media che non si limita a veicolare e supportare una particolare forma di contenuto, come invece fa, ad esempio, il graphic design.

Il Graphic design è creato per una specifica audience. Il messaggio è intenzionalmente proposto, trasmesso e quindi ricevuto dal fruitore. Ogni volta che guardiamo una pubblicità o vediamo un logo, siamo gli utilizzatori finali di un processo di comunicazione avvenuto attraverso il design. È l’interpretazione del fruitore di graphic design fondamentale? Il graphic design è un’arte che permette di esprimere se stessi? Si tratta di una disciplina che può essere testata, quantificata o valutata scientificamente? È ragionevole che tali considerazioni vengano unificate in un unico punto di vista circa la natura del graphic design. Osservando il lavoro di molti designer possiamo scorgerne l’espressione personale, così come la leggibilità e l’efficacia della tipografia può essere misurata e qualificata. Una pubblicità è realizzata in base al target di riferimento, in considerazione delle caratteristiche dell’audience, testata in focus group e giudicata in base agli effetti che produce nella società (Landa, 2010). Dopo aver individuato il potenziale mercato di riferimento, la rivista può essere curata nei suoi aspetti grafici, pubblicizzata e distribuita. Lo stile è uno degli elementi chiave per conferire alla rivista un proprio carattere. Una rivista può avere uno stile accessibile, amichevole, energico, professionale, attuale, accademico, leggero, impegnato, provocatorio, etc. Anche il formato della rivista stessa influisce inevitabilmente sulle scelte grafiche. Un formato più grande, che richiede anche maggior impegno in fase di progettazione, può avere un impatto visivo maggiore ma può essere meno maneggevole e pratico rispetto ad un formato di medie dimensioni. D’altra parte un formato più piccolo può essere più economico ma non consente di inserire molti dettagli grafici accanto ai contenuti nella stessa pagina poiché il risultato sarebbe caotico e poco accattivante.

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Non ultimo il design comprende una serie di altre componenti quali la scelta dei colori, la griglia di una pagina ed il suo layout e le immagini o le fotografie.

Le

illustrazioni,

nello

specifico,

possono

far

risaltare

considerevolmente una rivista. Possono essere di vario tipo: diagrammi, linee, fotografie, disegni e tanto altro. Tuttavia è bene che gli elementi grafici siano inseriti correttamente per evitare confusione ed effetti indesiderati. Per questo è opportuno che la testata si affidi alla professionalità di figure esperte in materia (Harris, 2004). Una regola base molto generale per ottenere un graphic design che funziona, ovvero un design efficace, è la semplicità. È bene evitare l’abuso di elementi “ingombranti” o visivamente fastidiosi. La presentazione deve essere nel complesso chiara ma al contempo deve rispecchiare l’identità del prodotto editoriale. La funzione del graphic design è quella di comunicare i messaggi attraverso la giustapposizione di parole e immagini. È questa la sintesi di pensiero adottata in forma diversa nelle pubblicazioni, esibizioni, posters e packaging. Il design è tattile, ambientale e interattivo. Rispondendo ai bisogni e ai gusti del pubblico, il graphic design è un medium efficace, che si estende alle esperienze culturali e parla alla società a livello pratico, emozionale ed intuitivo. Coinvolge ed influenza gli aspetti più quotidiani della nostra vita e quelli più estraordinari.

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IV. Editorial Design

1. Il graphic design e il prodotto editoriale

Una delle tante applicazioni del graphic design è proprio nell’editoria. Il moderno design editoriale ha molto probabilmente origine dalla macchina tipografica del quindicesimo secolo del tedesco Johann Gutenberg, la cui tecnica consiste nell’allineare i tipi - piccoli prismi metallici di sezione variabile, su ciascuno dei quali compare in rilievo a rovescio un carattere assemblandoli in linee, e unire queste ultime creando le pagine complete di testo. Ogni matrice relativa ad una pagina viene quindi inchiostrata e successivamente stampata con un torchio pressore. La tipografia (dal greco τύπος, "impronta" e γράφειν, "scrivere") è la tecnologia per produrre testi stampati usando appunto matrici in rilievo composte di caratteri mobili o di clichès inchiostrati. Le operazioni ed i passaggi di cui si compone richiedono competenze non banali e scelte che possono essere assai impegnative sul piano estetico-contenutistico, tanto da giustificare il termine di arte tipografica. Con la Rivoluzione industriale del XIX secolo anche lo sviluppo tecnologico della tipografia compie notevoli progressi. È proprio verso la metà dell’Ottocento

che

due

invenzioni

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italiane

rivoluzionano

il

mondo


dell’editoria permettendo di stampare velocemente e a colori: esse sono la rotativa e la stampa a quattro colori detta quadricromia CMYK. Tali invenzioni si devono ad Auguste Hippolyte Marinoni che prima scoprì che la combinazione di ciano (azzurro), magenta (rosso) e giallo, ovvero dei tre colori primari, permette di ottenere qualsiasi tinta e, successivamente, nel 1866 inventò la rotativa, una macchina in grado di stampare migliaia di copie all'ora su un nastro continuo di carta bianca. Ogni elemento della macchina sovrappone il suo colore agli altri così alla fine l’immagine stampata ha tutte le tinte e le sfumature desiderate. I primi esperimenti di composizione meccanica

portano

nel

1886

alla

realizzazione,

da

parte

dell'americano Ottmar Mergenthaler, della Linotype, la prima macchina per la composizione tipografica meccanica, costituita da una tastiera letterale, simile a quella delle macchine da scrivere, su cui il linotipista compone le parole comandando per ogni singolo tasto una leva che libera la corrispondente matrice situata nel magazzino. Le matrici vanno a disporsi nel compositoio fino a completamento della riga, quindi con un primo elevatore passano alla forma, dove da un crogiolo è immesso il metallo fuso (solitamente piombo) che fonde tutta l'intera riga. Un secondo elevatore affida poi le matrici al meccanismo della distribuzione dove un sistema di prisma e di tre viti elicoidali s'incarica di riporre le matrici nei rispettivi canali del magazzino. La prima macchina fu installata nella redazione americana del New York Tribune. In Italia fu utilizzata per la prima volta il 16 gennaio del 1899. L’abbandono della Linotype si è avuto con il passaggio dalla composizione tipografica a "caldo", col piombo fuso appunto, al cosiddetto sistema a "freddo", ovvero la composizione al computer: un processo tecnologico della stampa che ha dato inizio ad una rivoluzione in tutti i settori produttivi. Le nuove tecnologie sono state applicate alla stampa dei quotidiani a partire dai primi anni settanta. Sono quindi resi disponibili sistemi che consentono di redigere da tastiera documenti che vengono automaticamente organizzati in

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linee e pagine e, dato che il processo di impaginazione di testi tipograficamente

complessi

richiede

di

procedere

per

tentativi,

la

composizione si avvale di videoterminali sui quali si possono vedere rapidamente gli effetti delle richieste del compositore. Con la diffusione del personal computer negli anni '80 tale processo cresce fino a che diventa prevalente il numero degli autori che si occupano anche dei dettagli dell'impaginazione. È con l’evoluzione dei metodi di stampa e l’influenza nei primi anni nel XX secolo delle scuole di arte e design, come ad esempio la Bauhaus, che i designer iniziano ad ottenere il controllo della pagina.

È uso comune ritenere la tipografia il semplice cliccare dei tasti su una tastiera. Per Johann Gottfried von Herder invece: “la tradizione della tipografia deve essere considerata la più duratura, silenziosa ed efficace istituzione di grazia divina, che ha influenzato tutte le nazioni attraverso i secoli e forse creando fratellanza nel genere umano”. La ragione sta, come sempre, nel mezzo, tra le due estreme definizioni di tipografia sopra espresse ve ne è una terza: la tipografia è l’arte di selezionare i caratteri e di disporli nella pagina. Una volta praticata solo da stampatori e designer, è oggi parte della nostra vita quotidiana. Il procedimento è tuttavia decisamente cambiato nel tempo. Prima dell’avvento della digitalizzazione era possibile tenere il carattere tra le mani, un cubetto di piombo sul quale era impressa la lettera. Oggi anche coloro che ignorano le tecniche attraverso le quali avviene il processo tipografico, sono in grado di comporre un file di testo attraverso il proprio

personal

computer.

Tuttavia

senza

alcuna

consapevolezza

dell’importanza dei caratteri, della loro composizione e disposizione nella pagina, ciò che si può ottenere è un caos visivo (Harris, 2007).

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2. La tipografia: un linguaggio multimediale

Il messaggio tipografico è verbale, visivo e vocale. Infatti, anche se la tipografia è generalmente vista in un’ottica quasi esclusivamente limitata al primo dei tre suddetti aggettivi, la si può considerare anche in relazione all’impatto visivo e uditivo. La tipografia è un mezzo di comunicazione dinamico. In questo senso a partire dai primi anni del XX secolo è diventata una forma di comunicazione rivoluzionaria, investendo le parole di un nuova forza espressiva. Durante questo periodo, sotto l’influenza dei cambiamenti sociali e filosofici e delle attitudini della società moderna, si sperimentano nuove tecniche in tutte le arti visive. La tipografia è vista come un potente mezzo attraverso cui trasmettere le informazioni relative alle realtà della società industrializzata. Come Carter, Day e Meggs (2012) sottolineano il messaggio tipografico è diventato una forma espressiva e multisfaccettata di comunicazione. La tipografia deve essere letta, udita ed esperita. Il Typographic Design è un area altamente specializzata del graphic design che si concentra sulla creazione e progettazione di caratteri tipografici.

3. Le finalità dell’intervento grafico

“Il design è il metodo di mettere insieme forma e contenuto. Il design, così come l'arte, ha molteplici definizioni; non c'è una definizione unica. Il design può essere arte. Il design può essere estetica. Il design è così semplice, ecco perché è così complicato”. Paul Rand Plasmare il layout e il ritmo di riviste, giornali e libri – tutti prodotti comprati, letti e raccolti da milioni di persone – attraverso decine di centinaia

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di pagine in collaborazione con redattori, scrittori, fotografi, illustratori ed information designer è il compito dei progettisti editoriali. Con i giornali e le riviste, la sfida e il piacere sono quelli di creare layout unici, seguendo uno stile coerente, inquadrato entro rigide griglie e determinato da imminenti deadline. Come affermano gli scrittori e graphic designer Armin Vit e Bryony Gomez Palacio (2012) indipendentemente dal prodotto finito uno è lo scopo costante dell’editorial design: presentare le informazioni secondo un’efficace gerarchia, scandita da audaci scelte grafiche, che accompagnano il lettore dall’inizio alla fine, catturandone l’attenzione e suscitandone la curiosità. I designer editoriali giocano un ruolo centrale nella produzione di libri, giornali, brochure, cataloghi, e hanno come obiettivo quello di trasformare, dal punto di vista estetico, il testo nudo e crudo e le immagini nel tentativo di massimizzarne leggibilità, impatto e comunicazione. Tutto questo in considerazione della sempre crescente competitività del mercato. Le decisioni circa gli interventi da operare sono prese in relazione al tipo di pubblicazione. Ciascun audience, cui il prodotto editoriale si riferisce, influisce nella scelta di stili, enfasi e layout appropriati. Fa parte dei compiti del designer implementare, in accordo con i vertici della produzione, tali decisioni, fornire le istruzioni per metterle in atto e rispondere degli effetti che queste producono sul mercato. I designer editoriali si concentrano e sono guidati dai contenuti, rappresentando spesso il punto di riferimento per una grande varietà di materiali che va dal semplice testo degli autori, alle immagini dei fotografi e degli illustratori. Ciò che da loro ci si aspetta è di combinare insieme questi contenuti per creare la pubblicazione finita. Al designer editoriale, dunque, non sono richieste mere capacità tecniche ma anche un background culturale. Come Dabner, Calvert e Casey (2009) evidenziano un buon designer deve: -

possedere un’ottima conoscenza della tipografia e dei concetti di composizione e layout, così come una buona consapevolezza degli spazi e la capacità di comporli ed organizzarli;

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-

notare qualsiasi errore, sia esso grammaticale o relativo alle scelte del colore, dello stile e della forma;

-

saper utilizzare i programmi di grafica ed elaborazione testo più recenti;

-

conoscere la storia del design, specialmente per ciò che riguarda i libri e i giornali;

-

saper affrontare situazioni complesse e lavorare in un team con diplomazia, senza per questo sublimare la propria identità.

4. Lavorare alla pubblicazione

Il Pubblication Design prevede la progettazione dei contenuti editoriali per la stampa o per lo schermo. Il pubblication designer, anche chiamato design editoriale, rende i contenuti accessibili, li interpreta al fine di migliorare la comunicazione, accrescere l’esperienza del lettore, creare un interesse di tipo visuale, stabilire una voce, un carattere, una struttura per la pubblicazione. Applicazioni di pubblication design includono il book design, il magazine e il newspaper design, newsletters, brochure, pubblicazioni online, blogs e vlogs. Sia online che su carta stampata, le prime fasi del pubblication design sono quella dell’orientamento, dove vengono vagliate le opzioni possibili, dell’analisi, nella quale si verifica che queste ultime siano compatibili e adatte al prodotto finale, e lo sviluppo concettuale. Vengono inoltre coinvolte altre applicazioni di graphic design - l’organizzazione dei contenuti, la visualizzazione, la composizione e l’interazione visuale con il testo - creando una comunicazione interessante e coinvolgente. Ciò che distingue il design editoriale è il dover organizzare un’enorme quantità di contenuti, creando una struttura che li leghi tra loro, unificandoli ed integrandoli nello scorrere delle pagine. Alcune pubblicazioni editoriali, giornali e riviste, sono periodici

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con una struttura creata per più di un’edizione che deve essere coerente da una pubblicazione all’altra.

TECNICHE E SUGGERIMENTI Cinque aspetti da tenere sempre presenti sul pubblication design: -

la pubblicazione deve essere immediatamente riconoscibile. Anche tra una dozzina di giornali e riviste il lettore deve poter riconoscere e prendere la pubblicazione senza esitazione;

-

il design deve rispecchiare i contenuti, il settore commerciale ed i lettori;

-

la pubblicazione deve mantenere nel complesso un aspetto coerente. Non passare da uno style all’altro, un’unità coerente del design è piacevole per il fruitore;

-

la pianifica di progetti a lungo raggio cui ci si deve attenere.

STRUTTURARE UNA PUBBLICAZIONE I designer con molta esperienza di pubblishing alle spalle individuano cinque elementi essenziali del design editoriale: 1. Chiarezza di comunicazione; 2. Leggibilità; 3. Uso di caratteri/immagini; 4. Audience; 5. Concetti. Ciò che sorprende è che i concetti si collochino solo all’ultimo posto. Questo non significa che i designer non credano nella loro importanza, pur sapendo per esperienza che l’editorial design si basa in prima istanza su una chiara comunicazione che renda i contenuti accessibili a tutti (Landa, 2010).

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5. I progetti del graphic designer

EDITORIAL Le cifre emesse dal United States Dipartment of Labor sono approssimative relativamente all’individuazione del media presso il quale lavora il più elevato numero di graphic designer. In ogni caso, pare che siano proprio i giornali e le riviste a dare in maggiore percentuale tale opportunità a giovani e meno giovani designer. All’interno della struttura di un giornale o di una rivista, i compiti del designer sono spesso suddivisi in due sezioni fondamentali: editorial (progetto editoriale) e promozione. Quest’ultima sezione comprende la pubblicità del prodotto attraverso la progettazione di annunci, cartelloni, materiali collaterali, ovvero di supporto, come opuscoli, brochure e campagne di promozione, a seconda degli obiettivi specifici dell’azienda. Il progetto editoriale è invece il cuore creativo. Gli editorial designer sono le figure professionali che danno alla pubblicazione la sua aura, la sua immagine e il suo formato, tutti elementi stabiliti dalla singola testata.

MAGAZINES Le riviste si presentano in vari formati e con diversa frequenza, così come sono svariati gli argomenti di cui esse trattano. È dunque difficile catalogarle ed elencarle tutte. Anche la qualità del loro design varia molto: tra un prodotto di alta o bassa qualità vi è sempre un notevole gap. Le posizioni che possono essere ricoperte da un graphic designer all’interno di una testata che edita una rivista sono molteplici e richiedono gradi di esperienza diversi. Il lavoro che progetto editoriale e promozione richiedono coinvolge un gran numero di figure professionali. Se si volesse proporre una struttura gerarchica questa avrebbe al suo vertice il designer director o art director, che gestisce l’intero dipartimento e il design della rivista, incluso lo stesso formato – un tempo deciso insieme a un consulente di design. I

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compiti dell’art director possono includere la supervisione ed eventuale correzione delle pagine dei singoli graphic designer, l’assegnazione dei ruoli per la cura di illustrazione, fotografia e tipografia e, quando il budget lo consente, la commissione di caratteri personalizzati. Inoltre l’art director partecipa alle riunioni con gli editori e talvolta con gli autori, per discutere sulla presentazione di un pezzo. Alcuni dei suddetti doveri sono delegati all’associate art director che, acquisita l’esperienza necessaria, può raggiungere il vertice della piramide gerarchica nella propria o in un’altra testata. Sul secondo gradino della piramide gerarchica, i senior o junior designer sono responsabili della progettazione delle diverse componenti del giornale – aspetto, grafica, impaginazione, etc. Alcuni progettano intere sezioni o pagine e commissionano il prodotto e la fotografia, altri ne curano la presentazione utilizzando anche il materiale illustrativo fornito dall’art director e dall’associate, altri ancora sono migliori come tipografi piuttosto che come graphic designer, nel senso più artistico della disciplina. La differenza tra senior e junior è generalmente data dal grado di esperienza e dal talento del designer. Non ci sono altre regole per ottenere la promozione se non il merito. La posizione del junior designer è, nella maggior parte dei casi, il gradino più basso, il livello d’accesso. Il progetto editoriale è uno dei punti nevralgici della produzione della rivista ma cosa ancor più importante è che si instauri un rapporto di profonda conoscenza reciproca tra coloro che si occupano della parte grafica ed artistica e chi lavora più strettamente con i contenuti. È però indispensabile che tutti abbiano chiara la filosofia del giornale e lavorino in sincronia verso un obiettivo comune. Il designer deve poter non solo presentare ma anche migliorare il lavoro proposto dalla sezione editoriale.

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NEWSPAPERS Anche per quanto riguarda i quotidiani, a partire dallo scorso decennio, vi è stata una crescente richiesta del contributo di art director, editors e graphic designer, un ibrido, questi ultimi, tra editor e designer, responsabili della parte grafica dell’informazione. Il motivo dell’introduzione di queste nuove figure professionali è proprio quello che abbiamo più volte ribadito: l’obiettivo di ogni testata è conquistare mercato e per farlo occorre competere con altri giornali, i quali vogliono anch’essi conquistare lettori, il cui numero è in progressiva riduzione. Negli ultimi decenni inoltre, i giornali hanno integrato le cosiddette hard news, ovvero la cronaca, con le soft news, dedicate al lifestyle. Allo stesso tempo anche la tecnologia di stampa è migliorata consentendo ai designer di scegliere layout più freschi e accattivanti. Altro elemento che fa sì che quello dei quotidiani sia un mercato aperto per graphic ed editorial designer sta proprio nel fatto che essi sono ormai indispensabili a qualsiasi prodotto giornale contemporaneo. Tuttavia il numero di professionisti, realmente preparati nel settore e con studi specifici alle spalle, è esiguo. L’esperienza richiesta da un quotidiano al graphic designer è equivalente a quella richiesta da una rivista, così come equivalenti sono i criteri di merito. Le responsabilità vengono ripartite a seconda della dimensione della testata seguendo un scala gerarchica simile a quella descritta sopra, al vertice della quale vi è il senior designer o senior art director. Per ricoprire tale incarico sono richieste estese capacità ammnistrative e gestionali, necessarie per supervisionare l’operato dell’intero staff. Il design di un giornale è piuttosto diverso da quello di una rivista. Innanzitutto è in scala maggiore – il formato delle pagine è più grande; in secondo luogo è pubblicato con una frequenza diversa – la deadline di una rivista settimanale o mensile consente un lavoro più curato nei dettagli, mentre un quotidiano ha poco tempo da dedicare alle diverse sfumature del design; in terzo luogo il valore di produzione non è ugualmente alto –

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stampare su carta riciclata con la Web-offset non permette di ottenere gli stessi risultati delle piĂš patinate riviste. Tuttavia anche i giornali stanno lasciando col tempo sempre piĂš spazio alla professionalitĂ dei designer, che possono fare carriera anche presso queste testate, arricchendo il proprio bagaglio di esperienze ed ottenendo soddisfazione (Heller, Fernandes, 2010).

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V. Identity

1. Il Marketing e la testata editoriale

Come ormai chiaro, la testata editoriale è un'impresa. Ciò di cui si occupa è la produzione e la vendita dei contenuti, inserendosi nel cosiddetto mercato di Content Providing. Il contenuto, declinato in diverse forme, è un prodotto di consumo, progettato sulla base di interessi, competenze e aspettative dei fruitori finali (target customed) e creato in considerazione della concorrenza. È il risultato di un processo a più fasi che tiene conto di diverse variabili. In considerazione di ciò non c’è nulla di più sbagliato che ritenere l’editoria come un’attività puramente intellettuale, slegata dalle logiche di mercato. Qualsiasi idea, ad esempio quella di un nuovo format cartaceo o, come vedremo più avanti, quella di una nuova veste grafica, è strettamente correlata alla sua commerciabilità. L’idea deve essere sostenuta da attività di marketing editoriale e comunicazione di prodotto. È grazie al contributo di diverse professionalità che questa è tradotta ed elaborata fino a risultato raggiunto. In questo senso l'editoria è intrisa di marketing, intendendo per marketing la serie di attività che consentono all'impresa di raggiungere in maniera efficiente il target individuato. È essenziale verificare che vi sia una corrispondenza tra il prodotto, specie se si tratta di qualcosa di nuovo, e le

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esigenze e le preferenze del target di riferimento. Il fine ultimo, croce e delizia di ogni impresa editoriale e non, è il raggiungimento e la soddisfazione del consumatore finale (Di Persio, 2003).

1. Il significato del brand Come per qualsiasi altro prodotto, un paio di scarpe o un cellulare, così per il giornale, il marchio è un aspetto cruciale nel definire le caratteristiche del prodotto medesimo, a priori e a posteriori. La disciplina che si occupa di applicare le tecniche di marketing ad uno specifico prodotto, linea di prodotti o marchio, è detta Brand Management. L’origine di tale disciplina, affermatasi durante il ventesimo secolo, si deve al famoso promemoria sul “Brand Man” di Neil H. McElroy (2000), allora presidente della Procter & Gamble – P&G – corporazione multinazionale americana. Il brand e il logo di una qualsiasi impresa ne rispecchiano la personalità e le finalità, diventando elemento integrante della progettazione. Vi è quindi uno stretto rapporto tra i messaggi veicolati da un’azienda, il suo marchio ed il pubblico. L’abbinamento di una veste grafica al nome di un’organizzazione porta alla realizzazione di un logotipo, la cui progettazione rientra nel campo della comunicazione visiva. La ripetizione del logo nel tempo e nelle occasioni d’uso stabilisce uno stretto legame tra segno grafico e nome al punto tale da richiamarsi e suggerirsi a vicenda. Il logo si caratterizza sotto il profilo visivo per la grafia utilizzata, la combinazione di colori impiegata e la presenza o meno di elementi puramente decorativi. Il nome della marca configurato graficamente può essere affiancato e a volte persino sostituito dall’emblema. L’emblema è quella figura, simbolo o segno grafico di natura arbitraria, scelto per rappresentare l’organizzazione, associato al logotipo allo scopo di facilitare il riconoscimento della marca (Muneratto, 2007). La scelta cromatica del logo, infine, pensata solo in un secondo momento, risponde non solo a principi estetici ma anche a una logica comunicativa. Spesso infatti

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contribuisce a comunicare con maggiore intensità l’identità della testata. È bene non utilizzare troppi colori insieme che potrebbero da un lato produrre l’indesiderato effetto di distogliere e confondere l’attenzione del pubblico rispetto all’oggetto dall’alto far aumentare i costi di gestione. Soffermiamoci ora sulle sensazioni differenti che i colori suscitano e sui significati precisi cui sono spesso associati. Johannes Itten, docente alla scuola di Vienna e alla Bauhaus di Weimar, nella sua opera L’arte del colore (1965), analizza le relazioni che sussistono tra il cerchio cromatico – composto dai colori, primari, secondari e terziari – e le sensazioni che essi suscitano. Il blu, ad esempio, è un colore freddo che trasmette fiducia a sicurezza. Spesso associato al mare o al cielo, è, non a caso, utilizzato spesso nelle campagne e nei servizi legati al settore finanziario. Il rosso è un colore energico, aggressivo, provocatorio, passionale. Suscita l’attenzione dello sguardo ed è per questo molto usato in relazione a messaggi di pericolo. Il giallo comunica positività ed ottimismo, stimola creatività ed energia. Il nero è un colore classico formale, al contempo semplice utilizzato spesso in editoria ed associato in generale a prodotti costosi. Il bianco è il suo opposto, il suo più netto antagonista visivo, cattura lo sguardo se ottico, lo rilassa se utilizzato con maestria nel design della pagina. In sintesi, gli elementi di design sono tutti quegli elementi di progettazione funzionali al riconoscimento e all’identificazione della marca. Nell’ambito della caratterizzazione dell’identità di marca, il brand è sia un effetto che uno strumento. Il contributo del design è volto a rendere possibile una comunicazione coordinata in grado di persuadere il consumatore al di là della mera valutazione dei costi/benefici. Questo però non significa che l’atto d’acquisto del consumatore sia di natura impulsiva o, peggio, inconscia. L’utilizzatore finale valuta le caratteristiche del prodotto in base a parametri soggettivi. Il valore del brand è “nella mente” del consumatore. Il marchio rappresenta un valore aggiunto, che contribuisce cioè al valore finale, proprio

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nel caso in cui il consumatore preferisca quel prodotto o servizio ad un altro. Il valore aggiunto è dato tanto da caratteristiche funzionali al prodotto, dimensioni tangibili e razionali, quanto a caratteristiche connesse a ciò che la marca trasmette in messaggi e significati, dimensione impalpabile e immateriale. Tre sono le caratteristiche che il marchio deve avere per consentire all’azienda che cura la propria immagine di ottenere successo: -

rappresentatività,

deve

cioè

essere

in

grado

di

descrivere

l’organizzazione, il suo modo di pensare, di operare, la sua filosofia; -

univocità, in quanto dovrà evitare confusioni e fraintendimenti, cosa che si verifica quando gli interlocutori fanno riferimento a universi semantici differenti;

-

riconoscibilità, infine, deve essere distinguibile e identificabile con immediatezza dal consumatore (Muneratto, 2007).

È di un famoso graphic designer americano, Paul Rand, il logo, progettato nel 1956, di una delle maggiori aziende nel settore dei servizi informatici, la International Business Machines, meglio nota come IBM. Il carattere inizialmente scelto, il City Medium, era piuttosto insolito. Più tardi il logo iniziale fu sostituito con un altro, che voleva rappresentare la forza e l’unicità della compagnia, attraverso i caratteri neri che emergono dallo spazio bianco. Negli anni settanta il logo fu modificato di nuovo, questa volta ad evocare le linee scannerizzate sugli schermi dei terminali, pur rimanendo immutato nello stile (Chen, 2011).

Figura 5 – Evoluzione del logo della International Business Machine

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Tra i marchi d’impresa si annoverano anche le testate editoriali, tra le quali, le più famose sono riconosciute da milioni di persone proprio attraverso il nome e l’“impronta grafica”. Il logo è uno degli elementi più importanti dell’immagine pubblica dell’azienda. La prima impressione è fondamentale e la testata deve, con il suo nome e la sua copertina, catturare l’attenzione dei potenziali clienti. È per questa ragione che la progettazione di un logo o, nel nostro caso, del nome della rivista, è uno degli aspetti più difficili del graphic design. "Un’immagine […] non è semplicemente un marchio, […] uno slogan o una figura facile da ricordare. È l’astuto profilo della personalità di un individuo, di un’istituzione, corporazione, prodotto o servizio”. Daniel Boorstin

Per concludere, compito del designer è far risaltare la specificità dell’impresa attraverso simboli e stile coerenti con il posizionamento desiderato per il prodotto. Si crea dunque una coerenza semiotica tra il prodotto e i diversi elementi di comunicazione visiva quali logotipi, colori, caratteri tipografici, impaginazione e presentazione grafica dei documenti, impostazione dei supporti della comunicazione. Ciò rende il processo comunicativo più efficiente poiché fornisce ai destinatari precisi punti di riferimento, ma soprattutto induce un processo di progressivo riconoscimento dell’impresa e della sua attività (Internosei, 2012).

3. Lo sviluppo della copertina

Vi è una spiegazione persuasiva sul perché considerare la copertina di una rivista un medium rilevante a pieno titolo.

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È difficile pensare ad un’altra forma di comunicazione che abiti e colleghi sia il regno del pubblico che quello del privato così come la copertina sa fare, richiedendo la nostra attenzione nel contesto sociale delle edicole, del giornalaio e dei supermercati, nei confini privati del comodino o del bagno, e abitando comodamente questi spazi liminali mentre viaggiamo, ci rilassiamo, o aspettiamo qualcuno o che qualcosa accada. Colonizzando questi diversi contesti la moderna copertina di una rivista diventa rapidamente il primo medium di trasmissione, comunicando con i lettori, che acquistano, sfogliano e leggono i contenuti all’interno. È inoltre difficile identificare un altro artefatto culturale che sia pubblicità di sé stesso in un modo così efficace. Di sicuro le copertine dei libri svolgono un’analoga funzione in termini di comunicazione dei loro contenuti, subendo l’influenza delle più iconiche riviste. I libri sono tuttavia produzioni singolari, che durano a lungo anche dopo il primo impatto, mentre le riviste hanno una vita breve sullo scaffale, una settimana o un mese al massimo, dimostrando un’intrinseca attitudine al cambiamento e al rinnovamento, cosa che le rende attraenti in modo così unico. L’aspetto singolare delle copertine delle riviste e del loro distintivo operare nel panorama mediatico, tuttavia, è che nei primi anni del XX secolo esse hanno visto accrescere la propria diversità e complessità settimana dopo settimana, svolgendo una significativa serie di funzioni sociali e culturali. Probabilmente sono proprio l’adattabilità e la variabilità della copertina il suo maggiore punto di forza. Le copertine dei giornali, combinando in modo unico la loro diffusione pubblica e la loro presenza privata, attraverso l’elemento che tra tutti più rispecchia l’individualismo, il volto, si trovano in una posizione centrale per offrici forti spunti su chi possiamo essere o diventare. Tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del XX secolo si attraversa, specie in Inghilterra, una fase nella quale i tradizionali valori vengono sovvertiti per lasciare posto ad una ricca palette di scelte individuali e nuovi stili di vita. I giornali e le riviste hanno avuto enorme influenza su tale processo. Nei

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quarant’anni successivi non è cambiato molto, nonostante il ruolo della magazine cover abbia vissuto un periodo di transizione: il mercato di milioni di vendite si stava sgretolando mettendo fine a una delle esperienze collettive in grado di unificare nazioni e continenti sin dalla prima copertina apparsa quasi mezzo secolo prima. L’implacabile aspirazione di ottenere ricavi attraverso la pubblicità, ossigeno degli affari, al di fuori dal mercato delle pubblicazioni, non ha ucciso il medium che si è adattato e orientato verso nicchie di profitto, molte delle quali, fino ad allora sconosciute. Durante la sua fase iniziale la copertina della rivista ha ottenuto la propria forza da ciò che è stato definito, con una frase meravigliosamente espressiva, “la disseminazione delle facce”, per la sua abilità di produrre in serie e distribuire il ritratto, se così si può dire, della nascente industria del cinema e dei suoi interpreti. Una volta stabilizzatasi, questa forza verrà sfruttata per molti altri volti: quelli di dittatori, di leader politici e rivoluzionari, celebrità, registi, star sportive, artisti, personaggi televisivi, musicisti famosi e businessman. Qualsiasi persona ritenuta sufficientemente

interessante

da

attrarre

e

aggregare

un’audience

commercialmente valida dal punto di vista del profitto, aspetto caro all’editore. La copertina acquista un nuovo ruolo: proporre e diffondere il volto giusto al giusto pubblico, diventando così il più efficace strumento di marketing a disposizione degli editori di nicchia. Così come editori visionari e i primi veri art director hanno riconosciuto negli anni venti e trenta del Novecento: si tratta di un business critico in un mercato fortemente competitivo. Entrambi questi periodi, dagli anni venti agli anni trenta e dagli anni cinquanta agli anni sessanta, ciascuno dei quali influenzando in modo significativo le decadi successive ai due conflitti mondiali, si sono caratterizzati per una massiccia canalizzazione dell’energia creativa sulla copertina della rivista. La prima fase, avviatasi negli USA, è stata alimentata dall’influsso dei fine artists che fuggivano dall’avanzata fascista attraversando l’Europa e l’oceano.

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Come risultato, i sostenitori e i discepoli delle varie manifestazioni del Modernismo, professionisti di diverse fiorenti discipline, hanno trovato un necessario sbocco commerciale per il loro talento nel medium delle magazine covers. Il fatto che questo periodo abbia assistito a notevoli progressi tecnologici nella fotografia e nella stampa, alcuni dei quali finanziati, sviluppate e acquistate dagli editori, è servito a dotare le suddette professionalità emergenti dei mezzi per realizzare la loro visione. Nella seconda fase, che fu di espansione e consolidamento, le copertine tendono a perdere di incisività. Le innovazioni diventano modelli e le formule efficaci e di successo sono esportate ed emulate. La stessa immagine o fotografia in copertina diventa bersaglio e motivo di pressioni commerciali, al punto tale che negli ultimi anni ‘50, gli editori consultavano psicologi per determinare l’optimum formula che garantisse prospettive di guadagno e di risposta da parte dei lettori. Essendo la copertina rivolta in prima linea alle volontà e alle menti culturalmente particolari, è stata terreno fertile per la sperimentazione. La fioritura di una pletora di lettori, anche se specializzati, ha fatto sì che la spinta innovatrice sia proseguita senza sosta. C’è un ragionamento in tutto questo: chiunque tu sia, chiunque tu voglia essere, in qualsiasi momento dato, c’è un giornale per te. Ciò che grida una copertina di fronte alle nostre innumerevoli e sfaccettate personalità è “prendimi: sono proprio ciò di cui hai bisogno” (Taylor, 2006). Il filo conduttore delle copertine delle riviste femminili post-femministe più famose, ad esempio, è rappresentato dal volto perfettamente incorniciato, coerente con la testata e affiancato da titoli ad effetto. Tutte regole ancora valide ed efficaci. Ci sono anche lettori fuori dagli schemi, troppo consapevoli del modo in cui fotografi e stilisti “cospirano” nell’omogeneizzare i volti e disillusi nei confronti del paradossale culto delle celebrità note appena e dell’inaffidabilità dell’immagine in se stessa nell’era della manipolazione digitale (Taylor, 2006). Per questo gruppo di lettori il volto non è simbolo di

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personalità, ma qualcosa di cui diffidare. Per coloro che vanno oltre la fotografia di un bel viso, saranno agibili nuovi significati e l’intento della copertina, concettuale, minimalista, astratta, creativa, iconica, irriverente, apparirà subito più chiaro: veicolare un messaggio attraverso le emozioni che un’immagine è in grado di produrre. Secondo tale concezione la copertina è un medium, un filo di collegamento tra il lettore e le numerose professionalità di talento che l’hanno ideata, comunicando pubblicamente al contempo l’identità della testata e gli eventi che formano le nostre culture.

2. Realizzare una copertina efficace

“Non si può giudicare un prodotto dalla sua copertina, o almeno così dice il proverbio. Ci permettiamo di dissentire” (Altitude Associates, 2011). Ovviamente niente dovrebbe essere giudicato dall’apparenza, ma questo avviene comunque. Siamo esposti a diverse migliaia di messaggi al giorno, dove la semplice massa di informazioni può travolgerci. Tra la pubblicità, i social media e le campagne di product placement è diventato estremamente difficile essere notati, figuriamoci ricordati. Per essere di successo le copertine non solo devono spiccare tra tutte in mezzo al disordine ma devono essere anche in grado di stabilire con noi una relazione. In pochi secondi devono comunicare ciò che sono, destare la nostra curiosità o semplicemente farci sorridere. L’aspetto di una pubblicazione è una componente estremamente importante di un progetto – trasmette la prima impressione di una comunicazione generale di cui il pubblico fruirà. Nel caso delle riviste, in modo particolare, la copertina è anche uno strumento per fornire informazioni relativamente al contenuto specifico di un’edizione, un modo per ottenere interesse addizionale e spingere il target di riferimento all’acquisto.

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Anche nelle pubblicazioni non realizzate per le vendite, la copertina deve attirare l’attenzione e l’interesse generale, fornire qualche indicazione sul contenuto all’interno e rispecchiare le funzioni secondarie e terziarie del contenuto e l’importanza del pubblico e i messaggi di branding. Una copertina è la confezione, l’involucro, ma è anche un ponte di transizione tra il mondo esterno e l’esperienza interiore della pubblicazione. Se si tratta di una rivista progettata per essere venduta o per informare, la copertina deve essere considerata attentamente. Può contenere diverse informazioni a seconda della natura della pubblicazione. Occuparsi del design di una copertina non è un compito semplice. È un campo minato di requisiti, vincoli, opinioni soggettive. Il team addetto alle vendite inizia con la progettazione grafica, nella quale sono necessarie qualità e doti per eccellere. Le copertine ci attirano con la loro astuta bellezza, con la loro semplicità o con il loro ardire, ma solo alcune raggiungono il top. Notevole rilevanza è data all’audience di riferimento, alle capacità competitive, e alle potenzialità di sviluppo, caratteristiche che il pezzo deve possedere per risaltare nel mercato. Uno stand affollato di riviste non ha niente a che vedere con la sala conferenze dell’azienda. L’obiettivo finale di una qualsiasi copertina è, come già ribadito, di invogliarci a prenderla. Non bisogna solo avere ottime idee e realizzare un buon design, bisogna essere capaci di condurre tutto fino allo step della produzione finale (Altitude Associates, 2001). Creare il design di una copertina è come progettare un poster in miniatura. Un’immagine ha bisogno di attrarre i lettori. I titoli, collocati spesso nella metà superiore della pagina, sono in genere grandi e ampi per garantire una maggiore chiarezza. Le copertine delle riviste devono avere un appeal complessivo che faccia si che esse vengano notate, anche da una certa distanza. Il soggetto principale scelto per la copertina di una rivista che opera in un mercato di massa deve saper attrarre il maggior numero di persone, giovani e meno giovani, maschi e femmine. L’uso degli elementi visivi e delle

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scelte grafiche, un tempo considerato avantgarde o sperimentazione, è oggi la matura consapevolezza, nella maggior parte dei mercati editoriali – libri, giornali, riviste, etc, – del ruolo dell’elemento visuale come catalizzatore dell’interesse del pubblico (Whitbread, 2009).

5. L’Attitude

Le copertine più efficaci esprimono una propria attitude, possono cioè dichiarare implicitamente o esplicitamente gli argomenti ed i contenuti trattati o, elemento ancora più importante, i propri lettori. Tale considerazione si ricollega al concetto di identità della rivista, dell’insieme cioè delle scelte attuate dalla testata, del modo di relazionarsi con i lettori e del rapporto che instaura con essi, della visione complessiva dell’azienda. In un’organizzazione con una posizione notevole all’interno del mercato cui fa riferimento, è bene che si stabilisca l’immagine dell’azienda. L’identità può essere rappresentata in forme visive diverse. Vi è flessibilità nella scelta della palette di colori, dei simboli e dei logotipi. Quanto più ci si distacca dalle regole base nell’utilizzo di simboli, colori e caratteri, tanto più si otterrà un risultato interessante, optando così per una selezione di immagini e layout che definiscano l’identità che l’azienda intende trasmettere, l’attitude. Tutto ciò ha a che fare con gli intangibili, quei valori immateriali che, come già detto, contribuiscono a determinare il valore finale, cioè di mercato, del prodotto. Tentativo di qualsiasi azienda è quello di rendere tali valori tangibili. Come far in modo che il design mantenga la propria integrità ma al contempo trasmetta dinamismo ed incoraggi nuovi mercati? Fondamentale è inserire all’interno dell’identità un elemento che dimostri piena consapevolezza di ciò che va di moda, attraverso immagini, modelli e combinazioni di colore cool. Lo stesso vale per la scelta dei caratteri, che consentano l’identificazione dell’impresa ma che siano, allo stesso tempo, contemporanei. Questo spiega

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perché, anche i più conosciuti brand, abbiano nel tempo modificato ed adattato il proprio logo e la propria immagine adottando stili più freschi ed attuali (Whitbread, 2009).

6. Il masthead

La prima pagina di un giornale, che funge da copertina, contiene un identificatore, il cosiddetto masthead. Il termine è utilizzato in editoria per indicare una lista, in genere nella sezione editoriale di un quotidiano o di altri periodici, dell’editore, del comitato di redazione, delle tariffe pubblicitarie. In alcune pubblicazioni figurano solo i nomi dei senior, in altre quelli della maggior parte o di tutti i membri dello staff del giornale. Alcuni masthead includono anche altre informazioni quali la data e la frequenza di pubblicazione, lo slogan, il logo e i contatti dell’editore. Tutte informazioni che identificano la testata. Nei giornali la masthead è inserita nell’editoriale, mentre nelle riviste si trova più frequentemente nelle prime pagine o talvolta anche più avanti nelle pagine successive. In Gran Bretagna, in Australia e in Nuova Zelanda il termine è utilizzato in riferimento al nameplate, ovvero il logotipo, di una pubblicazione, il suo titolo così come appare in copertina. Tecnicamente tuttavia, il nameplate è distinto dal masthead, che è la sezione che contiene le informazioni dettagliate su citate. Nella prima pagina di un giornale vi è anche il titolo di un articolo relativo ad un evento importante ed altri titoli in carattere più piccolo per articoli di minor rilevanza. Molti giornali scelgono di inserire anche le sidebars, letteralmente barre laterali che condensano alcune informazioni e indirizzano il lettore alle specifiche sezioni. Talvolta un articolo di primo piano può iniziare nella copertina e continuare all’interno del giornale. Le riviste

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variano molto nelle loro cover. Gli elementi primari di ogni rivista sono il masthead e un’ immagine forte ed efficace. A parte questo non ci sono costanti nel design delle copertine delle riviste. Alcune di esse offrono solo i titoli principali ma nessuna altra informazione scritta. Per quanto riguarda il titolo, esso deve essere semplice ed efficace dal punto di vista del carattere tipografico scelto. Quasi come per un logo, il carattere per un masthead o un sottotitolo deve trasmettere un messaggio chiaro, forte e semplice. Poiché le parole dominano spesso la copertina, una particolare attenzione allo stile dei caratteri è essenziale. Talvolta l’approccio dei designer al masthead è simile a quello adottato nei confronti di un’immagine tipografica, investigando strategie come ad esempio l’alterazione e la combinazione delle forme per differenziare la pubblicazione delle altre, specie da quelle dello stesso genere. Come per il logo, i mnemonici attributi di un masthead sono molto importanti. I dettagli strutturali, come lo spazio, il contrasto delle battute e in generale l’aspetto complessivo aiutano i lettori a riconoscere il masthead dai messaggi concorrenti. Tali strategie fanno si che il masthead sia più facilmente riconoscibile, permettendo al contempo di comunicare brevi informazioni concettuali sui contenuti della pubblicazione e sull’attitude della testata stessa, ottenendo risonanza con il target di riferimento. In ogni caso, i masthead tendono ad essere semplici. Il limitato variare tra le componenti aiuta l’occhio umano a focalizzarsi su quegli elementi che invece spiccano per la loro diversità. Grazie all’unità delle forme il masthead diventa più forte e riconoscibile (Samara, 2005). Nelle pagine seguenti si approfondiranno alcuni dei temi finora trattati attraverso l’esempio di una delle riviste più famose al mondo.

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7. Case study: Vogue La rivista Vogue è stata fondata nel 1892. Inizialmente una pubblicazione settimanale, creata per l’Elite di New York. Un critico del New York Times, Caroline Weber, nella sua recensione del dicembre 2006 del libro di Alberto e Angeletti (2006), ha descritto Vogue come la "più influente del mondo". IL TERMINE Il termine vogue è stato registrato tra i vocaboli di lingua inglese nel 1571. La storia dimostra come il termine abbia assunto col passare del tempo diversi significati. Il termine vogue era originariamente un verbo con radici linguistiche indo-europee il cui significato era quello di “andare”, da cui deriva il significato di “influenzare” che il termina ha in lingua tedesca. In francese il termine mutò in "voguer", “a vela”, e poi “a remi”. Da quest’ultima accezione deriva il significato attuale di "moda prevalente" o "cose alla moda". Consultando oggi il vocabolario la definizione che si trova è “moda prevalente, pratica o stile popolare in un determinato momento”. LA STORIA Arthur e Harry Turnure McVickar fondano Vogue nel 1892, una rivista dedicata alla piccola società borghese di New York. I primi numeri furono dedicati principalmente alle feste di debutto in società, alle serate di gala, ai fidanzamenti, ai matrimoni ai viaggi e al teatro. I francesi non sono i responsabili solo del mutato significato del termine vogue ma anche della trasformazione della stessa rivista. Condé Montrose Nast, francese di nascita, principale editore delle riviste americane tra cui Vanity Fair, The New Yorker e Vogue, acquisisce Vogue nel 1909, alla morte di Arthur Baldwin Turnur. Questo primo cambio di proprietà fa sì che una piccola rivista settimanale cresca diventando il mensile più famoso in America.

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IL CREATORE La rivista si afferma grazie a Condé Nast, fondatore di Condé Nast Publications Inc (CNP) con sede a Londra, un’azienda diffusa in tutto il mondo, casa editrice di più di diciotto riviste. Infatti sotto la direzione di Condé l'azienda acquisisce negli anni venti altre riviste oltre Vogue, di cui lancia l’edizione britannica, francese, tedesca e nel 1959 quella australiana. Nonostante i vari cambiamenti avvenuti dopo la morte dell’editore francese nel 1942 e i cambi di proprietà nel corso degli anni, il marchio Conde Nast Publications è ancora associato, oggi, con le riviste Vogue (Ivall, 2006).

L’ART DIRECTOR Per uno dei più importanti magazine editor Alexander Liberman (1912-1999), art director di Vogue dal 1942, famoso per i suoi 32 anni di lavoro presso la Condé Nast Publications, il design è uno strumento. Attraverso il suo approccio più giornalistico, rispetto a quello di alcuni colleghi, tra i quali Brodovitch e Agha, art director di Vogue, ha tentato di scombinare le spesso rigide regole del graphic design diventate quasi ossessione. Liberman privilegia dunque pagine dal layout disordinato, piene di testo, dai caratteri “ruvidi”. Sono suoi i layout più eleganti di Vogue degli anni cinquanta – alcuni dei quali celebrati negli Art Directors Club Annuals - realizzati talvolta con la collaborazione di Priscilla Peck, pur in contrasto con le preferenza dell’allora direttrice di Vogue, Edna Chase. L’approccio innovativo di Liberman è stato invece molto apprezzato da Condé Nast che fece sì che grazie al suo lavoro Vogue diventasse una rivista più moderna ed attuale. “Ho sempre ritenuto Vogue uno dei pionieri nell’ambito della democratizzazione, dei diritti delle donne e nel distruggere falsi valori culturali”. A proposito della fotografia, che Vogue utilizza per la prima copertina nel 1932, Liberman si dimostra una figura professionalmente avanti: “ le fotografie […] sono documenti, momentanei scorci di un qualcosa che può essere impresso con l’inchiostro sulla carta o eventualmente scartato”.

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“L’imperfezione era l’essenza di ciò che Liberman stava cercando, il passaggio dalla fantasia e dall’artifizio all’ hic et nunc”. Secondo Kazanjian e Tompkins “era l’antidoto per la ‘visione di leggiadria e bellezza’ che la Signora Chase e le generazioni di lettrici di Vogue avevano a cuore – visione che Liberman riteneva umiliante per le donne stesse. “Vogue non è proprio una rivista di moda, ma una rivista delle donne, per le donne”. L’approccio di Liberman è stato fortemente criticato dagli altri designer che ritenevano che il suo disprezzo per il design avesse abbassato gli standard del layout della rivista. In realtà il suo fervore anti-design era sincero, il suo disgusto nei confronti di tutto ciò che fosse visivamente molle, antidiluviano, ha indubbiamente influenzato lo stile di tutte le testate presso cui ha lavorato. Il cambiamento più significativo in Vogue tra gli anni sessanta e gli anni ottanta è il passaggio da un’ardita eleganza ad un impressionante sensazionalismo. Alcune tecniche, tra cui l’inversione dei caratteri e i titoli a tutta pagina, furono mutuate dalla stampa sensazionalista nel tentativo di accentuare il movimento, catturare lo sguardo e, non ultimo, comunicare rapidamente il messaggio (Heller, 2004).

Può essere interessante proporre alcune immagini relative all’evoluzione della copertina di Vogue. Alcune considerazioni potranno essere tratte relativamente all’aspetto grafico e all’attitude generale della rivista.

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Figura 6

Figura 7

Fig. 6 1892 - La prima copertina di Vogue. Bianco e nero, stile classico, nessun riferimento ai contenuti trattati. Fig. 7 Luglio 1932 – EDITOR Alison Settle – COVER Edward Steichen In assoluto la prima copertina fotografica. A distanza di quarant’anni si modifica il logo, lo stile è però minimale.

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Figura 8

Figura 9

Fig. 8 Settembre 1971 – EDITOR Alisa Garland La copertina di questo numero è dedicata agli anni ‘70. Il design adottato e la palette di colori rappresentano un elemento di originalità per gli standard dell’epoca. È da ora in poi che la copertina si arricchisce con una sorta di indice dei contenuti. Il testo, il cui carattere e dimensione dipendono dalla rilevanza dell’argomento, si sovrappone in più punti all’immagine. Fig.

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Maggio

2000

EDITOR

Alexandra Shulman

COVER

Sarah Morris –MODEL Kate Moss Il design della testata resta invariato ed inizia a rappresentare l’identità della rivista. La copertina, realizzata da uno dei fotografi più stimolanti e creativi del momento, si riempie dei titoli dei vari servizi che il lettore troverà tra le pagine della rivista. L’attittude è più fresca, moderna, studiata. La modella scelta è già un’icona e rappresenta tutt’ora una vera e propria certezza di successo per le aziende che riescono ad accaparrarsela.

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VI. Conclusioni

Si è dimostrato come quello editoriale sia un processo complesso, a più fasi, e da determinare di volta in volta in relazione alle variabili che si presentano all’evidenza. La trattazione dei principali elementi che concorrono alla definizione del prodotto editoriale nei suoi vari aspetti è finalizzata a proporre un sintetico quadro, quanto più completo, dell’argomento scelto, nel tentativo di offrire nuovi spunti di riflessione. Tali conclusioni sono state raggiunte grazie al supporto delle pubblicazioni di autori ed esperti del settore, perlopiù stranieri, e alla personale curiosità nei confronti del tema proposto. Le questioni trattate, come più volte ribadito, hanno per cornice la doppia natura di ogni pubblicazione, una informativa e una commerciale (Papuzzi, 2010). “In confronto alla stampa dell’epoca liberale – osserva il filosofo tedesco Habermas (2001) – i mass media hanno raggiunto una forza di penetrazione e un’efficacia incomparabilmente maggiori, dall’altra si sono allontanati sempre più da questa sfera per penetrare in quella, un tempo privata, dello scambio di merci”. Questo e tanti altri, tra cui quello relativo alla figura del consumatore, ai suoi atteggiamenti mentali e ai comportamenti reali, sarebbero gli elementi da mettere in luce ed approfondire a proposito del variegato settore dell’editoria, che come appare chiaro non si conclude con la pubblicazione, seppure multiforme, di giornali e riviste. L’editoria è un

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mondo vasto, all’interno del quale editori, giornalisti e designer collaborano entro i limiti che ciascuna delle loro sfere di competenza pone. Ma questa limitatezza ha il suo contraltare. Essere avvolti nell’incertezza, sondare i limiti della professione, essere un punto di intersezione e mediazione, di cui noi stessi misuriamo il grado e l’intensità, tra decisioni politiche e opinione pubblica, tra processi sociali e coscienza civile, questa è una ragione di fascino del giornalismo, per chi lo ama (Papuzzi, 2010).

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