Suaves Caen las Palabras. Una traduzione in spagnolo di Lalla Romano

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A.D. MDLXII

U N I VE RS I T À F ACOLTÀ

DI

D E G LI S TU DI D I S AS S A RI L INGUE E L ETTERATURE S TRANIERE ___________________________

CORSO DI LAUREA IN M EDIAZIONE LINGUISTICA

SUAVES CAEN LAS PALABRAS UNA TRADUZIONE IN SPAGNOLO DI LALLA ROMANO

Relatore: PROF. MASSIMO ONOFRI

Correlatrice: PROF.SSA LAURA LUCHE

Tesi di Laurea di: DANIELA C ADEDDU

ANNO ACCADEMICO 2011/2012



Ai miei genitori



2 INDICE INTRODUZIONE

3

CAP. I :

LALLA ROMANO

5

I.1. Lalla Romano. Poeta, pittrice e narratrice

6

I.2. L’autobiografismo di Lalla Romano

CAP. II:

11

I.2.1. Il romanzo La penombra che abbiam attraversato

11

I.2.2. Il romanzo Una giovinezza inventata

12

I.3. Il romanzo Le parole tra noi leggere

13

LA TRADUZIONE DE LE PAROLE TRA NOI LEGGERE

16

CAP. III: L’ANALISI TRADUTTOLOGICA III.1. Traduttologia e Traduzione

33 34

III.1.1. L’equivalenza traduttiva

34

III.1.2. Metodo, strategie e tecniche di traduzione

35

III.1.4. Gli errori di traduzione

37

III.2. Suaves caen las palabras : Analisi traduttologica

38

III.2.1 Addizioni e omissioni

41

III.2.2 Sinonimie erronee

43

CONCLUSIONE

48

APPENDICE

50

BIBLIOGRAFIA

66



3

INTRODUZIONE


4

L’obiettivo del presente lavoro è proporre la traduzione e l’analisi traduttologica di una parte selezionata dal romanzo Le Parole tra noi leggere (1969) della scrittrice italiana Lalla Romano, tradotto in lingua spagnola nel 2005 da Carlos Manzano. Il testo che sarà oggetto del nostro studio appartiene alla prima parte del romanzo. La scelta di una tesi di questo tipo si deve al fatto che Lalla Romano è una delle scrittrici la cui biografia è presente e rielaborata in ogni sua opera; nella narrativa italiana è la scrittrice più autobiografica. La scelta del brano è stata puramente di gusto personale, ma è stato utile per mettere in luce come il romanzo abbia subìto dei cambiamenti nella traduzione spagnola. La tesi è articolata in tre capitoli. Nel primo capitolo si delinea la figura di Lalla Romano, la sua vita e le sue opere, i tratti autobiografici che caratterizzano i suoi romanzi e, in particolar modo, un excursus più approfondito sul romanzo oggetto della tesi. Il romanzo Le parole tra noi leggere è caratterizzato dall’autobiografismo di una madre che racconta, sotto varie sfaccettature, il rapporto con il proprio figlio; rapporto che nella realtà determinerà duri scontri tra madre e figlio, e evidenzierà una madre troppo presente e, per certi versi, perfino ossessiva, e assente per altri, al punto da non esser considerata una vera e propria madre. Nel secondo capitolo sarà riportata fedelmente la traduzione in lingua spagnola del testo selezionato dal romanzo a cura di Carlos Manzano, e sarà in seguito messa a confronto con l'originale per eseguire l’analisi traduttologica. Nel terzo capitolo ci si soffermerà su alcuni aspetti teorici della traduttologia, in particolare sull’analisi delle metodologie, delle strategie e delle tecniche usate nelle traduzioni, gli errori, e a seguire avverrà l’analisi vera e propria. Saranno messe in evidenza le caratteristiche della morfologia e della sintassi spagnola e le modifiche apportate seguendo le regole sintattiche della lingua d’arrivo. In seguito saranno mostrati gli errori riscontrati nel testo tradotto e spiegate le soluzioni applicate per rendere più corretta e comprensibile la traduzione.


5

CAPITOLO I Lalla Romano


6 I.1. Lalla Romano. Poetessa, pittrice e narratrice.1

Lalla (Graziella) Romano nasce a Demonte (Cuneo) l’11 novembre 1906, da genitori cuneesi, primogenita di altre due sorelle, Silvia e Luciana. Il padre Roberto, geometra, capo dell’Ufficio tecnico del Comune di Demonte, era amante della pittura e della musica e un buon “dilettante fotografo”. La madre, Giuseppina Peano, era nipote del famoso logico-matematico Giuseppe Peano, che tanto influsso poi avrà sulla giovane Lalla. Frequenta le scuole elementari a Demonte, il ginnasio e il liceo classico “Silvio Pellico” a Cuneo, dove la famiglia si era trasferita. Conseguita la maturità classica, si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. Frequenta soprattutto le lezioni di Filosofia teoretica di Annibale Pastore, di Letteratura francese di Ferdinando Neri e di Storia dell’arte di Lionello Venturi. Ha già iniziato a dipingere: i primi autoritratti sono datati 1923. Frequenta lo studio del pittore Giovanni Guarlotti. A Torino è compagna di università di Cesare Pavese; conosce Mario Soldati. Nel 1928 si laurea in Lettere, con una tesi su Cino da Pistoia. Su consiglio di Lionello Venturi, entra nella scuola di pittura di Felice Casorati, dove incontra – fra gli altri – Daphne Maughan, Nella Marchesini, Paola Levi Montalcini, Giorgina Lattes. Nel 1929 inizia a insegnare Italiano e Storia alle Magistrali di Cuneo, continuando a frequentare la scuola di Casorati a Torino, dove espone alcuni quadri in una mostra collettiva. Nel 1930 insegna Storia dell’arte al Liceo di Cuneo. Diventa direttrice della Biblioteca Civica di Cuneo. Partecipa a varie mostre collettive a Torino. Su invito di Lionello Venturi, scrive per «L’Arte» un saggio su La scuola di Casorati. Scrive anche racconti, fra cui Le cronache della sartoria, pubblicati da Einaudi nel 1975 in La villeggiante. Nel 1932 sposa Innocenzo Monti, impiegato di banca, il quale, in seguito, farà un’importante carriera fino a diventare presidente della Banca Commerciale Italiana. Nel 1933 nasce l’unico figlio Pietro, detto Piero.

1

Antonio. Ria, Cronologia della vita e delle opere, in L. Romano, Le parole tra noi leggere, Torino, Einaudi, 1996.


7 Nel 1935 raggiunge il marito a Torino; insegna Lettere all’istituto Magistrale «Regina Margherita» e poi al ginnasio-liceo «Cavour». Continua a dipingere e a esporre: una «personale» a Palazzo Lascaris di Torino e altre mostre collettive a Cuneo, Napoli e Milano. Conosce Ardengo Soffici, scrive tre racconti sulla vita degli artisti e sul mondo dell’arte in quegli anni a Torino (Una cena di artisti, Visita al collezionista, Inaugurazione di una «personale»), pubblicata da Einaudi nel 1993 in Lalla Romano pittrice. Continua a esporre, partecipando a varie mostre collettive. Scrive altri racconti, fra cui L’aria di Roma, pubblicati sempre da Einaudi in La villeggiante. Nel 1943, durante la guerra, danneggiato in un bombardamento l’alloggio di Torino, si rifugia a Cuneo col figlio presso i genitori, continuando a insegnare a Torino; l’anno dopo viene trasferita all’Istituto Tecnico di Cuneo. Amica di Dante Livio Bianco, aderisce al Partito d’Azione e partecipa alla Resistenza come incaricata dei «Gruppi di difesa della donna». Nel 1944, su invito di Cesare Pavese, traduce i Trois contes di Flaubert, avvenimento decisivo per il suo passaggio dalla pittura alla scrittura. Nel 1946 con altri artisti partecipa a Cuneo a una mostra a favore del Partito d’Azione. Ritorna a Torino, dove vive col figlio; intanto il marito si è trasferito a Milano. Matura l’abbandono dell’attività pittorica. Scrive d’arte su «Agorà» e per due anni recensisce le mostre di pittura di Torino per «Il Mondo» di Firenze: lavoro critico incoraggiato anche da Eugenio Montale. Nel 1947 si trasferisce a Milano. Insegna alla scuola media “Arconati” fino all’anno del congedo (1959). Scrive il racconto Il congresso, pubblicato in La villeggiante. Collabora, con pezzi critici e narrativi, alle riviste «La rassegna d’Italia», «Il Verri», «La Fiera Letteraria», «Il Caffè», «L’Approdo», «Paragone», «Nuovi Argomenti». Frequenta Montale, Bacchelli, Solmi, Sereni, Bo, Vittorini, Paci, Rognoni. Ha contatti con Anna Banti, Pietro Citati, Elsa Morante. Proseguono i rapporti con la casa editrice Einaudi, in particolare con lo stesso Giulio Einaudi, con Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, Italo Calvino, Giulio Bollati. Nel 1948 scrive il racconto La signora , pubblicato poi in La villeggiante. Nel 1951 con Le metamorfosi (Einaudi), inizia la lunga serie di libri in prosa. Questo primo libro, composto di sogni, era piaciuto a Pavese e poi a Vittorini che l’aveva inserito come secondo testo nella sua collana «I gettoni» e ne aveva scritto la presentazione.


8 Nel 1953 scrive Maria, (Einaudi). Vittorini presenta il romanzo come una storia di rapporti umani che si realizzano come rapporti ritmici e che tuttavia tendono a mostrare, malgrado il loro ripetersi, quanto di unico e insostituibile, di dato una volta per tutte, vi sia in ogni individuo.2 Nella recensione sul «Corriere della Sera» Montale pone all’attenzione generale la «poesia dei petits riens»3 insita nel libro, la sua «semplice perfezione»4. Nel 1954 vince a Lugano il Premio Internazionale Veillon per Maria. Nel 1955 sempre presso Einaudi, pubblica la raccolta di poesie L’Autunno (La Meridiana) e nel 1957 pubblica il romanzo Tetto Murato (Einaudi), ambientato negli anni della Resistenza: il manoscritto aveva vinto lo stesso anno il Primo Premio Pavese riservato agli inediti. Nel 1959 pubblica Diario di Grecia (Rebellato, per concessione della Einaudi), relazione di un viaggio, trasformato nella scoperta della Grecia. Nel 1961 scrive il romanzo L’uomo che parlava da solo (Einaudi), unico suo libro in cui l’io narrante è un personaggio maschile. Nel 1964 pubblica il romanzo La penombra che abbiamo attraversato (Einaudi). Calvino nel risvolto scrive: «L’immagine proustiana del titolo significa qui l’infanzia, età in sé folgorante, ma ombrosa, oscura per chi la guarda dall’altra sponda, quella della maturità; ma è anche la vita stessa, lo spazio che deve essere riattraversato per ritrovare la tormentosa età, nella quale a nostra insaputa tutto era stato giocato una volta per tutte».5 Vince il premio dei Librai milanesi, ma fa scalpore la non attribuzione del Premio Viareggio, nonostante l’appoggio di Ungaretti e Montale, il quale, per protesta, si dimette dalla giuria. Nel 1969 pubblica Le parole tra noi leggere (Einaudi), con cui vince il Premio Strega. Montale sul «Corriere della Sera» osserva: «Se c’è ancora qualche lettore capace di amare una poesia incapace di esibirsi come tale, questo è un libro che può fare per lui».6 Nel 1973 scrive L’ospite (Einaudi), che ha per protagonista il nipote Emiliano, nato nel 1970. Inizia la collaborazione al quotidiano «Il Giorno» di Milano con racconti

2

Cit. E. Vittorini, in A. Ria, op. cit. , p. 279. Cit. E. Montale, in A. Ria, op. cit. , p. 279. 4 Ibidem. 5 Cit. I. Calvino, in A. Ria, op. cit. , p. 280. 6 Cit. E. Montale, in A. Ria, Op. cit. , p. 280. 3


9 di viaggio, recensioni di libri e di mostre: prose poi raccolte – insieme a molte altre – nel volume Un sogno del Nord (1989), sempre pubblicato da Einaudi . Nel 1974 pubblica presso Einaudi, una edizione più ampia del Diario di Grecia (Einaudi) e le poesie Giovane è il tempo (Einaudi), con cui vince a Napoli il Premio Sebeto. Questa raccolta comprende poesie – alcune con varianti – tratte da Fiore (Frassinelli), L’Autunno ( La Meridiana) e altre inedite. Nel 1975 pubblica Lettura di un’immagine (Einaudi), forma nuova di romanzo, con le fotografie scattate dal padre a Demonte e un breve commento per ogni foto. Pubblica La villeggiante (Einaudi). Nel 1976 viene eletta consigliere Comunale di Milano, come indipendente nelle liste del Pci (si dimetterà l’anno dopo). Nel 1976 pubblica la seconda parte de La villeggiante con il titolo Pralève (Einaudi). Nel

1979

pubblica

Una

giovinezza

inventata

(Einaudi).

«Inventata,

nell’accezione di incantata, vissuta con la fantasia, come mito, favola».7 Pubblica anche il libro di fiabe Lo stregone (Stampatori). Dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri le viene assegnata la «Penna d’Oro», e dal sindaco di Milano riceve la medaglia d’oro di Benemerenza Civica. Nel 1981 pubblica Inseparabile (Einaudi), romanzo con protagonista ancora il nipote Emiliano e la dura storia della separazione dei suoi genitori. L’anno seguente inizia la sua collaborazione al «Corriere della Sera» con articoli, racconti brevi, recensioni. Nel 1984 muore il marito Innocenzo. Nel 1986 pubblica La treccia di Tatiana (Einaudi), libro-commento a fotografie di Antonio Ria, e Romanzo di figure (Einaudi), nuova edizione rinnovata – soprattutto dal punto di vista fotografico – di Lettura di un’immagine (1975): con questo libro vince il Premio Castellamare del Golfo. Il ritrovamento delle lastre fotografiche del padre di Lalla, Roberto, offre l’occasione per allestire la mostra «Romanzo di figure: dall’album fotografico di Lalla Romano», curata da Antonio Ria, presso la Galleria «Il Diaframma» di Milano: la mostra sarà esposta in altre città italiane e all’estero. Le viene conferito il Premio Circolo della Stampa di Torino.

7

Cit. L. Romano, in A. Ria, Op. cit. , p. 281.


10 Nel 1987 pubblica Nei mari estremi (Mondadori), Premio Grinzane Cavour 1988. Il romanzo ripercorre il rapporto con il marito: «la nostra vita, la sua morte».8 Amore e morte vengono narrati come momenti forti della vita. Inizia in Francia la pubblicazione di molti dei suoi libri. Nel 1988 inizia a collaborare al «Giornale» di Milano. Nel 1989 pubblica Un sogno del Nord (Einaudi), raccolta di prose brevi e saggi, con cui vince il Premio Procida – Isola d’Arturo/Elsa Morante. L’anno seguente inizia la collaborazione a «Panorama». Nel 1991 esce il primo volume delle Opere, curato da Cesare Segre e pubblicato dalla casa editrice Mondadori. Pubblica anche Le lune di Hvar (Einaudi), romanzodiario di vacanze in Jugoslavia. Nel 1992 pubblica il secondo volume delle Opere. Nello stesso anno pubblica presso la casa editrice Bollati Boringhieri, Un caso di coscienza. Questo breve romanzo ha per tema un episodio della sua vita di insegnante negli anni Cinquanta. Nel 1993, il 14 febbraio, con decreto del ministro dell’Educazione e della Cultura Jack Lang, viene nominata dal Governo francese Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres. Nel 1994 pubblica una nuova edizione, presso la casa editrice Einaudi, di Una giovinezza inventata. Riprende la collaborazione al «Corriere della Sera», interrotta nel 1987. Nel 1995 pubblica una nuova edizione di Maria (Einaudi). Esce Ho sognato l’Ospedale pubblicato dalla casa editrice Il Nuovo Melangolo, breve romanzo nato da una recente esperienza. Il progetto di traduzione di Maria presso Gallimard ottiene il Premio edizione Donna. Con decreto del 15 dicembre il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro le conferisce l’onorificenza di Cavaliere di Gran croce dell’Ordine Al Merito della Repubblica Italiana. Il 26 giugno 2001, a Milano. Lalla Romano muore all’età di 95 anni. Ha continuato a scrivere fino all’ultimo, fino a quando è diventata quasi completamente cieca.

8

Cit. L. Romano, in A. Ria, Op. cit. , p. 282.


11

I.2. L’autobiografismo di Lalla Romano.

Durante l’intervista con Vittorio Sereni9 la scrittrice spiega l’autobiografismo nei suoi libri. Lo scopo nei miei libri – ha dichiarato– è nella ricerca di verità, non c’è nostalgia. In quasi tutti i miei libri sono stata, come si dice, autobiografica; io però non considero giusta questa definizione, anche se apparentemente lo è, perché a cominciare da Maria, parlo di persone che ho conosciuto, riscontrabili nella mia biografia.10

Lalla Romano definisce l’autobiografismo come «non una categoria, ma solo una definizione di genere, senza alcuna utilità critica»11. L’opera della Romano è molto ricca e in alcuni dei suoi romanzi l’autobiografismo è uno degli elementi caratterizzanti. Tra i romanzi autobiografici della Romano, vengono menzionati La penombra che abbiamo attraversato, che parla della sua infanzia; Una giovinezza inventata, storia della gioventù della scrittrice, un ritorno alla Torino degli anni venti, con tutte le sue atmosfere; e, infine, Le parole tra noi leggere, che viene denominato autobiografico dall’autrice stessa e che sarà il centro della presente tesi.

I.2.1 Il romanzo La penombra che abbiamo attraversato.

La narratrice ritorna in un luogo caro, un paese di montagna, alla ricerca di un passato di cui rimangono tracce e ricordi. Lo schema è quello di un ritorno: la narratrice, adulta, fa un breve soggiorno a Ponte Stura (cioè nella nativa Demonte, appunto sullo Stura). È ripercorrendo le strade, rivedendo i luoghi, aggirandosi nell’appartamento che

9

Intervista di V. Sereni andata in onda alla TSI (Televisione della Svizzera) il 2 dicembre 1968. Cit. L. Romano, in V. Sereni, Prefazione: Colloquio con Lalla Romano, in L. Romano, Le parole tra noi leggere, Torino, Einaudi, 1996, p.VII. 11 Cit. L. Romano, in Massimo Onofri, Il sospetto della realtà, Cava de’ Tirreni, Avagliano Editore,2004, p.177. 10


12 la vide bambina, rileggendo le lapidi del cimitero, che risuscita per un momento, e a sprazzi, un passato che pareva cancellato.12 La scrittrice, dunque, rigorosamente seleziona i fatti, ricompone secondo un ordine che non è quello cronologico, ma che si fonda sulla contrapposizione tra una vera e una falsa esistenza. Le convinzioni della narratrice adulta si riflettono sulle idee e i sentimenti della bambina, e viceversa: e come al centro esatto tra due specchi sta la madre, in un giuoco di rifrazioni che complicano le testimonianze di chi ancora vive e gli echi e le frasi di allora. Malgrado la polvere del tempo, la verità trova la sua stabile dimora: e il caos della vita si redime nel cosmo della scrittura, la biologia si converte in metafisica. Malgrado la polvere del tempo, dunque, questa dimora sarà sempre edificabile nei romanzi che verranno dopo La penombra.13

I.2.2 Il romanzo Una giovinezza inventata.

«Una giovinezza inventata, che diventa verità nella vecchiaia».14

La scrittrice spiegherà, in La scrittura e l’inconscio, il perché del titolo. È stato notato che in quel mio libro ci sono nomi veri, non tutti, ma in genere lo sono. È troppo facile far sembrare immaginaria una persona cambiando il nome. È immaginaria non perché sia diversa, ma perché deve risultare come inventata. Questo è il significato del titolo. Inventata nel senso di creata fantasticamente, nata da un’esperienza creativa.15 Una giovinezza inventata, insomma, proprio nel senso di ricreata fantasticamente, al massimo grado di creatività, quello che è proprio della poesia; ma anche ritrovata, quella giovinezza nella memoria. La fantasia, secondo un movimento profondo di restituzione, non è puro arbitrio, capriccio irresponsabile, ma invenzione della verità, di ciò che veramente fu:

12

C. Segre, Introduzione, in L. Romano, Opere vol.1, Milano, Mondadori, 1991, p. XXXII. M. Onofri, Il sospetto della realtà, Cava de’ Tirreni, Avagliano Editore,2004, p. 181-182. 14 E. Canetti, La provincia dell’uomo, trad. it. di F. Jesi, Milano, Adelphi, 1978, p.299. 15 Cit. L. Romano, in M. Onofri, Altri italiani. Saggi sul Novecento, Roma, Gaffi editore, 2012, p. 139. 13


13 insomma la riconquista, per libero scatto della fantasia, dentro ciò che è esistito, dell’autenticità dell’essere.16

I.3 Il romanzo Le parole tra noi leggere.

«Io mi aggiro intorno a mio figlio come uno che si aggira intorno ad una montagna per trovare la maniera di scalarla».17

Lalla Romano esprime con la sopra citata frase, il nucleo dell’intero libro. Il girare intorno a un personaggio vicinissimo e allo stesso tempo lontanissimo, come solo un figlio può essere. Le parole tra noi leggere è un titolo montaliano: «…le parole/ tra noi leggere cadono. Ti guardo/ in un molle riverbero»18; il verso parla di un rapporto amoroso, così come ne parla la Romano, anche se qui l’amore è diverso. «Io mi son messa a scrivere di lui (mio figlio) nell’intento di ricomporre, così da poterlo leggere (come si dice “leggere un quadro”) un personaggio ermetico e perciò stesso emblematico».19

L’opera presenta la coscienza della narratrice «come madre che entra enormemente in crisi: cioè un’accusa, un’autoaccusa quasi continua».20 Per questo il libro è anche un libro sugli errori delle madri. Spinta dal legame e dal sentimento per il figlio, per quel figlio che vive come se gli altri non esistessero, Lalla Romano, non adattandosi e non rassegnandosi, intraprende la coraggiosa e rischiosa avventura di scrivere Le parole tra noi leggere, con il fine di ridurre l’estraneità che la separa da lui.

16

M. Onofri, Altri italiani. Saggi sul Novecento, cit. , 2012, p. 139. Cit. L. Romano, in V. Sereni, Prefazione: Colloquio con Lalla Romano, in L. Romano, Le parole tra noi leggere, Torino, Einaudi, 1996, p.VII. 18 E. Montale, in C. Segre, Introduzione,in L. Romano, Opere vol.1, Milano, Mondadori, 1991, p. XXXVII. 19 L. Romano, Epilogos y conclusión de Lalla Romano, in L. Romano, Suaves caen las palabras, Barcellona, Libros de Asteroide, 2005, p. 331. 20 L. Romano, in V. Sereni, Prefazione: Colloquio con Lalla Romano, in L. Romano, Le parole tra noi leggere, Torino, Einaudi, 1996, p. VIII. 17


14 L’io narrante è una mamma, la stessa Lalla Romano, che, quasi spaventata dal confronto, attenta ai piccoli dettagli, osservatrice precisa e quasi maniacale, racconta suo figlio, il loro rapporto conflittuale, la lotta, la differenza, l’astio, la scontro tra i due. Il protagonista del libro è Pierino, il figlio della scrittrice. Pierino è sin da bambino un anarchico, indisponente, contemplativo, ermetico, intelligente, svogliato e testardo. È un personaggio soprattutto polemico, in particolare con la madre, che invece appare apprensiva, intellettuale. Definito sin da bambino poeta, filosofo, pittore, nasconde in sé tutti i modi di essere che saranno corazze coriacee contro gli altri, e soprattutto contro la mamma. Pierino, «senza volerlo, aveva anticipato alcuni atteggiamenti dei ragazzi di quasi una generazione dopo».21

L’autrice descrive il rapporto madre - figlio, non solo come un rapporto di comprensione, ma proprio come un legame affettivo, carnale. Il conflitto, anche drammatico, che il libro narra è quello tra le forme: il figlio ama, però in forme diverse da quelle che la madre si attende, che saprebbe riconoscere; la madre ama, però con forme (passionali, esplicite, anche prepotenti) che il figlio rifiuta, pur accettando implicitamente l’amore. La madre predilige la discrezione, mentre il figlio l’introversione: tutto ciò basta per spiegare la sostanziale incomunicabilità. Lalla Romano vuole “leggere” il figlio, ma leggendo il figlio, cerca di leggere se stessa. La scrittrice fissa dei momenti di realtà vissuta e analizza i comportamenti, quelli del figlio, per comprendere ciò che forse non fu subito compreso, quelli della madre, per definirne gli errori. La donna che narra è, come scrittrice e persona colta, estremamente libera, spregiudicata, ma sul piano mentale, mentre nella vita pratica, osserva o almeno rispetta le convenzioni sociali; il conflitto e l’iniziale incomprensione con il figlio si scatena perché questi la libertà e la spregiudicatezza li porta nella vita, insomma, perché è più coerente della madre.22 Nella Prefazione del 1989 de Le parole tra noi leggere23 , Lalla Romano fa alcune riflessioni sul romanzo.

21

C. Segre, Introduzione, in L. Romano, Opere vol.1, Milano, Mondadori, 1991, p. XXXVII. C. Segre, op.cit. , p. XXXIX. 23 L. Romano, Appendice , in L. Romano, Opere vol. 2, Milano, Mondadori, 1991, p. 1731. 22


15 A questo libro si accompagna in me un senso di colpa. È un libro lucido, trasparente; ma un ombra lo segue. Io non riconosco la colpa di cui son stata accusata, quella cioè di aver «usato» un essere umano. Se chi scrive sempre in qualche modo «usa» gli esseri e se stesso, allora sì, è vero. Ma nel mio caso c’è l’aggravante che la vittima è un figlio: il mio stesso figlio. Nei casi di indagine su una colpa per lo meno presunta, si cerca il movente. Eccolo. Io sentivo la necessità, l’urgenza di dare forma (scritta) al personaggio che lui era. Avevo pensato, da principio, di fare parlare di lui in prima persona. La finzione è lecita in letteratura, anzi è considerata necessaria, identificata addirittura col lavoro creativo; non però nel mio codice personale. Per me la veridicità è un aspetto della verità (poetica). Semplicemente, la veridicità non mi fa paura. Il ritratto diventò duplice: mio e suo, di me e di lui. Lui collaborò alle mie scoperte documentarie: lettere, temi di scuola, disegni, eccetera. Però non mancarono da parte sua – e il libro le conserva – precise interdizioni «Vuoi un consiglio? Non scrivere su di me». E: «Io non voglio essere nominato!». Fu leggerezza non tenerne conto? C’era sempre in me quella determinazione, che io sentivo come un dovere: io che non amo né il termine né l’idea di dovere. Spettava a me dare concretezza alla misteriosa, elusiva, immagine di lui. Il libro fu molto amato, allora e poi negli anni, il che è stato perfino imbarazzante, per me. Lui detestò, rifiutò quell’amore: come se amassero un suo doppio e sottraessero a lui la sua vita. Del resto è tutto detto dalle prime righe («Tu mi manchi di rispetto!»). Dunque, sapevo.24

Il romanzo della Romano, dunque non venne apprezzato da suo figlio Piero. Al seguito della pubblicazione de Le parole tra noi leggere, Piero decise di non leggere mai più nulla di ciò che la madre avrebbe scritto. Alla Romano venne posta una domanda riguardo il rapporto con il figlio, al seguito della pubblicazione del romanzo: «Se dopo aver letto il libro, Lei avesse saputo la reazione di suo figlio, e quindi il distaccamento da lei come madre, lo avrebbe pubblicato comunque? ». La risposta fu «SI».25 Questo romanzo rese più profonda la distanza tra i due veri protagonisti, ma l’autrice non si pentì di averlo scritto: «Anche il libro è un figlio, per uno scrittore (uomo o donna). Questo il dramma, irrimediabile. Me è appunto vita, transitorietà. Forse non colpa, ma punizione».26

24

Ibidem. Cit. L. Romano, Epilogos y conclusión de Lalla Romano, in L. Romano, Suaves caen las palabras, Barcellona, Libros de Asteroide, 2005, p. 335. 26 Ibidem. 25


16

CAPITOLO II La traduzione de Le parole tra noi leggere


17

Suaves caen las palabras.27

Yo doy vueltas en entorno a él: con circunspección, con impaciencia, con rabia. Ahora doy vueltas en entorno a él; en otro tiempo, en cambio, lo acometía, pero incluso ahora de vez en cuando – aunque raras veces – estallo. Entonces él me mira con su famosa calma y dice: - ¡Es que tú me faltas al respeto! Mi cólera de ahora debe de ser un residuo de las antiguas batallas, cuando yo reaccionaba come si él fuera una parte de mí que se traicionaba a sí misma y, por tanto, me traicionaba. A mis asaltos y asedios, ahora más que nada admirativos ya, él opone frialdad, hastío e incluso amabilidad (distraída), pero sobre todo yo no renuncio a intentar conocerlo: discursivamente, quiero decir. Sé de sobra que las preguntas son un sistema inadecuato, pero vuelvo a caer en él. Él está sentado delante de mí, inmerso en un libro (tal vez un tebeo). Yo intento iniciar una conversación y, ademàs, sobre asuntos generales. Sin levantar la cabeza, responde: -

No sé.

Cuando chupaba mi leche, me parecía feroz. Como si estuviera amamantando un leoncito (de hecho, mordía). Me sentía intimidada, preocupada, no irritada. La señora Turin me había avisado de que la sensación de «la llegada de la leche» era morbosa. -

Como todo lo demás – había añadido.

Yo estaba decidida a verlo claro, pero fue él quien me rechazó, para mantenerme distante, desde entonces. A saber si no habría caído yo en la antigua trampa. Antes, cuando él pataleaba en mi vientre, me había parecido irritante, ofensivo, y nuestra relación era ya la adecuada, precisamente en el sentido de no morbosa. La cólera parece algo sano, a menos que sea cierto que la violencia en otros planos es también una manifestación de «aquella» lucha, pero no hay otro modo de eludir la morbosidad. En cualquier caso, yo sólo soy un antecedente.

27

Ibid. , pp. 5-22.


18 Algo me sigue desde entonces: una mirada, una mirada negra, una mirada adulta, y él estaba en la cuna y tenía pocos días. Lo advertió mi padre: -

¡Este niño tiene hambre!

No lloraba, sino que miraba de aquel modo. La señora Turin (otra vez ella) me había prestado un libro – inglés (los ingleses estaban en vanguardia) – sobre la lactancia: dosis, horarios, peso, etc. Yo, si no hago cálculos, no me equivoco: cuelgo los cuadros derechos y a la misma altura sin usar el metro; si lo uso, tal vez lo tenga vuelto del revés y yerre en la cuenta. Los instrumentos me aburren, me cohíben. Por desgracia, dada la importancia del caso, me impuse la obligación de ser científica: así, le di demasiado poco de comer. Después, durante toda la vida, he querido remediarlo, pero ya no lo he logrado. No ha vuelto a tener hambre: ni siquiera durante la guerra, cuando casi no teníamos nada de comer, pero, aparte de eso, a veces pienso que todo se deriva de aquello. Y de nuevo la tentación del «científico». Los errores posteriores sólo son imputables a la pasíon; de echo, no he vuelto a recurrir a los textos, salvo para ver si encuentro o no una confirmación. Sin embargo, creo que debo a aquella culpa sentirme mal, cuando me dice que le falto al respeto: pienso en aquel reproche mudo, espantoso. Nunca llorópropiamente, de niño, y menos aúgimoteó. Lanzaba gritos, acaso en plena noche, como timbrazos. No quería comer, pero parecía que lo hacía por juego. Escupía las papillas riendo, las espurreaba como un tritoncito. Era barrigudo y alegre. Lo considerábamos incluso demasiado oprimista (¡ojalá lo hubiera sido!). Habíamos tenido una especie de advertencia. Él no había nacido aún, por lo que lo olvidamos. Un niño estaba arrodillado en la iglesia con su madre: un niño flaco, nervioso, tormentosamente inqueto. No es que armara alboroto; estaba tenso, agudo, mostraba el sufrimiento de un pájaro enjaulado. Lo mirábamos fascinados, esapntados. Su madre, que intentaba hacerle leer un misal, parecía distraída. Lo observábamos con el mismo pensamiento. Nos lo dijimos fuera, pero no todo, es decir, que también nuestro hijo podía – pero habíamos pensado incluso que debía – salir así. Lo recordamos años después, cuando también él se volvió difícil. El cambio se produjo cuando estábamos en Turin y él había cumplido un año. Antes se agitaba, pero con alegría precisamente. Por la avenida por la que lo llevábamos, en el cochecito, daba un espectáculo: se tiraba afuera, quería saltar por los bordes. A andar


19 aprendió muy pronto. Exploraba su alrededor, levantaba con sus fuertes manos piedras tan grandes como su cabeza. Yo lo observaba casi con indiferencia, como un futuro hombre practíco. Escribì a su padre: «…esta mañana ha transportado toda la leña de la cesta al medio del pasillo y vuelta atrás y después todos los zapatos a la cocina. Me causa cierta impresión un hijo tan diferente de mì, tan extrovertido…» Me permitía yo aquel lujo, aquel despilfarro, segura de haber engendrado un ser fuerte. Por los demás, el pesar no era tan esnob: si hubiera sido el otro, el introvertido, habría llegado a ser un hombre de estudio, de pensamiento, es decir, alguien conocido, fraterno, aunque más incómodo indudablemente, pero yo estaba contenta: veía crecer a un dominador, un jefe, alguien que se despegaría de nosotros triunfalmente. No resulta del todo simpatico decirlo así, pero para él debía de ser, de todos modos, una vida hermosa: la incomprensible vida de los destinados al éxito. Casi lo sentía yo ya un poco ajeno: de no haber sido por su cómico aspecto de gorrioncillo, su patético hacérselo encima. Había en él un desdén a ese respecto, por la incomodidad suya y el azoramiento nuestro, que tenía algo de aristocrático. Se dejaba cambiar sin dejar de jugar o hablar, como si aquella operación no fuera con él; si nosotros no hubiésemos notado la bolsita colgada dentro, lo habría llevado encima de un lado para otro con dignidad: ¿sin advertirlo? Nos lo preguntábamos. Teníamos que salir con una muda de recambio, que apoyados en un árbol de las avenidas o dentro de un portal y muertos de verg̈ uenza, cambiábame a toda prisa, porque éramos los únicos que nos habíamos detenido para aquella necesidad; los otros iban acompañados de niños más o menos dotados de autocontrol, evidentemente secos. Parece ser que el rechazo de la «educación del esfínter» significa el rechazo de la Educación, de lo que se sigue que la propia Educación resulta insuficiente, floja, etcétera. No me cuesta reconocerlo. En artículos de periódico un pediatra ironizaba sobre las madres que preguntaban a qué edad debe comenzar la educación: si a los cuatro años, por ejemplo. Nosotros nos reímos con compasión, pero resultó que no


20 pudimos –o supimos– emprenderla ni a los cuatro meses ni a los cuatro años, por incompatibilidad e intolerancia del sujeto. ¿Sería inmadurez? La nuestra o, mejor dicho, la mía estaba fuera de duda. La suya era más bien discutible. En efecto, acogía o, mejor dicho, soslayaba nuestros intentos como quien no puede cambiar. Es cierto que en un sentido no estábamos de acuerdo, el padre y yo. C. consideraba saludable una azotaina rápida y oportuna. Yo, que había recibido una sola bofetada de mi padre (padre sólo de hijas, me recordó C.) y aquella humillación aún me escocía, sentía terror (histérico) por los castigos corporales. Si C. se disponía a atizar al obstinado, yo saltaba. Citaba incluso a san Pablo: ¡No irritéis a vuestros hijos! Y lo curioso es que en realidad yo lo irritaba: con los gritos, las imploraciones, los besos. Todo lo que él de mayor llamó después «melodrama». Yo le dedicaba una actitud y un tiempo exclusivamente míos, a los que atribuía una influencia calmante e incluso educativa. Era un uso muy antiguo, en sí, un uso de las antiguas nodrizas y madres campesinas, relacionado con el movimiento de las cunas, mientras que él nunca fue acunado: primero durmió en un gran cesto con ruedas y después en una camita de metal. Consistía en sentarme a su lado y cantar largas nanas y canciones, que se remontaban a mi infancia campesina: canciones de soldados y borrachos y de iglesia, incluso; tristísimas y vueltas aún más tristes por los saltos de mi voz, ni dulce ni educada, a la que me empeñaba en dar las cadencias desgarradoras que me habían deleitado de niña. Parecía que le gustaban mis nanas, porque nunca las rechazó. No se podía decir que le indujeran el sueño: las sesiones eran larguísimas, él siempre con los ojos en blanco. Tal vez con aquello consiguiera únicamente mantenerlo despierto, pero no se me ocurría pensarlo. Nadie me lo reprochaba; aquel dominio era mío y me bastaba. En cambio, me aturdía a mí misma y me levantaba de allí atontada y satisfecha con la sensación de haberle comunicado algo importante: tal vez el amor por las zonas obscuras y repudiadas, en caso de que la educación urbana y el mundo moderno en que iba a vivir pudieran mantenerlo demasiado en la superficie. ¿Sería por eso por lo que de niño escuchaba en la radio las nanas árabes? Y ahora ha ido a deleitarse con ellas in situ, pero me temo que me estoy jactando. Hasta que fue a le escuela, no estuvo en verdad triste, per e n Turín perdió aquel color de manzana roja por el que en Cuneo nuestro amigo Turin lo llamaba Pinotö, ya


21 que parecía un niño del campo. Tenía incluso explosiones de júbilo ( cuando estaba solo con Maria). Era como un júbilo pánico. Se paraba en la escalera, mientras subíamos de regreso de los paseos, y se ponía a cantar. La escalera resonaba, exaltaba su placer de escucharse. A Maria le costaba hacerlo callar; es más: esperaba a que callara por sí solo. En cierta ocasión se encerró en el baño, abrió todos los grifos y se puso a cantar a voz en grito. El estruendo era una amplificación, una orquesta. En el extremo opuesto, había en él la conciencia. Me refiero a ca conciencia moral. Es cierto que por un lado era simplemente el sometimiento a la condena por haber sido malo, aceptada con fatalismo. Eso era grave, como error, cometido por nosotros por comodidad, pero la conciencia subía de él y, como era algo grande en un niño pequeño, surtía un efecto cómico. Más que malo, era naturalmente, incómodo, embarazoso. El inocente éxtasis de escucharse cantar causaba molestias en la sobria escalera del rico edificio. La proeza del baño había inquietado mucho a Maria: -

Abre, anda, sé bueno – debió de rogarle Maria.

«Ser bueno» y «ser malo» fueron en un principio expresiones de Maria. El calificativo de «malo», pronunciado con la dulce inflexión del piamontés de Dronero, era usado por ella como reproche, nunca como denuncia o amenaza. La expresión fare il bravo, que en el Piamonte significa «ser bueno», acababa usada también en su acepción propia, ya que con mucha frecuencia quería exhortar a algo así como el valor: por lo general, para inducirlo a comer. Nosotros ideábamos argumentos, que él estava sin falta en condiciones de rebatir en términos lógicos. Para dar realidad a la imagen de los niños hambrientos que no podía ver en los barrios señoriales,recurrimos a la infancia abandonada. (A beneficio de la Obra, llenábamos una bolsa con periódicos, el correo, el papel usado, y un hombre venía a racogerla). - ¡Piensa en esos pobres niños abandonados! - No están abandonados, ¡tienen al hombre del papel! O, con lógica aún más convinciente: - Y, si lo como, ¿qué ganan ellos? Sus respuestas eran fulminantes, pero serias. El empleo riguroso de la lógica – aun cuando no sea sofístico – no parece armonizar con la bondad, dado que supone


22 frialdad y lo imaginamos al servicio del egoísmo, de la prepotencia, pero entre el lobo y el cordero la lógica es de éste y no de aquél. Los dos componentes de su naturaleza eran, como ahora, lo lógica y la pasión. La violencia venía después, naturalmente (¿entraría dentro de la lógica?). La pasión dominante en él era el exclusivismo, los celos. ¡Pobre de Maria, si se juntaba con alguien o si alguien venía a casa! Se presentó un fraile mendicante; mientras Maria lo atendía, apareció él: aquel niño pequeño de pelo desgrañado, inseguro como debía de parecer con las piernecitas un poco juntas en las rodillas, empuñaba en su fuerte manita un cuchillo de cocina. -

El fraile – contó Maria y le deban ganas de reír, pese a su veneración por el religioso – se ha asustado y ha escapado.

Cuando Maria debía responder al teléfono, él se tumbaba en el suelo, justo debajo del aparato, y se ponía a gritar o a cantar. Lo recordó Maria una vez en que Nené dijo: -

¡Nunca me deja hablar por teléfono! ¡Se pone a silbar o a tocar el acordeón!

De hecho, Nenè, su nuevo amor, es su nueva víctima. Sin embargo, los celos son un homenaje. Menos violentos, porque éramos menos importantes, eran los que sentía de nosotros, pero no meno inflexibles. Nos quería con él por separado. Cuando salíamos juntos los domingos, yo lo dejaba de la mano de su padre y los seguía a unos pasos de distancia, cosa que me gustaba, porque así los contemplaba. Si las visitas eran para nosotros, no se mostraba tan radical en los medios, pero igualmente hostil. De nuestros amigos sentía más que nada miedo. Turin había venido a comer, pero yo no había vuelto aún de la escuela ni C. del banco, y dijo: -

Tal vez sea mejor que vaya a dar un paseo.

-

Sí, sí, es mejor – dijo él, tras aparecer desde detrás de Maria.

Pero habló con amabilidad, en tono de conversación. Cuando vino a visitarme la dueña de la casa de Corso Galileo Ferraris – tal vez quisiera ver cómo conservábamos la vivienda - , yo no tenía menos miedo de él. No teníamos sillones y le ofrecí una silla. Era una señora alta, con dos enormes zorros, uno en cada hombro del abrigo. Parecía poco segura en al silla y él fue, de rodillas, a acurrucarse precisamente bajo aquella silla. Tal vez porque era el único sitio desde donde podía no ver a la señora. No solo yo me sentí mal, creo que también la señora se


23 sintió incómoda. Tal vez ya entonces tuviera el sentido de la «comicidad de la situación». Es probable, si tenemos en cuenta que ese aspecto de las relaciones humanas siempre ha sido después casi el único que le ha interesado. También tuv arranques de simpatía: tan escasos, que más adelante nos parecieron fabulados, imaginarios. Las personas a las que eligió con un movimiento rápido, imprevisto, eran en verdad particularmente amables. En cierta ocasión en que yo lo llevaba de la mano por el paseo, se separó de mí y vi que había cogido de la mano a una mujercita humilde, sonriente. Yo me disculpé, más asombrada que ella, pero ella estaba contenta, lo agradecía: -

¡Dejelo! ¡Me da tanto gusto! ¡Nadie me busca, nunca, nadie me habla! ¡Estoy tan sola!

Tal vez fuera más joven que vieja, menuda, vestida de obscuro; tal vez pareciese vieja porquè tenía las cejas casi blancas. Después volví a verla varias veces en el tranvía: yo volvía de la escuela y ella de su oficina, una estafeta. Me sonreía, con su expresión apacible y volvía darme las gracias: -

Nunca lo olvidaré, ¡me dio tanto placer!

El otro encuentro fue menos extraordinario. Eligió a una señora elegante, de pelo entrecano pero juvenil, animosa. Yo sabía quién era aquella con traje de chaqueta de lana inglesa, que se había cruzado con nosotros en la acera del Corso Galileo Ferraris: era la madre de Natalia. Ella no me conocía entonces. También aquella vez me diculpé; también ella sonrió, divertida, y lo acarició. ¿Habría seguido modelos pare aquellas elecciones? Resulta fácil; la primera era del tipo de Maria: la humildad, la dulzura; la segunda se parecía a su abuela, mi madre: fantasía, gracia. Pero más que nada creo que fue un arranque de aquella felicidad pánica, libre. Más adelante no volvió a sentir la inspiración comunicativa. Para ser precisos: no delante de mí. También sus deseos materiales tenían carácter de urgencia. Nosotros teníamos muy poco dinero, pero a veces debíamos ceder ante la seriedad – la seriedad de la pasión – de sus peticiones. Precisaba: -

En Via Massena esquina a Via Montevecchio…


24 En aquel punto había en un escaparate un trenecito, una locomotora roja y negra. Repetía la petición hasta la obsesión; se dormía con la frase «en Via Massena esquina a Via Montevecchio…». Cuando tuvo el tren supongo que lo tuvo abrazadocierto tiempo, hasta que le vino otra pasión. Con determinación repentina, tiraba las coasa que poseía. Creo que no tiraba los juguetes que había deseado, sino los que le había regalado alguien. Solían ser de lujo, como un «perro que caminaba», un gato de peluche. Los tiró a la basura con un gesto fulmíneo, como todo lo que hacía voluntariamente. La tristeza nació con la conciencia: una pesadumbre que no era la de la cólera. Estaba sentado entre dos curas (sobrinos de Maria). Como dijo despuée Maria, parecía Jesús entre los doctores. Dijo: -

Yo iré al Infierno, porque soy malo.

-

Pero, ¿tú sabes quién hay en el Infierno?

-

Sí que lo sé. Allí están los diablos.

Puede que quisiera asombrar, desafiar a los curas, a los que detestaba por celos. Sabía que Infierno y Paraíso eran de su competencia, pero el sentido verdadero de aquel desafío era un empeño, aceptado con sus riesgos, para siempre, podríamos decir. Tal fue en el origen – fatalista y, por ello, desesperado – su desafío. Anterior era la conciencia de su debilidad y por ésta, no por «ser malo», sintió humillación. Era anterior, porque aún hablaba de sí mismo en tercera persona. Paola se lo encontró de la mano de Maria y llorando. Habían ido, según dijo Maria, a ver el desfile de las carrozas de Carnaval. -

¿Por qué lloras? – preguntó Paola. Pues es que – respondió ( esta expresión se la había copiado a Maria) - «él»

ha querido ir a ver y ha tenido miedo. ¡Y ahora llora! La consternación por el descubrimiento de su debilidad era el motivo del llanto, pero también el llanto era motivo de consternación, porque era otra debilidad. Nosotros no lo entendíamos hasta el fondo, éramos demasiado jóvenes. ¡Lo que nos reímos con la historia « del ojo»! Maria nos contó que él se había daño al chocar contra algo y había llorado; después iba repitiendo para sí, con tono entre asombrado e indignado: -

¡Él llora por un ojo!


25 Maria imitaba aquel tono, que nos parecía tan gracioso. Nos abrazábamos riendo. Que lo denunciara ante sí mismo era precisamente la señal de su conciencia cargada de asombro, pero ya caracterizada por una dura y obstinada aceptación. En cuanto al uso de la tercera persona en lugar de la primera, está considerado una prueba de inmadurez, de retraso en la conciencia de la propia persona. En realidad, es una objetivación desinteresada. En efecto, la primera persona indica el surgimiento de la voluntad, de la afirmación de sí en lugar de la pureza objetiva, contemplativa. Mi madre contaba que, cuando yo estuve fuera unos días (había ido a Roma para las oposiciones y, por tanto, él tenía dos años), en el balcón de la casa de Boves apretaba la barandilla con las manos y miraba abajo: -

Hay hierba, hay flores, pero su mamá no está.

La mención de las flores vuelve un poco sentimental la frase. Por lo demás, yo siempre la he considerado improbable, por demasiado nostálgica para conmigo. Habría sido el único grito del corazón (por mí) no sólo de aquellos años, sino de todo el tiempo hasta ahora de nuestra vida. La verdad es que yo no era la «madre». Lo era Maria, no distraída como yo por otras tareas e intereses. Yo daba clase, frecuentaba la universidad y las bibliotecas, pero sobre todo me ocupaba la pintura, que consideraba mi oficio. Pero con frecuencia estaba con él precisamente por la pintura, porque lo copiaba. No se estaba quieto, pero no me parecía un incoveniente. Los retrasos que le hacia entonces parecían apariciones, tiene la expresión repentina de cuando se asomaba a la puerta y desaparecía. La abuela – mi madre – se parecía un poco a mí en lo de dejarse arrastrar por las emociones, pero de forma más discreta. No tenía mi violencia en la ternura ni mi ira, pero también ella, como Maria, se rendía a todas sus manías y él la amaba, como amaba a Maria y como ahora, en cierto modo, ama a su mujer. «Quiere llevarme a la montaña, me hace jugar a la guerra, me enseña a manejar la espada», escribía mi madre. En e reverso de la hoja está dibujada una locomotora con un vagón de mercancías. La seguridad del trazo y la importancia concedida a los topes y a la minivela de los frenos revelan su carácter. También aparece la figurita del guardafrenos, con un poste en lugar de la cabeza.


26 Per el dibujo puedo averiguar la fecha de la carta. En el flanco de la locomotora está escrito «BESOS» ( sugerencia de la abuela). Escribía con letra de molde a los tres años. En aquella misma carta, la abuela anotó: «Cuando lo lavo y lo visto por la mañana, me dice: “Es Papá quien me viste, es Papá quien me lava”». Su padre se ocupaba de él para aliviar a Maria – yo había salido camino de la escuela- , pero no sólo por eso. También lo hacía jugar con él, pero estaba poco en casa. Había inventado para él «el guerrero Pierino», una marioneta Orlando - don Quijote, cuyas historias representaba en el teatrito tambaleante. Entre los «documentos» he encontrado una hoja grande, un cartel: «MI PAPÁ ES MALO». Los caracteres de la inscripción son altos, redondos, espes, adornados con volutas; están bien espaciados y componen un motivo elgante, obsequioso. La protesta parece dictada por una especie de entusiasmo. ¿Sería un reconocimiento (en el sentido d elogio), en vista de que él mismo se calificaba de «malo»? Pero sabía perfectamente que era como una maldición, aquella calificación, y la forma de proclama era una publicidad solemne, una veganza jubilosa. Le he preguntado ahora per qué llamaba «malo» a su padre. ¿Tal vez porque era más severo que nosotras (Maria y yo) Y sobre todo más justo? -

Supongo que porque no podía dominarlo, aprovecharme, como hacía con vosotras.

¡Cómo lo divirtió el descubrimiento de ese cartel! Para nosotros, el de entonces es el mismo de ahora, pero para él es otro. De mí nunca dijo ni escribió «Mi mamá es mala», pero lo que recibió su padre su padre yo nunca lo recibí. Más o menos por aquellas fechas, C. tuvo que operarse. Él dibujó un carro de combate y me dijo que se lo llevara a su papá a la clínica. Añadió: -

Dile que lo he hecho para él.

No parece creíble, sobre todo a la luz del comportamiento posterior. ¿Qué querría decir? Él era siempre todo en lo que decía, entonces; después, para encontrar el todo, hizo falta – hace falta – intuir, comprender lo no dicho. Yo de niña me drogaba con los cuentos. A él nunca le conté cuentos. Quería defenderlo del miedo. Él tenía ya miedos curiosos. Cuando había dicho «hay hierba, hay flores», no se debe entender esa referencia a las flores como un afectación. Para él, las


27 flores eran presencias misteriosas, instrumentos peligrosos. Cuando lo acompañabamos al campo, no se acercaba a la carretera porque tenía «miedo de las flores». A mí me habría gustado que corriera por los prados, pero él declaró que pensaba sentarse en la inde, en una silla. ¿Nacería del miedo la pasión de las armas que le entró después? Tal vez no hubiera agredido al fraile mendicante sólo por celos. Así, años después, cuando asustó a la doctora al apuntarla con un fusil o cuando amenaza – ahora – a posibles enemigos que quisieran llevarse a su Nené, pero en todos los casos hay siempre también un fondo de juego, de burla. Si al final se ríe, está claro. Si se ve a sí mismo objetivamente, se ríe divertido; si mira a los otros, sonríe sarcástico. A veces permanece obscuro: señal de que entra en juego la cólera, la indignación. Con el tiempo el miedo ha quedado exorcizado, pero no del todo. En él miedo es, evidentemente, fruto de la imaginación, es decir, inventivo, creativo. Ante las circunstancias, peligros, accidentes, siempre, desde pequeño, ha permanecido impertérrito. «Un faquir», dice de él el dentista, porque rechaza la anestesia. Así, pues, no conocía cuentos de miedo. La primera vez que volvió del parvulario, le vimos expresión excitada, intensa. -

¿Qué ha sucedido?

-

¡Estaban los asesinos! – Miraba fijamente hacia delante y recalcaba las

palabras, como un actor-. Los asesionos estaban dentro de los sacos. Tenían un cuchillo. Corrían por el bosque. Fue una de las escasísimas ocasiones en que contó algo de la escuela: la emoción había sido demasiado fuerte, casi no podía dominarla. Pronto Pinocho pasó a ser «su» libro y él lo ilustró, en muchas hojitas. En los dos encapuchados negros con los ojos blancos,n que apuntaban a Pinocho con sus cuchillazos, reconocimos a los asesinos de su relato del terror. Entre los exorcismos figuran en primer lugar los dibujos. No me sorprendía lo que entonces consideraba señal de una vocación. Puede que el exorcismo, después de haber funcionado, se agote o evolucione: está por ver. No me sorprendía lo que entonces consideraba señal de una vocación. Puede que el exorcismo, después de haber funcionado, se agote o evolucione: está por ver. No me sorprendián aquellas obras, pero


28 las admiraba. Me daba cuenta de que su sentido y valor eran paradigmáticos, exclusivamente de él como como persona presente, además de futura: en cualquier caso, no hipotética. Como en la historia de la Humanidad, temo que sus obras perfectas fueran las primeras. Digo «temo» poque él no dispone, como la Humanidad, de innumerables vidas. En cuanto a la prioridad, la vacilación es entre el dibujo de un cubo de albañil y los de algunas figuras sagradas: la materia sobre la cual está trazado el dibujo. Papel basto, de envolver, usado, un poco ajado, en realidad; se lo había dado Maria, como también le había propuesto ella el modelo. Posteriormente, ejecutó sus dibujos en el reverso de ciertos impresos que le proporcionaba su padre. Los especímenes son dos; el tema es el mismo. Una estampita de Maria, un Sagrado Corazón, había servido de modelo. El de papel color de arena es – me parece a mí – el primero absoluto, porque es más riguroso, más puro. La figura es un rectángulo vertical dibujado con un solo trazo, sobre el cual se apoya, un poco inclinado en el hombro, un óvalo puntiagudo por debajo, la cabeza, atraversada en la cima por un trazo erizado de pequeños segmentos: la corona de espinas. Los ojos, grandes, miran con asombro, pero también con espanto. Signos claros, severos, simbolizan la nariz y la boca. Arriba, a los lados del rectángulo, se desvían dos triángulos rematados en el vértice con un nudo de cinco o seis rayos: las manos. En el pecho destaca un circulito coronado por una cruz: el corazón. La figura tiene la majestad que esperamos de una imagen de Dios. El otro dibujo (en papel verde apagado) viene en segundo lugar, porque es más hábil, más elocuente; las mangas son más importantes, más movidas, el corazón tiene forma de corazón, incluso con la llamita. Esos dibujos son de la primera casa; los de Pinocho, de la casa de Via Vespucci, porque allí fue al parvulario y leyó – o, mejor dicho, le leyeron – Pinocho. Todas las historias de Pinocho y otras composiciones sagradas – el Pesebre, el Paraíso, etcétera – son de estilo más dramático, el trazo es más fluido, más agradable. Hay ironía, en una palabra; junto al asombro hay dominio y, por esa razón, un mínimo de complacencia: como ocurre precisamente con el arte de los siglos menos religiosos.


29 En c uanto al cubo del albañil, encabeza una larga serie de formas y objetos realistas, que primero dibujó y luego fabricó el mismo. Su pasión por los objetos-instrumento había comenzado cuando tenía un año, con el martillo de madera que el hermano de Maria fabricó para él. Aquel primer martillo proliferó en otros infinitos, pequeñísimos, que mandaba hacer a Maria con el material perecedero que ella tuviera a mano en la cocina: tronchos de col requetelimpios, con cerillas de mango. Gritaba en sueños: -

¡Me has barrido los mirtillos!

Nosotros nos reíamos; como no nos gustaban los objetos (a míacaso ciertas cosas naturales que suelo recoger: guijarros, huesos, conchas), no lo entendíamos. Como de costumbre, nos parecía cómico. El cubo abocinado lo vio a hombros de los albañiles subiendo y bajando por los andamios de una casa en construcción, por una carta de la abuela se enteró de que el cubo de albañil es una cosa rara. Escribía que el abuelo y ella habían recorrido todo Cuneo, pero no habían podido encontrar el cubo como él lo quería (pequeño, supongo), porque los de verdad son de una sola pieza y están hechos con molde. Le he preguntado: -

¿Cómo te sentías de pequeño, antes de ir a la escuela?

-

Creo que bien. ¡Aún no había descubierto que era un inadaptado!

Usa los términos científicos por su crueldad, pero sobre todo irónicamente. Lo sé y, aun así, me siento mal, en un primer momento. La misma lucidez que tiene ahora la tenía también de niño, pero, antes de adoptar su postura negativa, tuvo un arranque de voluntad (o fantasía) optimista, casi conformista. Por un tiempo a las señoras que se inclinaban sobre él y le decían: «! Qué niño más guapo!», les replicaba con brusquedad: «Yo no soy un niño, ¡soy un hombre!». ¡Cuando pienso que no ha vuelto a afirmarlo en su vida! Pero es verdad que yo considero fatuo, en el fondo, creerse de verdad «un hombre»: por parte de un adulto, quiero decir. Al bajar del tranvía de vuelta de la escuela con una colega, nos lo encontrábamos con Maria. Gili se enternecía, intentaba acariciarlo:


30 - ¡Qué niño más guapo! Y él contestaba con rabia: - No soy un niño, ¡soy un hombre! Me preguntó si sería en la epoca de la escuela Coppino. Querría decir que se afirmaba como hombre precisamente porque se sentía en el colmo de la inseguridad: allí los compañeros eran astutos y prepotentes y la maestra inflexible y estúpida, pero no dispongo de elementos para saberlo. Me inclino a pensar que era la misma época en que se declaraba «trabajador». Si hay alguien que sufre, que detesta, tener que trabajar, es él, pero es explicable. El trabajador al que él admiraba y con el cual se identificaba era el albañil – como más adelante el maquinista, el bombero, el camionero -, alguien que maneja instrumentos, no artículos de papelería, y en ese sentido es un trabajador de verdad, pero – en esto radica el asunto, el motivo del horros al trabajo integrado – trabajador por cuenta propia, en libertad. Naturalmente, los suyos son siempre trabajos perfectos y grandiosamente inútiles. Dice a su padre que en la oficina se pueden hacer horas extraordinarias, pero él no las hace, porque tiene cosas que hacer en casa. - ¡Qué tienes que hacer en casa? - Una ametralladora. Cuando Turin, que estaba a unto de partir para Amé rica a raíz de las leyes raciales, vino a decírnoslo, en el momento de la despedida, mientras con el corazón en un puño lo mirábamos bajar la escaleras, se volvió una vez más y nos gritó: -

¡Hacedlo un hombre!

En el sentido en que lo entendía Turin, creo que lo es, pese a las apariencias contrarias: contrarias sólo desde el punto de vista biempensante y mundano; por eso, yo dedico también a nuestro viejo amigo filósofo esa imagen de alguien que no ha querido llegar a ser un hombre. Estaba persiguiéndolo un poco – como hago de vez en cuando – cn admiración y ha estallado: -Pero, ¡si no es verdad en absoluto! Al contrario, ¡yo soy Pinocho! ¡Un Pinocho que no ha dejado de ser una marioneta!


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Sabía que decía algo tremendo, trágico, pero él no tiene miedo a la verdad y precisamente por eso no es una marioneta, sino un hombre. Cuando era niño, pensábamos que Pinocho era él. La faceta ingenua, confiada, aventurera de Pinocho era muy propia de él y también ceirto humor ligero que tiene, sobre todo si está lejos de nosotros; lo tenía con Maria, con la abuela y después con Nené. Mientras que el Pinocho de «no volverè a hacerlo», el «niño formalito», que había ya en la marioneta, nunca ha sido él. Por eso no podía cambiar: como no se puede llegar a ser lo que ya se es. Cuado era niño, yo observaba que de las estupideces de Pinocho se reía como una persona mayor, como ahora se ríe de sí mismo cuando era niño. Tal vez se reconociera ya en él entonces, pero sobre todo lo divertía – creo yo – el tono del libro: la alegría, la rapidez, la maravillosa concreción. También yo de niña me había aprendido de memoria Pinocho, pero después me enamoré de otro personaje: Peter Pan. Era ya una muchachita y mis gustos, influidos por demasiadas lecturas, eran un poco estetizantes. Él nunca lo ha leído, que yo sepa, y ni siquiera lo ha oído citar, pero yo siempre me he sentido culpable cunado lo he oído decir infinitas veces: « ¡No quiero hacerme mayor! », como si lo hubiera yo contagiado con aquella antigua pasión mía por el cuento decadente. Todos revivimos siempre la misma aventura porque nuestras aventuras son simbólicas. Para él, la escuela Coppino fue el modelo no sólo de todas las escuelas, sino también del ambiente de trabajo: de todas las comunidades, en una palabra. Así también la otra: la escuela de las monjas francesas, quiero decir. La Coppino, de aquéllas en las que no ha podido vivir; la de las hermanas, de los lugares en que lo han tolerado, lo han querido. Como la oficina en la que trabaja ahora: pese a detestarlo profundamente como símbolo de mediocridad, de aburrimiento, está hecho a su medida y, como dice su padre, un mal menor en esa catagoría. Nosotros la conmoción la tuvimos ya el primer día en que fue al parvulario. Nos mirábamos: ¿qué hará? Yo no pude resistirme a llamé. Mére Marie Ange me respondió con su voz aflautada, pero firme: -

Está jugando con sus compañeros.


32 La irrealidad de esa imagen era tal, que me resigné, renuncié para siempre a querer saber. Como ahora, si se me ocurre pensar que está

en una oficina (si

telefoneara, me dirían: «está trabajando con sus compañeros»), la irrealidad del asunto me parece igualmente evidente. En el fondo, es tranquilizador. Yo me lo imaginó aún ahora «en el parvulario». Sé que son lugares demasiado pueriles para él y, sin embargo, son los únicos en los que puede estar protegido, no verse ofendido.


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CAPITOLO III L’analisi traduttologica


34 III.1. Traduttologia e traduzione.

La traduttologia è la disciplina che studia la traduzione, si tratta del “sapere” sulla pratica traduttoria. La traduzione è un processo interpretativo e comunicativo che consiste nell’interpretazione del significato di un testo e la successiva produzione di un nuovo testo, equivalente a quello di origine, in un’altra lingua. Il termine traduzione indica non solo l’atto del tradurre, ma anche il testo tradotto risultante da questa attività. 28 In questo capitolo sarà affrontata l’analisi traduttologia di una parte del romanzo di Lalla Romano, Le parole tra noi leggere. Il romanzo è stato tradotto in lingua spagnola da Carlos Manzano, con il titolo di Suaves caen las palabras.29 Nel tempo, la traduttologia ha formulato una serie di concetti che son elementi chiave per eseguire l’analisi della traduzione, quali l’equivalenza traduttiva, metodo, strategia e tecniche della traduzione e gli errori di traduzione.

III. 1.2 L’equivalenza traduttiva.

Uno degli elementi più importanti nell’operazione di traduzione è dato dall’equivalenza traduttiva. L’equivalenza traduttiva è un concetto relazionale che definisce l’esistenza di un vincolo tra la traduzione e il testo originale; questa relazione si stabilisce sempre in funzione della situazione comunicativa (ricevente, finalità della traduzione) e il contesto storico- sociale in cui si sviluppa il processo traduttivo e, di conseguenza, ha un carattere relativo, funzionale e dinamico. Le equivalenze variano, il traduttore utilizza tecniche diverse per ogni caso che lo porteranno a soluzioni valide che non saranno uguali per tutte le occasioni.

28

Per l’elaborazione di questo capitolo si fa riferimento allo studio di A. Hurtado Albir , Traducción y Traductología. Introducción a la Traductología, Madrid, Cátedra, 2001. 29 L. Romano, Suaves caen las palabras, cit. , pp. 5-22.


35

III. 1.3 Il metodo, le strategie e le tecniche di traduzione.

Lucía Molina e Hurtado Albir definiscono il metodo, le strategie e la tecnica di traduzione come appartenenti a categorie differenti. Qualsiasi soluzione venga scelta dal traduttore nel momento in cui traduce un testo, risponde a una scelta che ricorre in tutto il testo (il metodo del traduttore). Esistono

quattro

fondamentali

metodi

di

traduzione:

interpretativo

-

comunicativo, letterale, libero e filologico. I metodi cambiano in funzione del contesto e delle finalità della traduzione. Il metodo interpretativo – comunicativo è un metodo di traduzione basato sulla comprensione e sulla riproposizione del significato del testo originale, che mira a produrre nel destinatario del testo tradotto lo stesso effetto che il testo originale ha prodotto sul suo lettore. Il metodo letterale si basa sulla riconversione degli elementi linguistici del testo originale, traducendo parola per parola, sintagma per sintagma o frase per frase, la morfologia, la sintassi e/o il significato del testo originale. Il metodo libero si basa sul rispetto delle intenzioni dell’autore del testo originale, sul mantenimento di funzioni simili e della stessa informazione, cambiando però categorie della dimensione semiotica (ambiente socioculturale, genere testuale, etc.) o della dimensione comunicativa (il tono, il dialetto). Il metodo filologico è caratterizzato dall’introduzione nella traduzione di commenti filologici, storici, etc. Si dirige a un pubblico colto o a studenti e può interessare generalmente testi letterari o edizioni bilingue. Le strategie di traduzione son procedimenti consapevoli e inconsapevoli, verbali e non verbali, usati dal traduttore per risolvere i problemi riscontrati nel processo traduttivo e per migliorare la sua efficacia in funzione di necessità specifiche. Nella risoluzione dei problemi di traduzione, le strategie si occupano del processo, mentre le tecniche del risultato. Lucía Molina e Hurtado Albir propongono diciotto tecniche di traduzione:


36 -

Adattamento (Adaptación): si sostituisce un elemento culturale per un altro proprio della cultura ricevente.

-

Allargamento linguistico (Ampliación lingüística): si aggiungono elementi linguistici.

-

Amplificazione (Amplificación): vengono introdotte precisazioni non formulate nell’originale, come informazioni, parafrasi esplicative, note del traduttore, etc.

-

Calco: si traduce letteralmente una parola o un sintagma straniero; può essere lessicale o strutturale.

-

Compensazione (Compensación): si introduce, in un altro punto del testo tradotto, un’informazione o un effetto stilistico che non è stato possibile inserire nello stesso posto in cui si trovava nel testo originale.

-

Comprensione

linguistica

(Comprensión

lingüística):

vengono

sintetizzati elementi linguistici dell’originale. -

Creazione

discorsiva

(Creación

discorsiva):

viene

stabilita

un’equivalenza effimera, totalmente imprevedibile fuori da quel dato contesto. -

Descrizione

(Descripción):

viene

rimpiazzato

un

termine

o

un’espressione della lingua originale dalla descrizione della sua forma e/o funzione. -

Elisione (Elisión): non vengono formulate informazioni presenti nell’originale.

-

Equivalenza (Equivalente acuñado): si utilizza un termine o un’espressione riconosciuti come equivalente nella lingua meta.

-

Generalizzazione (Generalización): viene utilizzato nel testo meta un termine più generale o neutro di quello presente nell’originale.

-

Modulazione (Modulación): viene effettuato un cambiamento di punto di vista, di approccio o di categoria di pensiero in relazione con la formulazione del testo originale.

-

Particolarizzazione (Particularización): si utilizza nel testo tradotto un termine più preciso o concreto di quello presente nel testo di partenza.

-

Prestito (Préstamo): viene inserita nella traduzione una parola o un’espressione di un’altra lingua tale e quale. Può essere puro (senza


37 nessun cambio) o naturalizzato (traslitterazione nella lingua che lo riceve). -

Sostituzione (Sustitución): si cambiano elementi linguistici con elementi paralinguistici e viceversa.

-

Traduzione letterale (Traducción literal): si traduce parola per parola un sintagma o un’espressione.

-

Trasposizione (Transposición): si effettua un cambio di categoria grammaticale.

-

Variazione (Variación): vengono cambiati elementi linguistici o paralinguistici che riguardano aspetti della variazione linguistica come cambi di tono testuale, stile, dialetto sociale, dialetto geografico, etc.

III. 1.4 Gli errori di traduzione.

Nella traduzione si possono riscontrare alcuni errori di traduzione. In maniera generale, è possibile definire l’errore di traduzione come un’equivalenza inadeguata al tipo di traduzione che viene eseguita dal traduttore. Gli errori di traduzione possono influenzare il significato del testo originale: -

Controsenso (Contrasentido): si attribuisce a una parola o a un gruppo di parole un significato contrario a quello del testo originale.

-

Sinonimia erronea (Falso sentido): consiste nell’attribuire a un determinato segmento testuale un significato differente da quello espresso nel testo originale.

-

Nonsenso (Sin sentido): si dà a un segmento del testo originale un significato nella lingua meta totalmente privo di senso o assurdo.

-

Addizione (Adición): si introducono senza giustificazione nel testo meta elementi superflui o effetti stilistici assenti nel testo originale.

-

Omissione (Supresión): consiste nel non tradurre elementi del testo originale.


38 -

Iponimia e Iperonimia (No mismo sentido): consiste nel valutare inadeguatamente una sfumatura del significato originale (ridurre o aumentare il significato, introdurre ambiguità, etc.).

-

Inadeguatezza linguistica (Inadecuación de variación lingüística): consiste nel non riprodurre (o riprodurre in maniera inadeguata) elementi relativi alla variazione linguistica.

Gli errori di traduzione possono distorcere il significato del testo originale e/o la riformulazione nella lingua di destinazione (ortografia, lessico, grammatica, coerenza e coesione, stilistica). Le tecniche di traduzione possono utilizzarsi per identificare errori di traduzione quando l’uso è inadeguato, poco rilevante o improprio.

III. 2 Suaves caen las palabras: analisi traduttologica.

La traduzione in spagnolo del romanzo di Lalla Romano è del 2005 ed è preceduta da una breve presentazione della figura e dell’opera di Lalla Romano a cura di Soledad Puertolas. Il confronto fra il testo originale italiano e quello spagnolo rivela un tipo di traduzione del romanzo da parte di Carlos Manzano che combina la resa letterale dei termini con una traduzione più libera e rispettosa dei costrutti morfosintattici della lingua di arrivo. Il traduttore riproduce l’impianto diegetico e l’andamento discorsivo dell’originale, si riserva una certa autonomia per quanto riguarda la strutturazione dei periodi e la trascrizione dei fraseggi, che seguono i criteri grammaticali e stilistici della lingua d’arrivo. Nel testo di arrivo il brano originale viene riprodotto nel rispetto delle regole sintattiche dello spagnolo. Alcuni esempi riscontrati sono: -

l’utilizzo dell’ausiliare “avere” al posto di quello “essere” nella formazione di tempi composti: ‘me he sentido culpable’ (p. 31); ‘mi son sentita colpevole’ (p. XIV).


39 -

l’uso della perifrasi “TENER QUE + INFINITO” per indicare necessità: ‘tener que trabajar’ (p. 30); ‘detesta di dover lavorare’ (p. XIII).

-

l’utilizzo di frasi idiomatiche dello spagnolo che riportano lo stesso valore connotativo della lingua originale: ‘con el corazón en un puño lo mirábamos’ (p. 30); ‘col cuore stretto lo guardavamo’ (p. XIII).

-

l’uso dei segni di interpunzione che nel testo tradotto varia notevolmente rispetto all’originale italiano. Il traduttore è stato costretto a modificare la punteggiatura al fine di osservare le norme e gli usi propri del sistema linguistico spagnolo: ‘No ha vuelto a tener hambre: ni siquiera durante la guerra, cuando casi no teníamos nada de comer, pero, aparte de eso, a veces pienso que todo se deriva de aquello.’ (p. 18); ‘Non ha mai più avuto fame. Nemmeno durante la guerra, quando non avevamo quasi niente da mangiare. Ma a parte questo, certe volte penso che tutto sia derivato da lì.’ (p. II). Ma, a parte, i cambiamenti dettati dalla esigenza di rispettare la sintassi

spagnola, vi sono altri tipi di cambiamenti che non rispondono a tale esigenza. Rientrano tra questi: -

frasi che da interrogative diventano affermative: “Lui aveva forse, già allora, il senso del «comico della situazione»?” (p. VI). “Tal vez ya entonces tuviera el sentido de la «comicidad de la situación».” (p. 23).

-

Frasi raggruppate in un unico periodo interrogativo, mentre nell’originale sono presenti una frase interrogativa e un’affermativa: “Che fosse un riconoscimento (nel senso di lode)? Siccome anche lui si qualificava «cattivo».” (p. X). “¿Sería un reconocimiento (en el sentido de elogio), en vista de que él mismo se calificaba de «malo»?” (p. 26).


40 -

Frase che da affermativa diventa esclamativa: “Guai se Maria si accompagnava a qualcuno, o se qualcuno veniva a casa.” (p. V). “¡Pobre de Maria, si se juntaba con alguien o si alguien venía a casa!” (p. 22).

-

Cambiamento dei tempi verbali, da presente in italiano a imperfetto in spagnolo: “È anteriore, perché parlava ancora di sé in terza persona.” (p. VIII). “Era anterior, porque aún hablaba de sí mismo en tercera persona.” (p. 24).

-

Passaggio dalla 3° persona singolare alla 3° persona plurale: “Mi rendevo conto che il loro senso e valore era paradigmatico di nient’altro che di lui come persona presente, oltre che futura.” (p. XI). “Me daba cuenta de que su sentido y valor eran paradigmáticos, exclusivamente de él como como persona presente, además de futura.” (p. 28).

-

Uso di maiuscole, minuscole e segni topografici quali le virgolette, che nel testo originale sono assenti. MINUSCOLE: vocaboli la cui iniziale è riportata in minuscolo mentre nel testo originale comparivano in maiuscolo: o

estafeta (p. 23) per Ufficio Postale (p. VI);

o

doctores (p. 24) per Dottori (p. VII);

o

guerrero (p. 26) per Guerriero (p. IX);

o

don (p. 26) per Don (p. IX);

o

proclama (p. 26) per Proclama (p. IX).

MAIUSCOLE: vocaboli la cui iniziale è riportata in maiuscolo mentre nel testo originale comparivano in minuscolo: o

Papà (p. 26) per papà (p. XI);

o

Humanidad (p. 28) per umanità (p. XI).


41 VIRGOLETTE: sono state inserite nel testo spagnolo mentre mancano nell’originale italiano, probabilmente il traduttore intendeva focalizzare l’attenzione su determinati vocaboli: o «malo» (p. 26) per cattivo (p. IX); o «temo» (p. 28) per temo (p. XI).

III. 2.1 Addizioni e omissioni.

Nel processo di traduzione si possono riscontrare i fenomeni di addizioni e omissioni, ossia integrazioni ed eliminazioni nel testo tradotto rispetto a quello originale. Come già accennato, le addizioni prevedono l’introduzione di elementi o effetti stilistici assenti nel testo originale. L’addizione può essere determinata dall’esigenza di spiegare concetti o situazioni che nel testo originale sono chiari ma che potrebbero essere accolte come confuse nelle traduzioni a seconda del contesto in cui si trovano. Di seguito saranno riportati i vari esempi di addizioni presenti nel testo analizzato. - Aunque raras veces traduce l’avverbio di tempo ‘raramente’, presentando l’aggiunta dell’avverbio ‘aunque’ che in italiano significa ‘sebbene’. ‘Ahora doy vueltas en entorno a él; en otro tiempo, en cambio, lo acometía, pero incluso ahora de vez en cuando – aunque raras veces – estallo.’ (p. 17); ‘Adesso, gli giro intorno; un tempo invece lo assalivo. Ma anche adesso ogni tanto – raramente – sbotto.’ (p. I). - La obligación è stato aggiunto nella frase spagnola: ‘me impuse la obligación de ser científica’ (p. 18); ‘mi imposi di essere scientifica’ (p. II).


42 - Ser, è stato aggiunto come complemento oggetto della frase tradotta, per spiegare che si stava parlando di un essere forte, anche se in spagnolo si sarebbe potuto omettere mantenendo comunque il significato: ‘segura de haber engendrado un ser fuerte.’(p. 19); ‘sicura di aver generato un forte.’ (p. III). - esta expresión è stato aggiunto per specificare la presenza dell’interiezione Eh, che nella traduzione non è stato tradotto. ‘Pues es que – respondió ( esta expresión se la había copiado a Maria)’ (p. 24); ‘Eh, - rispose (questo eh lo aveva preso da Maria)’ (p. VII). - Me parece a mí ‘ El de papel color de arena es – me parece a mí – el primero absoluto, porque es más riguroso, más puro.’ (p. 28); ‘Quello su carta color sabbia direi che è primo assoluto, perché è più rigoroso, più puro.’ (p. XI). In alternativa, evitando l’aggiunta dei segni topografici, il traduttore avrebbe potuto tradurre direi con il medesimo verbo diría que es. Per quanto riguarda le omissioni, queste possono derivare dalla difficoltà di tradurre termini o concetti della lingua originale che non trovano corrispondenza nella lingua d’arrivo. Casi di omissioni sono stati riscontrati in parole o frasi presenti nell’originale che non sono state riportate nella traduzione. Probabilmente alcune sono state ritenute superflue e poco comprensibili nel sistema socio-culturale spagnolo. Di seguito saranno riportati i casi di omissioni riscontrati nella traduzione: - dall’armadio / del armario ‘esta mañana ha transportado toda la leña de la cesta al medio del pasillo y vuelta atrás y después todos los zapatos a la cocina.’ (p. 19); ‘stamattina ha trasportato tutta la legna dalla cesta in mezzo al corridoio e viceversa, poi tutte le scarpe dall’armadio alla cucina.’ (p. III).


43

- raccontò Maria/ contó Maria ‘Pero habló con amabilidad, en tono de conversación.’ (p. 22); ‘Ma aveva parlato, raccontò Maria, con gentilezza, in tono di conversazione.’ (p. VI). - intanto/ mientras ‘La verdad es que yo no era la «madre ». Lo era Maria, no distraída como yo por otras tareas e intereses.’ (p. 25); ‘in verità non ero io la «madre». Intanto c’era Maria, non distratta come me da altri compiti, interessi.’ (p VIII). Nonostante non sia stato tradotto l’avverbio è stato reso bene il senso dell’originale, anche se il traduttore ha rafforzato un po’ di più il senso di madre sostitutiva di Maria dicendo lo era invece di estaba. - un elemento, non di stile né di contenuto, è in favore delle figure sacre/ un elemento, ni de estilo ni de contenido, es en favor de las figuras sagradas. ‘En cuanto a la prioridad, la vacilación es entre el dibujo de un cubo de albañil y los de algunas figuras sagradas: la materia sobre la cual está trazado el dibujo.’ (p. 28); ‘Riguardo alla priorità, l’incertezza è tra il disegno di un secchio da muratore, e quelli di alcune figure sacre. Un elemento, non di stile né di contenuto, è in favore della figure sacre: la materia sulla quale il disegno è tracciato.’ (p. XI). In questo punto è stata proprio saltata una parte, le due frasi terminano con figure sacre e questo ha sicuramente confuso il traduttore, portandolo a commettere una svista.

III.2.2 Sinonimie erronee.

Oltre ad addizioni e omissioni, son state riscontrate nel testo delle sinonimie erronee comunemente dette in spagnolo ‘falsos sentidos’. Di seguito saranno riportate le definizioni e le possibili soluzioni per una corretta comprensione del testo.


44

- ofensivo (p. 17) per tradurre villano (p. I). Il termine villano ha il suo corrispettivo in spagnolo in villano. Mentre il termine ofensivo ha diverse accezioni, nessuna delle quali rispecchia il significato di villano. Villano30 (adj.) agreste, animal, avillanado, bruto, burdo, canallesco, desvergonzado, grosero, m al educado, palurdo,patán, pedestre, rústico, torpe, tosco, zafio. Villano31(agg.) Rozzo, scortese, maleducato. Ofensivo32(adj.) Que ofende o puede ofender. -muda (p. 19) per tradurre mutandina (p. III). La parola mutandina è tradotta in spagnolo con vari termini. Il termine muda in spagnolo definisce, non la mutandina, bensì un cambio di vestito, mentre sarebbe più corretto utilizzare il termine calzoncillos. Muda33 (n.) Conjunto de ropa que se muda de una vez; se refiere normalmente a la ropa interior. Mutandina34 (n.) Capo di biancheria intima maschile e femminile che copre la parte del corpo che va vita all’inguine o alle cosce. Calzoncillos35 (n.) Prenda de la ropa interior masculina, que cubre desde la cintura hasta parte de los muslos, cuyas perneras pueden ser de longitud variable. - menos dotados de autocontrol (p. 19) per tradurre compassati (p. III). In spagnolo il termine più corretto per tradurre compassati si ritrova nell’aggettivo remilgado, come viene definito dalla Real Academia Española36.

30

Dictionaries and Translator Sensagent, http://diccionario.sensagent.com/villano/it-es/ Vocabolario Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/villano/ 32 Real Academia Española, http://lema.rae.es/drae/?val=ofensivo 33 Diccionario de la Real Academia Española, http://diccionario.terra.com.pe/cgi-bin/b.pl 34 Vocabolario Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/tag/mutanda/ 35 Real Academia Española, http://lema.rae.es/drae/?val=calzoncillo 36 Real Academia Española, http://www.rae.es/rae.html 31


45

Remilgado, da.37 (adj) (Del part. de remilgarse). Que afecta excesiva pulidez, compostura, delicadeza y gracia en porte, gestos y acciones. Il termine compassato viene così definito nel Vocabolario Treccani38: Compassato39 (agg.) Misurato con cura e precisione, scrupolosamente ponderato: eloquenza c.; discorso c.; indica spesso un affettato controllo: con movimenti, con gesti c.; andatura compassata. -saltaba (p. 20) per tradurre avventavo (p. III). Il verbo avventare, secondo il

Vocabolario Treccani40 viene definito con il significato di scagliarsi addosso o contro qualcuno, quindi il termine che in spagnolo maggiormente si avvicina a questa accezione, non è saltaba bensì arrojar. Saltar41(v.) Salvar de un salto un espacio o distancia. Arrojar42(v.) Ir violentamente hacia alguien o algo hasta llegar a él o ello. ‘Si C. se disponía a atizar al obstinado, yo saltaba.’ (p. 4); ‘Mi avventavo, se C. si accingeva a menare l’ostinato.’ (p. III). - intensa (p. 27) per tradurre cupa (p. X). Il termine cupa in italiano definisce l’aspetto di una persona aggrondato, chiuso per un grave pensiero o tormentato43,

37

Real Academia Española, http://lema.rae.es/drae/?val=remilgado Vocabolario Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/ 39 Vocabolario Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/compassato/ 40 Vocabolario Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/avventare/ 41 Real Academia Española, http://lema.rae.es/drae/?val=saltar 42 Real Academia Española, http://lema.rae.es/drae/?val=arrojar 43 Vocabolario Treccani , http://www.treccani.it/vocabolario/cupo/ 38


46 mentre il termine intensa44 in spagnolo significa muy vehemente y vivo. Il termine più corretto per tradurre cupa in spagnolo è sombría. Sombría45(adj.) Dicho de un lugar: de poca luz y en frequentemente hay sombra. Tètrico, melancólico. ‘La primera vez que volvió del parvulario, le vimos expresión excitada, intensa.’

(p. 11); ‘La prima volta che tornò dall’asilo, gli vedemmo un’aria eccitata, cupa.’ (p. X). - artículos de papelería (p. 30) per tradurre paperasse (p. XIII). Paperasse è un

termine di origine francese, che corrisponde al termine scartoffia46. La parola che meglio identifica il significato in spagnolo è papelorio. Papelorio47(n.) Fárrago de papel o de papeles.

‘alguien que maneja instrumentos, no artículos de papelería, y en ese sentido es un trabajador de verdad’ (p. 13); ‘uno che maneggia strumenti, non paperasse.’ (p. XIII). - pues es que (p. 24) per tradurre l’interiezione Eh (p. VII). L’interiezione viene

tradotta in spagnolo allo stesso modo e nella stessa forma, poiché presente nel lessico spagnolo. Il Vocabolario Treccani48 la definisce come un’esclamazione che può esprimere vari sentimenti, quali rimprovero, disapprovazione, meraviglia, speranza, stupore, esortazione e come risposta di tono esclamativo o interrogativo a chi ci chiama. La Real Academia Española49 la definisce come un’interiezione usata para preguntar, llamar, despreciar, reprender o advertir.

44

Real Academia Española, http://lema.rae.es/drae/?val=intensa Real Academia Española, http://lema.rae.es/drae/?val=sombria 46 Dizionario Francese- Italiano, http://dizionari.corriere.it/dizionario_francese/Francese/P/paperasse.shtml 47 Real Academia Española, http://lema.rae.es/drae/?val=papelorio 48 Vocabolario Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/eh/ 49 Real Academia Española, http://lema.rae.es/drae/?val=eh 45


47 ‘Pues es que – respondió (esta expresión se la había copiado a Maria)’ (p. 24); ‘Eh, - rispose (questo eh lo aveva preso da Maria)’ (p. VII).

Nell’analisi è stato inoltre riscontrato un errore di distrazione o di trascrizione. Un termine è stato tradotto per un altro, simile come forma ma comunque differente di significato. Il caso in questione è quello del termine distrutta (p. II) che è stato tradotto con distraída50 (p. 18) che in italiano significa distratta, mentre il termine corretto sarebbe dovuto essere destruida51. Tra distrutta e distratta varia solo una vocale, quindi probabilmente il traduttore non ha badato all’errore, cambiando quindi il senso della frase nella traduzione che da: aveva l’aria distrutta diventa parecía distraída.

50 51

Dictionaries and Translator Sensagent, http://diccionario.sensagent.com/distraida/es-it/ Dictionaries and Translator Sensagent, http://diccionario.sensagent.com/distrutta/it-es/


48

CONCLUSIONE


49 Al termine di questo elaborato, che ci ha permesso di conoscere meglio l’analisi della traduzione di un testo letterario, siamo arrivati ad alcune considerazioni conclusive. Nel corso del nostro lavoro si è inizialmente introdotta la figura della scrittrice Lalla Romano, l’autobiografismo che la contraddistingue e il romanzo Le parole tra noi leggere, la cui traduzione è stata oggetto d’analisi della presente tesi. Successivamente si è ragionato sulla traduzione in generale, sugli elementi che la caratterizzano, e sugli errori nei quali ci si può imbattere nell’analizzare un testo tradotto. L’analisi della traduzione ha evidenziato una corretta riproduzione dell’impianto diegetico e dell’andamento discorsivo, il rispetto delle regole morfologiche e sintattiche della lingua spagnola, ma anche alcuni errori, quali addizioni, omissioni, sinonimie erronee ed errori di trascrizione. Le addizioni sono costituite per lo più da aggiunte di preposizioni, congiunzioni, complementi oggetto che hanno reso più specifico un concetto che, magari tradotto letteralmente, sarebbe potuto essere poco chiaro. Le omissioni riguardano le eliminazioni di soggetti, complementi o, talvolta, un’intera frase che forse dal traduttore è stata ritenuta poco importante, tanto da non esser tradotta o probabilmente gli è sfuggita. Le sinonimie erronee sono state analizzate e si è tentato di dare un’alternativa alle parole il cui significato aveva ben poco a che fare con il testo originale. Molti vocaboli hanno più varianti e possono essere usati in vari contesti, quindi in questo caso si è cercato di proporne altri che fossero più validi. Per quanto riguarda il caso dell’errore di trascrizione o di distrazione, è chiaro che il significato, dal testo originale a quello tradotto, è completamente diverso. Una parola scritta per un’altra sortirà ovviamente un altro effetto sul lettore che si ritroverà ad aver a che fare con una persona che da ‘distrutta’ nell’originale, diventa ‘distratta’ nella traduzione. Per ogni scelta di traduzione messa in discussione si è proposta una resa alternativa, in grado di rendere meglio l’originale. Si può quindi affermare che il lavoro del traduttore consiste nel capire lo spirito e l’espressività del testo nella lingua d’origine e di saperlo rendere con lo stesso spirito ed espressività nella lingua di destinazione.


50

APPENDICE


I

Testo originale del brano selezionato dal libro Le parole tra noi leggere Le parole tra noi leggere.52

Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza, con rabbia. Adesso, gli giro intorno; un tempo invece lo assalivo. Ma anche adesso ogni tanto – raramente – sbotto. Allora lui mi guarda con la sua famosa calma e dice: - Tu mi manchi di rispetto! La mia collera di ora dev’essere un residuo della antiche battaglie, quando io reagivo come se lui fosse una parte di me che tradiva se stessa e dunque mi tradiva. Ai miei assalti e assedi ormai più che altro ammirativi, lui oppone freddezza, noia e perfino gentilezza (distratta). Ma soprattutto io non rinunzio a tentare di conoscerlo, discorsivamente voglio dire. So bene che le domande son un sistema sbagliato; ma ci ricasco. Lui è seduto davanti a me, immerso in un libro (magari un fumetto). Io provo a incominciare un discorso, e per di più su temi generali. Senza alzare il capo risponde: Non so. Quando succhiava il mio latte, mi sembrava feroce. Come se allattassi un leoncino (infatti mordeva). Ero intimidita, preoccupata; non irritata. La signora Turin mi aveva avvertita che la sensazione di «sentir venire il latte» era morbosa. – Come tutto del resto, - aveva aggiunto. Io ero decisa a vederci chiaro. Ma è stato lui a respingermi, a tenermi lontana, fin da allora. Chissà se io non sarei caduta nell’antico tranello. Prima, quando nel mio ventre scalciava, io l’avevo trovato indisponente, villano, e il nostro rapporto era già quello giusto. Giusto nel senso di non morboso. La collera sembra una cosa sana. A meno che non sia vero che la violenza su altri piani è ancora una manifestazione di «quella» lotta. Ma non c’è mica altro modo di eludere la morbosità. Comunque, io sono soltanto un antefatto.

52

L. Romano, Opere vol. 2, Milano, Mondadori, 1991, pp. 7-25.


II Qualcosa mi segue da allora. Uno sguardo. Uno sguardo nero, lungo. Uno sguardo adulto, e lui era nella culla e aveva pochi giorni. Se ne accorse mio padre: Questo bambino ha fame! – Non piangeva, guardava a quel modo. La signora Turin (ancora lei) mi aveva imprestato un libro – inglese (gli inglesi erano all’avanguardia) – sull’allattamento: dosi, orari, peso ecc. io non sbaglio se non faccio calcoli: appendo i quadri diritti e alla stessa altezza senza usare il metro; se lo uso, lo tengo magari voltato alla rovescia e il conto viene sbagliato. Gli strumenti mi annoiano, mi imbarazzano. Purtroppo, data l’importanza del caso, mi imposi di essere scientifica: fu così che gli diedi troppo poco da mangiare. Dopo, per tutta la vita ho voluto rimediare, ma non ci sono più riuscita. Non ha mai più avuto fame. Nemmeno durante la guerra, quando non avevamo quasi niente da mangiare. Ma a parte questo, certe volte penso che tutto sia derivato da lì. È di nuovo la tentazione del «scientifico». Gli errori in seguito son imputabili solo alla passione; infatti il ricorso ai testi non l’ho più usato; salvo per vedere se trovo o no la conferma. Comunque, credo sia per quell’antica colpa se adesso sto male quando dice che gli manco di rispetto: penso a quel rimprovero muto, spaventoso. Non ha mai propriamente pianto, da piccolo, e tanto meno frignato. Lanciava urli, magari a metà della notte, come squilli. Non voleva mangiare, ma sembrava per gioco. Sputava le pappe ridendo, sbruffando come un piccolo tritone. Era panciuto e allegro. Lo trovavamo fin troppo ottimista (magari!). Avevamo avuto una specie di avvertimento. Lui non era ancora nato, e così ce ne dimenticammo. Un ragazzino era inginocchiato in chiesa con sua madre. Un ragazzino magro, nervoso, tormentosamente inquieto. Non che facesse chiasso; era teso, acuto, mostrava la sofferenza di un uccello incattivito. Lo guardavamo affascinati, spaventati. Sua madre, che tentava di farlo leggere in un messale, aveva l’aria distrutta. Lo osservavamo con lo stesso pensiero. Ce lo siamo detto fuori, però non ci siamo detti tutto. Cioè che anche nostro figlio poteva – ma noi avevamo addirittura pensato doveva – venire così. Ce ne siamo ricordati anni dopo, quando anche lui diventò tormentoso. Il mutamento avvenne quando eravamo a Torino, e lui aveva compiuto l’anno. Prima era agitato, ma appunto con allegria. Sul viale dove lo portavamo nella carrozzina, dava spettacolo: si buttava fuori, voleva scavalcare i bordi. A camminare


III imparò presto. Esplorava in giro, sollevava con le mani forti certi sassi grossi come la sua testa. Io lo consideravo quasi con distacco, come un futuro uomo pratico.

Scrissi a suo padre: «…stamattina ha trasportato tutta la legna dalla cesta in mezzo al corridoio e viceversa, poi tutte le scarpe dall’armadio alla cucina. Mi fa una certa impressione un figlio così diverso da me, così estroverso…» Mi permettevo questo lusso, questo spreco, sicura di aver generato un forte. Il rammarico non era poi tanto snob: se lui fosse stato l’ altro, l’introverso, sarebbe diventato un uomo di studio, di pensiero, qualcuno cioè di noto, di fraterno, anche se certamente più scomodo. Ma io ero beata: vedevo crescere un dominatore, un padrone: uno che si sarebbe staccato da noi trionfalmente. Non del tutto simpatico a dirla così, ma per lui doveva pur essere una bella vita. La incomprensibile vita dei destinati al successo. Quasi lo sentivo già un po’ estraneo: non fosse stato il suo aspetto comico di passerotto, il suo patetico farsela addosso. C’era in lui un disdegno a questo riguardo, per il disagio suo e l’imbarazzo nostro, che aveva dell’aristocratico. Si lasciava cambiare continuando a giocare o a parlare come se l’operazione non lo riguardasse; se noi non avessimo notato il sacchettino appeso dietro, l’avrebbe con dignità recato in giro: senza avvertirlo? Ce lo chiedevamo. Dovevamo uscire con mutandine di ricambio, che sostituivamo appoggiati a un albero lungo i viali o sotto un portone, vergognosi, sbrigandoci, siccome eravamo i soli fermi per questa bisogna; gli altri si tiravano dietro bambini più o meno compassati, evidentemente all’asciutto. Pare che il rifiuto della «educazione dello sfintere» significhi il rifiuto dell’Educazione; e ne consegua che la medesima Educazione risulta insufficiente, debole, ecc. Non ho difficoltà

ad ammetterlo. In articoli di giornale un pediatra

ironizzava sulle madri che gli domandavano

a quale età deve incominciare

l’educazione: se a quattro anni per esempio. Noi avevamo riso di compatimento. Ma ci trovammo a non poterla – o saperla – intraprendere, né a quattro mesi né a quattro anni. Per incompatibilità e tolleranza del soggetto. Era immaturità? La nostra, anzi. La mia


IV era fuor di dubbio. Quella di lui, piuttosto, era discutibile. Infatti accoglieva, o meglio ignorava i nostri tentativi come uno che non può mutarsi. È vero che su un punto non eravamo d’accordo, io e il padre. C. giudicava salutare la sculacciata rapida e tempestiva. Io che avevo ricevuto un solo ceffone da mio padre (padre di sole figlie, mi faceva notare C.) e quell’umiliazione mi cuoceva ancora, provavo un (isterico) orrore della punizioni corporali. Mi avventavo, se C. si accingeva a menare l’ostinato. Citavo anche san Paolo: Non irritate i vostri figli! E il bello era che in realtà io, lo irritavo: con gli urli, le implorazioni, i baci. Tutto quello che lui da grande ha chiamato poi Melodramma. Gli dedicavo un modo e un tempo esclusivamente mio, al quale attribuivo un’influenza calmante e persino educativa. Era un’usanza molto vecchia in sé, un’usanza delle antiche balie e madri contadine, connessa al moto delle culle. Mentre lui non fu mai cullato: aveva dormito prima in una grossa cesta a ruote, e poi in un lettino di metallo. Consisteva nel sedermi accanto a lui e cantare lunghe nenie e canzoni, che risalivano alla mia infanzia paesana. Canzoni di soldati e di ubriachi, e di chiesa, anche. Tristissime; rese ancor più tristi dagli sbalzi di tono della mia voce non dolce né educata, alla quale mi impegnavo a dare le cadenze strazianti che mi avevano deliziata bambina. Pareva che gradisse le mie nenie perché non le ricusò mai. Che lo facessero dormire non si poteva dire: le sedute erano lunghissime, lui sempre con gli occhi sbarrati. Forse anzi lo tenevo sveglio, in quel modo. Comunque non ci pensavo. Nessuno me lo rinfacciava, quel dominio era mio e mi bastava. Stordivo me stessa invece e mi alzavo di lì intontita e appagata con la sensazione di avergli comunicato qualcosa di importante. Forse l’amore per le zone oscure e reiette: nel caso che l’educazione cittadina e il mondo moderno in cui sarebbe vissuto potessero tenerlo troppo alla superficie. Forse per questo da ragazzo ascoltava alla radio le nenie arabe? E adesso è andato a bearsene sul posto. Ma mi sto vantando, temo. Fin che non è andato a scuola, non è stato veramente triste. Però a Torino perse quel colore di mela rossa per cui a Cuneo il nostro amico Turin lo chiamava Pinotö, siccome sembrava un bambino di campagna. Aveva persino esplosioni di gioia (quando era solo con Maria). Era una specie di gioia panica. Si fermava sulle scale, mentre


V salivano di ritorno dalle passeggiate, e cantava. Lo scalone rimbombava, esaltava il suo piacere di ascoltarsi. Maria durava fatica a farlo smettere, anzi aspettava che smettesse. Una volta si era chiuso nel bagno, aveva aperto tutti i rubinetti dell’acqua, e cantava a gola spiegata. Los croscio era un’amplificazione, un’orchestra. All’estremo opposto c’era in lui la coscienza. Intendo la coscienza morale. È vero che per un verso era semplicemente il subire la condanna a cattivo, assunta con fatalismo. Questo era grave, come errore, commesso per comodità da noi. Ma la coscienza saliva da lui; e siccome era una cosa grande in un piccolo bambino, sortiva un effetto comico. Più che cattivo era, naturalmente, scomodo, imbarazzante. L’innocente estasi dell’ascoltarsi cantare era motivo di disturbo nell’austero scalone del ricco palazzo. L’exploit del bagno aveva inquietato molto Maria: - Apri, fa’ il bravo, - lo avrà pregato Maria. «Fare il bravo» e «fare il cattivo» sono stati in origine linguaggio di Maria. Il «cattivo» che diventa cativo nella dolce inflessione del piemontese di Dronero, veniva usato da lei come rimprovero, mai come denuncia o minaccia. «Fare il bravo» che in Piemonte significa «essere buono», finiva col venire usato anche nella sua accezione propria, in quanto ben sovente voleva esortare a una specie di coraggio: ordinariamente per indurlo a mangiare. Noi escogitavamo argomenti, ai quali lui regolarmente era in grado di controbattere in termini di logica per dare realtà all’immagine dei bambini affamati dei quali non aveva alcuna visione nei quartieri signorili, fu fatto ricordo all’Infanzia Abbandonata. (A beneficio dell’Opera riempivamo un sacco con i giornali, la posta, la carta usata, e un uomo veniva a ritirarlo). -

Pensa a quei poveri bambini abbandonati!

-

Non sono abbandonati, hanno l’uomo della carta!

Oppure, con logica ancor più stringente: -

E se mangio, loro cosa ci guadagnano?

Le sue risposte erano fulminanti, ma serie. L’impiego rigoroso della logica – anche non sofistico – non pare accordarsi con la bontà: in quanto presume freddezza, e lo si pensa al servizio dell’egoismo, della prepotenza. Ma tra il lupo e l’agnello la logica è dell’agnello, non del lupo.


VI Le due componenti della sua natura erano, come adesso, la logica e la passione. Le violenza veniva dopo, naturalmente (rientrava nella logica?). Passione dominante era in lui l’esclusivismo, la gelosia. Guai se Maria si accompagnava a qualcuno, o se qualcuno veniva a casa. Si presentò un frate questuante; mentre Maria gli dava retta, comparve lui: quel piccolo bambino dai capelli arruffati, incerto come doveva apparire sulle gambette un po’ accostate ai ginocchi: impugnava con la piccola mano forte un coltello da cucina. -

Il frate, - raccontò Maria, e le veniva da ridere nonostante la venerazione per il religioso, - si è spaventato. È scappato.

Quando Maria doveva rispondere al telefono, lui si allungava sul pavimento, proprio sotto l’apparecchio, e gridava, o cantava. Questo è tornato in mente a Maria una volta che la Nenè ha detto: - Non mi lascia mai telefonare! Si mette a fischiettare, o a suonare la fisarmonica! Infatti la Nenè, il suo nuovo amore, è la sua nuova vittima. La gelosia è pur sempre un omaggio. Meno violenta perché eravamo meno importanti, era quella per noi, ma non meno flessibile. Ci voleva con lui separatamente. Se uscivamo insieme la domenica, io lo lasciavo per mano a suo padre, e li seguivo a distanza di qualche passo; cosa che mi piaceva, perché così li guardavo. Se le visite erano per noi, non si mostrava tanto radicale nei mezzi, ma ugualmente ostile. Dei nostri amici più che altro aveva paura. Turin era venuto per colazione, ma io non era ancora tornata da scuola né C. dalla banca; disse: - Forse è meglio che faccia ancora un giro. – Sì sì, è meglio, - fece lui, spuntando da dietro a Maria. Ma aveva parlato, raccontò Maria, con gentilezza, in tono di conversazione. Quando venne a farmi visita la padrona di casa di corso Galileo Ferraris – forse voleva vedere come tenevamo l’alloggio – io non avevo meno paura di lui. Non avevamo poltrone, le offersi una sedia. Lei era grande, con due enormi volpi, una per spalla. Pareva poco sicura sulla sedia. E lui andò, ginocchioni, a rannicchiarsi proprio sotto quella sedia. Forse perché era il solo posto di dove poteva non vedere la signora. Non soltanto io stavo male, credo che anche la signora non si sentisse a suo agio. Lui aveva forse, già allora, il senso del «comico della situazione»? È probabile, se penso che questo aspetto delle relazioni umane è poi stato sempre per lui quasi il solo che abbia considerato.


VII Ebbe anche degli impulsi di simpatia: così rari che poi ci parvero favoleggianti, immaginari. Le persone alle quali con un movimento rapido, imprevisto, rivolse la sua scelta, erano davvero particolarmente amabili. Gli davo la mano, sul corso; si staccò da me, e vidi che aveva preso per la mano una donnina dimessa, sorridente. Io mi scusavo, più stupita di lei. Ma lei era felice, ringraziava: - Lo lasci fare, mi fa così piacere! Nessuno mi cerca, mai, nessuno mi parla! Sono tanto sola! – Era forse più giovane che vecchia, minuta, vestita di scuro, sembrava forse vecchia perché aveva le ciglia quasi bianche. L’ho riveduta poi qualche volta sul tram, io ritornavo da scuola, e lei dal suo ufficio, un Ufficio Postale. Mi sorrideva, con la sua aria mite, mi ringraziava ancora: Non me ne dimenticherò mai, mi ha fatto così piacere! L’altro incontro fu meno straordinario. Scelse una signora elegante, dai capelli grigi ma giovanile, svelta. Sapevo chi era quella signora in tailleur di lana inglese, che aveva incrociato con noi sul marciapiede del corso Galileo Ferraris: era la mamma di Natalia. Lei non mi conosceva, allora. Anche questa volta mi scusai; anche lei sorrise, divertita, e lo accarezzava. Aveva seguito dei modelli, per quelle scelte? Facile: la prima era del tipo di Maria: l’umiltà, la dolcezza; la seconda assomigliava alla sua nonna, mia madre: fantasia, grazia. Ma più che altro credo fosse ancora un impulso di quella felicità panica, libera. L’estro comunicativo non l’ha più ripreso, in seguito. Per essere precisi: non in mia presenza. Anche i suoi desideri di cose avevano carattere d’urgenza. Noi avevamo pochissimi soldi, ma qualche volta dovevamo cedere davanti alla serietà – la serietà della passione – delle sue richieste. Precisava: - In via Massena angolo via Montevecchio… - in quel punto c’era in una vetrina un trenino, una locomotiva rossa e nera. Ripeteva la richiesta fino all’ossessione; si addormentava con la frase «in via Massena angolo via Montevecchio…». Quando ebbe il treno, suppongo l’abbia tenuto abbracciato per un certo tempo, fino ad un’altra passione. Con determinazione improvvisa buttava le cose che possedeva. Credo che buttasse non i giochi che aveva desiderato, ma quelli regalati da qualcuno. Di solito erano giocattoli di lusso, come un «cane che camminava», un gatto di pelliccia. Li buttò


VIII giù dal portello delle immondizie con un gesto fulmineo, come tutto quello che faceva volontariamente. La tristezza nacque con la coscienza. Una cupezza che non era quella della collera. Era seduto fra due preti (nipoti di Maria). Pareva, disse poi Maria, Gesù fra i Dottori. Disse: - Io andrò all’Inferno, perché sono cattivo. -

Ma lo sai chi c’è all’Inferno?

-

Sì lo so. Ci sono i diavoli.

Poteva darsi che volesse stupire, sfidare i preti che detestava per gelosia. Sapeva che Inferno e Paradiso erano di loro competenza. Ma il vero senso di quella sfida era un impegno, assunto coi suoi rischi, per sempre, si può dire. Tale è stata all’origine, fatalistica e perciò disperata, la sua sfida. Anteriore è la coscienza della sua debolezza; e di quella, non dell’essere «cattivo», provò umiliazione. È anteriore, perché parlava ancora di sé in terza persona. Paola lo incontrò che dava la mano a Maria e piangeva. Erano andati, disse Maria, a vedere la sfilata dei carri di Carnevale. – Perché piangi? – domandò Paola. - Eh, - rispose (questo eh lo aveva preso da Maria), - «lui» ha voluto andare a vedere, e ha avuto paura. E adesso piange! La costernazione per la scoperta della sua debolezza era il motivo del pianto; ma anche il pianto era motivo di costernazione, perché era un’altra debolezza. Noi non lo capivamo fino in fondo, eravamo troppo giovani. Quanto abbiamo riso per la storia «dell’occhio»! Maria ci raccontò che lui si era fatto male urtando contro qualcosa e aveva pianto; poi andava ripetendo tra sé, con un tono tra stupito e indignato: - Lui piange per un occhio! Maria imitava quel tono, che ci sembrava così buffo. Ci abbracciavamo ridendo. Che denunciasse la cosa a se stesso era appunto il segno della sua consapevolezza piena di stupore, ma già forte di una dura, ostinata accettazione. In quanto all’uso della terza persona invece della prima, è considerato prova di immaturità, di ritardo nella coscienza della propria persona. In realtà è un’oggettivazione disinteressata. Infatti la prima persona indica il sopraggiungere della volontà, dell’affermazione di sé in luogo della purezza oggettiva, contemplativa.


IX Mia madre raccontava che quando io stetti lontano qualche giorno (ero andata a Roma per i concorsi e dunque lui aveva due anni), sul balcone della casa di Boves stringeva con le mani la ringhiera e guardava giù: -

C’è l’erba, ci sono i fiori, ma la sua mamma non c’è.

La citazione dei fiori rende un po’ sentimentale la frase. Del resto io l’ho sempre ritenuta improbabile, come troppo nostalgica nei miei riguardi. Sarebbe l’unico grido del cuore (per me) non solo di quegli anni ma di tutto il tempo finora della nostra vita. In verità non ero io la «madre». Intanto c’era Maria, non distratta come me da altri compiti, interessi. Facevo scuola, frequentavo l’università e le biblioteche; ma soprattutto mi occupava la pittura, che consideravo il mio mestiere. Sovente però stavo con lui proprio per la pittura, perché lo copiavo. Non stava fermo, ma non trovavo che fosse un inconveniente. I ritratti che gli facevo allora sembrano apparizioni, lui ha la sua aria improvvisa di quando si affacciava alla porta e spariva. La nonna – mia madre – assomigliava un po’ a me nel lasciarsi trasportare dalle emozioni; ma in modo più discreto. Non aveva la mia violenza nella tenerezza, né la mia ira. Anche lei però come Maria si arrendeva a tutti i suoi estri; e lui la amava come amava Maria e come adesso per un certo verso ama sua moglie. «Mi vuol portare in montagna, mi fa giocare alla guerra, mi insegna a maneggiare la spada», scriveva mia madre. Nel retro del foglio è disegnata una locomotiva con un vagone merci. Il carattere di lui è rivelato dalla sicurezza del segno e dall’importanza data ai respingenti e alla manovella dei freni. C’è anche la figurina del frenatore, con un piolo al posto della testa. Dal disegno posso ricavare la data della lettera. Sulla fiancata della locomotiva è scritto BACI (suggerimento della nonna): usava il carattere stampatello intorno ai tre anni. In quella stessa lettera la nonna annota: «Quando lo lavo al mattino e lo vesto, mi dice: è papà che mi veste, è papà che mi lava». Suo padre prendeva cura di lui per sollevare Maria – io ero già uscita per la scuola – ma non solo per quello. Lo faceva anche per giocare, eppure in casa ci stava ben poco. Aveva inventato per lui «il Guerriero Pierino», un burattino Orlando- Don Chisciotte, di cui rappresentava le storie nel teatrino traballante.


X Tra i «documenti» ho ritrovato un foglio grande, un cartello: IL MIO PAPÀ È CATTIVO. I caratteri dell’iscrizione sono alti, tondi, spessi, ornati di volute; son ben spaziati e compongono un motivo elegante, celebrativo. La protesta pare dettata da una specie di entusiasmo. Che fosse un riconoscimento (nel senso di lode)? Siccome anche lui si qualificava «cattivo». Ma lui sapeva bene che era una sorta di maledizione, quella qualifica. E la forma di Proclama era una affissione solenne, una gioiosa vendetta. Gliel’ho domandato adesso, perché chiamasse cattivo suo padre. Forse perché era più severo di noi (di me e di Maria), soprattutto più giusto? -

Suppongo perché non potevo dominarlo, approfittarne come facevo con voi.

Come lo ha divertito, la scoperta di quel cartello! Per noi quello di allora è il medesimo di ora, ma per lui è un altro. Di me non disse mai né scrisse «la mia mamma è cattiva». Ma quello che suo padre ha avuto, io non l’ho mai avuto. Più o meno in quel tempo C. dovette farsi operare. Lui disegnò un carro armato e mi disse di portarlo al papà in clinica. Aggiunse: - Digli che io l’ho fatto per lui. Non sembra credibile, soprattutto alla luce del comportamento di poi. Cosa vuol dire? Lui era sempre tutto in quel che diceva, allora; dopo, per trovare il tutto, bisognò – bisogna – intuire, capire il non detto. Io da bambina mi drogavo con le fiabe. A lui non ho mai raccontato fiabe. Volevo difenderlo dalla paura. Lui aveva già, curiose paure. Quando aveva detto «c’è l’erba, ci sono i fiori», quel richiamo ai fiori non va inteso come una leziosità. Per lui i fiori erano presenze misteriose, pericolosi ordigni. Quando lo accompagnavamo in campagna, non si scostava dalla strada perché «aveva paura dei fiori». Io avrei voluto che corresse in mezzo ai prati, ma lui dichiarò che intendeva sedersi sul bordo, sopra una sedia. La passione delle armi che gli è venuta poi, è nata dalla paura? Forse aveva aggredito il frate questuante non solo per gelosia. Così anni dopo quando spaventò la dottoressa puntandole contro un fucile, o quando minaccia – adesso – eventuali nemici che volessero portargli via la sua Nenè. In tutti i casi però c’è sempre anche un fondo di gioco, di beffa. Se alla fine ride, è chiaro. Ride divertito se vede se stesso obbiettivamente, sorride sarcastico se guarda gli altri. Qualche volta rimane scuro:


XI segno che entra in gioco la collera, l’indignazione. Col tempo la paura è stata esorcizzata, ma non del tutto. In lui la paura è evidentemente frutto dell’immaginazione, vale a dire inventiva, creativa. Nei confronti delle circostanze, pericoli, incidenti, è stato sempre fin da piccolo imperterrito. «Un fachiro», dice di lui il dentista, siccome rifiuta l’anestesia. Dunque non conosceva racconti paurosi. La prima volta che tornò dall’asilo, gli vedemmo un’aria eccitata, cupa. -

Cos’è successo?

-

C’erano gli assassini! – Guardava fisso davanti a sé, caricava le parole come

un attore – Gli assassini erano dentro i sacchi. Avevano il coltello. Correvano nel bosco -. Fu una delle rarissime volte che raccontò qualcosa della scuola: l’emozione era stata troppo forte, non poteva quasi dominarla. Presto Pinocchio diventò il «suo» libro, e lui lo illustrò, su tanti foglietti. Nei due incappucciati neri con gli occhi bianchi, che puntavano su Pinocchio i loro coltellacci, riconoscemmo gli assassini del suo racconto del terrore. Fra gli esorcismi vengono in primo luogo i disegni. Non provavo sorpresa per quello che allora consideravo segno di una vocazione. Può essere che l’esorcismo dopo aver funzionato si esaurisca, o si evolva: resta da vedere. Non provavo sorpresa per queste opere, ma le ammiravo. Mi rendevo conto che il loro senso e valore era paradigmatico di nient’altro che di lui come persona presente, oltre che futura. Non ipotetica, comunque. Come nella storia dell’umanità, temo che le sue opere perfette siano state le prime. Dico temo, perché lui non dispone come l’umanità di vite innumerevoli. Riguardo alla priorità l’incertezza è tra il disegno di un secchio da muratore, e quelli di alcune figure sacre. Un elemento, non di stile né di contenuto, è in favore della figure sacre: la materia sulla quale il disegno è tracciato. Carta ruvida, da pacchi della spesa, usata di fatti è un po’ spiegazzata; gliel’aveva data Maria, come lei pure gli aveva proposto il modello. In seguito i suoi disegni furono eseguiti sul rovescio di certi moduli che gli forniva suo padre. I reperti sono due, il tema è il medesimo. Un’immaginetta di Maria, un Sacro Cuore, era servita da modello. Quello su carta color sabbia direi che è primo assoluto, perché è più rigoroso, più puro. La figura è un rettangolo verticale disegnato d’un solo


XII tratto, sul quale poggia, un poco inclinato sulla spalla, un ovale appuntito in basso: la testa, attraversata in cima da un tratto irto di piccoli segmenti: la corona di spine. Gli occhi, grandi, guardano con stupore ma anche con terribilità. Segni netti, severi, simboleggiano il naso e la bocca. Dai lati, in alto, del rettangolo si dipartono due triangoli terminati al vertice da un nodo con cinque o sei raggi: le mani. Sul petto campeggia un piccolo cerchio sormontato da una croce: il cuore. La figura ha la maestà che ci si aspetta da un’immagine di Dio. L’altro disegno (su carta verde spento) viene secondo perché è più abile, più eloquente; le maniche sono più importanti, più mosse, il cuore è in forma di cuore, perfino con la fiammella. Questi disegni sono della prima casa; quelli di Pinocchio della casa di via Vespucci, perché lì andò all’asilo e lesse – o meglio si fece leggere – Pinocchio. Tutte le storie di Pinocchio e altre composizioni sacre, il Presepio, il Paradiso ecc. sono in stile più drammatico, il segno è più fluente, più piacevole. C’è ironia, insomma; insieme alla meraviglia c’è padronanza e perciò un minimo di compiacimento. Come accade appunto all’arte dei secoli meno religiosi. In quanto al secchio da muratore, sta a capo di una lunga serie di forme e oggetti realistici, che prima disegnò e poi fabbricò lui stesso. La sua passione per gli oggetti–strumenti era incominciata quando aveva un anno, col martello di legno che il fratello di Maria aveva fabbricato per lui. Quel primo martello ne proliferò altri infiniti, piccolissimi, che lui si faceva fare da Maria col materiale deperibile che lei aveva sotto mano in cucina: torsoli di cavolo ripuliti, con fiammiferi per manico. Gridava nel sonno: - Mi hai scopato i martellini! Noi ridevamo; siccome non amavamo gli oggetti (io magari certe cose naturali che uso raccogliere: sassi, ossi, conchiglie), non lo capivamo. Al solito, ci sembrava comico. Il secchio svasato lo vide sulle spalle dei muratori su e giù per le impalcature di una casa in costruzione. Appresi che il secchio da muratore è una cosa rara da una lettera della nonna. Scriveva che lei e il nonno avevano girato tutta Cuneo ma non era stato possibile trovare il secchio come lo voleva lui (piccolo suppongo) perché quelli veri son d’un solo pezzo e fatti col getto.


XIII Gli ho domandato: - Come ti trovavi da piccolo prima di andare a scuola? -

Bene, credo. Non avevo ancora scoperto di essere un disadattato!

Lui usa i termini scientifici per la loro crudeltà, ma soprattutto ironicamente. Lo so, eppure sto male, in un primo momento. La stessa lucidità che ha ora l’aveva anche da bambino. Ma prima di assumere la sua posizione negativa, ebbe un soprassalto di volontà (o fantasia) ottimista, quasi conformista. Per un certo tempo alle signore che si chinavano verso di lui dicendo: Che bel bambino! – ribatteva brusco: - Io non sono un bambino, sono un uomo! Se penso che non l’ha più affermato nella vita! Ma è vero che io considero fatuo, in fondo, credersi davvero «un uomo»: da parte di un adulto intendo. Scendevo dal tram tornando da scuola con una collega, e incontravamo lui e Maria. La Gili si inteneriva, cercava di accarezzarlo: - Che bel bambino! – e lui rabbioso: - Non sono un bambino, sono un uomo! Mi domandò se fosse nel periodo della scuola Coppino. Vorrebbe dire che si affermava uomo proprio perché era al colmo dell’insicurezza: là i compagni erano furbi e prepotenti, la maestra inflessibile e stolida; ma non ho elementi per saperlo. Inclino a pensare che fosse lo stesso tempo in cui si dichiarava «lavoratore». Se c’è uno che soffre, che detesta di dover lavorare, è lui. Però si spiega. Il lavoratore che lui ammirava e col quale si immedesimava, era il muratore – come fu poi il macchinista, il fuochista, il camionista – uno che maneggia strumenti, non paperasse. E in questo senso lui è davvero un lavoratore, ma – qui è il punto, il motivo dell’orrore per il lavoro inserito – lavoratore in proprio, in libertà. Naturalmente i suoi sono sempre lavori perfetti e grandiosamente inutili. Dice a suo padre che in ufficio ci sono gli straordinari, ma lui non va perché ha da fare a casa. -

Cos’è che fai, a casa?

-

Una mitragliatrice.

Quando Turin, che stava per partire per l’America in seguito alle leggi razziali, venne a salutarci, al momento del congedo, mentre col cuore stretto lo guardavamo scendere le scale, si voltò indietro ancora una volta e ci gridò: - Fatene un uomo!


XIV Nel senso che intendeva Turin credo che lui lo sia, nonostante le apparenze contrarie: contrarie solo al punto di vista benpensante e mondano; perciò io dedico anche al nostro vecchio amico filosofo questa immagine di uno che non ha voluto diventar uomo. Stavo perseguitandolo un po’ – come faccio ogni tanto – con la mia ammirazione; è sbottato: - Ma non è vero niente! Invece io sono Pinocchio! Pinocchio rimasto burattino! Sapeva di dire una cosa tremenda, tragica; ma lui non ha paura della verità. E proprio per questo non è un burattino, ma un uomo. Quando era bambino noi pensavamo che Pinocchio era lui. Il lato ingenuo, fiducioso, avventuroso di Pinocchio era ben suo. E così un certo umor leggero che ha ancora specie se è lontano da noi; lo aveva con Maria, con la nonna, e poi con Nenè. Mentre il Pinocchio del «non lo farò più», il «ragazzino per bene» che era già nel burattino, non è mai stato lui. Perciò non poteva mutarsi. Siccome non si può diventare quello che non si è già. Osservavo, quando era bambino, che delle grullerie di Pinocchio lui rideva come un grande, come adesso ride di se stesso ragazzo. Ci si riconosceva forse già allora; ma soprattutto lo esilarava, penso, il tono de libro: l’allegria, la rapidità, la meravigliosa concretezza. Anch’io da bambina avevo quasi imparato a memoria Pinocchio; ma poi mi ero innamorata di un altro personaggio: Peter Pan. Ero già una ragazzina e i miei gusti influenzati da troppe letture erano un po’ estetizzanti. Lui non l’ha mai letto, che io sappia, e nemmeno udito nominare; ma io mi son sempre sentita colpevole quando infinite volte l’ho inteso dire: - Non voglio diventare grande! – come se lo avessi contagiato con quella mia vecchia passione per la fiaba decadente. Tutti riviviamo sempre la stessa avventura, perché le nostre avventure sono simboliche. Per lui la scuola Coppino è stata il modello non solo di tutte le scuole, ma anche dell’ambiente di lavoro, di tutte le comunità insomma. Così anche l’altra, s’intende, la scuola delle suore francesi. La Coppino di quelle dove non ha potuto vivere; quella delle suore dei posti dove è stato tollerato, benvoluto. Come l’ufficio


XV dove lavora adesso: con tutto che lui lo detesta in quanto simbolo di mediocrità, di noia, è pure fatto si misura per lui e, come dice suo padre, un minimo male nella categoria. Noi lo choc l’abbiamo avuto già il primo giorno che andò all’asilo. Ci guardavamo: cosa farà? Io non seppi resistere e telefonai. Mère Marie Ange mi rispose con la sua voce flautata ma ferma: - Sta giocando coi suoi compagni – . L’irrealtà di questa immagine era tale che mi rassegnai, rinunziai per sempre a voler sapere. Come adesso, se mi accade di pensare che lui è in un ufficio (se telefonassi mi direbbero «sta lavorando coi suoi colleghi») l’irrealtà della cosa mi appare altrettanto evidente. È rassicurante, in fondo. Io lo penso anche adesso «all’asilo». Lo so che sono luoghi troppo puerili per lui; eppure sono i soli dove possa stare protetto, non offeso.


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BIBLIOGRAFIA


67 Opere di Lalla Romano

Le parole tra noi leggere, in Opere vol. 2, Milano, Mondadori, 1991, pp. 7-25. Suaves caen las palabras, Barcellona, Libros de Asteroide, 2005, pp. 5-22. Opere vol. 1, Milano, Mondadori, 1991 Opere vol. 2, Milano, Mondadori, 1991

Opere di riferimento

CANETTI, Elias, La provincia dell’uomo, trad. it. di F. Jesi, Milano, Adelphi, 1978 HURTADO ALBIR, Amparo, Traducción y Traductología. Introducción a la Traductología, Madrid, Cátedra, 2001 ONOFRI, Massimo, Il sospetto della realtà, Cava de’ Tirreni, Avagliano Editore, 2004 ONOFRI, Massimo, Altri italiani. Saggi sul Novecento, Roma, Gaffi Editore, 2012 RIA, Antonio, Cronologia della vita e delle opere, in Le parole tra noi leggere,Torino, Einaudi, 1996 SEGRE, Cesare, Introduzione, in Opere vol. 1, Milano, Mondadori, 1991 SERENI, Vittorio, Prefazione: colloquio con Lalla Romano, in Le parole tra noi leggere, Torino, Einaudi, 1996.

Fonti lessicografiche consultate

Diccionario de Español The Free Dictionary, « http://es.thefreedictionary.com/ »

Dictionaries and Translator Sensagent, « http://diccionario.sensagent.com/»

Real Academia Española, Diccionario de la Lengua Española, « http://www.rae.es/rae.html»


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Diccionario de la Real Academia Española, « http://diccionario.terra.com.pe/cgibin/b.pl»

TAM, Laura, Dizionario Spagnolo- Italiano, Diccionario Italiano- Español, Milano, Hoepli, 1999

POMPEO, Ignazio, Dizionario Spagnolo. Spagnolo- Italiano, Italiano- Spagnolo, Trento, Rusconi Libri, 2006

Corriere della Sera, Il Francese Compatto Zanichelli «http://dizionari.corriere.it/dizionario_francese/ »

Treccani, Enciclopedia e Vocabolario online «http://www.treccani.it»


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Ringraziamenti Un ringraziamento speciale ai miei genitori e ai miei fratelli che mi hanno sostenuta e mi son sempre stati vicino permettendomi di arrivare fin qui. Un pensiero speciale a chi non c’è più e che oggi, anche se da lassù, sarà comunque con me. Ringrazio le mie splendide amiche e compagne di avventure, tutti i miei più cari amici e chi mi è sempre stato vicino. Un sincero ringraziamento al Professor Massimo Onofri e alla Dott. Luche che mi hanno supportato in questo lungo percorso, per me inizialmente poco conosciuto, imparando a esplorare il mondo della letteratura e della traduzione letteraria.


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