La malattia come causa sospensiva del rapporto di lavoro

Page 1

A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

DI

S CIENZE P OLITICHE ___________________________

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE POLITICHE

LA MALATTIA COME CAUSA SOSPENSIVA DEL RAPPORTO DI LAVORO

Relatore: PROF. FABRIZIO BANO

Tesi di Laurea di: ELEONORA A RITZU

ANNO ACCADEMICO 2010/2011



A te. Dicevi di voler essere presente in questo giorno. Lo sarai nel mio cuore, oggi e sempre.

2


Indice Indice .................................................................................................................................. 3 Introduzione ........................................................................................................................ 4 Capitolo I: Malattia e Rapporto di Lavoro ........................................................................ 8 1.1

Nozione di Malattia ............................................................................................ 8

1.2 Art. 2110 c.c. – Infortunio, malattia, gravidanza, puerperio.................................. 19 1.3 Il Trattamento economico di malattia..................................................................... 22 1.4 Il diritto alla conservazione del posto: l’art. 2110, secondo comma, c.c. .............. 28 1.5 La modalità di computo del periodo di comporto .................................................. 35 1.6 Il licenziamento in pendenza di malattia ................................................................ 44 1.7 Computabilità del periodo di assenza nell’anzianità di servizio ............................ 51 Capitolo II : Accertamenti e controlli sulla malattia........................................................ 53 2.1 La comunicazione della malattia ............................................................................ 53 2.2 La certificazione della malattia .............................................................................. 55 2.3 Il contenuto della certificazione ............................................................................. 62 2.4 La valutazione della certificazione da parte del datore di lavoro .......................... 65 2.5 Lo svolgimento di altre attività da parte del lavoratore malato ............................. 69 2.6 Rapporti tra certificato privato e pubblico ............................................................. 75 2.7 Il controllo della malattia: l’art. 5 dello Statuto dei Lavoratori ............................ 79 2.8 Le “fasce orarie” di reperibilità............................................................................. 83 2.9 La sanzione ............................................................................................................. 93 Capitolo 3: Le assenze dal servizio nel Pubblico Impiego ............................................... 97 3.1 Pubblico Impiego: Evoluzione ................................................................................ 97 3.2 La “Riforma Brunetta” ........................................................................................... 99 3.2.1.La “Riforma Brunetta”: Le disposizioni sulle assenze per malattia. ............ 101 3.2.2 Visite di controllo durante le assenze per malattia........................................ 105 3.2.3 Permessi retribuiti ......................................................................................... 107 Bibliografia e Sitografia ................................................................................................. 110 Bibliografia ................................................................................................................. 110 Sitografia .................................................................................................................... 111 Ringraziamenti ............................................................................................................ 112

3


Introduzione La presente elaborazione, come si palesa chiaramente dal titolo, argomenterà circa la Malattia quale ipotesi determinante una temporanea sospensione del rapporto di lavoro. Si tratta di una sospensione che discende direttamente dalla tutela di un bene costituzionalmente protetto, come la salute del lavoratore in quanto persona ai sensi dell’Art. 32 Cost., e che concerne, peraltro, solamente l’attuazione dell’obbligazione lavorativa in quanto il rapporto di lavoro continua a produrre altri effetti giuridici per quanto parzialmente modificati e assoggettati a limitazioni di ordine temporale. Per malattia dovrà intendersi, qualsiasi situazione in cui lo svolgimento della prestazione lavorativa sia incompatibile con le esigenze di salvaguardia della salute del lavoratore , affinché sia garantito il diritto alla salute ex art. 32, comma 1, Cost. In ossequio a tale principio di primario valore, l’art. 2110 c.c. stabilisce, in caso di malattia del lavoratore, il trasferimento temporaneo del rischio sul datore di lavoro, il quale dovrà continuare a corrispondere la retribuzione al lavoratore, in modo da permettere a

4


quest’ultimo di conservare i due interessi fondamentali dati dalla conservazione del lavoro e del reddito. Nel rapporto di lavoro, la salute del lavoratore rileva soprattutto come condizione necessaria per l’adempimento della prestazione lavorativa. Di conseguenza, nel caso in cui venga a mancare tale condizione di salute, alla soluzione dei problemi che ne derivano deve adeguatamente provvedere il diritto, tramite la legge e la contrattazione collettiva, in modo da garantire al lavoratore malato quella tutela indispensabile che la Costituzione gli garantisce tramite il riconoscimento del diritto alla salute come valore fondamentale della persona. Volendo fornire una visione generale di quanto esposto nelle pagine a seguire, il primo capitolo tratterà della malattia comune vista come causa sospensiva del rapporto di lavoro, quindi si andrà ad analizzare la nozione di tale evento nonché la principale norma in materia, ossia l’art. 2110 c.c. e tutti i diritti che essa garantisce al lavoratore, vale a dire il diritto alla retribuzione o ad un’indennità, il diritto alla conservazione del posto di lavoro e, infine, la computabilità del periodo di assenza nell’anzianità di servizio.

5


Si passerà, poi, a trattare del c.d. periodo di comporto, e della possibilità o meno per il datore di lavoro di provvedere al licenziamento del lavoratore assente per malattia. Il secondo capitolo verterà sulla questione degli accertamenti e dei controlli sulla malattia. Più precisamente si tratterà dei principali obblighi incombenti sul lavoratore in caso di sopravvenuta malattia, ossia gli obblighi di comunicazione e certificazione della malattia; dell’ipotesi in cui il lavoratore svolga altre attività durante il periodo di malattia; delle visite di controllo, ex art. 5 Statuto dei lavoratori; delle c.d. fasce orarie di reperibilità; dell’assenza del lavoratore alla visita domiciliare di controllo ed eventuali sanzioni a tale ipotesi correlate. Oggetto del terzo capitolo saranno, invece, le misure specifiche adottate

dal

Ministro

per

l’innovazione

e

la

Pubblica

Amministrazione, Renato Brunetta, economista del lavoro, che, nell’ambito di un generale processo di riforma della Pubblica Amministrazione, attuato mediante il d.lgs. 112/2008 e successive modificazioni, ha concentrato la propria attenzione anche nei confronti del tasso di assenteismo nel settore pubblico intervenendo

6


con delle misure specifiche dirette a penalizzare le assenze per malattia e a prevedere un regime di particolare rigore delle stesse.

7


Capitolo I: Malattia e Rapporto di Lavoro 1.1 Nozione di Malattia La malattia costituisce, nel rapporto di lavoro subordinato, l’ipotesi sospensiva, di gran lunga, più classica e frequente. Si tratta di una sospensione che discende direttamente dalla tutela di un bene costituzionalmente protetto, come la salute del lavoratore in quanto persona ( Art. 32 Cost.), e che concerne, peraltro, solamente l’attuazione dell’obbligazione lavorativa, in quanto il rapporto di lavoro continua a produrre altri effetti giuridici. Non risulta, pertanto, corretto parlare di sospensione del rapporto di lavoro, bensì, si tratta di una mera sospensione dell’ attuazione della prestazione di lavoro. E’ bene precisare, sin dal principio, che la malattia si dice professionale quando è dovuta a cause di servizio, comune negli altri casi. Di alcune malattie si presume per legge la natura professionale (c.d. malattie tabellate), mentre per le altre malattie grava sul lavoratore l’onere di dimostrarne la natura professionale. L’elenco tassativo delle malattie di cui si presume la natura professionale è contenuto nel D.P.R. 13 maggio 1994, n. 336.

8


Per la scienza medica è “Malattia” una qualsiasi “alterazione morfologica e/o funzionale di una o più parti dell’organismo o dell’organismo in toto”. Questa nozione ha costituito un termine imprescindibile di riferimento per il diritto, che peraltro, a propria volta, ha elaborato una molteplicità di nozioni di malattia, più o meno accostabili alla definizione

portante,

che

impediscono

l’individuazione,

nell’ordinamento, di una nozione unitaria di malattia. Inoltre, da tempo, è emerso un orientamento consolidato, secondo il quale si deve avere riguardo ad una nozione più ristretta di quella medica e/o medico-legale generale e, dunque, l’evento tutelato non deve comprendere ogni alterazione dello stato psico-fisico del lavoratore, ma, esclusivamente quelle ipotesi nelle quali l’infermità abbia determinato, per la sua intrinseca gravità e/o per la sua incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale (seppure temporanea) “incapacità al lavoro” medesimo1. In questi casi, infatti, qualora il prestatore continuasse a svolgere la propria attività lavorativa, potrebbe compromettere la propria

1

Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916, Cass. 1991, n. 8855;

9


guarigione ed eventualmente anche sottoporsi ad un eventuale rischio di aggravamento. Questa nozione si è affermata anche sul terreno previdenziale, cioè ai fini dell’assicurazione contro le malattie comuni, come è stato confermato dall’art.2, primo comma, l. 29 Febbraio 1980, n.33, il quale nel prescrivere le modalità di invio del certificato medico di malattia all’INPS ed al datore di lavoro, ha fatto riferimento ai “casi di infermità comportanti incapacità lavorativa”. Per malattia si intende, quindi, qualsiasi situazione in cui lo svolgimento della prestazione lavorativa sia incompatibile con le esigenze di salvaguardia della salute del lavoratore. Pertanto, il primo coerente criterio di individuazione delle ipotesi di legittima astensione (per motivi di salute) dall’attività lavorativa non può che essere quello di guardare ai casi in cui il soggetto “non possa” ragionevolmente svolgere tale prestazione. Risulta assolutamente necessario soffermarsi, dunque, sul concetto di “Inabilità al lavoro”: lo stato di malattia dovrà essere rapportato alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore, con la conseguenza che sarà considerato inabile al lavoro, e quindi malato, colui che non sarà in grado, senza patire un disagio o una sofferenza fisica, o senza

10


correre il rischio di un peggioramento del suo stato, di svolgere le proprie mansioni2. L’incapacità lavorativa, quindi, non va intesa in senso assoluto e generico, ma relativo e specifico ,dovendo essere appunto rapportata all’attività che normalmente il lavoratore svolge. Si ritiene, comunque, che rientrino nella nozione di malattia tutelata dall’art. 2110 c.c. non soltanto le situazioni che rendano il prestatore incapace di svolgere la propria prestazione lavorativa, ossia gli stati patologici acuti, ma anche le ipotesi del lavoratore che debba sottoporsi ad attività indispensabili al recupero o al mantenimento della salute incompatibili con lo svolgimento della prestazione, quali accertamenti clinici, indagini e analisi richieste dal manifestarsi di un evento morboso, e a cure preventive o riabilitative in presenza di effettive e comprovate esigenze terapeutiche, affinché sia garantito il diritto alla salute ex art. 32, comma 1, Cost. 9 . La tutela è estesa fino a tal punto in quanto si tratta di impedimenti dipendenti pur sempre dallo stato di malattia, i cui effetti si proiettano, in questo caso, in un periodo precedente o successivo alla fase acuta del male.

2

Riccardo Del Punta, Lezioni di diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2006;

11


Si ritiene compreso nella nozione di malattia, oltre alla fase acuta della malattia stessa, anche lo stato di convalescenza, ossia il periodo necessario al lavoratore, nella fase conclusiva dell’infermità, per recuperare le normali energie psico-fisiche, in modo da prevenire eventuali ricadute ed assicurare la totale guarigione. Sono accomunate alla malattia situazioni che, pur non rientrando nella nozione in senso stretto di malattia, comportano comunque l’impossibilità per il prestatore di svolgere la prestazione lavorativa3: • ricoveri giornalieri in luoghi di cura (day hospital); • ricoveri per donazioni di organi; • interventi di chirurgia estetica, ma esclusivamente se effettuati a scopo terapeutico; sono invece esclusi quelli effettuati allo scopo di correggere un difetto estetico che non comporti, però, vizi funzionali; • trattamenti di fisiochinesiterapia, anch’essi solamente nel caso in cui siano indispensabili per curare specifiche patologie; • cure termali • ricovero ospedaliero per le attività preparatorie a un intervento chirurgico

3

Giampiero Falasca, Manuale di diritto del lavoro, Il Sole 24 Ore, 2008;

12


Per quanto riguarda il day hospital, in passato l’Inps precisò che, in tale caso, l’erogazione del trattamento economico di malattia richiedeva l’accertamento in concreto della sussistenza di uno stato di effettiva incapacità al lavoro, in quanto il day hospital non è equiparabile ad un ricovero, consistendo esso in prestazioni specialistiche ambulatoriali4. Di conseguenza, era indispensabile che il day hospital ricoprisse l’intera durata della giornata lavorativa, tenendo anche conto del tempo occorrente per il rientro nel luogo di lavoro; in caso di permanenza inferiore, sarebbe stato necessario accertare, in relazione alla natura dell’infermità e alla terapia praticata, la condizione di mancanza, nel prestatore, di una residua capacità lavorativa nel corso della stessa giornata. Successivamente, l’Inps ha precisato5 che la materia ha subito diverse modifiche, e che sono state specificamente individuate le prestazioni erogabili in day hospital6; tali prestazioni devono essere equiparate a 4

Circolare Inps 7 ottobre 1996, n. 192;

5

Circolare Inps 25 luglio 2003, n. 136;

6

Tali prestazioni comprendono patologie di media gravità, patologie di complessa gestione per la molteplicità di interventi necessari nella stessa giornata e persino interventi chirurgici non eccessivamente impegnativi;

13


giornate di ricovero: di conseguenza, in tali casi è senza dubbio rinvenibile una incapacità al lavoro, pur se limitata al solo giorno di effettuazione della prestazione medica. Sono, quindi, applicabili i criteri disciplinanti le giornate di ricovero. L’incapacità al lavoro derivante dalla malattia deve necessariamente essere temporanea, con la conseguenza che l’art. 2110 c.c. non trova applicazione se l’inidoneità a svolgere la prestazione lavorativa, seppure causata dalla malattia, ha carattere permanente (c.d. malattia irreversibile)7. Tutto ciò in quanto, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, la malattia e la inidoneità al lavoro sono cause di impossibilità della prestazione lavorativa differenti. La

prima

è

temporanea

un

evento

transitorio),

causa

un’impossibilità della prestazione totale8 e determina, ai sensi dell’art. 2110 c..c, la legittimità del licenziamento quando ha causato l’astensione dal lavoro per un tempo superiore al periodo di comporto.

7

è il caso, ad esempio, del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per un lungo periodo;

8

Di conseguenza, l’inidoneità parziale allo svolgimento della prestazione lavorativa non rientra nel campo di applicazione dell’art. 2110 c.c.;

14


La seconda, avente carattere permanente o, quanto meno, durata indeterminata o indeterminabile, non determina necessariamente l’impossibilità totale della prestazione e consente la risoluzione del contratto ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c. previo accertamento di essa con la procedura stabilita dall’art. 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, indipendentemente dal superamento di un periodo di comporto9. Da ciò ne deriva che la sopravvenuta inidoneità totale e definitiva del lavoratore alla prestazione lavorativa non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2110 c.c., e determina la risoluzione del rapporto, diversamente da quanto avviene nel caso di malattia, ovvero di impossibilità relativa alla prestazione10. In un primo tempo, la Corte di Cassazione ha stabilito che, in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, e di conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, il datore di lavoro potesse validamente

recedere

dal

contratto,

indipendentemente

dal

superamento o meno del periodo di comporto, soltanto quando la sopravvenuta incapacità fisica avesse carattere definitivo e mancasse

9

Cass. 24 gennaio 2005, n. 1373; Cass. 17 giugno 1997, n. 5416;

10

C. Cester, Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, in Diritto del lavoro, Utet Giuridica, 2007;

15


un apprezzabile interesse del datore di lavoro alle future prestazioni lavorative (ridotte) del dipendente11. In tali casi, il datore di lavoro non aveva l’obbligo di adibire il lavoratore

a

mansioni

differenti

che

egli

potesse

svolgere

compatibilmente con le proprie condizioni fisiche (o psichiche); correlativamente, il lavoratore non aveva diritto ad essere assegnato a tali differenti mansioni. Più tardi sono, però, intervenute le Sezioni Unite, enunciando il principio secondo cui, in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l’impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato non è ravvisabile per effetto della sola incapacità di esecuzione dell’attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore a una diversa attività, che sia riconducibile – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 c.c.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori12 , se ciò è necessario per evitare il

11

Cass. 6 novembre 1996, n. 9684; Cass. 18 marzo 1995, n. 3174;

12

Deviando, così, dal disposto dell’art. 13 legge 20 maggio 1970, n. 300 e dell’art. 2103 c.c., che ammettono soltanto lo spostamento del lavoratore a mansioni equivalenti a quelle da lui normalmente svolte;

16


licenziamento del lavoratore13, purché tale diversa attività sia utilizzabile

nell’impresa,

secondo

l’assetto

insindacabilmente stabilito dall’imprenditore

14

organizzativo

. L’intento delle

Sezioni Unite è stato quello di bilanciare gli interessi in gioco: l’interesse del lavoratore al mantenimento dell’occupazione, da un lato (interesse che è sovraordinato a quello del datore del datore di lavoro relativo alla conservazione di una determinata posizione in azienda15 e l’interesse del datore di lavoro a evitare che la permanenza del dipendente in azienda senza poter utilizzare la sua forza lavoro possa arrecare pregiudizio ai propri interessi economici, cosicché la malattia tutelata dall’art. 2110 c.c. non comporta l’impossibilità di svolgere

qualsiasi

mansione,

ma

l’impossibilità

di

svolgere

temporaneamente la specifica attività lavorativa normalmente svolta dal lavoratore. Di conseguenza, il licenziamento disposto dal datore di lavoro è ammissibile solamente nel caso in cui lo stesso si trovi

13

Affinché si possa adibire il lavoratore a mansioni inferiori, è comunque necessario il consenso, oltre che l’interesse, dello stesso lavoratore;

14

Cass., Sez. Un;

15

Cass. 7 febbraio 2005, n. 2375;

17


nell’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni differenti, e l’onere di provare tale impossibilità incombe sull’imprenditore16. L’incapacità del lavoratore di adempiere le mansioni per le quali era stato assunto deve essere verificata in concreto attraverso il raffronto tra mansioni e menomazioni. Per determinare se sussiste incapacità al lavoro oppure no, infatti, è necessario tenere conto delle mansioni normalmente svolte dal lavoratore; di conseguenza, il medico che effettua la diagnosi dovrà, anche ai fini di stabilire la prognosi, tenere in considerazione questo aspetto.

16

Cass. 10 ottobre 2005, n. 19686; Cass. 15 novembre 2002, n. 16141; Cass. 5 agosto 2000, n. 10339;

18


1.2 Art. 2110 c.c. – Infortunio, malattia, gravidanza, puerperio “In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge [o le norme corporative] non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuto al prestatore di lavoro la retribuzione od un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali [dalle norme corporative], dagli usi o secondo equità. Nei casi indicati nel comma precedente, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’art. 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge [dalle norme corporative], dagli usi o secondo equità. Il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause anzidette deve essere computato nell’anzianità di servizio.” Tra le fonti che disciplinano la sospensione del rapporto di lavoro ascrivibile a malattia, l’art. 2110 c.c. occupa senza dubbio una posizione centrale. Essa è una norma di applicabilità generale, la quale vale, per tutti i lavoratori subordinati, anche nel caso di rapporti di lavoro particolari, come quelli di apprendistato, di formazione e lavoro (oggi contratti di inserimento), contratti a termine, contratti a tempo parziale o in prova.

19


La tutela prestata da tale norma è fornita, infatti, in ragione dello stato di subordinazione del lavoratore, stato che si riscontra in qualsiasi rapporto di lavoro, non solo in quello a tempo indeterminato. La norma disciplina le più tradizionali ipotesi di sospensione dell’attuazione del rapporto di lavoro ovvero la malattia, l’infortunio e la maternità; una sospensione che discende direttamente dalla tutela di interessi propri del lavoratore, protetti anche sul piano costituzionale (ai sensi degli art 32 e 37 Cost.)17. Tale sospensione concerne solamente l’attuazione dell’obbligazione lavorativa in quanto il rapporto di lavoro continua a produrre altri effetti giuridici per quanto parzialmente modificati e assoggettati a limitazioni di ordine temporale. In tali casi, l’interesse del lavoratore alla tutela della propria salute è prevalente rispetto all’interesse del datore di lavoro a ricevere la prestazione lavorativa, di conseguenza, l’obbligazione del lavoratore di prestare la propria opera si sospende.

17

art. 32 Cost. (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”); art. 37 Cost. (“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”);

20


I due fattori rinvenibili nell’art. 2110 c.c. sono, quindi, quello dell’impossibilità o incapacità di rendere la prestazione e quello della tutela della salute, che tale norma garantisce in via prioritaria nell’ambito del rapporto di lavoro, in ossequio all’art. 32 Cost. Il lavoratore affetto da malattia, non essendo temporaneamente in grado di svolgere la propria prestazione, corre il rischio di perdere sia la retribuzione che il posto di lavoro. Ma, al riguardo intervengono la legge e la contrattazione collettiva mediante il riconoscimento di alcuni fondamentali diritti in capo al lavoratore colpito da malattia. L’art. 2110 c.c., infatti, individua i seguenti principi a tutela del lavoratore malato: • il diritto alla retribuzione o ad un’indennità; • il diritto alla conservazione del posto durante il periodo di comporto; • la computabilità del periodo di assenza per malattia nell’anzianità di servizio del lavoratore. L’art. 2110 rinvia a sua volta alla contrattazione collettiva, quale fonte primaria di integrazione della disciplina legale, la quale specifica ulteriormente i suddetti principi, in un’ottica di miglior favore per il lavoratore.

21


1.3 Il Trattamento economico di malattia L’astensione dal lavoro per malattia non determina di regola la sospensione dell’obbligo retributivo gravante sul datore di lavoro: a norma dell’art. 2110, primo comma c.c. (ma la regola e` desumibile anche dagli artt. 36 e 38 Cost.) «in caso ... di malattia ... se la legge o le norme corporative non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, e` dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità». L’Art. 2110 c.c.,dunque, al primo comma, prevede l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore malato, nei limiti quantitativi e temporali previsti da leggi, contratti collettivi, usi od equità, e nelle situazioni non coperte da fondi equivalenti di previdenza o di assistenza, “la retribuzione o un’indennità”. Sono pressoché superate le vecchie tesi dottrinali che, negli anni ’50, attribuivano al trattamento di malattia natura indennitaria e non retributiva, infatti, la concezione che si è ormai affermata, sia in dottrina che in giurisprudenza, è quella di riconoscere al trattamento di malattia natura retributiva.

22


Tale disposizione risulta essere espressione di una deroga all’art. 1463 c.c. (Impossibilità totale), in virtù di quella che è la particolare funzione attribuita alla retribuzione nell’ambito del rapporto lavorativo, la quale è volta, infatti, non solo a fungere da corrispettivo per la prestazione lavorativa resa ma può essere identificata anche come mezzo di sostentamento per il lavoratore e la sua famiglia, in virtù del principio sancito dall’Art. 36 Cost. Il datore di lavoro è esonerato dall’obbligo retributivo nelle situazioni e per le quote coperte da meccanismi di assicurazione sociale, precisamente

l’assicurazione

malattie,

gestita

dall’INPS18,

e

l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, gestita dall’INAIL19. La determinazione del trattamento di malattia a carico del datore di lavoro è operata, di regola, dalla contrattazione collettiva, alla quale la disposizione fa rinvio; essa prevede un obbligo retributivo esclusivo là dove manca la copertura previdenziale, o integrativo, dell’indennità corrisposta dall’INPS nei confronti del personale assicurato, fino a raggiungere l’80-100 % della normale retribuzione. 18

Vedi l. n. 138/43; art 74, l. n. 833/78;

19

D.P.R. n. 1124/65;

23


Secondo una pronuncia di Cassazione, nel trattamento di malattia corrisposto dal datore di lavoro al dipendente dovrebbe essere incluso quanto è normalmente trattenuto dall’Inps, non operandosi in tale periodo, ad avviso della pronuncia, trattenute contributive20. I contratti collettivi prevedono, ai fini, nozioni di retribuzione assai ampie (“retribuzione normale di fatto”, “normale trattamento economico complessivo netto”, “retribuzione di fatto”, “intera retribuzione globale”), che rimangono affidate all’interpretazione dei giudici di merito. Risulta chiaro,dunque, che, alcune categorie di lavoratori, durante la malattia, ricevono la retribuzione esclusivamente dal datore di lavoro, altri invece ricevono, a titolo di prestazione previdenziale, un trattamento economico anche a carico dell'INPS. I lavoratori non indennizzati dall’Inps sono i lavoratori con qualifica di dirigenti, impiegati e apprendisti fatta eccezione per gli impiegati del settore terziario (commercio e servizi), i quali invece sono indennizzati anche dall'Istituto Assicurativo.

20

V. Cass. 22 Luglio 1992 n.8834;

24


Per i lavoratori non indennizzati, non esistono regole di carattere generale uguali per tutti. Quanto e fino a quando deve essere loro corrisposto, è stabilito, come già precisato, dai CCNL. I lavoratori indennizzati dall’INPS sono invece gli operai di tutti i settori - Industria, Artigianato, Credito, Agricoltura e Terziario, compresi i lavoratori a domicilio e i sacristi, nonché, gli impiegati del settore Terziario. A tutti il datore di lavoro deve anticipare il trattamento economico previdenziale, fatta eccezione per: · Lavoratori agricoli; · Lavoratori disoccupati cessati dal lavoro da non più di due mesi per licenziamento o dimissioni; · Lavoratori sospesi che non fruiscono della CIG; · I lavoratori dipendenti in procedura di fallimento, quando il datore di lavoro non è in grado di corrispondere le retribuzioni; · Lavoratori con contratto a termine, per lavori stagionali; · Lavoratori con contratto a termine che non possono far valere nei dodici mesi precedenti periodi lavorativi superiori a 30 gg.

25


L' INPS corrisponde l'indennità economica di malattia ai lavoratori aventi diritto a decorrere dal 4° giorno di malattia e fino al 180° giorno di malattia in un anno solare. L'indennità di malattia viene calcolata sulla retribuzione media globale percepita dal lavoratore nel periodo quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente l'insorgere del primo episodio morboso. La retribuzione a questo fine è composta da tutti quegli emolumenti corrisposti in via ordinaria alla scadenza di ciascun periodo di paga: - Stipendio, cottimo, provvigione, partecipazione agli utili, indennità di contingenza, compenso per lavoro straordinario, indennità di ferie godute, indennità varie corrisposte normalmente al lavoratore. Agli operai dell'industria e agli addetti al commercio con qualifica di impiegati, l'indennità giornaliera di malattia spetta nella misura pari: - al 50% della retribuzione media globale giornaliera per le giornate indennizzabili

comprese

nei

primi

20

giorni

di

malattia;

- 66,66% della retribuzione media globale giornaliera a decorrere dal 21° giorno di malattia fino al 180° giorno.

26


Non vengono indennizzati dall’INPS: • i primi tre giorni di malattia (Carenza) per tutte le categorie di lavoratori. Saranno i CCNL a stabilire l'eventuale misura di retribuzione a carico del datore di lavoro; • le domeniche e le altre festività (compreso il S. Patrono) cadenti nel periodo di malattia per gli operai; • per gli impiegati aventi diritto (Terziario) le festività cadenti in domenica. Meritano infine di essere citati alcuni orientamenti giurisprudenziali in materia di trattamento economico di malattia, secondo i quali: • risultano essere legittime le clausole collettive che prevedono misure ridotte del trattamento di malattia per gli apprendisti; • nel caso di part time verticale a base annua, l’indennità non spetta qualora la malattia sia insorta durante il periodo in cui non è previsto lo svolgimento dell’attività lavorativa; • nel caso di sciopero la retribuzione può essere negata anche ai lavoratori assenti per malattia21;

21

V. Cass. 7 Febbraio 1991 n. 1256; Cass. 23 Aprile 1982, n. 2522;

27


• le integrazioni contrattuali di malattia cessano di essere dovute nel caso in cui il malato sia posto in Cassa integrazione guadagni, sia straordinaria (v. art.3, secondo comma, l. 8 Agosto 1972, n.464 in base al quale “tale trattamento sostituisce in caso di malattia l'indennità giornaliera a carico degli enti gestori della assicurazione contro le malattie”), sia ordinaria (alla quale si ritiene applicabile analogicamente la norma di cui sopra)22.

1.4 Il diritto alla conservazione del posto: l’art. 2110, secondo comma, c.c. Il secondo comma dell’art. 2110 stabilisce che il recesso del datore di lavoro possa essere esercitato soltanto dopo il protrarsi dell’assenza per un periodo la cui determinazione è stata lasciata dal codice civile ad altre fonti, individuate nelle leggi speciali, nei contratti collettivi, negli usi e nell’equità. Tale principio, che deve essere interpretato alla luce dei precetti costituzionali in tema di diritto alla salute, deve intendersi applicabile,

22

V. Cass. 17 Febbraio 1987, n. 1709;

28


sia con riferimento alla malattia singola a carattere unitario e continuativo, sia all’ipotesi della successione di più eventi di malattia a carattere intermittente o reiterato, anche frequenti e discontinue in relazione ad uno stato di salute malferma: cd. eccessiva morbilità. La disciplina codicistica si pone in regime di specialità rispetto alla disciplina generale della risoluzione del rapporto di lavoro, tanto che, anche nell’ipotesi di reiterate assenze del dipendente per malattia, il datore di lavoro non può licenziarlo per giustificato motivo, ai sensi dell’art. 3 l. 604/66, ma può esercitare il recesso solo dopo il periodo specificatamente fissato dalle leggi speciali,dalla contrattazione collettiva, dagli usi o secondo equità. Utile, a tal fine, sono state alcune famose sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione23. I passaggi essenziali del ragionamento delle Sezioni Unite possono così riassumersi: non è vero che l’art. 2110 riguardi soltanto il caso di malattia continuativa, nulla impedendo che esso trovi applicazione anche nel caso del succedersi di più malattie discontinue;

23

V. Cass. 29 marzo 1980, n. 2072;

29


il problema dell’eccessiva morbilità deve ,pertanto, essere risolto sulla base dell’art. 2110, che prevale, in quanto norma “speciale”, sia sulla normativa generale del recesso, che su quella del codice civile in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione. Dunque, entro limiti temporali commisurati, oltre che all’interesse del datore di lavoro a ricevere la prestazione (cfr. art. 1463 c.c.), ad un’istanza di tutela del diritto alla salute del lavoratore, l’impossibilità della prestazione non conduce alla risoluzione del rapporto di lavoro. Il periodo durante il quale vige il divieto di licenziamento del lavoratore, assente per malattia o infortunio, per quanto previsto dall’art. 2110 c.c., è comunemente definito periodo di comporto. Il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto per tutta la durata del periodo di comporto . Sotto un profilo nozionistico la contrattazione collettiva ascrive il periodo di comporto a due distinte tipologie: 1) Il comporto secco; 2) Il comporto frazionato o per sommatoria. Secondo la previsione del comporto secco, il periodo di conservazione del posto è riferito ad un unico lasso temporale di malattia senza soluzione di continuità, dunque riferito ad un unico singolo evento

30


invalidante, mentre secondo quella del comporto per sommatoria, il periodo nel quale il lavoratore non può essere licenziato è da individuarsi con riferimento ad una pluralità di malattie verificatesi nell’ambito di un determinato periodo di osservazione prestabilito. Se per il computo del periodo di comporto per sommatoria non sembrano

individuarsi

particolari

problemi,

diviene

tuttavia

difficoltoso operare un’attenta ricognizione del periodo riferito al comporto secco quando si presentino differenti periodi di malattia, intervallati da periodi di lavoro. In questo senso si registrano due differenti interpretazioni: In base alla prima, una volta usufruito, eventualmente anche per sommatoria di vari episodi morbosi, del comporto, il lavoratore esaurisce per tutto l’arco della sua vita lavorativa aziendale il diritto a goderne; in base alla seconda, ad ogni nuova malattia (con eventuale ricaduta, prevedendo alcuni contratti collettivi un prolungamento del periodo di comporto in caso di ricaduta entro breve termine) decorrerà un nuovo periodo di comporto. Entrambe le interpretazioni derivanti da tale tipo di clausole porterebbero a conseguenze che non sono state ritenute accettabili; la

31


prima chiaramente a danno del lavoratore, la seconda a danno del datore di lavoro, che si vedrebbe addossato a tempo indeterminato il rischio di malattia, posto invece dalla legge solo a certi limiti a suo carico. Nella prima ipotesi non verrebbe tutelato il diritto alla salute del lavoratore, non essendo concepibile che la tutela possa essere apprestata per un’unica malattia, o anche per unica sommatoria di più malattie, durante tutta la permanenza del lavoratore alle dipendenze di una determinata azienda; e se dovesse ritenersi che una volontà delle parti collettive abbia inteso escludere la tutelabilità di ulteriori malattie, oltre quelle esaurienti l’unico periodo di comporto usufruibile, una pattuizione del genere non potrebbe sfuggire alla sanzione di nullità per violazione della norma inderogabile che presiede l’anzidetto diritto. Per quanto concerne, in particolare, la fattispecie del comporto secco, si registra un orientamento giurisprudenziale che ne sostiene la totale nullità nel caso in cui la contrattazione collettiva ne preveda la sola ipotesi per individuare il periodo di conservazione del posto24.

24

Cfr. Cass. N. 10131/93;

32


Si verrebbe a determinare che il ripetersi di assenze per malattia del lavoratore per periodi inferiori alla durata massima del periodo di comporto secco non consentirebbero il recesso datoriale pur in presenza di una forte morbilità. In questa prospettiva, nel caso in cui la contrattazione collettiva non preveda un termine di comporto per l’ipotesi di malattie plurime o reiterate, e non vi siano usi utilmente richiamabili, tale termine può essere correttamente ritenuto dal giudice di durata coincidente con quello del comporto previsto per la malattia unica25. È tuttavia da registrare un orientamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte che, in riferimento ad una pluralità di eventi di malattia interrotti dalla prestazione lavorativa, senza che nessuno di essi superasse il periodo di comporto secco, ha stabilito essere compito del giudice determinare, sotto il profilo equitativo, il periodo di comporto per sommatoria. Secondo la giurisprudenza che ne è seguita, per la determinazione del periodo di comporto, nel caso di specie, si deve utilizzare un doppio termine di riferimento:

25

Cfr. Cass. N. 2624/96;

33


- uno interno, pari alla durata prevista dal contratto collettivo per il comporto secco; - uno esterno, riferito alla durata del contratto collettivo. Si registra peraltro una posizione giurisprudenziale discordante e condivisibile in merito all’individuazione del c.d. termine esterno ove riferito alla durata del contratto collettivo. Secondo tale posizione il termine esterno, da calcolarsi a ritroso a decorrere dall’ultimo episodio morboso, non può essere contenuto nei termini di validità dell’ultimo contratto collettivo, in considerazione dell’evidente, irragionevole e non equa (in quanto meramente casuale) disparità di trattamento che si avrebbe tra il lavoratore (e, specularmente il datore di lavoro) per il quale l’ultimo episodio morboso si collocasse nell’imminenza della scadenza del contratto collettivo, nella cui totale vigenza verrebbero a collocarsi ed andrebbero computate tutte le assenze per controllarne la tollerabilità ai fini della conservazione del rapporto di lavoro, ed il lavoratore che si ammali l’ultima volta dopo l’entrata in vigore del nuovo contratto collettivo, il quale vedrebbe irrazionalmente ed ingiustificatamente azzerati a suo vantaggio, ai fini del comporto, tutti i precedenti periodi di assenza per malattia.

34


1.5 La modalità di computo del periodo di comporto Il computo del periodo di comporto, ai fini del recesso datoriale, ove la disciplina contrattuale non contenga esplicite previsioni di diverso tenore, deve tenere conto anche dei “giorni festivi o non lavorativi”, o comunque di fatto non lavorati in quell’azienda, operando in quei giorni una presunzione di continuità dell’episodio morboso, che può essere esclusa solo dalla prova del rientro in servizio del dipendente. La giurisprudenza ha aggiunto, peraltro, che debbono essere esclusi dal computo i giorni festivi precedenti ai giorni iniziali o successivi a quelli finali della prognosi di malattia, purché seguiti, questi ultimi, dal rientro in servizio26. Inoltre, se l’ultimo giorno del comporto cade nell’ultimo giorno lavorativo della settimana, il comporto può dirsi superato soltanto il lunedì successivo27. Per quanto riguarda il computo dei mesi , ai fini del comporto, esso va fatto in base al calendario comune.28 26

V. Cass. 12 agosto 1994, n.7405;

27

V. Cass. 10 febbraio 1993, n.1657;

28

V. Cass. 30 maggio 1986, n. 3675;

35


Pertanto, sia il termine interno, corrispondente alla somma delle assenze causate dai singoli episodi morbosi, che quello esterno, costituito dall’arco di tempo entro il quale i detti episodi debbono rientrare senza pregiudizio per la conservazione del posto di lavoro, devono essere stabiliti secondo la loro effettiva durata in base al calendario comune e non già assumendo una durata convenzionale fissa costituita da un predeterminato numero di giorni astrattamente basato sulla durata media del mese. La suprema corte ha altresì precisato che il riferimento all’anno solare, contenuto nella clausola di comporto prevista dal contratto collettivo del settore commerciale debba essere inteso non come anno civile – pertanto dal 1°gennaio al 31 dicembre – ma come periodo di 365 giorni decorrenti a ritroso, a seconda della fattispecie, dal primo episodio morboso, dall’inizio della malattia, se continuativa o dalla data del licenziamento29. Tale interpretazione appare del tutto condivisibile in applicazione dei principi di logica, di ragionevolezza e di parità di trattamento tra lavoratori assenti per malattia per periodi rientranti o meno nell’anno di calendario.

29

Cfr. Cass. N. 13392/2002;

36


Si riflette, inoltre, sul computo del periodo in questione anche un importante principio che si è ormai affermato nella giurisprudenza: quello secondo cui non sono computabili, ai fini del decorso del comporto, le malattie che siano state causate dalla violazione, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo di protezione dell’integrità fisica e/o della personalità morale del lavoratore (leggi mobbing) ex art. 2087 c.c., anche in relazione alle scelte effettuate dallo stesso datore di lavoro in ordine all’assegnazione delle mansioni e/o al mancato reperimento, nell’organizzazione aziendale, di un altro posto più adatto alle precarie condizioni di salute del lavoratore30. Si tratta, in questo caso, dell’applicazione di un particolare regime di comporto, ove contrattualmente previsto. Si è posto, infine, il problema se il lavoratore malato possa o meno pretendere di essere “collocato in ferie” per bloccare il decorso del comporto, o di scomputare a posteriori i giorni di ferie non goduti dal comporto, al fine di invalidare il licenziamento intimato per il superamento dello stesso.

30

V. Cass. 23 aprile 2004, n.7730; Cass. 7 aprile 2003, n.5413;

37


La posizione tradizionale della giurisprudenza era di segno negativo31, ma tende ormai a prevalere una risposta sostanzialmente affermativa, che peraltro ha tardato a compattarsi in un indirizzo giurisprudenziale coerente. In alcune sentenze si era arrivati a sostenere che, per fruire del prolungamento del comporto per l’incidenza dei giorni di ferie non goduti non fosse neppure necessaria una richiesta del lavoratore in tal senso32, o che comunque il datore di lavoro fosse tenuto ad accogliere tale richiesta ove proposta33. Ha in seguito prevalso, invece, l’opinione per cui non può prospettarsi una proroga automatica, occorrendo necessariamente una richiesta del lavoratore, anteriore alla scadenza del periodo di comporto34. Il datore di lavoro, in tale circostanza, sarĂ onerato, anzitutto, di una risposta, nella quale dovrĂ dimostrare di esercitare in modo corretto il potere di stabilire la collocazione del periodo feriale, ossia sulla base 31

V. Cass. 30 agosto 1983, n. 5504;

32

V. Cass. 6 giugno 1991, n.6431;

33

V. Cass. 15 dicembre 1994, n.10761; Cass. 30 marzo 1990, n.2608;

34

V. Cass.22 aprile 2002, n.5824; Cass. 11 maggio 2000, n.6043; Cass. 14 maggio 1997, n. 4217;

38


di una considerazione e valutazione adeguata della posizione del lavoratore, in contemperamento con le esigenze dell’impresa. Il datore di lavoro potrà, dunque, anche respingere la richiesta del lavoratore, purché riesca a motivare e a dimostrare l’esistenza di un interesse aziendale tale da giustificare il sacrificio di quello del lavoratore35. É peraltro da supporre che non saranno molti i casi in cui tale motivazione possa essere data, posto che, rispetto ad un lavoratore già assente per malattia, non è facile addurre una ragione organizzativa per non concedere un prolungamento dell’assenza sotto altro titolo. Il dipendente che sta per consumare il proprio periodo di comporto può evitare il licenziamento anche fruendo di un istituto

che è

previsto da molti contratti collettivi, l’ “aspettativa per malattia”. Essa non prevede la spettanza della retribuzione, ma consente la conservazione del posto per un periodo ulteriore, sulla base di una

35

V. in diverse fattispecie, Cass. 9 aprile 2003, n.5521; Cass. 27 febbraio 2003, n. 3028; Cass. 17 maggio 2000, n.1774; Cass. 28 gennaio 1997, n.873; Tuttavia l’obbligo del datore di lavoro di prendere in considerazione l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto al fine della concessione delle ferie viene meno qualora egli possa usufruire di altri strumenti legali o contrattuali per evitare la risoluzione, come il collocamento in aspettativa non retribuita: così Cass. 9 aprile 2003, n.5521; Cass.8 novembre 2000, n. 14490;

39


semplice manifestazione di volontà del lavoratore, che è da ricondurre alla categoria del diritto potestativo. L’aspettativa deve essere richiesta, di solito (ma è questione di interpretazione contrattuale), prima della maturazione del comporto36, e ciò può determinare problemi pratici, visto che spesso il dipendente non è in grado di calcolare esattamente i tempi di scadenza del comporto. Tuttavia, la giurisprudenza tende ad escludere che il datore di lavoro sia tenuto a preavvertire il lavoratore dell’imminente scadenza del comporto e della conseguente possibilità di fruire dell’aspettativa per malattia37; di conseguenza, il lavoratore non può contestare il licenziamento per non essere stato avvertito dell’imminente scadenza del comporto. Si ammette, al massimo, che il datore di lavoro debba, fornire al lavoratore, secondo canoni di correttezza e buona fede (e qualche

36

V. Cass. 15 settembre 1997, n. 9175; È ovvio, in ogni caso, che la richiesta di aspettativa debba essere effettuata prima dell’intimazione del licenziamento : Cass. 20 novembre 1985, n.5741;

37

V. Cass. 3351/1996; Cass. 18 febbraio 1995, n.1757;

40


volta è lo stesso CCNL a prescriverlo), le informazioni che egli abbia richiesto in merito al totale delle sue assenze ed al comporto38. Una volta accertato l’avvenuto “superamento del comporto”, il lavoratore si ritiene liberamente licenziabile, fatto salvo il diritto al preavviso39. L’ipotesi di recesso configurata dall’art.2110, secondo comma, che si caratterizza per il rinvio esplicito all’art.2118, è, infatti, considerata un’ipotesi speciale di recesso, sopravvissuta anche dopo il tramonto del recesso ad nutum. Una valida ragione a supporto di tale conclusione si può rinvenire nel fatto che, sostanzialmente, il superamento del comporto si configura come una sorta di ipotesi speciale di giustificazione del licenziamento. Viene quindi ad essere incongruo, in questa prospettiva, richiedere al datore di lavoro, dopo l’esaurimento del comporto, di dimostrare la sussistenza di un giustificato motivo obiettivo ulteriore. Questa tesi, respinta dalla Cassazione40, è stata sostenuta da un filone minoritario, ma ha ricevuto e continua a ricevere consensi in dottrina. 38

V. Cass. 21 maggio 1998, n.5091;

39

V. Cass. 12 dicembre 1986 n.7435;

40

V. Cass. 1°giugno 1992, n. 6599;

41


Parrebbe necessario enunciare, a “motivazione” del licenziamento, la somma delle assenze effettuate41, anche se alcune pronunce, in verità, hanno affermato che ciò sarebbe indispensabile solo in caso di richiesta del lavoratore, sul modello dell’art. 2, l. n. 604/196642. Rimane comunque escluso l’obbligo di rispettare la procedura dell’art.7 dello Statuto dei Lavoratori, non trattandosi di un licenziamento disciplinare43. Un altro problema è quello della collocazione temporale del licenziamento per superato comporto. Secondo l’orientamento prevalente, il licenziamento può essere validamente intimato anche se il dipendente è tornato, nel frattempo, in servizio, purché dal momento della scadenza del comporto non sia trascorso un periodo di tempo eccessivo; si afferma infatti che il datore di lavoro abbia a disposizione, da quel momento, un certo

41

V. in tal senso, Cass. 13 agosto 1996, n.7525;

42

V. Cass. 20 dicembre 2002, n. 18199 ivi aggiungendosi che, in caso di tempestiva richiesta del lavoratore il datore ha l’onere di indicare i giorni di assenza con un grado di specificità tale da consentire al lavoratore di rendersi conto delle assenze contestate. Pertanto, risulta insufficiente l’indicazione del numero complessivo di assenze di ogni anno;

43

V. in tal senso, Cass. 18 febbraio 1986, n.973;

42


spatium deliberandi, prima di intimare il licenziamento, a meno che non si possa configurare, in concreto (per l’eccesiva lunghezza dell’attesa o per altri elementi), una rinuncia implicita al recesso44. La giurisprudenza più recente tende ad escludere, tuttavia, che il datore di lavoro sia gravato da un vero e proprio dovere di immediatezza, e predica che la valutazione del tempo decorso tra la data del superamento del comporto e quella del licenziamento venga condotta con criteri di minore rigore rispetto a quelli valevoli in caso di immediatezza ex art.2119 c.c., addossando altresì al lavoratore l’onere di provare che il comportamento datoriale è incompatibile con la volontà di porre fine al rapporto45.

44

V. come esempio :Cass. 17 giugno 1998, n.6057, che sostiene necessaria, la massima tempestività possibile del licenziamento 45

V. Cass. 8 maggio 2003, n.7047;

43


1.6 Il licenziamento in pendenza di malattia In base al secondo comma dell’art. 2110, il lavoratore malato ha diritto non soltanto di assentarsi legittimamente dal lavoro, ma anche di non essere licenziato durante il periodo di comporto. Non si tratta, quindi, solamente di un’ipotesi di esonero dalla responsabilità per il mancato adempimento della prestazione lavorativa, ma anche di un vero e proprio “divieto temporaneo di recesso”, pur in presenza dei motivi (con l’eccezione della giusta causa) che nel vigente assetto normativo legittimano il ricorso al licenziamento. Tuttavia, allorché si passa ad individuare il regime sanzionatorio del licenziamento intimato in pendenza del comporto, si è costretti a delineare una duplicità di conseguenze, a seconda del tipo di offesa all’ordinamento, che col licenziamento è stata perpetrata. In buona sostanza, se il licenziamento si pone in diretta antitesi col bene protetto dall’art. 2110, il che si verifica quando esso è stato determinato (esplicitamente o meno) dallo stesso stato di malattia (ed in questa ipotesi può essere fatto rientrare anche il caso del licenziamento sviato da un erroneo calcolo del comporto), la sanzione applicabile all’atto non può che essere quella della “nullità”, per

44


contrasto col precetto dell’art. 2110, da ricondursi a sua volta sotto la sfera onnicomprensiva dell’art.18 Stat. Lav. ( o dell’art. 8, l. n.604/1966), la cui “forza espansiva” lo rende suscettivo di applicazione

anche

ad

ipotesi

non

direttamente

prese

in

considerazione purché accomunate a quelle regolate da un’identità di ratio; tale è certamente il caso del licenziamento per malattia, come è suggerito dalla stessa esperienza giurisprudenziale, che in situazioni del genere ha dato per scontata, per lo più, l’applicazione dell’ordinario regime del licenziamento illegittimo. Per quanto attiene, invece, al licenziamento intimato in pendenza del comporto, ma per ragioni estranee allo stato di malattia, la giurisprudenza applica una sanzione più debole, ritenendolo “provvisoriamente inefficace”sino al termine della malattia46. La malattia rende temporaneamente inefficace il licenziamento anche se comunicata successivamente ad esso, purché si accerti che lo stato morboso era insorto prima del recesso: tanto ha affermato la Cassazione47 confermando una pronuncia di merito che aveva ritenuto

46

V. in tal senso, Cass. 4 luglio 2001, n. 9037;

47

V. Cass. 20 giugno 2003, n.9896;

45


inefficace

l’atto

risolutorio,

reputando

irrilevante

che

la

comunicazione della malattia fosse avvenuta poche ore dopo quella del recesso, una volta accertato che essa fosse effettivamente preesistente. Al principio in questione corrisponde concettualmente quello, altrettanto consolidato, per cui l’insorgenza di uno stato di malattia ha un effetto sospensivo sul decorso del termine di preavviso di un licenziamento già irrogato48. Tuttavia, vi sono casi in cui può aversi, anche durante la malattia, una legittima ed immediata risoluzione del rapporto di lavoro49. Quello più tradizionale si ha se il dipendente ha commesso fatti che integrano una “giusta causa” di recesso ai sensi dell’art. 2119 c.c. in virtù del quale è consentito il recesso dal contratto di lavoro senza preavviso (ovvero prima della scadenza se il contratto è a tempo determinato) in tutti i casi in cui si verifichi un’ipotesi tale da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro in quanto risulta essere compromessa la fiducia che il datore di 48

V. Cass. 27 giugno 2003, n. 10272;

49

Tra essi non rientra quello del superamento dei limiti di età, ove non previsto come causa automatica di scioglimento del rapporto: V. Cass. N. 7868 del 1994;

46


lavoro deve riporre nel proprio dipendente rendendo il rapporto improseguibile anche solo provvisoriamente; rimane invece inibito il licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Si

debbono poi ricordare l’ipotesi della

“cessazione totale

dell’attività” dell’impresa, e quella della risoluzione (automatica) del rapporto di lavoro per scadenza del termine. A quest’ultimo riguardo, peraltro, un’importante eccezione si era realizzata nel caso del contratto di formazione e lavoro, nel quale, data la presenza e la preminenza di un’autonoma finalità formativa, il termine finale del contratto deve intendersi automaticamente prorogato in caso di malattia in atto: tale principio è stato definitivamente stabilito dalla Cassazione50. L’abrogazione di questa tipologia contrattuale da parte del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 – ma non per il settore pubblico- ha reso in parte obsoleta questa giurisprudenza, dal momento che il principio in questione non è stato riproposto per un contratto sensibilmente diverso, quale è il contratto di inserimento.

50

V. Cass. 9 novembre 1992, n. 12066;

47


Un problema particolarmente delicato è quello se anche in caso di comporto non esaurito si possa esperire un licenziamento per giustificato motivo obiettivo motivato da un’irreversibile “inidoneità fisica o psichica” del lavoratore, accertata tramite organismi pubblici, nello spirito dell’art.5 Stat.lav., o se del caso tramite il medico competente ex.d.lgs. n. 626/1994. Da sempre la giurisprudenza ha risposto in senso affermativo, sul presupposto di una netta distinzione tra l’ipotesi della malattia e quella dell’inidoneità permanente. I rischi di aggiramento della regola del comporto, insiti nel principio in discorso, sono accresciuti dal fatto che si ammette, sia pure nell’ambito di un indirizzo che non sembra consolidato, che il giudizio sull’inidoneità fisica o psichica (o sull’ “indeterminatezza” della durata dell’assenza) possa essere formulato anche in “termini previsionali e probabilistici”51. Una sentenza ha precisato, peraltro, che rileva ai fini risolutori solo un’inidoneità fisica “di grado elevato residuata alla completa guarigione o alla stabilizzazione della parziale remissione della malattia”52. 51

V. Cass. N. 9067/1993; Cass. 9 settembre 1988, n.5117;

52

V. Cass. 13 aprile 1992, n.4507;

48


In origine, nell’ipotesi considerata, la giurisprudenza non riconosceva neppure al dipendente il diritto ad essere assegnato a mansioni alternative. In seguito, pur facendosi salva l’immediata licenziabilità senza bisogno di attendere il decorso del comporto, il principio dell’extrema ratio è penetrato anche in questo filone giurisprudenziale: la svolta è avvenuta per merito di una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 1998, e si è consolidata nella giurisprudenza successiva, in tali pronunce precisandosi che il dipendente inidoneo ha diritto di essere utilizzato, prima di essere licenziato, in altre mansioni, anche inferiori, purché reperibili all’interno dell’organizzazione aziendale insindacabilmente stabilita dall’imprenditore. Parallelamente a questi sviluppi giurisprudenziali, alla regola dell’extrema ratio è stato dato anche un chiaro riconoscimento normativo. La l. 12 marzo 1999, n.68, che ha riformato la disciplina delle assunzioni obbligatorie dei disabili, contiene due affermazioni rilevanti a tal riguardo. L’art. 10, terzo comma, disciplina l’ipotesi in cui il disabile subisca un aggravamento delle sue condizioni di salute, od abbia a patire le

49


conseguenze di significative variazioni nell’organizzazione del lavoro; in tale caso si dà corso ad un accertamento medico, in esito al quale il rapporto di lavoro del disabile può essere risolto (soltanto) “nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la Commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda”. L’altra

affermazione,

riferibile

questa

volta

a

lavoratori

originariamente abili, ma divenuti disabili in corso di rapporto in conseguenza di infortunio o malattia, è quella di cui all’art.4, quarto comma, secondo la quale “ per i predetti lavoratori l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. Nel caso di destinazione a mansioni inferiori essi hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.

50


1.7 Computabilità del periodo di assenza nell’anzianità di servizio Il regime giuridico della malattia è completato dalla previsione del terzo comma dell’art. 2110, secondo la quale durante la malattia o l’infortunio, si ha decorso dell’ “anzianità di servizio” ai fini dei vari istituti per cui essa rileva, siano essi di genesi legale o contrattuale (ad es. scatti periodici di anzianità e mensilità aggiuntive). Per quanto riguarda il trattamento di fine rapporto, questa soluzione è stata positivamente confermata dall’art. 2120, terzo comma, c.c. introdotto dalla l. 29 maggio 1982, n.297. Naturalmente, gli effetti della disposizione in commento si estendono a tutti quegli istituti per i quali può dirsi rilevante il mero decorso del tempo; là dove, invece, un certo effetto sia ancorato alla prestazione di un servizio effettivo (come per certe progressioni di carriera), il periodo di malattia non può essere considerato utile. In questo quadro, si è discusso se durante il periodo di malattia vi sia “maturazione del diritto delle ferie”. La giurisprudenza è stata a lungo divisa sul punto ma ha prevalso, alla fine, la tesi affermativa53 che si correla anche all’evoluzione subita 53

V. Cass. s.u. 12 novembre 2001 n. 14020;

51


dall’istituto feriale (soprattutto in seguito all’affermarsi del principio della sospensione delle ferie in caso di malattia sopravvenuta), sempre piÚ inteso come quota di tempo libero dal lavoro, e non come tempo di riposo in senso stretto.

52


Capitolo II : Accertamenti e controlli sulla malattia 2.1 La comunicazione della malattia Nel procedimento di accertamento della malattia si possono distinguere due momenti logicamente e cronologicamente separati: quello volto ad informare il datore di lavoro della sopravvenienza della malattia, e quello dell’eventuale controllo della medesima. La prima sequenza di tale procedimento si scinde, a sua volta, in due fasi: quella della comunicazione e quella della certificazione della malattia, attraverso il certificato del medico di fiducia del lavoratore. Per quel che riguarda la “comunicazione” della malattia, la fonte di disciplina alla quale occorre fare riferimento, sul piano del rapporto di lavoro, è la contrattazione collettiva. Pressoché tutti i contratti, pubblici e privati, pongono a carico del lavoratore l’obbligo di giustificare la malattia (cui sono equiparati gli infortuni extralavorativi) mediante la presentazione tempestiva di un certificato medico, ma anteponendo solitamente a tale obbligo un autonomo ed ulteriore obbligo di dare comunicazione dell’evento inabilitante sopravvenuto entro un termine estremamente breve (ad es. 24 ore).

53


In quanto l’avviso della malattia assolve ad una mera funzione di notizia, esso può essere validamente fatto in qualsiasi maniera anche informale, ed anche da parte di persone diverse dal lavoratore. Basterà che l’avviso sia dato, di solito, nei confronti dell’ufficio preposto alla gestione del personale, ma molto dipenderà, a tal fine, dalla prassi delle singole aziende. Oltre che per consentirgli di provvedere alla sostituzione del dipendente malato, l’avviso dovrebbe servire al datore di lavoro anche per disporre l’eventuale visita fiscale di controllo. Nella prassi, tuttavia, la visita viene spesso richiesta quando ancora non si conoscono ufficialmente i motivi dell’assenza del lavoratore, quindi sulla base di una mera supposizione sugli stessi. In effetti, se non si operasse così, un controllo non sarebbe materialmente possibile per le malattie di brevissima durata, sebbene i contratti collettivi abbiano cercato di anticipare il più possibile il termine dell’avviso di malattia. La prassi in questione trova l’avvallo di una pronuncia della Cassazione54, non recente ma mai contraddetta, che ebbe ad affermare

54

V. Cass. 5 maggio 1979, n.2156;

54


che la visita di controllo fiscale può essere disposta dall’azienda ancor prima di ricevere la comunicazione della malattia. La trasmissione dell’avviso non esonera ovviamente dall’invio del successivo certificato, che rappresenta la prova della malattia, ma l’invio in tempi brevissimi del certificato assorbe l’avviso. Merita di essere segnalata, infine, l’affermazione giurisprudenziale secondo cui, anche in mancanza di espresse prescrizioni contrattuali, il lavoratore dovrebbe ritenersi tenuto a comunicare tempestivamente la malattia sulla base dei principi generali di correttezza e buona fede, che valgono a colmare le lacune della normativa legale e contrattuale fornendo un criterio per il comportamento delle parti. Nell’ipotesi di omessa o ritardata comunicazione, di solito i contratti collettivi prevedono che in tal caso, come in quello di ritardata o omessa giustificazione, l’assenza dal lavoro debba considerarsi ingiustificata, con le medesime conseguenze.

2.2 La certificazione della malattia La normativa di fonte collettiva consente al lavoratore di provare (provvisoriamente) la sua malattia inviando una “certificazione” del proprio medico di fiducia, vale a dire una certificazione proveniente,

55


nella sostanza, dalla parte direttamente interessata dall’evento inabilitante, e che quindi ha una valenza probatoria certamente non inesistente (essendovi pur sempre la garanzia deontologica del medico), ma senz’altro debole. Tanto è vero che in una situazione come quella delle cure termali, dove il periodo di abuso è maggiore, il legislatore ha adottato la tecnica più rigorosa di richiedere in partenza la certificazione di un medico pubblico, e per giunta specialista. L’invio del certificato di malattia non costituisce soltanto lo strumento per soddisfare un “onere probatorio” (avente ad oggetto l’evento malattia), che il lavoratore può assolvere in qualsiasi momento, ma rappresenta anche un vero e proprio “obbligo”, concernente un comportamento strumentale dotato di rilevanza organizzatoria, a prescindere dal fatto che la malattia sia altrimenti nota al datore di lavoro. Tale certificato, attestante la patologia identificata dal medico curante, dovrà essere trasmesso o recapitato al datore di lavoro entro due giorni dal relativo rilascio, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento; sono validi i certificati rilasciati, anche su modelli non conformi alla modulistica predisposta, dagli ospedali o dalle strutture di pronto

56


soccorso, purché il medico dell’INPS, sulla base di tali certificati, possa valutare l’incapacità al lavoro. Il certificato redatto da un medico convenzionato con l’INPS per il controllo della sussistenza delle malattie del lavoratore, è atto pubblico che fa fede, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l’ha formato nonché dei fatti che il pubblico ufficiale medesimo attesta aver compiuto o essere avvenuti in sua presenza. Tale fede privilegiata non si estende invece anche ai giudizi valutativi che il sanitario ha in quell’occasione espresso in ordine allo stato di malattia e all’impossibilità temporanea della prestazione lavorativa. In ordine all’invio della certificazione medica, un problema che emerge riguarda l’estensibilità dell’obbligo in oggetto al caso di prosecuzione della malattia oltre la scadenza della prognosi indicata nel certificato del medico curante. Si sta, dunque, prendendo in considerazione il caso in cui ad un primo periodo faccia seguito un secondo periodo di malattia. A prescindere dal fatto che siano contenute o meno previsioni esplicite a riguardo nei contratti collettivi, è ovvio che il lavoratore è tenuto a

57


comunicare ed a certificare anche il secondo periodo di malattia55, a pena di vedersi applicare le sanzioni ordinariamente previste per l’inosservanza di tali obblighi, che si concretano nella valutazione di ingiustificatezza dell’assenza dal lavoro. Nel caso in cui non vengano rispettati dal lavoratore gli obblighi di tempestivo invio dell’avviso e/o della certificazione di malattia, graveranno sul lavoratore le conseguenze sfavorevoli nei termini previsti dai contratti collettivi. Di solito, l’assenza dal lavoro non comunicata e/o non certificata deve essere considerata “ingiustificata” con la conseguente applicabilità delle sanzioni disciplinari (ivi compreso il licenziamento) previste per tali ipotesi. Essendovi all’origine la violazione di un obbligo strumentale, tali sanzioni prescindono dal dato dell’effettività dello stato di malattia, per cui la prova del medesimo non vale a scongiurare la sanzione. L’unica possibilità che il lavoratore ha, per evitare di vedere comminate alla sua persona le sanzioni previste, è quella di provare di essere stato impedito, da circostanze cogenti e rilevanti ,come causa di

55

Ciò anche nei confronti dell’INPS: Cass. 30 agosto 1991, n.9250;

58


impossibilità della prestazione ex art. 1218 c.c., persino ad inviare il certificato medico. Non v’è dubbio, peraltro,che l’eventuale dimostrazione postuma della malattia da parte del lavoratore consiglia al datore di lavoro una particolare cautela nella scelta della sanzione da irrogare. Inoltre, poiché la responsabilità disciplinare consta anche di un elemento soggettivo, dipendente dall’intensità del dolo o della colpa, è preferibile che lo stesso datore di lavoro tenga conto, nella modulazione del provvedimento, di tutte le circostanze che abbiano avuto peso nel determinare la condotta inadempiente del lavoratore. Al di là del rispetto dell’obbligo previsto dai contratti collettivi, attraverso la trasmissione del certificato il lavoratore assolve, altresì, l’onere di provare l’esistenza della malattia, giustificando così l’assenza dal lavoro. Ciò significa che il datore di lavoro è abilitato a reputare non giustificata l’assenza non coperta da una certificazione medica, fatta però salva, su tale piano, la possibilità di una controprova successiva da parte del dipendente. Si consideri, tra l’altro, che oltre all’eventuale esercizio del potere disciplinare, il datore di lavoro è abilitato a trattenere la retribuzione

59


corrispondente ai giorni di assenza arbitraria, senza che ciò dia luogo ad una sanzione disciplinare da contestare ex art.7 Stat.lav., bensì come normale corollario del principio di corrispettività tra le contrapposte prestazioni, che, pur essendo sottoposto a molteplici deroghe positivamente previste, costituisce pur sempre una delle regole fondamentali del rapporto di lavoro. In alcune occasioni dubbie la scelta della trattenuta non accompagnata da una sanzione disciplinare può essere una ragionevole soluzione intermedia per richiamare il lavoratore ad un comportamento rispettoso delle regole, senza punirlo troppo duramente. Quella della decadenza economica è, a ben vedere, la medesima sanzione invalsa sul piano del diritto all’indennità di malattia erogata dall’INPS. Infatti, il mancato invio del certificato medico all’INPS priva il lavoratore del diritto alla percezione dell’indennità di malattia mentre l’eventuale ritardo nell’invio della certificazione all’INPS, rispetto ai termini previsti dall’ art.2 l. 33/1980, come modificato dall’art.15 della l. n. 155/1981, produce la perdita dell’indennità previdenziale di malattia per i giorni di ritardo.

60


La giurisprudenza è ormai consolidata in tal senso56, fatta salva – ma è stata necessaria una sentenza della Corte Costituzionale per stabilirlo una volta per tutte57– la prova di un giustificato motivo che abbia materialmente impedito il tempestivo invio della certificazione. Peraltro, data l’autonomia tra il rapporto di lavoro e quello previdenziale, se il lavoratore rispetta i termini di invio del certificato verso il datore di lavoro, ma non verso l’INPS, e di conseguenza quest’ultimo invita il datore a non erogare il trattamento di malattia, egli potrà operare tale trattenuta soltanto per la quota a carico dell’ente previdenziale, e non anche per quella a carico proprio; così come non potrà considerare quella assenza come ingiustificata.

56

V. Cass. 8 febbraio 1995, n.1420; Cass. S.U. 3 giugno 1987, n.4854;

57

V. Corte Cost. 29 dicembre 1988, n.1143;

61


2.3 Il contenuto della certificazione L’ art.2 l. n. 33/1980 prevede che il certificato di malattia che il lavoratore deve inviare all’INPS contenga la diagnosi e la prognosi rese dal medico curante, e che invece la certificazione o attestazione da inviare al datore di lavoro contenga “la sola prognosi” della malattia. Questa regola, che mira a proteggere la riservatezza del lavoratore, è stata criticata dalla dottrina, in quanto la mancata conoscenza della natura della malattia toglie al datore di lavoro gran parte della sua legittima facoltà di valutazione circa la sussistenza della malattia e circa la congruità della prognosi. Ciò a prescindere dalla possibilità che, di fatto, il datore di lavoro venga eventualmente a conoscenza (magari, informalmente attraverso l’INPS) della natura dell’affezione morbosa. In alcune evenienze lo stesso lavoratore potrebbe avere un interesse a comunicare la natura della malattia alla controparte: si pensi al caso in cui il lavoratore intenda usufruire del comporto prolungato previsto da alcuni contratti collettivi per la ricaduta nella stessa malattia, o del comporto speciale previsto per la tubercolosi.

62


In un’occasione, la Cassazione ha affermato che qualora sia previsto un comporto maggiore di quello ordinario in ragione di una particolare malattia, il lavoratore ha l’onere di comunicare la natura della medesima prima della scadenza del comporto ordinario58. A prescindere da un’ipotesi del genere, il lavoratore può cavarsela limitandosi a far indicare, nella certificazione medica (che di solito contiene tre caselle: una per l’inizio, una per la continuazione ed una per la ricaduta), che la malattia certificata costituisce una ricaduta, o comunque che si tratta di una malattia tale per cui si necessità l’applicazione di un dato periodo di comporto; a quel punto per il datore di lavoro risulterà particolarmente difficile, nulla sapendo della diagnosi, mettere in dubbio il contenuto della certificazione anche a questi soli fini. Un problema particolare potrebbe nascere in presenza di malattie aventi natura “infettiva”. Si potrebbe, infatti, pensare che in quei casi l’interesse alla riservatezza del lavoratore ceda nei confronti di quello dei colleghi di lavoro a proteggersi contro il pericolo di contagio.

58

V. Cass. 19 novembre 2001 n. 14475, che ne ha tratto la conseguenza della legittimità del licenziamento intimato dal datore ignaro della natura della malattia, una volta scaduto il comporto ordinario.

63


Si tenga presente che sussiste anche un interesse del datore di lavoro, nascente dal fatto che egli, in base all’art. 2087 c.c., ha l’obbligo di garantire la “sicurezza” dei lavoratori della sua azienda; una responsabilità che potrebbe insorgere peraltro, soltanto nel caso in cui fosse accertabile una colpa da parte sua, e quindi alla condizione, quantomeno, che egli fosse stato posto a conoscenza della malattia infettiva. Ciò considerato, si potrebbe ritenere (non v’è giurisprudenza significativa sul punto) che il lavoratore sia tenuto in ogni caso, in applicazione del principio di buona fede, a dare notizia al datore di lavoro (e, per suo tramite, ai colleghi) della malattia infettiva che lo ha colpito, qualora essa non si accompagni immediatamente ad un abbandono del lavoro. Si deve comunque tenere conto che molte malattie infettive debbono essere obbligatoriamente denunciate all’autorità sanitaria pubblica. In ogni caso, quanto appena ipotizzato è stato espressamente escluso dalla legge (artt. 5 e 6, l. 5 giugno 1990, n. 135) per i soggetti colpiti da infezione da HIV, il cui anonimato è rigorosamente protetto.

64


2.4 La valutazione della certificazione da parte del datore di lavoro In seguito alla tempestiva comunicazione e certificazione della malattia da parte del lavoratore, il datore di lavoro potrà compiere gli ulteriori passi nell’ambito del procedimento di accertamento dell’evento morboso (o dell’infortunio extralavorativo). Le possibilità a sua disposizione sono, evidentemente, due. La prima è quella di accettare la certificazione del lavoratore, senza neppure disporre la visita di controllo. La seconda ipotesi è quella in cui il datore di lavoro intenda contestare la validità della certificazione inoltrata dal lavoratore, o comunque la sua attendibilità probatoria rispetto all’effettiva esistenza di uno stato di malattia inabilitante. Possono verificarsi casi, se pur non frequenti, in cui il datore di lavoro può trovarsi a disposizione, anche senza aver disposto la visita di controllo, elementi che gli permettano di considerare irregolare o inattendibile il certificato di parte, consentendogli di disporre sanzioni disciplinari, la causale delle quali finirà con l’essere l’assenza ingiustificata del lavoratore.

65


Infatti, se un certificato non è regolare dal punto di vista dei suoi requisiti di forma e/o di contenuto, l’onere di certificazione, e dunque, di prova della malattia non può considerarsi validamente assolto e la conseguenza non può che essere quella dell’ “ingiustificatezza dell’assenza dal lavoro”. Parimenti, se il certificato, pur essendo formalmente regolare, viene tuttavia

ritenuto

inattendibile,

l’assenza

dal

lavoro

diviene

sostanzialmente ingiustificata. Questo, potrebbe accadere nel caso in cui un certificato medico, seppure tempestivamente inviato, risulti irrimediabilmente “carente” in quanto mancante di qualsiasi dato apprezzabile e riconoscibile in ordine all’esistenza di una malattia intesa come condizione inabilitante, alla prognosi della malattia medesima, o alla sua provenienza da un medico. Siamo, pertanto, di fronte ad una casistica alquanto ristretta. A queste irregolarità della certificazione si affianca, come ipotesi aggravata, quella in cui il certificato risulti materialmente “falso”, dovendosi tenere presente che la falsificazione può essere valutata anche in chiave di gravissima lesione dell’elemento fiduciario del

66


rapporto di lavoro, con la conseguente irrogabilità del licenziamento per giusta causa59. L’irregolarità formale rende inattendibile la certificazione; ma essa può essere reputata inattendibile anche a prescindere da vizi formali specifici. In linea teorica vi è la possibilità di una valutazione interna della congruità della certificazione. La difficoltà nella quale il datore di lavoro versa è dovuta primariamente alla non conoscenza della diagnosi di malattia, che è anche all’origine della difficoltà di valutare lo svolgimento, da parte del lavoratore malato, di altre attività, lavorative o di altra natura. Ancora più difficile, se non impossibile, è che il datore di lavoro possa valutare la “congruità della prognosi” resa dal medico di fiducia. Tuttavia, sono emersi in giurisprudenza casi, per quanto non numerosi, nei quali, essendovi stata di fatto l’irrogazione di un provvedimento disciplinare da parte del datore di lavoro, è stata sindacata dal giudice l’effettiva incidenza inabilitante della malattia rispetto alle normali mansioni del lavoratore.

59

V. Cass. 5 febbraio 1985, n.816;

67


Più frequente è, indubbiamente, il caso in cui il datore di lavoro ritenga di desumere l’inesistenza della malattia e quindi, a monte, l’inattendibilità della certificazione, da circostanze esterne, di natura extrasanitaria, dalle quali sia possibile trarre, presuntivamente, tale conseguenza. Le principali tra tali circostanze attengono ad attività svolte dal lavoratore malato al di fuori della sfera di controllo del datore di lavoro. Ma, in realtà, qualunque circostanza sintomatica è potenzialmente in grado di acquistare una rilevanza a tali fini. Potranno essere prese in considerazione, ad esempio, le modalità complessive

del

comportamento

del

lavoratore

in

azienda,

anteriormente alla collocazione in malattia ed in specie nell’immediata prossimità di essa. Ne è testimonianza un caso, in cui il lavoratore aveva inviato una certificazione di emicrania, dopo essersi visto rifiutare ripetutamente un permesso richiesto per quel dato giorno, e il Tribunale di Milano ha ritenuto legittimo il licenziamento per assenza ingiustificata.

68


2.5 Lo svolgimento di altre attività da parte del lavoratore malato Lo svolgimento di “attività extralavorative” da parte del lavoratore in pendenza dello stato di malattia può avere almeno tre diverse valenze giuridiche: 1. Può dimostrare che il lavoratore non era effettivamente malato, o comunque inabile al lavoro, e che dunque l’assenza dal lavoro era da ritenersi ingiustificata; 2. Anche ammessa l’autenticità della malattia, può rivelare la violazione del dovere, incombente sul lavoratore, di non pregiudicare il recupero delle sue energie lavorative; 3. Può concretare un’assenza domiciliare nelle fasce orarie di reperibilità. Il terzo profilo deve essere tenuto distinto dagli altri due che, pur essendo anch’essi differenziati tra loro, tendono a sovrapporsi maggiormente. Dunque, la prima ipotesi presa in considerazione riguarda la condotta tenuta dal lavoratore come sintomo della non veridicità della malattia denunciata.

69


Qualora il datore di lavoro venga a conoscenza, o per aver disposto appositi accertamenti o persino casualmente, che il lavoratore ha posto in essere comportamenti incompatibili con lo stato di malattia denunciato (nel senso che dimostrano che quello stato non era veritiero), egli può contestare disciplinarmente l’assenza che verrà considerata come ingiustificata (la quale a sua volta, se protratta oltre un certo numero di giorni, consente di solito il licenziamento). Ciò a prescindere dall’aver disposto una visita di controllo fiscale, e dagli esiti della predetta, anche ove questi siano stati confermativi della prognosi resa dal medico di fiducia del dipendente. Le informazioni sullo svolgimento di altre attività possono essere state acquisite tramite appositi “accertamenti extrasanitari”, come quelli condotti a mezzo di agenzie investigative. Sulla liceità di dette indagini, anche al cospetto di norme come l’art. 8 Stat.lav., non vi sono ormai più dubbi nella giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito60.

60

V. Cass. 14 aprile 1987, n. 3704; Cass. 11 ottobre 1983 n. 5356;

70


Ne consegue la piena utilizzabilità delle informazioni in discorso, che di solito vengono verificate attraverso l’assunzione testimoniale degli investigatori. Secondo la Cassazione, indagini investigative del tipo sono legittime anche se svolte da addetti alla vigilanza aziendale61. Una volta superata la fase preliminare in ordine all’acquisizione dei dati, si procederà alla verifica dello stato di malattia denunciato. In un caso affrontato dalla Cassazione62, un lavoratore si era assentato per una lombosciatalgia. Il medico fiscale aveva confermato la prognosi, e tuttavia, il datore di lavoro, nutrendo forti sospetti, aveva incaricato un’agenzia di portare avanti le dovute indagini circa il caso. Quest’ultima aveva accertato che il lavoratore aveva condotto una vita perfettamente normale, senza manifestare alcuna delle limitazioni funzionali tipiche della malattia. Il conseguente licenziamento per assenza ingiustificata è stato confermato in tutti i gradi, ivi compreso quello di legittimità.

61

. V. Cass. 26 febbraio 1994, n. 1974: nel caso il dipendente era stato trovato a lavorare nella sua bottega artigiana;

62

V. Cass. n. 6236/2001;

71


Ma lo svolgimento di altre attività in pendenza di malattia – giungiamo così alla seconda ipotesi – può essere ritenuto contrattualmente illegittimo a prescindere dal fatto di far dubitare della veridicità della malattia. Esso, infatti, potrebbe comportare la violazione del dovere, incombente sul lavoratore, di non pregiudicare il recupero delle proprie energie lavorative, così da poter riprendere il regolare svolgimento delle proprie prestazioni. La giurisprudenza fa discendere tale dovere dall’obbligo di fedeltà e dai principi generali di correttezza e buona fede, e ritiene di solito irrogabile, in caso di acclarata violazione , la sanzione disciplinare più grave, vale a dire il licenziamento per giusta causa. Ciò significa che ad essere precluso non è lo svolgimento di qualunque attività, persino lavorativa63, bensì esclusivamente quello di attività “incompatibili” con lo stato di malattia denunciato; incompatibili, in questo caso, nel senso che determinano un aggravamento del medesimo64. 63

L’attuale orientamento ebbe inizio con Cass. 16 giugno 1976, n.2244;

64

V. Cass. 11 dicembre 2001, n. 15621: “ Lo svolgimento di altra attività da parte del lavoratore assente per malattia, documentata con certificato medico, costituisce motivo di licenziamento disciplinare (o meglio, di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo) solo ove il dipendente abbia agito simulando la malattia, si sia comportato in modo da compromettere o ritardare la propria guarigione, abbia svolto un’attività oggettivamente incompatibile con lo stato di malattia oppure l’abbia esplicata in violazione del divieto di concorrenza”;

72


L’onere di provare la compatibilità tra l’attività svolta e la malattia, vale a dire l’idoneità di tale attività in relazione al recupero delle normali energie psico-fisiche, incombe di massima sul lavoratore65. La valutazione sulla natura “incompatibile” della diversa attività svolta non è, in genere, affatto semplice, non essendo raro che i comportamenti posti in essere dal lavoratore possano essere interpretati tanto come lesivi per una sua regolare ripresa, quanto utili al sostegno della propria guarigione. Si può, al riguardo, citare un caso, seppure non recente, nel quale un lavoratore ammalato a causa di un’affezione agli occhi, aveva svolto un’attività sportiva che lo vedeva ricoprire il ruolo di istruttore di judo. Il Consulente Tecnico d’Ufficio aveva considerato tale attività come pericolosa ma sorprendentemente si ritenne ingiustificato il licenziamento in considerazione del particolare interesse dimostrato dal soggetto per quella disciplina sportiva66. Potrebbe risultare utile tenere conto, nella valutazione complessiva della responsabilità disciplinare del lavoratore, l’assenza di un intento

65

V. Cass. 21 ottobre 1991, n. 11142; Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916;

66

V. Cass. 12 aprile 1985, n.2434;

73


speculativo da parte del lavoratore, sorpreso per l’appunto a svolgere un’attività sportiva67. In uno spirito di maggiore rigore, si è affermato che se il lavoratore malato

intende

svolgere

un’altra

attività

presso

terzi,

non

incompatibile con la malattia e tale da non ritardare la guarigione, deve preventivamente offrire tale prestazione al proprio datore di lavoro, il quale, esercitando lo ius variandi ex art.2103 c.c., potrebbe assegnare il lavoratore proprio a quelle mansioni (equivalenti a quelle originarie) per le quali lo stesso sia idoneo68. Un’ulteriore margine di incertezza deriva dal fatto che, secondo alcune sentenze, il lavoratore sarebbe sanzionabile soltanto se aggravasse effettivamente, col proprio comportamento, la malattia, differendo così il suo rientro al lavoro69. Secondo altre e più rigorose pronunce, invece, sarebbe sufficiente che, in forza della condotta in questione, si sia verificato un pregiudizio potenziale per la salute del soggetto70.

67

V. Cass. 20 settembre 1991, n.9803;

68

V. Cass. 29 luglio 1998, n. 7467;

69

V. Cass. 9 marzo 1987, n.2452;

70

V. Cass. 17 luglio 1991, n. 7915;

74


2.6 Rapporti tra certificato privato e pubblico L’ipotesi normale, è quella in cui il datore di lavoro esercita la sua facoltà di verifica della certificazione di malattia disponendo la visita fiscale di controllo, nel rispetto dell’art.5 Stat.lav. e della normativa sulle “fasce orarie di reperibilità”. In caso di predisposizione di tale visita di controllo, il medico incaricato potrebbe confermare la prognosi resa dal medico curante. Tale conferma, peraltro, non impedisce al datore di contestare la certificazione, qualora egli sia in possesso di elementi di prova che ne dimostrino

l’inattendibilità,

o

questa

risulti

intrinsecamente

inattendibile per irregolarità o imperfezioni. È pacifico, in giurisprudenza, che la certificazione del medico pubblico è sindacabile in giudizio, senza bisogno di querela di falso, in quanto il referto medico non ha valore di prova legale, salvo che per le circostanze estrinseche in esso attestate. Se il lavoratore impugnasse la conseguente sanzione in giudizio, tutto diverrebbe sindacabile. Anzi, gli elementi sui quali il sindacato del giudice può esercitarsi sono, a questo punto, più corposi in quanto sarà nota persino la natura della malattia, per cui sarà possibile valutare con cognizione di causa anche la sua effettiva incidenza inabilitante.

75


Tra gli elementi da valutare può esservi anche la congruità della prognosi rispetto alla terapia prescritta dal medico curante. Rileva, a riguardo, un caso in cui si è negata l’effettiva esistenza di un’incapacità al lavoro, sulla base di successivi accertamenti diagnostici nonché in relazione alla mancata connessione tra terapia e prognosi. La visita fiscale di controllo potrebbe determinare un “conflitto tra certificato privato e certificato pubblico” avendo il medico di controllo ridotto la prognosi già resa dal primo, od avendo egli negato la sussistenza della malattia. In questo caso la scelta spetta anzitutto al lavoratore il quale potrà decidere, prudentemente, di attenersi alla più ridotta prognosi del medico fiscale, oppure di prolungare la propria assenza fino alla scadenza della prognosi originaria. Qualora opti per la seconda soluzione, il datore di lavoro potrebbe rimproverargli l’assenza ingiustificata per i giorni in più, prescrittigli dal proprio medico curante, ma non dal medico fiscale il quale ha valutato in maniera differente dal primo la medesima malattia.

76


Ciò potrebbe essere evitato dal lavoratore inviando, dopo la data di scadenza della prognosi indicata dal medico di controllo, un nuovo certificato attestante il prolungamento della malattia. In tal caso spetta pur sempre al datore di lavoro provarne l’inattendibilità tramite una nuova visita di controllo o usufruendo di altri elementi di natura extrasanitaria. Ma, qualora il nuovo certificato del medico curante venga rilasciato in seguito alle nuove visite effettuate dai medici INPS, questi ultimi attestando che il dipendente è in condizioni di poter rientrare al lavoro, e certifichi la sussistenza di una malattia (anche se nuova) insorta precedentemente alle medesime visite, entrando così, in collisione con i certificati pubblici (in quanto, se essa vi fosse stata, i medici di controllo avrebbero dovuto diagnosticarla), l’assenza dal lavoro è da ritenere ragionevolmente ingiustificata. Va sottolineato che in virtù del principio della parità di valore tra certificazione pubblica e privata, enunciato da una giurisprudenza ormai consolidata71, il lavoratore conserva la possibilità di impugnare la sanzione disciplinare inflitta a tale titolo e di dimostrare in giudizio

71

V. ad es. Cass. 1° ottobre 1991, n. 10190

77


la sussistenza della malattia o la correttezza della prognosi cui si è attenuto. È necessario però prendere in considerazione il fatto che, nella prassi giudiziale, in virtù del principio di parità, la certificazione pubblica può finire col rappresentare, per il suo sentore di imparzialità, il prevalente parametro di riferimento del magistrato. Il problema principale riguarda il calcolo dei rischi per entrambe le parti, legandosi ciò intrinsecamente alla logica di un sistema che, non accordando efficacia legale preclusiva ad alcuna certificazione, consente poi che essa possa essere successivamente smentita sulla base di altri elementi di prova. Un sistema, quindi, nel quale nulla è mai definitivamente pregiudicato né garantito, sino all’eventuale sentenza definitiva del giudice, e nel quale è privilegiato il valore della giustizia probatoria rispetto a quello della certezza.

78


2.7 Il controllo della malattia: l’art. 5 dello Statuto dei Lavoratori “Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda. Il datore di lavoro ha la facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico.” La norma in commento ha profondamente innovato il procedimento di controllo della malattia del lavoratore subordinato ed è stata successivamente integrata dall’art.5 comma 9° e successivi della legge n. 638/1983, che ha introdotto le c.d. “fasce orarie” di reperibilità. Con la presente disposizione viene fatto divieto al datore di lavoro di disporre visite di controllo dell’infermità per malattia o infortunio o sull’idoneità fisica del lavoratore dipendente tramite medici di propria fiducia, ivi compresi i medici di fabbrica. In conformità con la ratio della norma, intesa a garantire l’imparzialità del controllo medico, il datore di lavoro è obbligato a servirsi degli

79


“enti previdenziali competenti” per gli accertamenti sull’infermità, e di “enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico” per gli accertamenti sull’idoneità del lavoratore. Con la riforma sanitaria del 1978, queste funzioni sono state affidate alle ASL, ma successivamente è stato reso possibile anche il ricorso, da parte del datore di lavoro e degli istituti previdenziali interessati, ai medici inclusi in “liste speciali” istituite dall’INPS. Ne deriva che i controlli possono essere richiesti tanto alle ASL quanto all’INPS, competenti per territorio. Per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la competenza spetta invece all’INAIL. La violazione del divieto posto dalla norma, comporterà l’irrogazione di una specifica sanzione penale ai sensi dell’art.38 dello Statuto dei Lavoratori. Il reato previsto dagli artt. 5 e 38 dello Statuto ha natura formale, e pertanto si perfeziona con la condotta del datore di lavoro che acquisisce accertamenti sanitari sull’infermità del dipendente assente dal lavoro attraverso medici di sua personale fiducia, anziché per mezzo di medici del servizio pubblico.

80


Il carattere formale del reato non richiede che si verifichi il danno concreto di uso parziale e tendenzioso dell’accertamento sanitario, e, quindi, sussiste anche quando il referto medico fiduciario sia scientificamente indiscutibile ed insuscettibile di una utilizzazione strumentale e tendenziosa da parte del datore di lavoro72. Il reato sussiste anche se il referto clinico dell’esame viene consegnato al datore di lavoro tramite il lavoratore stesso, ed anche ove il lavoratore presti il consenso dell’accertamento sanitario, in quanto egli non ha la disponibilità del relativo diritto. Il divieto di effettuare accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente, posto dall’art.5 dello Statuto del Lavoratori, non preclude al datore di lavoro medesimo la possibilità di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto idonee a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa. Sono pertanto legittimi, come già affermato, gli accertamenti effettuati dal datore di lavoro circa lo svolgimento da parte del lavoratore di un’altra attività lavorativa, e non determina l’illegittimità degli

72

Cass. Penale 21 gennaio 2005, n.1728;

81


accertamenti la circostanza che gli stessi abbiano riguardato la verifica dell’effettiva esistenza degli impedimenti fisici addotti per giustificare lo stato di malattia, ove questi non assumano un carattere sanitario in senso tecnico, ma si concretizzino nella sola osservazione del comportamento esteriore nella vita di tutti i giorni; così il datore di lavoro può verificare che il lavoratore che ha dichiarato l’impossibilità di camminare sia in realtà in possesso di piena efficienza fisica, in quanto tale osservazione non viene acquisita mediante accertamenti sanitari, ma mediante la semplice osservazione dei comportamenti del lavoratore stesso73. Allo stesso modo il divieto posto dall’art.5 non impedisce al datore di lavoro di contestare in sede giudiziaria l’attendibilità del certificato medico prodotto dal lavoratore a giustificazione dell’assenza; tale certificato è soggetto, al pari di ogni altro documento, alla valutazione del giudice di merito. Il precetto ex art. 5 ha ovviamente carattere imperativo e inderogabile da parte dell’autonomia individuale e collettiva. Si potrebbe, dunque, arrivare a ritenere non precluso, come ha affermato in un’occasione la

73

Cass. 3 maggio 2001, n. 6236;

82


Cassazione74, il ricorso a procedure di controllo, previste dalla contrattazione collettiva, che offrano le stesse garanzie dell’art.5. I valori di imparzialità ai quali la norma statutaria si ispira erano e debbono ritenersi tuttora importanti; con essa si mira a riorganizzare in modo efficiente il servizio di controllo, prevedendo prescrizioni strumentali atte a rendere possibile un tale obiettivo.

2.8 Le “fasce orarie” di reperibilità Il procedimento di controllo della malattia è stato profondamente innovato, sulla scia dell’accordo Scotti del 22 gennaio 1983, dall’art.5, comma 9° e successivi della legge n. 638/1983 (a sua volta integrato dai D.M. 25 febbraio 1984 e 8 gennaio 1985 del Ministero della Sanità, e 15 gennaio 1986 del Ministero del lavoro), che ha istituito una “fascia oraria” giornaliera all’interno della quale il lavoratore malato, anche se autorizzato ad uscire dal medico, deve rendersi reperibile al proprio domicilio, in modo da consentire un tempestivo controllo fiscale: tale fascia va dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19 di ogni giorno, comprese le domeniche e i giorni festivi.

74

V. Cass. 8 maggio 1981, n.3046;

83


Tali fasce orarie non valgono, però, per i lavoratori assenti a seguito di infortunio sul lavoro: così ha affermato la Cassazione75, osservando che la norma deve essere interpretata restrittivamente, data la sua incidenza sulla libertà di movimento garantita dall’art. 16 Cost. Tuttavia è stato addirittura asserito che, per il lavoratore assente per infortunio sul lavoro, un obbligo di reperibilità può essere legittimamente introdotto dal contratto collettivo, trattandosi di una, prescrizione a favore del lavoratore, al quale, in assenza di un termine, potrebbe essere altrimenti richiesto l’immediato adempimento dell’obbligo di reperibilità, che corrisponde al diritto di controllo del datore di lavoro e deriva anche dal più generale obbligo di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio. L’oggetto dell’obbligo è la reperibilità domiciliare all’interno delle fasce orarie predeterminate, per cui l’illecito non è sanabile dalla successiva sottoposizione alla visita ambulatoriale cui il lavoratore non reperito sia stato, come da prassi, invitato a presentarsi76. Ciò non toglie che se il lavoratore si sottrae anche alla visita ambulatoriale, e quindi impedisce un qualsiasi controllo sulla malattia, 75

V. Cass.30 gennaio 2002, n.1247;

76

V. Cass. 7 ottobre 1997, n. 9731;

84


può patire altre conseguenze: una sanzione disciplinare “comune”, commisurata a questo specifico comportamento, oppure una sanzione per assenza ingiustificata, poiché se il lavoratore si sottrae in assoluto al controllo l’attendibilità della certificazione da lui presentata ne risulta in qualche maniera inficiata, fatta salva la facoltà di contestazione in giudizio. La normativa viene applicata, nella prassi, sia sul piano del rapporto previdenziale

lavoratore-INPS,

che

su

quello

privatistico

(indipendentemente dalla sua ricezione nei contratti collettivi) per cui la sanzione da essa prevista viene a colpire tanto l’indennità INPS quanto il trattamento retributivo a carico del datore di lavoro. É da registrare ,tuttavia, l’orientamento dell’INPS, incline a sospendere l’applicazione della sanzione, e quindi a ritenere “sanato” l’illecito, dal momento in cui il lavoratore si è sottoposto alla visita ambulatoriale. In questo senso si è avuto anche un pronunciamento della Cassazione77. Nonostante il referto negativo del medico di controllo, rimane al lavoratore la possibilità di negare, in taluni casi, la commissione dell’illecito. 77

V. Cass. 21 ottobre 1995 n. 10965;

85


Naturalmente se tale contestazione investe persino i fatti storici attestati dal medico pubblico (ad esempio l’ora della visita), essa abbisogna della querela di falso. La proposizione della querela è necessaria anche per contestare le affermazioni del medico circa il fatto che il lavoratore si sia rifiutato di sottoporsi alla visita. Più complicata è la questione del valore da attribuire all’attestazione dello stesso medico circa l’assenza da casa del lavoratore. In linea di principio anche questo è un fatto storico, che dovrebbe essere coperto dal valore di prova legale. Tuttavia tale efficacia può riguardare soltanto quei fatti o comportamenti che il medico attesti di aver positivamente accertato o posto in essere; non può invece riguardare quei fatti che si situano al di là di tale attestazione, in quanto il medico non può averli positivamente constatati. Rimane così al lavoratore la possibilità di dimostrare ,ad esempio, le circostanze che non gli hanno concretamente permesso di apparire reperibile pur essendo presente al momento della visita del medico. La proliferazione di questo genere di contestazioni ha indotto la giurisprudenza a precisare l’ambito della condotta esigibile dal

86


lavoratore in virtù dell’obbligo di reperibilità stabilendo che sul lavoratore grava un obbligo di “rendersi disponibile” al controllo fiscale78, che comprende, quindi, l’adozione di quegli eventuali accorgimenti che siano necessari a consentire al medico di reperirlo ed al malato di rispondere positivamente al suo accesso. In altre parole, ricorrono i presupposti dell’illecito non solo quando il lavoratore sia assente dal domicilio nelle fasce orarie predeterminate, ma anche quando, pur essendo presente, egli ponga in essere una condotta che, per incuria, negligenza o altro motivo giuridicamente non apprezzabile, impedisca, in concreto, l’esecuzione del controllo sanitario79. Il lavoratore, per esonerarsi dall’obbligo, dovrà dimostrare di non aver potuto assolvere ad esso per un fatto non imputabile ex art. 1218 c.c. Dal caso in cui il lavoratore risulti essere assente al momento della visita fiscale va tenuta distinta, nonostante anch’essa confluisca nella categoria dell’impossibilità non imputabile ex art. 1218, l’ipotesi in cui il lavoratore faccia valere un “giustificato motivo” dell’assenza domiciliare, che esclude, a norma di legge, l’illecito.

78

V. Cass. 22 maggio 1999, n. 5000; Cass. 14 maggio 1997, n.4216;

79

V. Cass. 25 marzo 2002, n. 4233;

87


Di tale concetto la giurisprudenza ha sempre offerto una lettura elastica, nel senso che esso non è integrato dai soli casi di vera e propria forza maggiore bensì è stato ritenuto che esso sussista ogni volta che si verifichi un fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l’allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio (c.d. stato di necessità). Questo fatto non deve tuttavia essere ravvisato in qualsiasi motivo di convenienza ed opportunità, ma deve consistere in un’improvvisa e cogente situazione di necessità che renda indifferibile la presenza del lavoratore in luogo diverso dal proprio domicilio durante le fasce orarie di responsabilità80. Anche nel caso in cui non sussista una causa di forza maggiore o uno stato di necessità, la giurisprudenza, in particolare quella di merito, tende ad ampliare la casistica delle situazioni che giustificano l’assenza del lavoratore. Così, è stato sostenuto che il giustificato motivo di assenza ricorre anche in presenza di un impegno serio ed apprezzabile ovvero di un ragionevole impedimento, incompatibile, per ragioni di orario, con il rispetto delle fasce orarie81, oppure in

80

V. Cass. 2 agosto 2004, n. 14735;

81

Tribunale Milano 10 dicembre 2004;

88


concomitanza di visite, prestazioni e accertamenti specialistici, sempreché il lavoratore dimostri che non potevano essere effettuati in ore diverse da quelle corrispondenti alle fasce orarie di reperibilità; in questo caso il lavoratore ha l’onere di provare sia la necessità di fare ricorso ai trattamenti sanitari che lo hanno indotto ad uscire dal domicilio per evitare un ulteriore pregiudizio alla propria salute82, sia l’impossibilità di recarsi dal sanitario in orari diversi da quello di reperibilità senza subire pregiudizio alla salute83. Il giustificato motivo sussiste, infine, per situazioni che abbiano reso imprescindibile e indifferibile la presenza personale del lavoratore altrove, per evitare gravi conseguenze per sé o per i componenti il suo nucleo familiare. Particolarmente delicata può risultare la situazione di lavoratori affetti da malattie di natura neurologica o psicologica, nel corso delle quali la permanenza in casa sia addirittura controindicata.

82

V. Cass. 10 dicembre 1998, n. 12458;

83

V. ad esempio Cass. 23 febbraio 2001 n. 2624, secondo cui la sottoposizione a visita presso l’ambulatorio del proprio medico curante non costituisce giustificato motivo di esonero del lavoratore ammalato dall’obbligo di reperibilità nel momento in cui si accerti che l’orario di visita del medico curante proseguiva al di là delle fasce orarie di reperibilità;

89


Per esonerare questi lavoratori, in generale, dall’osservanza delle fasce, occorrerà che vi siano precise prescrizioni del medico curante in tal senso. Questi lavoratori dovranno almeno sottoporsi al controllo in sede ambulatoriale. In un’occasione, la giurisprudenza si è spinta ad affermare che integra il giustificato motivo il perseguimento, da parte del lavoratore, di qualsiasi interesse meritevole di tutela, come sono quelli riconducibili ai valori costituzionali: così in un caso in cui il malato era uscito di casa per andare a svolgere un’attività di centralinista volontario per ambulanze, in adempimento dei doveri di solidarietà sociale84. Per quanto riguarda l’interpretazione del concetto di giustificato motivo , possono essere altresì d’aiuto le esemplificazioni contenute nei contratti collettivi di categoria, ivi compresi i contratti dei comparti pubblici. Ma non si tratta di esemplificazioni esaustive, ferma restando la facoltà del giudice di interpretare direttamente la formula legale (in genere in senso estensivo, pressoché mai in senso restrittivo).

84

V. Cass. 30 marzo 1990, n. 2604;

90


Esistono, talora, previsioni contrattuali collettive che impongono al lavoratore, a pena di ingiustificatezza dell’assenza domiciliare, di comunicare preventivamente la necessità di assentarsi durante le fasce per un motivo giustificato. Si tratta di previsioni legittime in quanto introducono semplici prescrizioni di dettaglio che non possono essere considerate peggiorative rispetto alla disciplina legale. Non sarebbero invece legittime previsioni che obbligassero il lavoratore, pur in presenza di un giustificato motivo, a garantire comunque una presenza in fasce orarie diverse da quelle canoniche. Potrebbe teoricamente rientrare nell’illecito (in quanto, in pratica, ne consegue l’irreperibilità) anche l’ipotesi in cui la visita di controllo non abbia potuto essere effettuata a causa della mancata indicazione, nella certificazione medica di partenza, del luogo (diverso da quello abituale) di residenza o di dimora del lavoratore durante la malattia. Tuttavia, la giurisprudenza, in casi concernenti per lo più il rapporto previdenziale lavoratore-INPS ha prevalentemente ritenuto applicabile la sanzione che comporta la perdita dell’indennità di malattia sino a quando la visita non sia stata effettuata.

91


Peraltro, il lavoratore può provare nei confronti dell’INPS, che l’ente avrebbe potuto effettuare egualmente l’accertamento in base a dati in proprio possesso o facilmente acquisibili85. Si è posta inoltre la questione se l’obbligo di reperibilità permanga anche una volta che sia stata effettuata una visita di controllo, insomma se sia lecito disporre più visite all’interno di un medesimo periodo di prognosi. La giurisprudenza si è schierata prevalentemente nel senso di consentire tali visite e dunque di ritenere giuridicamente persistente l’obbligo di reperibilità anche nel caso in cui il controllo medico sia già stato espletato86. Nello stesso senso ha preso posizione l’INPS87. Per altro verso, tuttavia, la giurisprudenza più recente88 ha precisato che la richiesta datoriale di più visite di controllo non deve concretizzarsi in un atteggiamento vessatorio, altrimenti ricadendo, sostanzialmente, nella fattispecie del mobbing, con la conseguente risarcibilità dei danni “morali” lamentabili dal lavoratore, ed ancora di 85

V. Cass. 14 giugno 1999, n.5894;

86

V. Cass. 25 gennaio 1990, n. 116; per la tesi negativa v. invece Cass. 21 ottobre 1995, n. 10965; 87

V. circolare INPS n. 134421 dell’8 agosto 1984;

88

V. ad esempio Cass. 19 gennaio 1999, n.475;

92


più degli eventuali danni biologici (concretati in un aggravamento dello stato di malattia).

2.9 La sanzione L’assenza del lavoratore dal proprio domicilio, durante le fasce orarie previste per l’espletamento delle visite di controllo, configura in ogni caso un’inadempienza, non solo verso l’istituto previdenziale, ma anche nei confronti del datore di lavoro, sussistendo l’interesse di quest’ultimo a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa e perciò a controllare l’effettiva sussistenza della causa che impedisce tale prestazione89. La legge prevede specifiche sanzioni a carico del lavoratore, collocato in malattia, che non risulti essere reperibile presso il proprio domicilio e impedisca così l’espletamento della visita medica di controllo durante le fasce orarie previste dalla legge. Si tratta di sanzioni che riguardano sia il rapporto di lavoro, sia l’eventuale trattamento economico di malattia che il lavoratore percepisce.

89

V. Cass. 21 maggio 1998 n. 5090;

93


Per quanto riguarda il rapporto di lavoro, l’assenza del lavoratore alle visite di controllo durante le fasce orarie di reperibilità può dar luogo a sanzioni disciplinari. Secondo la giurisprudenza, ai fini della sanzionabilità non è necessaria l’espressa previsione di tale ipotesi nel codice disciplinare90, in quanto costituisce un obbligo derivante direttamente dal contratto di lavoro; la sanzione può essere evitata solo nel caso in cui il lavoratore fornisca la prova dell’esistenza di una delle cause di esonero dall’obbligo di reperibilità. In relazione alla gravità del caso, il lavoratore può essere sanzionato anche con il licenziamento per giusta causa91, dal momento che la violazione da parte del lavoratore dell’obbligo di rendersi disponibile per l’espletamento della visita domiciliare di controllo entro le fasce orarie di reperibilità assume rilevanza di per sé, a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia92. Il lavoratore che non sia presente nel proprio domicilio al momento della visita di controllo, oltre a poter subire una sanzione di carattere

90

Cass. 22 aprile 2004, n. 7691;

91

Cass. 20 marzo 2007, n.6618;

92

Cass. 23 luglio 1998, n. 7254;

94


disciplinare, perde anche il diritto al trattamento economico di malattia. L’oggetto della sanzione risulta essere duplice, essendo costituito dall’indennità di malattia a carico dell’INPS, ove spettante, e dal trattamento retributivo di malattia a carico del datore di lavoro. Le due quote di sanzioni debbono ritenersi autonome, dunque, il datore di lavoro non è legittimato a trattenere di sua iniziativa l’indennità erogata dall’INPS, né a maggior ragione a richiederne la restituzione al lavoratore. La decadenza dal diritto opera in misura diversa in relazione al periodo in cui interviene. Infatti, nei primi dieci giorni di malattia la decadenza si estende all’intero trattamento di malattia ai sensi del decreto legge 12 settembre 1983, n.463, convertito in legge 11 settembre 1983, n.638. Per il periodo successivo ai primi dieci giorni, invece, si applica una disciplina differenziata, introdotta a seguito di una pronuncia interpretativa della Corte Costituzionale. La sentenza ha modificato la norma, prevedendo l’obbligo di effettuare una seconda visita di

95


controllo prima di determinare la decadenza dal trattamento economico di malattia per il periodo successivo ai dieci giorni93.

93

Corte Cost. 26 gennaio 1998, n.78;

96


Capitolo 3: Le assenze dal servizio nel Pubblico Impiego 3.1 Pubblico Impiego: Evoluzione La disciplina del pubblico impiego è stata oggetto di un processo di riforma, caratterizzato dal susseguirsi di una serie di interventi legislativi. Con la legge delega 23 ottobre 1992, n.421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) e con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Norme in materia di razionalizzazione

dell’organizzazione

dell’amministrazione

e

revisione della disciplina del pubblico impiego) si è addivenuti alla c.d.

"privatizzazione

del

pubblico

impiego",

con

la

quale,

sostanzialmente, si è estesa l'applicazione delle norme di diritto privato al rapporto del pubblico impiego ed è stata prevista l'applicabilità della disciplina della contrattazione collettiva, che diviene la fonte primaria e diretta di disciplina del rapporto di pubblico impiego, analogamente a quanto avviene nel settore privato. Il processo di riforma è proseguito con il d.lgs. 30.3.2001, n. 165, ad oggi ancora vigente,con il quale è stato abrogato il d.lgs. 29/1993 e

97


con il quale è stato dato vita ad un Testo Unico che provvede a fissare le norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, rappresentando il testo normativo di riferimento per la disciplina dei pubblici uffici e del lavoro nella Pubblica Amministrazione. Ma la Pubblica Amministrazione risulta essere stata una delle linee direttrici fondamentali dell’azione politico- amministrativa posta in essere dal Governo entrato in carica nel 2008. Il Ministro per l’innovazione e la Pubblica Amministrazione , Renato Brunetta, economista del lavoro, ha voluto dare certamente una notevole spinta e visibilità all’azione dell’esecutivo in questo settore al punto da stimolare un’azione mediatica senza precedenti. I provvedimenti in materia posti in essere dal Governo sono contenuti nel decreto legge n. 112/2008, convertito nella legge 6 agosto 2008, n.133 e successive modificazioni.

98


3.2 La “Riforma Brunetta” Con il decreto legge 112/2008 , più comunemente noto come “Riforma Brunetta”, il sistema della Pubblica Amministrazione è stato interessato da un significativo processo di riforma il quale persegue, da un lato, l’obiettivo della razionalizzazione della spesa pubblica, dall’altro, quello dell’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e dell’efficienza e trasparenza. Detto

processo

di

modernizzazione

è

stato

caratterizzato

“dall’urgenza” in quanto avviato con un decreto legge, poi convertito in legge dal Parlamento: il citato d.l. 112/2008 è stato, infatti, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. Si è cosi intrapresa una profonda opera di riassetto, introducendo nuove misure che incidono profondamente sullo status del pubblico impiego, interessando l’organizzazione di enti e amministrazioni, e mirando così a responsabilizzare una “élite” dirigente nella gestione delle risorse pubbliche materiali ed immateriali, iniziando dalla gestione delle risorse umane. Tali obiettivi sono stati perseguiti con la presentazione di numerosi provvedimenti collegati fra loro, alcuni dei quali sono divenuti legge, mentre altri sono ancora in discussione.

99


La riforma avviata con il citato decreto d.l. 112/2008 come convertito l. 133/2008 è proseguita con la legge 4 marzo 2009 n. 15 "Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico

e

alla

efficienza

e

trasparenza

delle

pubbliche

amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei Conti” che ha stabilito principi e criteri finalizzati alla realizzazione

di

una

profonda

e

radicale

ristrutturazione

dell’organizzazione della pubblica amministrazione. Da ultimo è intervenuto il decreto legislativo 27 ottobre 2009 n. 150 di attuazione della legge 4 marzo 2009 n. 15 in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni94.

94

Per completezza si segnala che il Consiglio dei Ministri nella seduta del 12 novembre 2009 ha approvato il disegno di legge “Disposizioni in materia di semplificazione dei rapporti della Pubblica Amministrazione con cittadini e imprese e delega al Governo per l'emanazione della Carta dei doveri delle amministrazioni pubbliche e per la codificazione in materia di pubblica amministrazione”.

100


3.2.1.La “Riforma Brunetta”: Le disposizioni sulle assenze per malattia. L’attenzione mediatica sul tasso di assenteismo nel settore pubblico ha portato il legislatore ad intervenire, in occasione dell’emanazione del decreto legge n.112/2008, con delle misure specifiche dirette a penalizzare le assenze per malattia e a prevedere un regime di particolare rigore delle stesse disapplicando la disciplina contrattuale vigente. Dunque, il regime delle assenze per malattia e dei permessi retribuiti per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, ivi comprese le regioni, è stato rivisto, dall’articolo 71 del decreto legge 112/2008 come convertito nella legge 133/2008, che ha introdotto una disciplina più restrittiva, che è poi stata, in parte, mitigata dalla successiva legge 102/2009 e, in parte, abrogata dall’articolo 72, comma 1, lett. a) del decreto legislativo attuativo della legge 15/2009. Al comma 1 dell’art. 71, viene ,quindi, introdotta una misura generale volta a colpire il trattamento economico da corrispondere nei primi dieci giorni di assenza per malattia, in base alla quale viene corrisposto il trattamento economico fondamentale “ con esclusione di

101


ogni indennità o emolumento, comunque denominati, aventi carattere fisso e continuativo nonché di ogni altro trattamento accessorio”. I

primi

dieci

giorni

comportano

sempre

una

decurtazione

dell’accessorio consentendo di mantenere il trattamento tabellare, la posizione economica, la retribuzione individuale di anzianità ed eventuali assegni ad personam. Sono fatti salvi i trattamenti più favorevoli previsti dai contratti collettivi o dalle specifiche normative di settore per le assenze per malattia dovute ad infortunio sul lavoro o a causa di servizio, oppure a ricovero ospedaliero o a day hospital, nonché per le assenze relative a patologie gravi che richiedano terapie salvavita. Si segnala, inoltre, che la legge di conversione ha operato una modifica integrativa introducendo dopo il primo comma dell’art. 71 in esame un comma 1 bis il quale stabilisce che: “Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al comparto sicurezza e difesa per le malattie conseguenti a lesioni riportate in attività operative e addestrative”. Tale disposizione è stata modificata dall’art. 17, comma 23 lett. a) del d.l. 78/2009 come convertito legge 102/2009, prevedendo, che, a decorrere dall'anno 2009, limitatamente alle assenze per malattia del

102


personale del comparto sicurezza e difesa nonché del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, gli emolumenti di carattere continuativo correlati allo specifico status e alle peculiari condizioni di impiego di tale personale sono equiparati al trattamento economico fondamentale95. Per i periodi di assenza superiori a 10 giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nel corso dell’anno: - il decreto legislativo attuativo della legge 15/2009, all’articolo 72, comma 1, lettera a) ha abrogato il comma 2 dell’ articolo 71 del d.l. 112/2008 come convertito l. 133/2008 e l’articolo 68 del citato decreto legislativo ha confermato la norma in base alla quale, nell'ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell'anno solare, l'assenza deve essere giustificata mediante certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale. L'originaria versione del comma 2 articolo 71 del d.l. 112/2008

95

Risulta significativo sottolineare il riferimento dell’art. 17 comma 23 lett. a) del d.l. 78/2009 come convertito legge 102/2009 al personale del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, riferimento assente nell’originario art. 71 bis.

103


come convertito l. 133/2008, prevedeva la possibilità di giustificare dette assenze esibendo esclusivamente la certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica. L’art. 69 del d.lgs. 150/2009 prevede l'obbligo, a carico del medico o della struttura sanitaria, di inviare telematicamente all'Inps la certificazione medica in tutti i casi di assenza per malattia, con l'evidente scopo di ridurre la spesa pubblica. Le modalità di trasmissione sono le stesse previste per il settore privato, di cui all'articolo 50, comma 5-bis, del d.lgs. 269/2003 (legge 326/2003). L'Inps, appena ricevuta la certificazione medica, provvede ad inoltrarla, con le stesse modalità, all'amministrazione interessata. L'inosservanza di questi obblighi configura la fattispecie di illecito disciplinare e, in caso di reiterazione, può far scattare anche il licenziamento (nel caso della struttura sanitaria) o la decadenza della convenzione, per i medici in rapporto convenzionale con le aziende sanitarie locali. In applicazione della legge delega n. 15/ 2009 si è pertanto provveduto a creare un sistema di controlli sulle assenze (per malattia) che negli intenti del legislatore vuole rendere efficiente il sistema e individuare

104


sistematicamente coloro che “abusano” del certificato medico per stare assenti dal lavoro.

3.2.2 Visite di controllo durante le assenze per malattia Il comma 3 dell’art. 71 del d.l. 112/2008 come convertito nella legge 133/2008 dispone il controllo in ordine alla sussistenza della malattia anche nel caso di assenza di un solo giorno tenendo conto delle esigenze organizzative e funzionali. L’art. 72 del decreto legislativo attuativo della legge 15/2009 ha abrogato l’art. 71, comma 3, e ha inserito all’art. 69, comma 5 una disposizione di identico contenuto. Pertanto l’amministrazione pubblica è tenuta ad attivare i controlli, attraverso le strutture delle Asl territorialmente competenti, in ordine alla sussistenza della malattia del dipendente, anche nel caso di assenza di un solo giorno, tenendo conto delle esigenze funzionali ed organizzative. Su quest'ultimo aspetto, la circolare della funzione pubblica n. 7/2008 aveva già chiarito che la richiesta di visita fiscale è sempre obbligatoria, anche nelle ipotesi di assenza per un solo giorno, salvo

105


particolari impedimenti derivanti da un eccezionale carico di lavoro o urgenze della giornata. L’articolo 17, comma 23 della legge 102/2009 ha soppresso il secondo periodo del comma 3 con il quale erano state ampliate le fasce di reperibilità entro le quali dovevano essere effettuate le visite mediche di controllo96. Venivano, pertanto, ripristinate le fasce orarie di reperibilità in vigore precedentemente: dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 17:00 alle 19:00, come disposto dalla legge 11 novembre 1983 n. 638. Da ultimo, il decreto legislativo attuativo della legge 15/2009, ha disposto che le suddette fasce orarie di reperibilità del lavoratore pubblico saranno stabilite con decreto del ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione. A prevederlo è l'articolo 69 che introduce, all'interno del d.lgs. 165/2001, l'articolo 55-septies, riguardante i controlli sulle assenze dei dipendenti pubblici97.

96

Il periodo soppresso dell’art. 71, comma 3 della legge 133/2008 prevedeva le seguenti fasce di reperibilità del lavoratore, entro le quali dovevano essere effettuate le visite mediche di controllo: dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle 20 di tutti i giorni, compresi i non lavorativi e i festivi. 97

Sull’argomento è intervenuta la circolare del ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione 11 novembre 2009 che ha ribadito che le fasce orarie attualmente da osservare per l’effettuazione delle visite fiscali sono quelle comprese tra le ore 10 e le ore 12 e tra le ore 17 e le ore 19. Detta circolare ha altresì anticipato che il ministero interverrà ancora su questo aspetto, ampliando ulteriormente le fasce orarie e

introducendo delle deroghe all’obbligo di reperibilità in considerazione di specifiche situazioni anche in relazione a stati patologici particolari.

106


Il comma 6 dell’articolo 55 septies del d.lgs. 165/2001, a chiusura delle indicazioni sui controlli delle assenze per malattia: -riafferma con chiarezza che il controllo ha il principale scopo di colpire

eventuali

condotte

assenteistiche

nell’interesse

della

funzionalità dell’ufficio; -individua nel responsabile della struttura in cui il dipendente lavora, nonché nel dirigente eventualmente preposto all’amministrazione generale del personale, coloro che, secondo le rispettive competenze, curano l’osservanza delle precedenti disposizioni; -prevede, infine, a carico dei soggetti preposti, nel caso in cui non curino l’osservanza delle precedenti disposizioni, l’applicazione di una sanzione e del mancato rinnovo dell’incarico dirigenziale ai sensi rispettivamente dell’articolo 55-sexies, comma 3, nonché dell’articolo 21 del d.lgs. 165/2001 così come modificati dal d.lgs. “Brunetta”.

3.2.3 Permessi retribuiti L’articolo 71 del d.l. 112/2008 come convertito nella l. 133/2008, introduce, al comma 4, alcune modifiche in materia di disciplina dei permessi retribuiti: viene stabilito che i permessi introdotti dalla

107


contrattazione collettiva, nonché quelli previsti dalla normativa di settore, attualmente fruiti alternativamente in giorni o in ore, possano essere fruiti soltanto a ore, fermi restando i tetti massimi già previsti dalle normative vigenti. Nel caso di fruizione dell’intera giornata lavorativa, l’incidenza dell’assenza sul monte ore a disposizione del dipendente, per ciascuna tipologia, viene computata con riferimento all’orario di lavoro che il medesimo avrebbe dovuto osservare nella giornata di assenza. L’articolo 17, comma 23 della legge 102/2009 ha abrogato il comma 5 dell’articolo 71 della legge 133/2008 il quale non equiparava le assenze dal servizio(permessi) alla presenza in servizio prendendo in considerazione dunque le assenze ai fini della distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa. Facevano eccezione le assenze per congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro, e per congedo di paternità, le assenze dovute alla fruizione di permessi per lutto, per citazione a testimoniare e per l’espletamento delle funzioni di giudice popolare, nonché le assenze previste dall’articolo 4, comma 1, della legge n. 53/2000, ossia il permesso retribuito di tre giorni lavorativi all'anno nel caso di decesso o di documentata grave infermità del coniuge od

108


un parente entro il secondo grado o del convivente, e, per i soli dipendenti portatori di handicap grave, i permessi di cui all’articolo 33, comma 3, della 5 febbraio 1992, n. 104.

109


Bibliografia e Sitografia

Bibliografia • Mauro Marrucci, La risoluzione del rapporto di lavoro, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 2009; • Giuseppe Santoro Passarelli, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, il lavoro pubblico e privato, IPSOA, Milanofiori, Assago 2009; • Mario Grandi, Giuseppe Pera, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Breviaria Iuris, Padova 2009; • Lavoro 2009, Memento Pratico Ipsoa

Francis Lefebvre,

Milanofiori,Assago 2009; • Giampiero Falasca, Manuale di Diritto del Lavoro, I libri di Guida al lavoro, Milano 2011; • Michele Tiraboschi, La riforma del lavoro pubblico e privato e il nuovo welfare, Giuffrè Editore, Milano 2008; • Dipartimento della Funzione Pubblica, circolare n. 7/2008 • Dipartimento della Funzione Pubblica, circolare n. 8/2008 • Dipartimento della Funzione Pubblica, circolare n. 15/2008

110


• Dipartimento della Funzione Pubblica, circolare n. 8/2010 • Dipartimento della Funzione Pubblica, parere n.1, Anno 2009

Sitografia • www.lavoroediritto.it • www.latribuna.corriere.it • www.blog.libero.it/ • www.blog.libero.it/licenziamento/commenti • www.inps.it • www.dplmodena.it • www.uil.it • www.guidaallavoro.ilsole24ore.com • www.edscuola.it • www.irpinianelmondo.wordpress.com • www.laprevidenza.it • www.blog.panorama.it • www.consiglioregionale.piemonte.it

111


Ringraziamenti Alla mia famiglia e alla mia unica e grande sorella, un immenso grazie per avermi dato la possibilità di raggiungere questo traguardo, per aver sostenuto economicamente questo mio percorso con immensi sacrifici, per esservi fatti carico delle mie preoccupazioni e per aver gioito dei piccoli obiettivi da me realizzati in questi anni, per aver nutrito sempre profonda fiducia nella mia persona, per non aver mai messo in discussione le mie capacità e per avermi sempre spronato a fare di più e a non arrendermi mai neppure in quei momenti in cui tutto sembrava troppo complicato;

Ai piccoli della famiglia, che con la loro dolcezza, spontaneità e simpatia hanno costituito per me fonte di immensa gioia; Alla mia seconda famiglia, per essermi stata vicino nelle varie fasi di questo percorso, per aver reso quest’esperienza indimenticabile, per avermi fatto sentire parte di un qualcosa di veramente grande, di quella che con il tempo è diventata una meravigliosa e grande famiglia;

112


Alle mie amiche e al mio insostituibile amico. A quest’importante giorno ci son arrivata non da sola ma con voi e grazie a voi che avete saputo darmi l’affetto, la forza e i consigli indispensabili per non arrendermi mai, che avete vissuto il mio percorso come se fosse il vostro, che mi avete sostenuto sempre e comunque, qualsiasi cosa accadesse. Grazie per aver fatto tutto ciò naturalmente e spontaneamente, con quell’amore che molti desidererebbero ricevere. Io l’ho avuto, ce l’ho e spero di continuare ad averlo e ad avervi nelle tappe della vita che ancora dovrò raggiungere; A tutti coloro che in questi anni mi sono stati vicino e a coloro che, se anche da poco, mi hanno dato un fondamentale sostegno. Al Prof. Bano e al Dottor Valenti che hanno seguito con pazienza e costanza la realizzazione di questo lavoro dandomi ampia disponibilità e grande sostegno.

113



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.