Povertà ed esclusione sociale: politiche socialimper un fenomeno di difficile concettualizzazione

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

DI

L ETTERE

E

F ILOSOFIA

___________________________

C O R S O D I L A U R E A I N S C I E N Z E D E L S E R V I ZI O S O C I A L E AD

INDIRIZZO EUROPEO

POVERTÀ ED ESCLUSIONE SOCIALE: ASPETTI DEFINITORI, CANALI DI INDIVIDUAZIONE, POLITICHE SOCIALI DI CONTRASTO PER UN FENOMENO DI DIFFICILE CONCETTUALIZZAZIONE

Relatore: PROF. ANDREA VARGIU

Tesi di Laurea di: FEDERICA T EDDE

ANNO ACCADEMICO 2010/2011



INDICE

INTRODUZIONE

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CAPITOLO PRIMO: il concetto di povertà.

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1.1 Alcuni tentativi definitori.

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1.2 La povertà come fenomeno multidimensionale

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1.3 Povertà ed esclusione sociale: fenomeni diversi ed intrecciati

17

1.4 Povertà e i principali fattori di diseguaglianza

19

1.5 Le dinamiche di impoverimento

21

1.6 Diversi tipi di povertà: tra le vecchie e le nuove forme:

23

1.6.1

Povertà assoluta e relativa

24

1.6.2

Povertà oggettiva e soggettiva

27

1.6.3

Povertà economica e relazionale

29

1.6.4

Povertà temporanea, ricorrente e persistente

30

CAPITOLO SECONDO: il problema della povertà e i diversi canali di individuazione.

33

2.1 Dall’approccio unidimensionale a quello multidimensionale:

33

2.1.1 Cultura della povertà

33

2.1.2 L’approccio dinamico

36

2.1.3 Il capability approach

39

2.2 Il nodo critico della misurazione della povertà

44

2.3 I diversi indicatori di povertà ed esclusione sociale utilizzati dall’ U.E

45

2.4 Indicatori trasversali per uno sviluppo sostenibile

48

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CAPITOLO TERZO: politiche e strumenti di intervento.

56

3.1 La legislazione sociale

56

3.2 L’inclusione sociale come strumento di contrasto alla povertĂ

59

3.3 Le politiche di sostegno al reddito

61

3.4 Le politiche di empowerment

63

3.5 Le politiche degli assistenti sociali

66

3.6 I servizi che costituiscono il welfare locale.

69

3.7 I limiti delle politiche di fronteggiamento.

71

CONCUSIONI

75

RINGRAZIAMENTI

79

BIBLIOGRAFIA

80

SITOGRAFIA

84

2


“Se il male della povertà è derivato dalle azioni e dalle non- azioni di un gran numero di persone, allora anche il rimedio può arrivare da uno sforzo congiunto di tante persone”.

Nelson Mandela

3


Introduzione

Quello della povertà è un fenomeno che risulta essere presente in quasi tutte le società e le epoche a livello mondiale ed è proprio questa caratteristica globale che lo rende da sempre, in tutte le sue più variegate manifestazioni, oggetto di studi nei più svariati campi di interesse sociale. La stessa Unione Europea ha dichiarato il 2010 anno della lotta alla povertà e all’esclusione sociale, rendendo chiaro così come neanche una delle regioni più ricche al mondo sia immune da questa piaga sociale. Infatti, ben il 17% degli Europei dispone ancora di risorse limitate e non riesce a soddisfare le proprie necessità primarie1, nonostante l’Europa abbia tra i suoi obiettivi economici e non solo anche quello di garantire un livello di vita che non scenda sotto la soglia di povertà ai propri cittadini, assicurando loro un tenore di vita accettabile. Anche se la povertà è una realtà estremamente variabile e condizionata da diversi fattori, resta in ogni caso innegabile il fatto che la lotta per il raggiungimento del benessere socioeconomico sia il primo passo per la costruzione di una società più giusta, equa e priva di conflitti. Una società in cui ogni uomo e donna possano vivere la propria vita in maniera libera senza sentirsi privati della propria dignità di essere umano. Infatti proprio la ricerca esasperata di una stabilità personale è spesso la causa latente della maggior parte degli scontri di vario tipo ed entità, nonché delle migrazioni e delle guerre che scuotono da sempre i quattro angoli del pianeta. In questo studio cercheremo di capire come cambia la percezione di “povertà” da parte del singolo e anche da parte della società cui esso appartiene. La sociologia e l’economia cercano di dare definizioni il più possibile precise e circoscritte di questo fenomeno e tentano di costruire un sistema di rilevazione applicabile su scala assoluta, ma quello che a prima vista può sembrare un compito semplice, si rivela sempre più spesso un’impresa estremamente complicata. Il sistema di definizione e variazione di povertà deve infatti tener conto di una quantità molto elevata 1

http://ec.europa.eu/social/main.jsp?langId=it&catId=637.

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di fattori determinanti, non solo economici. È infatti l’insieme di tutti questi aspetti che influenza in maniera fondamentale l’effettiva definizione e percezione di questa parola sia da parte del singolo che da parte della comunità . Quali sono le cause e quali sono gli effetti che provoca sulla singola persona e sul contesto in cui questa è inserita? In che modo si ripercuote sul tessuto sociale? La povertà è davvero una condizione meramente economica o è un fenomeno più esteso che comprende anche altri aspetti di vitale importanza? La povertà può essere considerata assoluta o varia in base non solo all’ambito geografico ma anche al periodo storico a cui la si relaziona? Parlando di questo fenomeno risulta immediatamente evidente come la parola “povertà”, a una prima analisi superficiale definibile come la mancanza di denaro, sia invece un fenomeno ben più complesso e trasversale. L’impossibilità di raggiungere un livello minimo di benessere oggettivo è uno degli aspetti fondamentali nella determinazione di tale status, ma non solo. Altre cause, come ad esempio la mancanza di stabilità, di educazione e di accesso a servizi che dovrebbero invece essere alla portata di tutti, concorrono alla creazione della situazione di miseria. Raramente si può parlare davvero di “povertà assoluta”, ovvero quella per cui il soggetto interessato non abbia a disposizione neanche le risorse minime per garantire la propria sopravvivenza. Spesso infatti ci troviamo davanti a casi di “povertà relativa”, essendo variabile in misura e in relazione

alla società all’interno della quale questo fenomeno viene

studiato, al livello di benessere economico diffuso e anche di “riconoscimento sociale” della condizione. Per questo la rilevazione e l’analisi del fattore culturale sono indispensabili per prendere in esame l’effettiva incidenza della povertà relativa circoscritta a uno spazio o a un tempo ben precisi, contestualizzandola in un determinato ambito e rapportandola alle caratteristiche che esso presenta. Anche gli effetti della povertà sull’individuo, oltre a quelli strettamente economici, sono correlati al tessuto sociale e culturale nel quale l’individuo stesso è inserito, e il modo in cui essa si ripercuote sulla singola persona deve essere valutato non solo in termini economici ma anche psicologici, sociali e di emarginazione ed esclusione dalla società. Inoltre, perché e come si diffonde la povertà in zone ritenute benestanti? In che modo si distribuiscono le aree considerate “povere” sul territorio? E come si vengono a creare?

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È necessario quindi prendere in esame il problema anche dal punto di vista geografico, sia a livello di macroaree nazionali che di microaree urbane. Perché quando un paese inizia la propria corsa verso lo sviluppo economico e il benessere non tutti i suoi cittadini riescono a entrare a fare parte di questa trasformazione? Come nascono e si sviluppano questi fenomeni di esclusione sociale? E poi: la povertà è una condizione immutabile o è uno status dal quale si può entrare e uscire a seconda della presenza o meno dei fattori che la determinano? Quale è il fatto scatenante? A quali servizi e risorse è necessario avere accesso per potersi affrancare dalla povertà? A queste domande cercheremo di dare, se non proprio una risposta definitiva ed oggettiva, almeno una sorta di definizione mediante un’analisi di dati risultanti da varie ricerche eseguite sul campo e vedremo come vari sociologi ed economisti, nel corso degli anni, hanno provato a definire e studiare il fenomeno al fine di teorizzarlo per poterlo rendere meglio osservabile e quindi risolvibile. A tale scopo prenderemo in esame in particolar maniera le teorie sviluppate da Amartya Sen e Martha Nussbaum e vedremo quali definizioni e quali interpretazioni hanno dato alla parola “povertà”, quali cause e fattori determinanti ne hanno individuato e quali possibili soluzioni ne hanno suggerito. Inoltre cercheremo di capire quali sono le “cure” alla povertà, quali sono i fattori sociali da eliminare per poterla estirpare e quali sono le condizioni indispensabili per la nascita e la creazione di una società dove davvero esista un benessere diffuso a cui tutti possano avere accesso. Senza dubbio il livello di benessere che si è raggiunto quantomeno in Europa dopo il boom economico ha cambiato nettamente la nostra visione e la nostra percezione di povertà. Quando si parla di povero possiamo individuare un soggetto universale con caratteristiche invariabili o dobbiamo tenere conto del rapporto tra il soggetto preso in esame e il contesto in cui esso è inserito? La percezione da parte dello stesso della propria condizione di povertà è condivisa anche dalla società che lo circonda o è una sensazione personale che non sempre combacia con gli effettivi parametri di rilevazione socioeconomica?

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Resta comunque condivisa, in tutti i campi, la definizione di povertà che parla di tale fenomeno come di impossibilità dell’attore sociale di prendere parte agli stili di vita socialmente condivisi, individuando pertanto come “povero” il soggetto che non riesce ad accedere a risorse “normalmente” fruibili. E l’individuazione delle cause che rendono impossibile tale accesso è sicuramente il primo passo non solo per la determinazione del fenomeno ma anche per la sua sconfitta. Nel corso del tempo, soprattutto con il passaggio da società pre a post industriale, sono cambiate in maniera radicale le caratteristiche che determinano l’appartenenza a questo status. Queste infatti hanno segnato il confine da una situazione in cui il soggetto vive di carità, e che quindi si avvale totalmente di aiuti esterni, a quello di appartenenza agli strati più bassi della classe lavoratrice. A questa ultima categoria appartengono le persone che, sebbene abbiano un impiego, riescono a fatica a raggiungere un livello appena sopportabile di vita a causa della retribuzione insufficiente. Questa differenziazione segna così un’ulteriore divisione: quella tra povertà e indigenza. Inoltre, se lo standard di benessere raggiunto da una determinata società si abbassa in seguito a recessioni o crisi, allora anche la determinazione della soglia di povertà all’interno del sistema preso in esame cambia? Si parla di “arricchimento” dell’individuo o di impoverimento della società a cui appartiene? Le domande scaturite dall’osservazione del fenomeno sono molteplici e coinvolgono tutti i campi dello studio sociale: dall’economia alla sociologia, dall’antropologia alla storia trasformandolo così in un problema che suscita interesse in molteplici ambiti. Pretenzioso, oltre che praticamente impossibile, sarebbe voler riassumere in questo studio tutte le teorie, le analisi e i metodi critici applicati al tema. Cercheremo pertanto di dare una visione di insieme del problema vedendo quali sono le più diffuse e condivise tecniche di rilevazione e le possibili soluzioni studiate ed applicate dai diversi governi, enti, società. L’Unione Europea ha elaborato una propria scala di indicatori di povertà ed esclusione sociale applicabile all’interno del proprio territorio, al fine di rilevare la reale presenza dello stato di povertà e la misura in cui esso incide sulla propria popolazione. Interessante risulta anche vedere come mediante il sistema legislativo e l’applicazione di misure governative come la creazione di ammortizzatori sociali e sussidi non solo di tipo economico, ogni stato, nazione o federazione cerchi di porre rimedio o quantomeno

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arginare il dilagare del fenomeno. Questo per poter garantire ai propri cittadini un accesso il più omogeneo possibile ai servizi e alle risorse economiche condivisibili all’interno della comunità. La crisi economica che stiamo attraversando in questo periodo ci costringe ogni giorno a rimettere in discussione le certezze che il raggiungimento della soglia di benessere aveva portato. Per questo diventa imprescindibile attuare una nuova strategia di rilevazione della povertà, non solo nel mondo occidentale. Oltre a questo, è necessario anche rimettere in discussione la maggior parte di quelli che a partire dalla rivoluzione industriale e fino ad oggi erano stati ritenuti obiettivi raggiunti in maniera definitiva e radicale. Le discrepanze presenti tra le rilevazioni statistiche che determinano una media del benessere raggiunto e il numero di individui che invece vive al di sotto di tale stima sono uno dei punti cruciali della questione, che pone l’accento sulla reale distribuzione delle risorse presenti che il modello di società preso in esame prevede. L’innegabile differenza tra povertà economica a povertà sociale richiede un ulteriore sforzo di analisi dei due aspetti in maniera separata al fine di poterli poi rapportare tra loro e determinare come e in che misura questi due tipi di povertà siano correlati tra loro, se uno dei due costituisce la causa o l’effetto dell’altro e se e in che modo si influenzino e determinino a vicenda. La scelta di fare della povertà l’argomento di questo studio nasce dalla consapevolezza che questo fenomeno faccia indiscutibilmente parte della realtà odierna. Per questo motivo rappresenta un aspetto delle società di ogni tempo che si ripresenta sempre come questione centrale e che non può essere ignorata sia per la sua complessità che per l’influenza che esercita sui fatti sia storici che sociali di ogni tempo. Gli effetti della povertà modificano non solo la vita del singolo individuo ma anche i processi storici e le dinamiche delle varie comunità, ed è infatti spesso questo il fattore scatenante di rivoluzioni e mutamenti geopolitici globali e locali. Nella prima parte di questo elaborato tenteremo pertanto di dare una definizione di “povertà” su più livelli, sia su scala locale che mondiale cercando di individuare quali siano i principali fattori di diseguaglianza e i meccanismi che li scatenano. Inoltre, cercheremo di stabilire con la maggior precisione possibile quali e quanti siano i diversi tipi di povertà.

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Nel secondo capitolo prenderemo in esame la povertà come problema di dimensioni sociali. Ci soffermeremo in particolare sugli indicatori utilizzati da vari approcci alla questione. Vedremo quali siano gli strumenti usati sia per la rilevazione della reale entità del problema che per l’elaborazione di possibili soluzioni allo stesso. Infine, concluderemo il nostro studio con una parte incentrata sugli strumenti di intervento elaborati ed adottati da diverse amministrazioni: dall’elaborazione all’applicazione delle misure che costituiscono il piano del welfare, con tutti i servizi che lo compongono, alle politiche messe in atto dagli assistenti sociali. Il nostro obiettivo sarà quindi quello di dare una visione di insieme della questione. Partendo infatti dalla sua definizione, svilupperemo un percorso che ci porterà ad analizzare quali siano le possibili soluzioni. Esamineremo inoltre le strategie messe in atto avvalendoci sia di strumenti scientifici come ricerche sul campo e dati di rilevazione, che di strumenti teorici come gli studi e le teorie elaborate da vari personaggi da sempre impegnati nella lotta contro la povertà sia a livello locale che mondiale.

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Capitolo primo Il concetto di povertà

Anzitutto sorge spontaneo chiedersi: che cos’è la povertà? Questa è una domanda in apparenza semplice alla quale si può dare un’altrettanto semplice risposta: per povertà tradizionalmente si intende la scarsità o mancanza dei mezzi necessari per la sussistenza, l’impossibilità dell’individuo di soddisfare i bisogni primari. Questo è ciò che una persona comune solitamente potrebbe rispondere. Povertà è una parola di uso corrente e può quindi sembrare strano che se ne possano presupporre diversi significati. Se si supera la soglia della semplicistica definizione e ci si accosta allo studio del fenomeno, ci si rende conto che l’argomento, oggetto di innumerevoli studi e di una sterminata letteratura, presenta notevoli difficoltà sia nella definizione del concetto stesso che nella scelta dei criteri da impiegare nella sua rilevazione.

1.1 Alcuni tentativi definitori

In ambito sociologico la definizione storica di povertà e la sua caratterizzazione sono state studiate da svariate correnti di pensiero nel corso delle varie epoche.2 Già dagli inizi del ‘900 ci si poneva il problema di come definire il povero e si può affermare che i primi contributi

nell’analisi della povertà risalgono al periodo

conosciuto come Età Vittoriana; in particolare il primo studio risale al 1887 ad opera di Charles Booth3, a seguito di una insurrezione dei poveri a Londra. Questi studi furono ripresi agli inizi del secolo scorso da Seebhom Rowntree4 e la sua analisi, nonostante seguisse i metodi di Booth, viene considerata il primo studio scientifico sulla povertà.

2 F. Villa, Dimensioni del Servizio Sociale, Principi teorici generali e fondamenti storico-sociologici, Vita e Pensiero, Milano, 2000. 3 L. Gallino, Dizionario Sociologia, Utet, Torino, 1978. 4 S. Rowentree, Poverty: A Study of Town Life, Macmillan, London 190, A.Meo voce “Povertà”, in M.

Dal Pra Ponticelli (Dir.), Dizionario di servizio sociale, Carocci, Faber, Roma, 2010, p. 445.

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La definizione che il sociologo inglese elabora del concetto di povertà è in termini assoluti, in quanto ritiene che sia possibile indicare un livello minimo di sussistenza e al di sotto di tale soglia, risulterebbero compromesse le stesse possibilità di sopravvivenza degli individui5. Per l’elaborazione di tale teoria, Rowntree prese in esame una famiglia tipo composta da due persone, ma considerò solo le sue esigenze fisiche e tangibili, tralasciando completamente l’aspetto riguardante il soddisfacimento dei bisogni sociali. Inoltre indica la povertà come “indisponibilità di reddito e beni materiali tale da non garantire la pura efficienza fisica delle persone”e secondo molti studiosi, si limita alla sola mancanza del denaro necessario per soddisfare al minimo i bisogni fisici identificandosi col concetto di sussistenza. Booth e Rowntree si considerano convenzionalmente come i precursori sia delle teorie sociologiche che di quelle economiche, sebbene questi due approcci siano notevolmente differenti. A partire da questa descrizione, sono state elaborate altre teorie più articolate, come, ad esempio, quella della Banca Centrale che definisce la povertà “uno stato di pronunciata privazione”, o quella di Atkinson e Burguignon, per i quali essa rappresenta “un’inadeguata capacità di disporre di risorse”.6 Spesso si considera che vive al di sotto della soglia di povertà chi dispone di meno di un dollaro al giorno per la propria sussistenza. Al di sotto di questa soglia, si parla di “indigenza assoluta” che rende impossibile la propria sussistenza in mancanza di aiuti esterni. Questa stima è quella più generalmente usata anche dalle istituzioni e dai vari enti governativi per il calcolo dell’incidenza del fenomeno in una data area geografica o gruppo sociale. Però bisogna tenere conto anche del fatto che lo stesso dollaro – sebbene rappresenti sempre una cifra molto bassa – non ha lo stesso valore in ogni luogo, quindi bisogna far riferimento anche al costo della vita nell’area presa in esame. Risulta quindi chiaro come in tutte queste definizioni il fattore comune sia sempre comunque legato alla “mancanza” di qualcosa di materiale che è in realtà ritenuto imprescindibile per il raggiungimento della soglia minima della sopravvivenza e come 5 6

Ibidem. N. Acocella, Globalizzazione, povertà e distribuzione del reddito, in Studi e note di economia, AA.VV., 2005, p. 11.

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ogni tentativo di definizione di povertà sia basato sempre su una valutazione quantitativa prima ancora che qualitativa. Quando parliamo di povertà assoluta, pertanto, ci si riferisce all’impossibilità di raggiungere la soglia minima della sopravvivenza quotidiana, tanto da mettere in pericolo la continuazione della vita stessa dell’individuo. Si riscontra cioè, un’impossibilità di accedere a servizi ritenuti universalmente indispensabili come alloggio, alimentazione, vestiario e salute. In questo caso risulta tutto sommato semplice definire una distinzione netta tra chi si trova in questa fascia di popolazione e chi ne è al di fuori, sia a livello di singolo individuo all’interno di una comunità che a livello di paese o nazione. Eppure anche questa divisione presenta aspetti non così lampanti come potrebbe apparire a prima vista. Infatti risulta chiaro che è necessario stabilire prima di tutto quale sia tale soglia e quindi individuare in maniera netta il limite sotto il quale l’accesso a tali servizi diventa impossibile. Come si legge nel rapporto sulla povertà assoluta stilato dall’Istat sulla situazione italiana nel 2009:

“Il termine povertà, che in prima approssimazione sembra avere un significato chiaro e univoco, sta a indicare un’ampia serie di situazioni anche molto diverse tra loro. Povero è il senza dimora, colui che, privo di mezzi di sostentamento, si affida alla carità del prossimo per sopravvivere; povero è chi con una pensione minima non riesce a soddisfare i propri pur limitati bisogni. Povero è colui che non riesce ad acquisire i beni e servizi normalmente disponibili per gli individui appartenenti al suo contesto di riferimento. Povero, infine, è colui che non riesce a soddisfare specifici bisogni legati, ad esempio, alla condizione di disabilità. In altre parole, a seconda dei bisogni di volta in volta considerati essenziali, il confine che circoscrive l’universo dei poveri si sposta, individuando forme di povertà via via meno estreme, ma non meno degne di attenzione.”7

7

Istituto Nazionale di Statistica, La misura della povertà assoluta, Istat – servizio di produzione editoriale, Roma, 2009 p. 13.

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A fronte di tale rapporto, quindi, risulta chiaro come sia ormai assodato ed accettato il concetto secondo il quale la povertà sia soprattutto una privazione della libertà e dei diritti dell’essere umano. È un’esperienza che non si limita solo alla scarsa disponibilità di denaro che comporta un reddito basso e consumi ridotti al minimo, ma anche la negazione dell’accesso all’educazione, alla sanità e all’alimentazione. Questa serie di concause porta alla creazione di una situazione di vulnerabilità, incapacità di far sentire la propria voce e incertezza quotidiana. In una parola: emarginazione. La scoperta dell’esistenza di variabili non solo economiche ma anche personali sociali e politiche, ha consentito di specificare il carattere “multimediale” del concetto di povertà, vista come la conseguenza finale di diverse cause,8 ciò nonostante gli indicatori più utilizzati a livello internazionale per descrivere il fenomeno continuino a far riferimento alla sola dimensione economica della privazione. L’indicatore economico può però essere insufficiente a comprendere pienamente la problematica e ad offrire un quadro realistico della condizione di povertà di una popolazione. Partendo da questi presupposti, Amartya Sen9 segna un punto di svolta fondamentale nella definizione di tale concetto, dichiarando che la povertà è il risultato dello scarto tra ciò che potremmo o non potremmo fare e ciò che ci è realmente concesso di fare. La definizione di fondo su cui Sen ha improntato tutto il suo lavoro comporta perciò anche un allargamento degli aspetti che compongono la povertà stessa, dal momento che questa non risulta più legata solo al reddito ma abbraccia anche il diritto ad una vita lunga e tutelata dalle malattie e dalle violenze che possano metterla in pericolo nonché il diritto fondamentale alla dignità e con esso all’autostima e al rispetto. Un esempio in tal caso è offerto dalla definizione con cui la Banca mondiale definisce la povertà, intendendola come privazione del benessere dell’uomo e non solo come stato di deprivazione monetaria :

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G. Sarpellon ( a cura di), La povertà in Italia, 2 voll., F.Angeli, Milano,1982. A.Sen, Il tenore di vita. Tra benessere e libertà, Marsilio, Venezia , 1993.

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“ povero è colui che non è in grado di soddisfare i propri bisogni primari e non chi non ha la capacità di sopperire alle proprie esigenze: povero è chi ha una inadeguata capacità di disporre di risorse.10”

Anche L’unione Europea si pronuncia in tal senso e scrive:

“Per persone povere s ‘intendono: i singoli individui, le famiglie e i gruppi di persone le cui risorse ( materiali, culturali e sociali) sono così scarse da escluderli dal tenore di vita minimo accettabile nello Stato membro in cui vivono.”11 Partendo da questa base, ancora più oltre si spinge invece la teoria di Martha Nussbaum che sostiene che legato al concetto di “lotta alla povertà” ci sia quello di “giustizia” in maniera vincolante. Secondo la filosofa americana, infatti, qualunque teoria della giustizia deve tener conto dei problemi sopracitati e vede proprio nel fatto che essi vengano spesso ignorati, uno dei motivi principali del fatto che spesso le teorie della giustizia fino ad oggi adottate non funzionino. Occorre perciò dare vita ad una teoria della giustizia che si focalizzi anche sul problema della cura al fine di garantire il soddisfacimento delle necessità primarie e non dell’individuo. Per riuscire in questo intento, pertanto, è necessario considerare la persona come un essere dotato sia di capacità che di bisogni e capire che le scelte operate dal singolo individuo non sono universalmente libere ma vincolate dalla sua libertà di azione all’interno della società, che deve garantire a tutti i suoi componenti i mezzi per raggiungere tale scopo.12

1.2 La povertà come fenomeno multidimensionale

A partire dagli anni novanta, quando ha cominciato ad affermarsi una visione del problema che tiene sempre più conto di aspetti non necessariamente legati al fattore economico, la povertà è diventata un fenomeno multidimensionale. In questo modo è

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F.Marsico, A. Scialdone , Comprendere la povertà, Maggioli Editore, Repubblica di San Marino, 2009, p. 18. 11 Ibidem, p. 20. 12 M. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, Bologna, 2002.

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cambiata non solo la sua teoricizzazione ma anche lo studio e le strategie impiegate per cercare nuove possibili soluzioni che considerino anche la sua componente antropologica e sociale. Questo nuovo approccio mette in evidenza in primis fattori quali l’accesso all’istruzione e al sistema sanitario oltre che l’esposizione a rischi di varia natura, la mancanza di potere decisionale e l’impossibilità di esprimersi liberamente – che determinano una mancanza di “forza” sociale nell’individuo appartenente alla fascia povera –. Gli ultimi due aspetti citati derivano soprattutto da una mancanza di accesso ai mezzi di informazione e di diffusione e appare determinante in quanto in questo modo, il singolo soggetto o il gruppo risultano non avere nessun controllo sui meccanismi sociali e istituzionali e si trova spesso impossibilitato anche a manifestare e rendere nota la propria condizione. Sembra opportuno citare la definizione che di povertà ci offre Giovanni Sarpellon per la quale essa è: “ la mancanza di risorse (e cioè di redditi in danaro, beni materiali e servizi organizzati da enti pubblici o privati, come alloggi e istruzione) tali che gli individui, le famiglie, le categorie di persone interessate sono escluse dai minimi modi di vita accettabili e dalle normali abitudini e attività.”13 Esistono

infatti

interi

gruppi

che

vengono

esclusi

dal

mercato

globale,

indipendentemente dalla propria volontà, semplicemente per la loro locazione geografica o per l’appartenenza a una determinata etnia o religione, il che riporta la povertà a una dimensione più ampia di quella generalmente legata alla mancanza di reddito, legando questo fenomeno ad altri correlati come la segregazione e l’esclusione sociale. Questo fenomeno è riscontrabile sia all’interno di un contesto sociale limitato e circoscritto, come può essere ad esempio quello di una regione o di una nazione, che a livello globale, come accade nel divario tra paesi ricchi e paesi poveri in cui questi ultimi hanno anche innegabilmente meno voce in capitolo sulle decisioni prese a livello internazionale. Tale aspetto della questione risulta particolarmente importante in quanto gruppi sociali che vengono esclusi dal processo di decision-making non hanno nessun potere di controllo sulle dinamiche socio-istituzionali incaricate dell’allocazione delle risorse.14 13

G.Sarpellon ( a cura di), op.cit., p. 72. M. Zupi, Un approccio non banale alla povertà per la valutazione strategica dei progetti di cooperazione allo sviluppo, Centro Studi di Politica Internazionale, 2009, p. 3. 14

15


Un altro degli aspetti che rientrano nel fattore di multidimensionalità della povertà è l’approccio di genere, che studia il fenomeno, le sue cause, i suoi effetti e la sua incidenza in relazione alla differenza di posizione sociale tra uomo e donna anche all’interno dello stesso contesto. Non è infatti assolutamente scontato che un uomo e una donna godano degli stessi diritti e dello stesso accesso alle risorse solo perché vivono nella stessa area geografica e nello stesso momento. Questa esclusione dai meccanismi che regolano lo scambio di beni e servizi sia a livello locale che globale, porta a una vulnerabilità del soggetto e spesso ne determina anche un’impossibilità a cambiare la propria situazione, creando così un circolo vizioso da cui risulta difficile uscire. L’approccio alla questione della povertà come fenomeno multidimensionale è stato uno dei maggiori cambiamenti registrati in questo ambito e ha portato non solo a una nuova visione del problema, ma anche a un diverso studio del fenomeno. Infatti è considerato ormai innegabile, da tutte le scuole di pensiero, che parlando di povertà si possa fare riferimento solo a una mera mancanza di risorse economiche legate al reddito, ma che vada incluso all’interno di questa definizione anche la mancanza di altri elementi come un’abitazione adeguata, l’accesso ai servizi sanitari ed educativi, la libertà di espressione determinata dall’accesso ai mezzi di comunicazione e, infine, l’esclusione dal mondo del lavoro. Ovviamente è inutile sottolineare che l’entità di tali mancanze va sempre calcolata in base al numero di persone prese in esame, soprattutto quando il calcolo viene effettuato sulla base di nuclei familiari. Per poter esaminare la povertà nella sua accezione di “multidimensionalità”, bisogna inoltre tener conto, sia dell’impatto non solo fisico e materiale che essa

ha

sull’individuo ma anche dell’aspetto psicologico ed emotivo e delle sue ripercussioni in tale senso. Vari studi hanno infatti dimostrato già in innumerevoli casi come la mancanza di mezzi di sussistenza determini anche una peggiore condizione di vita a livello di malessere interiore del soggetto preso in esame. Questo malessere porta spesso anche alla nascita di sentimenti negativi contro se stessi in quanto si tende spesso ad auto colpevolizzarsi per la situazione in cui ci si trova e ad incolparsi per il “fallimento” del proprio progetto

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di vita, specialmente quando si vive all’interno di una società in cui i beni ambiti sono potenzialmente disponibili e presenti sul mercato.15 Amartya Sen definisce le privazioni che portano a questo status come:

“the capabilities that a person has, that is, the substantive freedoms he or she enjoys to lead the kind of life he or she values.”16

L’importanza di questo aspetto della povertà è stata ritenuta talmente importante da portare il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, con la collaborazione dell’Università di Oxford, alla creazione di un indice di misurazione che tenesse conto di questa variabile. Tale indice prende appunto il nome di MPI (Multidimensional Poverty Index) ed è oggi entrato a far parte degli strumenti comunemente usati per la rilevazione dell’incidenza della povertà e il suo conseguente studio.

1.3 Povertà ed esclusione sociale: fenomeni diversi e intrecciati.

Oltre al fenomeno sopra descritto, un altro fattore psicologico importante di cui dobbiamo tenere conto è quello dell’esclusione sociale, che ha forti ripercussioni sull’individuo e ne determina ulteriormente il malessere percepito. Non a caso l’Unione Europea ha deciso di dichiarare il 2010 anno non solo della “lotta alla povertà” ma anche “all’esclusione sociale”. Questo fatto ci fa inevitabilmente riflettere su quanto questo ultimo fenomeno non solo sia estremamente importante e abbia una rilevanza non indifferente, ma sia anche strettamente correlato alla povertà in sé, intrecciato spesso in maniera indissolubile. Già dalla fine degli anni novanta il termine “esclusione sociale” ha iniziato a fare parte del vocabolario di uso comune in campo antropologico e sociologico e si è andato piano piano a sostituire a quello di “povertà”, che risultava ormai essere un termine riduttivo e limitato per la definizione di un fenomeno che ha già ampiamente dimostrato la propria pregnanza in svariati ambiti della vita.

15 16

Ibidem, pp. 3-4. A. Sen, Development as Freedom, Knopf, New York., 1999, p. 87.

17


L’adozione di questo nuovo termine permette di unire in una sola definizione due aspetti diversi ma inscindibili della questione, accostando alla sola mancanza di risorse economiche la preoccupazione per la mancanza di diritti sociali e l’accesso universale agli stessi. In questo modo, quindi, per “esclusione sociale” si intende la mancanza dei mezzi necessari a garantire la libera fruizione di tutta una serie di diritti giuridici, economici e civili ritenuti fondamentali. Oltre a questo, ci si riferisce anche alla mancata appartenenza a reti sociali riconosciute e a sistemi di identificazione riconosciuti dentro una determinata comunità. Ovvero, in estrema sintesi, si può definire l’esclusione sociale come l’impossibilità di realizzare forme di appartenenza e legami sociali significativi e duraturi.17 Alla luce di questa analisi del termine risulta chiaro come l’adozione di tale espressione a sostituzione di quello di “povertà” segni un passaggio fondamentale che dimostra come vengano ufficialmente riconosciute e accettate tutta una serie di implicazioni correlate del fenomeno dandogli così una maggiore profondità. Come abbiamo già accennato, quando si parla di povertà si parla anche di mancanza di accesso a servizi, oltre che a beni, e tra essi c’è anche l’esclusione dal mondo del lavoro e la mancata partecipazione, spesso, alla vita attiva del paese, rendendo pertanto la povertà un fenomeno che ha ripercussioni anche a livello “democratico”. Questa situazione crea una rottura tra l’individuo e la società e un distaccamento di questi dal mondo che lo circonda. Il “povero” si trova così a vivere in una dimensione diversa a quella in cui si muovono le persone che lo circondano, pur condividendo lo stesso spazio geografico e più si allunga il tempo di permanenza in questa “realtà parallela” più difficile diventa il reinserimento nella società. Remo Siza individua due cause principali della creazione di queste diverse dimensioni all’interno di uno stesso spazio: la crescita di periferie urbane profondamente segregate che non hanno rilevanti legami con la parte centrale della città e risultano caratterizzate da un profondo isolamento rispetto al tessuto sociale ed economico circostante e, in secondo luogo, il fenomeno per cui la quota della povertà crea in maniera spontanea una segregazione spaziale all’interno della quale si viene a produrre una cultura molto diversa da quella condivisa dalla maggioranza della popolazione.18

17 18

C.Saraceno, voce “Esclusione sociale” in M. Dal Pra Ponticelli, Carocci Faber editore, Roma, 2005. P. Alcock , R. Siza, La povertà oscillante, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 83.

18


Appare così chiaro come si vengano a creare delle relazioni molto più strette tra famiglie appartenenti agli stessi ceti sociali che non tra famiglie provenienti da fasce di reddito differenti, rendendo così ancora più difficile l’innescarsi di un meccanismo di integrazione sociale che parta direttamente dagli stessi soggetti per loro propria volontà.

1.4 Povertà e i principali fattori di diseguaglianza

In un inquadramento della situazione di povertà che non tenga conto solo degli aspetti economici di tale stato ma prenda in esame anche i fattori correlati, possiamo individuare alcune differenze sostanziali che determinano l’appartenenza allo status di “povero”, riassumendo di seguito la lista compilata da Martha Nussbaum: Aspettativa di vita – normalmente chi vive in stato di povertà ha un’aspettativa di vita più bassa della media, in relazione alle difficoltà oggettive riscontrate e al difficile accesso a servizi sanitari che garantiscono elevati standard di benessere fisico. A tale aspetto è correlato anche quello dell’integrità fisica, ovvero la libertà di potersi spostare da un luogo all’altro, la possibilità di condurre una vita sessuale consapevole e liberamente scelta e la sicurezza di non essere costantemente esposti a violenze e sopraffazioni. Immaginazione e pensiero – generalmente la povertà determina anche un’impossibilità di accedere liberamente al mondo dell’informazione e di creare pertanto una personale consapevolezza del mondo che ci circonda e un proprio senso critico e capacità di giudizio legata ad una propria scala di valori. Inoltre, anche le forme di espressione creativa ed artistica risultano spesso precluse e con esse anche la libera espressione della sensibilità personale. Sentimenti – condizionamento della libertà di poter provare affetto per cose e persone e vivere in maniera autentica e non condizionata la sfera emotiva, anche la parte di essa legata a desideri ed esigenze resi impossibili da soddisfare a causa dell’appartenenza allo status di povertà e a tutte le dinamiche ad esso correlate.19

19

M. Nussbaum, Women and Human Development: The Capabilities Approach, Cambridge University Press, Cambridge, 2000, p. 74.

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Possiamo pertanto affermare che la povertà determina una mancanza di libertà personale che si estende a tutti i principali ambiti della vita umana e li condiziona in maniera negativa impedendo la realizzazione psicofisica personale dell’individuo. Appare quindi ovvio come, nella lotta alla povertà, occorra tener conto anche di questi altri aspetti e applicare misure che tendano a debellare anche la povertà nella sua concezione globale, e non solo strettamente economica, al fine di rendere il soggetto libero di riappropriarsi di tutta quella serie di libertà che l’inadeguatezza del proprio reddito gli ha precluso. Per estremo opposto, si rileva invece che la diseguaglianza non è solo meta di arrivo della povertà, ma spesso anche suo punto di partenza. Infatti spesso è proprio questa la causa che porta a determinare diversi livelli di benessere. Diversi individui o gruppi, non avendo la possibilità di partire dallo stesso punto, trovano evidentemente maggiori o minori difficoltà o impedimenti nel raggiungere lo stesso livello di reddito e accesso ai servizi e questa è una delle principali cause che creano discrepanza all’interno di uno stesso contesto sociale. Equivale cioè a dire che non è detto che tutte le persone che hanno raggiunto un determinato obiettivo abbiano dovuto percorrere la stressa strada. Quando questi livelli di disuguaglianza raggiungono valori elevati, in molti casi determinati anche dalla povertà in senso economico, spesso si vengono a creare settori della società che faticano più di altri a raggiungere il riconoscimento di diritti che invece dovrebbero essere garantiti per nascita e si vedono costretti a intraprendere percorsi lunghi e tortuosi per giungere dove altri sono arrivati senza alcuno sforzo, un esempio per tutti quello dell’Apartheid in Sudafrica. In società come quelle moderne, che presentano ogni giorno di più aspetti multiculturali non più ignorabili dovuti ai massicci flussi migratori che si sono registrati negli ultimi decenni, garantire uguaglianza di diritti e doveri risulta ancora di più fondamentale per la creazione di un sistema in cui tutti i suoi appartenenti abbiano accesso a tutti i mezzi e i servizi che il sistema stesso ha creato e messo a disposizione per garantire un livello di vita dignitoso.

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1.5 Le dinamiche di impoverimento

Tra gli aspetti di cambio di prospettiva per quanto riguarda la concezione di povertà, uno dei più importanti è forse quello che passa dal considerare tale condizione non come uno stato immutabile ma come un fenomeno mutevole e dinamico con intensità variabile e in continua evoluzione che prevede uscite, rientri e ricadute più o meno cicliche. Infatti, grazie anche alle politiche sociali messe in atto dai vari governi, oggi la povertà risulta sempre più come fenomeno temporaneo che segna una parte circoscritta della vita della persona e quasi mai la sua intera esistenza arrivando ad essere uno status irreversibile in maniera radicale solo in una piccola percentuale dei casi. Le dinamiche che portano all’impoverimento di un singolo individuo o di una data fascia della popolazione meritano un’attenta analisi non solo al fine della prevenzione del fenomeno ma anche perché esse concorrono a creare la sensazione di instabilità psicoemotiva del soggetto che si trova inserito al loro interno. Spesso l’instabilità delle prospettive per il futuro raggiunge livelli intollerabili che rischiano di creare un disagio che, oltre al rischio per la propria stabilità economica, rappresentano un pericolo reale nel presente che attacca alla base e distrugge ogni sicurezza. Questi rischi si presentano con maggior frequenza e pericolosità per gli individui che hanno un’occupazione irregolare, che hanno una posizione debole all’interno della società e che possono contare solo su limitate capacità e conoscenze che limitano le loro possibilità di scelta. In special modo in un’epoca di estrema precarietà come quella che stiamo attraversando in questi anni, lo studio delle cause che concorrono a fare sì che una determinata parte della popolazione veda scendere il proprio tenore di vita e finisca così per il rientrare nella categoria di “povero” richiede una particolare attenzione. Venendo a mancare alcuni fattori che erano stati dati per assodati (come ad esempio l’esistenza di un impiego per tutti), risulta chiaro che la mobilità sociale si sia fatta più alta e sempre più indipendente dalla volontà dell’individuo, tendendo sempre più verso il basso che verso l’alto. Si registra inoltre una netta differenza tra le famiglie che vivono in una situazione di povertà permanente e quelle che invece si trovano in questa condizione in maniera transitoria, provenendo da un diverso status. Infatti, le famiglie in condizione

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occasionale di povertà mostrano una identità sociale nettamente distinta e distaccata da quella prettamente legata alla povertà radicata, non condividendone né la cultura né lo stile di vita. Questo tipo di povertà, inoltre, è vissuto con la speranza e consapevolezza di non appartenere in maniera vincolante a questa fascia di popolazione e si cerca pertanto di tenersi al di fuori delle dinamiche che portano all’esclusione sociale evitando punti di contatto con la povertà stabile. La differenza tra questi due tipi di povertà è evidente in quanto le famiglie “occasionalmente” povere, quelle cioè che si sono trovate in questa condizione a causa delle dinamiche di impoverimento del nucleo familiare, vedono la loro sopravvivenza dal riuscire a segnare un confine netto tra sé stessi e le persone permanentemente povere. Tale processo viene generalmente messo in atto affermando stili di vita diversi, al fine di non essere confusi con questi ultimi e mantenere un legame saldo con la popolazione che invece gode di stabilità economica, quella cui essi stessi appartenevano.20 Non sempre i processi che portano a un reale impoverimento sono evidenti ma si tratta piuttosto di “microfratture” che, nel loro insieme, portano a un indebolimento del soggetto all’interno della società. Nonostante ciò, si rileva la tendenza a cercare di individuare una causa principale e determinante di questo processo, non solo da parte degli studiosi del fenomeno, ma anche dal soggetto stesso. Questi ultimi, infatti, sembrano spesso dimostrare la necessità di mettere a fuoco quale sia il motivo del cambiamento del loro stile di vita e il momento preciso in cui le loro esistenze siano cambiate in maniera così radicale.21 Probabilmente questa esigenza nasce da una necessità psicologica che porta a una migliore accettazione della loro nuova condizione. Ancora una volta, quindi, risulta evidente come il concetto di povertà non sia legato solo a una condizione economica, ma a tutto un insieme di fattori sociali e antropologici ad esso correlati, che agiscono in maniera altrettanto netta sull’individuo, concorrendo a determinare lo stato di disagio a cui la povertà è legata. Sia nei processi di impoverimento che nel loro punto di arrivo, la componente psicologica gioca un ruolo fondamentale e non è pertanto trascurabile in uno studio che prenda in considerazione il fenomeno nel suo insieme. 20

R. Siza, Le professioni del sociologo, Franco Angeli, Milano, 2006, pp.131-135. C. Francesconi, “Segni” di impoverimento – Una riflessione socio-antropologica sulla vulnerabilità, Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 131-133. 21

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1.6 Diversi tipi di povertà: tra le vecchie e le nuove forme

Come abbiamo già accennato precedentemente, esistono molteplici e svariate forme di povertà che sono determinate da fattori diversi e non sono calcolabili sulla base della stessa scala di valori o degli stessi indicatori e necessitano perciò anche di strategie differenti per poter essere contrastate in maniera efficace. La povertà infatti è un fenomeno estremamente mutevole e cambia in relazione al periodo storico e al contesto in cui è presa in esame ma non solo, la sua determinazione e definizione muta anche in base alla sua durata e alla sua entità, alla percezione che ne ha l’individuo interessato e a quella che ne hanno le persone che lo circondano. Diverso a seconda del contesto risulta essere anche il ruolo che l’individuo o il gruppo ritenuto povero gioca nella società in cui è inserito e il riconoscimento che viene incontestato a questa classe può essere più o meno importante e quindi più o meno rilevante anche sul piano decisionale. È chiaro che in una società, come ad esempio quella italiana, che ha vissuto un forte boom economico, e ora si trova in una situazione di crisi, il concetto di povertà avrà un valore diverso di quello che si ha in un paese del terzo mondo. La diffusione massiccia di beni di consumo che rappresentano spesso uno status fa conseguentemente aumentare la soglia del tenore medio di vita e anche quello dell’indigenza. In ogni caso, risulta innegabile che una vita vissuta in stato di povertà è sempre e comunque caratterizzata da una “mancanza”, economica e non solo, di qualcosa ritenuto fondamentale per il benessere dell’individuo e anche per la sua piena integrazione all’interno del sistema in cui egli vive. Possiamo pertanto affermare che la povertà determina in ogni caso un indebolimento su più fronti del soggetto che si trova in situazione di svantaggio rispetto alle persone che lo circondano sia a livello di reddito che di accesso a servizi e mezzi ma anche sul piano emotivo, psicologico e della sicurezza personale. Tentiamo pertanto di stabilire quali siano i vari tipi di povertà e gli aspetti che le caratterizzano, tra quelli fino ad oggi catalogati e rilevati e pertanto riconosciuti ufficiali sia in campo sociologico, economico e antropologico, al fine di stabilire una suddivisione che ne favorisca lo studio e la comprensione.

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1.6.1 Povertà assoluta e relativa

Quando si parla di “povertà assoluta” ci si riferisce a quella povertà che determina uno standard di vita che permette appena la sopravvivenza del soggetti, impedendo loro la soddisfazione dei bisogni ritenuti primari, siano essi una singola persona o un nucleo familiare, e corrisponde alla prima definizione di povertà data da Rowntree. La UNEP22 ha stilato nel 2004 una lista chiave composta di tre punti di accesso alle risorse fornite dall’ecosistema stesso. La mancanza di accesso a questi mezzi segna l’appartenenza alla fascia di povertà estrema. Ecco quali sono: – Provisioning functions: ovvero l’insieme delle risorse naturali necessarie a garantire il sostentamento umano e le attività economiche (funzioni di approvvigionamento). – Regulating functions: cioè le attività che permettono l’esistenza e garantiscono la sopravvivenza

dell’essere

umano

all’interno

dell’ecosistema

stesso

quali

il

miglioramento della qualità dell’ambiente, la mitigazione degli eventi catastrofici ecc. (funzioni di regolazione). – Enriching functions: queste ultime segnano un’evoluzione, impossibile in assenza delle prime due, in quanto partendo dall’ambiente creato precedentemente, lo “arricchiscono” con l’insieme delle risorse non materiali (servizi) e il sistema di valori su cui si fonda una data società (funzioni di arricchimento).23 Le tre funzioni sopracitate sono imprescindibili al fine di garantire i requisiti minimi di sussistenza dell’essere umano e il soddisfacimento in maniera autonoma dei bisogni fondamentali, ovvero obiettivi ritenuti universalmente validi per tutti indistintamente da collocazione spazio-temporale e sociale, età, genere, stato di salute, anch’essi raggruppati in una lista in ordine di importanza, ovvero: “• Nutrirsi adeguatamente • Non soffrire di patologie evitabili • Vivere in un alloggio ambientalmente pulito e sicuro • Procurarsi una quantità adeguata di acqua potabile • Avere aria pulita

22 23

Human Well-Being, Poverty and Ecosystem Services: Exploring the Links. M. Zupi, op.cit., p. 6 in http://www.cespi.it/WP/DOC6-09%20zupi%20%20Ecopas%20aprile09.pdf.

24


• Procurarsi fonti di energia per scaldarsi e cucinare • Affrontare disastri naturali e shock ambientali • Utilizzare risorse naturali per procurarsi un reddito • Esprimere il proprio insieme di valori culturali e spirituali associati agli ecosistemi • Relazionarsi in termini estetici e creativi con gli ecosistemi”24 Inoltre grazie al lavoro empirico di Townsend e A. Smith del 196525 si andò consolidando l’opinione che la povertà si potesse definire soltanto in relazione allo specifico momento storico e culturale di una data società e dunque, non fosse possibile individuare dei criteri universali conformi ad ogni tempo e luogo. Viene dunque affermata la “relatività storica, sociale, culturale della povertà, la quale non può essere definita in modo assoluto come una carenza di risorse in sé ”26 grazie al contributo di autori come Titmuss e Townsend. Generalmente questo tipo di povertà è presente nel mondo occidentale, nei grandi centri urbani in cui la maggior parte della popolazione riesce ad avere accesso a tutta una serie di servizi e beni disponibili senza troppa fatica e in maniera regolare e costante. Calcolando quale sia la disponibilità di tali risorse a la frequenza con cui vi si fa mediamente accesso, si stabilisce una soglia sotto la quale possiamo parlare di povertà relativa in quanto i soggetti che non riescono a inserirsi in questo standard vivono al di sotto della media. Questa forma di povertà non mette necessariamente in pericolo la sopravvivenza del soggetto ma ne determina sicuramente un più basso tenore di vita e un minor livello di benessere rispetto a quello generalmente diffuso. Possiamo quindi affermare che il limite che segna il confine della povertà è variabile e si sposta a seconda del contesto nel quale è posto, individuandone forme più o meno estreme in base ai bisogni considerati essenziali dal contesto stesso. Ovviamente la variabilità di tale confine rende anche estremamente difficile un calcolo preciso di quanti siano realmente i soggetti da considerarsi poveri, quantomeno a livello globale. Infatti, l’utilizzo di diversi parametri per la rilevazione dell’incidenza del fenomeno porta a risultati diversi a seconda dei contesti e della distribuzione delle

24

Ibidem. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Utet, Torino, 1975. 26 A. Meo, voce “Povertà” in M.Dal Pra Ponticelli, Dizionario di Servizio Sociale, Carocci Faber editore, Roma, 2005, p. 446. 25

25


risorse nella popolazione. Ne risulterà, ad esempio, che un paese complessivamente povero ma al contempo caratterizzato da una ridotta disuguaglianza dimostra avere un tasso di povertà molto contenuto rispetto ad una zona mediamente ricca ma con un’elevata disuguaglianza della distribuzione delle risorse. È da questa visione di povertà che prende vita anche la definizione di underclass proposto da Gunnard Myrdal27 nel 1963, coniata all’interno del contesto degli Stati Uniti ma esportata presto anche nel resto dei paesi industrializzati, per riferirsi a processi economici di natura strutturale che danno come risultato la creazione di una classe svantaggiata di disoccupati e sottoccupati separati dal resto della società. L’incidenza di tale fenomeno risulta così forte da aver dato da subito al termine un riconoscimento ufficiale e un utilizzo diffuso e aver creato intorno a queste nuove classi sociali nuovi campi di studio, analisi e interesse persino in campo letterario e cinematografico. Rapportando queste due misurazioni potrà, per assurdo, risultare meno povera la popolazione di un paese diffusamente povero rispetto a quella di un paese generalmente ricco. Questi rapporti di relatività, però, non sono fissi nel tempo ma possono variare a seconda della situazione economica di un paese. Infatti, se un paese si trova coinvolto in periodo di sviluppo economico che non riesce tuttavia a ridistribuirsi in maniera omogenea su tutta la popolazione, ma riguarda solo i nuclei familiari che già godono di livelli di benessere più elevati, questo cambiamento porterà inevitabilmente a un aumento del divario. Al contrario un’epoca di recessione economica generalizzata può portare come effetto quello della diminuzione dell’incidenza del tasso della povertà sulla popolazione. Pertanto risulta chiaro come l’aumento o la diminuzione delle differenze sociali non sempre coincidano con un reale miglioramento o peggioramento delle condizioni di vita degli appartenenti all’area presa in esame. È per questo motivo che i dati derivanti dalle rilevazioni della povertà relativa vengono successivamente messi a confronto con quelli della povertà assoluta. Quest’ultima,

27

G. Iorio, La povertà: analisi storico-sociologica dei processi di deprivazione, Armando Editore, Roma, 2001, p. 112.

26


infatti, non tiene conto dei cambiamenti della disponibilità e della distribuzione delle risorse in base al luogo o all’epoca presa in esame, ma si rifà a un modello assoluto basato sul calcolo di beni e servizi minimi necessari per garantire la sopravvivenza dell’individuo o comunque il livello di vita ritenuto minimamente accettabile indipendentemente dal contesto.28 Infine, un’ulteriore aspetto della povertà relativa è costituito dal fatto che, anche all’interno di uno stesso spazio sociale sia a livello geografico che temporale, la misurazione dell’indice di relatività deve tenere conto anche del fatto che non tutti i soggetti appartenenti al segmento preso in esame abbiano gli stessi bisogni. Infatti è necessario stabilire una lista di bisogni, almeno in maniera generale, che risulterà sicuramente variabile in quanto a soggetti diversi corrispondono necessità diverse, come ad esempio un giovane o un anziano, un uomo o una donna, un adulto o un bambino, una persona sana o un disabile poiché non tutti i soggetti sono rapportabili in maniera assoluta tra di loro.

1.6.2 Povertà oggettiva e soggettiva

Negli anni settanta, Philippe d’Iribarne, studioso del benessere soggettivo, propose una prima definizione di povertà soggettiva, dando un nuovo punto di vista e un nuovo inquadramento al fenomeno contenuto nella sua opera “Le gaspillage et le désir”. D’Iribarne, infatti, avanzò l’ipotesi che “una certa evoluzione della società produca un benessere ‘obiettivo’, ma una degradazione della percezione soggettiva del medesimo”.29 Innumerevoli studi hanno dimostrato come la percezione della povertà da parte del singolo individuo spesso non coincida affatto con la sua reale situazione economica o con quella condivisa dal resto della società. Prendendo come riferimento il territorio italiano, ad esempio, una ricerca condotta dall’ISTAT nel 2002 ha evidenziato come sia possibile stabilire un confronto diretto tra

28

Istituto Nazionale di Statistica, La misura della povertà assoluta, Istat – servizio di produzione editoriale, Roma, 2009, p. 14. 29 G. Iorio, op.cit. p. 29.

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la povertà oggettiva e quella soggettiva, che corrisponde all’autopercezione dei soggetti presi in esame. La prima cosa che risulta evidente dai dati raccolti, è che la povertà soggettiva sia intesa in maniera molto più circoscritta in relazione alla povertà oggettiva. Si rileva, però, che questa tendenza appare contraddetta nelle regioni del Nord dove il numero dei nuclei familiari che si considerano soggettivamente poveri risulta maggiore di quelle che in realtà lo sono in maniera oggettiva. Questo studio, quindi, conferma la teoria che nelle zone più ricche la sensazione di “mancanza” sia più accentuata e ciò è dovuto non solo al fatto che le loro aspettative siano più alte ma anche perché le famiglie sono qui costrette a scontrarsi con un costo della vita più elevato e con maggiori consumi generalizzati rispetto alla media nazionale. Ovvero esiste in queste aree una parte della popolazione che, sebbene si trovi al di sopra della soglia nazionale di povertà, raggiunge e mantiene con fatica gli standard della zona in cui vive e alla quale si rapporta e questo fa sì che questa fascia di popolazione tenda a considerarsi povera rispetto al contesto in cui è inserita.30

Questo fenomeno è peraltro rapportabile non solo alla realtà italiana ma, su grande scala, a quella mondiale, rendendo i risultati di questo studio pressoché universali.

30

Fonte: ISTAT, La povertà e l’esclusione sociale nelle regioni italiane, anno 2002, Dicembre 2003.

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Ci sono poi altri fattori che determinano tale percezione, come ad esempio l’inclusione sociale, il livello di istruzione e cultura e la professione svolta. Per contro, anche la società spesso sembra non avere una percezione della povertà del singolo individuo strettamente legata al suo potere d’acquisto o alla sua situazione economica. Si tende infatti spesso a confondere la povertà con la bassa estrazione sociale; si ritengono cioè, appartenenti alla fascia povera della popolazione persone che in realtà hanno semplicemente ruoli ritenuti meno prestigiosi all’interno della struttura sociale presa in esame.

1.6.3 Povertà economica e relazionale

Un altro degli aspetti strettamente correlati alla povertà economica, è quello della povertà relazionale, ossia l’incidenza della scarsa disponibilità sulle relazioni sociali. Così come per gli altri fenomeni sopradescritti, anche questo mostra una stretta correlazione con quello della povertà intesa in termini di mancanza di beni primari e rientra nel computo delle numerose dinamiche a cui essa è saldamente legata. Il processo di vulnerabilità, insicurezza e infine emarginazione a cui la situazione di povertà dà vita è comunque un fenomeno che si riscontra soprattutto nelle moderne società industrializzate in cui il povero non rappresenta la regola ma l’eccezione all’interno di un sistema in cui la maggior parte delle persone risulta essere benestante. Nelle società precedenti la rivoluzione industriale, infatti, si è sempre parlato di sistema “piramidale” in cui la fascia della popolazione che viveva al di sotto della soglia di povertà rappresentava la maggioranza e poteva quindi avvalersi della superiorità, che significava non solo una maggior forza in termini numerici ma anche una segmentazione all’interno del quale l’individuo poteva riconoscersi e identificarsi. Sebbene questo sistema piramidale portasse da una parte a una forte divisione all’interno della struttura sociale, dall’altro lato però garantiva al soggetto “povero” di trovare un proprio terreno di azione di cui sentirsi parte e all’interno del quale svolgere la propria vita riducendo così, almeno in parte e sul piano della quotidianità, il fenomeno dell’esclusione sociale. Negli ultimi decenni il “rovesciamento” della

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piramide ha innegabilmente tolto forza e voce in capitolo a questa fascia della popolazione. Un altro aspetto della povertà relazionale, concausa e insieme effetto della povertà economica, è rappresentato dalla perdita di valore e forza del sistema “famiglia”. In ogni società, infatti, la famiglia – nel senso più ampio e mutevole del termine – ha sempre rappresentato il primo nucleo non solo di appartenenza ma anche di sostegno della persona, alla quale questa faceva affidamento in caso di bisogno e prestava soccorso agli altri membri, prima ancora di ricorrere alle forme di aiuto statali o comunitarie. Con il venir meno, specie nelle società industrializzate, della presenza forte del sistema familiare, che si è ridotto sia in termini di dimensioni numeriche che di presenza effettiva nei vari aspetti della vita dell’individuo, è venuto a mancare il primo e più importante punto di sostegno. Specie i soggetti ritenuti universalmente svantaggiati, come i disabili o gli anziani, avevano spesso fatto affidamento sul sistema “famiglia” sia per il sostegno economico, sia per quello emotivo e psicologico oltre che per trovare aiuto alla soluzione dei problemi incapaci di fronteggiare da soli. La “svalutazione” dell’importanza della famiglia come nucleo sociale ha portato a un impoverimento relazionale per cui le persone con più difficoltà oggettive si sono trovate spesso senza aiuto in situazioni difficilmente risolvibili in solitudine. A questo sistema se ne sono via via sostituiti altri, in forme “statalizzate” e diverse a seconda della struttura societaria e delle esigenze a cui esse dovevano fare fronte sino ad arrivare, nel sistema occidentale, alla creazione di uno stato del welfare e di tutta una rete di servizi sociali e strumenti per l’integrazione.

1.6.4 Povertà temporanea, ricorrente e persistente

Quando si effettua una suddivisione della povertà in termini di temporaneità, ricorrenza e persistenza, si parla soprattutto di una divisone statistica attuata spesso al fine di poter meglio rilevare, catalogare e analizzare i risultati di una ricerca condotta sul campo.

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Pertanto, cercheremo adesso di capire a cosa realmente si riferiscano queste tre categorie in accordo con le definizioni riportate da Remo Siza nel suo volume La professione del sociologo secondo cui si stabisce che: – la povertà persistente risulta caratterizzata principalmente dalla persistenza nella fascia di povertà per un periodo non inferiore ai tre anni. I soggetti maggiormente coinvolti in questo processo sono spesso nuclei familiari “deboli”, ovvero composti da donne sole con figli minori, le famiglie monogenitoriali che quindi possono contare su un solo individuo “economicamente determinante”, gli anziani che hanno già abbandonato il mondo del lavoro e le famiglie in cui il capofamiglia risulta essere disoccupato e pertanto privo di un reddito fisso che possa garantire una stabilità economica prolungata nel tempo. All’interno di questa stessa suddivisione si rileva inoltre che i soggetti disoccupati e pensionati hanno un rischio di povertà persistente più alto di quello dei soggetti con disabilità fisiche, ma meno elevato di quello delle famiglie monogenitoriali. – la povertà ricorrente è invece considerata quella per cui i nuclei familiari si trovano ad attraversare più periodi di povertà – almeno due – separati l’uno dall’altro da almeno un anno di non povertà, tracciando così un percorso che li porta ad entrare e uscire da questo status con relativa frequenza non garantendo perciò sicurezza e stabilità neanche nei periodi economici positivi. Risultano essere soggetti alle conseguenze di questo fenomeno soprattutto persone che si trovano in una situazione lavorativa precaria. – la povertà temporanea è quella che, sebbene in termini economici presenti le stesse caratteristiche della povertà permanente, ha una durata limitata nel tempo e si protrae per un periodo massimo di due anni. L’incidenza di questo fenomeno è spesso determinata da una diminuzione dello stipendio di uno o più membri attivi del nucleo familiare. Nessuno di questi tipi di povertà è considerato permanente e tutti e tre presentano opportunità di uscita dalla condizione che però devono essere presi in considerazione in maniera relativa e non oggettiva. Quindi, il tasso di uscita dalla povertà calcolato sulla base di un determinato anno, deve tener conto anche della permanenza dei soggetti all’interno dello stato stesso. Una famiglia che esce dallo stato di povertà in un dato momento dopo un periodo prolungato di permanenza, infatti, probabilmente si è avvalsa di dinamiche che hanno

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radici più lontane nel tempo e segna il punto di arrivo di un percorso più lungo rispetto a quello di una famiglia che si è trovata in uno stato di povertà relativamente breve. Bisogna poi attuare un’altra distinzione, che focalizza l’attenzione soprattutto sul punto di arrivo dall’uscita della povertà; è necessario calcolare quale percentuale dei soggetti in uscita dal fenomeno approdino a uno stato di quasi povertà e quanti invece riescano a raggiungere uno standard di effettivo benessere economico.31 Oltre a questa suddivisione, Siza stabilisce anche una differenza tra le dinamiche sociali che contribuiscono a creare una forma di povertà piuttosto che un’altra affermando che, ad esempio, la povertà stabile si rivela essere l’esito di un processo sociale con radici profonde che segna una rottura pressoché definitiva tra l’individuo e la collettività. Dall’altro lato, invece, le povertà occasionali risultano essere il prodotto di uno stile di vita determinato in un dato momento dalla mancanza di reddito fisso derivante dalla diffusa precarietà32 e non vanno pertanto necessariamente ad intaccare l’ambito delle relazioni sociali dell’individuo.33 Risulta chiaro pertanto come parlare di “povertà” senza specificare il contesto nella quale questa è presa in esame sia riduttivo e non permetta di avere una visione oggettiva del fenomeno. Tutte le precedenti suddivisioni tendono a trovare dei parametri universalmente accettati in vari campi per poter meglio studiare e analizzare la povertà nel suo insieme, tenendo conto delle cause e degli effetti sul singolo e sulla società, oltre che dell’incidenza su una determinata fascia di popolazione a seconda della sua collocazione spaziale e temporale. La segmentazione che si è andata facendo man mano più estesa e capillare è nata dall’esigenza di dare una definizione più netta a una parola che aveva perso mordente con il passare del tempo di fronte a una società globale che si mostrava ogni giorno più sfaccettata e complessa.

31

R. Siza, Le professioni del sociologo, cit., pp. 145-146. A questo proposito è fondamentale specificare la differenza tra la precarietà che ha una rilevanza fondamentale all’interno dei processi di impoverimento, che è quella che coinvolge le fasce più basse e deboli della popolazione e è indipendente dalla loro volontà, rispetto alla precarietà che interessa i gruppi sociali più professionalizzati. Quest’ultima infatti è spesso ricercata proprio dai soggetti stessi per la libertà di movimento e la mobilità sociale orientata verso l’alto che permette ed è pertanto irrilevante ai fini dello studio dei processi di impoverimento in quanto risulta essere una scelta cosciente del soggetto interessato. 33 P. Alcock, R. Siza, La povertà oscillante, cit., p. 74. 32

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Capitolo secondo Il problema della povertà e i diversi canali di individuazione

2.1 Dall’approccio unidimensionale a quello multidimensionale

Come abbiamo già avuto modo di vedere nel capitolo precedente, il concetto di “povertà” ha subito cambiamenti radicali dalla sua prima definizione (quella data da Rowntree) a oggi. Con il passare degli anni, infatti, la sua definizione si è estesa, comprendendo al suo interno sempre più aspetti della questione, siano essi di causa o di effetto. Stacchiamoci quindi dalla terminologia del dizionario che indica la povertà come:

“mancanza più o meno completa o accentuata, insufficienza dei mezzi necessari per vivere; la condizione di chi ha a disposizione insufficienti mezzi di sussistenza.”34

Per spiegare l’evoluzione di questo concetto, prenderemo adesso in esame diversi punti di vista che sono stati adottati e diverse teorie che sono state elaborate nel corso del tempo.

2.1.1 Cultura della povertà

Quando si parla di “cultura della povertà” si fa riferimento al concetto elaborato dall’antropologo statunitense Oscar Lewis a proposito delle moderne forme di povertà estrema che si sviluppano nei contesti urbani. Il suo intento era quello di verificare se tali forme presentassero una propria struttura composta da una loro scala di valori, norme, codici morali, stili di vita, modelli di comportamento, linguaggio e atteggiamento e relazioni sociali. Questa rilevazione tendeva a dimostrare che in questo 34

SALVATORE BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana – Voce: Povertà, UTET, Torino 1989.

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contesto si sviluppa un microsistema a sé stante, e pertanto anche immediatamente riconoscibile dell’esterno, che possa risultare utile per lo studio di queste forme di povertà. 35 Per sviluppare questo concetto Lewis si basa sui propri studi etnografici eseguiti in Sudamerica e in Messico. Parlando di “cultura della povertà”, è egli stesso a definire così il concetto:

“La frase vuole individuare un modello concettuale specifico per descrivere in termini positivi una sub-cultura della civiltà occidentale, sub-cultura che ha una propria struttura e una propria ragion d’essere, un modo di vivere tramandato di generazione in generazione attraverso la famiglia. La cultura della povertà non è semplicemente un fatto di privazione o di disorganizzazione, termini tutti che significano la carenza di qualcosa. È una cultura nel verso senso antropologico tradizionale della parola in quanto offre ad esseri umani un modello di vita, un insieme di soluzioni precostituite ai problemi umani, e ha quindi una funzione significativa di adattamento.”36

Con questa spiegazione, che resterà poi praticamente invariata nel corso della sua opera, Lewis intende marcare una differenza tra povertà strettamente economica e “cultura della povertà”, dando a quest’ultima una visione più antropologica e culturale che amplia e approfondisce quella legata semplicemente al denaro.37 Quindi, come possiamo vedere, con questo concetto Lewis riesce ad individuare alcune caratteristiche sia sociali che psicologiche, oltre a quelle strettamente legate al basso o nullo reddito, ben definite e riconoscibili. Dal suo studio risulta infatti che le famiglie appartenenti a questi ambienti mostrano di avere caratteristiche comuni, come la mancanza di vita privata, un più spiccato senso di socievolezza, una maggiore incidenza del fenomeno dell’alcolismo, il frequente ricorso alla violenza fisica nell’educazione dei bambini, le unioni libere non sancite da matrimonio, la predominanza del ruolo centrale 35

MAURIZIO BERGAMASCHI, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, Franco Angeli, Milano 1999, p. 37. 36 OSCAR LEWIS, La cultura della povertà in G. Colasanti, N. Totaro (a cura di), Capitalismo, criminalità e devianza, Savelli, Milano, 1973, p. 170. 37 MAURIZIO BERGAMASCHI, op. cit., p. 38.

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della madre nel nucleo familiare in cui il padre è spesso inesistente o comunque poco presente. Inoltre si rilevano anche altre caratteristiche quali un forte orientamento al presente a discapito della progettazione del futuro, un diffuso senso di rassegnazione e fatalismo scaturito dalle difficili situazioni di vita, una profonda credenza nella superiorità maschile che sfocia spesso nel maschilismo e costringe le donne a una condizione ancora più difficile, e infine una particolare tolleranza verso le più svariate patologie psicologiche che non vengono percepite come handicap o come ostacolo.38 Una volta stabilite queste caratteristiche culturali, Lewis continua la propria analisi osservando che la “cultura della povertà” (in quanto appunto “cultura”), è una configurazione che è capace di presentarsi e riprodursi in maniera indipendente dalle condizioni materiali. Infatti il miglioramento della situazione economica non determina necessariamente un cambiamento di questa configurazione. Se da una parte è proprio questa “cultura della povertà” a riprodurre le situazioni sopradescritte all’interno delle quali questa si sviluppa, dall’altra risulta essere una forma di adattamento alla situazione stessa e di organizzazione alternativa dei soggetti coinvolti nel processo.39 Questa cultura però non si limita alla creazione di un diverso sistema di adattamento alle condizioni di vita determinate da una mancanza materiale, ma diventa un vero e proprio insieme di valori che vengono tramandati nel corso delle generazioni. Come spiega lo stesso Lewis:

“La cultura della povertà, però, non è soltanto adattamento a una serie di condizioni obiettive della società più vasta. Una volta venuta a determinarsi, tende a perpetuarsi di generazione in generazione a causa del suo effetto sui figli. I fanciulli dei quartieri poveri, una volta giunti all’età di sei o sette anni, hanno già assorbito, di solito, i valori fondamentali e gli atteggiamenti della loro sottocultura e non sono psicologicamente preparati ad approfittare

38 39

Fonte: http://www.sagarana.net/rivista/numero29/dicas.html MAURIZIO BERGAMASCHI, op. cit., p. 38.

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appieno di mutamenti di condizioni o di più numerose opportunità che possono presentarsi nel corso della loro esistenza.”40

Questa visione di Lewis, che definisce i poveri non come singoli casi isolati all’interno della società ma come gruppo omogeneo appartenente a una comunità solida e autoorganizzata, esclude però a priori l’influenza determinata dal contatto. Infatti, nella sua analisi sull’aspetto “ereditario” della cultura della povertà, Lewis non tiene conto del fattore esterno, ovvero non considera l’ipotesi che i bambini appartenenti a questa cultura entrino in contatto anche con persone appartenenti ad altri sistemi che convivono nello stesso spazio urbano. Questa eventualità, sebbene sia totalmente plausibile all’interno di società fortemente gerarchizzate come ad esempio quella indiana fondata sul sistema delle caste, risulta invece abbastanza inverosimile nelle strutture occidentali contemporanee. Difatti, anche nelle stesse biografie riportate da Lewis all’interno delle sue opere emerge come l’isolamento da lui ipotizzato sia in realtà solo parziale e i soggetti presi in esame dimostrano di avere quotidianamente un confronto con ciò che è esterno alla povertà nella loro vita di tutti i giorni.41 Nonostante questo, l’opera di Lewis risulta di fondamentale importanza poiché tende ad evidenziare gli aspetti antropologici e culturali della povertà, rispetto a quelli legati alla mera mancanza dei mezzi di sussistenza. Il significato che della povertà emerge da questa visione, non è solo più riconducibile ad una condizione di minore disponibilità, ma rappresenta anche un sistema a sé stante che determina uno stile di vita e un insieme di valori che ad essa sono legati.

2.1.2 L’approccio dinamico

L’approccio dinamico alla povertà si sviluppa in Europa a partire dagli anni novanta e si basa su dati di tipo longitudinale che utilizzano metodi nuovi di analisi e forniscono così nuove intuizioni sulla struttura del fenomeno e sul modo in cui opera l’apparato dell’assistenza sociale. 40

OSCAR LEWIS, La vida. Una famiglia portoricana nella cultura della povertà, Mondadori, Milano, 1972, p. 51. 41 MAURIZIO BERGAMASCHI, op. cit., p.39.

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Secondo Leiserig esistono due diversi tipi di utilizzo del metodo di studio dinamico che si muovo in direzione opposta. La prima fornisce una visione più positiva della povertà indicandola come una situazione da cui il soggetto coinvolto possa uscire, mentre la seconda pone l’accento sui processi cumulativi che generano deprivazioni e declino.42 Nella visione statica della povertà, generalmente si tende a pensare a questa come a un fenomeno che coinvolge piccoli gruppi di persone per periodi molto lunghi della loro vita. L’approccio dinamico ha mostrato come invece si tratti di una situazione in continua evoluzione, da cui è possibile sia entrare che uscire nel corso della vita dell’individuo. La povertà si riduce così a un episodio che può essere punto di arrivo o partenza di percorsi molto diversi tra loro. La prospettiva dinamica può comunque essere vista sia come un semplice metodo di analisi empirica che come parte della teoria del “corso della vita”43, che ingloba dentro di sé e amplia la visione dinamica rendendola più completa. Leisering riassume la teoria dell’approccio dinamico in quattro principi base così suddivisi: •

Temporalizzazione, ovvero la povertà considerata come un fenomeno mutevole che cambia nel tempo, permettendo così di inviduarne un inizio, una durata e – dove possibile – una conclusione. In questo modo la povertà viene considerata non una caratteristica determinante della vita ma un evento posto al suo interno in uno specifico momento, evento su cui si può agire, a livello personale e istituzionale, per cercare di porre fine al processo.

Capacità di agire, ovvero il soggetto non viene visto come una vittima inerme in balia di eventi esterni ma come individuo dotato di capacità di azione e di volontà propria che, tenendo conto della situazione di svantaggio in cui si trova, può modificare la propria posizione. Il soggetto può pertanto agire in un determinato modo, finalizzato all’uscita dalla condizione di povertà.

Democratizzazione, ovvero la povertà non viene più vista come un rischio che interessi solo una parte limitata della società ma come un’ipotesi reale per tutte

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LUTZ LEISERING, I due usi delle ricerche dinamiche sulla povertà. Modelli deterministici e contingenti delle carriere individuali di povertà, in Sociologia e politiche sociali, fascicolo 2, Frango Angeli editore, Roma 2003, p.31. 43 Con la definizione di “corso della vita” ci si riferisce alle dinamiche di impoverimento personale presi in esame sia nel contesto istituzionale che in quello biografico personale. L’unione di questi due aspetti forma il quadro completo temporale dell’intero arco della vita.

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le classi, indipendentemente dal reddito a loro disposizione. A seconda del mutamento di determinate condizioni, come ad esempio la perdita del lavoro, chiunque può potenzialmente trovarsi coinvolto nel processo di povertà, qualunque sia il proprio punto di partenza. •

Biografizzazione, ovvero sommando i tre punti precedenti, si arriva alla conclusione che la povertà sia un fenomeno biografico, che scaturisce da eventi e cambiamenti nel corso della vita. Oltre a questo si osserva anche che il rischio di trovarsi in situazione di povertà si estende anche alla classe media e che i poveri tendono ad affrontare la loro situazione all’interno di progetti biografici e di azione più ampi.44

Posto in questi termini, l’approccio dinamico ci dimostra come la povertà nella società moderna non sia più un fenomeno facilmente circoscrivibile a fasce di popolazione o a percorsi biografici netti e facilmente individuabili. La mobilità sociale e il diverso stile di vita hanno reso il fenomeno molto più sfaccettato che in passato, tanto che si mostra come un pericolo che può colpire tutte le classi sociali ed è oggi molto più insidioso e complesso che in passato. Il punto di svolta e rottura con le precedenti teorie segnato da questa nuova visione è quello che cambia in maniera radicale la considerazione della povertà, passando da forma di vita a fenomeno temporalmente limitato. Secondo la precedente concezione in cui chi nasceva povero moriva povero, l’approccio dinamico afferma invece che l’ipotesi sia di entrata che di uscita da questo status è estremamente possibile e reale e può coinvolgere qualunque soggetto. Risulta pertanto ovvio come questa nuova visione della povertà influenzi non solo i moderni studi ma anche le nuove politiche di lotta e prevenzione attuate attraverso il welfare e le misure di contrasto messe a punto dai vari governi e organizzazioni. Nonostante la visione dinamica della povertà si sia diffusa in Europa negli anni novanta, in Italia si è iniziato solo recentemente a considerare il fenomeno in questi termini e ciò è dovuto soprattutto alla mancanza di indagini nazionali di tipo longitudinali, sulle quali si basa appunto l’approccio dinamico.45

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Ivi, p. 32-33. GIUSEPPE CAMPIGLIA, FERRUCCIO BIOLCATI RINALDI, Le dinamiche della povertà in Italia alle soglie del 2000, Liguori Editore, Napoli 2003, p. 2. 45

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2.1.3 Il capability approach

Con il termine capability approach, o “etica delle capacità”, si fa riferimento alla teoria sostenuta prima da Sen e successivamente ripresa da Nussbaum. Questa teoria unisce in sé la filosofia, l’economia e la scienza sociale, creando così un discorso interdisciplinare che tocca vari campi. Sul piano sociale, soprattutto, l’etica delle capacità cerca di definire dei criteri che siano utili nella società per stabilire la giustezza di azioni che hanno un impatto su tutta la comunità e non solo sul singolo individuo46. A metà degli anni’70 Sen inizia a sviluppare la propria linea di pensiero in contrasto con la visione della povertà strettamente legata al benessere economico, che era fino ad allora sempre stata ritenuta infallibile, iniziando a impostare il proprio discorso più verso una scelta sociale. Una decina di anni dopo, Nussbaum aggiunge il proprio contributo, sviluppando gli aspetti legati alla differenza di genere e ai diritti delle donne. A partire dal 1990 il capability approach entra ufficialmente a far parte degli Human Development Reports47 e ha conosciuto un sorprendente sviluppo negli ultimi anni, tanto da rappresentare oggi una delle principali concezioni etico-politiche presenti nel dibattito internazionale.48 Sebbene tutti e due siano partiti dalle stesse basi, Sen e Nussbaum hanno intrapreso successivamente due percorsi diversi sviluppando due filoni diversi del capability approach. Infatti, mentre Nussbaum sostiene la necessità di individuare dei punti fissi che indichino cosa significhi vivere una vita autenticamente umana, Sen invece non ritiene imprescindibile questa scala di valori poiché ogni singolo individuo presenta esigenze diverse e personali.49 In particolare, Sen muove la propria critica al sistema utilitaristico affermando che non è sostenibile l’identificazione del benessere di una persona con l’utilità, e che tale benessere non può essere considerato l’unica cosa dotata di valore; per questo la concezione della persona presentata nelle teorie utilitaristiche non appare convincente.50

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SERGIO FILIPPO MAGNI “Etica delle capacità – la filosofia pratica di Sen e Nussbaum”, il Mulino, Bologna, 2006, p. 7. 47 Programmi di sviluppo delle Nazioni Unite. 48 Ivi, p. 8-9. 49 Fonte: http://www.juragentium.unifi.it/topics/women/it/nussbaum.htm 50 SERGIO FILIPPO MAGNI, op. cit., p. 44.

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La teoria di Sen affonda le proprie radici nella definizione di giustizia precedentemente elaborata da Rawls51, che si basa su quelli che egli stesso ha definito “beni sociali primari”, ovvero le cose che si presume che ogni individuo razionale desideri, includendo in questo insieme anche cose astratte come i diritti, le libertà e le basi sociali per il rispetto di se stessi.52 Ed è proprio questo un altro dei punti di critica di Sen. Secondo questo autore, infatti, per il raggiungimento del benessere occorre realizzare un soddisfacimento dei desideri che è però estremamente difficile da misurare in quanto non è affatto semplice stabilire un parametro di confronto per stati mentali soggettivi come ad esempio il piacere o la felicità.53 A proposito del contrasto tra visione utilitaristica e visione soggettivista Sen solleva la seguente questione:

“It might be asked whether attacching importance to each person’s agency would amount to taking a ‘subjectivist’ view of ethics, since whatever a person values and wishes to achieve might have to be, then, taken as valuable precisely because he or she values it.”54

All’interno della sua opera, quindi, Sen cerca di dare vita a una nuova concezione di economia, basata su principi etici che mettano l’uomo al centro della questione e non i beni o i servizi di cui questi fa uso pur riconoscendo che le due cose siano strettamente collegate tra loro, affermando di avere una:

“profonda convinzione che l’analisi economica possa offrire un contributo all’etica che sta a fondamento del mondo in cui viviamo. Alcuni dei più

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Considerato all’unanimità uno dei più influenti filosofi politici del novecento, è stato il primo a sostenere che la giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali. Molti filosofi e sociologi hanno sviluppato le proprie idee a partire dalle teorie di Rawls. Fonte: http://www.filosofico.net/rawls.htm 52 RICHARD J. ARNESON, L’idea di eguaglianza, Feltrinelli editore, Milano, 2001, p. 85. 53 SERGIO FILIPPO MAGNI, op. cit., p. 45. 54 “Sarebbe lecito domandarsi se dare importanza alla persona come ‘soggetto agente’ equivalga ad avere una visione ‘soggettivista’ dell'etica, pertanto i principi e i desideri che una persona cerca di soddisfare dovrebbero, quindi, essere considerati come valori proprio per il fatto la persona stessa li ritiene tali.” Da: AMARTYA K. SEN, On ethics and economics, Blackwell Publishing, Oxford, 1987, p.41.

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laceranti problemi dell’etica sociale sono infatti di natura profondamente economica.”55

Altro punto cardine della teoria di Sen è quello della definizione del concetto di eguaglianza che, se a prima vista può apparire molto semplice, si rivela invece complicato e composto da molte variabili. Come ci ricorda proprio lo stesso Sen, infatti, per evitare di scadere in una retorica spicciola e scontata, dobbiamo tener presente che:

“La valutazione delle esigenze poste dall’eguaglianza deve scendere a patti con l’esistenza di una diffusa diversità umana.”56

E spiega:

“L’eguaglianza viene giudicata attraverso il confronto di certi tratti particolari di una persona (come il reddito, la ricchezza, la felicità, la libertà, le opportunità, i diritti, l’appagamento dei bisogni) con i medesimi tratti di un’altra persona. Dunque, il giudizio e la misurazione della diseguaglianza dipendono in tutto e per tutto dalla scelta della variabile (reddito, ricchezza, felicità, ecc.) sulla base della quale si effettuano i confronti.”57

A questo proposito Sen prende in esame, come punto di confronto tra due individui, l’eguaglianza di libertà. In questo modo, risulta chiaro come nella sua visione, quindi, l’uguaglianza di libertà sia strettamente correlata all’uguaglianza di diritti, più che a quella di reddito o di consumi. Per questo possiamo affermare che il suo approccio alla povertà sia più etico che economico. Mettendo l’individuo al centro del proprio discorso sulla lotta alla povertà, infatti, Sen ci dà una visione di tipo sociale, misurando il benessere in base a fattori legati più a stati d’animo che a questioni di consumi. Anche Martha Nussbaum incentra il proprio discorso sull’uguaglianza di diritti e opportunità più che su quella di reddito e consumi, comprendendo nella propria nozione di beni primari anche quella di “capacità”, domandandosi se a tutte le persone inserite in 55

AMARTYA K. SEN, La libertà individuale come impegno sociale, Laterza, Bari, 1998, p. 5. AMARTYA K. SEN, La diseguaglianza – un riesame critico, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 15. 57 Ivi, p. 16. 56

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una determinata società sia realmente data la possibilità concreta di essere e fare ciò a cui aspirano, ovvero se abbiano l’opportunità di raggiungere la propria realizzazione personale58. In particolare, la Nussbaum riporta il proprio discorso sul piano della dipendenza dell’individuo dalla società dichiarando che quest’ultima deve individuare quali siano i metodi migliori per sostenere i propri appartenenti, come risulta in questa sua affermazione:

“Ogni società reale è una società in cui si dispensano cure e si ricevono cure; per questo essa deve scoprire le modalità con cui dare risposta a quelle condizioni umane di bisognosità e di dipendenza in forme che siano compatibili con il rispetto di sé da parte di chi ne è beneficiario e con l’assenza di sfruttamento per chi le dispensa.”59

Appare quindi immediatamente chiaro come per la Nussbaum il concetto di giustizia sia strettamente legato a quello di dignità della persona, ed è appunto questa una delle questioni centrali del suo lavoro. Come sostiene infatti lei stessa:

“Tutte le concezioni della giustizia che si basano sull’idea del contratto sociale fanno ricorso a un’ipotesi ideale che sembra innocente, ma che finisce per dare luogo a conseguenze problematiche.”60

Tale ipotesi consiste nel dare per scontato che la società sia composta esclusivamente da individui autosufficienti e in pieno possesso delle loro facoltà sia fisiche che mentali, ma nella realtà dei fatti le cose non stanno così. Ad esempio, ogni individuo fa il suo ingresso nella società come neonato, e necessita pertanto di cure costanti per un periodo che varia in genere dai dieci ai venti anni, finché non raggiunge la propria autosufficienza, ed è spesso destinato a rientrare nella fascia della popolazione

58

M. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana – Da individui a persone, Il Mulino, Bologna, 2002. MARTHA NUSSBAUM, Giustizia sociale e dignità umana – Da individui a persone, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 109. 60 Ivi, p. 108. 59

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bisognosa di cure una volta raggiunta un’età avanzata.61 Oltre a questo, ci sono altri fattori che determinano in maniera maggiore o minore la dipendenza della persona dalla società, come la disabilità, l’emarginazione o la povertà.62 Per questo motivo, tutta una serie di prestazioni a favore di queste categorie, vanno necessariamente inserite nella lista dei bisogni primari già teorizzata da Rawls, poiché rappresentano una parte non indifferente delle attività che ogni società dovrebbe predisporre. A questo fine la Nussbaum propone una lista di capacità minime63 che devono essere garantite al fine di permettere a ogni individuo non solo di sopravvivere, ma di vivere in maniera dignitosa64 e afferma che le politiche liberali dovrebbero applicarsi al fine di dotare ogni individuo di libertà e indipendenza:

“Garantire una capacità a una certa persona non è sufficiente a produrre stati interni di disponibilità ad agire. È almeno altrettanto necessario predisporre l'ambiente materiale ed istituzionale in modo che le persone siano effettivamente in grado di funzionare.”65

Come possiamo notare, dunque, sebbene ognuno dei due autori qui considerati abbia sviluppato la propria teoria in maniera diversa, gli approcci di Sen e Nussbaum mostrano un punto in comune molto importante e innovativo: entrambi mettono la persona al centro della questione e la prendono in esame in quanto soggetto dotato di volontà e capacità di agire proprie. Questa centralità si sviluppa su due livelli, ovvero in primo luogo dà vita all’idea che il soddisfacimento dei bisogni personali non possa essere legato solo ed esclusivamente a un fattore economico ma debba includere anche altri aspetti legati al successo personale

61

Ivi, p. 108-109. A questo proposito, la critica che la Nussbaum muove a Rawls è quella di considerare la società come formata solo da individui adulti, autosufficienti e dai bisogni simili, senza tenere conto delle differenze di composizione della popolazione. 63 Vita, salute fisica, integrità fisica, sensi, immaginazione, pensiero, sentimenti, ragion pratica, appartenenza, vivere assieme ad altre specie, gioco, controllo del proprio ambiente. La lista è volutamente formata da termini vaghi di modo che ogni società possa riempirli di significato a seconda delle proprie esigenze. 64 Fonte: http://www.recensionifilosofiche.it/swirt/rawls/nussbaum.htm 65 MARTHA NUSSBAUM, op. cit., p. 81. 62

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e, dall’altro lato, considera il soggetto come parte integrante della costruzione della sua dignità, capace di compiere scelte proprie, e non solo come elemento passivo. Il capability approach riveste un ruolo fondamentale nella moderna filosofia socioeconomica, poiché ha dato vita a una nuova dimensione di studio e prevenzione del fenomeno della povertà e dell’esclusione sociale; oggi la validità della sua tesi è ampiamente diffusa, riconosciuta e adottata a livello globale.

2.2 Il nodo critico della rilevazione della povertà

Fino a quando la povertà è stata presa in esame solo in termini strettamente economici e legati al reddito, la sua rilevazione si è sempre mostrata relativamente facile. Infatti era sufficiente determinare una soglia di accesso a denaro, beni e servizi al di sotto della quale si potesse parlare di povertà. Generalmente tale soglia era stabilita in base a rilevazioni che tenevano conto della quantità di denaro a disposizione del singolo o del nucleo familiare oltre ad un paniere di beni ritenuti fondamentali; la sua misurazione era affidata a istituti di ricerca e statistica, come ad esempio l’ISTAT in Italia. Possiamo quindi riassumere che per misurare la povertà è necessario stabilire un indicatore di benessere e un suo livello minimo in modo da tracciare una linea che separi i poveri dai non poveri. Già da alcuni anni ormai la maggior parte degli organismi internazionali usa lo stesso indice di riferimento come misura della povertà, chiamato HCR66. Questo indice serve a stabilire non solo il numero di persone che vive al di sotto della soglia di povertà, ma anche il rapporto tra tale numero e la popolazione. Purtroppo uno dei limiti di questo indice è che non riesce a dare una dimensione completa del problema, fornendo solo un dato globale senza riuscire a definire realmente l’ampiezza del fenomeno.67 Questo ci dimostra ancora una volta come la dimensione economica oggi, pur rivestendo sempre un ruolo fondamentale nelle rilevazioni, si è rivelata insufficiente per dare una visione completa dell’incidenza del fenomeno in quanto si è dimostrata incompleta e non capace di racchiudere anche altri aspetti sempre legati al problema 66

Head Count Ratio. MASSIMO BALDINI, STEFANO TOSO, Diseguaglianza, povertà e politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna, 2009, pag. 128.

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della povertà. Inoltre è risultata essere estremamente variabile nel tempo e nello spazio a seconda dei fattori che la determinano e agli standard di vita a cui essa è rapportata. Infine, bisogna anche tener conto del fatto che uguali volumi di reddito e di consumo possono in realtà nascondere situazioni molto diverse tra di loro. Con l’introduzione di nuovi e più ampi parametri che tengono conto anche delle variabili relative al contesto e al soggetto, si ha un mutamento della rilevazione della povertà. Infatti, se da un lato questa visione del fenomeno che include anche aspetti non solo strettamente legati alla disponibilità economica riesce a fornirci dati più precisi e mirati, dall’altro rende più difficile la sua stessa rilevazione.

2.3 I diversi indicatori di povertà ed esclusione sociale utilizzati dall’U.E.

Anche l’Unione Europea, in quando entità politica che accoglie al suo interno vari Stati, ha elaborato una propria strategia di lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Nel 2000 infatti, è stato creato il MAC, Metodo di Aperto Coordinamento, inserito nel quadro della politica dell’occupazione con l’obiettivo di eliminare la povertà entro il 2010. Questo metodo fornisce una strategia di cooperazione tra i veri Stati membri al fine di far convergere le politiche nazionali per il raggiungimento di obiettivi comuni in ambiti quali l’occupazione, la protezione sociale, l’inclusione sociale, l’istruzione, la gioventù e la formazione e si basa su tre punti chiave, ovvero: • “identificazione e definizione congiunta di obiettivi da raggiungere • strumenti di misura definiti congiuntamente • analisi comparativa dei risultati degli Stati membri e lo scambio di pratiche ottimali.”68 Come possiamo osservare quindi, sebbene le misure indicate dal MAC non siano vincolanti per gli Stati membri e non rappresentino direttive o regolamenti imposti, sono comunque un grande tentativo di far convogliare gli sforzi delle singole nazioni. L’aspetto più importante di questo metodo, oltre a quello della collaborazione, è

68

Fonte: http://europa.eu/legislation_summaries/glossary/open_method_coordination_it.htm

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rappresentato dal confronto, in quanto ogni Stato ha così la possibilità di rapportarsi agli altri membri non solo per la rilevazione della povertà ma anche per le strategie adottate. A fine dello stesso anno, il 2000, vengono stabiliti i criteri comuni per definire il carattere multidimensionale della povertà. I punti centrali della politica di lotta alla povertà adottata dall’Unione Europea sono il sostegno al lavoro e alla protezione sociale, obiettivi perseguiti attraverso l’istituzione dei Piani di zona nazionale di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, ovvero i NAP, che vengono elaborati a cadenza biennale a partire dal giugno del 2010. All’interno di questo scenario, ogni stato è libero di scegliere le proprie strategie di azione tenendo però ben presenti alcuni obiettivi comuni quali: •“promuovere la partecipazione all’occupazione e l’accesso di tutti alle risorse, ai diritti, ai beni e ai servizi • prevenire i rischi di esclusione • intervenire a favore dei soggetti più vulnerabili • mobilitare l’insieme degli attori.”69 Per poter rilevare l’efficacia delle misure adottate però, è necessario stabilire degli indicatori comuni e condivisibili da tutti gli Stati, che permettano di analizzare i risultati raggiunti sia in maniera singola che in relazione alle altre nazioni. Nel 2001 a Laeken si tiene un altro Consiglio Europeo in cui di nuovo il tema della lotta alla povertà è una delle questioni centrali; si legge infatti proprio nel rapporto stilato alla fine dell’incontro:

“Il rallentamento della crescita rende sempre più importante realizzare le riforme strutturali concordate a Lisbona e a Stoccolma e mostrare chiaramente che il nostro programma relativo alle questioni economiche e sociali e allo sviluppo sostenibile, mantiene tutta la sua rilevanza per i cittadini e le imprese dell'Europa. Dovremmo avvalerci degli indicatori strutturali che abbiamo convenuto per valutare i nostri progressi e focalizzare la nostra attività. Per far sì che il Consiglio europeo disponga di 69

COMMISSIONE EUROPEA, Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale (2010), Bruxelles, 2008.

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una visione d'insieme della situazione e possa assicurare la coerenza delle sue decisioni, i vari processi preparatori dovranno convergere verso il Consiglio europeo di primavera.”70

A partire da questo momento si istituiscono gli indicatori di Laeken, che mirano ad impedire la trasmissione della povertà da una generazione all’altra, interrompendo così il circolo vizioso, e a promuovere l’inclusione attiva nella società. Vengono così individuati dieci indicatori ritenuti fondamentali riguardanti il rischio di povertà, la disuguaglianza di distribuzione del reddito, la disoccupazione, l’aspettativa di vita alla nascita, la coesione sociale, l’abbandono scolastico e l’autovalutazione dello stato di salute. Sono inoltre stabiliti altri otto indicatori secondari da considerarsi di ausilio ai primi dieci per fornire ulteriori informazioni sul rischio di povertà. Nel 2006 questa scala viene revisionata e si arriva alla stesura dell’Overarching Portfolio che comprende una serie di indicatori primari e secondari, tredici in tutto, di cui più di metà sono ripresi direttamente da quelli di Laeken in quanto ritenuti comunque imprescindibili per il monitoraggio dell’esclusione sociale e della povertà.71 Ma per poter mettere in pratica le indicazioni date dall’Unione Europea, è necessario prima stabilire come e in che misura la povertà incida sulla popolazione totale in modo da poter capire come agire in maniera mirata e specifica. Per raggiungere tale scopo, in Italia l’ISTAT si avvale dell’utilizzo dell’Indicatore della Situazione Patrimoniale (ISP) al fine di rilevare l’incidenza della povertà relativa usando i dati derivanti dall’indagine annuale sui consumi delle famiglie. In questo modo è possibile determinare una soglia di reddito ritenuta minima per garantire la copertura delle spese indispensabili per il mantenimento della famiglia stessa, ovvero si calcola il rapporto tra entrate reali e uscite presupposte all’interno del nucleo familiare. Per poter invece mettere in relazione e comparare tra di loro famiglie composte da un numero diverso di persone, il metodo più diffuso è quello di uso della scala Carbonaro72

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Conclusioni della presidenza – Consiglio di Laeken, 14 e 15 dicembre 2001. Fonte: www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/.../it/.../68836.pdf. 71 FRANCESCO MARSICO, ANTONELLO SCIALDONE, Comprendere la povertà: modelli di analisi e schemi di intervento nelle esperienze di Caritas e Isfol, Maggioli Editore, Repubblica di San Marino, 2009, pag. 50. 72 Dal nome del suo ideatore che l’ha messa a punto nel 1985.

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, che fornisce dati relativi alla messa in rapporto di nuclei familiari differenti e pertanto con diverse esigenze a seconda della composizione.73 L’insieme dei dati risultanti da queste rilevazioni offre una visione abbastanza ampia e accurata della diffusione della povertà in Italia al fine di individuare le aree (a livello geografico e di fascia della popolazione) che necessitano di maggiori interventi sia di prevenzione che di contrasto, e di individuare soluzioni mirate e strategiche. Ogni paese dell’Unione Europea utilizza proprie scale di valori e si affida a vari enti per le proprie rilevazioni con lo scopo di raccogliere dati che gli permettano di mettere in atto in seguito, le indicazioni del Consiglio Direttivo tenendo presente sia il panorama nazionale in sé che il rapporto tra questo e la propria situazione in relazione con quello degli altri paesi. L’individuazione di obiettivi comuni e strategie condivisibili e applicabili su tutto il territorio dell’Unione, vuole costituire pertanto il primo passo per una risoluzione globale del problema in un percorso in cui vengano coinvolti tutti i governi e che possa permettere a tutti i cittadini di avere accesso a mezzi e servizi che garantiscano uno stile di vita che si collochi al di sopra della soglia di povertà.

2.4 Indicatori trasversali per uno sviluppo sostenibile

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, l’Unione Europea, con l’insieme delle sue direttive e degli obiettivi che essa stessa si è posta, dimostra una ferma volontà di voler applicare una strategia di lotta alla povertà in cui il soggetto interessato sia parte integrante del processo e non semplice fruitore finale. Oltre a questo però, si è deciso di adottare una linea di azione che dia allo stesso tempo vita anche a un percorso di sviluppo sostenibile, ovvero uno sviluppo che permetta di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle future di soddisfare i loro. Secondo la definizione di Berti, infatti: “Lo sviluppo sostenibile è un processo nel quale lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo 73

STEFANO TOSO, Selettività e assistenza sociale. Vecchi e nuovi criteri di means-testing nella spesa di Welfare in Italia, Franco Angeli, Pp. 174-175.

48


tecnologico e il cambiamento istituzionale sono tutti in armonia, e accrescono le potenzialità presenti e future per il soddisfacimento delle aspirazioni e dei bisogni umani. […] Troppo spesso sono stati preferiti risultati economici immediati, anche se dietro di sé hanno lasciato un deserto in termini di risorse, di valori, di esperienze; il riferimento alla sostenibilità richiama alla necessità di operare utilizzando una scala temporale diversa rispetto a quella correntemente usata in economia.”74

Il cambio di tendenza delle nuove politiche dell’Unione Europea a questo proposito segna sicuramente un punto di svolta rispetto alla direzione seguita precedentemente. Infatti, tenere conto non solo del presente ma anche del futuro è senza dubbio una presa di coscienza non da poco e sottolinea la volontà di compiere scelte oculate che possano preservare la generazioni presenti e anche quelle a venire. Per fare questo però, occorre stabilire e determinare alcuni indicatori chiave da utilizzare sia per analizzare la situazione di partenza sia per avere un riscontro dell’effettivo successo delle strategie adottate a riguardo. Ed è la stessa Unione Europea a sottolineare a tale riguardo che:

“Le tre componenti dello sviluppo sostenibile (economica, sociale e ambientale) devono essere affrontate in maniera equilibrata a livello politico.”75

In un quadro più ampio, sviluppo sostenibile significa anche permettere un livello di benessere accettabile ai cittadini europei senza però compromettere l’ambiente in cui essi vivono e le risorse naturali che lo compongono, riducendo al minimo l’impatto delle attività umane sul territorio e sugli elementi che lo costituiscono. Si vengono così a trovare in stretta relazione sia la lotta contro la povertà che la salvaguardia dell’ambiente.

74 75

FABIO BERTI, Per una sociologia della comunità, Franco Angeli, Milano, 2005, p. 162. Fonte: http://europa.eu/legislation_summaries/environment/sustainable_development/index_it.htm

49


Questo concetto viene ribadito dalla stessa Unione Europea nella presentazione del comunicato “Integration of the environment in the economic policy76” con queste parole:

“This communication takes as its premise, that there is no inherent contradiction between economic growth and the maintenance of an acceptable level of environmental quality. So measures to integrate environmental and economic policies should simultaneously reduce pollution and improve the functioning of the economy.”77

Fino a ora abbiamo parlato soprattutto di due indicatori, che sono ritenuti i principali, ovvero reddito e consumi. Questi due indicatori, tuttavia, offrono solo un panorama statico della condizione di povertà e non permettono di analizzare il fenomeno dal punto di vista della sua mutevolezza; per questo è stato deciso di utilizzare degli indicatori trasversali che consentano di rilevare e analizzare il fenomeno in una prospettiva più ampia. Come riportato nel Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alle statistiche comunitarie sul reddito e sulle condizioni di vita del 2003, infatti:

“Il nuovo metodo aperto di coordinamento nel settore dell'inclusione sociale e gli indicatori strutturali da elaborare per la relazione annuale di sintesi rendono sempre più necessario disporre di dati comparabili e tempestivi sia trasversali sia longitudinali sulla distribuzione del reddito, nonché sul livello e sulla composizione della povertà e dell'esclusione sociale, per poter effettuare comparazioni attendibili e pertinenti tra gli Stati membri.”78

76

Integrazione dell’ambiente nella politica economica Fonte: http://europa.eu/legislation_summaries/environment/sustainable_development/l28018_en.htm 78 Regolamento (CE) n. 1177/2003 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 giugno 2003, relativo alle statistiche comunitarie sul reddito e sulle condizioni di vita. Fonte: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32003R1177:IT:HTML 77

50


E successivamente:

“La priorità dovrebbe essere attribuita all'elaborazione di dati trasversali annuali tempestivi e comparabili sul reddito, sulla povertà e sull'esclusione sociale.”79

Tale documento sottolinea particolarmente l’importanza di raccogliere microdati sulla situazione dei singoli e delle famiglie in maniera capillare, al fine di poter elaborare statistiche comunitarie e avere un quadro generale il più completo possibile, sulla base dei dati raccolti dai singoli paesi. Per raggiungere questo scopo, occorre svolgere indagini approfondite e dettagliate che non si limitino a rilevare semplicemente il rapporto tra reddito e consumo ma, cerchino di entrare più nello specifico e di analizzare il reale livello di benessere della popolazione. Secondo l’Unione Europea, questo benessere non può essere raggiunto se non si tiene conto anche dei fattori ambientali che influenzano l’esistenza dell’uomo, in quanto elementi integranti del luogo in cui l’essere umano vive e svolge le proprie attività. Come risulta evidente dalla comunicazione della Commissione europea redatta nel 2009, questo legame si è fatto ancora più saldo negli ultimi anni in cui:

“L'attuale crisi economica e finanziaria ha dimostrato che la sostenibilità è un fattore fondamentale anche per i nostri sistemi finanziari e per l'intera economia.”80

Alla luce di questa affermazione, pertanto:

“Nel novembre 2008 la Commissione ha varato un importante piano di ripresa per la crescita e l’occupazione, che contiene proposte di investimenti intelligenti nelle competenze e nelle tecnologie del futuro per contribuire a 79

Ibidem Commissione delle Comunità Europee, comunicazione della Commissione al parlamento europeo, al consiglio, al comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Integrare lo sviluppo sostenibile nelle politiche dell’UE: riesame 2009 della strategia dell’Unione europea per lo sviluppo sostenibile, Bruxelles, 2009, p. 2. 80

51


una crescita economica più forte e a una prosperità sostenibile a lungo termine.”81

In questo documento viene sottolineata l’importanza dell’applicazione di misure che mirino al contempo a sostenere l’economia e che risultino compatibili con gli obiettivi di sostenibilità a lungo termine, sia finanziaria che ecologica. Viene pertanto ribadito il concetto secondo cui occorre adoperarsi per lo sviluppo di una società che faccia un basso uso delle risorse e che sia socialmente inclusiva. Si afferma inoltre che le “misure verdi” riescono sia a rilanciare l’economia e a creare nuovi posti di lavoro (risultati a breve termine) che a ridurre l’impatto umano sui cambiamenti climatici, l’esaurimento delle risorse naturali e il degrado degli ecosistemi (risultati a medio – lungo termine); l’assunzione di un impegno su questo fronte quindi, costituisce una doppia strategia di azione. Per riuscire concretamente a mettere in atto questo tipo di tendenza, l’Unione Europea ha individuato alcune strategie che tendono a promuovere l’adozione di “comportamenti sostenibili”, da parte dei singoli e delle aziende, attraverso il principio di RSI82, che prevede il dialogo tra queste e la Commissione Europea. I principi su cui sono imperniate queste strategie sono riassunti in una lista stilata dalla stessa Unione Europea:

• “promozione e tutela dei diritti fondamentali • solidarietà intra e intergenerazionale • garanzia di una società aperta e democratica • partecipazione dei cittadini, delle imprese e delle parti sociali • coerenza e integrazione delle politiche • utilizzo delle migliori conoscenze disponibili • principi di precauzione e del “chi inquina paga.” 83

Anche il lavoro sui cambiamenti climatici e la valutazione dell’impatto sulla sostenibilità relativo agli accordi di libero scambio sono entrati a far parte dell’agenda 81

Ibidem. Responsabilità Sociale delle Imprese. 83 Fonte: http://europa.eu/legislation_summaries/environment/sustainable_development/l28117_it.htm 82

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europea; a tale riguardo gli Stati membri stanno sviluppando soluzioni innovative in materia di sviluppo sostenibile.84 Oltre a queste disposizioni interne, gli Stati europei, in quanto membri delle Nazioni Unite, hanno aderito anche al protocollo di Kyoto partecipando ad un piano per lo sviluppo sostenibile e la lotta all’inquinamento di livello pressoché mondiale. Il protocollo di Kyoto è un accordo internazionale sui cambiamenti climatici nato dall’esigenza di ridurre le emissioni di gas responsabili dell’effetto serra da parte dei paesi industrializzati. È il primo e unico accordo a livello internazionale che tende a ridurre l’impatto dell’attività umana sul riscaldamento globale. Stilato durante la conferenza di Kyoto del 1997 e sottoscritto da più di 160 paesi, stabilisce tempi e procedure ben precisi per raggiungere l’obiettivo. I punti chiave del protocollo sono: riduzione di almeno il 5% delle emissioni di ogni paese entro il 2012, protezione di boschi, foreste e terreni in grado di assorbire anidride carbonica, calcolo e controllo delle emissioni gassose di ogni paese, l’esportazione di tecnologie pulite verso i paesi in via di sviluppo.85 La Commissione europea ha sottoscritto il trattato nell’aprile del 1998 e gli Stati membri si sono impegnati a depositare i loro strumenti di ratifica contemporaneamente alla Comunità cercando di rispettare la scadenza del 1 giugno 2002. L’Unione Europea ha stabilito che gli Stati membri fossero tenuti a ridurre collettivamente le loro emissioni di gas dell’8%, segnando così un ulteriore passo avanti rispetto a quanto indicato dal protocollo. Per raggiungere tale obiettivo sono state adottate misure specifiche a favore del clima e dell’energia come: “• il miglioramento del sistema comunitario di scambio delle quote di emissioni • la riduzione di emissioni nei settori non coperti dal sistema comunitario di scambio delle quote di emissioni • il settore delle energie rinnovabili • la cattura e lo stoccaggio del biossido di carbonio 84 85

Commissione delle Comunità Europee, op. cit., p. 4. Fonte: http://www.lifegate.it/ambiente/articolo.php?id_articolo=1845

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• le emissioni di carbonio di vetture nuove • la qualità dei carburanti.”86

Successivamente all’applicazione di queste misure, Jacqueline McGlade, direttore esecutivo dell'Agenzia europea dell'ambiente, ha dichiarato quest’anno:

“I risultati in termini di emissioni rimangono eterogenei nell'UE a quindici. Alcuni Stati membri non sono ancora in linea con i loro obiettivi di Kyoto. Tuttavia, se si tiene conto dei risultati eccezionali attesi da altri Stati membri, nel suo insieme l'UE a 15 dovrebbe rispettare il proprio impegno di Kyoto.”87

Possiamo pertanto affermare che l’adesione al protocollo di Kyoto ha dato risultati positivi e ha segnato una presa di coscienza da parte dell’Unione Europea riguardo al proprio impatto ambientale. Ma nonostante i risultati già ottenuti, quello dello sviluppo sostenibile è un cammino ancora lungo che non può basarsi solo su risultati a breve termine. È

la

stessa

Unione

Europea,

a

conclusione

della

propria

comunicazione

sull’integrazione dello sviluppo sostenibile nelle politiche dell’Unione ad affermare che:

“Malgrado i notevoli sforzi fatti per integrare le azioni a favore dello sviluppo sostenibile nelle principali politiche comunitarie, sussistono tendenze non sostenibili e l’UE deve intensificare ulteriormente i suoi sforzi. Come dimostra l’esempio dei cambiamenti climatici, un intervento tempestivo permette di ottenere maggiori benefici, più rapidamente e a un costo inferiore.”88

86

Fonte: http://europa.eu/legislation_summaries/environment/tackling_climate_change/l28060_it.htm Fonte: http://www.eea.europa.eu/it/pressroom/newsreleases/l2019ue-a-15-rispetta-la-tabella-di-marciadi-kyoto-nonostante-i-risultati-diseguali 88 Commissione delle Comunità Europee, op. cit., p. 16. 87

54


La strada da percorrere è ancora tanta e richiede un impegno costante da parte di tutti gli Stati membri e una volontà a proseguire in questa direzione sia da parte delle istituzioni che delle imprese e anche dei singoli cittadini, ma realizzare che la lotta alla povertà e all’integrazione sociale non possa prescindere da quella per la difesa dell’ambiente segna senza ombra di dubbio un ottimo punto di partenza su cui continuare a lavorare.

55


Capitolo terzo Politiche e strumenti di intervento

Nei capitoli precedenti di questo elaborato si è parlato della povertà sotto il suo aspetto di

“fenomeno”. Alla luce di quanto sopra, si è tentato di capire quali siano le

ripercussioni che la povertà può generare sui vari ambiti della vita dell’uomo e in che modo incida sul suo sviluppo sia come singolo che come comunità. Nei paragrafi successivi cercheremo di analizzare in che modo i governi, gli enti e le associazioni intervengano in maniera specifica per cercare di contrastare il fenomeno. Questo significa che ci concentreremo maggiormente su quelli che sono gli strumenti di azione e le politiche mirate a sconfiggere la povertà e a promuovere l’inclusione sociale. Per fare questo cercheremo di compiere una panoramica sui metodi più utilizzati tentando di individuarne punti di forza e debolezza.

3.1 La legislazione sociale

Già da tempo sono in corso riforme del welfare statale all’interno dell’Unione Europea. Si è cercato di considerare l’esclusione sociale come un problema da risolversi non con l’elargizione di un reddito da parte dello Stato ma con la partecipazione attiva al mondo del lavoro. In questo modo è possibile non soltanto favorire la partecipazione degli individui al mercato del lavoro ma anche ridurre la spesa della sicurezza sociale, diminuendo il numero delle persone che a essa fanno ricorso.89 Come abbiamo avuto modo di vedere nel precedente capitolo, l’Unione Europea ha emesso varie disposizioni in materia di lotta alla povertà. Oltre a queste però, ha messo a punto delle strategie mirate che favoriscono l’inclusione sociale e prevedono interventi specifici su diversi ambiti. Questa multisfaccettatura ha lo scopo di cercare di

89

RIK VAN BERKEL, Inclusione attraverso la partecipazione? Riflessione sulle politiche di attivazione nell’Unione Europea, in VANDO BORGHI (a cura di), Vulnerabilità, inclusione sociale e lavoro – Contributi per la comprensione dei processi di esclusione sociale e delle problematiche di policy, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 206.

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dare risposta e soluzione a tutta quella serie di problematiche che, nel loro insieme, compongono il fenomeno dell’esclusione sociale. Principalmente gli sforzi dell’Unione tendono a stabilire delle misure comuni condivise da tutti gli Stati membri, che incentivino l’ingresso nel mondo del lavoro e favoriscano la protezione e l’inserimento sociale degli individui. Nello specifico, il Programma comunitario per l’occupazione e la solidarietà, stabilisce che le attività in materia di occupazione, protezione e inserimento sociale debbano essere raggruppate in un unico piano d’azione chiamato PROGRESS che si articola in sei punti: • migliorare la conoscenza e la comprensione della situazione sociale negli Stati membri tramite l’analisi, la valutazione e il controllo attento delle politiche; • sostenere l’elaborazione di strumenti e di metodi statistici, nonché di indicatori comuni; • sostenere e seguire l’attuazione della legislazione e degli obiettivi politici; • promuovere la creazione di reti, l’apprendimento reciproco, nonché l’indivi-duazione e la diffusione delle buone procedure da seguire a livello dell’Unione; • far conoscere alle parti interessate e al grande pubblico le politiche dell’Unione europea (UE) perseguite in materia di occupazione, di protezione e di integrazione sociali, di condizioni di lavoro, di lotta contro la discriminazione, di diversità, nonché di pari opportunità tra le donne e gli uomini; • potenziare la capacità delle principali reti dell’UE di promuovere e sostenere le politiche dell'Unione.90 Questo insieme di punti tende a creare un tessuto formato dall’intreccio di più elementi, tutti riconducibili alla dimensione di povertà, all’emarginazione e al loro abbattimento. In questo ambito rientrano anche tematiche quali l’occupazione, la protezione e l’inserimento sociali, le condizioni di lavoro, la lotta contro la discriminazione e la

90

Fonte: http://europa.eu/legislation_summaries/employment_and_social_policy/social_inclusion_fight_against_p overty/c11332_it.htm

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diversità e l’uguaglianza fra i generi. Tutti questi elementi sono ritenuti imprescindibili per garantire a tutti i cittadini un livello di benessere e delle condizioni di vita minime. Per migliorare la situazione occupazionale, l’Unione Europea promuove la raccolta di dati e lo scambio di politiche e strategie tra i vari stati, oltre al dialogo tra governi ed enti locali. Riguardo alla promozione sociale, questo sistema viene applicato mirando soprattutto al potenziamento del MAC, mentre per le condizioni di lavoro la strategia europea utilizzata, punta soprattutto al miglioramento di tali condizioni. A tale proposito l’Europa si concentra in primo luogo sull’applicazione delle norme comunitarie in materia di sicurezza e nel favorire la cultura della prevenzione.91 Oltre che il singolo individuo, l’Unione Europea ha deciso di salvaguardare anche le aziende, poiché queste costituiscono la principale fonte di posti di lavoro. Proprio a questo scopo ha istituito un sistema di microfinanza che permette alle piccole imprese (in particolar modo a quelle che operano nel settore dell’economia sociale o che assumono persone socialmente non integrate) escluse dal sistema di credito bancario tradizionale di chiedere piccoli prestiti. Si tratta comunque di prestiti inferiori ai 25mila euro che possono essere richiesti soltanto da lavoratori autonomi o da imprese con meno di dieci dipendenti.92 Questo strumento, nato nei paesi in via di sviluppo negli anni ‘80, si è successivamente esteso anche in quelli industrializzati, all’interno dei quali sono presenti i fenomeni della disoccupazione e dell’emarginazione.93 Questo sistema non prevede l’erogazione diretta dei prestiti ma concede fondi in gestione a intermediari (generalmente gli stessi governi o altri organismi) che si occupano della gestione dei crediti per conto dell’Unione Europea.94 Il microcredito95 rappresenta uno degli strumenti principali adottati dall’Unione Europea al fine di raggiungere gli obiettivi stabiliti dal Rapporto della Commissione sull’inclusione attiva delle persone escluse dal mercato del lavoro dell’ottobre del 2008.

91

Fonte: http://europa.eu/legislation_summaries/employment_and_social_policy/social_inclusion_fight_against_p overty/c11332_it.htm 92 Fonte: http://ec.europa.eu/contracts_grants/microfinance_it.htm 93 C. BORROMEO, I° rapporto sul microcredito in Italia, Rubbettino editore, s. l., 2005, p. 12. 94 Fonte: http://ec.europa.eu/contracts_grants/microfinance_it.htm

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In questo rapporto si raccomanda agli Stati membri di adottare strategie volte a favorire l’inclusione attiva dei soggetti esclusi, combinando tre aspetti chiave, ovvero: • garanzia di entrate economiche sufficienti • creazione di mercati del lavoro inclusivi • possibilità di accesso a servizi di qualità. Queste misure dovranno tendere a fornire i mezzi necessari a vivere con dignità (primo tra tutti un impiego) coordinando il lavoro dei vari enti locali e coinvolgendo in maniera radicale i soggetti direttamente interessati.96

3.2 L’inclusione sociale come strumento di contrasto alla povertà

Possiamo quindi riassumere, secondo quanto visto nel paragrafo precedente, che la strategia dell’Unione Europea, nella sua globalità, punti principalmente, oltre che a dare un sussidio immediato, a creare un percorso che coinvolga l’individuo e lo renda attore principale. Per fare questo, si cerca di fornire al singolo i mezzi necessari per la sua indipendenza, in modo che sia capace di provvedere da solo al proprio sostentamento, restituendogli così una condizione di vita accettabile e la propria dignità personale. Tutto questo rientra a far parte di quella che viene definita come “inclusione sociale”, ovvero quel processo che mira a far sì che ogni cittadino sia parte attiva del tessuto sociale in cui vive, inclusa anche la sua partecipazione ai decisionali. Ma il raggiungimento di questo obiettivo passa inevitabilmente per il sostegno economico a favore del singolo e delle famiglie. Il governo italiano sottolinea come:

95

Il potenziale contributo del microcredito alla lotta alla povertà è oggi riconosciuto anche dalle grandi istituzioni mondiali deputate a sostenere lo sviluppo: Banca Mondiale; Fondo Monetario Internazionale; Nazioni Unite. Fonte: http://www.utopie.it/economia_sostenibile/microcredito.htm 96 Fonte: http://europa.eu/legislation_summaries/employment_and_social_policy/social_inclusion_fight_against_p overty/em0009_en.htm

59


“Le politiche nazionali per l’inclusione sociale si caratterizzano […] come l’insieme delle misure nazionali volte a sostenere i redditi delle persone e delle famiglie.”97

L’Unione Europea stabilisce, all’interno del trattato di Amsterdam entrato in vigore nel 1999, gli orientamenti nel campo della politica per l’occupazione. In merito a ciò, estende l’intervento in ambito sociale e occupazionale, includendo in esso anche la formazione e la consultazione dei lavoratori stessi, la parità tra i generi e l’integrazione dei soggetti esclusi dal mercato del lavoro. A partire da questa premessa, il Consiglio di Lisbona dell’anno seguente sancisce come obiettivo primario quello dell’inclusione sociale all’interno della strategia per la crescita e la competitività.98 In questo contesto, le strategie di lotta alla povertà si concretizzano principalmente negli sforzi per promuovere la partecipazione al mercato del lavoro favorendo l’inserimento o il reinserimento dei soggetti a rischio di esclusione sociale, tenendo conto dei vari tipi di esclusione e della molteplicità delle problematiche degli individui (ad esempio immigrati, portatori di handicap, detenuti ecc.).99 Nel contesto italiano, le strategie messe in atto si dividono su tre diversi livelli, ovvero: • locale, in cui le Regioni valutano il Piano provinciale sull’inclusione sociale presentato dai vari soggetti coinvolti nella gestione del problema, sia pubblici che privati, e successivamente aprono un tavolo di confronto con questi ultimi per il monitoraggio e la valutazione della situazione locale. • nazionale, per cui il governo fa da tramite tra l’Unione Europea e le Regioni spiegando a queste ultime quali sono i punti e le linee guida definite a livello comunitario al fine di stendere un Piano nazionale d’azione sull’inclusione sociale. • europeo, per mezzo del quale viene definita una strategia comune a tutti gli Stati membri in materia di inclusione sociale che comprende indicatori, piani d’azione ed

97

Fonte: http://www.lavoro.gov.it/Lavoro/md/AreaSociale/Inclusione/ VALERIA CIOCCOLO, PAOLA FURFARO, PAOLA PIRAS, Il punto su… – inclusione sociale, ISFOL, s. l., 2005, p. 4. 99 Ibidem, p. 7. 98

60


esame degli stessi al fine di valutare i risultati ottenuti e valorizzare le dinamiche che si sono rivelate vincenti.100 L’Unione Europea individua pertanto l’inclusione al mondo di lavoro come strumento principale per l’inclusione sociale e adotta politiche che convoglino in questa direzione gli sforzi di tutti gli Stati membri. Lo scopo è quello di creare un tessuto sociale da cui nessuno sia escluso e in cui tutti i suoi cittadini possano essere protagonisti diretti, prendendo parte al processo produttivo e decisionale.

3.3 Le politiche di sostegno al reddito

Le politiche di inclusione nel mercato del lavoro perseguono un obiettivo a medio-lungo termine; per questo l’Unione Europea ha nel contempo attuato misure di sostegno al reddito, che costituiscono invece un aiuto immediato alle famiglie e ai soggetti che si trovano in situazione di povertà. Si tratta quindi di una doppia linea di azione che da un lato cerca di spianare la strada per il futuro rendendo le persone indipendenti e capaci di provvedere a se stesse in modo autonomo, e dall’altra “tampona” una situazione critica che richiede un intervento tempestivo e immediato. Ad ogni modo, non bisogna dimenticare che il sostegno economico non deve essere visto come l’unico (né il principale) strumento di lotta alla povertà e neanche come il fattore maggiormente determinante delle sue strategie, ma come uno degli elementi contenuti in un insieme di manovre e soluzioni ben più ampio.101 Le politiche di sostegno al reddito costituiscono quindi un gettito diretto di denaro, che può essere parziale o totale, ovvero può costituire una integrazione al reddito (nel caso di soggetti occupati) o il totale delle entrate (nel caso di soggetti disoccupati).

100

Ibidem, p. 8. CHIARA SARACENO (a cura di), Le dinamiche assistenziali in Europa – Sistemi nazionali e locali di contrasto alla povertà, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 17.

101

61


Ma le differenze nell’attuazione di queste misure sono molto accentuate tra i vari paesi dell’Unione e presentano differenze sostanziali sotto diversi aspetti, riassumibili principalmente in quattro punti fondamentali: • l’esistenza o meno di un esplicito insieme di misure rivolte a chi si trova in povertà (non è detto che tutti i Paesi abbiano un sistema di sostegno economico o che questo sia sviluppato tanto come nelle altre nazioni); • il grado di categorialità o viceversa universalismo di queste misure (ogni paese stabilisce in maniera autonoma se erogare i propri servizi a chiunque o solo a una fascia di popolazione che risponda a determinati requisiti); • la maggiore o minore distanza del sostegno economico dal livello di pura sussistenza (il sostegno può essere semplicemente un’erogazione di denaro a fondo perduto o includere anche altre misure correlate); • il tipo di obbligazioni che richiedono ai beneficiari (i soggetti coinvolti possono essere tenuti a frequentare corsi di formazione o a essere alla ricerca attiva di un impiego).102 Anche questo tipo di sostegno, come tutti gli altri attuati nel campo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale, necessita di una analisi successiva alla propria attuazione per poter così stabilire gli effettivi miglioramenti apportati dalle strategie messe in atto. A tale scopo, volendo comparare i risultati ottenuti tra diverse città, appartenenti o meno a nazioni diverse, occorre stabilire quali siano i punti salienti da prendere in esame e gli obiettivi che ci si propone di raggiungere. Ma di nuovo ci troviamo davanti al problema costituito dal fatto che diversi contesti presentano diverse problematiche, composizioni sociali, punti di partenza e di arrivo dei percorsi personali e della comunità. Proprio riguardo a questo, Chiara Saraceno propone la divisione dei risultati ottenuti in tre livelli di analisi al fine di stabilire nella maniera più dettagliata possibile la loro reale efficacia. Il primo livello individuato riguarda il contesto socio-demografico di applicazione di una data misura. In questo caso, la differenza della composizione del mercato del

102

CHIARA SARACENO (a cura di), op. cit., pp. 13-14.

62


lavoro, dell’età media della popolazione e dell’incidenza dei fenomeni migratori tra le varie aree gioca un ruolo fondamentale. Il secondo livello non deve tralasciare il fatto che le misure di sostegno al reddito vengono applicate all’interno di sistemi di riferimento culturale differenti tra di loro. Bisogna, cioè, tener conto del fatto che la definizione di “povertà” varia da contesto a contesto e che la condizione del soggetto ritenuto povero non è la stessa in ogni luogo ma cambia a seconda della struttura sociale in cui esso è inserito. Il terzo livello è quello che include le misure di sostegno al reddito all’interno di tutto l’insieme di misure di protezione sociale attuate, prendendole in esame nel loro insieme, comprese anche forme di solidarietà costituite da sistemi quali la famiglia e i gruppi sociali o da associazioni ed enti no-profit.103 È quindi dall’insieme di tutti questi indicatori, presi in esame nella loro globalità, che bisogna ricercare una valutazione di insieme degli effettivi risultati portati dalle politiche messe in atto a livello nazionale e locale.

3.4 Le politiche di empowerment

Uno degli ostacoli maggiori per l’accesso al mercato del lavoro è costituito dalla mancanza di formazione e di adeguata preparazione delle persone in cerca di occupazione. Poiché questo fenomeno risulta essere in continuo aumento, l’Unione Europea ha deciso di fornire l’opportunità di completare corsi di studio o intraprendere nuove carriere di apprendimento, al fine di migliorare le qualifiche personali e far sì che i soggetti interessati possano rinnovarsi ed essere inclusi all’interno del mercato del lavoro. Ciò equivale a dire che bisogna valorizzare la persona, con tutto l’insieme delle sue conoscenze, esperienze personali e valore umano, rendendola così un “capitale” su cui si possa investire piuttosto che inserirla in maniera passiva nel mercato del lavoro. Da una prima analisi è risultato però che spesso a usufruire dell’offerta formativa per adulti sono soprattutto individui già in possesso di titoli di studio, mentre chi si trova in

103

CHIARA SARACENO (a cura di), op. cit., pp. 67-68.

63


una reale situazione di svantaggio sociale tende a restare escluso da questo processo non accedendo alle offerte formative.104 La partecipazione spontanea a questo tipo di percorso resta limitata e spesso le persone arrivano a frequentare corsi di formazione professionale sotto raccomandazione dei centri per l’impiego o delle associazioni che si occupano di inclusione sociale. A tale proposito l’Unione Europea ha studiato un piano per favorire l’apprendimento e l’accesso ai percorsi di formazione chiamato ProSkills. Secondo la definizione dell’Unione: “Il programma PROSKILLS intende promuovere e valorizzare le abilità personali e sociali (life skills) necessarie nei percorsi di apprendimento permanente ed è rivolto a giovani adulti in situazioni di vulnerabilità e svantaggio sociale.”105 Le finalità del programma si articolano in vari punti principali e sono:

“• Contribuire a migliorare l’offerta nel settore dell’apprendimento permanente • Promuovere le abilità sociali e personali nei giovani adulti in situazioni di vulnerabilità e svantaggio sociale per aumentare la partecipazione nei programmi formativi e rendere maggiormente efficaci i percorsi di reintegrazione • Assicurare equità nell’offerta nei programmi di formazione e apprendimento a tutti i soggetti, considerando in particolare le persone in svantaggio sociale • Ideare e diffondere una metodologia formativa caratterizzata dall’approccio esperienziale; • Promuovere i metodi attivi nella formazione; • Favorire un confronto a livello europeo; • Formare i professionisti che lavorano a contatto con i giovani in svantaggio sociale; • Sensibilizzare politici e decisori del settore educazione; • Promuovere l’interdisciplinarietà e lo scambio culturale.”106 L’importanza di questo progetto è determinata soprattutto dai punti di svolta che segna con le precedenti politiche riguardanti la formazione. 104

COMMISSIONE EUROPEA, Raccomandazioni per promuovere strategie di empowerment dei soggetti in svantaggio sociale, CePT, Lussemburgo, 2008, pagina non numerata. 105 Fonte: http://www.pro-skills.eu/it/ 106 Fonte: http://www.pro-skills.eu/it/

64


Il programma, infatti, per la prima volta inserisce nella valutazione nei curricula non solo i titoli di studio ma anche le abilità personali e sociali proprie dell’individuo, che vanno in questo modo a integrare e completare le conoscenze acquisite attraverso il percorso di studi svolto. Inoltre la metodologia pro-skills predilige l’apprendimento pratico a quello teorico, permettendo ai soggetti coinvolti di entrare in contatto con il mondo del lavoro e di fare esperienza sul campo acquisendo in questo modo non solo nozioni teoriche ma reali abilità pratiche. Infine, il progetto sottolinea l’importanza di porsi obiettivi a lungo termine, ovvero di non focalizzarsi solo sulla realizzazione di un progetto limitato a un periodo di tempo finito ma di dare vita a un processo che dia risultati stabili a lungo termine e applicabili in più contesti.

107

In altre parole, più che puntare a un determinato posto di lavoro, si

cerca di dare al soggetto conoscenze più ampie che questi possa in futuro applicare a più campi, aumentando così le sue possibilità di successo. L’unione di questi punti dà vita a un progetto che ha lo scopo di raggiungere un obiettivo già precedentemente stabilito dall’Unione stessa, ovvero quello della formazione professionale e dell’educazione permanente per tutti108 stabilito in questi termini:

“I cittadini devono essere in grado di acquisire le capacità, le conoscenze e le competenze loro richieste nell’odierna economia basata sulla conoscenza. L’istruzione e la formazione professionale (IFP) riveste un ruolo chiave. La cooperazione europea in materia di IFP è volta ad assicurare che il mercato del lavoro europeo sia aperto a tutti. Tale cooperazione, basata sul processo di Copenaghen, consiste nello sviluppo di strumenti e di quadri europei comuni atti a migliorare la trasparenza, il riconoscimento e la qualità delle competenze e delle qualifiche, nonché a facilitare la mobilità dei discenti e dei lavoratori.”109

107

Fonte: http://www.pro-skills.eu/it/il-programma-pro-skills/ Lifelong learning for all 109 Fonte: http://europa.eu/legislation_summaries/education_training_youth/vocational_training/index_it.htm 108

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Nella costruzione di una politica, nazionale o comunitaria che sia, diventa imprescindibile indicare degli scopi e prefissare delle mete che la società debba raggiungere al fine di dare vita a un futuro equo e in cui tutti possano avere accesso alle risorse, comprese quelle del mercato del lavoro, messe a disposizione dall’ambiente e dalla società stessa.110 In questa ottica, l’educazione riveste un ruolo fondamentale in quanto strumento di costruzione di tale futuro ed è per questo che deve essere sempre posta in primo piano come argomento centrale di tutte le discussioni in merito all’inclusione sociale e alla lotta alla povertà, sia a livello comunitario che a livello nazionale e locale.

3.5 Le politiche degli assistenti sociali

Tutte le direttive europee e nazionali in materia di lotta all’esclusione sociale e all’emarginazione, per essere applicate in maniera concreta, capillare ed efficace hanno bisogno di figure specializzate presenti sul territorio, che entrino in contatto con le persone e conoscano a realtà in cui esse vivono. Per fare questo, ci si avvale dell’aiuto di assistenti sociali, ovvero figure professionali in grado di concretizzare i programmi e le politiche stabilite per la lotta alla povertà. Per capire cosa sia in realtà il servizio sociale, possiamo avvalerci della definizione del dizionario di sociologia che stabili “Il servizio sociale è una metaistituzione del sistema organizzato delle risorse sociali e una disciplina di sintesi che, attraverso il lavoro professionale dell’assistente sociale rivolto a individui, famiglie e gruppi in situazioni problematiche di bisogno, concorre: • alla rimozione delle cause del bisogno, infatti, ne ricerca la soluzione tramite un rapporto interrelazionale e l’uso delle risorse personali e sociali indirizzati a promuovere la piena e autonoma realizzazione delle persone; • a facilitare il rapporto cittadino – istituzioni;

110

GIANFRANCO CESARINI, RANIERO REGNI, Autonomia & Empowerment – l’educazione e le nuove frontiere dell’organizzazione, Armando editore, Roma, 1999, p.119.

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• a collegare il bisogno dei singoli al sistema dei servizi e viceversa e contribuisce ai processi di modifica delle istituzioni prevalentemente considerate nell’ambito dei servizi sociali.”111

Il servizio sociale, quindi, non rappresenta solo la concretizzazione delle politiche sociali europee, nazionali e locali, ma anche il collegamento diretto tra i cittadini che usufruiscono dei suoi servizi e le istituzioni, fungendo da canale di comunicazione tra le due parti. Con la nascita dell’Europa come unione di Stati, inoltre, il ruolo del servizio sociale come canale di comunicazione si ampia ancora di più, dovendosi rapportare adesso non solo a livello nazionale ma comunitario. Come spiega Lena Dominelli, infatti:

“Un contesto chiave per la pratica professionale è, oggi, quello della globalizzazione: nei confini dello Stato-nazione, che finora delimitavano il servizio sociale, come disciplina, entro ambiti piuttosto circoscritti, si sono aperti dei varchi, attraverso i quali le forze globali modellano il locale e nello stesso tempo vengono dal locale rimodellate. […] Per impegnarsi a riformulare la pratica professionale è dunque indispensabile contestualizzarla sia a livello locale, che nazionale e internazionale.”112 E le sue funzioni sono riassumibili in quattro punti principali: • la territorialità, ovvero il servizio sociale rappresenta un punto di riferimento per tutti i residenti di una data zona e si adopera per la soluzione dei problemi presenti sul territorio e il miglioramento della qualità della vita nello stesso. • la generalità, ovvero il servizio sociale non si incentra su una sola questione ma cerca di dare risposta a tutte le problematiche di vario genere presenti sul territorio ed è aperto a qualunque tipo di utenza.

111

FRANCO DEMARCHI, ALDO ELLENA, BARBARA CATTARINUSSI, Nuovo dizionario di sociologia, voce: Servizio sociale, San Paolo edizioni, Roma, 2004. 112 LENA DOMINELLI, Il servizio sociale – una professione che cambia, Edizioni Erickson, Trento, 2005, p. 22.

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• l’unitarietà metodologica, che si rifà a un modello ideato negli anni ’70 e che prevedeva varie fasi di sviluppo del lavoro che passavano dalla conoscenza della realtà locale alla valutazione delle problematiche per arrivare all’attuazione di soluzioni concrete e, infine, a una valutazione dei risultati ottenuti. • la plurifunzionalità, che prevede lo svolgimento in contemporanea di più funzioni: dalla presa in carica dell’utente all’elaborazione di progetti sulla base delle reali necessità della comunità, all’organizzazione e la gestione dei servizi territoriali e delle risorse comunitarie.113 In questo modo, possiamo definire quello del servizio sociale come un intervento strutturato su due livelli: quello micro, che mira a risolvere i problemi quotidiani dei suoi utenti nell’immediato, e quello macro, che invece tende a proporre interventi in campo legislativo e amministrativo che puntino a una soluzione radicale lavorando sulle cause strutturali dei problemi stessi.114 Inoltre, l’assistenza sanitaria e sociale sono diritti garantiti dalla stessa costituzione italiana che con due articoli fondamentali sancisce il diritto alla cura e al lavoro, riconoscendo così l’importanza dei questi due aspetti della vita della persona:

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti […]”115

e successivamente stabilisce anche che deve essere proprio lo Stato, in maniera diretta o indiretta, a provvedere al soddisfacimento di tali esigenze:

“Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano provveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

113

Fonte: http://www.assistentisociali.org/servizio_sociale/ FABIO FOLGHEIRAITER, Il servizio sociale postmoderno – modelli emergenti, Edizioni Erickson, Trento, 2004, p. 15. 115 Costituzione Italiana, art.32. 114

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Gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato.”116

Questo concetto viene ulteriormente ampliato, definito e regolamentato dalla “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” del 2000, che sottolinea come la Repubblica italiana si impegni a garantire ai singoli e alle famiglie un sistema si servizi sociali al fine di garantire una qualità della vita e pari opportunità ai suoi cittadini. Questo scopo viene perseguito sia dallo Stato che dalle Regioni e dagli enti locali che a tale proposito godono di libertà legislativa all’interno delle direttive comunitarie e nazionali. Hanno diritto ad accedere alle prestazioni del servizio sociale non solo i cittadini italiani ma anche quelli europei e gli stranieri, riconoscendo la priorità ai soggetti impossibilitati a provvedere a se stessi e alla propria famiglia a causa di inabilità fisica e psichica o di difficoltà di inserimento nel tessuto sociale e nel mercato del lavoro.117 In questo insieme di servizi rientrano le prestazioni sanitarie, l’istruzione, la formazione professionale e l’inserimento o il reinserimento nel mondo del lavoro, creando così una struttura complessa che tocca vari ambiti della vita personale e sociale e garantisce stabilità al soggetto creando una situazione da cui questi possa partire per costruire la propria indipendenza.

3.6 I servizi che costituiscono il welfare locale

L’affidamento della gestione delle politiche di assistenza sociale agli enti locali ha portato all’esigenza della costituzione di un sistema di welfare locale, che riesca a rispondere alle esigenze di aree più circoscritte e che quindi soddisfi i bisogni dei cittadini in maniera capillare, rappresenti perciò un’implementazione e un’integrazione delle politiche sociali nazionali.

116 117

Costituzione Italiana, art. 38. Legge 8 novembre 2000, n. 328.

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In questo modo, lo Stato italiano, dando libertà di azione alle Regioni, ha al contempo assegnato a queste il compito di individuare le problematiche più diffuse e che necessitano di un intervento più mirato e tempestivo a seconda dei diversi fattori che compongono il tessuto sociale come l’incidenza di disoccupazione, immigrazione e altri. La gestione del welfare locale garantisce, entro certi limiti, libertà di scelta e di azione regolabile in base ai bisogni e al contesto sia da parte degli assistenti sociali che degli enti incaricati dell’erogazione dei servizi:

“Vi è potere discrezionale quando gli assistenti sociali hanno ampi margini di discrezionalità nel decidere se e come garantire sostegno. Ciò può includere la scelta del tipo di intervento, la durata dello stesso, l’ammontare del sostegno, la possibilità di rinnovo e così via. Il potere discrezionale può derivare dall’assenza di regole certe, ma può essere anche incorporato nelle stesse norme, come modalità di riconoscimento della complessità del bisogno.”118

In questa ottica, gli enti locali non fungono solo da attori, ma anche da monitori delle attività delle imprese e delle organizzazioni legate al proprio territorio. Riconoscendo infatti proprio nelle aziende private la più grande fonte di posti di lavoro, si riconosce automaticamente a queste anche un ruolo centrale nella costruzione del benessere e della sicurezza collettivi. Il loro buon funzionamento, nella misura in cui riescono a sviluppare le risorse umane al loro interno, aiuta e supporta in maniera indiretta i sistemi di welfare. Al contrario, invece, sistemi produttivi che generano precarietà, competizione e instabilità, finiscono per avere l’effetto opposto, ovvero quello di sottrarre ulteriormente energia e fiducia ai soggetti già di per sé svantaggiati nel mondo del lavoro. È per questo motivo che, sebbene sia ancora un obiettivo lontano da raggiungere, è indispensabile che tra i fautori dello stato sociale vengano inclusi anche soggetti economici, aziende e banche.119 118

CHIARA SARACENO (a cura di), op. cit., p. 73. ORNELLA CASALE, PAOLA PIVA, Lavorare con piacere – Equilibrio tra vita e azienda, Ediesse, Roma, 2005, p. 32. 119

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Lo sviluppo di un tipo di welfare locale, se da un lato risulta più efficace in quanto più specifico, dall’altro richiede una elevata capacità dei contesti locali di riuscire a dare vita a un sistema di protezione sociale solido e riconoscibile, che non escluda nessuno e riesca a rispondere alle esigenze di tutti. Riconoscendo l’esistenza di un concetto di “società locale”, automaticamente le politiche di welfare vengono spostate da un piano statale/regionale a uno più mirato, passando a ricoprire il ruolo di integratori delle politiche nazionali. Questo ruolo viene incentrato principalmente sulle misure di contrasto alla povertà e sui sistemi di erogazione dei sussidi economici, che spesso si combinano con l’offerta dei servizi organizzati a livello locale.120 Mettere in moto un processo di questo tipo implica uno studio estremamente accurato delle problematiche presenti sul territorio, della sua composizione e degli ambiti che necessitano di un intervento mirato. Ovvero richiede di partire da una progettazione della strategia da adottare basata su rilevazioni effettuate sul campo. Rilevazioni che si dimostrano importanti non solo a livello locale ma anche nazionale in quanto, laddove non esista uno studio nazionale su determinati aspetti del fenomeno della povertà, ci si avvale del confronto tra i dati delle singole città al fine di ricostruire il quadro completo della situazione.121

3.7 I limiti delle politiche di fronteggiamento

Secondo la visione di Remo Siza, le politiche adottate fino a ora hanno purtroppo portato a scarsi risultati e si sono dimostrate inefficaci o comunque insufficienti per risolvere in maniera definitiva il problema della povertà. Egli sostiene infatti che:

“I programmi di lotta alla povertà hanno spesso dei risultati deludenti, non hanno inciso efficacemente sulla sua riproduzione: in alcuni casi possono aver

120 121

creato

assistenzialismo,

consolidato

Ivi, pp. 15-16. Ibidem

71

dipendenze,

sollecitato


rassegnazione e passività, ma il problema reale è che la loro efficacia con il passare del tempo si è sensibilmente ridotta.”122

Come possiamo vedere quindi la sua critica risulta essere molto dura ed è incentrata soprattutto sul fatto che spesso le strategie di contrasto hanno teso più a un tamponamento momentaneo della situazione che alla creazione di un percorso a lungo termine che permettesse al soggetto coinvolto di essere protagonista del processo e di uscire in maniera definitiva dalla condizione di povertà. In Italia, inoltre, un altro motivo di critica è rappresentato dal fallimento dell’applicazione delle misure di welfare, considerate molte volte insufficienti o quasi nulle. Spesso non si riesce a dare una risposta soddisfacente a problematiche che si sono venute a creare recentemente con il cambiamento della struttura societaria. Scarseggiano infatti ancora oggi le misure mirate a dare sostegno a chi ha un lavoro atipico o precario, ovvero a quei soggetti che sono più esposti al rischio di ricaduta nel fenomeno della povertà in maniera ciclica, oppure alle famiglie con figli minori che fino a poco tempo fa potevano contare sul sostegno di un sistema familiare allargato che oggi non è più sufficiente. È necessario tenere presente che la povertà odierna, più che un fenomeno persistente, rappresenta uno status da cui le famiglie entrano ed escono a più riprese. In questa ottica, le politiche di welfare devono tendere a costituire un ponte che contribuisca a superare questa condizione temporanea, piuttosto che un sussidio permanente in cui il soggetto in questione sia un attore passivo. A sostegno di questa tesi vi è il fatto che gli individui oggigiorno usufruiscano dei benefici del welfare solo per brevi periodi.123 Se negli altri paesi europei, infatti, questa politica di sostegno pubblico si rivela oggi in crisi, in Italia invece non è mai stato applicato con successo in maniera risolutiva. La legislazione in materia di “beneficienza pubblica” in area statale è stata formulata nel 1948 ed è rimasta invariata fino al 2001, anno in cui è stata fatta confluire tra le competenze regionali, sobbarcando in questo modo le Regioni degli oneri che questa rappresentava. In questo modo ognuna di esse ha acquisito il potere di legiferare autonomamente e determinare i propri campi di azione, spesso delegando tali competenze alle ASL o a organizzazioni e cooperative presenti sul territorio. 122 123

REMO SIZA, Povertà provvisorie – Le nuove forme del fenomeno, Franco Angeli, Milano, 2000, p.97. Ibidem, p. 97-98.

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Questo ha portato alla creazione di un divario tra le diverse Regioni che hanno applicato diverse politiche in materia di assistenza sociale determinata non solo dall’impegno più o meno intenso con cui queste hanno cercato di dare soluzione ai problemi presenti sul territorio, ma anche da altri fattori, come ad esempio la disponibilità economica di ogni amministrazione e i fondi che questa decide di stanziare per il finanziamento del settore del servizio sociale.124 In questa ottica, spesso la gestione delle problematiche è lasciata troppo alla programmazione e alla sensibilità locale, oltre che alla sensibilità dei singoli attori, senza dare direttive precise a livello nazionale. Ancora oggi non si è data una risposta concreta all’esigenza di uno spazio di confronto e di elaborazione degli obiettivi che consenta di individuare fini collettivi.125 Quindi possiamo riassumere che in Italia l’applicazione di misure di welfare locale sia risultata affrettata e impiantata su un terreno che non era ancora riuscito a costruire solide basi. Uno dei fenomeni che mostrano chiaramente come le politiche di sostenibilità lavorativa siano risultate fallimentari, almeno in parte, è quello dei working poors, ovvero l’esistenza di persone che, sebbene abbiano un impiego, non riescono ad uscire dalla fascia di povertà. Questa dinamica, che fino a pochi anni fa poteva risultare inverosimile, si sta oggi sempre più diffondendo tra la classe media e colpisce, oltre ai soggetti da sempre ritenuti “deboli”, anche i giovani in maniera incisiva. La diffusione del lavoro interinale, a progetto o a tempo determinato, a discapito di contratti che assicurino una stabilità prolungata nel tempo e un’entrata economica costante, hanno prodotto un diffuso clima di instabilità.126 La mancanza di norme a tale riguardo, che garantiscano ai lavoratori una protezione del proprio posto di lavoro e il riconoscimento di diritti in merito, oltre a segnare un fallimento per le istituzioni provoca un ingrossamento della fascia di popolazione che chiederà di poter usufruire dei sistemi di protezione sociale, creando così un circolo vizioso.

124

UGO ALBANO, LUIGI BUCCI, DIEGO CLAUDIO ESPOSITO, Servizio sociale e libera professione – dal lavoro dipendente alle opportunità di mercato, Carocci editore, Roma, 2008, pp. 25-26. 125 GIULIANA COSTA, Prove di welfare locale – la costruzione di livelli essenziali di assistenza in provincia di Cremona, Franco Angeli editore, Milano, 2009, p. 7. 126 GIORGIA BELLENTANI, VANDO BORGHI, Nella “zona grigia”: il lavoro flessibile e la sua sostenibilità sociale, in una indagine sul lavoro interinale, in VANDO BORGHI, op. cit., p. 206.

73


È stato inoltre spesso sopravvalutato il valore dell’occupazione lavorativa all’interno del processo di inclusione sociale. Infatti, sebbene il lavoro rappresenti il primo passo per la costruzione di un’integrazione, i due concetti sono stati spesso sovrapposti e non si è tenuto conto di altri fattori che compongono il tutto. Il contributo dell’occupazione all’inclusione non può essere dato per scontato, soprattutto in un momento come questo in cui i confini tra partecipazione “classica” al mercato del lavoro e altri tipi di impiego si sono fatti sfuocati e non sempre netti. Anche all’interno della stessa azienda o posto di lavoro, infatti, si assiste spesso a fenomeni di esclusione per cui chi ha un contratto a termine o interinale tende a venire escluso dai dipendenti fissi, dando vita a complesse dinamiche di stratificazione sociale all’interno dell’ambito lavorativo.127 Sempre relativamente all’aspetto occupazionale dell’inclusione, van Berkel muove un’altra critica, ovvero contesta la predominanza nelle politiche sociali europee a considerare la realizzazione della cittadinanza come un fattore condizionato dalla partecipazione al lavoro.128 In questo modo l’individuo non viene più preso in considerazione sulla base dei propri rapporti interpersonali, ma all’interno del suo rapporto con le “cose”, ivi compreso il lavoro e i beni che questi produce e consuma.129 E il fallimento di questa concezione ci è stato ampiamente dimostrato proprio dalla recente crisi economica, che ha portato alla perdita di un’ingente quantità di posti di lavoro. Se fino a oggi il lavoro costituiva non solo una fonte di entrate economiche ma anche uno status di rispettabilità sociale, adesso non è più così. La situazione di disoccupazione non è determinata solo da una scarsa volontà del soggetto ad inserirsi nel mercato del lavoro ma anzi è spesso dovuta a cause esterne. Il cambiamento della situazione lavorativa, e con essa anche quella economica e sociale, ci costringe a rimettere in discussione tutte le certezze su cui fino a oggi ci eravamo basati e a analizzare di nuovo i percorsi intrapresi, gli obiettivi prefissati e le politiche attuate.

127

RIK VAN BERKEL, op. cit., in VANDO BORGHI (a cura di), op. cit., pp. 227-28. Ivi, p. 214. 129 VANDO BORGHI, Esclusione sociale, lavoro ed istituzioni: una introduzione, in VANDO BORGHI, op. cit., p. 14. 128

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CONCLUSIONI In questo elaborato si è cercato di dimostrare come il concetto di povertà si sia fatto sempre più complesso e sfaccettato. Partendo dalla semplice definizione di povertà come limitata o nulla disponibilità economica, si è arrivati ad elaborare un concetto più ampio. Questo concetto ingloba al suo interno fattori sociali, psicologici e storici che determinano in maniera decisiva l’incidenza della povertà e il suo raggio di azione. Riconoscendo come nostro punto di partenza la definizione di Rowntree, secondo la quale la povertà era legata strettamente a una mancanza di risorse economiche, si è iniziato un percorso attraverso l’evoluzione di tale definizione. Si è quindi visto come il concetto sia stato condizionato dai cambiamenti della società e quanto quest’ultima abbia generato l’emergere di nuove forme di povertà. Non solo i sociologi ma anche le istituzioni e i governi hanno dato la loro definizione del fenomeno. In questo modo si è creato un quadro molto ampio all’interno del quale sono stati inseriti fattori che includono anche l’accesso risorse non strettamente economiche come l’istruzione, la sanità, il mercato del lavoro. Inserendo nella definizione anche questi aspetti, si arriva a collegare la definizione di povertà a quella di giustizia, riconoscendo una relazione inscindibile tra diritti dell’uomo e affrancamento dalla povertà, teoria questa sviluppata da Martha Nussbaum. La povertà si è così rivelata essere una condizione che varia a seconda dei contesti in cui è presa in esame. Ed è da questa consapevolezza che è nato il concetto di “povertà relativa”, che implica una rilevazione del fenomeno e della sua incidenza relativamente al gradi di benessere diffuso all’interno della società in cui questa è osservata. Un’ulteriore evoluzione è segnata dalla nascita della definizione di multidimensionalità, che riconosce come la povertà coinvolga aspetti che incidono sulla libertà personale dell’individuo e sulla sua esclusione dai processi partecipativi. Questo, come abbiamo potuto vedere, porta a un “indebolimento” del soggetto, che si trova in questo modo a dover dipendere da sussidi esterni per la propria sopravvivenza, impoverendo così anche la propria autostima personale e la fiducia in sé stesso.

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In questo modo si viene a creare una situazione che coinvolge la persona sotto tutti i più importanti aspetti della sua vita (economico, psicologico e sociale) e che viene denominata come “esclusione sociale”. Tenendo sempre presente che la povertà viene considerata in maniera diversa dalle varie società130 e che la sua incidenza va rilevata anche in base alla percezione che ne ha l’individuo, l’esclusione sociale rappresenta comunque sempre un ostacolo per il raggiungimento di un elevato tenore di vita. Una volta date delle definizioni del fenomeno, si è rivelato necessario anche stabilire alcuni canali di individuazione. A tale scopo si sono sviluppati vari metodi di rilevazione e varie suddivisioni del fenomeno a seconda dei contesti in cui viene preso in esame. La definizione di “cultura della povertà” è stata utile per capire fino a che punto la mancanza di disponibilità economica influenzasse una gamma talmente ampia di sfere della vita privata che arrivano addirittura a modificare la cultura stessa della persona. Dando vita a una propria dimensione a sé stante, che si sviluppa parallelamente a quella della società industrializzata, si vengono così a creare delle realtà coesistenti in cui gli individui si trovano immersi fin dalla propria nascita. Ecco allora che la povertà si trasforma in uno stile di vita, una forma di pensiero e addirittura in un linguaggio ben riconoscibile. In questo ambiente si sviluppano valori e regole morali che spesso divergono da quelli condivisi dal resto della società. A questo proposito, abbiamo avuto modo di vedere come gli studi effettuati sul campo da Lewis permettessero di elencare e determinare quali fossero i comportamenti sociali associati a questo tipo di cultura. È invece Leising a definire le quattro categorie su cui si basa l’approccio dinamico, dimostrandoci come la povertà sia in realtà un fenomeno non facilmente individuabile e catalogabile, ma soprattutto non rapportabile solo a una data fascia di popolazione. Risulta infatti chiaro, secondo la sua suddivisione, come tutti gli individui, appartenenti a tutti gli strati sociali, siano in maniera maggiore o minore a rischio. Sen invece sviluppa una teoria basata su quello che viene chiamato il capability approach, oggi ripreso e utilizzato in molti studi e che segna una nuova fase della lotta alla povertà, ovvero quella che mette la persona al centro del processo. Inoltre, come 130

Infatti non in tutte le società il soggetto “povero” viene escluso in maniera totale dalla partecipazione ai processi decisionali e non in tutte le società la povertà è intesa come un fattore discriminante.

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sottolinea il filosofo indiano, la definizione di “soddisfacimento dei bisogni” legata strettamente a bisogni materiali risulta incompleta. Infatti, secondo Sen, bisogna sempre tener conto anche delle necessità psicologiche di autorealizzazione e soddisfazione dei desideri dell’uomo, compresi quelli tangibili come il piacere o la felicità. Questa nuova visione del fenomeno ha influenzato anche i sistemi di rilevazione facendo includere in essi anche parametri che non sono strettamente legati al reddito. Partendo da queste basi, l’Unione Europea ha elaborato una propria teoria di lotta alla povertà che, sebbene si sviluppi su più fronti, presenta in ognuno di essi delle caratteristiche comuni. Infatti tutte le strategie di contrasto partono dalla collaborazione degli Stati membri che, mettendo in comune le proprie competenze e le proprie proposte elaborano una strategia comune. Successivamente, viene effettuata una valutazione dei risultati ottenuti al fine di capire quali siano state le politiche che hanno dimostrato di aver funzionato e quali quelle che invece si sono rivelate inefficaci. Lavorando sia sulla prevenzione che sulla soluzione delle problematiche legate alla povertà, l’Unione Europea ha iniziato un percorso che miri a rendere l’individuo responsabile e consapevole delle proprie scelte e gli permetta di acquisire l’autonomia necessaria per creare da solo la propria indipendenza. Il processo di formazione ed evoluzione dell’Unione Europea in merito all’inclusione sociale è ancora oggi aperto, ma già sono stati individuati i mezzi chiave di cui avvalersi per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalle strategie comunitarie. Strumenti quali il microcredito, la formazione professionale, il sostegno al reddito permettono di attuare in maniera concreta un programma di lotta alla povertà che abbia risultati tangibili. Stabilendo anche quali siano i canali di applicazione di tali misure, l’Unione Europea appare oggi come un macrorganismo che si avvale della collaborazione dei vari Stati, degli enti locali, delle organizzazioni e delle associazioni per mettere trasformare le proprie linee guida in azioni concrete. In questo modo si viene a creare una struttura piramidale che si allarga alla base fino ad arrivare ad avere un controllo capillare sul territorio. Rapportandosi a contesti sempre più delimitati (da quello europeo a quello nazionale, da quello nazionale a quello regionale e da quello regionale a quello cittadino), il campo di azione si restringe di volta in volta.

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Attore finale di questo passaggio risulta essere l’assistente sociale, che funge sia da collegamento tra il soggetto che usufruisce degli strumenti di assistenza sociale e le istituzioni che da “applicatore” di quegli stessi strumenti. Alla luce di quanto fino ad ora esposto, possiamo quindi affermare che quello dell’assistente sociale sia oggi un incarico estremamente delicato, che richiede un impegno costante di valutazione e rilevazione delle problematiche presenti sul territorio e applicazione delle disposizioni legislative. Ovvero, questi rappresenta il “volto” delle istituzioni e del welfare. Ma il welfare, sia esso locale o nazionale, è un sistema complicato che non sempre riesce a soddisfare tutte le esigenze della popolazione. Ed è qui che l’assistente sociale viene a ricoprire un altro ruolo ancora, ovvero quello di colui che cerca di sopperire alle mancanze del sistema si sostegno pubblico sia riportando alle istituzioni le problematiche riscontrate che cercando di adattare gli strumenti in suo possesso alle esigenze delle singole persone.

"Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo" Mahatma Gandhi

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RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare tutti i docenti del corso di laurea in Servizio Sociale, in particolare il relatore Professor Andrea Vargiu, per la disponibilità e la cortesia dimostrate; i miei genitori per il loro costante sostegno, le mie sorelle Laura e Cristina per l’incoraggiamento. Un ringraziamento speciale ad Arnaldo, per essermi stato vicino nei momenti più difficili di questo percorso, continuando a motivarmi in questi ultimi mesi, anche dal lontano Afghanistan. Ringrazio inoltre fine tutto il personale dell’Istituto “Casa Serena” di Sassari, in particolare la dott.ssa Adele Loriga, la direttrice dott.ssa Barbara Fozza e l’Assistente Sociale Paola Frau. Un grazie infine a tutti i miei amici, al mio datore di lavoro e alle colleghe per la loro pazienza e sensibilità.

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