A.D. MDLXII
U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ
DI
L INGUE
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L ETTERATURE S TRANIERE
___________________________
CORSO
DI
LAUREA
IN
LINGUE
E
C U L T U R E S T R A N I E R E M OD E R N E
WALTER BENJAMIN ESEGETA DI KAFKA
Relatore: PROF. PIERFRANCESCO FIORATO
Correlatore: PROF. KLAUS VOGEL
Tesi di Laurea di: GIOVANNI MUREDDU
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
INDICE
INTRODUZIONE
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Capitolo I. Il mondo di Kafka: la “cattiva giornata” di Dio
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Capitolo II. La follia nel theatrum mundi
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Capitolo III. Critica alle interpretazioni teologiche lineari
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Capitolo IV. Lo studio come categoria messianica
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Capitolo V. Conclusioni
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BIBLIOGRAFIA
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Introduzione
“La storia dei rapporti tra Benjamin e Kafka è innanzitutto la storia di un incontro mancato. In più di un’occasione avrebbero potuto conoscersi ma ciò non accadde, e Benjamin si portò dietro per tutta la vita il rammarico di questo”. Con queste parole si apre l’esauriente raccolta di materiali curata da Gabriele Scaramuzza Walter Benjamin lettore di Kafka, contenente, oltre al saggio su Kafka redatto da Benjamin nel 19341, i suoi interventi minori e appunti sullo scrittore praghese nonché le più significative testimonianze epistolari e diaristiche del confronto su Kafka intervenuto tra Walter Benjamin e alcuni suoi amici intellettuali2. Nell’insieme, queste testimonianze registrano fedelmente un lungo e difficoltoso percorso di analisi interpretativa di uno dei più complessi autori del ventesimo secolo. Le lettere fra Benjamin e Gershom Scholem o Werner Kraft, come le conversazioni fra il filosofo berlinese e lo scrittore Bertolt Brecht (anche esse riportate da Scaramuzza) abbracciano un periodo di tempo relativamente lungo, che va dalla fine degli anni Venti fino alla vigilia della morte di Benjamin, avvenuta nel 1940 (l’ultima testimonianza epistolare su Kafka risale al maggio di quell’anno). Non mancheranno fra questi intellettuali coinvolti nell’interpretazione dell’opera kafkiana opinioni discordanti e posizioni anche radicalmente diverse; dai propri interlocutori Benjamin cercherà di mantenere un certo distacco e una certa autonomia di pensiero, traendo al tempo stesso grandi benefici dalle riflessioni e dalle critiche che gli verranno mosse in particolare da Scholem, in questo contesto forse l’interlocutore privilegiato e più attento agli sviluppi del lavoro dell’amico. Praticamente a metà di questo complesso e articolato confronto, nel 1934 si situa lo scritto più organico dedicato da Benjamin allo scrittore praghese, ossia il saggio Franz Kafka, zur zehnten Wiederkehr seines Todestages (Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte). Benjamin riesce, dopo molte incertezze3, a far pubblicare entro la fine dell’anno almeno la prima e la terza parte del suo lavoro, che usciranno 1
W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, ed. it. a c. di Renato Solmi in: Angelus Novus, 2. ed., Einaudi, Torino 1995, pp. 275-305. 2 G. Scaramuzza (a c. di), Walter Benjamin lettore di Kafka, Unicopli, Milano 1994. La cit. è tratta da p. 7. 3 Ai dilemmi di carattere teorico si aggiungevano enormi difficoltà di ordine pratico: Benjamin si trova, esule, a Parigi dal marzo del 1933 e, come scrive al redattore della “Jüdische Rundschau” Felix Weltsch il 9 maggio 1934, non dispone più della sua biblioteca e ha difficoltà a rinvenire gli scritti di Kafka che gli servirebbero (la lettera è riportata in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 26).
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rispettivamente il 21 e il 28 dicembre sulla “Jüdische Rundschau” sotto il titolo Franz Kafka. Eine Würdigung4, ma il suo impegno con Kafka può dirsi tutt’altro che concluso. Gli anni che seguiranno saranno anni contraddistinti da ulteriori riflessioni e scambi epistolari, animati dall’intento di rimettere le mani sul vecchio saggio, ampliandolo nell’impianto fino a farne un volume, che Benjamin sperava di poter pubblicare presso l’editore ebraico berlinese Schocken. Che tutto ciò non sia alla fine avvenuto, lo si deve alle vicende della storia politica europea e al tragico epilogo della vita di Benjamin. La travagliata esperienza intellettuale di Benjamin, accostabile per la sua “inclassificabilità” a quella dello stesso Kafka, è costituita oltre che dall’impegno più prettamente filosofico anche da quello che lo vede nei panni del critico letterario5. Per quanto tutti i saggi più significativi redatti da Benjamin in questo campo, da quello su Goethe a quello su Leskov, per non dire di quelli su Kraus o su Baudelaire, siano caratterizzati da un originale impianto teoretico e metodologico e diano voce in forme diverse ogni volta a una nuova “affinità elettiva” tra l’autore e le opere letterarie da lui esaminate, il saggio su Kafka rappresenta da questo punto di vista un caso a sé stante e per così dire estremo. Difficile sotto ogni aspetto si rivelerà a Benjamin qualsiasi tentativo di interpretare l’opera kafkiana seguendo i metodi consueti della critica letteraria e inevitabile la necessità di prendere in considerazione invece tutta una serie di fattori anche estremamente eterogenei fra di loro, per cercare nella loro fusione l’essenza segreta della scrittura kafkiana. La disamina che Benjamin ha compiuto di ciascuno di questi fattori ha portato però infine alla nascita un testo estremamente complesso e assai poco lineare che, come gli scritti dello stesso Kafka, non si presta ad essere facilmente afferrato e compreso. Anche il “ricorso massiccio alla citazione”, fatto qui da Benjamin “in mille modi, e con intenzioni diverse”, “contribuisce non poco – come fa giustamente notare ancora Scaramuzza nel saggio Citazione come oblio – alla enigmaticità dello scritto”6. Il
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Si tratta dei capitoli Potemkin e L’omino gobbo. I rimanenti capitoli Un ritratto d’infanzia e Sancio Pancia vedranno la luce solamente in occasione della prima pubblicazione integrale del saggio, nel secondo volume delle Schriften di Benjamin curate da Theodor W. e Gretel Adorno per l’editore Suhrkamp nel 1955. 5 Cfr. H. Arendt, Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, Mondadori, Milano 1993, pp. 7 s. 6 G. Scaramuzza, Citazione come oblio, in: Leitmotiv, 2/2002, pp. 11-23; qui p. 12. – Scaramuzza cita a questo proposito anche Sven Kramer, che nel saggio Rätselfragen und wolkige Stellen. Zu Benjamins Kafka-Essay, zu Klampen, Lüneburg 1991, p. 79 aveva scritto: “Il grande numero di citazioni contribuisce non poco all’impenetrabilità del testo – impenetrabilità che d’altronde emerge non tanto dal fatto di citare di per sé, ma soprattutto dalla scelta e dalla collocazione delle citazioni”.
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saggio del 1934 è, infatti, una vera e propria “giungla” di citazioni, di cui Benjamin non indica mai, “come le buone maniere accademiche vorrebbero”, gli estremi bibliografici7. Emblematico è in tal senso già lo stesso incipit dello scritto benjaminiano, ossia il caso della “leggenda russa” Potemkin, che dà il titolo al primo capitolo del saggio; Benjamin apre il discorso con un semplice “si narra che”, senza citarne la fonte letteraria, il cui autore, tra l’altro non poco conosciuto, è Puškin8. La natura delle citazioni è disparata; oltre a riportare in maniera sintetica parabole o leggende ebraiche, come quelle della principessa del villaggio o del mendicante in camicia, Benjamin cita passi tratti da diverse opere di Kafka o addirittura se stesso. Questa pratica, però, costituisce un tratto ricorrente della tecnica compositiva benjaminiana: il filosofo berlinese concepisce l’uso della citazione in un modo molto particolare, ovvero come tecnica atta ad “allontanare” il lettore dal testo9. In realtà, come scrive Hannah Arendt, era la “massima aspirazione” di Benjamin quella di “produrre un’opera costituita interamente di citazioni”10. Il testo diventa allora solo un’impalcatura che serve a mantenere in piedi il complesso delle citazioni, si può dire quasi che le citazioni stesse siano l’essenza del testo e che questo si strutturi solamente in funzione di esse. Questa costellazione, questo insieme di finestre aperte nel cielo è ciò verso cui Benjamin vuole guidare il lettore. Si potrebbe quasi applicare qui quanto Benjamin scrive a proposito della parabola Davanti alla Legge: secondo lui l’intero romanzo in cui essa è contenuta, Il processo, non sarebbe altro che l’impalcatura per essa, il romanzo esisterebbe solo in sua funzione, il romanzo anzi, per usare le sue parole, non sarebbe “altro che la parabola dispiegata”11. Si diceva dell’impiego delle citazioni come di una tecnica atta ad allontanare il lettore dal testo – ciò va inteso nel senso che il lettore viene in tal modo portato a concentrarsi soprattutto sulle citazioni stesse, sulle “immagini” derivanti dal passato che esse propriamente costituiscono e che si vuole salvare nel loro potenziale di comunicabilità.
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G. Scaramuzza, Citazione come oblio, cit., p. 12. Come ricorda Scaramuzza (Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 89), l’aneddoto su Potemkin era stato anche oggetto di una delle Vier Geschichten pubblicate da Benjamin in quello stesso 1934 sul “Prager Tagblatt”, mentre Ernst Bloch lo aveva già incluso nel 1930 in Spuren (cfr. E. Bloch, Tracce, a c. di Laura Boella, Garzanti, Milano, 1994, pp. 120-122). La fonte dei due filosofi, che soprattutto nel corso della seconda metà degli anni Venti si erano frequentati assai assiduamente, è A. Puschkin, Anekdoten und Tischgespräche, Allgemeine Verlagsanstalt, München 1924, p. 42. 9 Si vedano soprattutto le considerazioni di G. Scaramuzza in Citazione come oblio, cit., pp. 15-17. 10 H. Arendt, Il pescatore di perle, cit., p. 8. 11 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 286. 8
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La ricerca delle forme in cui far tornare a parlare il passato costituisce peraltro una delle preoccupazioni centrali dell’intero pensiero di Benjamin, caratterizzato in questo senso da un’attenzione quasi ossessiva per i problemi della comunicazione e della tradizione. Proprio la citazione diventa in tale quadro una manovra di estrema importanza capace di far riaffiorare repentinamente e di sorpresa elementi e immagini del passato, della Storia. Eloquente è in tal senso l’assioma benjaminiano secondo cui “scrivere storia significa citare storia”12 La tesi che vi accingete a leggere rappresenta solo un breve commento, di certo non esaustivo, al saggio che Benjamin quasi ottanta anni fa ha realizzato su uno dei più complessi e misteriosi scrittori della letteratura mondiale; una parafrasi che potrà apparire forse a tratti un po’ azzardata di un testo il cui autore, se si dà retta alle parole del filosofo ungherese Lukàcs, si può dire essere l’equivalente teoretico di Kafka13. L’intento di Benjamin era quello di commemorare lo scrittore praghese e la sua opera attraverso quella miriade di citazioni apparentemente disparate che nel loro complesso andavano a costituire, per così dire, un’unica grande citazione: la citazione di Kafka, appunto, nel senso particolare in cui il filosofo la intendeva, ossia in quello di riproporlo, di riscattarlo dal passato. L’intento di questa tesi, allora, non potrà essere altro che quello di proporre una citazione di questa citazione.
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W. Benjamin, I “passages” di Parigi, a c. di R. Tiedemann, ed. it. a c. di E. Gianni, vol. IX delle “Opere complete”, Einaudi, Torino 2000, p. 535. 13 Cfr. György Lukàcs, Le basi ideologiche dell’avanguardia, in: Il significato attuale del realismo critico, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1957, poi in: Scritti sul realismo, vol. 1, Einaudi, Torino 1978, pp. 862-894; qui cfr. soprattutto pp. 891 s.
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Capitolo I. Il mondo di Kafka: la “cattiva giornata” di Dio Il tema chiave con cui il filosofo intende aprire il discorso sullo scrittore praghese è tra i più noti e discussi: quello del potere e della burocrazia. La leggenda russa di Potemkin, tratta, come accennato nell’introduzione, da Puškin, ha l’onore di aprire il capitolo: Vi si narra che il cancelliere Potemkin, colto da una delle sue tremende crisi depressive, si fosse chiuso nella sua stanza in uno stato di perfetto silenzio e al buio, e che essendo venuto meno da tempo ai suoi doveri amministrativi, le pratiche e gli atti da firmare si fossero accumulate a dismisura rischiando di paralizzare gli uffici del castello. Solo lo zelante e ingenuo servitore Suvalkin si fece avanti arditamente per risolvere la questione; questi si intrufolò con cautela nella stanza del cancelliere Potemkin e senza dire una parola gli consegnò le pratiche da firmare. Quando uscì, Suvalkin aveva un sorriso di soddisfazione: Potemkin aveva firmato tutte le pratiche senza esitazione. Solo in un secondo momento l’ingenuo servitore si rese conto del suo fallimento, ovvero quando i consiglieri ai quali aveva restituito le pratiche gli mostrarono la firma che stava sopra ogni singolo atto: la sua. “Questa storia” dice Benjamin “è come una staffetta che precorre di due secoli l’opera di Kafka. L’enigma che vi si addensa è quello stesso di Kafka. Il mondo della cancellerie e degli uffici, delle camere buie, logore e muffite, è il mondo di Kafka”14. In una lettera del 16 settembre 1934 che Benjamin riceve dall’amico Werner Kraft, questi esprimeva all’autore alcune perplessità in merito al fatto che la leggenda di Potemkin e Suvalkin sia davvero convincente: “ribadisco la mia impressione che la parabola abbia, in questo contesto, scarsa forza probatoria”15. Kraft suggerisce quindi a Benjamin di eliminare la parabola in questione poiché essa non si avvicina secondo lui alla rappresentazione che Kafka avrebbe dato del potere e della burocrazia: “E’ proprio l’autorità di Potemkin che non viene fuori attraverso la firma falsa”, continua Kraft: “Si
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W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 276. Werner Kraft, lettera a W. Benjamin del 16 settembre 1934, in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 74. 15
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vorrebbe vedere la firma autentica di Potemkin e il commento che Suvalkin dovrebbe essere licenziato per la sua imprudenza o cose simili”16. Ma quello che a Benjamin interessa davvero non sembra essere tanto l’autorità del cancelliere Potemkin, quanto il modo in cui questi la esercita: sebbene sprofondato nella sua depressione, il cancelliere trova la forza di giocare l’ingenuo servitore. Il vero problema della burocrazia che domina nel mondo di Kafka è il problema del carattere “decaduto, o meglio ancora cadente” di coloro che ne gestiscono il potere: la depressione che li ammutolisce, che li costringe ad un perenne dormiveglia in cui tengono, come il Klamm descritto nel primo capitolo del Castello, che Benjamin accosta all’iconografia di Atlante, “la testa così profondamente abbassata sul petto che non si vede quasi nulla degli occhi”. A questi potenti non pare interessare l’idea di autorità, loro l’autorità ce l’hanno, sanno di averla, ed è come se l’avessero sempre avuta – ma non sanno che farsene; tutt’al più la usano per giocarci con gli ingenui e gli sprovveduti. Suvalkin esce sconfitto perché sottovaluta il potere della Legge che si era mostrato solo apparentemente vulnerabile. Non importa quanto decaduti o cadenti i rappresentanti di questo potere appaiano: essi sono comunque, “anche nei loro rappresentanti più infimi e più degradati”. sempre potenti abbastanza da riuscire a dirigere l’imperscrutabile sistema. Dopo essersi soffermato su l’ambiente, l’atmosfera e le qualità che caratterizzano il mondo buio ed enigmatico in cui il potere e i suoi abbietti rappresentanti trovano dimora, Benjamin prosegue il discorso introducendo un altro tema fondamentale della scrittura di Kafka, quello della gerarchia, o meglio quello della sottomissione, in cui la figura del padre come simbolo per eccellenza delle istituzioni assume un ruolo di primo rilievo. I lettori di Kafka, anche quelli meno esperti, conosceranno di certo il famoso Brief an den Vater: una lunga confessione mai pervenuta al destinatario, in cui Kafka accusa il padre, non senza mostrare alcuni commoventi segni d’affetto, di avergli irrimediabilmente rovinato la vita17. “Molti indizi” scrive Benjamin “fanno ritenere che il mondo dei funzionari e quello dei padri sia, per Kafka, lo stesso”18. A sostegno di
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Ibidem. Se ne veda la tr. it. a cura di Anita Rho, in F. Kafka, Confessioni e diari, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1972, pp. 637-689. 18 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 277. 17
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questa tesi Benjamin riporta una scena fondamentale del racconto Das Urteil: quella in cui il padre, in preda all’ira, sta per pronunciare il verdetto che porterà il figlio al suicidio19. Il padre, simbolo di un debole potere che sembra ormai destinato a spegnersi, si ridesta repentinamente ed energicamente in virtù di quella superiore posizione gerarchica che permane comunque al fondo dell’“antichissimo rapporto padre-figlio”. Anche il vecchio padre di questo racconto sembra ricordare, alla lontana ma non troppo, il cancelliere Potemkin che non si lascia sottomettere da chi sta sotto di lui. La somiglianza fra padri e funzionari, afferma poi Benjamin “non va certo a loro onore. Essa è fatta di ottusità, degradazione e sporcizia”20. Il primo sostantivo è ottusità: questi problematici detentori del potere, per quanto abbattuti e parassitari, non hanno intenzione alcuna di rinunciare alla loro autorità; è vero che non sanno che farsene, ma essa è ribadita inesorabilmente quando qualcuno tenta di metterla in discussione. L’autorità è una qualità che sembra spettare loro di diritto e a nessuno è dato contestarla o impossessarsene. L’autorità è ciò che li tiene in vita, è il loro alimento vitale ed è arrogandosi questo diritto che i padri-funzionari si sentono autorizzati a condurre una vita parassitaria a scapito dei figli. Ma è sull’ultimo degli attributi da lui utilizzati per descrivere la somiglianza fra i padri e i funzionari, la sporcizia, che Benjamin insiste qui particolarmente: “A tal punto la sporcizia è l’attributo dei funzionari, che essi si potrebbero quasi considerare come giganteschi parassiti. […] Il padre, nelle strane famiglie di Kafka, vive del figlio, pesa su di lui come un enorme parassita. Egli non consuma solo la sua forza, ma il suo diritto di esistere”21. Che cosa dà ai padri, come visto prima simboli di potere istituzionale per eccellenza, il diritto di soffocare i figli, di privarli del diritto di esistere? Che cosa conferisce alla loro ottusità un diritto simile? Sembrerebbe quasi essere un diritto speciale concesso, ma al tempo stesso imposto loro dal destino o da Dio. Sono forse costretti da una legge divina a rappresentare nel corso della storia ad un tempo i giudici e gli accusatori dei figli? Magari è per questo che appaiono sempre così stanchi e depressi: il loro è un ruolo che si tramanda dall’alba dei tempi e a cui non possono sottrarsi, ed è il ruolo di chi deve punire il figlio peccatore. Ma è un ruolo che forse non
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Ibidem. – Cfr. F. Kafka, La condanna, in Idem, Racconti, a c. di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1970, spec. pp. 150-153. 20 Ibidem. 21 Ivi, p. 278.
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sanno di avere e che pesa loro nell’animo: essi agiscono in maniera inconscia e naturale, e, vittime di una coazione a ripetere, ribadiscono il loro ruolo ogni volta che le circostanze lo richiedono. Benjamin seguita a scrivere: “Il padre, che è il giudice, è insieme l’accusatore. Il peccato di cui accusa il figlio sembra una specie di peccato originale. Poiché chi, più del figlio, è toccato dalla definizione che Kafka ne ha dato: ‘La colpa originaria, l’antico torto commesso dall’uomo, consiste nel rimprovero che egli fa, e da cui non desiste, che gli è stato fatto un torto, che la colpa originaria è stata commessa contro di lui’? Ma chi viene accusato di questa colpa ereditaria, la colpa di aver fatto un erede, se non il padre dal figlio? Così il colpevole sarebbe il figlio”22. Così ci si trova davanti ad un processo destinato a ripetersi senza fine in cui di volta in volta i figli rinnovano il loro peccato ereditario e vengono puntualmente castigati dai padri. L’accusa che i figli rivolgono ai padri, fa notare Benjamin, non sembra essere un’accusa colpevole perché falsa: “mai Kafka dice che essa sia infondata”. Tuttavia questo sembra essere il loro duro destino: quello di soggiacere, nella ferrea gerarchia, alla figura del padre, quasi questa fosse una croce che i figli devono accettare a priori. Tutto questo, spiega Benjamin, nell’universo kafkiano è stato deciso da un tempo immemorabile, è scritto in codici ben definiti, ma che purtroppo “non è lecito vedere”. Egli riporta in tal senso una frase di K., tratta dal III capitolo del Processo: “fa parte di questo sistema che uno sia condannato non solo senza colpa, ma anche senza cognizione”23. Senza quindi sapere, addirittura, di aver commesso una qualche colpa o un peccato. Queste leggi e norme scritte in codici sottratti alla consultazione equivalgono, propriamente, a quelle leggi non scritte che vigevano nella Vorwelt ossia nel mondo primitivo e preistorico che è così evocato: “Leggi e norme definite rimangono, nella preistoria, leggi non scritte. L’uomo può violarle senza saperlo ed incorrere così nel castigo”24. Come già accennato, è anzitutto all’atmosfera de Il Processo, dove tutto questo trova la sua espressione paradigmatica, che Benjamin qui si riferisce. Il romanzo si apre già con un’atmosfera ostile in cui il narratore descrive in maniera concisa ed essenziale ciò che doveva essere accaduto: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. perché
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Ibidem. – La cit. di Kafka è tratta dalla raccolta di aforismi Er [Egli]. Se ne veda la tr. it. a cura di Ervino Pocar in F. Kafka, Confessioni e diari, cit., pp. 807-819, qui cfr. spec. pp. 815 s. 23 Ibidem. 24 Ibidem.
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senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato”. Ci muoviamo, è evidente, sul terreno sopra descritto; K. fino a prova contraria non ha fatto nulla di male, quindi qualcuno deve avergli mosso delle false accuse. O invece, seguendo la linea benjaminiana, il mondo in cui si svolge la scena del Processo è la proiezione di un passato remotissimo, o meglio di una preistoria in cui, appunto, esistono leggi e dunque trasgressioni di cui non si può avere contezza ma che non sono per questo meno reali: “Lo stesso vale per la giustizia che procede contro K. Questo procedimento giudiziario ci riconduce molto al di là dei tempi della legislazione delle dodici tavole, in una preistoria su cui il diritto scritto fu una delle prime vittorie”25. K., dunque, avrebbe infranto proprio una di quelle leggi preistoriche invisibili, incorrendo così nel castigo. Una nuova considerazione dei “molti punti di contatto” vigenti tra le “condizioni nell’ufficio e nella famiglia” e, in particolare, l’accostamento di corruzione e “lascivia nel grembo della famiglia”26 consentono a Benjamin di introdurre il tema della “bellezza” in Kafka. Le donne dei suoi romanzi e dei suoi racconti non sembrano mai essere portatrici di bellezza, “queste donne lascive non figurano mai belle”, commenta. La bellezza sembra piuttosto appartenere ad altri, per la precisione a tutti coloro su cui grava il peso della colpa, sugli accusati27. A questo proposito Benjamin cita un passo tratto dall’ottavo capitolo del Processo: “Non può essere la colpa che li fa belli… non può essere neppure la giusta punizione che li fa belli fin d’ora… Dunque vuol dire che c’è qualcosa, nel procedimento contro di loro, che li muta”28. Per questi sventurati si dice non esista alcuna speranza di salvezza: “Ed è forse questa assenza di speranza che fa emergere in loro la bellezza – in essi soli fra tutte le creature di Kafka”29. La riflessione sul tema della speranza nel mondo di Kafka, che così viene introdotto, è ulteriormente sviluppata da Benjamin attraverso l’impiego di alcune dichiarazioni dello scrittore praghese riportate da Max Brod in un articolo del 192130 e la loro originale combinazione con un’interpretazione di “quegli strani fra gli strani personaggi di Kafka, che soli sono evasi dal grembo della famiglia, e per i quali forse c’è speranza”: gli aiutanti31. Tali personaggi, che nell’immaginario di Kafka sembrano
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Ivi, p. 279. Ibidem. – Cfr. Sigrid Weigel, Zu Franz Kafka, in: Burkhardt Lindner (a c. di), Benjamin-Handbuch. Leben – Werk – Wirkung, Metzler, Stuttgart 2006, pp. 543-557, spec. p. 553. 27 Ivi, pp. 279 s. 28 Cit. ivi, p. 280. 29 Ibidem. 30 Max Brod, Der Dichter Franz Kafka, in Die neue Rundschau 32 (1921), pp. 1210-1216. 31 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 280. 26
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ricoprire un ruolo marginale, sono in realtà simbolo di una categoria di creature che “escono effettivamente da questo ambito”, dall’ambito cioè degli accusatori e degli accusati. Benjamin riporta parte di un’illuminante conversazione fra Max Brod e Kafka in cui molto laconicamente questi si esprime circa il rapporto uomo-Dio e la speranza che ci è concessa. Dalle parole di Kafka risulta che esiste sì speranza, anzi infinitamente tanta speranza, “ma non per noi”. Noi, anzi, non siamo altro che “un cattivo umore di Dio, una cattiva giornata”, continua Kafka, lasciando intendere – contro un Max Brod subito incline a interpretare la sua posizione nel senso di una rinnovata metafisica gnostica – che possano ben esistere altri giorni, altri mondi, altri destinatari per i quali la speranza invece esiste e si concede32. Benjamin individua in particolare due figure appartenenti alla categoria “aiutanti”, a una “cerchia” (così è forse più opportuno tradurre Kreis, anziché con “ciclo”, come propone Solmi) di personaggi “che attraversa tutta l’opera di Kafka”: l’acchiappagonzi di Contemplazione e lo studente nottambulo che legge sul balcone accanto a quello di Karl Rossmann nel romanzo America33. Benjamin paragona queste due figure oltre che ai personaggi dei racconti brevi di Robert Walser anche alle creature delle saghe indiane, ai gandharva: “creature incompiute, esseri allo stato nebuloso”. Esseri incompleti devono esserlo quindi anche gli aiutanti che appaiono in Kafka e tramite questa comparazione Benjamin vuole forse intendere che proprio questa loro proprietà, quella di essere incompiuti, “nebulosi”, non interamente appartenenti alla nostra dimensione, concede loro possibilità di salvezza. Sono esseri che sembrano provenire da altrove e chissà, forse proprio da quelle dimensioni, dai quei ‘giorni’ per i quali la speranza è possibile. Creature che non stanno né di qua, né di là, come scrive Benjamin: “[gli aiutanti] non appartengono, ma neppure sono estranei, a nessuno degli altri ambienti […]. Essi non sono ancora usciti del tutto dal grembo della natura”34. E’ questa loro fondamentale caratteristica a rendere gli “aiutanti”, diciamo così, immuni dal giudizio divino. Essi sono esenti dall’azione umana perché per la loro incompiutezza non sono in condizione di prendervi parte pienamente. Non potendo prendervi parte, non possono però violare alcun comandamento e non possono incorrere in nessun castigo. Per essi non esistono ordini o gerarchie, sono solo semplici e inette
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M. Brod, Der Dichter Franz Kafka, cit., p. 1213; cit. in W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 280. 33 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 280. 34 Ivi, p. 281.
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creature in un moto perenne (“nessuna che non sia in atto di salire o di cadere”) mai destinato ad acquietarsi in una condizione stabile, e quella poca ambizione che hanno, osserva Benjamin, citando nuovamente un passo del Castello, “era diretta… ad occupare il minor spazio possibile”35. Quella degli aiutanti è una dimensione quasi a sé stante, affatto particolare e separata da quella in cui si muovono i personaggi principali. Il loro è un mondo nel mondo. E’, per meglio dire, un ‘mondo complementare’36, o per usare le parole dello stesso Benjamin, è un “piccolo mondo intermedio, insieme incompiuto e banale, consolante e sciocco”37. Quale significato potrebbe avere, allora, questo piccolo mondo intermedio nell’opera kafkiana? Forse, secondo Benjamin, quello di raffigurare una dimensione da cui un giorno potrebbe venire “un pegno di speranza”38, un briciolo di speranza che si riversi nel mondo ben più grande e complesso di tutti coloro che non sono incompiuti né inetti. Molte cose però lasciano presagire che tale dimensione disti migliaia d’anni luce da esso, figuri nell’immaginario kafkiano semplicemente come una luminosa stella lontanissima ed irraggiungibile.
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Ibidem. Mi servo qui liberamente un’espressione che Benjamin userà nella lettera a G. Scholem del 12 giugno 1938: “Kafka vive in un mondo complementare” (cit. in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 54). 37 Ivi, p. 282. 38 Ibidem. 36
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Capitolo II. La follia nel theatrum mundi Già nel saggio Piccola storia della fotografia, pubblicato su “Die literarische Welt” nel 1931, Benjamin si era soffermato su una foto di Kafka bambino, dell’età forse di sei anni, in cui questi, in un abitino elegante e molto stretto, fa mostra dei suoi “occhi infinitamente tristi”39. La descrizione di tale fotografia viene ora ripresa quasi letteralmente all’inizio del secondo capitolo del saggio su Kafka, intitolato “Un ritratto d’infanzia”40. Di questa grande tristezza, chiosa ora Benjamin, si sarebbe forse nutrito, un tempo, quell’ardente Desiderio di diventare un indiano, che dà il titolo a un brevissimo scritto di Kafka risalente al 190941. Per il filosofo berlinese tale scritto rappresenta il sogno segreto del giovane Kafka: una vita libera, fatta di avventura e di pericolo, come un indiano “sempre pronto e sul cavallo in corsa”. Ma è in particolare quell’America dove il desiderio trova la sua attuazione ad essere qui rilevante per Benjamin. Non casuale sarebbe, in questo senso, il nome che Kafka assegna al protagonista del romanzo Amerika, Karl Rossmann: Ross in tedesco significa “destriero”, quindi Rossmann vorrebbe dire “cavalcatore di destrieri”. A tale proposito Benjamin scrive: “Che il romanzo America abbia un carattere particolare, appare già dal nome del protagonista. Mentre nei precedenti romanzi l’autore non si rivolgeva mai a se stesso che col mormorio di un’iniziale, egli vive qui la propria rinascita col suo nome intero e nel nuovo mondo”42. Certo la prospettiva interpretativa proposta da Benjamin sarebbe stata diversa se egli fosse stato a conoscenza del fatto che il romanzo in questione – che secondo i progetti di Kafka avrebbe dovuto intitolarsi Der Verschollene (Il disperso) e non Amerika, come suona invece il titolo (carico di una “vaga aspettativa positiva”43) deciso da Max Brod in occasione della pubblicazione postuma del 1927 – era non l’ultimo, bensì il primo dei tre romanzi di Kafka44. La “insperata rinascita” che avverrebbe in
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W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, tr. it di Enrico Filippini in: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, pp. 57-78, spec. p. 67. 40 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., pp. 282 s. 41 Se ne veda la tr. it. in F. Kafka, Racconti, cit., p. 132. 42 Ivi, p. 283. 43 Marino Freschi, Introduzione a Kafka, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 57. 44 Come sottolinea Alexander Honold, Der Leser Walter Benjamin. Bruchstücke einer deutschen Literaturgeschichte, Vorwerk 8, Berlin 2000, p. 285, allo scetticismo nei confronti dell’interpretazione
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Amerika in questo senso non avviene affatto. E i due romanzi successivi, di cui uno Das Schloss (Il castello) senza il finale e l’altro Der Prozess (Il processo) provvisto di un finale ma ancora incompiuto al proprio interno, rappresenterebbero allora semmai un declino, un regresso nell’immaginario di Kafka. Molto più probabilmente, però, America rappresenta invece proprio l’inizio di quella lunga e travagliata esperienza kafkiana che si consumerà “senza speranza” tanto nei due romanzi successivi quanto in tutti gli altri racconti. Si badi infatti al titolo che Kafka avrebbe voluto assegnargli: Il disperso. La storia di Karl Rossmann allora è forse il preludio alle storie dei vari altri K.. Soffermandosi su America, Benjamin focalizza la propria attenzione sul “teatro naturale di Oklahoma”, l’ippodromo-teatro in cui Karl viene assunto alla fine del romanzo. Ad essere assunto, però, non è solo Karl, ma tutti coloro che ne hanno il desiderio. Se l’ippodromo rimanda per associazione al nome del protagonista e alla problematica sopra accennata, è ora il fatto che “questo ippodromo è anche un teatro”45 a interessare soprattutto Benjamin. “Il mondo di Kafka è un teatro universale”, sostiene egli infatti: “Per lui l’uomo è naturalmente in scena. E la prova è che al teatro naturale di Oklahoma tutti vengono assunti”46. Di fondamentale importanza si rivela per Benjamin in questo contesto la questione del “comportamento mimico”: “il teatro naturale di Oklahoma rimanda al teatro cinese, che è un teatro mimico. Una delle funzioni più importanti di questo teatro naturale è la risoluzione dell’accadere nel gesto”47. Il concetto di gesto48, il suo significato e la sua valenza, diventano per il filosofo tedesco punti chiave per lo studio dell’universo kafkiano. “Tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di gesti che non hanno già a priori un chiaro significato simbolico”49.
teologica di Max Brod non corrispose mai in Benjamin alcuna riserva critica nei confronti della sua opera di curatore delle opere dell’amico, al punto da lasciarsi guidare, per la datazione dei romanzi, dall’ordine di successione della loro pubblicazione, che aveva visto uscire Amerika solo nel 1927, dopo Der Prozeß (1925) e Das Schloß (1926). – Cfr. anche Bernd Müller, “Denn es ist noch nichts geschehen”. Walter Benjamins Kafka-Deutung, Böhlau, Köln 1996, p. 64. 45 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 284. 46 Ivi, p. 289. 47 Ivi, p. 284. 48 Abbiamo conservato con Solmi la traduzione “gesto” sia per Geste sia per Gebärde, non sembrandoci che il testo benjaminiano imponesse per forza soluzioni diverse. 49 Ivi, pp. 284 s. – Viene qui in mente la dichiarazione epistolare di Benjamin, sulla quale avremo occasione di tornare ancora, secondo la quale la vita come viene condotta nel villaggio ai piedi del castello equivarrebbe a una scrittura priva della sua chiave (lettera a G. Scholem dell’11 agosto 1934, riportata in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 47).
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Secondo Benjamin vale la pena precisare che quello kafkiano è innanzitutto un teatro drammatico; in esso entra in scena di volta in volta “il gesto”, ed “ogni gesto è un evento, si potrebbe quasi dire: un dramma a sé”. Il gesto, dunque, rappresenta per Kafka un dramma. Ma perché? Benjamin cita qui Max Brod che nella Postfazione al Processo aveva scritto: “Il mondo dei fatti per lui importanti era imprevedibile”50. La natura drammatica del gesto, allora, potrebbe essere data dalla essenziale “imprevedibilità” dei “fatti per lui importanti”, una imprevedibilità e incalcolabilità che è accentuata proprio da quel gesto che non ha già a priori un chiaro significato simbolico, ma appare fuori da ogni contesto univoco di senso. In questo senso Benjamin scrive: “è certo che per Kafka il gesto era la cosa più imprevedibile di tutte”51. L’impenetrabilità delle cose e quindi anche dei gesti è per Kafka motivo di disagio e tormento. Potrebbe essere il caso di parlare anche di imbarazzo, se si prende in considerazione un aneddoto che Milena Jesenska racconta in una sua lettera a Max Brod dell’agosto 1920: Una volta diede due corone a una mendica e ne voleva una di resto. Quella disse che non aveva niente. E siamo stati là due minuti a riflettere come si potesse fare. A me venne l’idea che poteva lasciargliele tutte e due. Ma aveva fatto pochi passi quando divenne di pessimo umore.
Terminato l’aneddoto, Milena più avanti commenta: “il suo imbarazzo di fronte al denaro è quasi uguale a quello di fronte alla donna”.52 Le confessioni di Milena rappresentano un tesoro colmo di aneddoti ed episodi che aiutano non poco a conoscere meglio la personalità e il carattere di Kafka; e questo tesoro porta ad avvalorare alcuni tratti di quell’immagine di Kafka che Benjamin propone, come quando scrive, ad esempio, che per lui “il gesto era la cosa più imprevedibile di tutte”. Un noto aforisma di Kafka, da lui riportato al n. 56 degli aforismi di Zürau, che Max Brod ribattezzò Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, suona: “Esistono problemi che non potremmo superare se la natura stessa non ci avesse liberato da loro in partenza”53. È possibile leggere questo aforisma come un’allusione indiretta di Kafka a se stesso e alla propria diversità, a quella peculiare sensibilità che lo
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Ivi, p. 285. – Si è preferita però adottare qui la versione italiana rivista da Scaramuzza che rende unabsehbar con “imprevedibile” anziché, come suggeriva Solmi, con “invisibile”. 51 Ibidem (anche qui tr. modif. sulla scorta di Scaramuzza). 52 Milena Jesenska, lettera a Max Brod dell’agosto 1920, in F. Kafka, Lettere a Milena, Mondadori, Milano 1988, p. 270. 53 Cfr. F. Kafka, Confessioni e diari, cit., p. 798 (tr. it. di Italo A. Chiusano).
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porta in innumerevoli scritti ad evidenziare l’insormontabile difficoltà che si cela dietro alle apparentemente innocue vicende quotidiane. La comprensione dei fatti, e ancor più quella dei gesti, sembra essere, in questo senso, una qualità innata negli uomini, ma non in lui. Mentre gli altri sono sollevati da questa logorante fatica in maniera naturale, Kafka è invece soffocato da essa. Spinto da questo disagio misto a imbarazzo, Kafka sarebbe indotto, secondo Benjamin, ad “investigare” la natura di quel “teatro universale” che abbiamo visto essere per lui il mondo, intraprendendo una sorta di ‘pellegrinaggio’ all’interno di esso. L’esito di questo pellegrinaggio possiamo dire di conoscerlo già: il protagonista di America è destinato a perdersi; nel peggiore dei casi, come ne Il processo, il protagonista è destinato alla pena di morte. Ma quello che importa di più a Benjamin è tornare a sottolineare la centralità esclusiva e disorientante di un gesto al quale si è continuamente rimandati, senza mai poterlo inserire in un contesto, in uno scenario che gli offra una cornice di senso. “La scena su cui questo dramma si svolge”, scrive infatti, “è il theatrum mundi, di cui il cielo costituisce lo sfondo. Ma questo cielo è soltanto uno sfondo: e investigare la sua legge propria sarebbe come appendere il fondale dipinto della scena in cornice in una galleria di quadri”54. Non esiste dunque uno sfondo che possa offrire ai singoli gesti una cornice di senso universale ovvero univoca. Ed è proprio per questo che, come Benjamin prosegue: “L’elemento decisivo, il centro della vicenda, rimane il gesto”55. L’obbiettivo di Kafka sembra essere dunque quello di voler portare l’attenzione del lettore alla percezione e all’analisi dei gesti. Per fare ciò “egli toglie al gesto dell’uomo i sostegni tradizionali”, spiega Benjamin, “ed ha così in esso un oggetto a riflessioni senza fine”56. Privando così il gesto di quella cornice che sola lo rende umano, Kafka priva l’uomo di quei sostegni, di quegli strumenti che sembrano mancare prima di tutto a lui stesso, e grazie ai quali egli riuscirebbe ad evitare quei problemi insuperabili da cui ‘la natura ha liberato l’uomo in partenza’. Così facendo, però, Kafka prima di tutto ci avverte che una prospettiva completamente e radicalmente diversa esiste, ed è quella appunto di chi, diversamente dai comuni esseri umani, non conosce la natura del gesto e talvolta si scopre essere piuttosto “un animale”: “Si possono leggere per un buon tratto le storie animali di Kafka senza avvertire che non si tratta di uomini.
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W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 285. Ivi, pp. 285 s. 56 Ivi, p. 286. 55
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Quando si imbatte nel nome della creatura – la scimmia, il cane o la talpa –, il lettore alza gli occhi spaventato e si accorge di essere già lontanissimo dal continente dell’uomo”57. Attraverso questi animali antropomorfi o, più correttamente, ‘uomini zoomorfi’ Kafka riesce ad ottenere un campo visivo ben più ampio e più fertile per le sue riflessioni. Ma queste riflessioni, una volta aperta una breccia nel fondale del “teatro del mondo”, non hanno più un senso o una direzione; ossia sono “senza fine”. Il campo visivo che si dischiude agli occhi del Kafka ‘animale pensante’, allora, è in realtà non solo ben più ampio di quello tradizionale, ma infinito. In esso non solo restano ovviamente insuperabili i problemi che noi uomini, “se la natura stessa non ci avesse liberato da loro in partenza”, non potremmo superare, ma tutto appare insuperabile, anche le cose più semplici, proprio perché la natura umana, con le proprie categorie, è venuta a mancare. Una volta riconosciuto il carattere di “fondale dipinto”, oltre il quale l’essere umano non può e non deve spingersi, di ciò che fa da sfondo al theatrum mundi, è quasi come se, attraverso la sua scrittura, Kafka avesse voluto fugacemente mostrarci il mondo così come appare senza il velo di Maya: un codice indecifrabile di gesti, un ammasso concatenato di forme e di eventi che non ha alcun senso apparente. Trattando di questi temi Kafka però, secondo Benjamin, “non è sempre sfuggito alle tentazioni del misticismo” ed è in questo senso che Benjamin ritiene di poter citare qui I fratelli Karamazov, per sottolineare come Kafka “sembra spesso non lontano dal dire, col Grande Inquisitore di Dostoevskij: ‘Ma se è così, qui c’è un mistero, e non è da noi comprenderlo. E se un mistero c’è, allora anche noi abbiamo il diritto di predicare il mistero e d’insegnare agli uomini che non la libera decisione dei loro cuori è ciò che importa, e non l’amore, ma il mistero, a cui essi hanno l’obbligo di assoggettarsi ciecamente, e addirittura indipendentemente dalla loro coscienza’”58. Le parabole di Kafka sembrano essere documenti che attestano la presenza di questo grande mistero. Tra di esse si distingue la già citata parabola Davanti alla Legge, che è una tra le più complesse ed elaborate che Kafka abbia mai ideato. In essa – e Benjamin riprende qui volutamente l’espressione da lui usata con riferimento al “gesto” – “le riflessioni non hanno singolarmente mai fine”59, ossia: ogni singola riflessione atta
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Ibidem. Ivi, p. 288. 59 Ivi, p. 286. 58
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ad interpretarla e a comprenderla apre un suo proprio orizzonte, ognuna conduce ad una propria strada indipendente da tutte le altre possibili. E le altre strade possibili sono, appunto, infinite. Vor dem Gesetz, questo il titolo originale della parabola, è uno scritto che fu pubblicato prima da Kafka come testo autonomo nella raccolta Ein Landarzt e poi inserito nel nono capitolo del Processo. “Il lettore che la trovava nel Medico condotto”, scrive Benjamin, “urtava forse il punto nebuloso nel suo interno. Ma non si sarebbe mai sognato di intraprendere la serie senza fine di considerazioni che scaturiscono da questa parabola dove Kafka si accinge alla sua spiegazione. Ciò avviene ad opera del prete nel Processo: e in un punto così saliente che si potrebbe pensare che il romanzo sia la parabola dispiegata”60. A questo punto che Benjamin introduce un’importante distinzione tra due diversi modi in cui si può “dispiegare” [entfalten] una parabola. Il primo e più consueto è quello che ad essa è “propriamente adeguato”. Esso corrisponde al “piacere del lettore” che tende a concentrarsi sull’interpretazione della parabola per il gusto di scioglierne i nodi, di appiattirla, di dispiegarla “come si dispiega un bastimento di carta fino ad ottenerne un foglio liscio”. L’altro modo, in realtà, non è affatto un modo praticato dal lettore, ovvero non dipende dall’approccio del lettore, ma è il modo proprio e naturale in cui le parabole stesse in Kafka si dispiegano: “come il bocciolo si dispiega nel fiore”, in maniera, appunto, naturale e seguendo un procedimento proprio. “Perciò il loro prodotto è affine alla poesia”, conclude Benjamin. Ma “ciò non toglie”, aggiunge, “che i suoi racconti non si risolvano interamente nelle forme della prosa occidentale e che stiano alla dottrina come l’Hagadah all’Halacha”61. I due termini appena citati richiedono qualche chiarimento. Benjamin li riprende da un saggio, intitolato appunto Halachah e Aggadah62, del poeta e scrittore Chaim Nachman Bialik uscito in ebraico a Odessa nel 1916/17 e tradotto in tedesco da Gershom Scholem, su incarico di Martin Buber, già nel 191963. Nel saggio in questione, contenente una ferma critica alle tendenze dominanti nella letteratura contemporanea in 60
Ibidem. Ivi, pp. 286 s. 62 Se ne veda la recente edizione italiana tradotta da Davide Messina e curata da Andrea Cavalletti: Halachah e Aggadah. Sulla legge ebraica, Bollati Boringhieri, Torino 2006, corredata di una Postfazione di A. Cavalletti che si sofferma in modo esauriente sull’influsso che tale saggio esercitò sull’interpretazione benjaminiana di Kafka. 63 Si veda la lettera di Benjamin a Scholem dell’11 agosto 1934: “Se è possibile, fammi avere al più presto Halakhah e Aggadah di Bialik; lo devo leggere” (lettera riportata in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 46). 61
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lingua ebraica, Bialik riprendeva l’antica distinzione propria della tradizione talmudica tra il genere della Halakàh e quello della Haggadàh, per sottolineare la loro complementarità e necessaria compresenza e integrazione, in una cultura letteraria che “formi e costruisca la vita”64. In particolare Bialik insisteva sull’insostituibile valore che anche in tale prospettiva deve essere riconosciuto al momento e alla cifra stilistica della Halakàh, ossia della dottrina e discussione giuridica che, apparentemente arida, costituisce invece il vero contenuto, la sostanza di ogni letteratura. La Haggadàh invece, ossia il momento della narrazione e della similitudine, con il quale si tende a identificare più immediatamente il fatto letterario, se viene assolutizzata anziché essere riconosciuta come momento complementare al primo e sua immagine esemplificativa, conduce a uno svuotarsi della letteratura (e con essa della vita) “nelle nebbie dei bei sentimenti e delle belle parole”65. Secondo Giuliano Baioni, Kafka doveva aver “quasi certamente letto” il saggio di Bialik nella traduzione di Scholem66. L’assenza di testimonianze dirette a questo proposito è compensata se non altro dalla certezza che Kafka già otto anni prima dell’uscita del saggio in questione conosceva Bialik e lo menzionava negli appunti del suo diario, in data 20 ottobre 1911. Quello che sappiamo invece per certo è che tale saggio influenzò moltissimo Benjamin, il quale adotta questi due generi della tradizione talmudica come una possibile chiave di lettura dell’oscuro fenomeno narrativo kafkiano. Le parabole di Kafka o, più in generale, i suoi racconti, sembrano avere in sé l’elemento haggadico; ossia sembrano essere storielle dimostrative che dovrebbero avere il compito di rinviare a una “dottrina” e di doverla poi illustrare con le loro immagini. “Ma possediamo forse”, prosegue Benjamin, “la dottrina che è accompagnata dalle parabole di Kafka e illustrata dai gesti di K. e nelle movenze dei suoi animali? Essa non c’è, possiamo dire tutt’al più che questo o quel passo allude ad essa”67. Quello che così si annuncia è certamente uno dei temi che più a lungo occuperanno il Benjamin interprete di Kafka. A quattro anni di distanza dall’uscita del saggio che stiamo commentando, in una lettera indirizzata all’amico Scholem del 12
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Ch. N. Bialik, Halachah e Aggadah, cit., p. 45. Ivi, p. 41. 66 Giuliano Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, 2. ed., Edizioni di Storia e Letteratura, ,Roma 2008, p. 96. 67 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 287. 65
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giugno 1938, Benjamin, in un periodo della sua vita molto incerto e travagliato, scriverà che “Kafka “ha sacrificato la verità, per non rinunciare all’elemento haggadico”68. Come ricorda Giuliano Baioni, Bialik considerava gli ebrei moderni, soprattutto quelli occidentali, come dei cultori della sterile bellezza della narrazione poetica, “visto che credevano nell’autonomia dell’arte e veneravano il feticcio dell’art pour l’art”; ma “la Haggadàh senza l’Halakàh” afferma Baioni parafrasando Bialik “era una cosa morta, così come una letteratura che non conducesse alla Legge e non fosse che forma e bellezza era la tomba della verità”69. L’operazione compiuta da Benjamin si pone in un rapporto assai peculiare rispetto alla posizione di Bialik. Interessante è quanto afferma in proposito Andrea Cavalletti: “Benjamin scrive, come Bialik, quando la verità viene abbandonata dall’epica. ma i fenomeni storici, per lui, non sono mai deplorevoli, sono sempre soltanto dialettici: l’apparizione di una pura Aggadah non è altro che l’affiorare di una Halachah remota e indecifrabile. Così Benjamin riprende il progetto di Bialik, e lo stravolge. Lo consegna nelle mani di Kafka, perché questi lo sottoponga a un esperimento rischioso e mirabolante. Cos’è infatti l’opera kafkiana? Una singolare Aggadah, che ruota tutta intorno al cardine di una legge enigmatica”70. In effetti, anche in Kafka l’elemento “halakico”, come suggerisce Benjamin, sembra scomparire e con esso scompare la verità. D’altro lato il rischio del convertirsi della verità in morte, suggerito da Bialik via Baioni, non può non richiamare alla mente il mito ebraico del Golem. Nelle pagine che lo scrittore argentino Jorge Luis Borges dedica ad esso nel suo Libro degli esseri immaginari tale mito viene giustamente posto in relazione con le dottrine cabbalistiche sulla combinazione delle lettere: Non possiamo ammettere nulla di casuale in un libro dettato da un’intelligenza divina, neppure il numero delle parole o l’ordine dei segni; questo ritenevano i cabalisti e si dedicarono a contare, combinare e permutare le lettere delle Sacre Scritture, spinti dall’ansia di penetrare gli arcani di Dio.71
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W. Benjamin, lettera a Gershom Scholem del 12 giugno 1938, in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 55. 69 G. Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, cit., p. 96. – Cfr. Ch. N. Bialik, Halachah e Aggadah, cit., pp. 33 s. 70 A. Cavalletti, Postfazione, in: Ch. N. Bialik, Halachah e Aggadah, cit., pp. 68 s. 71 Jorge Luis Borges, Il libro degli esseri immaginari, Adelphi, Milano 2006, p. 109. – Di questi temi, certamente familiari a Benjamin, si sarebbe occupato a lungo G. Scholem (cfr. ad es. il suo saggio Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Adelphi, Milano 1998), mentre i rapporti tra Kafka e la Cabbalà sono stati studiati soprattutto da Karl E. Grözinger del quale cfr. Kafka e la Cabbalà, La Giuntina, Firenze 1994.
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La verità, dunque, nell’assenza di casualità, come perfezione di combinazione fra parole e segni: questo è il libro delle Sacre Scritture, cui, come ricorda Borges, i cabalisti dedicarono senza tregua le loro vite. La verità come tramite con Dio e al contempo simbolo di Dio stesso. E “verità” è anche e non a caso la ‘parola magica’ in grado di donare la vita, secondo la formula che il rabbino Eleazar di Worms avrebbe conservato. Anche questa viene sinteticamente riportata nelle pagine di Borges: oltre a dover conoscere gli alfabeti delle duecentoventuno porte, i quali dovranno essere ripetuti su ogni organo del Golem, sulla fronte della creatura si dovrà tatuare la parola emet, che significa verità. Mentre per distruggere il Golem basterà cancellare la lettera iniziale, “perché in tal modo vi resterà la parola met, che significa morto”72. E’ proprio questa lettera iniziale, questa aleph, si potrebbe dire allora, che nella scrittura di Kafka sembra essere andata persa: col risultato di trasformare la verità, formula della vita, in una formula di morte e di rendere la letteratura “la tomba della verità”. Baioni seguita a scrivere così: “L’ebreo occidentale, l’esteta, il Literat, non aveva più la forza o la volontà di credere nella verità dell’Halakàh. Per questo era condannato a servirsi delle similitudini bellissime, ma ormai assolutamente intransitive della Haggadàh. La poesia pura, la poesia senza significato e senza verità, la similitudine che non era più funzione della Legge, significava l’esilio e la solitudine”73. E’ opportuno ricordare, a questo punto, che Kafka, come egli scrisse nel 1920 in una lettera a Milena Jesenska, si considerava tra gli ebrei occidentali in assoluto “il più occidentale”.74 E se Baioni ha motivo di credere che il dissolversi della verità sia dovuto al venir meno, nell’ebreo occidentale, della forza o della volontà di credere nell’esistenza dell’Halakàh, della dottrina, Kafka, “il più occidentale” di tutti, è colui che nella sua opera riflette con acuta consapevolezza questo processo e, per così dire, lo mette in scena. E’ nel senso di una tale consapevole riflessione che, come Benjamin scrive a Scholem, “l’opera di Kafka rappresenta [darstellt] una malattia della tradizione”75. La sua scrittura nasce dal gesto di accontentarsi della forma, dell’immagine, in altre parole dell’elemento haggadico. Ci si accontenta della verità parziale, o per meglio dire, sterile 72
Ibidem. G. Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, cit., p. 174. 74 Cfr. F. Kafka, Lettere a Milena, cit., p. 147. 75 W. Benjamin, lettera a G. Scholem del 12 giugno 1938, in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 55. 73
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ed esanime, della “verità nella sua consistenza haggadica”76. Ma proprio questo è allora, secondo Benjamin, l’aspetto più interessante di Kafka: Il tratto veramente geniale di Kafka fu che egli sperimentasse qualcosa di completamente nuovo: sacrificò la verità, per non rinunciare alla trasmissibilità, all’elemento haggadico. Le poesie di Kafka sono costitutivamente allegoriche. Ma la loro sventura e la loro bellezza è che dovessero diventare più che allegoriche. Non si prostrano semplicemente ai piedi della dottrina, come la Aggadah al cospetto della Halakhah. Una volta accucciate le dànno improvvisamente una grossa zampata.77
Nella scrittura di Kafka, dunque, questa “grossa zampata” ha luogo volontariamente: è la poesia che si ribella alla sua dottrina. La lunga lettera del 12 giugno 1938 indirizzata a Scholem è ineludibile per chi voglia farsi un’idea più precisa su come si sia sviluppata la prospettiva di Benjamin su Kafka posteriormente al saggio del 1934. In essa il filosofo berlinese illustra brevemente all’amico anche a cosa avrebbe condotto in Kafka, una volta venuta meno la dottrina, la disgregazione della saggezza: “In Kafka non si parla più di saggezza. Restano solo i prodotti della sua disgregazione”. Per Benjamin essi sono due: “la diceria delle cose vere” e “la follia”78. Il primo prodotto è un po’ come un “giornale teologico dove si sussurra del malfamato e dell’obsoleto” in cui la verità disgregata resta appunto, solo una diceria, un pettegolezzo. Il secondo, invece, Benjamin lo considera “l’essenza delle creature predilette da Kafka: da Don Chisciotte agli assistenti fino agli animali”79. E’ significativamente ancora con un riferimento al Talmud che si chiude il capitolo “Un ritratto d’infanzia” del saggio del 1934. Il riferimento è ora al villaggio di cui Kafka narra nel romanzo Il castello. Secondo quanto scrive Brod80, Kafka si sarebbe ispirato a una località precisa, Zürau nello Erzgebirge. Benjamin suggerisce però egualmente che sia possibile accostare a tale villaggio quello di una leggenda talmudica (che Kafka amasse e conoscesse molte leggende di tale tradizione è cosa risaputa)81.
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Ibidem. Ibidem. 78 Ibidem. 79 Ibidem. 80 Benjamin dichiara che Brod lo avrebbe scritto nella Postfazione alla prima edizione del romanzo (cfr. W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 290), in realtà la dichiarazione di Brod è riportata invece da Willy Haas nel volume Gestalten der Zeit (Kiepenheuer, Berlin 1930, pp. 183 s.), recensito da Benjamin nel 1931 su “Die Neue Rundschau” (si veda la tr. it. di tale recensione in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 18-21). 81 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 290. 77
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In questa leggenda si racconta del perché l’ebreo prepari un banchetto la sera del venerdì: una principessa è prigioniera in un villaggio che non capisce la sua lingua; un giorno essa riceve una lettera in cui si dice che il suo fidanzato non l’ha dimenticata ed è già in viaggio verso di lei. Il rabbino, che della leggenda è il narratore, spiega che il fidanzato è il messia, la principessa è l’anima e il villaggio in cui è rinchiusa in esilio rappresenta il corpo; “e poiché essa non può dire altrimenti della sua gioia al villaggio che non intende la sua lingua, gli prepara un banchetto”82. A dire il vero, in Kafka tutto lascia presagire che il messia sia destinato a non arrivare mai, condannando l’anima alla perdizione eterna all’interno di un corpo che la misconosce. In effetti, questa leggenda talmudica dai toni romantici, richiama quella, dai toni decisamente meno confortanti, che Kafka stesso ha composto sotto il titolo Un messaggio dell’imperatore. Vi si narra di un imperatore, rappresentante in terra del divino, che in punto di morte avrebbe inviato un messaggio proprio “a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze del sole imperiale”. Messosi immediatamente in moto alla ricerca del destinatario, il messaggero incaricato di recapitare il messaggio però “si stanca inutilmente” perché non riuscirà mai ad oltrepassare tutti i confini presenti e ad evitare tutti gli ostacoli che lo separano dal suo obbiettivo. “Ma tu”, così si conclude la leggenda kafkiana, “stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera”83. Ha ragione di dire Benjamin, allora, che “con questo villaggio del Talmud siamo al centro del mondo di Kafka”84. Il destinatario del messaggio imperiale corrisponde alla principessa che riceve la lettera dal suo fidanzato, dal suo lontano imperatore. In Kafka però, al contrario che nella leggenda talmudica, il messaggio non viene mai recapitato; ciò significa che per il messia non solo è diventata un’ardua impresa portare a compimento il suo viaggio verso l’anima, ma che addirittura è diventato per lui impossibile comunicare con essa, farle pervenire il proprio messaggio. Questo non può che apparire a Benjamin come un altro chiaro segno di quella “malattia della tradizione” che egli ritiene di poter rintracciare in Kafka. Il racconto (o la leggenda) Un messaggio dell’imperatore è un’altra testimonianza del fatto che la verità è scomparsa; che la saggezza della dottrina, la verità “nella sua consistenza halakica”, è ormai disgregata. A regnare restano solo le dicerie e soprattutto la follia, che al suo interno, latentemente,
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Ivi, pp. 290 s. F. Kafka, Racconti, cit., pp. 250 s. 84 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 291. 83
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conserva però ancora un briciolo dell’antica saggezza. Una saggezza che sembra trasparire (benché in maniera, per così dire, ‘falsata’), nei gesti inconsulti ed enigmatici degli “aiutanti”, ma anche di altri personaggi di Kafka, all’infuori però dei suoi protagonisti. Come il suddito che ignora il messaggio dell’imperatore e si limita a sognarlo vanamente, o come una principessa che si fosse rassegnata all’idea che il suo fidanzato non la salverà mai, K. vive nel suo villaggio come “l’uomo moderno vive nel suo corpo”85: come un perfetto estraneo. E’ significativamente proprio con la lettura integrale del racconto Un messaggio dell’imperatore che Benjamin, tre anni prima della pubblicazione del saggio di cui ci stiamo occupando, aveva aperto la conversazione radiofonica su Kafka da lui tenuta alla radio di Francoforte il 3 luglio del 193186. Già in quel breve testo, che anticipa diversi aspetti del saggio del 1934, Benjamin si era riferito a Halakàh e Haggadàh e in quella stessa pagina aveva espresso sull’opera di Kafka un’idea suggeritagli, forse, dalle conversazioni avute con Brecht nel maggio e giugno di quello stesso anno (altre ne seguiranno significativamente nell’altro anno cruciale, il 1934). Brecht, infatti, considerava Kafka, oltre che “l’unico autentico scrittore bolscevico”, prima di tutto “uno scrittore profetico”87, e Benjamin scrive: L’opera di Kafka è profetica. Tutte le stranezze di cui è piena la vita con cui essa ha a che fare, il lettore le deve interpretare come piccoli indizi, sintomi di slittamenti che lo scrittore percepisce in tutti i rapporti senza riuscire ad adeguarsi ai nuovi ordini. Così non gli rimane altro che rispondere alle pressoché incomprensibili deformazioni dell’esistenza […] con uno stupore che si mescola certamente del timor panico. Kafka ne è talmente pieno che nessun evento da lui descritto sfugge alla deformazione – che qui, però, non è altro che indagine.88
Quello della “deformazione dell’esistenza” costituirebbe secondo questo testo benjaminiano non solo il tema centrale, ma addirittura l’“unico tema” su cui Kafka ostinatamente si concentra89. Le deformazioni “pressoché incomprensibili” rimandano
85
Ibidem. W. Benjamin, Franz Kafka: Beim Bau der chinesischen Mauer, tr. it. in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 11-18. – Su tale testo cfr. S. Weigel, Zu Franz Kafka, cit., pp. 547549. 87 Le note di diario in cui Benjamin riferisce dei propri colloqui con Brecht sono riportate da Scaramuzza alle pp. 65-71. Qui cfr. pp. 65 s. 88 G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 14. 89 Ibidem. 86
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però qui nuovamente alla indecifrabilità dei gesti, per ribadire così ulteriormente l’estraneità dell’uomo nel suo corpo, nel mondo della saggezza decaduta.
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Capitolo III. Critica alle interpretazioni teologiche lineari Il terzo capitolo del saggio, L’omino gobbo (l’unico, oltre a quello introduttivo – e certamente non è un caso – ad essere pubblicato da Benjamin nel 1934) si focalizza nella sua prima parte sulla questione dei diversi metodi interpretativi applicabili all’opera di Kafka; in particolare Benjamin evidenzia qui l’inadeguatezza che caratterizza a suo parere i metodi interpretativi con i quali Kafka era stato fino ad allora analizzato. Già nella conversazione radiofonica del 1931 Benjamin aveva espresso questo suo punto di vista, che aveva ovviamente per lui una rilevanza centrale: “vorrei comunque accennare a come non si deve spiegare Kafka, perché purtroppo questa è quasi l’unica maniera di riallacciarsi a ciò che finora è stato detto su di lui”90. Anche da questo punto di vista, dunque, il testo del 1931 anticipa quello di tre anno dopo dove, nel terzo capitolo, si legge: “Ci sono due modi di mancare totalmente gli scritti di Kafka. Uno è l’interpretazione naturale, l’altro quella soprannaturale: l’una e l’altra, l’interpretazione psicanalitica come quella teologica, trascurano del pari l’essenziale”91. In realtà l’obiettivo polemico di Benjamin non è qui tanto la prima delle posizioni menzionate (come rappresentante della quale egli si limita a citare il nome di Hellmuth Kaiser92), quanto la seconda. E, su questo fronte, più ancora che l’interpretazione di Max Brod (la cui opera principale su Kafka sarebbe peraltro uscita solo di lì a tre anni93) è il già menzionato saggio del critico e letterato ceco di origine ebrea Willy Haas ad essere oggetto delle radicali riserve benjaminiane: non a caso già la recensione che Benjamin gli aveva dedicato nel 1931 recava il titolo Critica teologica. Anche adesso Benjamin ribadisce che, pur facendo “osservazioni molto interessanti”, Haas non si sarebbe salvato “dall’interpretare l’opera complessiva nel senso di un cliché teologico”94.
90
Ivi, p, 13. W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 292. 92 Il riferimento è a Hellmuth Kaiser, Franz Kafkas Inferno. Eine psychologische Deutung seiner Strafphantasie, in: “Imago”, 1931, n.1, pp. 41-103. 93 M. Brod, Franz Kafka. Eine Biographie (Erinnerungen und Dokumente), Heinrich Mercy, Prag 1937. Benjamin ne redasse una recensione l’anno successivo, rimasta però inedita fino alla sua morte. Se ne veda la trad. it. in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 37-39. 94 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 292. 91
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Benjamin esprime la sua perplessità sull’uso disinvolto che i propugnatori dell’interpretazione teologica avevano fatto dei frammenti e appunti di Kafka pubblicati nel 1931 da Max Brod e Hans Joachim Schoeps sotto il titolo Durante la costruzione della muraglia cinese95 Certo “è più facile trarre conseguenze speculative dalla raccolta postuma delle note kafkiane che penetrare anche uno solo dei motivi che affiorano nelle sue storie e nei suoi romanzi”, scrive infatti Benjamin96. Egli cita in particolare un passo dove Haas, riprendendo in parte suggerimenti di Brod, propone un’interpretazione complessiva dell’opera romanzesca di Kafka, ritenendo di poterla scandire in tre diversi momenti: la rappresentazione del “potere superiore” ovvero del “regno della grazia” nel Castello; quella del “potere inferiore” ovvero del “regno del giudizio e della dannazione” nel Processo; e infine la rappresentazione, “in una severa stilizzazione”, del “destino terreno” e delle sue “difficili esigenze” che avrebbe luogo nella terza fase, che anche Haas, come Benjamin, identifica con il romanzo America97. E’ soprattutto l’idea che il castello possa rappresentare, in un immaginario kafkiano che si vuole a sfondo teologico, la sede inaccessibile della grazia, da dove il divino osserva e giudica i fatti che avvengono nel villaggio, simbolo invece della vita umana e terrena, ad essere già largamente condivisa da diversi interpreti, dopo che Max Brod la aveva espressa nella Postfazione alla prima edizione del romanzo, da lui curata. “Questa interpretazione si può considerare, a partire da Brod”, afferma Benjamin, “patrimonio comune dell’esegesi kafkiana”98. A conferma di ciò, Benjamin può citare un interprete non ebreo, bensì cattolico, Bernhard Rang, il quale nel Castello vede un continuo affannarsi di un individuo alla ricerca della grazia che però “non si lascia ottenere e costringere dall’arbitrio o dalla volontà dell’uomo”99. Anche la proposta interpretativa di Rang nasce in parte sotto la suggestione dei testi kafkiani editi da Brod e Schoeps nel 1931. Qui, in una delle Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, si legge:
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F. Kafka, “Beim Bau der chinesischen Mauer”. Ungedruckte Erzählungen und Prosa aus dem Nachlaß, Kiepenheuer, Berlin 1931 (il volume conteneva anche le già citate Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via). – Si tratta dello stesso titolo che Benjamin diede quell’anno alla propria conversazione radiofonica, dove metteva subito in guardia dalla tentazione di un’interpretazione apertamente teologica dell’opera kafkiana. 96 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 293. 97 Ivi, p. 292. 98 Ibidem. 99 Ibidem. – Il saggio di B. Rang Franz Kafka era apparso nel 1932 sulla rivista cattolica “Die Schildgenossen”.
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Esistono due peccati capitali, nell’uomo, dai quali derivano tutti gli altri: impazienza e ignavia. È l’impazienza che li ha fatti cacciare dal paradiso, è per colpa dell’ignavia che non ci tornano. Ma forse non esiste che un unico peccato capitale: l’impazienza. È a causa dell’impazienza sono stati cacciati, a causa dell’impazienza che non tornano100.
L’impazienza, dunque, come primo, se non unico grande peccato capitale. E’ molto probabile che Rang avesse letto questo appunto prima di formulare la sua interpretazione, dal momento che in essa egli scrive che “l’inquietudine e l’impazienza non fanno che impedire e confondere la sublime quiete del divino”101. Come tutte le interpretazioni che partano da presupposti esclusivamente teologici, però, anche questa si rivela per Benjamin un’interpretazione da scartare, “insostenibile”. Tale insostenibilità si fa tanto più evidente, quanto più le interpretazioni in questione si fanno radicali, ed è questo il caso di Willy Haas, secondo cui Kafka verrebbe da Kierkegaard e da Pascal, sarebbe anzi il loro “solo legittimo discendente”, perché anche in lui, proprio come in loro, sarebbe rintracciabile “il duro e crudele motivo religioso fondamentale: che l’uomo è sempre in torto davanti a Dio”102. Per Haas, quindi, nel Castello, K. lotterebbe invano contro un sistema, contro un Dio che non può concedergli salvezza, proprio perché K., per quanto inesplicabile ciò appaia, è comunque, “profondamente in torto”. Per far risaltare la scarsa plausibilità di questa tesi interpretativa, Benjamin riporta un passo tratto dal paragrafo Bittgänge (“Pellegrinaggi e istanze”) del cap. XV del Castello, dove Olga dichiara: “Un funzionario isolato ha forse il diritto di concedere perdono? Tutt’al più l’autorità riunita potrebbe prendere una decisione, ma probabilmente anch’essa ha il potere di condannare, e non quello di perdonare”103. Rispetto alle letture che si affrettano a proporre un’interpretazione univoca di quel Potere che ha sede nel castello, l’atteggiamento di Benjamin è di invito alla cautela. Ci si può al massimo avvicinare a quei “motivi che affiorano nelle sue storie e nei suoi romanzi”, per cercare di studiarli singolarmente, ma senza costringerli in modo predefinito nell’angustia di categorie estranee come possono esserlo quelle teologiche. Solo questi motivi, infatti, secondo Benjamin:
100
Cfr. F. Kafka, Betrachtungen über Sünde, Leid, Hoffnung und den wahren Weg, tr. it. cit. in Confessioni e diari, cit., p. 793. 101 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 292. 102 Ibidem. 103 Ivi, p. 293.
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possono dare qualche lume sulle forze preistoriche da cui è stata impegnata l’attività di Kafka; e che pure si possono considerare, allo stesso titolo, come potenze storiche dei nostri giorni. Chi dirà sotto qual nome sono apparse a Kafka? Certo è solo che egli non ha saputo raccapezzarvisi; che non le ha conosciute; che ha solo visto apparire, nello specchio che la preistoria gli presentava nella forma della colpa, l’avvenire nella forma del giudizio. Ma come questo giudizio si debba intendere […], a questo Kafka non ha dato risposta.104
In altre parole, è necessario abbandonare l’approccio interpretativo che muove dal presupposto che l’oscurità presente nell’opera di Kafka non sia tale anche per l’autore stesso. La sua opera rappresenta forse un grande interrogativo esistenziale che non viene soddisfatto da alcuna risposta; né è detto che Kafka ne cercasse effettivamente una: “Ma si può pensare che si ripromettesse qualcosa da una risposta? O non cercava piuttosto di rimandarla?”105. Come il protagonista del Processo, ricorda Benjamin, tenta di procrastinare in tutti i modi l’arrivo del verdetto che lo condannerà a morte, così Kafka stesso, nelle cui storie “l’epica riacquista la funzione che aveva nella bocca di Sherazade”, cerca di rinviare il proprio106. Di che verdetto si può trattare, in questo caso? Forse Kafka ha paura di leggere la vergognosa sentenza in cui si attesti il suo fallimento – definitività di un evento, questo, che ad un certo punto non poté più essere ulteriormente procrastinato e che alla fine, nella coscienza dello scrittore, prese la forma del testamento in cui egli ordinava la distruzione della propria opera : “Questo testamento”, scrive Benjamin, “che non può essere eluso da nessuno che si occupi di Kafka, dice che essa [la sua opera] non accontentava il suo autore; che egli considerava i suoi sforzi come mancati; e che si considerava fra coloro che sono destinati a fallire”107. Ecco il verdetto per Kafka: il fallimento. Fallire nella scrittura e nella poesia significa per lo scrittore quel che per K. significa morire. Si tratta di un fallimento,
104
Ibidem. Ibidem. 106 Ibidem. – Della centralità del concetto di “rinvio” o “dilazione” [Aufschub] per l’interpretazione benjaminiana del Processo parla G. Scholem nel suo libro di memorie Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, tr. it. di Emilio Castellani e Carlo Alberto Bonadies, Adelphi, Milano 1992, p. 226 (il passo è riportato anche da G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 10). Scholem ricorda come tale concetto fosse stato da lui posto in relazione con il concetto di giustizia nel breve testo del 1919 Über das Buch Jonas und den Begriff der Gerechtigkeit. Il passo del saggio su Kafka che stiamo commentando reca evidentemente traccia delle discussioni che i due amici ebbero sull’argomento. Il manoscritto di Scholem del 1919, rimasto a lungo inedito, è stato poi pubblicato in G. Scholem, Tagebücher 1917-1923, Jüdischer Verlag, Frankfurt a.M. 2000, pp. 522-532. 107 Ivi, p. 294. 105
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sostiene Benjamin, dovuto all’insuccesso dei suoi sforzi di capire quel gesto che emerge nelle sue parabole come “un punto oscuro e nebuloso”108. In che senso, allora, Kafka avrebbe fallito? Quale avrebbe dovuto essere l’esito auspicabile che invece non c’è stato? Secondo Benjamin l’esito mancato è quello che avrebbe consentito di “ricondurre la poesia alla dottrina e di ridarle, come parabola, la solidità inappariscente che sola gli sembrava convenirsi al cospetto della ragione”109. Insomma: ad essere fallito è il tentativo di trovare o ritrovare la dottrina, di ristabilire un saldo rapporto fra Halakàh e Haggadàh. A questo orizzonte non è estranea la “vergogna” con cui si chiude Il Processo: “E gli parve che la sua vergogna gli sarebbe sopravvissuta”. Una vergogna che Benjamin considera appunto “il più forte gesto di Kafka” 110: capace di sopravvivergli per mezzo della sua opera incompiuta e sterile e che per tale motivo andava distrutta. La vergogna di uno scrittore che non vuole lasciare testimonianza alcuna del suo fallimento, che non ha saputo raccapezzarsi tra le forze e i gesti che si manifestavano nelle sue storie. In diverse lettere indirizzate a Scholem e a Werner Kraft, Benjamin sottolinea la necessità di non trascurare la questione del fallimento di Kafka111; un fallimento sì personale, ma a cui Kafka è stato costretto da un fallimento ben più grande, di cui il suo è solo un riflesso: è il fallimento della stessa dottrina, di una dottrina ‘rovesciata’ da cui non deriva saggezza ma solo follia. Anche Bertolt Brecht, per quanto per vie e in forme molto diverse, durante le sue conversazioni con Benjamin in Danimarca nell’estate del 1934, dichiara di considerare Kafka uno scrittore fallito: in lui l’“elemento parabolico è in conflitto con quello visionario”, e “come visionario Kafka ha visto il futuro, senza vedere che cosa è” 112. Molto in Kafka, sostiene Brecht, si alimenta di questa mancata comprensione, è una 108
Ibidem. Ibidem. 110 Ibidem. 111 Si veda soprattutto la lettera a W. Kraft del 12 novembre 1934, dove Benjamin scrive: “Penso effettivamente che ogni interpretazione che [...] partisse dall’ipotesi di un’opera mistica da lui realizzata, invece che [...] da quel sentimento dell’autore stesso, dalla sua giustezza e dai motivi del necessario fallimento – mancherebbe il punto nodale storico dell’intera sua produzione” (lettera riportata in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 75-77; qui cfr. in part. p. 76). Sullo stesso tema cfr. la lettera a Scholem del 20 luglio 1934 (in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 45), mentre nella già più volte citata lettera del 12 giugno 1938 la necessità di accentuare il fallimento di Kafka è intesa da Benjamin in senso autocritico rispetto al proprio saggio del 1934, il cui tono è giudicato ora da lui troppo “apologetico”. Avremo occasione di tornare su questo punto nelle Conclusioni del presente lavoro). 112 Cfr. la conversazione del 6 luglio 1934, in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 68. – Poco sopra Benjamin aveva annotato: “per Brecht [...] Kafka, che egli considera un grande scrittore, come Kleist, come Grabbe o Büchner, è un fallito”. 109
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“smania di far misteri” e va scartato. Le immagini invece, che Brecht definisce come “utili” e “buone”, sono l’essenza della scrittura di Kafka, le uniche che possano condurre ad un qualche risultato. Per lo scrittore tedesco, quindi, il vero Kafka è da ricercare solo in quelle immagini in cui questi si mostri accessibile e comprensibile; non nei misteri di profondità insondabili: “Con la profondità non si va avanti. La profondità è una dimensione per sé, profondità, appunto – dove non si vede proprio nulla”113. Certo la sensibilità di Benjamin, nonostante la sua convinta assunzione del “modo di vedere materialistico”114, resta per molti aspetti distante da quella di Brecht. La sua analisi, in realtà, non è affatto priva di motivi teologici, ma ne è anzi consapevolmente intrisa115; egli si oppone solo a certe semplificazioni dell’ottica teologica, come quelle dei già citati Brod e Haas. A proposito di quest’ultimo, tuttavia, Benjamin è disposto a riconoscere “che pure ha fatto su Kafka osservazioni molto interessanti”116. In particolare egli riprende la sua idea secondo cui il “vero protagonista” del Processo sarebbe l’oblio. L’ipotesi di Haas che questo “centro misterioso” derivi “dalla religione ebraica” è per Benjamin “una tesi che non si può scartare alla leggera”. Ed egli può far proprie in questo senso, le parole dello stesso Haas: “Qui la memoria come pietà svolge una parte quanto mai misteriosa. Non è uno, ma il più profondo attributo di Jehova quello di ricordare, quello di avere una memoria infallibile ‘fino alla terza e alla quarta generazione’, anzi fino alla ‘centesima’”117. L’oblio, ossia l’opposto di questo stupefacente attributo divino, è la sostanza di cui è composta l’opera di Kafka; esso è “il recipiente da cui urge alla luce l’inesauribile mondo intermedio delle storie di Kafka”, scrive Benjamin118. Ma da dove giunge questo oblio se non dal continuo processo di disgregazione della saggezza causato dalla caduta della dottrina? La scrittura di Kafka, come detto, potrebbe rappresentare un tentativo di recupero della dottrina attraverso la ricerca, nell’oblio, del dimenticato, che ancora vi sopravvive, come suggerisce Benjamin, sotto forma di ‘relitti’.
113
Conversazione del 5 agosto, in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 70. Si cfr. a questo proposito la lettera di Benjamin a Max Rychner del 7 marzo 1931 in: W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino1997, pp. 264-266. 115 Ciò vale, prima ancora che per la sua interpretazione di Kafka, per lo stile del suo pensiero in generale. Si pensi al celebre appunto N 7a,7 del Passagen-Werk: “Il mio pensiero sta alla teologia come la carta assorbente all’inchiostro. Ne è completamente imbevuto. Se dipendesse, tuttavia, dalla carta assorbente, non resterebbe nulla di ciò che è scritto” (in: W. Benjamin, I “passages” di Parigi, cit., p. 528). 116 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 292. 117 Ivi, p. 296 (cfr. W. Haas, Gestalten der Zeit, cit., p. 195). 118 Ibdem. 114
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“Depositari del dimenticato” in Kafka sembrano essere prima di tutti gli animali, gli animali pensanti e dagli atteggiamenti tanto umani come l’animale del racconto La Tana o la “talpa gigante” del racconto Il maestro del villaggio, che vediamo “mulinare e lambiccarsi il cervello, così come li vediamo frugare e scavare”. Questi animali, sostiene Benjamin, “non sono la meta, ma sono indispensabili per arrivarci”119. Ossia: gli animali non sono essi stessi parte del dimenticato, non rappresentano il genere umano in quella preistoria in cui la saggezza non era ancora disgregata, ma sono soltanto simbolo di un vacillante baluardo dietro cui la saggezza si nasconde e tenta di sopravvivere. Anche il pensiero degli animali, infatti, scrive Benjamin è “a sua volta qualcosa di assai labile ed incerto. Oscilla irresoluto da una preoccupazione all’altra, assaggia tutte le angosce e ha la volubilità della disperazione”120. E’ la disperazione cui conduce la soffocante presenza dell’oblio, la cui luce è deformante, sotto la cui luce le cose assumono forme irriconoscibili; un po’ come Odradek, lo strano essere che vive in soffitta, nel sottoscala o nell’androne, il cui corpo è solo un rocchetto fatto di bastoncini, “il più strano bastardo che la preistoria abbia generato in Kafka con la colpa”121, lo definisce Benjamin, che aggiunge: “Odradek è la forma che le cose assumono nell’oblio”122. L’opera di Kafka è ricca di questi “bastardi”, di questi esseri “deformati e irriconoscibili”; la creatura più esemplare e famosa in questo senso, richiamata qui da Benjamin, è senza dubbio il grosso insetto della Metamorfosi, il cui nome, prima che l’oblio arrivasse a cancellare ogni aspetto del passato, designava una persona del tutto normale: il commesso viaggiatore Gregor Samsa123. Totale è la trasformazione che Samsa subisce: essa riguarda non soltanto la forma e l’aspetto, ma anche le sue più intime abitudini. Per esempio, quella che un tempo era la sua bevanda prediletta, il latte, diventa ora un liquido estraneo e disgustoso. “Ma questi personaggi di Kafka” conclude Benjamin “si ricollegano, attraverso una lunga serie di figure, al prototipo della deformità, al gobbo”124. Al gesto della vergogna, definito prima come “il più forte”, Benjamin affianca qui quello egli ritiene essere il gesto “più frequente” in Kafka: il gesto di chi “piega
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Ivi, p. 297. Ibidem. 121 Ibidem. – Di Odradek Kafka parla, come è noto, nel racconto Il cruccio del padre di famiglia. 122 Ivi, p. 298. 123 Ibidem. 124 Ibidem. 120
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profondamente la testa sul petto”; ovvero il gesto più comune dei funzionari, dei giudici e degli impiegati che conducono le loro cupe esistenze in mansarde o soffitte dai tetti molto bassi125. Si potrebbe dire che tali personaggi costituiscano per Benjamin una sorta di genia, discendente dall’“omino gobbo”, l’insolito protagonista di un’antica canzone popolare tedesca126. Questo bucklicht Männlein, scrive Benjamin, che riporta nel suo saggio le strofe conclusive della filastrocca, “è l’inquilino della vita distorta; e svanirà quando verrà il messia, di cui un gran rabbino ha detto che non intende mutare il mondo con la violenza, ma solo aggiustarlo di pochissimo”127. Il terzo capitolo del saggio si chiude con questo riferimento a un orizzonte messianico affidato, per la sua sopravvivenza, al più piccolo dettaglio, cui segue, poche righe dopo, il riconoscimento della grande importanza che avrebbe avuto per Kafka quella “preghiera naturale dell’anima” che è l’“attenzione”128. Il capitolo dedicato alla confutazione delle interpretazioni teologiche dell’opera kafkiana si conclude dunque, significativamente, con una peculiare rivisitazione di categorie religiose, quasi a confermare la caratterizzazione che di Benjamin diede il suo amico ed interlocutore prediletto, Gershom Scholem, quando, in un saggio a lui dedicato, lo definì “un teologo trasferito in campo profano”129.
125
Ibidem. Come egli racconta in Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino 2001, pp. 71 s., Benjamin aveva confidenza con la filastrocca Das bucklige Männlein (originariamente riportata da L.A. von Arnim e C. Brentano in Des Knaben Wunderhorn) fin da bambino, essendo essa inclusa nel volume per l’infanzia Illustriertes deusches Kinderbuch di Georg Scherer. 127 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., pp. 298 s. – Anche questo detto ebraico, come prima l’episodio su Potemkin, è riportato oltre che da Benjamin anche da Bloch (cfr. E. Bloch, Tracce, cit., p. 216). La stessa cosa vale, poco più avanti, per la storiella chassidica che apre l’ultimo capitolo del saggio, anch’essa (come Potemkin) già oggetto di una delle Vier Geschichten pubblicate sul “Prager Tagblatt” e narrata da Bloch in Spuren (cfr. E. Bloch, Tracce, cit., pp. 97 s.). 128 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 299. 129 G. Scholem, Walter Benjamin (1964), in: Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano 1978, p. 93. 126
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Capitolo IV. Lo studio come categoria messianica
Il tempo che gli indovini interrogavano, per carpirgli ciò che celava nel suo grembo, da loro non era certo sperimentato né come omogeneo né come vuoto. Chi tiene presente questo forse giunge a farsi un’idea di come il tempo passato è stato sperimentato nella rammemorazione: e cioè proprio così. E’ noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece nella rammemorazione. Ciò liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quanti cercano responsi presso gli indovini. Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia.130
Così recita l’ultima delle tesi che compongono lo scritto di Benjamin Über den Begriff der Geschichte (Sul concetto di storia). La rammemorazione è lo studio del passato, uno studio cui Benjamin riconosce, con la tradizione ebraica, una valenza messianica. Proprio questa pratica tipica della tradizione ebraica, Benjamin crede di intravederla anche in certi personaggi misteriosi dell’universo di Kafka. Si tratta degli studenti che – affini in questo ai pazzi e agli aiutanti – non si stancano mai e leggono tutta la notte. Per meglio far risaltare i tratti peculiari di tali figure, Benjamin ricorre a un ardito montaggio di citazioni che inizia con le battute finali del racconto Bimbi sulla via maestra – dove si parla dei pazzi che non dormono mai perché mai si stancano – e, passando per una frase tratta dal cap. 12 del Castello, dove gli instancabili aiutanti sono accostati agli studenti, approda infine alla scena in cui, quasi alla fine del cap. VII di America, uno studente appare all’improvviso a Karl nel balcone accanto: “‘Ma quando dorme?’, chiese Karl guardando meravigliato lo studente.‘Sì, dormire!’, disse lo studente, ‘dormirò quando avrò finito i miei studi’”131. In un autore per interpretare il quale, secondo Benjamin, non si può comunque prescindere del tutto da motivi teologici di derivazione ebraica, questo studio folle, è un aspetto che non va trascurato. Lo studio, scrive Benjamin, ha la virtù di tenere desti: “Nei loro studi gli studenti vegliano, e forse la massima virtù dello studio è proprio
130 131
W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 56. W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., pp. 300 s.
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quella di tenerli desti”132. Svegli devono restare questi studenti, perché il loro compito è quello di vegliare. Cosa studiano però costoro? Non studiano forse il passato? Benjamin li paragona agli attori del teatro naturale di Oklahoma, la cui parte è “la loro vita precedente”: imparandola, tali attori “sono redenti”. Non così gli studenti, però, che ancora si affannano, che “sono sempre all’inseguimento”133. A questi studenti spetta l’arduo compito di arrivare a “comprendersi” – “ma con che enorme sforzo!” commenta Benjamin, “Poiché è una tempesta quella che spira dall’oblio. E lo studio è una cavalcata nella direzione opposta”134. Questo studio è uno studio disperato, fanatico, intensissimo, affannato a non sprecare nemmeno un briciolo di tempo, ma non tanto perché il lavoro da svolgere sia lungo e faticoso, quanto perché il tempo che un uomo ha a disposizione è assai limitato: è il tempo di un uomo. “C’è, fra le creature di Kafka, una razza che tiene particolarmente conto della brevità della vita”135, scrive Benjamin, ed è quella di coloro che non dormono, la razza dei pazzi, che essendo tali non si stancano mai. “E in effetti gli studenti, che appaiono in Kafka nei punti più impensati, sono i portavoce e i reggenti di questa razza”136. Ma questo continuo affannarsi sembra essere in Kafka una cosa del tutto vana. Studiare il passato significa rammemorarlo, proteggerlo, custodirlo, vegliare su di esso. Significa attenersi alla volontà della dottrina, della Legge. Come si può però studiare ancora in un mondo in cui tale dottrina è venuta meno? “Kafka non osa associare a questo studio le promesse che la Tradizione ricollegava a quello della Torah.” – scrive Benjamin – “I suoi aiutanti sono sagrestani rimasti senza parrocchia; i suoi studenti, scolari senza scrittura”137. E proprio questo punto diviene oggetto, nell’estate del 1934, di un appassionato scambio epistolare con Scholem138, sul quale avremo occasione di tornare. Giulio Schiavoni, nel suo volume Walter Benjamin. Il figlio della felicità, sottolinea giustamente che “problema comune a Kafka e a Benjamin è quello di interrogarsi sulle possibilità residue per la Tradizione di essere visibile e comunicabile,
132
Ivi, p. 301. Ivi, p. 302. 134 Ivi, p. 303 (cit. secondo la trad. rivista da G. Scaramuzza). 135 Ivi, p. 300. 136 Ivi, p. 301. 137 Ivi, p. 304. 138 Si veda la lettera di Scholem a Benjamin del 17 luglio, cui Benjamin risponde l’11 agosto. Entrambe le lettere sono riportate in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 43 s. e 46 s. 133
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e sul significato del suo stravolgimento, del suo esautorarsi”139. D’altro lato, “è proprio questo senso di straniamento e di vacuum di significati”, scrive ancora Schiavoni, “a determinare, secondo Benjamin, l’intrinseca follia dei personaggi kafkiani e la valenza tragica della loro intima comicità”140. Nel vegliare degli studenti (così come nel digiunare del digiunatore e nel tacere del guardiano) Benjamin ritiene di poter riconoscere la “forma segreta” in cui agiscono in Kafka “le grandi regole dell’ascesi”: “la loro corona è lo studio”141. Come i suoi studenti, Kafka vorrebbe condurre una vita ascetica, restare in disparte, estraniarsi da quel grande teatro che è il mondo; come loro vorrebbe forse buttarsi a capofitto nello studio e ritrovare un contatto con la saggezza perduta della dottrina. Consapevole però dell’estrema difficoltà di una simile impresa, Kafka, il “più occidentale” tra gli ebrei occidentali, diffida guardingo di quelle soluzioni proposte dalla cultura ebraica a lui contemporanea, che egli ritiene scorciatoie. Lo scrittore austriaco di origine ebrea Arthur Schnitzler, nel suo romanzo Der Weg ins Freie, durante una discussione su sionismo e assimilazionismo, aveva fatto dire al suo personaggio Heinrich Bermann: Non credo, in generale, che questi pellegrinaggi verso la libertà si possano fare in gruppo… perché le strade che vi conducono non sono tracciate sul terreno, ma dentro di noi. Si tratta soltanto, per ognuno di noi, di prendere la giusta via interiore.142
E’ questo l’atteggiamento che anche Kafka assumerà nei confronti di movimenti culturali assai forti all’interno dell’ebraismo praghese, come il cultursionismo di Martin Buber, che annoverava fra i suoi più accesi sostenitori lo stesso Max Brod. Il progetto di difesa e rivitalizzazione della cultura ebraica promosso da Buber in seno al movimento sionista fu sempre visto con sospetto non solo da Kafka, ma anche dallo stesso Benjamin, che poté trovare certamente in questo un motivo di profonda consonanza con lo scrittore praghese. Invitati a collaborare alla rivista Der Jude, entrambi respinsero tale offerta: nel 1915, in modo laconico, ma deciso, Kafka; nel 1916, in modo assai più articolato e muovendo in una lunga lettera critiche sostanziali al progetto buberiano, Benjamin. Giuliano Baioni così commenta: “Walter Benjamin
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Giulio Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, Einaudi, Torino 2001, p. 256. Ivi, p. 258. 141 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 301. 142 Arthur Schnitzler, Verso la libertà, tr. it. di Liliana Scalero, Mondadori, Milano 2008, p. 191. 140
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motivò nel luglio del 1916 il proprio rifiuto con un dispiegamento di argomenti speculativi che davano voce al laconico diniego dello scrittore. L’unione di parola e di azione che ispirava il cultursionismo di Buber significava, secondo Benjamin, svilire la sacralità della parola, che era vera e salvifica solo nella sua magia, nel suo segreto, nella sua indicibilità. L’attivismo buberiano la riduceva a strumento di una volontà che, per affermarsi nel mondo, doveva necessariamente servirsi della parola ‘dicibile’ e ‘pronunciabile’ della mondanità”.143 Come sottolinea lo stesso Baioni, è avvertibile in questa lettera l’eco della riflessione sul linguaggio che Benjamin aveva sviluppato quello stesso anno nel saggio Über die Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen144. In tale saggio, Benjamin aveva tratteggiato i contorni di una condizione originaria, caratterizzata da una sorta di “illimitata comunicabilità cosmica o di flusso cosmico ininterrotto della parola, che attraversava tutta la creazione e andava dalle forme più infime sino all’uomo, e dall’uomo a Dio, definito come il principio che aveva reso le cose riconoscibili nel loro nome”145. Questa è l’era che fu della lingua adamitica o edenica; l’era in cui la lingua non era un semplice strumento, un mezzo per comunicare, ma il puro medium spirituale della comunicazione stessa, l’era in cui la lingua “comunica[va] se stessa”146. Oggi, invece, ciò che resta è soltanto la lingua come mezzo e non più come medium. La lingua dell’uomo è diventata solo “perversione della lingua adamitica”, come scrive Baioni: è fatta di una parola sterile e convenzionale che può trasmettere solo significati apparenti, “il linguaggio della menzogna, della convenzione, dell’ideologia”147. Il tema della crisi della parola e della comunicazione torna con insistenza nella letteratura europea di fine secolo, in particolare in quella austriaca di autori come Rilke e Hofmannstahl, nella cui Lettera di Lord Chandos tale problema trova espressione con una radicalità a suo modo insuperabile. Riferendosi proprio a Hofmannstahl, Benjamin nell’ultima sua dichiarazione su Kafka pervenutaci, contenuta nella lettera ad Adorno del 7 maggio 1940, attribuisce a Kafka l’adempimento di un compito storico: “Il suo [di
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G. Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, cit., pp. 163 s. – La lettera di Benjamin a Buber è tradotta in W. Benjamin, Lettere 1913-1940, tr. it. di Anna Marietti e Giorgio Backhaus, Einaudi, Torino 1978, pp. 23-25. 144 Se ne veda la tr. it. Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo in W. Benjamin, Angelus Novus, cit., pp. 53-70. 145 G. Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, cit., p. 164. 146 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 55. 147 G. Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, cit., p. 164.
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Hofmannstahl] ‘mutismo’ era una sorta di punizione. La lingua di cui Hofmannstahl si è privato potrebbe essere proprio quella che all’incirca nello stesso momento venne data a Kafka. Kafka si è infatti assunto il compito di cui Hofmannstahl si è mostrato moralmente e anche poeticamente incapace”148. Benjamin sta qui parlando della lingua di Kafka, e un’interpretazione convincente delle sue parole è quella proposta da Baioni; “Se un Rilke o un Hofmannstahl vivono la crisi della parola come una mistica delle cose, Kafka fa del motivo della Sprachskepsis una mistica del nome o una ricerca del vero nome delle cose”149. Quello di Kafka sarebbe un passo, dunque, che muove verso un tentativo di riavvicinarsi all’essenzialità della lingua adamitica. Specialmente nel Kafka più giovane, che risente maggiormente del clima della crisi della parola di fine secolo, l’assunzione di questo compito si avverte in modo sensibile. Nel suo racconto Beschreibung eines Kampfes, per esempio, risalente al 190406, esso si manifesta in uno stile di scrittura molto singolare: il repertorio lessicale è minimo, il ritmo della frase a momenti trattenuto da insoliti arresti sintattici, spesso riconducibili a spostamenti avverbiali, bizzarri sono i nessi di consequenzialità. Kafka ha forse tentato così di ridurre al minimo il “significante” per mettere in risalto il “significato”. Baioni, a questo proposito, ha parlato di un’umana “responsabilità verso le cose”150. Come già detto in precedenza, il problema comune a Kafka e a Benjamin è quello di far sì che la tradizione ritorni ad avere la propria consistenza e ad essere di nuovo comunicabile. E’ a tale scopo che diventa necessario tornare a riflettere e agire su quell’elemento indispensabile e vitale che è la lingua, il solo medium al cui interno la dottrina può tornare a manifestarsi e la saggezza può essere nuovamente recepita. In una lettera del 6 settembre 1917, quindi dopo la stesura del saggio sul linguaggio e molto prima di cimentarsi nell’interpretazione di Kafka, Benjamin faceva partecipe Scholem di una riflessione fondamentale in tal senso. Egli applicava qui infatti al concetto di tradizione quella stessa categoria di medium che aveva svolto un ruolo chiave in tutta la sua riflessione sul linguaggio:
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Il passo della lettera è riportato in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 88. G. Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, cit., p. 165. 150 Ivi, pp. 165 s. 149
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Sono convinto di questo: la tradizione è il medium nel quale il discente si trasforma continuamente nel docente[...]. Solo in colui che ha inteso il proprio sapere come un sapere tramandato il sapere stesso diventa tramandabile.151
Quella “malattia della tradizione” che, secondo la lettera del giugno 1938, rappresenterebbe l’opera di Kafka, è allora prima di tutto ‘malattia del linguaggio’. In questo senso c’è una profonda coerenza fra le idee di fondo espresse nel saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo e il modello interpretativo basato sulla relazione tra Haggadàh e Halakàh che Benjamin propone per Kafka. L’eclissarsi della dottrina è tutt’uno, più che con il suo estinguersi (di fatto essa esiste ancora), con l’impossibilità per la saggezza di comunicarsi. Il vero problema sono i destinatari del messaggio divino che non riescono più a recepirlo, a decifrarlo. Per usare le espressioni della lettera di Benjamin, il problema è forse quel docente che non è stato davvero discente o che non sa di esserlo stato, ossia: che non ha accolto il proprio sapere come un sapere tramandato. In questo senso si potrebbe dire, radicalizzando, che nell’opera di Kafka la Tradizione esiste sì, ma non può essere riconosciuta: così tende almeno a interpretare la questione Gershom Scholem152, mentre Benjamin – con altra, forse più filosofica e meno teologica, radicalità – tende piuttosto ad identificare il problema della decifrabilità della dottrina con quello della sua stessa sussistenza. “Quegli studenti di cui parli alla fine non sono tanto scolari che hanno smarrito la scrittura [...], quanto piuttosto scolari che non possono decifrarla”, scrive infatti Scholem nella sua lettera a Benjamin del 17 luglio 1934; mentre Benjamin l’11 agosto ribatte: “Che gli scolari l’abbiano smarrita o che non sappiano decifrarla è infine la stessa cosa, poiché la scrittura senza la sua chiave non è scrittura, è vita. Vita come viene condotta nel villaggio ai piedi del monte dove sorge il castello”153. Insomma: la vera scrittura, il vero linguaggio è andato perso, il ‘flusso adamitico’ delle origini è stato deviato, l’essenza della saggezza è rinchiusa prigioniera
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W. Benjamin, Lettere 1913-1940, cit., p. 33 (tr. modif.). Per l’interpretazione di Scholem cfr. Stéphane Mosès, Il problema della legge: l’interpretazione scholemiana di Kafka, in: Marina Cavarocchi, La certezza che toglie la speranza. Contributi per l’approfondimento dell’aspetto ebraico in Kafka, La Giuntina, Firenze 1988, pp. 161-176, qui a p. 166: “Per Scholem, l’opera di Kafka rappresenta pur sempre un caso limite della storia della rivelazione. Essa testimonia di quel punto in cui la rivelazione è divenuta incomprensibile, ma rimane ancora in vigore come punto di riferimento”. 153 G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 43 e 47. – Scholem ribatte a sua volta nella lettera del 20 settembre: “Non posso condividere la tua opinione secondo cui è la stessa cosa, che gli scolari abbiano smarrito la ‘scrittura’ oppure non possano decifrarla, e anzi, mi pare l’errore più grave in cui potessi incorrere. Proprio la differenza tra questi due stadi è ciò a cui mi riferisco, quando parlo del nulla della rivelazione” (in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 50). 152
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in un codice linguistico del tutto artificiale e vuoto. Il problema è sempre di chi deve ricevere, ed è, a ben vedere, sempre lo stesso del già discusso racconto Il messaggio dell’imperatore, dove quest’ultimo rappresenterebbe Dio e il messaggero il suo messia, colui che porta notizia della volontà divina. Ma questo messia, come già sappiamo, è destinato a vagare in un deserto di incomprensione e mutismo. Lavorare su questo mutismo, sulla lingua che non trasmette altro che Geschwätz, altro che “chiacchiera”154, eliminare questa chiacchiera significa allora studiare. Per tale motivo Benjamin considera lo studio come la “categoria messianica” per eccellenza in Kafka. Egli lo dichiara espressamente in un passo della già più volte citata lettera dell’11 agosto 1934, dove prova a chiarire meglio a Scholem il rapporto che secondo lui sussiste tra l’opera di Kafka e la rivelazione: “Io non nego affatto, per l’opera di Kafka, l’aspetto della rivelazione [...]. La categoria messianica di Kafka è l’‘inversione’ [Umkehr] o lo ‘studio’”155. Ma questa problematica riecheggia anche in una breve frase del saggio, che solo tenendo presente il passo epistolare sopra citato su vita e scrittura può essere compresa in tutte le sue valenze: “Inversione è la direzione dello studio che trasforma l’esistenza in scrittura”156. Nel saggio Rivelazione e tradizione come categorie religiose dell’ebraismo Scholem svolge considerazioni non prive di rilevanza per la problematica di cui ci stiamo occupando. In particolare egli sottolinea come nell’ebraismo la tradizione costituisca “il momento riflessivo che s’incunea tra l’assoluto della parola divina, la rivelazione, e colui che la riceve”: Come tale, essa interroga radicalmente la possibilità di un rapporto immediato col divino [...]. In altri termini: può la parola divina coglierci direttamente, e può essere immediatamente compiuta? O non richiede invece quella parola, appunto nella direzione tracciata dalla tradizione ebraica, di mediarsi proprio all’interno di questa
154 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., pp. 66 s. – Uniformandoci alla scelta di Baioni, preferiamo tradurre Geschwätz con “chiacchiera” anziché con “ciarla”, come propone Solmi. 155 G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 47. 156 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., pp. 303 s. – Ma anche qui si è preferito adottare la traduzione più letterale proposta da Scaramuzza. Non condivisibile risulta, in particolare, la scelta di Solmi di tradurre Umkehr con “ripiegamento”. Benjamin aveva certamente presente, infatti, che Umkehr costituisce la traduzione tedesca corrente dell’ebraico teshuvà che significa “ritorno” e nel linguaggio rabbinico indica il pentimento.
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tradizione, per farsi esperibile e giungere con ciò a compiutezza? Per l’ebraismo rabbinico la risposta a tale questione è ovviamente affermativa.157
Il ruolo di primo piano, di autentico medium della parola divina, che all’interno dell’ebraismo rabbinico è attribuito alla tradizione consente di vedere con ancor più evidenza che cosa significa averla perduta: significa aver smarrito l’unica possibilità di rapporto, inevitabilmente sempre e soltanto mediato, col divino. L’attenzione dell’“ebreo occidentale” Kafka per la forma mentis dell’ebraismo rabbinico trova non poco alimento nelle forti perplessità suscitate in lui dal movimento chassidico e in particolare dalla figura dello zaddik che, giudicati piuttosto severamente anche dallo stesso Scholem nel suo monumentale studio sulla mistica ebraica158, erano esaltati invece dal cultursionismo buberiano. Sulla base di numerose e puntuali testimonianze biografiche relative ai rapporti dello scrittore praghese con queste espressioni dello Ostjudentum, Baioni ritiene di poter proporre una “lettura ebraica della metafora dell’impero cinese” nel racconto del 1917 Durante la costruzione della muraglia cinese. Se tale lettura è giusta, scrive Baioni, allora Kafka sogna di abbattere il potere degli zaddikìm e di riportare al centro dell’ebraismo lo studioso e l’interprete della Toràh. I dignitari dell’imperatore del suo racconto nascondono agli operai i piani della grande costruzione, li privano della conoscenza della Legge. Allo stesso modo gli zaddikìm hanno sequestrato la Toràh sottraendola alla conoscenza dei loro seguaci. Nell’uno e nell’altro caso la verità è prigioniera dei vincoli di una tradizione pervertita che ne impedisce la comunicazione.159
La ricerca e il tentativo di ricomporre la Tradizione, a partire da questa o quella cosa che vi allude – come “un relitto che la tramanda”, scrive Benjamin, ma anche come “un messaggero che la prepara”160 – sembra essere per Kafka un’urgentissima azione che ha la massima priorità. Ed è per questo che, come recita un passo da noi in parte già citato, “gli scrivani, gli studenti sono senza fiato. Sono sempre all’inseguimento”161. Nel loro inconscio disagio e nella loro nottambula disperazione questi personaggi sembrano
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G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, tr. it. di Michele Bertaggia, Marietti, Genova 1986, p. 90. 158 G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, tr. it. di Guido Russo, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 450 s., 458 s. 159 G. Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, cit., p. 166. 160 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 287 (cit. secondo la trad. rivista da G. Scaramuzza). 161 Ivi, p. 302.
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percepire l’incombente arrivo della totale catastrofe, forse la stessa che il filosofo berlinese, ormai prossimo al suicidio, descriverà nella sua nona tesi sul concetto di storia come tragico risultato della potente bufera chiamata Progresso162: la catastrofe della scomparsa del significato, in un mondo fatto di soli “relitti” del passato e della Tradizione, in cui forse alla fine non esisteranno più nemmeno tali “relitti” come testimonianza di una tradizione perduta. La “deformazione dell’esistenza” che, a detta di Benjamin, rappresenta il fondale perenne dell’opera di Kafka163, è frutto della stessa bufera: urgente è quindi la manovra di ‘inversione’ di rotta auspicata da Benjamin nelle tesi e forse disperatamente ricercata dagli studenti di Kafka – prima che sia troppo tardi, prima che la deformazione sia completa. Lo studio è questo tentativo di invertire la rotta, uno sforzo immane proprio perché, come già ricordato in precedenza: “è una tempesta quella che spira dall’oblio”164. In una lettera inviata all’amico Werner Kraft il 12 novembre 1934, quando il saggio sta per essere pubblicato, Benjamin confesserà quanto importante sia stato per lui lo studio dell’opera di Kafka: Questo studio mi ha condotto a un crocevia delle mie idee e delle mie riflessioni, e […] proprio le ulteriori considerazioni a esso dedicate promettono di avere per me il valore che ha la consultazione di una bussola in un territorio senza strade.165
Molto simili alle proprie, infatti, sono le immagini che Benjamin crede di ritrovare nella scrittura di Kafka; nel complesso, anzi, una sola grande e desolante immagine: quella del vasto deserto (del “territorio senza strade”), la cui traversata figura nella tradizione come componente esperienziale essenziale e decisiva per ogni ebreo di qualsiasi epoca. Certo, sia in Kafka sia in Benjamin, a tale immagine sembra sovrapporsene in un secondo momento un’altra ben più terrificante: quella sì di un deserto, ma talmente vasto da non aver fine. La verità, l’essenza della dottrina perduta, la emet, non a caso formula di vita di cui secondo le leggende i vecchi rabbini si servivano per animare i loro golem, diverrebbe allora irrimediabilmente met, formula di
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Si tratta della celeberrima descrizione e interpretazione dell’Angelus Novus di Paul Klee. Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 34-37. 163 Cfr. il già citato passo della conversazione radiofonica del 1931 in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 14. 164 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 303 (cit. secondo la trad. rivista da G. Scaramuzza). 165 La lettera è riportata in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 75-77; la cit. è tratta da p. 76.
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morte. E noi umani deformati, golem presuntuosi ed impazienti, verremmo cancellati dalla storia.
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Capitolo V. Conclusioni
Le conclusioni di questa tesi, che altro non voleva essere, se non un semplice commento al saggio di Benjamin su Kafka, non possono che essere quelle cui è giunto lo stesso Benjamin. A Brecht, che criticava in Kafka la “smania di far misteri” e dichiarava che “con la profondità non si va avanti”, Benjamin, nella conversazione del 5 agosto 1934, aveva provato a spiegare come l’addentrarsi nella profondità non fosse per lui ispirato da un amore per l’oscurità e il mistero fini a se stessi, ma fosse animato al contrario dalla speranza di uscire nuovamente alla luce, con il guadagno essenziale di una prospettiva nuova sulle cose: “penetrare nella profondità è il mio modo di recarmi agli antipodi”. Subito dopo, però, egli aveva ammesso anche il parziale fallimento della sua impresa: “Nel mio lavoro su Kraus sono effettivamente riuscito a raggiungerli. So che quello su Kafka non è riuscito nella stessa misura”166. Ancora quattro anni dopo la pubblicazione del saggio, nel 1938, Benjamin si dirà insoddisfatto del proprio lavoro. Questi anni gli sono serviti per approfondire il caso e sono stati contraddistinti da lunghi e preziosi carteggi con gli amici, con Scholem prima di tutti. L’esito di tali riflessioni e ripensamenti è la formulazione di un giudizio assai drastico nei confronti del suo saggio, di cui lamenta adesso “l’intento apologetico che gli era intrinseco e costitutivo”167. La lettera in cui egli esprime tale giudizio è la già più volte citata lettera a Scholem del 12 giugno 1938, che per molti aspetti può essere considerata la testimonianza estrema di Walter Benjamin interprete di Kafka. La lunga lettera in questione era stata redatta da Benjamin su esplicita richiesta di Scholem, che gli aveva chiesto di inviargli una lettera “presentabile” che lui potesse eventualmente usare in occasione di un suo prossimo incontro con l’editore berlinese Salman Schocken (emigrato in Palestina nel 1934), dal quale Benjamin sperava di poter ottenere l’incarico per la redazione di una monografia su Kafka. Tale progetto era però
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G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 70. Ivi, p. 56.
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destinato a fallire, come Scholem stesso avrebbe riferito all’amico, seppure in forma diplomatica ed edulcorata, nella lettera del 2 marzo 1939168. Così il 1938, il tristissimo anno della Notte dei cristalli, è anche l’anno che segna di fatto la fine del confronto di Benjamin con Kafka. Le condizioni di vita dell’esule in Francia si fanno sempre più precarie, fino a precipitare in seguito allo scoppio della guerra e, successivamente, all’invasione del territorio francese da parte delle truppe hitleriane. Il filosofo ‘ebreo e comunista’ è ora diventato, come tanti altri, un intellettuale costantemente in fuga – fuga che culminerà nel 1940 con il suicidio nella stazione di frontiera spagnola di Port-Bou. La lettera del 12 giugno 1938 sancisce così anche definitivamente la diversità tra le interpretazioni kafkiane di Scholem e di Benjamin. Scholem, rimase sostanzialmente fedele sino alla fine a quella concezione più esplicitamente ‘teologica’, che lo aveva portato nel 1934 a vedere nell’opera di Kafka “il mondo della rivelazione [...] ricondotto al proprio nulla”169, e quindi ad accostare lo scrittore praghese a quella “mistica della cabbalistica ereticale”, per la quale “nel mondo dell’esilio divino [...] l’uomo poteva fare solo esperienza del nulla di Dio [e] non poteva conoscere la redenzione nella storia”170. Se quattro anni prima – come sottolinea Mosès – Scholem “aveva sostituito alla definitiva obsolescenza della scrittura, di cui parlava Benjamin, l’idea della sua – forse solo transitoria – indecifrabilità”171, così ora, nella sua risposta a Benjamin del novembre 1938, egli reagisce alla proposta di vedere nell’opera kafkiana una “malattia della tradizione”, affermando che “l’antinomia dello haggadico” di cui parla Benjamin “non è propria soltanto della Aggadah kafkiana, ma si fonda sulla natura stessa della Aggadah”: Quest’opera rappresenta realmente una “malattia della tradizione” nel tuo senso? Direi che questa malattia è insita nella natura della stessa tradizione mistica: che la trasmissibilità della tradizione soltanto resti conservata come ciò che ha di vivo, è
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Le due lettere di Scholem, nonché l’ultima, accorata, richiesta di intercessione da parte di Benjamin, datata 14 marzo 1939, sono riportate in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 52 e 59. – Si vedano tutti i dettagli della vicenda in G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, cit., pp. 320 s., 324 s., 329-332. 169 Lettera di Scholem a Benjamin del 17 luglio 1934, in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 43. 170 Cfr. G. Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, cit., p. 280. 171 S. Mosès, Il problema della legge: l’interpretazione scholemiana di Kafka, cit., p. 173.
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solo e semplicemente naturale nella decadenza della tradizione, nelle creste delle sue onde.172
Benjamin, al contrario, rimane fedele all’idea, da lui già espressa nella conversazione radiofonica del 1931 e che lo accomuna a Brecht173, che l’opera di Kafka sia profetica. La cosa non va intesa in senso banale, ma conduce comunque – rispetto alla prospettiva di Scholem – a prendere terribilmente sul serio l’orizzonte storico della redenzione fallita. E’ quasi come una risposta, quattro anni dopo, alla polemica dichiarazione di Brecht, secondo il quale “come visionario Kafka ha visto il futuro, senza vedere che cosa è”174, che nella lettera del 12 giugno 1938 si legge: Kafka vive in un mondo complementare. [...] Kafka percepì il complemento, senza percepire ciò che lo circondava. Se si dice che si avvide del futuro senza avvedersi della realtà presente, si deve precisare che se ne avvide sostanzialmente come il singolo che ne è colpito. [...] Alla base della sua esperienza stava esclusivamente la tradizione, a cui Kafka si votò; nessuna lungimiranza, neanche un “dono profetico” [Sehergabe]. Kafka ascoltava [lauschte] la tradizione, e chi ascolta con sforzo e fatica non vede.175
Si tratta, dunque, di un’interpretazione diversa da quella proposta da Bertolt Brecht, per il quale Kafka è un grande profeta di quel futuro in cui l’alienazione umana nel mondo del capitalismo ha raggiunto i propri estremi176. Per Benjamin non si tratta solo di alienazione nel senso marxista del termine, ma si tratta più in generale di deformità del mondo, del senso di estraneità e talvolta di ostilità che l’uomo prova verso il suo mondo. Come osserva Hans Mayer, questa grande rappresentazione che Kafka ci ha lasciato è per Benjamin la rappresentazione profetica di un mondo “senza speranza”177. Il Kafka che Benjamin trova nella sua scrittura è un uomo tormentato da angustiose e inquietanti visioni che però non gli si rivelano mai nella loro chiarezza e nel loro significato, un uomo che forse ha anche paura di indagare il senso e l’origine di tali visioni.
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La lettera, datata 6/8 novembre 1938, è riportata in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 57 s.. 173 Cfr. i testi già citati in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 14 e 64. 174 Cfr. G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 68 (conversazione del 6 luglio 1934). 175 G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 54 s. 176 Si veda ancora, ad esempio, la conversazione del 6 luglio 1934 in G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 68 s. 177 Hans Mayer, Walter Benjamin e Franz Kafka. Storia di una costellazione, tr. it. di G. Schiavoni, in Caleidoscopio benjaminiano, a c. di E. Rutigliano e G. Schiavoni, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 1987, pp. 233-264; cit. p. 262.
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Di fronte a quest’assenza di significato, a questo ‘nulla’, Benjamin accentua adesso, ancor più che nel 1934178, il tema per lui cardinale del “fallimento” di Kafka. Sempre nella stessa lettera del 12 giugno 1938 egli scrive infatti: Per rendere giustizia alla figura di Kafka nella sua purezza e nella sua peculiare bellezza, non si deve mai dimenticare che è quella di un fallito. Le circostanze di questo fallimento sono molteplici. Si potrebbe dire: una volta che fu certo dello scacco finale, tutto per via gli riuscì come in sogno. Nulla è più degno di riflessione del fervore con cui Kafka ha sottolineato il suo fallimento.179
Ed è particolarmente significativo che Scholem – del tutto coerentemente con la propria impostazione – non mostri di avere alcuna particolare sensibilità per questo tema. Nella già citata risposta del novembre 1938 egli scrive infatti: Mi sembra che la strada che hai imboccato sia estremamente valida e ricca di prospettive. ma vorrei capire che cosa tu intenda, quando parli del fallimento fondamentale di Kafka – che collochi virtualmente al centro delle tue nuove considerazioni. Sembra che tu intenda infine qualcosa di inatteso e strabiliante [...]. Ma tu non puoi aver inteso questo. [Kafka] ha espresso ciò che voleva dire? Certamente sì. [...] Ma perché parlare di un “fallimento” – quando egli ha veramente commentato, non fosse che il nulla della verità, o quel che altro potrebbe risultare?180
Se già nel saggio del 1934 Benjamin aveva citato la dichiarazione di Kafka a Brod secondo la quale esisterebbe “molta speranza, infinita speranza, ma non per noi” e aveva accentuato la bellezza di chi è privo di speranza181, ora, proprio mentre egli attribuisce a Kafka stesso la “peculiare bellezza” di un fallito, quella dichiarazione diventa per il filosofo berlinese l’affermazione più significativa di Kafka, che egli – “in toni non privi di ironica malizia”182 – commenta così: “Questa frase racchiude veramente la speranza di Kafka. E’ la fonte della sua radiosa serenità”183. Certo, tale serenità non può significare altro che rassegnazione. Come scrive Schiavoni, “Benjamin è ormai sempre più convinto che non sia possibile continuare a sognare una speranza ‘per noi’, né l’esperienza storica del momento sembra consentire
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Si vedano le lettere già citate a G. Scholem e W. Kraft del 20 luglio e 12 novembre 1934. G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 56. 180 G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 57 s. 181 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, cit., p. 280. 182 G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, cit., p. 263. 183 G. Scaramuzza, Walter Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 56. 179
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proiezioni ottimistiche sul futuro”184. Non è pensabile, dunque, impegnarsi a lottare contro la “tempesta che spira dall’oblio” ed è un’operazione velleitaria quella di voler rammemorare e salvare quel passato: le macerie e i relitti che Benjamin scopre in Kafka sono destinati a rimanere tali. La sfida di voler ridare consistenza e validità alla dottrina, di voler finalmente affiancare alla Haggadàh una rinata Halakàh sembra essere una sfida già persa in partenza. Ne consegue, allora, che l’unica impresa che si possa tentare è quella di difendere se non altro queste macerie e questi relitti dentro i quali la saggezza appena sopravvive, per poter forse ricominciare un giorno da questo poco e niente di cui si dispone. La nuova sfida, che si preannuncia non meno impegnativa della prima, a questo punto consiste allora nel dover sperare nel ritorno della speranza. Incessante e senza fiato deve essere la lotta per riacquisire la ‘speranza di sperare’, speranza necessaria per poter adempiere a quel compito supremo e fondamentale dell’ebraismo che è il compito della redenzione. Ricominciare partendo da questi frammenti della Tradizione passata è il compito più urgente. “Che cosa ereditare [...] nel ‘tempo di povertà’?” si domanda Schiavoni, certo sulla scorta di Hölderlin, ma ricordando soprattutto “l’interrogativo formulato in quegli stessi anni Trenta” da Ernst Bloch in Eredità del nostro tempo185. Come per Hölderlin, anche per Benjamin si tratta di fare di questa povertà estrema (dei resti che si è riusciti a strappare dolorosamente al disfacimento della Tradizione) l’estrema ricchezza. Ed è proprio questo, in conclusione, il grande merito di Franz Kafka secondo Benjamin: quello di aver se non altro individuato la presenza di questi relitti e di averceli mostrati, nella loro opacità e solitudine. Lavorare su questi relitti, restaurarli, raggrupparli e custodirli significa gettare le basi per una nuova Tradizione ed una nuova saggezza. Significa forse anche creare i presupposti per provocare la necessaria spaccatura nel continuum storico, per aprire la “piccola porta” attraverso cui, un giorno, il messia potrà valutare l’idea di entrare, così da poter cancellare ogni deformità del nostro tempo.
184
G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, cit., p. 263. Ivi, p. 264. – Cfr. E. Bloch, Eredità del nostro tempo, a cura di Laura Boella, il Saggiatore, Milano 1992 (la prima edizione di Erbschaft dieser Zeit era uscita a Zurigo presso l’editore Oprecht & Helbling nel 1935). 185
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BIBLIOGRAFIA 1. Franz Kafka
Per gli scritti di Kafka si sono tenute presenti le seguenti edizioni in lingua italiana:
F. Kafka, Romanzi, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1969 F. Kafka, Racconti, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1970 F. Kafka, Confessioni e diari, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1972 F. Kafka, Lettere a Milena, a cura di Ferrucio Masini, Mondadori, Milano 1988
2. Walter Benjamin
Per il saggio di Benjamin su Kafka si è fatto riferimento all’edizione italiana curata da Renato Solmi:
W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in: Angelus Novus, 2. ed., Einaudi, Torino 1995, pp. 275-305
che si è confrontata con l’originale tedesco:
W. Benjamin, Franz Kafka. Zum zehnten Wiederkehr seines Todestages, in: Gesammelte Schriften, unter Mitwirkung von Th.W. Adorno u. G. Scholem hg. von R. Tiedemann u. H. Schweppenhäuser, 7 voll., Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1972-1989, vol. II.2, pp. 409-438
Oltre che del saggio stesso ci si è serviti soprattutto della esauriente raccolta di materiali curata da Gabriele Scaramuzza:
Walter Benjamin lettore di Kafka, Unicopli, Milano 1994
che costituisce sostanzialmente la versione italiana di:
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Benjamin über Kafka. Texte, Briefzeugnisse, Aufzeichnungen, a cura di Hermann Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1981
Altre opere di Walter Benjamin citate:
W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo in W. Benjamin, Angelus Novus, cit., pp. 53-70 W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, tr. it di Enrico Filippini, in: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, pp. 57-78, W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi, Torino1997, W. Benjamin, I “passages” di Parigi, a cura di Rolf Tiedemann, ed. it. a cura di Enrico Gianni, vol. IX delle Opere complete, Einaudi, Torino 2000, W. Benjamin Infanzia berlinese intorno al millenovecento, a cura di Rolf Tiedemann, ed. it. a cura di Enrico Gianni, Einaudi, Torino 2001 W. Benjamin, Lettere 1913-1940, tr. it. di Anna Marietti e Giorgio Backhaus, Einaudi, Torino 1978
3. Altri testi citati
Hannah Arendt, Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, Mondadori, Milano 1993 Giuliano Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, 2. ed., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008 Chaim Nachman Bialik, Halachah e Aggadah. Sulla legge ebraica, a cura di Andrea Cavalletti, tr. it. di Davide Messina, Bollati Boringhieri, Torino 2006 Ernst Bloch, Eredità del nostro tempo, a cura di Laura Boella, il Saggiatore, Milano 1992 Ernst Bloch, Tracce, a cura di Laura Boella, Garzanti, Milano 1994 Jorge Luis Borges, Il libro degli esseri immaginari, Adelphi, Milano 2006 50
Max Brod, Der Dichter Franz Kafka, in Die neue Rundschau 32 (1921), pp. 1210-1216 Max Brod, Franz Kafka. Eine Biographie (Erinnerungen und Dokumente), Heinrich Mercy, Prag 1937 Marino Freschi, Introduzione a Kafka, Laterza, Roma-Bari 1993 Karl E. Grözinger, Kafka e la Cabbalà, La Giuntina, Firenze 1994 Willy Haas, Gestalten der Zeit, Kiepenheuer, Berlin 1930 Alexander Honold, Der Leser Walter Benjamin. Bruchstücke einer deutschen Literaturgeschichte, Vorwerk 8, Berlin 2000 Franz Kafka, “Beim Bau der chinesischen Mauer”. Ungedruckte Erzählungen und Prosa aus dem Nachlaß, a cura di Max Brod e Hans Joachim Schoeps, Kiepenheuer, Berlin 1931 Hellmuth Kaiser, Franz Kafkas Inferno. Eine psychologische Deutung seiner Strafphantasie, in: Imago, 1931, n.1, pp. 41-103 Sven Kramer, Rätselfragen und wolkige Stellen. Zu Benjamins Kafka-Essay, zu Klampen, Lüneburg 1991 György Lukàcs, Le basi ideologiche dell’avanguardia, in: Il significato attuale del realismo critico, tr. it. di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1957, poi in: Scritti sul realismo, vol. 1, Einaudi, Torino 1978, pp. 862-894 Hans Mayer, Walter Benjamin e Franz Kafka. Storia di una costellazione, tr. it. di G. Schiavoni, in Caleidoscopio benjaminiano, a cura di Enzo Rutigliano e Giulio Schiavoni, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 1987, pp. 233-264 Stéphane Mosès, Il problema della legge: l’interpretazione scholemiana di Kafka, in: Marina Cavarocchi, La certezza che toglie la speranza. Contributi per l’approfondimento dell’aspetto ebraico in Kafka, La Giuntina, Firenze 1988, pp. 161-176 Bernd Müller, “Denn es ist noch nichts geschehen”. Walter Benjamins Kafka-Deutung, Böhlau, Köln 1996 Gabriele Scaramuzza, Citazione come oblio, in: Leitmotiv, 2/2002, pp. 11-23 Giulio Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, Einaudi, Torino 2001 Arthur Schnitzler, Verso la libertà, tr. it. di Liliana Scalero, Mondadori, Milano 2008 Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, tr. it. di Guido Russo, Il Saggiatore, Milano 1965 Gershom Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, tr. it. di Maria Teresa Mandalari, Adelphi, Milano 1978 51
Gershom Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, tr. it. di Michele Bertaggia, Marietti, Genova 1986 Gershom Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, tr. it. di Emilio Castellani e Carlo Alberto Bonadies, Adelphi, Milano 1992 Gershom Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, tr. it. di Adriano Fabris, Adelphi, Milano 1998 Gershom Scholem, Tagebücher 1917-1923, Jüdischer Verlag, Frankfurt a.M. 2000 Sigrid Weigel, Zu Franz Kafka, in: Burkhardt Lindner (a cura di), Benjamin-Handbuch. Leben – Werk – Wirkung, Metzler, Stuttgart 2006, pp. 543-557
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