La donna sarda nell'Ottocento e la piaga della prostituzione

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A.D. MDLXII

U N I VE RS I T À D IPARTIMENTO

DI

D E G LI S TU DI D I S AS S A RI S CIENZE U MANISTICHE E S OCIALI ___________________________

CORSO DI LAUREA IN M EDIAZIONE LINGUISTICA

LA DONNA SARDA NELL’OTTOCENTO E LA PIAGA DELLA PROSTITUZIONE

Relatrice: PROF.SSA FIAMMA LUSSANA

Correlatore: PROF. ANTONIO PINNA

Tesi di Laurea di: MARIA GRAZIA CRABOLU

ANNO ACCADEMICO 2011/2012



INDICE

INTRODUZIONE

4

CAPITOLO 1 La donna sarda

8

CAPITOLO 2 “Esposizione d’infante”, aborto e infanticidio

12

CAPITOLO 3 La condizione femminile

19

3.1 Lavoro domestico e sfera pubblica

19

3.2 Donne e tempo libero

22

CAPITOLO 4 La violenza contro le donne

24

CAPITOLO 5 La piaga della prostituzione

30

5.1 Cenni storici

30

5.2 I bordelli

32

2


CAPITOLO 6 Le prostitute

36

6.1 Provenienza e ambiente sociale

36

6.2 Aspetto delle prostitute

39

CONCLUSIONI

41

BIBLIOGRAFIA

43

3


Introduzione Nella storia della civiltà occidentale la donna è sempre stata subordinata all’uomo. Le donne hanno conquistato il diritto di cittadinanza e i principali diritti civili e politici attraverso dure lotte, combattute, nel nostro paese come altrove, con coraggio e determinazione. Durante tutto l’Ottocento, in Sardegna come nell’Italia continentale, la donna viveva in una condizione di inferiorità giuridica, sociale, economica e politica: le differenze tra i due sessi avevano portato il maschio a prevalere e ad occupare un posto privilegiato nella società. Come ben sappiamo, sia che fosse contadina o operaia, borghese o nobile, la donna non godeva degli stessi diritti, veniva tenuta in disparte, non veniva interpellata dal marito nelle scelte fondamentali, era spesso segregata in casa, mal vista in quei casi in cui osava condurre una vita anche minimamente autonoma. Se la donna contadina lavorava nei campi, nell’orto, nella stalla, in casa, la moglie di un operaio o era, in pochi casi, operaia anch’essa oppure, spinta dalla necessità di integrare il magro salario del marito, lavorava come donna di servizio. Al lavoro fuori casa cumulava inoltre tutti i lavori domestici, dalla cura della casa a quella dei figli. Le donne non godevano di uno spazio proprio e non potevano compiere nessun tipo di attività che si svolgesse al di fuori della famiglia. Il carico oneroso delle incombenze domestiche era reso più drammatico dalla povertà e da un senso comune diffuso che guardava alla donna come ad un essere cui non era lecito chiedere diritto di esistenza, uguaglianza, cittadinanza. L’idea comune, almeno fino alla seconda metà 4


dell’Ottocento, era quella che l’uomo fosse il principale responsabile del mantenimento della famiglia e per tale ragione percepiva quasi sempre un salario maggiore di quello della donna, indipendentemente dalle mansioni svolte, quest’ultimo era considerato secondario, accessorio, ma comunque utile per sostenere l’economia familiare o, nei casi più fortunati, dava alla donna qualche possibilità di spesa per sé. La situazione della donna sarda non si discostava molto da quella della donna che viveva nel continente. Finalità principale del mio lavoro è stata l’analisi della condizione femminile in Sardegna nell’arco di tempo compreso fra la metà dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento, con un’attenzione specifica alla piaga della prostituzione, che rendeva ancora più avvilente e desolante la vita delle donne del popolo. Nel secondo capitolo, sulla base di un’accurata analisi della documentazione archivistica depositata nell’Archivio comunale di Sassari, viene presentata la difficile situazione delle donne accusate di essersi sottoposte ad aborto clandestino. Le sciagurate colpevoli di questo reato erano, nella maggior parte dei casi, vittime di drammatiche violenze, spesso tollerate, impunite, reiterate. Le carte documentano

inoltre

il

poco

studiato

problema

dell’infanticidio cui erano spinte giovani donne vittime di una disperata miseria, della solitudine, della paura di non essere in grado di sfamare, crescere, accudire la propria creatura. Se le ragazze appartenenti alle famiglie più povere di rado trovavano conforto e compassione, in quelle dei ceti benestanti l’intera famiglia le si rivolgeva contro. E sono persino documentati casi di uccisione delle donne accusate 5


di aborto o di infanticidio per mano stessa dei propri parenti, non disposti a tollerare che l’onore della famiglia fosse infangato da comportamenti così riprovevoli. Nel capitolo sulle violenze ho voluto sottolineare che gli eventi riguardanti gli stupri e gli abusi sui minori fossero già a quell’epoca assai presenti. Le vittime erano in molti casi bambine fra i 7 e i 14 anni, che venivano avvicinate dai malfattori mentre andavano a fare la spesa o quando si dirigevano verso la campagna per aiutare la famiglia nel raccolto. Venivano abbordate con futili motivi per poi essere costrette a subire abusi e blandite con l’allettante promessa di matrimonio. Tali reati non venivano denunciati perché le leggi di quel tempo non tutelavano le vittime di violenza e anzi queste erano spesso umiliate e offese da una società che non le riconosceva nessuna protezione e garanzia. Del resto anche oggi che le donne hanno faticosamente conquistato leggi di tutela e che, dopo un iter parlamentare lungo quasi vent’anni, è stata approvata una legge che punisce severamente la violenza

sessuale,

i

casi

di

abuso

sono

ancora

drammaticamente numerosi. Nel capitolo conclusivo ho preso in esame il problema della prostituzione, descrivendo in particolare la situazione che vigeva a Sassari. La prostituta di fine Ottocento era nella maggioranza dei casi una giovane donna che, priva di adeguati mezzi di sussistenza, sceglieva la via della prostituzione come drammatica soluzione al problema della miseria e dell’indigenza. Questa scelta era ad esempio praticata nel caso di ragazze prive d’istruzione, giunte nelle città dalla campagna, che non riuscivano a inserirsi nel mercato del lavoro. Non di rado, anche quelle che un lavoro erano riuscite a procurarselo, si prostituivano per 6


arrotondare l’esiguo reddito. C’erano poi le sventurate che erano state sedotte e abbandonate e che si ritrovavano sole, con la reputazione macchiata e magari con un figlio da crescere. Le prostitute furono presto additate come le pericolose portatrici di malattie veneree: di qui la scelta di regolamentare la prostituzione al fine di tutelare la salute pubblica. La registrazione imposta alle prostitute e la loro relegazione nelle case di tolleranza servì ad esercitare il controllo su un gruppo sociale che era l’emblema della devianza femminile. Infine da un punto di vista morale, la società del XIX secolo guardava con sospetto le donne che vivevano in modo autonomo e libero e di conseguenza veniva naturale associare la loro ostentata libertà a forme di depravazione e di immoralità.

7


Capitolo 1

La donna sarda

Per studiare e capire la situazione delle donne sarde tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo possiamo fare riferimento ai numerosi documenti custoditi negli archivi sardi, molti dei quali relativi ad un’area territoriale che riguarda il 40 per cento della superficie della Sardegna1. Tali documenti si riferiscono a due realtà diverse: quella agro-pastorale delle montagne centrali, e quella agricola della

parte

centro-settentrionale.

L’esame

della

documentazione relativa alla condizione della donna sarda e alla prostituzione rivela una triste realtà: le donne di quel tempo non godevano di nessun diritto e vivevano sottomesse alla volontà dei padri, prima, e dei mariti poi. Nella Sardegna tradizionale le donne svolgevano varie funzioni, incarnando i diversi ruoli di madri, figlie e poi di mogli. La maggior parte di esse facevano parte di famiglie di braccianti agricoli, contadini o allevatori e, a seconda delle competenze e dell’età, avevano impegnata buona

1

Testi di riferimento bibliografico per la stesura di questo capitolo sono stati: L. Orrù, Donne, casa e salute nella Sardegna tradizionale, Sassari, Gallizzi, 1980; M. Satta, Donne e preghiere tradizionali in Sardegna, S. l., L’asfodelo, 1980; AA.VV., Donne e società in Sardegna. Eredità e mutamento. Materiali e strumenti di ricerca, Sassari, TAS, 1989; M.G. Da Re, La casa e i campi. Divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale, Cagliari, CUEC, 1990; A. Gallistru, Venditrici di sesso nella Sardegna dell’Ottocento, Cagliari, AM&D, 1997; G. Trudda, Amori da due soldi. Dalle case chiuse alla strada, Sassari, EDES, 2008. Il capitolo si avvale inoltre dell’analisi dei documenti sulla prostituzione, conservati nell’Archivio di Stato di Sassari. 8


parte della giornata nelle attività lavorative. Per contribuire al reddito familiare, alle donne si richiedevano diverse attività agricole e pastorali, tutte relative a piccoli lavori marginali. In altri casi, esse erano impegnate in attività connesse all’artigianato domestico come la filatura, la tessitura, il cucito e il ricamo. Inoltre, sin da piccole, andavano a servizio o si sobbarcavano le cure domestiche senza avere un vero e proprio mestiere. Tale triste realtà riguardava tutte le donne, quelle maritate, le vedove, le nubili e quelle sole e senza beni, costrette a spostarsi dalle campagne e dai villaggi in cerca di lavoro. A rendere più debole la condizione delle donne di ogni strato sociale, destinandole ad un’esperienza di vita e di lavoro durissimi, erano poi la mancanza di dote, l’inconsistenza sociale ed economica della famiglia d’origine, lo stato di orfana o la lontananza dei parenti2. Le sentenze e i fascicoli processuali dei tribunali e della Corte d’Assise di Sassari ci aiutano a capire come alcuni aspetti della condizione femminile, relativi ad esempio al linguaggio, ai valori, all’ambiente di vita, di lavoro e familiare, avessero spesso un peso decisivo nella scelta di intraprendere la dolorosa esperienza della prostituzione3. Come si vede da questi fascicoli esse risultano schedate per cognome, nome, provenienza, soprannome, età, stato civile, mestiere e posizione sociale. L’unico diritto di cui godevano, ovvero la promessa di matrimonio, fu abolito alla fine dell’Ottocento: a causa dell’insistente azione della Chiesa si ottenne che solo il matrimonio religioso avesse il potere di legittimare la pratica sessuale attraverso la

2

Cfr. E. Tognotti, La storia delle donne negli archivi sardi (sec.XVIII-XIX), in AA.VV., Donne e società in Sardegna, cit., p.167. 3 Ibidem. 9


convivenza. Il suo annullamento fu la causa principale del diffondersi dell’aborto e dell’infanticidio nonché della prostituzione. Con la sua abolizione verrà meno il carattere d’impegno vincolistico associato alla promessa, facendo cadere tutto un sistema di organizzazione e controllo sociale che aveva teso a regolare la distribuzione delle risorse matrimoniali e in generale le relazioni intersessuali. Un caso esemplare fu quello celebrato in Corte d’Assise nel 1890 ovvero il processo per infanticidio contro la vedova Nicoletta Sau, di 28 anni, e di sua madre Maria Scanu, di 70, entrambe del paese di Tissi, appartenenti ad una famiglia contadina di modestissima condizione. Le due donne erano accusate( la Sau per salvare il proprio onore e la madre quello della figlia) di aver abbandonato l’infante partorito dalla Sau “frutto di illeciti amori” in contrada detta Monte Tissi “sul nudo suolo senza legatura del funicolo ombelicale”. Sulla Sau pesava l’accusa di aver tentato di procurarsi l’aborto tentando di acquistare appositi medicinali. Al processo la Sau racconta con dovizia di particolari la sua storia: “Da oltre un anno il mio compagno Francesco Carta Mudadu frequentava la casa della mia vicina Maria Giuseppa Vargiu dove ero solito recarmi anch’io. Facemmo relazione ed un giorno colla Vargiu ci recammo in una vigna di costei.. Debbo oltresì notare che il Carta dopoché riuscì nell’intento di ottenere i miei favori, mi diceva che ove divenissi incinta dato mi avrebbe esso stesso la rivoltella per esplodergli una revolverata se non mi avesse sposato, volendo con ciò significare il proposito di unirsi meco in matrimonio…” 4 Ma così non fu: la parola dell’uomo oramai era priva del

4

Cfr. Fascicoli processuali nell’Archivio di Stato di Sassari, sentenza n°16, cda/ proc. 91/1, anno 1980. 10


valore probatorio che aveva avuto fino a quel momento. Ecco che, non potendo trascinare i loro seduttori davanti ai tribunali, pretendendo di mettere riparo alla gravidanza con la promessa del matrimonio, tutte le ragazze-madri divennero la piÚ bassa e degradata categoria sociale che comprendeva le madri nubili del popolo senza dote, senza diritti e difficili da maritare. Anche se in molti casi il matrimonio non c’era stato e quali che fossero le condizioni nelle quali le sventurate fanciulle si erano fatte ingravidare, la promessa aveva un tempo reso obbligatorio un aiuto finanziario alle ragazze-madri, che vennero deprivate di qualunque diritto, potendo contare solo su un piccolo sussidio5.

5

Cfr. Tognotti, La storia delle donne negli archivi sardi (sec.XVIIIXIX), in AA.VV., Donne e societĂ in Sardegna, cit., p. 166. 11


Capitolo 2

Esposizione d’infante”, aborto e infanticidio Praticati dai secoli più antichi l’infanticidio e l’aborto lacerano l’Europa del diciannovesimo secolo, tanto che a migliaia i figli vengono uccisi da chi li ha generati6. Per documentare la situazione della donna nella società sarda dell’Ottocento, sono importanti i processi per infanticidio, reato che assume proporzioni significative tra il 1860 e il 1920. I casi accertati di processo furono ventitré, ma tale dato, stimato per difetto rispetto alla piaga dilagante dell’aborto clandestino, ha un valore solo indicativo. Infanticidio e aborto erano reati esclusivi delle donne ed erano perpetrati verso i figli illegittimi, ovvero nati al di fuori di una regolare relazione matrimoniale. Una schedatura dei profili delle infanticide, tratta dai documenti depositati presso l’Archivio, ci ha permesso di appurare che nell’80 per cento dei casi esse avevano un età compresa fra i 22 e i 28 anni, con punte estreme di 39-40 anni (tre casi). La professione prevalente era quella di servente o di attendente alle cure domestiche in casa di possidente. Proprio in questi casi le giovani venivano sedotte dal padrone con la forza o le costrizioni morali 6

Per la stesura di questo capitolo abbiamo fatto riferimento ai seguenti testi: A. Durzu, C. De Campus, B. Manca, Tra emarginazione e repressione. Infanzia abbandonata, concubinaggio e violenza sulle donne nella Sardegna moderna, Cagliari, Grafica Parteolla, 2009; E. Tognotti, La storia delle donne negli archivi sardi (sec.XVIII-XIX), in AA.VV., Donne e società in Sardegna. Eredità e mutamento. Materiali e strumenti di ricerca, Sassari, TAS, 1989, pp. 166, 167, 168, 169. J. H. Pestalozzi, Sull’ Infanticidio, a cura di Giulia di Bello, Milano, La Nuova Italia, 1999, cit. pag.5. Archivio di Stato di Sassari, fascicoli processuali civili e penali del tribunale e della Corte d’ Assise di Sassari ( 1860-1920). 12


considerando la serva come una schiava a tutto servizio, anche dal punto di vista sessuale. La condizione solitamente era quella di orfana e senza beni, ma non solo. Si trattava per lo più di ragazze nubili (raramente sposate o separate) vedove, adultere, meretrici, quasi tutte ignoranti o analfabete, vittime comunque di un vuoto di formazione e considerate soggetti sessualmente e socialmente vulnerabili per la mancanza della tutela e della protezione della famiglia e della comunità. Proprio rispetto a quest’ ultimo punto, il pedagogista J.H. Pestalozzi ha affermato che l’unico rimedio per migliorare le condizioni di vita di queste poverette era l’educazione: infatti la relazione educativa, la famiglia e la scuola avrebbero svolto un ruolo importante nella formazione

umana

favorendo

contemporaneamente

l’educazione morale, intellettuale e professionale di ciascun individuo7. Altre cause di infanticidio erano inoltre: la paura di aver disonorato la famiglia, la perdita dell’onore, la condizione di solitudine e abbandono delle ragazze durante la gravidanza e il parto, l’alienazione mentale8. E proprio nelle classi sociali dove l’ignoranza e la miseria imperversavano erano diffuse pratiche macabre dove il povero bimbo, se concepito, veniva ucciso dalla

7

Cfr. J.H. Pestalozzi, Sull’ infanticidio a cura di Giulia di Bello, Milano, Nuova Italia, 1999 cit. pag. XVI;. A. Gallistru, Venditrici di sesso nella Sardegna dell’Ottocento, Cagliari, AM&D, 1997, p. 40. 8 Cfr. B. Manca, Tra emarginazione e repressione, cit., p. 219. Dalle cartelle cliniche del XIX secolo, conservate nell’archivio del manicomio di Cagliari, emergono vicende particolari, come quella della paziente D.V., di 43 anni, ammessa per la prima volta in manicomio 18 dicembre 1889. “La D. è triste si dispera – è scritto nella sua cartella – si percuote e si strappa i capelli perché ‘dannata’, la si deve bruciar viva per i suoi peccati, e colle sue nefandezze ha causato la rovina e la morte dei figli è indegna di portare il suo nome perché ha disonorato la famiglia”. 13


madre con l’aiuto della nonna. Il pensiero ossessivo dell’onore spingeva all’infanticidio o all’“esposizione”. Ecco

allora

neonati

morti

per

strangolamento,

soffocamento, colpi sul cranio, sevizie, sepolti fra le immondizie nel giardino o direttamente gettati nel pozzo, abbandonati nel fiume o dati in pasto ai maiali. Prendiamo ora in esame alcuni casi: per esempio quello di Depalmas Giovannangela, di 18 anni, nativa di Bono, che fu accusata insieme alla madre Mulas Caterina di infanticidio per aver ucciso “mediante recisione totale del collo, oltre la colonna vertebrale e fino all’epidermide per la quale rimaneva la testa unita al busto. Lo gettò nel pozzo nero nel terreno adiacente alla loro abitazione di proprietà di Angioi, si pensa nato da un amore nascosto. Fu condannata a dieci anni di lavori forzati”. Altro caso è quello di Fiori Satta Pepa, di anni 36, di Nugheddu San Nicolò, denunciata per aver volontariamente e con intenzione di uccidere violentemente “depresso e contuso le ossa del cranio e storto il collo ad un infante…. dalla medesima nato”. Bulla Maria Michela, di 30 anni, nativa anch’essa di Bono, raccontò “di aver partorito fuori dal letto sdraiata per terra e di aver sotterrato bambino e placenta, senza involgere quel tutto in alcun panno, scavando la piccola fossa con le stesse mani”9. In tutti questi casi le donne vennero sottoposte a visita medica. In altri, invece, non vennero neanche arrestate in considerazione delle cattive condizioni di salute10. Nella maggior parte dei casi le pene erano molto dure: le colpevoli di infanticidio venivano condannate ai lavori 9

Archivio di Stato di Sassari, Corte d’Assise, sentenze 72 e 44 proc.5/2 anno 1880; sentenza 42, anno 1873; sentenza 39, cda proc. 132/2 anno 1896. 10 Cfr. E. Tognotti, , op. cit., p. 170. 14


forzati, perdevano i diritti politici e la patria potestà. Tra i reati più gravi ricordiamo quello di Angela Francesca Bichiri, di Bonorva, accusata “di aver messo a morte un infante da lei nato strangolandolo con apposito cordoncino di filo”. Venne condannata a dieci anni di lavori forzati. Altro caso è quello di Pisanu Filomena, 24 anni, di Mores, “attendente agli affari di casa di possidente”, accusata

di

soffocazione

aver una

ucciso bambina

volontariamente nella

sua

mediante

abitazione

e

condannata ai lavori forzati a vita, alla perdita dei diritti politici e della patria potestà. Uno dei difficili compiti del perito era quello di individuare la causa del decesso dell’infante. Si ricorreva alla consulenza degli specialisti anche se questa il più delle volte non bastava. Bisognava stabilire se la vittima di infanticidio era nata a termine o prematura, se fosse nata viva e infine era necessario stabilire le cause di morte. In quest’ultimo caso le prove risultavano il più delle volte inaffidabili dando luogo ad accesi dibattiti fra i diversi medici coinvolti11. Altro fattore importante nei reati di infanticidio era l’alienazione mentale. Capitava a volte che le donne gravide “illegittime”, ovvero non maritate, venissero colpite dalla cosiddetta mania puerperale, ossia quella malattia sociale che, secondo la letteratura medica ottocentesca, sorgeva quando non si era in grado di reggere la pressione di un modello sociale che concepiva la maternità solo dentro la coppia coniugale. La madre veniva considerata “transitoriamente furiosa” a causa della vergogna per la perdita dell’onore, del terrore per il parto o

11

Archivio di Stato di Sassari, , Fascicoli processuali civili e penali del tribunale di Sassari, caso di una ragazza nubile di Ghilarza, sentenza n. 58, anno 1866. 15


dell’abbandono da parte del seduttore. Tutto ciò aggravava uno stato emotivo irritato e nervoso: ancora una volta il male era insito nell’essere donna, questo perché si pensava che le donne fossero soggette alla pazzia più degli uomini a causa delle numerose trasformazioni a cui il loro l’organismo era soggetto nella fase della pubertà o durante la gravidanza, il puerperio e l’allattamento. La debolezza fisica trovava riscontro in quella morale. Bisogna sottolineare inoltre che durante i processi, le colpevoli, nell’esporre al giudice la propria esperienza, non tentavano neanche di attribuire il “commercio carnale illecito” alla promessa di matrimonio: l’appartenenza del seduttore a uno strato sociale elevato rendeva “naturale” l’aggressione del padrone e lo giustificava da ogni responsabilità nei confronti della vittima. Numerosi erano gli episodi di donne che, dopo aver subito violenza nell’ambito domestico, venivano punite con la morte. Possiamo prendere in esame il caso di omicidio di una ragazza di Bosa, nubile e gravida, avvenuto per le sevizie subite dal padre e dal fratello che cosi intendevano lavare l’onore familiare12. Inoltre, le leggi proteggevano il padrone: il Codice civile vietava per i figli illegittimi la ricerca della paternità. Per difendere la propria reputazione, il padrone aveva preso l’abitudine di cacciare la serva, negando ogni partecipazione alla sua “colpa”: il più delle volte si trattava di uomini sposati e in molti casi le sventurate serventi venivano licenziate

dalle stesse

legittime consorti che, nonostante fossero a conoscenza della verità, pur di tenersi il marito, fonte esclusiva del proprio sostentamento, erano disposte a compiere ogni

12

Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Pubblica sicurezza, Omicidi, fasc. 392, Bosa 29 marzo 1880. 16


sorta d’ingiustizia. Per quanto riguarda l’aborto invece la situazione variava sensibilmente fra città e campagna: causa principale d’aborto nella comunità contadina era il forte timore del giudizio e della sanzione nel caso in cui si fosse deciso di tenere il frutto del concepimento; in città era invece più semplice tenere segreto il parto, abbandonando il bambino o facendolo accettare tra gli esposti. Le descrizioni e le sequenze del parto illegittimo non erano diverse da quelle del parto legittimo delle donne delle famiglie più povere (in cui il mestiere del capofamiglia era quello di lavorante giornaliero o bracciante)13. L’aborto veniva praticato il più delle volte con l’uso di sostanze tossiche. Le donne gravide ingurgitavano intrugli a base di prezzemolo, segale cornuta e pozioni a base di piombo. Si sottoponevano inoltre a logoranti attività fisiche. Emblematico il caso di una ragazza di Tissi, Pani Unali Giovanna, accusata oltre che di infanticidio di aver tentato di procurarsi l’aborto dolorosamente tentando di acquistare appositi medicinali. Interrogata sul fatto, la donna aveva dichiarato di esserseli procurati a Sassari in una farmacia nei pressi del Duomo “dove erano esposte delle immaginette”. Molte donne si affidavano alle “mammane” che sottoponevano le sciagurate a indicibili sevizie, conficcando nelle cavità uterine dei ferri allo scopo di estirpare l’embrione o il feto14. Tale intervento veniva praticato in pessime condizioni igieniche e con scarsissime cognizioni

di

anatomia

femminile

da

parte

delle

“mammane”. Elementi, questi, che spesso rendevano 13

Cfr. E. Tognotti, op. cit., p. 169. Archivio di Stato di Sassari, Fascicoli processuali e civili, sentenza n.3 , cda proc. 96/1, 1890. Cfr. inoltre Manca, Tra emarginazione e repressione, cit., p. 213. 14

17


obbligatorio l’intervento del medico, chiamato per porre fine ad emorragie o infezioni15. Dunque per la società, ma anche per la Chiesa, per essere riammesse senza pesanti contraccolpi nella vita sociale, le donne dovevano liberarsi del loro fardello, frutto del peccato e della violenza. Ecco così che nascevano ospizi e istituti presso i quali era possibile partorire o abbandonare il bambino indesiderato. Il problema degli illegittimi si manifestava grave e pressante: i bambini erano a loro volta vittime di leggi sbagliate, di una mentalità retriva e del poco senso di responsabilità dei genitori. Le categorie sociali accusate di contribuire alla nascita di tanti infelici erano quelle benestanti, imputate di accentrare tutte le ricchezze nelle mani del solo figlio primogenito, lasciando i cadetti nella povertà.

15

Cfr. B. Manca, op. cit., p. 214. 18


Capitolo 3

La condizione femminile

3.1 Lavoro domestico e sfera pubblica Nella tradizione contadina e pastorale sarda vi era una netta separazione tra i lavori femminili e quelli maschili: molte erano le donne costrette a svolgere lavori logoranti e rischiosi per la salute e anche lesivi della propria dignità personale16. Quando le donne entravano nel mercato del lavoro, a determinare la qualità di esso era molto importante il ceto sociale a cui le aspiranti lavoratrici appartenevano. Generalmente, quelle che appartenevano alle classi medie godevano normalmente del privilegio di non lavorare, mentre quelle appartenenti a famiglie disagiate erano costrette a sacrificare lunghi anni della propria vita in lavori duri e pericolosi, molti dei quali richiedevano l’allontanamento dalla propria famiglia e dal proprio villaggio. Ciò avveniva ad esempio nel caso del lavoro nella campagna, in miniera, o quando si andava a servizio presso le famiglie benestanti dei proprietari terrieri locali. 16

Per la stesura di questo capitolo abbiamo utilizzato i seguenti testi: U. Mantegazza, G. Ciuffo, La prostituzione studiata specialmente in Toscana e Sardegna, Cagliari, 1904; M.G. Da Re, La casa e i campi, divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale, Cagliari, CUEC, 1990; M.M. Satta, Donne e preghiere tradizionali in Sardegna, S.I. L’Asfodelo, 1980; M. Brigaglia, L. Caimi, F. Cambi, G. Mondardini, F. Sani, I. Serra, A. Tedde, Infanzia educazione e società in Italia tra Otto e Novecento, Sassari, EDES, 1997; L. Orrù, Donna casa e salute nella Sardegna tradizionale, in “Quaderni di storia”, I, Giugno- Dicembre 1980, p.p. 169,170,171. A. Oppo, Ceti contadini e occupazione femminile. Alcune osservazioni, Sassari, Gallizzi, 1980. 19


Sintomatico il caso, assai frequente, delle donne appartenenti alle famiglie contadine, il più delle volte analfabete o con un livello scarsissimo di scolarizzazione, che contribuivano alla formazione del reddito familiare non solo con la loro attività domestica, ma anche con un insieme di attività extra-domestiche tanto in campo agricolo, ad esempio la raccolta di prodotti della terra, che extra-agricolo, prestando servizio domestico in casa d’altri, svolgendo mansioni saltuarie o precarie oppure lavori di cucito a domicilio. Il lavoro delle donne, a prescindere dalla tipologia delle mansioni svolte, era considerato secondario, accessorio, ma comunque utile per supportare l’economia familiare. Inoltre, se all’uomo spettava il compito fondamentale di costruire la casa, la donna aveva l’onere di riempirla e mantenerla pulita. Essa doveva arredare la casa con il mobilio e con il corredo, o dote della sposa, la cui quantità e qualità dipendevano dalla stratificazione sociale. Erano considerate fortunate le ragazze che sapevano svolgere lavori di artigianato (cucito ricamo tessitura), le quali potevano farsi arredo e corredo da sole. Inoltre, le donne dovevano possedere competenze specifiche per svolgere altre importanti mansioni come saper trasformare le materie prime in beni alimentari o in oggetti d’uso; essere in grado di badare alla manutenzione della casa e alla sua accurata pulizia giornaliera e stagionale; saper allevare animali da cortile17. Più difficile era la vita per quelle fanciulle che facevano parte di situazioni disagiate: strappate ai loro affetti, esse venivano scagliate con violenza in una realtà oscura, in

17

Cfr. U. Mantegazza, G. Ciuffo, op. cit., p. 32. 20


mezzo a gente sconosciuta, che aveva abitudini, costumi e stili di vita molto diversi. In città venivano sfruttate in cambio di un pezzo di pane e pagate, se andava bene, solo tre lire al mese. Entrate nelle famiglie di città, le ragazze di campagna venivano trattate come esseri inferiori, cui non si risparmiavano male parole e anche frustate. Quelle sventurate diventavano così le “bestie da soma” della casa. Non potevano abbandonare facilmente la nuova famiglia, sia perché non potevano tornare al villaggio, sia perché non potevano trovare nessun altro lavoro. Conducevano una vita orribile, fatta di stenti, vessazioni, maltrattamenti di ogni genere e perfino abusi sessuali. Diversa la situazione delle donne dell’Iglesiente e del medio Campidano: qui vi era un altro settore produttivo che occupava le donne, il settore minerario. Le vedove di minatori, le giovani madri con figli a carico, le bambine lavoravano alla cernita del materiale per circa dieci ore; poi,

percorrendo

chilometri

di

strada

bianca

per

raggiungere il paese, si ritiravano nelle luride baracche, scalze e affamate. Innumerevoli erano le ingiustizie subite dalle donne, come ad esempio la disparità della retribuzione rispetto agli uomini. I salari erano inferiori a quelli degli uomini perché la manodopera femminile era più facile da reperire. Inoltre, le lavoratrici venivano punite per futili motivi: per esempio venivano sanzionate perché arrivavano in ritardo o non rispondevano

prontamente

all’appello

o

perché

scambiavano una parola con la compagna. In questi casi, il sorvegliante poteva sottrarre dalla retribuzione l’intera giornata o addirittura licenziare le sciagurate che avevano trasgredito il regolamento. Ma di più, le donne venivano spesso violate e stuprate 21


dai propri datori di lavoro che, dopo averle ingravidate, le costringevano ad abortire o a registrare il bambino come “n.n.”, ovvero come figlio illegittimo, esponendo le malcapitate al giudizio e al disprezzo sociale.

3.2 Donne e tempo libero Nell’arco cronologico considerato in questo lavoro, ovvero durante il XIX secolo e nella prima metà del XX, le donne sarde che non venivano impegnate in attività agricole e pastorali, si dedicavano a varie attività artigianali: filatura, tessitura,

faccende

domestiche,

preparazione

e

conservazione di cibi. Nello svolgimento di tali attività esse godevano all’interno della casa di uno spazio operativo e decisionale18. Queste attività sottraevano loro una quantità di tempo da dedicare alle attività sociali: i momenti trascorsi in chiesa per le funzioni religiose, nelle zone pastorali erano circoscritti a particolari momenti festivi. Diverse erano le condizioni di vita delle donne appartenenti all’ambiente economico-sociale medio -alto19. Queste, infatti, non partecipavano alle attività produttive, ma svolgevano funzioni di direzione e di controllo nella sfera domestica e tale situazione privilegiata permetteva loro di avere una maggiore quantità di tempo libero da dedicare alle attività sociali. Ad esempio, le mogli dei notabili locali, del sindaco, del farmacista, del medico della comunità, erano quelle più impegnate nell’attività di rappresentanza

nei

comitati

che

organizzavano

i

festeggiamenti delle sagre locali o nell’insegnamento del

18

Cfr. M. M. Satta, op. cit., p. 5. Cfr. Da Re, La casa e i campi, cit., p. 22; Satta, Donne e preghiere tradizionali in Sardegna, cit., p. 6.

19

22


catechismo. Inoltre, questa loro partecipazione alle varie forme di associazionismo organizzate dalla Chiesa apriva un piccolo spazio ad una particolare autonomia femminile che poteva esser guardata con sospetto in quanto rischiava di sottrarla all’egemonia ideologica del capofamiglia e di convogliarla sotto quello della Chiesa. Se nel ceto benestante, sia donne che uomini partecipavano alla vita religiosa, in quella popolare erano solo le donne ad aderire all’organizzazione religiosa, svolgendo in quest’ultima funzioni subalterne, come ad esempio la diffusione tra i familiari e tra i vicini di preghiere e canti religiosi tradizionali. Altri loro compiti erano inoltre quelli di preparare le ostie per la consacrazione, procedere alle varie pulizie, cambiare i fiori sull’altare, cucire i paramenti sacerdotali, occuparsi della vestizione delle statue dei santi prima delle processioni. Il ruolo della donna dunque era quello di garante e custode della sfera privata, mentre quella pubblica era di competenza esclusiva dell’uomo. La continua presenza della donna in casa comportava il suo estraniamento dalla vita sociale: solo la chiesa costituiva un luogo d’incontro sociale lecito. Possiamo infine concludere che uno dei motivi principali che portava la donna ad assumere il doppio ruolo di custode della tradizione e mediatrice fra la sfera privata e quella pubblica era la volontà di uscire dal proprio status, dalla chiusura della famiglia, o meglio dal ruolo a lei riservato all’interno di questa, per tentare di realizzarsi nel sociale.

23


Capitolo 4

La violenza contro le donne

Gli atti di violenza sessuale nei confronti delle donne sono stati una costante dell’età moderna. In particolare, nel corso dell’Ottocento si è assistito ad una esplosione di reati sessuali, prevalentemente a danno delle bambine, che comprendevano la violenza e gli atti di libidine. I documenti depositati negli archivi di Sassari e Cagliari testimoniano che anche in Sardegna il fenomeno raggiunse livelli sconvolgenti, sia per l’alto numero delle vittime, sia per la brutalità con la quale le violenze venivano perpetrate. Di solito queste avvenivano in luoghi isolati, quasi sempre in campagna, ma spesso anche nelle strade centrali della città o nella propria abitazione. In quest’ultimo caso avvenivano a danno delle domestiche o serve. I primi soprusi erano spesso antecedenti alle violenze domestiche: molte subivano abusi sessuali già durante il viaggio che le conduceva in città e spesso era lo stesso carrettiere che abusava di loro. In molti casi, le violenze contro le donne non solo non erano commesse all’insaputa della padrona di casa, ma ne erano agevolate. Emblematico a tale proposito un caso di violenza, avvenuto a Sassari nel 1885, che così viene documentato nelle carte depositate presso l’Archivio di Stato cittadino: Il caso riguarda l’imputato Pasquale Balatta, accusato di essere colpevole d’avere nella notte del 30 luglio 1885 nella propria abitazione in Terranova togliendo i mezzi di difesa a Maddalena 24


Floris di anni 16, manifestando la volontà di abusare carnalmente della medesima con atti d’esecuzione affermando che egli aveva autorità sulla giovane in quanto sua domestica detta cioè al giornaliero servizio di lui in quella casa dove pure lei conviveva. Complice la moglie Pedroni Maria Giuseppa che aiutò il marito ad abusare della giovane. Considerata colpevole nelle stesse circostanze di tempo e luogo ivi ubicate con turpe intento di ottenere che il marito abusasse carnalmente della giovane e non solo colpevole inoltre di aver indotto con lusinghe e preghiere il vicino Azzena Giovanni a deporre senza 20 giuramento fatti falsi e false circostanze .

In città, le violenze avvenivano il più delle volte nei momenti in cui le bambine si recavano nelle botteghe a far compere. Dai documenti emerge che le vittime dei reati a sfondo sessuale erano soprattutto le bambine tra i 5 e i 14 anni, appartenenti a famiglie povere e dunque più vulnerabili e facilmente adescabili, figlie illegittime oppure orfane affette in alcuni casi da malformazioni fisiche, da ritardi o malattie mentali. Le violenze erano compiute da uomini malati o da persone insospettabili che frequentavano la casa della vittima come amici di famiglia o insegnanti privati. Questi, il più delle volte cercavano di comprare il silenzio offrendo soldi alle famiglie delle vittime. In altri casi, lo stupro rappresentava un intrattenimento per gruppi di amici in cerca di svaghi alternativi. Le infelici vittime difficilmente trovavano conforto nelle leggi e nel perdono della società e ciò perché la legge non era accessibile ai poveri. La società del XIX secolo giustificava in un certo senso la violenza sessuale su una 20

Archivio di Stato di Sassari, Corte d’Assise, cda sentenza N°28,1885. 25


donna, soprattutto se questa, per mancanza di mezzi e di cultura, non era in grado di difendersi. Una fanciulla diffamata non poteva reinserirsi nella società: se era nubile, il suo valore nell’ambito del “mercato” matrimoniale diveniva minimo; se sposata, veniva abbandonata dal marito, considerata il più delle volte colpevole. Tale carico emotivo, difficile da reggere, portava in molti casi alla malattia mentale o spianava la strada alla criminalità o addirittura al suicidio. I processi per tentato stupro forniscono informazioni per una ricerca sull’immaginario, sui comportamenti collettivi, sui luoghi comuni, sul linguaggio delle donne. In questi processi

entra

in

gioco

“l’onore

della

donna”,

l’atteggiamento dell’uomo, le circostanze concrete in cui si è verificato il fatto, il perché e il come la donna si trovava sola nel luogo dell’aggressione. Dalle deposizioni dei testimoni emergono le feroci forme di controllo sull’onore delle donne e sulla sessualità imposte dalla società. Dai processi emerge lo stretto legame tra onore personale della donna e onore familiare che varia con lo status sociale, il potere e il consenso di cui la famiglia gode. Infatti, bisogna sottolineare che proprio la famiglia aveva il compito di preservare l’onore delle proprie donne da cui dipendeva il loro futuro e il loro rispetto. La buona reputazione di una fanciulla rappresentava un patrimonio importante: nel caso in cui qualcuno l’avesse messa in pericolo, ciò avrebbe determinato la condanna sociale della nubile e della stessa famiglia. Per evitare ciò, era necessario non dar vita a situazioni ambigue e rischiose, come ad esempio quella di ricorrere alle autorità nel caso di mancata promessa di matrimonio. Le famiglie meno abbienti di solito non riuscivano a 26


sostenere l’educazione di una fanciulla, né tantomeno a proteggerla. Un esempio di questa incapacità è offerto dal caso della quindicenne Maria Grazia Cubeddu, di Sassari, che subì atti di libidine ad opera del ventinovenne Marco Decherchi, in quanto, a causa della tarda età del padre e dell’indigenza della sua famiglia, nessuna forma di autorità e di protezione fu esercitata su di lei. Riportiamo di seguito la trascrizione degli atti processuali che la riguardano:

La vittima Maria Grazia Cubeddu detta Grazietta racconta: la notte dell’ aggressione mi trovavo in regione Capuccini col mio amante De Cherchi Marco il quale dopo avermi deflorata mi ha lasciato sola presso il rifugio delle bambine abbandonate ed io avendo paura di restare lì sola in quell’ora come ho visto ch’egli si allontanava mi sono data a gridare, a quel punto è accorsa la guardia carceraria…. La giovane afferma di aver conosciuto il De Cherchi quando è entrata nel laboratorio del fratello Carlo, cominciando subito a corteggiarla avvicinandosi tutte le sere per parlarle di amore e di un possibile matrimonio. Una volta saputo del fatto il fratello la licenziò. Il De Cherchi cercò di comprare il silenzio della giovane dapprima con una moneta d’oro da 20 lire e una in carta da 5 lire che ella accettò per aiutare la povera famiglia. Subito dopo il fatto la ragazza si fece visitare da una levatrice che constatò che la poveretta non poteva né camminare, né sedersi ed inoltre era in stato interessante. Saputo ciò il De Cherchi la minacciò puntandole la rivoltella e costringendola ad approvare e firmare uno scritto da lui preparato nel quale essa dichiarava di esser stata licenziata dallo stabilimento per la sua condotta immorale e disonesta e di non aver avuto alcun rapporto con il De Cherchi, né ricevuto alcun’offesa da entrambi e di averli accusati per istigazione della levatrice. Successivamente fu approvato che il De Cherchi era colpevole condannato a 8 mesi e 22 giorni di reclusione e ad una 27


multa di 350 lire per i reati di corruzione di minorenne e oltraggio al pudore 21.

In alcuni casi le fanciulle venivano affidate a dei parenti che si rivelavano personaggi viziosi e perversi, come nel caso del cinquantenne Paolo Simula, di Giave, accusato di violenza carnale continuata nei confronti di M. Antonia Simula, di 13 anni. I due convivevano e abitavano da soli in un vano dove si trovava un solo letto; inoltre, il padre della sciagurata fanciulla era stato condannato a trenta anni di reclusione per omicidio e rapina. Riportiamo di seguito il suo caso, così come è stato trascritto nelle carte processuali:

Il brigadiere Masala Antonio riferì alla competente autorità quanto appresso: la sera del 3 maggio 1912 a mezzo del locale ufficio postale pervenne una lettera anonima denunziando che la giovinetta Maria Antonia Simula, trovasi ammalata piuttosto grave e che il proprio zio e tutore, Simula Paolo, muratore di Giave, la minacciava continuamente provocandole gravi danni, si constatò a seguito di una visita che la ragazza quasi sicuramente era stata deflorata prima di ammalarsi. Inoltre secondo molti testimoni i due furono visti più volte nelle bettole a consumare vini e liquori. La ragazza morì poco dopo per una grave forma di meningite. Lo zio fu condannato a tre anni e sei mesi di reclusione 22.

C’erano poi casi di donne rimaste vedove o di figli in tenera età, che subivano violenza dai nuovi mariti, rivelatisi persone di bassa qualità morale. Le figliastre venivano trattate come schiave, costrette anche a subire abusi

21 22

Ivi, Fascicoli penali, busta 184, fascicolo 4. Ivi, busta 185, fascicolo 4. 28


sessuali con il favoreggiamento delle madri. Le cause principali di tutti questi abusi sulle donne era la loro penosa e dolorosa condizione di vita: per la maggior parte di loro sembrava preferibile avere accanto un marito violento che rimanere da sole con tutte le conseguenze sociali ed economiche che da tale solitudine derivavano. Il pi첫 delle volte queste violenze portavano a rapporti incestuosi, diffusissimi in questo periodo, e quasi sempre occultati dalle famiglie.

29


Capitolo 5

La piaga della prostituzione

5.1 Cenni storici Nel 1861, con l’unità d’Italia, il decreto emesso nel 1859 da Camillo Benso conte di Cavour, con il quale si autorizzava l’apertura di particolari case nel territorio lombardo per l’esercizio della prostituzione, fu convertito in legge23. Fu emanato in particolare il regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione dando luogo al sorgere delle case di tolleranza, che si estesero in tutto il paese. Compito dello Stato era controllare e sorvegliare questi esercizi: veniva cioè fissata la tariffa degli incontri a seconda della categoria dei bordelli, adeguandola al tasso d’inflazione. Con

tale regolamento, le prostitute erano di fatto

deprivate di ogni diritto e costrette a un trattamento inumano e anticostituzionale che toglieva qualunque libertà24. Esse dovevano iscriversi obbligatoriamente all’ufficio sanitario e ciò costituiva un marchio d’infamia permanente; dovevano inoltre sottoporsi a una visita medica e consegnare presso l’ufficio sanitario il passaporto 23

Cfr. Trudda, Amori da due soldi, cit., p. 24; Gallistru, Venditrici di sesso nella Sardegna dell’Ottocento, cit., p.11. Si veda anche il testo della legge n. 3720 (Archivio di Stato di Cagliari, biblioteca atti del governo vol.55) che, all’.119 disponeva che le autorità di pubblica sicurezza dovessero arrestare tutti coloro che gestivano clandestinamente case di prostituzione. Nell’interesse dell’ordine e del costume pubblico e per garantire la salute pubblica, il Governo avrebbe emanato specifici regolamenti relativi alle donne che esercitavano il meretricio. 24 Cfr. Trudda, Amori da due soldi, cit., pp. 24-25; Gallistru, Venditrici di sesso nella Sardegna dell’ Ottocento, cit., p.12. 30


e i documenti relativi allo stato civile. Non potevano cambiare residenza, né assentarsi per più di tre giorni senza l’assenso del direttore dell’ufficio sanitario; non potevano affacciarsi alle finestre, frequentare le vie principali, i teatri, le vie e luoghi pubblici. Le prostitute erano insomma ridotte in semi-schiavitù, alla mercé dei tenutari e collocatori delle case e dello Stato25. Nel 1888 fu vietata la vendita di cibi e bevande, venne proibito di cantare all’interno delle case di tolleranza e di ballare, come anche aprire, nei pressi dei bordelli, asili, scuole e chiese. Venne infine prescritto che le finestre rimanessero abbassate: da qui il nome di “case chiuse”. Negli anni successivi si parlò più volte di abolire le case di tolleranza, tanto che, nel 1919, vi fu in proposito una proposta del socialista Filippo Turati, ma con l’avvento del fascismo non se ne parlò più. Negli anni Trenta entrarono in vigore alcune norme che imponevano di isolare gli stabili adibiti a bordelli con muri di almeno dieci metri, chiamati appunto “muri del pudore”. Il 20 settembre 1958, con l’entrata in vigore della legge “Merlin”, le case di tolleranza furono abolite. Ciò aveva dato luogo, durante la discussione del progetto di legge, ad accese discussioni fra intellettuali, politici e giornalisti. Su fronti opposti si erano schierati Carla Voltolina, moglie del futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, accesa animatrice della chiusura dei bordelli e autrice con Lina Merlin del libro Lettere dalle case chiuse26, e il noto giornalista Indro Montanelli, tenace sostenitore delle case

25

Cfr. Gallistru, Venditrici di sesso nella Sardegna dell’ Ottocento, cit., pp. 12-13. 26 Cfr. L. Merlin, C. Barberis, Lettere dalle case chiuse, Edizioni Avanti!, Milano, Roma 1955. 31


di tolleranza e autore a sua volta del libro Addio Wanda!27

5.2 I bordelli Sulla base degli studi a tutt’oggi disponibili, è possibile affermare che le caratteristiche e l’attività delle case di tolleranza sassaresi erano le stesse di quelle esistenti nel continente28. I bordelli funzionavano cioè allo stesso modo dappertutto. Come si presentavano i bordelli? L’ingresso era solitamente a piano terra, il tariffario era posto in bella vista, con prezzi che variavano a seconda della categoria della casa e del tempo che il cliente trascorreva con le prostitute; c’era poi la reception con l’addetta al riconoscimento del cliente e infine la sala d’attesa con la passerella in cui le ragazze dovevano sfilare per essere scelte dai diversi clienti. Non era infrequente che gli incontri fra cliente e prostituta diventassero abituali, ovvero che i clienti affezionati richiedessero sempre le prestazioni sessuali della stessa fanciulla. Le case chiuse di Sassari erano tutte ubicate nel centro storico. La prima era nel Vicolo Scala Mala ed era gestita dalla signora Franca che, quando qualche personaggio famoso non gradiva esser visto, era solita fare il giro delle stanze gridando con voce stentorea “si chiude”29. Vi erano poi le case di Via dei Corsi, la cui tenutaria era nota con il nome di Giannina, quella di Via Esperson, gestita dalla truccatissima e non più giovanissima signora Tina, quella di Vicolo Ghera, la cui direttrice era soprannominata 27

Cfr. I. Montanelli, Addio Wanda!, Milano, Longanesi,1956. Cfr. G. Trudda, Amori da due soldi. Dalle case chiuse alla strada, Sassari, EDES, 2008, p. 41. 29 Ivi, p. 71. 28

32


Giovanna “la Giavesa”. Vi era infine la casa di Via Era, considerata di terza categoria, che lasciava a desiderare nell’igiene e nel mobilio e che era frequentata soprattutto da pastori e da studenti. Le prostitute si riconoscevano per l’abbigliamento vistoso e dai colori sgargianti: d’inverno indossavano pellicce di pellame non particolarmente pregiato e, nelle altre stagioni, sfoggiavano appariscenti vestiti a fiori. Avevano un trucco molto pesante, rossetto vivace e nei posticci. Tutto ciò le distingueva dalle altre donne, dalle madri di famiglia, che non si truccavano, né fumavano, altrimenti sarebbero

state apostrofate

come volgari

prostitute. La tenutaria della casa chiusa abitava nella palazzina di fronte. Nella vita normale si presentava come una persona perbene, garbata e sobria nel vestire e senza trucco. I clienti abituali dei bordelli erano principalmente operai e artigiani, figli della borghesia cittadina e non solo, dunque, giovani adolescenti, il più delle volte alla prima esperienza. Altre volte si trattava di giovani che la domenica giungevano dai paesi circostanti per sfogare le loro esuberanze nelle case chiuse e poi rientravano al paese e riprendevano la propria vita di sempre. Spesso erano i padri a portare i figli nelle case chiuse perché fossero iniziati alla vita sessuale da “professioniste” del sesso e perché fossero istruiti a dovere prima di intraprendere il fidanzamento vero e proprio o di cominciare la propria esperienza di vita familiare30. Molte volte erano i figli ad incontrare con grande imbarazzo i propri padri nei bordelli cittadini. 30

Malattie diffusissime in questo periodo erano la sifilide e la blenorragia. Cfr. A. Gallistru, Venditrici di sesso nella Sardegna dell’Ottocento, Cagliari, AM&D, 1997, capitolo “Il sifilocomio”, pp. 97 sgg. 33


I bordelli erano frequentati non solo da persone altolocate, come i gerarchi o gli alti funzionari della pubblica amministrazione, ma anche da preti che volevano soddisfare le loro esigenze sessuali senza però essere visti da nessuno. Il linguaggio in uso nelle case di tolleranza era molto diverso da quello praticato a scuola o in famiglia. Quello dei bordelli era insomma un mondo a sé, in tutto e per tutto diverso da quello esterno. Ogni quindici giorni le prostitute dei casini cambiavano: era cioè prevista un’alternanza fra le animatrici dei diversi bordelli cittadini. Si consolidava intanto l’abitudine di allestire in determinate zone della città un gran numero di bancarelle in cui venivano venduti libri vecchi scarpe e altri oggetti. Lo scopo di questi piccoli mercati era quello di raggranellare dalle 70 alle 150 lire, che erano le tariffe standard per l’accesso alle case di tolleranza. Come scrive Trudda: “Ecco che bisognerebbe commemorare il signor Marrangiu e Mario il francese mettendo una targa davanti ai loro magazzini considerandoli come i ‘benefattori della gioventù sassarese’”. Secondo Trudda, tali mercati cittadini avrebbero infatti contribuito al rinnovamento del vestiario e di tutto il “vecchiume” (mobili, lampadari, sedie eccetera) che la parsimonia acquisita negli anni di guerra aveva fatto accumulare nelle soffitte e nelle cantine delle case di Sassari31. A partire dal 1958, dopo l’approvazione della legge Merlin che sanciva l’abolizione delle case chiuse, sorsero due tipi di problemi, che interessarono non solo il Meridione, e la Sardegna in particolare, ma furono avvertiti su tutto il territorio nazionale: il primo era la paura del

31

Cfr. ivi ,p. 70.

34


dilagare delle malattie veneree, che nei bordelli erano scongiurate dai controlli sanitari obbligatori cui le prostitute dovevano sottomettersi; il secondo era di ordine sociale e si riferiva soprattutto alla diffusione di forme piĂš pericolose e meno controllate di sfruttamento della prostituzione.

35


Capitolo 6 Le prostitute 6.1 Provenienza e ambiente sociale Molte furono le cause che portarono donne giovani e meno giovani ad intraprendere la via della prostituzione: esse provenivano da tutte le parti della Sardegna, in particolare dalla provincia di Cagliari e Oristano32. Le cause principali che portavano ad intraprendere la penosa e a volte dolorosa strada della prostituzione erano la miseria e la povertà presenti nell’isola. Ma non solo. Fra le altre cause si possono annoverare: un’esperienza negativa della seduzione e il conseguente abbandono dell’amante, situazioni familiari disagiate (padri alcolisti, madri che vendevano le figlie per due soldi), la morte dei genitori. In quest’ultimo caso, se quella della madre influiva sulla sfera morale ed educativa, quella del padre provocava spesso la

mancanza di

sostentamento. Vanno infine segnalate le violenze subite in tenera età e gli stupri, che a volte marchiavano le sventurate fanciulle con il disonore portandole ad abbandonare il guscio protettivo della famiglia. Dal punto di vista lavorativo, in Sardegna, come del resto in tutto il Sud della penisola, vi era una grave situazione di crisi: le industrie scarseggiavano e le poche che c’erano si riducevano alle saline, alle miniere e alla manifattura dei tabacchi. La manodopera era di basso livello e sottopagata, la pastorizia e l’agricoltura rimanevano in uno stato di arretratezza e i territori richiedevano urgenti bonifiche.

32

Cfr. A. Gallistru, Venditrici di sesso dell’Ottocento, Cagliari, AM&D, 1997, pp. 69 sgg.

nella

Sardegna 36


Inoltre, la malaria,il tifo e la tubercolosi, cosi come le carestie e gli scarsi raccolti, provocavano numerose morti causando un verticale calo demografico. La mancanza di infrastrutture penalizzava lo sviluppo del commercio. Per ovviare a tutto ciò non restava che l’emigrazione, la pastorizia o l’agricoltura. Inoltre, se gli uomini potevano arruolarsi nei vari corpi dell’esercito o nell’arma dei carabinieri oppure darsi all’artigianato o ai mestieri più umili di manovalanza, poche erano invece le possibilità di trovare lavoro per le donne, che potevano guadagnarsi il pane come contadine, serve o artigiane e solo in pochi casi trovavano impiego nelle industrie. La miseria e il sottosviluppo erano dunque le principali cause del meretricio. Fu proprio l’industrializzazione a produrre un vero e proprio boom della prostituzione nel Nord Italia che richiamava

gente

dal

contado33.

Alla

figura

sociale

dell’operaia si affiancava quella della prostituta: l’industria cioè non faceva altro che sfruttare le donne senza dar loro sicurezza. Inoltre, su di esse pesava una disparità di trattamento economico che andava a favore degli uomini, in accordo con il dilagante clima di ingiustizia sociale in cui la parte più debole era destinata a soccombere. La stessa situazione era diffusa nell’Inglesiente, dove l’esistenza

delle

miniere

comportò

la

nascita

della

prostituzione clandestina. I motivi che portarono all’apertura di una casa di tolleranza ad Iglesias erano due: il primo era la presenza di numerose miniere e dunque di manodopera maschile industrializzata in cerca di svago per reagire al ritmo massacrante del lavoro in miniera; il secondo, l’attività

33

Sul problema della prostituzione connessa all’industrializzazione cfr. U. Mantegazza, G. Ciuffo, La prostituzione studiata specialmente in Toscana e Sardegna, Cagliari, 1904, pp. 25-27. 37


commerciale che scaturiva dall’industrializzazione, che favoriva l’arrivo di numerosi forestieri. Nel capoluogo sardo, accanto ai contadini, era presente il ceto della piccola e media borghesia, costituito da impiegati, maestri, medici, professori e avvocati. Più in alto vi era la classe imprenditoriale. In città, dove vi era maggiore benessere, le fanciulle avevano tutt’altra situazione: se capitava che in famiglia vi fosse una prostituta, questa veniva trasferita su richiesta della famiglia stessa, per evitare uno scandalo che avrebbe costretto i parenti a commettere un atto violento34. Il sesso veniva visto in maniera differente a seconda della classe sociale: nei ceti bassi la mancanza di cultura e soprattutto il bisogno spingevano alla perdita del pudore e alla prostituzione: le sventurate fanciulle dedite al meretricio sacrificavano la loro giovinezza, la libertà, i sogni e le speranze. Unico svago loro consentito era l’alcol35. Nello strato sociale dell’alta borghesia venivano esaltate le doti dello spirito e l’atto sessuale era ritenuto una cosa bassa e volgare. Questo giudizio non riguardava l’uomo, che non avrebbe mai represso il proprio istinto naturale. I mariti trovavano sempre una giustificazione morale alle loro scappatelle, mentre la moglie aveva solo il compito di badare alla casa e generare figli. Il tradimento del marito non era visto dalla società come peccato, quello della moglie invece sì. L’adulterio veniva punito dal tradito con una denuncia alle autorità, con la separazione o con il bastone.

34

Cfr. i casi registrati in Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Pubblica sicurezza, omicidi fasc. 392, Bosa 29 marzo 1880. 35 Cfr. A. Gallistru , Il mondo della prostituzione e il vino nell’Ottocento a Cagliari, in M. Da Passano, A. Mattone, F. Mele, P.F. Simbula, La vite e il vino, Roma, Carocci, 2000, p. 1296 . 38


6.2 Aspetto delle prostitute L’identikit della prostituta sarda del XIX secolo era il seguente: nubile, tra i 20/30 anni, analfabeta o comunque non acculturata, indipendente e individualista. Le prostitute vivevano in malsane e misere casupole ed erano malvestite e malnutrite36. Lo Stato era del tutto disinteressato a difendere i diritti di queste poverette, delle quali non ci si curava né dal punto di vista dell’istruzione, né tantomeno per difenderle da violenze e maltrattamenti. Si trattava in molti casi di fanciulle, abbandonate all’età di 7/8 anni dai propri genitori perché poveri e incapaci di garantire loro il sostentamento. Le sventurate venivano caricate su dei carri e portate in città. Durante il viaggio, non di rado subivano violenze e abusi. Finivano in famiglie disoneste, dove venivano maltrattate, insultate, picchiate e disprezzate.

Ad

aggravare

la

situazione,

c’erano

l’ignoranza e la fame. Per uscire dalla prostituzione, le meretrici dovevano intraprendere una sorta di apprendistato alla vita onesta, non prostituirsi più e subire le necessarie visite sanitarie. Superata la prova, ottenevano il permesso di tornare nel consorzio civile; nel caso contrario, incappavano in una nuova iscrizione negli elenchi delle prostitute ufficiali. L’unico motivo di cancellazione da tali liste era il matrimonio. Le domande venivano presentate da parenti delle prostitute o amanti. Stanche di condurre una vita obbrobriosa, malsana e misera, le prostitute cercavano di riavvicinarsi ai genitori, ma in molti casi, la miseria o la preoccupazione

di

salvaguardare

il

proprio

decoro

costringeva questi a negare loro un aiuto, spingendo le più 36

Cfr. Gallistru, Venditrici di sesso nella Sardegna dell’Ottocento,

cit., p. 110. 39


deboli nei postriboli e le piĂš reattive in un ospizio di beneficenza. Altre volte, le prostitute provenivano da famiglie severe per

moralitĂ ,

ma

comunque

povere

e

bisognose.

Sceglievano quella vita per aiutare la famiglia, che rimaneva ignara del lavoro che le povere figlie praticavano.

40


Conclusioni

Ancora oggi, la violenza contro le donne e la prostituzione rappresentano

due

drammatiche

piaghe

sociali.

La

prostituzione si può considerare in molti casi peggiore o addirittura più pericolosa di quella esistente prima del 1958. Infatti, se prima le malattie erano più controllate e i responsabili degli abusi più facilmente individuabili, oggi le malattie per contagio sono in agguato e non fanno distinzione di sesso o di età. Il fenomeno della prostituzione è dilagato in tutti i centri urbani dando vita ad una vera tratta delle schiave gestita e controllata da organizzazioni criminali. Si è in molti ambienti consolidata la convinzione che sarebbe quasi meglio ripristinare le case chiuse nell’interesse dell’ordine pubblico, della moralità e della salute in genere. Si attenuerebbero forse così alcuni dei crimini che riempiono drammaticamente ancora oggi le cronache dei giornali. Le

prostitute

iscritte

negli

appositi

registri

continuerebbero a godere di tutti i diritti previdenziali e assistenziali degli altri lavoratori. Questo sarebbe il modo per tutelare e proteggere tutte quelle sventurate che, per sfuggire a un destino di miseria, scelgono la strada della prostituzione. Ma la triste realtà dello sfruttamento femminile e minorile non sarebbe comunque risolto e non lo sarà mai se persistono, ora come allora, al Nord come al Sud della nostra penisola, condizioni diffuse di indigenza, povertà, emarginazione. Tali condizioni restano infatti ancora oggi le cause principali di una piaga sociale antica che il progresso e la modernizzazione non sono riuscite a 41


sconfiggere. Altrettanto si può dire sulle violenze che le donne ancora oggi continuano a subire non solo da parte di sconosciuti, ma anche dai legittimi fidanzati, mariti e conoscenti. Le violenze causano spesso la morte delle donne: solo l’anno scorso i casi in tutta Italia sono stati 105. Le donne vengono uccise per gelosia, perché i loro compagni non accettano la separazione e per svariati altri motivi. E la società continua a rimanere immobile dinanzi a queste atrocità, lasciando spesso impuniti i reati di violenza contro le donne.

42


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Fonti archivistiche

Archivio di Stato di Sassari: Fascicoli processuali civili e penali Sentenza n°16, cda proc. 91/1, anno 1980. Sentenza n°3, cda proc. 96/1, anno 1890. Sentenza n°58°, anno 1866. Fascicoli penali, busta 184, fascicolo n°4. Fascicoli penali, busta 166, fascicolo n°8.

Corte d’ Assise: Sentenza n°28, anno 1885. Sentenza n°72, cda proc. 5/2, anno 1880. Sentenza n°44, cda proc. 5/2, anno 1881. Sentenza n°42, anno 1873. Sentenza n°39, cda proc. 132/2 , anno 1896.

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