Federico II nella storiografia

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

DI

L ETTERE

E

F ILOSOFIA

___________________________

CORSO

DI

LAUREA

IN

LETTERE

CURRICULUM MODERNO (PERCORSO FILOLOGICO-LETTERARIO)

FEDERICO II NELLA STORIOGRAFIA

Relatore: PROF. ALESSANDRO SODDU

Tesi di Laurea di: MARIA LUISA PUDDIGHINU

ANNO ACCADEMICO 2010/2011



Indice

Introduzione

pag. I

Capitolo 1. David Abulafia, “lo stupor del mondo storiografico federiciano�

pag. 1

Capitolo 2. Mariateresa Fumagalli tra ratio e fortuna

pag. 29

Bibliografia

pag. 55

Sitografia

pag. 56



I

Introduzione Mi sono imbattuta in Federico II di Svevia durante lo studio dell’esame di Storia medievale ed è stato amore a prima vista: l’erede dei Normanni, nipote del Barbarossa, finalmente imperatore del Sacro Romano Impero dopo varie peripezie. In molti lo avevano avversato, tranne il fato. Immischiato nella cruenta lotta col Papato: lo scomunicato e il deposto. Il liberatore di Gerusalemme: la Città Santa venne restituita ai cristiani senza spargimenti di sangue grazie al patto da lui stipulato col sultano del Cairo, al quale si sentiva legato da una profonda simpatia intellettuale. Il poliglotta magnanimo e tollerante; l’innovatore; l’amico dei musulmani; il mecenate dagli interessi scientifici e filosofici. Alla sua corte, dove nacque la Scuola poetica siciliana e la letteratura in volgare italiano, erano accolti dotti di ogni parte del mondo. Additato come l’Anticristo, Federico fu anche «colui che stupì e cambiò il mondo»1. Per questi e altri motivi, non poteva sicuramente passare inosservato nei lunghi secoli del medioevo. Ebbene sì, ho ceduto al fascino di Federico II, personaggio storico apparentemente estraneo al suo tempo. Se non un moderno, sicuramente un “diverso”. E per approfondirne la conoscenza ho voluto fortemente che fosse questo l’oggetto della mia tesi di laurea. La storia presenta Federico II orfano di entrambi i genitori, Enrico VI e Costanza d’Altavilla. Re di Sicilia a soli quattro anni, affidato al papa Innocenzo III, tutore e reggente fino al 1208. Morto in quello stesso anno lo zio Filippo di Svevia, il papa fa incoronare il suo pupillo re di Germania facendone l’avversario di Ottone di Brunswick. Federico vince quest’ultimo nella battaglia di Bouvines del 1214 e diventa padrone della Germania, dopo aver fatto incoronare il figlio Enrico re di Sicilia su indicazione del pontefice. Ma Federico non rinuncia al trono siciliano. Non solo: designa Enrico suo successore al trono imperiale, introducendo in questo modo il principio di ereditarietà. Nel novembre del 1220 viene eletto imperatore dal nuovo papa Onorio III, al quale promette di intraprendere una nuova crociata. Diviene re di Gerusalemme attraverso il matrimonio con Isabella-Iolanda di Brienne. In vista della crociata, convoca nel 1226 una dieta a Cremona, ma i 1

Le parole sono quelle del cronista inglese Matteo Paris; tratte da G. VITOLO, La ripresa della lotta tra papato e impero e le monarchie dell’Europa occidentale, in “Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione”, Milano 2005, pp. 333-356, p. 348.


II

Comuni ricostituiscono la Lega Lombarda e Federico è costretto ad annullare lʼassemblea. Il nuovo pontefice Gregorio IX gli impone un’immediata partenza per la Terrasanta e in seguito ai suoi continui rinvii e indugi lo scomunica. Ma l’imperatore parte ugualmente alla volta di Gerusalemme nel marzo del 1228, ottenendo pacificamente la Città Santa dal sultano d’Egitto. Tornato in Sicilia affronta una crociata bandita contro di lui dal pontefice. Dopo aver sconfitto le forze papali, gode di un periodo di pace. Prosciolto dalla scomunica, si dedica alla riorganizzazione dei suoi regni, dotando il regno di Sicilia di un codice organico di leggi, le Costituzioni di Melfi (1231), mentre in Germania contrasta la rivolta del figlio Enrico che viene imprigionato e privato dei diritti al trono, trasferiti poi al fratello Corrado. Si occupa quindi della Lega Lombarda, che sconfigge duramente nel 1237 a Cortenuova; gli resistono però Milano, Brescia e Alessandria appoggiate dal papa, che irritato dalla politica dell’imperatore lo scomunica per la seconda volta. Morto Gregorio IX, Innocenzo IV nel 1245 a Lione dichiara deposto Federico. Da allora si impegna a contrastare i suoi nemici e attraversa momenti difficili a causa di rivolte, congiure, tradimenti e alla sconfitta di Parma. La situazione era ancora aperta quando lo sopraggiunge la morte, il 13 dicembre 1250. Su Federico II storici e biografi, dai suoi contemporanei ad oggi, si sono avvicendati nel tempo in una miriade di studi, creando una copiosa produzione di testi, saggi, articoli. Indubbiamente, si tratta di una delle figure più affascinanti e discusse del Medioevo. Il dibattito storiografico, iniziato già dopo la sua morte, nasce e si sviluppa sulla differente visione del personaggio e della sua storia: da una parte i suoi estimatori, dall’altra i suoi detrattori. La percezione data dai contrapposti punti di vista ha realizzato una sequenza di ritratti che lo dipingono come «stupor mundi», genio politico, mecenate artistico, giurista innovatore, principe della pace e imperatore-messia; oppure come despota rinascimentale ante litteram, epicureo, ateo, tiranno e Anticristo. Da una parte, ne vengono esaltate la regalità, la magnanimità, la saggezza, la magnificenza, il coraggio, il valore 2;

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Tra i tanti che espressero opinioni favorevoli a Federico troviamo il poeta lucano Pietro da Eboli (anni Settanta del XII secolo ca.-ante 1220); il cronista Matteo da Giovinazzo (XIII secolo); l’umanista Pandolfo Collenuccio (1444-1504); lo scrittore Tommaso Costo (1545 ca.-1613 ca.) e lo storico Tommaso Fazzello (1498-1570). Cfr. F. TATEO, Storiografia, fino all’illuminismo, in “Federico II. Enciclopedia fridericiana”, Roma 2005-2008, vol. II (2005), pp. 778-787, pp. 778-779, 781-783.


III

dall’altra, ne viene deplorata la tirannia, l’infedeltà religiosa, l’indole maligna, la crudeltà, la brutalità e la falsità3, consolidando l’immagine negativa di un imperatore colpevole soprattutto nei confronti della Chiesa. A contribuire alla formulazione dei diversi giudizi nel corso del tempo è stato certamente il luogo di origine degli autori delle opere storiografiche. Così, la storiografia tedesca, del sudItalia e quella ghibellina in genere hanno offerto di Federico un’immagine positiva; al contrario, quella comunale italiana, ecclesiastica e guelfa lo hanno rappresentato in toni decisamente negativi. Già nelle innumerevoli pagine delle opere contemporanee allo Svevo emerge come Federico sia al centro di giudizi diametralmente opposti. Colpisce, peraltro, che non esista una cronachistica a lui specialmente dedicata, così come sono assenti opere commissionate o ispirate da lui4. In Germania, si delinea una sorta di vulgata ostile a Federico. Nonostante la forte coscienza della nozione di Impero, le fonti si distinguono tra loro per lo spazio dato o meno ai problemi, tedeschi e generali, che hanno caratterizzato il tempo di Federico, il giudizio sul quale risulta molte volte ambiguo: persecutore della Chiesa e re efficace secondo il monaco Richerio di Senones (morto intorno al 1267); «ingeniosus, studiosus et litterarum scientia magnus» secondo il prete e cronista tedesco Sigfrido di Ballhausen (inizi XIV sec.), che ne traccia comunque un quadro negativo5; ancora, re assente6 o, al contrario, sovrano presente7. La storiografia del Regno di Sicilia lega Federico soprattutto al difficile rapporto con il pontefice. Il principale cronista nellʼetà di Federico II, il notaio Riccardo di San Germano (1165 ca.-1244), ne tratteggia la figura di imperatore o crociato, senza allargarsi in belle narrazioni, esaltandolo tuttavia come colui che

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Decisamente ostili a Federico sono i giudizi dati dal cronista fiorentino Giovanni Villani (1280 ca.1348); dal canonico Saba Malaspina, difensore del potere papale morto nel 1296; dal frate francescano Salimbene de Adam (1221-1288/89); dall’umanista Flavio Biondo (1392-1463); dall’umanista Leonardo Bruni (1370-1444); da Giovanni Battista Carafa (1495-1572 ca.) e dallʼerudito Odorico Rinaldi (1595-1671). Cfr. F. TATEO, op.cit., pp. 779-783. 4 Cfr. L. CAPO, Cronachistica, in “Federico II. Enciclopedia fridericiana”, Roma 2005-2008, vol. I (2005), pp. 416-429, p. 416. 5 Ivi, p. 426. 6 Secondo gli Annales Erphordenses fratrum Praedicatorum, le Notae Sancti Emmerammi e il Chronicon Ebersheimense. Ibidem 7 Secondo la Chronica regia Coloniensis, gli Annales Marbacenses e gli Annales Wormatienses. Cfr. L. CAPO, op.cit., pp. 426-427.


IV

realizza finalmente l’unità morale del regno8. Nella storiografia francese Federico occupa un posto risicato. Nella storiografia ufficiale, in cui i re sono i protagonisti assoluti, non c’è spazio, se non in sottofondo, per nessun altro. Comunque, nelle vite di Filippo Augusto vengono sottolineati i rapporti di fraternità tra Federico e il regno di Francia. Alla fine del Duecento, invece, per via dei contrasti dei suoi discendenti con la casa di Angiò, lo Svevo è descritto ora come «malitiosus et seductor» e prepotente (così nel Chronicon di Guglielmo di Nangis9), ora considerato con favore (Chronicon S. Martini)10. L’unica fonte francese che mostri un interesse particolare per Federico è l’Historia regum Francorum, o Chronique rimée, del cronista francese Filippo Mousket (morto nel 1244 ca.), che da un lato esalta il ruolo dell’imperatore nel mondo cristiano, ma dall’altro sottolinea tutti gli elementi negativi che contraddistinguono la sua politica in Occidente e in Oriente11. In Italia, una lettura ad ampio raggio di Federico proviene da Genova, una delle città che più l’ha contrastato. Gli Annales Ianuenses gli dedicano infatti ampio spazio, attenzione e rispetto; quello che si deve al grande avversario12. Con il passare del tempo, nella storiografia esemplare e nella cronachistica cittadina la figura di Federico acquista una sfumatura leggendaria, dimostrando lʼesistenza di tradizioni diverse che ne mettono in luce i tratti di curiosità «empia»13 o, invece, di cultura e cortesia. In ambito inglese, spicca la lettura data da Matteo Paris (1195 ca.-dopo il 1259)14, che dà straordinaria importanza alla funzione dell’imperatore quale difensore del mondo cristiano, ma evidenzia nel contempo la contesa tra Federico e la Chiesa. Pur documentando e apparentemente sposando le ragioni dello Svevo, stigmatizzando la rapacità della Curia romana e l’ostinazione di Gregorio IX e Innocenzo IV, Matteo Paris non può certo avallare il rovesciamento delle gerarchie del mondo. Federico rimane comunque per lui stupor mundi e immutator mirabilis, 8

Ivi, p. 417. Guglielmo di Nangis (morto nel 1300 o 1303), cronista francese e monaco nellʼabbazia di SaintDenis. 10 Cfr. L. CAPO, op.cit., p. 421-422. 11 Ivi, p. 423. 12 Ivi, p. 419. 13 Ivi, p. 420. 14 Matteo Paris, cronista inglese e monaco di St. Albans. 9


V

espressioni che rivelano ammirazione ma che sintetizzano tuttavia l’inquietudine dei contemporanei: il sospetto e il timore, la paura del nuovo, associato alla stranezza veniva considerato diabolico. Importante è anche il punto di vista della storiografia prodotta negli stati cristiani d’Oriente, in relazione all’esperienza di crociato di Federico e del suo titolo di re di Gerusalemme. Per entrambi i motivi lo spazio a lui dedicato è notevole e il giudizio ancora una volta risente da un lato dello scontro con la Chiesa, dall’altro del difficile rapporto instaurato con i baroni dell’Oltremare. Agli occhi dei poteri locali lo Svevo risulta ora come un corpo estraneo da respingere (Filippo da Novara15), ora come un sovrano con le giuste qualità per tenere le fila del regno (così nella prima parte dell’Estoire d’Eracles)16. Se dalla cronachistica più o meno contemporanea si volge lo sguardo alla storiografia, a partire dalla prima età moderna, si può notare come si accentuino e cristallizzino i tratti dominanti della figura di Federico e come ovviamente la lettura della storia passata facesse gioco alla critica o all’esaltazione del tempo presente. Già Machiavelli (1469-1527) imputa allo Svevo di aver acuito i contrasti interni alla repubblica fiorentina, danneggiando il Comune col suo intervento17. Allo stesso modo le Istorie fiorentine di Scipione Ammirato (1531-1601) pongono Federico all’origine delle discordie toscane, ritenendo che «non solo alla Chiesa nocque l’imperator Federico, e a tutta l’Italia, ma specialmente a Firenze»18. La storiografia della Riforma guarda naturalmente con grande favore a Federico in quanto avversario del papa, ritenuto quale unico responsabile della crisi spirituale della cristianità. È pero nel XVII secolo che la vicenda federiciana comincia ad essere vista con altri occhi, soprattutto negli autori dell’Italia meridionale, come ad esempio Francesco Capecelatro (1595-1670), che nella sua Storia del Regno di Napoli osserva come gli autori tedeschi siano troppo entusiasti nei confronti del loro imperatore, e, al contrario, quelli italiani gli siano troppo ostili. Ancora più 15

Filippo da Novara (1190 ca.-fine degli anni Settanta del Duecento), cronista delle vicende dʼOltremare. 16 Cfr. L. CAPO, op.cit., p. 425. 17 Cfr. F. TATEO, op.cit., p. 781. 18 Ivi, p. 783.


VI

nettamente, Pietro Giannone (1676-1748), autore di una Istoria civile del Regno di Napoli, contesta «il limite principale della tradizione storiografica soggetta al secolare scontro fra spirito guelfo e spirito ghibellino»19, vedendo in Federico l’intenzione di creare un modello di Stato moderno e giustificandone la durezza nei confronti dei privilegi ecclesiastici come ragion di stato. In proposito è diametralmente opposta la tesi di Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), secondo cui la fama negativa dell’imperatore era dovuta al suo comportamento, segnato da crudeltà, lussuria e doppiezza tali che «lasciò egli dopo di sé fama e nome più tosto abominevole»20. Ciononostante, Muratori riconosce al tiranno Federico intelligenza e accortezza, nonché i meriti verso la cultura e l’amore della giustizia. Il Settecento è il secolo in cui vengono meno le ragioni ideologiche che avevano ispirato critici ed entusiasti dell’imperatore, facendosi avanti la figura di Federico come “principe illuminato”. All’imperatore svevo Voltaire (1694-1778) dedica il LII capitolo degli Essais sur les moeurs et l’esprit des nations. Affascinato dal disegno federiciano di cambiare il volto dell’Europa, il filosofo francese vede in Federico un anticipatore dei suoi tempi21. Tale interpretazione avrebbe avuto molta fortuna nella storiografia successiva. In particolare, Johann Gottfried Herder (17441803) considera l’imperatore l’antesignano del sovrano illuminato, contribuendo in modo determinante alla costruzione dell’immagine otto-novecentesca di Federico II. Autori come Karl Wilhelm Ferdinand von Funck (1761-1828) e Friedrich Schlegel (1772-1829) esprimono ammirazione per il carattere cosmopolita della corte sveva, fautrice dell’incontro tra Occidente e Oriente; altri, come Johannes von Müller (1752-1809) e Friedrich Christoph Schlosser (1776-1861), pur riconoscendo la grandezza di Federico, ne condannano senza riserve proprio il dispotismo, la violenza e la pretesa di innalzarsi al di sopra del Papato. Sull’altro versante, quello della storiografia del Mezzogiorno italiano, invece, si registra l’elogio dello Svevo quale legislatore illuminato e riformatore

19

Ivi, p. 784. Ivi, p. 785. 21 Ivi, p. 786. 20


VII

dello Stato e difensore della sua autonomia22, come attestano le opere di Antonio Genovesi (1713-1769), Giuseppe Maria Galanti (1743-1806), Gaetano Carcani (XVIII sec.) e Rosario Gregorio (1753-1809). Più articolata è la posizione dello storico svizzero Jean-Charles-Léonard Sismonde de Sismondi (1773-1842), che se ammira l’opera legislativa e l’attenzione per la cultura di Federico vede nella repressione delle libertà municipali la radice di tutti i mali e non può quindi condividere l’azione dell’imperatore contro i Comuni italiani. Nel pieno Ottocento, la storiografia tedesca mostra grande attenzione nei confronti di Federico, assurto a eroe nazionale e genio insuperato dell’arte dello stato23, capace di tenere contemporaneamente sotto controllo gli appetiti degli ecclesiastici24, della nobiltà, della borghesia e del ceto contadino. Il massimo interprete di questa visione è Friedrich von Raumer (1781-1873), autore di una monumentale opera sulla casa di Hohenstaufen in cui sono raccolte tutte le fonti documentarie e narrative allora disponibili. Federico vi appare quale «eroe nazionale e genio insuperato dellʼarte dello stato»25. Non mancano tuttavia giudizi sullo Svevo nella direzione opposta, provenienti sia dagli storici cattolici che da quelli protestanti. Ad esempio, i tedeschi Konstantin von Höfler (1811-1898) e Johann Friedrich Böhmer (17951863), pur partendo da una rigorosa analisi delle fonti, rappresentano la “solita” immagine del Federico antipapale, dissoluto e dispotico. Leopold von Ranke (1795-1886) fissa nel periodo in cui visse Federico il momento in cui si realizzò la “tendenza unitaria” dell’Europa sotto la direzione tuttavia del Papato e non dell’imperatore svevo, che rappresenta per lui un’esperienza marginale, per quanto ne riconosca le grandi capacità politicoistituzionali ed economiche pur limitatamente al regno di Sicilia. Sulla scia di Ranke, si pone Gregorovius (1821-1891) che esalta la figura del Barbarossa, individuando invece in Federico II l’espressione del declino dell’Impero. 22

Cfr. R. DELLE DONNE, Storiografia dell’Ottocento e del Novecento, in “Federico II. Enciclopedia fridericiana”, Roma 2005-2008, vol. II (2005), pp. 787-802, p. 790. 23 Ivi, p. 791. 24 Friedrich Wilhelm Schirrmacher (1824-1904), autore di una monografia su Federico, lo dipinge in qualità di «antesignano dellʼaffrancamento dello stato dai condizionamenti delle gerarchie ecclesiastiche» (R. DELLE DONNE, op.cit., p. 792). 25 Ivi, p. 791.


VIII

In quello stesso periodo, la conoscenza delle fonti medievali fa un grande salto di qualità grazie all’avvio della pubblicazione dei Monumenta Germaniae Historica, grandioso progetto editoriale ancora in corso. Ma è anche la stagione della riscoperta e rielaborazione colta di leggende popolari, in cui Federico II “salvatore della patria”, nel quale si riflettevano i sogni di riscatto nazionale e di egemonia tedesca, è sostituito dal nonno26. Dietro questa preferenza vi era la critica alla proiezione “italiana” e mediterranea di Federico II a scapito della Germania, che diventa anche uno dei motivi del più ampio dibattito tra Heinrich von Sybel (1817-1895) da una parte e Julius Ficker (1826-1902) dall’altra sul ruolo dell’impero e della nazione tedesca. Proprio a Ficker si deve una più sobria analisi della vicenda federiciana, grazie anche alla promozione di nuove ricerche e più rigorose edizioni di fonti, che sfociano nelle due opere di Eduard Winkelmann (1838-1896) dedicate allo Svevo. Così come in Germania, anche in Italia il nazionalismo ottocentesco ricercò nelle pagine più rappresentative del glorioso passato medievale le chiavi per interpretare e trasformare il presente. Ugo Foscolo (1778-1827) ritiene che Federico «aspirava a riunire l’Italia sotto un solo principe, una sola forma di governo e una sola lingua; e tramandarla a’ suoi successori potentissima fra le monarchie d’Europa»27. L’assunzione della lingua e della poesia (quella della Scuola siciliana) quali fattori unificanti è fatta propria anche da Paolo Emiliani Giudici (1812-1872) e Vincenzo Gioberti (18011852), corroborata ulteriormente da storici come Giuseppe La Farina (1815-1863) e Giovanni Battista Niccolini (1782-1861) e soprattutto storici della letteratura quali Luigi Settembrini (1813-1876) e Francesco De Sanctis (1817-1883). Alla visione di un Federico II campione della “italianità”, esaltato come autore di uno stato forte e autoritario, laico ed anticlericale, sul quale si proiettavano le speranze risorgimentali, si contrapponeva la corrente neoguelfa (alla quale era inizialmente appartenuto lo stesso Gioberti), che contribuì a perpetuare il cliché del Federico superbo e pericoloso antagonista dei pontefici: così, ad esempio, Cesare Balbo (1789-1853) e Pietro Balan (1840-1893). L’uso politico-strumentale della vicenda federiciana e la polemica 26 27

Ivi, p. 794. Ivi, p. 796.


IX

storiografica tra guelfi e ghibellini proseguì fino alla metà del XX secolo28, ma su impulso della scuola filologica tedesca si approfondiscono anche in Italia le ricerche e le edizioni di fonti, che sfociano in studi specialmente dedicati al regno normanno-svevo, quali quelle di Giuseppe De Blasiis (1832-1914), Bartolomeo Capasso (1815-1900) e Francesco Brandileone (1858-1929). Ed un fenomeno analogo si riscontra in Francia, dove vengono pubblicate importanti monografie su Federico e sulla dinastia sveva ad opera di Jean-Louis-Alphonse Huillard-Bréholles (1817-1871), Claude-Joseph de Cherrier (1785-1872) e Jules Zeller (1813-1900). Particolarmente importante è poi il filone di studi sull’averroismo inaugurato da Ernest Renan (1823-1892) che contribuisce alla costruzione dell’immagine di un Federico II visto come il «culmine dell’illuminismo religioso medievale»29, influenzando tra gli altri Michele Amari (1806-1889), Hermann Reuter (XIX sec.) e anche Giovanni Gentile (1875-1944). L’interpretazione della figura dell’imperatore svevo si fa via via più complessa nelle opere dello storico svizzero Jacob Burckhardt (1818-1897) e del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900). Secondo il primo Federico II visse fuori dal suo tempo, fu un uomo moderno sul trono, profondo conoscitore ed ammiratore degli Stati saraceni, un figlio dʼOriente e nemico incallito dellʼorganizzazione feudale della società. Egli perciò avrebbe mirato, attraverso le sue ordinanze, alla distruzione del sistema feudale. Federico, nemico delle libertà civiche, sostiene Burckhardt, sarebbe lʼanticipatore della tirannide norditaliana: attraverso il controllo rigidissimo dei suoi sudditi, lʼimposizione delle imposte e il monopolio di parecchie merci egli fu un terribile tiranno. Lo dimostrerebbero tutte le caratteristiche della promozione degli interessi dello Stato, lʼimitazione del dispotismo orientale, il controllo delle attività economiche e il patronato artistico e letterario30. Nietzsche invece esalta lo Svevo come «il grande spirito libero, il genio

28

Emblematiche sono le opere di Michelangelo Schipa (1854-1939) e Gabriele Pepe (1779-1849), estimatori del ruolo politico di Federico II, da una parte, e di Emilio Nasalli Rocca di Corneliano (1901-1972), dall’altra. Cfr. R. DELLE DONNE, op.cit., pp. 798-799. 29 Ivi, p. 799. 30 Cfr. D. ABULAFIA, Fridericus Rex et Imperator: dal mito alla realtà, in “Mezzogiorno - Federico II - Mezzogiorno”, Atti di convegni - 4 - Comitato Nazionale per le celebrazioni dellʼVIII centenario della nascita di Federico II 1194-1994, a cura di C.D. Fonseca, Tomo I, Roma 1999, pp. 17-32, pp. 18-21.


X

tra gli imperatori tedeschi»31, un superuomo, dunque, eroe antimoderno e anticristiano. L’influenza di tale modello sarebbe durata a lungo, sia nella letteratura che nella storiografia tedesca: si pensi a Wolfram von den Stein (XX sec.) e soprattutto ad Ernst H. Kantorowicz (1895-1963). Solo in tempi più recenti è stata effettuata una ricollocazione della figura di Federico nella propria temperie storica, ad opera di studiosi come Konrad Burdach (1859-1936) e, dal secondo dopoguerra, Eduard Sthamer (1883-1938), Norbert Kamp (1927-1999) e tanti altri, fino a Wolfang Stürner (1940). Ciò che emerge è una revisione della concezione dello stato federiciano come “stato modello”, autocratico,

che

avrebbe

soffocato

ogni

autonomia

nel

Mezzogiorno,

determinandone l’arretratezza e l’insorgere stesso della questione meridionale32. Sempre nel secondo dopoguerra, la storiografia anglosassone, con storici quali Richard Oke (XX sec.), Georgina Masson (1912-1980), Thomas Curtis van Cleve (1888-1976) e infine David Abulafia, che nella sua opera Federico II. Un imperatore medievale (1990) ha indagato lo Svevo prevalentemente attraverso l’antinomia medievale/regressivo-moderno/illuminato, operando una netta frattura all’interno della storiografia tutta. Venendo ai tempi attuali, è indubbio che l’attenzione degli storici per le grandi personalità del passato è andata scemando, a vantaggio dell’analisi dei lunghi periodi, delle costanti e delle linee di tendenza sociali ed economiche. Perciò, porre un uomo al centro della storia viene ormai considerata l’espressione di una vecchia concezione della storiografia politica33. Cionostante, la poliedrica personalità di Federico continua ad esercitare (per certi versi inspiegabilmente) un forte fascino, come dimostra proprio l’opera di David Abulafia, ben presto seguita da nuovi ulteriori studi, come ad esempio quelli di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri Federico II. Ragione e Fortuna (2004), e di Hubert Houben Federico II. Imperatore, uomo, mito (2009). Si è così deciso di incentrare la tesi sull’analisi e il confronto di due testi recenti della bigliografia federiciana, quelli di Abulafia e Fumagalli, per cercare di ripercorrere criticamente la vicenda umana e politica dello Svevo, superando il 31

R. DELLE DONNE, op.cit., p. 800. Ivi, p. 801. 33 Ibidem 32


XI

condizionamento derivante da quell’approccio “romantico” di cui ho già detto all’inizio. È stato istruttivo vedere come due autori di formazione diversa, storico anglosassone l’uno, docente di Storia della filosofia medievale l’altra, affrontino lo stesso tema – il primo attraverso una valutazione critica e “asettica”, la seconda indubbiamente con un maggiore “coinvolgimento” – avendo entrambi l’obiettivo di riportare Federico al suo Duecento. L’esercizio della tesi è stato quello di analizzare come i due autori lavorino in modo diverso alla smitizzazione del personaggio storico, nel tentativo di liberarlo dalle deformazioni e dalle sovrastrutture politiche e storiografiche, da quel coacervo di opinioni faziose e contrapposte di cui la storiografia federiciana è ricca. Il lavoro di ricerca è stato svolto presso la Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia di Sassari, il Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari e la Biblioteca Comunale “Simpliciana” di Olbia. La tesi è strutturata in due capitoli aventi le caratteristiche della recensione critica. Nel primo capitolo la trattazione riguarda il testo di David Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale e si ripropone di individuarne gli aspetti più significativi; nel secondo capitolo oggetto dell’analisi è Federico II. Ragione e Fortuna di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri. I risultati della ricerca mi hanno portato a riflettere sia sul tema di Federico che sull’indagine storica più in generale. Vedere come la storiografia ha voluto interpretare la figura dell’imperatore svevo, “uomo dei suoi tempi” o “anticipatore” degli stessi, mi ha insegnato come sia pressoché impossibile ricostruirne un’immagine oggettiva, scevra dalle mistificazioni e faziosità della parte a lui avversa, o piuttosto dagli imbellettamenti mecenateschi e da quell’aureola mitica che ne circondano il capo. Che si tratti di storici contemporanei a Federico o di Abulafia e Fumagalli, si è sempre di fronte, inevitabilmente, ad un’interpretazione soggettiva. Legata alla problematica della soggettività è quella della selettività, vale a dire quali siano le motivazioni che spingono lo storico ad esaminare o ad ignorare determinate fonti. Insomma, l’immagine del personaggio storico risulta di solito incompleta e contraddittoria; la sua piena conoscenza rimane pertanto un’utopia. È dunque praticamente impossibile conoscere il “vero” Federico, “come fu in realtà”, anche se nella ricostruzione del passato è possibile raggiungere


XII

comunque una certa obiettività attraverso la dialettica storiografica. Ancor di più è problematico scrivere una biografia, il cui obiettivo sarebbe quello di narrare la vita di un individuo. Ma scarsa è la possibilità di penetrare la psicologia del soggetto, che rimane perciò inconoscibile. D’accordo con Abulafia34, ritengo perciò che si possa scrivere la storia della reputazione di Federico, non la storia di Federico.

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Cfr. D. ABULAFIA, Fridericus Rex … cit., p. 27.


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Capitolo 1. David Abulafia, “lo stupor del mondo storiografico federiciano”.

Ogni episodio della vita di Federico II è soggetto ad interpretazioni diverse da parte dei cronisti suoi contemporanei e degli innumerevoli storici che si susseguono nell’immensa storiografia a lui dedicata. Le differenze vanno ricercate nel punto di vista via via utilizzato per guardare alla vita dello Svevo. Gli oppositori dell’imperatore ovviamente offriranno un’immagine ostile sottolineando o creando ad hoc aspetti sgradevoli, che suscitino contrarietà e repulsione, anche grazie ad ingiurie e menzogne. Mentre i suoi sostenitori ne faranno un ritratto celebrativo ed esaltante, loderanno le sue gesta con approvazione incondizionata, rendendolo addirittura immortale. Guelfi da una parte e ghibellini dall’altra; papalisti versus ghibellinisti, laici, anticlericali e mecenati. David Abulafia, con la sua opera Federico II.Un imperatore medievale, rappresenta una voce fuori dal coro. Nella sua biografia ricostruisce le vicende della vita di Federico II e si propone di riportare il “protagonista” alla realtà storica, scevro da tutti quei tratti che ne alterano l’aspetto discostandosi dalla configurazione originaria. Lo storico britannico per raggiungere l’obiettivo opera un confronto dialettico con la storiografia federiciana apportando nel testo, accanto ai fatti ormai più che assodati, le differenze delle diverse figure di Federico che i vari cronisti e storici ne hanno dato nel tempo. Ecco che Federico, alla luce dei vari punti di vista, appare come in un quadro di Picasso: una immagine fusa, mediante un processo di scomposizione e ricomposizione, attraverso prospettive multiple. Picasso, così come gli altri artisti ad esso affini, opera un’estrema semplificazione del modellato del volto risolto per piani, sfaccettature, angolosità, con una accentuazione dei tratti somatici che conduce inevitabilmente alla deformazione. La novità del linguaggio pittorico cubista è tale e tanta da rivoluzionare anche il tradizionale rapporto volumetricospaziale del soggetto raffigurato con lo spazio circostante da esso occupato: viene completamente modificato il punto di vista unico, sconvolgendo in questo modo tutta la pittura prospettica rinascimentale, e c’è ora la veduta totale dell’oggetto, ottenuta mediante la scomposizione delle masse degli oggetti, la frantumazione delle forme e la trasfigurazione della realtà tridimensionale su una superficie


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bidimensionale, quale quella della tela, o tornando a Federico oserei aggiungere quale quella del foglio di carta. Ne esce fuori dunque un “ritratto cubista” dove ogni sfaccettatura è come se fosse stata pennellata da uno storiografo federiciano diverso. Il risultato è un’immagine complessa: la sovrapposizione dei punti di vista ha portato a una deformazione dell’immagine di Federico. Obiettivo di Abulafia è quello di scomporre tale figura; come uno scultore anomalo egli parte dalla “scultura Federico” per arrivare al blocco di marmo grezzo ed originario. Abulafia si dimostra assai critico. Il sottotitolo dell’opera è significativo del pensiero dell’autore: Federico II è stato «un imperatore medievale», un normale imperatore medievale quindi, un uomo del suo tempo. Per Abulafia Federico II fu un uomo del dodicesimo secolo più che del tredicesimo. Lo studioso inglese sostiene, nella prefazione, che l’ammirazione per Federico II e l’eccezionale reputazione non rispondono a verità, egli perciò si propone di dimostrare che la fama di cui gode lo Svevo non è tutta meritata1. Leggende, maldicenze, pettegolezzi, mecenatismo hanno contribuito a dare di Federico II diverse immagini: un genio, un uomo in anticipo sui suoi tempi, un ateo, l’Anticristo, un sovrano impegnato nella creazione di un nuovo ordine secolare esteso al mondo intero. Abulafia intende dare un’interpretazione globale del regno di Federico II2, collocandolo in un contesto più vasto, non isolandolo innanzitutto dall’eredità normanna e da quella germanica. Si tratta di una novità assoluta: l’autore, infatti, opera una frattura rispetto alla vulgata storiografica, dichiarando che lo Svevo è stato un imperatore del medioevo, che mirò durante il suo regno a garantire la continuità dei sistemi tradizionali di governo nelle regioni a lui sottoposte. Si ravvisa infatti con Abulafia un mutamento di prospettiva fondamentale che ha lo scopo di liberare la figura dell’imperatore svevo dai tratti mitici che parte della storiografia ha esaltato. Lo storico inglese tratteggia all’interno della storiografia l’immagine, decisamente controcorrente, di un uomo medievale: considera il sovrano svevo un tenace conservatore che, con un’accorta politica dinastica, volle tramandare ai suoi eredi i territori da lui ereditati o sottomessi, così come ogni altro sovrano suo 1 2

D. ABULAFIA, Federico II, Un imperatore medievale, Torino 1990, p. XI. Ivi, p. XIII.


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contemporaneo. Razionalista, libero pensatore, pioniere allevato nel tollerante contesto della Sicilia semimusulmana, amico di Ebrei e Saraceni? Per Abulafia si tratta di giudizi che non corrispondono alla realtà ma che anzi esprimono «la frustrazione degli storici che devono cimentarsi con un periodo improntato a una visione del mondo alquanto remota dalla nostra»3. Il testo è diviso in tre parti, nella prima Abulafia prende in esame la doppia eredità di Federico al fine di ricondurre lo Svevo alle sue radici normanne e germaniche per sfatare il mito della sua unicità. Nella parte seconda ripercorre le tappe della vita dello Svevo, dalla sua nascita, 1194, alla ribellione del figlio Enrico, 1235. Della parte terza fanno parte le vicende federiciane dal 1235 alla sua morte, 1250, e oltre. Particolare spazio viene dato alla corte, con annessi e connessi, alla lotta col papato e soprattutto a “i fantasmi degli Hohenstaufen” (il tredicesimo capitolo): il dopo Federico. «Federico II ricevette in eredità dai suoi antenati normanni assai più della rossa capigliatura e della corona sul capo»4: egli mantenne la concezione monarchica e la struttura amministrativa normanna. Il regno di Sicilia cessò di essere una realtà territoriale e divenne parte dell’impero, l’imperatore Federico fece sue le idee normanne di monarchia e rese possibile la dimensione universale che mancava all’assolutismo di Ruggero II. Gli storici moderni ci hanno presentato gli Altavilla della Sicilia normanna come modelli di tolleranza e di libero pensiero in un’era di fanatismo, questo sicuramente ha contribuito a dare di Federico l’immagine di un uomo di tre culture e religione incerta5. In realtà, spiega Abulafia, per Ruggero I l’indulgenza nei confronti dei sudditi non-cristiani era semplicemente uno strumento di governo: la sicurezza del regnum dipendeva dal recupero alla cristianità della Sicilia musulmana. Dove più della metà della popolazione era di religione islamica, numerosi erano gli ebrei e la maggior parte dei cristiani professava il rito greco-ortodosso. Era sua priorità dunque portare l’isola sotto la confessione cattolica. Alcuni studiosi hanno presentato la Sicilia normanna come uno «stato modello» partendo dall’ipotesi che il mandato del re fosse efficace nell’intero regno, dal 3

Ivi, p. 365. Ivi, p. 49. 5 Ivi, p. 15. 4


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confine dell’Abruzzo fino alle campagne della Sicilia nordoccidentale6. Abulafia invece sostiene che il regno non fosse così omogeneo nel XII secolo: vi era una separazione tra Sicilia e Calabria da una parte e il resto dell’Italia meridionale dall’altra. Soltanto con Federico II appaiono segni di compattezza, ma questo non vuol dire che lo storico sostenga l’idea che l’imperatore fosse stato artefice di uno «stato modello». Tutt’altro. Con l’ironia che lo contraddistingue Abulafia precisa che il secondo assunto di quegli stessi studiosi non risponde a verità, i metodi di governo infatti non potevano essere identici, l’amministrazione del potere nel Medioevo seguiva linee diverse: «espedienti, sperimentazioni, improvvisi mutamenti erano all’ordine del giorno»7. Da sottolineare è poi il fatto che, secondo il terzo «pilastro» degli stessi studiosi, il governo siciliano risulti essere stato sensibile ai bisogni di tutti i sudditi del re, Greci, Latini, ebrei, musulmani. I documenti ufficiali erano emanati in greco, latino e arabo; si trattava di un’amministrazione multilingue quindi. Ma non bisogna meravigliarsi troppo: Abulafia ci riporta immediatamente con i piedi per terra sottolineando il fatto che il sovrano non considerava tutti i suoi sudditi con ugual favore, ma era consapevole che il suo governo avrebbe potuto operare solo in un clima di imparzialità etnica8. Ai massimi livelli di responsabilità la tolleranza non era la norma. Tanto è vero che i burocrati musulmani di alto rango dovevano convertirsi al cristianesimo. Già Ruggero II aveva capito che, essendo metà della Sicilia di fede islamica, era necessario avere il massimo rispetto nei confronti dei sudditi maomettani, sia per guadagnarne l’appoggio sia per manifestare alla comunità cristiana che il re possedeva un’importante riserva di lealtà nella comunità islamica9. La convivenza siciliana tra Greci, Latini e musulmani non portò comunque, spiega Abulafia, alla fusione di elementi culturali diversi in una funzione di insieme: non si addivenne affatto a quell’amalgama culturale che taluni studiosi hanno postulato10. Il regno normanno era uno stato territoriale, sul trono sedeva un sovrano che 6

Ivi, p. 29. Ibidem 8 Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 30. 9 Ivi, p. 31. 10 Ivi, p. 41. 7


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esercitava un potere assoluto sugli affari sia secolari che religiosi dei suoi sudditi. Ruggero II venne etichettato dai contemporanei come «tiranno», Giovanni di Salisbury (tra il 1110 e il 1120-1180) usò il termine col significato tecnico di assunzione del controllo totale, San Bernardo (1090/91-1153) invece lo usò in modo infamante contro il sovrano. Abulafia spiega che la monarchia siciliana non era una novità assoluta: le idee di Ruggero II erano riprese da nozioni legali tardoromane, necessarie per affermare che il sovrano era al di sopra della legge e per legittimare la monarchia siciliana: il sovrano si riteneva svincolato dalla giurisdizione papale e imperiale11. Risulta interessante anche il fatto che Ruggero II intrattenesse cordialissimi rapporti con il Cairo e venisse lodato come «il più saggio re del mondo»12, se solo avesse creduto in Maometto; egli mostrò interesse per la filosofia e le scienze, ed inoltre, al pari di Federico II, fu mecenate di tanti eruditi musulmani. Abulafia ribadisce più volte che la monarchia normanna dissodò il terreno che avrebbe consentito a Federico II un buon governo13. Egli proseguì nell’esercizio dell’assolutismo normanno; la monarchia gestiva le attività economiche attraverso controlli centrali, o regalie, sulla produzione e vendita di beni come il sale, il ferro, la fabbricazione dell’acciaio e della pece, il tonno e il controllo sul disboscamento delle foreste reali per la costruzione di case e navi. Contrariamente all’opinione di alcuni storici il termine «regalia» non ha affatto il significato di «monopolio»: vi confluiscono temi importanti, spiega Abulafia, come il fatto che per decreto alcuni prodotti della terra e del mare sono riservati alla Corona, e la ricerca di denaro in forma di profitti ricavati dalla vendita di tali prodotti14. I prodotti naturali, ad esempio il sale, non essendo frutto della fatica dell’uomo erano considerati una prerogativa del sovrano, che in quanto rappresentante di Dio in terra era il custode del pubblico bene. Tra i sovrani normanni che concorrono a ridimensionare la figura di Federico II troviamo Guglielmo II il Buono. Questi fu un attivo legislatore, ben disposto nei confronti della nobiltà ma anche determinato a far rispettare le leggi

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Ivi, p. 24. Ivi, p. 20. 13 Ivi, p. 35. 14 Ivi, p. 20. 12


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imparziali volute da Ruggero II. Il regno di Guglielmo II divenne famoso come età d’oro del dominio normanno. Il buon re fu un modello per Federico II, Carlo d’Angiò e Pietro d’Aragona15. Il mecenatismo, l’amore per le scienze e per la cultura araba, greca e latina non furono una prerogativa di Federico II: già Ruggero II, Guglielmo I e II avevano mostrato amore per le scienze, erano stati mecenati di artisti e studiosi. La vita culturale della corte normanna viene presentata come un «eclettico amalgama di conoscenze arabe, greche e latine, nelle mani di sapienti ebrei, cristiani e maomettani»16: tale definizione ha molto in comune con la visione idealizzata della monarchia normanna quale «lodevole miscuglio di talenti amministrativi»17. In realtà, sottolinea Abulafia, non vi era una netta separazione tra funzioni burocratiche e impegni culturali, e quindi era ovvio che un funzionario latino apportasse a corte conoscenze latine, un funzionario musulmano conoscenze della propria cultura, e così via. Lo storico riporta il pensiero di Van Cleve (1888-1976)18 secondo il quale le metodologie seguite da Federico II nelle scienze naturali riprendono quelle del geografo arabo al-Idrisi (1099 ca.-1164 ca.) e i rapporti tra lo Svevo e l’astrologo e scienziato Michele Scoto (1175 ca.-1232 ca.) ricalcano quelli di Ruggero II e al-Idrisi. «Ecco un altro esempio del modo in cui estese somiglianze vengono usate per creare un’immagine esagerata di un’omogenea corte normanno-Hohenstaufen, impregnata dell’ideale di fratellanza scientifica non settaria»19, sentenzia Abulafia. Rispetto ai suoi predecessori Federico II apportò un modesto contributo al mecenatismo legato all’edilizia e alle belle arti; le cattedrali, i mosaici, i palazzi, i giardini, le fontane e il serraglio vennero ereditati da Federico che, ad ogni modo, vi dedicò molte cure. Il fatto che fosse sua consuetudine farsi accompagnare da animali selvatici contribuí «a far di lui nelle menti dei sempliciotti una sorta di

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Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 32. Ivi, p. 37. 17 Ibidem 18 Lʼamericano Thomas Curtis Van Cleve pubblicò nel 1972 una biografia di Federico II. Lo ritenne un “immutator mundiˮ, uno che non ha cambiato nulla, un conservatore insomma. Sostenne inoltre che lʼimperatore svevo non aveva «no counterpart nor near counterpart in history»: H. HOUBEN, Federico II, Imperatore, uomo, mito, Bologna 2009, p. 176. 19 D. ABULAFIA, op. cit., p. 38. 16


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mago, attorniato da un corpo scelto di mostri»20. In realtà, spiega Abulafia, Federico II come i suoi predecessori amava gli animali rari perché prova tangibile delle infinite meraviglie del mondo naturale; i governanti erano anche gli amministratori di Dio per il resto del creato e possedere un serraglio simboleggiava una posizione di dominio. Potrebbe apparire bizzarro il fatto che l’imperatore si portasse appresso un elefante, cammelli e gli amati falchi insieme ai gioielli della Corona e parte della fornita biblioteca, ma in realtà era costume dell’epoca mostrare il serraglio e ostentare o semplicemente affermare l’autorità attraverso tale mostra. Gli animali esotici o feroci di proprietà del sovrano erano «segno di pompa e di potenza. Quando appariva nei cortei solenni egli era accompagnato da elefanti, dromedari, cammelli, pantere, leoni, linci, orsi bianchi, leopardi, girifalchi, falchi bianchi e altri animali esotici che destavano l’ammirazione degli spettatori»21. Dopo aver trattato lungamente dell’eredità normanna, Abulafia passa a quella germanica. Dall’altra parte dell’albero genealogico di Federico II troviamo infatti gli Hohenstaufen. La monarchia Sveva era un habituée del trono imperiale: Corrado III venne eletto imperatore nel 1138, alla sua morte gli successe il nipote Federico I Barbarossa, dopo di lui toccò al figlio Enrico VI ed infine a Federico II. Abulafia riconduce la funzione escatologica accreditata a Federico II alle opere di Ottone di Frisinga (1114 ca.-1158), zio del Barbarossa, e rileva come in origine tale funzione fosse riferita a Federico I. Ottone descrive quest’ultimo come «l’Imperatore degli Ultimi Giorni, la figura escatologica scelta da Dio per inaugurare la sequenza finale di eventi nella storia umana: la battaglia con l’Anticristo, il Giudizio Finale nella valle di Giosafat, sotto le mura della santa Gerusalemme»22. Anche la leggenda dell’imperatore dormiente vede il confondersi di Federico I e II in un unico personaggio: il sovrano non è morto ma in fase rem, seduto in una caverna sul Kyffhäuser con la barba che si allunga sul tavolo, in attesa del momento giusto per un ritorno redentore23. L’eredità sveva di Federico può essere “ricalcata” sulla vita del nonno 20

Ivi, p. 42. Cfr. R. ELSE, La simbologia del potere nell’età di Federico II, in “Federico II, immagine e potere”, a cura di M.S. Calò Mariani e R. Cassano, Venezia 1995, pp. 45-51, p. 46. 22 D. ABULAFIA, op. cit., p. 62. 23 Ivi, p. 64. 21


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Barbarossa: il conflitto tra imperatore e pontefice sull’opposta concezione della propria autorità, il conflitto con la Lega Lombarda e il tentativo di affermare un’autorità universale sono tutti aspetti che Federico II riprenderà a mo’ di lascito, oltre naturalmente al Sacro Romano Impero. Quando Abulafia identifica Federico II in un «imperatore medievale» non intende affermare la mediocrità dei suoi talenti, né sminuire la sua importanza storica; allude invece ad un monarca tradizionale che nella sua politica riprese quelle che erano le sue radici nella Sicilia normanna e nella Germania del Barbarossa. Nel confronto col Federico mitico il Federico “reale” non perde comunque il suo fascino24. Il primo passo per riportare Federico II dal mito alla realtà è quello di non considerarlo un unicum ma, dando uno sguardo più ampio e attento a ciò che lo ha preceduto e succeduto, valutarlo per il continuum che è stato. Federico II non fu affatto eccezionale nella sua politica: fece proprie infatti le concezioni dello stato degli antecessori normanni e tedeschi, mantenendo un governo diverso in Germania e Sicilia. Ha scritto Caravale: «la storiografia è sostanzialmente concorde nel celebrare il periodo compreso tra il 1220 e il 1250, anno della morte di Federico II, come quello del massimo splendore della potestà monarchica meridionale e nell’esaltare il sovrano svevo come primo assertore di quella pienezza del potere regio che in altri regni troverà espressioni analoghe solo in età moderna»25. In realtà, spiega sempre Caravale, la storiografia che assegna a Federico una forma di governo paragonabile a quella delle monarchie assolute dell’età moderna esagera: la monarchia sveva appartiene al mondo medievale e sua principale funzione era quella di tutelare il diritto vigente per tradizione nelle varie regioni del Regno. L’aspetto che distingue la monarchia sveva dalle altre ad essa coeve è costituito dall’estesa articolazione e dall’efficiente funzionamento degli uffici regi incaricati dell’amministrazione delle entrate e dell’esercizio delle potestà

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Cfr. D. ABULAFIA, Fridericus Rex et Imperator: dal mito alla realtà, in “Mezzogiorno - Federico II -Mezzogiorno”, Atti di convegni - 4 - Comitato Nazionale per le celebrazioni dellʼVIII centenario della nascita di Federico II 1194-1994, a cura di C.D. Fonseca, Tomo I, Roma 1999, pp. 17-32, p. 31. 25 M. CARAVALE, Gli ordinamenti monarchici del medioevo maturo, in “Ordinamenti giuridici dellʼEuropa medievaleˮ, Bologna 1994, pp. 395-471, p. 416.


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militari e di giustizia spettanti al sovrano26. Abulafia rileva come il contrasto tra la meticolosa programmazione del suo governo in Sicilia e l’apparente mancanza di interesse per le cose tedesche abbia indotto gli storici a definire «abdicazione» il comportamento di Federico in Germania27. Secondo lo storico britannico Barraclough (1908-1984) egli «sacrificò deliberatamente» la possibilità di creare un governo tedesco centralizzato. Delegava il potere alla curia nelle città episcopali, e in quelle imperiali era per lo più condiscendente nei confronti dei cittadini, a parte qualche raro caso di intervento nella nomina di alte cariche. Il tono della politica di Federico in Germania sarebbe stato dunque eccezionalmente liberale. La Confederatio cum principibus ecclesiasticis del 1220 mostra appieno tale istituzione: si trattava di un decreto in cui Federico concedeva ai vescovi poteri di governo in pratica illimitati. Suo obiettivo sembrava essere quello di creare un mosaico di principati territoriali, a conduzione ecclesiastica soprattutto; i motivi spaziano dal senso di realismo, dalla gratitudine verso chi lo aveva servito, all’impazienza di dedicarsi ad altre imprese, come l’incoronazione imperiale a Roma, la crociata e la restaurazione dell’autorità regia in Sicilia, nonché il raggiungimento della leadership della cristianità contro gli infedeli, l’affermazione dell’autorità dei Cesari in tutto il mondo cristiano e la definizione di un accettabile modus vivendi con il papato28. L’imperatore mostrò più impegno e interesse per il Regnum sicuramente perché rispetto all’impero esso necessitava di una maggiore presenza, sia fisica che politica. E in questa luce vanno viste le legislazioni capuane e melfitane, emanate a circa dieci anni di distanza le une dalle altre sul modello normanno: rifacendosi infatti alla legislazione normanna, Federico II emanò le Assise di Capua. Il riordinamento del regno di Sicilia venne affrontato dal sovrano nel corso di una solenne assemblea generale svoltasi nel 1220. Le costituzioni approvate in questa occasione ribadirono l’articolazione degli ordinamenti conosciuta dal Regno nel periodo normanno sotto Ruggero II e Guglielmo II29. L’obiettivo primario delle

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Ivi, p. 424. Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 102. 28 Ivi, p. 103. 29 Venne «confermata la giurisdizione dei giustizieri provinciali regi sia nelle terre demaniali, sia in quelle signorili; fu proclamata solennemente la prerogativa regia di passo, di dogana, di porto e di mercato; furono ricondotti nei limiti tradizionali l’ordinamento signorile – con l’eliminazione delle 27


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costituzioni di Capua fu la restaurazione dei contenuti che la tradizione aveva maturato per gli ordinamenti nel corso del XII secolo e la conseguente eliminazione degli usi contrari a tale tradizione. «Nulla di nuovo sotto il sole» evidenzia Abulafia: le Assise di Capua sono una mescolanza di legislazione normanna e una sorta di conservatorismo pragmatico, «nulla di sostanzialmente originale»30. Abulafia sottolinea come nella cronaca di Riccardo di San Germano il contenuto delle costituzioni capuane appaia «banale»: il cronista riporta provvedimenti contro le burle e il gioco d’azzardo, non vietati in modo assoluto ma da condurre decorosamente (una delle pene previste era il taglio della lingua); due leggi concernevano gli ebrei e le prostitute obbligati ad indossare abiti atti a distinguerli, gli ebrei dovevano inoltre farsi crescere la barba, le prostitute erano costrette a vivere all’esterno delle mura cittadine, era permesso loro un accesso ai bagni pubblici una volta la settimana31. Ecco che la tolleranza di Federico nei confronti degli ebrei, elogiata da molti storici, viene offuscata. Nell’estate del 1231 l’imperatore presentò un nuovo codice ai suoi vassalli riuniti a Melfi. Le Costituzioni di Melfi contengono più di duecento disposizioni legislative e proclami. Gli storici vi hanno visto la prova dell’intenzione di Federico di fare della Sicilia uno «stato modello», uno stato efficiente, centralizzato e disciplinato, dove ogni diritto e ogni obbligo fosse deciso dal sovrano. Ma Abulafia precisa che si trattò di un’utopia, di un’aspirazione ideale che non trovò riscontro nella realizzazione pratica: «quali che siano le influenze esercitate su Federico dai gloriosi codici romani, dai giuristi canonici contemporanei e della filosofia aristotelica, da poco tornata sulla cresta dell’onda, la sua normativa giuridica non segna l’avvento di un nuovo Giustiniano. Tutto l’insieme manca dell’ampio respiro e dell’organicità onnicomprensiva dei testi romani, limitandosi ad affrontare i problemi specifici ad un regno in urgente bisogno di ricostruzione. baronie –, quello feudale – con la restaurazione del diritto in vigore nel periodo normanno, la revisione delle concessioni disposte dopo la morte di Enrico VI, il divieto di matrimonio tra vassalli e di vendita del beneficio senza l’autorizzazione regia –, quello ecclesiastico – venne imposta la restituzione alle Chiese dei beni e diritti usurpati dai laici – e quello cittadino, con l’eliminazione di forme istituzionali diverse da quelle del periodo precedente»: M. CARAVALE, Gli ordinamenti monarchici… cit., p. 418. 30 D. ABULAFIA, op. cit., p. 117. 31 Ivi, p. 119.


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Né si può parlare di profonda originalità, ma piuttosto di una combinazione ben dosata di fonti romane, canoniche e feudali»32. Nell’introduzione al codice Federico si presenta come imperatore dei Romani, Cesare Augusto, signore dei regni d’Italia, Sicilia, Gerusalemme e Borgogna. Un paradosso, secondo Abulafia, in quanto si identifica come «Augusto» ma legifera per un regno apparentato all’impero da vincoli del tutto aleatori33; infatti, il regno di Sicilia era uno stato vassallo del papato e non apparteneva dunque all’impero anche se la stessa persona reggeva ambedue le corone. Dal proemio delle Costituzioni di Melfi emerge il pensiero di Federico II: «tra Dio e il principe non v’era alcun intermediario sacerdotale»34, egli esponeva una teoria di governo che faceva a meno dell’azione salvifica del papa. L’imperatore dichiarava inoltre che era stato Dio stesso a conferirgli la funzione di difendere e tutelare il diritto vigente nel territorio del Regno e di integrarlo. Le costituzioni promulgate avevano l’obiettivo di migliorare la giustizia regia, sostituendo usi inadeguati e superati con regole eque per una migliore protezione della pace. Note anche come Liber Augustalis, le costituzioni assegnarono all’esclusiva competenza regia reati come «la lesa maestà, l’omicidio, il furto, l’incendio, la violenza, il naufragio, i danni dati, l’ingiuria ai curiali, l’ingiuria ai nobili, la falsificazione dei documenti, la sottrazione di testamento, nonché alcuni delitti altrove spettanti all’ordinamento ecclesiastico, quali l’apostasia, il sacrilegio, l’adulterio, il lenocidio, l’eresia, la bestemmia, l’usura e lo spergiuro»35. Contrariamente alle aspettative di tanti storici medievali, sottolinea Abulafia, le riforme non partorirono trasformazioni dall’oggi al domani: «il contenuto del Liber Augustalis del 1231 non è pari all’altisonante titolo; come manifesto di autocrazia è a dir poco inadeguato, preoccupandosi sostanzialmente di sottolineare i diritti del monarca sui suoi vassalli»36. Lo studioso tedesco Hermann Dilcher ha rintracciato nelle leggi di Melfi origini romane, bizantine, longobarde, normanne, canoniche e spagnole37; vi si ritrovano leggi di Ruggero II e Guglielmo il Buono giustapposte a

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Ivi, p. 169. Ivi, p. 171. 34 Ivi, p. 173. 35 M. CARAVALE, Gli ordinamenti monarchici… cit., p. 421. 36 D. ABULAFIA, op. cit., p. 266. 37 Ivi, p. 174. 33


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idee e metodologie condizionate da varie culture. Le Costituzioni mescolano i più disparati contributi: sono quindi il risultato del confluire di antico e moderno: nulla di originale, secondo Abulafia. Federico dunque eredita dai suoi predecessori normanni e dalla tradizione arabo-bizantina l’amministrazione del regnum e una corte cosmopolita in Sicilia; mentre in Lombardia la sua azione ricalca quella del nonno Federico I Barbarossa. Per quanto riguarda la Germania Abulafia fa cenno, nel settimo capitolo, a due legislazioni: una è la Constitutio in favorem principum, emanata da Enrico re dei Romani il 1° maggio 1231, che riaffermava e rafforzava i diritti dei principi tedeschi. Nel 1232 i provvedimenti vennero ratificati da Federico II, assicurando così ampi poteri d’intervento ai principi tedeschi38. È datata 1235 la seconda legislazione in Germania; si tratta del Mainzer Landfriede che proclamava la pace pubblica attraverso il disinnesco di qualsiasi possibile motivo d’attrito. Non vi è alcunché di rivoluzionario, secondo Abulafia, in quanto la legislazione concretizzerebbe di fatto la difesa dei privilegi di principi, vescovi e vassalli, soprattutto di quelli più potenti. Ancora, Federico non aveva alcuna intenzione di creare un governo centralizzato e autocratico per tutta la Germania, come hanno sostenuto alcuni storici romantici tedeschi: Federico non pensava affatto a una Germania unita, bensì a una nobiltà tedesca concorde nel dargli appoggio. Il fatto poi che la pubblicazione dei testi giuridici fosse in lingua tedesca, dimostra solo lo scopo di trasmettere la legge in un linguaggio più comprensibile per una più facile applicazione39. Il fatto che Federico II abbia cercato di far rivivere l’autocrazia normanna in Sicilia confermando, al contrario, in Germania il potere dei grandi feudatari ha lasciato perplessi gli storici; ma secondo Abulafia non vi fu nessuna connessione tra i governi delle due corone40. Dal confronto con gli altri coevi monarchi mediterranei Abulafia trae ulteriori motivi di polemica: il famigerato mecenatismo di Federico è paragonabile 38

Lo storico tedesco Erich Klingenhöfer (1919-1985) sostiene che dalle Constitutio la dignità imperiale non ne uscì affatto sminuita: i privilegi non erano distribuiti iniquamente, lʼimperatore conservò la sua posizione di fonte della legge e in cambio delle concessioni ottenne il riconoscimento della sua sovranità. Non fu la totale «abdicazione» di cui era convinto Barraclough. Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 193. 39 Ivi, pp. 203-204. 40 Ivi, p. 366.


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a quello del re d’Aragona o di Castiglia nel Duecento o anche a quello di suo nonno Ruggero II. Ma la sua fama di mecenate è intramontabile. Nel 1920 lo storico statunitense Charles Homer Haskins (1870-1937) scrive che «Federico sta alla pari di Ruggero II nella promozione delle scienze e della filosofia; la brillante e precoce cultura del suo regno siciliano era in parte un’eredità normanna e in parte una conseguenza della sua pressoché inesauribile curiosità per il mondo naturale»41. La Sicilia era il presupposto di questi fermenti culturali, in quanto crocevia di influenze greche, arabe e latine, e ambiente d’incontro per tre o più civiltà. Naturalmente, specifica Abulafia, la corte degli Hohenstaufen deve essere inserita nel contesto delle tradizioni culturali siciliane del XII secolo e di altre monarchie europee del XIII, come Castiglia e Aragona, che manifestarono interessi analoghi. In questa prospettiva, la corte sveva perde decisamente un po’ della sua unicità; ma comunque, secondo Haskins, questo non modifica lo spessore di Federico II: «una delle menti più brillanti del Medioevo»42. Il pensiero di Haskins fu ripreso da vari storici tedeschi: Federico II era lo Stupor mundi, il precursore del principe del Rinascimento, il razionalista e lo scettico; un personaggio costruito dagli storici, spiega Abulafia, che attinsero ai racconti di autori a lui contemporanei per delinearne il ritratto, Matteo Paris e l’«impudico pettegolo»43 Salimbene de Adam. Molti sono coloro che hanno interpretato Federico come un imperatore nonmedievale; allʼorigine di tale interpretazione sta quello Stupor Mundi offerto dal citato cronista inglese Matteo Paris: ogni azione dellʼimperatore è intrisa di mecenatismo, dal campo militare a quello diplomatico. In particolare lʼimmagine di Federico tanto amichevole verso sudditi e studiosi ebrei e musulmani ha contribuito a dare forza al mito federiciano. Motivo di fascino sono anche il supposto razionalismo e lʼagnosticismo dellʼimperatore. Lʼintera tradizione storiografica basata sul “modello” Matteo Paris dimentica che questi visse e scrisse in un convento a nord di Londra, lontano dunque dai fatti raccontati e soprattutto impossibilitato a confrontare la figura eroica dellʼimperatore con gli altri re 41

Ivi, p. 211. Ibidem 43 Ibidem 42


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cristiani suoi contemporanei che come lui condivisero lʼesperienza di governare su cristiani, ebrei e musulmani, e di acquisire nozioni di scienza e filosofia ebraica e araba, come Giacomo I dʼAragona44. Salimbene de Adam contribuisce allʼevoluzione della figura mitica federiciana: ecco allora lʼimperatore che apre lo stomaco dei suoi prigionieri per investigare il processo digestivo45, o ancora lʼimperatore che fa rinchiudere un prigioniero in una botte sigillata ermeticamente per osservare, una volta morto soffocato, l’uscita della sua anima46. Risulta decisiva in virtù della sua autorevolezza il contributo all’evoluzione del mito Federico offerto dalla letteratura propagandistica della curia romana; lo scandaloso Federico possiede un harem con danzatrici saracene, e per di più è nemico della Chiesa. “L’industria” anti-imperiale presentava Federico come un infedele, contro cui quindi fu legittimamente scagliata una crociata. La cancelleria pontificia utilizzò e forse ampliò le molte dicerie sull’imperatore per dipingere l’acerrimo nemico47. Interlocutori “privilegiatiˮ furono due dei retori e latinisti di primo rango che esercitavano presso la corte imperiale, Pier delle Vigne (1190 ca.1249)48 e Taddeo da Sessa (tra il 1190 e il 1200-1247)49. Nell’aprile 1239 Pier delle Vigne indirizzò ai governanti europei un’enciclica, firmata da Federico, che esprimeva una dura condanna nei confronti del pontefice. Comparava l’imperatore a Gesù; la funzione di rappresentante di Dio in terra, lo status di Vicario di Cristo andava attribuita a Federico e non al falso sacerdote Gregorio50. Queste idee, sottolinea Abulafia, non erano affatto innovative: «sin dall’XI secolo i re tedeschi si erano opposti al presunto primato della Chiesa in nome di un rapporto 44

Cfr. D. ABULAFIA, Fridericus Rex… cit., p. 22. Cfr. H. HOUBEN, op. cit., p. 116. 46 Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 218. 47 Cfr. D. ABULAFIA, Fridericus Rex… cit., pp. 23-24. 48 Pier delle Vigne: notaio, giudice della magna curia e uno dei principali collaboratori dellʼimperatore. Per Piero «Federico era il Cesare romano, imperatore del mondo, principe della pace e salvatore inviato da Dio; lo chiamò persino santo (sanctus Fridericus), non con intento blasfemo, ma per esprimere lʼorigine divina dellʼimpero»: H. HOUBEN, op. cit., p. 108. 49 Taddeo da Sessa: giureconsulto e gran giustiziere della curia imperiale. 50 Gregorio IX (1170-1241), il pontefice eletto il 19 marzo 1227, si rivelò inflessibile sulla partenza della crociata promessa da Federico. Colse ogni occasione per limitare il potere dellʼimperatore che, a suo avviso, minacciava lʼindipendenza della Chiesa. Scomunicò Federico due volte (1227, 1239). Lo scontro tra le due massime autorità fu durissimo e non mancarono colpi bassi soprattutto da parte del pontefice, ma bisogna sottolineare che vi furono anche iniziative pacifiche (pace di San Germano) volte a trovare un modus vivendi simile a quello avuto tra Federico II e Onorio III. Cfr. H. HOUBEN, op. cit. , pp. 33-34, 40, 55-56, 62-63. 45


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privilegiato con l’Onnipotente»51. La curia papale rispose alla campagna di Pier delle Vigne con una violenza estrema: Federico era il precursore dell’Anticristo; «un mostruoso leviatano a sembianza di pantera ma con le zampe di un orso, vomitante oscenità da una bocca leonina»52; un lupo travestito da agnello; uno scorpione; il disertore del cristianesimo: aveva depredato la Chiesa dei suoi privilegi e possedimenti, aveva condannato Mosè, Gesù e Maometto quali «tre impostori», si era preso gioco del dogma dell’Immacolata Concezione e aveva condotto un’esistenza immorale53. Gregorio accusò Federico anche di sodomia. La macchina propagandistica papale riprese con energia sotto il pontificato di Innocenzo IV54. Le epistole erano cariche di invettive, molte dovute alla penna di Rainiero di Viterbo (1190 ca.-1250)55 che dipingeva l’imperatore come «la quarta bestia nella visione del profeta Daniele, distruttrice e divoratrice, con denti di ferro e artigli d’ottone, illusa di poter modificare ciò che è stabilito, di far uscire il corso della storia dal sentiero tracciato»56. L’imperatore era descritto come il nuovo Erode, un sadduceo che cercava di sottrarre al pontefice la sua autorità e la negava presentandosi come il vero Vicario di Cristo; Federico era il falso crociato, intimo dei musulmani, nemico della fede cristiana, sequestratore di cardinali, responsabile della morte di Gregorio IX, usurpatore di terre e privilegi papali57. Nella cattedrale di Lione, durante il concilio ecumenico del 24 giugno 1245, Taddeo da Sessa, prendendo le difese di Federico, tratteggiò il profilo di un imperatore alquanto diverso: condiscendente, contrito e pronto a collaborare58. È chiaro dunque che l’immagine dell’imperatore risenta, per forza di cose, della mano che la tratteggia. Gli anni giovanili dell’imperatore, sostiene Abulafia, segnarono un arretramento del «patronato culturale»: il processo di latinizzazione si avviava a 51

D. ABULAFIA, op. cit., p. 263. Ivi, p. 264. 53 Ibidem 54 Innocenzo IV (1190 ca.-1254), eletto papa ad Anagni il 25 giugno 1243, scelse il nome per indicare probabilmente la sua volontà di ricollegarsi al pontificato di Innocenzo III. Ebbe propensioni egemoniche inconciliabili col potere temporale, ne venne fuori un conflitto con lʼimperatore finito con la deposizione dello stesso da parte del pontefice (17 luglio 1245). Cfr. H. HOUBEN, op. cit., pp. 64, 67. 55 Rainiero di Viterbo: monaco cistercense, notaio della cancelleria pontificia e cardinale dal 1216. 56 D. ABULAFIA, op. cit., p. 307. 57 Ibidem 58 Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 308. 52


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conclusione e gli studiosi musulmani a corte erano quasi scomparsi, inoltre, la Sicilia aveva rivali ben più autorevoli nella conoscenza ebraica; la Castiglia e l’Egitto non avevano eguali. Per Abulafia Federico II non rivitalizzò, né tanto meno sviluppò gli interessi culturali dei suoi antenati: «l’amalgama culturale attribuito alla corte normanna non è visibile in quella sveva. L’elemento musulmano era in pratica ridotto a una guardia scelta di Saraceni di Lucera. Numerosi erano comunque i visitatori musulmani, ad esempio gli ambasciatori di al-Kamil, e Federico mantenne costanti rapporti epistolari con studiosi islamici»59. Diversa è l’opinione di Van Cleve: nella sua biografia dell’imperatore dichiara che «ciò che era stato conseguito in ogni parte del regnum durante il XII secolo fosse un trampolino di lancio per glorie ancor maggiori nel XIII»60. La corte di Federico aveva carattere itinerante, sia perché i possedimenti in Germania e alta Italia impedivano all’imperatore di domiciliarsi in un’unica capitale, sia a causa delle campagne belliche che durante gli anni trenta e quaranta lo tennero impegnato tra la Lombardia e l’Italia centrale. «Questa corte viaggiante non poteva reggere il paragone con la sontuosa reggia palermitana di Ruggero II»61. Abulafia tiene a precisare come non vi fosse alcunché di originale in Federico II, anzi sostiene con forza che il patronato culturale dell’imperatore fu soltanto una pallida ombra di quello dei suoi progenitori normanni62: la corte sveva non fu altro che «una copia sbiadita dell’opulenta corte normanna e un’ombra della dominazione angioina»63 o, ancora, «una appendice culturale di quella castigliana»64. Vi erano comunque dotti di tutte e tre le religioni che si cimentavano in questioni scientifiche e religiose, o dibattevano sulla prova dell’esistenza di Dio e l’esistenza dell’anima. Nel confronto con i sovrani coevi Abulafia non rileva nulla di originale neanche per quanto riguarda l’interesse federiciano per la scienza e la letteratura: Enrico II d’Angiò, re d’Inghilterra, ne condivise la passione per la zoologia collezionando animali esotici, e al pari di Federico II convinto che questi fossero

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Ivi, p. 212. Ivi, p. 211. 61 Ivi, p. 213. 62 Ivi, p. 366. 63 Ivi, p. 224. 64 Ivi, p. 214. 60


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simbolo di maestà regia; la poesia lirica dell’imperatore trova analogie presso le attività dei duchi d’Aquitania, conti di Tolosa e di Provenza. Nella storiografia tradizionale, l’immagine di Federico quale «meraviglia del mondo» è fondata sui suoi interessi scientifici e sui drammatici aspetti del conflitto col papato, «a lui vanno incondizionati applausi in qualità di fondatore della poesia lirica italiana»65, sviluppatasi nel XIII secolo alla corte sveva ad opera della cosiddetta scuola siciliana. La poesia della scuola siciliana, come il patrocinio delle scienze presso la corte federiciana, non mise radici profonde, spiega Abulafia: «è poesia manierata, avulsa dalla tradizione popolare, plasmata sullo stile dei troubadours e dei loro imitatori germanici; è poesia composta per intrattenere la corte, o piuttosto la ristretta cerchia dell’imperatore, senza alcuna intenzione di dar vita ad una forte letteratura europea»66, in contrasto con numerosi eruditi italiani che sostengono invece questa tesi. La poetica della corte sveva non presenta un carattere innovatore: essa riprende le caratteristiche dell’amor cortese trobadorico e dei Minnesänger67, trascurandone peraltro molti argomenti68 e limitandosi quasi esclusivamente all’amore in tutte le sue manifestazioni. Unica variante è l’idioma: il volgare della Sicilia orientale. Né la presenza dell’imperatore tra i poeti era in alcun modo inusuale: Riccardo Cuor di Leone e Enrico VI di Hohenstaufen sono stati tra i più illustri poeti amorosi nordeuropei. Inoltre i suoi dignitari, specialmente i poeti della scuola siciliana di lirica dialettale, erano in sintonia con le più avanzate tendenze della cultura europea, «sebbene i loro versi siano soltanto una pallida imitazione del modello provenzale»69, sottolinea Abulafia. Ne esce infine un’immagine dell’imperatore diversa da quella classica che lo vedeva a proprio agio tra uomini di genio arabi, greci, ebrei e latini; nel mettere in 65

Ivi, p. 227. Ivi, p. 230. 67 Compositori e cantori d’amore, simili ai trovatori francesi, essi scrivevano poesie d’amore nella tradizione germanica del XII-XIV secolo. 68 «In particolare i satirici sirventès, invettive rivolte contro governanti mal consigliati o principi di condotta non irreprensibile, sono del tutto assenti dal repertorio siciliano. La reggia palermitana non era luogo in cui indulgere alla critica aperta dell’imperatore e dei suoi membri. I cortigiani si attenevano ad un unico, seppur dominante, filone nella tradizione europea della lirica: il poema amoroso» (D. ABULAFIA, op. cit., p. 234). Il motivo per altro è molto semplice: la maggior parte dei poeti siciliani rivestiva cariche ufficiali, in netto contrasto con i primi trovatori provenzali, per cui non v’era nulla da rimproverare al proprio “datore di lavoro”. 69 Ivi, p. 213. 66


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discussione i dogmi delle diverse religioni monoteistiche e nel penetrare i segreti dell’universo insieme a scienziati iconoclasti70. Federico II ha fama anche di grande costruttore. Anche in questo caso Abulafia va controcorrente e sostiene che i contemporanei di Federico rimasero meno impressionati degli storici moderni nel vedere le sue costruzioni: Carlo d’Angiò si sarebbe lamentato delle dimensioni insignificanti di quasi tutti gli edifici siciliani71. L’imperatore si sarebbe dedicato soprattutto alla ricostruzione e all’ampliamento di manieri eretti dai Normanni, Bizantini e Arabi. Abulafia nell’ottavo capitolo fa riferimento a due siti in particolare, la Porta del castello di Capua e Castel del Monte. La disposizione delle statue sulla Porta di Capua è stata oggetto di infinite discussioni in relazione alla natura del governo di Federico; a giudicare dai disegni, la collocazione delle statue doveva essere la seguente: i magistrati, di solito identificati con Taddeo da Sessa e Pier delle Vigne, erano sistemati in nicchie ai due lati dell’arco d’ingresso; la figura della Iustitia risaltava in un vano più ampio, sormontante l’arco stesso; sopra la Iustitia correva una falsa arcata contenente al centro l’imperatore sul trono affiancato da due statue di giovani donne. La Porta di Capua doveva ricordare la natura dell’autorità regia e del potere monarchico a chiunque entrasse nella prima grande città del regnum. Abulafia la considera quasi una proiezione delle Costituzioni di Melfi, volta a celebrare la Iustitia come principio ispiratore e a sottolineare che l’imperatore ne era l’espressione vivente; concorda (fatto del tutto eccezionale) con le parole di Kantorowicz, che osserva: «la Iustitia era un’Idea o una divinità»72. L’interpretazione della regalità offerta dalla porta federiciana si accordava al diritto romano e canonico, quindi non era del tutto originale, tiene a sottolineare Abulafia: «nuova era soltanto la manifestazione visiva di concetti familiari, la cui applicazione ad un sovrano secolare, per quanto rara nell’Europa occidentale, era una caratteristica della monarchia normanna del XII secolo. Anche Ruggero II era stato la lex animata, la legge personificata, operante grazie allo strumento della iustitia»73.

70

Ibidem Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 235. 72 Ivi, p. 237; Cfr. E. KANTOROWICZ, Federico II imperatore, Milano 1981, pp. 537-540. 73 D. ABULAFIA, op. cit., p. 237. 71


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Castel del Monte era «piccolo». Questo è il primo aggettivo che Abulafia utilizza per descrivere il famoso castello ottagonale. «Provvisto di accorgimenti difensivi efficienti ma non eccezionali, di costruzione insolitamente regolare: due piani, ciascuno dei quali contenente otto sale disposte in modo da formare un ottagono. L’interno dell’edificio è notevole per le volte a ogiva, ma per il resto suscita poche emozioni; le stanze trapezoidali sono una uguale all’altra»74. Federico dunque non fu un grande costruttore. Anche qui, come altri aspetti della vita di Federico, sostiene Abulafia, «non è il caso di dare soverchia enfasi all’innovazione artistica e alle dimensioni dell’attività edilizia»75. Abulafia richiama l’attenzione su un ulteriore motivo di confusione nella rinomanza di Federico quale sommo protettore dell’attività culturale, ossia la tendenza ad attribuire al suo influsso ogni conquista intellettuale avvenuta tra il 1200 e il 1250: Leonardo Fibonacci (1175 ca.-1235)76 scrisse per la prima volta del valore della numerazione arabica nel 1202, quando Federico aveva sette anni, incontrò l’imperatore molti anni dopo e gli consegnò una nuova edizione del suo Liber Abaci nel 1228; Michele Scoto, massimo tra gli scienziati di Federico, formatosi a Toledo arrivò a Palermo forte dell’esperienza di traduttore e cultore di arti magiche, anch’egli dunque non era un prodotto della corte federiciana. È stato inoltre dato molto risalto alla fondazione dell’Università di Napoli, per volontà imperiale, nel 1224, considerandolo il primo istituto di studi superiori fondato da un re; ma, osserva Abulafia, «la sua esistenza fu stentata, tenuta su dal divieto di Federico di iscriversi all’Università di Bologna; e in ogni caso le sue origini vanno ricercate nelle prospere scuole di retorica di Capua e dintorni»77, senza per questo voler sminuire l’operato di Pier delle Vigne e di altri maestri. Anche qui Federico non è l’artefice che crea dal nulla novità assolute, anche qui egli è inserito nel suo tempo e dal suo tempo trae i mezzi e gli strumenti funzionali necessari allo svolgimento di una qualsiasi azione. Tra gli interessi scientifici dell’imperatore un posto a parte occupò la vita degli uccelli. «L’amore per la caccia, associato a un acuto spirito d’osservazione,

74

Ivi, p. 238. Ivi, p. 239. 76 Leonardo Fibonacci, detto Leonardo Pisano, fu un matematico tra i più insigni del Medioevo. 77 D. ABULAFIA, op. cit., p. 223. 75


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sfociò in uno dei massimi trattati ornitologici di ogni epoca»78, scrive Abulafia. Ma anche qui lo storico inglese coglie l’assenza di originalità: già Ruggero II aveva ordinato a un falconiere di compilare sullo stesso argomento una monografia, per cui l’interesse di Federico può essere considerato la continuazione di un consolidato fenomeno normanno. De arte venandi cum avibus, continua Abulafia, va interpretato su due piani: «è una guida per il cacciatore, ma offre anche precise notizie ornitologiche non soltanto sui falconi ma anche sulle loro prede»79. Federico si ispirò ad Aristotele e al De animalibus, ma ne affinò i metodi privilegiando l’osservazione, l’indagine empirica, e correggendo le annotazioni errate. «Questa capacità di applicare gli insegnamenti di Aristotele senza però restarne succube è uno dei motivi essenziali per cui il De arte dev’essere reputato una notevole impresa intellettuale e scientifica»80. Ecco inaspettatamente una sorta di complimento da parte di Abulafia a Federico II. Non bisogna dimenticare poi che la caccia è lo svago regale per eccellenza e insieme manifestazione simbolica del potere, essa avvicina il sovrano ai suoi domini e mostra ai sudditi la magnificenza della corte81. Anche sotto questo aspetto quindi Federico deve essere considerato un sovrano tradizionale. Egli si rifece anche ad altri libri di filosofi e lesse tutto ciò che di contemporaneo era stato scritto sulla caccia; grande importanza aveva comunque l’esperienza sul campo, sua e del suo staff di falconieri. Soleva dire che mirava a «manifestare ea que sunt, sicut sunt», mostrare le cose che sono, come sono. Una frase, puntualizza lo storico inglese, che troppo spesso è stata presa a epigramma dell’intero suo regno82. Abulafia conclude il settimo capitolo con due episodi chiave che inquadrano molto bene ciò che gli storici hanno voluto vedere nei gesti di Federico II. Il primo è una cause célèbre e riguarda il presunto sacrificio rituale di un bambino cristiano imputato agli ebrei di Fulda83. L’evento è utilizzato dai sostenitori dell’imperatore come lampante esempio delle caratteristiche eccezionali dello stesso: la sua 78

Ivi, p. 224. Ivi, p. 225. 80 Ibidem 81 Cfr. M.S. CALÒ MARIANI, Lo spazio dellʼozio e della festa. I sollazzi, in “Federico II, immagine e potere”, a cura di M.S. Calò Mariani e R. Cassano, Venezia 1995, pp. 357-363, p. 357. 82 D. ABULAFIA, op. cit., p. 225. 83 Ivi, p. 204. 79


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giustizia sarebbe stata caratterizzata da imparzialità e dalla continua ricerca di verità. Perciò l’aver formato una giuria di nobili laici ed ecclesiastici, e scritto a vari sovrani cristiani europei per avere dei convertiti che avessero la conoscenza necessaria per pronunciare una sentenza, viene considerato funzionale per tratteggiare il ritratto del Federico “giustoˮ. Abulafia riporta invece l’attenzione dello Svevo nel far luce sulla vicenda a livello politico: l’incriminazione avrebbe avuto effetti dirompenti in tutta la cristianità, per cui il suo operato deve essere inquadrato in tale contesto. Lo stesso risultato delle indagini, secondo la legge giudaica qualsiasi forma di sacrificio umano andava considerato un abominio, che portò ad un verdetto favorevole agli imputati (l’imperatore emanò un privilegio in loro favore, venivano condannate le false accuse contro gli ebrei e messa fuori legge qualunque azione diffamatoria nei loro confronti) non deve essere considerato affatto il prodotto di un illuminismo rinascimentale. Anzi: «l’imperatore non si fece sfuggire l’occasione di dimostrare ai suoi sudditi tedeschi e al mondo intero l’attuazione di una giustizia imparziale, l’elargizione della pax non soltanto ai cristiani ma a tutti coloro che, in quanto servi della camera reale, erano interamente alla sua mercé»84. Si trattava chiaramente di politica, unita a molta curiosità. Il secondo episodio concerne la presenza di Federico durante la cerimonia di traslazione di una nuova santa, Elisabetta di Turingia. «A volte gli storici sono un po’ sempliciotti»85, scrive; Federico II non poteva ignorare il trasferimento di una santa, canonizzata di recente in Germania, con la quale o con il cui marito aveva intrattenuto rapporti, tenendo presente che alla cerimonia avrebbero assistito numerose famiglie altolocate e prelati tra i più autorevoli di Germania. Non poteva dunque trascurare un’occasione del genere: il suo posto era davanti a tutti, persino ai figli viventi della santa; incoronando Elisabetta, egli incoronò una volta di più se stesso86. Si trattò di un gesto simbolico dalla forte rilevanza politica. La biografia dello storico inglese è in netto contrasto con l’impostazione romanzesca dell’opera di Ernst Kantorowicz (1895-1963)87, che vede in Federico il 84

Ivi, p. 206. Ivi, p. 207. 86 Ibidem; Cfr. H. HOUBEN, op.cit, pp. 49, 124. 87 Ernst Hartwig Kantorowicz: autore della poderosa biografia di Federico II, Kaiser Friedrich der Zweite, pubblicata nel 1927. Kantorowicz riteneva che per comprendere la storia del sovrano svevo 85


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fondatore di uno Stato laico ante litteram secondo la storiografia liberale. Intento di Abulafia è invece quello di ricollocare lo stupor mundi entro i limiti della contestualizzazione storica; come in uno scavo archeologico lo studioso tenta di staccare i livelli superiori per arrivare all’epoca originale dell’imperatore, intaccata nei secoli dalla tradizione encomiastica che dà di Federico II l’immagine del primo principe rinascimentale, conosciuto e temuto per una saggezza e una tolleranza fuori del suo tempo. Kantorowicz invece opera una separazione quasi totale della figura dell’imperatore Svevo dal suo contesto storico, mostrandolo capace di vivere fuori dalla vita ordinaria della sua epoca ed attribuendogli peculiarità messianiche88. Eloquenti sono le diverse letture della formazione di Federico II: secondo Kantorowicz Federico si sarebbe formato sulle strade di Palermo, una città cosmopolita, dove sarebbe entrato in contatto con gente di ogni condizione sociale, razza e religione (Kantorowicz «ci conduce sulle ali dell’immaginazione tra i souk di Palermo»)89, dove il fanciullo avrebbe vagato per i vicoli del mercato e i giardini dell’esotica capitale, «dove si mescolavano popoli religioni costumi fra i più diversi: moschee e sinagoghe sorgevano accanto a chiese e cattedrali normanne»90; Federico sarebbe cresciuto in mezzo ad ebrei, musulmani e cristiani, tra normanni, italiani, saraceni, tedeschi e greci. «Il contatto con tutti costoro istruì lo sveglio fanciullo, che divenne presto padrone dei loro usi e delle loro lingue»91. Kantorowicz fa poi appello all’esistenza di un filosofo-imam di nome Chirone, sconosciuto alla restante storiografia. Risulta da questa rappresentazione un’istruzione completamente differente da quella di ogni altro principe medievale. La sua cultura non fu il prodotto di una scuola «ma della vita che lo costrinse sin dalla più tenera età ad attingere in sé, direttamente e senza l’aiuto di nessuno, le

fosse indispensabile tenere conto anche di quegli elementi «leggendari», elaborati dalla cultura del XII e del XIII sec., che la maggior parte dei medievisti tedeschi perlopiù evitava di prendere in considerazione o stigmatizzava come «fuorvianti» perché «deformanti». Egli invece era convinto che essi, proprio per il loro carattere «immaginativo», avessero unʼeffettiva incidenza nelle vicende di Federico. Cfr. R. DELLE DONNE, Kantorowicz, Ernst Hartwig, in “Federico II. Enciclopedia fridericiana”, Roma 2005-2008, vol. II (2005), pp. 121-129, pp. 121-123. 88 Cfr. D. ABULAFIA, Fridericus Rex… cit., pp.17-18. 89 D. ABULAFIA, op. cit., p. 88. 90 E. KANTOROWICZ, op. cit.,p. 23. 91 Ibidem


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forze necessarie allo scopo»92. Kantorowicz propone «l’università della vita»93 quindi: le conoscenze gli sarebbero derivate dai vagabondaggi e dalle letture di Aristotele, in minima parte dal suo maestro Guglielmo Francesco e da qualche legato papale, e soprattutto dal mercato e dai vicoli di Palermo. Abulafia respinge tale ricostruzione romantica e riporta altre testimonianze, che attestano un insegnamento minuzioso e presentano Federico versato nelle lettere; gran divoratore di storie; abilissimo cavallerizzo; buon combattente. Descritto come abbastanza vigoroso e di non alta statura, un difetto questo che per sua stessa ammissione ne ledeva la maestà; rosso di capelli e molto probabilmente miope, deficit che non rese meno intenso il suo entusiasmo per la caccia col falcone. «Alcuni lo giudicarono di bell’aspetto, forse riferendosi in termini più generali alla struttura fisica, al portamento e all’impressione che suscitava quand’era abbigliato nei panni regali. Già avanti negli anni acquisí il greco e almeno un’infarinatura di arabo, ma è probabile che in gioventù parlasse soprattutto il latino e l’italiano»94. Lo storico inglese concorda questa volta con l’opinione di Van Cleve, secondo il quale Federico avrebbe ricevuto un’educazione adeguata al suo rango. Abulafia sottolinea come numerosi cronisti contemporanei a Federico abbiano contribuito ad abbellire la realtà: «dando per scontate probabili esagerazioni o invenzioni di sana pianta, risulta comunque evidente che i racconti delle mirabolanti fughe ed imprese del re investivano il mondo intero»95. Ecco allora che la lotta tra Federico II e Ottone di Brunswick (1182-1218)96 viene descritta come uno scontro epico: Davide contro Golia; il puro, innocente fanciullo, il puer Apuliae venuto a raccogliere la sua eredità, l’orfano espropriato dei sui diritti contro il gigante Guelfo. La lotta tra i due, sottolinea Abulafia, non fu, come definì Kantorowicz, un duello tra «tipi estremi delle due razze»97, una «lotta di stirpi»98: il guelfo Ottone, figlio di una inglese e destinato al regno più settentrionale d’Europa (la Scozia), contro il ghibellino Federico, destinato al regno 92

E. KANTOROWICZ, op. cit., p. 24. D. ABULAFIA, op. cit., p. 89. 94 Ibidem 95 D. ABULAFIA, op. cit., pp. 98-99. 96 Ottone di Brunswick: eletto dal partito guelfo re dei Romani nel 1198 in opposizione a Filippo di Svevia; la controversia sul regno di Sicilia condusse alla rottura con il pontefice, fautore di Federico II. 97 D. ABULAFIA, op. cit., p. 99. 98 E. KANTOROWICZ, op. cit., p. 56. 93


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più meridionale. I due nemici, dalla descrizione fatta dallo storico tedesco, appaiono opposti in tutto e per tutto, sono agli antipodi, quasi a voler intendere che le loro diversità avrebbero portato per forza di cose allo scontro, ma in realtà la battaglia fu combattuta da Ottone e Filippo Augusto a Bouvines nel 1214. Ottone venne vinto dal re di Francia e costretto a sottomettersi a Federico. Agli antipodi risultano essere anche i due biografi, tanto che Abulafia può essere considerato una sorta di «anti-Kantorowicz»99: nell’opera di Kantorowicz, sottolinea Hubert Houben, Federico è presentato quasi come un semidio; mentre nella biografia dello storico inglese lo Svevo è descritto come un sovrano medievale del tutto normale. In un altro terreno di confronto, quello sul rapporto col mondo musulmano, Abulafia esprime il suo dissenso rispetto al pensiero di Thomas Curtis Van Cleve: Lucera non deve essere considerata un esempio di «raro illuminismo»100. Certo Federico amava la colonia saracena, molto probabilmente i palazzi erano in stile orientale dalle mille colorazioni, con un harem, guardie in costume e piante esotiche, ma comunque non era nulla di sconvolgente per un sovrano cresciuto in un ambiente molto simile. La vera novità in Lucera, sottolinea Abulafia, fu l’accondiscendenza di Federico nei confronti della fede musulmana: egli, a differenza di Guglielmo il Buono, non scoraggiò le pratiche musulmane a corte e si dimostrò indifferente alle devozioni dei suoi servitori saraceni101. Questi si erano dimostrati dei combattenti ostinati e ne andavano sfruttate le capacità militari; erano proprietà del sovrano, come gli Ebrei. Federico non mostrava particolare tolleranza nei loro confronti, in realtà, sostiene Abulafia, li usava a fini pratici utilizzandoli come soldati, domestici personali e concubine; i musulmani che ascesero agli alti gradi dell’amministrazione erano tutti convertiti al cristianesimo. Abulafia rileva, nel tredicesimo e ultimo capitolo del suo libro, come le vicende dei vent’anni che seguono la morte dell’imperatore vengano trascurate nella stragrande maggioranza delle analisi storiche del regno di Federico II. Il finale, sostiene, è drammatico a sufficienza: «nelle versioni ottimistiche, l’imperatore pare essere sul punto di recuperare la sua forza politica quando viene 99

H. HOUBEN, op. cit., p. 8. D. ABULAFIA, op. cit., p. 122. 101 Ivi, p. 123. 100


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tradito dalla sua forza fisica; in quelle pessimistiche, la corte imperiale ancora barcolla sotto le mazzate di Parma e la sorte della dinastia sembra segnata»102. Lo storico inglese ribadisce con forza che non si possono ignorare gli sviluppi postumi: la morte di Federico infatti non mise fine al conflitto tra papato e impero103. L’importanza di Federico non si esaurisce col suo periodo di regno: trova spazio nelle conseguenze successive alla sua morte, come le lotte di potere in Sicilia, culminanti nel 1282 con l’insurrezione dei Vespri104. La memoria del nome di Federico II rimase legata per i guelfi al ricordo della sua tirannia, in Toscana e in Lombardia soprattutto, mentre fu fonte di nostalgia per i ghibellini. Abulafia spiega come nel tempo il nome di Federico, da immagine di flagello della Chiesa, amico dei poveri, difensore degli oppressi, apostolo o persecutore degli Ebrei e del clero corrotto, si sia “ridotto” a una parola in codice: all’incarnazione dell’ideale di una nuova Germania105. Si è trattato di un lungo processo, la sua origine va rintracciata lontano nel tempo negli scritti del profeta Gioacchino da Fiore (1135 ca.-1202)106. L’abate calabrese concepiva la storia dell’uomo articolata in tre età, destinate a concludersi con il Giudizio Finale e l’estinzione del mondo: la prima, «età del Padre»; la seconda, «età del Figlio»; la terza, «età dello Spirito Santo». Gioacchino metteva in rapporto le tre età con la Trinità. Complessi calcoli lo portarono a definire che la terza età avrebbe avuto inizio nel 1260, dopo il breve regno dell’Anticristo, persecutore della virtù ma anche di una Chiesa dissoluta e corrotta. Solo dopo la caduta dell’Anticristo avrebbe avuto inizio l’«età dello Spirito Santo»107. Dopo la morte dell’abate si diffusero due versioni, date da interpretazioni evidentemente diverse: Federico era l’Anticristo, il «flagello di un corpo ecclesiastico empio e peccaminoso»108, tra

102

Ivi, p. 340. Innocenzo IV e i suoi successori si impegnarono duramente per portare a termine quello che era stato lo scopo di tutta la sua vita: per sradicare la casa degli Hohenstaufen occorreva elevare ai troni di Germania e Sicilia campioni separati, devoti alla Santa Sede e provvisti di vene in cui non scorresse neppure una goccia di sangue Svevo. Ibidem 104 Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 357. 105 Ivi, pp. 360-362. 106 Fu tra gli alti ecclesiastici del Mezzogiorno particolarmente aperti alla causa degli Svevi e tra i più pronti ad ottenerne il favore. 107 Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 358.; Cfr. H. HOUBEN, op. cit., p. 142.; Cfr. E. KANTOROWICZ, op. cit., p. 399. 108 D. ABULAFIA, op. cit., p. 359. 103


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Adamo e Cristo: l’«iniziatore della terza e ultima età»109; oppure egli era l’Anticristo e basta: «figlio e allievo di Satana»110. Dopo il 1250 si fecero avanti impostori o visionari che pretendevano di essere la reincarnazione dell’imperatore (che nel frattempo aveva preso le sembianze del nonno Federico Barbarossa). Ancora nel XIV secolo circolavano in Germania voci di un suo prossimo ritorno. Il re di Sicilia Federico d’Aragona diventò nel XIV secolo il nuovo Federico: «l’imperatore eletto giunto ad assolvere le promesse degli Hohenstaufen e a inaugurare una nuova era»111; mentre in Germania attecchì l’idea che Federico II fosse ancora vivo e che lo resterà sino alla fine dei secoli, «non vi è né vi sarà un imperatore che possa stargli alla pari»112. Nell’opera dell’umanista Celtis (1459-1508)113, il Libro dei cento capitoli, dell’inizio del XVI secolo, viene predetto un Reich di mille anni sotto l’«imperatore dalla Foresta Nera»: il nuovo Federico avrebbe riportato le sue genti alla religione ancestrale, il culto di Zeus. Di solito lo spazio delle conclusioni è occupato da una valutazione dei risultati raggiunti in rapporto a quanto annunciato nell’introduzione, e può essere più o meno ampio. Le conclusioni di Abulafia risultano invece piuttosto esigue, quattro pagine scarse, rispetto allo spessore del testo, perché il suo pensiero ricorre chiaro e frequente per tutta l’opera. Egli non si stanca di ribadire e puntualizzare il suo giudizio su Federico II. Il volume è ricco di indicazioni che lo scrittore inglese inserisce dall’inizio alla fine: «Federico era un tipico prodotto dei secoli XII e XIII, vittima degli stessi affanni che tormentarono Enrico VI, gli Angioini che alla sua morte presero il potere e gli Aragonesi che in parte li soppiantarono: assicurare un futuro alla propria discendenza, tramandare la corona, trasmettere un patrimonio integro e possibilmente accresciuto»114. L’imperatore non fu «quel libero pensatore, quell’uomo eccezionale che generazioni di storici, anche a lui contemporanei, hanno voluto collocare a fianco a Mosè, Gesù e Maometto»115; «chi si compiace di vedere in Federico II un esponente del razionalismo, un brillante esecutore di un’azione di governo coerente, non si limita a valutarne l’atteggiamento nei 109

E. KANTOROWICZ, op. cit., p. 400. H. HOUBEN, op. cit. , p. 142. 111 D. ABULAFIA, op. cit., p. 357. 112 Ivi, p. 361. 113 Conradus Celtis, pseudonimo di Conrad Pickel, poeta e umanista tedesco. 114 D. ABULAFIA, op. cit., p. 136. 115 Ivi, p. 206. 110


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confronti del papato e dei sudditi lombardi e tedeschi, dando per scontato che la sua conduzione degli affari siciliani dopo il 1220 riveli inequivocabili doti di controllo centrale burocratico assolutistico»116. Tre esempi tra i tanti che testimoniano come Abulafia utilizzi già il testo per dare voce alle proprie “conclusioni”. Nell’epilogo egli convalida il discorso affrontato lungo tutta l’opera; è l’ultima parte dell’argomentazione precedentemente esposta, in cui, sinteticamente, riassume il suo pensiero. «L’imperatore medievale e re di Sicilia nel quale tutti, a partire dal XIII secolo, hanno identificato uno stupor mundi, una meraviglia delle genti», sostiene Abulafia, «fu in realtà un uomo del suo tempo, e non quel despota rinascimentale ante litteram che la tradizione ci ha consegnato»117. Federico II, come i suoi pari dell’epoca, coltivava interessi scientifici, che seppe e volle approfondire più di altri monarchi del XIII secolo; «tuttavia l’abilità nel birdwatching non è dote sufficiente per portare con dignità una corona»118. Abulafia sostiene che l’imperatore non fu l’implacabile avversario della Santa Sede: egli infatti sarebbe stato sincero nei suoi tentativi di compromesso. Lo storico inglese non intende sminuire le capacità di governo di Federico, che ebbe certo una burocrazia più centralizzata in Sicilia rispetto ai monachi francesi, di Castiglia o d’Aragona suoi contemporanei, ma non si trattò di innovazione: era una creazione normanna ed egli la ereditò. In Germania comunque il sistema di governo fu decentrato. Il dominio di Federico II si estendeva sulla Sicilia e l’Italia meridionale, Germania, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Cecoslovacchia, Borgogna meridionale, Provenza, Lombardia, e il regno crociato di Gerusalemme; il monarca era interpretato dai suoi sudditi in modi diversi: simbolo di tirannide tra i Guelfi, e di buon governo tra i Ghibellini. Egli attuò politiche differenti: in Germania era a capo di una federazione di principi, in Sicilia erede della tradizione autocratica normanna e in Oriente giunse come imperatore, principe della pace, e re di Gerusalemme, in seguito al matrimonio con Isabella-Iolanda di Brienne. Federico era un «incallito conservatore», continua Abulafia, ciò che distingue il suo regno è l’asprezza della lotta tra papa e imperatore, temperata comunque da 116

Ivi, p. 266. Ivi, p. 364. 118 Ibidem 117


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significativi intervalli d’armonia119. Parte del fascino che Federico ha sempre esercitato sui posteri sta nell’immagine della sua personalità, che gli storici hanno voluto dare. Federico dimostrò sicuramente una straordinaria indulgenza nei trattamenti dinanzi alla legge degli individui di ogni fede religiosa, ma non certo secondo i criteri moderni, puntualizza lo storico inglese. Fu un «uomo di discreta levatura intellettuale e di ragionevoli qualità politiche»120; « non fu un genio politico o un visionario»121, non bisogna confondere l’enunciato di un programma di governo con la sua esecuzione, sostiene Abulafia: la Porta di Capua, gli augustali e l’introduzione al corpo delle leggi del 1231 non tradussero l’assolutismo romano in realtà. Federico «Non fu un siciliano, né un romano, né un tedesco, né un mélange teutonico e latino, ancor meno un quasi-musulmano: fu un Hohenstaufen e un Altavilla»122, ribadisce Abulafia che chiude enunciando una volta per tutte la sua tesi, più volte chiarita lungo le pagine della sua opera e, per altro, presente già nel sottotitolo: Federico II è stato «un imperatore medievale».

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Ibidem D. ABULAFIA, op. cit., p. 365. 121 Ivi, p. 366. 122 Ivi, p. 367. 120


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Capitolo 2. Mariateresa Fumagalli tra ratio e fortuna.

Il libro di Mariateresa Fumagalli, Federico II, Ragione e fortuna, è il tentativo di tracciare un percorso di indagine originale nel ricostruire la biografia dellʼuomo Federico al di là del mito. Le analisi ed i giudizi su Federico II variano da unʼidealizzazione che lo dipinge come una sorta di superuomo ad una denigrazione che va oltre la realtà, attraverso una destorificazione. La Fumagalli traccia un ritratto di Federico uomo, tra debolezze e aspirazioni, radicato nel proprio contesto storico, quello complesso del XIII secolo, caratterizzato dal culmine dello scontro fra papato e impero e dalla decadenza stessa dei due simboli del potere universale. Un Federico che piuttosto che anticipare i suoi tempi, secondo quella storiografia che ne fa un sovrano moderno, rinascimentale o illuminista, si ingegna di dominare il suo tempo. Ne viene fuori un Federico politico che agisce solo guidato dal calcolo, studiando con estrema attenzione ogni sua mossa e calcolando via via pro e contro; un Federico feroce, capace di compiere delitti efferati, che travolgono anche gli affetti più cari. Ma anche un Federico debole, un «genio dilettante», estremamente curioso ma non abbastanza colto, che pratica la magia e segue i consigli degli astrologi. Fondamentalmente un Federico ricco di contraddizioni, che ha come suo primario obiettivo la restaurazione della sovranità imperiale. Nella sua opera, la Fumagalli prospetta un ridimensionamento del personaggio storico, scindendo i caratteri mitici dalle componenti storicamente documentate, apportando il suo contributo per una valutazione “realistica” di Federico II. La Fumagalli imposta il testo in base a due coordinate, «ragione» e «fortuna» di Federico II; come su un piano cartesiano essa traccia, facendo riferimento alle proprie assi, quella delle ordinate e quella delle ascisse, la vita dello Svevo e sviluppa una figura diversa da quella tratteggiata dalla tradizionale storiografia federiciana. Federico viene guardato con occhi “divinatori”, i fatti ad esso connessi vengono interpretati osservando la “ruota della fortuna”: fausti, propizi, favorevoli allʼimperatore o infausti, contrari e negativi. La storica utilizza la formula della divinazione per raccontare Federico attraverso il corso


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imprevedibile della sorte e il tentativo di controllo di questo per mezzo del calcolo e della ragione. Sono queste le caratteristiche di contenuto e di stile, questo il taglio dellʼopera e il filo conduttore che la Fumagalli utilizza per ripercorrere le tappe della vita dello Svevo. Naturalmente il filtro utilizzato presuppone un certo distacco, anche se più volte si denota nel testo una certa influenza ammaliante; il giudizio della storica appare non del tutto oggettivo e critico, in quanto condizionato dal fascino esercitato dalla figura dell’imperatore. Nel testo è agile seguire la “ruota della fortunaˮ mentre compie un giro completo: nelle prime pagine la storica ci mostra il ventenne Federico trionfare contro Ottone nel 1214 a Bouvines, «ancora una volta una guerra ribalta i destini, cambia la faccia dellʼEuropa, apre le strade a nuovi ordini e nuovi uomini, come Federico di Svevia. La sua fortuna è ora alta sulla ruota»123. Il capitolo «agnello tra i lupi» è dedicato alle vicissitudini del giovane Federico: sopravvissuto miracolosamente ad intrighi ed insidie che lo perseguitano dopo la morte dei genitori; indenne dopo le ribellioni dei baroni siciliani, recalcitranti al dominio di un bambino; illeso anche dopo la presa di Palermo da parte di Marcovaldo von Anweiler. La «fortuna» è sicuramente dalla sua parte, ma Federico è anche un accorto politico che con abilità cerca di favorirla attraverso la «ragione». Sotto questa luce va visto il capitolo dedicato allʼascesa dell’imperatore e alla crociata. Della «ragione», così è intitolata la seconda parte del testo, fanno parte la caccia e il De arte venandi cum avibus, lʼastrologia, le scienze, la poesia, lʼuniversità di Napoli, la corte e i castelli. La ruota della «fortuna» di Federico completa il suo giro, e così si sviluppa la terza parte del testo: dalle Costituzioni di Melfi al tradimento del primogenito Enrico, poi la seconda scomunica; un nuovo papa avverso, Innocenzo IV; la sconfitta di Parma; il figlio Enzo fatto prigioniero; la tragica scomparsa di Pier delle Vigne, e infine la morte improvvisa a Castel Fiorentino; in quel «sub flore» tanto temuto. La Fumagalli dedica interi capitoli a Innocenzo III, al figlio ribelle Enrico, all’alleato e genero Ezzelino da Romano, e al protonotaio Pier delle Vigne. A

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M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, Federico II, Ragione e fortuna, Bari 2004, p. 7.


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completarne il lavoro, in appendice troviamo i capitoli di Claudio Fiocchi124 che offrono un quadro più completo del periodo e dei fenomeni caratterizzanti il secolo di Federico: le crociate125, il potere del papa e il potere dellʼimperatore126, il tiranno127. Bisogna vedere nel ricordo di Federico lʼindubbia personalità del sovrano svevo, la sua enigmatica natura e la non limpida documentazione di cui disponiamo128. Lʼobiettivo della Fumagalli, espresso nellʼintroduzione, è quello di fare una ricostruzione delle relazioni e del confronto tra Federico e il suo mondo, «quel cinquantennio a cavallo fra i due secoli, il XII e il XIII», inquadrando la figura di Federico II, imperatore e re di Sicilia, nella cultura di tale periodo storico. Considerando quindi lo Svevo quale uomo del suo tempo. La Fumagalli si presenta al lettore con la battaglia di Bouvines: raccontata da Guglielmo il Bretone (morto nel 1321)129, cappellano del re di Francia Filippo Augusto. Si tratta di una battaglia non prevista che vede, nellʼestate del 1214, la vittoria dei francesi sulla coalizione di Ottone di Brunswick e del re inglese Giovanni Senza Terra; «il carro sul quale stava lo stendardo di Ottone è fatto a pezzi, il drago infranto e lʼaquila dorata è portata con le ali lacerate davanti al re di Francia»130, annota Guglielmo il Bretone. Filippo Augusto era alleato col ventenne Federico di Svevia, che beneficiò in assoluto della vittoria anche se nella pratica il sovrano francese era stato il solo vincitore. Grazie alla sconfitta dell’imperatore scomunicato Federico subentrò ad Ottone nella carica imperiale. La nascita di Federico (26 dicembre 1194), unita alla prospettiva di stabilità del regno normanno, aveva segnato la fine del 1194 in modo fausto per la coppia

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Autore di Mala potestas: la tirannia nel pensiero politico medievale, Bergamo 2004. Cfr. C. FIOCCHI, Le crociate, in M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., pp. 203-228. 126 Cfr. C. FIOCCHI, Il potere del papa e il potere dell’imperatore, in M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., pp. 230-250. 127 Cfr. C. FIOCCHI, Il tiranno, in M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., pp. 252-257. 128 Tenendo conto che «una vera valanga di documenti sta di fronte a chi scrive la vita di Federico: i testi delle due cancellerie, la imperiale e la pontificia, le vite dei papi contemporanei, le storie delle città con le quali Federico entrò in guerra o strinse alleanze, e poi le lettere di principi e notabili, resoconti di differente qualità e provenienza che mescolano talvolta alla cronaca dei fatti elementi di evidente invenzione e raccolgono dicerie, maldicenze o al contrario adulazioni smaccatamente cortigiane»: M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. VII. Senza dimenticare le fonti letterarie, Dante in primis. 129 Guglielmo il Bretone, importante cronista per la storiografia ufficiale in Francia. 130 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 6. 125


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svevo-normanna131. Pietro da Eboli definì Federico il «figlio benedetto»132; lʼerede dei normanni e degli svevi era il nuovo Salvatore, colui che avrebbe impugnato lo scettro del mondo e inaugurato per lʼumanità una nuova epoca dʼoro. A questa enfasi cortigiana, nota la Fumagalli, si contrappongono commenti negativi o persino catastrofici: cʼè chi richiama la profezia del mago Merlino poiché, data lʼetà della madre, la nascita miracolosa e insperata di Federico venne letta come presagio di molte disgrazie per il mondo intero: «sarà un agnello da squartare ma non da divorare e un leone furioso fra i suoi»133. Costanza era nata dopo la morte del padre, il grande re normanno Ruggero II, si era sposata a trentʼanni con un principe più giovane di lei di dieci anni, e aveva dato alla luce lʼunico figlio dopo otto anni di matrimonio. Erano tutti avvenimenti inconsueti, sottolinea la Fumagalli, che suscitavano interrogativi, dubbi, sospetti e anche paure. Una leggenda narra che l’Anticristo sarebbe stato partorito da una monaca e per l’appunto l’Anticristo era Federico in quanto la madre Costanza sarebbe stata «costretta dal matrimonio non desiderato a lasciare il dolce chiostro»134. Fonte “accreditata” di tale leggenda è Dante che, convinto del fatto, colloca Costanza in paradiso (Paradiso, III, 115-118). Secondo unʼaltra leggenda Federico non sarebbe stato il figlio di Costanza o, secondo un’altra versione, né suo né di Enrico: il padre naturale sarebbe stato il macellaio di Jesi, come insinua Salimbene de Adam135. Si racconta poi che Costanza, per mostrare a tutti la sua reale maternità, avesse fatto innalzare una tenda nella piazza del mercato di Jesi e avesse partorito in pubblico. Notizia riportata dal cronista fiorentino Ricordano Malispini (intorno al 1282) 136. Uno dei più accaniti sostenitori della falsa maternità di Costanza era Marcovaldo von Anweiler137. Simili leggende vanno messe in relazione sia con la ricerca del meraviglioso e 131

Ivi, p. 13. Ibidem 133 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 14. 134 Ivi, p. 18. 135 Cfr. H. HOUBEN, op. cit., p. 16. 136 Ibidem 137 Nella lotta di potere, scoppiata a Palermo dopo la morte di Costanza, il tedesco Marcovaldo è uno dei pretendenti al trono del regno. Il 1° novembre 1201 sequestrò il giovane Federico assumendone la custodia. La contesa col leggittimo erede alla corona terminò alla fine del 1202 con la morte dello stesso Marcovaldo. Cfr. H. HOUBEN, op. cit., pp. 19, 86. 132


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dellʼinsolito che caratterizza la figura di Federico II, sia con la reazione dei lealisti siciliani alla nascita di un erede dellʼodiato sovrano tedesco e dellʼultima principessa normanna. La persona di Federico è dunque da subito oggetto di opposte immaginazioni, ispirate dallʼammirazione o dallʼodio, spiega la Fumagalli, o ancora dalle opposizioni e dai timori che lʼunione di Enrico e Costanza suscitò. Enrico VI aveva ereditato dal padre, il leggendario Federico Barbarossa, il Sacro Romano Impero, e Costanza era lʼerede degli Altavilla, i sovrani normanni di Sicilia. «Nasceva così un potere teoricamente immenso e nella realtà problematico da gestire»138, in quanto formalmente non unitario né geograficamente compatto: il regno meridionale era stato unito a una signoria immensa, che andava dalla Polonia ad Oriente, dalla Danimarca e dallʼInghilterra alla Borgogna, fino allʼItalia. Il problema del sovrano-imperatore era la struttura disomogenea del potere: la Germania era una monarchia elettiva; la Sicilia un regno ereditario e feudo del pontefice; altri territori erano feudi vassalli; lʼimpero rimaneva legato alle strategie del pontefice che si rifaceva alla plenitudo potestatis139, con la pretesa di avere la suprema autorità. Per questo fermamente contrastato dallʼimperatore. L’enorme potere ereditato da Enrico, a vario titolo, era dunque fittizio: era decisamente complicato riuscire ad avere un governo forte ed omogeneo. Lo stesso problema si ripresentò quando a capo delle due corone stava il figlio Federico. La Fumagalli spiega come la molteplicità etnica e culturale della Sicilia dei re normanni, che tanto ha entusiasmato gli storici, fosse anche la prima causa di debolezza dellʼesercizio del potere e del controllo politico del territorio. Il tutto era aggravato dalla fragilità del potere sovrano in mano a un re bambino. Lo stato di anarchia, gli intrighi, i tradimenti, lʼinaffidabilità degli stessi protettori del piccolo re, persistettero a lungo senza però sbiadire il fascino e la fama straordinaria del regno di Sicilia. Tanto è vero che il miraggio della ricchezza mobilitò gli oppositori

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M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 14. Nel quadro della composita e articolata realtà giuridica del Medioevo lʼespressione plena potestas o plenitudo potestatis ricorre di frequente nelle opere dei giuristi, soprattutto dei canonisti, in riferimento per lo più allʼautorità universale del pontefice e, in misura minore, a quella dellʼimperatore. Cfr. M. CARAVALE, La scienza giuridica. L’interpretazione degli statuti e la teoria della sovranità monarchica, in “Ordinamenti giuridici dellʼEuropa medievaleˮ, Bologna 1994, pp. 509-547, p. 540. 139


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tedeschi, saraceni, normanni e franco-normanni140. «Agnello fra i lupi» così venne descritto Federico da un cronista del tempo, e i lupi in agguato erano diversi: Gualtiero di Brienne (1165 ca.-1205)141, Marcovaldo von Anweiler, i baroni dellʼentroterra, pisani e genovesi. Per tutto il 1210 il «lupo» Ottone di Brunswick mantenne un grande vantaggio nelle terre italiane mentre la posizione di Federico diventava sempre più disperata: i domini sicuri si ridussero ad un certo punto alla sola Palermo. «Nel porto presso il castello di Castellammare una nave sempre pronta attende il giovane Federico per portarlo in salvo sulle coste dellʼAfrica, se la fortuna dovesse volgere decisamente al peggio. Ma il nuovo anno si apre invece inaspettatamente a favore di Federico»142, scrive la Fumagalli. Nellʼautunno del 1211 a Norimberga, la maggior parte dei principi tedeschi, premuti dal re di Francia, dichiara decaduto lo scomunicato Ottone ed offre la corona di Germania al giovanissimo Federico di Svevia. «Si spalanca per lui un nuovo grande destino con la notizia dellʼofferta o designazione al trono di imperatore»143. Secondo la Fumagalli, i biografi troppo simpatetici nel leggere le fonti dellʼepoca attribuiscono il corso così favorevole degli eventi soprattutto al fascino del personaggio: «Federico aveva davvero un bellissimo viso, una fronte aperta, occhi luminosi, una statura perfetta e un portamento tale da incantare e sedurre? Dei re si è quasi sempre scritto in quei secoli che erano nobili dʼaspetto e affascinanti, anche se sappiamo da altre testimonianze che avevano il mento debole o il naso troppo grosso o gli occhi piccoli. I ritrattisti faranno giustizia delle lodi esagerate, tributate dai letterati e dai cronisti cortigiani ai loro signori, quando lʼattenzione alla realtà e la capacità di rappresentarla diventeranno le qualità artistiche più apprezzate. Per Federico non abbiamo questa possibilità e ce lo possiamo solo immaginare»144. Manca infatti un ritratto fedele dellʼimperatore: le poche immagini rimaste, pittoriche, scultoree e lʼaugustale, risentono del carattere classicista che in qualche modo ne ha alterato lʼimmagine reale attraverso lʼassimilazione di Federico ad

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Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., 21. Gualtiero di Brienne, conte di Brienne, dimostrò una fedeltà altalenante tra il papa Innocenzo III e Marcovaldo von Anweiler. 142 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 42. 143 Ibidem 144 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 43. 141


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Augusto. La fascinazione per Federico deve essere letta come un problema per una ricostruzione scientifica della sua figura storica. La rappresentazione data non è oggettiva in quanto lo Svevo provoca una magica ed irresistibile attrazione negli adulatori, e la stessa potenza di seduzione è guardata con sospetto e come maleficio da chi lo denigra. Per cui bisogna spogliare da queste vesti ammalianti il suddetto Federico per riuscire a vedere quello reale. Anche la Fumagalli, come già Abulafia145, rigetta lʼimmagine suggestiva descritta da Kantorowicz secondo il quale la scuola del re ragazzino sarebbe stata la piazza e il mercato di Palermo. In realtà, sottolinea la storica, le cronache ricordano Guglielmo Francesco della nobile famiglia dei baroni di Monteforte quale magister regis presente accanto al bambino re dal 1201 al 1209146; è probabile inoltre che il modello di istruzione dei principi nel medioevo fosse analogo e che si ripetesse in quei secoli senza grandi novità, incentrato su poesia, scienze e conversazione. Per cui non ci sarebbe nulla di originale nella formazione di Federico. L’immagine suggerita da Kantorowicz rende “indubbiamente” familiari a Federico i suoni delle varie lingue e i molti stili del paesaggio palermitano, e caratterizza di svariati interessi e curiosità, aperte su mondi e temi diversi, il «dilettante geniale»147. «Una immagine affascinante, ma senza riscontro, purtroppo»148, scrive la Fumagalli. «A Costanza, ancora un colpo di fortuna»149: Ottone sta per entrare in città, dove in suo onore si sta allestendo un gran banchetto. Ma Federico arriva alle porte della città qualche ora prima dellʼatteso rivale. La città festeggia Federico: lʼarcivescovo Berardo di Bari150, legato di Innocenzo III, informa il vescovo di Costanza della scomunica inflitta al guelfo ed ecco aprirsi le porte della città allo Svevo. «Fortuna chiama fortuna»151: Federico raggiunge Basilea. Il «puer Apuliae», il «piccolo Davide», così viene chiamato dal pontefice, sconfigge Ottone. 145

Vedi supra, pp. 22-23. Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 23. 147 Ibidem 148 Ibidem 149 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 45. 150 Berardo di Castagna: arcivescovo di Bari, poi di Palermo, divenne uno dei consiglieri più influenti dellʼimperatore. Fu al fianco di Federico in tutte le fasi della sua vita, dal 1210 entrò a far parte dei familiares dello Svevo, la più stretta cerchia dei consiglieri regi. Gli rimase fedele anche dopo la seconda scomunica, cosa che gli comportò la stessa pena e la perdita della carica arcivescovile. Cfr. H. HOUBEN, op. cit., pp. 21, 106. 151 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 45. 146


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Ernst Kantorowicz, nel narrare quella cavalcata incredibilmente fortunata verso il titolo imperiale, mette in grande rilievo lʼefficacia del comportamento liberale e magnanimo del giovane re, che attirava a sé lʼammirazione della folla e lʼelogio dei poeti creandosi unʼimmagine vincente152. «Federico era felice e vincitore. In breve tempo il precoce fanciullo, non in sogno come altri eroi, ma in una realtà non meno favolosa, aveva acquisito la sicurezza del giovane lottatore»153. La Fumagalli allora si interroga se nellʼatteggiamento di Federico non ci sia anche del calcolo; lʼimperatore stesso aveva scritto: «La ragione ci spinge ad essere generosi facendoci riflettere che il nostro nemico che ha agito allʼopposto si è in tal modo attirato lʼinimicizia degli uomini e la punizione divina»154. Ragione, ovvero calcolo, la risposta della Fumagalli è affermativa. Le azioni dello Svevo sono studiate, ponderate, valutate per bene; dʼaltronde la sua stessa carica glielo impone. Senza aver mai brandito una spada Federico si ritrova, in poche settimane e grazie al concorso fortunato degli eventi, padrone della Germania meridionale: dalla Borgogna sino alla Boemia; il 5 dicembre 1212 viene eletto re di Germania da una maggioranza di principi tedeschi e incoronato formalmente quattro giorni dopo a Magonza. Nel luglio del 1215 Federico riceve unʼaltra investitura ad Aquisgrana. Qui partecipa attivamente a fianco degli operai per dare nuova sepoltura alle spoglie di Carlo Magno. Dopo la cerimonia di chiusura dello scrigno fa voto di partire per Gerusalemme. Scriverà lui stesso più tardi: lʼadesione alla preparazione del «pellegrinaggio armato è un atto di riconoscenza verso Dio per i grandi doni ricevuti»155. Molti cronisti hanno visto nellʼatto di Federico un calcolo politico. Ma la Fumagalli non esclude che il novello imperatore sia stato colto da unʼemozione autentica dovuta a quelle giornate così propizie. «Unʼemozione che non toglie nulla allʼintelligenza politica dellʼatto», tiene a precisare l’autrice. Federico si trova di fronte a una realtà composita e alquanto difficile da gestire: accanto a molte città tedesche e italiane proiettate verso una sempre maggiore autonomia, cʼerano città controllate dai vescovi156. Il nuovo imperatore agisce con liberalità nei confronti delle città non episcopali, riconoscendo loro 152

Ibidem; Cfr. E. KANTOROWICZ, op. cit., pp. 51-55. E. KANTOROWICZ, op. cit., p. 51. 154 Ibidem 155 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 49. 156 Ibidem 153


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diritti importanti come la riscossione delle tasse, lʼelezione dei governi e lʼamministrazione della giustizia; lascia totale libertà ai vescovi delle città episcopali; mentre i feudatari continuarono il loro esercizio del potere. Alcuni storici vi hanno letto un sostanziale disinteresse per la situazione tedesca, la Fumagalli invece descrive la politica del nuovo imperatore come flessibile in quanto adattabile con realismo alle differenze di costumi e tradizioni consolidate con le quali il dominio imperiale si trovò in contatto157. Il 22 novembre 1220 Federico viene incoronato imperatore a Roma, in San Pietro, dal papa Onorio III. «A ventisei anni, con una rapida e in fondo non molto cruenta ascesa, il ragazzo degli Svevi si trova al culmine della gerarchia dei sovrani europei. La strada dellʼesercizio reale del potere è però altra cosa»158. Dopo lʼincoronazione a Federico non rimaneva che adempiere alla promessa fatta cinque anni prima ad Aquisgrana; la partenza dellʼimperatore per la crociata in Terrasanta era per il pontefice prova della sua affidabilità. Per il momento sembra che i due avessero obiettivi comuni. Ciò non deve stupire, secondo la Fumagalli: «entrambi», spiega, «avevano un interesse comune preponderante su tutti gli altri in quellʼanno così vicino alla scadenza fissata: bisognava non distrarsi e realizzare la crociata»159. Lʼaffinità politica cancellava le divergenze di opinione su quale fosse lʼautorità suprema e dimostra unʼaffinità di intenti importante per sottolineare che il conflitto papato-impero, volendo, poteva essere superato pacificamente. Con lʼavvento di Gregorio IX al soglio pontificio, la cooperazione tra papa e imperatore lasciò il passo al principio di subordinazione dellʼimperatore al papa. Gregorio dichiarava di essere superiore allʼimperatore in virtù della «pienezza del suo potere»160. Non era disposto a transigere: lo Svevo doveva partire per la crociata. Ma a causa dell’epidemia del 1227 che colpì lo stesso Federico, l’imperatore fu costretto a rimandare la partenza per la Terrasanta, fissando per il maggio del 1228 una nuova data. Mandò intanto avanti una flotta di galee affidata al Gran Maestro dei cavalieri Teutonici Ermanno di Salza (1170 ca.-1239)161. È

157

Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 50. Ivi, p. 54. 159 Ibidem 160 Ibidem 161 Ermanno di Salza, gran maestro dellʼOrdine teutonico, consigliere di Federico II, abile negoziatore della pace di San Germano (1230) col pontefice. 158


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unanime l’opinione degli storici nel ritenere che Federico non avesse finto, cosa della quale si disse sicuro il papa, che subito lo scomunicò. Il vero motivo della scomunica non era legato alla crociata e ai suoi ritardi ma al regno di Sicilia, indicato dal papa come feudo della chiesa162. La questione era dunque sempre la stessa: il regno di Sicilia sul quale Federico governava noncurante della sovranità della chiesa sullʼisola. Ha scritto Cardini che è forse lecito domandarsi se malafede non fosse «non già quella dellʼimperatore, bensì quella di Gregorio IX che, per quanto esasperato dai continui rinvii della crociata, tramasse già di far invadere il regno di Sicilia»163. Lʼimperatore comunque era determinato ad intraprendere la crociata anche senza il consenso del papa. Non era mai accaduto che un sovrano escluso dalla comunità ecclesiale si recasse in Terrasanta contro lʼesplicita volontà del papa. Questa si che è novità, anche secondo Abulafia: «mai prima dʼallora un papa aveva vietato alla Chiesa siciliana di pagare le decime per la crociata; ma d’altronde era la prima volta che uno scomunicato così illustre organizzava una spedizione in Terra Santa»164, ledendo l’autorità della Santa Sede con la sua crociata imperiale. Il sultano dʼEgitto, al-Kamil (fra il 1177 e il 1180-1238)165, tentò un accordo con Federico: in cambio della restituzione di Gerusalemme alla cristianità lo Svevo avrebbe dovuto combattere contro il fratello del sultano, al Muʼazzam, suo rivale nella corsa al potere. La morte improvvisa di al Muʼazzam rese vana ogni diplomazia. «Suo fratello al-Malik al-Muʼazzam, che era stato la ragione per cui aveva chiesto lʼaiuto di Federico, era morto, e al-Kamil non aveva più bisogno dellʼimperatore»166, così riporta Ibn Wasil (1208-1298)167. I due divennero rivali. Si arrivò infine al trattato di Giaffa, della durata di dieci anni, Gerusalemme venne 162

Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 60. F. CARDINI, La crociata di Federico II, in “Federico II, immagine e potere”, a cura di M.S. Calò Mariani e R. Cassano, Venezia 1995, pp. 27-29, p. 29. 164 D. ABULAFIA, op. cit., p. 142. 165 Malik al-Kamil, sultano dʼEgitto in seguito alla morte del padre. Le fonti esaltano lʼumanità e la benevolenza di al-Kamil, soprattutto riguardo la riflessione su una pace duratura che approderà al trattato di Giaffa. Egli offrì ai capi crociati di scambiare Gerusalemme con Damietta durante il periodo più drammatico della quinta crociata, ma la proposta non venne accettata; e sempre sua fu lʼofferta di restituzione della Palestina al re di Gerusalemme, Federico II. Cfr. H. BRESC, (al)Malik (al)Kamil, in “Federico II. Enciclopedia fridericiana”, Roma 2005-2008, vol. II (2005), pp. 263-265. Se ne ricava, inevitabilmente, un forte ridimensionamento del ruolo dello Svevo in quella che è descritta come la sua crociata diplomatica. 166 D. ABULAFIA, op. cit., p. 144. 167 Ibn Wasil, storico, studioso di logica e giudice siriano. 163


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«liberata»; la città versava in pessime condizioni, aveva gran parte delle mura abbattute e la torre di Davide danneggiata. Non si trattò di una liberazione totale, spiega la Fumagalli: ai cristiani era proibito lʼaccesso al monte del Tempio e alla spianata delle due moschee che rimasero luoghi sacri per i musulmani; ai cristiani era concesso lʼaccesso a Betlemme e Nazareth, tramite un corridoio ostile però; lʼaccesso a Hebron era vietato168. Queste erano le concessioni di al-Kamil. Secondo i seguaci dei due contendenti si trattava di una sconfitta per ambedue le parti: secondo il patriarca Geroldo (morto nel 1239)169 «soltanto ai tedeschi di Federico sta a cuore di visitare il Santo Sepolcro e sono stati gli unici a illuminare la città e a cantare di gioia... Gli altri pensano che tutto sia una grande sciocchezza»170. I cristiani rimproveravano a Federico di non aver affrontato il nemico infedele con le armi ma di aver concordato con lui la restituzione di Gerusalemme, città inerme, rovinata, che mantenava soltanto un valore simbolico171; non si era mai visto un imperatore crociato così fiero e spavaldo rinfoderare la spada per ottenere un compromesso negoziale172. A sua volta al-Kamil era criticato per aver abbandonato Gerusalemme in mani cristiane; le cronache arabe riportano che il sultano dichiarava ai suoi di aver concesso a Federico solo «qualche chiesa e un pugno di case in rovina mentre la venerata Rocca e gli altri Luoghi Sacri dellʼIslam rimanevano in mano ai musulmani»173. La plurisecolare storia delle crociate è un fitto tessuto di battaglie, assedi, rapporti diplomatici, mutamenti di alleanze, tregue e gesti dʼinaspettata fraterna amicizia: secondo Cardini, i tempi di guerra guerreggiata in definitiva sono relativamente pochi e molti al contrario gli episodi che a noi moderni, portati a giudicare su queste cose in modo piuttosto anacronistico e moralistico, potrebbero sembrare tolleranti174. Alla luce di testimonianze di episodi dʼamicizia tra cristiani a musulmani diviene più comprensibile lo scenario crociato, ed il trattato di Federico II con il sultano dʼEgitto «lungi dal perder qualcosa della sua geniale 168

Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 64. Geroldo di Losanna: patriarca di Gerusalemme dal 1225 al 1239, anno della morte. Ostile allʼimperatore, adempì alle direttive del papa: promulgò la scomunica di Federico in Terra Santa e pose lʼinterdetto su Gerusalemme. Cfr. H. HOUBEN, op. cit., pp. 36-38. 170 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 65. 171 Ibidem 172 Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 153. 173 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 65. 174 Cfr. F. CARDINI, op. cit., p. 27. 169


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spregiudicatezza, aquista in comprensibilità storica se lo si colloca allʼinterno di una tradizione di amicizia cristiano-musulmana di lunga durata»175. L’unicità presunta dell’impresa federiciana perde dunque di veridicità. La Fumagalli afferma, nel capitolo dedicato alla crociata, che lʼimperatore conosceva più di altri principi cristiani la cultura musulmana, «usare la diplomazia più delle armi era per lui, crociato anomalo e imperatore simpatetico con lʼIslam, la sua filosofia e i suoi costumi, qualcosa di naturale»176. Lʼinsolita crociata di Federico II rappresenta una tessera del “puzzle” del “Federico mito”: un altro elemento che ha contribuito a crearne la mitizzazione. Al contrario la successiva descrizione rivela una tendenza opposta e ci prospetta un “antieroe”: i musulmani di Terrasanta giudicavano Federico II fisicamente di scarso valore177, lo descrivevano come una persona dallʼaspetto insignificante, piccolo, debole di vista e un poʼ calvo. Ecco finalmente, nota la Fumagalli, un ritratto di Federico poco lusinghiero, non cortigiano né ingiurioso, forse oggettivo178. Se il fisico dellʼimperatore non era considerato un granché, continua la storica, al contrario, destava ammirazione tra i musulmani il suo comportamento, la sua mente e la sua conversazione. Federico parlava di algebra con al-Kamil, frequentava e poneva interrogativi ai sapienti della corte del sultano. Nellʼimmaginazione degli europei lʼOriente, spiega la Fumagalli, era una terra da sogno e di magia, tutto ciò che vi accadeva appariva strano e meraviglioso, oppure esagerato, raccapricciante e odioso179; la figura di Federico era avvolta via via da ognuno di questi caratteri. Lʼimperatore è sovente descritto in racconti con una luce sinistra; leggende di questo tipo erano naturalmente promosse o enfatizzate dalla Curia pontificia. Federico era entrato a Gerusalemme il 17 marzo, il giorno seguente nella chiesa del Santo Sepolcro, da solo, senza vescovo e senza messa, aveva preso la sua quarta corona e se l’era posta sul capo. Si trattò di un atto del tutto singolare, sostiene la Fumagalli, anche per il suo significato allegorico: il potere regale gli

175

Ibidem M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 61. 177 I musulmani dicevano di Federico che «al mercato degli schiavi il suo prezzo sarebbe stato basso, duecento dirham al massimo» (M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 65). 178 Ibidem 179 Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 66. 176


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derivava direttamente da Dio180. Lʼincoronazione è descritta dallo stesso Federico in una lettera indirizzata a Enrico III dʼInghilterra nella quale lʼimperatore sottolinea di aver agito in qualità di signore universale. Ne sono state date interpretazioni discordanti. Hans Eberhard Mayer (1907-2001)181 ha dimostrato che lʼautoincoronazione di Federico è un equivoco: egli non fece altro che compiere un atto cerimoniale consueto nelle grandi solennità della chiesa, così come in occasioni politiche importanti; del resto era il re di Gerusalemme e lʼassunzione della corona era una semplice formalità182. Non si trattò di unʼautoincoronazione neanche secondo Abulafia183 e Houben, tale atto sarebbe stato incompatibile con il concetto medievale della sacralità del rito dʼincoronazione, Federico cinse la corona solo per suggellare il successo della crociata184. La culla della cristianità era stata liberata ma, paradossalmente colpita da interdetto, la riconquista di Gerusalemme, accolta dallʼindifferenza generale, fu uno straordinario successo solo per lʼimperatore. Alla sua partenza, nel 1229, Gerusalemme comunque non era più in mano ai musulmani. Il rapporto tra Federico II e il sultano dʼEgitto non si interruppe: i due mantennero buoni rapporti attraverso accordi politici e commerciali, testimoniati anche dallo splendido dono che ambasciatori egiziani recarono allʼimperatore a Melfi anni dopo185. Si trattava di un padiglione mosso meccanicamente che simulava il firmamento mutando luci e colori secondo le ore del giorno e della notte. Gli automi hanno sempre attratto i potenti, che li hanno ostentati come attributo della loro megnificenza186. Lʼautoma reca con sé un alone di magia: lʼoggetto meraviglioso affascinante e suggestivo genera inevitabilmente stupore e fantasia e riporta alla mente fatture e incantesimi. La presunta capacità di dominare le forze della natura mediante il ricorso ad arti occulte, di natura malefica o benefica, ha da sempre del resto suscitato meraviglia, non solo in Federico. La seconda parte del testo della Fumagalli, la «ragione», riguarda tutto ciò che è pensiero, intelligenza, riflessione, criterio, diritto e calcolo. Al primo posto 180

Ivi, p. 67. Hans Mayer, giurista e germanista tedesco, ricercatore di letteratura tedesca e di scienze sociali. 182 Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 156. 183 Ivi, pp. 156-157. 184 Cfr. H. HOUBEN, op. cit., p. 38. 185 Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 69. 186 Cfr. M.S. CALÒ MARIANI, Lo spazio dellʼozio… cit., p. 363. 181


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stanno la caccia e il De arte venandi cum avibus. La venatio era per ogni sovrano, non solo per Federico, uno dei simboli della sua forza e della sua supremazia, era quasi un dovere, non solo uno svago187. «La caccia al falcone è unʼattività consueta e adatta a un re», così aveva scritto lo stesso Federico al figlio Corrado; per lʼimperatore il falcone era, oltre che un simbolo di sovranità e potenza, un affascinante esemplare della natura che per essere addestrato richiedeva una «pratica complessa e eccellente»188. La Fumagalli dedica l’undicesimo capitolo alla nuova scienza, la rivoluzione intellettuale del XII secolo, che interessò lʼOccidente latino. Per la storica è importante soffermarsi su tale trasformazione per delineare i caratteri di Federico. I filosofi musulmani ne furono i fautori, assunti come esempi di un atteggiamento intellettuale più aperto, vivace e fecondo rispetto a quello occidentale e cristiano189. Dal punto di vista culturale si ha, nel XII e XIII secolo, un ritorno allʼantichità: la cultura scientifica e filosofica greca invade le scuole dellʼOccidente, protagonista dʼeccezione è Aristotele. Tale movimento culturale interessò Toledo, Barcellona, Burgos, Hereford, Oxford, Lincoln, la Curia pontificia romana e la Sicilia normanno-sveva190. Alla luce di quanto detto la corte federiciana perde sicuramente di eccezionalità. Del resto poi, sottolinea la Fumagalli, Federico II trovò nel regno di Sicilia una situazione culturale già vivace e ben radicata, una cultura cosmopolita, un trilinguismo favorito dai sovrani normanni che avevano ospitato e incoraggiato dotti latini, arabi e greci191: i maestri della corte avevano compiuto ricerche scientifiche, di medicina, meteorologia, filosofia e matematica, oltre a studi aristotelici. Per cui l’acclamato mecenatismo di Federico altro non è che un’eredità normanna. Anzi, sotto il suo regno si registra una sorta di “appiattimento” linguistico, dovuto alla latinizzazione della chiesa ed alla contemporanea penetrazione della cultura latina nellʼamministrazione del regno, 187

«Dopo il Mille la caccia era diventata in Europa un privilegio di pochi: un poʼ ovunque i signori avevano escluso i contadini dalle aree incolte pretendendo per sé soli il diritto venandi o costringendo gli abitanti delle campagne al pagamento di tributi in cambio di temporanei permessi alla caccia. Anche i sovrani normanni, antenati del nostro imperatore si erano distinti nel regno di Sicilia per il rigido controllo su molte attività come la pesca e la caccia» (M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., pp. 80-81). 188 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 79. 189 Ivi, p. 84. 190 Ivi, p. 86. 191 Ivi, p. 85.


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unita al distacco sempre più netto da Bisanzio e alla necessità di relazioni sempre più ampie che portarono ad un uso sempre minore del greco192. Nella primavera del 1224 l’imperatore fonda lʼuniversità di Napoli con il proposito di formare, allʼinterno del territorio del regno, i funzionari e i giudici nominati dallo stesso Federico nelle corti di giustizia. Nellʼuniversità di Napoli veniva insegnato, oltre al diritto, filosofia, arti liberali e teologia; nelle diverse facoltà i corsi erano impartiti da maestri stipendiati dall’imperatore193. Lʼuniversità aveva anche il fine di trattenere in patria i migliori intelletti e di invogliare gli stranieri più dotati a frequentare le lezioni dei maestri di Napoli: i sudditi del regno siciliano erano obbligati a studiare nellʼuniversità imperiale ed agevolazioni economiche erano messe a disposizione degli studenti stranieri. Nonostante lʼimportanza di alcuni maestri, lʼuniversità di Napoli non ebbe grande rilievo rispetto a quelle europee; la sua istituzione rivela però, secondo la Fumagalli, tutta «la coerenza e il realismo del progetto politico di Federico: lʼuniversità, come tutte le altre nate in Europa nei secoli medievali, contiene già in se stessa un disegno civile e politico e non è solo il centro di un movimento intellettuale nuovo»194. Lʼistituzione ravvicinata nel tempo delle prime università (Bologna, Parigi, Oxford, Cambridge, Padova) è sintomatica della trasformazione intercorsa in tuttʼEuropa del sistema educativo, che crea una maggiore circolazione delle idee. Al centro degli interessi di Federico II cʼera la filosofia «naturale»; suo desiderio era quello di incontrare il maggior numero di sapienti cui porgere loro quesiti di ogni genere, i sapienti lo avrebbero guidato nelle più sottili questioni teoriche nelle quali lui, «grande dilettante», si sentiva impreparato195. Lʼimperatore formulò domande su enigmi filosofici a Michele Scoto196; tenne corrispondenza col filosofo sufi Ibn Sabʼin (1217-1270)197, al quale chiese spiegazioni circa lʼeternità 192

Ibidem Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 99. 194 Ivi, p. 100. 195 Ivi, p. 105. 196 «…non abbiamo mai raggiunto la conoscenza di quei segreti che assicurano il piacere dello spirito ossia dei misteri del purgatorio, dellʼinferno e delle meraviglie nascoste nella terra. Ecco perché insistentemente ti chiediamo per amore della sapienza e per il rispetto della mia corona che tu esponga i segrati della terra, il modo in cui essa si tiene sollevata sugli abissi che le stanno sotto… che cosa sono i cieli e chi li governa… Parlaci anche della misura del grande corpo terrestre, della sua lunghezza e grandezza e della distanza tra la terra e il cielo più alto, tra la terra e gli abissi» (M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., pp. 105-106). 197 Ibn Sabʼin, filosofo e mistico musulmano di Spagna, noto per le risposte alle questioni 193


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del mondo, non soddisfatto delle risposte ottenute dai filosofi dʼEgitto, della Siria e dellʼIraq. A Federico il saggio musulmano rimprovera più volte la sua imprecisione nel formulare le domande, a suo dire dovuta a una mancanza di studio rigoroso delle questioni teoretiche. Sorprende maggiormente, nota la Fumagalli, la disinvoltura insolente di Ibn Sabʼin nel rispondere al suo augusto corrispondente: nel chiedere spiegazioni sul numero delle categorie Federico manifesta «la sua debolezza di istruzione e la mancanza di esercizio in campo scientifico… confondendosi così con la folla stupida e priva di intelligenza»198. Lʼimperatore però è anche «Dei famulus magnus», in suo potere starebbero lo splendore del sole, le forze dellʼaria e dellʼacqua e la fertilità della terra199, secondo Marcovaldo di Ried (XIII sec.)200. Nel 1220 il trovatore provenzale Aimeric (1175 ca.-1225 ca.) descrisse Federico come un grande medico salernitano201. Giovanni dʼAubusson202 parla dellʼimperatore come di unʼaquila che si è levata in volo da Salerno; la figura del sovrano, spiega la Fumagalli, viene presentata

come

mediazione

privilegiata

con

il

divino

attraverso

una

rappresentazione figurativa203. Alla persona di Federico veniva conferita lʼaura mitica dei passati eroi: egli sarebbe appartenuto alla stirpe troiana, discendente di Enea e Cesare. Trovatori e Minnesängerin, storici arabi e bizantini paragonavano ad Alessandro Magno lʼimperatore Federico II, che come lui sarebbe stato sapiente e studioso di Aristotele (maestro del re macedone), e come lui avrebbe trionfato sulle forze oscure del nemico. Alessandro era amante della filosofia, ne aveva dibattuto con i sapienti; era lʼeroe assistito dalla forza divina; accoglieva i doni esotici, elefanti, filosofiche e teologiche proposte dallʼimperatore Federico II. 198 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p.108. 199 Ibidem 200 Marcovaldo di Ried, poeta, religioso e giurista tedesco del Duecento. Prese le parti dello scomunicato Federico II di Svevia nellʼaspra contesa sui poteri universali che lo contrapponeva al papa. 201 «Una volta pensavo che queste virtù erano morte e fui sul punto di rinunciare a comporre canzoni ma Dio ci ha mandato qui da Salerno un buon medico saggio e dotto che conosce tutti i mali e tutti i beni… Non ho mai visto un medico tanto giovane, bello, buono e generoso, coraggioso, esperto, tanto seducente e abile nella parola e nellʼazione. È un medico che conosce a fondo la disciplina e che curando con tanto ingegno, senno e sapienza attira a sé il mondo e guadagna Dio… Questo medico saggio di cui vi parlo è il figlio del buono imperatore Enrico e si chiama Federico» (M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 109). 202 Giovanni dʼAubusson: trovatore originario dellʼAlvernia, politicamente schierato dalla parte ghibellina. 203 Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 109.


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pappagalli offerti dai sovrani con i quali conversava dottamente e faceva alleanze; conosceva lʼastronomia e studiava le forze della natura e la geografia dei paesi lontani204. Le immagini dei due sovrani paiono sovrapporsi, legati dalle molte analogie. Salimbene de Adam scrive che Federico oltre a saper leggere sapeva anche scrivere, cantare e comporre canzoni in molte lingue205; egli conosceva anche alcune lingue nuove, le «volgari», come lʼoccitano e il dialetto apulo-siciliano206. Alla sua corte si sviluppò la scuola dei «poeti siciliani», così vennero chiamati i poeti della corte di Federico da Dante. Un dialetto innalzato dai poeti da lingua parlata e familiare a lingua scritta e letteraria, il «siciliano illustre» è motivo di lustro e vanto che si riflette inevitabilmente nell’immagine stereotipata di Federico II, creata meravigliosa dagli storici. Nonostante lʼimportante influenza trobadorica, sostiene la Fumagalli, la scuola siciliana rimane un fenomeno originale e straordinario soprattutto per lʼinvenzione linguistica, inoltre, rispetto alla produzione dei trovatori, altra novità è la mancanza nella poesia siciliana di tutto ciò che non sia lʼamore207. Il finʼamor, lʼamore perfetto, è lʼunico tema trattato nella corte siciliana: satira, politica e temi morali sono esclusi dalla cerchia dei poeti siciliani. La «ragione» di Federico si conclude con i castelli: la Fumagalli conclude la seconda parte del testo con una lunga descrizione di Castel del Monte. Chiamato nel corso del tempo in molti modi: il Fiore di Pietra, la Stella della Murgia, la corona di Puglia, il famoso castello è stato paragonato ad un cristallo tagliato con precisione, a una forma simbolica dai significati esoterici, a un mausoleo, a un osservatorio astronomico, ad una imponente residenza di caccia208. Comunque lo si consideri, afferma la Fumagalli, il castello appare un luogo sacro: una forma perfetta di cinquantasei facciate. La struttura ottagonale è determinata da due quadrati concentrici che ruotano lʼuno sullʼaltro di 45 gradi, e ottagonali sono anche le otto torri che si ripetono in corrispondenza degli angoli del corpo centrale. 204

Ibidem Misura, providentia e meritanza; De le mia disïanza; e Dolze mio drudo, e vaténde! sono i componimenti di certa attribuzione federiciana. Cfr. Federico II poeta, in “Federico II di Svevia. Rimeˮ, a cura di L. Cassata, L. Spagnolo, Roma 2008, pp. XXXIX-LIX, pp. XXXIX-XLVI. 206 Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 114. 207 Ivi, p. 116. Diversa l’interpretazione data da Abulafia sull’argomento. Vedi supra, p. 17. 208 Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 123. 205


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La sua forma geometrica da sempre suscita in chi la osserva curiosità, fascino e interrogativi. Lʼenigma si fonda, spiega la Fumagalli, nel considerare lʼottagono un simbolo. Questi, come altre figure geometriche, non simboleggia soltanto in modo esoterico qualcosa di ineffabile e trascendente, ma compartecipa al linguaggio aritmetico e geometrico209. Lʼottagono dunque è una delle parole del linguaggio matematico divino utilizzato nella realizzazione di edifici religiosi, «ma presente anche nelle costruzioni civili di quei laici che come Federico II possedevano un senso così alto della sacralità del loro ruolo»210. Lʼorigine sacra del potere imperiale veniva espressa in modo affascinante e nitido da Castel del Monte: «ottagono significa il Dio-Uomo, il Cristo, proprio perché risultato dal cerchio, forma perfetta divina, e dal quadrato, forma dellʼuomo, e rimanda alla resurrezione, come scriveva Ambrogio nel Commento al Vangelo di Luca»211. Lʼottagono era una forma geometrica privilegiata appartenente al linguaggio della cultura precristiana arrivato sino a quella islamica e cristiana attraverso lʼarte bizantina, legato alle regole delle proporzioni e alla matematica. In tutti i suoi significati lʼottagono è presente come struttura dominante in diversi edifici medievali; tracce si ravvisano anche nella corona imperiale del X secolo, la Reichskorone formata da otto placche dʼoro ornate di gemme. Ne risulta certo un forte ridimensionamento dell’“esclusivoˮ castello di Federico. La Fumagalli sottolinea poi come «Castel del Monte, che per alcuni storici moderni è diventato irresistibilmente lʼimmagine di un sogno designato da una sapienza esoterica, fatalmente destinato a rappresentere un enigma o lʼinvolucrum di una verità altissima», doveva essere per Federico semplicemente un castrum, con caratteristiche di sede politica e militare212. È di nuovo «fortuna»: così la Fumagalli intitola la terza e ultima parte del testo, riprendendo il motivo della “ruota della fortunaˮ. Federico è ancora accompagnato dalla sua buona stella. La più alta rappresentazione del potere sovrano di Federico II è contenuta nelle Costituzioni di Melfi, che lo stesso imperatore significativamente titola Liber augustalis. Il nome di Cesare Augusto

209

Ivi, p. 125. Ibidem 211 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 126. 212 Ivi, p. 128. 210


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rivendica la qualità del titolo imperiale e rimanda ai grandi personaggi del passato. Nellʼincipit del testo vi si legge: «Federico secondo imperatore per sempre Cesare Augusto dei Romani sovrano dʼItalia di Sicilia e di Gerusalemme felice vincitore e trionfante»213. Le duecento norme promulgate da Federico a Melfi presentano due aspetti divergenti: soprattutto nel proemio il testo offre una rappresentazione chiara del pensiero politico-giuridico di Federico e degli intellettuali della sua corte da un lato, dallʼaltro il testo costituisce il seguito del programma giuridico avviato dagli Altavilla per il regno di Sicilia, spiega la Fumagalli. Le norme si rifanno ai codici romani, alle fonti canoniche, feudali ed anche a consuetudini italiche e germaniche, per cui non sempre si legge facilmente un progetto alto e unitario 214, né originale, nella sua accezione di “rigorosamente personaleˮ. Ma in ogni caso, secondo la Fumagalli, esse non possono essere ridotte a «un pio desiderio»215 come sostiene David Abulafia. I due storici interpretano in diverso modo il ruolo avuto dallo Svevo nelle Costituzioni: secondo Abulafia il fatto che Federico legifera da imperatore nonostante il suo progetto è indirizzato al solo regno di Sicilia è un paradosso216; mentre per la storica italiana il progetto di Federico, pur indirizzato a un regno singolo, è imbevuto di idee alte217. La Fumagalli sottolinea come le norme melfitane presentino un carattere eclettico che rispecchia la realtà siciliana, dove i sudditi normanni si mescolano ai tedeschi, agli arabi e agli ebrei. Ispirato da tale società composita, per etnia e tradizione, il legislatore avrebbe mostrato unʼattenzione particolare allʼeguaglianza dei diversi sudditi davanti alla legge218. La storica mette in rilievo come di fronte alla legge tutti fossero uguali, anche saraceni ed ebrei: «non vogliamo che essi se innocenti vengano perseguitati perché appunto sono ebrei o saraceni», dichiara Federico, «desideriamo porre termine a una ambiguità o meglio a negazione della legge propria dei Franchi nelle cause civili e penali. Vogliamo che i nostri sudditi sappiano che noi pesiamo sulla bilancia il diritto di ciascuno alla giustizia e che stabiliamo che nessuna distinzione deve essere fatta tra le persone nei tribunali…

213

M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 135. Ibidem 215 Ibidem; D. ABULAFIA, op. cit., p. 169. 216 Cfr. D. ABULAFIA, op. cit., p. 171. 217 Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 136. 218 Ivi, p. 138. 214


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siano esse franche o longobarde o romane»219. Un capitolo intero viene dedicato dalla Fumagalli al tradimento del figlio di Federico. Sul finire del 1234 lʼincauto re dei Romani si allea con i comuni della Lega Lombarda, nemici da sempre dellʼimperatore. Federico, nel 1235, è un personaggio di grande fama: «è colui che è andato in Oriente a prendersi Gerusalemme dove è stato incoronato, è il sovrano pieno e potente del suo regno solare e lontano, e in più abilissimo ed efficace nel rappresentare al mondo la sua eccezionalità»220. A Worms, in quel 1235, Enrico è gettato in prigione, il verdetto del padre è insindacabile: carcere a vita per il figlio ribelle. Il figlio primogenito di Federico fu inviato in Puglia, dove rimase in carcere per sei anni; morì precipitando da un dirupo con il suo cavallo durante un trasferimento di prigionia. «La morte del primogenito infligge un dolore nel cuore del padre superiore allʼaustera condanna inflittagli» scrive Federico ai nobili siciliani aggiungendo che «le lacrime che nascono dal profondo del suo animo» sono temperate solo dal ricordo dei torti inflitti allʼimpero da Enrico e dalla ovvia necessità di giustizia che lʼimperatore ha dovuto esercitare anche verso il suo amato figlio221. Fino ad allora le vittorie dellʼimperatore erano state ottenute con la diplomazia e il favore della fortuna; gli storici, segnala la Fumagalli, non hanno riscontrato segni straordinari delle sue capacità tecnico-militari tanto decantate dai suoi poeti e cortigiani222. Poche furono infatti le vittorie importanti conseguite in guerra dallʼimperatore, mentre al contrario si contano numerosi esiti catastrofici. «Straordinaria era semmai la propaganda, che ampliava anche ogni piccolo successo dellʼimperatore davanti a tutta la platea europea: ma ciò apparteneva alla politica di un grande dominus e alla abilità della sua cancelleria, non alla strategia militare»223. In questa luce va letta la vittoria di Federico a Cortenuova: il 27 novembre 1237 i cavalieri tedeschi hanno la meglio sui lombardi, «la vittoria di Cortenuova viene celebrata a Cremona con una processione di trionfo: sfila il Carroccio, disadorno e con gli evidenti e dolorosi segni della sconfitta, trainato da

219

Ibidem. Diverso era stato l’approccio e il giudizio di Abulafia sulle Costituzioni. Vedi supra, pp. 10-12. 220 M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 147. 221 Ivi, p. 148. 222 Ivi, p. 154. 223 Ivi, pp. 154 -155.


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un elefante sormontato da una torre con sfavillanti insegne regali. Pietro Tiepolo, podestà di Milano, sfila anche lui in catene in mezzo a una folla di prigionieri»224. La scenografia imposta da Federico è improntata sullo stile dei trionfi romani. Il risultato di superiorità conseguito al termine della battaglia è ostentato, lʼimperatore fa sfoggio delle proprie capacità di stratega e condottiero pavoneggiandosi davanti al suo pubblico, lʼEuropa intera. Nel frattempo lʼincontro con Ezzelino da Romano (1194-1259)225 e il successo ottenuto a Vicenza convinsero Federico di poter arrivare, nella lotta contro i lombardi, ad una conclusione veloce e favorevole. Lʼimperatore e il suo alleato, sottolinea la Fumagalli, furono entrambi individuati come obiettivi privilegiati della polemica violenta della corte pontificia, che additava i due quali miscredenti, tiranni e assetati di sangue226. La Fumagalli delinea nel ventesimo capitolo, monotematico anche questo, dedicato ad Ezzelino, le analogie fra quest’ultimo e Federico: innanzitutto avevano la stessa età ed avevano ambizioni ed interessi comuni; nutrivano la stessa fiducia nellʼastrologia, ma occorre resistere, sottolinea la Fumagalli, al fascino sottile della teoria dello «specchio», «suggerita da singolari analogie fra i due personaggi secondo la quale in Ezzelino si ritrovano il comportamento e le attitudini dellʼimperatore rimpicciolite ma rese più concrete e evidenti dal quadro e dai contrasti entro i quali il signore italiano agisce»227. Fu il cronista Rolandino da Padova (1200-1276)228 a creare di Ezzelino un ritratto esemplare di tiranno feroce e maniacale teso ad un successo rapido e violento. Secondo Salimbene de Adam Ezzelino fu lʼesatto rovescio del Bene e il contrario di Franceso dʼAssisi: il Male assoluto229. Il 1249 segna lʼacme della tirannide di Ezzelino, quando, scrive Rolandino da Padova, vennero alla luce «la rabbia, la malignità, il furore e il veleno»230. Fu lʼanno in cui lo scomunicato Ezzelino esasperò la sua strategia: egli scopriva congiure ovunque, anche tra coloro che gli erano stati più vicini, e nemici che 224

Ivi, p. 158. Ezzelino da Romano, signore di Vicenza, Verona e Padova. Genero di Federico II (ne sposò la figlia Selvaggia intorno al 1222-25), al quale rimase sempre fedele. 226 Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 161. 227 Ivi, p. 163. 228 Rolandino da Padova, cronista, maestro di grammatica e retorica nello studio di Padova e notaio del Comune. 229 Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 164. 230 Ibidem 225


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decapitava senza alcuna esitazione; la ferocia di Ezzelino lo portò a «distruggere insieme ai nemici anche gli amici»231, scrive Rolandino. Secondo la Fumagalli soltanto dal 1249 la figura di Ezzelino corrisponderebbe alle descrizioni fatte in precedenza dagli avversari, mentre durante gli anni dellʼalleanza con Federico II la fisionomia del vicario e genero dellʼimperatore sarebbe stata caratterizzata da «tratti di virtute e intelligenza politica»232. Nel 1247 intenzione di Federico era quella di riportare la pace nel regno, come egli stesso scrive: «solo un pensiero abita nel nostro cuore, restaurare lo stato gravemente turbato dʼItalia»233. Parma era passata ai guelfi, per costringerla alla resa lʼimperatore fonda in quello stesso anno una città dallʼaugurale nome di Vittoria. Gli astrologi della corte federiciana avevano indicato quel nome di buon auspicio. «Lʼimperatore, seguendo i consigli degli astrologi, aveva ordinato di tracciare con lʼaratro il perimetro di Vittoria sotto le mura dellʼassediata Parma: Marte, distratto e ostile fin dallʼinizio, volge il capo, favorendo alla fine dellʼimpresa proprio i nemici, gli audaci cittadini assediati»234. La Fumagalli fa dapprima una descrizione minuziosa della nuova città: Vittoria venne munita di fossati, ponti levatoi, piazze e mercati, botteghe e palazzi, otto porte, un canale; di mulini a vento, di una cattedrale dedicata a S. Vittore; di ville con vigneti, frutteti e giardini che ospitavano lʼharem del sovrano; furono battute monete per lʼoccasione, le vittorine recavano su una faccia lʼimmagine dellʼimperatore e sullʼaltra lʼiscrizione Victoria235. Per poi affermare che «cʼè molta fantasia nelle descrizioni della città di Vittoria»236. Molto più probabilmente infatti si trattava di un grande e ben fornito accampamento in legno costruito in pochi mesi e non di una vera città in pietra. Ma senza ombra di dubbio, continua la Fumagalli, donne, cavalli, cani, falconi e libri Federico li aveva voluti con sé nella sua nuova città. Il 18 febbraio 1248, mentre l’imperatore era fuori per una battuta di caccia, i parmensi invasero Vittoria rimasta praticamente sguarnita e la dettero alle fiamme. 231

Ibidem M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 165. 233 Ivi, p. 75. 234 Ibidem 235 Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., pp. 75-76. 236 Ivi, p. 76; De arte venandi cum avibus, a cura di A. L. Trombetti Budriesi, Bari 2009, pp. XLIVXLVI. 232


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Fra i prigionieri il gran giustiziere Taddeo da Sessa, al quale vennero mozzate le mani prima dellʼesecuzione. Si tratta molto probabilmente, secondo la Fumagalli, della più appariscente e grave sconfitta subita dallʼormai cinquantenne Federico, furioso e addolorato «come unʼorsa orbata dei suoi cuccioli nella foresta»237, scrive Salimbene de Adam. Lʼoro, lʼargento, le perle, la porpora e i tessuti di seta, una schiera di donne bellissime, lo scettro, il sigillo di Sicilia e la pesantissima corona a forma di castello, tutto finisce nelle mani dei parmensi, anche il prezioso manoscritto sulla caccia al falcone238. Oggi gli studiosi, specifica la Fumagalli, sono quasi tutti dʼaccordo nellʼaffermare che non si trattasse dellʼopera scritta da Federico ma di una raccolta di testi di sua proprietà sullʼarte della caccia corredata da splendide illustrazioni; il manoscritto rubato a Vittoria è testimone efficace dei lavori preparatori a cui Federico si accinse per la compilazione del De arte venandi cum avibus239. La primavera del 1249 riserva a Federico altre brutte sorprese: i bolognesi sbaragliano lʼesercito dellʼalleata Cremona e fanno prigioniero il figlio, re Enzo di Sardegna; Pier delle Vigne viene accusato di tradimento nei confronti dellʼimperatore. Pare dunque che la buona sorte stia lasciando il posto alla cattiva. La collaborazione fra Federico e Pier delle Vigne era stata unʼintesa a tutto tondo durata più di ventʼanni, fino a quel fatale 1249. Da tutti gli veniva riconosciuta sapienza retorica. Salimbene de Adam ci presenta un quadro malizioso e di basso profilo240: «Piero aveva accumulato un tesoro attraverso le illecite ricompense per i favori dispensati in quegli anni di amministrazione del regno e Federico, sempre alla ricerca di denaro, voleva impadronirsene. I nemici di Pier delle Vigne avrebbero quindi colto un momento assai opportuno per accusare e sbarazzarsi del grande rivale del quale quasi tutti a corte erano invidiosi»241. Nel gennaio del 1249 il protonotaio viene arrestato a Cremona. Venne giudicato colpevole di malversazioni e di corruzione, per cui accecato; si suicidò fracassandosi la testa 237

De arte venandi cum avibus, op. cit., p. XLVI. Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 77. 239 Ibidem; Cfr. De arte venandi cum avibus, op. cit., XLVI-L, LXV-LXVIII. 240 «Lʼimperatore non sapeva conservare la amicizia di nessuno e anzi si vantava di non aver mai ingrassato un porco del quale non avesse avuto poi la sugna. E intendeva dire che non aveva mai annalzato alcuni alla ricchezza e agli onori senza poi svuotargli la borsa...» (M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 185). 241 Ibidem 238


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contro il muro della cella. Dante credeva probabilmente, sottolinea la Fumagalli, alla versione di Nicola da Rocca242 che aveva giurato sulla fedeltà e lealtà di Pier delle Vigne; nel Canto XIII dellʼInferno infatti l’anima del ministro di Federico proclama la sua innocenza. Matteo Paris riporta che quando Federico venne informato del tradimento scoppiò in lacrime dicendo: «Me infelice colpito fin nellʼintimo. Pietro che credevo una roccia ed era la metà dellʼanima mia mi ha preparato con lʼinganno la morte»243. La versione di Matteo voleva lʼimperatore vincitore dopo aver sgominato una congiura ordita nei suoi confronti, cui avrebbe partecipato anche Pier delle Vigne244. «In quellʼanno così tragico per Federico, la ruota della fortuna si arresta nella sua discesa ancora per qualche attimo e quellʼarresto può illudere: lʼimperatore può sperare di avere ancora spazio per la sua volontà e la sua ragione guarda ancora avanti. Ha cinquantacinque anni»245, scrive la Fumagalli nell’ultimo capitolo. Nel 1250 lʼesercito imperiale registra qualche successo in Italia e in Germania. Forte di tutto ciò lʼimperatore scriveva che la sua «divina maestà con lʼappoggio della provvidenza celeste guida e governa tutto lʼimpero sottomesso in pacifico ordine»246. Molto presto però ecco arrivare la fine: quasi allʼimprovviso Federico viene colpito da una malattia mentre caccia con gli amati falconi in Puglia e muore il 13 dicembre 1250. Il papa giudicherà crudelmente quellʼultimo giorno come splendido per la cristianità: «Si rallegrino il cielo e la terra»; altri lo indicheranno come nefasto: «il giorno in cui il sole della giustizia è tramontato, lʼartefice della pace è spirato», scrive Manfredi al fratellastro Corrado247. Le conclusioni della Fumagalli sono titolate «scrivere una vita». Nell’epilogo la storica afferma quanto sia difficile scrivere una biografia oggettiva di Federico II perché, spiega, numerose sono le fonti che lo mostrano sempre alla ribalta come un attore: «ogni sua dichiarazione e le dichiarazioni di chi gli sta vicino, come Pier delle Vigne o gli è contrario come Rainero di Viterbo, lo rappresentano mentre fa o dice qualcosa di spettacolare, memorabile e nel bene o

242

Nicola da Rocca: maestro di ars dictaminis e notaio di Federico II, Corrado e Manfredi. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 186. 244 Ivi, pp. 185-186. 245 Ivi, p. 187. 246 Ivi, p. 188. 247 Ibidem 243


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nel male eticamente rilevante»248; Federico punisce duramente il figlio infedele, perdona clamorosamente o annienta in modo esemplare nemici e città; controlla o meno rabbia, furore, sdegno, seguendo sempre un progetto; si presenta comunque «sempre vittorioso»249. Come personaggio pubblico Federico rientra sempre in un ruolo, continua la Fumagalli: «il medico sapiente e benevolo dei suoi sudditi, lʼagnello fra i lupi, il leone ferito, lʼorso furente, lʼaquila superba, il dragone e lʼAnticristo…»250. Le biografie su Federico non sono mai oggettive: si va da un estremo allʼaltro, precisa la Fumagalli, dalle accuse ingiuriose ai pettegolezzi che tratteggiano il ritratto di un tiranno lussurioso, «turpissimo nel pensiero e nelle azioni», crudele, violento e infame; agli elogi di amici e cortigiani che lo descrivono come dispensatore di misericordia, magnanima Fonte di Sapienza, campione di cortesia, Sole di Giustizia. La stessa tendenza ritorna in alcune biografie moderne che fanno di Federico un ritratto irreale251. A quegli storici che hanno parlato di tolleranza «illuministica», a proposito dellʼatteggiamento di Federico verso i saraceni di Lucera, liberi di professare la loro fede, la Fumagalli obietta: «ecco unʼaltra prospettiva storiografica che invade e stravolge la lettura del personaggio e dellʼepoca: strumenti di periodizzazione e interpretazione accettati convenzionalmente dagli storici si sovrappongono allʼindagine sulla realtà, diventando a loro volta realtà in cui collocare uomini che vissero di fatto nel loro tempo e non in una categoria storiografica»252. Secondo la storica «la storia non è prodotta da chi la pensa»; il vero problema di scrivere una biografia è rappresentato dal tempo: «una vita attiva durava al massimo se la fortuna era favorevole poco più di cinquantʼanni, un tempo stretto e definito da due date, nascita e morte del protagonista, che dal punto puramente storiografico sono paradossalmente convenzionali»253. Si tratta molto spesso di un tempo troppo breve per poter cogliere mutamenti significativi nella durata storica. Non bisogna però rinunciare alla biografia, sostiene la Fumagalli:

248

M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 195. Ibidem 250 Ibidem 251 Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 196. 252 Ivi, p. 198. 253 Ibidem 249


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bisogna considerarla parte del lavoro storico utile a capire meglio e di più, «attraverso la sempre affascinante analisi di una persona e delle relazioni con il suo mondo»254. È esattamente quello che la storica ha tentato di fare nella sua biografia di Federico II. Rispetto a quelle di Abulafia le conclusioni della Fumagalli appaiono decisamente meno “conclusiveˮ: dopo aver ripercorso l’intera vita dello Svevo la chiusura del testo presupporrebbe una presa di posizione definitiva, invece la medievista italiana ci lascia con un palmo di naso, un bel punto interrogativo. Federico, afferma la Fumagalli, non è un principe «rinascimentale» e per quanto possa forse sembrare più strano neppure «medievale» nel senso generico e confuso che il termine ha oramai assunto255. Sembra quasi infatti che lʼaggettivo accostato a Federico II, invece di caratterizzarlo, appaia inadatto, addirittura riduttivo. E allora chi è stato lo Stupor mundi? Credo che la “non conclusioneˮ sia voluta, in questo modo si lascia al lettore la possibilità di farsi, più o meno, affascinare da Federico. Il finale è dunque, per così dire, “a sceltaˮ.

254 255

Ibidem Ibidem


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