A.D. MDLXII
U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ
DI
G IURISPRUDENZA
___________________________
CORSO
DI
L A U R E A M A GI S T R A L E
IN
G I U R I S PR U D E N ZA
CONDIZIONE DELLA DONNA NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ROMANO E NELLA CARTA DE LOGU
Relatrice: PROF.SSA ROSANNA ORTU
Correlatrice: PROF.SSA CRISTIANA RINOLFI
Tesi di Laurea di: MARIANNA CANU
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
INDICE-SOMMARIO pag. Capitolo I
LA CARTA DE LOGU DI ARBOREA 1. 2. 3. 4.
Note introduttive sui Giudicati Il Giudicato di Arborea: cenni storici L'opera legislativa di Mariano IV Problemi storiografici sulla promulgazione della Carta de Logu 5. Eleonora e la Carta de Logu d' Arborea
1 4 10 15 17
Capitolo II
L'INFLUENZA DEL DIRITTO ROMANO NELLA CARTA DE LOGU DI ARBOREA 1. Teorie della dottrina 2. Diritto criminale romano nella Carta de Logu 3. Riferimenti allo ius civile nella Carta de Logu
23 31 37
Capitolo III
IL MATRIMONIO E LA CAPACITA' SUCCESSORIA I. Diritto romano 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Il matrimonio nel diritto romano I Presupposti del matrimonio Impedimenti e scioglimento del matrimonio La dote La tutela “ muliebre” Capacità successoria testamentaria della donna nel diritto romano
42 52 58 68 75 82
I
II. Carta de Logu 1. Matrimonio a sa pisanisca e matrimonio a sa sardisca: teorie della dottrina in tema di regime patrimoniale tra coniugi 2. Il matrimonio a sa pisanisca con particolare riferimento al regime dotale 3. Capacità successoria testamentaria della donna sarda
86 93 102
Capitolo IV
ADULTERIO E STUPRO NELL' ORDINAMENTO GIURIDICO ROMANO E NELLA CARTA DE LOGU 1. La Lex Iulia de adulteriis 110 2. Lo “stuprum” 125 3. “De chi levarit per forza mygeri coyada” e “ De chi intrait per forza in domu de alcuna femina coyada”: la disciplina in tema di stupro e adulterio nella Carta de Logu d'Arborea 130
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CAPITOLO I
LA CARTA DE LOGU D'ARBOREA
1. Note introduttive sui Giudicati
Intorno al IX-X secolo sorgevano in Sardegna i Giudicati, regolati da istituti giuridici romano-bizantini. Considerati Stati sovrani con “summa-potestas”, erano governati dai “Judikes” che raccoglievano in sé tutti i poteri con autorità assoluta ed esclusiva in materia di amministrazione imperiale1. L'origine della figura del Judike è stata fortemente dibattuta. Alcuni storici la ricollegano alla figura del vicarius, antico istituto giustinianeo, detto anche lociservator2. Questo non era altro che un soggetto nominato presumibilmente dallo iudex provinciae di Cagliari, il quale lo pose a capo delle città costituenti municipio e a cui demandò funzioni civili e militari per organizzare la difesa e 1 R. CARTA RASPI, La costituzione politico sociale della Sardegna, Cagliari 1937, p. 223 ss; G. C. DEL VECCHIO, Eleonora d'Arborea e la sua legislazione, Milano 1872, p. 14. 2 A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medioevo, Cagliari 1917, p. 260 ; G. ZANETTI, Giudicato, in storia del diritto sardo, Torino, p.13.
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governare in suo nome3. Il Besta, nei suoi scritti sul tema, ribadisce l'origine e le basi dell'organizzazione sarda come derivanti dalla Costituzione bizantina ponendo come elemento fondante la figura del lociservator4. Durante il periodo dei giudicati, la successione monarchica avveniva per via elettiva-ereditaria. Il giudice veniva confermato con il concorso del clero e del popolo riuniti in un'assemblea detta Corona de Logu5. Attraverso un giuramento espresso, detto bannus consensus, con cui veniva concesso l'imperio, il popolo affidava il regno nelle mani del Judike6. I diritti dinastici degli eredi legittimi venivano garantiti dalla confirmatio in regnum, che seguiva le linee dettate dalla “Legge salica”: in caso di vacanza del trono per prematura scomparsa del “Judike” a succedergli sarebbe stato un discendente maschio in linea retta. In mancanza, a guidare il Giudicato sarebbe stato il parente maschio più prossimo in linea collaterale e, solo da ultimo, le donne 3 Cfr, F.CASULA, La società in Sardegna nei secoli, Torino 1967, p.113. 4 E. BESTA, La Sardegna medioevale. Le istituzioni politiche, giuridiche e sociali, Palermo 19081909 p. 60 ss. 5 F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, La nazione sarda, Sassari 1990 , p.125. 6 F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, cit, p. 120.
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che governavano in presenza di prole maschile ancora minorenne e non in grado di governare un territorio7. I Giudicati avevano una struttura politico-amministrativa ben definita. Non essendo possibile per il Judike reggere da solo il territorio, il Giudicato venne diviso in curatorie, che comprendevano un certo numero di villaggi facenti capo alla villa piĂš grande. A capo di ogni “villaâ€? era preposto un curatore con il compito di amministrare la giustizia, il gettito tributario e il dovere di presenziare a tutti gli atti solenni emanati dal giudice8. Nelle borgate, dove il potere dei curatori non era in grado di arrivare, vi era un'altra figura di ufficiale pubblico: il majore de iscolca, il quale doveva rendere conto del suo operato ai curatori9. Al di sopra di tutti i magistrati erano stati istituiti dei tribunali collegiali detti Corone, a cui prendevano parte i curatori, i majores e gli anziani dei comuni e in cui venivano decise le controversie che insorgevano tra i privati10. 7 G.OLLA. REPETTO, Studi sulle istituzioni amministrative e giudiziarie della Sardegna nei secoli XIV e XV, Cagliari 2005, p. 207. 8 F.C.CASULA, La Sardegna aragonese, cit, p. 128. 9 G. C. DEL VECCHIO, Eleonora d' Arborea e la sua legislazione, Milano 1872, p. 32. 10 G.OLLA. REPETTO, Studi sulle istituzioni amministrative e giudiziarie della Sardegna nei secoli XIV e XV, cit, p. 210 ss. Le Corone erano composte da non meno di tre membri i quali
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Tutti i Giudicati avevano proprie leggi emanate dal giudice per l'amministrazione e il governo del territorio. Le leggi venivano raccolte nelle Carte de Logu, ma l'unica pervenuta a noi quasi intatta è quella arborense11. La prima redazione di tale documento viene ricondotta dagli storici al Giudice Mariano IV, il quale, per far fronte alle numerose difficoltà del periodo, volle tentare un riordino di quelle che erano le consuetudini dell'epoca.
2. Il giudicato di Arborea: cenni storici
Nel XIII secolo il Giudicato d'Arborea fu l'unico a resistere al dominio di Genova e Pisa, a differenza dei Giudicati di Gallura, Cagliari e Torres che persero, invece, la propria indipendenza12. Ben presto, grazie alla sua collocazione strategica la Chiesa iniziò
dovevano rispondere dei requisiti di status di lieros ( uomini liberi non soggetti a limitazioni personali, l' antitesi dei servi) e boni homines ( uomini rispettabili, che godevano di pubblica stima, con elevate qualità morali e competenti); A. MATTONE, Gli statuti sassaresi, in atti del convegno degli studi di Sassari, 12-14 Maggio 1983, Sassari 1988, p.427. 11 F. C. CASULA, La sardegna aragonese, cit, p. 90. 12 A. CAOCCI, Appunti di storia sarda, Cagliari 1975, p. 134.
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ad interessarsi alla Sardegna13. Questo lasciò indifferenti i Giudici dell'isola fino a quando non si videro costretti a chiedere protezione alla Chiesa per salvaguardare i loro territori dalle invasioni straniere14. Tra il 1265 e il 1296 il Giudicato Arborense era retto da Mariano II. Per lungo tempo egli riuscì a sottrarsi alla stretta della Repubblica Pisana. Per ottenere la sua fiducia il Giudice fu costretto a chiederne la cittadinanza impegnandosi a versare alla stessa un cospicuo tributo annuo. Nonostante ciò, Pisa non si convinse della lealtà del giudice il quale, rendendosi conto della diffidenza, cercò nuove alleanze, strinse rapporti amichevoli con il Re di Castiglia e di Aragona. Tutto ciò aiutò Mariano II nella costruzione di un Giudicato forte, in grado di uscire dal suo isolamento e di crescere culturalmente15. Dopo la sua morte salì al trono il figlio Giovanni d'Arborea. Egli, proseguendo l'opera del padre, nel 1299, sposò una pisana e per tenersi alleata anche Genova decise di rinunciare ad ogni pretesa sul comune di Sassari16. 13 F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, cit, p. 66. 14 F. C. CASULA, La storia di Sardegna, Sassari 1998, p. 447. 15 F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, , cit, p. 120. 16 A. CAOCCI, Appunti di storia sarda, cit, p. 137.
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Mariano III, secondogenito di Giovanni d'Arborea, decise di imprimere un'incisiva svolta alla politica dei suoi predecessori cercando di allentare i vincoli con Pisa e rivolgendo la sua attenzione verso il Regno d'Aragona17. Nel 1321 Ugone II seguì la direzione del padre Mariano III. Egli, basandosi sul rapporto instaurato negli anni con il regno d'Aragona, decise di dare al “Re” la sua fiducia, con la speranza di poter governare la Sardegna e abbattere definitivamente la Repubblica pisana. Mariano III sostenne il Re d'Aragona con notevoli contributi in denaro e partecipò a varie spedizioni, inoltre concorse alla conquista dei territori soggetti a Pisa da parte dell'esercito aragonese. A questo punto il Giudice si accorse di aver commesso un errore. Infatti, i feudatari aragonesi e catalani iniziarono una politica di sfruttamento nei confronti dei sardi che condusse, con cinque secoli di ritardo, al Feudalesimo a cui il territorio arborense si oppose in ogni modo18. Ugone optò quindi per una politica neutrale che conservò fino al momento della sua morte. 17 F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, cit, p. 123. 18 A.CAOCCI, Appunti di storia sarda, cit, cfr p. 139 «..i sardi si attendevano un Re, e si trovarono con un tiranno in ogni villaggio».
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Dopo questo periodo, segnato da numerose sconfitte e dal crollo economico, e non solo, nel Giudicato d'Arborea seguirono dieci anni di pace con Pietro III che migliorò le condizioni di vita della popolazione. In particolare egli cercò di incrementare le risorse del territorio e di indebolire l'invasione aragonese concedendo territori ed esenzioni fiscali a chiunque decidesse di abbandonare i feudi catalani19. Pietro III lasciò al successore Mariano IV un territorio abbastanza ricco, popolato e ben difeso. Nei primi anni del suo trono (1346-1376) Mariano IV mantenne l'alleanza con gli aragonesi. Successivamente, l'imposizione del loro regime e il loro sfruttamento portarono il Giudice arborense e gli abitanti alla ribellione20. Mariano IV strinse un'alleanza con i Doria che venne suggellata con il matrimonio tra sua figlia Eleonora e Brancaleone Doria. Nel 1354 scoppiò una rivolta generale che coinvolse l'intera isola. Per vent'anni il giudice d'Arborea combatté contro gli aragonesi
19 A. CAOCCI, Appunti di storia sarda, cit, p. 141. 20 A. CAOCCI, Appunti di storia sarda, cit, p.144.
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riuscendo infine a sconfiggerli21. L'opera del Giudice Mariano IV non si limitò solo alla liberazione del territorio dalle invasioni straniere. Egli si distinse dagli altri giudici per la promulgazione del Codice rurale. Il codice venne emanato per far fronte all'abbandono e all'ingestibilità del patrimonio agricolo in seguito ai cambiamenti socio-economici della civiltà sarda22. Un periodo questo travagliato e sconvolto dai vari avvenimenti che turbavano la vita dell'isola e di cui troviamo testimonianza nelle parole del prologo del Codice di Mariano in cui viene denunciata la profonda crisi sociale e agricola: Nos Marianus pro sa gracia de Deus Iuyghi de Arbaree, Conti di Gocianu, e Bisconti di Bas, considerande sos multos lamentos, continuamenti sunt istados, e sunt peri sas Terras nostras de Arbaree, e de Logudori pro sas vingias, ortos, e lauori, che si disfaghint, e consumant per sa poca guardia e cura, ch'illi dant assu bestiamen cussos de chi est, ch'illu hant in guardia, pro sa quali causa multas vingias e ortos sunt eremados, e multas personas si romanint de lavorari, chi lavorari hiant, pro dubidu, chi hant de non perder cussu ch'illoy a faghiri...23 21 A. CAOCCI, La Sardegna, Milano 1986, p.100. 22 A. CAOCCI, Appunti di storia sarda, cit, p. 143. 23 F. C. PABA, La crisi agraria del giudicato di Arborea del secolo XIV, in il mondo della Carta de Logu, Cagliari 1980, p. 177-178.
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Il giudice creò un' insieme di leggi agricole per provvedere all'utile comune e al buono stato della sua gente, la sua attenzione era rivolta principalmente verso la protezione della proprietà e il buon governo del bestiame24. Nonostante gran parte degli storici attribuiscano alla Giudicessa25 la paternità della Carta de Logu, molto di quanto da lei codificato trova riscontro nell'opera legislativa del padre Mariano, un esempio è infatti offerto dal capitolo III: “De chi occhirit homini avvisadamenti, over dasavvisadamenti”26. Anche il figlio - Ugone III - pose in essere un'ampia opera legislativa di cui però restano ormai pochissimi documenti a cui seguì quella della sorella Eleonora che portò alla promulgazione della Carta de Logu d'Arborea27. Scopo primario di questo Giudicato rimase sempre il mantenimento dell'equilibrio politico, economico e sociale anche se, come si è potuto
24 G.C. DEL VECCHIO, Eleonora d'Arborea e la sua legislazione, cit, p. 40 ss. 25 R. CARTA. RASPI, Mariano IV d'Arborea, Conte del Goceano, Visconte di Bas, Giudice d'Arborea, Oristano 2001, p. 153. 26 R. CARTA. RASPI, Mariano IV d'Arborea, cit, p. 153. 27 F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, cit p. 66.
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notare, non è sempre stato semplice per i Giudici d'Arborea raggiungere tale fine a causa delle lotte con gli aragonesi e delle pretese vantate dal Papato28. Nonostante tutto, i sovrani arborensi riuscirono a distinguersi da tutti gli altri grazie al loro spirito di autonomia e grazie alle legislazioni di Mariano ed Eleonora che vennero tramandate e rispettate per secoli, fino al 1827, quando Carlo Felice le sostituì con il suo Codice delle leggi civili e criminali.
3. L' opera legislativa di Mariano IV
La prima opera legislativa di questo Giudice risale a un periodo anteriore alla sua ascesa al giudicato di Arborea. Questa affermazione è dimostrata da un documento del 1353 in cui è ricordata una «Carta Nostra de Logu de Gociani» che trattava di “iurados, furtos e dannos”29, essa ebbe un'efficacia generale, con tale Carta Mariano tese ad assicurare la pace interna attraverso un'efficace repressione dei
28 F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, cit, p. 66. 29 R. CARTA. RASPI, Mariano IV d'Arborea, cit, p. 155.
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reati30. Più tardi si riscontra l'esistenza di un atto che Mariano, Conte del Goceano e signore di Marmilla ma non ancora giudice, decise di emendare per far fronte all'ennesima calamità che colpì il suo popolo e l'intera isola: la carestia31. Per raccogliere i servi sbandati, le famiglie bisognose e i contadini senza terra, Mariano decise, dopo varie richieste di fondare una nuova “villa”, detta Burgos e con tale atto, risalente certamente al un periodo anteriore al 1346, contemplò varie concessioni agricole e sociali32. Concesse libertà assoluta a chi fosse andato ad abitare nel nuovo villaggio con affrancazione ed emancipazione dei loro servi; promise terre gratuite per tutti in base ai loro bisogni per garantire indipendenza economica e occupazione integrale. Quest'ultima concessione si pose in contrasto con il nuovo principio feudale della 30 E. BESTA, La Sardegna medioevale, istituzioni politiche, economiche giuridiche e sociali, cit, p. 153; Cfr, R. CARTA. RASPI, Mariano IV d' Arborea, cit, p. 150 « La Carta del Goceano non era probabilmente che un nucleo di disposizioni particolari, aggiornate e adattate, che dovevano rispondere ai bisogni delle popolazioni rurali sotto la giurisdizione del donnicello d' Arborea. Perchè questa Carta si chiamasse solo del Goceano e non anche di Marmilla, lo possiamo spiegare coll'essere il documento in cui viene ricordata rivolto alla regione del Goceano». 31 R. CARTA. RASPI, Mariano IV d' Arborea, Conte del Goceano, Visconte di Bas, d'Arborea, cit, p. 149 ss.
Giudice
32 F. C. PABA, La crisi agraria del giudicato di Arborea del secolo XIV, cit, p. 200.
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terra, rappresentando un passo gigantesco nel campo giuridicosociale33. Con quest'atto Mariano volle creare un nuovo centro demografico, agro pastorale, introducendo regolamenti che assunsero efficacia generale sull'intero Giudicato34. Nei primi anni di conflitto con gli aragonesi inizia il secondo periodo legislativo di Mariano IV, rappresentato dall'emanazione del codice rurale, composto da ventotto capitoli che ritroviamo incorporati nella parte intermedia della Carta de Logu promulgata da Eleonora35. Mariano IV riuscì, dopo secoli di servitù, a porre fine alla classe servile stravolgendo completamente l'organizzazione del territorio. Questo portò a una crisi agricola in quanto determinò l'aumento dei costi di produzione e l'abbandono di culture specializzate in cui la manodopera era principalmente servile. I campi vennero abbandonati e le persone iniziarono a dedicarsi, in maniera sempre più massiccia, all'allevamento36. 33 F. C. PABA, La crisi agraria del giudicato di Arborea del secolo XIV, cit, p. 200 ss. 34 E. BESTA, La Sardegna medievale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche e sociali, cit, p. 153. 35 R. CARTA. RASPI, Mariano IV d'Arborea, cit, p. 149. 36 F. C. PABA, La crisi agricola del giudicato di Arborea del secolo XIV, cit, p. 196 ss.
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Questi cambiamenti determinarono la rivolta dei pochi contadini rimasti che videro deturpati i loro raccolti dagli animali lasciati a pascolo brado. Nel codice rurale Mariano IV impose, pertanto, la recinzione dei campi coltivati. Avvenuto il riconoscimento della efficienza della recinzione del terreno coltivato, l'agricoltore poteva uccidere il bestiame trovato nel fondo, restando al pastore il danno del capo perduto, il risarcimento dei danni arrecati alla coltivazione, piĂš una pena pecuniaria da pagare alla cassa del Rennu. Qualora l'individuazione del proprietario del bestiame fosse stata complicata, il danno veniva addebitato alla villa o al curatore37. Infine, per incrementare la viticoltura, il codice imponeva che nelle zone viticole il proprietario di superfici incolte dovesse, entro un anno, sottoporle a vigna, in caso contrario, scaduti i termini, il terreno sarebbe stato ceduto al viticoltore confinante. Se quest'ultimo non si fosse assunto l'incarico il terreno sarebbe stato affidato al demanio e offerto a colui che avesse garantito l'impianto e la coltivazione della vigna38. 37 F. C. PABA, La crisi agricola del giudicato di Arborea del secolo XIV, cit, p. 217. 38 F. MANCONI, Alcune considerazioni sull'economia e la societĂ arborense, in atti del convegno internazionale di studi: SocietĂ e cultura nel Giudicato d'Arborea e nella Carta de Logu, Oristano Dicembre 1995, p. 205 ss.
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La legge doveva essere applicata inesorabilmente e fu inflessibile. Mariano con tale carta risollevò l'agricoltura ponendola in piena produzione39. L'attività legislativa di questo Giudice è stata considerata un'innovazione nella vita politica del basso medioevo sardo. Tra i motivi ispiratori del grande Giudice arborense non si dovrebbe trascurare il riferimento alla suprema finalità di legiferare, che ritroviamo espresso dalla frase «provvideri a su utili cummoni et bonu istadu de sa gente nostra», inoltre, non è da trascurare la volontà dello stesso di voler giudicare nel rispetto di due principi essenziali: uguaglianza ed equità 40.
39 F. C. PABA, La crisi agricola del giudicato di Arborea del secolo XIV, cit, p. 217 ss. 40 F. SINI, Comente comandat sa lege, diritto romano nella Carta de Logu d' Arborea, Torino 1997, p. 29; Cfr, G. C. DEL VECCHIO, Eleonora d'Arborea e la sua legislazione, cit, p. 44 «L' equità non mancò di certo, poiché troviamo proclamato in esso quel principio della euguaglianza che è vanto dell'età nostra. Né altro invero significano le parole che si leggono in esso, per cui una cosa era concessa, o vietata ad ogni persona di qualunque grado, stato, o condizione. Innanzi al giudice non presentavansi che uomini da essere rettamente giudicati! »
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4. Problemi storiografici sulla promulgazione della Carta de Logu d'Arborea
E' controversa la data di emanazione del Codice arborense, anche se la tesi prevalente e maggiormente sostenuta tra gli storici di oggi è quella che la riconduce al 139241. La storiografia del passato tese, invece, a ricondurla al giorno di Pasqua del 1395. In particolare Giovanni Maria Mameli42, basandosi principalmente sui riferimenti alla Corona di S. Marco contenuti nei capitoli 19 e 20 della Carta e su quanto scritto da Eleonora nella sua prefazione, ritenne che la Carta fosse stata promulgata il giorno di Pasqua del sedicesimo anno dalla morte di Mariano. Le date però non coincidono: il Giudice arborense morÏ infatti nel 1376 e non, come sostenuto dal Mameli, nel 1379 43. Antonio Era in un suo studio del 1960, occupandosi del problema 41 F.C.CASULA, La Sardegna aragonese, La nazione sarda, cit, p.457. 42 G. M. MAMELI, Le costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu, Roma 1805, p. 14. 43 A. MARONGIU, Sul probabile redattore della Carta de Logu, in studi economici-giuridici, Padova 1975, p. 68.
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della datazione della Carta de Logu, con molta cautela, si limitò a ricondurre la datazione a un lasso di tempo compreso tra il 1383 (anno coincidente con l'inizio del trono di Eleonora), e il 1391 (anno in cui scadeva il sedicennio dalla morte di Mariano)44. Stabilire con certezza la data di emanazione del codice risulta un compito arduo perchÊ i compilatori che affiancarono Eleonora nella redazione eliminarono tutte le date segnate nell'elaborazione di Mariano45. Nonostante le numerosi opinioni, la tesi degli studiosi che hanno ritenuto che la Carta fosse stata emanata nel 1392 ha però finito con l'imporsi, trovando riscontro nel proemio introduttivo redatto dalla stessa Giudicessa: Sa Carta de Logu, sa quali cun grandissimu provvidimentu fudi fatta peri sa bona memoria de iuyghi Mariani padri nostru, in qua direttu iuyghi de Arbareè, non essendo corretta per ispaciu de seighi annos passados, como per multas variedadis de tempus bisognando de necessidadi corrigerla.....46.
Tale data trova, inoltre, conferma nella situazione politico44 A. ERA, Le carte de Logu, in studi sassaresi, Sassari 1960, p. 12. 45 E.CORTESE, Una proposta per la datazione della Carta de Logu di Arborea, Sassari 1982, p. 29. 46 F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno di Arborea, Sassari 1995, p. 240.
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istituzionale di Oristano, caratterizzata da un periodo di stabilità e di pace per il Giudicato 47.
5. Eleonora e la Carta De Logu d'Arborea
Considerata donna di grande fascino e carisma, Eleonora riuscì a salire al trono in veste di Giudicessa-reggente difendendo la successione del figlio primogenito Federico ancora troppo giovane per poter governare il territorio di Oristano48. Momento principale del suo Giudicato fu il lavoro di correzione e adattamento della vecchia Carta del padre Mariano IV49. Mancando completamente la Carta di Mariano è però impossibile capire quanto Eleonora abbia riprodotto della legislazione paterna e cosa sia stato da lei introdotto50. Entrambe le carte sembrano essere la raccolta delle consuetudini vigenti nel “Logu” seguite e rispettate dalla popolazione che abitava 47 A. ERA, Le carte de Logu, cit, p.17. 48 F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, La nazione sarda, cit, p. 419. 49 E. CORTESE, L'opera di Antonio Era nella storiografia giuridica, Sassari 1982, p. 22; F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, La nazione sarda, cit, p. 240. 50 R. CARTA CRISPI , Mariano IV d'Arborea, cit, p. 13.
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nel giudicato. La Carta della Giudicessa presenta affinità con altre leggi vigenti nel giudicato, in particolare con gli Statuti Sassaresi, con cui si riscontrano similitudini per quanto riguarda la composizione delle “corone”, l'ordine dei giudizi, l'esercizio pubblico del notariato, le pene afflittive, pecuniarie e l'economia rurale. Gli storici ritengono che tale corrispondenza sia dovuta a condizioni sociali e substrati giuridici simili che determinarono lo sviluppo di istituti analoghi51. Nonostante Eleonora si ricolleghi ad un complesso di norme desunte dagli usi e dalle consuetudini locali, la sua Carta rappresenta lo sforzo di piegare le antiche tradizioni al fine di donare ai propri sudditi un diritto facilmente applicabile alla fattispecie concreta, meno assoluto e rigido rispetto alle usanze precedenti, basato sull'equità e su una più rapida attuazione52. Eleonora sottopose l'intero Giudicato all'osservanza e al rispetto delle norme giuridiche, offrendo una conoscenza certa del diritto e delle conseguenze in caso di inosservanza53 . 51 P. SATTA-BRANCA, Il comune di Sassari nei secoli XIII e XIV, in studio storico giuridico, Bologna 1885, p. 61. 52 F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, La nazione sarda, cit, p. 260 ss. 53 E. BESTA, La Carta de Logu quale monumento storico giuridico, in E. Besta, P.E. Guarnerio,
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Il suo lavoro rappresentò una vera e propria riforma di ammodernamento e miglioramento della legislazione, composta da norme originali e più consone al tipo di società cui la Giudicessa aspirava, così come sostenuto dalla stessa nella sua prefazione54. L'obiettivo era quello di integrare una normativa divenuta ormai insufficiente e non in grado di far fronte ai problemi giuridici di un territorio in continua evoluzione55. Nel codice s'intravede un mondo popolato da contadini, pastori e mercanti che la Giudicessa poneva sotto l'ombra della sua legge, ma che era già, in qualche modo, regolamentato e visibile nei codici non scritti della società giudicale56. Attraverso la Carta, Eleonora disciplinò in modo organico e coerente molti settori dell'ordinamento giuridico con norme di diritto civile e penale. A partire dal Capitolo 133 ritroviamo, inoltre, un codice rurale contenente il regolamento delle vigne e altri ordinamenti agresti, che Carta de Logu de Arborea., in studi sassaresi, Sassari 1905, p.21. 54 Cfr, F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno di Arborea, cit, p. 33 «como per multas variedadis de tempus bisognando de necessidadi corrigerla, ed emendari, considerando sa variedadi e mutacioni dessos tempos chi suntu istados seghidos posca...». 55 G. OLLA. REPETTO, Studi sulle istituzioni amministrative e giudiziarie della Sardegna nei secoli XIV e XV, cit, p. 242 ss. 56 A. BOSCOLO, Studi sulla Sardegna bizantina e giudicale, Cagliari 1985, p. 87.
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venne attribuito al padre Mariano IV57. Nonostante l'antichità del testo l'interesse per la Carta de Logu si è mantenuto inalterato negli anni grazie al suo contenuto fortemente attuale. A tal proposito si evidenzia la rilevanza di alcune situazioni regolamentate e più volte riprese, quali: la tutela e condizione della donna; il problema dell'usura; l'attenzione posta alla certezza dei rapporti sociali58. Eleonora istituzionalizzò principi fortemente progressisti per quell'epoca. Un esempio è offerto dall'articolo XXI (De chi levarit per forza mygeri coyada), in cui la Giudicessa stabilì la comminazione di pene contro chi violentasse una donna sposata, promessa in sposa o una vergine. Le pene, oltre al pagamento di una somma di denaro, imponevano l'obbligo in capo al violentatore di sposare la vittima dell'abuso solo qualora la donna avesse prestato il suo consenso59. 57 Cfr, G.C. DEL VECCHIO, Eleonora d'Arborea e la sua legislazione, cit, p. 23 «...Infatti, imitando l'esempio di suo padre Mariano, di cui ampliò e perfezionò gli ordinamenti, raccolti intorno a se i più autorevoli giureconsulti sardi, dei quali presiedeva ella stessa le adunanze, diede al suo popolo un codice di leggi, che a giudizio dell'illustre '' Sclopis'' ebbe il vanto de esser tenuto per segno di un perfezionamento sociale, dal quale erano ancor lontane le più vaste contrade del continente italiano ». 58 A. MARONGIU, Brevi note e discussioni di storia isolana, in Archivio storico sardo di Sassari, Sassari 1978, p. 5; A. ROTA, Aspetti giuridici della Carta de Logu di Eleonora d'Arborea, in Archivio storico sardo di Sassari, Sassari 1975, p. 11 . 59 Cfr, F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno di Arborea, cit, p. 59 «volemus ed ordinamus chi si alcun homini levarit per forza mugeri coyada, over alcun'attera femina, chi esserit jurada, o isponxellarit alcuna virgini per forza, e dessas dittas causas esserit legittimamenti binchidu, siat juygadu chi paghit pro sa coyada liras chimbicentas; e si non pagat infra dies
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Eleonora seppe tenersi lontana dall'arbitrio e dalla crudeltà di altri statuti contemporanei vigenti sull'isola. La sua rettitudine per la giustizia la portò a prevedere la pena di morte solo per pochissimi casi, bandì la tortura, rese rara la confisca dei beni facendo salvi i diritti della moglie e dei figli60. Il bando fu applicato solo come sostituto della pena di morte quando, il condannato si fosse sottratto alle mani della giustizia e il carcere fu previsto solo come mezzo preventivo di custodia. Eleonora pose sullo stesso piano e senza disuguaglianze i diritti tra fratelli e sorelle61. Eliminò la vendetta privata. Infatti, la pena, salvo per i delitti più gravi, quali l'omicidio e il concorso in omicidio, era principalmente pecuniaria e solo in caso di mancato pagamento veniva applicata la mutilazione62. La suddivisione del testo appare piuttosto confusa e non bindighi, de chi hat a esser juygadu, siat illi segad'uno pee pro modu ch'illu perdat. E pro sa bagadià siat juygadu chi paghit liras duecentas, e siat ancu tenudu pro levarilla pro mugeri, si est senza maridu e placchiat assa femina...» 60 Cfr, P. MARICA, La Sardegna e gli studi del diritto, le fonti, Roma 1953, p.78 «Con buone leggi fece buoni costum». 61 G. C. DEL VECCHIO, Eleonora d'arborea e la sua legislazione, cit, p. 51 ss. 62 F. SINI, Comente comandat sa lege, il diritto romano nella Carta de Logu d'Arborea, cit, p. 84.
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rispondente a un criterio logico. Dall'esame della Carta de Logu di Eleonora si evince che questa si andò formando per scopi diversi e in tempi diversi63. Diritto penale e diritto civile si confondono con le procedure. Ciò ha fatto supporre che il codice sia stato rimaneggiato più volte e che per questo non abbia mai trovato una sistemazione definitiva. Le materie nella Carta de Logu sono così distribuite: delitti e pene; l'ordinamento di polizia e giudiziario; diritto di famiglia; diritto contrattuale; disposizioni varie, relative a materie civile e penale e riguardanti quasi sempre la proprietà e la polizia rurale64. La Carta de Logu era una legge di carattere territoriale, la cui osservanza fu estesa dal giudicato d'Arborea a tutto il regno di Sardegna per voto del Parlamento nel 1421. Nonostante la giudicessa avesse cercato di salvaguardare le antiche tradizioni dalle numerose contaminazioni del diritto straniero, non riuscì completamente nel suo intento. Infatti sono apparse inevitabili le influenze di altri ordinamenti, in particolare di quelli romani e pisani. 63 A. ERA, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, Roma 1934, p. 83 ss,; P. MARICA, La Sardegna e gli studi del diritto, le fonti, cit, p. 76. 64 P. MARICA, La Sardegna e gli studi del diritto, le fonti, cit, p. 71.
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Capitolo II
L'influenza del diritto romano nella Carta de Logu d'Arborea
1. Teorie della dottrina
Lo studio per l'inquadramento della Carta de Logu nelle fonti giuridiche in genere ha dato luogo a un ampio dibattito della dottrina che ha portato gli studiosi del diritto ad esaminare a fondo la Carta, arrivando a conclusioni spesso in contrapposizione tra loro. E' necessario analizzare se quanto contenuto nel Codice sia costituito da regole giuridiche derivanti dal diritto romano o dalla semplice recezione di alcuni principi di tale ordinamento; o ancora, se sia frutto di diretta conoscenza delle fonti o indiretto riflesso delle influenze di civiltĂ straniere. Vi sono numerose tesi della dottrina le quali ritengono vi sia stata una forte influenza del diritto romano nel Codice arborense. Per alcuni autori, quali ad esempio il Sini, tale influenza sarebbe 23
testimoniata dalla presenza di alcune espressioni come “sa leges” o “sa ragioni” che, come sostenuto anche dal Cortese, sono un richiamo diretto al diritto giustinianeo conosciuto e utilizzato dai judikes sin dal XII secolo65. Nel suo recente manoscritto Comente comandat sa lege, il Sini sostiene che, l'utilizzo di tali termini, da parte della legislatrice arborense, siano un richiamo esplicito al diritto romano66. Per il Sini tali espressioni sembrano, infatti, essere di diretta derivazione romana, il linguaggio giuridico si presenta come filiazione dell'antico diritto romano, divenuto certamente più rozzo e semplice per adattarsi a una vita meno complessa e con minori esigenze67. Al riguardo, il Besta riteneva che nel diritto privato continuasse a persistere il principio romano “unum oportere esse ius cum unum sit 65 E. CORTESE, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, in appunti di storia giuridica sarda, Milano 1964, p. 119 ss; P. MARICA, La Sardegna e gli studi del diritto, le fonti, cit, p. 72 ; Cfr, F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p.79 «le leges di giustiniano erano conosciute da lunga data, da quando taluni giudici sardi avevano preso ripetuti impegni, sin dal tardo XII secolo, di giudicare i mercanti sopratutto genovesi oltre che secondo gli usi anche secondo le leggi romane. Due secoli dopo la Carta de Logu si riferisce certo al diritto giustinianeo quando richiama la lege o la ragione: pur senza sopravalutare la cosa, si tratta dell'indizio di un'importante apertura al mondo della romanità continentale»; A. ERA, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, cit, p. 173. 66 F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p. 37 «... accertare in maniera incontrovertibile, mediante lettura sinottica e analisi asegetica dei relativi frammenti del Corpus iuris Civilis, quale grado di aderenza i citati capitoli della Carta de Logu abbiano conservato nei confronti di quei testi giuridici romani, che quasi per certo costituirono i modelli di riferimento per la legislatrice arborense e per i suoi non incolti compilatori» 67 F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p. 42.
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imperium”, sostenendo che il diritto antico perdurò non tanto nelle leggi scritte ma, sopratutto, nelle consuetudini68. Antonio Era, invece, sottopone a critica la teoria dell'influenza del diritto romano nella Carta de Logu, e nega che per la Sardegna prima del XVI secolo fosse utilizzabile l'equivalente legge-diritto romano69. Secondo tale Autore la pretesa che il diritto romano all'epoca dell'emanazione della Carta de Logu fosse vigente in Sardegna sarebbe una tesi azzardata, in quanto, se questa fosse stata la realtà, i legislatori arborensi non avrebbero mancato di imporre ai gudicanti di possedere, oltre a una copia della Carta de Logu anche il Corpus iuris Civilis od un qualsiasi compendio di diritto romano70. Più o meno sulla stessa direzione si orientano anche le affermazioni del Marica secondi cui, Roma riuscì a sovrapporre il suo ordinamento sociale e politico senza però sopprimere gli istituti fondamentali della regione sarda e senza interferire nelle consuetudini di questo popolo, appartenenti a un periodo certamente anteriore al dominio romano.
68 E. BESTA, Il diritto sardo nel medioevo, Torino 1899, p. 20. 69 A. Era, Le così dette questioni esplicative della Carta de Logu, Milano 1939, p.379 ss; F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p. 68. 70 A. ERA, Le così dette questioni esplicative della Crta de Lgu, cit, p. 399 ss.
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Sostiene inoltre, che i Giudici potessero dare ai popoli a loro soggetti leggi consone alla rudimentale economia isolana71. Tali norme, per il Marica, rappresentano un ritorno alle consuetudini che probabilmente Roma aveva lasciato praticare agli indigeni, appagandosi di applicare le proprie leggi a quei territori che riuscì a conquistare. Tali consuetudini conservarono affinità con il diritto romano, queste non furono tali da sopprimere quello che può definirsi l'impronta sociale e giuridica del popolo sardo72. L'ancoramento della civiltà sarda alla romanità, secondo il Cortese, era in qualche modo mantenuto vivo da un ius comune, destinato a regolare attivamente la prassi e che successivamente verrà denominato ratio scripta73. Il diritto romano secondo il Besta perdurò non nelle leggi ma nelle consuetudini che in Sardegna erano meglio determinate e uniformi rispetto ad altri territori. Lo sfondo era quindi romano ma, a causa dei 71 P. MARICA, La Sardegna e gli studi del diritto, le fonti, cit, p.67 ss. 72 Cfr, P. MARICA, La Sardegna e gli studi del diritto, cit, p. 18; sempre con riferimento al testo del Marica nella parte in cui tratta delle consuetudini vigenti in Sardegna, p. 19 « nella società sarda avrà un incontrastato predominio il diritto consuetudinario benchè Roma vi abbia immesso la sapienza e l'equilibrio della sua incomparabile saggezza giuridica nel campo dei pubblici ordinamenti». 73 E. CORTESE, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, in appunti di storia giuridica sarda, cit, p 133.
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cambiamenti della società ad esse si sovrapposero elementi bizantini e principi ecclesiastici74. Per quanta riguarda il regime dei latifondi, ad esempio, rimase inalterata tra i liberi la distinzione tra majores e minores75. Una consistente parte degli storici sostiene che lo stesso titolo di “judex loci” sia da considerarsi di diretta derivazione romana, la stessa parola “locu” nel periodo dei giudici autonomi stava ad indicare il “rennu” ossia il territorio sul quale essi esercitavano il loro dominio e che il più delle volte era affiancato dal termine “potestas”76. E' della stessa opinione il Besta, secondo il quale forti connessioni esistono fra i “curatores” dei Giudicati sardi e i “curatores reipublicae” del tardo romano impero.77 Per il Solmi è nel campo del diritto privato che l'antico impero riuscì ad estendere le sue leggi trovandone riscontro nel codice rurale
74 Cfr, E. CORTESE, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, in appunti di storia giuridica sarda, cit, p. 134 «...e così individua un ordinamento tipico del mondo medievale, espressione giuridica di quell' unum corpus, in cui si sapeva compendiata l'intera umanità cristiana..». 75 E. BESTA, Il diritto sardo nel medioevo, cit, p. 22- 23. 76 E. BESTA, Il diritto sardo nel medioevo, cit, p. 14 ss. 77 E. BESTA, La Sardegna medioevale. Le istituzioni politiche, giuridiche e sociali, cit, p.70 ss.
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di Mariano IV78. Nella stessa direzione va il pensiero del Salvioli. Nei suoi scritti sostiene, infatti, che in questo periodo la Sardegna era regolata da consuetudini territoriali. Le stesse trovavano la loro legittimità nel diritto romano-volgare e si ispiravano all'assetto della proprietà fondiaria. Tale è l'usus sardinee terre di cui parlano le carte79. Anche in alcuni trattati riguardanti le cause tra Sardegna e Genova si richiedeva l'osservanza di tale istituto e non solo, altri trattati vollero che tali cause fossero giudicate, in primo luogo, secondo le leges romanae, le quali avevano ormai acquistato valore di diritto comune80 e successivamente secondo le bonae consuetudines81. Nei suoi scritti Era sostiene che sia eccessivo affermare, infatti, che le leggi di Roma abbiano avuto vigore nella Sardegna medioevale quali norme effettive nei rapporti individuali. Ciò che secondo lo storico rimane vivo lo si trova solo a livello di consuetudine risalente al periodo di dominazione romana e alcune introdotte dagli immigrati 78 A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medioevo, cit, p. 73. 79 Cfr, G. SALVIOLI, Storia del diritto italiano, Torino 1921, p. 77. 80 G. C. DEL VECCHIO, Eleonora d' Arborea e la sua legislazione, cit, p.29. 81 F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p.56; E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p.161.
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del XII secolo che diffusero la conoscenza delle fonti giustinianee. In Sardegna ci fu, inoltre, una diffusione di libri di diritto romano contenenti regole di diritto comune e collezioni giustinianee che portarono a una gerarchia delle fonti di diritto in Sardegna: ius municipale; ius civile romanorum; ius canonicum82. Le fonti giuridiche si mostrarono costituite da leggi generali e statuti cittadini, consuetudini locali e diritto romano comune, il quale assunse però una posizione sussidiaria83. Antonio Era, nel suo esame delle “exposiciones de sa leges”, raccolta anonima di questioni dottrinarie che fungono da integrazione alle norme della Carta, sostiene che siano state redatte dopo il codice arborense84. Secondo Era gli autori, conoscitori del Corpus juris civilis, accolsero regole romanistiche come fonte sussidiaria del diritto. Ne nega però l'uso nella regolamentazione di alcune situazioni in quanto avrebbe significato affermare un regresso della pratica giuridica di quest'epoca, 82 A. MATTONE, Gli statuti sassaresi, in atti del convegno di studi di Sassari, cit, p. 461. 83 A. ERA, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, cit, p 172 ss. 84 Cfr, A. ERA, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, cit, p.345 «si tratta di una serie di casi pratici risolti secondo le regole del Digesto e talora con soluzione ben diversa da quella adottata dalla C.d.l».
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sminuendo lo sforzo di Eleonora di abbandonare le antiche tradizioni medioevali85. Il Finzi ritiene che tali Expositiones fossero da considerarsi come questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu e le utilizzò come prova dell'influenza che il diritto romano ebbe nella codificazione di Eleonora, sostenendo che nella compilazione del codice la legislatrice venne affiancata da un vero e proprio romanista. Ciò, secondo l' autore, potrebbe dedursi dal fatto che i riferimenti al diritto giustinianeo siano stati fatti per esteso, senza le abbreviature che invece sono state riscontrate nel resto del continente. Inoltre evidenzia il fatto che nelle citazioni si faccia riferimento al numero dei testi utilizzati e al Digestum vetus e novum86. Di opinione contraria Besta e Marongiu secondo cui nella compilazione, Eleonora si avvalse dell'opera di un canonista che conosceva a fondo l'ambiente economico e giuridico sardo87. Questo è dimostrato dalla massima contenuta nel capitolo III della 85 A. ERA, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, cit, p. 340 ss. 86 V. FINZI, Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, in Studi Sassaresi, Sassari 1901, p.125 ss. 87 E. BESTA, La Carta de Logu quale monumento storico giuridico, cit, p. 31 ss; A. MARONGIU, Sul probabile redattore della Carta de Logu d'Arborea, in studi economici e giuridici, cit , p.61 ss.
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Carta de Logu «agentes et consentientes pari poena puniuntur», che sembra essere un richiamo esplicito al diritto canonico. Che tale diritto fosse infatti effettivamente applicato in Sardegna è testimoniato dalla presenza di monasteri e di una numerosa popolazione ecclesiastica che dovette osservarlo e farlo osservare ai laici. Il diritto comune si fondava infatti su una stretta congiunzione tra ordinamento civile e canonico, risultato del legame necessario tra vita temporale e spirituale dell'uomo88. Tra gli storici si è investigato molto su chi avesse affiancato la Giudicessa alla preparazione degli istituti contenuti nella Carta. Da un lato il richiamo al diritto romano e dall'altro quello al diritto canonico portò alla conclusione che si trattasse di uno o più giuristi versati in ambedue i rami del diritto.
2. Diritto criminale romano nella Carta de Logu
L'imperatività del diritto romano sembra essere stata riconosciuta dalla legislatrice nella parte
in cui tratta il diritto penale e più
88 E. CORTESE, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, in appunti di storia giuridica sarda, cit., p. 136.
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precisamente nel delitto di lesa maestà “De chi consentirit, over trattarit sa morti, over offensioni nostra, over de alcunu heredi nostru”: Ordinamus chi si alcuna persona trattarit e consentirit chi Nos, over alcunu figiu nostru, ove donna nostra, o figios nostros, o donna issoru, esseremus offensidos o fagherit offender e consentiris chi esseremus offensidos, deppiat esser posta supra unu carru ed attanaggiada per totu sa terra nostra de Aristanis, e posca si deppiat dughiri attanaggiandolla infini assa furca, ed innie s' infurchit ch' indi morgiat; ed issos benis suos totu deppiant esser appropiados assa Corti nostra, dummodo chi sa donna sua coyada assa sardisca, over a dodas, non perdat sa parti sua in casu chi non si accatarit culpabili in alcun attu. E si alcuna persona, chi esserit in su dittu trattadu, illu fagherit a intender a Nos, innantis chi Nos illu ischiremus, siat illi perdonada sa ditta pena e nondi siat punida, e deppiat haviri premiu e gracia dessu expalesari chi hat a haver fattu dessu dittu erru trattadu89
Tale Capitolo sembra rifarsi
alla “Lex Cornelia de sicariis et
veneficiis” emanata da Silla nell'81 a. C, nella parte in cui equipara al colpevole colui che avesse solo concorso all'esecuzione del reato90. 89 F. C. CASULA, La “Carta de Logu” del regno di Arborea, traduzione libera e commento storico, Sassari 1995, p. 35. 90 Lex romana Cornelia, fatta adottare da Silla nell'81 A.C. , « il provvedimento deferiva al giudizio della quaestio non soltanto l' omocidio perpetrato con armi ma anche altre azioni criminose come l'incendio doloso o la corruzione che pur essendo solo indirettamente suscettibili di cagionare la morte costituivano comunque un pericolo per la pace sociale. L'obiettivo era quello di colpire gravi forme di attentato alla sicurezza comune, il solo tentativo quindi veniva considerato come figura di reato perfetto».
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Tale osservazione è stata rilevata anche dal Marongiu nella sua analisi sull'elemento soggettivo del reato91. Eleonora avrebbe infatti fondato l'affermazione o l'esclusione della responsabilità e la commisurazione della pena sul diritto romano . In particolare, ciò emerge a proposito della distinzione tra dolo e colpa e dall'importanza attribuita all'elemento soggettivo del reato, ovvero, se il reato fosse stato compiuto deliberatamente oppure no. Presupposto necessario per la punibilità del reato era la coscienza della criminosità92. La stessa presenza dell'elemento soggettivo (dolo) si riscontrava nel subordinare l'applicazione della pena per l'uso della falsa scrittura usata fraudolentamente e con consapevolezza93. Nella Carta si possono riscontrare fattispecie di omicidio già rilevanti per il diritto romano, come nel caso di omicidio per legittima difesa. L'impunibilità di tale tipologia di omicidio doveva essere provata da testimoni di indiscussa affidabilità, in ragione del loro 91 A. MARONGIU, Delitti e pene nella Carta de Logu di Arborea, Milano 1940, p.81 ss. 92 A. MARONGIU, Delitti e pene nella Carta de Logu di Arborea,cit, p.81 ss. 93 F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p. 65; Cfr, F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno di Arborea, cit, p. 61, cap 25 « E si alcuna persona bettirit carta de nodayu a Corona chi esserit falsa, ed usaritilla maliciosamenti, conoscendo cussu ch' ill'hat a battiri chi esserit falsa, siat tentu e missidu in pregioni, e condannadu in arbitriu nostru».
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ruolo sociale, entro i quindici giorni successivi alla data fissata dall'armentargiu de logu al fine di attestare l'esistenza della legittima difesa94. I giuristi imperiali ritenevano che la legittima difesa fosse lecita in base alla vigenza del principio di ius naturale che lo considerava come facoltà naturale dell'uomo, necessaria per la difesa della propria incolumità, purché si dimostrasse l'assenza dell'animus occidendi95. A tal proposito il Sini sostiene che “per quanto riguarda le fonti romane del capitolo III della Carta de Logu, sembrerebbe più affidabile ricercare nel Codex Iustinianus i testi, da cui i compilatori arborensi hanno desunto il principio della non punibilità dell'omicidio commesso a scopo di legittima difesa: potrebbe trattarsi, in particolare, del libro IX, titolo XVI (Ad legem Corneliam de sacariis)”96. In questo modo i cittadini appaiono favoriti dalla buona legge, la 94 Cfr, P. SATTA-BRANCA, Il comune di Sassari nei secoli XIII e XIV, cit, p. 140 « Si dovette attendere la Carta de Logu perchè in Sardegna, dove le tradizione del diritto romano avevano vissuto tanto a lungo, fosse riconosciuto in tutta la sua estensione il ius inculpatae tutelae »; F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p. 88-89. 95 Cfr, F. SINI, Comente comandat sa lege, diritto romano nella Carta de Logu del regno di arborea, cit, p. 103. 96 Cfr, F. SINI, Comente comandat sa lege, diritto romano nella Carta de Logu del regno di arborea, cit, p. 103.
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legge naturale, rispondente in maniera equa ai rapporti e che ha come fine quello di consentire una vita civile migliore, quella terrena, voluta da Dio e assegnata agli uomini. Altre fattispecie di omicidio considerate rilevanti riguardano l'enunciazione della pena per l'omicidio volontario, comminate sulla base di un preciso richiamo all'osservanza del diritto romano che consisteva nella decapitazione in luogo pubblico97. Eleonora codificava il principio che di fronte alla pena capitale non fosse possibile per il colpevole riscattare la condanna con il pagamento di una somma di denaro98. Secondo Francesco Sini, la collegialitĂ del giudizio sardo, lo svolgimento del processo, l'atto introduttivo alla discussione della causa e i termini previsti per l'impugnazione erano riconducibili al diritto romano99. Nella monografia Comente comandat sa lege, il Sini esprime la sua convinzione che la Carta de Logu abbia attinto i modelli normativi 97 F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno d'Arborea, cit, p. 36 ÂŤVolemus et ordinamus chi si alcuna persona occhirit homini, ed est indi confessa in su judiciu, over convinta secundu chi s' ordini dessa ragioni cumandat, siat illi segada sa testa in su logu dessa Justicia per modu ch' indi morgiatÂť 98 F. SINI, Comente comandat sa lege, , cit, p.84 ss. 99 F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p. 126 ss.
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riguardanti la legittima difesa dal titolo XVI del libro IX del Codex Iustinianus, inoltre sostiene che i compilatori che affiancarono Eleonora nella stesura abbiano fatto riferimento ad altre due costituzioni contenute nel Codex sulle quali vennero regolate le fattispecie dell' omicidio preterintenzionale100. L'osservanza della giustizia appare come preoccupazione costante di Eleonora. Per questo essa intervenne nella costituzione dei giudizi disponendo che in caso di dubbi si dovesse avere un'integrazione del collegio giudicante. Inoltre chiese che la messa in esecuzione della sentenza avvenisse nel termine di dieci giorni, “comente comanda sa lege” , intesa come legge romana101. Esiste coincidenza con le disposizioni del diritto romano anche nel sistema delle pene che sembrano essere le stesse: morte per spada, forca o rogo, accecamento, taglio di mani o di orecchie, fustigazione, bollatura, bando e confisca, multe. 100 F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p. 103 ss , a sostegno della sua tesi pone a confronto il cap 3 della Carta de Logu con il titolo del Codex « Eum, qui adseverat homicidium se non voluntate, sed casu fortuito fecisse, cum calcis ictu mortis occasio praebita videatur, si hoc ita est neque super hoc ambigi poterit, omni metu ac suspicione, quam ex admissae rei discrimine sustinet, secundum id quod adnotatione nostra comprehensum est volumus liberari». 101 F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p. 81 ss; Cfr, E. CORTESE, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, in appunti di storia giuridica sarda, cit, p. 134 «l' ancoramento della civiltà sarda alla romanità non era lasciato alle sopravvivenze bizantine nelle consuetudini, ma era in qualche modo mantenuto vivo dallo ius commune, destinato a modellare la prassi. Uno ius commune che verrà denominato ratio scripta».
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Disposizioni in cui appare evidente la corrispondenza con il diritto giustinianeo, per il Cortese è la regolamentazione delle notifiche, di cui si chiede la forma scritta. Si poteva ripetere la notifica per tre volte dopo di che diveniva perentoria e sollecita, se il convenuto continuava a non rispondere lo si dichiarava in contumacia. Questo consentiva la missio in possessionem dell'attore nei beni del convenuto; dopo un anno di disobbedienza all'ordine di comparizione, l'investitura dell'attore nel possesso provvisorio si trasformava in un diritto di proprietà definitivo102. Sembra quindi che le consuetudini sarde siano l'esito di un lavoro durato secoli su un materiale appartenente al complesso mondo giuridico romano.
3. Riferimenti allo Ius civile nella Carta de Logu
La parte del diritto che piĂš delle altre riflette la tradizione dell'antico, ispirata al diritto romano, fu la legislazione in tema di diritto civile. Eleonora sembra aver attinto al diritto romano per 102 E. CORTESE, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, in appunti di storia giuridica sarda, cit, p. 124.
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quanto concerne la disciplina in tema di prescrizione dei diritti, di successione ereditaria e in di particolar modo la comunione dei beni tra i coniugi103. Per quanto riguarda il tempo di prescrizione per l'acquisizione di un diritto, esso variava a seconda della persona contro cui avveniva la prescrizione, o della condizione in cui si trovava in quel momento o ancora dal titolo giuridico sopra cui era fondato il diritto che si modificava, differenze in cui si può scorgere l'influenza dell'antico diritto104. La struttura della famiglia restò fondamentalmente quella prevista dal diritto romano. La donna rimase in una condizione di inferiorità, ma con la differenza, rispetto al diritto romano, che poteva essere tutrice dei propri figli e poteva essere titolare di una propria attività. Si mantenne più rigido il concetto di patria potestas
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, il padre
103 Cfr, F. C. CASULA, La carta de Logu del regno di Arborea, cit, p.144, il matrimonio alla sardesca o a dote. Al contrario del matrimonio “ alla pisana”, il matrimonio alla “ sardesca” non lasciava in possesso totale del marito la dote della moglie ed i beni acquisiti in comune dopo il matrimonio. Sicchè, in caso di separazione o condanna del marito, alla moglie spettava la metà del patrimonio comune. In Sardegna la dote non era obbligatoria; ma, se veniva concessa il padre della donna non era poi obbligato a lasciarle più niente in eredità ( cap. XCVIII ). 104 P. Satta. Branca, Il comune di Sassari nei secoli XIII e XIV, in studio storico giuridico, cit, p. 132. 105 Cfr, F.C. CASULA, La Carta de Logu del regno di Arborea, cit, Capitolo 9 p.43 in cui si dichiarano non punibili il marito, il padre il fratello che abbiano procurato ferite a mugeri o figiu o fradi carrali o sorre o nebodi de fradi o ver de sorri o ver de famigiali suo chi istarit ad imparare, in quanto rientrava nel potere degli uomini batteri e castigare acconzadamenti; Cfr
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poteva ferire il figlio, e poteva diseredare106 la prole ingrata e irriverente107. Sembra essere di derivazione romanistica anche il sistema dotale che trae origine dagli usi vigenti in età giustinianea. In questo periodo erano vigenti in Sardegna due regimi matrimoniali: la comunione fra coniugi e il sistema romano della dote, adottato con qualche modificazione sull'esempio degli altri popoli108. Nel matrimonio sardesco entrambi i coniugi sopportavano in parti uguali i debiti contratti dal marito per il vantaggio comune, solo l'uomo però era obbligato personalmente al creditore, mentre, l'obbligazione della moglie sorgeva alla morte del coniuge. La vedova non era soggetta a prigionia ma doveva servire il creditore per un prezzo annuo determinato dalla legge. Quest'uso risulta analogo a quello romano che attribuiva al genitore e al padrone il diritto di dare F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p. 55. 106 Cfr, F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno d'Arborea, cit, Capitolo 97 p. 123 « Volemus ed ordinamus chi nixuna persona dessu Rennu nostru de Arborèe usit nen deppiat deseredari figios over nebodis nados dessos figios, dessas raxonis chi s' ilis hant a apartenni pro s' heredadi dessu padri, over dessa mamma issoru; salvu si su padri over sa mamma assa morti issoru volerint narri ed opponerint contra sos figios, over nebodi, justa occasioni, pro sa quali illos deberint deseredari. E sa ditta occasioni si deppiat provari legittimamenti peri su a chi hant a haviri lassadu sos benis issoru, infra unu mesi dae sa die dessa morti dessu testadori». 107 E. BESTA, Il diritto sardo nel medioevo, cit, p. 24. 108 P. SATTA. BRANCA, Il comune di Sassari nei secoli XIII e XIV, in studio storici giuridico, cit, p. 118 ss.
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a noxa il figlio ed il servo per risarcire chi era stato da loro danneggiato, si dava inoltre facoltà alla debitrice di esimersi dalla servitù attraverso il pagamento di una somma di denaro109. Del pari sembra essere stato regolato il diritto successorio. In Sardegna la facoltà di testare fu senza limiti, non si aveva successione obbligatoria e non si configurò neanche il trattamento differenziato tra maschi e femmine che si riscontra invece nelle terre dominate dai barbari 110. Nel tema delle successioni lo storico Zirolia ricorda però
la
differenziazione posta in essere dalla giudicessa tra maschi e femmine che sembra un riferimento non occasionale al diritto romano. l'esempio è offerto dal capitolo XCVIII della Carta de Logu, in cui si regola il caso della figlia sposata con la dote a cui non si riconosce alcun diritto sull'eredità del defunto genitore in quanto già dotata al momento del matrimonio dal defunto111. Seppure tali istituti non siano stati imposti ai sardi, la lunga
109 P. SATTA. BRANCA, Il comune di Sassari nei secoli XIII e XIV, cit, p.118. 110 E. BESTA, Il diritto sardo nel medioevo, cit, p.25. 111 G. ZIROLIA, Ricerche storiche sul governo dei giudici in Sardegna e relativa legislazione, Sassari 1987, p. 179,; F. SINI, Comente comandat sa lege, cit, p. 141.
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dominazione influì nella formazione degli usi e delle consuetudini che sopravvissero anche dopo l'abbattimento del « Colosso romano»112. Per alcuni storici sarebbe più esatto ricollegare tali similitudini alla pratica sarda, che nonostante le numerose invasioni continuò il suo sviluppo indipendentemente dalle varie situazioni a cui era soggetta, diventando un prodotto spontaneo del popolo sardo113.
112 E. BESTA, Il diritto sardo nel medioevo, cit, p. 8. 113 E. MURA, Sulla natura giuridica e sulle origini della comunione dei beni tra i coniugi nella Sardegna medioevale, in Archivio storico sardo di Sassari, Sassari 1976, p. 143.
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Capitolo III
IL MATRIMONIO E LA CAPACITA' SUCCESSORIA
I. Diritto romano
1. Il matrimonio nel diritto romano
ÂŤIl matrimonio contemplato dall'ordinamento giuridico nell'antica Roma era un istituto regolato dal costume, dalla morale e dalla religione prima ancora che dal dirittoÂť114. Esso consisteva nella convivenza stabile di due persone di sesso diverso accompagnata dalla volontĂ costante di vivere in unione monogamica come marito e moglie115. Il vincolo coniugale sorgeva per effetto del consenso iniziale dei nubendi, espresso attraverso forme determinate, fossero essi sui iuris o filii familias116 . Qualora uno o entrambi i coniugi si trovassero nella 114 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, Roma 2003, p. 9. 115 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, fatti e negozi giuridici, persone e famiglia, Palermo 1986, p. 290. 116 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, il matrimonio romano, Roma 1960-61, p.121.
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condizione di filii familias, perché si avesse un matrimonio legittimo occorreva che il pater familias interponesse la propria auctoritas, cioè il proprio consenso all'unione117. Il padre che fosse esso stesso filius familias, doveva prestare ugualmente la propria auctoritas in aggiunta a quella dell'ascendente pater familias, in quanto alla morte di questo avrebbe acquistato ipso iure la patria potestas sul proprio figlio118. Tale tipo di consenso aveva una duplice natura: patrimoniale, in quanto consentiva l'acquisizione nel proprio patrimonio di tutti gli acquisti degli agnati; personale, in quanto si concretizzava nel diritto di decidere sulla vita o la morte degli agnati119. Il consenso di coloro che avevano in potestate i due futuri sposi si differenziava in base al sesso. Per il filius familias, infatti, il consenso doveva essere esplicito e necessario per poter contrarre iustae nuptiae, mentre per la filia familias la situazione era più semplice in quanto, il consenso del pater era visto in modo passivo ed espresso nella forma del non dissentire. Per questo qualora il padre non fosse stato sano di 117 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, Milano 1938, p. 162 ss; R. CANU, La condizione giuridica della donna nel mondo romano: il matrimonio, Sassari 1996-97, p. 30; Così si legge anche in PAUL. L. 23, 2 : nuptiae consistere non puissunt nisi consentiant omnes. 118 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, il matrimonio romano, cit, p. 189 ss. 119 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 25.
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mente si ammetteva per la donna il matrimonio sine patris interventu120. Il pater familias e il tutore si trovavano nella condizione di poter limitare la libertĂ matrimoniale dei loro sottoposti, rifiutando di prestare il loro consenso o, indirettamente per la donna, non costituendo la dote121. La lex Iulia de maritandis ordinibus del 18 a.C. protesse le figlie dall'arbitrio del pater, concedendogli la possibilitĂ di ricorrere al pretore per costringere il padre a prestare il proprio consenso nel caso in cui avesse espresso un rifiuto ingiustificato alle nozze. Nel diritto giustinianeo tale possibilitĂ fu riconosciuta anche ai filii familias122. La dottrina considerava il consenso paterno come elemento qualificante e determinante per la realizzazione del matrimonio, ma da solo non sufficiente a costituire il rapporto in quanto non rappresentava altro che una semplice volontĂ iniziale. La sua importanza consisteva nel fatto di conferire all'affectio maritalis il valore giuridico di cui necessitava per la costituzione di un 120 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit., p.163. 121 R. ASTOLFI, La lex iulia et papia, Milano 1995, p.149. 122 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 163.
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matrimonio legittimo, il quale, dipendeva però dalla sola volontà degli sposi123. La dottrina maggioritaria sostiene che il fondamento del matrimonio romano fosse appunto l'affectio maritalis e l'honor matrimonii. Il Bonfante attribuisce a quest'ultimo elemento un significato eticosociale, che lo porta a considerare l'unione coniugale come la convivenza dell'uomo e della donna sotto l'auctoritas del marito, accompagnata dall'intenzione continua di essere marito e moglie124. Secondo l'Autore sembra dunque non sufficiente per la costituzione di un matrimonio legittimo la sola volontà dei coniugi, ed è da lui ritenuto essenziale anche l'elemento della vita comune. Tale considerazione sembra però non trovare riscontro nelle tesi di chi sostiene che elemento necessario (la sua mancanza comportava lo scioglimento del vincolo) fosse l'affectio maritalis e quindi l'elemento spirituale. Era infatti quest'ultimo che doveva perdurare per tutta la vita, mentre la convivenza poteva cessare in qualsiasi momento per
123 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, il matrimonio romano, cit, p. 195. 124 P. BONFANTE, Corso di diritto romano, Roma 1925, p. 191.
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cause indipendenti dai coniugi125. Il venir meno dell'elemento materiale avrebbe fatto presumere la cessazione dell'elemento spirituale e quindi un eventuale, anche se non certo, scioglimento del vincolo126. Per stabilire il perdurare o meno del matrimonio occorreva un'indagine
intorno
all'esistenza
delle
circostanze
di
fatto,
rappresentate dall'honor matrimonii, cioè il continuare a trattarsi come marito e moglie nonostante la lontananza e dall'elemento interiore, l'affectio maritalis127. La convivenza risultava non necessaria affinchÊ si configurasse un matrimonio legittimo, quindi elemento essenziale e costitutivo del matrimonio romano era il consensus 128. Senza l'atteggiamento soggettivo dei coniugi, infatti, non si poteva avere matrimonio ma solo concubinato, per cui il vincolo si scioglieva qualora per uno o per entrambi fosse venuta meno l' affectio maritalis,
125 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, Torino 1991, p. 393. 126 R. CANU, La condizione giuridica della donna nel mondo romano: il matrimonio, cit, p. 46. 127 E. ALBERTARIO, Corso di diritto romano, matrimonio e dote, Milano 1942, p.23. 128 R. ORESTANO, La struttura giuridica del matrimonio romano dal diritto classico al diritto giustinianeo, Milano 1951, p. 188.
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la
quale
avrebbe
dovuto
esteriorizzarsi
in
un
oggettivo
comportamento129. I matrimoni ritenuti in genere i più antichi e solenni a Roma erano quelli cum manu, per effetto dei quali la donna cadeva sotto la manus del marito, mutando il suo status familiae e perdendo ogni legame con i parenti precedenti130. La conventio in manu poteva però non aver luogo, si tratta dei matrimoni definiti dalla dottrina sine manu i quali non comportavano alcuna modifica nello status della donna che avrebbe continuato a sottostare alla patria potestas del padre pur andando a vivere nella casa del marito131. Inizialmente quest'ultima tipologia di matrimonio rappresentava l'eccezione, mentre durante il principato i matrimoni sine manu prevalgono portando alla decadenza di quelli cum manu132. 129 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 290; D. 24, 1, 32, 13 (Ulp.33 ad Sab): “ Si mulier et maritus diu seorsum quidem habitaverin, sed honorem invicem matrimonii habebant, puto donationes non valere, quasi duraverint nuptiae: non enim coitus matrimonium facit, sed maritalis adfectio”; e ancora in D. 50, 17, 30 (Ulp 36 ad Sab) troviamo “ Nuptias non concubitus, sed consensus facit”. 130 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, cit, p. 98. 131 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit, p.291. 132 Cfr, M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit, p.291; G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, il matrimonio romano, Roma 1975, p. 39 «...in un punto essenziale e fondamentale si veggono coincidere appieno, parlo sempre giuridicamente. Coincidono cioè, siccome già accennai e giova precisaare in questo: che l'uomo soltanto, marito e padre, era e rimaneva la famiglia, che se ne costituiva o ne poteva risultare, o, meglio, ch'era già in lui
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La donna, per il tramite del matrimonio cum manu e se sui iuris, assumeva la posizione giuridica di figlia (loco filiae), mentre se il marito si trovava ancora sotto la potestas del padre entrava a far parte della famiglia come una nipote ( loco neptis)133. La
conventio
in
manu,
come
giĂ
visto,
comportava
l'assoggettamento della donna al marito o al padre di lui, essa veniva immessa attraverso la celebrazione nella casa del marito (deductio in domu mariti). Tale tipo di matrimonio doveva rispettare forme predeterminate, tre erano i modi di celebrazione: la confarreatio, la coemptio, l'usus134. La confarreatio altro non era che un matrimonio religioso attraverso cui i due nubendi compivano un sacrificio al padre degli dei, Giove135. I nubendi recitavano parole solenni alla presenza di dieci testimoni e con la partecipazione del flamen Dialis che gestiva il momento in cui veniva offerto il panis farreus136. medesimo costituita, o nel pater familia di lui. Non poteva essere l'inverso, ossia della donna soltanto....La donna viene sempre a procreargli famiglia, o meglio continuazione di famiglia, ma senza scemare mai per nulla in diritto, che la famiglia sia tutta di luiÂť. 133 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p.101. 134 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, cit, p. 93. 135 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p.34. 136 G. PUGLIESE, Isituzioni di diritto romano, cit, p. 102.
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Il consumo del pane sacrale rappresentava il primo pasto rituale dei coniugi e simboleggiava l'inizio di una nuova comunione di vita137. Per
alcuni Autori
i
dieci
testimoni
rappresentavano
una
corrispondenza con le dieci curie costituenti la tribĂš cui apparteneva il marito. Per altra parte della dottrina, si ritiene che il numero di dieci sia la somma dei cinque testimoni spettanti all'uomo con gli altrettanti spettanti alla donna138. La presenza dei decem testes sembrerebbe rappresentare un indizio della partecipazione della comunitĂ nella celebrazione di un atto idoneo a modificare l'assetto interno della famiglia139. La
confarreatio sembrerebbe rappresentare una celebrazione
esclusiva del patriziato, che avrebbe impedito ad esponenti dell'ordine plebeo di accedere ad una struttura sacrale implicante la presenza del Pontifex maximus140. Con il tempo proprio la crescente diffusione di matrimoni patriziplebei potrebbe aver portato alla decadenza di tale forma di 137 P. GIUNTI, Consors vitae, matrimonio e ripudio in Roma antica, Milano 2004, p. 347. 138 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p.34. 139 P. GIUNTI, Consors vitae, matrimonio e ripudio in Roma antica, cit, p.345. 140 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, il matrimonio, cit, p. 93.
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celebrazione141. La coemptio a differenza della confarreatio presupponeva uno schema
negoziale
integralmente
laico
privo
di
qualsivoglia
simbolismo religioso142. Questo altro non era che una compera fittizia della donna alla presenza di cinque testimoni che avveniva attraverso la macipatio e in cui il compratore era il marito e il venditore il padre della sposa143. Caratterizzata da uno scambio formale fra contraenti che permetteva l' acquisto della manus tramite un gestum per aes et libram e con l'intervento del libripens che altro non era se non un funzionario pubblico144. Essa si svolgeva nel rispetto di formalità solenni, quali, l'utilizzo di una bilancia e di un pezzo di rame e la pronuncia di precise espressioni, dopo di che la donna si assoggettava in qualità di moglie al marito145. 141 P. GIUNTI, Consors vitae, matrimonio e ripudio in Roma antica, cit, p. 347. 142 P. GIUNTI, Consors vitae, matrimonio e ripudio in Roma antica, cit, p. 378. 143 R. CANU, La condizione giuridica della donna nel mondo romano: il matrimonio, cit, p. 60 ss; Cfr, G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, il matrimonio romano, cit, p. 21 « Certo è che nella società umana le solenni nozze e quindi i casati maritali non incominciarono altrimenti che dal ratto e dalla compera delle donne di diversa tribù dalla propria, ne si fondarono su altri diritti che quelli della preda e del dominio». 144 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 32; P. GIUNTI, Consors vitae, matrimonio e ripudio in Roma antica, cit, p.381. 145 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p.102.
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Qualora ne coemptio ne cofarreatio venissero compiute o uno degli elementi essenziali fosse risultato difettoso l'acquisto della manus poteva avvenire attraverso l' usus146. In questo caso il matrimonio sorgeva a seguito dell'esercizio di fatto della manus sulla donna protratto per un anno, alla scadenza di detto termine annuale la donna avrebbe assunto la qualifica di mater familias147. Un'unione questa che solo attraverso un percorso progressivo avrebbe potuto raggiungere la qualifica piena e il regime del matrimonio148. Si trattava di una sorta di usucapio, i cui effetti erano però condizionati alla continuità dell'esercizio di fatto, inoltre, l'intenzione doveva essere quella di ottenere lo stesso effetto della coemptio dovendo esserci l'animus capiendi e sibi habendi149. Un impedimento all'acquisizione della manus per il marito poteva essere l'abbandono da parte della donna del tetto coniugale per un tempo superiore alle tre notti, definito dalla dottrina usurpatio
146 P. BONAFANTE, Corso di diritto romano, cit, p. 138. 147 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 102. 148 P. GIUNTI, Consors vitae, matrimonio e ripudio in Roma antica, cit, p. 219. 149 G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, il matrimonio romano, cit, p. 56
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trinocii150. Questo appare quindi come un istituto
per la cui concreta
realizzazione era indispensabile il consenso della donna e la cui introduzione sembra da ricondurre ad un interesse specifico e a un comportamento attivo della stessa151. L'usus sembrerebbe rappresentare, per le donne un modo per evitare il matrimonio cum manu e contrarre quindi nozze libere.
2. I presupposti del matrimonio
I romani usavano far precedere al matrimonio gli sponsali che consistevano nella promessa di futuro matrimonio152. Nel periodo preclassico pare che questi avessero l'efficacia di una vera e propria sponsio e per questo obbligatoria, la donna assumeva la qualifica di sponsa e l'uomo di sponsus153. Con il tempo però perdono tale peculiarità, non obbligando più i fidanzati alla celebrazione delle 150 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 37. 151 L. PEPPE, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età Repubblicana, Milano 1984, p. 101 ss. 152 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 157. 153 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 157.
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nozze o non dando luogo a nessuna condanna pecuniaria nel caso in cui la promessa non fosse stata mantenuta154. Essendo il matrimonio un rapporto di fatto, perché si avesse un iustum matrimonium si esigeva il rispetto di alcuni presupposti stabiliti dal diritto. Nel capitolo 5. 2 del Tituli ex corp. Ulpiani, viene espressa la concezione classica di iustum matrimonium, di cui si elencano i requisiti: Iustum matrimoniium est, si inter eos, qui nuptias contrahunt, conubium sit, et tam masculus pubes quam femina potens sit, et utrique consentiant si sui iuris sunt autem gratiam parentum eorum si in potestate sunt155. Primo presupposto era, quindi, il raggiungimento dell'età pubere avente una duplice rilevanza: sotto l'aspetto della maturazione
154 Cfr, G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 394 «Ciò spiega perchè abbandonata la forma della sponsio essi potessero concludersi nudo consensu, oralmente o per iscritto; al periodo vigeva inoltre il divieto di binae sponsalia, cioè di due sponsali contemporaneamente, accomunato al divieto di binae nuptiae». 155 Trad. «Si ha legittimo matrimonio tra coloro che contraggono le nozze vi sia il connubio e sia il maschio pubere e la femmina fisicamente idonea ed entrambi acconsentano, se sono sui iuris o (acconsentano anche i loro ascendenti se sono in loro potestà); C. FAYER La familia romana, cit, p.388.
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intellettuale, perché necessaria al formarsi di un valido consenso, e sotto quello della maturazione sessuale in quanto necessaria per la soddisfazione psico-fisica dei coniugi e per la procreazione156. Si fece differenza in proposito tra maschi e femmine, perché per le femmine la potentia si riteneva raggiunta al compimento del dodicesimo anno di età mentre, per i maschi ci si attenne inizialmente al criterio di decidere caso per caso in base allo sviluppo fisico (habitus corporis) e alla capacità di generare157. Tesi questa sostenuta dalla scuola dei Sabiniani. Per i Proculiani, invece, l'età pubere per un ragazzo era da ritenersi raggiunta con il compimento del quattordicesimo anno di età, questa fu la tesi che infine prevalse, come testimonia Gaio in: Masculi autem cum puberes esse coeperint, tutela liberatur. Puberem autem sabinus quidem et Cassius ceterique nostri praeceptores eum esse putant, qui habitu corporis pubertatem ostendit, id est eum qui generare potest; sed in his qui pubescere non possunt, quales sunt spadones, eam aetatem esse spectandam, cuius eatatis puberes fiunt; sed diversae scholae auctores annis putant pubertatem aestimandam, id est eum puberem esse axistimant qui XIII annos explevit158 156 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, Bologna 1986, p. 431. 157 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p.162. 158 Gai. Inst. 1. 196; M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, fatti e negozi giuridici, persone e famiglia, cit, p.346.
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Alcune fonti indicano che per stabilire ed accertare la pubertà il ragazzo venisse sottoposto ad una ispezione corporale, questa però sembrerebbe essere stata utilizzata dai romani più per accertare la fine della tutela che non per stabilire la capacità a contrarre matrimonio159. Il raggiungimento dell'età pubere veniva solennizzato attraverso la celebrazione di un rito privato di carattere sacrale, in cui veniva compiuto un sacrificio in onore delle divinità e in cui veniva offerta una bulla, cioè un ciondolo che nella Roma antica tutti gli infantes portavano al collo160. Ulteriore presupposto era la sanità mentale, infatti, il furiosus non avrebbe potuto contrarre matrimonio in quanto considerato incapace, solo la pazzia sopravvenuta non comportava lo scioglimento del vincolo già in atto161. Nell'ordinamento
giuridico
antico,
contrariamente
a
quello
moderno, non esisteva l'uguaglianza tra individui. Questi erano infatti suddivisi in categorie e classi. Ad ognuna veniva riconosciuta una
159 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, il matrimonio romano, cit, p.184. 160 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 23-24. 161 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 395.
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diversa personalità e capacità giuridica o addirittura la mancanza di ogni personalità, come accadeva qualora ci si trovasse in condizione di schiavitù162. Essenziale nella nozione giuridica di matrimonio romano e in genere in quella del mondo classico era quindi l'elemento del conubium. Una capacità matrimoniale collegata al possesso della cittadinanza romana, in mancanza della quale non sarebbe potuto sorgere un legittimo matrimonio163. Tale presupposto difettava nei confronti di un soldato con una donna residente nel luogo in cui l'uomo si trovava in forza del suo incarico e, ancora, nei confronti di un cittadino romano
il quale
avesse contratto matrimonio con una straniera, salvo il caso di apposita concessione164. Inoltre, era vietato prendere in moglie una qualunque donna. Ci si doveva astenere dalle nozze con i parenti in linea retta, qualunque fosse il grado di parentela. Nel sottoperiodo preclassico il conubium
162 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, il matrimonio romano, cit, p.160. 163 E. ALBERTARIO, Corso di diritto romano, matrimonio e dote, cit, p. 157; R. BONINI, Corso di diritto romano, il diritto delle persone nelle Istituzioni di Giustiniano, Rimini 1984, p. 128. 164 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p.20.
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mancava fino al quarto grado. Qualora tali soggetti avessero contratto nozze queste sarebbero state considerate incestuose165. L'adoptiva cognatio impediva la celebrazione del matrimonio tra parenti in linea retta. Tale divieto perdurava anche dopo lo scioglimento del vincolo di adozione. Diversa era la situazione per i parenti in linea collaterale in quanto, in questo caso, il divieto di conubium cessava nel momento in cui si rompeva il vincolo agnatizio166. Per quanto riguarda l'unione tra patrizi e plebei, il divieto di conubium fu rimosso con l'emanazione della Lex Canuleia nel 445 a. C. Ulteriori divieti furono invece imposti sotto Augusto, con la lex Iulia de maritandis ordinibus del 18 a. C. che vietava le nozze tra ingenui e donne di cattiva reputazione e ancora tra senatori e i loro discendenti. La stessa lex vietò il matrimonio anche con liberte e figlie di gente di teatro167. Lo scopo del difetto assoluto di conubium era quello di preservare 165 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 433; R. BONINI, Corso di diritto romano, Il diritto delle persone nelle Istituzioni di Giustiniano, cit, p.131. 166 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 161. 167 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, fatti e negozi giuridici, persone e famiglia, cit, p.294.
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la cittadinanza romana e allo stesso tempo preservare quelli che erano i privilegi giuridici, economici e sociali del patriziato. Inoltre, rendendo legittimo il matrimonio, riconnetteva i figli al padre facendoli nascere cittadini romani e in potestĂ di lui168. PerchĂŠ il matrimonio venisse riconosciuto dall'ordinamento romano come legittimo occorreva, come detto in precedenza, il consenso degli sposi o di coloro che li avevano in potestate. Con Marco Aurelio fu riconosciuta la possibilitĂ ai figli dei mente capti di contrarre nozze legittime, e con Giustiniano questa concessione finĂŹ col ricomprendere i liberi cuiuscumque sexus non solo del demens ma anche del furiosus grazie all'intervento di altri soggetti come il praefectus urbi insieme al curatore del padre infermo e ai parenti169.
3. Impedimenti e scioglimento del matrimonio
La dottrina romanistica moderna sotto la denominazione di condizioni relative al matrimonio presupponeva alcune situazioni che impedivano, in forza di apposite norme di diritto positivo, la 168 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 160. 169 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p.163.
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formazione di un matrimonio tra determinate persone170. Sarebbe errato definire tali situazioni come impedimenti, in quanto questi potrebbero configurarsi solo in una società in cui a tutti gli uomini è riconosciuta la possibilità di contrarre matrimonio e la capacità di intendere e volere, cosa che, come si è potuto notare, non accadeva a Roma171. Durante il corso della vita coniugale poteva capitare che venisse meno il conubium a causa della perdita della libertà o della cittadinanza di uno dei coniugi o nel caso di un atto di adozione172. In tema di cittadinanza alcuni testi escludono lo scioglimento del matrimonio in caso di interdictio aqua et igni e di deportatio in insulam, qualora rimanesse vivo nell'altro coniuge l'elemento spirituale dell' affectio meritalis, ma queste tesi sono in dubbio173. La prigionia di guerra comportava, infatti, la perdita dello status libertatis e il matrimonio si scioglieva ipso iure, anche se poteva essere ripristinato ricorrendo alla fictio postliminii al momento del 170 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, il matrimonio romano, cit, p. 341. 171 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, il matrimonio romano, cit, p. 341. 172 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano,cit, p. 168; G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, Il diritto romano nel divorzio, Roma 1975, p. 182. 173 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 437.
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ritorno in patria del prigioniero, quando entrambi riacquistavano quella capacitĂ giuridica di cui la prigionia li aveva privati174. Usciti dallo status di captivitus, affinchĂŠ il matrimonio avesse valore legale occorreva una nuova celebrazione175. Nel periodo giustinianeo, prima che la captivitas causasse lo scioglimento del vincolo matrimoniale, il coniuge avrebbe dovuto attendere cinque anni. Dopo di che sarebbe stato libero di contrarre nuove nozze. Qualora si fosse sposato prima di tale termine incorreva nelle pene previste per il divorzio illecito176. Poteva capitare che entrambi i coniugi cadessero in prigionia, tale situazione era causa di scioglimento del matrimonio anche qualora l'unione tra i due fosse continuata. Il figlio eventualmente nato in questa condizione veniva considerato come spurio, avrebbe poi acquistato lo status di figlio legittimo nel momento in cui entrambi i genitori fossero tornati in patria177. 174 R. ORESTANO, La struttura giuridica del matrimonio romano dal diritto classico al diritto giustinianeo, cit, p. 148. 175 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, il matrimonio romano, cit, p. 323; D. 49, 15, 12, 4 : sed captivi uxor, tametsi maxime velit et in domo eius sit non tamen in matrimonio est. 176 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 168 . 177 R. ORESTANO, La struttura giuridica del matrimonio romano dal diritto classico al diritto giustinianeo, cit, p. 117.
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La prigionia era causa di scioglimento non per il venir meno dell'elemento materiale, la convivenza, ma perchÊ privava i soggetti di una qualsivoglia capacità giuridica178. Altri impedimenti potevano sopraggiungere quando, ad esempio, mutava il rango sociale di uno dei coniugi, comportando la configurazione di uno dei matrimoni vietati dalla lex Iulia de maritandis ordinibus179. Due erano le categorie di divieti previsti da tale legge, quelli speciali, riguardanti gli appartenenti all'ordine senatorio, e quelli generali, riguardanti gli ingenui,cioè coloro nati liberi180. Proibiti risultavano quindi quelli tra un senatore e una libertina, divieto che trovava conferma anche nella lex Papia et Poppaea del 9 d. C. e che viene meno poi con Giustiniano181. Ancora, nel caso in cui il padre o la madre della moglie avessero iniziato ad esercitare l'arte teatrale, anche in questo caso vigeva l'obbligo della separazione. Con Giustiniano fu limitato solo nei 178 R. ORESTANO, La struttura giuridica del matrimonio romano dal diritto classico al diritto giustinianeo, cit, p. 118 ss. 179 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 169. 180 R. ASTOLFI, La lex iulia et papia, milano 1995, p. 93. 181 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, il matrimonio romano, cit, p. 348 ss; S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p.170.
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confronti del marito la cui moglie avesse iniziato ad esercitare l'ars iudicra182. Il
matrimonio
romano
poteva
dunque
sciogliersi
indipendentemente dalla volontà dei coniugi, qualora uno o entrambi fossero stati sottoposti a una capitis deminutio maxima, media o minima, dovute rispettivamente a una modifica dello status libertatis, civitatis o familiae183. Chi perdeva la libertà o la cittadinanza cadeva in una situazione peggiore di chi subiva una capitis deminutio minima, la quale si poteva avere per tre diverse ragioni: l'emancipazione, l'adozione, l'arrogazione. Con la prima il figlio usciva dalla patria potestas e diveniva sui iuris; con l'adozione si aveva il passaggio dalla potestà di un padre a quella di un altro; con l'arrogazione il pater familias si sottoponeva alla potestà di un altro pater acquistando lo status di filius184. La capitis deminutio maxima faceva cessare il matrimonio ipso iure, quella media invece non interferiva sulle unioni sine manu in 182 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 170. 183 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'Antica Roma, cit, p.44. 184 P. VOCI, Manuale di diritto romano, Milano 1984, p. 255
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quanto
configurabili
come
matrimoni
iuris
gentium,
purchĂŠ
continuasse a persistere tra loro l'affectio maritalis185. Limitati erano anche gli effetti della capiti deminutio minima: il minutus vedeva estinguersi l'agnatio nei confronti dei suoi parenti d'origine, mentre nessuna conseguenza causava nei confronti della cognatio e del matrimonio186. Se tali cause fossero esistite fin dal principio il matrimonio non avrebbe potuto costituirsi, ed è proprio a causa dell'esistenza di un diretto divieto di legge che si aveva la rottura del vincolo187. Essendo il matrimonio convivenza e insieme affectio maritalis esso si scioglieva oltre che per i motivi sopra accennati anche per il venir meno in uno, o in ambedue i coniugi, dell'elemento spirituale. Si parlò al riguardo di divortium e con riferimento ai casi di divorzio unilaterale di repudium188. Il divorzio era una conseguenza della concezione che si aveva a 185 G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, Il diritto romano nel divorzio, cit, p. 250 ss. 186 P. VOCI, Manuale di diritto romano, cit, p. 256 187 G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, Il diritto romano nel divorzio, cit, p. 2-3. 188 G. PUGLIESE, istituzioni di diritto romano, cit, p. 437; M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, fatti e negozi giuridici, persone e famiglia, cit, p. 300; G. PUGLIESE, istituzioni di diritto romano, cit, p. 437.
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Roma del matrimonio, considerato come rapporto basato su un accordo continuo, al cessare del quale il vincolo non poteva perdurare in alcun modo189. Di per sĂŠ lo scioglimento del vincolo non richiedeva il rispetto di alcuna formalitĂ , tanto meno della pronuncia di un organo giurisdizionale o amministrativo. Un problema sorgeva in relazione ai matrimoni cum manu per i quali era necessario il ricorso a negozi formali che, originariamente, non riguardavano direttamente il matrimonio190. Nel diritto antico finchĂŠ il matrimonio mantenne la sua dipendenza dalla manus per ottenere il divorzio era necessaria la sua estinzione, che probabilmente avveniva attraverso la diffarreatio. rappresentava
contemporaneamente
sia
atto
di
Questa
scioglimento
dell'unione che atto volontario di estinzione della manus191. Per quanto concerne il ripudio era uso nella prassi far ricorso ad alcune formalitĂ come il compimento di alcuni atti simbolici,
189 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 170. 190 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, fatti e negozi giuridici, persone e famiglia, cit, p. 301. 191 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 105.
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manifestazione esteriore di una volontà, un esempio era offerto dal gesto di togliere le chiavi o restituirle192. In età antica molti furono i divorzi ingiustificati per questo fu previsto che il marito il quale avesse ripudiato la moglie senza gravi e giustificati motivi sarebbe stato colpito da gravi sanzioni patrimoniali, come la perdita dei beni, la restituzione della dote e il divieto di passare a nuove nozze193. Per la donna le pene invece previste erano più severe: deportazione e perdita di ogni lucro 194. Le cause riconosciute dall'ordinamento erano per
la donna
l'avvelenamento, l'adulterio e l'essere mezzana; per l'uomo, invece, l'omicidio, l'avvelenamento e la violazione di sepolcri195. Nel 331 con Costantino venne data la possibilità alla donna di ottenere il divorzio per giusta causa qualora il marito si fosse reso complice dei tre reati appena ricordati. Ma, allo stesso tempo, le fu vietata la possibilità di contrarre nuove nozze nel quinquennio
192 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, fatti e negozi giuridici, persone e famiglia, cit, p. 301. 193 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, fatti e negozi giuridici, persone e famiglia, cit, p. 301. 194 S. MANLIO, Il diritto privato nella legislazione di Costantino, Milano 1938, p.126 195 S. MANLIO, Il diritto privato nella legislazione di Costantino, cit, p.127
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seguente lo scioglimento del matrimonio. Qualora non avesse rispettato tale divieto sarebbe incorsa nell'infamia. Se si trattava di un divorzio consensuale, in questo caso il tempo di attesa si riduceva di un anno196. Un ulteriore limite previsto per la donna era il rispetto dell'anno di vedovanza che qualora non fosse stato rispettato avrebbe portato al disconoscimento delle nuove nozze197. Differente la situazione per l'uomo, al quale venne riconosciuta la possibilitĂ di contrarre nuove nozze senza dover attendere un biennio o un anno, questa concessione fu fatta solo nel caso in cui avesse ripudiato la moglie per un grave crimen198. Iusta causa viri repudii era anche nell'antica Roma il procurato aborto da parte della moglie in quanto considerato gesto degradante per la famiglia, la quale veniva privata di un soggetto che sarebbe potuto essere rilevante sotto l'aspetto economico e produttivo del nucleo familiare199. 196 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 171 197 G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, Il diritto romano nel divorzio, cit, p. 272. 198 E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, il matrimonio romano, cit, p.319 199 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 47
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Il divorzio non faceva venir meno i doveri e i diritti dei coniugi. Infatti, il marito seppur divorziato non poteva esimersi dal riconoscere il figlio concepito durante l'unione
matrimoniale e nato dopo lo
scioglimento. Ne tanto meno poteva essergli proibito di riconoscerlo, in quanto la separazione non andava ad intaccare quelle che erano le cosĂŹ dette societĂ parentali. L'unico modo per la donna per evitare il riconoscimento era quello di dichiarare che fosse figlio della fornicazione, solo in questo modo la patria potestas non poteva sorgere200. Oltre che per morte e per divorzio, il matrimonio si scioglieva per l'intervento del pater della moglie che, in forza della sua patria potestas, poteva sottrarre la figlia dalla casa del marito interrompendo la convivenza. Questo evento poteva verificarsi solo con riferimento alle unioni libere, perchĂŠ solo in questo caso la figlia poteva ancora trovarsi in potestĂ del padre201. Con Giustiniano nel 547 si ha una riforma dell'istituto del divorzio, la quale limita lo scioglimento ad ipotesi tassative, come l'impotenza, 200 G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, Il diritto romano nel divorzio, cit, p. 267. 201 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, fatti e negozi giuridici, persone e famiglia, cit, p. 304.
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il voto di castità e elezione di vita claustrale di uno dei coniugi; qualora la donna fosse stata accusata di adulterio o avesse tramato contro la vita dell'imperatore; qualora l'uomo a sua volta avesse attentato alla vita dell'imperatore, tentato di disonorare o prostituire la moglie202. Al di fuori da tali ipotesi il divorzio sarebbe stato considerato ingiustificato e punito. La donna chiusa in convento e privata di tutti i suoi beni, il marito, invece, avrebbe perso la dote e anch'esso sarebbe stato condannato alla reclusione. Esisteva però la possibilità di evitare l'applicazione di tali sanzioni qualora entrambi avessero deciso di ricongiungersi prima del loro ingresso nei rispettivi conventi203.
4. La dote
La dote era un istituto peculiare del diritto romano connesso al matrimonio. Essa pare fosse strettamente collegata con l'istituto della manus, la quale però con il tempo cadde in desuetudine mentre 202 G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, Il diritto romano nel divorzio, cit, p. 275. 203 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 52; G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, Il matrimonio romano, cit, p. 83-84.
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l'istituto dotale assunse sempre maggiore importanza204. Per dos i romani intendevano i beni dotali che costituivano un apporto patrimoniale della donna o del suo pater familia (dos profecticia) oppure di un terzo (dos adventicia), la quale rimase sempre volontaria e avventizia205. Nel diritto classico pare che l'unica dote ad essere conferita fosse la dos profecticia, la quale veniva costituita solo per i soggetti sui iuris e non anche per gli emancipati206. Questo istituto con il tempo assunse importanza sotto il profilo sociale, in quanto, sembrerebbe che per i romani fosse l'unico modo per distinguere le matrone dalle concubine. In età repubblicana inoltre, inizia a verificarsi il fenomeno in virtÚ del quale le donne prive di dote non venivano sposate207. Era infatti la donazione della dote da parte del pater ad assicurare alla donna una posizione degna nella casa coniugale, trasformando ciò
204 G. M. DEVILLA, La dote, in studio storico giuridico, Roma 1884, p. 21. 205 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p.176; G. M. DEVILLA, La dote, in studio storicogiuridico, cit, p. 43. 206 E. ALBERTARIO, Corso di diritto romano, matrimonio e dote, cit, p 99. 207 Cfr, M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 61 << filia indotata filia inlocabilis >>.
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che prima era un dovere morale in un vero e proprio obbligo giuridico208. Essa costituiva un apporto patrimoniale della donna finalizzata, con il tempo, a costituire una pari società familiare e considerata una conseguenza immediata del matrimonio209. I testi dimostrano che il marito nel momento di costituzione della dote divenisse proprietario dei beni e titolare dei diritti trasmessi, avendo tale istituto la natura giuridica della donazione210. Grazie però alla funzione economica e sociale che la dote ricoprì con il tempo si ebbe un temperamento del diritto di proprietà, consistente nel divieto per il marito di alienare il fondo dotale211. Per evitare che l'uomo si appropriasse della dote, chi la costituiva usava stipulare una convenzione, la cautio rei uxoriae la quale faceva 208. R. ASTOLFI, La lex iulia et Papia, cit, p. 150. 209. G. BRINI, Matrimonio e divirzio, Il matrimonio romano, cit, p. 84. 210. E. ALBERTARIO, Corso di diritto romano, matrimonio e dote, cit, p 188. 211 E. ALBERTARIO, Corso di diritto romano, matrimonio e dote, cit, p 187 « La disputa pandettistica relativa alla natura del diritto spettante al marito non è per anche sopita. Da una parte si adducono i testi dai quali risulta che egli diventa proprietario delle dotali o che presuppongono il diritto di proprietà del marito come base di decisioni giuridiche, il che, si vuole avvertire è anche più probante; e si soggiunge che, se invece di una cosa, è costituito in dote un diritto egli diventa titolare del diritto trasmesso a titolo dotale. Dall'altra si adducono i testi che affermano, più o meno esplicitamente, un principio opposto: cioè l'appartenenza delle cose dotali alla donna.» secondo l'Albertario le dottrine arrivarono alla conclusione di una duplice proprietà, del marito e della moglie.
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sorgere un'actio ex stipulatu accompagnata dal divieto per il marito di alienare il fondo dotale e obbligandolo alla restituzione di quanto era stato in precedenza pattuito212. Con il tempo si venne a costituire una vera e propria actio rei uxoriae, che portò a concepire la dote come una res uxoriae, collegata alla donna, la quale avrebbe avuto diritto alla
restituzione nel
momento in cui fosse venuto meno il vincolo coniugale213. E' probabile che tali beni servissero per compensare un'eventuale perdita delle aspettative successorie della donna che inevitabilmente coinvolgevano anche il marito214. Giuridicamente la dote consisteva
nell'accrescimento del
patrimonio dell'uomo e formalmente la sua funzione era quella di essere destinata al soddisfacimento dei bisogni della nuova famiglia215. 212 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 176; Cfr, E. ALBERTARIO , Corso di diritto romano, cit, p. 190 «prima dell'introduzione di tale divieto al marito era concesso di alienare liberamente i beni, ne trasmetteva la proprietà agli eredi; deteneva la possessio delle cose dotali e la capacità di usucapirle , qualora il costituente non ne avesse la proprietà; il marito poteva manomettere gli schiavi dotali, divenendone patrono e acquistando naturalmente ogni altro diritto sul liberto; acquista non soltanto i frutti delle cose dotali ma ogni altra accessione; dava validamente in pegno le cose dotali, perfino alla moglie; esercitava tutte le azioni che competono al proprietario ed rea covenuto nelle azioni e tenuto alle cuzioni che incombevano al proprietario; viceversa, la rivendicazione dei beni dotali era rifiutata alla donna, né la donna aveva la facoltà di disporre dei beni dotali nemmeno per testamento» 213 Cfr, R. ASTOLFI, La lex Iulia et Papia, cit, p.149 «essa permetteva di valutare in ogni singolo caso la convenienza e l'aquità della misura della restituzione». 214 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 402. 215 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p.59
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Le principali forme di costituzione della dote erano, la dotis datio (la dote si dà); la dotis dictio (la dote si dice); la dotis promissio(la dote si promette)216. Datio stava a significare un trasferimento di proprietà, sicché la datio dotis altro non era che un trasferimento di proprietà in favore del marito a titolo di dote. Tale espressione stava quindi ad indicare non un negozio ma un effetto reale: il trasferimento, il quale poteva essere conseguito per mezzo di mancipatio, in iure cessio, traditio217. La promissio dotis corrispondeva alla comune stipulatio, un negozio giuridico astratto. Veniva effettuata nei confronti dello stipulator (il marito), il quale diventava creditore in seguito alla promissio dell'altra parte assumendo effetti obbligatori218. Per quanto concerne la legittimazione alla costituzione della dotis datio, questa era riconosciuta a chiunque potesse costituire in dote la proprietà o altro diritto reale su una cosa o un credito attraverso l'utilizzo dei modi consueti di trasmissione219. 216 G. M. DEVILLA , La dote, cit, p. 21; S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 177. 217 G. M. DEVILLA, La dote, cit, p 52; M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 305; M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 306. 218 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 306. 219 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 177.
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Alcuni testi giustinianei avvertono l'esigenza di tenere in considerazione quella che era l'intenzione del costituente. In una dotis datio, anteriore al momento del matrimonio, il marito sarebbe divenuto proprietario dei beni dotali oppure no a seconda della volontà del pater. Se costituente fosse stata la donna, si presume che, il marito ne sarebbe divenuto immediatamente proprietario220. La dotis datio, consisteva nella consegna effettiva prima delle nozze della cosa dotale, senza necessità di alcuna precedente promessa, e sottoposta a condizione sospensiva o risolutiva per il non verificarsi del matrimonio221. Un'altra forma di costituzione di dote che sembrerebbe risalire al periodo antico e peculiare per la sua caratteristica unilaterale, è la dotis dictio, forma di promessa obbligatoria effettuata dal pater il quale si impegnava e dava in moglie la filia familia222. Promessa questa che avrebbe acquistato efficacia solo nel momento in cui il rapporto matrimoniale iniziava validamente223. 220 E. ALBERTARIO, Corso di diritto romano, matrimonio e dote, cit, p.125. 221 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p.406; G. M. DEVILLA, La dote,in studio storico giuridico, cit, p 53 « Se la dote veniva costituita colla datio si chiamava dos numerata». 222 G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, il matrimonio, cit, p.83-84. 223 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 403.
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La dotis dictio era un negozio formale, che avveniva per il tramite di una interrogazione in cui si pronunciavano parole solenni con la precisazione dell'oggetto che si intendeva dicere in dote. La pronuncia di tali parole era riservata solo al padre mentre il marito taceva224. La dotis promissio veniva, infine, costituita mediante un'interposita stipulatione225. La dictio e la promissio ai tempi di Giustiniano cessarono di esistere, rimase quella che, con locuzione impropria, venne chiamata pollicitatio, e che in realtà corrispondeva alla promissio, privata però delle antiche forma con cui veniva applicata226. Nel 428 Teodosio riconobbe valida anche una costituzione di dote senza il rispetto delle formalità previste per la dictio e la promissio, divenendo sufficienti le dichiarazioni contenute nell'atto. Fu inoltre ammessa una costituzione dotale risultante da una semplice intenzione univoca e precisa del proprietario della cosa227 .
224 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 307. 225 G. M. DE VILLA, La dote, cit, p 22. 226 G. M. DE VILLA, La dote, cit, p 52. 227 S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 178-179; G. M. DE VILLA, La dote, cit, cfr p 55 «Può anche costituirsi tacitamente, ciò avviene nel caso della moglie passata dopo il divorzio a seconde nozze e tornata dopo lo scioglimento di queste al primo marito».
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5. La tutela “muliebre”
Le donne sin dall'antico erano sottoposte a tutela, la quale, secondo alcuni autori sarebbe da ricollegarsi alla debolezza del sesso femminile. Il più delle volte, il fine era quello di salvaguardare il patrimonio che la donna ereditava dal proprio pater, evitandone l'abbandono e facendo si che restasse sottoposta al controllo degli agnati i quali, ne sarebbero divenuti titolari per effetto della successione ab intestato, come si può riscontrare in Gai 1. 145: Itaque si quis filio filiaeque testamento tutorem dederit et ambo ad pubertatem pervenerint, filius quidem desinit habere tutorem, filia vero nihilo minus in tutela permanet; tantum enim ex lege Iulia et Papia Poppaea iure liberorum tutela liberantur feminae. Loquimur autem excepits virginibus Vestalibus, quas etiam veteres in honorem sacerdotii liberas esse voluerunt, itaque etiam lege XII tabularum cautum est228.
in cui il giurista riporta il pensiero dei “ veteres”, i quali ritenevano che la donna dovesse essere sottoposta a tutela per tutta la vita a causa della propria “leggerezza d'animo” (propter animi levitatem). Tale tutela sembra, quindi, rappresentare il sostituto della potestà 228 Gai. 1.145; E. GABBA, Della condizione giuridica delle donne, Torino 1880, p. 458 ss.
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paterna essendo conforme ai caratteri patriarcali della famiglia romana, che non concepiva la possibilità per la donna di vivere libera dai poteri familiari degli uomini, come si evince dal seguente passo di Gaio: Permissum est itaque parentibus, liberis qous in potestate sua habent testamento tutores dare: masculini quidem sexus inpuberibus, feminini autem sexus cuiuscumque aetatis sint, et tum quoque cum nuptae sint. Veteres enim voluerunt feminas, etiamsi perfectae aetatis sint, propter animi levitatem in tutela esse229.
Un'interpretazione questa antifemminista che rispecchiava una communis opinio vigente in un'epoca precedente a quella di Gaio che inevitabilmente ricollegava tale istituto alla condizione d'inferiorità della donna230. All'epoca di Gaio, invece, la condizione giuridica della donna era differente rispetto a quella delineata dai “veteres” (giuristi citati in Gai 1.144.). Infatti dalla lettura di Gai 1.190: Feminas vero perfectae aetatis in tutela esse fere nulla pretiosa ratio suasisse videtur; nam quae vulgo creditur, quia levitate animi plerumque decipiuntur et aequum erat eas tutorum auctoritate regi, magis 229 Gai. 1. 144; G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 112. 230 P. ZANNINI, Studi sulla tutela mulierum, Torino 1976, p.8.
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speciosa videtur quam vera; mulieres anim quae perfectae aetatis sunt, ipsae sibi negotia tractant et in quibusdam causis dicis gratia tutor interponit auctoritatem suam, saepe etiam invitus auctor fieri a praetore cogitur
si evince che le donne, se pur adulte e sane di mente, avevano una parziale capacitĂ d'agire231. Secondo Gaio, in opposizione al pensiero dei veteres ( nam quae vulgo creditur, quia levitate animi plerumque decipiuntur et aequum erat eas tutorum auctoritate regi, magis speciosa videtur quam vera) la donna sui iuris poteva compiere validamente negozi di acquisto in proprio favore, contrarre matrimonio, trasferire il possesso e quindi la proprietĂ delle res nec mancipi, ma non poteva porre in essere altri atti di disposizione ( alienazione di res mancipi, rinuncia di crediti, ecc) del proprio patrimonio e neppure assumere obbligazioni232. Per compiere validamente tali tipi di atti e perchĂŠ questi producessero effetti giuridici occorreva l'intervento del tutore, il quale avrebbe dovuto interporre la propria auctoritas233. 231 Gai 1. 190. 232 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit, p.362. 233 P. ZANNINi, Studi sulla tutela mulierum, cit, p. 9.
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Tuttavia l'auctoritas tutoris, in epoca classica a partire dai tempi di Gaio, risulta ridotta ad una mera formalità, in quanto, alla donna fu concessa la possibilità di rivolgersi al magistrato per obbligare il tutore all'interpositio234. In questo periodo tale istituto si trova in piena decadenza, tanto che la necessità dell' auctoritas finì per essere limitata ai soli negozi di ius civile, restringendo sempre più la sfera di applicazione, fino alla definitiva scomparsa intorno al IV secolo d. C235. Dalla tutela rimasero escluse le Vestali, già sulla base di una norma contenuta nelle XII tavole, e a partire dall'età augustea, anche le donne che godevano del ius liberorum (vale a dire le donne che si trovavano in condizione libera per aver avuto tre figli) e le liberte (per le quali si richiedeva un numero di quattro figli)236. Sottoposte a tutela furono perciò le donne libere per nascita (ingenuae), le liberte per manomissione (libertinae), qualora fossero soggetti giuridici e puberi237. 234 N. SCAPINI, Corso di istituzioni di diritto romano, Parma 1994, p. 44. 235 L. PEPPE, Posizione giuridica della donna in età repubblicana, Milano 1984, p. 117; S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 194. 236 F. CENERINI, La donna romana, Bologna 2002, p. 34. 237 A. GUARINO, Istituzioni di diritto romano, Napoli 2006, p. 180.
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La donna alla morte del pater familias rimaneva soggetta alla potestà dell'erede legittimo o testamentario, per cui, al pari della tutela degli impuberi essa risulta fortemente connessa all'hereditas238. La tutela mulierum poteva essere, legittima (cioè quella spettante agli agnati, o se la donna era liberta, al patrono e ai suoi figli), testamentaria (disposta per testamento da colui che deteneva la manus o la potestas) o dativa (quella richiesta dalla donna e attribuita dal magistrato), la quale deriva dalle leggi Atilia e Iulia et Titia239. Il tutore testamentario era designato dal testatore nello stesso modo in cui veniva nominato quello spettante all'impubere. Se il tutore era nominato da colui il quale deteneva la manus, il testatore avrebbe anche potuto concedere alla donna la possibilità di scegliere una persone di fiducia (tutor optivus)240. Il tutore legittimo solitamente era l'agnatio proximus e cioè, se sottoposta alla manus, il figlio, il quale però sul piano agnatizio configurava quale fratello. Se invece, si trattava di una liberta il ruolo sarebbe stato coperto dal patrono, e per la donna emancipata dal suo 238 N. SCAPINI, Corso di istituzioni di diritto romano, cit, p.44. 239 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 362. 240 A. GUARINO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 181.
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manomissore241. Alla donna fu evitato il regime tutelare in vari modi, il tutore legittimo poteva infatti cedere ad altri la sua tutela, o permettere che la donna uscisse dal gruppo agnatizio cui apparteneva: rotta l'agnatio, finiva la tutela242. I compiti del tutor mulieris erano dunque di sola assistenza, esso non faceva altro che integrare la volontà espressa dalla donna negli atti di disposizione e di assunzione di obbligazioni che non avrebbe potuto compiere da sola243. La funzione del tutore potrebbe essere definita come una sorta di autotutela del gruppo agnatizio, espletata attraverso un controllo sugli atti di disposizione posti in essere dalla donna che avrebbero potuto arrecare danni irreparabili al patrimonio244. Inizialmente però, quando l'istituto della tutela era ancora forte , si configurò in capo al tutore una responsabilità di gestione. Esso aveva la funzione di incrementare e conservare il patrimonio in vista del 241 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 113; A. GUARINO, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 181. 242 P. VOCI, Manuale di diritto romano, cit, p.275. 243 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 364. 244 P. ZANNINI, Studi sulla tutela mulierum, cit., p. 66.
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mantenimento della donna. Per questo il suo patrimonio veniva tenuto separato da quello di colei che aveva sotto tutela245. Qualora poi il tutore si fosse avvalso dei propri poteri per derubare la donna, la stessa avrebbe potuto far ricorso all'actio rationibus distrhaendi, per condannarlo al doppio del valore dei beni sottratti e degli altri guadagni dolosamente compiuti246. Essendo la donna limitata anche nella capacità di agire in giudizio, l'ingerenza di tale soggetto si ravvisa anche nel campo delle legis actiones247. Nel periodo preclassico e classico il maggior riconoscimento della responsabilità della donna nella disposizione del suo patrimonio aveva fatto dell'autorizzazione tutoria una formalità priva di qualsiasi contenuto.
Alcune
consuetudini
locali
continuarono
però
a
sopravvivere, esse vollero che la donna continuasse comunque a sottostare a una quasi tutela del marito o del figlio maggiore248.
245 L. PEPPE, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna in età repubblicana, cit, p. 51. 246 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 117 ss. 247 S. SOLAZZI, Studi sulla tutela, Modena 1925, p. 23. 248 P. VOCI, Manuale di diritto romano, cit, p. 276.
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6. Capacità successoria testamentaria della donna nel diritto romano
Le donne romane erano di fatto equiparate ai figli maschi nella successione testamentaria familiare. Sin dalle XII tavole le donne erano in grado di ereditare i beni paterni come i loro fratelli249. Sembra dunque che la donna fosse ricompresa sin dall'inizio nel fenomeno successorio anche se soggetta ad alcune limitazioni. Esse infatti, potevano ereditare beni paterni (se sottoposte a potestas), o del marito (se sottoposte a manus) ma succedere in via collaterale solo se consanguinee. Entro tale ambito non valevano le differenze dovute al sesso, ereditavano gli uomini quanto le donne. Inoltre, esse potevano testare solo in via indiretta250. Alle donne era riconosciuta la capacità di ricevere un'eredità ab intestato, cioè nel caso in cui una persona fosse morta senza aver fatto testamento. Di conseguenza, la capacità della donna di ricevere un'eredità
testamentaria
sarebbe
presupposta
e
riconosciuta
249 F. CENERINI, La donna romana, cit, p. 33. 250 B. BIONDI, Istituzioni di diritto romano, Milano 1952, cfr p.705 «sui heredes da intendersi come persone libere che alla morte del pater familias si trovassero sotto la sua potestas e qualore fossero mogli dei figli sotto la sua manus»; L. MONACO, Hereditas e mulieres, riflessioni in tema di capacità successoria della donna in Roma antica, Napoli 2000, p.207.
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implicitamente, essa succedeva come heredes suae251 in qualità di figlia e di nipote in linea maschile e di moglie in manu252. Ulteriori limitazioni per la donna riguardavano la sua capacità di trasmettere, non potendo avere sui heredes in quanto non titolare della potestas sui figli. Solo nel momento in cui fu riconosciuta alla donna una capacità patrimoniale le fu riconosciuto anche il diritto di trasmettere, ma esclusivamente agli adgnati253. La moglie ricopriva la stessa posizione dei figli qualora essa si fosse trovata in potestà dell'ereditando, uxor in manu. Il sistema civile romano era fondato sull'agnatio per cui, madre e figli
potevano
succedere essendo la madre entrata a far parte della famiglia del marito per via della conventio in manu. Posizione uguale a quella dei nipoti aveva, invece, la moglie di un figlio che si fosse ugualmente trovata in potestà dell'ereditando, nurus in manu254. 251 E. CANTARELLA, Istituzioni di diritto romano, Milano 2001. cfr p. 455 « Intesi quali soggetti liberi che alla morte del pater familias si trovassero sotto la sua potestas o manus, per cui venivani ricompresi tutti i figli senza distinzioni di sesso, se naturali o adottati. In tale cerchia furono quindi ricomprese anche le uxor in manu del defunto e le nuore». 252 F. CENERINI, La donna romana, cit, p. 33. 253 L. MONACO, Hereditas e mulieres, riflessioni in tema di capacità successoria della donna in Roma antica, Napoli 2000, p. 51; Cfr, P. VOCI, Diritto ereditario romano, successione ab intestato, successione testamentaria, Milano 1963, p. 7 «Agnati sono, in generale, i parenti in linea maschile.....tuttavia, in materia di successione ab intestato,la parola agnatus è intesa in senso ristretto , perché viene riferita solo ai collaterali». 254 P. VOCI, Diritto ereditario romano, successione ab intestato, successione testamentaria, cit, p. 6.
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Il diritto di succedere per testamento veniva perso dalla vedova che passava a nuove nozze senza aver rispettato l'anno di lutto o da colei che dopo la morte del marito avesse partorito un figlio illegittimo255. Un'ulteriore restrizione fu introdotta con l'emanazione della lex Voconia del 169 a.C., la quale limitò la testamenti fectio passiva femminile, stabilendo che le donne non potessero essere istituite eredi per testamento da coloro che appartenevano alla prima classe del censo, ossia da coloro che possedevano un patrimonio superiore ai centomila assi. Tuttavia la giurisprudenza ammise la successione ereditaria entro il secondo grado alle sole agnatae, vale a dire le sorelle consanguinee256. Dunque la capacità della donna romana di essere erede e di avere eredi, dipendeva dalla possibilità di avere un proprio patrimonio e non già dalla sua incapacità di stare a capo della famiglia o di essere sottoposta a tutela perpetua257. La tutela la poneva in una condizione di inferiorità al maschio
255 C. FADDA, Concetti fondamentali del diritto ereditario romano, Milano 1949, p. 191. 256 E. CANTARELLA, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 465. 257 B. BIONDI, Diritto ereditario romano, cit, p. 197.
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anche in materia ereditaria, per poter fare testamento, infatti, aveva si bisogno dell'auctoritas del tutore ma, nonostante il grave peso che la tutela ricopriva, questa non era comunque così assoluta da toglierle ogni capacità ereditaria258. Nel momento in cui la donna acquistava la capacità a succedere, filia e uxor in manu potevano senza dubbio essere assimilate ai sui heredes, essendo per loro richiesta l'exheredatio259. La loro condizione rimase se non di subordinazione, comunque secondaria. A tutto ciò va aggiunta anche l'impossibilità per la donna di adempiere alle funzioni che accompagnano la qualità di erede quali: l'obbligo della vendetta, alla tutela e ai sacra260.
258 V. SCIALOJA, Diritto ereditario romano, Roma 1933, p.116 ss. 259 L. MONACO, Hereditas e mulieres, riflessioni in tema di capacità successoria della donna in Roma antica, cit, p. 56. 260 L. MONACO, Hereditas e mulieres, riflessioni in tema di capacità successoria della donna in Roma antica, cit, p. 57.
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II Carta de Logu
1. Matrimonio a sa pisanisca e matrimonio a sa sardisca: teorie della dottrina in tema di regime patrimoniale tra i coniugi.
Prendendo in considerazione la famiglia sarda medioevale si può notare quanto l'antico diritto romano si sia conservato nel tempo e abbia continuato a regolare la vita del popolo sardo261. La prevalente attività agricola-pastorale esigeva una funzionalità dei ruoli all'interno della famiglia: la donna amministratrice della casa e dei beni familiari, oltre che educatrice dei propri figli, mentre l'uomo assumeva un ruolo di tipo rappresentativo e produttivo262. Base della famiglia legittima era il coiuviu, o il matrimonio, che stabiliva tra l'uomo e la donna i diritti e doveri derivanti rispettivamente dalle qualità di maridu e di muiere263. La condizione della donna variava sulla base della scelta del regime 261 E. MURA, Sulla natura giuridica e sulle origini della comunione dei beni tra i coniugi nella Sardegna medioevale, cit, p. 144. 262 A. TEDDE- G. NUVOLI, Note sulla famiglia in Sardegna, Sassari 1978, p. 19. 263 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 170.
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matrimoniale. Esso poteva, infatti,
essere a sa sardisca o a sa
pisanisca, come definito da Eleonora. Anche nella Carta de Logu di Eleonora, così come nell'antica Roma, riscontriamo una tutela assimilabile alla tutela muliebre. Nel medioevo la donna continuava a trovarsi in una posizione di soggezione rispetto all'uomo, le venivano però riconosciuti alcuni diritti sanciti nelle norme del matrimonio a sa sardisca264. Per la donna maritata veniva richiesto il consenso del marito o di alcuni tra i propri parenti per poter alienare i propri beni265. Nel matrimonio contratto a sa sardisca alla donna veniva data la possibilità di stipulare contratti, obbligare e alienare i propri beni senza il consenso del marito, purché assistita da quattro tra i suoi parenti più prossimi (propinquos) e purché ne provasse la necessità dinanzi al podestà e al consiglio maggiore266. Tale facoltà le fu riconosciuta in quanto nel matrimonio a sa sardisca vigeva, tra i
264 G. MADAU DIAZ, Il Codice degli statuti del libero comune di Sassari, commenti e riferimenti storico giuridici, Cagliari 1969, p. 183. 265 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 167. 266 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 175 « Essi dovevano giurare di non consentire per frode coom'ella giurava di vendere per necessità ».
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coniugi, il regime della comunione dei beni267. Ma di che comunione si tratta? Su questo punto sono molti gli autori che hanno cercato di capire se tale comunione avesse carattere generale o universale in quanto la Carta de Logu sembra non mostrare chiarezza, propendendo per l'una e per l'altra tesi268. Pare che, nel matrimonio a sa sardisca, la dote della donna andasse a confondersi con i beni maritali e che questi venissero poi divisi a metà in occasione dello scioglimento del vincolo nuziale269. Il Besta avanzò l'ipotesi che si trattasse di una comunione universale. A sostegno di tale teoria pose in risalto il testamento di Antonio Scardirone del 1557 rinvenuto dallo storico nel Condaghe di S. M. Betlem: ltem facio mensione qui cum sa dita mugere mia ... semus coiuados a mesu pare a modo sardiscu inter 267 P. SATTA-BRANCA, Il comune di Sassari nei secoli XIII e XIV, cit, p. 114; Cfr, F. C. CASULA, la Carta de Logu del regno di Arborea, cit, p.34 « ….ch'in casu su dittu traitori havirit mugeri, ed esserit coyada assu mpdo sardiscu, sa ditta mugeri happat sa parti sua senza mancamentu alcunu...». 268 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel medioevo, in archivio storico sardo, Cagliari 1924, p. 22; Cfr, E. MURA, Sulla natura giuridica e sulle origini della comunione dei beni tra i coniugi nella Sardegna medioevale, cit, p. 144 «Sulla natura giuridica di tale istituto alcuni affermano che essa era limitata ai frutti ed agli acquisti fatti durante il matrimonio; altri invece sostengono che essa aveva carattere universale e cioè che la comunione comprendeva tutti i beni che i coniugi possedevano al momento del matrimonio e tutti quelli che sarebbero pervenuti loro in avvenire». 269 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 174.
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nois verbalmente et sub bonafide firmadu et non posimus in parte tantu in vida comente in morte de tottu sos benes qui haviamus stantes et moventes e qui durante su anteditu matrimoniu Deus volente debiamus balanzare: et de tottu su qui mi promisit in doda su cuntentu et satisfadu; bogio per eo et cumandu qui appat sa mesidade de tottu sos benes stantes et. moventes qui assu presente hamus et possedimus
in cui veniva descritto il caso dello scioglimento di un matrimonio causato dall'ingresso del marito in un convento. La separazione dei coniugi determinò per la moglie la possibilità di acquisire sia i beni accomunati che quelli confusi durante il matrimonio270. Secondo l'Autore la comunione a sa sardisca si presentava come un coiuvio (connubio) a mesu a pare tantu in vida quantu et in morte, questo comportava inevitabilmente la divisione, nel caso di scioglimento del vincolo, dei frutti percepiti durante il matrimonio e dei beni acquistati e apportati da entrambi i coniugi271. Della stessa opinione il Roberti, il quale però, basò la sua teoria su alcuni documenti notarili e su delle carte contenute nei Condaghi272. 270 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 175; M. SATTA, Donne e società in Sardegna, eredità e mutamento, Sassari 1989, p. 68. 271 E. BESTA, La famiglia nella storia del diritto italiano, Padova 1933, p. 160. 272 M. ROBERTI, Per la storia dei rapporti patrimoniali fra coniugi in Sardegna, in archivio storico sardo, Cagliari 1922, p. 273.
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Per il Solmi la comunione universale dei beni in Sardegna prese avvio dalle consuetudini vigenti nell'Isola. Anche per questo storico essa abbracciava tutti i beni e i crediti dei coniugi i quali andavano a costituire, attraverso la celebrazione delle nozze o con la nascita di un figlio, una massa comune che al momento della separazione sarebbe stata suddivisa tra marito e moglie per una quota pari a un terzo273. Di opinione contraria, invece, il Cortese, per il quale, i beni che il marito aveva apportato come base economica per il sostentamento della famiglia dovessero rimanere separati da quelli della moglie. Per l'Autore la comunione dei beni sembra infatti limitarsi ai soli acquisti, questo portò il Cortese alla conclusione che i cespiti, o fundamentus, portati dall'uomo e dalla donna dovessero continuare a far capo ai rispettivi titolari274. Nella stessa direzione sembra rivolgersi il pensiero dell'Ercole, per il quale, nel matrimonio a sa sardisca, al marito non veniva riconosciuto il diritto di disporre dei beni patrimoniali della moglie senza il suo consenso, mentre gli veniva data la possibilità di disporre a suo arbitrio dei beni acquistati in costanza di matrimonio cum sa 273 A. SOLMI, Storia del diritto italiano, Milano 1930, p. 333. 274 E. CORTESE, Appunti di storia giuridica sarda, Milano 1964, p. 77 ss.
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mucere, in qualità di amministratore della comunione stessa275. Anche per il Di Tucci, il patrimonio familiare sardo sembra rispecchiasse due principi ben noti ai gruppi gentilizi primitivi, l'indivisibilità e l'inalienabilità. Per quanto riguarda il primo aspetto si nota che, con la separazione dei beni dei coniugi, veniva mantenuto un legame con il patrimonio di derivazione. Per quanto concerne l'inalienabilità, il divieto per il marito di alienare i beni della moglie sembra riguardasse il patrimonio immobiliare, abolito però in casi di necessità e purché intervenisse il consenso del coniuge, dei figli e dei parenti276. La tesi che più delle altre sembra però essere convincente è quella presentata dal Marongiu, il quale, inizialmente condivide la tesi dell'Ercole e del Cortese, propendendo per una comunione che si limitava ai soli acquisti effettuati dai coniugi in costanza di matrimonio. Anche il Marongiu a sostegno della sua tesi pone in evidenza dei documenti del Condaghe di S. Maria Bonacardo in cui si 275 F. ERCOLE, Sulla forma originaria della comunione dei beni fra coniugi nel diritto medioevale sardo, in Studi economici-giuridici della R. Università di Cagliari, anno XIII, Cagliari 1922, p. 37; E. MURA, Ancora sulla comunione dei beni nel matrimonio assa sardisca, in archivio storico sardo di Sassari, Sassari 1979, p. 125. 276 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel medio evo, in archivio storico sardo, cit, p. 24.
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riscontrano dei casi di alcune donazioni, dove i beni de comporu, cioè degli acquisti, per metà erano di proprietà del marito e per la restante parte della moglie, con cui aveva una comunione sugli acquisti277. I beni che i due sposi portavano al matrimonio restavano perciò separati dagli altri per tornare alle famiglie d'origine in caso di morte di uno o entrambi i coniugi. Dimostrazione, questa, della forte relazione tra la singola unità familiare e i lignaggi di appartenenza degli sposi (i rispettivi parentes)278. Tesi questa che con il tempo andò suscitando numerosi adesioni, fino a quando il Marongiu, sulla base di un documento notarile, rinvenuto qualche anno più tardi e contenente la rivendicazione di una vedova di procedere all'inventario dei beni del defunto marito, arrivò alla conclusione che il regime patrimoniale del matrimonio a sa sardisca si basasse su una comunione universale279. Tutti i beni erano, quindi, resi comuni durante il matrimonio: i lucri del marito o della moglie; i frutti dei beni che l'uno o l'altro possedeva
277 A. MARONGIU, Aspetti della vita giuridica sarda nei Condaghi di Trullas e di Bonacardo, in saggi di storia giuridica e politica sarda, Padova 1975, p. 36. 278 G. G. ORTU, La Sardegna dei giudici, Nuoro 2005, p. 106. 279 A. MARONGIU, Il matrimonio alla sardesca, in archivio storico sardo, Sassari 1981, p. 85 ss.
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prima del matrimonio; i frutti o i beni che pervenivano loro in seguito a donazione, eredità o altre cause280. Nel matrimonio sardesco, entrambi i coniugi sopportavano in proporzioni uguali i debiti contratti dal marito per il vantaggio comune, anche qualora fosse mancato il consenso della moglie. Soltanto il marito risultava, però, obbligato personalmente nei confronti del creditore e poteva venire imprigionato fino al momento del pagamento. L'obbligazione della moglie sorgeva solo alla morte del coniuge, a suo carico era previsto l'obbligo di servire il creditore per un prezzo annuo determinato, fino all'estinzione del debito281.
2.
Il matrimonio a sa pisanisca con particolare riferimento al
regime dotale
Maggiori diritti venivano riconosciuti alla donna nel sistema appena ricordato rispetto a quello definito da Eleonora a sa pisanesca, considerato estraneo alle antiche consuetudini isolane. Il matrimonio a sa pisanesca inizialmente ebbe larga diffusione sopratutto nelle 280 G. DEL VECCHIO, Eleonora d'Arborea e la sua legislazione, cit, p.78. 281 P. SATTA. BRANCA, Il comune di sassari nei secoli XIII e XIV, cit, p.11.
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città dove maggiore era il numero di forestieri, in seguito divenne però utilizzato non solo dalle classi elevate ma anche dal ceto medio282. La dote veniva offerta dai genitori della ragazza in occasione del matrimonio e consisteva in una donazione pura, perfecta e irrevocabile fin tanto la figlia fosse rimasta in vita. Consisteva nella parte di legittima dei beni paterni o materni, con l'aggiunta di un'altra quota che insieme alla legittima completava il computo dell'eredità. Poteva essere offerta ai futuri sposi in contanti oppure comprendere “gioie” d'oro e d'argento. Anche in Sardegna così come accadeva nell'antica Roma, la dote era sottoposta a condizione rappresentata dalla celebrazione del matrimonio283. In questo tipo di matrimonio alla donna non era concesso di alienare i beni dotali e in nessun modo le era permesso di obbligarsi, sia con il consenso o meno del marito. Tutte le obbligazioni eventualmente da lei contratte non avrebbero avuto valore legale284. Per quanto riguarda il regime dotale questo risulta assimilabile a quello vigente a Roma sotto un altro aspetto. Anche qui, infatti, vigeva 282 M. SATTA, Donne e società in Sardegna eredità e mutamento, cit, p. 62. 283 M. SATTA, Donne e società in Sardegna eredità e mutamento, cit, p. 63 ss 284 P. SATTA. BRANCA, Il comune di sassari nei secoli XIII e XIV, cit, p.114.
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il divieto in capo al marito di alienare i beni dotali o parafernali della moglie, vi fosse o meno il consenso della stessa. Nonostante questo, egli deteneva comunque la piena disponibilità dei beni acquistati durante il matrimonio285. Le cose stavano diversamente in presenza di figli, maggiori poteri erano riconosciuti all'uomo, il quale, poteva alienare i beni dotali con il semplice consenso della moglie e detenere al contempo libera disposizione degli acquisti fatti durante il matrimonio purché questo non nuocesse alla sicurezza delle ragioni dotali286. Con la presenza di figli il nucleo familiare era in grado di prendere il sopravvento facendo in modo che il governo dei beni della moglie passasse nelle mani del marito, al quale veniva concessa la facoltà di amministrare anche i beni de rigore iuris non suoi287. Per garantire la validità dell'atto era necessario distinguere i beni collocati nella disponibilità esclusiva del marito da quelli per metà in potere della moglie, in modo da chiarire che nel primo caso sarebbe
285 STATUTI SASSARESI, Lib. II, cap. 3. 286 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 176. 287 E. CORTESE, Appunti di storia giuridica sarda, cit, p. 87.
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stata sufficiente una manifestazione di volontà dell'uno, mentre nel secondo doveva intervenire anche quella donna288. Il Di Tucci riscontrò, inoltre, la necessità per la donna, la quale volesse alienare la propria terra, del consenso del marito o dei fratelli. Situazione questa che cambia nel momento in cui la donna diventava vedova289. La vedova conservava, infatti, il diritto ad una parte consistente dei beni del marito, per compensarla di un regime successorio che tendeva a preservare il patrimonio da una successiva frammentazione290. L'interferenza del marito nelle attività patrimoniali della moglie cadeva tuttavia quando, il matrimonio non era stato allietato da figli. In questo caso a nessuno dei due veniva riconosciuta la facoltà di disporre delle proprietà di lei né con, né senza l'approvazione dell'altro. Il matrimonio sterile impediva che la famiglia, anche se perfettamente compiuta, esercitasse una sufficiente forza di attrazione sui beni della moglie tanto da riuscire ad assimilarli, sì che tali beni 288 E. CORTESE, Appunti di storia giuridica sarda, cit, p. 80. 289 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico nel Medio Evo, in archivio storico sardo, n.15, Sassari 1924, p 19 ss. ; R. J. ROWLAND, Donne proprietarie terriere nella Sardegna Medievale, in quaderni bolotanesi, Cagliari 1986, p.134. 290 F. AETIZZU, Pisani e catalani nella Sardegna medioevale, Padova 1973, p. 25 ss.
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rimanevano inevitabilmente vincolati al nucleo d'origine291. Eleonora stabilì, inoltre, che morendo uno dei coniugi con testamento o ab intestato, i beni avuti e acquisiti nel matrimonio venissero separati a favore dell'altro292. Mentre la costituzione della dote doveva risultare da documento scritto, la comunione dei beni poteva essere pattuita verbalmente o tacitamente293. Risorto il sistema dotale risorse anche il divieto delle donazioni fra coniugi al di là di un limite minimo stabilito. Nella Carta de Logu, al capitolo C “ Dessos maridos e mugeri: chi non pozzant dari s'unu ass'atteru in vida nen in morti plus de liras deghi; e, ciò, si havirint ascendentis over descendentis”: Volemus ed ordinamus chi alcuna femina non usit nen deppiat dari in alcunu modu assu maridu nen in vida nen in morti sua plus de liras deghi, ed issu maridu assa mugeri atteru e tantu, dess'issoru pegugiari; ed icussu det cussu chi hat a haviri valsenti dae liras vinti ' nsusu; ed icussu chi hat a haviri valsenti dae liras vinti ' ngiossu, det soddos vinti; ed icussu det s'unu a s'atteru, s'illi hat a plagheri; e si nolli plagherit, nondi 291 E. CORTESE, Appunti di storia giuridica sarda, cit, p. 84 ss. 292 P. SATTA-BRANCA, Il comune di sassari nei secoli XIII e XIV, cit, p.118. 293 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 175.
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siat tenudu nen assu maridu nen assa mugeri. Ed icustu capidulu happat legittimu logu in casu chi su maridu over mugeri havirint descendentis over ascendentis; e si nondi havirint, siat illis licitu de lassarisi s'unu ass'atteru per testamentu, over per donacioni causa mortis, totu ciò chi hant a voler dessos benis issoru294 si riscontra un limite posto dalla Giudicessa, contenente il divieto per la donna di donare più di dieci lire del proprio peculio al marito e viceversa, prevedendo tale divieto solo nel caso in cui i coniugi avessero ascendenti o discendenti. In caso contrario fece lecito agli stessi di lasciarsi reciprocamente per testamento o donazione, causa mortis, tutto ciò che possedevano e avessero voluto295. Era in uso anche nell'isola far precedere il matrimonio dagli sponsali che avevano quasi l'importanza delle nozze, la donna iurata era considerata come già appartenente allo sposo. Dada sa paraula l'uomo poteva possederla senza riprovazione, salvo subire le
294 F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno di Arborea, cit, p. 127 trad. ‹‹ Vogliamo e ordiniamo che nessuna donna deve lasciare al marito, in vita o in morte, più di dieci lire del proprio peculio ( = dei suoi propri averi personali); e l'uomo altrettanto nei confronti della moglie, se ha di valsente (= valore di una cosa espresso in denaro) più di venti lire; se ne ha di meno, dia venti soldi (= una lira). Tutto questo deve essere fatto in piena libertà, senza alcuna costrizione ne da parte del marito ne da parte della moglie. La presente norma ha valore nel caso che il marito o la moglie abbiano discendenti o ascendenti (in attesa di eredità); se non li hanno, sarà loro lecito lasciarsi reciprocamente, per testamento ovvero donazione causa mortis, tutto ciò che vogliono dei propri beni.›› 295 Cfr, F. C. CASULA, la Carta de Logu del regno di Arborea, cit, p. 127.
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conseguenza della vendetta se fosse venuto meno al suo impegno296. Durante il giorno del fidanzamento ufficiale veniva stabilita la data delle nozze e fissata la dote. Il giovane solitamente veniva accompagnato dai parenti più prossimi e dal padre, ed è in questa giornata che i promessi sposi pare consumassero il loro primo pasto insieme che li avrebbe uniti da un vincolo indissolubile297. Tutto questo fa pensare che gli sponsali fossero considerati dai sardi come prestazione di giuramento il quale implicava inevitabilmente anche un'obbligazione nei confronti delle divinità. E il duru duru: ‹‹L'isposu at mi basare, ite m'at a donare? Un aneddu d'oro›› farebbe pensare che il bacio suggellasse la promessa e l'anello rappresentasse quasi un merito per la donna298. L'accordo per il fidanzamento avveniva però precedentemente tra i genitori all'insaputa dei figli. L'obbligazione vera e propria era contratta dai genitori i quali si impegnavano reciprocamente a far celebrare le nozze. Ciò che distingueva gli sponsali sardi da quelli
296 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 171. 297 G. BOTTIGLIONi, Vita sarda, Sassari 1925, p. 29. 298 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 172.
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romani, era: la forma specifica del contratto che ripeteva l'uso delle carte dell'alto medioevo italiano sotto la pressione delle leggi germaniche; la pena imposta per l'inosservanza della convenzione che, stabilita come clausola stipulatoria, faceva sorgere in capo ai contraenti un'obbligazione; la particolare posizione di fideiussori che assumevano i contraenti circa le nozze dei loro rispettivi figli; e infine, la situazione passiva in cui veniva posta la donna, in quanto veniva disposto del suo futuro senza alcun suo intervento nella stipula della convenzione. Lo scambio della promessa, nel fidanzamento sardo, era considerata la prima fase necessaria del matrimonio299. In Sardegna l'esistenza del matrimonio non aveva però cancellato le altre unioni riconosciute o meglio non riprovate dalla legge: il concubinato, diffuso principalmente tra i minores, che vedeva contrapposta la concuva alla matrona. Esso veniva però posto in essere con apposita convenzione, la quale regolava i diritti che da quel rapporto sarebbero sorti in capo alla donna300. Ai fios de concuva, che prendevano il cognome materno e che con 299 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel medioevo, in archivio storico sardo, cit, p. 20 ss. 300 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 176.
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molta probabilità crescevano accanto ai figli legittimi, venivano riconosciuti diritti nei confronti del padre. Benché i figli legittimi mantenessero uno stato diverso e più alto, i figli delle concubine non venivano comunque esclusi dall'eredità dei beni e dalle strategie matrimoniali, qualora non fossero presenti figli della matrona301. Spesso si videro succedere al trono i figli naturali dopo essere stati parificati ai figli legittimi attraverso la matronizatio o la legittimazione fatta per atto di pubblica utilità dal Giudice stesso, ma tale istituto acquistò con il tempo effetti essenzialmente ereditari. Lo stesso potrebbe sostenersi per quanto concerne l'affiliamentu (adozione) e la filiadura, tali istituti, infatti, pare non servissero più a ristabilire la patria potestas, la quale ormai veniva meno non appena i figli fossero usciti dalla casa paterna per accasarsi a loro volta302.
301 G. G. ORTU, La Sardegna dei giudici, cit, p. 106. 302 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 178.
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3. Capacità successoria testamentaria della donna sarda
Nel diritto successorio sardo riscontriamo la tendenza di piegare quelle che erano le antiche tradizioni romane con forme che meglio fossero in grado di adattarsi alle nuove abitudini popolari, sempre più lontane dalle vecchie regole giustinianee303. L'organizzazione più compatta della famiglia sarda fece prevalere la successione legittima, la quale il più delle volte mostrava una comunione dei beni tra genitori e figli, che non consentiva, come già visto, un'alienazione del patrimonio senza l'esplicito consenso di tutti i membri della famiglia304. I limiti di alienazione dei beni si presentavano più rigidi per la donna, la quale necessitava del consenso o della presenza del marito, tanto per le donazioni universali quanto per quelle particolari. Nel diritto sardo manca quindi una menzione alla successione fra coniugi, poiché il regime della comunione dei beni, divenuto generale, serviva direttamente a provvedere alla sorte del coniuge superstite305. 303 A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medioevo, Nuoro 2001, p.226. 304 A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medioevo, cit, p.226. 305 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 180.
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Benché la donna rimanesse per tutta la vita sotto la tutela economica del padre, del marito o dei parenti di sesso maschile, la sua eredità era praticamente intoccabile; non era, infatti, soggetta alla confisca per crimini commessi dal proprio marito o per avere dato rifugio a parenti latitanti (homini asbandidu)306. Un
allontanamento della legislazione sarda dall'ordinamento
antico, era rappresentato dal fatto che il diritto sardo prevedeva una rigorosa uguaglianza dei figli, maschi e femmine, nella successione dei beni307. I primi a succedere all'eredità dei loro genitori erano i figli ed i loro discendenti, che, come già accennato succedevano su base egualitaria, senza alcuna discriminazione di sesso e di capacità giuridica. La divisione avveniva dopo la morte dei genitori: ai figli andava la così detta legittima, consistente in una parte di beni sia materni che paterni308. La presenza dei figli nel matrimonio creava inevitabilmente un
306 J. DAY, Uomini e terre nella Sardegna coloniale, XII-XVII secolo, Torino 1987, p.292. 307 G. G. ORTU, La Sardegna dei giudici, cit, p. 107. 308 R. DI TUCCI, La successione nei beni dei figli intestati nel diritto sardo e catalano, in Rivista Italiana di Scienze giuridiche, 1915, p.317.
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vincolo patrimoniale che, con esclusione dei beni prodotti dall'industria personale dei genitori, degli acquisti e degli utili che accrescevano la gestione paterna, esprimevano il loro consenso per le cessioni degli immobili appartenenti al padre e alla madre, concorrendo poi alla successione naturale309. Oltre alla legittima venivano poi concessi altri beni che, sempre divisi in parti uguali, andavano a completare il computo dell'eredità310. Nel codice arborense era, infatti, ordinato che all'eredità del padre morto concorressero i fratelli e le sorelle, anche se maritate, con uguali diritti, tenendo conto per queste della dote già avuta311 . Quest'uguaglianza di trattamento è confermata da alcuni documenti notarili in cui si riscontra una formula, che pare essere la più frequente e che impiegava il verbo igualar per rimarcare il pari trattamento riservati ai figli di entrambi i sessi312. L'unica esclusione dall'eredità per un figlio era rappresentata dalla diseredazione, regolata anch'essa dalla Carta de Logu. Questa poneva 309 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel medioevo, in archivio storico sardo, cit, p. 24. 310 M. M. SATTA, Donne e società in Sardegna eredità e mutamento, cit, p. 60. 311 G. C. DEL VECCHIO, Eleonora d'Arborea e la sua legislazione, cit, p. 80. 312 M. M. SATTA, Donne e società in Sardegna eredità e mutamento, cit, p. 61.
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a capo dei genitori l'obbligo di provare sa iusta occasione pro sa quale los deven deshederare. Le cause probabilmente erano le stesse già in uso presso i gruppi gentilizi primitivi313. Al Capitolo XCIII della Carta de Logu “ De chi coyarit figia sua a dodas, chi non sia tenudu de lassarilli nen in vida nen in morti si non cussu ch'illi hat haviri dadu in dodas, ad arbitriu suo”: Constituimus ed ordinamus chi si alcuna persona coyarit figia sua a dodas, non siat tenuda de lassarilli nen in morti sua si non cussu ch'illi hat a haviri dadu in dodas, si non a voluntadi sua; salvu chi, s'issa non havirit atteru figiu illi ddeppiat lassari sa parti sua, secundu ragioni, contadu illoy in cussa parti chi hat a deber haviri sas dodas chi hat a haviri hapidu daenanti. E simigiantementi s'intendat pro totu sos descendentis suo. E totu s'atteru, ch'illi hat a remaner, indi pozzat fagheri cussu ch'illi at a plagheri. Ed in casu chi morrerit ab intestadu, succedat sa figia femina coyada cun sos atteros fradis e sorris suas, iscontada dae sa parti sua cussa doda chi hat a haviri hapidu314
Eleonora stabilì che una figlia a cui fosse già stata donata la dote in 313 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel medioevo, in archivio storico sardo, cit, p. 25. 314 F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno di Arborea, cit, p.125 trad. ‹‹stabiliamo e ordiniamo che se uno marìta una figlia, fornendola di dote, non è tenuto a lasciarle in vita o in morte -se non di sua spontanea volontà- nient'altro in più di ciò che le ha già dato. Se però non ha altri figli, dovrà lasciare (alla figlia marìtata) l'intera sua parte (= l'intera “ legittima”) comprensiva della dote avuta. La stessa cosa intendasi per tutti i suoi discendenti. Dela rimanente potrà disporre a piacimento. Nel caso che uno morisse intestato (= senza lasciare testamento), gli succederà (nel godimento dei beni) la figlia sposata, insieme coi fratelli e le sorelle (del morto), scontata la dote (della figlia).
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occasione del matrimonio, non avrebbe acquistato niente di più di quanto le fosse stato già dato dal padre in vita. Qualora, però, fosse stata figlia unica le sarebbe spettata l'intera legittima comprensiva della dote avuta. Nel caso in cui uno morisse senza fare testamento, sarebbero succeduti nel godimento dei beni, la figlia sposata, insieme con i fratelli e le sorelle del morto, scontata la dote. Se poi l'unica figlia maritata fosse premorta al padre, la legittima sarebbe spettata ai figli di lei315. La giudicessa stabilì, inoltre, che la capacità di testare si acquistava al compimento del diciottesimo anno di età. Qualunque donna avesse espresso la volontà di voler fare testamento, come garanzia contro la pressione maritale, era obbligata a farne richiesta al padre, il quale avrebbe dovuto essere presente durante la stesura del testamento. In assenza del padre la donna avrebbe dovuto far richiesta a due dei suoi parenti fino al terzo grado. Tale richiesta doveva essere fatta tramite atto pubblico, in mancanza del quale, il testamento della donna sarebbe stato considerato nullo. Inoltre, poteva configurarsi da parte dei parenti un rifiuto di assistere la donna nella stesura dell'atto, in 315 F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno di Arborea, cit, p.125.
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questo caso essa avrebbe potuto testare liberamente senza che l'assenza dei suo consanguinei inficiasse le sue volontà316. Alla donna era inoltre proibito designare il marito come erede per più della metà dei beni317. Per quanto concerne le formalità di redazione del testamento, la Carta de Logu non dava molte indicazioni. Eleonora volle solo che i testamenti fossero redatti nella forma debita (forma depita) che sembra essere un riferimento alle forme previste dalle leggi romane318. Della stesura di tali atti venivano incaricati i notai al periodo molto scarsi in tutta l'isola. Per questo Eleonora concesse la possibilità che venissero scritti dal curato del villaggio o dallo scrivano pubblico della contrada o del luogo in cui ci si trovava, alla presenza di sette o cinque testimoni319. Perché il testamento fosse valido occorreva che, pur essendo infermo di mente, il de cuius in sinnu suo potesse coscientemente e con parola chiara esprimere le sue ultime volontà320. 316 G. MADAU. DIAZ Il codice degli statuti del libero comune di Sassari, cit, p.220. 317 J. DAY, Uomini e terre nella Sardegna coloniale, XII-XVII secolo,cit, p. 292. 318 P. SATTA. BRANCA, Il comune di Sassari nei secoli XIII e XIV, cit, p.124 ss. 319 G. C. DEL VECCHIO, Eleonora d'Arborea e la sua legislazione, cit, p. 79. 320 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 182.
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Il testamento non mantenne più quelli che erano i caratteri del testamento classico e si allontanò dalle norme caratteristiche del diritto romano, confondendosi il più delle volte con la postura pro anima o la donatio mortis causa fatta nel caso di un imminente pericolo di morte321. Le disposizioni di ultima volontà, espresse dinanzi ai testimoni, mantenevano ancora qualche forma dell'antico testamento, ma più spesso rivestivano il carattere di vere e proprie donazioni, atti bilaterali e irrevocabili, che avrebbero potuto produrre effetti solo al momento della morte del disponente (a ora de mortis sua)322. Spesso la dichiarazione d'ultima volontà aveva luogo nel momento della penitenthia o della confessione questo potrebbe far pensare che, gli ultimi voleri del soggetto venissero raccolti dal sacerdote. Infatti, ristabilite le forme del diritto romano, la Carta de Logu stabilì che il prete avesse la facoltà di sostituire validamente il notaio o lo scrivano pubblico nella redazione del testamento323.
321 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 182. 322 A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medioevo, cit, p.226. 323 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 183.
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Qualora poi fosse mancato l'erede legittimo con il testamento si provvedeva anche alla nomina di colui che avrebbe dovuto acquistare l'ereditĂ , si tratta dell'istituto dell'affigliamento, derivante dal diritto romano volgare. Esso rappresentava una sorta di adoptio in haereditatem, attraverso cui veniva chiamato un estraneo a succedere nella posizione di figlio, ed una donatio mortis causa, in quanto si attribuiva in dono ad un estraneo una quota del patrimonio, corrispondente a quella di un figlio, anche in concorrenza con altri figli legittimi, nati o nascituri324. Attraverso l'utilizzo di tale istituto veniva sostituito il testamento, e il piĂš delle volte veniva utilizzato per chiamare la Chiesa a succedere in una parte di figlio, adempiendo in questo modo alla funzione pia di ogni donatio pro anima. In questo modo veniva attribuita alla Chiesa una parte di patrimonio corrispondente a quella che sarebbe toccata ad ogni altro figlio legittimo (filiu de matrona) del de cuius325.
324 A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medioevo, cit, p.228. 325 E. BESTA, La Sardegna medioevale, le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit, p. 183.
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Capitolo IV
ADULTERIO E STUPRO NELL'ORDINAMENTO GIURIDICO ROMANO E NELLA CARTA DE LOGU
1. La Lex Iulia de adulteriis
Pur mancando, nella letteratura giuridica romana, una vera e propria definizione dell'adulterio, il suo configurarsi come infedeltà esclusivamente femminile è un presupposto riscontrabile in quasi tutti i testi326. Fin dall'età più antica327, il diritto romano, concepiva il crimine dell'adulterio come il tradimento commesso da una donna sposata di condizione onorevole. La violazione del vincolo coniugale da parte del marito, e quindi un'eventuale relazione dell'uomo con una donna diversa dalla moglie non assumeva alcuna rilevanza328. 326 G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis, in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce 1997, p.9. 327 P. GIUNTI, Adulterio e leggi regie. Un reato fra storia e propaganda, Milano 1990, p. 66 ss. 328 P. PANERO ORIA, Ius occidendi et ius accusandi en la Lex Iulia de adulteriis coercendis, Valencia 2001, p. 28.
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La Lex Iulia de Adulteriis emanata da Augusto nel 18 a. C. costituisce la regolamentazione giuridica fondamentale in ordine ai reati sessuali fino all'età postclassica329. Con l'approvazione di questa legge da parte dei comizi, Augusto intendeva promuovere il ripristino degli antichi costumi. Le disposizioni
della
legge
perseguivano
principalmente,
come
adulterium stricto sensu, solo il tradimento commesso durante un iustum matrimonium, indirizzandosi indirettamente alle sole donne honestae, in quanto, secondo la legge augustea, alle femine probosae, libertine e meretrici, a causa della loro posizione sociale, non era data possibilità di contrarre un matrimonio legittimo330. Tale discriminazione effettuata dalla Lex Iulia venne però utilizzata, come espediente, da quelle donne coniugate che avessero voluto intrattenere relazioni extramatrimoniali senza incorrere nelle pene previste da tale norma. Bastava, infatti, che esse manifestassero 329 B. BIONDI, Diritto romano fonti- diritto pubblico- penale- processuale civile, in scritti giuridici, Milano 1965, p. 48. L'unico testo che contenga un riferimento a quelle che erano le pene previste è contenuto però solo nel passo Inst. 4, 18, 4 : Item lex Iulia de adulteriis coercendis, quae non solum temeratores alienarum nuptiarum gladio punit, sed etiam eos qui cum masculis infandam libidinem exrcere audent. Sed eadem lege Iulia etiam stupri flagitium punitur, cum quis sine vi vel virginem vel viduam honeste viventem stupraverit. Poenam autem eadem lex irrogat peccatoribus, si honesti sunt, pubblicationem partis dimidiae bonorum, si humiles, corporis coercitionem cum relegatione. 330 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 400.
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pubblicamente l'intenzione di darsi al meretricio, mediante un'espressa dichiarazione compiuta dinanzi agli edili curuli, liberandosi, in questo modo dai vincoli imposti loro dal matrimonio e dall'appartenenza al loro ceto331. L'adulterium punito da Augusto non riguardava, però, soltanto i coniugati, ma anche i celibi e nubili332. Con tale legge, inoltre, venne istituito un tribunale stabile in materia di reati sessuali. Il processo, inizialmente, traeva origine da un'accusa riservata al padre e al marito di colei alla quale veniva addebitato l'adulterio, in quanto perseguibile solo dalla familia. Il provvedimento legittimava, in misura diversa, anche l'iniziativa stragiudiziale del padre e del marito dell'adultera, concedendo a tali soggetti la possibilità di mettere a morte l'amante della donna333. Qualora tale soggetto fosse di bassa condizione sociale al marito era, inoltre, concesso di uccidere l'adultero colto in continenti nella propria casa senza incorrere in alcuna sanzione. Se invece, l'adultero era di elevato ceto sociale o il marito non avesse voluto ucciderlo, pur verificandosi 331 S. FUSCO, Edictum de adempta pudicitia, in Diritto@storia 9 [2010]. 332 B. BIONDI, Diritto romano fonti- diritto pubblico- penale- processuale civile, in scritti giuridici, cit, p.156. 333 G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis, cit, p. 10.
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le condizioni di luogo o di persona richieste, gli era concesso di trattenerlo per un periodo non superiore alle venti ore consecutive, allo scopo di dare pubblicitĂ all'accaduto. Questo gli avrebbe successivamente permesso di procurarsi dei testimoni che, in giudizio, avrebbero testimoniato in suo favore334. La legge non richiedeva necessariamente la flagranza dell'atto, ma riteneva sufficiente la semplice presunzione che l'adulterio fosse stato commesso, fondata sulla circostanza che i due adulteri venissero sorpresi in luoghi particolari, quali ad esempio la casa maritale della donna335. Il trattamento sanzionatorio del crimen adulterii variava sulla base del soggetto privato (pater familias o marito della rea) o pubblico (il pretore) che lo avrebbe posto in essere: il pater familias o marito avevano la facoltĂ di uccidere l'uomo con cui la donna si era congiunta; mentre, al pretore spettava il potere di imporre ai due soggetti del reato la deportazione in due localitĂ diverse, accompagnata dalla confisca dei beni che per la donna consisteva 334 E. CANTARELLA, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 225; C. FAYER, La familia romana, Concubinato, divorzio, adulterio, Roma 2005, p. 251. 335. G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis,in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit, p. 18.
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nella confisca di metà della dote336. L'uccisione della moglie da parte del marito, pur non essendo considerata legittima, comportava, comunque, una pena più lieve di quella prevista per il reato di omicidio. Se il marito era humilis loci la pena consisteva in una condanna ai lavori forzati a vita; se era honestior nella relegatio ad insulam337. Lo stesso accadeva anche nei casi in cui l'uomo avesse ucciso l'amante della moglie in assenza delle condizioni di tempo, di luogo e di persona previste dalla Lex Iulia come requisito della sua impunità338. Al marito, che avesse trovato la moglie in fragranza di reato, veniva riconosciuta la possibilità ripudiarla. L'adulterio si configurava, infatti, come una iusta causa repudii339. In caso di ripudio, all'altro coniuge veniva inviato un nuntius (messaggero) che gli consegnava un libellus. La lex Iulia de adulteriis prescrisse che, al fine di perfezionare la pratica del repudium, fosse 336 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 54. 337 E. CANTARELLA, Studi sull'omocidio in diritto greco e romano, Milano 1976, p. 190. 338 E. CANTARELLA, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 225. 339 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 46.
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necessaria una dichiarazione dinanzi a sette testimoni cittadini romani puberi. Sembra che quest'ultima fosse richiesta solo per tutelare il marito dal rischio di subire le pene previste dalla legge nel caso in cui non avesse intentato la causa di divorzio nei confronti della moglie adultera340. Il provvedimento augusteo, infatti, prevedeva in modo esplicito una poena a carico del marito in tre ipotesi. La prima, relativa al caso di matrimonio contratto con una donna giĂ adulterii damnata in relazione ad un precedente matrimonio o che non avesse sciolto il vincolo una volta intervenuta la condanna di lei. In questo caso in capo al marito, sarebbe sorta l'accusa di lenocinio, basata sul dato oggettivo rappresentato dall'intervenuta condanna, come si evince dal seguente passo, D. 48.5.30 pr. (Ulp. 4 de adult.): Mariti lenocinium lex coercuit, qui deprehensam uxorem in adulterio retinuit adulterumque dimisit: debuit enum uxori quoque irasci, quae matrimonium eius violavit. Tunc autem puniendus est maritus, cum excusare ignoratiam suam non potest vel adumbrare patientiam praetextu incredibilitatis: iidcirco enim lex ita locuta est â&#x20AC;&#x153;adulterum in domo deprehensum dimiseritâ&#x20AC;?, quod voluerit in ipsa turpitudine prehendentem maritum coercere. 340 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 437;
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La seconda e la terza ipotesi di pene a carico del marito contemplavano, rispettivamente, l'acquisto di un lucro ex adulterio uxoris e l'aver conservato in matrimonio una moglie in adulterio deprehensam341. La donna adultera veniva sottoposta alla pena di morte, esercitabile dal pater familias o dal marito. Per pater si intendeva colui che esercitava in quel momento la potestas sulla donna o colui che veniva considerato auctor della conventio in manum342. Il diritto di ius occidendi riconosciuto dalla lex Iulia disponeva un trattamento differente rispetto al pater familias e al marito, sulla base di diversi fondamenti, in quanto il pater, mosso dall'amore paterno, si sarebbe diretto verso l'amante della figlia, mentre, il marito a sua volta si sarebbe accanito nei confronti della moglie343. Il padre ed il marito della donna infedele, erano gli unici a poter uccidere in occasione di adulterio. Il principio del ius occidendi del pater derivava dalla potestas che gli attribuiva il ius vitae ac necis sui
341 C. VENTURI, Crimina e delicta nel tardo antico, cit, p. 27. 342 E. CANTARELLA, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 224. 343 G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis,in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit, p. 24
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figli. Al padre della donna veniva, quindi, concesso di uccidere entrambi gli adulteri colti in flagranza di reato, se si fossero verificate le particolari condizioni previste dalla legge: il padre doveva avere la figlia in potestà o averne autorizzato il passaggio alla manus del marito; doveva poi sorprendere i colpevoli in casa propria o del genero; infine, doveva uccidere entrambi in continenti, cioè nello stesso momento344. Al padre era concessa la facoltà di uccidere la propria figlia, anche se, tramite il matrimonio era diventata uxor in manum, e quindi non più soggetta alla sua potestas. Se il padre non avesse ucciso entrambi gli adulteri, sarebbe incorso nel reato di omicidio Qualora, però, non fosse riuscito nel suo intento per cause a lui non imputabili, sarebbe stato sufficiente dimostrare la sua voluntas occidendi, essendo l'uccisione della figlia necessaria per legittimare, a sua volta, l'uccisione del correo345. I limiti previsti per l'esercizio del ius occidendi riconosciuto al marito erano, invece, più estesi rispetto a quelli del pater. Nei confronti del marito, infatti, non si può parlare di un vero e proprio 344 C. FAYER, La familia romana, Concubinato, divorzio, adulterio, cit, p.222. 345 C. FAYER, La familia romana, Concubinato, divorzio, adulterio, cit, p. 227.
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riconoscimento del ius occidendi ma, solo di impunità. In quanto, si ritiene che proprio sulla base dell'assimilazione degli effetti della manus a quelli della patria potestas, al marito venisse concesso l'esercizio della vitae necisque potestas e, quindi, un'attenuazione della pena qualora avesse agito in preda allo iustum dolor346. Qualora poi l'adulterio fosse stato commesso durante la notte, l'oscurità insieme allo iustum dolor rappresentavano per il marito delle attenuanti nel caso in cui avesse ucciso l'amante al di fuori delle circostanze che avrebbero consentito l'atto347. Il motivo della scelta di una così rigida politica criminale può probabilmente rinvenirsi nel danno di immagine che in seguito alla commissione dell'adulterio derivava al marito, il quale non sarebbe più stato stimato dalla civitas e avrebbe rischiato di venir estromesso dalla vita economica e sociale che in essa si realizzavano348. La già citata Lex Iulia de adulteriis contemplava l'adulterio come crimen solo qualora si fosse realizzata la fattispecie dell'unione di una 346 G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis,in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit, p. 273. 347 G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis,in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit, p. 14. 348 G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, cit, p. 256; M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 46.
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donna sposata con un uomo diverso dal marito. Solo più tardi, con il diritto della tarda antichità, fu riconosciuta anche alla moglie la possibilità di divorziare dal marito che avesse commesso adulterio349. Tale legge, inoltre, vietava espressamente alla donna condannata per adulterio di essere testimone in un iudicium publicum e impose nei suoi confronti un impedimento assoluto di contrarre matrimonio con il proprio
complice.
Tale
disposizione
venne
successivamente
confermata, anche, dalla lex Iulia et Papia350. L'indegnità degli adulteri e la nullità del loro matrimonio sembrano essere presupposti in un passo di Papiniano, D. 34. 9. 13.(Pap. 32 quaest): Claudius Seleucus Papiniano suo salutem. Maevius in adulterio Semproniae damnatus eandem Semproniam non damnatam duxit uxorem: qui moriens heredem eam reliquit: quaero, an iustum matrimonium fuerit et an mulier ad hereditatem admittatur. Respondi neque tale matrimonium stare neque hereditatis lucrum ad mulierem pertinere, sed quod relictum est ad fiscum pervenire. Sed et si talis mulier virum heredem instituerit, et ab eo quasi ab indigno hereditatem 349 B. BIONDI, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 583; M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 54. 350 B. BIONDI, Diritto romano fonti- diritto pubblico- penale- processuale civile, in scritti giuridici, cit, p.48.
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auferri dicimus351
Qualora gli adulteri avessero contratto matrimonio illegittimo, al marito offeso era concessa la possibilità di intentare causa esclusivamente nei confronti del correo. Solo dopo un'eventuale condanna del complice si concedeva al marito la facoltà di chiamare in giudizio anche la donna, la quale poteva essere condannata o assolta352. In quest'ultimo caso, la condanna del complice avrebbe avuto nei confronti della donna semplici effetti civili, comportando l'illegittimità del matrimonio e l'impossibilità di succedere al complice per testamento, sanzione prevista per chi veniva considerato indegno353. La violazione della fedeltà coniugale era, quindi, punita con una severità che con il tempo andò aumentando e continuò ad assumere rilievo solo qualora a violarla fosse stata la donna. La pena applicata 351 D 34. 9. 13 ( Pap. 32 quaest.); Cfr E. NARDI, I casi di indegnità nel diritto successorio romano, 1937, p. 97 Trad. «Claudio Seleuco saluta il suo Papiniano. Mevio, condannato per aver commesso adulterio con Sempronia, sposò la stessa Sempronia che non era stata condannata e morendo la lasciò sua erede. Chiedo se il matrimonio era legittimo e se la donna venga ammessa all'eredità. Risposi che un simile matrimonio era invalido e la donna non avrebbe goduto l'eredità, ma che quanto era stato lasciato spettava al fisco. Anzi, anche nel caso una tale donna avesse istituito erede l'uomo, affermiamo che l'eredità sarebbe stata sottratta pure a lui, come indegno». 352 R. ASTOLFI, La lex Iulia et Papia, cit, p. 128. 353 R. ASTOLFI, La lex Iulia et Papia, cit, p. 132.
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al complice dell'adultera era prevista solo in quanto, macchiandosi di un simile reato, egli violava il diritto di un altro cittadino all'esclusività sessuale sulla propria moglie354. Qualora, invece, un uomo sposato avesse avuto rapporti extraconiugali con una donna che non era tenuta alla fedeltà nei suoi confronti continuava a non essere prevista alcuna sanzione. Con il tempo, quando la legislazione iniziò a cambiare, l'unica pena in cui il marito incorreva in caso di tradimento sarebbe stata la perdita delle dilazioni di restituzione di dote e alcuni vantaggi patrimoniali legati al matrimonio355. L’ultimo capitolo della lex Iulia de adulteriis, mostra il particolare regime accusatorio di tale legge. Venne, infatti, prevista sia un’accusatio iure extranei, attribuita a qualunque cittadino che fosse stato a conoscenza del reato, sia un’accusa preferenziale attribuita al padre e al marito dell’adultera356. L’accusatio iure mariti vel patris, cosi come quella iure extranei,
354 E. CANTARELLA, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 224. 355 E. CANTARELLA, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 224. 356 G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis,in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit, p. 67.
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presupponeva l'avvenuto divorzio. Gli adulteri non potevano essere perseguiti con l' accusa iure mariti vel patris o da parte di terzi, se la donna era ancora unita in matrimonio con l'uomo al quale era stata infedele. L’adultera non poteva essere accusata in costanza di matrimonio, bisognava dunque procedere alla scioglimento delle nozze, salvo che il marito non fosse stato condannato di lenocinio, o avesse abbandonato l’accusa già iniziata. Per procedere contro di essa si doveva esercitare prima l’accusatio contro l’adultero, e poi l'eventuale secondo marito, con cui aveva contratto un matrimonio illegittimo, avrebbe dovuto ripudiarla per evitare l’accusa di lenocinio357. Lo scioglimento del vincolo coniugale si configurava, quindi, non già quale momento iniziale dell'accusatio adulterii, bensì, come condizione pregiudiziale per l'esercizio dell'accusa, sia iure patris vel mariti che iure extranei, senza nessuna conseguenza connessa al verificarsi del divortium per effetto di unilaterale volontà del marito. Il divorzio e l'accusatio adulterii si presentavano tra loro in rapporto di reciproca autonomia, pur costituendo il primo una formale condizione 357 G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis,in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit, p. 70 ss.
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per il possibile espletamento della seconda358. La lex Iulia con il tempo subì una progressiva decadenza per mutamenti di ordine sociale. Con Costantino si ebbero alcune modifiche: solo al marito venne concessa l'accusa privilegiata, mentre si allargò l'ambito dell’accusa iure extranei la quale venne riconosciuta a capo dei parenti prossimi e del padre359. La legittimazione all'accusatio adulterii iure axtranei, oltre che a tali soggetti era riconosciuta anche all'iniustus maritus, in quanto, tale legge parificò l'iniusta uxor alla iusta uxor. In ambedue i casi l'uomo, marito o compagno per perseguire l'infedeltà della propria donna, potevano accusationem instituire360 . Con Giustiniano361 il regime dell'adulterio subì importanti modifiche: l'imperatore stabilì che alla donna fosse evitata la morte; venne prevista una pena più lieve che, pur facendo salva la vita della colpevole era tuttavia di straordinaria durezza. L'adultera, in base alle
358 C. VENTURINI, Crimina e delicta nel tardo antico, cit, p. 27. 359 Cth. 9,7,2; e successive modifiche in C. 9,9,29 (30). Cfr. G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis,in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit, p. 123 ss. 360 C. FAYER, La famiglia romana, aspetti giuridici e antiquari, concubinato, divorzio, adulterio, cit, p. 313 ss. 361 Nov. 22; 25,2,2; 74; 117; 132.
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nuove disposizioni, doveva essere chiusa in un monastero, dal quale poteva uscire solo se il marito l'avesse perdonata entro due anni. Se il perdono non veniva concesso o il marito moriva prima, sarebbe stata costretta alla clausura per tutta la vita362 . L'adulterio appare quindi come il primo reato punito con una sanzione equiparabile all'ergastolo. Giustiniano ristabilĂŹ il principio che al marito poteva essere concessa l'impunitĂ solo per l'uccisione del complice della moglie, e non anche per l'uccisione di questa. PerchĂŠ l'omicidio rimanesse impunito occorreva l'esistenza di alcune condizioni, quali: l'invio all'amante della donna di tre diffide scritte, che costituivano un avvertimento, firmate da testimoni fededegni. Solo dopo aver adempiuto a tali formalitĂ , gli era concesso di ucciderlo impunemente, a condizione che lo avesse colto in flagranza di reato nella propria casa, in casa della moglie, in una taberna o in una casa dei sobborghi363. Inoltre, gli eventuali figli nati da relazioni adulterine avrebbero goduto di una mera parentela di sangue (cognatio) con la madre e i 362 Cfr. B. BIONDI, Diritto romano, fonti diritto pubblico penale, processuale civile, in scritti giuridici, cit, p. 72. 363 E. CANTARELLA, Istituzioni di diritto romano, cit, p. 226.
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parenti di lei, mentre nessun vincolo giuridico sarebbe sorto nei confronti del padre364. L'adulterio era quindi visto come un reato che, non ledeva solo l'onore del singolo, ma la pubblica morale365.
2. Lo “stuprum”
Nessuna autonomia concettuale era attribuita, nell'esperienza romana, alla figura criminosa della violenza carnale366. Nella letteratura giuridica non si riscontra, infatti, alcuna distinzione neanche tra adulterium e stuprum: entrambe le fattispecie, infatti, così come furono regolate dalla Lex Iulia de adulteriis, erano indistintamente indicate, spesso si adoperava il termine adulterium per indicare l'una quanto l'altra. Tale legge nel reprimere lo stuprum irrogava le stesse sanzioni previste per l'adulterio367. 364 M. TOCCI, Il diritto del matrimonio e della filiazione nell'antica Roma, cit, p. 46. 365 B. BIONDI, Diritto romano, fonti diritto pubblico penale, processuale civile, in scritti giuridici, cit, p. 156. 366 F. BOTTA, Violenza sessuale e società antiche, profili storico- giuridici, Lecce 2003, p. 61. 367 B. BIONDI, Diritto romano, fonti diritto pubblico penale, processuale civile, in scritti giuridici, cit, p. 48; G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis,in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit, p. 172.
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Successivamente sembrano presentarsi dei connotati piĂš precisi quando, con il termine adulterio, si identifica una condotta illecita della nupta e con il termine stuprum, invece, ci si riferisce all'unione con una virgo, vidua o un puer. Tuttavia si continua a parlare di infedeltĂ coniugale femminile, incesto e unione violenta, descrivendo le varie ipotesi ora con stuprum, ora con adulterium368. Per stuprum, in generale, si intendeva l'unione con una donna di buoni costumi non sposata, ma pare che si facesse riferimento esplicito anche all'ipotesi di un rapporto violento. Questa situazione veniva probabilmente tenuta in considerazione come una forma di aggravante a carico del responsabile di adulterium stuprum369. Quando tali atti iniziarono ad essere oggetto di repressione extra ordinem, chi avesse usato violenza su una donna sposata, fidanzata, una nubile o vedova onorata, sarebbe incorso nelle pene previste dalla lex Iulia de adulteriis, che consistevano nella: confisca di parte del patrimonio e nella relegatio in insulam370. 368 G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis,in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit, p. 17. 369 F. LUCREZI, La violenza sessuale in diritto ebraico e romano, in studi sulla Collatio, Torino 2004, p. 18. 370 F. LUCREZI, La violenza sessuale in diritto ebraico e romano, cit, p. 19.
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Perché si integrasse il crimen-stupri adulterii era necessario che all'oggettiva condotta criminosa si affiancasse l'elemento soggettivo del dolo, indicato con l'espressione sciens dolo malo371. Esso era imputabile sia a chi commetteva l'illecito, sia a chi collaborava per la sua realizzazione, presupponendo così la riflessione giurisprudenziale sulla complicità del crimen. Per quanto riguarda la persona dell'aggressore, sembrerebbe che l'uso della violenza da parte sua fosse sostanzialmente irrilevante, in quanto assorbito nella generale sanzione dell' adulterium stuprum372. Durante il giudizio, qualora venisse acclarata l'incolpevolezza della vittima, ad essa non era comunque riconosciuto il diritto alla riparazione, in quanto la norma si preoccupava di tutelare principalmente l'istituto del matrimonio e i boni mores e non già i diritti soggettivi della donna373. Per quanto riguarda, invece, l’aspetto della violenza, connesso a quello che noi modernamente intendiamo per stupro, si deve partire 371 D. 48. 5. 13 (12) (ULP. 1 de adult): “Haec verba legis 'ne quis posthac stuprum adulterium facito sciens dolo malo' et ad eum, qui suasit, et ad eum, qui stuprum vel adulterium intulit pertinent”; F. Botta, Violenza sessuale e società antiche, profili storico- giuridici, p. 77. 372 F. Botta, Violenza sessuale e società antiche, profili storico- giuridici, p. 77. 373 F. LUCREZI, La violenza sessuale in diritto ebraico e romano, cit, p. 21.
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dall'ultimo secolo della repubblica, quando si presentò la necessità di contrastare e reprimere tutti quei comportamenti che minavano quelle che erano le basi della convivenza civile. Fu in tale contesto che sorse l'esigenza di reprimere giuridicamente la violenza (vis), intesa come patologia del sistema. Sorse a questo punto la figura del crimen vis, il quale si configurava come illecito dai connotati essenzialmente politici. Spiccata valenza politica assunse al riguardo la lex Iulia de vi publica et privata, con la quale Augusto, nel 19 e 16 a. C cercò di reprimere tutti quegli atti inconciliabili con l'autorità pubblica374. Non sembrerebbe che tali leges de vi facessero riferimento all'ipotesi di violenza sessuale, ma è proprio sul concetto di vis che la giurisprudenza romana sembra aver elaborato la categoria che più pare avvicinarsi alla concezione moderna di tale tipo di illecito, ossia quella dello stuprum per vim, atta a giustificare la repressione della violenza carnale come crimen vis375. Con il termine stuprum si inizia probabilmente ad individuare una condotta violenta caratterizzata da elementi sessuali, punita come vis 374 F. BOTTA, Violenza sessuale e società antiche, cit, p.55 ss. 375 G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis,in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit, p. 250 ss.
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attraverso l'estensione di una lex de vi, infatti, ciò che fino ad allora era stato punito, tramite editto del pretore, era un insieme di comportamenti che, non traducendosi in un contatto sessuale con la donna, erano lesivi del buon nome della stessa, poiché ne erano in qualche modo anticipatori. Solo con l’elemento della vi aggiunto al contatto sessuale si riuscì a reprimere lo stupro penalmente376. Importante appare a proposito un passo di Ulpiano, (Ulp. 4 adult.) D. 48. 5. 30 (29). 9 eum autem, qui per vim stuprum intulit vel mari vel feminae, sine praefinitione huius temporis accusari posse dubium non est, cum eum publicam vim commitere nulla dubitatio est
in cui si spiega che la prescrizione stabilita dalla lex Iulia aduteriis per i reati dalla stessa previsti, non poteva essere applicata allo stuprum violento, in quanto questo si configurava come un'ipotesi di violenza pubblica377. Si configura, quindi, la categoria di stuprum per vim, che contrassegnava la congiunzione carnale violenta, facendola rientrare 376 F. LUCREZI, La violenza sessuale in diritto ebraico e romano, cit, p. 27 377 G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis,in studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit, p. 253.
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nell'ambito della persecuzione de vi. La legge cercò, inoltre, di tutelare coloro vittime di un abuso, evitando che incorressero in un ingiusto castigo, per cui la donna che avesse subito un vis non sarebbe incorsa nel reato di adulterio, sebbene non ne avesse immediatamente informato il marito dell'accaduto378. Infine, nel IV sec. d.C., la repressione del reato di stupro andò a confondersi con la persecuzione del raptus, in virtù degli elementi che accomunavano le fattispecie tipiche dei due illeciti 379.
3. “ De chi levarit per forza mygeri coyada” e “ De chi intrait per forza in domu de alcuna femina coyada”: la disciplina in tema di stupro nella Carta de Logu d'Arborea
"Vogliamo e ordiniamo che se un uomo violenta una donna maritata, o una qualsiasi sposa promessa, o una vergine, ed è dichiarato legittimamente colpevole, sia condannato a pagare per la donna sposata lire cinquecento; e se non paga entro quindici giorni dal
378 S. PULIATTI, Incesti crimina, regime giuridico da Augusto a Giustiniano, Milano 2001, p. 11 379 F. LUCREZI, La violenza sessuale in diritto ebraico e romano, cit, p. 22.
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giudizio gli sia amputato un piede...."380 Nei 163 articoli della Carta de Logu di Eleonora spicca l'attenzione della Giudicessa al mondo femminile, questo viene in risalto principalmente nel capitolo XXI “De chi levarit per forza mygeri coyada”, in cui Eleonora trattò il reato di stupro: Volemus ed ordinamus chi si alcun homini levarit per forza mugeri coyada, over alcun'attera femina, chi esserit jurada, o isponxellarit alcuna virgini per forza, e dessas dittas causas esserit legittimamenti binchidu, siat juygadu chi paghit pro sa coyada liras chimbicentas; e si non pagat infra dies bindighi, de chi hat a esser juygadu, siat illi segad'uno pee pro modu ch'illu perdat. E pro sa bagadia siat juygadu chi paghit liras ducentas, e siat ancu tenudu pro levarilla pro mugeri, si est senza maridu, e placchiat assa femina; e si nolla levat pro mugeri, siat ancu tentu pro coyarilla secundu sa condicioni dessa femina, ed issa qualidadi dess'homini. E si cussas caussas issu non podit fagheri a dies bindighi de chi hat a esser juygadu, seghintilli unu pee per modu ch'illu perdat. E pro sa virgini paghit sa simili pena; e si non hadi dae hui pagari, seghintilli unu pee, ut supra381.
380 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel medioevo, cit, p.19. 381 Cfr, F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno di Arborea, cit, p. 58 «Vogliamo e ordiniamo che se un uomo violenta una donna maritata, o una qualsiasi sposa promessa, o una vergine, ed è dichiarato legittimamente colpevole, sia condannato a pagare per la donna sposata lire cinquecento; e se non paga entro dieci giorni dal giudizio gli sia amputato un piede. Per la nubile, sia condannato a pagare duecento lire e sia tenuto a sposarla, se è senza marito (=promesso sposo) e se piace alla donna. Se non la sposa( perché lei non è consenziente), sia tenuto a farla accasare (munendola di dote) secondo la condizione (sociale) della donna e la qualità (=il rango) dell'uomo. E se non è in gradi di assolvere ai suddetti oneri entro quindici giorni dal giudizio, gli sia amputato un piede. Per la vergine, sia condannato a pagare la stessa cifra sennò gli sia amputato un piede come detto sopra»
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Per tale tipo di reato, il reo era condannato al pagamento di una somma di denaro pari a cinquecento lire, entro il termine di quindici giorni, o sarebbe incorso nell'amputazione del piede. La possibilità data da Eleonora di riscattarsi dalla pena principale, tramite il pagamento di una somma di denaro, fu considerata, però, un'odiosa eccezione, in quanto rappresentava un privilegio irrazionale concesso in modo implicito ai ricchi382. Le pene mutilative rappresentavano un surrogato alle pene pecuniarie che il condannato non era in grado di pagare. La loro giustificazione stava nella necessità di non lasciar impunito il non abbiente e di non fare della sua miseria un privilegio di fronte al ricco383. La pena prevista era assai severa consisteva, infatti, nella decapitazione, nel caso in cui la vittima fosse stata una donna maritata o una vergine384. Il reato andava però impunito se, trattandosi di una vergine il violatore l'avesse sposata, si plaguait a sa femina, sempre che lo 382 F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno di Arborea, cit, p. 58. 383 E. BESTA, La Sardegna madioevale, istituzioni politiche, economiche e sociali, cit, p. 211. 384 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel medioevo, cit, p.109.
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stesso fosse celibe. In caso contrario avrebbe dovuto darle marito secundu sa condicione dessa femina a sa qualitade dessu homine385. Peculiarità di tale norma è che, solitamente tali delitti potevano risolversi con un matrimonio riparatore il quale offriva alla donna la possibilità di decidere se accettare o meno l'unione386. Il reato non si configurava se la donna stuprata fosse stata una concubina o una meretrice, un aspetto questo, che sembra rifarsi al diritto romano, in cui le donne di basso ceto sociale godevano di una tutela giurisdizionale meno ampia387. La gradazione della pena variava a seconda di diverse circostanze, per lo stupro, si teneva in considerazione, come visto, dello stato e della condizione della donna violata e se il reo non avesse pagato la multa, sarebbe incorso nella pena del taglione. Viceversa, andava impunito se la condizione della donna era tale da permettere la celebrazione del matrimonio tra loro388. Le circostanze aggravanti e attenuanti erano tutte legate alla qualità 385 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel medioevo, cit, p.109. 386 E. BESTA, La Sardegna madioevale, istituzioni politiche, economiche e sociali, cit, p. 211. 387 E. BESTA, La Sardegna madioevale, istituzioni politiche, economiche e sociali, cit, p. 222 388 P. SATTA BRANCA, Il comune di Sassari nei secoli XIII e XIV, cit, p. 146.
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della persona offesa dal reato. Nel capitolo appena ricordato, infatti, la Giudicessa accenna assa qualitade de sa femina. Nella legislazione di Eleonora, un sistema di circostanze aggravanti si profilava, inoltre, in ordine al tempo e al luogo in cui il reato fosse stato commesso o ad alcune modalitĂ che lo avessero accompagnato389. Scopo di Eleonora sembrerebbe dunque quello di mantenere il buon costume, far rispettare il pudore delle donne e proteggere la loro onestĂ e purezza390. Anche chi entrava in casa di una donna maritata, benchĂŠ non avesse abusato carnalmente su di lei veniva punito, tale disposizione si riscontra nel Capitolo XXII â&#x20AC;&#x153;De chi intrait per forza in domu de alcuna femina coyada : Item ordinamus chi si alcun homini intrarit per forza a domu de alcuna femina coyada, e tenintihellu, e noll'happat hapida carnalimenti, ed est indi binchidu legittimamenti, siat juygadu, seghintilli un'origla tota. E si alcun homini esserit tentu cun alcuna femina coyada in domu dessa femina, ed esserit voluntadi dessa femina, cussa codali femina siat affrastada e fustigada, ed ispossedida dessos benis suos totu e dessa raxonis sua gasi de dodas comenti de atteros benis, e remangiat assu maridu, e non a figios, chi avirit hapidu per innantis, e non ad atteru parenti suo, 389 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel medioevo, cit, p. 102. 390 G. C. DEL VECCHIO, Eleonora e la sua legislazione, cit, p. 66.
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exceptu a plagheri de cussu maridu cun su quali avirit fattu sa ditta fallanza. Ed iss'homini, cun su quali esserit acattada, non siat frustadu ma deppiat pagari infra dies bindighi, de chi hat a esser juygadu, liras centu; e si non pagarit infra su dittu tempus, siat illi segada un'origla in totu. E zo non s'intendat pro femina chi siant publicas meretrici; nen ancu in casu chi sa femina andarit a domu dess'homini, over de attera persona chi non esserit habitacioni dessa ditta femina; ch'in cussu casu s'homini paghit liras vintichimbi, ma sa femina siat affrustada, ut supra391.
L'uomo avrebbe dovuto pagare anche in questo caso una pena pecuniaria pari a cento lire, in caso contrario, Eleonora, stabilì che gli venisse tagliato l'orecchio. Stessa pena venne prevista qualora fosse stato trovato in casa della donna con il consenso della stessa392. In questo caso le cose stavano diversamente, in quanto l'adulterio o il tentativo venivano puniti per l'uomo, con una multa che variava in base al luogo di ritrovo, e per la donna era, invece, prevista la 391 Cfr, F. C. CASULA, La Carta de Logu del regno di Arborea, cit, p. 58 «Inoltre ordiniamo che se un uomo entra a forza in casa di una donna sposata, ed è colto sul fatto, se è dichiarato legittimamente colpevole, anche se non l'ha violentata sia pagato a pagare cento lire; e se non paga entro quindici giorni dal giudizio, gli sia tagliato per intero l'orecchio. Se un uomo è scoperto a letto con una donna sposata, nella casa di costei e con lei consenziente, la donna deve essere bastonata e frustata, e privata di tutti i suoi beni, sia dotali che altri, che devono andare a suo marito e non ai figli avuti dal marito né da altro precedente, né devono andare ad altro suo parente a meno che non venga indicato espressamente dal marito tradito. Invece, l'uomo con cui è stata scoperta non sia frustato ma sia condannato a pagare cento lire entro quindici giorni dal giudizio; altrimenti, gli sia tagliato per intero un orecchio. Queste pene non si applicano alle prostitute pubbliche né alle donne che si recano a casa dell'uomo o in un'altra casa che non sia la propria. In questo caso, l'uomo paghi venticinque lire a la donna sia frustata come detto sopra» 392 G. C. DEL VECCHIO, Eleonora e la sua legislazione, cit, p. 67.
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fustigazione e la perdita dei beni a favore del marito e di eventuali suoi figli393. La pena era la stessa se, la donna, fosse andata in casa dell'amante o presso qualche altra parte con lui, in questo caso, però, l'amante era punito solo con una semplice multa pecuniaria pari a venticinque lire. Eleonora ordinò, inoltre, che colui che detenesse la donna altrui a scopo di concubinato, e non la restituisse al marito che gliene avesse fatto richiesta, dovesse pagare una multa di cento lire e sottostare al taglio di un orecchio. Per la donna stabilì che essa venisse accusata, anche in questo caso, di adulterio. Certamente in tali tipi di reato non si
riscontra
più
la
rigida
concezione
primitiva
vigente
nell'ordinamento romano394. La giudicessa, inoltre, parificò all'adultera anche la fidanzata che avesse tradito il futuro sposo, in considerazione della figura sarda dello sponsalizio già esaminato in precedenza395.
393 E. BESTA, La Sardegna madioevale, istituzioni politiche, economiche e sociali, cit, p. 222. 394 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel medioevo, cit, p.109; G. C. DEL VECCHIO, Eleonora e la sua legislazione, cit, p. 68; E. BESTA, La Sardegna madioevale, istituzioni politiche, economiche e sociali, cit, p. 222. 395 R. DI TUCCI, Il diritto pubblico della Sardegna nel medioevo, cit, p. 108.
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RINGRAZIAMENTI
Il mio primo ringraziamento va a chi in questo momento è troppo lontano per essere accanto a me ma che, nonostante la lontananza mi ha sempre tenuto per mano e accompagnata in tutti questi anni con i suoi buoni consigli o con un abbraccio che valeva più di mille parole.
Ringrazio mio padre che ha sempre creduto in me, mi ha sostenuta in tutti i modi e ha fatto quanto gli era possibile per aiutarmi a raggiungere questo traguardo e mia mamma, che ha sopportato e condiviso l'ansia dei miei esami e che, con il suo grande istinto di mamma, è sempre riuscita a trovare le parole giuste per farmi ritrovare la voglia di portare a termine quello che avevo iniziato. La mia fortuna credo sia quella di avere due genitori per i quali non esistono abbastanza parole per spiegare quanto siano speciali.
Ringrazio la mia sorellina, la mia migliore amica, che non mi ha mai lasciata sola, che ha pianto e riso insieme a me, che mi ha tenuto stretta nei momenti più difficili. La ringrazio perché mi ha insegnato ad avere fiducia nelle mie capacità. Perché con le sue parole, sempre un po' complicate, mi ha fatto ritrovare il sorriso e la voglia di essere me stessa e perché, con la sua presenza silenziosa è stata in grado di darmi il coraggio che spesso i questi anni mi è mancato.
Non può di certo mancare il mio termo idraulico di fiducia che è arrivato nel momento giusto, lui che, con la sua faccia spesso imbronciata, mi ha fatto riscoprire la voglia di fare e la capacità di apprezzare me stessa. Lo ringrazio per tutte le volte che mi ha sopportata, che è riuscito a farmi ridere nonostante non ne avessi alcuna voglia e per tutte le volte che è riuscito a farmi sentire la persona più fortunata al mondo.
Ringrazio Matteo, perché fin dal primo giorno che ci siamo conosciuti mi ha fatto sentire il suo affetto, per essermi stato vicino con le sue frasi sagge e per avermi insegnato che la pazienza il più delle volte paga.
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Ringrazio poi Dani e Elena per essermi state vicino per tutto questo tempo, per essere state ottimiste al mio posto e che, in questo periodo. Due persone che sono entrate nella mia vita un po' per caso ma che ora hanno preso un posto speciale, quelle che, tra mille, non vorrei perdere mai; con cui, al di là dell'ambiente universitario, vorrei condividere tutte le altre cose belle che ci aspettano.
E mia futura Comare perché, nonostante la lontananza, è sempre riuscita a darmi la certezza che per me ci sarà sempre. Abbiamo condiviso tanto e ormai non abbiamo più bisogno di parole per capire quanto sia speciale il nostro legame. La ringrazio per avermi fatto conoscere e capire cosa sia una grande amicizia.
Un ultimo ringraziamento a Sara e Annarita che con i loro sorrisi hanno reso semplici le giornate più difficili.
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