A.D. MDLXII
U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ
DI
S CIENZE P OLITICHE ___________________________
CORSO
DI
LAUREA
IN
S C I E N ZE P O L I T I C H E
IL CATTOLICO IN POLITICA TRA LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA E IL PRINCIPIO DI LAICITÀ
Relatore: PROF. SIMONE PAJNO
Correlatore: PROF. MARCELLO CECCHETTI
Tesi di Laurea di: PASQUALE DEMURTAS
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
A mio Padre
I cattolici tra la Dottrina sociale della Chiesa e il principio di laicità.
INDICE PARTE I Capitolo I IL DIBATTITO SULLA LAICITÀ: La laicità come principio giuridico e la laicità nella Dottrina sociale della Chiesa. Alla ricerca di un comune terreno d’incontro Introduzione La Dottrina sociale della Chiesa Il Bene comune Il Teorema di Böckenförde J. Habermas Kelsen, Zagrebelsky e Maritain J.Rawls Il discorso di Benedetto XVI per la “Sapienza” La laicità secondo la Chiesa cattolica La laicità nell’idea laica tollerante La laicità in Italia PARTE II Capitolo II Simboli religiosi nelle scuole pubbliche Introduzione Cenni storici sul crocifisso nelle scuole pubbliche Il caso Lautsi Alcune riflessioni sul crocifisso nelle aule scolastiche La posizione ufficiale della Chiesa 1
CAPITOLO III LA FAMIGLIA
La famiglia nella Costituzione italiana La posizione ufficiale della Chiesa Le Unioni di fatto in Italia
CONCLUSIONI
La LaicitĂ come principio giuridico e la laicitĂ nella Dottrina sociale della Chiesa. Un incontro possibile?
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Capitolo I INTRODUZIONE In questo lavoro si affronterà un tema al centro del dibattito pubblico, culturale e giuridico, ovvero ci si chiederà se l’atteggiamento assunto della Chiesa, con particolare riguardo ai cattolici impegnati in politica, sia compatibile con i principi del nostro ordinamento giuridico che chiedono ai nostri rappresentanti, una volta eletti di operare senza vincolo di mandato (art. 67 Cost.). Inoltre ci si chiederà se le pretese della Chiesa cattolica nei confronti dei laici cattolici impegnati in politica siano compatibili con il principio di laicità e se il pluralismo tipico delle moderne democrazie liberali e occidentali
sia riscontrabile anche nel nostro
ordinamento. Con l’ascesa di Benedetto XVI al soglio Pontificio il confronto tra la Chiesa e il mondo laico si è fatto sempre più rigido e serrato. Le tesi in più occasioni espresse dal Pontefice, sia nelle encicliche che nei pubblici discorsi, richiamano ad una fede strettamente legata alla ragione, parlano di un Dio rivelato escluso dalla sfera pubblica a causa della così detta «dittatura del relativismo1» di cui sono vittime le democrazie occidentali, che, a causa di un’insana cristofobia, vogliono allontanare Dio dallo Stato in base ad un principio di laicità che la Chiesa definisce laicista, cioè contro Dio. La locuzione «dittatura del relativismo2», altro non è che, nel pensiero della Chiesa, un modo di tradurre, conferendogli un’accezione negativa, il principio di laicità pluralista, che non prendendo nessuna verità come assoluta accetta tutte le visioni della società, della vita, tutte le religioni, garantendo ad esse pari dignità. Fatta questa premessa, come è possibile far conciliare le nostre norme giuridiche che garantiscono tale principio con le pretese della Chiesa di parlare in 1
BENEDETTO XVI, Udienza generale, Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, cit.1 in www.vatican.va
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BENEDETTO XVI, Udienza generale,cit. 2
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nome della verità assoluta e di far valere queste istanze nelle Istituzioni pubbliche attraverso i laici cattolici politicamente impegnati? Il dibattito è sempre aperto e spesso, quando si presentano occasioni concrete come ad esempio il voto in Parlamento a favore o contro progetti di legge sulle unioni di fatto o si chiede di prendere posizione sui simboli religiosi nelle scuole pubbliche oppure sulla libertà di insegnamento, nasce un vero e proprio scontro, non solo tra lo Stato e la Chiesa, ma anche tra politici credenti e non credenti, riportando il confronto ad una eterna lotta tra Guelfi e Ghibellini tipicamente italiana. La guida dei cattolici in politica è la Dottrina sociale della Chiesa, un testo composto da encicliche e varie Note che ispirandosi al Vangelo e alla parola di Dio, indicano al cattolico la linea politica da seguire nelle istituzioni. Vengono indicati dei punti fermi chiamati «valori non negoziabili»3, rispetto ai quali il cattolico non può transigere, cioè, rispetto ai quali viene chiesta la più totale obbedienza. Sono ad esempio, il sacramento della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, il valore della vita dal concepimento alla morte naturale. Facendo, dunque, appello alla libertà di coscienza il cattolico deve non solo non promuovere o approvare queste leggi, ma addirittura non condividere alleanze con partiti o persone che propugnano programmi contrari ai suddetti principi non negoziabili. Accade spesso però, che un cattolico impegnato in politica si trovi schiacciato, da un lato, dalle prescrizioni della Chiesa, dall’altro dal fatto che rappresentando la nazione dovrebbe agire o legiferare a favore anche di coloro i quali credenti non sono, o credono in altro. Ci si chiede allora: è possibile far conciliare la Dottrina sociale della Chiesa con il supremo principio di lacità? Per provare a rispondere a questo interrogativo si seguirà un percorso che muove proprio dalla Dottrina sociale della Chiesa: si cercherà di capire se esiste un comune terreno di incontro, tra la guida all’azione politica della Chiesa e il mondo laico.
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G. CREPALDI, Il Cattolico in politica ,Siena, Cantagalli, 2010
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Quindi, si soffermerà l’attenzione su quella che potrebbe essere definita la “teoria politica” di Benedetto XVI, in particolare sul discorso che avrebbe dovuto pronunciare alla Sapienza in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, approfondendo ed esaminando contemporaneamente il pensiero di Rawls e Habermas. Nei capitoli secondo e terzo, si analizzeranno dei casi concreti, in particolare “i simboli religiosi nelle scuole pubbliche” e la “famiglia”. Si cercherà di capire qual è la posizione della Chiesa sui questi temi, cosa ci dicono al riguardo la Costituzione, le leggi e la giurisprudenza. Alla fine del lavoro, si cercherà di trarre qualche conclusione, sia dal punto di vista laico, che da quello cattolico.
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La Dottrina Sociale Della Chiesa È importante iniziare questo lavoro con un accenno ai contenuti della Dottrina sociale della Chiesa perché senza conoscerla sarebbe impossibile capire cosa la Chiesa stessa chieda ai laici impegnati in politica e nel sociale. La Dottrina sociale della Chiesa è composta da un insieme di dottrine, Encicliche, documenti, elaborati a partire dall’enciclica del Pontefice Leone XIII, la Rerum novarum. Non è un caso che si inizi da Leone XIII, in quanto proprio grazie alla sua enciclica ai cattolici fu permesso l’ingresso nella società civile e politica da protagonisti. La Dottrina sociale della Chiesa può, dunque, essere definita come una guida all’azione politica per i cattolici, è un compendio costituito da più dottrine e tesi elaborate anche in tempi diversi ma strutturate in modo armonico, le quali dettano i principi a cui i laici cattolici devono far riferimento nel loro agire. Si potrebbe affermare che la Dottrina sociale della Chiesa sia una vera e propria Costituzione, la pietra miliare sulla quale si fonda l’agire politico del cattolico. Contiene al suo interno diversi argomenti, i temi di natura etica come la difesa dell’integrità della persona dal concepimento fino alla morte, la tutela della famiglia, il bene comune, il tema del lavoro fondamentale per lo sviluppo della persona, la libertà di insegnamento della religione, il principio di solidarietà, il prendersi cura dei poveri ecc. Come la Costituzione italiana, anche la Dottrina sociale della Chiesa contiene al suo interno dei principi fondamentali, che assumono il nome di «valori non negoziabili» che per loro natura sono indisponibile, inalienabili e imprescrittibili. Fa parte di questa categoria tutto ciò che riguarda la sfera etica, cioè la tutela della persona, della famiglia ecc. Da questa premessa si può capire come mai lo scontro tra Stato e Chiesa cattolica si accentui quando nelle sedi Istituzionali o nel dibattito pubblico vengono introdotti argomenti quali eutanasia, coppie di fatto, aborto, tutte tematiche sulle quali la Chiesa esige che i cattolici assumano la più totale e coerente adesione a ciò che la Dottrina dispone. Su altre tematiche trattate nel Compendio, invece la linea adottata 6
dalla Santa Sede è più morbida e conciliante. Infatti nonostante esprima spesso il suo punto di vista, come ad esempio sul tema del lavoro, affermando il primato della persona sul capitale, la stabilità del posto del lavoro, la giusta remunerazione, non chiede ai cattolici impegnati in politica di battersi con la stessa enfasi che invece devono possedere quando si discute di temi etici. Capita dunque, che se sulla difesa della vita i cattolici alzino un vero e proprio muro, sui temi, quali ad esempio, precariato del mondo del lavoro, abbiano più libertà d’azione, in quanto la Chiesa tende a star fuori da questo dibattito. In questo lavoro, ci si occuperà solo di quella parte della Dottrina che dispone sui «valori non negoziabili», perché è proprio su questi temi che il principio di laicità trova il punto massimo di tensione tra la Chiesa e lo Stato. Secondo l’enciclica Deus Caritas Est di Benedetto XVI «si colloca nel punto di incontro tra la ragione e la fede»4. Fede perché la Dottrina sociale della Chiesa, trova la sua ispirazione dal Vangelo e dunque dalla parola di Dio. Ragione perché dai principi né consegue una guida all’azione pratica razionale e ragionevole. Si potrebbe dunque sostenere che il cattolico impegnato in politica debba non solo meditarla ma anche farne conseguire un comportamento pratico coerente. Tra tutte le virtù richieste dalla Chiesa, in questo contesto assume più importanza l’obbedienza. Il problema è tutto qui. Come deve comportarsi un cattolico in politica all’interno di uno Stato laico? Fino a che punto può spingere le proprie ragioni? Può cercare mediazioni con chi non è credente, ad esempio su basi programmatiche? Alla prima domanda si può rispondere partendo da quanto si è finora detto. Infatti il cattolico in politica osservando la Dottrina sociale della Chiesa, non ha proprie ragioni, ma rappresenta la “Ragione” intesa come logos che trova il suo fondamento nel Vangelo, nel Dio fattosi uomo morto e risorto. Quindi i cattolici sono prima di tutto portatori di una verità, secondo il loro credo, assoluta e non trattabile. La Dottrina sociale è sì una guida all’azione politica e civile, ma trova nei testi sacri le 4
TRE INSEGNAMENTI DI BENEDETTO XVI. Punti chiave per l’azione sociale cit. 3-4,in «Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa» III 2007.
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proprie radici. Di conseguenza i cattolici non possono trovare accordi o compromessi neanche su basi programmatiche con coloro i quali non riconosco e difendono i valori come la famiglia, il rispetto della vita dal concepimento alla morte, ecc. che la Dottrina indica come «valori non negoziabili», con ciò intendendo l’indisponibilità a discutere o a trovare forme di compromesso tipiche della politica. È noto a tutti che oggi giorno non esiste più un partito dei cattolici, e che questi dopo il crollo della Democrazia cristiana hanno seguito strade diverse, per cui si possono trovare cattolici impegnati in politica in tutte le coalizioni. Pertanto può capitare che essi facciano parte di una coalizione che nel suo programma prevede la redazione di principi diversi da quelli propugnati dalla Dottrina sociale, come ad esempio, promuovere un intervento del Legislatore sulle Unioni di Fatto. In questo caso, la Chiesa si auspica che il cattolico faccia leva sull’obiezione di coscienza esprimendo un voto contrario a queste iniziative di legge anche se promosse dalla sua stessa coalizione. Ecco, dunque, i cattolici che partecipano alle competizioni politiche non sono mossi solo dai principi di educazione civica poiché un ruolo fondamentale riveste la loro spiritualità, infatti, essendo «guidati dalla coscienza cristiana»5, i cattolici si adoperano affinché l’ordine temporale venga indirizzato verso un modo cristiano di vivere la vita, «rispettandone la natura e la legittima autonomia»6, e «cooperando con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la propria responsabilità»7.
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CONCILIO VATICANO II, COST., in Nota circa l’impegno dei cattolici nella vita politica
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CFR. IBID, N. 36 CONCILIO VATICANO II, , NOTA CIRCA l’impegno dei cattolici nella vita politica ,cit. 31-43.
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Il Bene Comune Per poter affrontare il tema della laicità e dell’impegno dei cattolici in politica, occorre a mio avviso avere un’idea il più possibile chiara del significato dell’espressione «bene comune»8. Già in San Paolo, nella lettera ai Romani troviamo un riferimento al Bene. Egli afferma che non «c’è autorità se non da Dio: è un principio desunto dalla tradizione biblica e motiva la regola generale della sottomissione all’Autorità costituita, che è al servizio di Dio per promuovere il bene e condannare il male».9 San Paolo parla di “bene”, non in senso materiale, come condizione economica o di stabilità bensì utilizza il termine per indicare una concezione morale, cioè un bene spirituale che va cercato in Dio. Un altro passaggio importante che si evince dalla lettera ai Romani, è il rispetto delle Autorità costituite. Qui occorre fare una piccola premessa. Intanto è bene inquadrare il periodo e le circostanze in cui Paolo parlava. Lui era un cittadino romano che si rivolge ai romani in un epoca in cui i cristiani venivano perseguitati, il cristianesimo non era ancora una religio lecita, per cui è probabile che parlasse in quel modo proprio per non destare preoccupazioni e poter svolgere il suo apostolato in modo meno pericoloso. Ma, a prescindere da queste osservazioni, quel che è importante ai fini di questo lavoro è il fatto che le Autorità per San Paolo sono volute da Dio e quindi disubbidire ad esse sarebbe disubbidire ad un ordine voluto da Dio. Questo serve a far capire che, la forma di Stato non è essenziale per la Chiesa, infatti nei secoli ha dialogato e tessuto rapporti con dittatori e Presidenti non propriamente democratici. L’Autorità civile che impartisce disposizioni è essa stessa un ordinamento ed è posta da Dio, tanto che opporsi all’Autorità costituita equivale a ribellarsi ad una disposizione di Dio. Quindi Paolo, con termini di carattere prevalentemente giuridico e politico, afferma che ogni cittadino e ogni schiavo deve assoggettarsi ai detentori 8 9
GIAMPAOLO CREPALDI, IL CATTOLICO IN POLITICA, cit. 49. SAN PAOLO, LETTERA AI ROMANI,CIT.13.9 TRADUZIONE UFFICIALE DELLA CEI, 1971,
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del potere politico, i quali sono addirittura posti da Dio stesso. Ma perché tutti, anche i cristiani, devono sottoporsi ai rappresentanti del pubblico potere? Prima si è detto perché incarnano l’ordinamento di Dio ma esiste un altro motivo «l’autorità è per te ministra di Dio in vista di un bene10». «Le autorità non fanno paura quando si agisce bene. Se non le vuoi temere, fa il bene, e ciò ti procurerà da parte loro una pubblica lode. Ma l’autorità politica è alle dipendenze di Dio anche nel punire chi fa il male. E la motivazione è: coloro che detengono il potere non portano la spada inutilmente. Lo ius gladii indica l’ordinaria giurisdizione capitale sui cittadini romani esercitata dall’imperatore e dai governatori. Ma poiché il rappresentante del potere statale nel suo duplice operato verso i buoni e verso i cattivi è servitore di Dio, ci si deve sottomettere a lui anche per motivi di coscienza. La coscienza, che secondo la lettera ai Romani, è la testimonianza mediatrice della legge scritta nel cuore per i pagani e quindi per gli uomini in genere, vincola l’uomo alla sottomissione della legge, ossia a ciò che gli viene imposto come comando di Dio dalle disposizioni dell’Autorità civile. La sottomissione all’Autorità, disposta da Paolo nel bel mezzo della sua esortazione sulla carità, non è pura rassegnazione nei confronti dei poteri superiori, ma è un’adesione alla coscienza, nella quale si percepisce qualcosa della legge di Dio11». La responsabilità di conseguire il bene comune, dunque, compete oltre che alle singole persone, anche allo Stato, poiché il bene comune è la ragion d’essere dell’Autorità politica. Lo Stato infatti deve garantire, coesione, unitarietà e organizzazione della società civile di cui è espressione, in modo che il bene comune possa essere conseguito con il contributo di tutti i cittadini. Come è noto, il bene comune è un concetto tipico — anche se non esclusivo— del pensiero sociale cattolico. Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa considera il bene comune come il primo dei principi di questa dottrina e lo fa
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SAN PAOLO, Lettera ai romani, cit. 13,9 SAN PAOLO, Lettera ai romani, cit. 13,9
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derivare «dalla dignità, dall’unità e dall’uguaglianza di tutele persone»12. Esso indica non soltanto il raggiungimento di un benessere materiale, ma è inclusivo anche il raggiungimento della felicità che secondo il pensiero cattolico può derivare solo da Dio. In concreto il bene comune è il bene di tutti gli uomini sia come singoli che nella collettività, un bene che riguarda il cittadino ma prima di tutto la persona. «È un concetto metafisico, in quanto presuppone che la realtà dell’uomo sia originariamente socievole e che la comunità sia per la persona un luogo di umanizzazione in un rapporto tale che la persona e la comunità si realizzino come un tutto rispetto ad un altro tutto13». Secondo la Dottrina sociale della Chiesa, anche la spiritualità fa parte del bene comune. Il bene comune, pertanto non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo. «Le esigenze del bene comune derivano dalle condizioni sociali di ogni epoca e sono strettamente connesse al rispetto e alla promozione integrale della persona e dei suoi diritti fondamentali14». Dunque, l’oggetto del contendere non è più, almeno principalmente, il rapporto tra Chiesa e Stato come istituzioni. A questo riguardo, infatti, la distinzione e l’autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l’apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguali dignità. Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso delle grandi problematiche etiche che sono emerse negli ultimi decenni a seguito delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti, fino ad un recente passato imprevedibili. 12
COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA, Liberia editrice Vaticana (2004), cit. 164-166 G. CREPALDI, Il Cattolico in politica, cit. 49. 14 COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA , cit. 164-166 13
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Queste problematiche hanno una dimensione non soltanto privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell’uomo a cui si fa riferimento: in particolare la domanda di fondo è se l’uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell’evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia una dimensione trascendente, irriducibile all’universo fisico. Il bene comune della società non è un fine a sé stante; esso ha valore solo in riferimento al raggiungimento dei fini ultimi della persona e al bene comune universale dell’intera creazione. Dio è il fine ultimo delle sue creature e per questo motivo non si può privare il bene comune della sua dimensione trascendente, che eccede ma allo stesso tempo dà compimento a quella storica. Questa prospettiva raggiunge la sua pienezza in forza della fede in Gesù Cristo che offre piena luce circa la realizzazione del vero bene comune dell’umanità. Come è possibile coniugare il perseguimento di tale bene e non ledere il principio di laicità? Se il fine ultimo dell’impegno dei cattolici in politica è, come si è detto il bene comune, fortemente legato al concetto di verità assoluta e trascendentale, mal si coniuga con il fine ultimo del principio di laicità, il quale punta a far sintesi e costruire nel reciproco rispetto, una piattaforma comune di valori relativi e non assoluti nei quali i più si possano riconoscere. Ci si chiede allora: E’ possibile pensare alla laicità come un comune terreno di incontro tra le istanze religiose, in particolar modo cattoliche, e quelle propriamente laiche? Questa prima lettura ci può essere di fondamentale aiuto per arrivare ad un punto sui cui la Chiesa Cattolica non transige e cioè che la libertà sia strettamente connessa con la Verità a tal punto da non poter esistere senza quest’ultima.«Verità e libertà o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono15».
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GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Fides et Ratio, n. 90, AAS91 (1999)
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Da quanto si è detto, si può già capire come per la Chiesa non basta che i cattolici si limitino a garantire la libertà di credo e proselitismo religioso all’interno di una Stato laico, ma chiede che questi si adoperino affinché anche gli ordinamenti temporali vengano orientati verso la ricerca della verità fondata sul Cristo morto e risolto. Una Verità che la Chiesa professa come assoluta e che indica come unica via per raggiungere la felicità. Ora, si sa che alla base delle democrazie liberali e laiche formatesi in Occidente, ci sia proprio la libertà. Una libertà che nell’ambito religioso da sì, la possibilità a tutti di professare il proprio credo, la propria fede, escludendo solo quelle fedi contrarie all’ordine pubblico, ma una volta garantita la libertà religiosa, lo Stato non prende posizione, decide in nome della laicità di non prendere nessuna verità come assoluta a differenza di quanto la Chiesa chiede ai laici impegnati in politica. Si avrà modo nei paragrafi seguenti di approfondire il tema della laicità. Per ora basti osservare, come già dalla idea di libertà e già dal fine ultimo, cioè il perseguimento del bene comune, vi siano delle profonde divergenze tra una visione laica e cattolica dell’ordinamento democratico. Infatti, per lo Stato il bene comune può essere raggiunto semplicemente garantendo ai cittadini un migliore tenore di vita. Ma per la Chiesa, questa visione prettamente materialistica del benessere conduce ad una felicità effimera. Infatti il bene comune ingloba in sé un fine morale e spirituale che ha come premessa l’aspetto materiale, cioè, migliori condizioni di vita dignità della condizione di lavoro, la solidarietà, ma se tutto si limitasse a questo non avrebbe senso parlare di bene comune che, invece, non può che venire da Dio e che dunque ci invita a cercalo anche nelle Istituzioni.
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Il Teorema di Böckenförde Ernst-Wolfgang Böckenförde con il suo noto teorema, dimostra come lo Stato liberale, nei secoli si sia allontanato dall’influenza della religione e dalla morale. Infatti, lo Stato per via del processo di secolarizzazione, è diventato un terreno neutro, ha rinunciato a prendere posizione su questioni morali e religiose. Böckenförde sostiene che «lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire16», in quanto per salvaguardare quella libertà che dice di voler difendere, dovrebbe riconoscere ai singoli e alla società una sostanza morale dalla quale esso ha deciso di prescindere e che, dall’altra, non può imporre, pena il seguire un confessionalismo contrario alla sua stessa natura. Il voler prescindere dalla morale è secondo Böckenförde la conseguenza della secolarizzazione, definendo questa scelta come il distacco di un ambito o di un’istituzione «dall’osservanza e dal potere clerico-spirituale17». Una volta venuto meno il connubio con Dio, il perno dell’unità statale divenne l’ideale di nazione, che oggi, in seguito al processo di globalizzazione, ha perso gran parte della sua valenza, tanto che si discute su cosa ai giorni nostri possa tenere unito lo Stato liberale. Si dovrebbe ritornare ad una religione civile? Per Böckenförde lo Stato secolarizzato si deve rifare a presupposti esterni, non può generare da sé le condizioni per la propria esistenza. Questi presupposti esterni dei quali parla Böckenförde , sono quei valori che nei secoli sono stati portati avanti dalle religioni ma non solo, anche dalle concezioni filosofiche e morali che hanno come presupposto la tutela dell’uomo, della sua interiorità. Quindi, il giurista, sostiene che lo Stato ha bisogno che i propri cittadini abbiamo questo tipo di formazione, che preesiste allo Stato e che può avere risvolti importanti per la sua tenuta. Il fatto che lo Stato non si basi più su una religione, il fatto che anche Böckenförde sostenga l’importanza della separazione tra Stato e Chiesa, tra la sfera temporale e spirituale, non significa, che egli trascuri l’importanza della religione e 16
E-W. BÖCKENFÖRDE, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione,cit.34 roma-bari ,laterza 2007
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E-W. BÖCKENFÖRDE., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, cit.34.
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del suo insegnamento. Anzi, come sì è detto attribuisce a queste un importante ruolo formativo per i cittadini di cui lo Stato stesso ha bisogno. Infatti, se pur Böckenförde, come anche prima di lui Hegel, sostiene che il potere temporale dello Stato debba essere autonomo e separato dal potere spirituale della Chiesa, riconosce tuttavia che quest’ultima ha avuto un ruolo fondamentale nell’educazione delle coscienze dei cittadini e il voler fare a meno di questo supporto, ha fatto sì che lo Stato non possa più, non solo costruire il suo consenso sulla religione ma neanche trovarne un appoggio.
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J. Habermas Habermas nel rimarcare l’importanza delle tradizioni religiose nella vita pubblica e, nell’ottica di mettere in luce l’apporto positivo che queste ultime avrebbero potuto arrecare alle debolezze dello Stato liberale, riprende il teorema di Böckenförde. Nel 2004 Habermas, ebbe un interessante colloquio all’Accademia Cattolica di Baviera con l’allora Cardinale Ratzinger sui temi della laicità e del ruolo della religione nella vita pubblica. Ratzinger riconobbe ad Habermas il merito di essersi schierato nelle prime file dei difensori dei diritti pubblici della religione e di essersi guadagnato anche un posto all’interno della corrente filosofica che vuole tradurre «i contenuti e le sollecitazioni del diritto naturale in linguaggio secolare e quindi sottoporli al criterio della generalizzabilità»”18. Il punto sul quale sia Habermas che Benedetto XVI concordano è che sia lo Stato che la religione devono dialogare in continuazione e non escludersi. Si potrebbe dire che sia per Habermas che per Benedetto XVI la religione è portatrice di quei valori universali, di quei principi fondamentali, come la solidarietà, di cui la democrazia ha bisogno per poter raggiungere i propri fini che non sono affatto incompatibili con quelli del cristianesimo. Habermas, infatti, sostiene che, proprio in nome di questa modernizzazione della società lo Stato democratico rischia di trovare al proprio interno dei cittadini che non possiedano più quei valori di solidarietà che venivano dalla religione e di cui lo Stato stesso si serviva. Habermas riformula quanto già detto da Böckenförde, cioè che, le società liberali si muovono solo in funzione dei propri bisogni ed interessi, in nome dei quali, è disposta ad opporsi al prossimo. Quindi, sia Habermas che Böckenförde concordano sul ruolo importante che la religione, se pur non attraverso vie istituzionali, svolge nella società. Benedetto XVI, condivide quanto sostenuto da Habermas, ma va oltre. Infatti, egli introduce nella discussione il binomio verità-ragione, come un legame 18
E.W. BÖCKENFÖRDE, Sull’ethos dei giuristi, prolusione all’inagurazione dell’anno accademicico 2009-2010 dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, tratto da www.diesse.org, GIUSEPPE BONVEGNA, Rivista ondine di ricerca di storia, letteratura e arte, n.13/2010
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indissolubile, dal quale neanche lo Stato può prescindere. In buona sostanza il Pontefice sostiene che sia compito anche dello Ordinamento democratico ricercare con l’ausilio della ragione la fede, perché, essa è indispensabile per far si che gli uomini una volta entrati nella comunità statale, possano essere dei cittadini che possiedono nel loro Dna, quel insieme di valori, come la solidarietà, la complementarietà, indispensabili per la tenuta dello Stato stesso. Habermas concorda pienamente: «Qui trova oggi risonanza quel teorema secondo cui solo l’orientamento religioso verso un punto di riferimento trascendente potrebbe far uscire dal vicolo cieco una modernità contrita19». In sostanza, sostiene che sia lo Stato che la democrazia non possano essere sorde a questo richiamo che viene dalla fede, dalla religione, perché non dialogare significherebbe confinarsi in buio fatto solo di regole tecniche e burocratiche che svuoterebbero di ogni valore umano la vita dei cittadini. Ed è per questo che Habermas sostiene l’importanza del cristianesimo. La sua morale ben si coniuga con le esigenze democratiche e in parte può colmare i vuoti che lo Stato ingabbiato nelle sue regole, nel suo non volersi schierare in nome della laicità non può garantire. La pretesa drastica del laicismo assoluto è del tutto fallimentare se si prende in esame l’insegnamento del filosofo tedesco e del Papa. Se non possiamo far funzionare la democrazia nella nostra società post-secolare senza il contributo critico della religione perché rischiamo di uniformare totalmente il pensiero, allora significa che la richiesta del laicismo radicale di isolare il mondo cattolico all'interno della sfera privata è completamente priva di senso. Il voler escludere la Chiesa provoca la grave distruzione culturale di secoli di storia e nega l’importante apertura spirituale dell’uomo, con il pericoloso risultato di rimanere intrappolati all’interno di una dimensione acritica della vita, dove possono diffondersi liberamente i germi di una mentalità totalitaria.
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HABERMAS- J. RATZINGER, «Ragione e fede in dialogo», cit.53, tratto da SANDRO D. FOSSEMO’, Habermas e Papa Ratzinger. Un possibile accostamento tra razionalismo e cristianesimo
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Habermas è attualmente tra i pochi studiosi atei e di sinistra che ancora mantiene un discorso realmente critico nei confronti di quei sistemi sociali notevolmente amministrati dal potere scientifico e tecnologico. Detto questo, però, bisogna aggiungere che, se certamente Böckenförde condivide la scelta di campo compiuta da Habermas, non per questo si riconosce del tutto nelle idee di fondo che la animano. Valorizzare il ruolo pubblico della religione è, infatti, una posizione culturale, che, pur avendo diversi punti in comune con la proposta di Habermas, non vi si lascia completamente assimilare per diversi motivi, prima di tutto perché parte da premesse diverse.
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Kelsen , Zagrebelsky e Maritain. Hans Kelsen è stato un giurista austriaco tra i più importanti del XX secolo. Si analizzeranno due suoi saggi tratti da «La democrazia20» ovvero, «Democrazia e concezioni della vita21», e «Democrazia e religione22». Entrambi saranno utili per comprendere meglio il lavoro che si sta portando avanti. Si comparerà il pensiero di Kelsen con quello di un altro importante giurista contemporaneo, e cioè Gustavo Zagrebelsky. Nel primo dei due saggi citati, Kelsen analizza due modi diversi di intendere la vita e il suo organizzarsi nella società: uno fondato sui valori e sulle verità assolute legate ad una «concezione del mondo metafisico-assolutista cui si ricollega un’attitudine autocratica23», la seconda fondata su criteri e valori relativi che escludono la possibilità di verità assolute. È una concezione «critico-relativista del mondo, alla quale si ricollega un’attitudine democratica24». Secondo Kelsen, a fondamento della democrazia c’è il relativismo che definisce come la concezione del mondo che il modello democratico deve supporre. Per cui non esistono verità o valori assoluti, ma soltanto opinioni diverse che se pur non condivise, ogni cittadino deve rispettare. Nella seconda parte del suo saggio, Kelsen avvalora la sua tesi, portando ad esempio la condanna a morte di Gesù. Da una parte c’è Pilato che non riscontrando in Gesù nessuna colpa, lo sottopone al giudizio del popolo, cioè della maggioranza, utilizzando il metodo democratico. Il popolo sceglie di liberare Barabba e di condannare e crocifiggere Gesù. Quest’ultimo, incarna la verità assoluta, una verità che Pilato non conosce o che comunque vede alla stregua delle altre verità, secondo una visione relativista del mondo e della società. Un verità che a sua volta i Giudei non riconoscono, non accettano ed anzi, una verità che disturba il loro credo, la loro verità, tanto che Gesù viene fatto condannare per bestemmia. Dice Kelsen, «Forse si obbietterà, forse i credenti, i 20
H. KELSEN, La Democrazia, Il MULINO,1995 H. KELSEN, Democrazia e concezioni della vita in La Democrazia cit 14. 22 H. KELSEN, Democrazia e religione, tratto da La democrazia, cit. 268. 23 H. KELSEN, Democrazia e concezioni della vita in La Democrazia cit. 140. 24 H. KELSEN, Democrazia e concezioni della vita in La Democrazia cit. 140. 21
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politici, obbietteranno che quest’esempio parla piuttosto a sfavore che a favore della democrazia. E bisogna riconoscere il valore di tale obbiezione, a condizione però che i credenti siano tanto sicuri della loro verità politica— che, se necessario, dovrà venire realizzata anche per vie cruente— quanto il figlio di Dio25». Zagrebelsky, nel suo «Il crucifige e la democrazia», riprende l’esempio proposto da Kelsen. Riparte dalla scelta di Pilato di utilizzare il «metodo democratico» per risolvere il caso di Gesù, sostenendo che in questo caso i valori di verità e giustizia vennero disattesi in nome della democrazia. Zagrebelsky, propone una tesi diversa da quella di Kelsen. Le conclusioni alle quali arriva il giurista austriaco, infatti, non lo convincono, in particolare non lo convince la dicotomia tra assolutismo e relativismo che «si legherebbero così l’una all’altra, come la conseguenza alla sua necessaria premessa. Gesù, forte della sua verità, sarebbe il campione dell’anti-democrazia, cioè dell’autocrazia, mentre il personaggio positivo dal punto di vista democratico sarebbe Pilato26». Zagrebelsky sostiene che all’interno del regime democratico possano convivere sia coloro che vivono la vita in chiave dogmatica, sia chi rispetto ad un credo ha un approccio scettico. Questi due ruoli, durante il processo a Gesù, vennero incarnati dal Sinedrio e da Pilato. Oggi come allora la convivenza tra lo scettico e il dogmatico, all’interno di un regime democratico è possibile, ma, va premesso che essi non servono alla democrazia, ma anzi si servono di essa fino a quando se possono servire27. Da un lato, sempre secondo Zagrebelsky, il dogmatico si servirà del metodo democratico fino a quando sarà utile al suo obiettivo, cioè quello di imporre la sua verità, dall’altro lo scettico, in base alla propria convenienza sarà democratico fino a quando trova giovamento dal sistema, ma allo stesso tempo, quando viene meno l’utilità, potrebbe anche decidere di sostenere e adeguarsi ad altre forme di governo.
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H. KELSEN, Democrazia e concezioni della vita in La Democrazia cit.144, Il MULINO,1995 G. ZAGREBELSKY, Il «crucifige!» e la democrazia cit..5, Einaudi 1995 27 G. ZAGREBELSKY, Il «crucifige!» e la democrazia cit.6 26
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A questo modello di democrazia, il giurista, ne sostituisce un altro che non ha come pretese quella di avere la verità e la giustizia, ma allo stesso non ne preclude la ricerca, dandogli il nome di «democrazia critica28». Il fine ultimo di questo modello non è la ricerca di valori etici assoluti, siano essi la giustizia, la verità, ma semplicemente il suo obiettivo è quello di ricercare il meglio, cercando quindi di coniugare le esigenze sia dei credenti sia dei non credenti (scettici o dogmatici). Zagrebelsky, sostiene che in nome del potere e del governo, Pilato, non è vero come dice Kelsen, che ha assunto una posizione democratica, in quanto non si è schierato, ma, anzi, egli si schiera dalla parte del potere muovendosi da uomo di governo che ha come fine del suo agire proprio il mantenimento di esso. «Anche egli può dunque essere accomunato a tutti gli altri personaggi del dramma29», rappresentando il ruolo che gli compete, cioè quello di rappresentante del Governo. Dunque, Zagrebelsky non condivide la raffigurazione che Kelsen fa di Pilato come democratico, sostenendo che, piegandosi alla volontà popolare, egli cercò di assecondare il popolo, in cambio della stabilità, per cui il suo atteggiamento fu populista o Autocrate per utilizzare il termine del giurista e, sappiamo che sia l’autocrazia che il populismo sono due forme degenerate della democrazia. “Zagrebelsky ribalta, quindi, il punto di vista di Kelsen. Secondo l’opinione del giurista italiano, sia Pilato che il Sinedrio sono due autorità autocratiche. Entrambe rappresentano un dogma, quello del potere, espresso da Pilato che persegue come fine ultimo il mantenimento di esso, e il Sinedrio che rappresenta un dogma religioso, che, privato di forza, non avendo sufficienti accuse contro Gesù, accetta l’idea di rimettere tutto nelle mani del popolo. Dunque, continua nel suo ragionamento Zagrebelsky, non fu una scelta democratica quella di consultare il popolo, ma bensì una scelta opportunistica da parte di entrambe le autorità. «L’autorità aristocratica del Sinedrio e quella autocratica di Pilato, che prima della consultazione popolare traballavano, ne furono rafforzate. Si tratta, dunque, di una 28 29
G. ZAGREBELSKY, Il «crucifige!» e la democrazia, cit .7 G. ZAGREBELSKY, Il «crucifige!» e la democrazia, cit. 78
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mobilitazione popolare a favore dei detentori del potere, di una partita, in cui il popolo giocava una parte nell’interesse altrui. Non era una attore, era una pedina, anche se forse si illudeva addirittura di essere il protagonista. Questo è appunto l’uso strumentale della democrazia30». Zagrebelsky, conclude in modo eloquente sostenendo che il processo a Gesù dimostra come, sia coloro i quali credono, cioè i dogmatici, sia coloro i quali pensano solo al benessere materiale, al potere, cioè gli scettici, possano, anche se apparentemente diversi tra loro trovare un compromesso all’apparenza democratico. Da un lato, i dogmatici vedono salva la loro verità rafforzata dal consenso popolare, dall’altro lo scettico vede rafforzato il proprio potere in virtù della decisione lasciata al popolo. «Il popolo che grida il crucifige!, è il paradigma delle masse manovrabili. Chi le manovra è il paradigma di coloro che, temendolo, a seconda delle circostanze oscilla tra la blandizia per manipolarlo e la forza per piegarlo ai propri fini31». La massima che per Zagrebelsky riassume questo modo errato di intendere la democrazia, è vox populi, vox dei, la quale rappresenta l’essenza della strumentalizzazione della manipolazione del popolo per i propri interessi. Secondo Zagrebelsky nella «democrazia critica» la locuzione vox populi, vox dei, diventa inutile e dannosa, una sorta di idolatria politica32, nella sua proposta, il popolo, dunque, è nel suo agire limitato a fallibile, tanto che Zagrbelsky preferisce introdurre, per la sua democrazia critica, la massima vox populi, vox hominum33dove, dunque, viene meno ogni sorta di idolatria e strumentalizzazione. Se infine Kelsen, sosteneva che nel processo, la parte del democratico fosse interpretata da Pilato, secondo Zagrebelsky invece, è Gesù il vero democratico. Egli argomenta la sua tesi, sostenendo che tra un Pilato che agisce per il mero potere e il fanatismo del Sinedrio, Gesù è l’unico che senza strumentalizzazioni accetta il giudizio. Gesù infatti si astiene dal gioco delle parti, propone la sua parola cercando 30
G. ZAGREBELSKY, Il «crucifige!» e la democrazia , cit. 80-81 G. ZAGREBELSKY, Il «crucifige!» e la democrazia cit.89 32 G. ZAGREBELSKY, Il «crucifige!» e la democrazia cit. 103 33 G. ZAGREBELSKY, Il «crucifige!» e la democrazia cit. 103 31
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semplicemente di convincere e non di vincere34, parla di Verità ma non cerca compromessi con il potere per imporla, non cerca il consenso del popolo per rafforzare il suo credo. In Democrazia e religione, Kelsen, riprende a parlare di democrazia, e la definisce come la miglior forma di governo possibile se si vogliono realizzare e perseguire i principi di libertà e di uguaglianza. Alla base della democrazia c’è la filosofia relativistica che, secondo Kelsen, «lascia all’individuo che agisce nella realtà politica la decisione circa il valore sociale da attuare e non gli toglie né può toglierli di dosso il peso di questa grave responsabilità35». Secondo il giurista, sarebbe proprio questo, il motivo per cui molti si scaglierebbero contro il relativismo, e cioè per l’incapacità di assumersi le responsabilità individuali di scegliere il valore migliore da seguire, scegliere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Sarebbe per questa incapacità, che gli individui delegano alla religione, la rappresentanza di queste esigenze. Tra tutte le religioni, quella che più di altre ha cercato di dare una base giustificativa alla democrazia è la teologia cristiana. Kelsen, vuole dimostrare che «la teologia cristiana può giustificare la democrazia soltanto come valore relativo, ma anche— e in primo luogo— per esaminare la pretesa della teologia di offrire una base alla democrazia e di tentare di provarla mostrando che vi è un nesso essenziale tra democrazia e religione cristiana36». Kelsen analizza le opere di tre importanti teologi, di cui due cristianoprotestanti e uno cattolico, Jacques Maritain, di cui ci si occuperà in questo paragrafo. Nel pensiero di Maritain la democrazia trova le sue fondamenta nel cristianesimo, sostiene che, è impossibile staccare la democrazia dalle sue radici morali-cristiane. Tutte quelle forme di governo che oggi si dicono democratiche, ma che tendono ad essere atee o che tengono ad allontanarsi dai valori del cristianesimo, in realtà sono democrazia incompiute che ancora devono realizzarsi. Kelsen, non 34
G. ZAGREBELSKY, Il «crucifige!» e la democrazia cit.119-120 H. KELSEN, Democrazia e religione, tratto da La democrazia,cit. 268 36 H. KELSEN, Democrazia e religione, tratto da La democrazia, cit. 269 35
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condivide il pensiero di Maritain perché secondo il giurista austriaco, in realtà nel corso della storia, il cristianesimo ha appoggiato governi non propriamente democratici, e se ciò non bastasse, il cristianesimo, già per bocca di Gesù scindeva ciò che è Dio da ciò che è di Cesare. Quindi, il messaggio cristiano non era un messaggio politico, non aveva come obiettivo quello di creare una forma di governo celeste qui sulla terra e meno che mai democratica. In sintesi, secondo Kelsen. Maritain parla di un «cristianesimo secolarizzato» che sarebbe, secondo il giurista, un enorme controsenso. Tra le tante cose, continua Kelsen, è impossibile trovare un nesso tra la religione cattolica e la democrazia, anche perché, la legge fondamentale che emerge dal vangelo è una legge d’amore, amare il prossimo come te stesso, porgere l’altra guancia, ecc., e come è facile intuire, sono principi di alto valore morale, ma incompatibili con qualsiasi forma di governo, anche democratica. Kelsen, dunque, giunge alle stesse conclusioni di Zagrebelsky, il quale, come si è detto precedentemente, sostiene che Gesù era tra i tre attori del processo il più vicino all’ideale democratico, ma che la mitezza nella politica viene spesso derisa e schiacciata, in un certo senso la democrazia prevede come estrema ratio anche l’utilizzo della forza per difendersi e per i mantenere l’ordine costituito. Kelsen, riprendendo Maritain, sostiene in fondo la stessa cosa, e cioè che la democrazia, come forma di governo, si poggia su altri pilastri che non sono quelli dell’amore cristiano, anche se non vieta o meglio preclude ai propri cittadini di poterli liberamente perseguire. Inoltre, nella massima «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio», Gesù fa una netta distinzione tra quello che appartiene alla fede e quello che appartiene agli uomini, non occupandosi delle cose terrene, il cristianesimo non ha preferenze per nessuna forma di governo, anzi, secondo la visione Paolina alla quale poi si ispirerà fedelmente la Chiesa cattolica nei secoli seguenti, qualsiasi forma di governo era legittima e tutti i cristiani dovevano esservi fedeli: così si spiega l’appoggio della Chiesa alle monarchie assolute, ai regimi totalitari ecc. Kelsen, conclude in modo lapidario, riprendendo un passo di San Paolo, e prima ancora, un passo evangelico, sulla schiavitù. In buona sostanza afferma che, 24
se vi è l’obbligo di essere fedele a qualsiasi forma di governo, un cristiano può essere libero anche se schiavo, una situazione, questa, incompatibile con la democrazia. Scrive, infatti, «servire da schiavo significa compiere la volontà di Dio: la fratellanza evangelica è del tutto compatibile con la schiavitù. Questa non opposizione alla schiavitù, è l’ispirazione evangelica37». Un’altra disputa importante, è quella che emerge a proposito del binomio verità-ragione. Jacques Maritain, sostiene che i principi di libertà e di uguaglianza trovano fondamento nella ragione — intesa come verità — che Gesù di Nazareth ha fatto scaturire nel mondo. Maritain inizia il suo ragionamento partendo dalla fine del XVIII secolo, e prende atto del ruolo fondamentale che ebbe l’illuminismo e l’affermazione della ragione come metodo di analisi scientifica. Detto questo però, egli sostiene che in realtà i principi fondamentali che emersero, ad esempio la libertà e l’uguaglianza altro non sono che valori appartenenti alla morale cristiana. A tal proposito parla appunto di «cristianesimo laicizzato»38. Per Maritain, l’affermarsi della ragione come metodo di costruzione delle realtà terrene, nulla toglie alla fede. Anzi, è proprio il voler separare l’ispirazione cristiana, che è ragione, intesa come logos, dal metodo democratico che condanna gli uomini all’infelicità. Infatti la democrazia, sorta sulla terra come manifestazione temporale ispirata ai principi del vangelo, deve avere come unico fine la salvezza dell’umanità, raggiungibile solo nella fede in Cristo. Dunque, in Maritain il binomio verità-ragione vive in simbiosi. Zagrebelsky, non condivide affatto il pensiero di Maritain. Il giurista italiano, utilizza il binomio verità-ragione per fare un’attenta analisi dell’attualità. Infatti, egli nota come già a partire da Giovanni Paolo II fino all’attuale Papa Benedetto XVI il legame tra verità e ragione sia stato proposto dalla Chiesa in modo sempre più incisivo. Inserendosi nel dibattito pubblico come unica portatrice di verità dimostrabile 37 38
H. KELSEN, Democrazia e religione, tratto da La democrazia, cit. 325 J. MARITAIN, Cristianesimo e democrazia, cit. 42 Passigli Editori 2007.
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anche attraverso la ragione, la Chiesa non accetta compromessi, si presenta come Verità assoluta e rifiuta ogni sorta di relativizzazione. L’assolutezza della verità che la Chiesa propone, secondo Zagrebelsky viene proposta in virtù due motivi: il primo è che la Chiesa è stata investita direttamente da Cristo come depositaria della Verità, fondata da Pietro, discepolo e successore del Cristo risolto. Dunque, la Chiesa, in virtù di questa discendenza si definisce l’unica Madre e Maestra, depositaria e portatrice di Verità. Il secondo motivo, Zagrebelsky lo ricava dal Vangelo secondo Giovanni, “tutto è stato fatto secondo il volere di Dio”, né consegue, dunque, anche ciò che appartiene alla sfera temporale. Cioè, quello che sulla terra esiste, è stato costruito secondo i piani ragionevoli di Dio. Nulla è arbitrario e casuale, tutto risponde ad una logica di ragione che dimora in Dio e nella Chiesa come sua rappresentante nel mondo. Quindi, secondo il ragionamento di Zagrebelsky la disputa non è più legata semplicemente al cattolico che agisce in politica facendosi portatore della sua Verità, perché l’universalismo cattolico, impone a tutti gli uomini anche a quelli non credenti di utilizzare la ragione per ricercare la Verità che è anche essa ragione cioè logos.
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J. Rawls John Rawls, è stato un filosofo liberale insegnante dell’Università di Harward. Il suo pensiero è tutt’oggi un punto fermo della riflessione politica. Ai fini di questo lavoro è fondamentale introdurre due delle sue teorie: la teoria delle «dottrine comprensive ragionevoli» e della «ragione pubblica». Come si avrà modo di vedere nel paragrafo successivo dedicato al discorso che Benedetto XVI avrebbe dovuto pronunciare alla Sapienza, il Pontefice cita Rawls e, dunque, per cercare di capire se l’uso che ne fa è corretto, occorre aver chiara la posizione del filosofo liberale. In questo paragrafo, ci si occuperà, dunque, delle due teorie suddette e del metodo che egli definisce «consenso per intersezione». Il quesito fondamentale che Ralws pone, nel suo Liberalismo politico, è se in una società plurale composta da dottrine comprensive ragionevoli differenti, siano esse appartenenti alla sfera religiosa, filosofica o morale, sia possibile trovare un punto di incontro che possa dare stabilità e legittimità alle istituzioni democratiche. È importante definire cosa Rawls intenda per dottrine comprensive. Esse sono: «tutte quelle che desiderano, come fine in sé, un mondo sociale nel quale sia possibile cooperare da individui liberi e uguali, a condizioni accettabili per tutti. In breve, le dottrine ragionevoli si impegnano ad individuare i principi generali di equa cooperazione. La presenza di più dottrine comprensive ragionevoli è, sempre secondo Rawls, un elemento costitutivo e non meramente accidentale delle società democratiche»39 È importante ricordare che per Ralws solo le dottrine comprensive ragionevoli possono essere utili al raggiungimento dei fini preposti. Per il filosofo, sono ragionevoli, quelle dottrine che, nonostante le varie differenze, possiedono quei caratteri essenziali di tolleranza, rispetto, compatibilità con gli ordinamenti democratici, rispetto per le libertà. È fondamentale però, che tali dottrine vengano elaborate e spostate nel campo politico, cioè nell’area in cui si incontrano anche 39
A. SCHIAVELLO, Due concezione della ragione pubblica a confronto. Dissezione analitica della nozione rawlsiana di ragione pubblica, tratto da www.units.it
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cittadini con un credo o pensiero differente, cercando una sintesi che possa essere per tutti la base solida sulla quale costruire e conservare lo Stato liberale. Rawls, dunque, si domanda come possa un ordinamento democratico garantire stabilità, libertà e uguaglianza al suo interno nonostante siano presenti diverse dottrine comprensive che, se pur ragionevoli sono spesso in contrasto tra loro. La risposta Rawls, la trova nel, liberalismo politico, che per il filosofo altro non è che un metodo attraverso il quale, lo Stato non prendendo nessuna verità come assoluta, partendo dall’assunto che, nessuna dottrina seppur ragionevole possa essere condivisa da tutti, si limita a garantire attraverso il regime democratico costituzionale quelle libertà fondamentali che garantiscano a tutti le stesse forme di tutela40. Dunque, da un lato, lo Stato rinuncia a prendere posizione, assumendo il ruolo di arbitro terzo e imparziale; dall’altro considera le diverse dottrine comprensive come opinioni e non come Verità. Il liberalismo politico, cioè, non entra nel merito di nessuna dottrina comprensiva né si interroga sulla verità, né critica posizioni etiche specifiche. Il liberalismo politico si presenta, invece, come una teoria politica che si occupa di individuare valori di natura politica, neutrali, rispetto alle diverse dottrine comprensive. «Secondo Rawls una società democratica contemporanea è fatalmente caratterizzata dalla compresenza di una molteplicità di dottrine comprensive, cioè dalla compresenza di numerose visioni generali (filosofiche, morali, religiose) della vita, più o meno ampie o mediate. In uno scenario pluralistico di questo tipo le assunzioni etiche che danno corpo alla superiorità costituzionale non possono essere quelle di una sola dottrina comprensiva (per quanto ragionevole essa sia): se ciò accadesse la prescrittività costituzionale non riuscirebbe a svolgere una funzione di integrazione sociale. Di qui la distinzione fondamentale tra dottrine comprensive e la concezione politica della giustizia41». 40
J. RAWLS, Liberalismo politico, 1994, cit.5-6.
41
J. RAWLS,Political liberalism (1993) trad.ital. Liberalismo politico, Milano, 1994, tratto da OMAR CHESSA, Libertà fondamentali e teoria costituzionale ,cit 284 Milano- Dott. A. Giuffrè Editore 2002.
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Con l’espressione «ambito politico»42, Rawls, definisce ciò che assume rilevanza solo dal punto di vista Costituzionale. Le concezioni della giustizia che diventano costituzionalmente rilevanti per Rawls sono quelle che possiedono solo gli elementi costituzionali essenziali. Per cui, la concezione politica della giustizia è una per tutti i cittadini e, a differenza delle dottrine comprensive, valide solo per gli aderenti delle diverse comunità, essa tende ad includere e non ad escludere. Coerente con il suo credo liberale, Rawls include nell’ambito politico solo gli elementi costituzionali essenziali per la formazione dell’idea di giustizia, quei diritti fondamentali in cui tutti o più si possano riconoscere. Questo perché, lo Stato non è una comunità, ma è un insieme di individui e di comunità di individui che necessitano di una sintesi per garantirne l’unione e la stabilità e, «siccome la costituzione di una società democratico-pluralista deve corrispondere non ad una ma a molte dottrine comprensive, i suoi contenuti non sono l’espressione di una comunità, bensì un oggetto, un assetto sociale multiforme e variamente articolato43». Ora, premesso ciò, Rawls prova a rispondere alla domanda proposta all’inizio del paragrafo. In altri termini una volta stabilito che si tratta esclusivamente di consenso politico e che nell’aderire ad un’ampia cerchia di valori condivisi dai più, senza nello stesso tempo rinnegare le dottrine comprensive ragionevoli alle quali appartengono, egli propone la sua soluzione chiamata «consenso per intersezione (overlapping consenus)». «Il punto di connessione tra diritto costituzionale e morale socialmente vincolante non può situarsi in corrispondenza di qualsiasi contenuto di valore, ma solo sulle assunzioni etiche che, per usare le parole di John Rawls, formano una “concezione politica della giustizia” in grado di guadagnarsi il “consenso per intersezione” di una “pluralità di dottrine comprensive ragionevoli44».
42 43
44
J .RAWLS. Liberalismo politico, Milano, 1994. cit. 9 O. CHESSA, Libertà fondamentali e teoria costituzionale, cit. 286 O. CHESSA, Libertà fondamentali e teoria costituzionale, cit. 283
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Il consenso per intersezione è un metodo attraverso il quale, in una società multietnica, si cerca di trovare una piattaforma comune di valori, dentro la quale i cittadini di diverse dottrine possano trovare dei tratti comuni che assicurino la pacifica convivenza e la fedeltà alle istituzioni. I principi essenziali di giustizia, rilevanti per l’ambito politico devono essere contenuti, nel sottoinsieme di intersezione non vuoto fra gli insiemi delle dottrine comprensive. Proprio là dove c’è l’intersezione, là dove si sovrappongono le diverse dottrine comprensive del diritto, sono contenuti quei valori condivisi dalle diverse comunità che assumono rilevanza politica e che, dunque, rientrano nell’ambito politico. «Il problema centrale che Rawls si pone nel suo Liberalismo politico, è dimostrare che il consenso per intersezione (tra la pluralità delle dottrine comprensive ragionevoli di una società democratico-pluralista) non può confermare quell’idea di «giustizia come equità» che, in sede filosofica normativa, viene fondata contrattualisticamente nell’accordo ipotetico formatosi nella «posizione originaria». Mentre l’ipotesi del contratto sociale originario fonda la validità universale della giustizia come equità, il consenso per intersezione invece fonda la sua «validità costituzionale», cioè la sua idoneità a dare corpo alla prescrittività costituzionale in una società pluralistica e multiculturale. Difatti, per raggiungere questo secondo obiettivo non basta il modello contrattualistico di Una teoria della giustizia: dimostrare teoricamente che il “liberalismo dei diritti fondamentali” ha un valore universale che nessun uomo razionale può mettere sensatamente in discussione non è ancora dimostrare che esso rappresenti la sola concezione che possa efficacemente e stabilmente essere accolta dalla Costituzione di una società pluralistica e multiculturale; cioè, non equivale ancora a dimostrare che una Costituzione ispirata a questa concezione abbia la capacità di imporsi come regola giuridica superiore all’interno di un contesto sociale attraversato dalla concorrenza di fedi, valori e culture diverse; e di mantenerlo in unità. A tale scopo soccorre dunque l’idea di consenso per intersezione45». 45
O. CHESSA, Libertà fondamentali e teoria costituzionale, cit. 289-290
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Una volta chiarito cosa Rawls intenda «per consenso per intersezione» si vuole introdurre un’altra idea molto importante del suo pensiero, cioè la «ragione pubblica» che, è opportuno approfondire per fare poi un’analisi comparata con l’idea di ragione pubblica di Benedetto XVI. Per Rawls la ragione pubblica è il valore attraverso il quale i cittadini di un regime democratico esprimono la loro disponibilità a collaborare e cooperare al fine di trovare un insieme di principi fondamentali comuni nei quali si riconoscono e che intendono difendere in quanto rappresentano i presupposti della loro unità e del loro vivere insieme. Essendo Rawls un pensatore liberale, la sua visione dello Stato ruota intorno alle libertà individuali, alle diversità che lo Stato non solo deve riconoscere ma addirittura difendere. Si può affermare che nella sua idea di ragione pubblica i valori di cui parla altro non sono che i principi fondamentali delle Costituzioni liberaldemocratiche che fissano le regole essenziali della convivenza tra cittadini, libertà dallo Stato, le regole in forza delle quali si compete per il potere, il ruolo che spetta al potere giudiziario, al potere legislativo e al potere esecutivo. Da quanto si è detto finora si può dedurre che per Rawls non tutte le «dottrine comprensive ragionevoli» possono essere inclusive della ragione pubblica, ma solo quelle che si fondano su un principio di ragionevolezza. Ai fini di questo lavoro è opportuno domandarsi: Le dottrine comprensive religiose, possono partecipare ed essere incluse nella ragione pubblica? La risposta ce la fornisce lo stesso Rawls: «le dottrine comprensive ragionevoli, siano esse religiose o non religiose, possono essere introdotte nella discussione politica pubblica in qualsiasi momento, a condizione che siano a tempo debito presentate ragioni propriamente politiche— e dunque non ragioni date esclusivamente da dottrine comprensive— sufficienti a sostenere ciò che si dice sostenuto dalle dottrine comprensive introdotte. Chiamo questa ingiunzione a
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presentare ragioni propriamente politiche clausola condizionale; essa definisce la cultura politica pubblica in quanto distinta dalla cultura di sfondo46». Ora, una religione che si propone come Verità, come logos, come portatrice di valori universali, che avanza ragioni non propriamente politiche e quindi non rispetta la clausola condizionale, può ugualmente essere inclusa nella ragione pubblica? Vedremo nel paragrafo seguente qual è la posizione di Benedetto XVI.
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J. RAWLS, Un riesame dell’idea pubblica, cit. 212 in Duccio Zola, Democrazia come reciprocità. L’idea di ragione pubblica in Jhon Rawls .
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Il discorso di Benedetto XVI per la “Sapienza”. Nel testo dell’allocuzione che avrebbe dovuto pronunciare all’Università di Roma “la Sapienza”, Benedetto XVI parla della ragione intesa come logos, citando anche J. Rawls: «vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa— le sue crisi e i suoi rinnovamenti— agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità. Qui però emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: che cosa è la ragione? Come può un’affermazione— soprattutto una norma morale— dimostrarsi ragionevole? A questo punto vorrei per il momento solo brevissimamente rilevare che John Rawls, pur negando alle dottrine religiose comprensive il carattere della ragione pubblica, vede tuttavia nella loro ragione non pubblica almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale— la sapienza delle grandi religioni— è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee47».
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BENEDETTO XVI, Testo del discorso per l’Università la “Sapienza” di Roma, www.repubblica.it /2008/01
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Il Pontefice va subito all’essenziale: l’Autorità della Verità. Introduce i concetti di ragione pubblica e ragione privata. Citando Rawls, ricorda come egli, pur disconoscendo alle dottrine religiose il carattere della ragione pubblica, ritenesse inconcepibile, in virtù del loro appartenere alla ragione non pubblica, non riconoscere ad esse una razionalità. Ma qual è la ragionevolezza di un tale pensare? La ragione nel suo agire deve guardare alla tradizione del pensiero: una tradizione responsabile e motivata. Benedetto XVI sottolinea con fermezza come il fondo storico dell’umana sapienza sia un segno della ragionevolezza dell’accettazione nell’oggi di quelle dottrine. Occorre cioè guardare alla sapienza della vita sviluppata dalla comunità all’interno della quale si vive48. Il pensiero di Benedetto XVI è facilmente comprensibile se si ha bene a mente il concetto di laicità che la Chiesa ha elaborato nella sua Dottrina sociale, cioè una laicità dove nel rispetto delle diverse religioni e culture, ci sia anche spazio per Dio, perché se si dovesse escluderlo, allora non si parlerebbe più di laicità ma di laicismo. Ergo: Se nel mondo laico c’è spazio per Dio, se la Chiesa è l’unica a poter parlare in nome della verità, (dunque di Dio), se il cristianesimo a differenza di altre religioni è compatibile con i modelli costituzionali democratici occidentali, ecco che di fatto il concetto di laicità di Benedetto XVI si presenta non solo come una pretesa di eccezionalità per la religione cristiano-cattolica, ma sulla base del binomio ragione-verità, che accompagna il suo pontificato, cela il concetto Paolino «non c’è autorità se non da Dio»49 che motiva la regola generale di sottomissione all’autorità costituita, che è al servizio di Dio per promuovere il bene e condannare il male. Ma anche se vi fossero altre dottrine comprensive ragionevoli religiose, filosofiche o morali che fossero compatibili con il modello democratico, vale la pena ricordare che Benedetto XVI parla di un’unica Verità, cioè quella del cristianesimo di cui unica voce investita di autorità è la Chiesa cattolica. Il Pontefice chiede, dunque, allo Stato 48 49
www.camplus.it , approfondimenti universitari. SAN PAOLO, Lettera ai romani, cit.13.9, traduzione ufficiale della Cei, 1971.
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non di fare sintesi tra le diverse dottrine, ma di interrogarsi e confrontarsi, anche in modo critico, con la Verità. Ora viene spontaneo domandarsi: spetta allo Stato, interrogarsi sulla Verità, o il suo compito è quello di fare sintesi fra le diverse dottrine ragionevoli (naturalmente come si è già detto vanno escluse le dottrine comprensive non ragionevoli) per raggiungere il fine ultimo della stabilità della libertà e della partecipazione democratica? Questa è la domanda fondamentale di questo lavoro alla quale si tenterà di rispondere nell’ultimo capitolo dedicato alle conclusioni. Un’altra importante differenza è che l’idea di ragione pubblica di Rawls è completamente opposta all’idea di ragione pubblica della Chiesa. Si è detto, nel paragrafo precedente, che la ragione pubblica è essenzialmente politica, dove per politica non si intende quella dei partiti o quella derivata da maggioranze che cambiano di continuo, bensì politica nel senso di politica costituzionale, fondata cioè sui principi cardini dell’ordinamento democratico, che in nome delle libertà tra le quali anche quella religiosa, non prende nessuna verità come assoluta, perché è suo compito principale difendere e rispettare le verità e il credo di tutti, senza che sia essa a doverla cercare. In altre parole, lo Stato democratico-liberale, non nasce per cercare la verità, questo compito spetta alle coscienze individuali. Lo Stato, la ragione pubblica si limita a ergersi a garante. Per la Chiesa cattolica, e per il suo Pontefice Benedetto XVI la ragione pubblica è «la ragione umana che, nel dialogo e nella ricerca, ritiene possibile conseguire alcune verità circa l’uomo e, in particolare l’uomo in società. La ragione pubblica è una ragione critica, certamente, ma anche costruttiva, ossia in grado non solo di guadagnare il consenso delle opinioni, ma anche di giungere alla verità e al bene dell’uomo in società nei cui confronti essa ha una capacità conoscitiva ed argomentativi»50. Al discorso di Ralws si può collegare quanto detto secoli prima da Benjamin Constant e Alexis de Tocqueville, i quali affermarono che «la religione è necessaria 50
G. CREPALDI, Ragione pubblica e verità del cristianesimo negli insegnamenti di Benedetto XVI, tratto da www.francoangeli.it12/03/2007
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per essere politicamente liberi, perché le masse hanno bisogno di una morale sanzionata religiosamente. Con altrettanta chiarezza essi chiesero che lo Stato non si identificasse con alcuna confessione cristiana specifica. Per Tocqueville la compenetrazione tra Stato e religione non ha ragion d’essere; l’uno e l’altra guadagnano dalla separazione e la religione trova nella separazione le condizioni per essere veramente se stessa51». Quindi, se per Rawls è sufficiente che la ragione pubblica garantisca le regole costituzionali, i principi fondamentali, per la Chiesa cattolica la ragione pubblica deve interrogarsi per il bene dell’uomo anche sulla verità. Oltre a questa differenza, è bene ricordarne un’altra: mentre per Rawls il presupposto è la forma di governo liberal-democratica, quindi una forma di governo non dogmatica ma pluralista, rispettosa delle religioni, per la Chiesa Cattolica la libertà, come abbiamo visto nella lettera di San Paolo ai romani, prescinde dall’Autorità o dalla forma di governo vigente in uno Stato. La libertà nella religione cattolica, è essenzialmente libertà dal peccato, libertà come amore verso Cristo risorto, per cui per colmo di paradosso anche in catene un cristiano-cattolico può sentirsi libero. Se l’esempio appare eccessivo, si può però dire che una forma di governo Teocratica, sarebbe per la Santa Sede ugualmente tollerata come la democrazia, purchè ovviamente, la religione sia quella cattolica. Infatti la Chiesa riconosce e tutela le altre religioni, nè promuove il dialogo, però, poi si autodefinisce come l’unica portatrice della verità, come la Madre Maestra. Il non volersi interrogare sulla Verità ma il semplice accettare tutte le verità, viene definito dalla Santa Sede, «dittatura del relativismo52». Nel discorso del Pontefice, viene citato anche Habermas. Già in precedenza si è visto come tra i due vi siano diversi punti di incontro, sopratutto sul ruolo che la religione deve avere nell’ambito politico. Cita Habermas, per ritornare al ruolo che la 51
ENCICLOPEDIA TRECCANI, Laicismo come modernità e libertà nel XIX secolo, tratto da www.treccani.it/enciclopedia/laicismo. cit. 4 52 BENEDETTO XVI, Udienza generale, Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, mercoledì 5 agosto 2009, in www.vatican.va
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religione, nello specifico il cristianesimo, deve avere nell’ambito pubblico. L’idea di ragione pubblica di Benedetto XVI è un’idea fortemente basata sull’idea di ragione come logos, del cristianesimo; cioè una ragione che cerca la verità nel trascendente e quindi non compatibile con la ragione pubblica di Rawls. Ancora una volta ci si trova davanti a due posizione tra loro incompatibili e che necessitano di un ulteriore approfondimento che si rimanda al capitolo delle conclusioni. Ritorniamo alla domanda di partenza. «Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienze etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica53». Il Papa Benedetto XVI continua così: «l’uomo vuole conoscere— vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della teoria, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra scientia e tristitia : il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto— chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rilevata insieme come il Bene, come la Bontà stessa54». Benedetto XVI, continua il suo discorso con diverse argomentazioni che riportano sempre al binomio verità-ragione. Conclude il suo scritto ritornando ad un delle domande poste al inizio del suo discorso e cioè, «Cosa ha da fare o da dire il 53 54
BENEDETTO XVI, Testo del discorso per l’Università la “Sapienza” di Roma, www.repubblica.it /2008/01 BENEDETTO XVI, Testo del discorso per l’Università la “Sapienza” di Roma, www.repubblica.it. /2008/01
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Papa nell’Università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro55». Questa conclusione molto interessante è portatrice del vero senso evangelico della Chiesa. La missione, che sia il Pastore come discepolo e successore di Pietro sia tutti i fedeli devono portare avanti nel mondo. Partendo dall’assunto che la fede sia un dono e non vada dunque imposta, certi che a Dio non interesserebbe avere una conversione comandata da un’Autorità terrena, il compito dei cristiani è quello di divulgare, far conoscere la parola di Dio come Verità, abbandonando ogni sorta di pretesa temporale. Se le cose stessero così, non ci sarebbe neanche da discutere su laicità, laicismo, intromissioni ecc. Se dunque il fine è nobile, il problema nasce sui metodi utilizzati per raggiungerlo. La domanda alla quale si cercherà di rispondere è: Il fine spirituale della verità, necessita di metodi temporali per essere conosciuta? La Chiesa cerca di utilizzare le Istituzioni Statali, scuole, organi di Governo, per diffondere la sua parola?
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BENEDETTO XVI, Testo del discorso per l’Università la “Sapienza” di Roma.
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La laicità secondo la Chiesa Cattolica. La definizione dalla quale occorre partire, per comprendere cosa la Chiesa cattolica intenda per laicità, è contenuta nel documento Lumen Gentium, prodotto dal Concilio Vaticano II, nel quale si afferma che «col nome di laici si intendono qui tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa56». Secondo il diritto canonico, invece, «si ritiene che siano tali i battezzati che non hanno ricevuto il sacramento dell’ordine e quindi anche quanti tra essi abbiamo abbracciato una forma di vita consacrata57». Quindi, secondo questa definizione vengono inclusi tra i laici, sia i clerici a quali spetta il compito di testimoniare Dio nei sacramenti, sia i non consacrati ai quali è chiesto di vivere nel mondo, testimoniando la presenza dei Cristo nelle istituzioni, nelle sedi in cui operano, cercando di animare cristianamente anche l’ordine temporale. Nell’enciclopedia Treccani, si sostiene che i laici «costituiscano una delle componenti più rilevanti del popolo di Dio, con una condizione costituzionale propria e autonoma, espressamente riconosciuta e tutelata dal diritto canonico. Come tutti i fedeli, sono tenuti all’obbligo generale dell’apostolato e hanno diritto di impegnarsi, sia come singoli, sia riuniti in associazione essendo altresì tenuti, secondo la propria condizione, ad animare le realtà temporali con lo spirito evangelico58». La Chiesa cattolica concepisce la laicità come uno spazio che include e non esclude Dio dal dibattito pubblico. Includere Dio nell’ambito politico, non significa semplicemente garantire la libertà religiosa, la tolleranza tra le varie confessioni, dare a tutte le religioni la stessa importanza. Significa prendere parte attiva al dibattito, cercare la Verità, fondamentale per il raggiungimento del vero bene comune, che come si è già detto, non si limita a far sì che si ottengano migliori condizioni di vita, ma porta in sé anche 56
L.G. N.31, tratto da GIUSEPPE SAVAGNONE, Dibattito sulla laicità. Alla ricerca di una identità, cit.11, Editrice Ellenici, Torino 2006
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G. FELICIANI, Le basi del diritto canonico,cit. 132 Il Mulino, Bologna 2002, ENCICLOPEDIA TRECCANI Il laico nella Chiesa cattolica,cit.1 tratto da www.treccani.it/enciclopedia/laico
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un significato morale e spirituale, che lo Stato non può non prendere in considerazione. La fede cristiano-cattolica, soprattutto a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II ad oggi, si presenta al potere temporale come Verità assoluta da ricercare mediante la ragione. Un’unica verità fondata sul logos che chiede anche allo Stato di mettersi in cammino alla ricerca della fede attraverso il metodo di indagine razionale. Lo Stato in nome di un laicità materialista, detta anche laicismo, tipica delle moderne democrazie occidentali, non solo non cerca Dio ma addirittura lo esclude dal dibattito pubblico, mortifica la ragione che, secondo la Chiesa ha bisogno di cercare Dio. Oggi giorno, sostiene la Chiesa, l’Occidente è sempre più vittima del relativismo culturale, nessuna verità viene vista più come assoluta, tutto è relativo, esistono solo opinioni e credi religiosi che si diversificano per, cultura, etica ecc.. Lo Stato non partecipa al dibattito pubblico ma svolge un ruolo di arbitro terzo e imparziale. La diretta conseguenza è che le leggi civili emanate dagli Organi Legislativi sono fortemente influenzate da questo relativismo e tendono a far diventare diritto ogni pretesa da parte di singoli o comunità, anche se queste sono contro natura. Rientrano in questo esempio, le unioni di fatto tra coppie dello stesso, l’eutanasia, l’aborto. Sono tutti casi nei quali, in nome di scelte personali autonome i singoli chiedono allo Stato diritti. La Chiesa si oppone fortemente a questa visione di laicità e a tutte queste pretese contro natura che piegano l’uomo alle sue voglie, mortificando la ragione stessa e l’ordine naturale fondato sulla legge naturale, così come voluta da Dio. Per la Chiesa, le leggi naturali, sono quelle che preesistono allo Stato e che questo deve semplicemente riconoscere, garantire e far sì che non vengano violate e declassate in nome del relativismo. Un esempio molto controverso che si avrà modo di approfondire successivamente, è ad esempio l’istituto del matrimonio, così come disposto dall’art. 29 Cost. che lo definisce come “società naturale fondata sul matrimonio.” Su questo articolo la Chiesa chiede ai cattolici laici impegnati in 40
politica, il massimo impegno per la difesa della famiglia fondata sull’unione di un uomo e una donna, così come disposto dall’ordine naturale. Ogni tentativo di equiparare altre unioni tra omosessuali, viene visto come un tentativo di sovvertire l’ordine naturale in nome di un relativismo che abbandona la morale in nome del pluralismo etico. È su questi temi, che la visione di laicità della Chiesa e dello Stato, assume l’apice dello scontro. La laicità, così come intesa dalla Chiesa cattolica, non si fonda su una concezione relativistica della società, ma su una società che garantisca sì la libertà religiosa, ma che allo stesso tempo cerchi l’unica Verità e che a prescindere da questo abbia nelle sue fondamenta dei punti fermi, come la difesa della vita e in generale la tutela dei diritti naturali che altro non sono che quelli che nella Dottrina vengono indicati come «valori non negoziabili». La Chiesa intesa come Istituzione, non vuole entrate nella sfera temporale. Essa dice di conoscere la distinzione tra le leggi dello spirito e quelle degli uomini. Il suo compito sarebbe esclusivamente quelle di emettere giudizi morali. Il ruolo di animare cristianamente il potere temporale, la Chiesa lo conferisce ai laici cattolici impegnati in politica e nella società civile. Essi coerenti nella loro fede testimoniano Cristo nel mondo. Ad essi la Chiesa chiede la massima coerenza tra i principi e l’azione politica, indipendentemente da quale sia la loro coalizione politica, su i valori non negoziabili viene richiesta la più totale aderenza ai principi della Dottrina. Il bene comune, promosso dai cattolici impegnati in politica, ha una valenza erga omnes, infatti l’umanità come la democrazia ha bisogno di solide fondamenta per autotutelarsi e crescere. Riprendendo Rawls, dunque, il cattolicesimo non si percepisce solamente come dottrina comprensiva del diritto ma chiede di partecipare alla formazione della ragione pubblica. In conclusione: da un lato la Chiesa specifica in più Note, Encicliche, documenti ufficiali, il suo volersi astenere da interferenze nel potere temporale, dall’altro chiede ai laici cattolici di testimoniare il suo messaggio in modo coerente e 41
obbediente. L’obbedienza richiesta dalla Chiesa basterebbe di per sé a violare l’art. 67 della Cost. che chiede ai rappresentanti del popolo di esercitare le loro funzioni senza vincolo di mandato e di rappresentare la Nazione nel suo complesso. Ma se vale quanto già detto, cioè, che ai cattolici è chiesto di partecipare alla vita pubblica non secondo le proprie ragioni ma secondo la Ragione, di cui l’unica interprete è la Chiesa, nei fatti è come se la Chiesa non abbia mai abbandonato l’interesse per le “cose degli uomini”. Ad un cattolico impegnato in politica la Chiesa chiede di adoperarsi secondo un insieme di valori disposti in scala gerarchica: prima viene la Sacra scrittura, poi la Dottrina sociale della Chiesa, e poi la fedeltà alla Costituzione e alle leggi civili e, se queste sono contrarie ai precetti della fede, occorre adoperarsi per abrogarle o limitarne gli effetti negativi.
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La laicità secondo l’idea laica tollerante L’enciclopedia Treccani, definisce lo Stato laico come «quello che riconosce l’eguaglianza di tutte le confessioni, senza concedere particolari privilegi o riconoscimento ad alcuna di esse, e che riafferma la propria autonomia rispetto al potere ecclesiastico59». «Per laicità intendiamo, grosso modo, una situazione in cui lo Stato si atteggia come neutrale e imparziale rispetto alle Chiese, dalle quali prende, per così dire, le stesse distanze, con una separazione che può presentarsi come indifferente, ostile o cooperativa, ma che tutela comunque la libertà religiosa60». Negli ultimi decenni, in seguito allo sviluppo della scienza, si sono accese aspre polemiche attorno ai temi etici, le quali hanno dato vita ad uno scontro sempre più marcato tra la Chiesa e lo Stato. Quest’ultimo sarebbe secondo la Santa Sede, vittima del relativismo culturale o dittatura del relativismo, che di fatto allontanerebbe l’uomo dalla Verità, intesa come unica speranza di salvezza, di cui è dispensatrice la Chiesa come unica autorità universale. Secondo Zagrebelsky, questa espressione può apparire dotata di un senso assumendo un punto di vista non pluralista ma assolutista. Per Zagrebelsky il relativismo, richiamando la definizione di Benedetto XVI, «non significa affatto che i relativisti siano esposti alla pura forza delle voglie. Ma la risposta a questo richiamo etico sta per loro nel quadro della libertà e della responsabilità, non in quello dell’obbedienza a qualsivoglia autorità, civile o religiosa, che si imponga contro la libertà e la responsabilità. L’uso contro di loro dell’espressione dittatura è solo un rovesciamento attraverso il quale ciò che è libertà, responsabilità e umanità viene fatto passare per imposizione, arbitrio e bestialità61». La posizione assunta dalla Chiesa, dunque, blocca di fatto ogni possibilità di dialogo, in quanto, etichettando tutto ciò che si discosta dalla sua Verità cattolica, 59
SUL CONCETTO DI LAICITÀ, tratto da www.treccani.it/enciclopedia/laico, cit.1 L. ELIA, Introduzione ai problemi della laicità, in Associazione italiana dei Costituzionalisti, Convegno annuale. Napoli,26-27 ottobre 2007. tratto da www.astrid-online.it 61 G. ZAGREBELSKY, Scambiarsi la veste, cit. 9, Editori Laterza, Bari 2010, 60
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come relativo, come verità incomplete e parziali, dà ai non credenti la sola possibilità di vivere la propria vita come se Dio ci fosse. Se la Chiesa, dunque, punta il dito contro lo Stato e la sua idea di laicità, è diffusa tra giuristi e pensatori laici l’idea che in realtà sia la Chiesa a compiere atti di ingerenza, in continuo aumento da quando è venuta meno la Democrazia cristiana, che garantiva una sicura, fedele presenza cattolica nelle istituzioni. Finita l’epoca del partito dei cattolici cioè della Dc, non dovevano comunque venir meno le prerogative sulle quali ai cattolici in politica, indipendentemente dallo schieramento, viene richiesta compattezza e unità di intenti, un unità fondata, come diceva Giuseppe Dossetti, sul “vangelo e non in un partito”. Infatti, come sostiene anche Savagnone, i cattolici se pur obbedienti alla Chiesa e alla fede devono, in nome della laicità, cercare di scindere ciò che è dovuto a Dio da ciò che è dovuto a Cesare. Si può essere ugualmente coerenti nella fede anche se le scelte nel campo politico non sono uniformi a quanto disposto dalla Dottrina. Quindi, ai fini della laicità è importante che il cattolico non deleghi ad altri il compito di decidere, ma sia lui secondo la propria responsabilità a prendersi l’onere della decisione. Il laico, dunque, nel suo agire politico, opera una distinzione tra l’uomo di fede e l’uomo di ragione62. Dunque, confrontarsi con la propria fede, con la propria coscienza è sicuramente giusto e importante, ma occorre anche che il cattolico impegnato in politica utilizzi la propria ragione. Si può notare come Savagnone in nome e a difesa della laicità ribalti la proposta della Chiesa, la quale, come sì è detto chiede ai laici cattolici di agire secondo la Ragione e non secondo le proprie ragioni. Qui, invece, la ragione dell’individuo riacquista autonomia e di volta in volta sceglie autonomamente cercando di tener conto sì della propria religione, ma allo stesso tempo rivendicando l’autonomia nell’ambito politico. Questo approccio, non si discosta poi tanto dalla definizione di laicismo della enciclopedia Treccani, «Il laicismo è l’atteggiamento di coloro che sostengono la 62
G. SAVAGNONE, Dibattito sulla laicità. Alla ricerca di una identità, cit.11, Editrice Ellenici, Torino 2006
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necessità di escludere le dottrine religiose e le istituzioni che se ne fanno interpreti, dal funzionamento della cosa pubblica in ogni sua articolazione. Il laicismo si contrappone nel linguaggio politico contemporaneo al confessionalismo e al fondamentalismo, secondo i quali le istituzioni politiche devono essere collegate al rispetto obbligatorio per tutti, credenti e non credenti, dei principi religiosi della Chiesa dominante. La separazione tra la sfera pubblica della politica e la sfera privata della fede religiosa è quindi un elemento essenziale del laicismo, che riconosce in questa separazione una condizione necessaria per il benessere dell’uomo, per il rispetto della sua dignità e per il libero sviluppo delle sue capacità. Il laicismo è orientamento tendenzialmente individualista e razionalista e pertanto lo si è anche identificato con una concezione più ampia e complessiva della cultura e della vita civile, basata sulla tolleranza comprensiva delle credenze altrui, sul rifiuto del dogmatismo in ogni settore della vita associata, anche al di là dell’influenza diretta dell’Istituzione religiosa dominante63». Le definizioni di laico e laicismo, dunque, non sono così diverse. Sembrerebbe che dicano le stesse cose, cioè che connotino un’identica posizione del laico persona o istituzione che si contrappone a verità assolute, dogmi o semplici interferenze religiose. Leopoldo Elia sostiene che, a seguito del crollo della Democrazia Cristiana e con la conseguente diaspora dei cattolici in politica, la Chiesa ha scelto di agire in prima persona cercando di orientare le decisioni pubbliche secondo il proprio orientamento morale. Questo atteggiamento, sempre secondo Elia, affonda le sue radici nella storia. Da un lato, nella cultura italiana, dove il cristianesimo è maggiormente presente rispetto ad altre realtà occidentali, e dall’altro nella debolezza delle nostre istituzioni democratiche che si prestano a queste ingerenze. Anche Leopoldo Elia, concorda, su un punto già più volte espresso in questo lavoro, e cioè che a partire dai primi anni del pontificato di Giovanni Paolo II, questo atteggiamento da parte della Chiesa è andato rafforzandosi, in particolare con l’indicazione, da parte 63
IL LAICISMO, tratto da www.treccani.it/enciclopedia/laico. cit 1
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del Papa polacco, del popolo italiano come «destinatario e custode privilegiato dell’eredità degli apostoli Pietro e Paolo64». Questo scambio di responsabilità, continue e a volte espresse con toni forti, dimostrano come la laicità dello Stato è un tema di grande attualità, sopratutto in Italia, dove ormai da diversi anni la società sta diventando sempre più multiculturale. Il crescente flusso immigratorio fa sì che all’interno del territorio nazionale convivano diversi modelli culturali, diversi valori che possono essere persino contrastanti con quelli condivisi dalla maggioranza di un popolo. Nelle democrazie liberali Occidentali, gli Stati laici possono adottare diversi modelli per regolare il loro rapporto con le religioni. Essenzialmente si possono riscontrare due modelli: chi prospetta una netta separazione tra l’ambito politico e l’ambito religioso, assoggettando tutte le confessioni religiose ad un'unica disciplina, è il caso ad esempio della Francia e degli Stati Uniti d’America; oppure pur senza discriminare le altre religioni, lo Stato crea un canale preferenziale con una determinata confessione religiosa, attraverso accordi, concordati. È il caso ad esempio dell’Italia. Nelle forme di stato socialista, invece, la separazione tra Stato e religione nascondeva una preferenza per le posizioni ateistiche fino ad arrivare alla proclamazione dell’ateismo di Stato e del divieto di qualsiasi manifestazione pubblica del proprio credo religioso, come per esempio in Albania art. 37 e 55 Cost. 197665. Ci potrebbe essere di aiuto dare uno sguardo oltreoceano. A tal proposito si ritiene utile analizzare i due modelli proposti da Dworkin. Egli, studiando la società americana sostiene che in America il sentimento, il credo religioso, è molto più diffuso che non in Europa. A differenza del Vecchio Continente e degli Stati che compongono l’Unione Europea, non esiste una Chiesa ufficiale, ma prosperano invece sette fondamentaliste, che sono quelle più inclini ad avere un programma politico66. 64
L. ELIA, Introduzione ai problemi della laicità, in Associazione italiana dei Costituzionalisti, Convegno annuale. Napoli,26-27 ottobre 2007. tratto da www.astrid-online.it 65 IL PRINCIPIO DI LAICITÀ, tratto da www.treccani.it/enciclopedia/laico cit. 3 66 R. DWORKIN, La democrazia possibile, cit.64 Feltrinelli Editore, Milano 2007,
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La religione ha un influenza notevole nella sfera pubblica, nello specifico nella politica, tanto che sia i Democratici che i Repubblicani fanno un ampio uso della retorica religiosa, che sarebbe mal tollerato sia in Italia che negli altri Paesi dell’Europa Occidentale. Il conflitto che divide l’America nel dibattito su Chiesa e Stato non verte su verità religiose o dogmi delle fede, e questa è già di per sé una grande differenza rispetto al dibattito presente in Italia; il conflitto si concentra sul ruolo della religione nella vita politica e nella vita pubblica67. Dworkin, utilizza una distinzione molto amata dai costituzionalisti americani. Egli afferma che il primo emendamento della Costituzione americana vieta l’istituzione di una religione ufficiale, e impone di garantirne la libera professione. I costituzionalisti le considerano due norme indipendenti, anzi a volte antagoniste. Religione ufficiale significa che la religione viene sancita, appoggiata dallo Stato, mentre libera professione significa libertà individuale nella pratica religiosa68. Analizzando queste due dimensioni, ne viene fuori un modello, dove, da una parte si colloca la Società religiosa tollerante e dall’altra la Società laica tollerante. Nella Società religiosa tollerante, secondo Dworkin la religione viene vista come fondamentale per la crescita spirituale degli uomini ed inoltre aiuta lo Stato ad avere cittadini e società migliori. Non discrimina chi non crede né dal punto di vista politico né da quello economico, tuttavia pubblicamente non mancherà di affermare la posizione ufficiale della Nazione che percepisce i non credenti come in errore. Nella società laica tollerante, Dworkin sostiene che lo Stato garantisce a tutte le confessioni religiose libertà di culto, senza accordare nessun tipo di preferenza ad una religione piuttosto che ad un’altra. La posizione che lo Stato assume è di totale neutralità e imparzialità. Scinde in modo netto la sfera politica dalla sfera religiosa. Come possiamo notare, entrambe le comunità rappresentate nei due modelli, sono tolleranti nei confronti di qualsiasi religione. Le contraddizioni tra questi due 67 68
R. DWORKIN, La democrazia possibile, cit.67 R. DWORKIN, La democrazia possibile, cit..69
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modelli insorgeranno quando si tratterà di discutere su questioni più specifiche, come ad esempio quelle riguardanti i temi etici: aborto, eutanasia, omosessualità, ecc. Una società religiosa tollerante, nel rispetto della propria preferenza verso un determinato credo, cercare di porre in essere un legislazione coerente con la religione, quindi promuoverà politiche contro l’aborto, tutela della famiglia ecc. Una società laica tollerante garantirebbe invece attraverso la legge, la libertà di ricorre o meno alla pratica dell’aborto, dell’eutanasia ecc. Questo perché, non assumendo nessun valore etico-religioso, demanda all’individuo la facoltà di scegliere autonomamente per ciò che riguarda la sua sfera individuale. La società laica tollerante, dunque, non prende posizione, non esprime giudizi di natura etica, si limita a garantire e tutelare le scelte autonome e individuali dei singoli cittadini. Sempre per quanto riguarda il rapporto tra le religioni e le Istituzioni laiche negli Stati Uniti d’America, Tocqueville nel suo La democrazia in America, descrive come vi sia una forte divisione tra cioè che è materia dello Stato e ciò che è prettamente religioso, ma nonostante tutto, le religioni svolgono un ruolo importante nella società dando il loro contributo attraverso la formazione delle coscienze dei singoli individui o comunità di credenti. In America, dunque, la religione ha rilevanza sociale attraverso la morale dei singoli, non attraverso le istituzioni statali. In questo tipo di sistema democratico, l’unione tra la religione e Governo rischierebbe di stravolgere gli equilibri collaudati nei secoli, e la religione verrebbe inghiottita dalla logica del potere dei governi. Se confinata nella sfera morale, la religione può contribuire positivamente allo sviluppo della democrazia, perché soddisfa un bisogno naturale dell’uomo di cui lo Stato è solo garante69. La laicità non va pertanto confusa con concetti quali, anticlericalismo, agnosticismo, relativismo. Laicità non è negare l’esistenza di Dio, non è essere indifferenti rispetto al problema di Dio, ma è il terreno comune dove credenti o non credenti rifiutano di fondare la politica, le istituzioni, la convivenza civile su un credo religioso. Preterossi, sostiene che i laici siano tutti coloro che a prescindere dal fatto 69
LAICISMO COME MODERNITÀ E LIBERTÀ NEL XIX SECOLO, tratto da www.treccani.it/enciclopedia/laicismo. cit. 4
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che credano o meno, non accettano che la politica, la convivenza civile, si fondino su basi teologiche, fideistiche70. Lo Stato laico riconosce la libertà di coscienza, garantisce alle istituzioni religiose la propria autonomia, ma la comunità politica deve adottare scelte fondate unicamente sulla ragione e sulla razionalità. Il metodo laico è, pertanto, il presupposto per la coesistenza di verità parziali, è dialogo continuo fra posizioni etiche diverse. In questo quadro nessuno deve pretendere di possedere le chiavi per accedere ad una verità certa e assoluta. Il metodo della laicità così inteso viene affidato alla ragione escludendo, dunque, verità assolute. Secondo Zagrebelsky la laicità è il risultato di numerose battaglie combattute in nome della ragione. È figlia di un ideale nato nella cultura liberale europea. Si tratta, dunque, di una percorso sviluppatosi nel Vecchio Continente nel giro di pochi secoli, durante il quale la ragione si è emancipata, dalle originarie ipoteche confessionali. Una volta assunto il rango di valore politico, per consentire la convivenza pratica di concezioni diverse della vita, la laicità ha assunto il significato di spazio pubblico, cioè spazio di tutti, dove poter esercitare, in eguali condizioni di libertà, i diritti di libertà morale e per costruire a partire da questi la propria esistenza. Uno spazio voluto dagli uomini per gli uomini, staccato da Dio, in cui tutti trovino il loro spazio, siano essi credenti o non credenti71. Continua ancora affermando che, la laicità si presenta come un terreno libero da dogmi dove chi vuole vivere senza Dio in una visione puramente materiale della vita è perfettamente libero di farlo. La laicità si è dunque sviluppata nello Stato contro le pretese temporali della Chiesa, che da sempre ha avanzato e tuttora avanza in virtù della sua pretesa di concepirsi come Ministero spirituale universale72. Dunque, dalle parole di Zagrebelsky si può dedurre che la laicità si sia affermata come valore politico, contro la Chiesa e non dunque con la Chiesa. È uno conflitto prima che tra autorità, tra due 70
G.PRETEROSSI, , Dibattito sulla laicità. Alla ricerca di una identità, cit. 12
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G. ZAGREBELSKY, Scambiarsi la veste, cit. .9 G. ZAGREBELSKY, Scambiarsi la veste, cit.10
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visione diverse del concetto di libertà: libertà civili, da una parte, e libertà ecclesiale, dall’altra, dove per libertà civili si intendono libertà uguali per tutti e per libertà ecclesiale privilegi e potere per la Chiesa Cattolica. Più ponderata, è invece la definizione che nè da Remoti, il quale sostiene che ci possono essere diversi gradi di laicità a seconda della disponibilità al dialogo che i singoli cittadini hanno all’interno dello Stato. Più si è disposti a rinunciare ai propri valori, maggiore sarà il grado di laicità. Quanto più si assume un indirizzo conservatore, quanto più si assumono valori non negoziabili, minore sarà il grado di laicità73. Dunque, secondo Remoti, una visione più laica della società è tipica delle democrazie liberali, pluraliste, più aperte al dialogo e al confronto.
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F. REMOTTI, in GIUSEPPE SAVAGNONE, Dibattito sulla laicità. Alla ricerca di una identità, cit. 14.
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La laicità in Italia. In Italia, l’idea di laicità è ben presente fin dal periodo statutario. Infatti, nonostante l’art. 1 dello Statuto, riprendendo la Costitzuione francese dell’epoca della Restaurazione, più precisamente l’art. 6 della Cost. francese del 1814, definisce il cattolicesimo come la sola religione dello Stato, e afferma che le altre religioni vengono tollerate conformemente a quanto disposto dalle leggi, da una serie di decreti reali, e poi dalla legge 735/ 19 giugno 1848, nei fatti venne posta in essere una parificazione tra tutte le confessioni religiose, a seguito di quanto si andava affermando nelle più importanti Costituzioni liberali dell’epoca. In Italia, la lotta per l’affermazione della laicità dello Stato fu portata avanti soprattutto da Cavour, il quale, oltre ad essere l’ispiratore delle cosiddette leggi Siccardi, legge n. 1013 e legge n. 1037 del 1850, fu il teorizzatore della separazione fra lo Stato e la Chiesa, a imitazione del modello statunitense. Il suo pensiero si può riassumere nella famosa massima, libera Chiesa in libero Stato. Sulla scia tracciata da Cavour venne promulgata anche la legge sulle guarentigie, legge n 214/13 maggio 1871, chiamata a risolvere i problematici rapporti tra lo Stato e la Chiesa dopo la liberazione di Roma dal giogo pontificio74. La nostra Costituzione, non contiene un’esplicita definizione di laicità. Tale principio si deduce da un’interpretazione sistematica degli articoli della Costituzione concernenti il fattore religioso operata dalla dottrina e, soprattutto, dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che è pervenuta al suo riconoscimento giuridico nel 1989 con la sentenza n. 203, nella quale viene attribuito alla laicità dello Stato il valore di principio supremo dell’ordinamento costituzionale italiano.«Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime pluralistico confessionale e culturale75». 74 75
IL PRINCIPIO DI LAICITÀ, tratto da www.treccani.it/enciclopedia/laico. cit. 2 SENTENZA N.203 DEL 1989, www.giurcost.org
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La libertà di fede religiosa non trova nella Costituzione un esplicito riconoscimento, perché ciò che diventa rilevante per il diritto, non sono i percorsi di fede interiori, ma come questi si manifestano all’esterno, in relazione alla coscienza del pensiero e della fede. La libertà di coscienza che ognuno ha la facoltà di sviluppare dentro di se è «la libertà di coltivare profonde convinzioni interiori e di agire di conseguenza76». Agire di conseguenza, significa essenzialmente mettere in pratica i principi della morale che ognuno matura dentro di sé. Al fine del diritto, è questo secondo aspetto che assume rilevanza, cioè gli effetti dell’azione nell’ambito pubblico. Sia la libertà religiosa che la libertà di coscienza sono tutelate da apposite leggi, ordinarie, ma anche da norme di rango Costituzionale, dalle quali si può estrapolare in via implicita il divieto di discriminazione, l’eguaglianza tra le confessioni religiose, principio, quest’ultimo rafforzato da quanto prescrive l’art. 8 comma primo della Costituzione “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”. In un primo tempo la Corte Costituzionale aveva interpretato questa disposizione in senso restrittivo, come garanzia di eguale libertà, ma non come eguale trattamento. Essendo la religione cattolica la fede della stragrande maggioranza degli italiani era legittimo, secondo la Corte, che vi fossero norme atte a tutelare i valori della religione cattolica e che non si potessero estendere ad altre religioni. Questo sia per i privilegi che lo Stato aveva riconosciuto alla sola religione cattolica nel Concordato del 1929, sia per la tutela generale e particolare che il codice civile riconosce ai principi e ai simboli della confessione cattolica. Il nuovo concordato entrato in vigore nell’ordinamento italiano con la legge 121/1985, ha eliminato una serie di norme incompatibili con la Costituzione, come quella che conferiva alla fede cattolica lo status di religione di Stato, o quella che ne rendeva obbligatorio l’insegnamento nelle scuole pubbliche.77
76 77
R. BIN-G. PITRUZZELLA, Diritto Costituzionale,cit.502, G. Giappichelli editore, Torino 2004. R. BIN-G.PITRUZZELLA, Diritto Costituzionale, cit.503
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Dopo la riforma del Concordato, la giurisprudenza costituzionale è ormai orientata a riconoscere nell’art. 8 primo comma Cost., anche il principio di eguaglianza di trattamento, cercando, per esempio, di estendere la tutela penale, che il codice riserva alla religione di Stato, ormai soppressa ad un più generale sentimento religioso. Le stesse intese con le confessioni religiose non cattoliche di cui all’art. 8 terzo comma Cost., hanno esteso ad altre religioni molti privilegi di carattere fiscale, finanziario, pastorale, in precedenza riservati alla Chiesa cattolica. La giurisprudenza costituzionale, a seguito della sentenza sul crocifisso, esposto nei luoghi pubblici, ha elaborato il principio supremo di laicità dello Stato, decucendolo dalla lettura degli articoli della Costituzione. Per quanto riguarda questo ultimo punto, si rinvia al capitolo successivo.
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CAPITOLO II SIMBOLI RELIGIOSI NELLE SCUOLE PUBBLICHE
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Cenni storici sul crocifisso nelle scuole pubbliche L’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane viene disposta mediante circolare, con riferimento alla legge Lanza del 1857 per la quale l’insegnamento della religione cattolica era a fondamento ed a coronamento dell’istruzione cattolica, posto che quella era la religione di Stato. L’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici in genere, è stabilita dall’ordinanza ministeriale 11 novembre 1923, n. 250, nelle aule giudiziarie dalla Circolare del 29 maggio 1926, n. 2134 recante “Collocazione del crocifisso nelle aule di udienza”. In materia scolastica si ricordano, le norme regolamentari di cui all’art. 118 Regio Decreto n. 965 del (relativamente agli istituti di istruzione media) e all’allegato C del Regio Decreto n. 1297 del 1928 (relativamente agli istituti di istruzione elementare), che dispongono che ogni aula abbia il crocifisso. Con circolare n. 367/1967 il Ministero dell’Istruzione ha inserito nell’elenco dell’arredamento della scuola dell’obbligo anche i crocifissi. Nei Patti Lateranensi e successivamente nelle modifiche apportate al Concordato con l’Accordo ratificato e reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985 n. 121, nulla viene stabilito relativamente all’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, o più in generale negli uffici pubblici, nelle aule del tribunale e negli altri luoghi nei quali il crocifisso trova ad essere esposto. Con parere n. 63 del 1988, infatti, il Consiglio di Stato ha stabilito che le norme dell’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 . 965 e allegato C del R.D. del 16 aprile 1928 del 1297, che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non possono essere
considerate
implicitamente
abrogate
dalla
nuova
regolamentazione
concordataria sull’insegnamento della religione cattolica. Ha argomentato il consiglio di Stato: premesso che il crocifisso, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da specifica confessione religiosa, le norme citate di
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natura regolamentare, sono preesistenti ai Patti Lateranensi e non si sono mai poste in contrasto con questi ultimi. Occorre, poi, anche considerare— continua il Consiglio di Stato— che la Costituzione Repubblicana, pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose, non prescrive alcun divieto per quel che concerne l’esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come il Crocifisso, per i principi che evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio storico. Le norme citate dovrebbero, però, ritenersi implicitamente abrogate dal d.lgs. 297/94 in cui all’art. 107, nell’elencazione puntuale dei suppellettili che compongono l’arredo si fa riferimento esplicito solamente all’attrezzatura, l’arredamento e il materiale da gioco per la materna. In modo più chiaro ed esplicito l’art. 159 stabilisce “Spetta ai comuni provvedere al riscaldamento, all’illuminazione, ai servizi, alla custodia delle scuole e alle spese necessarie per l’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico, degli arredi scolastici, ivi compresi gli armadi o scaffali per le biblioteche scolastiche, degli attrezzi ginnici e per le forniture dei registri e degli stampati occorrenti per tutte le scuole elementari” L’art. 190 stabilisce che i “Comuni sono tenuti a fornire (…) l’arredamento dei locali delle scuole medie. Non vi è alcun riferimento al crocifisso. Visto ciò, si potrebbe sostenere che le norme dell’art. 118 R.D. 30 aprile 1924, n. 965 e dall’allegato C del R.D. n. 1297 del 1928, dovrebbero ritenersi implicitamente abrogate ex art. 15 delle preleggi, perché il d.lgs. 297/94 regola l’intera materia scolastica. «Tuttavia, restano in vigore in forza dell’art. 676 dello stesso decreto intitolato norme di abrogazione il quale dispone che le disposizioni inserite nel presente testo unico vigono nella formulazione da esso risultante: quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate. Orbene, alla specificazione del contenuto minimo necessario delle locuzioni generali arredi ovvero arredamenti contenute negli artt. 107, 159 e 190
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concorrono le due disposizioni regolamentari citate, comprendendovi anche il crocifisso78». Si può così constatare che, disposizioni del d.lgs. 297/94, come specificate dalle norme regolamentari di cui sopra, includano il crocifisso tra gli arredi scolastici. In conclusione, poiché non appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute, né può configurarsi una nuova disciplina dell’intera materia, già regolata da norme anteriori, né, come ha ritenuto il Consiglio di Stato, attengono all’insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria, le disposizioni di cui all’art. 118 R.D. 30 aprile 1924, n. 965 e quelle dell’allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297, devono ritenersi legittimamente operanti. La Corte di Cassazione con sentenza del 13.10.1998 ha affermato in particolare, che non contrasta con il principio di libertà religiosa, formativa della Costituzione, la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. In una recente decisione, invece, la Cassazione ha ritenuto contraria al principio di laicità l’esposizione dei crocifissi nei seggi elettorali, prendendo ad esempio una decisione del Tribunale Costituzionale tedesco del 1995. Nell’articolo n. 9 del nuovo Concordato con la Chiesa cattolica, la Repubblica italiana riconosce che i valori della religione cattolica fanno parte del patrimonio storico dell’Italia, ma nonostante ciò, la Suprema Corte rigetta anche la giustificazione culturale, contraddicendo esplicitamente l’avviso del Consiglio di Stato. Non è sostenibile, infatti, “la giustificazione collegata al valore simbolico di un’intera civiltà o della coscienza etica collettiva”, per il contrasto in essa implicito con il divieto delle differenziazioni per motivi religiosi. È lecito esporre un crocifisso in un’aula scolastica, in un tribunale o in ufficio pubblico? questa scelta può ledere la sensibilità del non credente o dell’appartenente ad una religione diversa? L’esposizione viola il supremo principio di laicità dello Stato? Ed infine, il crocifisso è un simbolo dell’identità religiosa o culturale? 78
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Nel corso dell’anno scolastico 2002-2003, Adel Smith, cittadino italiano di religione musulmana, ha chiesto all’insegnate di scuola di Ofena in Abruzzo, frequentata dai suoi figli, di rimuovere il crocifisso appeso alla parete o, in alternativa di appendervi un quadretto con la sura del Corano. L’insegnate sembra accogliere le istanze del Signor Adel Smith, ma in seguito all’ordine impartito dal Dirigente scolastico, è costretta a rimuoverlo. Adel Smith ricorre al Tribunale dell’Aquila per ottenere un pronunciamento d’urgenza. Investito della questione, il Tribunale ribadisce il carattere laico della Repubblica italiana e delle sue istituzioni e il 23 ottobre decreta la rimozione del crocifisso. Un’ordinanza successiva ha invece revocato tale rimozione poiché ha ritenuto che l’istanza presentata non integrasse una domanda “meramente risarcitoria”, ma si concretizzasse nella richiesta di misura di carattere inibitorio idonea ad interdire nella gestione del servizio scolastico, la quale ricade nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.. Tale vicenda ci spiega come oggi l’esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, a partire dalle diverse tesi connesse alla rivendicazione della libertà di coscienza, libertà di culto, laicità dello Stato, può trasformarsi in un vero e proprio scontro tra le confessioni religiose e la sfera civile.
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Il caso Lautsi. Il caso era stato sollevato nel 2002 da Soile Lautsi, cittadina italiana di origine Finlandese e socia dell’UAAR (Unione atei e agnostici razionalisti). L’Unione precisa di aver «promosso, sostenuto, curato tecnicamente l’iter giuridico che era già passato dal Tar del Veneto, Corte Costituzionale e Consiglio di Stato. Soile Lautsi», infatti, nel 2002 aveva chiesto all’Istituto Statale Vittorino da Feltre di Abano Terme, in provincia di Padova, frequentato dai suoi figli, di togliere i crocifissi dalle aule. La Direzione della scuola non aveva accolto la richiesta della donna, che successivamente si era rivolta al Tar del Veneto. Nel 2004 la Corte Costituzionale italiana aveva dichiarato “manifestatamene inammissibile”la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tar. Nel 2005 il ricorso è stato respinto dal Tribunale amministrativo regionale, con la spiegazione che “il crocifisso è simbolo della storia, della cultura italiana e dell’identità del Paese ed è il simbolo dei principi di eguaglianza, libertà e tolleranza e del secolarismo dello Stato”. Nel 2006 il Consiglio di Stato ha nuovamente confermato la legittimità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. Nel 2007 la donna si è rivolta alla Corte europea di Strasburgo, e nel 2009 è stata pronunciata la sentenza. La sentenza del 3 novembre 2009, ha stabilito che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è “una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni e del diritto degli alunni alla libertà di religione”. Non avendo il potere di imporre la rimozione dei crocifissi dalle scuole italiane ed europee, la Corte ha condannato l’Italia a risarcire l’importo di cinque mila euro alla ricorrente per danni morali. Questa è la prima volta che la Corte di Strasburgo si è occupata di una questione legata alla presenza di simboli religiosi nelle aule scolastiche. I sette componenti della Corte europea hanno affermato che la presenza dei crocifissi nelle aule può essere facilmente interpretata dai ragazzi di ogni età come un evidente segno religioso e, dunque, potrebbe essere di “incoraggiamento” per i bambini già cattolici,mentre potrebbe “disturbare” quelli di altre religioni o gli
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atei79. La presenza del crocifisso che è impossibile non notare nelle aule scolastiche potrebbe essere facilmente interpretata dagli studenti di tutte le età come un simbolo religioso. Avvertirebbero così di essere educati in un ambiente scolastico che ha il marchio di una data religione. Tutto questo potrebbe essere incoraggiante per gli studenti religiosi, ma fastidioso per i ragazzi che praticano altre religioni, in particolare se appartengono a minoranze religiose o atei.” La Corte non è in grado di comprendere come l’esposizione, nelle classi delle scuole statali di un simbolo che può essere ragionevolmente associato con il cattolicesimo, possa servire al pluralismo educativo che è essenziale per la conservazione di una società democratica così come è concepita dalla Convenzione europea dei diritti umani, un pluralismo che è tra l’altro riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale italiana. Per la Corte, queste considerazioni comportano l’obbligo dello Stato di astenersi da imporre anche indirettamente, credenze, nei luoghi in cui le persone sono a suo carico o nei luoghi in cui queste persone sono particolarmente vulnerabili. Nel parere della Corte, il simbolo del crocifisso ha una pluralità di significati tra cui il senso religioso è predominante80. Il 2 marzo 2010, la Corte ha accolto il ricorso presentato dal Governo italiano Contro la sentenza. Il 30 giugno 2010, si è svolta, presso la Corte europea del diritto dell’uomo, l’udienza della Grande Camera per il riesame della pronuncia del 3 novembre 2009 sul caso Lautsi vs Italia, riguardante, come sì è visto, l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. La tesi sostenuta dal Governo italiano si base sull’idea che, il crocifisso è uno dei simboli che caratterizzano le radici cristiane sulle quali si fonda la cultura italiana. L’esposizione del crocifisso ha, secondo il Governo italiano, più un significato storico e culturale che non religioso. Cultura, tradizione, storia, identità sono queste le parole chiave per spiegare e reinterpretare la sentenza della Corte europea dei
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diritti dell’uomo che chiama in causa il Governo italiano per l’esposizione del crocifisso nelle scuole. La sentenza definitiva della Grande Camera del 18 marzo 2011 ha ribaltato la sentenza di primo grado. I giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno accolto la tesi, secondo la quale non sussistono elementi che provino l’eventuale influenza sugli alunni dell’esposizione del crocifisso nella aule scolastiche. La decisione è stata approvata con 15 voti favorevoli e due contrari. La sentenza è definitiva e vincolante per l'Italia e per tutti i 47 stati membri. La Corte, nelle sue motivazioni, sostiene che se pur sia riscontrabile una mancanza di rispetto dello Stato nei confronti dei figli della Signora Lautsi, non è riscontrabile la violazione dell’articolo 2 del protocollo 1, cioè di quella specifica norma che tutela il diritto ad una istruzione secondo le convinzioni familiari. In altre parole, il crocifisso è si un simbolo religioso, ma la sua presenza nelle aule scolastiche non ha una specifica influenza sugli alunni né può interpretato come una sorta di indottrinamento da parte dello Stato.
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Alcune riflessioni sulla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. Evitando di cadere nel demagogico e poco produttivo dibattito politico sul tema, si vogliono riportare, riflessioni e punti di vista di alcuni costituzionalisti che si sono occupati dell’argomento. Francesco Rimoli, ordinario di diritto pubblico all’Università di Teramo, ci spiega come la Corte Costituzionale, quando è stata chiamata in causa, ha da sempre formulato sentenze che tendono a garantire e rafforzare il principio di laicità. Come esempio riporta la posizione assunta in tema di insegnamento scolastico della religione cattolica, sentenza n. 13/91, la sentenza n. 203/89 sulla laicità come supremo principio dell’ordinamento giuridico81. Entrando poi nel merito della questione, Rimoli, afferma che la Corte aveva due possibili opzioni: La prima consisteva nell’accettare la sentenza adottata dal T.A.R. del Veneto con l’ordinanza del 14 gennaio 2004, secondo la quale gli articoli 159 e 190 del d.lgs. 16 aprile 1194, n. 297 t.u. in materia di istruzione, tuttora vigenti in base all’art. 676 dello stesso d.lgs. n. 297/94, includendo il crocifisso tra gli arredi che i Comuni devono fornire alle Scuole, e soprattutto la sua esposizione all’interno delle aule, violerebbe il supremo principio di laicità desumibile dagli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione. La seconda opzione consisteva nel dichiarare, l’inammissibilità della questione, perché le norme sottoposte al giudizio di legittimità sono di rango secondario. Con molta probabilità, sostiene Rimoli, è stato questo l’orientamento preferito dalla Corte Costituzionale, che ha tuttavia emesso un’ordinanza che si presta a diverse letture. La Corte Costituzionale nel negare la sussistenza del rapporto di “specificazione” tra le norme primarie contenute nel d.lgs. n. 297/94 e quelle regolamentari sopra richiamate, ha sostenuto che: gli elenchi di arredi contenuti nella tabella C allegata al r.d.n. 1297/28, e dall’art. 119 da questo richiamata, sono in parte non attuali e superati. L’art. 118 del r.d. n. 965/24, che vuole in ogni istituto 81
F. RIMOLI, Ancora sulla laicità: ma la Corte non vuole salire sulla croce., tratto da, www.associazionedeicostituzionali.it cit.2
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d’istruzione media la bandiera nazionale e in ogni aula l’immagine del crocifisso e il ritratto del Re”, non si occupa dell’arredamento delle aule, e non può dunque “specificare” l’art. 190 del d.lgs n. 297/94, che disciplina solo che spetta al Comune sostenere il costo d’acquisto dell’arredo. Rimane ancora irrisolto il problema dell’obbligo di esposizione del crocifisso, che resterebbe comunque imposto dalla norma secondaria. Certo questo percorso, in sé logicamente corretto, esime la Corte dal dover decidere e legittima la dichiarazione d’inammissibilità; ma lascia tutta via sussistere molti dubbi.82 Sempre secondo Rimoli, il Giudice Costituzionale sembra intendere che nessun obbligo di esposizione del crocifisso derivi da disposizioni legislative: resta tuttavia l’obbligo posto dall’art. 118 r.d.n.965/24, sul quale la Corte dice solo che la sua vigenza non è fondata sull’art. 676 del d.lgs 297/94. La Corte, nega la possibilità, di un intervento interpretativo su queste norme, demandando, tuttavia, il giudizio di legittimità, al giudice amministrativo, e alle singole amministrazioni scolastiche alle quali spetta la scelta concreta sull’esposizione dei simboli83. Rimoli avvalla la tesi secondo la quale, i giudici ordinari debbano disapplicare le norme regolamentari che, una volta poste sotto esame violino il principio costituzionale di laicità anche desumibile solo implicitamente dalla Costituzione. Conclude il ragionamento, sostenendo che prima o poi la Corte dovrà prendere una posizione per quel che concerne l’esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, perché, dice, sarà impossibile accontentare tutti vista la limitatezza degli spazi. Per spiegarsi meglio, utilizza la metafora della parete dell’aula: «La sua area non è infinita, e riempita di simboli finisce prima o poi col creare un inevitabile scontro per l’ultimo angolo. Mentre un muro bianco non è mai vuoto per chi trova la ragione della propria fede in sé, e non ha bisogno di oggetti che gliene ricordino il senso84».
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F.RIMOLI, Ancora sulla laicità: ma la Corte non vuole salire sulla croce, cit.. 4 F. RIMOLI, Ancora sulla laicità: ma la Corte non vuole salire sulla croce. cit. 5 84 F. RIMOLI, Ancora sulla laicità: ma la Corte non vuole salire sulla croce. ,cit 6 83
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Sullo stesso argomento Sergio Lariccia, Professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università di Roma “La Sapienza”, presenta il suo pensiero. A differenza di Rimoli, egli sostiene che la decisione accolta dai giudici costituzionali non meriti le eccessive critiche subite, perché non è vero che si tratta di una sentenza di comodo per evitare attacchi sia dal fronte laico che da quello cattolico. Secondo il giurista il motivo fondamentale per cui la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tar del Veneto, è dovuta al trasferimento di disposizioni di rango legislativo su una questione di legittimità riguardante norme regolamentari non dotate di forza di legge, sulle quali non si può invocare né un sindacato di legittimità costituzionale, né un intervento interpretativo della Corte costituzionale85. Lariccia continua sostenendo che da una lettura, dell’art. 134 della Costituzione che riguarda le leggi ed atti aventi forza di legge, la competenza della Corte Costituzionale sui regolamenti vada esclusa e dunque, la pronuncia di inammissibilità di una questione di costituzionalità riguardante norme di natura regolamentare non rappresenta, il rifiuto di giudicare, ma l’adempimento di un obbligo costituzionale, imposto dall’art. 134.86 Su un punto invece, vi è totale convergenza tra le tesi dei due professori, e cioè che la questione dei simboli religiosi negli spazi pubblici, non trova, nell’ordinamento italiano, delle soluzioni tali da attuare il principio di laicità delle Istituzioni e dello Stato che dalla sentenza costituzionale n. 203 del 1989, è stato elevato al rango di principio supremo dell’ordinamento costituzionale italiano. Sempre secondo Lariccia, il principio della laicità porta con sé una grande dose di retorica in quanto, ad esempio, la Corte ha utilizzato il principio della laicità come elemento giustificativo dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Dunque, il principio di laicità più che garantire una netta distinzione tra la sfera pubblica e quella religiosa, sembra quasi fungere da garante ad un principio di confessionalità della scuola pubblica. Con l’entrata in vigore della Costituzione, poi, 85
S. LARICCIA, Garanzie e limiti della giustizia italiana per l’attuazione del principio di laicità,cit. 3 tratto da www.associazionedeicostituzionalisti.it 2004,. 86 S. LARICCIA, Garanzie e limiti della giustizia italiana per l’attuazione del principio di laicità, cit. 3
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non si può sostenere, continua Lariccia, che il principio di laicità si sia pienamente imposto nell’ordinamento giuridico italiano, infatti, accanto agli articoli 2, 3, 7 comma primo. 8 comma primo, 19, 20, 21, 33 comma primo, vi sono altri articoli della Costituzione che introduco elementi di aconfessionalità. Infatti si può facilmente notare come, l’art. 7 comma 2 della Costituzione, rinvii ai Patti Lateranensi, e dunque anche a quelle norme, come ad esempio, l’art. 1 del Trattato e l’art. 1 del Concordato che impongono la sola religione cattolica come religione dello Stato italiano. Nel 1984, grazie agli Accordi di revisione del Concordato, l’articolo 1 del Protocollo Addizionale richiamato nel D. Lgs. N. 297/1994 del Testo Unico sulla Pubblica istruzione, dichiara il superamento della religione cattolica come religione di Stato. Lariccia, condivide la tesi contenuta nell’ordinanza n. 389, la quale dispone che le già citate disposizioni regolamentari non possono essere ritenute sindacabili in applicazione dell’art. 676 del t.u. n. 297 del 1994. Tuttavia, si possono ritenere abrogate a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, a seguito degli Accordi tra Stato e Chiesa del 1984, e dalla disposizione concordataria che ha previsto l’abrogazione del principio della religione cattolica come religione dello Stato87. Giovanni Di Cosimo, analizza direttamente gli aspetti giuridici della questione, prendendo spunto dall’analisi del principio costituzionale di eguaglianza, dei simboli nazionali, e della libertà religiosa. Si domanda se le norme sull’esposizione del simbolo religioso sono o non sono compatibili con il dettato Costituzionale. Eludendo la disputa su chi debba essere il giudice competente, amministrativo in considerazione della natura regolamentare delle norme, oppure la Corte Costituzionale sul presupposto che specifichino successive norme legislative, come ad esempio, è stato sostenuto dal Tar del Veneto nella sentenza 56/2004 che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale delle norme legislative individuandole negli articoli 159 e 190 del d.lgs. 297/1994 ma anche, tralasciando il tema della intervenuta abrogazione delle norme regolamentari per effetto della 87
S. LARICCIA, Garanzie e limiti della giustizia italiana per l’attuazione del principio di laicità, cit. .5
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revisione del concordato, come sostenuto dal Tribunale dell’Aquila nell’ordinanza del 22 ottobre 2003, Di Cosimo si concentra sul problema della loro legittimità partendo dal presupposto che, sempre secondo il giurista, i costituenti non pensavano alla confessione cattolica come religione di Stato, sebbene gli riconoscessero uno status particolare.88 Per Giovanni Di Cosimo sono sufficienti queste premesse per dimostrare che sul piano giuridico nelle pareti non debbano essere esposti simboli religiosi. Continua la sua tesi, sostenendo che la Costituzione offra ottimi spunti per affrontare questo tipo di problema. Lo studioso partendo dal principio di eguaglianza contenuto nell’art. 3, comma primo Cost., laddove afferma «senza distinzioni di religione»,ne trae la conseguenza che se ad una confessione religiosa viene concessa la possibilità di esporre il proprio simbolo sulle pareti delle scuola, le altre confessioni religiose, subirebbero un trattamento impari e non giustificato, conseguente, da un lato al regime preferenziale accordato alla religione cattolica che può esporre il crocifisso, e dall’altro dalla mancata possibilità concessa alle altre confessioni di esporre i propri simboli89. La seconda analisi sulla quale si basa la tesi di Di Cosimo, è quella fondata sul legame che esisterebbe tra il crocifisso e l’identità nazionale. Riportando il parere del Consiglio di Stato del 1988, il quale sosteneva che la Costituzione non vieta l’esposizione del crocifisso perché è un simbolo che possiede un collegamento con l’identità nazionale, egli espone il suo dissenso verso questo parere, poiché, per Di Cosimo il crocifisso è il simbolo specifico della religione cristiana come tra l’altro aveva già osservato il Tar del Veneto, e poi, contro la tesi del Consiglio di Stato, Di Cosimo fa notare come in realtà dalla lettura della Costituzione si può evincere che l’unico simbolo nazionale individuato sia la bandiera90. Un altro punto sul quale Di Cosimo prova ad argomentare è quello della libertà religiosa. Afferma, che già il solo fatto che un simbolo venga esposto ed altri 88
G. DI COSIMO, Scuole pubbliche e simboli religiosi, cit. 1-2, tratto da www.associazionedeicostituzionalisti.it 2004 G. DI COSIMO, Scuole pubbliche e simboli religiosi,cit. 2 90 G. DI COSIMO, Scuole pubbliche e simboli religiosi, cit. 3. 89
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no, fa sì che questo possa avere una visibilità maggiore e quindi un’influenza maggiore rispetto ad altri. Questo potrebbe turbare anche la formazione della coscienza degli studenti per il semplice motivo che la scuola è un luogo adibito alla formazione degli studenti. È vero, continua Di Cosimo, che la libertà di coscienza non trova un riferimento esplicito nella Costituzione, ma è anche vero, che esistono altri principi non presenti in Costituzione, come ad esempio, il principio di legalità e che non per questo si può dubitare che si possa dedurre in via implicita dal testo costituzionale. Insomma, conclude Di Cosimo, la presenza del crocifisso potrebbe danneggiare non solo la libertà religiosa e di coscienza dei non credenti o aderenti ad altri confessioni, ma più in generale i già fragili equilibri della laicità italiana91. La tesi esposta da Di Cosimo conduce ad un unico principio, quello della laicità che racchiude in sé i principi prima esaminati cioè l’eguaglianza, la libertà religiosa, la libertà di coscienza, l’imparzialità dello Stato di fronte a tutte le confessioni religiose. La laicità è un principio che, se anche non viene indicato espressamente lo si può dedurre attraverso la lettura di quei principi di cui sopra si è parlato, Quindi pare di capire che secondo Di Cosimo le norme sull’esposizione del simbolo religioso non sono compatibili con la Costituzione. Né consegue, che la competenza in materia spetti alla Corte Costituzionale. Il 13 febbraio 2006 è intervenuta la decisione della VI Sezione del Consiglio di Stato n. 556/2006, la quale, confermando la sentenza n. 1110/2005 del Tar del Veneto, afferma che «la decisione delle autorità scolastiche, in esecuzione di norme regolamentari, di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, non appare pertanto censurabile con riferimento con riferimento al principio di laicità proprio dello Stato italiano»92. Ignazio Lagrotta, analizzando la decisione 556/2006, sostiene che in Italia il principio di laicità, trova nella sentenza della Corte costituzionale n. 203/1989, il 91
G. DI COSIMO, Scuole pubbliche e simboli religiosi, cit.3 I. LAGROTTA, Brevi spunti di riflessione alla luce della decisione del Consiglio di Stato n. 556/2006 relativa alla presenza del crocifisso nelle aule pubbliche, in www.associazionedeicostituzionalisti.it cit.1, 2006
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giusto riconoscimento e le dovute garanzie di tutela da parte dello Stato della libertà di religione, all’interno di in un regime di pluralismo confessionale e culturale. Ma, il principio di laicità, deve essere letto in conformità ad altre norme, che godono di garanzia costituzionale, come ad esempio, l’Accordo del 1984 con la Chiesa Cattolica che dispone la reciproca collaborazione fra lo Stato e la Chiesa in funzione dell’uomo e del bene del Paese. Contiene, inoltre, il riconoscimento da parte dello Stato italiano del «valore della cultura religiosa e dei principi del cattolicesimo quale parte integrante del patrimonio storico del popolo italiano»93. La cultura religiosa cattolica, secondo Lagrotta, viene inglobata nel processo di secolarizzazione dello Stato italiano, attribuendo a quei principi una connotazione laica proprio in virtù del fatto, che lo Stato li rivendica e lì promuove in piena autonomia.94 Si è visto, nella prima parte di questo lavoro, come Bockenforde, attraverso l’esposizione del suo teorema, sosteneva che il processo di secolarizzazione nelle democrazie liberali avesse come presupposto, appunto, l’emancipazione dello Stato dalla religione. In un certo senso si denudava dei principi morali di cui le confessioni religiose erano portatrici. Addirittura, Bockenforde individuava questo processo, come uno dei limiti dello Stato secolarizzato. Lagrotta, invece, guardano all’esperienza italiana, sostiene il contrario, e cioè che lo Stato non abbia rinunciato alla morale cattolica, ma anzi l’abbia inglobata in sé, facendo diventare quei principi concilianti rispetto ai precetti religiosi. In sintesi, appartengono in via originaria, sia allo Stato che alla Chiesa. Esiste, dunque, una continuità tra i principi su cui si fonda la Costituzione ed i principi della Dottrina sociale della Chiesa. Sono diversi i giuristi che sostengono che la nostra Costituzione
93
I. LAGROTTA, Brevi spunti di riflessione alla luce della decisione del Consiglio di Stato n. 556/2006 relativa alla presenza del crocifisso nelle aule pubbliche, cit.4 94 I. LAGROTTA, Brevi spunti di riflessione alla luce della decisione del Consiglio di Stato n. 556/2006 relativa alla presenza del crocifisso nelle aule pubbliche, cit.5
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abbia trovato nel cristianesimo l’ispirazione per la elaborazione dei diritti della persona sia come singoli sia nel sociale.95 In conclusione, Lagrotta sostiene che l’ordinamento giuridico italiano, elabori un’idea di laicità che da un lato riconosce l’aconfessionalità dello Stato, distinguendo al suo interno ciò che compete alla politica e ciò che compete alla religione, ma dall’altro riconosce al cattolicesimo un ruolo determinate per la formazione dell’identità storico-culturale italiana. «Alla luce di tale ricostruzione, la problematica connessa in Italia alla c.d. questione del crocifisso, che deve necessariamente essere collocata nel contesto storico ed istituzionale del nostro Paese, ben può essere risolta come hanno fatto il TAR del Veneto ed il Consiglio di Stato ammettendo la presenza nello spazio pubblico di un simbolo religioso cristiano che, per i valori umani che esprime, ne identifica più di altri le peculiari tradizioni96». La posizione espressa da Lagrotta è dunque favorevole all’affissione del crocifisso nelle aule pubbliche, in quanto, sostiene che una parete pubblica vuota, nulla direbbe sulle tradizioni e i valori costituzionali del nostro Paese, di cui anche il crocifisso è portatore. In sostanza, dunque, Lagrotta sostiene che le motivazioni addotte dal Consiglio di Stato e le conclusioni raggiunte ben si coniugano con i principi costituzionali italiani.
95
I. LAGROTTA, Brevi spunti di riflessione alla luce della decisione del Consiglio di Stato n. 556/2006 relativa alla presenza del crocifisso nelle aule pubbliche, cit.4, 96 I. LAGROTTA, Brevi spunti di riflessione alla luce della decisione del Consiglio di Stato n. 556/2006 relativa alla presenza del crocifisso nelle aule pubbliche, cit. 5
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La posizione ufficiale della Chiesa È opportuno a questo punto capire qual è la posizione ufficiale della Chiesa sul tema dei simboli religiosi nello spazio pubblico. Trovo illuminante e doveroso citare, quanto scritto da Mons. Giampaolo Crepaldi Arcivescovo di Trieste, il quale, in stretta sintonia con la Dottrina sociale della Chiesa, sostiene che spesso si considera la laicità come uno spazio pubblico neutro, dal quale vengono esclusi i valori assoluti della religione. In primo luogo perché la democrazia, avendo come presupposto una visione relativistica della vita non potrebbe accettare nessun valore come assoluto, in secondo luogo perché gli assoluti religiosi si fonderebbe sulla fede e non su un presupposto razionale. Questa tesi relativista della democrazia e della società viene condannata dalla Dottrina sociale della Chiesa, la quale sostiene che la democrazia non presuppone affatto il relativismo morale e religioso, come non è vero che dei principi assoluti sarebbero irrazionali, anzi, continua Crepaldi, l’assenza di valori assoluti da vita ad uno scontro dove dalla forza della ragione si passa alla ragione della forza. Per questo motivo la Chiesa sostiene che i cittadini abbiano bisogno di credere in valori assoluti, come per esempio la dignità di ogni persona umana. La democrazia non può concepirsi essenzialmente come procedura, ma essa deve mettere al centro del suo dibattito e del suo agire, la tutela la dignità della persona che è da considerarsi un valore assoluto fondato da Dio. Per quanto riguarda il secondo punto, ci si domandava se la religione fosse irrazionale. Crepaldi non ha dubbi sul fatto che possano esistere religione irrazionali, ma, il cristianesimo non figura tra queste perché è la religione del logos, che parla di in un Dio di Verità, senza contraddire la ragione razionale, ma piuttosto ad essa si collega in modo complementare e non chiede all’uomo di rinunciare a nulla di quanto lo fa veramente uomo per diventare cristiano. Non è quindi accettabile l’idea che la religione, ogni religione sia, in quanto tale, irrazionale. Di certo ciò non vale per il cristianesimo.
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Il voler impedire l’esposizione del crocifisso negli spazi pubblici è uno dei tanti modi in cui l’idea della laicità come spazio neutro, si manifesta. Nasce così, una nuovo modo di concepire la laicità dello Stato, che per via delle
posizione
assunte,
diventa
essa
stessa
dogmatica,
«la
religione
dell’antireligione». Eliminare Dio dallo spazio pubblico significa già costruire un modello democratico contro Dio. Crepaldi, in linea con quanto sostenuto dalla Dottrina sociale della Chiesa, conclude sostenendo che, il cattolico in politica non può accettare la laicità intesa come neutralità. Il cattolico in politica deve, dunque, adoperarsi affinché il crocifisso continui ad essere presente nelle scuole e nei locali pubblici come simboli di pace, speranza, solidarietà, ma soprattutto come simbolo della cultura e della tradizione cristiana che lo Stato italiano non può ripudiare.
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CAPITOLO III LA FAMIGLIA
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La famiglia nella Costituzione italiana. Prima di analizzare le norme costituzionali che esplicitamente si occupano della famiglia, occorre prendere in considerazione l’articolo 3 della Costituzione dal quale si può dedurre il principio di uguaglianza morale e giuridica fra i coniugi, infatti solo nel 1975 sono state modificate le disposizioni relative a questo istituto contenute nel Codice Civile. Il marito non possiede più lo status di capo famiglia e tra i coniugi viene riconosciuta l’eguaglianza nei diritti e nei doveri. Viene inoltre garantita un’eguale tutela sia per i figli legittimi sia per quelli naturali97. L’art. 29 della Costituzione definisce la famiglia come “società naturale”98, cioè come un unione di due persone che si verrebbe a creare anche senza lo Stato. Questo punto è di fondamentale importanza per comprendere il lavoro di questo capitolo. Nei paragrafi seguenti si avrà modo di soffermare l’attenzione su quanto dice al riguardo la Santa Sede, attraverso la Dottrina sociale della Chiesa che, racchiude in sé il pensiero ufficiale della Chiesa sui cattolici impegnati in politica. Nella famiglia fondata sul matrimonio, si formano gli individui, e lo Stato riconosce ad essa una particolare tutela. La famiglia, dunque, viene riconosciuta come «cellula creatrice della vita sociale»99, in quanto capace di trasmettere al singolo «il primo impulso al sentimento di solidarietà»100. Durante i lavori in Assemblea Costituente, vi era l’idea forte e radicata di fondare la famiglia sul matrimonio. Nell’idea del Costituente era solo questa l’idea di unione stabile tra due individui che era degna di uno specifico riconoscimento. Il documento promosso da 24 costituzionalisti a sostegno della famiglia, entra nel merito della questione sostenendo che da una lettura congiunta degli artt. 2, 3, 29, 30, 31 della Costituzione, si può dedurre che sia implicita la possibilità per ogni individuo di costruire rapporti affettivi stabili e di convivenza, ma, queste formazioni sociali non possono avere la denominazione di famiglia, perché solo essa, trova una 97
LA COSTITUZIONE E LA FAMIGLIA, tratto da www.paramond.it LACOSTITUZIONE E LA FAMIGLIA, tratto da www.paramond.it 99 A. MORO, tratto da www.age.it, cit. 1 100 C. MORTATI, tratto da www.age.it cit. 1 98
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garanzia esplicita nella Costituzione, in quanto strutturata come società naturale fondata sul matrimonio. Detto ciò, sarebbe contraria alla Costituzione una legge ordinaria che equiparasse i diritti di queste forme di convivenza a quelli della famiglia e che estendesse alle prime le «agevolazioni intersoggettive e sociali di tipo privatistico e pubblicistico riconosciute alle seconde101». Dello stesso avviso è Marta Cartabia, Ordinario di diritto costituzionale all’Università di Milano Bicocca, la quale sostiene che non vi è nessuno obbligo impartito dalla Costituzione che imponga al Legislatore di porre in essere una disciplina sulle coppie di fatto. Se però intendesse disporre sull’argomento, potrebbe anche farlo, a patto che rispetti il dettato costituzionale. La giurisprudenza costituzionale, infatti, ha già avuto modo di intervenire sulla equiparabilità delle convivenze di fatto alla famiglia, stabilendo che il riconoscimento dei diritti di queste coppie non può mai arrivare alla piena equiparazione con i diritti riservati alla famiglia. Questo in virtù dell’articolo 29 Cost. che riserva una particolare tutela alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Questo perché, in base al principio di uguaglianza, la famiglia e le convivenze di fatto se pur si presentano con caratteristiche simili, non sono uguali, e dunque, non possono ottenere un eguale trattamento giuridico. Infatti, il principio di uguaglianza contenuto nell’articolo 3 della Costituzione, dispone che sul piano giuridico debbono essere trattate in modo eguale situazioni eguali e analogamente, dunque, dovranno ricevere un trattamento giuridico differente situazioni che di fatto si presentano con caratteristiche differenti. Dunque, sempre secondo la Cartabia, il principio di uguaglianza viene violato anche quando, come nel caso della famiglia, così come disciplinata nella Costituzione, si vogliono equiparare progetti di legge sulle unioni di fatto102. La posizione della Cartabia è, dunque, a difesa della famiglia tradizionale, così come concepita dai Costituenti. La studiosa, sostenendo che il Legislatore non ha 101
LA FAMIGLIA NELLA COSTITUZIONE, Alcuni passi del documento promosso da 24 costituzionalisti a sostegno della famiglia, tratto da www.age.it cit. 2 102 M. CARTABIA, “La Costituzione parla chiaro: la famiglia è una sola”, intervista da Avvenire è famigliaonline a cura di ILARIA NAVA, in www.beepworld.it ,02 marzo 2007, cit. 2
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nessun obbligo di legiferare in materia, dice anche che, qualora decidesse di farlo dovrà comunque creare un nuovo modello diverso sia nei diritti che nei doveri dal modello di famiglia così come disposto dall’art. 29 della Costituzione. Non tutti concordano su questo concetto di famiglia. Infatti alcuni sostengono che l’art. 29 Cost. sia contraddittorio. Tra questi figura, Michele Manetti, il quale sostiene che il vero significato dell’art. 29 non corrisponde a quanto sostenuto per esempio dalla Cartabia, infatti, i Costituenti non avevano mai pensato di legare la famiglia al vincolo matrimoniale, neppure fra i chi apparteneva alla Democrazia Cristiana. Dello stesso avviso è Vittorio Caporella, il quale sostiene, che l’idea di famiglia nella Repubblica italiana sia la conseguenza, per metà, «della condotta del Comitato di redazione e per metà di strategie propagandistiche in vista delle elezioni dell’anno seguente103». Naturalmente, come già si è accennato, il concetto di società naturale è quello sul quale verte gran parte del dibattito. Ci si divide tra coloro i quali utilizzano la società naturale come pretesto per difendere la famiglia come unica unione tra coniugi che lo Stato deve riconoscere, in quanto non deriva da questo ma lo precede, e tra coloro i quali, come si avrà modo di vedere, affermano che sia solo un affermazione di principio, che non porta in sé il significato che altri, con forzature, vogliono attribuirgli. A questo punto, cosa significa società naturale? E perché si insiste su questa formula? Caporrella sostiene che si tratti in realtà di una «dichiarazione di principio che si basava sul già approvato articolo 2- la stessa con cui La Pira aveva introdotto e impostato l’intero Titolo II della Costituzione: vi sono diritti dell’individuo e delle sue formazioni sociali che sono anteriori alla legge positiva dello Stato. Dunque rigetto della teoria dei diritti riflessi, con cui fascismo e nazismo avevano invaso la sfera privata della famiglia, e applicazione della dottrina pluralistica, in base alla quale si riconoscevano formazioni sociali preesistenti lo Stato e con ordinamenti 103
V. CAPORELLA, La famiglia nella Costituzione italiana. La genesi dell’articolo 29 e il dibattito della Costituente, tratto da www.storicamente.org cit. 1
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giuridici autonomi che sancivano diritti intangibili e inalienabili. Lo scopo di Giorgio La Pira era quello di gettare le basi per affermare l’autonomia delle scelte familiari in base alla tradizione cattolica italiana, sancendo la libertà dei genitori di scegliere tra scuola pubblica o privata/confessionale per i figli. In seguito a quanto riportato, dunque, venne formulata la proposta della Democrazia Cristiana di definire la famiglia come società naturale. L’ambiguità del termine è, dunque, il frutto di un compromesso, principalmente tra i comunisti e i democristiani104». Dunque, dal racconto storiografico di Caporella, né viene fuori che, più che una scelta fondata su dei valori etici assoluti sostenuti principalmente dalla Dc, la locuzione “società naturale” sia più il risultato di un compromesso politico, grazie al quale i comunisti avrebbero potuto pretendere cose più significative105. A questo punto è interessante riportare quanto disse Aldo Moro: «Quando si dice che la famiglia è una società naturale, non ci si deve riferire immediatamente al vincolo sacramentale; si vuole riconoscere che la famiglia nelle sue fasi iniziali è una società naturale. Pur essendo molto caro ai democristiani il concetto di vincolo sacramentale nella famiglia, questo non impedisce di raffigurare anche una famiglia, comunque costituita, come una società che, presentando determinati caratteri di stabilità e di funzionalità umana, possa inserirsi nella vita sociale. Mettendo da parte il vincolo sacramentale, si può raffigurare la famiglia nella sua struttura come una società complessa non soltanto di interessi e di affetti, ma soprattutto dotata di una propria consistenza che trascende i vincoli che possono temporaneamente tenere unite due persone106». Pare di capire, dunque, dalle parole di Moro, che l’idea di famiglia che si aveva in mente, era quella di una società naturale indipendente dal vincolo coniugale e da riconoscimenti religiosi o giuridici. Se ciò fosse vero, l’articolo 29 non avrebbe 104
V. CAPORELLA, La famiglia nella Costituzione italiana. La genesi dell’articolo 29 e il dibattito della Costituente, tratto da www.storicamente.org cit. 1- 2-3 105 V. CAPORELLA, La famiglia nella Costituzione italiana. La genesi dell’articolo 29 e il dibattito della Costituente,cit. 2-3. 106 A. MORO, I Sottocommissione, 5 novembre 1946, in VITTORIO CAPORELLA, La famiglia nella Costituzione italiana. La genesi dell’articolo 29 e il dibattito della Costituente, tratto da www.storicamente.org, cit. 3
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nessun valore dal punto di vista giuridico. Resterebbe vivo solo il suo significato politico che si presta ancora oggi a diverse strumentalizzazioni. Da un lato c’è chi in virtù della locuzione “società naturale” riveste l’idea di sacralità l’idea di famiglia che emerge dall’articolo 29, e dall’altra chi invece tende a sminuire l’importanza concettuale dell’articolo stesso, sia dal punto di vista politico che giuridico. Dello stesso avviso è Roberto Bin, il quale sostiene che l’art. 29 Cost. sia la conseguenza di una mediazione linguistica nella scrittura della Costituzione, capace di provocare reazioni emotive sul piano ideologico, ma non di traduce il prodotto in regole giuridiche. L’art. 29, sempre secondo Bin, affermando che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia, sostiene «che questi preesistono all’ordinamento giuridico repubblicano, perché derivano dalla natura delle cose e non dal diritto stesso. È l’antica pretesa giusnaturalistica, riscoperta e riproposta dalla parte cattolica dei costituenti e degli interpreti della Costituzione107». Bin, prova allora ad interrogarsi sul concetto di società naturale, e su cosa questa locuzione connoti. Prova ad ipotizzare due risposte, una psicologia che legherebbe l’esistenza della famiglia ad un bisogno naturale dell’uomo, l’altra culturale, dove prende atto del fatto, che è sicuramente difficile, per la cultura italiana, pensare per esempio alla famiglia omosessuale, ma questo è per il giurista un argomento poco spendibile, perché, continua, non sulla cultura dei più, si deve fondare la nozione di famiglia, anche perché, se così fosse, perderebbe di qualsiasi tipo di prescrittività, anche l’idea di famiglia naturale. Bin rifiuta l’interpretazione giusnaturalista e ne sostiene un’altra che si potrebbe definire contrattualistica. Infatti, egli sostiene che la famiglia non preesiste allo Stato, ma con esso si evolve in base ai costumi e alle leggi. Bin attribuisce, dunque, al Legislatore il compito di disciplinare la famiglia in base alle esigenze sociali, culturali, sempre in continuo e rapido mutamento. Quindi, per il giurista l’istituto della famiglia disciplinato nella Costituzione necessità di una interpretazione elastica e non rigida. «I diritti della 107
R. BIN, La famiglia nella Costituzione, alla radice di un ossimoro, in “Studium Iuris”, n. 10 del 2000, tratto da www.lucacoscioni.it , 2007 cit 1
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famiglia non preesisterebbero più alla legge, ma sarebbe la legge a crearli. Predicare della famiglia che essa è una società naturale e, ad un tempo, fondata sul matrimonio è predicare attributi tra loro incompatibili, dato che il matrimonio è un istituto giuridico che non appartiene affatto alle forme naturali dell’organizzazione sociale, ma a quelle convenzionali, determinate dalle regole contingenti poste dalla legislazione vigente. Non è affatto naturale che la gente si sposi, anche se la maggioranza lo fa: è una liberà scelta da cui derivano specifiche conseguenze giuridiche108». Alle stesse conclusioni, arriva anche, Michela Manetti, la quale sostiene che l’art. 29 Cost. non abbia finalità conservatrici, ma che vada letto e interpretato con l’evolversi della società. Anche la Manetti sostiene una tesi contrattualistica e non giusnaturalista della famiglia, cioè, essa nasce con il diritto, con la legge, e da essa è disciplinata. Dunque, per società naturale si intende semplicemente che l’Istituto della famiglia risponda a dei bisogni naturali o istintivi dell’uomo e allo Stato rimane il compito o di adeguare «l’evoluzione delle regole sociali con la migliore attuazione dei principi costituzionali in materia 109». Si è avuto modo di analizzare, alcune autorevoli interpretazioni dell’art. 29 della Costituzione. Come si è potuto notare, il pomo della discordia è l’interpretazione della formula “società naturale”, la quale può essere utilizzata come chiave per una lettura conservatrice dell’istituto della famiglia, ma anche semplicemente come una dichiarazione di principio generica che non esclude la possibilità di riconoscimenti giuridici di altri tipi di unioni tra individui dello stesso o di sesso diverso. Nel prossimo paragrafo si affronterà il tema della famiglia così come elaborato nella Dottrina sociale della Chiesa.
108
R. BIN, La famiglia nella Costituzione, alla radice di un ossimoro, cit. .3
109
M. MINETTI, Famiglia e Costituzione: le nuove sfide del pluralismo delle morali, in Rivista dell’Associazione italiana dei Costituzionalisti-n.00 del 02/07/2010, tratto da. www.associazionedeicostituzionalisti.it cit. 5.
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La posizione ufficiale della Chiesa L’istituto giuridico del matrimonio diventa, per la Chiesa cattolica, sacramento e viene annoverato tra quei principi fondamentali, chiamati «valori non negoziabili», sui quali, i cattolici impegnati in politica sono chiamati a conformare il loro agire al dettato della Dottrina, votando o sostenendo politiche a tutela della famiglia come istituzione voluta da Dio, fondata esclusivamente sull’unione di un uomo e una donna. La Dottrina sociale della Chiesa, infatti, sostiene che la famiglia sia un’istituzione divina, cioè, creata da Dio come una società naturale fondata sull’unione di un uomo e una donna, titolare di diritti originari che preesistono alla nascita dello Stato e che quest’ultimo deve limitarsi a riconoscere e garantire. Per la Chiesa, dunque, la famiglia, come società titolare di diritti inviolabili, trova la sua legittimazione in Dio e nella natura e non nel riconoscimento formale dello Stato. La Santa Sede, però, non si limita ad una visione giusnaturalista del dettato costituzionale, essa attribuisce alla famiglia carattere divino, un sacramento sia per i coniugi, per i figli, che per la società, infatti, è «Dio stesso l’autore del matrimonio, non è dunque una creazione dovuta a convenzioni umane e ad impostazioni legislative, ma deve la sua stabilità all’ordinamento divino. Comporta un impegno definitivo espresso con il consenso reciproco, irrevocabile e pubblico110». Da queste premesse, si può dedurre che per la Dottrina sociale della Chiesa, l’istituto della famiglia sia il perno della società. Lo Stato non può disporne o modificarne la sostanza in base a tesi relativistiche o pluralistiche, in quanto, la famiglia è un valore assoluto investito da un’altra Autorità. La famiglia, dunque, precede lo Stato e questo si deve limitare a predisporre una legge che riconosca la sua specificità e ne garantisca le sue prerogative. La Chiesa, dunque, interpreta la locuzione “società naturale”, così come contenuta nell’art. 29 della Costituzione, come riconoscimento di questo carattere 110
COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA, cit 119-120
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Divino e indisponibile. «La società non può disporre del legame matrimoniale, ma è abilitata a disciplinarne gli effetti civili»111. Un altra caratteristica fondamentale del matrimonio, così come concepito nella dottrina cattolica, è che si fonda sull’unione di un uomo e una donna,«spetta a ciascuno, uomo o donna, riconoscere ed accettare la propria identità sessuale. La differenza e la complementarietà fisiche, morali e spirituali sono orientate al bene del matrimonio e allo sviluppo della vita familiare. L’armonia della coppia e della società dipende in parte dal modo in cui si vivono tra i sessi la complementarietà, il bisogno vicendevole e il reciproco aiuto E’ questa una prospettiva che fa considerare doverosa la conformazione del diritto positivo alla legge naturale, secondo la quale l’identità sessuale è indispensabile, perché è la condizione oggettiva per formare una coppa nel matrimonio»112. In sintesi, dunque, le caratteristiche fondamentali del matrimonio secondo la Chiesa Cattolica possono essere così riassunte: carattere Divino e originario, è un sacramento fondato sull’unione stabile di un uomo e una donna. Un’eventuale legislazione sulle unioni di fatto produrrebbe un attacco diretto al modello di famiglia cattolico, che non è concepito come una semplice unione tra persone, ma solo ed esclusivamente come un’unione stabile fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, come unica fonte di procreazione. La Chiesa, dunque, percepisce le unioni di fatto come un attacco diretto alla sacralità della famiglia e, si oppone ad un riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali. «Se una legislazione può talvolta tollerare comportamenti moralmente inaccettabili, non deve mai indebolire il riconoscimento del matrimonio monogamico indissolubile quale unica forma autentica di famiglia. E’ pertanto necessario che le pubbliche autorità resistendo a queste tendenze disgregatrici della stessa società e dannose per la dignità, sicurezza e benessere dei singoli cittadini, si adoperino perché l’opinione pubblica non sia indotta a sottovalutare l’importanza istituzionale del 111
COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA, cit. 121
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COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA, cit. 125
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matrimonio e della famiglia. E’ compito della comunità cristiana e di tutti coloro che hanno a cuore il bene della società riaffermare che la famiglia costituisce, più ancora di un mero nucleo giuridico, sociale ed economico, una comunità di amore e di solidarietà che è un modo unico adatto ad insegnare e a trasmettere valori culturali, etici, sociali, spirituali e religiosi, essenziali per lo sviluppo e il benessere dei propri membri e della società»113. Al cattolico in politica spetta, dunque, il compito di difendere in modo responsabile e secondo coscienza, la famiglia come valore non negoziabile. La sua carica pubblica non lo esime da valutazioni morali su temi così fondamentali114. I cattolici in politica dunque, seconda la Chiesa, non potrebbero decidere in modo laico e pluralista, ma sui temi di natura etica, dovrebbero tener fede a quanto espresso dal Magistero cattolico. A tal proposito, Il 28 marzo 2007 Il Consiglio Episcopale Permanete ha pubblicato una Nota sul tema della famiglia fondata sul matrimonio e sulle iniziative legislative in materia di unioni di fatto115. Le premesse contenute nella Nota, riportano a quanto già si è detto precedentemente sulla famiglia, Queste premesse vengono dunque utilizzate per descrivere le ragioni in base alle quali la Chiesa è contraria ad ogni intervento del Legislatore sulle unioni di fatto. La nota sostiene che il diritto non può dare un riconoscimento giuridico a qualsiasi tipo convivenza fondata su basi ideologiche. Il suo compito è, invece, quello di garantire «risposte pubbliche e esigenze sociali che vanno al di là della dimensione privata dell’esistenza. Siamo consapevoli che ci sono situazioni concrete nelle quali possono essere utili garanzie e tutele giuridiche per la persona che convive. A questa attenzione non siamo per principi contrari. Siamo però convinti che questo obiettivo sia perseguibile nell’ambito dei diritti individuali, senza ipotizzare una nuova figura 113
COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA, cit. 127-128-129 G. CREPALDI, Il cattolico in politica, cit. 136 115 C. PINELLI, La Nota del Consiglio Episcopale Permanente e le norme costituzionali in tema di famiglia e formazioni sociali, tratto da www.associazionedeicostituzionalisti.it 2007, cit.1 114
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giuridica che sarebbe alternativa al matrimonio e alla famiglia e produrrebbe più guasti di quelli che vorrebbe sanare»116. La Nota si rivolge ai cattolici in politica e li obbliga ad essere obbedienti al Magistero Ecclesiastico. Occorre, dunque, capire se quanto chiede la Chiesa ai cattolici in politica, è compatibile con il dettato costituzionale dell’art. 67. Pinelli afferma che «per ricercare se la soglia sia stata oltre passata, occorre far riferimento all’interpretazione costituzionale. Se l’opposizione alla regolamentazione alle unioni di fatto dovesse considerarsi coessenziale alla difesa della famiglia fondata sul matrimonio in base all’art. 29 Costituzione, la Nota promuoverebbe un principio che, oltre a rientrare fra quelli ritenuti “non negoziabili” dalla Chiesa, sarebbe proprio della stessa Costituzione repubblicana. La questione viene discussa da tempo sia dall’opinione pubblica che dalla giurisprudenza costituzionale. Pinelli, traccia una mappa molto chiara che può aiutarci a dare una risposta al quesito centrale di questo lavoro e cioè, se la Dottrina sociale della Chiesa possa conciliarsi o no, con le norme costituzionali italiane dalle quali si deduce il principio supremo di laicità, così come elaborato dalla sentenza n. 203 del 1989. Il Pinelli affronta l’argomento partendo da una riflessione storicocostituzionale, sostenendo che la Corte Costituzionale non hai mai concepito le unioni di fatto come costituzionalmente irrilevanti perché trovano una specifica tutela come formazioni sociali, di cui all’art. 2 della Costituzione, ma anche, qualora dall’unione né consegua prole, la tutela riguarda anche i figli, in base ai principi costituzionali che garantiscono il mantenimento, l’istruzione e l’educazione della prole stessa anche se alla famiglia di fatto non è riferibile l’art. 29, dettato esclusivamente a tutela della famiglia legittima fondata sul matrimonio, come si evince dalla sentenza n. 237 del 1986. Sempre secondo Pinelli la decisione di estendere ai conviventi more uxorio la successibilità nella titolarità del contratto di 116
C. PINELLI, La Nota del Consiglio Episcopale Permanente e le norme costituzionali in tema di famiglia e formazioni sociali, cit. 1
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locazione in caso di morte del conduttore, come stabilito dalla sentenza n. 404 del 1988 è in linea con l’interpretazione che attribuisce alle convivenze di fatto una particolare tutela costituzionale, anche se si tiene distinta la famiglia legittima da quella di fatto, rispettivamente oggetto di tutela da parte dell’art. 29 e della art. 2 Costituzione, si riconosce a entrambe una propria specificità. La considerazione dell’unione di fatto come formazione sociale, in base all’art. 2 Costituzione, «da un lato tiene conto della sua funzione di gratificazione affettiva, dall’altro, e proprio per questo, richiede che si dimostri la stabilità e la durevolezza del rapporto. Così, nell’ipotesi di morte del convivente causata da fatto dannoso, al fine di attribuire al convivente sopravvissuto il risarcimento del danno, occorre dimostrare che il rapporto sarebbe continuato ove non si fosse verificato l’evento interruttivo. Ancora, la Cassazione penale ha riconosciuto il diritto a costituirsi parte civile non solo ai genitori della persona offesa, ma anche ai conviventi, compresi i conviventi omosessuali, purchè l’unione sia dotata di un minimo di stabilità, tal da non farla definire episodica, ma idoneo e ragionevole presupposto per un’attesa di apporto economico futuro e costante. Giova aggiungere che, nella legge quadro sull’assistenza (L. n. 328 del 2000), la tendenza a valorizzare il nucleo familiare come tale, sul presupposto che il benessere dei singoli componenti sia condizione necessaria ma non sufficiente per il pieno soddisfacimento delle aspettative della famiglia, si combina con l’attenzione al moltiplicarsi delle forme familiari, in vista del riconoscimento più ampio possibile alla famiglia di un ruolo attivo nei processi di integrazione dei suoi membri, nella cura delle persone, nell’assistenza ad anziani e disabili»117. Alla luce di quanto riportato, Pinelli conclude affermando che questi esempi riportati sono sufficienti a dimostrare come un intervento del Legislatore sulle unioni di fatto debba essere inteso più come un’esigenza di regolamentazione che non come un attacco diretto alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. 117
CESARE PINELLI, La Nota del Consiglio Episcopale Permanente e le norme costituzionali in tema di famiglia e formazioni sociali, cit. 3-4
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Le Unioni di fatto in Italia. Per famiglia di fatto si intende la convivenza stabile e duratura, con o senza figli, fra una donna e un uomo, che si comportano anche esternamente come coniugi, senza essere sposati118. Si è avuto modo di leggere, nei paragrafi precedenti, come in giurisprudenza via sia un acceso dibattito, incentrato soprattutto sulla equiparazione o meno delle unioni di fatto alla famiglia. Abbiamo visto, che se da un lato l’art. 29 Cost. chiude le porte alle unioni di fatto, dall’altro, però, è nell’art. 2 Cost. che esse trovano piena legittimità, in quanto la Costituzione tiene conto dei valori che si manifestano nell’evoluzione della coscienza sociale.119 Emerge, dunque, un dibattito che si fonda su due idee diverse di famiglia, l’una basata su di un principio naturalista, l’altra evolutivo120. Durante il Governo Prodi, venne presentato un disegno di legge denominato Dico (diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi), che aveva come finalità quella di riconoscere nel nostro ordinamento giuridico, alcuni diritti e doveri derivanti da rapporti di convivenza regolarmente registrati all’anagrafe. Il testo del disegno di legge, venne varato dal Consiglio dei Ministri l’8 febbraio del 2007. Il testo inserito nel programma dell’Unione, coalizione di centro-sinistra che sosteneva il Governo Prodi, aveva come primi firmatari l’Onorevole Rosy Bindi e l’Onorevole Barbara Pollastrini. Il 10 luglio 2007 il testo venne presentato in Senato alla Commissione Giustizia. In seguito vennero presentati una serie di emendamenti al disegno di legge, che apportarono diverse modifiche ad iniziare dal nome, non più DICO ma CUS (contratto di unione solidale). La stesura del disegno di legge sulle unioni di fatto, fu tutt’altro che sereno. Si cercò di trovare una soluzione di compromesso tra coloro i quali provenivano da una 118
C. OTTONELLO, La rilevanza della famiglia di fatto nell’ordinamento giuridico italiano, in particolare la risarcibilità del danno da morte del convivente, tratto da www.diritto.it , cit. 1 119 Cfr.in G. Branca (a cura di) A. BARBERA, Commentario della Costituzione, art. 2, tratto da N. MORANDI, Le unioni di fatto nel dibattito in Italia, 2006. 120 N. MORANDI, Le unioni di fatto nel dibattito in Italia, 2006.
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cultura popolare legata alla tradizione cattolica, e tra coloro i quali avevano una formazione più progressista. Asprissime furono invece le polemiche sollevate sia dagli organi ufficiali della Chiesa, sia da coloro i quali avevano e tutt’ora hanno una visione più conservatrice della società. Sia dunque, per le forti divisioni sul tema, sia per la caduta del Governo Prodi, l’iter legislativo si è arenato. Si è già detto che questo lavoro non vuole in nessun modo entrare nel dibattito politico. Ritornando, dunque, all’aspetto giuridico, è importante presentare una scheda riassuntiva che elenchi le caratteristiche contenute nel disegno di legge sui Dico. “Due persone maggiorenni, anche dello stesso, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono e si prestano assistenza e solidarietà materiale e morale, non legate da vincoli di matrimonio, parentela in linea retta, adozione, affiliazione,tutela, curate amministrazione di sostegno, sono titolari dei diritti e delle facoltà stabiliti dalla presente legge.” “La convivenza. E’ provata dalle risultanze anagrafiche. La dichiarazione può avvenire contestualmente, ma nel caso ciò non avvenga il convivente che l’ha resa ha l’onere di darne comunicazioni mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’altro convivente.” “Gli esclusi. Non possono accedere ai diritti regolati dalla legge i condannati per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra o sulla persona con la quale l’altra conviveva o anche che sia stata rinviata a giudizio per lo stesso reato. Escluse anche le persone legate da rapporti contrattuali, anche lavorativi, che comportino necessariamente l’abitare in comune. Ovviamente per una falsa dichiarazione di convivenza è prevista una pena: da uno a tre anni di carcere e una multa da 3 mila a 10 mila euro”. “La malattia. Le strutture ospedaliere e di assistenza pubbliche e private regolano l’esercizio del diritto di accesso del convivente per fini di visita e di assistenza nel caso di malattia o ricovero dell’altro convivente. Questo si legge nel capitolo assistenza per malattia o ricovero della legge sulle unioni di fatto. “Secondo il testo in discussione al Cdm ciascun convivente può designare l’altro suo rappresentante: a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, al fine di concorrere alle decisioni in materia di salute, nei limiti previsti dalle disposizioni vigente; b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione degli organi, la modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie. Questa designazione è effettuata mediante atto scritto e autografo. In caso di
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impossibilità di redigerlo viene formato un processo verbale alla presenza di tre testimoni, che lo sottoscrivono.” “Case popolari. Le Regioni tengono conto della convivenza ai fini dell’assegnazione di alloggi di edilizia popolare o residenziale pubblica. In buona sostanza, le Regioni dovranno tener conto nelle graduatorie per le case popolari anche dei conviventi registrati.” “Contratto d’affitto. In caso di morte di uno dei conviventi che sia conduttore del contratto di locazione della comune abitazione, l’altro convivente può succedergli nel contratto, purchè la convivenza perduri da almeno tre anni ovvero vi siano figli comuni. Questa disposizione, si legge ancora si applica anche nel caso di cessazione della convivenza nei confronti del convivente che intenda subentrare nel rapporto di locazione.” “Tutele sul lavoro. La legge e i contratti collettivi disciplinano i trasferimenti e le assegnazioni di sede dei conviventi dipendenti pubblici e privati al fine di agevolare il mantenimento della comune residenza, prevedendo tra i requisiti per l’accesso al beneficio una durata almeno triennale della convivenza. Il ddl sulle unioni di fatto, specifica come il convivente che abbia prestato attività lavorativa continuativa nell’impresa di cui sia titolare, l’altro convivente può chiedere, salvo che l’attività medesima si basi su di un diverso rapporto, il riconoscimento della partecipazione agli utili d’impresa, in proporzione all’apporto fornito.” “Eredità. Trascorsi nove anni dall’inizio della convivenza il convivente concorre alla successione legittima dell’altro convivente, avendo diritto a un terzo dell’eredità se alla successione concorre un solo figlio e ad un quarto se due o più figli. In particolare il ddl prevede che in caso di concorso con ascendenti legittimi o con fratelli e sorelle anche se unilaterali al convivente è devoluta la metà dell’eredità, mentre in assenza di altri parenti entro il terzo grado in linea collaterale, l’intera eredità. La legge specifica poi, dal punto di vista fiscale, che quando i beni ereditari di un convivente vengono devoluti all’altro convivente l’aliquota sul valore complessivo netto dei beni è stabilita nella misura del 5% sul valore complessivo netto eccedente i 100mila euro”. “Gli alimenti. Nell’ipotesi in cui uno dei due conviventi versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, l’altro convivente è tenuto a prestare gli alimenti oltre la cessazione della convivenza, purchè perdurante dal almeno tre anni, con precedenza sugli altri obbligati, per un periodo determinato, in proporzione alla durata della convivenza. L’obbligo di versare gli alimenti, si legge ancora cessa qualora l’avente diritto contragga matrimonio o inizi una nuova convivenza registrata all’anagrafe.” “riconosciute coppie in essere. Entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, può essere fornita la prova di una data di inizio della convivenza anteriore a quella delle 87
certificazioni registrare all’anagrafe. Nello steso articolo, il 13, del ddl si specifica che la registrazione di una convivenza fa cessare i diritti patrimoniali, successori o previdenziali e le agevolazioni previste per i divorziati. Ovviamente gli stessi diritti riconosciuti dalla legge ai conviventi cessano se uno degli ex conviventi si sposa”. “Reversibilità. In sede di riordino della normativa previdenziale e pensionistica, la legge disciplina i trattamenti da attribuire al convivente, stabilendo un requisito di durata minima della convivenza, commisurando le prestazioni alla durata medesima e tenendo conto delle condizioni economiche e patrimoniali del convivente superstite. Così il disegno di legge approvato dal Governo su “diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”.121 Possiamo dunque, riassumere le novità introdotte dai Dico come segue: •
“Certificati i diritti in materia di assistenza sanitaria;”
•
“Rilascio di un permesso di soggiorno per convivenza;”
•
“Diritto al trasferimento dei conviventi di almeno tre anni, dipendenti pubblici e privati al fine di agevolare il mantenimento della comune residenza,”
•
“Previsto il subentro negli affitti ed eredità e l’obbligo alimentare.” “Rinviata invece la questione della reversibilità delle pensioni”.122 Come già detto in precedenza, in Commissione Giustizia del Senato, Cesare Salvi
presento un nuovo disegno di legge i CUS (Contratti di Unione Solidale) che sustituirono i DICO, introducendo alcune novità in materia di diritti delle coppie di fatto. Le principali novità rispetto ai DICO, possono essere così riassunte: •
“costituzione e modifica delle unioni solidali, anche tra persone delle stesso sesso, con contratto pubblico redatto davanti a un notaio o al giudice di pace, attraverso il quale due contraenti si impegnano in un reciproco aiuto, contribuendo alle necessità della vita in comune in proporzione ai propri redditi;”
•
“Istituzione di un registro delle unioni sociali, tenuto presso il giudice di pace, in cui sono trascritti i contratti di unione solidale;”
•
“Possibilità per le parti di scegliere il regime patrimoniale e di inserire nel contratto i contenuti che preferiscono;”
•
“in caso di malattia con stato di incapacità di intendere e di volere anche temporaneo, ed in mancanza di una diversa volontà manifestata per iscritto o di una procura
121
Coppie di fatto, i contenuti del ddl su “Diritti e doveri dei conviventi”, tratto da www.repubblica.it 8 febbraio 2007, cit. 1-2 122 G. BELLINI, Nota su di diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi (DICO), Disegno di legge approvato dal CdM l’08.02.2007, tratto da www.altalex.com 12febbraio 2007.
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sanitaria, possibilità per l’altra parte dell’unione solidale di prendere tutte le decisioni relative allo stato di salute e di carattere sanitario, ivi comprese quelle concernenti la donazione degli organi;” •
“in caso di morte, e sempre in mancanza di una diversa volontà manifesta per iscritto, facoltà dell’altro soggetto di adottare decisioni in merito al trattamento del corpo e alle celebrazioni funerarie;”
“(nel disegno di legge dei DICO, per gli ultimi due punti era necessaria un’apposita designazione dell’altra parte con atto scritto e autografo o, in caso di impossibilità, un processo verbale alla presenza di tre testimoni)”. “Sono invece riproposte, come nel disegno di legge dei DICO:” •
“istituzione di diritti ereditari alla morte del convivente, se l’unione solidale è stata registrata da almeno nove anni, nel rispetto delle quote legittime in caso di figli, fratelli e sorelle o altri prenti;”
•
“Previsioni di agevolazioni in materia di lavoro, tra cui possibilità di trasferimento per favorire il mantenimento della comune residenza;”
•
“introduzione di garanzie nella disciplina previdenziale e pensionistica.”123
La presentazione del progetto di legge chiamato prima DICO poi CUS ha acceso un ampio dibattito in Italia. Infatti, ci sono coloro i quali sostengono che sia un attacco diretto a delegittimare la famiglia tradizionale e che non ci sia il bisogno di istituire una formazione sociale ad hoc, in quanto tali diritti possono essere garantiti dalle norme civilistiche o comunque discutendo in termini di diritti individuali, tesi queste sostenute dalla Chiesa Cattolica e dai partiti politici o dalle associazioni legate alla cultura cattolica. C’è chi invece sostiene che i DICO-CUS, siano in perfetta sintonia con il dettato costituzionale, in particolar modo con l’art. 2 Cost. e con la giurisprudenza della Corte Costituzionale. A favore della proposta di legge sulle unioni di fatto si schiera Stefano Ceccanti, il quale afferma che la Corte Costituzionale ha più volte ricordato la specifica tutela riservata alla famiglia in virtù dall’art. 29 della Costituzione, ma ha anche sostenuto che l’art. 2 della Costituzione tutela i diritti delle persone sia come singoli sia nelle formazioni sociali e, dunque, rientrano sotto questa specifica tutela 123
G. BELLINI, Nota su Contratti di Unione Solidale( CUS).
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anche le unioni di fatto. Sempre Ceccanti, analizzando il testo sui CUS, afferma che l’affermazioni di diritti, quali, il diritto all’assistenza per malattia o ricovero del convivente, oppure l’equiparazione dei diritti del convivente a quelli del coniuge in tema di successione, non creano nessun disturbo alla famiglia, ma se mai si tratta di rispondere ad un’esigenza solidaristica che il Legislatore non può ignorare. Esattamente di questo parla il testo della legge: niente di più niente di meno124. Anche Leopoldo Elia, discutendo sui temi concreti che generano problematiche sul campo della laicità, sostiene che le unioni di fatto non possono considerarsi contrarie all’art. 29 della Costituzione, in quanto la loro disciplina non trova regolamentazione nella disciplina riservata alla famiglia fondata sul matrimonio. «Gli interventi protettivi per i componenti delle coppie di fatto non comportano per nulla quella composizione di assoluti. Dove sono qui i principi e i valori non negoziabili? Perché da parte della CEI non si è proporzionata la reazione ai DICO misurandola su quella della Chiesa francese ai PACS?»125. Sul Forum famiglie, associazione familiare vicina alle posizioni cattoliche, viene chiaramente criticata le tesi secondo la quale i Dico sono nettamente distinti dall’istituto familiare e che tutelano diritti esclusivamente individuali. Tale associazione sostiene che: «l’art 1 della proposta di legge prevede che la stessa si applica a due persone maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono. Per il diritto il riferimento all’affetto (vincoli affettivi) è un non senso: il diritto non ha mai disciplinato l’affetto, che, in quanto sentimento personale, non è verificabile. Nell’ordinamento si possono considerare soltanto i comportamenti accertabili, non i sentimenti!. Il riferimento ai vincoli affettivi, lungi dall’essere un errore non voluto, ha proprio la funzione di identificare come legame di carattere familiare quello che, con i DICO, si vorrebbe introdurre nel nostro ordinamento, con la conseguente tutela giuridica di questa quasi 124
S. CECCANTI, Cosa ci dicono i Dico, in L’Adige-10 febbraio 2007, tratto da www.astrid-online.it L. ELIA, Introduzione ai problemi della laicità, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Convegno annuale, Napoli, 26-27 ottobre 2007, tratto da www.astrid-online.it.
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famiglia. All’art. 6 si riconosce il diritto per il cittadino straniero privo di permesso di soggiorno, convivente con un cittadino italiano o comunitario, di chiedere un permesso di soggiorno per convivenza: non si produce lo stesso effetto di quanto è già previsto per il matrimonio con lo straniero privo di permesso di soggiorno? Se si esamina il testo della proposta si vede che tutti i diritti riconosciuti ai conviventi sono modulati sui corrispondenti diritti che discendono dal matrimonio. Si può dedurre quindi che con la proposta dei legge sui DICO si è voluto che i conviventi conseguissero gli stessi diritti riconosciuti ai coniugi, senza però il vincolo del matrimonio, con i doveri che ne conseguono»126. La nota continua, sostenendo che la proposta di legge, abbia solo una funzione ideologica, in quanto, è già possibile l’unione di due persone attraverso le disposizioni particolari contenute nel Codice Civile, che riconoscono e garantiscono il valore degli accordi sottoscritti tra le parti. Dunque, in linea con quanto già disposto dal Magistero della Chiesa, le associazioni cattoliche affermano che le convivenze possono trovare tutela attraverso il ricorso al diritto soggettivo, mentre la Costituzione riconosce alla famiglia dei diritti che prescindono dalla condizione soggettiva dei coniugi, proprio perché ha «un importanza ed una funzione sociale che le altre formazioni sociali, richiamate dall’art. 2 della stessa Costituzione, non hanno»127. Un altro tema di grande importanza, che non si può non trattare in questo lavoro, è quello del matrimonio tra persone dello stesso sesso. A tal proposito seguito nella sentenza della Corte Costituzionale n. 138/10 del 15 aprile del 2010, si sancisce che «la previsione legislativa che vieta il matrimonio tra persone appartenenti allo stesso sesso è costituzionalmente legittima»128. Il punto cruciale che viene affrontato dalla Corte è quello relativo al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Infatti, il Tribunale di Venezia in 126
A.SPECIALE, Brevi note sulla proposta di legge sui diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi (Di.Co.), tratto da www.forumfamiglie.it cit. 1 127 A. SPECIALE, Brevi note sulla proposta di legge sui diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi (Di.Co.),cit. 2 128 SENTENZA 138/10 DEL 15.04.2010, tratta da www.overlex.com, cit. 1
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composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117 primo comma della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 107, 143-bis, 156-bis del codice civile, nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possono contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso129. A questo punto, si ritiene importante per il seguente lavoro, riportare il giudizio di legittimità costituzionale della Corte. “La questione, sollevata dalle due ordinanze di rimessione, in riferimento all’art. 2 Cost. , deve essere dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata (ex plurimis: ordinanze n.243 del 2009, n. 316 del 2008, n. 185 del 2007, n. 463 del 2002). (…) L’art 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone- nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge- il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento- che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppiapossa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. E’ sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate. Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost. , spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 59 del 1989 e n. 404 del
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1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”130.
Si è letto quanto stabilito dalla Corte in riferimento all’art. 2 della Costituzione. La sentenza procede con riferimento ai parametri individuati negli articoli 3 e 29 della Costituzione. Si legge che la questione sollevata non è fondata. Si riportano di seguito le motivazioni della Corte: «Occorre prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» e nel secondo comma aggiunge che il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare. La norma, che ha dato vita ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita società naturale (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere)». “(…) Ciò posto. È vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere cristallizzati con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”. “(…) Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi 130
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tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942,che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugal”e. “(…) Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa. (…) Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto. (…) In questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost. , la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”»131.
La sentenza procede poi, ad esaminare il parametro riferito all’art. 117 primo comma della Costituzione, dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale. Le risposte date dalla Corte alle questioni di legittimità sono state negative non soltanto sull’art. 2 ma su tutti i punti messi in gioco dai giudici rimettenti. Abbiamo avuto modo, leggendo la sentenza come la questione relativa agli articoli 2, 29 e 3 della Costituzione, che sono quelli ai quali si è prestata particolare attenzione, sia stata rigettato in quanto inammissibile per quel che concerne l’art. 2 Cost. e infondata per quanto riguarda l’art. 3 e 29 della Cost. «la sentenza giustifica la ravvisata inammissibilità adducendo la carenza di potere del Giudice costituzionale a statuire sull’incostituzionalità delle norme portate al suo esame»132. Con particolare riferimento all’art. 2 della Costituzione, dall’interpretazione della sentenza si evince che «benché sia innegabile che l’aspirazione delle coppie omosessuali a conseguire un riconoscimento giuridico sostanzia un diritto inviolabile 131
SENTENZA 138/10 DEL 15.04.2010, tratta da www.overlex.com, cit. 10-11 C. SILVIS, Il matrimonio omosessuale fra il “non s’ha da fare” dell’art. 29 ed il “si può fare” dell’at. 2. della Costituzione, tratto da www.giur.cost.org cit 1. 132
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presidiato dall’art. 2 Cost. , non è detto che le vigenti norme interdittive del matrimonio fra persone dello stesso sesso siano necessariamente lesive di quel diritto inviolabile, posto che unicamente al Legislatore spetta decidere, secondo la sua piena discrezionalità, se quel diritto inviolabile debba essere riconosciuto estendendo alle coppie omosessuali la possibilità di contrarre matrimonio oppure creando un modello ad hoc di convivenza giuridicamente sancita e disciplinata»133. Sono comunque diversi i dubbi che la sentenza 138/2010 ha lasciato tra i costituzionalisti e gli studiosi della materia. Riguardo all’infondatezza dell’additato contrasto delle norme di legge ordinaria con l’articolo 29 della Costituzione, Silvis ha sostenuto che anche sé il matrimonio omosessuale non era nell’idea del Costituente, questo non giustifica il fatto che, oggi la Costituzione non possa dare risposte alle istanze di cambiamento che arrivano dalla società. «(…) Sebbene il matrimonio è pensato dall’art. 29 Cost. principalmente per le unioni eterosessuali in ragione della loro attitudine a procreare ed educare la prole, esso, tuttavia, non è impedito alle coppie già prive di tali attitudini all’atto della conclusione del negozio nuziale, come lo sono, per l’appunto, le unioni formate da appartenenti al medesimo sesso biologico. (…) in definitiva, la Legge fondamentale della Repubblica non evidenzia alcun dato oggettivo da cui ricavarsi inconfutabili preclusioni ad un matrimonio fra soggetti dello stesso sesso: non riferimenti espliciti alla necessaria diversità sessuale dei coniugi; non funzionalizzazioni dell’istituto matrimoniale alla esclusiva realizzazione di scopi che implichino l’indispensabile diversità biologico-sessuale fra i nubendi (procreazione). (…) Con tutto ciò, peraltro, non è lecito concludere quanto alcuni commentatori della pronuncia in disamina hanno frettolosamente concluso, ossia che il verdetto della Corte costituzionale avrebbe statuito la <incostituzionalità del matrimonio omosessuale>. (…) Difatti, che i suoi estensori se ne siano resi conto o meno, la sentenza de qua apre la breccia ad una possibile futura evoluzione dell’istituto matrimoniale nella direzione che la Corte, a prima vista, sembra voler negare.
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C. SILVIS, Il matrimonio omosessuale fra il “non s’ha da fare” dell’art. 29 ed il “si può fare” dell’at. 2. della Costituzione, cit.1-2.
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(…) Il fatto che il Giudice costituzionale abbia concluso che la famiglia «fondata sul matrimonio»134 è concepita dalla legge fondamentale per le sole unioni fra persone di sesso diverso e che, in conseguenza, le norme del codice civile che escludono il matrimonio omosessuale sono in linea con quella concezione, non implica che il matrimonio omosessuale è “incostituzionale”. Implica, solamente, e per l’appunto, che le vigenti norme tarate su quella concezione di famiglia non possono essere ritenute incostituzionali135».
Silvis conclude il suo pensiero, sostenendo che se anche l’art. 29 della Costituzione disciplinasse il matrimonio inteso esclusivamente come matrimonio tra un uomo e una donna, è grazie all’art. 2 della Costituzione che è possibile creare un nuovo istituto che disciplini il rapporto tra persone dello stesso sesso. Quindi, la soluzione auspicata e auspicabile e che il Legislatore intervenga per regolamentare l’unione di coppie omosessuali, opportunità, questa, non è stata affatto esclusa dalla Corte costituzionale. Dello stesso avviso è Barbara Pezzini, la quale sostiene che il riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali deve essere interpretato alla luce di un diritto fondamentale fondato sull’art. 2 Cost136. Continua la Pezzini affermando che, la sentenza, benché conclusa da un dispositivo di rigetto della questione di costituzionalità con riferimento ai parametri 3 e 29 Cost., non nega al legislatore la funzione di legiferare in materia di riconoscimento del matrimonio omosessuale. Sia Silvis che la Pezzini sono dell’opinione che la sentenza n. 138/2010 della Corte costituzionale non equipara le coppie eterosessuali con quelle omosessuali, perché solo le prime trovano un riconoscimento nell’ordinamento italiano in ordine alla possibilità di unirsi in matrimonio. Ciò però non esclude che, se un domani il legislatore intervenisse creando un istituto ad hoc o addirittura dando alle coppie omosessuali la possibilità di contrarre matrimonio, queste, anche da un punto di vista 134
Art. 29 Cost. 1°comma. C. SILVIS, Il matrimonio omosessuale fra il “non s’ha da fare” dell’art. 29 ed il “si può fare” dell’at. 2. della Costituzione, cit. 4-5 135
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B. PEZZINI, Il matrimonio same sex si potrà fare. La qualificazione della discrezionalità del legislatore nella sentenza n. 138/2010 della Corte costituzionale. (destinato alla pubblicazione sul n. 3/2010 di Giurisprudenza costituzionale), tratto da www.associazionedeicostituzionalisti.it cit. 4
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formale possono essere equiparate alle coppie eterosessuali. La Pezzini va oltre, sostenendo che la Corte Costituzionale avrebbe dovuto, invitare il Legislatore, ad adottare una regolamentazione sulle unioni omosessuali fondato sull’art. 2 Cost. «Una volta affermato questo, sarebbe emerso lo schema di una incostituzionalità differita, prefigurando un successivo intervento direttamente additivo da parte della Corte costituzionale in caso di inerzia del legislatore protratta oltre un tempo ragionevole. La sentenza inoltre, appare radicalmente criticabile nell’impostazione, che rovescia
il rapporto più corretto tra i parametri di costituzionalità,ponendo
l’uguaglianza in secondo piano rispetto agli art. 2 e 29 della Costituzione.. invece, la questione in oggetto è, innanzitutto, una questione che interroga l’uguaglianza: le norme pertinenti a definire la condizione del soggetto omosessuale sono, infatti, le norme che garantiscono la pari dignità sociale di tutte le persone e l’uguaglianza senza distinzioni di sesso. In questa impostazione, l’uguaglianza
degrada da
situazione soggettiva a principio informatore dell’ordinamento»137.
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B. PEZZINI, Il matrimonio same sex si potrà fare. La qualificazione della discrezionalità del legislatore nella sentenza n. 138/2010 della Corte costituzionale. cit. 9-10
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Conclusioni 1.
La laicità come principio giuridico e la laicità nella Dottrina sociale della Chiesa. Un incontro possibile? Nella prima parte di questo lavoro, si è discusso su come la Chiesa abbia
elaborato al suo interno il concetto di laicità, e di come, invece, la stessa laicità si sia sviluppata nelle democrazie liberali. Si conviene sul fatto che la laicità sia un’esigenza dello Stato democraticoliberale, il quale ha bisogno di uno spazio pubblico, dove la religione venga sicuramente inclusa, ma allo stesso tempo venga circoscritta alla sfera individuale intima e personale dell’uomo e del cittadino. Lo Stato riconosce, dunque, alla religione un’importante funzione educativa, riconosce ad essa una serie di diritti in via esplicita ed implicita, come ad esempio la libertà di professare liberamente il proprio credo, la libertà di coscienza. Decide di non entrare nel merito, cioè di non far preferenze tra una confessione religiosa e un’altra rifiutando ogni pretesa di verità assoluta. Lo Stato, liberale, dunque, elabora l’idea di laicità per proteggersi dalle ingerenze della religione. Una volta che le idee liberali di laicità si diffusero e gli Stati iniziarono legittimamente a rivendicare le loro prerogative temporali, la Chiesa ha elaborato al suo interno un’idea di laicità. Si sostiene che sia stata una reazione che aveva come obiettivo quello di dimostrare al mondo che la Chiesa era al passo con i tempi e, cercare così di non perdere quell’influenza verso gli Stati che aveva da sempre contraddistinto il suo operato. Da un lato c’è, dunque, la Chiesa che ha elaborato un’idea di laicità dove, la confessione cattolica deve essere presente nello spazio pubblico come portatrice di una Verità assoluta in virtù di un cristianesimo che è portatore di valori etici indispensabili per la democrazia prospettata dalla Chiesa e in particolare da Maritain come forma di Stato voluta da Dio e ispirata dai principi evangelici. Dall’altro lato ci sono le Costituzioni liberali nate, come sostiene 98
Bockenforde, dal processo di secolarizzazione che ha visto il liberalismo trionfare contro i dogmi religiosi, garantendo ai cittadini i principi di libertà e uguaglianza religiosa di fronte alla legge, ed escludendo la religione dal processo di costruzione democratico, fondato su verità relative e non assolute. Tra queste due diverse idee di laicità, si colloca il pensiero di Habermas, il quale se pur riconosca l’importanza del modello laico liberale come garanzia di libertà dalla religione e come basilare per l’applicazione del principio di uguaglianza di tutte le confessioni religiose di fronte alla legge, sostiene che lo Stato non possa fare a meno dei precetti elaborati dalla religione, in particolare dal cristianesimo, i quali formando le coscienze e la moralità degli uomini, fanno sì che all’interno dell’ambito politico vi siano cittadini più inclini alla realizzazione di principi, quali la solidarietà, la lotta alle diseguaglianze di cui lo Stato necessita per realizzare i propri fini. Habermas, riprendendo Bockenforde, ha una visione critica nei confronti di quegli Stati che in nome di una libertà estrema fondata non sull’individuo ma sull’individualismo, rinunciano alla morale religiosa, in particolare cattolica ed invita, dunque, ad un dialogo sempre più profondo tra religione e Stato nell’ambito pubblico fondamentale per il divenire della democrazia stessa. Chi scrive sostiene che quanto affermato da Habermas sia condivisibile e possa costituire un comune terreno d’incontro tra le due visioni di laicità tra loro di per sé inconciliabili. Con l’ascesa al soglio pontificio di Benedetto XVI, il confronto-scontro tra le Istituzioni pubbliche e la Santa sede, si è fatto più marcato, soprattutto quando nel dibattito pubblico si discuteva di temi, come, eutanasia, coppie di fatto, simboli religiosi, principi sui quali, la Chiesa non è disposta a scendere a compromessi in quanto fanno parte di quei valori che la Dottrina sociale della Chiesa, definisce come “valori non negoziabili”. Le posizioni assunte su questi argomenti dal “mondo laico” e dalla Chiesa, hanno dimostrato come in realtà il problema sia molto più ampio e complesso. Non è circoscritto a determinati temi, ma ha come causa principale due modi diversi di 99
intendere la laicità. In questo lavoro ci si è concentrati principalmente del rapporto tra Chiesa cattolica e Stato italiano. Con l’entrata in vigore della Costituzione, le norme statutarie che identificavano la confessione cattolica come religione di Stato, sono state di fatto abrogate. Quanto affermato si può dedurre dal dettato delle norme costituzionali, quali ad esempio, gli art. 3, 7,8, 19, 20. Formalmente si è arrivati poi al riconoscimento dell’aconfessionalità dello Stato italiano attraverso la revisione dei Patti Lateranensi nel 1984 e soprattutto attraverso la sentenza n. 203/1989 della Corte Costituzionale, la quale ha qualificato la laicità come principio supremo dell’ordinamento giuridico. Ci si chiede se a seguito di quanto detto, lo Stato italiano, avvalendosi dello schema di Dworkin, rientri tra gli “Stati confessionale tolleranti” o tra gli “Stati laici tolleranti”. A giudizio di scrive, da una interpretazione del dettato costituzionale, dalla quale per via implicita è possibile ricavare il principio di laicità, dalla sentenza 203/1989, è possibile sostenere che l’Italia sia uno “Stato laico tollerante” a tutti gli effetti, almeno nella forma, se pur si ritiene corretto affermare che nella prassi siano ancora presenti determinati atteggiamenti di favore dello Stato verso la Chiesa cattolica che farebbero supporre un legame tra cattolicesimo e Stato più adatto ad uno modello confessionale laico. Se, dunque, si sostiene che lo Stato italiano
rientri nel modello laico
tollerante, allora più che di un comune terreno d’incontro con la laicità della Dottrina sociale, sarebbe opportuno parlare di un oceano che divide. Chi scrive è più propenso a sostenere che nella sostanza, in Italia sia i credenti che i non credenti attribuiscano alla religione cattolica un ruolo specifico e privilegiato, non tanto come credo, come Verità, ma più da un punto di vista storico e culturale, ma questo non è sufficiente
a sostenere che l’Italia sia uno Stato
confessionale tollerante, perché, per questo lavoro assume importanza solo ciò che è rilevante per il diritto. 100
Il pontificato di Benedetto XVI, da un punto di vista dottrinale-teolologico è in continuità con il suo predecessore Giovanni Paolo II. La sua teologia è impostata su un messaggio molto cristocentrico fondato sul binomio verità-ragione e invita l’uomo, anche nell’ambito pubblico, alla ricerca di Dio, anche in modo razionale. La teologia cattolica con quale strumento vuole entrare a far parte dell’ambito pubblico? Per rispondere a questa domanda, si vuole riprendere quando detto su Rawls. Rawls sostiene che le concezioni morali, filosofiche e religiose ragionevoli siano delle “dottrine comprensive del diritto” che rispondono ad un determinato credo di una comunità. Dire che appartengono ad una comunità, significa sostanzialmente che esse vengono accettate da un numero più o meno ristretto di persone. Per loro natura, dunque, non possono essere accettate da tutti. Il metodo attraverso il quale essere partecipano alla formazione della ragione pubblica, viene definito da Rawls “consenso per intersezione”. Ognuno mette a disposizione dell’altro quei valori comunemente accettati dai più, che altro non sono che i principi costituzionali sui quali si fonda la democrazia e l’unità di uno Stato. Quindi, non valori di una maggioranza politica, suscettibili di essere modificati a seconda degli esiti elettorali, ma bensì propri i valori portanti, essenziali e fondamentali di un ordinamento giuridico. Lo spazio dove queste dottrine sono presenti, viene chiamato “ambito politico”. Rawls afferma già da subito che le dottrine comprensive ragionevoli possono partecipare al dibattito pubblico, a patto che però presentino ragioni propriamente politiche. Questa è quella che viene definita dallo stesso studioso americano come “clausola condizionale” che fa si che la dottrina comprensiva non abbia più una portata limitata, ma si rivolga a tutti i cittadini. Pertanto, la teologia cattolica essendo una dottrina esclusivamente religiosa, sarebbe stata esclusa dalla ragione pubblica, perché
pur
sostenendo una dottrina comprensiva, sarebbe stata accettata e circoscritta solo per la comunità dei suoi fedeli. 101
Come già si è avuto modo di vedere, per entrate a far parte dell’ambito politico, la Chiesa ha elaborato una teoria politica, contenuta nella Dottrina sociale della Chiesa, attraverso la quale il cattolico laico impegnato in politica deve agire all’interno delle Istituzioni pubbliche. A questi la Chiesa chiede la più totale ubbidienza e coerenza. Se pur elaborata come guida all’azione politica, la Dottrina rimane pur sempre ispirata dal Vangelo e dispensatrice di Verità, unica via per la salvezza. In virtù di quanto detto, si ritiene che la dottrina comprensiva del diritto elaborata dalla Chiesa e contenuta nella Dottrina sociale della Chiesa non può ambire a diventare ragione pubblica in quanto concepisce la Verità di cui è portatrice come assoluta e questa è incompatibile con una visione laica e liberale dell’ordinamento democratico, come tra l’altro sosteneva Rawls, fondata su verità relative. Essa potrebbe partecipare alla formazione della ragione pubblica solo attraverso il consenso per intersezione, ma tanto più aumentano i principi e i valori ai quali la Chiesa riconosce la non negoziabilità, tanto meno si è disposti a trovare una sintesi e un compromesso con altre dottrine. Per tutti valga l’esempio che la Dottrina sociale della Chiesa se pur elabori al suo interno un’idea di laicità, un programma politico per le realtà temporali, continui a parlare di una Verità assoluta, insindacabile e non negoziabile Ora, la Chiesa chiede ai cattolici impegnati in politica di agire secondo i precetti della Dottrina sociale, perché essa rappresenta la guida pratica dei principi cristiani, così come voluti da Dio. Ma questo non è ancora tutto, infatti per Benedetto XVI, il cattolicesimo, in questo caso come teoria politica, non si limiterebbe a concepirsi come verità di fede, come semplice dottrina comprensiva per la comunità dei credenti, ma bensì come ragione pubblica, in quanto, forzando Rawls, sostiene come, in realtà la dottrina cattolica, unica depositaria della verità assoluta, sarebbe anche l’unica che in virtù dei suoi valori di pace, libertà solidarietà, potrebbe ambire ad essere ragione non solo di fede ma anche pubblica. Si sostiene che Benedetto XVI, pensi che se si guarda alla sostanza delle cose, in realtà i principi del cristianesimo 102
sono i medesi principi liberal-democratici contenuti nelle Costituzioni dei Paesi democratici e che, dunque, il cristianesimo non debba essere escluso dall’ambito politico, in quanto è il fondamento della democrazia stessa. Si potrebbe affermare, per dirla alla Maritain, che la democrazia sia la realizzazione temporale dei principi desunti dal vangelo. La teoria politica cattolica contenuta nella Dottrina sociale, è pur sempre dogmatica e come tale parla, dunque, di una Verità assoluta per tanto, in conclusione non è possibile convenire sulle pretese di Benedetto XVI di conferire alla Verità di fede cristiana la possibilità di qualificarsi come ragione pubblica. Rawls, infatti, da pensatore liberale qual è non accetterebbe mai una Verità assoluta come ragione pubblica, e sicuramente non solo Rawls, ma nessuna democrazia liberale e democratica potrebbe accettare questa idea, perché, come si è detto durante questo lavoro, la democrazia non accetta dogmi di fede, anche se questi si percepiscono come ragionevoli. La democrazia laica si fonda su un idea relativista della società o almeno nel suo rapporto con le confessioni religiose. In virtù delle prescrizioni che la Chiesa impartisce ai cattolici in politica, questi come devono comportarsi all’interno delle istituzioni, senza ledere il principio supremo di laicità? Chi scrive sostiene che, se un politico si definisce cattolico è coerentemente decide di obbedire al dettato della Dottrina e alla Verità cattolica, deve essere sincero e affermare pubblicamente che per lui il principio supremo di laicità non è un valore assoluto, ma che soccombe rispetto alle istanze della fede. Si consenta una breve riflessione. All’interno della Chiesa esistono principalmente due correnti. Una che percepisce la fede e il suo impegno nella vita pubblica, fondato sul binomio verità-ragione, che porta alle conclusione di cui sopra. Un'altra post Concilio Vaticano II che sulla scia di Paolo VI, fonda il suo agire sul binomio verità-fede. Per questo filone di pensiero, la fede se pur ricercata con la ragione, è essenzialmente una questione di fede. Nell’ambito pubblico essi sono più impegnati 103
nel campo della solidarietà, della accoglienza, dell’ascolto. Non innalzano muri o barriere, e si limitano a chiedere al cattolico impegnato in politica di agire secondo coscienza, quindi non solo di operare per la Ragione, ma di utilizzare anche la propria. C’è chi parla addirittura di due Chiese nella Chiesa. Ma chi scrive preferisce parlare di una Chiesa unica. Infatti la Chiesa chiede ai cattolici, indipendentemente dalle diverse sensibilità o schieramenti politici che sui valori non negoziabili ci sia compattezza, e questo è un vero e proprio precetto. Percepirli o no, significa scegliere di volta un volta se dare priorità al principio supremo di laicità o alla Dottrina sociale della Chiesa . In conclusione, più che “date a Cesare quel che è di Cesare” sarebbe più opportuno sostenere che “non si possono servire due Padroni”. Per quanto riguarda il primo dei casi specifici che si ha avuto modo di esaminare in questo lavoro, e cioè in materia di esposizione dei simboli religiosi nelle aule scolastiche, la tesi di scrive è conforme a quanto sostenuto dal ricorso presentato dall’attuale Governo in conseguenza della sentenza della Cedu. Cioè sì sostiene che il crocifisso sia uno dei simboli caratterizzanti della nostra cultura e che dunque abbia oltre ad un valore religioso specifico, anche un significato profondamento radicato nella cultura italiana. La Corte di Strasburgo, seppur condividesse le ragione della signora Lautsi, demanda allo Stato il compito di decidere se autorizzare l’affissione nelle aule scolastiche oppure no. Per quanto si possa avallare la tesi del Governo, si ritiene doveroso sostenere che la scelta di optare per la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche è più coerente con un modello confessionale tollerante. Se si sostiene, che il principio supremo di laicità collochi l’Italia alla pari della Francia fra gli Stati laici tolleranti, allora si deve convenire sul fatto che in questo caso c’è stata violazione del principio di laicità, e che il Governo abbia preferito obbedire, per fede o opportunismo, al dettato della Dottrina sociale della Chiesa, declassando il supremo principio di laicità a semplice principio discrezionale. Per quanto riguarda l’istituto della Famiglia, come società naturale fondata sul matrimonio, chi scrive, sostiene che, a prescindere dalla concezione morale che 104
ognuno ha, la Costituzione riservi solo all’unione stabile di un uomo e una donna l’isituto del matrimonio, e che nell’idea del Costituente era presente la famiglia tradizionale così come concepita nella Dottrina sociale della Chiesa, forse spogliata della sua sacralità, ma non vi sono dubbi sul fatto che la dottrina cattolica abbia influenzato il Costituente, visto anche il peso che il cristianesimo aveva tra i politici presenti in Assemblea. Pertanto, si conviene che se mai si dovesse legiferare sul riconoscimento delle unioni di fatto, l’articolo al quale occorre far riferimento sia l’articolo 2 della Costituzione, laddove si dispone che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità. Tra queste formazioni rientrano sicuramente le convivenze stabili. Tuttavia, se pur non si avverta la necessità, nel caso in cui il Legislatore decidesse di legiferare sulle unioni di fatto, anche per le coppie omosessuali, rifacendosi all’art. 2 della Cost. non si ravvedano motivi per sostenere che tali unioni possano ledere la specificità della famiglia così come dall’articolo 29 Cost., in quanto si tratterebbe di istituti diversi che trovano legittimazione in differenti norme costituzionali. In questo caso però, se un cattolico impegnato in politica, coerente con la propria fede, dovesse essere chiamato ad esprimersi, dovrebbe votare non secondo le proprie ragioni, ma secondo la Ragione Appare un po’ debole la tesi sostenuta dalla Chiesa, in base alla quale tali diritti possano essere garantiti dalle norme del codice civile che fanno riferimento ai diritti individuali, perché quello che è importante per il diritto sono gli effetti dell’unione dai quali emerge una comunione di intenti, di interessi, di vita. La Corte già si era ritrovata a intervenire sull’equiparabilità delle coppie che convivono more uxorio alla famiglia. Se pur venissero riconosciuti alcuni diritti soggettivi alle coppie, veniva negata l’equiparabilità all’istituto della famiglia così come disciplinata dall’art. 29 Cost. La non equiparazione tra i due istituti, è a parere di chi scrive una giusta soluzione che risponde ad un esigenza di laica del diritto, che non può assumere come 105
sacro un valore desunto dalla fede, e non può negare diritti a coloro i quali decidono di dar vita, ad una formazione sociale stabile e duratura. Anche in questo, però, la Chiesa pretende obbedienza, per cui il cattolico in politica si trova schiacciato tra la Dottrina sociale della Chiesa e il supremo principio di laicità. Un altro tema di grande importanza è quello dello matrimonio omosessuale sul quale la Corte Costituzionale si è pronunciata con la sentenza n. 138 del 15 aprile 2010, dove si afferma che “la previsione legislativa che vieta il matrimonio tra persone appartenenti allo stesso sesso è costituzionalmente legittima. Si è abbondantemente approfondito l’esame nel capitolo dedicato alla famiglia. Qui vale la pena sostenere che si conviene sul pronunciamento della Corte Costituzionale sull’inammisibilità per quel che concerne l’articolo 2 della Costituzione e l’infondatezza per quel che riguarda gli articoli 3 e 29 della Costituzione, in virtù di quanto già detto sulla equiparazione delle unioni di fatto così come desumibili dall’articolo 2 della Costituzione e l’istituto della famiglia, così come dall’articolo 29 della Costituzionale. Questi sono altri casi che mettono a duro prova il principio di laicità in Italia. Sarebbe opportuno, secondo chi scrive, che il cattolico in politica si limitasse ad un impegno laico, magari cristianamente ispirato, senza però pretendere di affermare dogmi di fede. Se accettasse questo tipo di impegno, ne gioverebbe la democrazia stessa la quale, riprendo Habermas, ha bisogno della morale religiosa, in particolare di quella cristiana per promuovere la solidarietà, la giustizia, la lotta alle disuguaglianze. Ma questo non è quello che la Chiesa soprattutto oggi chiede ai laici impegnati in politica. Si è detto che tra le virtù più importanti che
un cattolico
deve
possedere ci siano la coerenza ma soprattutto l’obbedienza. Per cui è certamente possibile impegnarsi all’interno della Chiesa per cercare di promuovere un nuovo indirizzo e un diverso approccio verso le realtà temporali, ma fino a quando questo non sarà realizzato, il cattolico impegnato 106
in politica deve essere obbediente al Magistero, ma così facendo va oltre ciò che in base al supremo principio di laicità è lecito. In conclusione, si sostiene indispensabile un modello laico tollerante ed è bene che il Legislatore cerchi nel rispetto di tutte le dottrine comprensive religiose, morali, filosofiche, di essere il più possibile garante delle libertà e dell’uguaglianza di ogni credo di fronte alla legge. Allo stesso tempo però, essere garanti non significa eliminare Dio dal dibattito pubblico, per questo si condivide la proposta di Zagrebelsky di uno modello di “democrazia critica” che non si fonda sulla Verità ma allo stesso non si proclude la possibilità di ricercarla. Forse, potrebbe essere questo il metodo più appropriato per la ricerca di un comune terreno d’incontro tra la Dottrina sociale della Chiesa e il supremo principio di laicità.
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