Fathers beyond the ocean. La figura del padre in James Joyce e John Fante

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

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___________________________

CORSO

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L A U R E A M A GI S T R A L E

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E

LETTERATURE STRANIERE

FATHERS BEYOND THE OCEAN La figura del padre in James Joyce e John Fante

Relatrice: PROF.SSA GIULIA PISSARELLO

Correlatore: PROF. FRANCESCO MULAS

Tesi di Laurea di: SEBASTIANO SAU

ANNO ACCADEMICO 2010/2011



A mio padre



“Writing in English is the most ingenious torture ever devised for sins committed in previous lives. The English reading public explains the reason why.�

J.J.



Indice I. II.

Introduzione Cenni storici tra ‘800 e ‘900 II.1. L’Irlanda II.2. Gli Stati Uniti e il contesto di immigrazione

III.

James Joyce: vita e produzione narrativa III.1. Biografia III.2. Dubliners

IV.

“Farrington” come esempio negativo di figura paterna IV.1. L’ambiente e il personaggio IV.2. Aspettative e frustrazioni

V.

John Fante: vita e produzione narrativa V.1. Biografia V.2. Wait Until Spring, Bandini

VI.

Svevo Bandini: una figura paterna lacerata tra Italia e Stati Uniti VI.1. L’ambiente e il personaggio VI.2. Aspettative e realizzazione di sé

VII.

Conclusioni

VIII.

Bibliografia



I. Introduzione Nel presente studio si prenderà in esame la figura del padre in Joyce e Fante, due scrittori tra loro lontani geograficamente ma che presentano anche elementi semantici e tecnici comuni: Joyce che non riconosce l’Irlanda come propria patria e sceglie l’esilio volontario, vive un rapporto difficile con la società e il proprio padre; Fante, immigrato di seconda generazione che si è trovato in una patria che non lo riconosce e lo ostacola, con problemi di inserimento e un conflitto aperto con la società e con il padre. Nel macrotesto, per entrambi, la figura del padre è comunque imprescindibile. E per citare Roland Barthes, grande semiologo francese, ci si può chiedere: "La morte del Padre toglierà alla letteratura molti suoi piaceri. Se non c'è più un Padre, a chi raccontare delle storie? Ogni racconto non si riconduce forse all' Edipo? Raccontare non è sempre cercare la propria origine, dire i propri fastidi con la Legge, entrare nella dialettica dell' intenerimento e dell' odio? Oggi si chiude con l'Edipo come col racconto: non si ama più, non si teme più, non si racconta più".1 Com’è noto le osservazioni di Barthes si basano su un "canone occidentale" che appunto sembra non poter fare a meno della figura del Padre. Kafka ha tratteggiato il Padre, come figura archetipica e simbolica, legandolo alla Legge e ragionando così, da ebreo laico eppure attratto dagli aspetti spirituali; la figlia dello psicanalista francese Jacques Lacan, in Nom du père, ha delineato la figura di un Padre assente fin dalla sua nascita, eppure sempre presente in quanto rimando centrale all'esplorazione della vita ed anche all'autoesplorazione: "Quando sono nata, mio padre non c'era già più”.2 Nella figura del Padre si intrecciano (anche qualora essa non sia fisicamente presente), tematiche così essenziali da coinvolgere il destino dell' intera comunità. Il padre è presente nel percorso di crescita del figlio e della figlia, con la sua

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R. Barthes, Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, (trad. it.), Torino, Einaudi, 1999, p. 110 2 S. Lacan, Un Padre, trad. Caspani Lucia Corradini, Milano, La Feltrinelli, 2001

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autorevolezza ne sostiene il giudizio e l'intelligenza critica: tutto questo influisce inevitabilmente sulla scrittura, l'arte dello scrivere intorno alla realtà, come intorno ai sentimenti ed al dolore delle persone. Oggetto di questo studio è comparare la figura del padre italo-americano Svevo Bandini, muratore beone, giocatore e donnaiolo, nella produzione letteraria Wait Until Spring, Bandini (1938) opera tra le più importanti di John Fante, con il padre irlandese rappresentato da Joyce in “Counterparts”, nono racconto della raccolta Dubliners. Ai fini di questo studio si analizzerà in particolare Farrington, una figura di padre piuttosto nettamente delineata e che presenta alcuni tratti in comune con la figura di padre fantiano qui analizzata. Essendo molto stretto il legame con il padre nei due autori, Joyce e Fante, ci si soffermerà nelle loro rispettive biografie per meglio evidenziare i nessi vita-opera.

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II. Cenni storici tra ‘800 e ‘900 II.1. L’Irlanda1 La storia d'Irlanda si articola in varie fasi ed è caratterizzata da innumerevoli invasioni militari da parte di popolazioni esterne, ma anche culturali e religiose come quella cristiana nei primi secoli dopo Cristo. Tutti i tentativi fatti dalla corona inglese di imporre il clero anglicano nell'Isola non sortirono alcun effetto e l'Irlanda si mantenne cattolica. La separazione tra cattolici e anglicani è alle radici della Questione Irlandese. I due gruppi non si fusero mai, adottando ciascuno stili di vita differenti e restando legati alla propria religione. Ne fu un esempio il Trinity College fondato a Dublino nel 1592 con il chiaro intento da parte dell'Inghilterra di imporre la sua supremazia culturale oltre che politica. Per quasi tre secoli il Trinity College ha rappresentato il simbolo della cultura protestante, fino al 1873 anno in cui vennero ammessi anche i cattolici. Tale irriducibile contrasto fu causa di tenaci ribellioni e durissime repressioni: uno degli strumenti di repressione maggiormente usati furono le cosiddette Plantations, ossia l'esproprio delle terre ai cattolici irlandesi e la loro ripartizione fra gli immigrati inglesi che stravolsero l'ordine sociale irlandese determinando la definitiva scomparsa delle strutture gaeliche. Ai contadini irlandesi, privati delle loro terre, rimasero soltanto funzioni di manovalanza agricola. I contrasti tra Irlandesi ed esercito britannico si inasprirono e si protrassero per secoli con cruente campagne militari e nuove confische di terre. Solo nel 1641 per la prima volta gli irlandesi cattolici si erano ribellati in nome della causa cattolica quando nell' Ulster scoppiò una rivolta, organizzata dagli irlandesi gaelici e dai vecchi inglesi di religione cattolica per rientrare in possesso delle terre che erano state loro espropriate. La rivolta sfociò in episodi di violenza nei confronti dei coloni inglesi. 1

Per la stesura del capitolo si è fatto riferimento a: M. O’Brien, ; C.C. O’Brien, Ireland: a Concise History, London, Thames and Hudson, 1985; N. Davies, Isole: storia dell’Inghilterra, della Scozia e dell’Irlanda, Milano, Mondadori, 2004 [titolo originale The Isles, A History, Oxford University Press, 2001]; J. Kramer, Britain and Ireland: a Coincise History, London, Routledge, 2007

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La resa finale degli Irlandesi ebbe luogo solo nel 1691 con il Limerick treatise che concedeva loro il libero esercizio del Cattolicesimo. Tuttavia le concessioni fatte da questo trattato furono ben presto ignorate e sostituite nel 1695 dalle Penal Laws, note anche come Code of Popish. Queste leggi, approvate dai nobili protestanti per consolidare il loro potere, privarono i cattolici del diritto di voto, li esclusero dall'esercito e da ogni carica pubblica e politica, vietarono loro l'acquisto delle terre. La cultura, la lingua e gli usi irlandesi vennero messi al bando. Molti cattolici appartenenti alle classi istruite si convertirono alla religione protestante per non danneggiare la propria carriera e perdere le ricchezze; una parte di nobili irlandesi invece trovarono riparo all'estero, in Francia, in Spagna, in Italia. Forti del successo della Rivoluzione americana, i cattolici riuscirono a ottenere nel 1782 una Dichiarazione di Indipendenza che impediva al Parlamento londinese di legiferare su questioni prettamente irlandesi. Da un punto di vista costituzionale, dunque, Irlanda e Gran Bretagna erano separate e l'unico legame era rappresentato dalla fedeltà al sovrano britannico. Le asprezze contro i cattolici cominciarono a mitigarsi, sebbene restassero ancora in vigore molte delle restrizioni relative alla copertura di cariche pubbliche. Paradossalmente, le prime richieste nazionaliste furono avanzate dagli irlandesi protestanti, che erano riusciti a creare una propria identità culturale. Furono questi protestanti a richiedere per primi che l'Irlanda fosse trattata in modo paritetico rispetto alla Gran Bretagna. Nel 1800 il governo britannico varò l'Act of Union, con il quale Westminster otteneva di nuovo il potere di legiferare sulle questioni irlandesi. Questo atto sancì l'unione politica tra il parlamento britannico e quello irlandese. Era nato il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. Il governo dell'Irlanda era affidato al Lord Lieutenant of Ireland, nominato dal sovrano e al Segretario Capo per l'Irlanda, (Chief Secretary for Ireland) nominato dal Primo Ministro britannico. La maggioranza cattolica del paese si attendeva di ottenere, come sorta di contropartita dell'unione, l'abolizione di una serie di leggi che discriminavano i cattolici e soprattutto la cosiddetta emancipazione cattolica, l'eliminazione cioè dell'esclusione di cattolici e presbiteriani dal Parlamento. L'emancipazione fu però

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improvvisamente bloccata dal sovrano Giorgio III che la ritenne contrastante con il suo giuramento di difesa della chiesa anglicana. Nel 1823 un intraprendente avvocato cattolico, Daniel O'Connell, iniziò, fondando la Repeal Association, una campagna per l'abolizione dell'Act of Union e per l'emancipazione cattolica. O'Connell condusse la sua campagna tramite numerosi comizi ai quali presero parte masse enormi di persone (furono infatti detti monster meetings), l'emancipazione venne infine concessa nel 1829, non ottenne però l'abrogazione dell'Act of Union. Nel 1845 l'Irlanda fu colpita dalla Great Famine (An Gorta Mór in gaelico), ovvero la Grande Carestia, conseguenza della malattia che colpì le patate, alimento principale per la maggior parte della popolazione. Una considerevole parte della popolazione morì, un'altra grandissima parte lasciò il paese dando vita a una delle più ingenti emigrazioni della Storia: milioni di profughi si imbarcarono verso l'America e la Gran Bretagna. Tra morti ed emigranti la Grande Carestia portò la popolazione irlandese da circa 8 milioni di persone a circa 4,4 nel 19111. Un calo demografico, senza paragoni in Europa, caratterizzato oltre che dalla mortalità per le malattie e la mancanza di cibo, anche dall'emigrazione in massa che continuò per i cento anni successivi. Il secondo grave effetto si ebbe sulla cultura irlandese: infatti la carestia, pur colpendo anche Belfast e Dublino, fu devastante soprattutto nell'Ovest dell'Isola, la cui la popolazione parlava gaelico. Ciò causò dal 1845 in poi l'abbandono del gaelico a favore di quella inglese e questo avvicendarsi di lingue, senza esempi comparabili in Europa, avvenne nell'arco di una sola generazione. Tale tragico evento influenzò molto la successiva Storia irlandese e soprattutto incrinò i rapporti con gli inglesi poiché la popolazione riteneva che la Great Famine potesse essere arginata o addirittura evitata dal governo britannico così come era stato fatto precedentemente in Inghilterra per una carestia riguardante la raccolta del grano. Piccole organizzazioni repubblicane tentarono la ribellione contro la dominazione britannica. I tentativi di sommosse non portarono mai grossi risultati. 1

J. Mokyr, New Developments in Irish Population History 1700-1850. Irish Economic and Social History, Dublino, University College Dublin, 1984, pp.101–121

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Nel 1858 fu fondata la Fratellanza Repubblicana Irlandese (Irish Republican Brotherhood - IRB) i cui iscritti erano meglio conosciuti come feniani (Fenians), un'organizzazione segreta che aveva come obiettivo la rivolta armata contro i britannici. Nonostante una capillare presenza nelle parti rurali dell'Irlanda il tentativo di rivolta feniana del 1867 fu fallimentare e facilmente represso dalle forze di polizia britanniche. Intanto, nel 1868 fu nominato per la prima volta primo ministro William Ewart Gladstone, un liberale che fece sua la causa irlandese. Favorevole all'allargamento del suffragio ed alla piena autonomia dell'Irlanda, durante i suoi mandati attuò radicali riforme scolastiche ed amministrative. In questo periodo l'agitazione dell'Irlanda riprese più intensa; nel 1870 sorse il movimento per lo Home Rule, che, trasformatosi poi in Home Rule Confederation (1873), si sviluppò per impulso dei deputati nazionalisti irlandesi, guidati dal radicale Charles Stewart Parnell, originario di una famiglia che aveva sempre sostenuto l'indipendenza irlandese. Gli home-rulers ricorsero all'ostruzionismo parlamentare per rivendicare lo scioglimento dell'Unione con la Gran Bretagna e l'istituzione di un parlamento nazionale a Dublino, con un governo e un'amministrazione autonomi. Nel 1874 gli home-rulers avevano conquistato più della metà dei seggi irlandesi al parlamento britannico, senza tuttavia riuscire ad ottenere nuove concessioni da Londra. Accanto al Partito dell'Autonomia si costituì, per iniziativa di Parnell e di un altro Feniano, Michael Davitt, anche la Land Ligue (Lega Agraria) che rivendicava agli irlandesi il diritto sulle terre. La situazione in Irlanda era di nuovo critica, molto simile a quella che aveva caratterizzato il periodo della Grande Carestia. I raccolti furono ancora una volta scarsi e molti fittavoli, non potendo pagare, vennero sfrattati dalle loro terre. I membri della Lega Agraria allora organizzarono una serie di ribellioni in diverse zone del Paese, con l'obiettivo di ridurre gli affitti per gli agricoltori e di migliorare le loro condizioni di lavoro. Le agitazioni si moltiplicarono con violenze da entrambe le parti. Nel 1880 salì al potere William Gladstone che di fronte al malcontento dei fittavoli rurali irlandesi, che non accennava a placarsi, nel 1881 emanò delle leggi, che miglioravano le loro condizioni di vita, riducevano gli affitti e consentivano loro di possedere delle terre. Tuttavia la resistenza non cessò, in quanto gli irlandesi

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volevano ottenere dalla madrepatria quello che era stato concesso alle altre colonie d'oltremare, ossia l'autonomia. Nel 1885, il partito degli home-rulers ottenne tutti i seggi alle elezioni irlandesi (esclusi quelli l'Ulster, ancora baluardo dei lealisti), acquisendo un ruolo decisivo. Parnell divenne allora l'obiettivo dei conservatori britannici che pur di eliminarlo dalla scena politica lo screditarono di fronte all'opinione pubblica, rivelando senza scrupolo una relazione clandestina che intratteneva con la moglie di un suo compagno di partito. Nel 1886 Gladstone, eletto per la terza volta primo ministro, lottò in parlamento accanto ai parnellisti e propose l'approvazione dell'Home Rule e di un parlamento particolare per l'Irlanda. Le due proposte furono respinte dalle Camere e causarono la scissione del partito liberale in due gruppi e la formazione di due coalizioni, l'una dei conservatori liberali unionisti, l'altra dei liberali gladstoniani e irlandesi. Gladstone dovette dimettersi e cedere il governo a Lord Salisbury che combatté le aspirazioni degli autonomisti irlandesi. Il ritorno al potere del partito liberale non condusse all'approvazione della proposta di legge sull'autonomia irlandese, per l'opposizione sistematica della Camera Alta. Fu allora che i lealisti protestanti dell'Ulster crearono il partito unionista per opporsi all'Home Rule. Il terzo Home Rule venne presentato nel 1912 e divenuto legge nel 1914, rimase inapplicato a causa dello scoppio della prima guerra mondiale e della violenta opposizione dei protestanti dell'Ulster. Il lunedì di Pasqua del 1916 a Dublino scoppiò un'insurrezione, la prima organizzata in maniera articolata. Gli insorti riuscirono ad occupare il General Post Office su O'Connell Street ed altri edifici pubblici. La rivolta, che non suscitò l'entusiasmo popolare, neppure negli ambienti repubblicani e nazionalisti, venne repressa dopo pochi giorni. Fu la brutale esecuzione di alcuni insorti, tra cui uno dei principali esponenti della rivolta, James Connolly, avvenuta in carcere nelle settimane successive, a mutare radicalmente l'atteggiamento della pubblica opinione sulla Easter Rising, chiamata successivamente anche Pasqua di Sangue. Da quel momento la situazione si fece sempre più infiammata e lo spirito nazionalista irlandese crebbe sempre più fino all'indipendenza di un Irish Free State, che poi avrebbe dato vita all'attuale Repubblica d'Irlanda.

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Alla fine della prima guerra mondiale, nelle elezioni del 1918, il Sinn Fein ottenne la maggioranza assoluta ma i suoi rappresentanti si rifiutarono di sedere al parlamento britannico e dichiararono costituito il Parlamento dell'Irlanda Indipendente. Il trattato, ratificato a Londra il 6 dicembre 1921, riconosceva all'Irlanda la condizione di "Dominion" con l'obbligo del giuramento di fedeltà al Re d'Inghilterra. Il trattato fu avversato da De Valera, figura di spicco della lotta irlandese per l'indipendenza, e dai repubblicani del Sinn Fein che non intendevano sottomettersi al sovrano inglese. Questo fatto causò la spaccatura del partito e l'uscita dei Repubblicani dal governo ed il trattato venne ratificato con una minoranza di voti. Anche i membri dell'IRA si divisero, cominciando una lotta per la riconquista della regione. Nel 1925 il governo di Dublino dovette abbandonare la speranza di una rapida riunificazione dell'Irlanda. Esso aveva contato sul fatto che due delle sei contee del Nord, a maggioranza cattolica, avrebbero scelto di unirsi al Libero Stato rendendo così precaria la sopravvivenza separata delle altre quattro contee. Ma questo non avvenne. Nel 1937 fu promulgata una nuova Costituzione, la Bunreacht na hÉireann. Sostituì l'Irish Free State con un nuovo stato, l'Éire o, in lingua inglese, Ireland (Irlanda). Sebbene questa struttura costituzionale dello stato prevedesse un Presidente invece che un Re, non era una repubblica effettiva. Il Re, infatti, rimaneva il simbolo politico che rappresentava la nazione. Finalmente, il Republic of Ireland Act, approvato nel 1948 dall'Oireachtas (il Parlamento irlandese) ed entrato in vigore il 18 aprile 1949, dichiarò l'Éire una repubblica, dando al Presidente della Repubblica anche quel ruolo di rappresentanza effettivo. Durante la seconda Guerra Mondiale l'Irlanda, dissestata dalla recente guerra d'indipendenza sfociata poi in guerra civile, scelse un'attenta e cauta neutralità, anche perché intimorita dalle ritorsioni britanniche in caso di alleanza con gli Imperi centrali di Germania e Austria-Ungheria. Dublino venne però bombardata, per errore, dalla Luftwaffe, il 31 maggio 1941, da aerei tedeschi che erano diretti a bombardare

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il porto di Belfast e ciò spinse molti irlandesi ad arruolarsi come volontari nell'esercito inglese.

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II.2. Gli Stati Uniti e il contesto di immigrazione1

Alla Guerra Civile americana del 1861-1865 seguì una grave recessione e una grave crisi economica. Nonostante questo la classe dirigente americana persegue la via del guadagno e della speculazione, mentre l' industria tecnica ed il capitale privato sono in espansione. Dal 1860 al 1914 la popolazione cresce da 31,9 a 91,9 milioni di abitanti, tra cui 21 milioni di immigrati e nel decennio post-bellico le 10 più grandi città americane aumentarono del 70% i loro abitanti. L'ondata di immigrazione durò fino al 1929. Massicce protezioni tariffarie, costruzione di infrastrutture, nuovi regolamenti bancari, incoraggiarono la crescita economica ed i monopoli. Nel 1914 gli Stati Uniti sono in testa tra i paesi produttori di ferro, carbone, petrolio, rame, argento. Il vapore è sostituito dall'elettricità che accelera la produzione nazionale. Sorgono i Trust ed i giganteschi complessi industriali dei cosiddetti re del Big Business. Le organizzazioni dei lavoratori conducono dure lotte salariali, arrivando ad oltre 1000 scioperi l'anno. Inizia a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento la politica imperialistica americana. Nel 1867 gli Stati Uniti acquistarono l'Alaska dalla Russia completando l'espansione continentale. Tra il 1893 e il 1917 vengono annessi agli Stati Uniti le Hawaii, il Porto Rico, Guam e le Filippine, che ottennero l'indipendenza solo mezzo secolo più tardi. Numerosi interventi militari furono effettuati nell'America centrale e nelle Antille: Panama, Cuba, Nicaragua, Haiti. Nel 1917 sono acquistate dalla Danimarca le isole Vergini di St. Croix, St. Thomas e St. John. Il periodo di attivismo sociale e riforma politica che fiorì dal 1890 al 1920 fu chiamato la Progressive Era.2 Tra gli obiettivi principali del movimento progressista 1 Per la stesura del capito si è fatto riferimento a: D.R. Gabaccia, Emigranti, Le diaspore degli italiani dal Medioevo a oggi, Torino, Einaudi, 2000; H. James, The American Scene, Bloomington, Indiana University Press, 1907 [1968]; M. Jones, Storia degli Stati Uniti, Milano, Bompiani, 1992; A.M. Martellone, La ''questione'' dell'immigrazione negli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 1980; C. Mindel, R.W. Habenstain (eds.), Ethnic Families in America: Patterns and Variations, New York, Elsevier Scientific Publishing Company, 1976; J.L. Thomas, La nascita di una potenza mondiale, gli stati uniti dal 1877 al 1920, Bologna, Il Mulino, 1988; S.M. Tomasi, M.H. Engel, The Italian Experience in the United States, New York, Center for migration studies, 1970 2 J.D. Buenker, J.C. Burnham, and R.M. Crunden, Progressivism, (1986), pp 3-21

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vi erano la purificazione del governo tramite l’eliminazione della corruzione e l’approvazione del suffragio femminile.1 Un

altro

obbiettivo

raggiunto

dal

movimento

progressista

fu

il

raggiungimento dell’efficienza in ogni settore tramite l’individuazione dei vecchi metodi che avevano bisogno di modernizzazione. Fu un periodo di disordini e di riforme. I monopoli continuavano a crescere nonostante la Sherman Antitrust Act del 1890. I problemi sociali si facevano sentire sempre di più, le condizioni di lavoro erano perlopiù insicure e i sindacati promossero numerose battaglie. Si diffuse l’usanza di assumere bambini per lavorare nelle fabbriche e nelle miniere. Gli sforzi per far passare una legge federale che regolamentasse il lavoro minorile si rivelarono fallimentari, solo verso la metà del primo decennio del Novecento ogni stato aveva approvato una legge che regolasse il minimo di età per lavorare. Allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914, gli Stati Uniti rimasero neutrali. La maggior parte degli americani simpatizzava per i britannici e i francesi, anche se molti erano contrari all'intervento.2 Nel 1917 gli Stati Uniti si unirono agli alleati, contro gli Imperi Centrali. Durante la Grande Guerra l’America diventò il più grande paese industrializzato. La produzione di massa di automobili creò prosperità nazionale e portò dei profondi cambiamenti sociali. La cultura popolare divenne un prodotto redditizio: in tutto il mondo le persone ballavano la musica pop americana, ascoltavano la musica jazz, indossavano la moda americana, acquistando tutti i prodotti americani. Dopo la guerra il Senato non ratificò il trattato di Versailles, che istituiva la Lega delle Nazioni. Il paese perseguì una politica unilaterale di quasi isolazionismo.3 Negli anni venti un emendamento costituzionale concesse il suffragio alle donne. La 1 On purification, see D.W. Southern, The Malignant Heritage: Yankee Progressives and the Negro Question, 1901-1914, (1968); Southern, The Progressive Era And Race: Reaction And Reform 1900-1917 (2005); S. Mintz, "Beaner Restriction" in Digital History; N.H. Clark, Deliver Us from Evil: An Interpretation of American Prohibition (1976) p 170; A. Kraditor, The Ideas of the Woman Suffrage Movement: 1890-1920 (1967), pp. 134-136. 2 E. Foner; J.A. Garraty, The Reader's Companion to American History, New York, Houghton Mifflin, 1991, p. 576. 3 J. McDuffie; G.W. Piggrem; S.E. Woodworth, U.S. History Super Review, Piscataway, NJ, Research & Education Association, 2005, p. 418

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prosperità dei ruggenti anni venti si concluse con il crollo di Wall Street del 1929 che diede inizio alla Grande depressione. Con la Grande Depressione il sogno americano era diventato un incubo. Quella che una volta era la terra delle opportunità ora era la terra della disperazione. Il popolo americano mise in discussione tutte le massime su cui aveva basato la loro vita: la democrazia, il capitalismo, l'individualismo. Tra il 1929 e il 1932 il reddito della famiglia media americana si ridusse del 40%. Invece del progresso, la sopravvivenza era diventata la parola chiave. Istituzioni, atteggiamenti, stili di vita cambiarono. Gli Stati Uniti, effettivamente neutrali durante la seconda Guerra Mondiale dopo l'invasione nazista della Polonia nel settembre 1939, iniziarono la fornitura di materiali agli Alleati nel marzo 1941 tramite il programma Lend-Lease. Il 7 dicembre 1941 gli Stati Uniti entrarono in guerra con gli Alleati contro le potenze dell'Asse in seguito ad un attacco a sorpresa su Pearl Harbor da parte del Giappone. Furono loro a segnare la fine della guerra con lo sgancio della bomba atomica sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki nell'agosto del 1945 che portò alla resa del Giappone.1 La simbolica data d'inizio dell'emigrazione italiana nelle Americhe può essere considerata il 4 ottobre 1852, quando venne fondata a Genova la Compagnia Transatlantica per la navigazione a vapore con le Americhe. Intorno al 1880 l’emigrazione italiana verso l’America del nord, che fino a quel momento aveva avuto ritmi relativamente modesti anche se in crescita costante, subisce una sensibile impennata. Un fiume di persone, in partenza soprattutto dalle regioni meridionali dell’Italia, incomincia a riversarsi negli Stati Uniti. È un progressivo svuotarsi di paesi e cittadine specialmente nei distretti rurali dell’Appennino, dell’Abruzzo, della Calabria, della Sicilia. Le cifre sono impressionanti:

in

poco

più

di

quarant’anni,

fino

alle

leggi

restrittive

dell’immigrazione emanate negli Stati Uniti al principio degli anni venti, circa cinque milioni di italiani saranno partiti.

1

Pacific War Research Society, Japan's Longest Day, New York, Oxford University Press,

2006.

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Il decennio successivo al 1900 gli italiani furono in testa alla lista degli immigranti negli Stati Uniti. Dopo la prima fase della Grande Emigrazione, quella dei lavoratori che prevedevano di lavorare nel Nuovo Mondo per un periodo relativamente breve con la prospettiva di tornare in Italia e campare da benestanti il resto della vita, e magari andavano incontro a una cocente disillusione, il radicamento degli emigranti si fece più massiccio. Si affacciò la necessità di prendere la cittadinanza, di convincersi di essere americani, di risolvere le contraddizioni culturali e pratiche che quella sospensione tra due realtà comportava. Dei nuovi arrivati, quattro su cinque si stabilivano nelle città industriali del Nord-Est o del Midwest, dove era possibile trovare lavoro. In città come New York, Chicago, Cleveland e Boston si arrivò ad avere 75% della popolazione composto di immigrati o dei loro figli. Gli immigrati una volta arrivati iniziavano dal fondo della scala occupazionale, svolgendo i “lavori sporchi” del paese, nell’edilizia, nelle miniere, nelle fonderie, nelle fabbriche, nei servizi domestici. Generalmente si insediavano in comunità etniche presso il loro luogo di lavoro, trovando sicurezza in una segregazione forzata. Questa concentrazione nel centro delle città aumentava le paure degli americani di vecchio ceppo, e al tempo stesso rendeva gli stranieri invisibili agli abitanti delle periferie residenziali. I ghetti, che a poco a poco crebbero praticamente in tutta l’America urbana, e in particolare nelle grandi città della costa atlantica, Chicago e San Francisco, erano luoghi in qualche modo extraterritoriali, nei veniva ricreato il mondo di appartenenza. Un immigrato vi avrebbe potuto vivere una vita intera, così infatti fece la gran massa degli italoamericani di prima generazione, continuando a parlare il proprio dialetto, leggendo giornali italiani, assistendo a spettacoli italiani, consumando prodotti italiani, e senza aver alcun contatto con la realtà americana, nemmeno sul lavoro, in quanto reclutato da bosses italiani e aggregato a squadre di lavoratori italiani. Benché le comunità degli immigrati sembrassero dall’esterno molto compatte ed uniformi, di fatto erano raggruppamenti etnici e religiosi divisi: ogni quartiere aveva proprie chiese e propri santi patroni, giorni di festa e associazioni civiche. In questi quartieri si crearono sottoculture molto vitali attraverso le chiese, i giornali in 13


lingua straniera, le varie organizzazioni etniche, i centri sociali e le società per il mutuo soccorso. Gli Stati Uniti si videro costretti a intraprendere iniziative di legge volte a contenere l’immigrazione, a disciplinarla in maniera selettiva, escludendo il più possibile gli elementi indesiderati (tra essi gli italiani). Il pregiudizio anti-italiano, fondato su una radicale diversità dei nuovi, temibili alien rispetto al dominante modello anglosassone, si estese ben presto all’idea che dietro a ogni italiano si nascondesse un potenziale criminale, l’abominevole Wop. Wop, o anche Maccaroni, o Guinea, o Dago, e altri ancora: la gamma degli epiteti denigratori riservati agli italiani era molto ampia. Si diffuse, anche a fronte della rissosità dei nuovi venuti italiani e della loro passionalità, che poteva spingerli al delitto d’onore (e questo malgrado che i ratei della criminalità italiana in America fossero più bassi e meno allarmanti di quelli relativi ad altri gruppi, in particolare l’irlandese), la convinzione che gli italiani avessero portato in America la cupa minaccia della mafia e della camorra. L’ossessione della “Mano Nera” (Black Hand) guadagnò grandi spazi sui giornali americani, e ben presto anche al cinema, con un curioso effetto di ritorno: in un periodo in cui la criminalità italiana non si era ancora organizzata, ma viveva di imprese episodiche e scollegate tra loro, non parve vero a molti delinquenti di firmare i propri crimini (e molte lettere minatorie di estorsori) proprio con il terrificante simbolo della “Mano Nera”. Gravi manifestazioni di razzismo anti-italiano si verificarono in molte parti del paese, culminando in frequenti, terribili, esplosioni di violenza. A New York fu istituita una squadra speciale per i crimini commessi dagli italiani, squadra composta da italiani o italo-americani. Il salto di qualità della malavita italiana incomincia proprio dall’assassinio del capo di questa squadra: è il 1909 e l’uccisione del detective Petrosino a Palermo mette in luce per la prima volta l’esistenza di una connessione criminale transatlantica. Condizioni di estremo disagio, aggravate dal carico dei pregiudizi etnici, furono corresponsabili della nascita del sottomondo malavitoso italoamericano. Per

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gli italiani, in buona sostanza, sarebbe emersa la necessità di “difendersi”, di cercare all’interno della propria comunità la forza per opporsi ai soprusi di cui erano vittime. Gli USA sono contraddistinti da un tanto forte quanto variegato spirito religioso che si spiega facendo riferimento alla storia e alla costituzione materiale del Paese. I valori religiosi sono una parte assai importante della vita degli statunitensi. Il Cristianesimo è presente in tutte le sue grandi derivazioni: in maggioranza protestanti (51,3%), seguiti dai cattolici (23,9%), mormoni (1,4%), e cristiani ortodossi (0,3%). Le confessioni protestanti di maggiori tradizioni sono quelle della tradizione calvinista-riformata (presbiteriana, congregazionalista, nonché i battisti) e gli episcopali. Vi sono anche presenze ebraiche (1,4%), islamiche (0,6%), Testimoni di Geova (0,7%), buddisti (0,5%), induisti (0,4%), sikh, caodaisti, shintoisti, e bahai, grazie all'enorme varietà di etnie presenti ogni religione è rappresentata. 1

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American Religious Identification Survey. The Graduate Center. URL consultato il 3-3-2010. http://www.gc.cuny.edu/Page-Not-Found?aspxerrorpath=/faculty/research_briefs/aris/key_findings.htm

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III. James Joyce: vita e produzione narrativa III.1. Biografia1 James Augustine Aloysius Joyce nacque il 2 febbraio 1882, primo di dieci figli (sei femmine – Poppie, Eileen, May, Eva, Florrie, Baby – e altri tre maschi – Stanislaus, Charles e George), a Rathgar, un elegante quartiere borghese nella zona sud di Dublino, in una famiglia profondamente cattolica, primogenito di Mary Jane Murray e John Stanislaus Joyce. Entrambi i genitori, sebbene in maniera diametralmente opposta, lo amarono con straordinaria intensità e ne segnarono in modo permanente la personalità di uomo e di scrittore. Il padre proveniva da una famiglia di possidenti di Cork, la seconda città d’Irlanda, e benché si considerasse un signore dimostrò di essere ben poco abile nel salvaguardare il considerevole patrimonio ricevuto in eredità. Non essendo riuscito a costruirsi un’esistenza degna di nota (e a trovare un modo utile per guadagnarsi da vivere) nella città natale, dove per il suo ventunesimo compleanno aveva ereditato delle proprietà che gli fruttavano una rendita annua di trecento sterline, nel 1874, all’età di venticinque anni, si trasferì con la madre a Dublino e lì intraprese quella che può essere definita una carriera dall’incerto destino. Nel 1887, lasciato il lavoro di doganiere, John Joyce viene nominato esattore delle tasse dalla Dublin Corporation. Incarico non particolarmente gravoso che svolse per circa dieci anni percependo uno stipendio annuo di cinquecento sterline. La famiglia si trasferisce a Bray, una cittadina venti chilometri a sud di Dublino. Qui James venne morso da un cane, episodio all'origine della sua fobia.

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Per la stesura del seguente paragrafo si è fatto riferimento a: N. D’Agostino, Gente di Dublino / James Joyce ; traduzioni di Marco Papi e Emilio Tadini, Milano, Garzanti, 1933 [2000]; J. Joyce, Dubliners, London, Grant Richards LTD., 1914 [2000, London, Penguin book]; G. Jalil, Il triestino James Joyce Francescoli LINT Editoriale, Trieste, 1996; N.R. Fitch, La libraia di Joyce. Sylvia Beach e la generazione perduta, Bologna, Il saggiatore, 1983; S. Joyce, My Brother’s Keeper, Cambridge, Da Capo Press, 1958

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Aveva anche paura dei temporali perché una zia molto religiosa gli aveva detto che erano un segno dell'ira di Dio. Nel 1888 John Stanislaus assunse un gravoso impegno economico quando decise di mandare James in convitto all’esclusivo Clongowes Wood College nella contea di Kildare, perché riteneva che i gesuiti fossero “son gente che può dare una posizione”1. Clongowes era uno dei migliori istituti scolastici d’Irlanda, fondato dalla Compagnia di Gesù essenzialmente per dare ai giovani cattolici del ceto medio-alto un buon livello di istruzione. All’età di appena sei anni e mezzo, probabilmente il bambino più piccolo mai entrato in quell’istituto, dopo un viaggio di circa trenta miglia in treno e in calesse, James oltrepassò i cancelli del Clongowes Wood College dove prese posto nella classe degli “Elementi” insieme ad altri quaranta bambini, tutti di almeno due anni più grandi di lui; a causa della sua tenera età rimase in collegio per la maggior parte dei successivi tre anni. Non dormiva nel dormitorio con gli altri compagni e per due anni gli fu data una stanza nell’infermeria e di lui si presero cura Nanny Galvin e Fra’ Hanley. Si trattò del suo primo “esilio” da casa e dalla famiglia, e sebbene ciò l’abbia indubbiamente aiutato a formarsi quello straordinario senso di indipendenza che lo assisterà a Trieste e a Zurigo e diventerà uno dei tratti salienti della sua personalità, deve essere stata anche un’esperienza terribilmente dura e traumatica perché soffriva di solitudine ed era vittima di prepotenze da parte dei compagni. Abituato a pensare al padre come a un “gentleman”, Joyce cominciava a preoccuparsi della sua incerta posizione nel mondo e a capire che aveva bisogno di qualcosa di diverso per non essere inferiore ai compagni, molti dei quali erano figli di magistrati o di professionisti. Fu al Clongowes che la dimensione religiosa iniziò a prender forma nella vita di Joyce. Un’esistenza regolare scandita da silenzio, preghiera, sacramenti, messe, ritiri spirituali, devozioni e insegnamento religioso, lì e più tardi al Belvedere

1

J. Joyce, “Dedalus: ritratto dell’artista da giovane”, in G. Melchiori (a cura di), James Joyce, Racconti e Romanzi, traduzione di Cesare Pavese, Milano, Mondadori, 2001, p. 307

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College, segnò il giovane Joyce che rimase affascinato dal cerimoniale ecclesiastico, dalla musica sacra e dal canto gregoriano e presto divenne così profondamente devoto da venir scelto come chierichetto, compito che svolse con entusiasmo. Non furono soltanto gli aspetti coreografici della liturgia cattolica a incantarlo (una passione che gli sarebbe rimasta per sempre) a quella giovane età, come reazione agli stimoli dei suoi educatori gesuiti, era Dio stesso a esercitare su di lui un certo fascino. Egli descrive anni dopo come questo processo si svolse nel giovanissimo Stephen Dedalus, protagonista di A Portrait of the Artist as a Young Man (anno 1914): Era una faccenda grossa pensare a tutte le cose e a tutti i luoghi. Soltanto Dio poteva farlo. Cercò di pensare che gran pensiero doveva esser questo, ma non riuscì a pensare che a Dio. Dio era il nome di Dio, appunto come il suo era Stephen. Dieu era Dio in francese e anche questo era il nome di Dio; e quando qualcuno pregava Dio e diceva Dieu, allora Dio capiva subito che un francese parlava. Ma quantunque ci fossero nomi differenti per chiamar Dio in tutte le diverse lingue del mondo e Dio comprendesse ciò che tutti quelli che pregavano dicevano nelle loro lingue diverse, pure Dio rimaneva sempre lo stesso Dio e il nome vero di Dio era Dio. Lo stancava molto pensare così.1

Il brano ci rivela un ragazzino, un artista in nuce, interessato ai nomi e ai diversi modi di chiamare le cose, all’atto creativo divino e alle possibilità del linguaggio. Nel 1891 James Joyce scrive un pamphlet accusatorio nei confronti di Timothy Healy, reo di aver abbandonato nel mezzo di uno scandalo il leader del partito autonomista, Charles Stewart Parnell, che si suicidò nel 1891. Con la morte di Parnell l'autonomia irlandese era più lontana e John Joyce, autonomista convinto, era scosso da questa vicenda tanto da far stampare alcune copie dell'opera prima di Joyce e spedirne una addirittura alla Biblioteca Vaticana. Tutte le copie sono andate perdute. L’ombra di Parnell è presente in tutti gli scritti joyciani come una forza costante e spesso vitale. 1

J. Joyce, “Dedalus : ritratto dell’artista da giovane”, in Joyce, J., Racconti e Romanzi, a cura di G. Melchiori, Milano, Mondadori, 2001, p. 245

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Mentre James era preso dagli impegni scolastici, la vita a casa iniziava a farsi più difficile. Con quell’infinita sequela di nascite e ipoteche, la famiglia si ingrandiva e diventava più povera, e per cercare di far quadrare i conti il padre continuava a svendere le proprietà di famiglia a Cork. Nell’estate del 1892 John Stanislaus Joyce venne licenziato dall’ufficio dell’esattoria generale perché la notizia dei suoi debiti era diventata di dominio pubblico e poco dopo, all’età di quarantadue anni, fu messo in pensione con una cifra pari solamente a un terzo dello stipendio annuo. Del licenziamento John Stanislaus incolpò gli sconvolgimenti politici seguiti alla caduta del suo eroe, il grande leader irlandese Charles Stewart Parnell, ma in realtà le cause furono la sua pigrizia, la sconsideratezza, l’avversione al lavoro e la passione per il bere. Perso il lavoro non riuscì più a pagare la retta del prestigioso Clongowes Wood College, e il soggiorno di James si concluse in modo brusco. Dovettero anche traslocare un’altra volta in una casa più modesta a Blackrock, un sobborgo meridionale a Dublino. Stettero li fino al 1893 quando, non essendo più in grado di pagare l’affitto, la famiglia Joyce dovette traslocare di nuovo, questa volta in camere ammobiliate in Hardwicke Street dove rimase per alcuni mesi prima di trasferirsi in una grande e triste casa del Settecento non ammobiliata nella zona nord del fatiscente centro storico. Questo sarebbe stato il loro primo significativo declassamento nel mondo, l’inizio della dura e inesorabile caduta dalla rispettabilità borghese. Abituati a una vita sicura e confortevole, i Joyce si trovarono in grandi difficoltà che li misero di fronte alla vergogna prima e alla vera e propria miseria poi: la loro diventerà, come disse senza mezzi termini Stanislaus, la “casa dalla tavola nuda”.1 Benché la nuova realtà fosse molto dura per un ragazzino di dieci anni sensibile come James, fu decisiva per la sua formazione di scrittore. Come scrive Melchiori “con il trasferimento in centro egli ora si trovava nel cuore della complicata realtà urbana che imparerà ad osservare, farà sua e che non smetterà mai

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G.H. Healy (a cura di), The Complete Dublin Diary of Stanislaus Joyce, Dublino, Anna Livia, 1994, p. 30

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di dominare la sua coscienza creativa. Quel trasloco avvenne proprio nel momento in cui la propensione di Joyce per la scrittura iniziava a delinearsi.”1 James studiò per qualche tempo a casa, mentre i fratelli e le sorelle frequentavano la scuola presso un convento locale, poi per un breve periodo alla scuola dei Fratelli Cristiani fino a quando, grazie agli ottimi voti venne accolto, anche con la speranza di una vocazione, insieme al fratello Stanislaus, gratuitamente al Belvedere College nel 1893, l’università fondata da John Newman e retta dai Gesuiti. Qui egli lesse molto e iniziò a scrivere; a sedici anni aveva già sviluppato il carattere anticonformista e ribelle che lo contraddistinguerà anche in futuro e rifiutò il Cristianesimo, anche se la filosofia di San Tommaso d'Aquino avrà una forte influenza sulla sua vita insieme a una fede crescente nella potenza dell'arte. Al Belvedere College ottenne ottimi risultati e vinse più di una competizione accademica. L’essere catapultato da un raffinato quartiere nel sud di Dublino a una squallida casa in una strada cupa e grigia nella misera zona centro-nord della città, gli permise di attingere a ciò che vedeva nei suoi nuovi vicini di ceto medio-basso e di assorbire l’atmosfera e gli odori che percepiva mentre vagabondava per quelle anguste strade. Qui trovava parole di cui far tesoro: nelle botteghe, negli avvisi, sulla bocca della gente, parole che perdevano il loro significato originario e diventavano per lui vocaboli meravigliosi. Ovunque fermasse lo sguardo, Joyce trovava materiale per i sui scritti.2 Joyce apprese dai Gesuiti come raccogliere, organizzare e presentare materiale per un determinato argomento, qualità non trascurabili per un romanziere in erba. Il rispetto per quel tipo di istruzione gli rimase anche dopo che divenne ateo. Dei Gesuiti disse: “mi hanno insegnato come comandare e giudicare”3 e più tardi, quando rimase sorpreso della propria abilità nel perseverare a scrivere in circostanze avverse, pensò che ciò fosse dovuto “all’influenza di ad maiorem dei gloriam” [il

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G. Melchiori (a cura di), “Introduzione” di “Le gesta di Stephen”, in James Joyce, Racconti e Romanzi, traduzione di Cesare Pavese, Milano, Mondadori, 1974, p. 571. 2 S. Joyce, Guardiano di mio fratello, traduzione di Giovanni Giudici, Milano, Mondadori, 1967, p. 54. 3 F. Budgen, “Further Recollections of James Joyce”, in James Joyce and the Making of Ulysses and Other Wrintings, London, Oxford University Press, 1972, p. 352.

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motto dei Gesuiti]. Sebbene la vocazione di Joyce fosse artistica e non religiosa, egli si avvalse della terminologia ecclesiastica per illustrare la sua visione estetica e considerò l’educazione cattolica di fondamentale importanza.1 Joyce divenne una figura di spicco al Belvedere College e prese parte alle attività che vi si svolgevano, scolastiche e non. Vinse numerosi e remunerativi premi scolastici: nel 1894 e nel 1895 vinse venti sterline, trenta nel 1897, somme considerevoli visto che la pensione annua del padre ammontava a poco più di centotrentadue sterline. Mentre in un'altra famiglia questi soldi sarebbero stati utilizzati in modo assennato, John Joyce permise al figlio di spenderli a suo piacimento, pensando che ciò gli avrebbe insegnato il valore del denaro. James: portò i genitori in costosi ristoranti e a teatro, comprò vestiti e stivali per i fratelli e le sorelle. Quando i soldi finirono egli e i suoi ritornarono al consueto modo di vita. Per quanto fosse un uomo difficile, John Stanislaus riuscì sempre ad andare d’accordo con il figlio, l’unico a cui fosse particolarmente affezionato. Nonostante le frequenti incomprensioni, il padre fu per Joyce fu una presenza fondamentale nei sui scritti. Il lungo catalogo che Stephen Dedalus fornisce delle occupazioni del proprio genitore in A Portrait of the artista s a young man, deve molto a John Stanislaus, il quale prima o poi rivestì tutti i ruoli elencati da Stephen: “studente in medicina, rematore, tenore, filodrammatico, politicante di quelli che gridano, signorotto di campagna, benestante, bevitore, grand’amicone, barzellettiere, segretario di qualcuno, qualcosa in una distilleria, esattore, bancarottiere e attualmente elogiatore del proprio passato”2. Nel 1895 Joyce fu eletto membro del Sodalizio della Beata Vergine al Belvedere e due anni più tardi divenne Prefetto del Sodalizio e praticamente guida degli studenti. Attraverso la devozione alla Beata Vergine, questo sodalizio cercava di infondere nobili ideali e una salda morale e fede cristiana nei ragazzi. Ai gesuiti Joyce appariva il soggetto ideale per il Sodalizio, ma non sapevano che il loro studente modello, sin dai quattordici anni, conduceva quasi una doppia esistenza, avendo ceduto alle prostitute che lavoravano a due passi dalla scuola.

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R. Ellmann, James Joyce, Milano, Mondadori, 1968, p. 530 J. Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man, Milano, Mondadori, 1916, p. 327.

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Joyce riuscì a mantenere un tenue legame con la società borghese attraverso alcuni parenti che lo invitavano regolarmente a casa loro. Quando fu un po’ più grande, grazie agli Sheehy, una famiglia di spicco nel campo legale, poté partecipare a balli, recite, sciarade, serate canore e ad animate discussioni durante le serate mondane della domenica in quel mondo borghese che sarebbe potuto essere il suo. Questo gli servì più tardi, a Trieste, dove benché fosse solamente un insegnante senza un soldo, seppe come fare bella figura e riusciva a dare l’impressione di provenire da una famiglia benestante. Nel 1898 i Joyce furono costretti a traslocare di nuovo, in una casa sempre più piccola, dove rimasero sino all’anno successivo, quando finirono per condividere con un’altra famiglia una casa in affitto, e da qui si trasferirono nel 1900 in un’ala di una casa a Fairview. John Joyce, che non aveva più i mezzi per pagare regolarmente l’affitto, aveva dovuto inventare diversi stratagemmi per prevenire lo sfratto. Uno di questi consisteva nell’offrirsi di lasciare la casa volontariamente se il locatario avesse rilasciato una ricevuta in cui dichiarava che l’affitto era stato pagato per intero, cosa che non era mai vera. Armato di questa ricevuta era poi in grado di persuadere un nuovo padrone di casa ad accogliere la sua numerosa famiglia miseramente vestita.1 Nonostante la precaria situazione familiare e le discussioni dovute agli eccessi alcolici e al comportamento sempre più violento del padre, Joyce si iscrisse allo University College di Dublino nel 1898 dove studiò lingue moderne, in particolare inglese, francese e italiano. Manifestò ben presto il suo carattere anticonformista rifiutando di sottoscrivere una protesta contro Countess Kathleen, un dramma di William Butler Yeats, che alcuni ritenevano diffamatorio nei confronti dell'Irlanda. Nonostante frequentasse istituzioni universitarie dichiaratamente cattoliche, come il gruppo filosofico Accademia di san Tommaso d’Aquino e il Sodalizio Universitario, Joyce era piuttosto insofferente verso le regole cattoliche e nazionalistiche della sua università.

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J. McCourt, James Joyce : gli anni di Bloom, traduzione di Valentina Olivastri, Milano, Arnoldo Mondadori, 2004, p. 34

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All’università Joyce si dedicò a numerose e proficue letture extrascolastiche, passando molto tempo alla Biblioteca Nazionale a divorare i classici della letteratura inglese ed europea. Sebbene si tenesse un po’ a distanza dai suoi compagni di università, Joyce aveva un gruppo di amici ambiziosi, di talento e pieni di sé: J.F. Byrne, ex compagno del Belvedere che condivideva il suo disinteresse per lo studio; Thomas Kettle, dichiaratamente europeo come Joyce, fu in seguito eletto parlamentare e venne ucciso combattendo per l’esercito britannico nel 1916; Constantine Curran, direttore della rivista studentesca St Stephen’s, nonostante la religiosità, fu un rivale intellettuale di Joyce; Vincent Cosgrave, amico dalla conversazione grossolana benché arguta, sarà il rivale di Joyce nell’amore per Nora Barnacle; e Francis Skeffington, secondo Joyce la persona più intelligente dell’università dopo di lui, vegetariano, pacifista, agnostico e femminista. In risposta ad alcune provocazioni contro Ibsen (un autore al tempo considerato immorale ma che Joyce ammirava molto perché affrontava temi fino ad allora inesplorati), in una delle riunioni del Literaly and Historical Society, un circolo storico-letterario di cui Joyce faceva parte, il 20 gennaio 1900 Joyce tenne un discorso pubblico sul tema Theater and Life proponendo proprio Ibsen come modello di riferimento, un autore che per Joyce fu una vera scoperta. Dello stesso autore pubblicherà poco dopo sulla rivista Fortinghly Review una recensione di When We Dead Woke per la quale ricevette una lettera di ringraziamento dal drammaturgo norvegese. Col compenso per la recensione si recò brevemente a Londra con suo padre e ritornato in Irlanda si trasferì a Mullingar, dove cominciò la traduzione di alcune opere del drammaturgo tedesco Gerhart Hauptmann con la speranza che l'Irish Theatre accettasse di rappresentarle, ma la proposta venne declinata perché Hauptmann non era un autore irlandese. Da quest'esperienza Joyce trae spunto per scrivere il pamphlet The Day of the Common People, denuncia del provincialismo della cultura irlandese. Il 31 ottobre 1902 Joyce conseguì la laurea. Durante l'università scrisse anche altri articoli e almeno due commedie i cui testi sono andati perduti. Sono anche gli anni delle sue prime sperimentazioni letterarie.

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Un mese dopo si trasferì a Parigi. L'idea era quella di diventare un medico e si iscrisse alla Sorbona, ma nonostante fosse stato aiutato dalla famiglia e scrivesse recensioni per il Daily Express visse in povertà. Il suo vero obbiettivo era letterario. Trovava ben poca ispirazione nel panorama irlandese contemporaneo e desiderava esplorare in prima persona lo scenario del modernismo europeo. Diretto a Parigi, Joyce si fermò brevemente a Londra dove Yeats, su consiglio di Lady Gregory uno dei personaggi di spicco della rinascita irlandese, lo invitò a colazione, a pranzo e a cena e lo presentò a numerosi direttori di riviste. Abbandonò presto l’università sia perché la sua conoscenza del francese era inadeguata per seguire con facilità le lezioni sia perché l’università gli aveva chiesto di pagare le tasse, cosa che non era in grado di fare. Quando non scriveva recensioni o non dava occasionali lezioni private, Joyce passava il tempo a vagabondare per Parigi, in modo da assorbirne l’atmosfera, e a leggere voracemente. I soldi rimanevano un grande problema, di tanto in tanto la madre ne raggranellava un po’ e glieli spediva. Joyce mangiava al ristorante, andava a teatro fino a quando se lo poteva permettere, poi ripiombava nella povertà e nella fame sino alla successiva somma di denaro. Il suo soggiorno parigino fu interrotto da un telegramma del padre che gli annunciava che la madre era sul letto di morte. Il breve periodo passato a Parigi termina qui, ma nonostante le apparenze non fu un completo fallimento. In una stazione ferroviaria fece un'importante scoperta, il romanzo Les Laurieres son coupèes di Édouard Dujardin, in cui l'autore fa uso della tecnica del “flusso di coscienza”, tecnica che egli usa nei suoi romanzi della maturità, come Ulysses e Finnegan’s Wake. Joyce fu profondamente sconvolto dalle condizioni critiche della madre, ma poteva fare ben poco per confortarla. La madre, Mary Jane, preoccupata per l'empietà del figlio, cercò di convincerlo a fare la comunione e a confessarsi, ma Joyce si rifiutò. Quando la madre morì il 13 agosto dopo essere entrata in coma Joyce si rifiutò di inginocchiarsi per pregare al suo capezzale con gli altri membri della famiglia. Il turbamento e il senso di colpa provati da Joyce per la morte della madre vennero acutizzati dal suo rifiuto di esaudire il desiderio della mamma di vederlo riconciliato con la Chiesa prima di morire.

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La figura della madre di Joyce rimane più nell’ombra rispetto a quella del padre. Figlia di un commerciante di vini e liquori di Dublino, May Murray sposò John Stanislaus Joyce il 5 maggio 1880 nella Church of Our Lady of Refuge a Rathmines, aspettandosi di continuare l’esistenza agiata e borghese nella quale era cresciuta e ben lungi dall’immaginare che l’attendevano invece scarsi piaceri, tribolazioni costanti e la fatica di allevare dieci figli in condizioni economiche sempre più difficili. La sua sarebbe stata una vita di stenti da “generosa consorte di un beone egoista”, per citare l’intransigente secondogenito Stanislaus. Tra il 1881 e il 1893 portò a termine quindici gravidanze e provò il dolore di vedere cinque dei suoi bambini morire alla nascita o in tenera età. Specialmente dopo il tracollo economico della famiglia negli anni Novanta, a seguito del licenziamento del marito, combatté una battaglia sempre più solitaria per sfamare e vestire i figli. Fu inoltre costretta a lottare con crescente disperazione per proteggerli dalla rabbia cieca del marito spesso ubriaco. Si dedicò completamente a loro e fu particolarmente vicina a James: cercò di aiutarlo e di capirlo in ogni modo, anche se il suo rifiuto della chiesa cattolica, di cui lei era fervente e devota fedele, le causò un grosso dispiacere. La morte di May Murray fu una catastrofe per i Joyce. Senza di lei la famiglia iniziò a disgregarsi. John Stanislaus non sapeva più a chi chiedere denaro, avendo dilapidato quello che era rimasto della sua pensione, e a volte non poteva fare altro che svendere alcuni dei pochi mobili rimasti in casa. Spesso non c’era niente da mangiare, e la figlia più grande, Margaret, che aveva promesso alla madre di prendersi cura dei fratelli più piccoli, faceva molta fatica. Il padre era sempre più violento e sfogava la sua rabbia contro le figlie più giovani, che si rifugiavano sempre più spesso a casa della zia. Joyce fece quello che poté per aiutare a casa, riuscendo a racimolare qualcosa scrivendo recensioni per il Daily Express, insegnando privatamente e cantando. L'abilità del canto, ereditata dal padre, gli valse la medaglia di bronzo al Feis Ceoil del 1904. Era un apprezzato tenore, tanto che pensò di dedicarsi al canto come attività principale della sua vita. Il 1904 è l'anno decisivo per la vita di Joyce. Il 7 gennaio la rivista Dana rifiutò la prima versione di A Portrait of the Artist as a Young Man, che Joyce trasformerà in un romanzo dal titolo Stephen Hero, completando così il nucleo di A 25


Portrait of the Artist as a Young Man che verrà pubblicato nel 1916. Lo stesso anno esce The Holy Office, una raccolta di poesie. A metà estate scrisse i versi che faranno parte di Chamber Music e la rivista The Irish Homestead pubblica “The Sisters”, un racconto che farà poi parte di Dubliners, e nei mesi successivi anche “Eveline” e “After the Race”. In quel periodo Joyce beveva molto e una sera, rientrando a casa ubriaco, venne coinvolto in una rissa con un uomo a Phoenix Park. In seguito a tale episodio venne aiutato da Alfred H. Hunter e Oliver St John Gogarty, un amico studente di medicina. Joyce soggiorna convalescente nella torre Martello di Gogarty per sei giorni, finché Gogarty, coinvolto in una lite, spara a dei tegami sopra il letto di Joyce, il quale raggiunge la notte stessa la famiglia a Dublino.Questi due uomini avranno grande importanza nella vita di Joyce. Il primo, infatti, un ebreo vittima di pettegolezzi perché tradito dalla moglie, diventò il prototipo per Leopold Bloom, il protagonista dell'Ulysses. Il secondo divenne il prototipo di Buck Mulligan, un altro personaggio del romanzo che alloggia in una torre Martello, proprio come Gogarty a Sandycove. Lo stesso anno in Nassau Street incontra Nora Barnacle, una cameriera di Galway che diventerà sua compagna per tutta la vita. La data del loro primo appuntamento, il 16 giugno 1904, è la medesima in cui si svolge l'Ulisse. Nora era una ragazza di Galway che aveva terminato gli studi a dodici anni, lavorava come cameriera al Finn’s Hotel, dopo essere fuggita dalla provinciale città natale e da una famiglia problematica per iniziare una nuova vita nella capitale. Aveva una spiccata personalità e, come tante belle ragazze, un nutrito seguito di ammiratori. Dietro le sue insistenze, raccontò a Joyce dei due più importanti tragici avvenimenti: le morti di due suoi spasimanti. Uno morto di tifo appena sedicenne, l’altro che, appena venne a sapere della sua imminente partenza Galway, si alzò da letto ammalato e camminò sotto la pioggia scrosciante fino a casa sua per supplicarla di rimanere e morì poco dopo di tubercolosi. Scena che riprenderà ne The Dead. Nora ispirerà tutti i suoi personaggi femminili più importanti. Nonostante il disinteresse nei confronti dei suoi scritti, tanto da non leggerne quasi nessuno, Nora fu una compagna adatta a Joyce e, dopo il padre, divenne la sua fonte d’ispirazione più importante. Il 3 ottobre

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1904 Joyce e Nora partono per l'esilio auto-imposto che li terrà lontani dall'Irlanda per la maggior parte della loro vita. Joyce riuscì a ottenere un posto come insegnante alla Berlitz School di Zurigo, ma una volta a Zurigo scoprì di essere stato truffato e il direttore lo mandò a Trieste, che allora faceva parte dell'impero Austro-Ungarico. Neanche a Trieste però c'era un posto disponibile e con l'aiuto di Almidano Artifoni, il direttore della Berlitz di Trieste, si assicurò un posto nella base navale di Pola. Vi insegnò fino al marzo 1905, quando il vicedirettore della Berlitz riesce a far trasferire Joyce a Trieste. Nonostante il periodo travagliato, Joyce riesce a scrivere e porta a termine alcuni racconti che faranno poi parte di Dubliners e la seconda stesura di Chamber Music. Dopo la nascita di Giorgio, il primogenito di Joyce e Nora, la famiglia ha bisogno di più soldi e con la scusa della nostalgia e l'offerta di un posto come insegnante, Joyce invitò a Trieste il fratello Stanislaus, l’unico componente della famiglia con cui conservava stretti rapporti, il quale accettò. La loro convivenza però non fu semplice perché la frivolezza con cui Joyce spendeva i soldi e le sue abitudini di bevitore non piacquero a Stanislaus. Alla fine del 1906 il desiderio di viaggiare portò Nora e Joyce a Roma, dove trovò un posto da impiegato alla Nast, Kolb & Shumacher Bank. Spendeva in modo sconsiderato e dovette nuovamente ricorrere a prestiti onerosi. Ben presto, delusi dalla città, Joyce e Nora, ritornarono a Trieste. Nel 1907 scrisse qualche articolo per Il Piccolo della Sera e si offrì come inviato in Irlanda per il Corriere della Sera, un'offerta che venne declinata. Nei primi di maggio dello stesso anno viene pubblicato Chamber Music. Subito dopo la pubblicazione la salute di Joyce subì un colpo. Oltre ai problemi di cuore, agli incubi e l'irite, contrasse una forma di febbre reumatica che lo debilitò per molti mesi, riducendolo inizialmente quasi alla paralisi. Il 27 luglio nacque Lucia, la seconda figlia di Joyce e Nora. A Trieste Joyce tenne spesso lezioni private durante le quali frequentò i figli della nobiltà del luogo e conobbe Italo Svevo, all'epoca solo un oscuro impiegato che si dedicava con assiduità alla scrittura, seppur in un sostanziale anonimato, un altro

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prototipo di Leopold Bloom, tanto che molti dettagli sull'ebraismo inclusi in Ulisse gli sono stati riferiti proprio da Svevo. Nell'agosto del 1908 persero il terzo figlio in seguito ad un aborto spontaneo. Nello stesso periodo Joyce prese lezioni di canto al Conservatorio di Musica di Trieste e l'anno successivo prese parte all'opera Die Meistersinger von Nürnberg (I maestri cantori di Norimberga) di Richard Wagner. Nel 1909 Joyce ritornò brevemente a Dublino per far conoscere Giorgio alla famiglia, lavorare alla pubblicazione di Dubliners e conoscere la famiglia di Nora. Il mese dopo era nuovamente a Dublino per conto di un proprietario di sale cinematografiche con lo scopo di aprire un cinema a Dublino. Riuscirà nell'intento, ma quello che all'inizio fu un successo si rivelerà ben presto un fallimento. Ritornò a Trieste con la sorella Eileen, che passò il resto della vita nel continente. Nell'aprile del 1912 si recò a Padova per sostenere gli esami di abilitazione all'insegnamento nelle scuole italiane, ma nonostante il buon esito il suo titolo di studio non fu riconosciuto in Italia. Nell'estate dello stesso anno ritornò a Dublino ancora una volta per la pubblicazione di Dubliners, ma non ottenne i risultati sperati. Contro il mancato editore scrisse la satira Gas From a Burner. E nonostante i ripetuti inviti di William Butler Yeats, fu l'ultima volta che mise piede in Irlanda. L'anno successivo conobbe Ezra Pound grazie al quale pubblicò a puntate A Portrait of the Artist as a Young Man sulla rivista The Egoist. Nel 1914 uscirono in volume i racconti di Dubliners e iniziò a lavorare ad Ulysses e a Exiles, l'unico suo dramma che vedrà la luce nel 1918. In quel periodo, Joyce iniziò a frequentare assiduamente gli ambienti culturali della città: fra l'altro, divenne ospite fisso del Caffè San Marco, allora ritrovo degli intellettuali triestini, dove talvolta si recava a scrivere. Dopo lo scoppio della prima Guerra Mondiale nel 1914 alcuni amici nella borghesia triestina lo aiutarono a fuggire a Zurigo dove conobbe Frank Budgen, che diventò un consulente nella stesura di Ulysses e Finnegans Wake. Ancora grazie a Pound e all'editore Herriet Shaw Weaver riuscì negli anni successivi a dedicarsi solamente alla scrittura, abbandonando l'insegnamento. Qui riprese presto la stessa 28


vita tumultuosa di Trieste: problemi di soldi, corsi d'inglese, incessanti traslochi. Joyce continuò soprattutto a vivere della generosità dei suoi amici e dei suoi ammiratori. Ma lo scrittore uscì poco a poco dall'ombra. Nel 1918 la rivista americana Little Review pubblicò alcuni capitoli dell'Ulysses. Preceduto dalla fama di “padre del Modernismo” letterario, Joyce arriva nel 1920 nella capitale francese, in cui, immediatamente, è conteso da tutti. Joyce era ritornato l'anno prima a Trieste ma trovò la città molto cambiata e i rapporti con suo fratello erano ancora molto tesi, quindi non esitò a recarsi a Parigi nel 1920. Inizialmente doveva rimanerci una settimana, ci rimase vent'anni. Il poeta e romanziere Valery Larbaud lo presentò al Tout-Paris letterario. Divenne il favorito di un piccolo cenacolo: l’americana Sylvia Beach, animatrice della libreria inglese Shakespeare & Company, al Quartiere latino; Adrienne Monnier direttrice della Casa degli amici del libro, vero centro della creazione letteraria; Léon-Paul Fargue, il futuro autore di Pieton de Paris. Nel 1921 Joyce terminò la stesura di Ulysses che venne pubblicato dall'editore Sylvia Beach il 2 febbraio 1922, ossia il giorno del suo quarantesimo compleanno. Nel 1922 Nora e i figli visitarono l’Irlanda correndo pericolo di vita quando il loro vagone ferroviario fu attaccato dalle truppe dell’Esercito Repubblicano Irlandese e dalle truppe dello Stato Libero, episodio che convinse Joyce a non rimettere più piede in Irlanda, divenuto un paese troppo pericoloso e violento. Soltanto nel 1934, assolto dall’accusa di pornografia per il capitolo “Nausicaa”, il romanzo può uscire negli Stati Uniti; mente la prima edizione inglese data 1936. Nel 1923 iniziò la stesura di Work in Progress che occupò i sedici anni successivi ed uscì nel 1939 col titolo Finnegans Wake. Nel 1927 pubblicò la raccolta Poems Penyeach e l'anno successivo si sottopose ad un'operazione agli occhi. Nel 1931 James e Nora si sposarono, pare per motivi testamentari. Infatti poco tempo dopo John Stanislaus morì. Di tutti i figli solamente il giovane James 29


ereditò dal padre la convinzione che qualcosa gli fosse dovuto e fu l’unico, una volta adulto, capace di perdonarlo per la sua vita dissipata e di apprezzare quegli aspetti della sua personalità che portarono amici e compagni a considerarlo un vero personaggio. Dopo la sua morte, Joyce parlò del suo duraturo affetto per il padre, ammise di amarne anche i difetti e gli si dichiarò grato per il ruolo che aveva avuto nella sua fantasia creativa: Mio padre aveva per me un affetto straordinario. Era l’uomo più sciocco ch’io abbia mai conosciuto, eppure era crudelmente sagace. Ha pensato a me e parlato di me fino al suo ultimo respiro. Io gli ho sempre voluto bene, essendo io stesso un peccatore, e mi piacevano anche i suoi difetti. Centinaia di pagine e decine di personaggi nei miei libri sono derivati da lui.1

In questi anni la figlia Lucia manifesta i primi sintomi di schizofrenia. Lucia divenne la musa di Joyce nella stesura di Finnegans Wake, e Joyce stesso cercherà di tenerla con sé il più possibile lasciandola in clinica solo nei momenti di crisi più violenta. Joyce tenta, senza successo, di farla curare a Parigi, quindi in Svizzera. Disperato, sprofonda nuovamente nell’alcol. Nora minaccia di lasciarlo, ma nonostante un certo incremento dei diritti d'autore, è sempre a corto di denaro. Nel 1939 Finnegans Wake venne pubblicato da Faber & Faber a Londra e dalla Viking Press a New York. Alla dichiarazione di guerra i Joyce tornarono in Francia e si stabilirono a St. Gérard-le-Puy, vicino a Vichy, per essere più vicini alla clinica di Lucia. Con loro ci sarà anche Giorgio con il figlioletto, poiché anche sua moglie, Helen Castor Fleishman, era ricoverata nell’ospedale psichiatrico a St. Gérard-le-Puy. Sia per le dure critiche al romanzo sia per l'invasione nazista di Parigi, la depressione di cui già lo scrittore soffriva si accentuò. Dovette inoltre sottoporsi a ulteriori interventi oculistici per l'insorgenza di cataratta e glaucoma. Alla fine del 1940 si trasferì a Zurigo, dove l'11 gennaio 1941 venne operato per un'ulcera duodenale. Il giorno successivo entrò in coma e morì alle due di mattina del 13 gennaio 1941. Il suo corpo venne cremato e le sue ceneri si trovano al Filuntern 1

G. Melchiori (a cura di), J. Joyce, Lettere, traduzione di Giorgio Melchiori, Giuliano Melchiori, Renato Oliva, Milano, Mondadori, 1974, p. 529

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Cemetery, come quelle di Nora e di suo figlio Giorgio. Lucia morĂŹ nel 1982 al St. Andrews Hospital a Northampton, in Inghilterra, dove trascorse gran parte della sua vita.

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III.2. Dubliners

Con l’intento di esplicitare le proprie scelte e intenzioni, Joyce, in una lettera all'editore Grant Richards del 1904, scrive: Ho inteso scrivere un capitolo della storia morale del mio paese ed ho scelto Dublino come ambientazione perché quella città mi sembrava costituire il centro della paralisi. Ho cercato di presentarla ad un pubblico indifferente sotto quattro aspetti: infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica. I racconti sono disposti in tale ordine.1

In questo disegno organico che vede di fatto un “unico” protagonista2 crescere (i primi tre racconti sono dedicati all'infanzia, i quattro successivi all'adolescenza e quattro ancora successivi alla maturità) l’autore unisce anche la vita pubblica e una summa tematica della raccolta rappresentata dall’ultima storia “The Dead”. Dubliners è una “foto della paralisi” scattata e mostrata agli abitanti di Dublino ai primi del Novecento; la prima edizione del volume dei racconti è del 1914. È il primo scritto di Joyce; che fin da giovane si interessò di perorare significati attraverso le “epifanie” o “rivelazioni”, sono vissute dai personaggi. I dublinesi di Joyce sono figure di una normale quotidianità vissuta all’interno di situazioni verosimili mediante nuclei tematici riconducibili al tema della paralisi morale e sociale a cui alcuni di essi (i più giovani) reagiscono attraverso una attiva ricerca di fuga o “escape”. Nella società joyciana i valori sono sviliti e mercificati, la famiglia è assente o inefficace, il padre assente o è un ubriacone e la madre è rassegnata e vittima oppure “tiranna” e opportunista; su tutto aleggia il sentore di vuoto e stantio che l’ambiente stesso e le azioni dei personaggi enfatizzano. Joyce vuole qui denunciare l’impoverimento culturale della civiltà irlandese a lui contemporanea in relazione agli attivisti del recente passato irlandese e lo fa con 1

G. Melchiori (a cura di), J. Joyce, Op.Cit., p. 117 J. McCourt, James Joyce : gli anni di Bloom, traduzione di Valentina Olivastri, Milano, Arnoldo Mondadori, 2004 2

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l’occhio “naturalistico” imparziale e freddo fuso con il simbolismo ossia una tecnica che offre al lettore significati aggiunti favorendo anche l’esegesi di storie “banali”. L’unità stilistica della raccolta si fonda sull’adozione di un linguaggio che Joyce stesso ha definito di scrupolosa indecenza essendo la sua Irishness realistica volta a smascherare le ipocrisie ideologiche, religiose e sociali. Joyce inoltre vuole illustrare l’asfissia morale e sociale di una Chiesa cattolica arcaica e anacronistica. Joyce non aderisce alla corrente artistica del suo tempo che reclamava l’uso della lingua celtica, i cui esponenti maggiori furono Yeats, Douglas Hyde e Lady Gregory, i quali s’impegnarono in una lunga campagna nazionalistica tramite la National Literary Society e l’Irish Literary Theatre. Egli si dichiara più volte a favore di un cosmopolitismo europeo e perciò nel saggio Ireland: Island of Saints and Sages, scrive “just as ancient Egypt is dead, so is ancient Ireland.” Joyce intuisce infatti che l’Irlanda non ha bisogno di una letteratura patriottica che dia un valore civile all’Irlanda; ha bisogno invece di una letteratura di alto valore artistico e cosmopolita che la liberi dai suoi gioghi culturali. Joyce è convinto che adattare la letteratura ai bisogni morali della società irlandese sia un compito che spetta agli artisti capaci di un’alta espressione estetica, non al patriottismo retrogrado. Lo scetticismo delle strutture nei confronti di una cultura che si chiude in se stessa è evidente, ad esempio, nel racconto “A Mother” in Dubliners quando Joyce rivela al lettore le motivazioni patriottiche di Mrs Kearney, madre arrivista che sfruttando gli elementi banali del nazionalismo irlandese pretendeva di avvantaggiare la figlia Kathleen (“Kathleen […] sent Irish picture postcards to their friends”, “Mrs Kearney […] brought an Irish teacher to the house”1). La madre qui mira solo a promuovere la fortuna artistica della figlia nella società musicale di Dublino. Dubliners non è soltanto una raccolta ma è anche, e forse soprattutto, una sequenza, le cui parti, finite e autonome, esistono in funzione del tutto; è un discorso che si sviluppa attraverso il susseguirsi dei racconti e sarebbe incompleto anche se ne togliessimo uno solo, o incoerente se cambiassimo l’ordine dei racconti.

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J. Joyce, Dubliners, London, Penguin Books, 2000, p. 135

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Joyce cominciò a scrivere alcuni racconti non collegati tra loro già dal 1904 ma poiché essi si presentavano uniti tematicamente comprese che potevano diventare come dei “capitoli” di un “romanzo” il cui protagonista era la comunità di Dublino. Perciò egli concepì i nuovi racconti come parte di una sequenza, adeguando e modificando anche quelli già scritti; il risultato è un’opera che, per compattezza strutturale e organicità non ha precedenti nella storia del racconto. L’unità di luogo della raccolta scaturisce dalla collocazione di tutti i racconti a Dublino, una città cui egli guarda senza indulgenza, presentandola, per usare le sue parole, come “the heart of paralysys”1, l’unità di tempo è data dall’essere le storie e i protagonisti figure di mediocri e di sconfitti, l’unità di azione è data dalla rappresentazione della paralisi irlandese, ossia di quella condizione di immobilità, di passività, di inerzia che per Joyce è la radice stessa dei mali che affliggono il proprio paese. Le varie sfaccettature di questa “malattia” che ha intaccato in profondità tutto il tessuto politico e culturale della città rendendo gli abitanti dei morti in vita.2 Oltre al tema della paralisi, in Dubliners Joyce affronta quello della simonia, ovvero la mercificazione di ogni valore ideale, morale, affettivo; la corruzione, causa ed effetto della paralisi, interagirà con essa nella maggior parte dei racconti. Ogni racconto è organizzato strutturalmente intorno a un’epifania (etimologicamente la parola significa “manifestazione”) o rivelazione di significato.3 L’epifania, come avvenne ai Magi che cercavano il Cristo e lo trovarono in un umile bambino, è la rivelazione di una verità assoluta, una verità spesso celata nell’insignificante. La struttura dei racconti è studiata in modo tale che accanto al tema principale se ne presenta uno secondario ripreso e sviluppato nel successivo racconto, dove ne compare uno nuovo, destinato anch’esso a essere sviluppato, abbandonato e affiancato da altri nelle short-stories seguenti. Analogamente gli incipit di due o più racconti successivi, o fra la loro conclusione, oppure fra la conclusione di uno e

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R. Ellman (ed.), “To Stanislaus Joyce, 1905”, Selected Letters of James Joyce, New York, The Viking press, 1975, p.55 2 F. Gozzi, Epicleti ed Epifanie : la narrativa giovanile di Joyce, Pisa, Edizioni ETS, 2002, pp.33-34 3 J. Joyce, Op. cit., p.33

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l’inizio del successivo, o anche fra racconti non contigui in posizione simmetrica (come il primo e l’ultimo) si legano. Joyce, con questi racconti brevi, fotografa una grigia realtà dalla quale egli ha cercato di fuggire. Dubliners si pone come un tentativo di armonizzare le istanze delle due correnti letterarie dominanti di questo periodo: il Simbolismo e il Naturalismo, e lo fa attraverso un linguaggio semplice (secondo i principi del Naturalismo) che si adatta alla lingua degli ipotetici protagonisti a livello profondo o di tessuto connettivo, l'opera è fortemente simbolica. Solo i primi tre racconti, quelli che hanno come protagonisti dei bambini, sono narrati in prima persona dai protagonisti; gli altri racconti sono tutti in terza persona. Le classi sociali coinvolte nei racconti sono le più disparate, ma nessuno fa parte di un ambiente particolarmente elevato né troppo basso; la loro condizione è però sempre quella di “paralitici” accomunati dal fallimento esistenziale: solo per i bambini sembrano esserci opportunità mentre tutti gli altri sembrano ormai destinati a una vita di miseria spirituale. Il tema del rifiuto del padre e quello complementare della ricerca del padre è tra i più importanti della produzione di Joyce. La figura del padre in Dubliners, forse a causa dei rapporti difficili di Joyce con il padre John, è sempre negativa: in “The Sisters” il bambino protagonista abita dagli zii e quindi è probabilmente orfano, come i due protagonisti dei racconti successivi. Manca a questi bambini la guida sicura di un padre, al posto del quale hanno dei surrogati, zii o come in “The Sisters”, personaggi ambigui e negativi come “Father” Flynn. Quest’ultimo è presentato in modo molto significativo dal punto di vista simbolico: semiparalizzato e poi morto, un padre spirituale inefficace; come il “non detto“ del racconto stesso evidenzia mediante l’uso insistito dei puntini di sospensione nei dialoghi dei due adulti mentre osservano il bambino. Anche in “An Encounter” il protagonista è orfano. Si occupano di lui gli zii e i sacerdoti della sua scuola. L’unica figura di uomo che si presenta chiaramente nel racconto è quella incontrata durante la gita,e che ha intenzioni torbide.

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Anche in “Araby” il protagonista vive con uno zio. Che non sia una buona figura paterna è indicato già dalle prime righe del racconto quando il protagonista racconta che con i suoi amici si nascondevano all’arrivo dello zio e uscivano solo quando erano sicuri che lui fosse rientrato in casa. Il racconto parla del progetto di viaggio del protagonista, ma per realizzarlo ha bisogno del denaro promessogli dallo zio che però tarda a rincasare e quando arriva è alticcio e si é dimenticato della sua promessa. Non si rende nemmeno colto dell’impazienza del ragazzo e pretende di cantargli una ballata. Nei racconti della giovinezza “Eveline”, la protagonista resta a casa invece di partire col marinaio. Qui la figura del padre è negativa ma è rievocata in un episodio dell’infanzia quando erano una famiglia “felice”. L’uomo, descritto come violento e irascibile, appare anche peggiore delle altre figure di surrogato di padre dei racconti precedenti e non potendo più infierire con gli altri componenti della famiglia (la moglie è deceduta e i figli partiti) inizia a picchiare Eveline e i figli più piccoli. In “After the Race” Joyce introduce una figura di padre della piccola borghesia arricchita che punta sul figlio per il suo riscatto sociale. Riscatto sociale che non avrà luogo in quanto il figlio diverrà la “vittima” di una truffa di gioco. In “The Boarding House” la protagonista è sola e reduce da un matrimonio fallito, omologante alla madre di “A Mother” in cui marito è diventato un ubriacone e ha mandato in fallimento il negozio di famiglia, una macelleria. Nel terzo gruppo di racconti, in “A Little Cloud” abbiamo un padre, Little Chandler, che è un mediocre (il paradigma della “littleness” domina il racconto) che alla fine, esasperato dal pianto del figlio neonato gli urla contro, provocandone un pianto ancora più forte che gli impedirà di realizzarsi come poeta (la poesia qui è intesa come via di fuga da una realtà opprimente). Little Chandler è padre immaturo e frustrato che sfoga il proprio senso di frustrazione. A questo racconto fa da pendant “Counterparts”, di cui parleremo in seguito più nei dettagli e che presenta un padrepadrone violento e frustrato che picchia il figlio. In “A Painful Case” il marito/padre è fisicamente assente essendo un ufficiale della marina quasi sempre lontano da casa e che ha perso ogni interesse fisico per la consorte e si disinteressa dei problemi della figlia. 36


Nei racconti del quarto gruppo, in “Ivy Day in the Committee Room” è presentata una figura paterna inadeguata attraverso la figura di Jack, che racconta di non riuscire più a tenere a bada il figlio diciannovenne. La raccolta si conclude con la figura maschile di Gabriel Conroy che prende coscienza di sé e dei propri limiti come marito (e implicitamente anche come padre). Grazie alla simbologia della neve (acqua gelata che presuppone un disgelo e dunque una rinascita) questa figura grazie all’epifania e alla propria presa di coscienza, lascia presupporre al lettore che vivrà un’esistenza diversa e più autentica.

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IV. “Farrington” come esempio negativo di figura paterna IV.1. L’ambiente e il personaggio Farrington è il protagonista del nono racconto dei Dubliners. È l’unico personaggio nella raccolta ad essere descritto fisicamente in modo dettagliato. Ma è descritto decadente. Vive a Dublino e fa il copista presso uno studio di avvocati. È un personaggio alto e imponente, ma il suo viso flaccido e paonazzo lascia trasparire la paralisi e la dedizione all’alcol. Joyce inizialmente lo indica con “l’uomo”: non ha ancora le qualità per avere un nome. The man muttered `Blast him!' under his breath and pushed back his chair to stand up. When he stood up he was tall and of great bulk. He had a hanging face, dark wine−coloured, with fair eyebrows and moustache: his eyes bulged forward slightly and the whites of them were dirty. He lifted up the counter and, passing by the clients, went out of the office with a heavy step.1

Il peso della sua esistenza grava su di lui, simboleggiato dal peso del suo passo. The man walked heavily towards the door and, as he went out of the room, he heard Mr Alleyne cry after him that if the contract was not copied by evening Mr Crosbie would hear of the matter.2

Orgoglio e apice del suo successo: ha i soldi, ha una storia da raccontare di cui è il protagonista, è il suo momento di gloria. Camminando a testa alta verso l’osteria, lui uomo nuovo, orgoglioso della sua ribellione, possessore di sei scellini, pianifica lo sfoggio del suo momento di gloria con gli amici. In Westmoreland Street the footpaths were crowded with young men and women returning from business, and ragged urchins ran here and there yelling out the names of the evening editions. The man passed through the crowd, looking on the spectacle generally with proud satisfaction and staring masterfully at the office−girls. His head was full of the noises of tram−gongs and swishing trolleys and his nose already sniffed the curling fumes of punch. As he walked on he preconsidered the terms in which he would narrate the incident to the boys: `So, I just looked at him [MrAlleyne] − coolly, you know, and looked at her [Miss Delacour]. 1 2

J. Joyce, Dubliners, London, Penguin book, 2000, p. 82 J. Joyce, op. cit., pp.83-84

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Then I looked back at him again − taking my time you know. "I don't think that's a fair question to put to me," says I.'1

La sua imponenza fisica viene sfruttata per una prova di forza. Un confronto Irlanda-Inghilterra dove emerge il decadimento fisica del personaggio che viene battuto. La sconfitta è dell’Irlanda da parte dell’Inghilterra. Farrington non accetta la sconfitta da parte di un giovane, Weathers, lo accusa di barare e la prova si ripete. Alla seconda sconfitta scatta la rabbia contro il garzone che fa un commento. When Paddy Leonard called him he found that they were talking about feats of strength. Weathers was showing his biceps muscle to the company and boasting so much that the other two had called on Farrington to uphold the national honor. Farrington pulled up his sleeve accordingly and showed his biceps muscle to the company. The two arms were examined and compared and finally it was agreed to have a trial of strength. The table was cleared and the two men rested their elbows on it, clasping hands. When Paddy Leonard said `Go!' each was to try to bring down the other's hand on to the table. Farrington looked very serious and determined. The trial began. After about thirty seconds Weathers brought his opponent's hand slowly down on to the table. Farrington's dark wine−coloured face flushed darker still with anger and humiliation at having been defeated by such a stripling. `You're not to put the weight of your body behind it. Play fair,' he said. `Who's not playing fair?' said the other. `Come on again. The two best out of three.' The trial began again. The veins stood out on Farrington's forehead, and the pallor of Weathers' complexion changed to peony. Their hands and arms trembled under the stress. After a long struggle Weathers again brought his opponent's hand slowly on to the table. There was a murmur of applause from the spectators. The curate, who was standing beside the table, nodded his red head towards the victor and said with stupid familiarity: `Ah! that's the knack!' `What the hell do you know about it?' said Farrington fiercely, turning on the man. `What do you put in your gab for?' `Sh, sh!' said O'Halloran, observing the violent expression of Farrington's face. `Pony up, boys. We'll have just one little smahan more and then we'll be off.'2

La sconfitta è dell’uomo ma anche dell’Irlanda da parte del londinese; dopo questa sconfitta la scena cambia di colpo. È finito il momento di gloria del personaggio e lui è ritornato nella solita vita frustrante, alle prese con le delusioni, le occasioni sprecate e la routine. A very sullen−faced man stood at the corner of O'Connell Bridge waiting for the little Sandymount tram to take him home. He was full of 1 2

J. Joyce, op. cit., p.89 J. Joyce, op. cit., pp.91-92

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smouldering anger and revengefulness. He felt humiliated and discontented; he did not even feel drunk; and he had only two pence in his pocket.

[…] His heart swelled with fury and, when he thought of the woman in the big hat who had brushed against him and said Pardon! his fury nearly choked him. His tram let him down at Shelbourne Road and he steered his great body along in the shadow of the wall of the barracks.1

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J. Joyce, op. cit., pp.92-93

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IV.2. Aspettative e frustrazioni Mentre molti personaggi in Dubliners desiderano qualcosa, incontrano ostacoli che generano frustrazione e, infine, perdono i propri desideri in “paralisi”, Farrington percepisce il mondo come un ostacolo al proprio benessere1. La staticità e l’immobilità di questo personaggio che nonostante sia sempre in movimento e in azione, alla fine si trova sempre punto e a capo, lascia intravedere al lettore la sua paralisi interiore. Fa un lavoro noioso, ripetitivo e frustrante. Tutto ciò, unito all’irascibilità, alla scarsa propensione al lavoro, all’ottusità nel vedere l’unica via di fuga nell’alcol, lo portano in una spirale di fallimenti e alla “caduta”. La noia del lavoro irrita Farrington, ma lo fa tutto ciò che lo contrasta e lo contraria; la radice del comportamento violento ed esplosivo di Farrington è l'esperienza circolare di routine e la ripetitività che definisce la sua vita. Il suo lavoro si basa sulla duplicazione dei documenti: egli produce copie a mano per un capufficio esigente. Il suo lavoro, in altre parole, è quello di produrre repliche di altre cose, e la monotonia di questo lavoro che egli si rivela incapace di compiere con precisione lo fa infuriare. He struggled on with his copy, but when the clock struck five he had still fourteen pages to write. Blast it! He couldn't finish it in time. He longed to execrate aloud, to bring his fist down on something violently. He was so enraged that he wrote Bernard Bernard instead of Bernard Bodley and had to begin again on a clean sheet.2

Nel valutare questa figura di ubriacone e di violento, si deve tenero conto anche del quadro socio-economico-culturale nella quale essa si colloca, un quadro descritto con un’attenzione particolare che fa di Counterparts forse il racconto più vicino alle storie di vizio, degradazione e miseria di Zola. Troviamo il motivo del capovolgimento di ruolo tra padre e figlio. A dispetto della vocetta stridula, della corporatura gracile e del cranio liscio e roseo come quello

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J. Joyce, Dubliners, London, Penguin book, 2000, p. 86

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di un neonato, Mr Alleyne è qui l’uomo, colui che detiene autorità e potere, e il “bambino” che deve ascoltare mortificato i rimproveri è invece il mastodontico Farrington, individuo fisicamente forte, come si desume dall’episodio della sfida a braccio di ferro, ma ormai in declino, come indiziano le guance cadenti e la carnagione paonazza da bevitore. The man entered Mr Alleyne's room. Simultaneously Mr Alleyne, a little man wearing gold−rimmed glasses on a clean−shaven face, shot his head up over a pile of documents. The head itself was so pink and hairless it seemed like a large egg reposing on the papers. Mr Alleyne did not lose a moment: `Farrington? What is the meaning of this? Why have I always to complain of you? May I ask you why you haven't made a copy of that contract between Bodley and Kirwan? I told you it must be ready by four o'clock.' `But Mr Shelly said, sir−−' `Mr Shelly said, sir... Kindly attend to what I say and not to what Mr Shelly says, sir. You have always some excuse or another for shirking work. Let me tell you that if the contract is not copied before this evening I'll lay the matter before Mr Crosbie... Do you hear me now?' `Yes, sir.' `Do you hear me now?... Ay and another little matter! I might as well be talking to the wall as talking to you. Understand once for all that you get a half an hour for your lunch and not an hour and a half. How many courses do you want? I'd like to know... Do you mind me now?' `Yes, sir.' Mr Alleyne bent his head again upon his pile of papers.1

Il rapporto di potere esistente fra il capufficio e Farrington, che Joyce a fini di significato utilizza anche a livello simbolico, rappresentandovi il rapporto fra Inghilterra e Irlanda, è suggerito pure dal modo in cui i due uomini vengono indicati: il nome del capufficio è sempre preceduto da un riguardoso “Mr”, mentre l’impiegato viene chiamato da lui e dai colleghi col cognome, che serve appunto semplicemente per chiamarlo, non per riconoscergli un identità, una dignità di persona. Più avanti vedremo che egli sarà indicato come “the man”, quasi per sottolinearne l’anonimità.2 “The man entered Mr Alleyne's room. Simultaneously Mr

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J. Joyce, op. cit., pp.82-83 F. Gozzi, Epicleti ed Epifanie : la narrativa giovanile di Joyce, Pisa, Edizioni ETS, 2002,

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Alleyne,” […] “The man walked heavily towards the door and, as he went out of the room].1 Egli sfoga la sua frustrazione e la sua rabbia nell’alcol, sua unica via di fuga. Umiliato dal capufficio per la sua negligenza, Farrington, in preda ad una rabbia impotente, sente un acuto bisogno di bere. Ripreso posto alla propria scrivania per copiare il contratto da consegnare a Mr Alleyne, si rialza subito dopo e, fingendo di dover andare al gabinetto, scappa invece al bar, dove spende il suo ultimo penny in una birra.2 A spasm of rage gripped his throat for a few moments and then passed, leaving after it a sharp sensation of thirst. The man recognized the sensation and felt that he must have a good night's drinking.3

Quando torna in ufficio, sta calando la sera, nebbiosa come la coscienza di Farrington, offuscata dai fumi dell’alcol e dell’ira. `I know that game,' he said. `Five times in one day is a little bit... Well, you better look sharp and get a copy of our correspondence in the Delacour case for Mr Alleyne.' This address in the presence of the public, his run upstairs, and the porter he had gulped down so hastily confused the man and as he sat down at his desk to get what was required, he realized how hopeless was the task of finishing his copy of the contract before half past five.

[…] The man listened to the clicking of the machine for a few minutes and then set to work to finish his copy. But his head was not clear and his mind wandered away to the glare and rattle of the public−house. It was a night for hot punches. He struggled on with his copy, but when the clock struck five he had still fourteen pages to write.4

In uno stato di confusione generato dall’ansia, dall’esasperazione, dall’alcol ingurgitato, Farrington tenta di mettersi a lavorare, comprendendo che non ce la farà mai a finire le copie prima della chiusura dell’ufficio e che perciò non potrà nemmeno chiedere un anticipo al cassiere, restando senza soldi per andare al pub. In un disperato tentativo di farla franca, porta la pratica così com’è in ufficio, dove già si trova Miss Delacour, il cui profumo e la cui eleganza hanno su di lui l’effetto di 1

G. Pissarello “Antroponimia e identikit sociale dei personaggi in Dubliners” in Carlo DePretis (a cura di), Names and Disguisces, Bulzoni, Roma, 1991, pp. 63-76 2 G. Pissarello, Ibidem 3 J. Joyce, op. cit., p. 83 4 J. Joyce, Op. cit., p.85

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evocare un tipo di via alla quale egli – povero copista in lotta contro la povertà, senza speranze di un domani migliore – non ha avuto, né avrà mai accesso.1 The moist pungent perfume lay all the way up to Mr Alleyne's room. Miss Delacour was a middle−aged woman of Jewish appearance. Mr Alleyne was said to be sweet on her or on her money. She came to the office often and stayed a long time when she came. She was sitting beside his desk now in an aroma of perfumes, smoothing the handle of her umbrella and nodding the great black feather in her hat. Mr Alleyne had

swivelled his chair round to face her and thrown his right foot jauntily upon his left knee.2 La primordialità del personaggio, che è propriamente un bruto, è espressa sia dall’istinto di colpire la testa di Mr Halleyne (“[…] the man could hardly restrain his fist from descending upon the head of the manikin before him.”) e dalla voglia di spazzare via tutto l’ufficio (“He felt strong enough to clear out the wole office singlehanded.”) per sfogare la sua rabbia, sia dalle forti sensazioni che emergono quando, nel salire le scale, le sue narici sono colpite da un pungente profumo (“The moist pungent perfume lay all the way up to Mr Alleyne’s room.”) da lui immediatamente collegato ad una delle clienti dell’ufficio legale in cui lavora, Miss Delacour, attraente e ricca ebrea, corteggiata da Mr Alleyne più per il denaro che per il suo fascino (al quale invece il protagonista è tutt’altro che indifferente): ricompare così, a legare Counterparts ad A Little Cloud, un motivo, appunto quello dell’ebrea dal duplice fascino, già presente nel racconto precedente. Tornato ancora una volta alla scrivania, Farrington cerca di rimettersi a lavorare, mentre si fa sentire in lui sempre più acuto il bisogno di essere al bar con gli amici. Un errore di copiatura che lo costringe e a ricominciare una pagina trasforma l’esasperazione in sordo impulso di rivolta. La sua frustrazione si tramuta in rabbia repressa. Non ha più tempo per finire il lavoro ma da la colpa alla copia non a se stesso che ha perso tempo. Il fatto che Farrington è così indietro rispetto al lavoro è un’analogia con la sua vita: vorrebbe sistemarsi, rimettersi in pari con la vita e la società, ma ormai è troppo indietro e non ce la farà mai; da qui la frustrazione,

1

F. Gozzi, Epicleti ed Epifanie : la narrativa giovanile di Joyce, Pisa, Edizioni ETS, 2002,

p. 92 2

aggravata dalla

J. Joyce, Op. cit., p.85

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consapevolezza della sua impotenza verso i fatti della vita e l'inutilità della sua stessa vita. He struggled on with his copy, but when the clock struck five he had still fourteen pages to write. Blast it! He couldn't finish it in time. He longed to execrate aloud, to bring his fist down on something violently. He was so enraged that he wrote Bernard Bernard instead of Bernard Bodley and had to begin again on a clean sheet. He felt strong enough to clear out the whole office singlehanded. His body ached to do something, to rush Out and revel in violence. All the indignities of his life enraged him. Could he ask the cashier privately for an advance? No, the cashier was no good, no damn good: he wouldn't give an advance... He knew where he would meet the boys: Leonard and O'Halloran and Nosey Flynn. The

barometer of his emotional nature was set for a spell of riot.1 Ed è a questo punto che Mr Alleyne lo chiama, infuriato, per chiedergli spiegazioni su due lettere mancanti. La domanda retorica che rivolge a Farrington dopo che questi sostiene di non saperne nulla, “Do you take me for a fool?”, fa esplodere nel protagonista il furore impotente accumulato nel corso della giornata, dettandogli una risposta sarcastica che coglie tutti di sorpresa; essa provoca la stizza del capoufficio, che costringe Farrington a pentirsi prontamente del proprio impulso di ribellione. His imagination had so abstracted him that his name was called twice before he answered. Mr Alleyne and Miss Delacour were standing outside the counter and all the clerks had turned round in anticipation of something. The man got up from his desk. Mr Alleyne began a tirade of abuse, saying that two letters were missing. The man answered that he knew nothing about them, that he had made a faithful copy. The tirade continued: it was so bitter and violent that the man could hardly restrain his fist from descending upon the head of the manikin before him. `I know nothing about any other two letters,' he said stupidly. `You − know − nothing. Of course you know nothing,' said Mr Alleyne. `Tell me,' he added, glancing first for approval to the lady beside him, `do you take me for a fool? Do you think me an utter fool?' The man glanced from the lady's face to the little egg−shaped head and back again; and, almost before he was aware of it, his tongue had found a felicitous moment: `I don't think, sir,' he said, `that that's a fair question to put to me.' There was a pause in the very breathing of the clerks. Everyone was astounded (the author of the witticism no less than his neighbours) and Miss Delacour, who was a stout amiable person, began to smile broadly. Mr Alleyne flushed to the hue of a wild rose and his mouth twitched with a dwarf's passion. He shook his fist in the man's face till it seemed to vibrate like the knob of some electric machine:

1

J. Joyce, op. Cit., p. 86

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`You impertinent ruffian! You impertinent ruffian! I'll make short work of you! Wait till you see! You'll apologize to me for your impertinence or you'll quit the office instanter! You'll quit this, I'm telling you, or you'll

apologize to me!'1 Il piccolo momento di gloria dell’uomo. La sua piccola rivincita. Il suo momento magico: l’apice. Da qui in poi è tutto a scendere, come se avesse salito la cima di una ripida montagna e ora scendesse. Conclusasi con questo climax drammatico la prima scena, la seconda si apre mostrando il protagonista ancora nei pressi dell’ufficio, subito dopo la chiusura, in preda ad un profondo sconforto: minacciato di licenziamento, ha dovuto presentare “abject apologies”, ha perduto l’occasione per chiedere un anticipo e si è inimicato totalmente i capufficio, che ora gli renderà la vita un inferno. È un momento, questo, se non proprio epifanico, almeno di lucidità del protagonista, il quale, solo con se stesso, ammette che “He had made a proper fool of himself this time”; un momento che va visto sullo sfondo di tutti i successivi tentativi da lui messi in atto per manipolare la verità, offrendo agli amici una versione “trionfalistica” del battibecco col capufficio, o per rimuoverla stordendosi con l’alcol.

He stood in a doorway opposite the office, watching to see if the cashier would come out alone. All the clerks passed out and finally the cashier came out with the chief clerk. It was no use trying to say a word to him when he was with the chief clerk. The man felt that his position was bad enough. He had been obliged to offer an abject apology to Mr Alleyne for his impertinence, but he knew what a hornet's nest the office would be for him.

[…] Mr Alleyne would never give him an hour's rest; his life would be a hell to him. He had made a proper fool of himself this time. Could he not keep his tongue in his cheek? But they had never pulled together from the first, he and Mr Alleyne, ever since the day Mr Alleyne had overheard him mimicking his North of Ireland accent to amuse Higgins and Miss Parker; that had been the beginning of it.2

Preso da una sete (metafora del bisogno di sfuggire alla propria situazione) che si fa sempre più forte, Farrington ad un tratto ha un idea: “Suddenly, as he was

1 2

J. Joyce, op. Cit., pp. 86-87 J. Joyce, op. Cit., pp. 87-88

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fingering his watch chain, he thought of Terry Kelly's pawn−office in Fleet Street. That was the dart! Why didn't he think of it sooner?”1 Impegna il suo orologio e in tal modo riesce a procurarsi sei scellini: “The clerk in Terry Kelly's said A crown! but the consignor held out for six shillings; and in the end the six shillings was allowed him literally. He came out of the pawn−office joyfully, making a little cylinder of the coins between his thumb and fingers.”2 La precisazione dell’importo della somma ricavata, oltre a rientrare nel canone naturalista, è intesa a farci sentire il senso di potere conferitogli dal possesso di questo denaro, grazie al quale si sente un altro uomo, pronto a prendersi la rivincita sul destino. È un altro uomo non appena entra nel pub: qui egli sembra diventare tale anche per il narratore, il quale non lo chiama più “The man”, bensì “Farrington”. Farrington si alterna tra l’essere un uomo specifico e ogni uomo. Il modo fluido di Joyce di rivolgersi a lui serve così a inserire armoniosamente Farrington nelle vie di Dublino e suggeriscono che la sua brutalità è niente di insolito. Questo dettaglio del nome evidenzia il rapporto cameratesco con gli amici del pub, dove egli è una persona, anzi un eroe, l’autore di una battuta memorabile che verrà ripetuta innumerevoli volte e ogni volta sarà accompagnata da grandi bevute: Nosey Flynn was sitting up in his usual corner of Davy Byrne's and, when he heard the story, he stood Farrington a half−one, saying it was as smart a thing as ever he heard. Farrington stood a drink in his turn. After a while O'Halloran and Paddy Leonard came in and the story was repeated to them.3

Ma, come Farrington deve poi constatare, trionfi del genere sono effimeri, e infatti, col trascorrere della serata e con l’assottigliarsi dei sei scellini, la sua euforia tende sempre più a dissolversi. Inoltre, secondo la logica della ripetizione che regge il racconto, egli finisce per ritrovarsi di fronte situazioni analoghe a quelle che avevano provocato la sua esasperazione. Ad un certo momento, nel corso delle

1

J. Joyce, op. Cit., p. 88 J. Joyce, ibidem 3 J. Joyce, op. Cit., p. 89 2

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peregrinazioni con gli amici da un bar all’altro, si unisce alla sua compagnia un acrobata di passaggio, un inglese, e qui si ricrea una delle situazioni ricorrenti della raccolta: il confronto tra provinciali e cosmopoliti, fra dublinesi da una parte e londinesi o continentali dall’altra, nel quale sono sempre i primi ad avere la peggio. Weathers (così si chiama l’uomo, figura un po’ equivoca, come tutti gli artisti che compaiono nel libro), dopo una breve assenza, torna seguito da due ragazze, una delle quali, elegante e sofisticata, fissa Farrington con insistenza; evidentemente dalla generosità del protagonista nell’offrire drink Weathers ha desunto che deve avere parecchi soldi, e ha perciò incaricato una delle due donnine di “ripulirlo”. Farrington vede come unica liberazione da una tale attività di routine che è la sua vita, il calore e le bevande dei bar, ma nelle sue esperienze c'è solo il generare ulteriore routine. Racconta lo scontro con il capufficio, il signor Alleyne, ai suoi amici, che a loro volta lo ripetono ad altri amici. Seguendo la tradizione del "giro" offerto in cui ogni persona in un gruppo prende da bere per tutti i compagni presenti, spende soldi in continuazione e consuma più alcool.

Farrington stood a drink all round. Weathers said he would take a small Irish and Apollinaris. Farrington, who had definite notions of what was what, asked the boys would they have an Apollinaris too; but the boys told Tim to make theirs hot. The talk became theatrical. O'Halloran stood a round and then Farrington stood another round, Weathers protesting that the hospitality was too Irish.1

Farrington si rende conto di come Weathers approfitti di questa tradizione ripetutamente e vi vede un furto ai suoi danni. La sua rabbia cresce in tutta la storia.

He cursed his want of money and cursed all the rounds he had stood, particularly all the whiskies and Apollinaris which he had stood tb Weathers. If there was one thing that he hated it was a sponge. He was so angry that he lost count of the conversation of his friends.2

Entrano in scena le figure di due donne, componente erotica del racconto che danno una scossa alla coscienza di Farrington ma l’azione che potrebbe scaturirne viene subito bloccata dalla mancanza di soldi.

1 2

J. Joyce, op. Cit., p. 90 J. Joyce, op. Cit., p. 91

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Rimasto ormai a secco, Farrington si rende conto di non poter più invitare o seguire la bella sconosciuta e questo incidente narrativo si pone come “counterpart” di un evasione erotica irrealizzabile, quella da lui desiderata quando si era trovato accanto all’elegante, profumatissima ebrea, Miss Delacour.

Presently two young women with big hats and a young man in a check suit came in and sat at a table close by. Weathers saluted them and told the company that they were out of the Tivoli. Farrington's eyes wandered at every moment in the direction of one of the young women. There was something striking in her appearance. An immense scarf of peacock−blue muslin was wound round her hat and knotted in a great bow under her chin; and she wore bright yellow gloves, reaching to the elbow. Farrington gazed admiringly at the plump arm which she moved very often and with much grace; and when, after a little time, she answered his gaze he admired still more her large dark brown eyes. The oblique staring expression in them fascinated him. She glanced at him once or twice and, when the party was leaving the room, she brushed against his chair and said `O, pardon!' in a London accent. He watched her leave the room in the hope that she would look back at him, but he was disappointed. He cursed his want of money and cursed all the rounds he had stood, particularly all the whiskies and Apollinaris which he had stood to Weathers.1

Un’altra “ripetizione” scatta poco dopo, quando gli amici lo invitano a sfidare Weathers a braccio di ferro e Farrington, replicando lo scontro col capufficio e l’esito di esso, perde. Così a questo punto, sbollito l’impulso di ribellione che per un attimo gli aveva consentito di tener testa al capufficio, scialacquato il denaro, perduta l’occasione dell’avventura amorosa, sconfitto nella gara a braccio di ferro, egli, non più eroe, torna ad essere un uomo qualsiasi, una nullità. Quasi ad evidenziare questa situazione il narratore ora non lo chiama più Farrington, e nemmeno “the man” – indicazione che per lo meno lo separava dagli altri individui presenti sulla scena – ma, in un modo che tende invece a confonderne la figura, “a man”.

Farrington's dark wine−coloured face flushed darker still with anger and humiliation at having been defeated by such a stripling. `You're not to put the weight of your body behind it. Play fair,' he said. `Who's not playing fair?' said the other. `Come on again. The two best out of three.' The trial began again. The veins stood out on Farrington's forehead, and the pallor of Weathers' complexion changed to peony. Their hands and arms trembled under the stress. After a long struggle Weathers again

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J. Joyce, Ibidem

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brought his opponent's hand slowly on to the table. There was a murmur of applause from the spectators. The curate, who was standing beside the table, nodded his red head towards the victor and said with stupid familiarity: `Ah! that's the knack!' `What the hell do you know about it?' said Farrington fiercely, turning on the man. `What do you put in your gab for?' `Sh, sh!' said O'Halloran, observing the violent expression of Farrington's face. `Pony up, boys. We'll have just one little smahan more and then we'll be off.'1

L’inizio della terza scena del racconto, come quello della precedente, vede Farrington di nuovo solo con se stesso, e di nuovo costretto a uno spiacevole confronto con la verità: “He had done for himself in the office, pawned his watch, spent all his money; and he had not even got drunk”2. Rivelatrice, in queste sue riflessioni, è soprattutto l’ultima frase, che epifanicamente suggerisce come per lui l’alcol sia l’unica forma di escape quotidianamente a portata di mano, l’unica via di fuga da una desolazione che egli si ritrova di fronte quando, in preda ad una sorta di furia, rientra in casa e trova la cucina deserta, il fuoco quasi spento, la tavola non apparecchiata, la moglie assente (è andata in chiesa dopo averlo presumibilmente aspettato e aver cenato con i figli, ormai a letto). A very sullen−faced man stood at the corner of O'Connell Bridge waiting for the little Sandymount tram to take him home. He was full of smouldering anger and revengefulness. He felt humiliated and discontented; he did not even feel drunk; and he had only twopence in his pocket. He cursed everything. He had done for himself in the office, pawned his watch, spent all his money; and he had not even got drunk. He began to feel thirsty again and he longed to be back again in the hot, reeking ublic−house. He had lost his reputation as a strong man, having been defeated twice by a mere boy. His heart swelled with fury and, when he thought of the woman in the big hat who had brushed against him

and said Pardon! his fury nearly choked him.3 Farrington non si sofferma a pensare alle sue azioni o sul perché si senta scontento. Come risultato, la sua attività di routine diviene sempre più brutale. Quando perde due partite a braccio di ferro contro Weathers, un "semplice ragazzo", lui va a casa e “batte” suo figlio.

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J. Joyce, op. Cit., pp. 91-92 J. Joyce, op. Cit., p. 93 3 J. Joyce, op. Cit., pp. 92-93 2

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Ha un forte desiderio di vendetta, è sulla strada di casa, e sarà li che darà sfogo alla sua frustrazione. “and he had not even got drunk” lo dice più volte, non ha ottenuto l’escape che l’alcol gli offre dalla routine della vita, anche dalla routine domestica. Responsabile e insieme vittima di questo stato di cose, Farrington si trova in una situazione analoga a quella della moglie che, ci viene detto, “was a little sharpfaced woman who bullied her husband when he was sober and was bullied by him when he was drunk”1. Tra i coniugi c’è dunque un rapporto fondato sulla sopraffazione reciproca e sulla violenza, che, quando non si sfoga tra loro, finisce per riversarsi sui figli, vittime indifese. Ironicamente, qui è proprio il più sollecito a scendere incontro al padre ad esserne punito, in una scena dominata dall’ottusa brutalità di quest’ultimo, che non riconosce il bambino (“who are you? Charlie?” “no, pa. Tom.”), invisibile per lui così come egli stesso lo era stato per il capufficio, disposto a vedere in lui non una persona, ma solo una macchina.

He loathed returning to his home. When he went in by the side−door he found the kitchen empty and the kitchen fire nearly out. He bawled upstairs: `Ada! Ada!' His wife was a little sharp−faced woman who bullied her husband when he was sober and was bullied by him when he was drunk. They had five children. A little boy came running down the stairs. `Who is that?' Said the man, peering through the darkness. `Me, pa.' `Who are you? Charlie?'

`No, pa. Tom.'2 Passa la serata tra i pub, assente da casa, e poi si lamenta che la moglie è in chiesa, assente anche lei. In fuga verso la sua escape. Il rapporto di Farrington con i figli è un rapporto di sopraffazione e abuso. L'abuso che in altri racconti in Dubliners è velato, qui diventa esplicito in "Counterparts", e il tema emotivo della rabbia a vuoto contro tutto e tutti è alla base di ogni evento nella storia. La solerzia del figlio, l’unico che si sia alzato dal letto per servire il padre, viene ripagata con la violenza. Joyce usa aggettivi come “pesante”, “scuro” e “sporco” per descrivere Farrington, che è sopraffatto dalla frustrazione e 1 2

J. Joyce, op. Cit., p. 93 J. Joyce, ibidem

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dalla rabbia: nemmeno la disperata servitù e la devozione del figlio lo tocca, questo ci segnala che la spiritualità non riesce a salvare e proteggere. Bastonato da Farrington, il bambino, “seeing no way of escape”, proprio come Farrington, s’inginocchia davanti a lui ed implora pietà promettendo di dirgli un “Hail Mary”. Ma in tal modo, in realtà, egli mette implicitamente sotto accusa entrambi i genitori. Il richiamo alla Madre celeste evidenzia infatti la latitanza di quella terrena, che dovrebbe intercedere per il figlio ed evitargli un punizione ingiusta e lo ha invece lasciato alla mercé della violenza paterna. `Where's your mother?' `She's out at the chapel.' `That's right... Did she think of leaving any dinner for me?' `Yes, pa. I..' `Light the lamp. What do you mean by having the place in darkness? Are the other children in bed?' The man sat down heavily on one of the chairs while the little boy lit the lamp. He began to mimic his son's flat accent, saying half to himself: `At the chapel. At the chapel, if you please!' When the lamp was lit he banged his fist on the table and shouted: `What's for my dinner?' `I'm going... to cook it, pa,' said the little boy. The man jumped up furiously and pointed to the fire. `On that fire! You

let the fire out! By God, I'll teach you to do that again!'1 L’unica salvezza che vede il ragazzo sono le preghiere, la chiesa, in particolare la Madonna; ma come sempre è una finta via di fuga che non porta a niente, tantomeno alla salvezza, ne’ dell’anima ne’ del corpo. L’escape del figlio sono le preghiere. Ma si riveleranno inutili. Farrington è in grado di rendersi conto che le sue azioni sono di gran lunga peggiori della crudeltà del suo capo, ma va avanti lo stesso nella sua azione di violenza. He took a step to the door and seized the walking−stick which was standing behind it. `I'll teach you to let the fire out!' he said, rolling up his sleeve in order to give his arm free play. The little boy cried `O, pa!' and ran whimpering round the table, but the man followed him and caught him by the coat. The little boy looked about him wildly but, seeing no way of escape, fell upon his knees.

1

J. Joyce, op. Cit., p. 93

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`Now, you'll let the fire out the next time!' said the man, striking at him vigorously with the stick. `Take that, you little whelp!' The boy uttered a squeal of pain as the stick cut his thigh. He clasped his hands together in the air and his voice shook with fright. `O, pa!' he cried. `Don't beat me, pa! And I'll... I'll say a Hail Mary for you... I'll say a Hail Mary for you, pa, if you don't beat me... I'll say a

Hail Mary... '1 Quella che inizia come una giornata qualunque, perde il controllo in un ciclo di brutali abusi. Mentre gli altri personaggi della raccolta riconoscono la loro vita di routine, provano a lottare ma poi accettano passivamente il proprio destino, Farrington è ignaro e inesorabile. Il titolo, "Counterparts", si riferisce a una copia o duplicato di un documento legale, come quelli che fa Farrington, ma anche alle cose che sono simili o uguali tra loro, le azioni-reazioni della routine della vita di Farrington. Il pegno del suo orologio può simbolicamente liberalo dalle catene degli orari e delle esigenze di tempo, ma le frustrazioni del lavoro assumono forme nuove e più estreme al pub e in casa. Per Farrington, la vita si ripete: il lavoro è come il pub, è come a casa.

1

J. Joyce, op. Cit., p. 94

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V. John Fante: vita e produzione narrativa V.1. Biografia1 The Odyssey of a Wop, per usare il titolo di un racconto di John Fante, paradossalmente, inizia con una contraddizione perché i Fante non erano dei wop. Con wop, without papers, si intendevano gli immigrati senza documenti, in particolare gli italiani. Nicola (Nick) Fante, era arrivato negli States da Torricella Peligna, alla dogana di Ellis Island (il 6 Dicembre 1901) con un passaporto. Nick Fante, muratore violento, dongiovanni, spendaccione e spesso ubriaco, era il padre di John Fante. Primo di quattro fratelli, John Thomas Fante nasce l’8 aprile del 1909 a Denver, nel Colorado (USA), ma gran parte della sua infanzia la trascorse a Boulder, sempre in Colorado. Spesso Fante dichiarò, anche in documenti ufficiali, di essere nato nel 1910 o nel 1911. Italiani della prima generazione di immigrati in America, i genitori di Fante erano decisamente una coppia male assortita. Abruzzese di Torricella Peligna (Chieti), misero paesino appenninico molto simile alla Fontamara di Ignazio Silone, Nick Fante arrivò in America nel 1901. Maria (Mary) Capoluongo, figlia di un sarto di origini lucane, era nata invece a Chicago. Abile muratore, alcolista e giocatore impenitente, uomo violento e saturnino, Nick Fante avrebbe trovato la sua ambigua immortalità in molte pagine del figlio, a partire dai racconti giovanili pubblicati nei primi anni Trenta. In quell’epoca, forse solo un altro scrittore americano, l’Henry Roth di Call It Sleep, aveva investito con pari intensità le sue energie narrative sull’immagine del padre.

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Per la stesura del capito ho consultato le seguenti opere: E., Trevi, “John Fante: la vita, i libri”, in John Fante, Aspetta Primavera, Bandini, Torino, Einaudi, 2005; P., Di Vincenzo, “L'odissea terrena di John Fante”, il Centro, anno XVI, 25 ottobre 2001

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Nick Fante è lo Svevo Bandini del romanzo d’esordio, Wait Until Spring, Bandini. Alla sua figura, moltissimi anni dopo, Fante dedica il capolavoro della vecchiaia, The Brotherhood of the Grape, pubblicato nel 1977. Ugualmente intenso sul piano affettivo il rapporto con la madre, la cattolicissima e mite Mary Capoluongo, rapporto che però, nell’opera di Fante, ha lasciato meno tracce memorabili. Fante non vive un infanzia serena, spesso i genitori litigano e vengono alle mani. I motivi sono sempre gli stessi. Nick fa il muratore e spesso si trova senza lavoro, ma ciò non gli impedisce di bersi e giocarsi i pochi soldi che ha in tasca. Molti degli avvenimenti che hanno segnato la sua infanzia, come la violenza del padre, l’istruzione in scuole religiose (dalle suore prima e dai gesuiti poi), le difficoltà economiche, sono presenti nella maggior parte dei racconti che John scrive in seguito, oltre ad essere la fonte di ispirazione primaria per la costruzione del suo alter ego Arturo Bandini, protagonista dei suoi romanzi. Nel 1928 Fante, dopo essersi diplomato, senza brillare, al Regis High School di Denver, una scuola dei Gesuiti, si iscrive all’University of Colorado, ma presto abbandona gli studi e torna a vivere dai suoi a Boulder. Si dedica alla boxe e alle letture in biblioteca, dove scopre e apprezza molto H.L. Mencken, direttore dell’importante rivista American Mercury. Il 1930 è un anno decisivo per Fante, lascia Boulder, il freddo, un futuro da muratore (alle precarie dipendenze del bizzoso padre) per cercare fortuna altrove. Dopo un paio di settimane di viaggio con un amico, in autostop, approda a Los Angeles, dove si stabilisce temporaneamente a casa degli zii materni, a Wilmington. Los Angeles ispirerà profondamente, assieme ai suoi ricordi d’infanzia, tutta la sua opera e la sua esistenza. Qui saranno ambientati i libri della saga di Arturo Bandini, il più celebre alter-ego di Fante. Sua madre, la sorella Josephine e i fratelli si trasferiscono temporaneamente da lui dopo che Nick (come accade anche in Wait Until Spring, Bandini) aveva abbandonato la famiglia per un'altra donna. Svolge i più vari lavori: lavapiatti, fattorino d’albergo, e poi trova lavoro nel conservificio del pesce a Terminal Island che sarà descritto nel primo romanzo della saga Bandini, Road to Los Angeles,

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rimasto inedito fino al 1985 (Black Sparrow Press, Santa Barbara).

Di questo

periodo scrive nel racconto To Be a Monstrous Clever Fellow e nel romanzo pubblicato postumo Road to Los Angeles. Fante non sopporta più la situazione, ha un carattere aggressivo, è arrabbiato col mondo e se la prende con chiunque gli capiti a tiro. Inizia una corrispondenza con il suo eroe H. L. Mencken, che lo esorta ad insistere nella sua passione, la scrittura.1 Nel 1931 si iscrive nuovamente all’università, ma anche questa volta non combina molto. In compenso l’insegnante di lettere, Florence Carpenter è la prima a scoprire il suo talento. È così che inizia a scrivere i primi racconti. Vive prima con una donna più grande di lui, poi si trasferisce in una piccola stanza a Bunker Hill dove nel 1935 inizia a scrivere Road to Los Angeles che però viene più volte rifiutato dall’editore Knopf.

Manda una copia di Altar Boy a

Mencken, che gli risponde “Dear Mr. Fante, What do you have against a typewriter? If you transcribe this manuscript in type I'll be glad to buy it.”.2 Altar Boy è il primo di una serie di racconti che gli vengono pubblicati sulle riviste American Mercury e Atlantic Monthly. Spedisce a casa quasi tutti i soldi che il racconto gli ha fruttato ma non guadagna abbastanza per mantenersi, cerca così di sfruttare le sue conoscenza per introdursi ad Hollywood. In questo periodo conosce Ernest Pagano un italoamericano che scrive sceneggiature per Hollywood, diventa amico del fratello minore, Jo Pagano, anche lui scrittore, conosce William Saroyan e viene presentato a Ross Wills che lavora per la MGM e che lo introduce nel mondo di Hollywood. Questi, insieme allo scrittore e giornalista Carey McWilliams, saranno gli amici di tutta una vita: “buoni amici, cattive compagnie” come li definì Fante. Intraprende anche quel secondo mestiere di sceneggiatore per Hollywood con un contratto con la Warner Bros che gli fruttava 250$ alla settimana. Tra il 1935 e gli anni Sessanta, saranno più di una dozzina i film realizzati da soggetti e sceneggiature di Fante. In questi anni ha una relazione tempestosa con una ragazza di origini messicane, Marie Baray, dalla quale prenderà poi spunto per il personaggio di Camilla Lopez in Ask the Dust.

1

J., Fante, - H.L., Mencken, A Personal Correspondence 1930-1952, Santa Rosa, Ca., Black Sparrow Press, 1989 2 J., Fante, - H.L., Mencken, Op. Cit.

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Fante nel 1937, durante una visita alla famiglia, che nel frattempo si è riunita a Roseville, California, conosce una giovane poetessa, Joyce Smart, una ragazza bionda di buona famiglia di origini tedesco-irlandesi, e una delle prime donne laureate alla Stanford University. La famiglia Smart, costituita da ricchi proprietari terrieri anglosassoni, e in particolare la madre, non vedeva di buon occhio quel giovane “dall’aspetto così…italiano”. L’odio della madre ebbe l’effetto opposto sulla figlia. Fante e Joyce il 31 Luglio si sposano in segreto a Reno, Nevada. Fante continua a scrivere: The Road to Los Angeles, Pater doloroso, Wait Until Spring, Bandini e arrivano le prime pubblicazioni (e i primi soldi) anche dai romanzi. Nel 1938, dopo che molti editori avevano rifiutato The Road to Los Angeles, uscirà per la Stackpole Sons il suo primo romanzo, anch’esso dedicato a Bandini e alle memorie dell’infanzia in Colorado, Wait Until Spring, Bandini. Scelta abbastanza inconsueta nella scrittura di Fante, il romanzo di esordio è narrato in terza persona. Ma alla prima persona, e alle sue irresistibili intonazioni tragicomiche, Fante tornò nel 1939 pubblicando, sempre per Stackpole, Ask the Dust. L’impossibile storia d’amore del giovane e ambizioso Arturo Bandini e della cameriera messicana Camilla Lopez è l’argomento di questo romanzo che molti considerano il capolavoro di Fante, ed è sicuramente il suo libro più famoso. Il romanzo fu prontamente tradotto in italiano con il titolo Il Cammino nella Polvere (Mondadori, Milano, 1941), da Elio Vittorini, che aveva già inserito un racconto di Fante nella sua celebre antologia Americana. Nel 1940, a conclusione di un periodo di irripetibile fertilità creativa, escono i racconti di Dago Red, inediti o apparsi in rivista nel corso del decennio precedente, pubblicati questa volta dalla Viking Press di New York, definito da Time “forse la migliore raccolta dell’anno”. Nonostante l’ottima accoglienza riservata dalla critica a questi tre libri, dopo Dago Red si apre la prima grande eclissi della creatività di Fante. Nel 1941 incontra Orson Welles per il quale scrive due adattamenti per un progetto, It’s all true, sulla vita negli States e in Sud America. Una è la presunta storia dei suoi genitori. Un’altra riguarda la vicenda di un ragazzo messicano e del suo toro. In questo periodo Fante si dedica ad un progetto che considera decisivo per la sua carriera di scrittore. Si tratta di un romanzo sugli emigrati filippini della 57


California, The Little Brown Brothers, per il quale firma un contratto con Pascal Covici della Viking, il quale però, dopo aver letto alcune stesure del romanzo, rifiuta di pubblicarlo. Amareggiato, Fante rimane circa dieci anni senza scrivere un solo rigo di narrativa e, con grande frustrazione, si concentra quasi esclusivamente sul suo lavoro di sceneggiatore, che però non ama particolarmente. Questi sono gli anni in cui Fante vive una vita di eccessi, dedita al gioco d’azzardo, al golf e all’alcol. Il 31 gennaio 1942 nasce il primo figlio di Joyce e Fante: gli verrà dato il nome di Nicholas Joseph. Il 19 Febbraio 1944 arriva il secondogenito, Daniel. Le condizioni economiche della famiglia, grazie ai non esaltanti ma remunerativi lavori a Hollywood, consentirono l’acquisto di una casa più grande che si rivelò, però, invasa dalle termiti. Venne chiesto l’intervento del vecchio muratore Nick che sentenziò: fondamenta marce. Joyce, vera wasp (white anglosaxon protestant), cominciò ad avvicinarsi al cattolicesimo convincendo Fante a “tornare” alla sua religione. I Fante fecero il loro annuncio ad una festa a casa di Carey McWilliams in cui, tra gli invitati, c’era il candidato alla carica di governatore della California, un certo Bob Kennedy. Nel 1946 nacque la terza figlia, Victoria Mary ma quando nel 1950 Joyce scoprì di essere di nuovo incinta Fante non la prese bene. Un brutto periodo per la coppia. Ma da questa pessima situazione familiare scaturì un romanzo, Full of Life (Little, Brown & Co., Boston 1952), che si rivelò il più grande successo di Fante. La vicenda, molto autobiografica come gran parte della produzione dello scrittore di origini abruzzesi, racconta dell’arrivo di un figlio, di una moglie che si converte al cattolicesimo, di una casa infestata dalle termiti e di un padre muratore rompiscatole. Il libro fu un bestseller, e il suo successo indusse la Columbia Pictures a trarne un film (sceneggiato dallo stesso Fante) diretto nel 1956 da Richard Quine e interpretato dalla star del momento, Judy Holliday (premio Oscar 1950), Richard Conte e per la prima volta sullo schermo Salvatore Boccaloni, stella del Metropolitan Opera. La sceneggiatura ottenne la candidatura come miglior commedia dalla Writers Guild of America. Con i vantaggi economici ottenuti dalla trasposizione hollywoodiana acquista la famosa villa ad ipsilon a Point Dume, dove in seguito ambienta il racconto “My Dog Stupid”.

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Nel 1957 è in Italia e lavora come sceneggiatore insieme a Richard Quine per la sceneggiatura di un film, The Roses, il cui ruolo protagonista la Columbia vuole affidare a Jack Lemmon. Risiede a Napoli (nel lussuoso Hotel Vesuvio) per sette settimane. Ma il film non vedrà mai la luce. Fante, secondo le parole di Stephen Cooper, “trovò gli italiani civili, sofisticati, generosi, gentili, educati, gentiluomini ed estremamente coraggiosi”.1 Nel 1960 accetta, dopo tanta insistenza da parte del produttore italiano, un contratto con Dino De Laurentis. Rimane oltre due mesi nella Roma della Dolce vita e delle Olimpiadi. La sceneggiatura diventa un film dal titolo (italiano) Il re di Poggioreale. La regia è dell’abruzzese Duilio Coletti. Il protagonista è Ernest Borgnine. Il quell’occasione Fante fece un viaggio a Torricella Peligna, per vedere il paese da cui Nick era partito alla volta degli States. Ma rimase deluso dalle condizioni del paese, non scese nemmeno dall’auto e tornò indietro. Per tutti gli anni Settanta, tramite il giovane sceneggiatore Robert Towne (autore del Chinatown di Polanski) ci furono contatti continui con Francis Ford Coppola, interessato a The Brotherhood of the Grape per un film in cui il protagonista doveva essere Robert De Niro. Nel 1977 Coppola, in una pausa dalle riprese di Apocalipse Now, organizzò una festa per John Fante a casa sua. Alla cena partecipò anche Martin Sheen (protagonista di Apocalipse) e venne proiettato Full of Life. Ma nonostante i contatti del progetto non se ne fece nulla. Durante gli anni Sessanta, però, le storie di Fante avranno per protagonisti i membri della famiglia Molise. Appartengono a questo nuovo “ciclo”, meno organico di quello di Bandini ma non meno felice dal punto di vista stilistico e narrativo, sia 1933 Was a Bad Year, che rappresenta un ritorno alle memorie e alle atmosfere dell’infanzia in Colorado di Wait Until Spring, Bandini, sia My Dog Stupid, che invece potrebbe essere considerato una continuazione del filo autobiograficofamiliare di Full of Life: ma con molta più amarezza, sentimento della fine che incombe, senso della verità umana. Sembra incredibile che queste due autentiche gemme narrative, composte negli anni Sessanta, non abbiano trovato al loro tempo 1

P., Di Vincenzo, “L'odissea terrena di John Fante”, il Centro, anno XVI, 25 ottobre 2001

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un editore, e siano state pubblicate solo dopo la morte di Fante (entrambe da Black Sparrow, nel 1985 e nel 1986). E così come molti anni separavano Dago Red da Full of Life, un periodo di latitanza letteraria ancora più lungo si interpone tra Full of Life e il successivo romanzo pubblicato, The Brotherhood of the Grape, del 1977 (Houghton Mifflin Co., Boston), tardivo “monumento” alla memoria del padre Nick e ultima tappa della saga Molise. Ma il libro è un capolavoro, e i tempi sono ormai maturi per una riscoperta complessiva, in America e in Europa, dell’opera di Fante, ormai distrutto dalle conseguenze disastrose del diabete diagnosticatogli nel 1955 e mai curato con attenzione, che lo renderà cieco e costringerà i medici ad amputargli entrambe le gambe. Decisivo il ruolo giocato da Charles Bukowski, lo “scrittore maledetto”, in questa riscoperta. Egli dichiarerà di considerarlo “the best writer I've ever read”1 e “the narrator most cursed of America”, giunse anche a dichiarare “Fante was my God”. Bukowski gli chiede l’autorizzazione di ristampare Ask the Dust, per cui scrive un appassionata prefazione. E mentre Francis Ford Coppola, impegnato nelle riprese di Apocalypse Now, pensa ad un film ispirato dalla The Brotherhood of the Grape, la Black Sparrow Press, che pubblica Bukowski, inizia a interessarsi alla possibilità di ristampare i libri, ormai introvabili, di Fante. Soprattutto dopo la minaccia da parte di Bukowski all’editore di non consegnare il manoscritto del suo nuovo romanzo se non l’avesse ristampato. Afflitto dal diabete che lo rende cieco e disabile lo scrittore, approfittando di qualche mese di relativa stabilità della malattia, nel 1979, dettò a Joyce il quarto e ultimo capitolo della saga Bandini, Dreams from Bunker Hill (pubblicato dalla Black Sparrow nel 1982). Assistito fino all’ultimo da Joyce, Fante muore l’8 maggio del 1983 a 74 anni. Poche settimane prima, a febbraio, era uscito da Black Sparrow la ristampa del suo primo libro, Wait Until Spring, Bandini, con una breve nota dell’autore, che può essere considerata una specie di testamento: “[…] all of the people of my writing life, all of my characters are to be found in this early work. Nothing of myself is there any

1

C. Bukowski, Women, Santa Rosa, Ca., Black Sparrow Press, 1978

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more, only the memory of old bedrooms, and the sound of my mother’s slippers walking to the kitchen”.1 Negli anni successivi, oltre alla ripubblicazione dei romanzi ormai non più ristampati, la moglie Joyce provvede a far pubblicare quelli manoscritti lasciati nel cassetto, sia a causa del disinteresse delle case editrici, che per la volontà stessa dell’autore. Inizia così il grande interesse per lo scrittore italoamericano, che parla di gente povera, di sogni e ambizioni enormi, spesso frustrati, di cosa significhi essere figlio di immigrati. Egli ci presenta la sua vita in frammenti, così da poterla ricostruire quasi interamente assemblando i tasselli del puzzle che si rinvengono nei suoi romanzi. Nel 2009, l’anno del centenario della sua nascita, John Fante ottiene anche un riconoscimento accademico: la UCLA acquista tutti i suoi documenti, che includono i manoscritti originali e la corrispondenza. L’archivio fa parte della biblioteca Charles E. Young Research della nota università californiana.

1

J. Fante, Wait Until Spring, Bandini, Edinburg, Canongate, 1983

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V.2. Wait Until Spring, Bandini La saga Bandini: uno struggente ritratto familiare della letteratura americana. Le amare avventure di padre, madre e ragazzi Bandini. In Wait Until Spring, Bandini più che un protagonista singolare c’è un’intera povera famiglia italiana, alle prese con i gelidi inverni all’ombra delle Montagne Rocciose, i debiti con le drogherie e le bizze del capofamiglia. Wait Until Spring, Bandini era in libreria dall’Ottobre 1938, un anno dopo uscì Ask the Dust. Mentre Road to Los Angeles, primo romanzo della saga Bandini composto da John Fante fu scritto tra il 1934 e il 1936 ma fu pubblicato solo nel 1985 perché rifiutato dagli editori in quanto ritenuto scurrile e disorganico. Modellato sugli amatissimi libri di Knut Hamsun, la prima persona de Road to Los Angeles articolava una visione del mondo considerata troppo estrema per il pubblico dell’epoca. Cercò così un modo narrativo più accettabile, “addomesticato” per il suo esordio, riservandosi di tornare sui suoi temi preferiti una volta ottenuto un certo successo, e questo lo farà con Ask the Dust. Wait Until Spring, Bandini è composto in terza persona, un unicum nella sua carriera letteraria. Il solo punto di vista di Arturo non basta per la comprensione della storia, e per tutto l’ottavo capitolo passa a quello di Svevo Bandini, il capofamiglia, per poi tornare a quello di suo figlio, Arturo, fino alla conclusione. Questa sovrapposizione di prospettive ci fa conoscere molti più elementi della trama (altrimenti sarebbe impossibile, dal punto di vista di Arturo, anche solo immaginare come si sono svolte le cose tra Svevo e la vedova Hildegarde). Già nel suo primo romanzo Wait Until Spring, Bandini Fante getta le basi narrative di tutto il suo lavoro di romanziere che avrà come personaggio unico Arturo Bandini e come unica narrazione le sue avventure d’infanzia, i suoi ricordi, il suo matrimonio, il suo tentativo di scalare le vette del successo. Nelle sue pagine emerge la sua rabbia e l’ostinazione di essere riconosciuto e apprezzato come grande scrittore, la volontà incrollabile di non cedere a un esistenza mediocre. Al suo rapido successo contribuì probabilmente l’uso di una parlata quotidiana, il ricorso ad una

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certa chiassosa cordialità di sentimenti che questo italo-americano di seconda generazione trasferisce sulla carta, esprimendosi in prima persona con lo slang. Anche se non è mai esplicitamente Fante a parlare, solo dalle poche righe della biografia di copertina dei suoi romanzi si può intuire che Arturo Bandini è in realtà lo stesso Fante: un immigrato italiano di seconda generazione, figlio di un muratore pazzo, con al posto di una madre “a strange hybrid between a tiger and a nun”. La sua visione dell’America non è tanto come di una “terra promessa”, come poteva apparire al padre abruzzese che arrivava dalla povertà italiana, ma di una terra da conquistare. E seguendo questo sogno di conquista ha lasciato Denver, nel Colorado, per approdare nella mitica terra della California: molti mestieri, tante occupazioni occasionali e la speranza di diventare uno scrittore di successo. In Wait Until Spring, Bandini emergono due figure di uomo: lavoratore e padre. Simili nell’ostilità verso la società, verso il destino che gli è stato avverso, nella speranza verso il futuro, e nel pugno di ferro con cui tratta i figli. Svevo Bandini è il capofamiglia. È un italiano puro, di una stirpe contadina che si perde nella notte dei tempi. Nicola, o Nick, Fante, come Svevo Bandini, era un emigrante abruzzese. Approdato prima in Argentina, poi in Colorado, lui che detestava la neve, perché niente sole, niente lavoro. Nick Fante e Svevo Bandini erano maestri muratori. Nel racconto " Bricklayer in the Snow", il figlio di Nicola scrive: “They were mercilessly those winters of Colorado. My father was a bricklayer. Due to the snow, he could not work.”1 O sono parole di Arturo Bandini, il figlio di Svevo? Arturo, in "Wait Until Spring, Bandini" racconta: ”He was a bricklayer, and to him there was not a more sacred calling upon the face of the earth.” È il cantico e la celebrazione dell'arte. Di un mestiere d'emigrazione epico e antico, come quelli dello manovale e del contadino, dello spaccapietre, dello spazzacamino, dei minatori. Sulle tematiche dei suoi romanzi Fante era obbligato: la figura di suo padre è sempre stata molto forte e molto presente, gli era molto attaccato: “me le suonava di santa ragione un paio di volte la settimana e io lo rispettavo moltissimo”, dice Fante

1

J., Fante, “Bricklayer in the Snow” in J. Fante, Dago Red, Stackpole Sons, 1940, p.17

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rievocando le vecchie ‘virtù’ paterne in una lettera a Mencken.1 Questa figura sarà più volte raffigurata nei padri martiri, nei padri eroi, nei padri sconfitti delle vicende di Svevo Bandini e Nick Molise. Non poteva allontanarsi dal teatro di quella tragedia umana che era suo padre: lui che era andato in Colorado a fare il muratore ma non poteva lavorare perché nevicava; il Colorado, un territorio che in qualche modo richiamava il territorio d’origine del padre, cioè l’Abruzzo: montagne e clima ostile. Aveva una riconoscibilità che probabilmente non era casuale in un paese come l’America che offre qualsiasi possibilità, dal deserto alla spiagge caraibiche. Non sarà casuale che dall’Abruzzo suo padre si sia trasferito in Colorado. Ma tutta questa epopea, anche se fisicamente Fante se ne è allontanato molto giovane proprio andando a Los Angeles, ha un ingombro tale per lui che gli è difficile parlare d’altro. Fante ci dona immagini vivide della povertà materiale della famiglia italoamericana, e di come la mancanza di cibo, vestiti, acqua calda, possa diventare uno stimolo intellettuale e rendere la vita ricca di emozioni. Bandini è un “wop” (che deriva dal napoletano “guappo”) che, insieme a “dago” o al più elaborato “greaseball”, è uno dei numerosi, sprezzanti, nomignoli appioppati agli immigrati italiani dalla società americana fra le due guerre mondiali, in cui il famoso 'melting pot’ è individuabile per lo scontro e non certo per l'armonia delle differenze. Tutto concorre a identificare e a separare la comunità italo-americana: la povertà, sentita come una colpa grave, la religione cattolica, vissuta solo attraverso la forma dei riti, le usanze e le tradizioni trapiantate dall'Italia, le abitudini alimentari stesse. I personaggi di Fante, non sembrano abbandonare mai il mondo etnico originale, muovendosi costantemente in un ambiente culturale sempre connesso ad una ricca tradizione orale, e il risultato è un allontanamento linguistico dalla narrativa classica.

1

J., Fante – H.L., Mencken, A Personal Correspondence 1930-1952, Santa Rosa, Ca, Black Sparrow Press, 1989, p.57

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L’ambiente degli italo-americani è descritto con ironia, complicità e nello stesso tempo con cattiveria, con beffardo disprezzo, “con giovanile vitalità e acuto umorismo”1 recita la nota di redazione di Elio Vittorini nell’edizione del 1948. Lo sforzo multirazziale e multi linguistico volto all’edificazione della nuova narrativa americana post-depressione nasce anche da qui: dalle sacche di povertà e miseria delle comunità di immigrati che trovano per la prima volta la loro voce nel Nuovo Mondo. Nei romanzi di John Fante le sue origini italiane sono esplicite e ingombranti: un padre macho che pensa solo a bere e a giocare con gli amici (“I remembered my father in Colorado, singing 'O sole mio shaving in the kitchen sink …”2); una madre devota che prega ogni razza di Vergini e Madonne, un ambiente famigliare di preti e parenti che si agitano davanti a un piatto di spaghetti; scuole cattoliche, collegi di Gesuiti, parolacce e bestemmie rigorosamente in italiano nel testo. John - Arturo è schiacciato fra due mondi: quello importato e mai abbandonato dai genitori e quello nuovo, quello americano che si mostra in tutte le sue potenziali opportunità. L’italianità di John Fante, o quantomeno la soggettività etnica della sua narrativa, hanno contribuito a confinarlo, nell’antologia Histories of North American Literature, in un luogo marginale insieme ai narratori di origine norvegese, greca, ispano-americana, armena. Molte antologie addirittura non lo nominano. Nel suo paese d’origine, l’opera di Fante non è stata sufficientemente considerata. Elio Vittorini, inserendo il breve racconto “Una famiglia neo americana” nel secondo volume della sua antologia Americana del 1941, colloca Fante tra i giovani talenti come Erskine Caldwell e William Saroyan: “the new generation”, quella che sentiva il bisogno di appartenere alla sua nazione, alla sua America; ma sentiva anche il bisogno di preservare la cultura dei suoi antenati. John Fante, come Di Donato e Mangione, è un italo-americano di seconda generazione. Cresciuto istituzionalmente e culturalmente in una comunità italiana in 1

E., Vittorini, Americana: raccolta di narratori dalle origini ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 1941 2 J. Fante, Dreams From Bunker Hill, Santa Rosa, Ca., Black Sparrow Press, 1982, p.130

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America all’inizio del secolo, parla un italiano-abruzzese per tutta la sua infanzia e durante gli anni di scuola finché decide, mentre è ancora molto giovane, di trasferirsi a Los Angeles. Ovviamente questo linguaggio influenzerà, come fu per altri scrittori italo-americani, in parte perché stimola la sua vitalità creativa, ma soprattutto perché esso è radicato nel suo modo di essere e pensare. Il lessico di questi scrittori è molto ricco di vocaboli nuovi che producono particolari associazioni di pensiero; inoltre, le costruzioni sintattiche spesso non seguono le regole della lingua anglo-americana, ma della lingua del gruppo etnico a cui l'autore appartiene; spesso una lingua orale, e il più delle volte un dialetto. Questa realtà linguistica, comune a tutti gli scrittori italo-americani, ha sicuramente prodotto degli effetti, e in alcuni casi ha ritardato la loro assimilazione della cultura ospite. Questa nuova generazione di scrittori, nata in America, è al confine tra due culture, è portata a preservare la cultura dei suoi antenati, ma cerca anche il proprio posto nella sua nuova nazione, l’America. Arturo Bandini (e quindi John Fante) assorbono dall'universo americano ciò che si salderà alla cultura originaria e familiare e, al contempo, sognano i sogni dell'Uomo Nuovo americano. Nasce e si sviluppa una memoria biculturale: l'italiana alimentata da Nicola e Maria Fante (o da Svevo e Maria Bandini e dalle decine di altri italians delle comunità d'emigrati), assimilata giorno dopo giorno, sin dalla nascita; della cultura americana si imbeve nella strada polverosa, nella scuola parrocchiale, nei negozi, leggendo le cronache di baseball, al cinema, nei quattro anni al Regis College dei gesuiti a Denver, nell'Alta Vista Hotel a Bunker Hill. L’unione tra la cultura italiana e quella americana, produrrà un Uomo Nuovo che crede nella Cultura Nuova. L'amalgama perfetta tra le due culture si raggiunge nel momento in cui si prende possesso della lingua acquisita, se ne controllano le chiavi, la storia, i processi e i misteri, e innestandosi, saldandosi e sviluppandosi nella cultura autoctona da origine a una nuova lingua. Il possesso della lingua del nuovo Paese è conquista e liberazione. L'acquisizione della lingua, con i suoi misteri, permette di penetrare una società multiculturale, dove le diversità delle culture saranno elementi necessari per una nuova identità personale e sociale. È facile vedere nel Nick de The Brotherhood of the Grape, un ritratto biografico del padre di Fante, è importante apprezzare lui come il prototipo del padre italiano-americano di prima generazione: operaio vecchia maniera, un sopravvissuto

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del sogno americano che trascorre la maggior parte del tempo con i suoi vecchi compaesani, impegnati nel rituale quotidiano di passarsi una grande bottiglia di vino. In quei momenti lui ei suoi amici cercano di portare un senso alla battaglia della loro vita, quella dello straniero in una terra fredda, ostile, che gli nega l’opportunità di realizzare i loro sogni. Mentre si snoda la storia di Nick Molise, Svevo Bandini, Nick Fante e dei loro amici, la loro diaspora appare di enormi proporzioni, considerando i milioni di uomini che sono chiamati a rappresentare. Il disincanto del sogno americano si può chiaramente leggere nei loro volti stanchi ed è testimoniato nei loro discorsi. Tutti hanno visto la speranza di ritornare al loro luogo di nascita andare in frantumi, conquistando al contempo la consapevolezza che la terra promessa gli ha dato poco più di un posto di lavoro e di un posto dove invecchiare. Noi sperimentiamo la loro tristezza, ed è una tristezza lievitata con orgoglio e amarezza, libera da qualsiasi bordo cinico. Sono stati doppiamente sconfitti, da un lato dal non poter fare un ritorno trionfale in Italia, dall’altro dal non riuscire a raggiungere il sogno americano e ad ottenere quello che alcune persone percepiscono come il vero successo nel Nuovo Mondo. Bandini, Molise o Fante che sia, è anche un padre, e anche se non sembra capire i suoi figli, forse loro hanno cominciato a capire lui. È il messaggio speciale di questo romanzo che arriva ad un certo punto nella vita dei discendenti di seconda generazione, nel momento in cui hanno bisogno di ristabilire il contatto con quella figura genitoriale del vecchio mondo da cui loro, a lungo, hanno cercato di scappare. Nel 1938 un capitolo del libro raggiunge l’Italia pubblicato su “Omnibus”, la rivista di Leo Longanesi. È la prima volta che un testo di Giovanni Fante (come viene chiamato all’epoca in ossequio alle norme fasciste) raggiunge i lettori della sua madre patria. La traduzione completa si avrà solo nel 1948 a cura della Mondadori. Ma John Fante è divenuto a noi noto grazie alla raccolta Italoamericana di Francesco Durante, che accoglie il corpo centrale della produzione letteraria originata proprio dalle Little Italy: una produzione sistematicamente ignorata – se non

apertamente

deplorata

in

quanto

anacronistica,

dilettantesca,

e

insopportabilmente “selvatica” – dalla nostra società letteraria, e che tuttavia

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rappresenta il luogo in cui la cultura italiana di partenza, ancorché a un livello in genere popolare o semicolto, si contamina con quella americana d’arrivo costruendo un universo imprevedibilmente nuovo; nonché il momento di passaggio, o, per meglio dire, il necessario anello di congiunzione tra l’esperienza dei padri giunti in America armati del solo bagaglio culturale d’origine e quella dei figli che, appena una o due generazioni più tardi, ne avrebbero narrato direttamente in inglese la commovente leggenda. Scrittori e letterati furono quindi l’anello di congiunzione tra il momento della grande emigrazione e il momento della stabilizzazione, imparando la lingua e scrivendo delle loro esperienze, dei ricordi della patria lontana. Incitati anche dalle riviste letterarie che prevedevano compensi per le collaborazioni, e ciò spinse tanti a provarci. Il non successo di Fante fu dovuto al fatto che il mercato editoriale americano non era molto più vasto del mercato dei paesi europei, soprattutto perché gran parte del pubblico americano non è interessato alla letteratura contemporanea, quella che comunque sta fuori dalle scuole e dagli insegnamenti universitari. Però è indubbio che almeno per quello che riguarda la narrativa, l’America abbia continuato a offrire un’altissima produzione dopo la guerra, a differenza dell’Europa, dove la narrativa è stata un po’ trascurata. Probabilmente quello americano è stato un problema di abbondanza: una costante disponibilità di denaro e di scrittori ha fatto si che in America non mancassero mai scrittori, e di conseguenza, non sono mai mancati in America scrittori meno fortunati da un punto di vista editoriale che, come John Fante, sono stati trascurati. È improbabile che lettori e critici americani non fossero in grado di capire la grandezza di John Fante, il suo problema è che in America è sempre stato confinato nella letteratura etnica, perché italoamericano e quindi veniva letto e studiato soltanto dagli appassionati di questo specifico genere, appunto etnico. Si può dire che fino agli anni Ottanta del Novecento gli autori italoamericani nessuno li leggesse, né in Italia né in America. Oggi la situazione è molto mutata: grandi e sorprendenti studi, negli ultimi venti anni, hanno portato a una rivalutazione dell’opera degli scrittori italoamericani di seconda generazione – da John Fante a

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Mario Puzo – e a una ricerca del retroterra culturale, se non propriamente letterario, da cui quei libri traevano la loro linfa vitale.

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VI. Svevo Bandini: una figura paterna lacerata tra Italia e Stati Uniti VI.1. L’ambiente e il personaggio He came along, kicking the deep snow. Here was a disgusted man. His name was Svevo Bandini, and he lived three blocks down that street. He was cold and there were holes in his shoes. That morning he had patched the holes on the inside with pieces of cardboard from a macaroni box. The macaroni in that box was not paid for. He had thought of that as he placed the cardboard inside of his shoes. He hated the snow. He was a bricklayer, and the snow froze the mortar between the brick he laid.1

Così inizia Wait Until Spring, Bandini, e così ci viene presentato Svevo Bandini, il capofamiglia, personaggio complesso e allo stesso tempo stereotipo dell’immigrato italiano. Rivela la sua italianità nel fisico robusto e muscoloso, nei suoi baffi e nei suoi “soft brown eyes”, profondi occhi italiani ereditati dalla madre, la prima caratteristica fisica che viene descritta: Svevo Bandini’s eyes watered in the cold air. They were brown, they were soft, they were a woman’s eyes. At birth he had stolen them from his mother […]2

Alto di statura, aveva muscoli guizzanti, era uno che lavorava duro, e il suo fisico lo dimostrava: A hundred and fifty pounds was the weight of Svevo Bandini, and he had a son named Arturo who loved to touch his round shoulders and feel for the snake inside. He was a fine man, Svevo Bandini, all muscles, and he had wife named Maria who had only to think of the muscles in his loins and her body and her mind melted like the spring snows.3

1

J. Fante, Wait Until Spring, Bandini, Edinburg, Canongate, 1938 [1999], p.1 J. Fante, Op. cit., p.2 3 J. Fante, Ibidem 2

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Svevo Bandini, come John Fante continuamente lo chiama dando l’impressione con quest’uso insistente del nome e del cognome di voler rimarcare anche in questo la sua italianità, è un vero uomo; anche le più piccole azioni trovano una giustificazione nel suo essere uomo. Egli non può indossare mutandoni di lana così come non può accendere la stufa perché questa è roba da donne “oh no, he never built a fire in the kitchen stove. What wash e – a woman, that he should build a fire?”1 Gli spetta invece di alzarsi presto a spalare la neve, di ubriacarsi, di bestemmiare, addirittura in due lingue, di educare con polso e severità i suoi figli e di procurare i soldi per sfamare la famiglia e per saldare, ogni tanto, i numerosi debiti. È un uomo, ed è italiano, quindi canta canzoni napoletane quando si fa la barba ed è chiassoso come tutti gli italiani, incapace di esprimersi se non urlando, tanto che il vicinato sa tutto della famiglia Bandini come dirà suo figlio Arturo: Why did his father yell all the time? Couldn’t he talk in a low voice? Everybody in the neighborhood knew everything that went on in their house on account of his father costantly shouting. The Moreys next door – you never heard a peep out of them, never; quiet, American people. But his father wasn’t satisfied with being an Italian, he had to be a noisy Italian.2

Arturo è molto critico verso “quegli italiani” che aveva attorno. Lui che avrebbe preferito chiamarsi John Jones, essere figlio di americani, abitare a Denver e fare il lanciatore per i Chicago Cubs. What kind of people were these wops? Look at his father, there. Look at him smashing eggs with his fork to show how angry he was. Look at the egg yellow on his father’s chin! And on his mustache. Oh sure, he was a dago wop, so he had to have a mustache, but he did have to pour those eggs through his ears? Couldn’t he find his mouth? Oh God, these Italians!3

La caratteristica dell’ostentata mimica italiana è molto presente ed è descritta in modo vivido: He put down his napkin with a bang. He clinched his teeth and seized the hair on his head with both hands. There he swayed in his chair, back and forth, back and forth.4 1

J. Fante, Op. cit., p.14 J. Fante, Op. cit., p.21 3 J. Fante, Op. cit., p.22 4 J. Fante, Op. cit., p.23 2

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La religione è un’altra peculiarità del popolo italiano, ma per Svevo Bandini le bestemmie erano all’ordine del giorno. To use the name of Christ carelessly was like slapping Maria across the mouth. When she married Bandini it had not occurred to her that he swore. She never quite got used to it. But Bandini swore at everything. The first English words he learned were God damn it. He was very proud of his swear words. When he was furious he always relieved himself in two languages.1

Svevo è fiero della sua italianità, anche se si proclama un americano a tutti gli effetti; lui però è un italiano che non conosce l’Italia: quando parla con la vedova Hildegarde i luoghi e i personaggi di cui lei gli chiede o non li conosce o li ha solo sentiti nominare poiché ha iniziato a lavorare da ragazzino e non aveva tempo per queste cose: So he was an Italian? Splendid. Only last year she had traveled in Italy. Beautiful. He must be so proud of his heritage. Did he know that the cradle of western civilization was Italy? Had he ever seen the Campo Santo, the Cathedral of St Peter’s, the paintings of Michelangelo, the blue Mediterranean? The Italian Riviera? No, he had seen none of these. In simple words he told her that he was from Abruzzi, that he had never been that far north, never to Rome. He had worked hard as a boy. There had been no time for anything else.2

Risulta così che la vedova Hildegarde ha visto molte più cose e ne sa più di lui sull’Italia, ma per chi deve lavorare per campare queste cose non contano molto. Abruzzi! The Widow knew everything. Then surely he had read the works of D’Annunzio – he, too, was an Abruzzian. No, he had not read D’Annunzio. He had heard of him, but he had never read him.3

Un momento epifanico del romanzo è quando Svevo mette le scarpe nuove regalategli dalla vedova, toglie le sue scarpe vecchie ma ha i calzini bucati. Quasi a simboleggiare che fuori è rimesso a nuovo ma dentro rimane il poveraccio di sempre. […] he bent over to unlace his old soggy shoes. The right shoe came off with a sucking sound, exposing a gray sock with holes in the toes, the big toe red and naked.4 1

. Fante, Op. cit., pp. 22-23 J. Fante, Op. cit., p.137 3 J. Fante, Ibidem 4 J. Fante, Op. cit., p.152 2

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A contrastare la solitudine che Svevo sente in casa, non compreso dalla moglie, vi è l’amicizia con il suo compaesano, Rocco, un vero amico per lui Arturo understood his mother’s hatred for Rocco. Maria was so afraid of him, so revolted when he came near. Her hatred of his lifelong friendship with Bandini was tireless. They had been boys together in Abruzzi. In the early days before her marriage they had known women together, and when Rocco came to the house, he and Svevo had a way of drinking and laughing together without speaking, of muttering provincial Italian dialect and then laughing uproariously, a violent language of grunts and memories, teeming with implication, yet meaningless and always of a world in which she had never belonged and could never belong.1

Sono amici, sono paesani e sono complici. La loro complicità è espressa dal modo in cui parlano, ovvero in italiano, per raccontare “certe cose” No one knew save his friend Rocco Saccone. Rocco was happy for him, lending his shirts and ties, throwing open his big wardrobe of suits, lying in the darkness before sleep, he would wait for Bandini’s account of the day. Concerning other matters, they spoke in English, but of the Widow it was always Italian, whispered and secretive.2

1 2

J. Fante, Op. cit., p.29 J. Fante, Op. cit., p.159

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VI.2. Aspettative e realizzazione di sé Nei romanzi di John Fante ha altri nomi: Svevo Bandini, Nick Fante, Nick Molise e nei racconti di Dago Red il padre di Fante si chiama Guido Toscana. “Padre di Fante” è però un espressione di comodo, non è mai il vero padre nemmeno quando si chiama, proprio come nella realtà, Nick Fante (questo succede in Full of Life); c’è invece un personaggio in continua evoluzione, di straordinaria fattura, la cui prima messa a fuoco è proprio nei racconti di Dago Red, nella veste di Guido Toscana, dove fa cose mirabilmente abiette come in A Wife for Dino Rossi o anima il teatrino familiare con le sue angherie di piccolo tiranno domestico, originario di Torricella Peligna e fan di Mussolini, come in Bricklayer in the Snow. Questa grandezza del muratore beone, giocatore e donnaiolo, è di natura creativa. In Full of Life si dice di Nick Fante che non era un genio ma aveva le qualità del genio. E sicuramente l’altra incarnazione del personaggio del padre, Nick Molise come appare in La confraternita dell’uva, sa dire cose della sua arte di muratore che possono andare bene anche per una partitura musicale, per un racconto, per un romanzo, per qualsiasi prodotto d’arte: “Look at that stone, those steps. Come down like water”1. È un dago, un wop, che ogni giorno deve combattere la sua personale battaglia per la sopravvivenza contro l’ostilità del nuovo paese che continuamente manifesta il suo disprezzo verso gli italiani. La concretizzazione della sfida, irrimediabilmente persa, contro il destino e la società è la casa di Svevo Bandini, ostile anch’essa, indipendente, impossibile da possedere, testimone e prova del suo fallimento: The house was not paid for. It was his enemy, that house. It had a voice, and it was always talking to him, parrot-like, forever chattering the same thing. Whenever his feet made the porch floor creak, the house said insolently: you do not own me, Svevo Bandini, and I will never belong to you.2

1

J., Fante, The Brotherhood of the Grape, Santa Rosa, Ca., Black Sparrow Press, 1977 [1988], p.30 2 J. Fante, Wait Until Spring, Bandini, Edinburg, Canongate, 1938 [1999], p.4

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Il romanzo inizia con la descrizione di Svevo, della sua miseria, espressa dalle scarpe rattoppate col cartone della scatola della pasta, pasta presa a credito, ma che non poteva mancare sulla tavola di un italiano. Subito dopo la pasta a credito parla del vizio del gioco. Prendeva la pasta a credito ma sperperava i suoi soldi alla bisca locale, Svevo ci viene presentato così: un incosciente che non fa nulla per migliorare la sua posizione, aspetta il colpo di fortuna che gli migliorerà la vita. But the grocery bill harassed him. Owing Mr Craik a hundred dollars, he paid fifty – if he had it. Owing two hundred, he paid seventy-five – if he had it. So it was with all the debts of Svevo Bandini. There was no mystery about them. There were no hidden motives, no desire to cheat in their non-payment. No budget could solve them. No planned economy could alter them. It was very simple: the Bandini family used up more money than he earned. He knew his only escape lay in a streak of good luck.1

Abbiamo così un vivido scorcio della vita di una povera famiglia di immigrati il cui sogno americano si è infranto. Dio cane, Dio cane. It means God is a dog, and Svevo Bandini was saying it to the snow. Why did Svevo lose ten dollars in a poker game tonight at the imperial Poolhall? He was such a poor man, and he had three children, and the macaroni was not paid, nor was the house in which the three children and the macaroni were kept. God is a dog.2

Svevo non è soddisfatto della propria vita, ma non fa granché per migliorarla se non tentare la fortuna all’Imperial Poolhall. Questa sua frustrazione si trasforma in rabbia latente, che ribolle dentro di lui. Inoltre la vita sembra accanirsi con Svevo: As he turned into the yard on his house that was not paid for, his feet suddenly raced for the tops of the trees, and he was lying on his back, and Arturo’s sled was still in motion, sliding into a clump of snow-weary lilac bushes. Dio cane! He had told that boy, that little bastard, to keep his sled out of the front walk. Svevo Bandini felt the snow’s cold attacking his hands like frantic ants. He got to his feet, raised his eyes to the sky, shook his fist at God, and nearly collapsed with fury. That Arturo. That little bastard! He dragged the sled from beneath the lilac bush and with systematic fiendishness tore the runners off. Only when the destruction was complete did he remember that the sled cost seven-fifty. He stood brushing the snow from his clothes, that strange hot feeling in his ankles,

1 2

J. Fante, Op. cit., p.70 J. Fante, Op. cit., p.2

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where the snow had entered from the tops of his shoes. Seven dollars and fifty cents torn in pieces. Diavolo!1

È un impulsivo Svevo, prima rompe la slitta, poi pensa ai 7 dollari e si pente della sua azione. Dimostra costantemente la sua irascibilità. Se la prende con la slitta, con la casa, e pure con le stringhe delle scarpe. God in heaven! Sweet Mother Mary! Wasn’t that just like a woman? Get mad? What was there to get mad about? Oh God, he felt like smashing his fist through that window! He gnawed with his fingernails at the knot of his shoe laces. Shoe laces! Why did there have to be shoe laces? Unnh. Unnh. Unnh.2

Anche la casa ce l’ha contro di lui, ogni suo scricchiolio ricorda a Svevo che non la possiede, che ancora non è riuscito a pagarla, a farla sua. Nella cultura italiano di allora, e di oggi, il possesso della casa era un segno di stabilità, di radici, un segno di affermazione nella vita. Whenever his feet made the porch floor creak, the house said insolently: you do not own me, Svevo Bandini, and I will never belong to you. Whenever he touched the front doorknob it was the same. For fifteen years that house had heckled him and exasperated him with its idiotic independence. There were times when he wanted to set dynamite under it, and blow it to pieces. Once it had been a challenge, that house so like a woman, taunting him to possess her. But in thirteen years he had wearied and weakened, and the house had gained in its arrogance. Svevo Bandini no longer cared.3

È un controsenso vivente. È fiero delle sue origini, ma non si considera più un italiano, nonostante si comporti da italiano puro e non ha preso nulla di americano nel suo comportamento. He, for example, was a pure Italian, of peasant stock that went back deeply into the generations. Yet he, now that he had citizenship papers, never regarded himself as a Italian. No, he was an American; sometimes sentiment buzzed in his head and he liked to yell his pride of heritage; but for all sensible purpose he was an American, […]4

Nemmeno le abitudini alimentari. A lunch of lettuce leaves, pineapple and cottage cheese. Seated in the breakfast nook, a pink napkin across his knees, he ate with a suspicion 1

J. Fante, Op. cit., p.4 J. Fante, Op. cit., p.6 3 J. Fante, Op. cit., p.4 4 J. Fante, Op. cit., p.52 2

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that it was a joke, that the Widow was making of him. […] If Maria had server him such food, he would have thrown it out the window.1

E non abbandona nemmeno i rimedi della nonna, le superstizioni di paese che si porta ancora dietro: ad esempio l’aglio come panacea per tutti i mali. Qua possiamo anche vedere la contrapposizione della visione di Svevo e di Maria: per la pia moglie a guarire dai mali ci pensa Dio grazie alle preghiere, per Svevo è tutto merito dell’aglio, rimedio per tutti i mali. […] that was the year he had almost died of influenza and pneumonia; that was the winter when he had rised from a death bed, delirious with fever, disgusted with pills and syrups, and staggered to the pantry, choked down his throat a half dozen garlic bulbs, and returned to bed to sweat it out with death. Maria believed her prayers had cured him, and thereafter his religion of cures was garlic, but Maria maintained that garlic came from God, and that was too pointless for Svevo Bandini to dispute.2

Svevo era un uomo forte, ma anche lui soffriva: di solitudine, di amarezza, di insoddisfazione. E se la prendeva con Maria o con Dio. Se la prende per avere una moglie devota e pia, ma la verità è che gli rode aver perso a carte. He too had cold – in his soul. His son Federico could have a snivel and Maria would rub menthol on his chest, and lie there half the night talking about it, but Svevo Bandini suffered alone – not with an aching body: worse, with an aching soul. Where upon the earth was the pain greater that in your own soul? Did Maria help him? Did she ever ask him if he suffered from the hard times? Did she ever say, Svevo, my beloved, how is your soul these days? Are you happy, Svevo? Is there any chance for work this winter, Svevo? Dio maledetto!

[…] There she was, always wanting to know if he was warn enough. […] a wife like a ghost, always content in her little half of the bed, saying the rosary and praying for a merry Christmas. Was it any wonder that he couldn’t pay for this house, this madhouse occupied by a wife who was a religious fanatic? A man needed a wife to goad him on, inspire him, and make him work hard. But Maria? Ah, povera America! […] How could a man get sleep in this house, always in a turmoil, his wife always getting out of bed without a word? Goddamn the Imperial Poolhall! A full house, queens on deuces, and he had lost. Madonna!3

1

J. Fante, Op. cit., p.140 J. Fante, Op. cit., p.6 3 J. Fante, Op. cit., p.11 2

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Che Svevo è una persona sensibile lo vediamo anche quando piange. È un macho, ma sa piangere. Ad esempio piange quando riceve il regalo dalla vedova Hildegarde: per gioia, per imbarazzo, per rabbia The gift was a pair of shoes. She held them out, a shoe in each hand, and watched the play of flame in his seething eyes. He could not bear it. His mouth formed a twist of incredulous torture, that she should know he needed shoes. He made grunts of protest, he swayed in the divan, he ran his gnarled fingers through his hair, he panted through a difficult smile, and then his hair, he panted through a difficult smile, and then his eyes disappeared into a pool of tears.1

Piange quando Maria lo scaccia di casa. Piange per il dolore, per l’umiliazione, perché è costretto a tornare al peccato. Lui avrebbe preferito passare il Natale con i figli. Ha un grande senso della famiglia. Bandini sobbed – a grown man, forty-two years old, weeping because it was Christmas Eve and he was returning to his sin, because he would rather be with his children.2

La distanza che la seconda generazione vuol prendere dalle sue origini è rispecchiata anche nel rifiuto che hanno per le storie da ragazzo del padre, storie che lui racconta con orgoglio, storie che lo trasportavano indietro nel tempo lontano dalle tribolazioni. ‘When I was a boy,’ Bandini began. ‘When I was a boy back in the Old Country-‘ At once Federico and Arturo left the table. This was old stuff to them. They knew he was going to tell them for the ten thousandth time that he made four cents a day carrying stone on his back, when he was a boy, back in the Old Country, carrying stone on his back, when he was a boy. The story hypnotized Svevo Bandini. It was dream stuff that suffocated and blurred Helmer the banker, holes in his shoes, a house that was not paid for, and children that must be fed. When I was a boy: dream stuff. The progression of years, the crossing of an ocean, the accumulation of mouths to feed, the heaping of trouble upon trouble, year upon year, was something to boast about too, like the gathering of great wealth.3

La riconciliazione con questo retaggio culturale avviene solo alla fine del romanzo, quando Arturo sale sulla collina per riprendersi il padre.

1

J. Fante, Op. cit., p.151 J. Fante, Op. cit., p.133 3 J. Fante, Op. cit., p.25 2

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Mantenere le promesse non è il suo forte, come la promessa di installare una vasca nel bagno: For more than fourteen years Svevo Bandini had reiterated his promise to install a bathtub. Maria could remember the first day she walked into that house with him. When he showed her what he flatteringly termed the bathroom, he had quickly added that next week he would have a bathtub installed. After fourteen years he was still affirming it that way. ‘Next week,’ he would say, ’I’ll see about that bathtub.’ The promise had become family folklore. The boys enjoyed it. Year after year Federico or Arturo asked, ‘Papa, when we gonna have bathtub?’ and Bandini would answer in profound determination, ‘Next week,’ or ‘the first of the week.’1

Quando poi i ragazzi scoppiavano a ridere di fronte a quel luogo comune, lui li fulminava con lo sguardo, imponeva il silenzio e gridava: “What the hell’s so funny?” Il disinteresse per la chiesa e la religione che Svevo dimostra è tipico degli uomini italiani di quella classe sociale. Ancora oggi nei paesi non è raro vedere la domenica all’ora della messa gli uomini che aspettano le donne fuori della chiesa. La religione è considerata una specie di svago per donne. Così anche per Svevo Bandini, si va in chiesa solo nelle grandi occasioni come Natale o Pasqua. Dimostra di avere una sua visione della religione, o forse è solo una scusa per non andare in chiesa: His father only went to Mass on Christmas morning, and sometimes on Easter Sunday. Lie or not, it pleased him that his father scorned the Mass. He did not know why, but it pleased him. He remembered that argument of his father’s. Svevo had said, if God is everywhere, why do I have to go to church on Sunday? Why can’t I go down to the Imperial Poolhall? Insn’t God down there, too?2

Per Svevo Bandini, al contrario della pia moglie Maria, non c’è alcun orgoglio nell’avere un figlio prete, per lui non rappresenta alcuna forma di riscatto sociale perché lui non ne ha bisogno, pur essendo solo un muratore. Un prete non è un uomo vero, non fa un lavoro vero, come per esempio il muratore. Ha si il potere della cultura ma per Svevo non rappresenta niente di veramente utile. 1 2

J. Fante, Op. cit., p.44 J. Fante, Op. cit., p.36

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Svevo è convinto che la fissazione di August, fervente cattolico come la madre, verso la religione, che forse lo porterà a prendere i voti un giorno, prima o poi passerà, o comunque gliela farà passare lui. With Bandini it was different. August was very pious and desired to become a priest – si. But chi copro! What the hell, he would get over that. […] August wanted to be priest; oh, he would get over that. He would grow up and forget all about it. He would grow up and be a man, Svevo Bandini, would knock his goddamn block off.1

Tutti questi atteggiamenti, il disinteresse di Svevo per la chiesa, la paura di Arturo per la sua anima peccatrice, l’ossessione di Maria per la religione, non sono altro che le sfaccettature di una tipica educazione italiana impregnata di cattolicesimo. Il contrasto tra i vari personaggi è stridente: la differenza nel loro concetto di religione è la differenza tra l’Italia contadina e l’America moderna. Svevo, in casa della vedova Hildegarde, si sente a disagio perché si sente fuori posto in quell’ambiente che rappresenta l’alta società, un ambiente con cui lui non ha mai avuto a che fare, così lontano dalla sua vita quotidiana. Si sente inadeguato davanti alla vedova, lei ha duecentomila dollari in banca, è ricca, il suo è il senso di inadeguatezza di una generazione di immigrati di fronte a un nuovo mondo Eat lunch with the Widow Hildegarde? Sit across the table from her and put food in his mouth while this woman sat opposite him? He could scarcely breathe his refusal. ‘No, no. Please, Mrs Hildegarde, thank you. Thank you so much. Please, no. Thank you.’2

Si sente inadeguato persino nel bagno della vedova. Dove ha un timore reverenziale verso i rubinetti e i soffici asciugamani The room was like a jewel box: shining yellow tile, the yellow washbowl, lavender organdie curtains over the tall window, a bowl of purple flowers on the mirrored dressing table, yellow-handled perfume bottles, yellow comb-and-brush set. He turned quickly and all but bolted away. He could not have been more shocked had she stood naked before him. Those grimy hands of his were unworthy of this. He preferred the kitchen sink, just as he did at home. […] he entered fearfully, on the balls of his feet, 1 2

J. Fante, Op. cit., p.46 J. Fante, Op. cit., p.139

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and stood before the washbowl with tortured indecision. With his elbow he turned the water spout, afraid to mark it with his fingers. He scented green soap was out of question: he did the best he could with water alone. When he finished, he dried his hands on he tail of his shirt, ignoring the soft green towels that hung from the wall. The experience left him fearful of what might take place at lunch. Before leaving the bathroom, he got down on his knees and blotted up a spot or two of splashed water with his shirt sleeve …1

Vuol dimostrare il suo valore facendo un buon lavoro, la rivalsa di chi ha dalla sua solo la sua abilità nel saper creare, sa fare una sola cosa ma la sa fare bene Peeling off his coat, he plunged to the task. This, he vowed, would be one of the finest little bricklaying jobs in the state of Colorado. Fifty years from now, a hundred years from now, two hundred, the fireplace would still be standing. For when Svevo Bandini did a job, he did it well.2

Svevo ha i piedi per terra, sa che il suo posto è con la famiglia ma comunque non spreca l’occasione di assaggiare la bella vita del sogno americano. Down the hill and at the other end of town was his family, his wife and children. Christmas time was the time for wife and children. He would leave, never to return. In his pockets would be money. Meantime, he liked it here. He liked the fine whiskey, the fragrant cigars. He liked this pleasant room and the rich woman who lived in it. […] He might have gone home those nights had there been that feeling that it was over. But it was no time for thinking of his family. A few days more and his worries would begin again. Let those days be spent in a world apart from his own.3

Svevo non vuole disonorare la famiglia per soldi, nonostante le sue azioni ha dei principi. Ottenere soldi lavorando si può fare, lui è orgoglioso del suo lavoro, ma svendere il suo onore per soldi, a quello non è disposto, a differenza del suo amico Rocco Saccone che dice “I would not only sell my honor, […] I would sell myself body and soul, for at least fifteen hundred dollars!” No, Bandini told him, the proposition was out of the question. A hundred thousand would certainly go a long way toward solving his problems, but Rocco seemed to forget that there was a question of honor here, and Bandini had no desire to dishonor his wife and children for mere gold.4

1

J. Fante, Op. cit., pp.139-140 J. Fante, Op. cit., p.147 3 J. Fante, Op. cit., pp.158-159 4 J. Fante, Op. cit., p.159 2

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Famiglia e onore non sono cose da non toccare a un italiano di inizio secolo. Svevo difende il figlio dalla vedova rinunciando a tutti i suoi privilegi così, ma senza un attimo di esitazione: ‘You peasants!’ the Widow said. ‘You foreigners! You’re all alike, you and your dogs and all of you.’ Svevo crossed the lawn toward the Widow Hildegarde. His lips parted. His hands were folded before him. ‘Mrs Hildegarde,’ he said. ‘That’s my boy. You can’t talk to him like that. That boy’s an American. He is no foreigner.’ ‘I’m talking to you too!’ the Widow said. ‘Bruta animale!’ he said. ‘Puttana!’ He spattered her face with spittle. ‘Animal that you are!’ he said. ‘Animal!’ He turned to Arturo ‘Come on,’ he said. ‘Let’s go home.’1

Uno degli aspetti più importanti di Wait Until Spring, Bandini, come degli altri romanzi della sagra dei Bandini, è costituito dalla contrapposizione, più o meno voluta, tra i due protagonisti maschili, Svevo il padre e Arturo il figlio. Questa contrapposizione è espressa anche con l’uso del doppio punto di vista, per tutto il lungo ottavo capitolo, passa a quello di Svevo Bandini, il capofamiglia, per poi tornare a quello di suo figlio, Arturo, fino alla conclusione. Il primo, emigrato negli Stati Uniti, è italiano di nascita e quindi affonda le radici della sua cultura nella madre patria. Non troppo lontano dallo stereotipo dell’italiano “sole, pizza e mandolino”, Svevo ci viene presentato già dalle prime pagine come uno che non è riuscito ad adattarsi totalmente al nuovo paese nel quale vive. Svevo è italiano e quindi ama il sole e detesta la neve, che oltretutto gli impedisce di svolgere il suo lavoro si muratore. Alter ego di Svevo è Arturo, suo figlio, che già a quattordici anni è una miniatura del padre senza baffi. Arturo fa parte della seconda generazione di immigrati, è nato in America e si sente americano a tutti gli effetti. Odia pertanto tutte le testimonianze della sua italianità, il suo aspetto, aggravato dalle lentiggini. Odia il suo nome, il mestiere del padre, la città dove vive: His name was Arturo, but he hated it and wanted to be called John. His last name was Bandini, and he wanted it to be Jones. His mother and 1

J. Fante, Op. cit., pp.209-210

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father were Italians, but he wanted to be an American. His father was a bricklayer, but he wanted to be a pitcher for the Chicago Cubs. […] His face was freckled, but he want to be clear. He went to a Catholic school, but he wanted to go to a public school. […] He was Arturo and he loved his father, but he lived in dread of the day when he would grow up and be able to lick his father.1

Arturo Bandini è diviso tra il senso di rifiuto per le sue radici italiane e la stima verso il genitore, con cui ha un rapporto di odio-amore, di cui ha ereditato le pessime qualità. Solo che appena si sente dentro e intorno quelle pessime propensioni, cerca di correggersi, corre ai ripari: mentre Arturo corre a confessarsi, John scrive. Stridore tra grandezza e cattivi sentimenti. Quello stridore è costitutivo del personaggio del padre, personaggio che alternativamente provoca seduzione e repellenza. Oscillazione che si riflette nel figlio, diventa una costante di tutti i personaggi di figli-scrittori, giovani e adulti, che figurano nell’opera di Fante. Essi avranno sempre come sigillo, nei fatti e nei registri espressivi utilizzati per raccontare, un’inevitabile alternanza di cattive azioni e di gesti correttivi di risarcimento, di cadute e di rinascite, sempre in attesa che arrivi il momento di mettere a frutto la grandezza ereditata per linea paterna. Il dialogo tra padre e figlio Bandini: monosillabi e silenzi He crossed the gravel path to the heavy bench over which Bandini worked. He had to wait a long time, blinking his eyes to avoid the flying stone chips, before his father spoke. ‘Why ain’t you in school?’ ‘No school. They had a funeral.’ ‘Who died?’ ‘Rosa Pinelli.’ ‘Mike Pinelli’s girl?’ ‘Yes.’ ‘He’s no good, that Mike Pinelli. He scabs in the coal mine. He’s a goodfor-nothing.’ […] ‘How’s Federico? He asked. ‘He’s okay.’ ‘How’s August?’ ‘He’s all right.’ Silence but for the plink of the hammer. ‘How’s Federico getting along in school?’ ‘Okay, I guess’ ‘What about August?’ ‘He’s doing all right.’ ‘What about you, you getting good marks?’ 1

J. Fante, Op. cit., pp. 19-20

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‘They’re okay.’ Silence. ‘Is Federico a good boy?’ ‘Sure.’ ‘And August?’ ‘He’s all right.? ‘And You?’ ‘I guess so.’ Silence.1

Il rapporto di Svevo con i figli è un rapporto di dominio, lui comandava, loro dovevano obbedire. Anche per quanto riguarda il loro futuro, infatti è contrario che August si faccia prete. Ha già deciso che cambierà idea August wanted to be priest; oh, he would get over that. He would grow up and forget all about it. He would grow up and be a man, Svevo Bandini, would knock his goddamn block off.2

A Svevo basta uno sguardo per spegnere gli entusiasmi del figlio Bandini’s leer caused him to kill the motor and drop anchor. He was very quiet now. Bandini’s leer was steady, straight through him. Federico wanted to cry again, but he didn’t dare. He dropped his eyes to the empty milk glass, saw a drop or two at the bottom of the glass, and drained them carefully, his eyes stealing a glance at his father over the top of the glass. There sat Svevo Bandini – leering. Federico felt goose flesh creeping over him.3

Queste sono le teorie educative di Svevo. Bandini nodded self-approvingly to his wife: here was the way to raise children, his nod said. When you want a kid to do something, just stare at him; that’s the way to raise a boy.4

Il rapporto di Svevo con i figli è anche di protezione, lui ama i suoi figli. Vuole stare con loro a Natale. Sa che il suo posto è con la famiglia, e infatti è sua intenzione è ritornarci per passarci le feste, ma prima vuole guadagnarci il più possibile da quella situazione. Down the hill and at the other end of town was his family, his wife and children. Christmas time was the time for wife and children. He would leave, never to return. In his pockets would be money. Meantime, he liked it here. He liked the fine whiskey, the fragrant cigars. He liked this pleasant room and the rich woman who lived in it. 1

J. Fante, Op. cit., pp.204-205 J. Fante, Op. cit., p.46 3 J. Fante, Op. cit., p.24 4 J. Fante, Op. cit., p.25 2

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[…] He might have gone home those nights had there been that feeling that it was over. But it was no time for thinking of his family. A few days more and his worries would begin again. Let those days be spent in a world apart from his own. 1

Durante l’adolescenza di Arturo il padre bada poco a lui se non per indirizzarlo verso la sua stessa professione, il muratore, convinto che avendo il figlio la sua stessa statura e i sui stessi occhi scuri, debba avere ereditato anche la sua passione per il mattone. Ma quando Arturo ritornerà a casa dopo essere diventato uno scrittore ad Hollywood, nonostante la sua diffidenza verso un mestiere così effimero, Svevo non riesce a dissimulare il suo orgoglio.

1

J. Fante, Op. cit., p.158

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VII. Conclusioni Dall’analisi condotta sulla figura paterna in James Joyce, irlandese, e John Fante, statunitense, si è potuto rilevare che, in accordo a quanto si evidenzia in seno alla letteratura europea1, entrambi attribuiscono ad essa un ruolo di primo piano. Entrambi gli autori presi qui in esame hanno ricevuto dai loro contemporanei un’errata collocazione, “riduttiva” rispetto alle loro intrinseche capacità (che oggi sono ormai state date per acquisite): John Fante fu relegato nella letteratura etnica del Nord America, mentre Joyce, scrittore irlandese, è stato per lo più collocato nella letteratura inglese. Il classico ruolo del padre che provvedeva al mantenimento della famiglia, e che ha una funzione di autorità verso i figli e la moglie, era nell’800 un modello di comportamento nella vita sociale accettato, se non condiviso. Questa tipologia di figura risente però profondamente dei mutamenti sociali dei primi decenni del Novecento e progressivamente va perdendo il suo ruolo di modello e il suo valore istituzionale. Durante e dopo la guerra, in assenza degli uomini, andati a combattere, le donne (mogli, figlie, sorelle, ecc.) si erano dovute emancipare iniziando a rivestire ruoli più “attivi” all’interno del nucleo familiare e della vita sociale. Sulla base della lettura testuale effettuata si è potuto constatare che tali figure paterne, in entrambi gli autori succitati, sono costituite sia per analogia sia per contrasto con le rispettive esperienze biografiche. Questi due autori non scrivono di eroi, ma di antieroi, ossia di personaggi comuni e in parte frutto di esperienze personali. Per Joyce il padre è una figura ossimorica (da un lato lo apprezza, dall’altro lo detesta) nella vita. Per quanto fosse un uomo difficile, John Joyce riuscì sempre ad andare d’accordo con il figlio, nonostante le frequenti incomprensioni, e

1

La figura del padre nella letteratura è ricorrente e assume messaggi anche molto diversificati, ad esempio positivo e negativo; nel Novecento, nella narrativa realistica è ricorrente in quanto punto di riferimento quasi imprescindibile (quando non è presente il padre carnale infatti gli scrittori utilizzano surrogati della figura paterna), come del resto lo sono i rapporti familiari. Il rapporto padre-figlio è spesso un rapporto conflittuale: ad esempio può essere di odio-amore come ne La coscienza di Zeno, di Italo Svevo; rappresentare il senso di inferiorità e inadeguatezza verso il padre in Brie fan der Vater di Kafka; oppure dimostrare il dispotismo come in “Eveline” di Joyce; o desiderio della morte del padre per vedere realizzata la propria individualità come per Dostoevskij o La morte di Ivan Il'ič di Lev Tolstoj .

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fu per Joyce una presenza fondamentale nei sui scritti. Nei racconti, in particolare in “Farrington”, la figura del padre diventa sinonimo di insoddisfazione, frustrazione e violenza; tali caratteristiche sono state in parte mutuate da John Joyce che, a causa del declino economico della famiglia, e soprattutto dopo la morte della moglie Mary Jane, divenne sempre più intrattabile e violento. Sembra che, per la descrizione funzionale del padre dublinese, Joyce abbia preso solo le caratteristiche negative del padre carnale omettendo le doti culturali, canore e di socievolezza. Infatti lo stesso Joyce in una lettera al fratello Stanislaus1 del 1905 si rammaricava di non aver espresso, insieme alla paralisi e alla simonia, al malessere sociale e socio-economico, anche l’allegria, la cordialità e la gioia di vivere di Dublino e del padre, che per lui rappresentava, nel bene e nel male, la quintessenza della “dublinesità”. Che la figura di Farrington non sia completamente biografica lo deduciamo già dalla descrizione fisica, poiché John Joyce non era un “omone” e non era un ignorante, ma amava la musica e l’arte. La figura così imponente, forzuta, viene da Joyce messa in contrasto con Little Chandler, la figura di padre del racconto precedente. Vedremo che tra figura paterna little e big Joyce non cambia l’aspetto sostanziale della violenza, che si manifesta però in maniera differente in quanto alle urla della figura paterna little corrispondono le botte di quella big. Il lavoro di Farrington, è quello di produrre copie di documenti, un lavoro frustrante perché ripetitivo che lo irrita laddove egli sbaglia e deve iniziarne di nuovo la stesura; la radice del comportamento violento ed esplosivo di Farrington è insita anche nell’esperienza circolare di routine che definisce la sua vita. I personaggi letterari che fanno lavori “creativi” di norma non sono così frustrati e violenti. Svevo Bandini fa il muratore, un lavoro manuale creativo, ed è alla fine meno frustrato e meno violento. Lui ama il suo lavoro ed è orgoglioso di ciò che crea. È convinto di essere un bravo muratore e lavora con l’intenzione di creare opere che durino nel tempo. Mentre Farrington a causa della monotonia del suo lavoro, e anche per pigrizia, cerca di lavorare il meno possibile, e quando

1

R., Ellmann (ed.), Selected Letters of James Joyce, New York, The Viking Press, 1975, p.65

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vorrebbe lavorare non riesce a concentrarsi, Svevo, che agisce per passione, è sempre alla ricerca di lavoro, e infatti maledice la neve che gli impedisce di lavorare. Sul lavoro Farrington è costretto a scusarsi col suo capufficio, dopo la sua risposta irriverente, per non perdere il posto, porge “an abject apology”1. Si pente amaramente della sua ribellione. Svevo, anteponendo l’onore e la famiglia ai soldi, invece ribatte alla vedova che insulta il figlio, le punta il dito contro, le sputa in faccia e poi le gira le spalle, senza rimorsi. Interessante notare come mentre Svevo vuole tornare alla sua casa, dalla sua famiglia, perché sa che quello è il suo posto. Non è così per Farrington: infatti il narratore molto esplicitamente informa il tettore che “He [Farrington] loathed returning to his home.”2 Il rapporto che queste due figure di padre hanno con i figli è diverso: nell’opera di Joyce nemmeno la disperata e accorata devozione del figlio tocca Farrington, ormai deciso a sfogare la frustrazione e la rabbia accumulate durante la giornata in casa. L'abuso che in altri racconti in Dubliners è velato, qui diventa esplicito. Nell’opera di Fante, invece, Svevo per difendere il figlio abbandona la sua occasione di guadagno e di rivalsa sociale minacciando la vedova Hildegarde. Svevo è violento con i figli solo per educarli ma non usa loro violenza. Un elemento importante che accomuna Joyce e Fante è che entrambi studiano dai gesuiti, e questa esperienza sembra aver “segnato” la loro formazione di uomini e di artisti. John Fante studia alla Regis High School, un istituto cattolico retto dai gesuiti, avverte una vocazione al sacerdozio, che si spegne in fretta e lascia al suo posto una freddezza verso la religione. Anche James Joyce studiò dapprima all’esclusivo Clongowes Wood College, retto dai gesuiti: uno dei migliori istituti scolastici d’Irlanda. Poi studiò al Belvedere College, un università retta anch’essa dai Gesuiti.

1 2

J. Joyce, Op. Cit., pg. 88 J. Joyce, Op. Cit., pg. 93

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In Wait Until Spring, Bandini, possiamo vedere la metafora della cecità della chiesa con la descrizione dell’occhio di vetro della suora It was a quarter to three in the eight-grade room at St Catherine’s. Sister Mary Celia, her glass eye aching in its socket, was in a dangerous mood. […] These nuns! They were so sweet and so gentle – and so stupid. They were all like Sister Celia: they saw from one good eye, and the other was blind and worthless. In that hour he knew that he should hate no one, but he couldn’t help him: he hated Sister Celia.1

Mentre nell’opera di Joyce la Chiesa è descritta solo in maniera negativa, causa e fattore incrementante la paralisi e la simonia, nell’opera di Fante la chiesa americana ha anche aspetti positivi, risulta amorevole e compassionevole come emerge dalla sua scelta nell’orchestrare i dettagli della trama narrativa laddove egli decide di non far pagare la retta ai Bandini perché troppo poveri. As far as he knew, he and his brothers were the only nonpaying students at that Catholic school. The tuition was only two dollars a month for each child, but that meant six a month for him and his two brothers, and it was never paid. It was a distinction of great torment to him, this feeling that others paid and he did not.2

I due autori pur con contesti culturali di riferimento molto diversi (uno nato a Dublino, l’altro a Boulder in Colorado) evidentemente hanno esperito un’analoga esperienza sia educativa, presso i gesuiti (che li ha condizionati nella loro visione del mondo), sia nelle situazioni economicamente difficili in cui si sono trovati le loro famiglie, a cui sembrano reagire, almeno a livello narrativo, con figure di padri che forse avrebbero potuto essere anche migliori se avessero avuto una disponibilità economica maggiore. Infatti nelle scene in cui i due personaggi ottengono il denaro, uno impegnando l’orologio, l’altro perché pagato dalla vedova, sono felici, soddisfatti, uomini realizzati, camminano a testa alta. La descrizione della vita urbana nei due romanzi è diversa, rispecchia le due diverse realtà cittadine: quella di città grande come Dublino e quella della cittadina di Rocklin, con case annidate in boschetti di pioppi, strade indicate con numeri, ponti in ferro, stazioni di servizio, una città di provincia insomma.

1 2

J. Fante, Wait Until Spring, Bandini [1938], Edinburg, Canongate, 1999, p.30 J. Fante, Op. Cit., p.35

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Come si evince dal titolo del capitolo VI.2. a lui dedicato, il personaggio di Svevo Bandini alla fine del racconto, grazie alla sua tenacia, all’impegno personale, al suo forte attaccamento alla famiglia, alla morale e alla cultura italiana, si realizza come figura paterna positiva, mentre Farrington non ha via di scampo dal clichÊ di figura soggetta alla paralisi dublinese.

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VIII. Bibliografia* •

Opere di carattere generale

AA.VV., Dizionario universale Mondadori, 1959

della

letteratura

contemporanea,

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* Le date in parentesi si riferiscono all’edizione consultata per il presente studio

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James Joyce

-

Opere dell’autore

1907

Chamber Music

1914

Dubliners, (2000)

1916

A Portrait of the Artist as a Young Man

1918

Exiles

1922

Ulysses

1927

Pomes Penyeach

1939

Finnegans Wake

1974

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-

Studi e articoli su Joyce

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John Fante

-

Opere dell’autore

1933

The Road to Los Angeles, (1985)

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-

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