Primato del possibile e precarietà esistenziale nella filosofia di Søren Kierkegaard

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A.D. MDLXII

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CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA

PRIMATO DEL POSSIBILE E PRECARIETÀ ESISTENZIALE NELLA FILOSOFIA DI SØREN KIERKEGAARD

Relatore:

PROF. SEBASTIANO GHISU

Tesi di Laurea di:

ROBERTA RUIU

ANNO ACCADEMICO 2011/2012



INDICE

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Introduzione Capitolo I: Temi fondamentali della filosofia di Søren Kierkegaard e quadro generale della cultura del suo tempo.

1.1. Dialettica del rapportarsi: la figura del padre, l’amore di Regina Olsen e i 9 contatti con la cultura e la Chiesa danese 1.2. Produzione letteraria e pseudonimia

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1.3. Il rapporto con l’hegelismo, critica dell’Idealismo e la categoria 21 dell’esistenza. 1.4. La verità che salva l’uomo

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1.5. La verità soggettiva e la libertà di scegliere

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Capitolo II: Tra Fede ed Esistenza. 2.1. Esistere per una Fede nuova

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2.2. Una Fede a ridosso dell’Esistenza

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2.3. La fede come rapporto di personalità

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2.4. Scelta e impegno: la soggettività della verità come libera volontà

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2.5. Comprendere che non si può Comprendere

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2.6. Fede e dialettica doppia

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2.7. Fede e Filosofia

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Capitolo III: Il Singolo uomo. 3.1. Una nuova categoria

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3.2. Il Singolo e la folla

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3.3. Il Singolo e Dio

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3.4. Il Singolo in Timore e Tremore

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3.5. La categoria negativa della Fede: l’assurdo

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3.6. La verità eterna che entra nel tempo

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3.7. L’eterogeneità dell’assurdo

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3.8. L’assurdo si consuma nel “credo”

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3.9. Il problema di Lessing: l’assurdo come “salto qualitativo”

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Capitolo IV: Angoscia, peccato e disperazione. 4.1. La realtà come possibilità

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4.2. Il tempo della Disperazione: La Malattia Mortale

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4.3. Angoscia, disperazione e peccato

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4.4. La Fede che salva

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4.5. L’essenza del demoniaco

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Conclusioni

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Bibliografia

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INTRODUZIONE “Ficco il dito nella vita: non sa di niente. Dove sto?” (Kierkegaard, La Ripetizione, Lettera dell’11 Ottobre)

Davanti ad un pensatore come Søren Kierkegaard si prova, in generale, un sentimento profondo di ammirazione. A destare l’animo del lettore è l’assidua e continua ricerca del “me”, una necessità turbata e insonne di “capirsi”, di rendere chiara la propria interiorità. Non tutta la realtà può essere chiarita grazie alle categorie dell’intelletto; non tutta la realtà necessita dei contorni di un sistema, di un ordine pre-costituito, di una disposizione forzata. Le emozioni, afferma Kierkegaard, sono qualcosa di intimo, ed è per questo motivo che una mancanza di interiorità, la precarietà dell’io, non si può velare: un certo bisogno di “coprirla”, nasconderla, è un immediato dis-velamento. Un pensatore come Kierkegaard dovrebbe essere oggetto di rinnovate attenzioni. Molti studiosi l’hanno inserito nella categoria “mistici”; altri, invece, lo considerano un buon scrittore dagli intenti non troppo filosofici. Ma chi era Søren Kierkegaard in realtà? Kierkegaard era un uomo che, come egli stesso afferma, non è mai stato bambino; un ragazzo che ricorda, con tristezza, di essere stato vestito per lo più come un vecchio malinconico. Era un uomo, Kierkegaard, dall’esistenza intrisa di mestizia. Era un uomo: non è possibile, infatti, comprendere le sue riflessioni sull’esistenza senza tener conto della sua vita, del suo essere un singolo piuttosto singolare. Le sue opere, di difficile comprensione, tortuose, riportano ad una filosofia misconosciuta e trascurata dai pensatori del suo tempo. Appare, invece, particolarmente rivalutata durante la Kierkegaard-Renaissance, promossa da pensatori di spessore quali, per esempio, Heidegger. Il nostro secolo, invece, dà molte attenzioni al rapporto tanto interessante quanto dialettico fra Kierkegaard e Hegel: il primo, filosofo 3


dell’inquietudine e della vertigine della scelta; il secondo strenuo difensore del sistema e dell’ordine precostituito. A caratterizzare il pensiero kierkegaardiano è un patire morale ed esistenziale, che permea il suo stesso cammino. Il filosofo danese trascorre l’infanzia tra le mura domestiche e quelle scolastiche. In tutto questo ebbe una certa influenza la figura del padre, un uomo esageratamente malinconico che istruì severamente il figlio. Della stessa malinconia risentì il giovane Kierkegaard: una malinconia “metafisica”, volutamente e velatamente esposta, che non troverà mai una spiegazione né una causa precisa. Una certa malinconia abbraccia anche il rapporto drammatico da una prospettiva esistenziale, più che psicologica, con Regina Olsen, fidanzata che lasciò per seguire (o inseguire?) la sua coscienza religiosa. Ad un amore terreno, legato al tempo, si sostituisce un amore trascendente, legato indissolubilmente all’eterno. Con la rottura del fidanzamento Kierkegaard decide di farsi “profeta” della religiosità tragica delle Sacra Scrittura. Nei suoi scritti, il filosofo danese, rivendica una certa originalità di pensiero in ambito religioso. Egli desidera fondare un nuovo concetto di Fede, quella stessa fede che, ormai, l’uomo non riconosce più poiché si confonde fra le cose terrene. Il cristianesimo, praticamente inesistente, della Chiesa Danese ha mortificato e frainteso la fede. Ma, è necessario sottolinearlo, ad essere frainteso non è l’oggetto della fede di per sé, ma il rapportarsi stesso ad esso, all’oggetto appunto del Credo. La Fede necessita di innovazione, non nel “ciò” ma nel “come”, da un punto di vista prettamente esistenziale. Il Credo, in un certo senso, soccorre l’uomo nel suo vivere precario, nel quale la finitezza si palesa in continuazione e la conoscenza è limitata. Ma la fede, allo stesso tempo, necessita di una “situazione esistenziale” che lo preceda e lo prepari: è il momento del “voler credere”, un momento fondamentale, che distingue tra vincitori e vinti. Vince chi crede, poiché chi crede non combatte mai solo, ma con Dio. Credere è mettersi in discussione per una verità superiore. La soggettività, però, è verità, e la verità è la passione dell’infinitezza, cioè fede. Perciò il “nuovo come” si chiarisce nella soggettività: la religione deve essere un fatto 4


personale e soggettivo, un nuovo modo di rapportarsi a Dio nel rispetto di un’interiorità che andrebbe risvegliata. Nella fede non conta la speculazione, o la dottrina, bensì la persona. Il Cristianesimo, afferma Kierkegaard, è “comunicazione di esistenza”, ma gli uomini “soffrono” il cammino della fede: molti si rassegnano, e molti arrivano tardi, dopo una vita di sofferenza e riflessione. Per questi ultimi la fede è il “nuovo come”: una possibilità d’esistenza. Il primato del possibile mantiene in una certa evidenza la fede, inconciliabile con la filosofia, soprattutto quella hegeliana. Una certa filosofia hegeliana crede di poter comprendere la fede e superarla, misconoscendone l’importanza. La filosofia, senza ombra di dubbio, può dare man forte nell’avvicinamento ad un certo e personalissimo credo ma, usando sempre le parole di Kierkegaard, dando uno sguardo ai suoi quadri, la filosofia non sempre ci mostra paesaggi maestosi e irripetibili. In tutto ciò riveste, sempre e comunque, un ruolo fondamentale l’esistenza. L’esistenza, afferma Kierkegaard, è sempre mia; l’esistenza è di un essere che è sempre singolo. Il Singolo è l’uomo che Kierkegaard cerca di allontanare da un sistema che lo rende astratto. Il Singolo non può e non deve essere pensato come concetto: l’uomo è, si fonda nel divenire, e la sua vita è reale e concreta. L’uomo deve mostrarsi per quello che è, deve “denudarsi” ed essere completamente se stesso; egli deve presentarsi nella sua individualità. Egli, però, vive in mezzo ad altri uomini; uomini che, davanti al singolo sono numero, sono folla. Il singolo deve essere in grado di distinguersi dal numero; egli deve emergere dalla folla e combattere l’indistinzione. Non si è mai singoli in compagnia, l’interiorità non può essere condivisa. Si è soli con la propria interiorità, e nella ricerca della propria verità. La propria verità, esattamente come l’interiorità, non è generica e condivisibile. La verità è un essere-per-ilSingolo, un valore individuale, personale e preciso che solo io posso comprendere, in quanto mio. La mia verità per l’altro è un frammento qualsiasi disperso nella totalità. L’uomo, per essere davvero il Singolo, deve mettersi in rapporto con Dio. Solo nella fede l’uomo trova la salvezza e la vera esistenza. Ciascuno deve imparare a interrogare la propria “meità”: 5


qualsiasi confronto con gli altri uomini non può reggere nel momento in cui comprendiamo l’abisso divino nella nostra “meità” più profonda. Ciò non significa che il rapporto con l’altro debba essere escluso. Anch’esso, in qualche modo, deve essere “rigenerato” alla luce del rapporto con Dio. Modello da imitare sarebbe il cosiddetto “cavaliere della Fede”, il Singolo posto da Dio di fronte all’impossibile, luogo in cui viene meno la fiducia per qualsiasi certezza ed un certo credo avvia una perenne rivolta esistenziale. Capirsi, trovarsi e ri-vedersi: ecco come si esprime la meditazione kierkegaardiana sull’essere umano. Il singolo deve capirsi in quanto uomo immerso nella precarietà, trovarsi nella propria verità e ri-vedersi nello specchio della Possibilità. Il pensiero kierkegaardiano consacra l’umano, lo rivaluta, esalta la singolarità di ogni uomo nella sua irriducibilità ed invita ad una ricerca prettamente soggettiva della verità. L’uomo, in questo senso, deve donare la sua esistenza ad un ideale. Questo ideale è per Kierkegaard la fede in Dio. Non si tratta di una fede “fanatica”, o di una fede come “mezzo” per sentirsi migliori nell’incertezza di un mondo migliore. L’intento di Kierkegaard è di ridestare le coscienze degli uomini e farli riflettere sulle loro azioni. La coscienza dell’uomo contemporaneo coglie solo le approssimazioni, le totalità definite e oblia le intenzioni e le azioni puramente umane, che si impregnano di esteriorità e perdono drammaticità. E’ necessario un abbandono dell’esteriore, di tutto ciò che è materiale, se si vuole istituire un rapporto personale con la propria singolarità. Il pensiero oggettivo è insufficiente; esso contempla la totalità, tanto che si finisce col dimenticare che si è uomini, e che si è singoli. Il pensiero oggettivo non conosce la possibilità dell’unicità. Lo stato di angoscia, in tutto ciò, scuote la realtà della libertà, ossia fa pre-sentire nell’uomo una libertà fondamentale, la libertà di pensare e di fare: un potere, questo, che lo pone di fronte ad una miriade di possibilità che lo obbligano a scegliere. La possibilità è la categoria più terribile: essa rappresenta l’assenza di criteri-guida, uno svuotamento momentaneo dei valori, il tutto e il niente posti, assieme, davanti all’uomo. L’angoscia è quella forza che s’impadronisce dell’uomo; una forza che riflette e si flette, scavando sempre più in 6


profondità, lentamente. La disperazione rappresenta il passo successivo, rispetto all’angoscia. La disperazione deriva dal fatto che l’angoscia non si può sopprimere, essendo un tormento fondamentalmente umano. L’uomo, nella disperazione, non si accetta, perché non sopporta il suo essere limitato. Vuole essere diverso, ma non può in alcun modo cambiare la propria natura. Egli vive in un perenne disequilibrio, in un equilibrio infranto dal precario. La disperazione è la malattia mortale, non perché porta alla morte, ma perché costringe a vivere ogni giorno la propria precarietà esistenziale, la povera ed umana esistenza. L’essere disorientato dell’uomo contemporaneo per la mancanza di punti di riferimento stabili, la riscoperta dell’interiorità, l’esigenza disperata di significare la propria vita e quelle altrui, il bisogno non del tutto razionale di credere: Kierkegaard è tutto questo. L’esperienza interiore, riflesso di inquietudine e frammenti di speranza, è la pietra miliare del suo pensiero, di un filosofare della caduta a ridosso di due abissi: il singolo e il mondo. Il mio lavoro si pone il compito di analizzare un modo di fare filosofia che non coinvolge solo il pensare, ma anche l’esistere; un esistere che può avere la consistenza di una lastra di cemento, oppure quella di un vaso di terracotta. Il mio intento è quello di puntare i riflettori sull’aut-aut, in modo da far ri-emergere una realtà, quella della precarietà esistenziale, che non è mai troppo inattuale. Tenterò di costruire un percorso interpretativo che evidenzi al meglio un travaglio esistenziale, quello della vita e del pensiero di Søren Kierkegaard.

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Capitolo I

Temi fondamentali della filosofia di Søren Kierkegaard e quadro generale della cultura del suo tempo.

“La realtà è che per capire Kierkegaard l’unico criterio è Kierkegaard stesso.”

Cornelio Fabro

Søren A. Kierkegaard è fondamentalmente un filosofo del problematico. Questa sua problematicità ha, in un certo qual modo, stimolato l’interesse di critici e interpreti dell’esistenza che hanno colto questo pensiero della complessità come una sorta di “sfida” significativa. A causa di una meditazione dell’incerto, così spregiudicata e dai contorni indefiniti, l’opera di Kierkegaard in due secoli ha avuto fortune alterne. La sua filosofia, misconosciuta e quasi ignorata dai pensatori del suo tempo, oltremodo avversata dagli ambienti ecclesiastici conservatori della Danimarca di metà ‘800, è stata presa in considerazione e rivalutata soltanto nei primi anni del ‘900, in particolar modo in Germania, durante la famosa “Kierkegaard-Renaissance” promossa soprattutto da pensatori di spessore quali Barth, Jaspers e Heidegger. Karl Barth, importante teologo svizzero, evidenziò quelli che sono gli aspetti più delicati e forse estremi del messaggio cristiano kierkegaardiano: l’intoccabile trascendenza divina, la 8


natura inesorabilmente finita dell’uomo e l’inevitabile caduta nel peccato. In seguito intervenne l’esistenzialismo europeo, da Heidegger a Sartre, che riconobbe in lui, non senza fraintendimenti, il proprio precursore. Il nostro secolo, invece, dedica molte attenzioni al rapporto “odi et amo” tra Kierkegaard ed Hegel, sottolineando la critica serrata del filosofo dell’inquietudine nei confronti del filosofo del sistema. Particolarmente illuminanti sono le parole tratte dal Diario: “Succede alla maggior parte dei filosofi sistematici, riguardo ai loro sistemi, come di chi si costruisse un castello, e poi se ne andasse a vivere in un fienile: per conto loro essi non vivono in quell'enorme costruzione sistematica.”1

Tali parole di Kierkegaard evidenziano una certa dissonanza con la corrente idealistica; una dissonanza reiterata in quasi tutte le sue opere. Una dissonanza della quale il filosofo sembra non poter fare a meno per dare luce al suo pensiero. Gli studiosi contemporanei hanno a lungo cercato di porre in evidenza, nelle opere, le tracce di un patire prettamente morale ed esistenziale che lo caratterizza particolarmente. Kierkegaard, i risultati di questi studi, li aveva previsti: “Un giorno non soltanto i miei scritti, ma proprio la mia vita e tutto il complicato segreto del mio macchinario sarà minuziosamente studiato”.2

E ancora: “Tutta l’Europa lavora ad una demoralizzazione, ma a Copenaghen le condizioni sono così ristrette che i miei calcoli e le mie considerazioni possono completamente dominarla. Questo diventerà molto interessante. Io sono come un medico che ha un preparato perfetto, ma non così grande che non lo possa dominare con lo sguardo […]”.3

1.1.Dialettica del rapportarsi: la figura del padre, l’amore di Regina Olsen e i contatti con la cultura e la Chiesa danese. L’opera Kierkegaardiana affonda le sue radici in un cammino esistenziale per certi versi ancora poco chiaro. Søren Aabye Kierkegaard nasce a Copenaghen nel 1813, esattamente il 5 1

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1846, VIII1A 82; tr. It. Nr. 1192. S. Kierkegaard, Papirer, VIII1A 424. 3 Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1847-48, VIII1 A 175; tr. It. Nr. 1443. 2

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Maggio. Il padre Michael Pedersen Kierkegaard era un commerciante arricchito, seguace del cristianesimo protestante. Egli educò Søren in modo “troppo ideale”, portandolo con sé alle adunanze religiose e facendolo esercitare su problemi teologici e ragionamenti dialettici4. Kierkegaard trascorre un’infanzia al chiuso, tra le mura domestiche, insieme al malinconico padre, e tra quelle scolastiche, nelle quali era ignorato dai suoi compagni di studio. Il rapporto con il padre ha fortemente condizionato la sua vita. Michael Kierkegaard era un genitore piuttosto autoritario, rigoroso col figlio, sul quale riversava tutte le sue frustrazioni e ambizioni, senza rispettarlo nella sua autonomia e nella sua individualità. Il vecchio Michael desiderava che Søren superasse l’esame di teologia; con molta probabilità voleva che suo figlio diventasse pastore della Chiesa Danese. La vita di Kierkegaard si può distinguere in due periodi: dalla tenera età fino alla coscienza di scrittore, e quello concernente l’attività letteraria. L’inizio di questo secondo periodo coincide con la morte del padre Michael, avvenuta nel 18385. Durante la giovinezza Kierkegaard scrive di essere schiavo della malinconia; una malinconia “metafisica”, scaturita da una sorta di antro profano, segreto e lontano dagli sguardi altrui. Una malinconia “difficile”, che vorrebbe trovare sfogo nei suoi scritti. Questo succede, in modo volutamente e velatamente “esposto”. Queste “impressioni di malinconia” costellano il suo Diario: "Un vecchio, lui stesso straordinariamente malinconico (il modo non lo voglio descrivere) ha un figlio al quale tocca in eredità tutta questa malinconia, ma che nello stesso tempo ha una elasticità di spirito tale da poterla nascondere. Appunto perché il suo spirito, in un senso eminente ed essenziale, è sano, la sua malinconia non può avere alcun potere su di lui; d’altra parte lo spirito non è capace di eliminare la malinconia. Al massimo gli riesce di farla sopportare. […]”6

E ancora: 4

Kierkegaard ha descritto questa fase della sua vita nel frammento Johannes Climacus ovvero De omnibus dubitandum est, 1842-43, IV B I; tr. It. Nr. 952. 5 Il momento, particolarmente patito dal filosofo danese, è ben descritto nel Diario: “Mio padre è morto nella notte di mercoledì (8 agosto) alle due di notte. Avevo desiderato tanto che potesse vivere qualche anno ancora. Io considero la sua morte come l’ultimo sacrificio che nel suo amore egli ha fatto per me. […]” (Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1838, II A 243; tr. It. Nr. 326). 6 Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1846, VII1 A 126; tr. It. Nr. 1225.

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“La mia malinconia ha per molti anni lavorato a far sì che io non potessi riuscire a dare del "tu" a me stesso nel senso più profondo. Fra la malinconia e il mio "tu" c’era tutto un mondo di fantasia.”7

Per Kierkegaard la malinconia è “l’amante più fedele”8; un’elegante accompagnatrice che prende a braccetto ogni suo stato d’animo. L’unica gioia, l’unica malinconica felicità era quella di sentirsi infelice. Un’infelicità, la sua, non senza condizioni: la causa di tale stato d’animo fu in gran parte la presenza di un padre tanto rigoroso e l’educazione severa da esso impartitagli. Il padre Michael, che gli ha reso la vita tanto infelice, è lo stesso padre che lui ha tanto amato. Tutto ciò che il vecchio padre ha fatto, afferma Kierkegaard, l’ha fatto per amore: egli ammette che il padre si impegnò con tutte le sue forze per accrescere il suo spirito. Nonostante questo amore e questa riconoscenza nei confronti della figura paterna Søren resterà per sempre un malinconico, e nei suoi scritti nessuno troverà mai la spiegazione di questo stato d’animo perenne. Scrive nel 1842: “Dopo la mia morte nessuno troverà tra le mie carte (e questa è la mia consolazione) una sola spiegazione di ciò che ha propriamente riempito la mia vita, non troverà nei recessi della mia anima quel testo che spiega tutto e che spesso di ciò che il mondo tiene per bagatelle ne fa per me degli avvenimenti di un’importanza enorme […].”9

La giovinezza in un certo senso sregolata di Kierkegaard è il tentativo di ribellarsi ad un progetto esistenziale che non è suo, ma del vecchio padre. Ma forse, più di tutto, è uno sfogo, lo sfogo di un tormento. A scuotere Søren è lo spirito religioso, che più di una volta egli sente vacillare in sé, assieme a quelle che, tutta la vita, riteneva fossero certezze intangibili: la Provvidenza, l’incarnazione e la salvezza dell’uomo nella fede. Kierkegaard mostra nei confronti del Cristianesimo una doppia dialettica di attrazione e repulsione. Egli vive un doppio che non gli permetterà mai di fermarsi e affermarsi definitivamente su alcunché. Il suo sguardo tenderà sempre a soffermarsi su qualcosa, ma nello stesso istante, sempre quello stesso sguardo, verrà attirato dal contrario di quel qualcosa. Egli cercherà di allontanarsi da

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Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1848, VIII1 A 27; tr. It. Nr. 1340. Op. Cit., 1841-1842, III A 114; tr. It. Nr. 730. 9 Op. Cit., 1842-1844, IV A 85; tr. It. Nr. 879. 8

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Dio, si lascerà trascinare dai piaceri mondani e dai vizi, ma la coscienza del peccato imploderà sempre in lui, nel suo intimo. Con la morte del padre sembrerebbe concludersi il “momento” difficile, ma non supera quel sentimento di contraddizione, permeato sia da positività sia da negatività, causato dalla problematica etico-religiosa. Ciò è testimoniato anche dalla relazione con Regina Olsen. Si tratta di un rapporto drammatico dal punto di vista esistenziale, più che psicologico (come molti critici hanno pensato): il dramma esistenziale supera infatti di gran lunga qualsiasi categoria psicologica. Come afferma il filosofo Giorgio Penzo, la loro storia è una “storia umana”10, davanti alla quale si può solo rimanere in silenzio, della quale si possono percepire le vibrazioni, l’intensità, in maniera incondizionata. Regina Olsen (1822-1904), fidanzata che lascia dopo un anno, pur nutrendo per lei un forte sentimento, destò in Kierkegaard la coscienza di una colpa che coinvolge il fondamento stesso dell’uomo. Pensieri, dubbi, parole d’amore per Regina emergono soprattutto nel Diario: “[…] anche se fra noi non passa parola alcuna, non per questo sento meno i palpiti del mio cuore.” 11

E ancora: “Si dice che l’amore rende ciechi. Fa ben di più, rende sordi, paralizza. Quando viene il mal d’amore, si diventa come la mimosa che subito si chiude, nessun grimaldello riesce ad aprirla e più le si fa violenza, più si chiude.”12

In questi appunti bibliografici Kierkegaard confessa il dolore della sua scelta, quella di allontanarsi da Regina. Allo stesso tempo, però, egli vede in questo allontanamento un avvenimento indotto dalla sua coscienza religiosa. Infatti egli scrive: “Non riesco a liberarmi di questo amore; io non posso infatti sognarmelo da poeta, perché quando sto per abbandonarmi alla poesia, subito mi prende un’angoscia, un’impazienza di agire.” 13

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Penzo G., La verità eterna che nasce nel tempo, Ed. Messaggero Padova, 2000; cit. p. 16. Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1841-1842, III A 134; tr. It. Nr. 746. 12 Op. Cit., 1841-1842, III A 157; tr. It. Nr. 768. 13 Op. Cit., 1841-1842, III A 164; tr. It. Nr. 775. 11

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Da queste parole traspare l’opposizione attrazione-repulsione che attanaglia Kierkegaard. Egli si sente legato alla realtà terrena, ma sente allo stesso tempo un forte richiamo verso la trascendenza; acquista sempre più coscienza di una forza misteriosa, che supera la sua condizione di semplice “amante”. Nonostante ciò, non vive bene la rottura del fidanzamento, che egli stesso definisce “tempo dell’inganno”. Si mostra come una “canaglia” per farsi odiare da Regina e la sua famiglia: «Ed eccomi ora odiato da tutti per la mia infedeltà […] mentre io le resto fedele come sempre»14. E afferma ancora: «[…] cercherò di farle credere ch’ero un volgare impostore, un leggerone, affinché le riesca possibilmente di odiarmi»15. Tutto questo, afferma Kierkegaard, perché «“lei” non abbia da soffrire con me.»16; il suo intento è di non farla soffrire per il distacco. Inoltre farà di tutto per farla unire in matrimonio con Friedrich von Schlegel, filosofo che sposerà nel 1847. Nonostante ciò Regina rimarrà l’unica donna da lui amata, nessuna prenderà il suo posto: “Devi sapere che tu confidi come tua felicità il non aver amato altra donna all’infuori di lei e che poni il tuo onore nel non amare mai alcun’altra.”17

Ad un amore terreno, legato al tempo, si sostituisce un amore che permea tutta la sua esistenza. Questo amore è rappresentato da un paragone che egli fa tra la figura di Regina e l’esistenza di Gesù: entrambi gettano un ponte tra il tempo e l’eterno. Entrambi sono l’idea di un’intangibilità che ha la sua consistenza nell’uomo, e al di là dell’uomo. Kierkegaard non ha propriamente rinunciato all’amore di Regina; in verità egli l’ha reso più alto, l’ha preservato dall’essere troppo umano, l’ha voluto rendere eterno portandolo tra le braccia di Dio. Con un forte accento malinconico Kierkegaard afferma che è terribile tenere sul palmo di una mano una fanciulla così amabile, e allo stesso tempo udire una voce interiore che ordina di

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Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1841-1842, III A 159; tr. It. Nr. 770. Op. Cit., 1841-1842, III A 161; tr. It. Nr. 772. 16 Op. Cit., 1841-1842, III A 163; tr. It. Nr. 774. 17 Op. Cit., 1841-1842, III A 160; tr. It. Nr. 771. 15

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abbandonarla. Egli ripeterà, più di una volta, che l’ha fatto con “l’intenzione più onesta”, ossia Dio. Kierkegaard sceglie Dio, si rapporta a lui, ma non senza dubbi e ripensamenti: le sue parole paleseranno sempre malinconia, sofferenza, il famoso «pungolo della carne»18. Da quel momento in poi Kierkegaard iniziò un cammino di definizione di una nuova concezione del “rapportarsi a Dio”. A differenza del già citato padre Michael, egli è animato da una profonda religiosità interiore; il filosofo dell’individualità ha sempre seguito il grido del divino, che lo tormentava nel suo io più profondo. Ed è esattamente per questo motivo che Søren Kierkegaard non dovrebbe essere considerato un teologo, ma piuttosto, seguendo la linea di pensiero di Giorgio Penzo, un «profeta»19della religiosità tragica propria della Sacra Scrittura. Nel Diario, tra il 1840 e il 1842, riporta un versetto tratto dalle Lettere ai Corinzi: «Tutto è nuovo in Cristo»20. Lo commenta con le seguenti parole: “Nuovo non come lo è qualcosa di diverso, ma anche come ciò che è stato rinnovato, ringiovanito, a confronto di ciò che è invecchiato e caduto in rovina.” 21

Mentre coltiva un certo cristianesimo, svecchiato e rinnovato, continua i suoi studi, recandosi a Berlino per seguire le lezioni di Schelling. Ma da un iniziale adesione al pensiero schellinghiano passa ad un netto ed evidente dissenso: “Credo che mi sarei completamente rimbecillito, se avessi continuato ad ascoltare Schelling.”22

Infatti, nel marzo del 1842, è già di ritorno a Copenaghen. I rapporti con la cultura danese erano piuttosto complessi in quegli anni. Kierkegaard, con le sue prime pubblicazioni, riesce a farsi conoscere, attirando su di sé non solo curiosità ma anche le ire dell’opinione pubblica. Se da una parte il suo essere tormentato e la sua vita solitaria e schiva destano interesse, dall’altra viene duramente attaccato per il contenuto rivoluzionario e “scomodo” dei suoi scritti. I salotti intellettuali, che frequentò per un certo 18

Paolo II Cor. 12, 7. Penzo G., La verità eterna che nasce nel tempo, Ed. Messaggero Padova, 2000; cit. p. 21. 20 Paolo II Cor. 5, 17. 21 Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1840-1842 (Carte Sparse), III A 211; tr. It. Nr.808. 22 Op. Cit.,1840-1842 (Carte Sparse), lettera al fratello Pietro; tr. It. Nr. 837, pp. 62-63. 19

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periodo23, divennero per Kierkegaard il nome frivolo di un luogo di incontro per conversazioni dai contenuti vacui. Attacca, senza troppi scrupoli, la corruzione dei costumi e l’assopimento delle menti e delle coscienze, caratteristiche peculiari dell’ambiente elitario ed intellettuale danese. A sua volta viene attaccato e deriso da alcuni intellettuali. Sintomatico, a riguardo, è l’episodio del Corsaro, giornale umoristico diretto da Goldsmith con l’esteta amorale P. L. Moeller. Quest’ultimo, assieme ad altri scrittori, lo schernisce pubblicamente con articoli e caricature di dubbio gusto per circa un anno. Che cosa dire, invece, del rapporto che Kierkegaard ebbe con la chiesa danese? Come ben si sa, egli percepiva la chiesa danese estremamente lontana da quello che era il suo ideale di purezza e dedizione alla parola di Dio e agli insegnamenti delle Sacre Scritture. La vedeva corrotta, una sorta di “miope conservatrice” interessata al denaro e alla politica, più che alla salvezza delle anime24. Per questo motivo decise di mettere la sua attività di scrittore al servizio di un possibile rinnovamento della cristianità. Il suo sforzo, però, non fu gradito, soprattutto dal vescovo Mynster, capo della chiesa danese, che trattò il filosofo con sufficienza e fastidio. Infatti, per “levarselo di torno”, gli offrì un pastorato di campagna; ciò non bastò a limitare, o contenere, la critica di Kierkegaard che proseguì fino alla rottura con Mynster. Il filosofo danese, alla sua morte, avvenuta nel Novembre 1855, ricevette dalla Chiesa funerali trionfali; nonostante ciò la Chiesa Danese continuò a disapprovarlo, e a non riconoscere ed ammettere la corruzione della quale si rivestì.

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La sua cultura era vastissima: amava la letteratura antica nordica e quella europea contemporanea, la poesia classica (greca e latina), oltreché letteratura teologica e filosofica. 24 Kierkegaard denuncia i movimenti popolari libertari che attraversarono l’Europa di quegli anni; movimenti, oltretutto, accompagnati dal rischio di un possibile ateismo, ossia dal rischio di sostituire l’uomo a Dio.

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1.2. Produzione letteraria e pseudonimia. La produzione letteraria occupa tutta la vita di Kierkegaard che, grazie al cospicuo patrimonio paterno, al quale attinge, può rendersi autonomo ed in un certo senso libero da preoccupazioni economiche. La sua attività di scrittore è monumentale; fino alla morte non si occupa d’altro che di scrivere. Il suo era un bisogno irrefrenabile di esprimere ciò che aveva dentro, ma anche ciò che osservava fuori di sé. Da questo suo bisogno nasce un’opera vastissima che non segue un quadro sistematico, ma un percorso, quello del suo pensiero, spesso arduo e tortuoso. Può essere utile, per un’idea più chiara, stabilire una sorta di ordine che rispetti la biografia dell’autore e il contenuto stesso dei testi25. La prima grande suddivisione è quella tra le opere pseudonime, che costituiscono la cosiddetta “comunicazione indiretta”, e le opere che firmò con il suo nome, sia come autore che come editore, che appartengono alla cosiddetta “comunicazione diretta”. Capire l'imponente produzione letteraria di Kierkegaard non è mai stato semplice. Particolarmente complesso è comprendere il significato dei suoi pseudonimi; più specificatamente capire il legame tra le opere pseudonime e il loro "autore". I diversi pseudonimi sono scelti "ad hoc" ed esprimono le possibilità di esistenza: la vita estetica, etica e religiosa. Non esprimono mai, in maniera chiara e diretta il pensiero e la vita dell'autore vero e proprio, ossia Kierkegaard, anche se sostengono e riportano pensieri che possono essere definiti "suoi", in un certo senso sottintesi alla sua vita personale; vi è un continuo rimando a quest'ultima, anche se involontario. Le possibilità di esistenza che esprime per mezzo dei suoi pseudonimi isolano, ponendo in evidenza, gli aspetti di quella stessa vita che in Kierkegaard lottava, per un'evasione, per una via d'uscita.

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E’ possibile proporre qui un’analisi della produzione letteraria, facendo riferimento alla presentazione che ne offre Cornelio Fabro nella sua Introduzione ai volumi del Diario.

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Pseudonimi, i suoi, che scuotono; a tal punto che spesso rendono lo stesso autore una "terza persona" che legge i suoi testi, una sorta di "lettore" consapevole però di un pensiero che mai lo renderà estraneo, essendo, fondamentalmente, il proprio pensiero. La pseudonimia è un gioco particolare, particolare perché, a differenza di altri giochi, disvela una certa serietà che spesso, a detta di Cornelio Fabro, non è stata colta da svariati interpreti dell'opera kierkegaardiana, oppure è stata trattata con non poca leggerezza26. Kierkegaard, con questo metodo/gioco, raggiunge l'uomo e tutte le sue possibili vie che quest'ultimo potrebbe decidere di intraprendere nella propria esistenza. L'aspetto apparentemente ludico degli pseudonimi ha, in realtà, una serietà esistenziale molto forte. Quello che potrebbe apparire un gioco, una mascherata divertente, è un incontro di frammenti che disegnano i contorni di una logica paradossale dell'esistenza. Ogni pseudonimo esprime un dinamismo esistenziale, e a fondamento di ogni pseudonimo, esattamente come alla base di ogni esistenza, vi è libertà; una libertà estrema che tende a disvelarsi e velarsi allo stesso tempo. Come la libertà, anche un certo Kierkegaard gioca a nascondersi dietro gli pseudonimi e, nel medesimo istante, con molta cautela, si ri-vela. Le opere pseudonime possono essere divise, cronologicamente, in tre cicli: I) Ciclo di Regina: questo primo ciclo comprende testi importanti, quali Aut-Aut, Timore e Tremore e La ripresa. Aut-Aut (dello pseudonimo Victor Eremita) è la prima opera pseudonima, risalente al 1843. Si divide in due parti, nelle quali si svolgono due personalità, una estetica e l’altra etica, e si conclude con un accenno religioso sul tema che l’uomo ha sempre torto davanti a Dio. Questo scritto è un’opera, usando le parole di Kierkegaard, «dalla ragione molto profonda»27che chiarisce l’intento di un “Autora” che gioca a mascherarsi da lettore, o meglio, da testimone

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S. Kierkegaard, Opere, a cura di Cornelio Fabro, Sansoni editore, Firenze 1972, p.30. Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1842-1844, IV A 70; tr. It. Nr. 868.

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particolarmente interessato alle non-proprie ed inappropriabili produzioni. E’ notevole, a riguardo, un passo del filosofo danese in Postilla conclusiva non scientifica: “Che la mia concezione combaci con quella degli Autori, io non posso naturalmente saperlo con certezza, poiché io sono un semplice lettore. Invece mi rallegra il fatto che gli pseudonimi, certamente consapevoli del rapporto che ha la comunicazione indiretta alla verità come interiorità, non hanno per loro conto detto nulla, né hanno sprecato una prefazione per assumere un atteggiamento ufficiale rispetto alla loro produzione: come se un autore fosse, nel senso giuridico del termine, il miglior interprete delle proprie parole; come se potesse aiutare un lettore sapere che l’autore "voleva questa o quella cosa", se poi ciò non è stato realizzato; o come se fosse certo che ciò è stato realizzato perché l’autore stesso lo dice nella prefazione […]”.28

La mancanza di un autore (se per “mancanza” si intende un’assenza che si fa sentire) è il “mezzo” per introdurre il lettore nel movimento di pensiero della letteratura kierkegaardiana che incorona come proprio punto focale l’esistenza dalla quale, secondo il filosofo danese, la speculazione «si mantiene indifferente»29. L’autore pseudonimo è un dialettico, e utilizza la dialettica senza dimenticare la rilevanza dell’esistere e delle sue possibilità, e il ruolo essenziale proprio dell’interiorità30. Anche Timore e Tremore (firmata Johannes de Silentio) e La ripresa (dello pseudonimo Costantino Costantinus) sono del 1843. Queste due opere svolgono il tema della fede, ma lasciano intravedere anche qualcosa sul rapporto col padre e con la fidanzata. Esse sono dette anche “opere estetiche”, laddove però l’elemento estetico è utile a far emergere, per contrasto, quello etico-religioso. Da tenere in considerazione sono anche le due opere Stadi sul cammino della vita (del 1845) e Reo-non Reo, che riprendono la tematica trattata in questo primo ciclo. II) Speculazione filosofica: questo ciclo comprende una serie di opere strettamente speculative di grande importanza. La prima è Il concetto dell’Angoscia, del 1844, scritta dallo pseudonimo Vigilius Haufniensis. Questo scritto, forse il più famoso, tratta dell’essenza e 28

Søren Kierkegaard, Sguardo su uno sforzo contemporaneo nella letteratura danese in Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di Cornelio Fabro, Volume Secondo, ed. Zanichelli Bologna, 1962, pp. 61-62. 29 Ibidem. 30 In questo senso Il concetto dell’Angoscia pare differire dagli altri scritti pseudonimi, sia per la forma diretta di comunicazione del sapere, sia per l’interiorizzazione; entrambe si attuano nelle coerenze di un trasmettere consapevole di una conoscenza che già si possiede e necessita solo di essere “stimolata”.

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delle forme del peccato; a seguire, vi sono le Briciole di filosofia (1844) e la Postilla conclusiva non scientifica (1846) alle Briciole, entrambe scritte dallo pseudonimo Johannes Climacus, che trattano il problema della verità come decisivo per le possibilità dell’esistenza. Kierkegaard considerava la Postilla come sua opera principale, anche se non ebbe grande successo. III) Ciclo della Cristianità: Questa serie di libri è firmata da un unico pseudonimo, ossia AntiClimacus. La scelta di tale pseudonimo non è casuale: Johannes Climacus non è cristiano e propone un’analisi del Cristianesimo dal di fuori, poiché non possiede fede; Anti-Climacus, invece, è il suo contrario. Egli è il “Cristiano Straordinario” che comunica direttamente il Cristianesimo, e lo fa secondo un’esigenza di purezza e verità. Le opere di Anti-Climacus più importanti sono La malattia mortale, del 1848, che analizza il peccato nella forma della disperazione, e L’esercizio del Cristianesimo, del 1850, che tratta il tema del paradosso essenziale della fede. Queste due opere sono anche atti di accusa alla miopia della Chiesa di Stato. Lo scopo della pseudonimia è quello di rendere le opere dei veri e propri personaggi, dai pareri contrastanti, che dialogano tra loro. Ogni pseudonimo è la chiave di volta dell’opera che firma; qualsiasi interpretazione dell’opera deve sempre e necessariamente esplicarsi a partire dal nome dell’autore-pseudonimo. La comunicazione indiretta della pseudonimia è fondamentalmente una comunicazione di esistenza, poiché ogni pseudonimo rappresenta in sé una possibilità, tra le tante, di poter essere e di poter esistere. Tutte le possibilità esistenziali che Kierkegaard rappresenta per mezzo della pseudonimia sono presenti in lui. Egli le vive, ne coglie il movimento interno, le analizza nel dettaglio; ma non aderisce mai a nessuna di esse, o almeno, mai completamente31.

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Salvatore Spera, Introduzione a Kierkegaard, Editori Laterza, Bari 1992, pp. 66-67.

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La comunicazione indiretta è l’unica, secondo il filosofo danese, che tocca direttamente la persona; essa è un continuo radicamento e sradicamento di un io che risponde ad un essere chiamato per la vita e nella vita, nel flusso perenne ed inarrestabile della possibilità. Un Io non deve essere anonimo, e nemmeno “massificato”. Non si può guardare l’io da lontano, con distacco, poiché nel dire “io” non faccio altro che pormi in un’esistenza che è mia, che condivido con me; ed è raccapricciante pensare un io impersonale e troppo aperto alla condivisione come quello della massa: Kierkegaard sostiene il primato di un io personale, esistenziale e condiviso in un’intima “meità”, che caratterizza la comunicazione vera e propria. La comunicazione autentica avviene tra singolo e singolo che si scopre sempre come nuovo, in una verità che gli appartiene e che è tale poiché è impensabile lontana dall’esistenza. La possibilità veste la comunicazione indiretta che è tale poiché è l’unico tipo di comunicazione che palesa l’ambiguità e la precarietà di un’esistenza che, pur essendo finitezza, si affaccia nell’infinito. Se nella comunicazione indiretta la finzione è in «funzione esistenziale»32, nella comunicazione diretta, invece, non vi è alcun tipo di finzione, possibilità o pensiero “in divenire”, ma domina incontrastato il pensiero oggettivo, il “risultato”, ed è per questo motivo che questo secondo tipo di comunicazione non può “dire l’esistenza” poiché quest’ultima segue un certo andamento dialettico, essendo nel medesimo tempo finitezza ed infinitezza. La comunicazione diretta comprende opere come Il punto di vista della mia attività di scrittore (1859, postumo) e Giudicate voi stessi (1851-52); ma la comunicazione diretta più completa è sicuramente quella del Diario: iniziato il 15 aprile 1834 e chiuso il 25 settembre 1855, accompagna, si può dire, tutta la sua attività di scrittore. Contiene numerose e preziose informazioni biografiche e di polemiche letterarie, abbozzi di temi svolti nelle sue opere, commenti di vario genere e anche preghiere. E’ un testo importante che scrisse per sé: 32

Giuseppe Cristaldi, Il “senso” della fede in Kierkegaard, ISU, Milano 1983, p. 32.

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discontinuo in alcune sue parti, manchevole di una trama e complesso nello stile di scrittura, come del resto tutti i testi kierkegaardiani.

1.3. Il rapporto con l’hegelismo, critica dell’Idealismo e la categoria dell’esistenza. “Una cosa è sempre sfuggita a Hegel: cos’è vivere: egli sa soltanto rendere la vita - e se in questo è maestro, è anche certo ch’egli è la più stridente antitesi di un maieutico”33

Nella filosofia di Kierkegaard riveste un ruolo fondamentale il pensiero di Hegel. Il filosofo danese realizzò una conoscenza piuttosto vasta dell’opera hegeliana sia durante gli studi teologici, a Copenaghen, sia nel periodo trascorso in Germania. Dal pensiero hegeliano ha sicuramente estratto vari temi e ripreso la struttura dialettica del pensiero e della realtà umana, rielaborandoli in maniera piuttosto personale. Rispettando e riconoscendo la rilevanza dell’attività hegeliana ne ha preso le distanze, attaccando con un certo vigore un’impostazione filosofica a suo parere scorretta. In primis l’idealismo cercava il “Cominciamento” della riflessione, e lo identificava in un’astrazione, come l’A=A di Fichte e l’essere come nulla di Hegel. Kierkegaard, invece, sosteneva che il filosofare appartiene come atto all’esistente; l’astrazione è sempre e comunque compresa dal pensiero di un concreto essere umano. Per trovare il vero “Cominciamento” è necessario, perciò, spostare l’attenzione dall’astratto al concreto, quindi tornare all’uomo, accostarsi all’esistente. E’ essenziale, per il filosofo danese, passare dal pensiero “astratto” al pensiero “concreto”; l’uomo pare dissolversi in un’astrazione nell’umano che tende a farlo apparire come incarnazione di un mero concetto. L’uomo è soggetto pensante, ma non solo: il singolo è sintesi di anima e corpo, che trovano unione nello “spirito”, fondamentalmente libero. Gli idealisti non ebbero interesse a sottolineare

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Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1846-1847, VII1 A 153; tr. It. Nr. 1249.

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l’importanza dell’uomo come singolo e della libertà, essendo troppo impegnati a fondare il pensiero semplicemente su se stesso. L’idealismo, inoltre, si costituì come dottrina sistematica e assolutizzante. Il mondo, in tutte le sue forme e varianti, era frutto di un’originarietà identitaria in grado di produrre movimento e differenza. Il mondo, per gli idealisti, era dominato dalle leggi immutabili della logica. Per Kierkegaard, invece, l’umanità e la storia esistono, sono scosse, da un continuo movimento, e non possono assolutamente essere governate dalla logica e da quella sistematicità esasperata decantata dal pensiero idealista. Per quanto riguarda il processo dialettico, esso è, per Hegel, una combinazione delle diverse determinazioni dei fenomeni, un movimento che culmina sempre nella famosa “sintesi”. Per Kierkegaard la sintesi è possibile solo nel pensiero astratto, perché nella realtà concreta gli opposti non possono essere superati e sintetizzati; le contraddizioni non possono essere tolte dalla vita, poiché ne costituiscono l’essenza. E’ necessario riscattare l’esistenza: essa non può essere ridotta ad una mera generalità o al semplice pensiero. Il singolo uomo esistente è altro dall’idea, la sua esistenza va oltre. “In ogni problema esistenziale, l’essenziale è sempre ciò che esso significa "per me" […]”34.

Con queste parole Kierkegaard vuole semplicemente sottolineare che l’esistenza è prettamente un problema umano, e in quanto tale non può essere né ignorato, né evitato: «La difficoltà quanto allo speculare ˗ afferma ancora ˗ cresce in rapporto a come esistenzialmente si deve usare ciò su cui si specula»35. Comprendere il valore dell’esistenziale in un contesto speculativo-astratto pare essere, per il filosofo danese, un compito piuttosto arduo. Caratteri dell’esistenza sono il divenire e il dinamismo temporale, che non possono essere inquadrati, o meglio, “sistematizzati”: “Succede alla maggior parte dei filosofi sistematici, riguardo ai loro sistemi, come di chi si costruisse un castello e poi se ne andasse a vivere in un fienile: per conto loro essi non vivono in quell’enorme 34

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1846, VII1 A 33; tr. It. Nr. 1157. Op. Cit., 1846, VII1A 80; tr. It. Nr. 1190.

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costruzione sistematica. Ma nel campo dello spirito ciò costituisce un’obiezione capitale. Qui i pensieri, i pensieri di un uomo, devono essere l’abitazione in cui egli vive, ecc: altrimenti son guai.”36

I pensieri del singolo devono necessariamente includere l’esistenza: essa non conosce i confini di un’inquadratura senza crepe. L’esistenza è precaria, in nome di una possibilità che è continuo turbamento. Non si può costruire un “castello” palesemente inabitabile. L’esistenza va oltre qualsiasi schema prestabilito. In Postilla conclusiva si legge che essa «non può essere pensata senza movimento»37, poiché è dominata dalla possibilità, non dalla necessità, in quanto l’uomo è dotato di capacità di scelta, in qualsiasi situazione. Per questo motivo l’esistenza ha natura a-teoretica, cioè è essenzialmente un “fare”, un impegno, lo stesso agire che il filosofo danese chiama più volte “interesse”. Anche la filosofia è impegno, un pensiero morale ed etico più che gnoseologico. Ed è con questo tipo di impegno che Kierkegaard ci mostra i due stadi fondamentali dell’esistenza: quello estetico e quello etico. Essi sono irriducibili l’uno all’altro, non si conciliano. «Il punto di vista estetico ˗ scrive Kierkegaard ˗ è una possibilità di esistenza»38. L’uomo estetico vive il momento e gode di piaceri effimeri che durano un attimo. Solo scegliendo l’impegno si passa alla vita etica, che è possibilità di un’esistenza all’insegna della responsabilità e non solo: la vita etica è riconquista del sé, è scelta di un sé interiore. Si sceglie di “cercare dentro”, e non più fuori di sé, la risposta ad ogni possibile quesito. E’ così che emerge il significato di Aut-Aut: o si sta da una parte o dall’altra, o bianco o nero, non esistono vie di mezzo, non esiste alcuna grigia e mera mediazione: «[…] la verità si riconosce dal fatto che le tocca soffrire»39. Vediamo qui, ancora una volta, un Kierkegaard critico nei confronti dell’idealismo.

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Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1846, VII1 A 82; tr. It. Nr. 1192. Søren Kierkegaard, La soggettività reale in Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di Cornelio Fabro, Volume Secondo, ed. Zanichelli Bologna, 1962, p. 120. 38 Søren Kierkegaard, Sguardo su uno sforzo contemporaneo in Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di Cornelio Fabro, Volume Secondo, ed. Zanichelli Bologna, 1962, p. 102. 39 Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1848-1849, IX A 487; tr. It. Nr. 2039. 37

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1.4. La verità che salva l’uomo. Per Kierkegaard la realtà umana necessita di considerazione. Egli non rifiuta la logica e l’astrazione per perdersi nell’irrazionalità; piuttosto cerca di comprendere l’ideale di un’esistenza strutturata, permeata di valori precisi. L’uomo, in quanto tale, è visto nella prospettiva della finitezza, dell’insufficienza dell’essere; un essere che sente il bisogno di “fondamenta” sicure, e queste, per Kierkegaard, sono trascendenza e fede. La verità che salva è la verità che egli cerca in modo tanto affannoso, perché tutto, attorno a lui, sembra negare la vita e l’esistenza: l’idealismo è fondamentalmente ateo, il Protestantesimo è al servizio dello Stato, materialismo e positivismo vogliono distruggere i principi metafisici. Il Cristianesimo sarebbe l’unico modo per superare questa diffusa apostasia, secondo il filosofo danese; un Cristianesimo che sia orientamento filosofico e teologico, e non l’ennesimo “sistema”. «Il Cristianesimo - afferma Kierkegaard - è una comunicazione di esistenza e può essere esposto soltanto con l’esistere». 40 Non basta aver scelto la vita etica. Bisogna fare il salto di qualità, e giungere alla fede. La prima vera forma di religiosità umana è quella di Socrate, colui che, per il filosofo danese, ha raggiunto il vertice della saggezza prima e fuori del Cristianesimo. Consapevole di sé, cosciente di non conoscere la verità assoluta, fondatore di una morale che affonda le proprie radici nella libertà individuale, aspirò con tanta volontà alla trascendenza, ma senza poterla afferrare41. Del resto, secondo Kierkegaard, neanche il pensiero moderno, chiuso in se stesso, è riuscito ad attingere la trascendenza. La filosofia moderna ha riflettuto secondo l’esigenza della necessità, utilizzando la ragione come principio di certezza assoluta. 40

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1848-1849, IX A 207; tr. It. Nr. 1864. Troviamo riferimenti continui a Socrate nel Diario in rapporto all’importanza di esistenza, singolo e soggettività (per esempio: I A 181; VIII1 A 23; VIII1 A 189). Kierkegaard, per aver trattato questi temi, viene anche chiamato il “Socrate del Nord” (Cfr. Introduzione in Diario vol. I, a cura di Cornelio Fabro). 41

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La fede Cristiana, a differenza della prima forma naturale di religiosità, esprime il verbo incarnato, l’accettazione del paradosso di un Dio fattosi uomo, Gesù, e il rapporto fondamentale dell’uomo con l’eterno. Solo questo tipo di fede, per Kierkegaard, salva dalla disperazione e vince l’angoscia.

1.5. La verità soggettiva e la libertà di scegliere. La verità è opera del soggetto conoscente, è qualcosa che gli appartiene; l’uomo si pronuncia sulla verità partendo da una prospettiva personale, dai suoi bisogni e dalle sue esperienze passate. Le verità di tipo esistenziale, come quelle morali e metafisiche, sono le più soggettive perché riguardano il singolo individuo in prima persona, rispetto ad altre verità come quelle matematiche che, ad esempio, si fondano su leggi precise. Kierkegaard considera il soggetto, la singolarità, nel suo divenire. La verità è appropriazione personale: «Quando una verità vince per opera di diecimila uomini in agitazione, anche supponendo che ciò che vince sia una certa verità, per la forma e il modo con cui vince, vince una falsità ancora più grande»42. La verità è, quindi, una certa presa di posizione della persona nella sua interezza, e non oggetto di condivisione fra più uomini. Non è un prodotto dell’uomo, ma un qualcosa che quest’ultimo fa sua nel momento in cui la porta a compimento. In campo etico la soggettività della verità è data dall’autonomia del comportamento individuale; non un dovere morale prestabilito e uguale per tutti, bensì un impegno personale che ogni singolo uomo attua in sé, e non fuori di esso. E’ il dovere “per me”, o “per te”. In ambito religioso la verità soggettiva è accettazione della fede in Dio, ossia un movimento interiore ed esteriore mediante il quale l’individuo, il singolo, sceglie liberamente di credere. Tale volontà libera dell’uomo, difesa a spada tratta dal filosofo danese, non è una funzione della ragione, poiché non è quest’ultima che porta il singolo uomo a credere. 42

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1847-1848, VIII1 A 605; tr. It. Nr. 1672.

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Kierkegaard non rinnega la ragione, della quale ha fatto largo uso, e non le toglie valore. La ragione, però, in una logica esistenziale, ha i propri limiti. Vi è un uso precario della ragione quando si tenta di risolvere problemi indefiniti che vanno oltre l’ambito razionale. Uno di questi problemi è, appunto, quello della fede.

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Capitolo II

Tra Fede ed Esistenza

2.1. Esistere per una Fede nuova. Kierkegaard, come emerge dal suo Diario, rivendica una certa originalità di pensiero in ambito religioso: “Nei miei scritti ho dato un’ulteriore determinazione del concetto sulla fede che non era stata data finora.”43

Ma cosa intende dire quando parla di un’ulteriore determinazione del concetto di fede? Sicuramente non vuole lasciare intendere di aver fondato una scuola, o di aver dato vita ad un nuovo sistema filosofico-teologico, cosa che egli stesso aborriva, ribadendo con decisione che « […] Il sistema contiene indirettamente una falsità come se noi tutti fossimo veramente cristiani: dato che si ha il tempo di mettersi a imbastire sistemi […]»44. Non bisogna perdere tempo creando sistemi che sì sono sempre costruzioni interessanti, ma sono manchevoli, in realtà, di contenuto. In rapporto alla fede bisogna domandarsi quanto si è disposti a credere, quanto si è veramente cristiani, e quale sia il nostro concetto di fede. Se si pongono le suddette questioni, con un certo grado di serietà, ci si accorge che, per Kierkegaard, la fede ha perso quel primato essenziale nell’esistenza dell’uomo. L’uomo non sa più cosa sia la fede poiché quest’ultima si confonde oramai tra le cose terrene; non è più

43

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1850, X5 A 591; tr. It. Nr. 3232. Op. Cit., set. 1849, X2 A 561; tr. It. Nr. 2420.

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quel qualcosa che elevandosi al di sopra dell’uomo lo illumina e ne vivifica l’esistenza. Un Cristianesimo inesistente ha mortificato la fede, e in alcuni casi anche fraintesa. “Ahimè, da troppo tempo la fede non si trova più nel mondo, e perciò non muove il mondo. La fede si è lasciata ingannare e trasformare in un punto dentro il mondo; perciò essa muove al più come un qualsiasi altro punto dentro il mondo, produce qualche circolazione di probabilità, occasiona qualche piccolo episodio; ma non muove più come "il punto fuori".”45

Queste parole mostrano una decadenza insostenibile. L’unico modo, secondo Kierkegaard, per risollevarsi da questa sorta di stasi è “l’ulteriore determinazione della fede”: in sostanza è necessario reimpostare il discorso che concerne la fede su nuove basi. Si paleserà, allora, che ad essere frainteso non è stato l’oggetto del credere, ma piuttosto il modo di rapportarsi ad esso. Nella costruzione di una certa fede, di una religione piena di crepe, in pratica, si è commesso un errore non nella scelta del materiale, ma nell’uso che se n’è fatto di quest’ultimo. «…la Fede, fides obiectiva ovvero quae creditur, rimane assolutamente immutata»46, perciò necessità di innovazione non nel “ciò”, ma nel “come”: “[…] la situazione nuova non è un nuovo "ciò" ma un nuovo "come" del vecchio "ciò".” 47

E’ necessario, quindi, chiarire il significato del “nuovo come” da un punto di vista prettamente esistenziale.

2.2. Una Fede a ridosso dell’Esistenza. «Dal punto di vista cristiano la Fede abita nell’esistenziale…»48 e non può essere disgiunta da esso. Si può dire, anzi, che la credenza sia l’esistenza stessa. L’esistenza è un mutamento continuo, una molteplicità di frammenti che creano contraddizioni ineluttabili. Secondo Kierkegaard sarebbe un divenire insensato, per l’uomo, se un “credo” non lo soccorresse:

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Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1849-1850, X2 A 529; tr. It. Nr. 2866. Op. Cit., 1850, X5 A 98; tr. It. Nr. 3766. 47 Op. Cit., 1854, X3 A 593; tr. It. Nr. 3233. 48 Op. Cit., 1854, X1 A 237; tr. It. Nr. 3989. 46

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“Per tutta la vita mi troverò sempre nella contraddizione, perché la vita stessa è contraddizione. Da una parte ho la verità eterna; dall’altra la molteplicità dell’esistenza che l’uomo come tale non può penetrare, perché dovrebbe essere onnisciente. Ecco perché l’anello di congiunzione è la fede.” 49

E’ necessario, prima di tutto, prendere coscienza della finitezza dell’uomo e della sua conoscenza limitata. Dopodiché la fede potrà riprendere la sua funzione di “giuntura” tra i vari tipi di esistenza nello scorrere del tempo della vita e consentire all’uomo di liberarsi dalle catene del finito e volgersi all’eterno. Come afferma Kierkegaard «La Fede […] unisce i momenti, le fratture dell’esistenza»50e l’esistere, di per sé, è ciò che distingue l’uomo da Dio. Nell’abisso tra l’uomo e l’eterno vi è un ponte chiamato “fede”: “[…] Dio non esiste. Solo per un esistente Dio esiste: cioè egli può ec-sistere nella Fede.”51

E ancora: “Quando un esistente non ha la fede, né Dio è, né Dio ec-siste.”52

Dio è, fondamentalmente, colui che “è”; l’esistere, invece, è proprio della creatura. Kierkegaard ragiona in questi termini anche in Postilla Conclusiva: “Dio non pensa, Egli crea, Dio non esiste, Egli è eterno. L’uomo pensa ed esiste e l’esistenza distingue il pensiero e l’essere, li tiene separati nella successione.” 53

L’esistenza si compone, nel divenire, di vari momenti; la vita dell’uomo va sempre considerata “in situazione”. Nel binomio fede-esistenza non vi è prima la comparsa della fede e poi quella dell’esistere. La fede necessita di una “situazione esistenziale” che la preceda e la prepari; un momento nel quale l’uomo sente dentro sé che può e vuole credere. «Per avere la Fede ˗ afferma Kierkegaard ˗ occorre anzitutto un’esistenza, una determinazione esistenziale. E’ quel ch’io non riuscirò ad inculcare mai abbastanza, che per avere la Fede è necessaria una situazione e questa situazione deve essere prodotta con un passo esistenziale 49

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1844, V A 68: tr. It. Nr. 1037. Op. Cit., 1846, VII1A 139; tr. It. Nr. 1237. 51 Ibidem 52 Ibidem 53 Søren Kierkegaard, La soggettività reale in Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di Cornelio Fabro, Volume Secondo, ed. Zanichelli Bologna, 1962, p. 140. 50

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dell’individuo»54, necessario per poter riemergere da condizioni di difficoltà estreme. Sempre più spesso sperimentiamo, nel quotidiano, quanto sia arduo “andare avanti” e quanto sia semplice sentirsi soli passeggiando, sospesi, su un abisso. Quanti uomini hanno paura e cadono? La vita è una lotta continua, con l’altro e con noi stessi, alla quale non siamo mai abbastanza preparati; e combattendo spesso abbandoniamo il campo, per paura di perdere. L’uomo che vive in una certa fede non solo ha più probabilità di vincere, ma riesce anche a mantenersi in piedi tra i vari conflitti dell’esistenza. «Così ˗ asserisce Kierkegaard ˗ è la serietà della Fede la cui vera lotta è di lottare con Dio, la lotta col mondo, i suoi dolori e le sue gioie, sono come uno scherzo»55. L’uomo, se crede, non combatte mai solo: questo è un importante aspetto del “nuovo come”. La “lotta con Dio” potrebbe apparire paradossale; l’uomo termina una lotta terrena per iniziarne una con Dio. E in tutto questo dove risiede la speranza? Questo quesito riemerge spesso tra le questioni trattate, e lo stesso Kierkegaard non riesce a chiarirlo bene. Credere significa accettare di mettere in discussione se stessi e ciò che si ha per una verità superiore. Il filosofo danese non dice mai che credere sia semplice: la fede non si apprende, essa è un compito che dura una vita intera e non sta mai al di sopra delle possibilità umane: “Appena una generazione si preoccupa soltanto del suo compito, che è l’obiettivo più alto, non può davvero stancarsi, poiché il compito è sempre sufficiente per la vita di un uomo […].”56

La fede è, per Kierkegaard, un’esperienza fondamentale radicata nel percorso esistenziale, comune a tutti gli uomini ma che ciascuno, singolarmente, affronta in modo particolare confidando solo sulla propria “meità”.

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Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1851-1852, X4 A 114; tr. It. Nr. 3415. Op. Cit., 1846-1847, VII1A 207; tr. It. Nr. 1291. 56 Søren Kierkegaard, Timore e Tremore, a cura di Cornelio Fabro, ed. Bur, Milano 1986; epilogo, pp. 155-156. 55

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2.3. La fede come rapporto di personalità. Scrive Kierkegaard nel Diario: “La fede esprime un rapporto di personalità a personalità. La personalità non è una somma di tesi, neppure una cosa immediatamente accessibile, la personalità è un ripiegarsi in sé stessi, un clausum, un áduton (impenetrabile), un mistérion. La personalità è ciò che sta dentro, per cui anche il termine "persona" (personare) è significativo, ciò che è dentro, ciò a cui qualcuno, che a sua volta è personalità, deve rapportarsi credendo. […] In questo rapporto puramente personale fra Dio come personalità e il credente come personalità, nell’Esistere, sta il concetto della Fede…”57

Il concetto della fede è radicato nel rapporto personale tra Dio e uomo, che devono essere considerati come due personalità. La personalità dell’uomo, ciò che egli ha dentro, la sua interiorità, deve rapportarsi direttamente con la personalità di Dio, che è un clausum un áduton. L’uomo può cogliere il mistero di Dio solo in sé stesso, senza alcun tipo di mediazioni, aprendosi alla fede. Kierkegaard rimanda, quindi, la fede alla sfera della soggettività esistenziale; l’uomo, però, non si ripiega su di sé ma accetta, nel suo io più interiore, la verità trascendente, facendola propria. Per questo motivo il filosofo danese afferma che: «La verità è la soggettività»58, perché solo se la si comprende in questo senso la verità della fede è interiorità, è dell’uomo. La verità oggettiva, invece, è separata dall’individuo, non gli appartiene: “Per la riflessione oggettiva la verità diventa qualcosa di oggettivo, un oggetto, e si tratta di vederlo separato dal soggetto; per la riflessione soggettiva invece la verità diventa appropriazione, interiorità, soggettività e si tratta per l’appunto di approfondirsi esistendo nella soggettività.” 59

Kierkegaard approfondisce la distinzione tra riflessione oggettiva e riflessione soggettiva, in un ulteriore passo, in relazione all’interiorità:

57

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1854, XI1 A 237; tr. It. Nr. 3989. Søren Kierkegaard, La verità soggettiva in Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di Cornelio Fabro, Volume Secondo, ed. Zanichelli Bologna, 1962, p. 40. 59 Ibidem, pp. 3-4. 58

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“Se ci si dimentica di essere un soggetto esistente, la passione se ne va, la verità non diventa per compenso qualcosa di paradossale, ma il soggetto conoscente, da uomo che era, diventa un’entità fantastica e la verità un oggetto fantastico per questo conoscere.” 60

E’ importante sottolineare, inoltre, che Dio è soggetto Egli stesso, e può essere concepito solo soggettivamente. Infatti, sempre nella sua Postilla, Kierkegaard afferma che «Dio è soggetto e quindi esiste solo per la soggettività nell’interiorità»61. La soggettività è verità, e la verità è la passione dell’infinitezza, cioè fede. Perciò la nuova determinazione della fede, il “nuovo come” si chiarisce nella soggettività: la religione deve essere un fatto prettamente personale, un nuovo modo di rapportarsi a Dio nel rispetto di un’interiorità assopita, che andrebbe risvegliata, e nel superamento dell’oggettività in un’esistenza sempre troppo precaria: “[…] perché Dio è proprio la negazione di tutto ciò che è "fino ad un certo punto".” 62

2.4. Scelta e impegno: la soggettività della verità come libera volontà. L’uomo decide di credere volontariamente, usando la propria libertà. Per volontà non si intende un volere, un’intenzione qualsiasi, bensì un atto in grado di esprimere un convincimento interiore. Non si tratta di un credere vago, di un mero credere, ma di un “voler credere”. La fede, quindi, si configura come scelta che l’individuo realizza liberamente. Kierkegaard, però, sottolinea il fatto che la decisione deve essere certa e categorica: o si accetta la fede come qualcosa di assoluto, o non la si accetta affatto. Ma com’è possibile parlare di libertà di scelta, di libera fede, se poi quest’ultima si pone come dovere, quindi, di fatto, una scelta obbligata? Viene spontaneo chiedersi se ciò non significherebbe perdere la libertà in se stessa. Kierkegaard afferma, però, che nulla si perde;

60

Søren Kierkegaard, La verità soggettiva in Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di Cornelio Fabro, Volume Secondo, ed. Zanichelli Bologna, 1962, p. 10. 61 Ibidem, p. 11. 62 Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1849-1850, X2 A 644; tr. It. Nr. 2936.

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l’uomo, nell’attimo in cui ammette che nella fede non esiste scelta, esalta la propria “libera libertà”, scegliendola. Ciò sembrerebbe paradossale, ma la scelta è fondamentale: solo scegliendo la fede, la libertà si presenta in quanto tale, mostrando il pathos e l’intensità della scelta. Solo così l’uomo diviene spirito: “Così dunque c’è qualcosa rispetto alla quale non si deve scegliere, e secondo il cui concetto non vi può essere questione di scelta e che pure è una scelta. Quindi, proprio questo che non vi è alcuna scelta, esprime con quale intensità e passione immensa uno sceglie. Si potrebbe esprimere con precisione maggiore che la libertà di scelta è solo una determinazione formale nella libertà? E che proprio l’accentuazione della libertà di scelta come tale è la perdita della libertà? Il contenuto della libertà è decisivo a tal punto per la libertà. Che la verità della libertà di scelta è appunto di ammettere che qui non ci deve essere scelta, benché sia una scelta. Questo è essere "spirito".”63

L’uomo, però, non è del tutto “spirito”, poiché spesso esita nel compiere la scelta assoluta; l’uomo vuole riflettere sulla sua libertà di scegliere, e sulla possibilità di scegliere. Ma è proprio nel momento in cui esita che egli perde sia la libertà, sia la libertà di scelta. L’attimo di esitazione, nella scelta, è prettamente umano: ed è proprio questo particolare momento che fa sì che l’uomo non si completi come spirito. Scegliendo la “libertà di scelta” l’uomo sceglie di continuare a scegliere e, nell’imperitura indecisione, egli perde «e la libertà e la libertà di scelta […]»64. La soggettività è scelta, ma anche impegno. Un certo sforzo, nella propria interiorità, a mantenersi coerenti nelle decisioni deve accompagnarsi ad un impegno: quello di dare un’evidenza concreta alla propria scelta. La sola fides luterana, la sola interiorità delle fede non basta poiché tale interiorità, per quanto forte ed intesa, senza l’impegno tende a “svanire completamente”65. La fede deve essere viva, attiva, come lo spirito che anima il corpo: chi crede non deve essere passivo. La soggettività che agisce allontana il fatalismo:

63

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1850, X2 A 428; tr. It. Nr. 2793. Ibidem 65 Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1849-1850, X2 A 207; tr. It. Nr. 2661. 64

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“[…] ad un certo punto bisogna arrestarsi alla soggettività. Il rendere la scala tanto grande e difficile, può essere lodevole come un’espressione della maestà per l’infinità di Dio. Ma escludere la soggettività non si può, a meno che non si voglia cadere nel fatalismo.” 66

L’impegno è qualcosa che implica rinuncia e sacrificio per la verità. Nella logica del Cristianesimo, infatti, bisogna «lasciarsi uccidere per la verità e finir martiri […]»67.

2.5. Comprendere che non si può Comprendere. Kierkegaard spiega che l’oggetto della fede, nella sfera dei fenomeni fisici che noi percepiamo, è ciò che non si vede; nella sfera dell’intelligibile, cioè di ciò che possiamo comprendere, è l’inverosimile, ossia ciò che non rientra in una logica della necessità: “La Fede si rapporta a ciò che non si vede. Nella realtà della natura (secondo un’opposizione fisica) all’invisibile, nel mondo dello spirito (secondo un’opposizione spirituale) all’inverosimile.” 68

Una domanda sorge spontanea: com’è possibile scegliere se l’oggetto della scelta è precluso alla nostra comprensione? La fede è un concetto inelaborabile dalla nostra intelligenza. Filosofi come Platone e Aristotele consideravano un certo credo come un concetto appartenente alla sfera dell’intelletto. Ma Kierkegaard non ha mai condiviso un tale pensiero. Prima di comprendere bisogna, innanzitutto, credere: “Dio non si è esibito in veste di docente che ha alcune tesi: no, prima bisogna credere e poi comprendere.”69

La fede richiede una sorta di dedizione particolare da parte dell’uomo. L’uomo deve credere anche non potendo vedere, credere anche contro la ragione. In questo senso la fede, per Kierkegaard, è una categoria etica che «indica il rapporto di personalità tra Dio e l’uomo»70.

66

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1849-1850, X2 A 301; tr. It. Nr. 2708. Op. Cit., 1849, X1A 217; tr. It. Nr. 2193. 68 Op. Cit., 1846-1847, VII1A 203; tr. it. Nr. 1288. 69 Op. Cit., 1854, XI1A 237; tr. It. Nr. 3989. 70 Carte sparse, 1853-1855, XI2A 380; tr. It. Nr. 4445. 67

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Nella fede non conta la speculazione, o la dottrina, bensì la persona. Il Cristianesimo, afferma Kierkegaard, è «comunicazione di esistenza»71 perciò il credente è «l’uomo di carattere il quale, assolutamente obbediente a Dio, capisce come un compito di carattere non si deve voler comprendere»72. Il credente deve avere “carattere” per comprendere quello che è l’oggetto della fede, cioè l’inverosimile, l’assurdo. Senza “carattere” è impossibile sopportare gli attacchi di chi schernisce, perennemente, mettendola in ridicolo, una certa fede. E’ indispensabile, perciò, credere contro tutti e contro tutto: “Allo scherno spiritoso di tutta l’intellettualità si risponde: "Certo, da quel punto di vista la cosa è ridicola, immensamente ridicola; è la più ridicola; è la più ridicola di tutte ma tu devi credere".” 73

2.6. Fede e dialettica doppia. La fede è, per Kierkegaard, una seconda immediatezza che va oltre la prima, che comprende l’esperienza finita e la sfera intellettuale. A questa seconda immediatezza appartiene ciò che il filosofo danese chiama “dialettica doppia” o doppio pericolo. Ogni categoria dello spirito è dialettica in quanto scaturisce da un’opposizione di contrari; opposizione, questa, che non necessita del superamento dei due contrari in un terzo, ma che si nutre di se stessa. Tale opposizione rappresenta il doppio pericolo dell’essere cristiano, che consiste, in primis, nel «perdere la ragione ed essere crocifissi al paradosso»74 e poi nel «vivere nel mondo della mondanità, ed esprimere in esso che egli è cristiano»75. Per l’uomo è difficile affrontare questo “doppio sforzo”, ed è semplice subire la tentazione di tornare a quella prima immediatezza dei “meccanismi intellettuali”. Gli uomini “soffrono” il cammino della fede: molti si rassegnano, e molti arrivano tardi, dopo una vita di sofferenza e

71

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1849-1850, X2A 119; tr. It. Nr. 2606. Op. Cit.,1849, X1A 367; tr. It. Nr. 2284. 73 Op. Cit., 1849, X1A 187; tr. It. Nr. 2171. 74 Op. Cit., 1848-1849, IX A 414; tr. It. Nr. 1989. 75 Ibidem. 72

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riflessione. Per questi ultimi la fede è la seconda immediatezza, il “nuovo come”: una possibilità d’esistenza.

2.7. Fede e Filosofia. Il primato del possibile mantiene in una certa evidenza la fede, che risulta essere inconciliabile con la filosofia, in particolar modo quella hegeliana. Il dubbio, che gli antichi, Greci soprattutto, assumevano come base della loro riflessione e dei loro studi, diviene con Kierkegaard punto di partenza fondamentale. Una certa filosofia hegeliana dà per acquisito il dubbio, pretende un sorpasso di quest’ultimo e, inoltre, crede di poter comprendere la fede e di superarla, dimenticando che essa non è ciò dalla quale si inizia per poi andare oltre: “Quando il vecchio esperto si avvicinava alla sua fine, dopo aver combattuto la sua battaglia e conservato la sua fede, il suo cuore era ancora abbastanza giovane da non dimenticare l’angoscia e il timore che l’avevano formato da giovane… Dal punto al quale quelle venerabili figure riuscivano ad avvicinarsi, ai nostri tempi invece ciascuno comincia per andare oltre.”76

Kierkegaard, pur essendo pensatore e filosofo, prende le distanze da quel tipo di filosofia che non riconosce l’importanza di una certa fede. Se fosse possibile concettualizzare la fede, ciò, in ogni caso, non basterebbe per comprenderla. La filosofia, non comprendendo la fede, non può deriderla né sostituirla con qualcos’altro. Infatti, «la filosofia non può e non deve dare la fede»77, perciò essa non può che comprendere se stessa e «non togliere nulla all’uomo e tanto meno stordirlo su qualcosa come se fosse nulla»78.

76

Søren Kierkegaard, Timore e Tremore, a cura di Cornelio Fabro, ed. Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1986; Prefazione, p. 28. 77 Søren Kierkegaard, Timore e Tremore, a cura di Cornelio Fabro, ed. Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1986; Problemata, p. 54. 78 Ibidem.

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La filosofia può dare man forte nell’avvicinamento ad un certo e personalissimo credo ma, usando sempre le parole di Kierkegaard, dando uno sguardo ai suoi quadri «non sono sempre paesaggi o fiori o idilli pastorali»79.

79

Ibidem.

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Capitolo III

Il Singolo uomo

3.1. Una nuova categoria. “Se io dovessi domandare un epitaffio per la mia tomba, non chiederei che "quel Singolo" - anche se ora questa categoria non è capita. Lo sarà in seguito. Con questa categoria "il Singolo", quando qui tutto era sistema su sistema, io presi polemicamente di mira il sistema ed ora di sistema non si parla più. A questa categoria è legata assolutamente la mia possibile importanza storica” 80.

Kierkegaard ha piena consapevolezza della rilevanza della categoria del Singolo, da lui elaborata, e del fatto che da essa sarebbe dipesa la sua importanza nella storia. Ma chi è il Singolo? Il Singolo è l’uomo nella sua dimensione reale, l’esistente; è l’individuo particolare che dà valore a se stesso e alle sue capacità, e che riconosce la sua unicità e diversità da tutti gli altri. Il Singolo è l’uomo che Kierkegaard cerca di allontanare da un sistema che lo rende astratto. Il Singolo non può e non deve essere pensato come concetto: l’uomo è, si fonda nel divenire, e la sua vita è reale e concreta. Anche Aristotele, nella sua Ethica, affermò che l’esistenza si fonda sulla “singolarità” e Kierkegaard non fa altro che ribadirlo nel suo Diario:

80

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1847-1848, VIII1A 482; tr. It. Nr. 1616.

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“L’esistenza corrisponde alla realtà singolare (ciò che già insegnò Aristotele): essa resta fuori, ed in ogni modo non coincide con il concetto. Per un singolo animale, una singola pianta, un singolo uomo l’esistenza (essere - o non essere) è qualcosa di molto decisivo; un uomo Singolo non ha certo un’esistenza concettuale” 81.

La filosofia hegeliana non riconosce l’uomo. Kierkegaard compensa questa “mancanza” trovando conforto nell’inestimabile pensiero dei grandi filosofi greci. In particolar modo nel pensiero di Socrate, che pone l’accento sull’esistenza e ricerca il significato più profondo dell’essere uomo, in quanto interiorità ed in quanto Singolo tra i singoli. Il filosofo danese, però, va oltre il pensiero dell’antichità: nella prospettiva cristiana l’uomo è principalmente “spirito”, non solo nella sua realtà concreta, ma soprattutto in rapporto a Dio.

3.2. Il Singolo e la folla. L’uomo deve mostrarsi per quello che è, deve “denudarsi” ed essere completamente se stesso; egli deve presentarsi nella sua individualità, come singolo. L’uomo, però, vive in mezzo ad altri uomini; uomini che, davanti al singolo sono numero, sono folla. L’uomo, con la sua singolarità, deve essere in grado di distinguersi dal numero; egli deve emergere dalla folla e combattere l’indistinzione. Egli deve «sopportare come Singolo l’opposizione del numero, l’eterogeneità del concetto […]»82 poiché l’uomo è spirito, e nel mondo dello spirito conta solo la differenza: essere Singolo non significa essere uno come tanti, uno qualunque fra i tanti. Piuttosto significa essere un personale e determinato “me”. La folla è un indeterminato uno: un uno indefinito e pericoloso. Kierkegaard lo chiama in vari modi, tra i quali “pubblico” o “plebaglia”. La folla è la categoria più profana che esiste poiché logora la personalità. La singolarità determina l’essere unico dell’uomo, la sua individualità precisa, mentre la folla è ciò che determina la “bestialità” dell’uomo:

81

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1849-1850, X2A 328; tr. It. Nr. 2729. Op. Cit., 1854-1855, XI2A 89; tr. It. Nr. 4274.

82

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“Il Singolo è per l’uomo la determinazione dello Spirito, dell’essere uomo: la folla, il numero, è la determinazione dell’animalità”83.

Singolo e folla sono due elementi che caratterizzano la storia dell’uomo, sempre in perenne opposizione. Nell’antichità il tiranno era il singolo per eccellenza ed i sudditi oppressi la massa, la folla. In seguito spiccò il concetto di rappresentanza: vi erano pochi singoli ed una folla che partecipava alla loro vita, ma sempre con una certa distanza. Per Kierkegaard è necessario eliminare il contrasto con la folla; ciascuno, chiunque può diventare un certo Singolo: “L’ultima formazione è quella del Singolo, inteso nel senso che il Singolo non è più in contrasto con la Folla, ma ciascuno ha da essere singolo”84.

Questa “presa di coscienza” è, in un certo senso, difficile da realizzare. Gli uomini con spirito superiore considerano ogni individuo come singolo. Un esempio consistente potrebbe essere quello di Platone che, nella Repubblica, pone il singolo in primo piano: uno Stato superiore è tale perché composto di Singoli che si impegnano per i Singoli stessi. Questa è, per Kierkegaard, «la vera idealità umana»85 senza la quale «si cade in quella confusione di pensare che i molti, per il fatto di essere “molti” fanno usare forse qualcosa di tutt’altro da quel che è ogni singolo»86. Anche Socrate era uno spirito superiore: egli vedeva come singoli i giudici che lo accusavano. Gli uomini normali non vedono né se stessi né gli altri come singoli, e si confondono nella massa. Dio è l’unico che, essendo Spirito infinito, vede sempre e solo singoli, anche in mezzo ad una folla: “Ma per Dio, Spirito infinito, tutti questi milioni d’uomini che vissero e vivono non formano una folla: Egli non vede che Singoli”87.

83

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1854, XI2A 81; tr. It. Nr. 3866. Op. Cit., 1849-1850, X2A 265; tr. It. Nr.2691. 85 Op. Cit., 1846, VII1A 70; tr. It. Nr.1181. 86 Ibidem. 87 Op. Cit., 1850, X3A 476; tr. It. Nr.3173. 84

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3.3. Il Singolo e Dio. L’uomo, per essere davvero il Singolo, deve mettersi in rapporto con Dio. Solo nella fede l’uomo trova la salvezza e la vera esistenza. Dio dà a tutti la possibilità di poter comunicare con Lui, in maniera immediata, e non gli interessa che l’individuo sia colto o incolto, straordinario o mediocre. L’unico requisito necessario è il coraggio della scelta della Fede: il coraggio di porre Dio prima di ogni altra cosa. Spesso, per la paura di non essere all’altezza, l’uomo non vuole essere singolo, ma vuole essere come gli altri: “Ma la realtà è che l’esistere e l’esistenza hanno per un pover’uomo qualcosa d’immensamente angustiante. Così egli prende paura, non osa mettersi prima in rapporto con Dio; la parte animale in lui vince. Egli pensa: è più prudente essere "come gli altri". Ogni simile esistenza che ha per programma "essere come gli altri", è sprecata […]”88.

Chi rifiuta il rapporto con Dio rifiuta di attingere alla verità, che si palesa solo in questo legame. «Il compito - dell’uomo singolo che vuole conoscere la verità - è proprio di lavorare per uscire dalla socialità più che si può, ma in un modo sano e vero, quello cioè di poter sopportare sempre più a lungo il pensiero che Dio ci è presente»89. Solo il Singolo si rapporta a Dio veramente, perché solo l’uomo che sa guardarsi dentro, senza finzioni, e non si lascia ingannare dal giudizio dell’altro, si riconosce e accetta Dio. Non si diventa consapevoli del rapporto con Dio osservando l’altro e il suo “rapportarsi a Dio”. Ciascuno deve imparare a interrogare la propria “meità”, qualsiasi confronto con gli altri uomini non può reggere. Nel momento in cui comprendiamo l’abisso divino nella nostra “meità” più profonda, usando le parole di Kierkegaard, «il riguardo e il confronto con qualsiasi altro uomo è dimenticato […]»90.

88

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1854, XI1A 384; tr. It. Nr. 4100. Op. Cit., 1848-1849, IX A 316; tr. It. Nr. 1926. 90 Op. Cit., 1847-1848, VIII1A 24; tr. It. Nr. 1337. 89

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Ciò non significa che il rapporto con l’altro debba essere escluso. Anch’esso, in qualche modo, deve essere “rigenerato” alla luce del rapporto con Dio. Così facendo è possibile eliminare il concetto negativo di Folla e adottare quello di “comunità di Singoli”. Tutto pare girare attorno al Singolo. Il Singolo è quella categoria attraverso la quale Dio può venire a contatto con l’umanità. Per Kierkegaard il Singolo diventa lo strumento di cui Dio si serve per agire nel mondo, ed è proprio in quanto intermediario che l’uomo diventa Singolo. Essere Singolo è un grande onore per l’uomo, ma è anche un compito molto impegnativo poiché chi si pone nelle mani di Dio deve sacrificarsi e mostrarsi come testimone di una certa fede. Dio stesso si è fatto uomo, Singolo, in Cristo, per condividere le sofferenze dell’umanità e portare la verità. Cristo è la verità che si rapporta al singolo, ed è per questo che la folla ne ha voluto la morte: “Perciò Cristo fu crocifisso perché Egli, sebbene si rivolgesse a tutti non volle avere a che fare con la folla, non volle fondare partiti e allestire ballottazioni, ma essere ciò che era: la verità la quale si rapporta al Singolo.”91

3.4. Il Singolo in Timore e Tremore. In Timore e Tremore Kierkegaard esprime in maniera piuttosto complessa il significato dell’essere singolo, in rapporto al generale e in rapporto all’assoluto. In rapporto al generale, all’etica, alla morale umana, al ragionamento dell’uomo, al comportamento e alle scelte individuali; in rapporto all’assoluto, a Dio, alla sfera superiore della Fede. Mentre nella sfera etica compito del singolo è diventare generale, cioè rispettare le regole morali universalmente accettate, nella fede il Singolo è superiore al singolo generale, perché si rapporta a Dio e alla fede per perseguire un fine migliore: “La Fede è appunto questo paradosso, cioè che il Singolo come Singolo è più alto del generale; esso è giustificato di fronte a questo, non subordinato ma sopraordinato. Questo va però inteso a questo modo: 91

Carte sparse, 1847-1848, VIII1 A 656; tr. It. Nr. 1704.

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ch’è il Singolo il quale, dopo esser stato subordinato come Singolo al generale, ora mediante il generale diventa il Singolo il quale, come Singolo, è sopraordinato: il Singolo come Singolo sta in rapporto assoluto all’assoluto. Questo punto di vista non si lascia trattare con la mediazione, poiché ogni mediazione avviene appunto in virtù del generale; esso è e resta per tutta l’eternità un paradosso.” 92

L’etica, pare chiaro, non è perduta: per il credente può essere momentaneamente messa tra parentesi, per rispondere al richiamo della Fede. Abramo è il Singolo per eccellenza, poiché si eleva al di sopra del generale e si mette in rapporto diretto con l’assoluto. Abramo crede in Dio, ha fede, e non esita un attimo quando gli viene chiesto di sacrificare l’unico figlio, Isacco. Come si può definire un padre che ama il figlio, ma non ha dubbi al momento di sacrificarlo? Dal punto di vista etico se Abramo ama il proprio figlio non può sacrificarlo. Esempi di sospensione del dovere etico, senza però uscire dal dovere etico in generale, si riscontrano in figure importanti quali Agamennone93 e Lucio Giunio Bruto94. Questi eroi tragici vivono un doloroso travaglio interiore, ma nel dubbio, infine, decidono di salvare il loro popolo, affermando l’idea di Stato, placando l’ira degli dei col sacrificio dei propri figli, seguendo un modello etico superiore. L’eroe viene giustificato e in un certo senso capito, nella sua tragedia. Ma per Abramo è diverso. Abramo non risponde a nessuna necessità dello stato o del popolo, e non deve placare gli dei: egli ama suo figlio più di ogni altra cosa, ma è chiamato a rispondere alla volontà di Dio, che lo mette alla prova. L’eroe tragico si rapporta all’etica, Abramo al paradosso. E’ più semplice comprendere l’eroe tragico che sacrifica il proprio figlio piuttosto che Abramo, che è la rappresentazione più viva dello scandalo della fede: “L’eroe tragico lascia il certo perciò ch’è ancor più certo e l’occhio dell’osservatore riposa tranquillo su di lui. Ma colui che lascia il generale per afferrare qualcosa di ancor più alto del generale, che fa? E’ possibile che questa non sia altro che una tentazione? […]. Egli soffre tutto il dolore dell’eroe tragico,

92

Søren Kierkegaard, Timore e Tremore, a cura di Cornelio Fabro, ed. Bur, Milano 1986; Problema I, p. 81. Kierkegaard, citando Agamennone, allude al sacrificio di Ifigenia, figlia di quest’ultimo, per placare gli dei e liberare la flotta bloccata in Aulide. 94 Kierkegaard allude alla congiura dei figli del console romano Lucio Giunio Bruto, che fece decapitare in sua presenza. 93

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annientandone la sua gloria mondana […]. L’osservatore non lo può comprendere, né posare su lui l’occhio tranquillo. Forse neppure è possibile fare ciò che il credente intende, poiché questo è impensabile”95.

Abramo fa il “salto” della fede: egli è il cavaliere della fede che compie ogni momento il movimento incessante dell’infinito. Ed è per questo che nel suo cammino è solo, e non viene capito. Kierkegaard considera Abramo «come la maschera o come la cifra del fenomeno esistenziale della fede-paradosso»96 perciò, in una logica della fede, il tentativo di racchiudere quest’ultima in una sorta di sistema viene meno. La Fede non ha nulla a che vedere con la verità concettuale, ma si fonda, intrinsecamente, sul paradosso. Ed è per questo motivo che la fede-paradosso si apre continuamente al nulla. La realtà concettuale è la realtà opposta a quella del Singolo. Il cavaliere della Fede, non potendosi esprimere per mezzo di “concetti” e di “generalizzazioni” si preclude la possibilità, qualsiasi possibilità, di comunicazione e di espressione: “Il cavaliere della fede dispone solamente e unicamente di se stesso ed è in questo che consiste la cosa spaventosa […] il cavaliere della fede è solo in tutto.”97

Il cavaliere della Fede è un Singolo che ha scelto la solitudine che, infatti, è «la condizione indispensabile per mettere a fuoco la fede esistenziale»98. Il cavaliere della Fede è il Singolo in senso assoluto che è posto da Dio di fronte all’impossibile, luogo in cui viene meno la fiducia per qualsiasi certezza ed un certo credo avvia una perenne rivolta esistenziale.

3.5. La categoria negativa della Fede: l’assurdo. L’assurdo, nella sfera della logica, è la contraddizione, ossia la negazione che ad una cosa appartenga ciò che la costituisce nel suo essere più intimo. L’assurdo, però, è anche l’oggetto 95

Søren Kierkegaard, Timore e Tremore, a cura di Cornelio Fabro, ed. Bur, Milano 1986; Problema I, p. 87. Penzo G., La verità eterna che nasce nel tempo, Ed. Messaggero Padova, 2000; cit. p. 55. 97 Søren Kierkegaard, Timore e Tremore, a cura di Cornelio Fabro, ed. Bur, Milano 1986; Problema II, p. 107. 98 Penzo G., La verità eterna che nasce nel tempo, Ed. Messaggero Padova, 2000; cit. p. 57. 96

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della fede, a causa del movimento dialettico interno alla fede stessa. Perciò è necessario operare una distinzione. L’assurdo o paradosso della fede è una teoria negativa, un concetto costruito in un modo tale da non poter essere risolto e compreso dalla ragione. Ciò non implica il fatto che il paradosso sia senza senso: il suo senso è racchiuso nella sua stessa incomprensione, perché è oggetto della fede, e non della ragione: “Il concetto dell’assurdo è proprio nel "comprendere che non si può comprendere": una categoria negativa, ma altrettanto dialettica come qualunque principio positivo. L’assurdo, il paradosso, è costruito in modo che la ragione non può da sola risolverlo e mostrare che non ha senso. No, esso è un segno, un enigma di sintesi, di cui la ragione deve dire: è irriducibile, e incomprensibile, ma non perciò un nonsenso […] La fede è il competente riguardo al paradosso.”99

La conoscenza umana è limitata, ma si ostina a non riconoscere che ci sono cose che non possono essere comprese. Il paradosso è la chiave di volta del credo: esso è una determinazione ontologica che esprime il rapporto che lega l’uomo all’Assoluto. In una certa precarietà esistenziale la fede è l’incipit alla semplicità dell’essere cristiano. La semplicità non si palesa direttamente, ma si accompagna al paradosso «in direzione dell’esistere»100. L’esistere, prima dell’essere cristiano, è la cosa più semplice purché «non si prenda la direzione della speculazione, del ragionamento»101. Nell’assurdo l’uomo sperimenta l’esaurirsi delle possibilità della propria sfera umana: l’assurdo è propriamente l’impossibile. Ed è in questo “impossibile” che emerge la differenza tra divino e umano: “L’assurdo è l’espressione di una disperazione: umanamente parlando la cosa è impossibile. Questa disperazione è un segno negativo della fede, come lo scandalo e la fede stessa, perché lo scandalo è il criterio negativo che conferma la differenza di qualità tra Dio e l’uomo.”102

99

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1849-1850, X2A 534; tr. It. Nr. 2746. Op. Cit., 1850, X3A 424; tr. It. Nr. 3148. 101 Ibidem. 102 Op. Cit., X6B 78. 100

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Dio, per mezzo dell’assurdo, segnala la sua presenza. In un certo senso si potrebbe affermare che Dio è l’assurdo: “Non vi accorgete voi, canaglie, che qui c’entro io, io l’Onnipotente, non vedete voi l’assurdo?” 103

3.6. La verità eterna che entra nel tempo. Il paradosso si fonda nella persona del Cristo. Dio, l’assoluto immutabile, incarnandosi “cambia” il suo stato, se così si può dire, ed entra nel tempo. Dio si presenta come uomo in mezzo agli altri uomini: nasce, cresce e muore, come qualsiasi uomo. Cristo, uomo-Dio, è l’assurdo della Fede: nella logica del divenire storico ciò che non sarebbe potuto accadere in realtà è accaduto. Il Verbo incarnato non lo si può dimostrare, lo si deve credere, poiché «l’assurdo […] può essere soltanto creduto»104. L’unione dell’uomo con il divino deve essere creduta poiché «è oggetto solo di Fede»105. Quando la ragione non accetta la fede, e il paradosso uomo-Dio che ne consegue, allora nasce lo scandalo. Cristo è scandalo non solo in quanto uomo-Dio che entra nel tempo, ma soprattutto perché condivide e vive le stesse sofferenze e umiliazioni dell’uomo. Nella sfera dell’eterno Dio è Gloria, ma sulla terra non può che essere oggetto di scandalo: “Ma Gesù Cristo è il paradosso, la sintesi paradossale di un Dio e di una povera natura umana: l’umiliazione perciò gli appartiene in modo essenziale. […] Solo nell’eternità Egli siede nella Gloria: qui in terra Egli deve essere sempre rappresentato nel Suo abbassamento, perché ciascuno possa scandalizzarsene e credere.”106

103

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1854, XI1A 628; tr. It. Nr.4013. Søren Kierkegaard, La verità soggettiva in Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di Cornelio Fabro, Volume Secondo, ed. Zanichelli Bologna, 1962, p. 23. 105 Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1847-1848, VIII1A 579; tr. It. Nr.1656. 106 Op. Cit., 1848, IX A 57; tr. It. Nr. 1764. 104

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3.7. L’eterogeneità dell’assurdo. Il concetto del paradosso comprende in sé categorie diverse e opposte. Ciò si palesa nel momento in cui si prendono in analisi i vari capisaldi della fede cristiana, in modo particolare il peccato originale. Il peccato originale è un paradosso: è impossibile pensare che l’uomo, venendo al mondo, erediti una colpa dei proprio progenitori, una colpa della quale egli non ha effettivamente colpa. Come afferma Kierkegaard nel Diario: “ "Ereditare" è una categoria naturale, "colpa" è una categoria etico-spirituale. Come si può ora pensare, dice la ragione, che sia possibile metterli assieme, dire che si eredita ciò che nel suo concetto è impossibile di poter ereditare?”107

L’unica risposta possibile è «lo si deve credere»108; in una logica della Fede, nella quale misura e criterio sono sovraumani, è necessario credere al paradosso della verità cristiana.

3.8. L’assurdo si consuma nel “credo”. L’assurdo, come già si è detto, è il limite estremo della ragione, oltre il quale, quest’ultima, non riesce a comprendere. Ma per chi ha fede l’assurdo non è assolutamente un limite. Per chi crede non c’è niente di assurdo. L’assurdo esiste solo per chi non crede. La forza di chi crede sta nel fatto che riescono a parlare, tranquillamente, agli altri uomini dell’assurdo. In chi crede, però, è sempre viva una certa possibilità: quella dello scandalo, della dialettica inversa. Esse però rimangono semplici possibilità, e non tentazioni: “Ma il credente non è tentato dallo scandalo: al contrario egli enuncia lo scandalo, mantenendo sempre la possibilità di scandalo a titolo di determinazione negativa.” 109

107

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1849-1850, X2 A 481; tr. It. Nr. 2829. Ibidem. 109 Op. Cit., X6 B 79. 108

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L’assurdo rimanda sempre alla sfera della fede, e non deve essere considerato come qualcosa di spaventoso: esso è il “coraggio” della fede. La fede, se è debole, comincia a speculare, così come l’amore, che quando è troppo debole non è del tutto cieco. L’analogia kierkegaardiana dell’amore è più che eloquente: “Si sa che l’amore rende ciechi. Sì. Ma quale disgrazia non essere accecato dall’amore. Evidentemente tu puoi ridurre questa cecità al punto di non essere più cieco del tutto. Ma sappi che nel diminuire la cecità tu diminuisci l’amore. L’amore vero acceca completamente. E’ con santità e felicità che la fede respira nel seno dell’assurdo. Quando è più debole, di come essa sente la necessità di scrutare e speculare […] Succede lo stesso ad un amore troppo debole che non osi abbandonarsi ad una completa cecità e per essa si indebolisce; e perché è troppo debole che questo amore non diviene totalmente cieco.” 110

3.9. Il problema di Lessing: l’assurdo come “salto qualitativo”. Il concetto di paradosso come oggetto della fede è trattato da Kierkegaard in due opere: Briciole di filosofia e la Postilla conclusiva, con riferimento diretto al “problema di Lessing”. Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) era un illuminista tedesco che si preoccupò del problema religioso in alcuni brevi scritti teologici. Egli voleva chiarire questa tendenza dell’uomo verso la verità eterna. In particolar modo, egli si domandava se le verità religiose, fondate su fatti particolari, quali i miracoli e le rivelazioni, fossero “verità di ragione”, quindi necessarie e universali, oppure “verità di fatto”, esperibili. Questi fatti, dati per veri, possono fondare la realtà eterna? Lo stesso identico quesito scuote, in Lessing, la figura di Cristo: anche ammettendo che si sia fatto uomo, come si può sostenere con certezza il fatto che Gesù fosse figlio di Dio? Lessing, in poche parole, credeva impossibile poter basare una verità di fede su un fatto storico. Verità storica e verità eterna appartengono a due categorie diverse. Ed è proprio qui che, secondo Kierkegaard, si radica lo scandalo della ragione. L’atto di fede non unisce la realtà storica dell’uomo a quella eterna di Dio con un salto “quantitativo” (che indica 110

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1849-1850, X6 A 79.

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continuità tra umano e divino), ma bensì con un passaggio “qualitativo”, un salto che indica una distanza, quella tra uomo e Dio, e che può essere compiuto solo dalla fede: “I principi supremi non si possono provare che indirettamente (negativamente). Questo pensiero […] per me è importante per il "salto" e per provare che la cosa più alta non può essere raggiunta che come limite.”111

In Postilla conclusiva Kierkegaard evidenzia la posizione di Lessing. Il filosofo tedesco critica quello che si potrebbe definire il “metodo di arrivare alla qualità mediante la quantità”112. Lessing non nega il fatto che miracoli e profezie siano degni di fede, ma si chiede, come riporta Kierkegaard in Postilla conclusiva: «se profezie e miracoli sono soltanto così degni di fede, perché poi li si vuol rendere ancora infinitamente degni di fede?»113. Ciò che Lessing critica e combatte, per usare ancora una volta le parole del filosofo danese, è «il passaggio diretto da ciò che è degno di fede storicamente, alla decisione eterna»114: l’illuminista tedesco non accetta il passaggio che si realizza, direttamente, da ciò che può essere creduto nel semplice divenire umano, storico, a ciò che appartiene all’eterno. Kierkegaard definisce il “salto qualitativo” anche con un termine aristotelico: metá basis eis allo ghénos, ossia “passaggio ad un altro genere”, poiché determina qualcosa di nuovo, il passaggio ad una categoria completamente diversa. Lessing, però, dava al “salto qualitativo” un significato differente. Per lui si trattava più di un salto temporale che etico-spirituale, poiché indicava la mancanza di contemporaneità tra l’accadere dei fatti nella storia (miracoli e profezie) e coloro che con il passare degli anni e dei secoli ne avrebbero avuto notizia. Per Lessing, come Kierkegaard fa ben notare, il “salto” non era la decisione della fede come paradosso nella scelta: “Forse il termine "salto" non è per Lessing che un espediente retorico: forse esso è stato suggerito come metafora per la fantasia, con l’aggiunta del predicato "ampio" (fosso) […] non è l’ampiezza del fosso 111

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1844, V A 74; tr. It. Nr. 1042. Come farà Hegel, del resto, nella sua Logica. 113 Søren Kierkegaard, Tesi possibili e reali di Lessing in Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di Cornelio Fabro, Volume Primo, ed. Zanichelli Bologna, 1962, p. 292. 114 Ibidem. 112

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intesa esteriormente, che impedisce il salto, ma interiormente la passione dialettica che rende il fosso di una larghezza infinita. Essere ormai vicinissimi a qualcosa, ha già il suo lato comico; ma essere stati vicinissimi al salto, non è nulla, proprio perché il salto è la categoria della decisione.” 115

Kierkegaard riconosce una certa importanza del problema di Lessing, anche se dal punto di vista dialettico non lo trova abbastanza imponente. Trova, invece, piuttosto importante il testo di Johannes de Silentio (uno dei suoi pseudonimi, quindi cita se stesso), Timore e Tremore, che tratta l’argomento della fede come salto secondo una prospettiva cristiana. La fede intesa come “salto” rappresenta timore e tremore; è il senso di vertigine davanti al nulla. Un’inquietudine nelle coscienze sia dei credenti che dei non credenti, poiché è l’assurdo, il paradosso. Paradosso che non si ottiene né con un’intuizione intellettuale, come sosteneva Schelling, né con il “metodo dialettico” di Hegel «perché il “salto” è per l’appunto la protesta più decisiva contro il cammino inverso del metodo»116. Infine Kierkegaard sostiene, in accordo con l’evangelista Giovanni, che esistono due forme dell’atto di fede: una in cui si crede in ragione dei miracoli, e l’altra in cui si crede ugualmente, senza miracoli e profezie. La prima forma non si può eliminare: senza essa si rischia di confondere sapere e fede, il miracolo è segno dello scandalo. La seconda, invece, è la forma più alta della fede: è credere senza aver visto, è credere l’assurdo: “Perché il sapere, quando gli si permette di chiamarsi Fede non esige alcun miracolo, anzi vuole piuttosto farne a meno, dato che il miracolo è un motivo di scandalo. Ma la più alta forma di fede è credere senza vedere segni e miracoli. Qui si ha un esempio della confusione che nasce dal non badare a far della Fede una sfera a parte.”117

115

Søren Kierkegaard, Tesi possibili e reali di Lessing in Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di Cornelio Fabro, Volume Primo, ed. Zanichelli Bologna, 1962, pp. 294-295. 116 Ibidem, p. 301. 117 Carte sparse, 1847-1848, VIII1 A 672; tr. It. Nr. 1714.

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Capitolo IV

Angoscia, peccato e disperazione

“Per quanto tenti di imboscarmi, tutti i sentieri del mio sogno conducono alle radure dell’angoscia.” F. Pessoa, Il Libro dell’Inquietudine.

4.1. La realtà come possibilità. L’innocenza è ignoranza, e l’uomo nell’ignoranza è un sé unito immediatamente con la propria naturalità. In questo stato, afferma Kierkegaard, «lo spirito nell’uomo è come sognante»118. Nell’ignoranza, però, c’è una quiete troppo pressante, troppo presente, capace di “nientificare” qualcosa che già non è: questa ignoranza è nulla. L’ignoranza è quiete e nulla. Ma il nulla può generare qualcosa? Il nulla genera angoscia. Angoscia è ciò che Kierkegaard definisce “il profondo mistero dell’innocenza”119; un profondo senso di disagio, generato da qualcosa di indefinito, che si presenta come elemento costitutivo della natura umana. Lo “spirito sognante” proietta la propria realtà fuori di sé; una realtà che, nello stato d’innocenza, è una realtà nulla. Nella veglia il mio “io” non sarà mai Altro, la mia singolarità è salva. Nel sonno, invece, questa differenza è sospesa, poiché l’io è una proiezione del “me”

118

Søren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, a cura di Cornelio Fabro, ed. SE, Milano 2007; cit. pp. 43-44. Ibidem.

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fuori di sé. L’io è una possibilità che si avverte nella vertigine del nulla; è, usando le parole di Kierkegaard, «la realtà dello spirito che si mostra continuamente come una figura che tenta la sua possibilità»120 e appena si cerca di afferrarla, di sfiorarla, «essa si dilegua, essa è un nulla che può soltanto angosciare»121. L’angoscia è «la realtà della libertà come possibilità per la possibilità»122, “Mulighed for Mulighed”. In questo senso, in quanto spirito, l’uomo riflette su di sé, si accorge di essere “limitato” e vorrebbe andare oltre la propria finitezza. Se fosse un animale ciò non accadrebbe: l’uomo è un essere che può vivere d’angoscia, poiché il suo spirito si differenzia da quello animale, essendo determinato. Provare angoscia, realtà della libertà Mulighed for Mulighed, significa per l’uomo possedere la libertà di pensare e di fare; un potere, questo, che lo pone di fronte ad una miriade di possibilità che lo obbligano a scegliere. Tutto è possibile; ma nulla garantisce che la possibilità che si sceglie sia migliore o peggiore di quelle che si sceglie di non scegliere. Questa possibilità di potere sconvolge l’uomo e produce in lui angoscia. La possibilità è, quindi, la categoria più terribile: essa rappresenta l’assenza di criteri-guida, uno svuotamento momentaneo dei valori, il tutto e il niente posti, assieme, davanti all’uomo. L’uomo, di per sé, si lascia cadere nell’angoscia; egli la teme e l’ama allo stesso tempo. Perché? L’uomo fondamentalmente è sintesi di anima e corpo; una sintesi che prende forma nello spirito. Lo spirito è una presenza che inquieta e «disturba continuamente il rapporto tra l’anima e il corpo»123; un rapporto che esiste e si anima proprio grazie allo spirito che si presenta, quindi, come presupposto dell’esistenza. A questo punto, però, una domanda sorge spontanea: come si rapporta l’uomo alla sua stessa condizione di spirito? La risposta è la seguente: con angoscia. Lo spirito non può liberarsi di sé, né afferrarsi, né lasciarsi andare;

120

Søren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, a cura di Cornelio Fabro, ed. SE, Milano 2007; cit. p. 44. Ibidem. 122 Ibidem. 123 Ibidem, p. 46. 121

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non può scappare dall’angoscia poiché la chiama, ma non può chiamarla perché, in realtà, la rifugge: “Liberarsi di se stesso non è possibile per lo spirito; afferrare se stesso non gli è possibile finché esso trova se stesso fuori di sé; lasciarsi sprofondare nella vita vegetativa non è possibile per l’uomo, perché egli è determinato come spirito; fuggire l’angoscia non può perché l’ama; amarla propriamente non può perché la sfugge […]”124

Per Kierkegaard l’angoscia è anche desiderio di ciò di cui si ha paura; essa è «una forza estranea che ghermisce l’individuo senza che egli possa né voglia liberarsene»125; essa è la forza che genera il nulla davanti alla “possibilità di potere”, nella quale e attraverso la quale si può tutto e niente. La “possibilità di potere” «manifesta come sua conseguenza un’altra possibilità»126, ma non è una possibilità senza vincoli: fosse tale non sarebbe inquietata dall’angoscia. Ciò di cui l’uomo ha più paura è il futuro, in quanto corrisponde alla possibilità: “Il possibile corrisponde del tutto al futuro. Il possibile è per la libertà il futuro, e il futuro è per il tempo il possibile. A entrambi corrisponde nella vita individuale l’angoscia […] Perché io mi possa angosciare del passato questo deve avere con me un rapporto di possibilità. Così se io mi angoscio di una sventura passata, ciò non è in quanto è passata ma in quanto essa si può ripetere, cioè diventare futura.”127

L’angoscia, in questo senso, si aggrappa ad una perenne oscillazione della coscienza dell’uomo tra ciò che ama e ciò che teme, tra ciò che vuole e ciò che non vuole. Non esiste propriamente un confine tra le due cose: il confine tra ciò che desidera e ciò che rifugge è labile. Vi è una certa lacerazione, tra le due; una sofferenza che non trova pace. In realtà, spiega Kierkegaard, non è esattamente sofferenza, ma qualcosa di più subdolo. L’angoscia è una forza che s’impadronisce dell’uomo; una forza che riflette e si flette, scavando sempre più in profondità, lentamente. L’angoscia è lo sguardo mobile sulla sofferenza, che teme, ma dalla quale non riesce a staccarsi:

124

Ibidem. Carte sparse, 1840-1842, III A 233; tr. It. Nr. 823. 126 Søren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, a cura di Cornelio Fabro, ed. SE, Milano 2007; cit. p. 47. 127 Ibidem, p. 90. 125

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“Come uno sguardo amoroso calmo e impassibile si occupa dell’oggetto amato, così tutta l’occupazione dell’angoscia si volge alla pena. Ma l’angoscia contiene un momento ulteriore che la porta ad attaccarsi maggiormente all’oggetto e consiste nel fatto che essa insieme lo ama e lo teme. L’angoscia ha una funzione doppia; da una parte essa è il movimento che scopre, che procede per continui assaggi e a questo modo scopre la pena girandole attorno. D’altra parte l’angoscia è improvvisa, genera tutta la pena in men che non si dica, così che quest’attimo subito si dissolve in una successione.” 128

L’angoscia è dentro l’uomo e ciascuno, anche in mezzo a mille persone, si sente solo con il proprio dolore. La presenza dell’altro è sempre e comunque una sorta di conforto, ma l’angoscia non demorde: “Nell’intimo di ogni uomo c’è sempre l’angoscia di essere solo al mondo, dimenticato e trascurato da Dio, in questo enorme governo di milioni e milioni. Si comprime questa angoscia col vedere tanti uomini attorno a sé, a cui si è legati per via di natura e di amicizia; ma l’angoscia persiste, e non si osa pensare quello che si proverebbe se tutto questo ci fosse tolto.” 129

4.2. Il tempo della Disperazione: La Malattia Mortale. La disperazione rappresenta il passo successivo, rispetto all’angoscia, in questa difficile situazione esistenziale. La disperazione deriva dal fatto che l’angoscia non si può sopprimere, essendo un tormento, prettamente umano, perennemente in grado di rinnovarsi. Come per l’angoscia, anche la disperazione non deriva da qualcosa: chi dispera per qualcosa di preciso ha la possibilità di sbarazzarsi della causa del proprio tormento. La vera disperazione, invece, è quella del sé, che nasce dall’impossibilità di convivere con la propria “meità”, col proprio io. Si dispera poiché vi è l’incapacità di rapportarsi a se stessi. L’uomo non si accetta, perché non sopporta il suo essere limitato. Vuole essere diverso, ma non può in alcun modo cambiare la propria natura. Egli vive, perciò, in un perenne

128

Søren Kierkegaard, Enten-Eller, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, a cura di Alessandro Cortese, Tomo Secondo, ed. Adelphi, Milano 2008; Cit. Pag. 38. 129 Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1847-1848, VIII1 A 363; tr. It. Nr. 1547.

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disequilibrio, in un equilibrio infranto dal precario. Vuole essere se stesso e allo stesso tempo non lo vuole: “Disperarsi per qualche cosa, dunque, non è ancora la vera disperazione. E’ il principio; è come quando il medico dice che la malattia non si è ancora manifestata. Lo stadio prossimo è la disperazione manifesta: disperarsi di se stesso. […]”130

Kierkegaard, in alcuni dei passi più complessi del suo scritto La Malattia Mortale, spiega che vi sono vari tipi di disperazione: la disperazione di non essere consapevole di avere un io (la disperazione impropria); la disperazione di non voler essere se stesso, e quella di voler essere se stesso (la disperazione vera e propria). Seppure palesemente distinte, tali realtà della disperazione, infine, si identificano: “Disperarsi di se stesso, voler disperatamente sbarazzarsi di se stesso, è la formula per ogni disperazione, così che la seconda forma della disperazione, disperatamente voler essere se stesso, può esser ridotta alla prima: disperatamente non voler essere se stesso. Ma se vuole essere disperatamente se stesso, certamente non vuole liberarsi da se stesso. Si, così sembra; ma se si guarda più da vicino, si vede che la contraddizione si risolve nell’identità.” 131

La disperazione è la vera malattia dell’io umano; una malattia terribile che è necessario combattere. Si potrebbe pensare ad un rimedio, tragico, come il suicidio. Ma si tratterebbe di un rimedio solo apparentemente utile: la disperazione è l’incapacità di risolvere il rapporto con se stessi, e uccidersi non risolve tale rapporto. La disperazione è la malattia mortale non perché porta alla morte, ma perché costringe a vivere ogni giorno la propria precarietà esistenziale, la povera ed umana esistenza. L’incapacità di vivere equivale alla morte: “Se si volesse parlare di una malattia mortale nel senso più stretto, questa dovrebbe essere una malattia in cui la fine sarebbe la morte, e la morte sarebbe la fine. E questa è per l’appunto la disperazione. Tuttavia la disperazione è la malattia mortale in un altro senso ancor più preciso. […] il tormento della disperazione è proprio quello di non poter morire […] In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione penosa, quella malattia nell’io di morire eternamente, di morire oppure di non morire la morte. Perché significa che tutto è passato, ma morire la morte significa

130

Søren Kierkegaard, La Malattia Mortale, a cura di Cornelio Fabro, ed. SE, Milano 2007; cit. Pag. 23. Ibidem.

131

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vivere, sperimentare il morire, e sperimentare questo tormento per un solo momento vuol dire sperimentarlo in eterno.”132

La disperazione come malattia dello spirito dell’uomo è un tema di grande attualità oggigiorno: l’uomo, insoddisfatto, alla ricerca di se stesso; la difficoltà a mantenere, ma in particolar modo a possedere, un equilibrio interiore; valorizzare un’esistenza della quale si stenta, spesso, a trovarle un senso; l’angoscia e la disperazione di vita senza punti di riferimento precisi. Per Kierkegaard vi è un unico modo per guarire la malattia mortale: affidarsi alla fede. In maniera paradossale il filosofo danese afferma che la disperazione in senso generale può essere un vantaggio, poiché costringe l’uomo alla riflessione, ponendolo al di sopra dell’animale. Allo stesso modo, rendersi conto della disperazione come malattia dello spirito, distingue il cristiano dal pagano. Chi ha fede diventa consapevole di sé e del mondo, e trova risposta alle proprie domande. Chi ha fede vince la disperazione: “Rendersi conto di questa malattia è la prerogativa del cristiano di fronte al pagano; essere guarito da questa malattia è la beatitudine del cristiano.”133

4.3. Angoscia, disperazione e peccato. Il peccato rappresenta la caduta dell’uomo, la sua fragilità e l’incapacità di dominare sé e i propri istinti. La caduta dell’uomo concerne il suo “darsi” alle lusinghe del mondo, l’abbandonarsi ai piaceri terreni. L’uomo, nel peccato, dimentica il bene, dimentica Dio e perde la sua libertà. L’essere peccatore è ciò che, in primis, differenzia l’uomo da Dio. Per il Cristianesimo, afferma Kierkegaard, ci sono diversi tipi di peccato: quelli spirituali, che dipendono dalla volontà dell’uomo, dalle sue convinzioni e credenze; e poi quelli carnali, più lievi di quelli 132

Søren Kierkegaard, La Malattia Mortale, a cura di Cornelio Fabro, ed. SE, Milano 2007; cit. Pag. 21. Ibidem, p. 18.

133

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spirituali poiché spesso l’uomo non è abbastanza forte, nonostante le buone intenzioni. Il problema fondamentale, nel mondo moderno, è che gli uomini vivono una certa instabilità esistenziale che non gli consente di riconoscere bene la qualità delle loro azioni. Inoltre, i criteri di valutazione si sono invertiti: “Un uomo che abitualmente vive di astuzia e frode, ma che per il resto è quanto mai colto appartenendo alla élite, se qualche volta gli capita la disgrazia di ubriacarsi: ih, Dio ci salvi, naturalmente è una sciagura irreparabile, e lui stesso si giudica così severamente che forse non se lo perdona più! Mentre probabilmente non gli viene in mente che egli avrebbe bisogno di perdono per tutti gli inganni, le frodi, le disonestà, per tutte le abominevoli passioni spirituali che lo tiranneggiano e formano la sua vita.” 134

Perché gli uomini potessero comprendere l’orrore del peccato è stata necessaria la passione di Cristo: “La sua passione non è anzitutto per calmare, ma per spaventarli, proprio per poi tranquillizzare. Ma con le sue sofferenze Egli attira la mia attenzione perché io possa sentire profondamente l’orrore del peccato.”135

Cristo si è fatto uomo, ha sofferto ed è morto perché gli uomini si potessero liberare dal peccato. Perché, allora, gli uomini continuano a cadere? Vi è una situazione psicologica che precede e determina il peccato ed è l’angoscia. L’angoscia indebolisce l’uomo, ed egli compie il peccato: “L’angoscia rende l’individuo impotente, ed il primo peccato avviene sempre in questa impotenza; sembra che manchi di responsabilità e proprio in questa mancanza di responsabilità consiste la seduzione.” 136

L’angoscia, “il primo riflesso della possibilità”137, annulla tutte le difese dell’uomo, ed è in questa assenza, in questa mancanza, che la tentazione si radica. Quando, poi, l’angoscia culmina nella disperazione, l’uomo rischia di cadere.

Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1854-1855, XI2 A 6; tr. It. Nr. 4223. Op. Cit., 1849-1850, X2A 400; tr. It. Nr. 2774. 136 Carte sparse, 1840-1842, III A 233; tr. It. Nr. 823. 137 Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1850, X2 A 22; tr. It. Nr. 2536. 134 135

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L’angoscia si insinua alla base del primo peccato che ha segnato l’umanità, ossia il peccato originale. Il divieto divino di non mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male fa scoprire ad Adamo la “possibilità della libertà”, e ciò produce in lui angoscia: “Ciò che era rimasto fuori dell’innocenza come il niente dell’angoscia, è entrato ora dentro di essa stessa e qui è di nuovo un niente, cioè la possibilità angosciante di potere.”138

Adamo decide di usare la sua libertà, e pecca. Dio lo punisce per questo, e il terrore della pena genera altra angoscia. Nell’uomo posteriore ad Adamo, però, il peso dell’angoscia che accompagna il peccato è, a livello quantitativo, maggiore a causa della partecipazione del primo alla storia della specie. L’angoscia, così, prende un doppio significato: “L’angoscia, nella quale l’individuo pone il peccato col salto qualitativo, e l’angoscia che è entrata e entra col peccato ed entra nel mondo anche in modo quantitativo, quando l’individuo pone il peccato.” 139

L’uomo angosciato pecca, subisce una certa predisposizione al peccato. L’angoscia favorisce il peccato pur non riuscendo a spiegarlo, perché esso è un “salto qualitativo” che dipende principalmente dalla scelta dell’uomo. Però vi è anche l’angoscia che si prova di fronte al peccato commesso: un’angoscia profonda che può diventare disperazione: “Prima un uomo pecca forse "per debolezza" e soccombe alla debolezza (perché è proprio la sua debolezza la forza dell’inclinazione, della passione e della brama del peccato); ma poi egli ne rimane così disperato che forse pecca di nuovo per disperazione.”140

Le forme del peccare, quindi, sono due: si pecca per debolezza e si pecca ancora per la disperazione che il peccato commesso non venga perdonato. Un peccato genera l’altro; l’unico modo per bloccare questa sorta di “reazione a catena” è la redenzione.

138

Søren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, a cura di Cornelio Fabro, ed. SE, Milano 2007; cit. p. 46. Ibidem, p.55. 140 Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1847-1848, VIII2 A 64; tr. It. Nr.1368. 139

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4.4. La Fede che salva. All’esperienza del peccato deve necessariamente seguire la coscienza del peccato commesso, la consapevolezza di avere sbagliato. L’angoscia del male porta al pentimento e non genera altra angoscia solo grazie alla fede: “[…] il coraggio di respingere l’angoscia senza angoscia; ciò si può soltanto con la fede la quale, senza perciò annientare l’angoscia, ma restando eternamente giovane, si sbarazza del momento mortale dell’angoscia. Questo lo può soltanto la fede, perché soltanto nella fede la sintesi è possibile eternamente e in ogni momento.”141

L’angoscia non può essere completamente eliminata, la fede ne cancella solo il momento mortale: l’uomo, educato al Credo, si abbandona a Dio. E’ un’educazione particolarmente dura quella che «da un’angoscia congenita va verso la Fede»142 perciò è necessario difendersi col Credo anche dalla disperazione, avendo una certa fiducia nella Provvidenza e nella Redenzione: “Provvidenza e Redenzione sono categorie della disperazione. Cioè io avrei dovuto disperare se non avessi potuto, sì, anzi, dovuto credere. Dunque esse non sono ciò che fa disperare, ma ciò che allontana la disperazione.”143

Solo chi ha provato veramente e sino in fondo la disperazione sente il bisogno della Redenzione. La Fede si caratterizza, a questo punto, come categoria della disperazione in quanto la vince: “[…] la Fede (Timore e Tremore), il cui significato sta appunto in una idea che si trova soltanto nell’affanno, quindi una categoria della disperazione.”144

Per passare dalla disperazione alla salvezza l’uomo deve pentirsi del male commesso. Il peccatore dev’essere un «peccatore essenziale, uno che capisca essenzialmente di essere un

141

Søren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, a cura di Cornelio Fabro, ed. SE, Milano 2007; cit. p. 114. Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1849-1850, X2 A 493; tr. It. Nr.2838. 143 Op. Cit., 1846, VII1A 130; tr. It. Nr.1228. 144 Op. Cit., 1844, V A 40; tr. It. Nr.1016. 142

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peccatore»145; egli, in quanto uomo, è disperato «ma cristianamente è salvo, perché è credente»146.

4.5. L’essenza del demoniaco. Il concetto di demoniaco è strettamente collegato al peccato. Ma a cosa si riferisce? Alcune informazioni concernenti il demoniaco le troviamo nel Diario, nel quale lo si identifica con la volontà risoluta di peccare, abbandonarsi al male, senza voler tornare indietro. Il demoniaco è un agire malvagio consapevole che sia maschera di cortesia e gentilezza. Kierkegaard afferma che il demoniaco è una “reduplicazione”, una sorta di doppia vita che l’individuo conduce nel peccato. L’uomo che vive nel demoniaco lo fa con grande abilità; gli altri uomini, ignari del pericolo, credono che quella amabile e cortese sia la sua vera natura: “Quanto pochi sono i veri esperti nel campo del demoniaco! E proprio la reduplicazione è il demoniaco. […] Ma il demoniaco tenta; e anche quelli che hanno qualche sospetto su di un uomo simile, son tentati però a credere che è un brav’uomo, che tuttavia c’è qualche lato buono in lui.” 147

Il demoniaco non vuole redimersi: chi vive nel peccato rifiuta qualsiasi aiuto perché ama la sua condizione, la sua malattia e fugge ciò che potrebbe salvarlo. Uomini o donne, presi dal demoniaco gridano: “Una cosa io non posso sopportare, che qualcuno domini su di me”148; l’uomo preso dal demoniaco conosce bene il “rimedio” alla malattia del peccato, ma egli ama la sua malattia perciò ne ha paura e lo fugge. Per capire meglio il demoniaco, però, è necessario vedere in che termini ne parla Kierkegaard nel Concetto dell’angoscia. In un passaggio il filosofo danese esamina i fondamentali atteggiamenti psicologici dell’uomo di fronte al peccato, evidenziandone due, caratterizzati da una diversa concezione della libertà umana. Questi atteggiamenti sono l’angoscia del male e Carte sparse, 1848-1851, X5 A 158; tr. It. Nr. 3797. Ibidem. 147 Diario, a cura di Cornelio Fabro, ed. Morcelliana, 1851, X4 A 214; tr. It. Nr.3470. 148 Op. Cit., 1854, XI1A 270; tr. It. Nr.4015. 145 146

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l’angoscia del bene. L’angoscia del male è la coscienza del peccato commesso che fa sì che l’uomo tema, in primis, il male, e poi che abbia la volontà di redimersi e salvarsi. Liberi dal peccato si è liberi, poi, di scegliere il bene. Senza la consapevolezza e la comprensione di cosa sia il male non si può comprendere cosa sia l’angoscia del bene, che è il demoniaco. L’individuo che vive nel peccato ha paura del bene; infatti, quando viene in contatto con il bene egli lo respinge. Il demoniaco nega la libertà, e la possibilità della libertà «si mostra di fronte alla non libertà. […] Il demoniaco è la non libertà che vuole chiudersi in se stessa»149 e non accetta il dialogo con il bene. La sua essenza è di essere taciturno, di rendersi manifesto contro volontà, di non saper comunicare: “[…] la non libertà rende prigioniera se stessa. La libertà è sempre comunicante: la non libertà si chiude sempre di più e non vuole comunicazione.” 150

L’unico modo per “ripristinare” la comunicazione è la fede; la parola della Rivelazione salva, lacera il silenzio e riaccende la speranza: “Ciò che è chiuso è muto; la lingua, la parola è il rimedio che salva; è il rimedio contro la vuota astrazione della taciturnità […]. La Rivelazione è qui il bene, perché la rivelazione è la prima forma della salvezza. Perciò un vecchio proverbio dice che se si ha il coraggio di pronunciare la parola, il fascino dell’incantesimo scompare. Perciò il sonnambulo si sveglia, quando è chiamato per nome.” 151

La fede, il Credo, chiama gli uomini ad uno ad uno, come Singoli. E’ una chiamata, quella della fede, alla quale è necessario rispondere senza incertezze se si vuole veramente sconfiggere il demoniaco.

149

Søren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, a cura di Cornelio Fabro, ed. SE, Milano 2007; cit. p. 119. Ibidem, p. 120. 151 Ibidem, pp. 120-123. 150

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Conclusioni

Appartengo ad una generazione che ha trovato un mondo sprovvisto di fondamento e fondamentalità. Il mondo sul quale siamo nati, oggi, non è uno spazio di certezze su nessun piano, sia quest’ultimo religioso, morale o politico. Viviamo una sorta di perenne ansia metafisica, valoriale, morale, accompagnata da un’agitazione del ragionevole. Siamo nati in un mondo che va alla conquista di una libertà che misconosce, di un progresso che non sa propriamente significare. Ma non tutto è perduto: pur vivendo nella miscredenza delle formule morali stabilite non si rimane indifferenti alle regole e alle responsabilità di un “vivere umano”. Ed è proprio questo che Kierkegaard insegna a chi cerca di comprendere il suo pensiero: vivere umanamente responsabili e consapevoli del fatto che l’equilibrio, nel suo estremo limite, comprende un possibile margine di instabilità che lo rende tale.

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Bibliografia Opere di Søren Kierkegaard: - Diario, a cura di Cornelio Fabro, in 12 voll., ed. Morcelliana, Brescia 19801983. - Enten-Eller, a cura di Alessandro Cortese, in 5 voll., ed. Adelphi, Milano 2006.

- Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di Cornelio Fabro, in 2 voll., ed. Zanichelli, Bologna 1962. - Il concetto dell’angoscia, a cura di Cornelio Fabro, ed. SE, Milano 2007.

- La malattia mortale, a cura di Cornelio Fabro, ed. SE, Milano 2008. - Aut-Aut, con introduzione di Remo Cantoni, ed. Oscar Mondadori, Trento 2011. - Timore e Tremore, a cura di Cornelio Fabro, ed. Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1972. - Il problema della fede, a cura di Cornelio Fabro, ed. La Scuola, Brescia 1978.

Studi critici: - Giorgio Penzo, Kierkegaard, la verità che nasce nel tempo, Ed. Messaggero, Padova 2000. - Salvatore Spera, Introduzione a Kierkegaard, Ed. Laterza, Bari 1992. - Cornelio Fabro, Studi Kierkegaardiani, ed. Morcelliana, Brescia 1957. 63


- Cornelio Fabro, Kierkegaard critico di Hegel, ed. Morano, Napoli 1970.

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