Nazareno Padellaro: usi pedagogici della politica

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

DI

L ETTERE

E

F ILOSOFIA

___________________________

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELL’EDUCAZIONE E DELLA FORMAZIONE

NAZARENO PADELLARO: USI PEDAGOGICI DELLA POLITICA

Relatore: PROF. FILIPPO SANI

Tesi di Laurea di: TINA PISCHEDDA

ANNO ACCADEMICO 2010/2011



INDICE

INTRODUZIONE

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CAPITOLO I - Nazareno Padellaro e la Scuola Fascista 1.1

Nazareno Padellaro: vita e opere

4

1.2

Il contesto storico: Fascismo e Scuola Fascista

6

1.3

Dalla Politica alla Pedagogia. Scuola e Sato nemici?

25

CAPITOLO II - Nazareno Padellaro: pedagogista del Fascismo 2.1

La Mistica Fascista

39

2.2

Il Fascismo come messaggio ai giovani: visione pueurocentrica

47

2.3

Studio della Giovinezza, Artefice della Storia. Risentimento, Ribellione, Rivoluzione. Educazione Rivoluzionaria

53

CAPITOLO III - Il libro di Terza Elementare 3.1

Valenza Educativa del testo

65

3.2

La fantasia come strada verso la perfezione

71

3.3

Il libro di terza elementare, esempio di Mistica Educativa

76

CONCLUSIONE

87

BIBLIOGRAFIA

90



INTRODUZIONE Un personaggio della pedagogia che operò in un periodo controverso della storia italiana e che divenne il massimo esponente nel campo educativo: Nazareno Padellaro. Educato secondo i principi della religione cristiana in una scuola cattolica, egli abbracciò l’ideologia fascista fin dai primi anni della presa del potere da parte di Mussolini. La religione cattolica e il fascismo contraddistingueranno la pedagogia di Nazareno Padellaro, diviso tra queste due componenti fondamentali per la società di allora, e spinto a cercare sempre una concordanza. Tuttavia l’ideologia fascista prevalse nettamente, tanto che Padellaro divenne (anche e soprattutto grazie ai suoi studi filosofici) filosofo del Fascismo. Egli costruì un vero e proprio impianto filosofico capace di dimostrare la legittimità dello Stato Etico di Mussolini: egli, ispirandosi ai massimi esponenti della storia della filosofia quali Fichte e Nietzsche, ma anche traendo spunto dall’odiato Marx, disegna uno Stato in cui il super uomo-Duce, partendo da una rivoluzione ( la marcia su Roma), dà inizio ad uno Stato Etico finalizzato al raggiungimento della perfezione; in questo contesto emerge la funzione fondamentale della scuola, strumento essenziale per creare un popolo capace di dominare il mondo e di mettere in atto grandi conquiste. La scuola ideata dal Padellaro è una scuola direttamente dipendente dallo Stato ed ispirata ai valori di questo: lo spirito guerriero, l’obbedienza allo Stato e al Duce. La scuola ideata da Padellaro stravolge la storia della pedagogia e i livelli raggiunti fino a quell’epoca. Egli si oppone alle idee di Rousseau considerate pietre miliari per la storia della pedagogia e considerate ormai inconfutabili: la scuola, secondo il filosofo ginevrino, non doveva dipendere dai poteri dello Stato. Totalmente diversa la posizione di Padellaro, per il quale non è per niente illegittimo che la scuola insegni i principi etici dello Stato, che sono valori costruttivi e per questo da seguire. Padellaro, opponendosi a Rousseau, si oppone di conseguenza ai sistemi pedagogici di Stati come la Francia, tanto che questo scontro educativo diviene un ulteriore campo di battaglia per affermare la superiorità dell’Italia Fascista sugli altri Stati; è

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l’affermazione del “Primato educativo”, da cui prende spunto il titolo della rivista di settore diretta per anni da Padellaro. Egli, giunto ai massimi vertici del campo educativo durante il ventennio, raccolse l’ammirazione dei vertici del Fascismo e dello stesso Mussolini, che gli affidò un compito ambizioso, tale era la stima nei confronti del pedagogo: scrivere il libro di testo unico dello Stato Fascista. Un documento storico in cui Padellaro espresse tutte le sue illimitate conoscenze culturali al servizio del Regime: il libro doveva essere un capolavoro da cui dovevano trasparire valori del Fascismo, della romanità e della cristianità, tutti amalgamati da un linguaggio semplice e accattivanti per il fanciullo. Nel libro è evidente l’impronta pedagogica del Padellaro: la componente mistica si fonde con la spensieratezza del mondo fantastico ovvero, due componenti che a prima vista nulla avrebbero in comune. Da una parte la mistica, commistione di valori religiosi e profani che fanno del Fascismo una vera e propria religione di Stato; dall’altra il mondo fantastico, di cui la favola è genere rappresentativo per eccellenza in cui i valori sono espressi da animali parlanti: mistica e fantastico sono così accomunati dalla tensione verso un mondo migliore, più umano. Il libro è contraddistinto da argomenti (seppur descritti con linguaggio infantile), non facili per il fanciullo, che si trova ad affrontare temi “da adulto” in tenera età: è questa l’espressione più alta del “puericentrismo”

di Padellaro, che esalta la

fanciullezza tanto da affidarle le chiavi del futuro, naturalmente per il bene del fascismo. Il giovane infatti ha dentro di sé una forza che gli consente di combattere fino alla morte, una propensione illimitata al sacrificio per gli altri: una forza che lo Stato non può ignorare, ma anzi deve sfruttare. Il fanciullo, più dell’adulto, è l’esempio della devozione al regime: Padellaro nel suo contatto con gli studenti di ogni parte d’Italia, raccolse numerose testimonianze di questa devozione al fascismo ed al suo Duce da parte di bambini ingenuamente affascinati da Mussolini e pronti a sacrificare la propria vita per lui. Un culto, quello per il fanciullo, tratto dalla tradizione romana, preso come esempio di massima civiltà dal fascismo e dallo stesso pedagogo, che ne conosce anche i più

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nascosti particolari: dal culto per il sacrificio all’educazione guerriera, all’amore per il bello e per la natura. Il libro, grazie a questi particolari, diviene saggio delle conoscenze di Nazareno Padellaro, immenso uomo di cultura di quel periodo storico. Tuttavia nel redigere questa tesi, si è notato come la storia, tanto osannata da Padellaro come una delle materie principali per la formazione del fanciullo, sia stata impietosa anche nei confronti del pedagogo, dimostrando che essa come spesso commentano gli storici, appartenga ai vincitori: una figura di spessore come quella di Nazareno Padellaro è stata immeritatamente dimenticata anche dai libri di pedagogia. Tanto che per redigere una biografia, si è dovuto ricorrere ad una commovente quanto preziosa telefonata con l’anziana figlia del pedagogo, dimostratasi onorata del fatto che la figura del padre defunto, grande innovatore, sia tornata a rivivere grazie a questa tesi. Anche per questo motivo la stesura di questa tesi non è stata semplice, ma posso affermare con sicurezza che l’argomento ha catturato tutto il mio interesse proprio perché poco approfondito. In questo senso il mio lavoro vuol esser un’introduzione per chi volesse interessarsi ai lavori di Padellaro. Spero che questo mio lavoro possa esser di gradimento per coloro che si accingeranno alla lettura da interessati all’argomento, e che possa altresì fungere da punto di partenza – per chi, invece, si trovasse inaspettatamente appassionato – verso ulteriori ricerche ed indagini in proposito che possano giungere a risultati più approfonditi e completi.

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1. NAZARENO PADELLARO E LA SCUOLA FASCISTA 1.1 NAZARENO PADELLARO: Vita e opere

Figlio di un commerciante di legna, Nazareno Padellaro nacque a Mazzarino (CT) nel 1892: frequentò elementari e medie presso i Salesiani di Torino, dove sviluppò l’ispirazione cristiana che caratterizzerà la sua opera. Si laureò con il punteggio di 110 e lode in Lettere e filosofia presso l’università di Roma: per pagarsi gli studi insegnò matematica presso una scuola della Capitale. Nel 1923 vinse le Olimpiadi della Cultura con il testo “La comicità del Manzoni”. Divenuto insegnante elementare, giunge in pochi anni ai vertici del settore dell’insegnamento: svolta la mansione di Provveditore agli studi nella città di Potenza, divenne in seguito Provveditore agli Studi di Roma per 15 anni, dove durante il Ventennio fascista, acquistata la stima del Regime, diventò il pedagogista di riferimento in vista dell’obiettivo che il Duce, grande estimatore di Padellaro, si era posto, ovvero quello di educare i giovani italiani e così creare una solida classe dirigente fascista. Direttore di una rivista del settore, “Primato educativo”, Padellaro insieme a collaboratori del calibro di Luigi Volpicelli affrontò i problemi educativi dell’Italia fascista, criticando fortemente le scuole straniere (in particolare quelle francesi) ed esaltando i caratteri della scuola italiana. La rivista ebbe lo scopo dichiarato di “creare, munire e difendere la frontiera pedagogici” di cui lo Stato fascista aveva bisogno. Il titolo rispondeva esattamente ad un programma imperiale. Il compito di Primato educativo era duplice: dare consistenza all’ educazione politica e dimostrare che quell’ educazione era superiore a tutte le altre1. Nazareno Padellaro fu fervente sostenitore delle teorie fasciste, tanto da essere uno dei più rappresentativi e colti collaboratori e teorici della Scuola di Mistica Fascista Sandro Italico Mussolini, associazione culturale fascista fondata a Milano nell’aprile del 1930 da un folto gruppo di studenti universitari e intellettuali guidati da Nicolò Giani, che si prefissavano di elaborare una vera e propria cultura fascista, intesa globalmente come visione del mondo, sistema di valori adeguato alla nuova “civiltà” di cui il fascismo è causa ed espressione al tempo stesso2.

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D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 339. D. Marchesini, La scuola dei gerarchi, Milano, Feltrinelli Economica, 1976, p. 151.

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Proprio in seno all’attività della Scuola di Mistica Fascista, ha redatto la relazione Tradizione antirazionalistica e intellettualistica: relazione generale al I tema del convegno nazionale “Perche siamo mistici”, in cui difese, teorizzò e giustificò questo nuovo fenomeno, che è la mistica, che caratterizzò lo Stato Fascista. Autore di vari saggi che avevano lo scopo di esaltare la superiorità del sistema educativo fascista, tra i quali la relazione “Scuola e Stato nemici”, e i trattati “La scuola vivente”, “Giovinezze nel mondo”, “Pedagogia e antipedagogia” viene individuato dal fascismo per la redazione dell’ambizioso progetto di redigere il testo unico della terza elementare, capolavoro di cultura e preziosissimo documento storico dell’epoca fascista. Collaborò con il Ministro dell’Educazione Giuseppe Bottai, suo grande estimatore e nel 1940 fu nominato Direttore Generale delle Scuole Medie. Proprio questa predilezione che il fascismo gli riservò lo portò subito dopo la guerra ad essere imprigionato per circa un mese con l’accusa di essere un uomo del Fascismo. Tuttavia grazie alle conoscenze indiscusse del campo pedagogico e al suo alto spessore culturale, Nazareno Padellaro fu chiamato ad assumere incarichi al servizio del Ministero dell’Istruzione anche nella neonata Repubblica: venne nominato Presidente del Consiglio di disciplina scolastica e divenne direttore del centro culturale “Villa Falconieri”. Si fece promotore della lotta all’analfabetismo: significativa fu la sua iniziativa di combattere l’analfabetismo tra le categorie emarginate, ed in particolare quella delle prostitute. Da grande innovatore nel campo dell’educazione che fu, capì subito il potere comunicativo della televisione, tanto da ideare un noto programma televisivo, “Non è mai troppo tardi” che si prefiggeva di diffondere la cultura, non solo ai bambini, nell’Italia del Dopoguerra. Esemplare fu l’educazione della sua famiglia: rimasto vedovo nel 1950, crebbe le sue tre figlie (l’unico maschio, Antonio, morì ancora bambino) che ereditarono la sua grande cultura: Angela divenne scrittrice di talento, aggiudicandosi numerosi premi letterari, Rosa divenne professoressa universitaria mentre Laura divenne musicologa e collaborò 35 anni con la RAI; giova precisare che gli aspetti biografici di questa tesi sono frutto di colloquio con quest’ultima figlia, la quale ha gentilmente fornito un ricordo del padre Nazareno Padellaro, morto a Roma nel 1980, il quale non è mai

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stato rappresentato, come meriterebbe, da biografie e studi che ne valorizzino il valore pedagogico oltreché culturale.

1.2 IL CONTESTO STORICO: FASCISMO E SCUOLA FASCISTA

L’opera, le idee e la pedagogia proposte da Nazareno Padellaro (Mazzarino 1892 – Roma 1980) sono fortemente condizionate dal periodo storico in cui egli visse e non possono prescindere da esso: egli fu irrimediabilmente influenzato dall’ideologia fascista, di cui può essere considerato uno dei teorici, e dal regime che occupò la scena politica nel periodo in cui il pedagogo operò e scrisse le sue opere più significative, dando forte impulso al dibattito sull’educazione e fornendo propri commenti, critiche e apporti all’attività istituzionale in campo educativo, affermandosi così come grande studioso di pedagogia nonché attento osservatore e critico del proprio momento storico, dotato di elevate conoscenze culturali e di invidiabile vivacità di pensiero. Il regime fascista, assunto il controllo della vita politica, sociale, economica dello Stato, individuò nella scuola uno dei principali strumenti per la costruzione dell’Italia Fascista: per raggiungere questo ambizioso obiettivo Mussolini aveva capito che la creazione del Popolo Fascista e il contrasto alle spinte antifasciste dovevano cominciare dall’educazione della gioventù, dai primi anni di vita fino all’università. Il sentimento fascista, trasmesso alla gioventù Italiana fin dall’infanzia, avrebbe creato un Popolo forte, capace di prevalere sugli altri Popoli e dominare la scena internazionale dopo la grave crisi seguita alla Prima Guerra Mondiale. Premesso questo, era chiaro che la scuola fosse, dopo la famiglia, la principale fonte di educazione del fanciullo: Benito Mussolini confidava nella scuola per la formazione della classe dirigente dello Stato Fascista, ritenendo che milioni di studenti, educati allo stesso modo e con uguali valori fin dall’infanzia, avrebbero costituito nel futuro una risorsa decisiva per l’affermazione dell’Italia. In questa logica si rese necessaria quella che lo stesso Benito Mussolini definì “la più fascista delle riforme”, la riforma scolastica: l’educazione fu curata in tutte le sue forme, dalla scuola alle organizzazioni extrascolastiche che consentirono al regime di inglobare la gioventù sotto la propria egida.

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La Riforma Gentile. Apologia della Riforma, di Nazareno Padellaro. Nel breve periodo in cui il fascismo passa da partito di governo a regime autoritario, il filosofo Giovanni Gentile, ministro della Pubblica Istruzione dall’ottobre del 1922 al luglio del 1924, mette a punto una riforma della scuola che entra in vigore il 6 maggio 1923. Tra il 1918 e il 1922 le istanze di rinnovamento della scuola sono avanzate da voci nuove, quelle delle riviste specializzate e culturali. L’attivismo evidenzia l’arretratezza dei contenuti, legati ai vecchi canoni classici, al nozionismo, alla storia come agiografia patriottica, alla penalizzazione delle discipline scientifiche, alla sottovalutazione delle lingue vive, alla funzione del tutto marginale delle materie artistiche. La riforma Gentile tiene conto di questi elementi, ma li sviluppa partendo dall’esigenza, propria della cultura neoidealista, di una scuola più severa, selettiva, destinata in taluni ordini alle élites. La riforma punta così ad avere insegnanti più preparati culturalmente, ma accentua anche il controllo su di essi. Questo intendimento si riflette a livello amministrativo: i Provveditorati agli Studi vengono organizzati, rispetto alla legge Casati, su base non più provinciale, ma regionale; i capi d’istituto vedono accresciuto il loro potere e diventano […] “presidi-duce”. Essi devono controllare le competenze didattiche degli insegnanti attraverso le note di qualifica, uno strumento di controllo non generico, ma preciso, analitico e coerente con la valutazione. Il collegio degli insegnanti, unico momento collegiale di gestione scolastica, viene molto limitato. Nelle norme di carattere strutturale e organizzativo rilevanti sono le disposizioni che introducono l’esame di Stato, su cui si verifica una convergenza tra Gentile e i cattolici. L’esame di Stato permette infatti di pareggiare nei diritti e nelle possibilità, di fronte a una commissione esterna, gli studenti delle scuole statali e quelli delle scuole private3. L’esame di Stato e il voler indirizzare i giovani a seconda dei loro studi (totalità delle facoltà universitarie disponibile solo per chi frequentava il liceo-ginnasio, facoltà scientifiche accessibili solamente a chi avesse frequentato il liceo scientifico) diedero alla Scuola un carattere “classista” che scontentò le diverse classi sociali, dal popolo alla borghesia. Per il popolo significava scelta di quei pochi ragazzi, eccezionalmente dotati, che riuscivano a dimostrare le proprie capacità anche vivendo e studiando in condizioni di inferiorità e per i quali si potevano aprire le porte degli studi superiori; 3

U. Avalle, E. Cassola, M. Maranzana, Cultura Pedagogica, Torino, Paravia, 1997, p. 563.

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per la borghesia significava soltanto minaccia di esclusione dei suoi elementi non migliori dalle scuole di alta cultura4. “Selezione” fu parola chiave anche della successiva riforma della scuola, quella varata nel 1939 dal Ministro Giuseppe Bottai, secondo cui questa selezione era obiettiva e quindi capace di chiamare l’intelligenza al governo della cosa pubblica. Il principio di selezione cui si informarono la Riforma Gentile prima, e la Riforma Bottai successivamente, trovò il consenso anche del pedagogo di riferimento del Ventennio Fascista, Nazareno Padellaro, per il quale “studenti non si nasce, con ciò si vuole far intendere alla borghesia e per essa al capitalismo, che il monopolio dei diplomi le è strappato per sempre. Selezione, […] ossia accertamento di capacità e, in base a questo, orientamento nella vita sociale. […] Chi dice selezione e orientamento, dice giustizia sociale ossia liberazione da pregiudizi borghesi che sono l’architettura dei privilegiati”5. Va ascritto alla riforma Gentile anche il merito di aver introdotto l’obbligo scolastico fino a quattordici anni, qualificando, indirettamente, il settore medio dell’istruzione. In generale l’impianto della riforma è coerente con l’ispirazione idealistica sul punto fondamentale dell’unificazione del sapere. Se il Positivismo ricorreva alla metodologia scientifica e alla prospettiva interdisciplinare, la riforma Gentile punta alla subordinazione delle diverse forme di conoscenza e di attività dello spirito al sapere assoluto espresso dalla filosofia. Ne consegue una sostanziale svalutazione delle lingue straniere, delle discipline scientifiche, dell’educazione fisica (ndr negli anni successivi estremamente rivalutata) e delle attività pratiche, che non allontana però i consensi di molti liberali (fra cui Benedetto Croce), della filosofia e della pedagogia idealistica, e, pur con qualche distinguo, della Chiesa. Molti di questi consensi finiranno però per attenuarsi e sparire nel momento in cui il fascismo avvia progressivamente quelle modifiche che, al di là dello spirito della riforma, puntano a fare della scuola un semplice strumento di riproduzione dell’adesione ideologica al regime6. Seppur osteggiata da molti, la Riforma trovò il favore del pedagogo Nazareno Padellaro, il quale ne esaltò i caratteri innovativi e la modernità. La Riforma Gentile fu per il pedagogo un vero e proprio spartiacque nella storia del’educazione italiana: “La Riforma scolastica del 1923 è stata considerata come 4

D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 339. N. Padellaro, La Carta della Scuola in “Primato Educativo”, gennaio-febbraio 1939. 6 U. Avalle, E. Cassola, M. Maranzana, Cultura Pedagogica, cit., p. 564. 5

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vera rivoluzione spirituale appunto perché volle mutare la concezione secondo cui bastava sospingere gli alunni verso un certo livello culturale, il quale risultasse da un determinato apprendimento di nozioni, dalla conoscenza di alcune massime astratte di vita morale, dall’acquisto di determinate capacità tecniche”7. L’ostilità con il nozionismo che permeava l’educazione si fa evidente fin da subito e Padellaro lo addita come male principale dell’educazione italiana anti-riforma: “gli educatori si ostinavano a concepire il sapere come manualistica consuetudine erudita, come galateo grammaticale, come scolorita sintesi di notizie il cui valore era in ragione diretta della somma”8. Il nozionismo, rivela Padellaro, estraniava l’alunno dalla vita esterna alla scuola, mondo a parte in cui, una volta entrato, l’alunno doveva “spogliarsi di tutto ciò che lo attaccava alla vita del suo paese, della sua razza (ndr. è significativo come Padellaro senta la necessità di insistere sul tema razziale), per dimenticare il linguaggio materno, per considerare come sconvenienza tutto quello che richiamasse in lui la vita del popolo. […] Il distacco tra scuola e vita era evidente e programmatico. La scuola doveva fare sparire come scoria tutto ciò che non potesse essere costretto nel concetto angusto della scuola dell’alfabeto”9. Una simile scuola, scuola di non-vita additata dagli stessi alunni a differenza della scuola-vita del Regime Fascista, ebbe l’unica, terribile conseguenza di essere deleteria per le giovani generazioni, di cui si persero la maggior parte degli ingegni: “i primi a condannarla erano i fanciulli, i quali la consideravano, dal più al meno, come luogo di supplizio. Padellaro, da sempre attento, nella sua opera pedagogica, alle opinioni espresse dai diretti interessati -gli alunni- condivide e si immedesima nel disprezzo che gli educandi medesimi potevano provare per una scuola vuota di contenuti, basata sul mero mnemonismo e nozionismo, che mortificarono, invece di valorizzarli, numerosi talenti: né vale a dire che in tali scuole si formarono uomini geniali, che in tali scuole ebbero il crisma di uomini di profonda vita spirituale, perché sarebbe agevole ribattere che tale vita spirituale nacque come attitudine polemica di ribelli in coloro che ebbero da natura il dono di vincere la prova.”10. Afferma Padellaro, dunque, che fu il genio naturale e la ribellione a quel sistema nozionistico a far fiorire grossi ingegni nell’epoca pre-riformista: “ma quante forze 7

N. Padellaro, La scuola vivente,Torino, G.B. Paravia e C., 1931, p. 211. Ibidem. 9 Ivi, p.212. 10 Ibidem. 8

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disseccate. Quanti tesori interiori perduti”11: resta ferma, dunque, la convinzione che sia compito della scuola valorizzare il talento dei giovani, opportunità che la scuola fascista non doveva lasciarsi sfuggire. E, nella scuola precedente, solo una figura poteva salvare questo talento: il maestro, “il quale sapeva non per pedagogica virtù ma per istintiva simpatia (ndr. evidentemente nel suo significato greco di immedesimazione nell’altro e condivisione delle sue difficoltà, che ben si conforma alla valenza filosofica, come sotto esplicata, della Riforma) spirituale rendere sopportabili le ore eterne di lezione”12. Tuttavia, è chiaro, “non bisogna confondere la buona disposizione per un carceriere umano, con l’elogio del carcere”13. Padellaro, da ottimo critico della storia educativa contemporanea, testimone di simile “rivoluzione”, è conscio dell’opposizione “che tutti, uomini di scuola, alunni e parenti, dimostrarono verso la riforma scolastica”14, ostilità dovuta al fatto di “quanto questa concezione fosse radicata nella mente di tutti. […] Si disse che si volevano sovvertire le basi del sapere, che si voleva gettare lo scompiglio nella scuola, che si voleva definitivamente rovinare l’insegnamento e tornare alla barbarie”15. E, da distaccato studioso, Padellaro è conscio del fatto che una siffatta riforma sarebbe rovinosamente fallita se il “Regime non l’avesse sostenuta con tutta la forza della sua fede e della sua autorità”16. L’abbandono del nozionismo e l’informarsi della scuola nuova alla vita quotidiana, che evidentemente in quel periodo era, appunto, basata sulla cultura popolare, rappresenta uno sforzo anche per l’insegnante, che è obbligato a “rinnovare continuamente la propria cultura, attingendo non a manualetti (ndr. apprezzabile la vena sarcastica) in cui si raccolgono le briciole del sapere, ma alle vive fonti della vera cultura del popolo”17: il riferimento alla realtà sempre in movimento,

appannaggio

della filosofia

gentiliana è evidente.

Padellaro,

concordando con il filosofo, auspica lo sviluppo di fanciulli dalla mente critica, fantasiosa, creativa, dinamica, obiettivo raggiungibile grazie alla “schietta poesia, la ingenua ricerca del vero, l’agile indagare dello spirito popolare, irrequieto e mai sazio di <<perché>>, il rapimento nella contemplazione dell’arte e della vita; la 11

Ibid. Ibid. 13 Ibid. 14 Ivi, p.213. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 Ibid. 12

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comunicazione con le grandi anime, fatte vive e quasi presenti attraverso la parola del maestro”18: è l’esaltazione delle materie letterarie, filosofiche, artistiche. Il maestro, calandosi nella sua divina funzione e svolgendola con amore, viene strappato da Padellaro alla sua precedente funzione sociale, “considerata quasi un ufficio sociale inferiore”19: il maestro, continua il pedagogo, “perfezionerà il proprio lavoro didattico, vivendo, con animo partecipe, la vita del suo popolo: riascoltando insaziato la voce dei grandi, […] cercando nuova guida al suo spirito in buoni libri […]. Così riuscirà a farsi e a sentirsi migliore, e porterà nella scuola la vibrante eco del suo studio”20. La filosofia di cui è intrisa l’opera di Padellaro è qui evidente: il maestro, inteso nella sua funzione filosofica, deve nutrire il suo Spirito di cultura (ndr. che per Padellaro è, eminentemente cultura italica) per poterla trasmettere allo Spirito dell’alunno: è questo un passaggio dialettico fondamentale per la Vita dello Stato etico teorizzato dal Fascismo, un momento in cui lo Stato si rinnova, si alimenta della sua cultura garantendosi il futuro. E l’insegnamento non può che prescindere dalle opere dei grandi: nella concezione filosofica che Padellaro fornisce dello Stato e della Scuola, una tale puntualizzazione, in cui lo Stato etico italico si autoalimenta attraverso la Scuola, informandosi ai cosiddetti grandi (da Dante, a Foscolo a Manzoni) del passato, cui sembra chiedere aiuto, denota l’umanesimo del pedagogo, grande uomo di cultura: “essi ti lasciano sempre nel cuore l’aspirazione all’alto, cosicché anche la semplice lezione di una scuola elementare è come primo avviamento verso le altezze”21. Padellaro mostra la funzione quasi sacerdotale del maestro, perché “solo chi passa alla compagnia dei più umili e dei più piccoli , avendo prima gioito nella compagnia spirituale delle migliori anime umane, sente di non essersi abbassato; ed è capace di parlare con religioso animo, qualunque sia l’oggetto del suo insegnamento e l’età dei suoi discendenti”. Il fine della scuola voluta dalla Riforma gentiliana è dunque “eliminare la sapienza libresca per iniziare gli alunni alla sapienza popolare”22, e il primo mezzo per raggiungere questo scopo è l’introduzione del dialetto, prima rifiutato assolutamente: tuttavia, sottolinea Padellaro, è innegabile “quanta forza ed ingenuità vibri nelle canzoni popolari; quale 18

Ivi, p.214. Ibidem. 20 Ibid. 21 Ibid. 22 Ivi, p. 216. 19

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distanza intercorra tra la mediocrità superficiale dei così detti istruiti e la profonda contemplazione serena degli incolti che esprimono la propria ricchezza spirituale”23. Padellaro mostra ancora una volta il proprio amore per la cultura italiana, che non può prescindere dalla cultura e dalla saggezza popolare: l’alunno coglie ogni beneficio di questa scelta, in quanto “la scuola non è più la cattedra livellatrice, ma il tempio di una musa lieta, serena che raccoglie i tesori dell’anima infantile. […] L’austero valore morale di un proverbio popolare ha suscitato maggiori impressioni nell’alunno che la gelida chiacchierata moralizzante affidata alle più gelide pagine di manuale scolastico”24. Altro merito della riforma è quello di aver introdotto il lavoro manuale: il pedagogo si sofferma in particolare sul lavoro donnesco, sempre e comunque ispirato alle tradizioni locali. “Nelle classi superiori alla terza, la maestra avrà cura di richiamare l’attenzione delle fanciulle sui lavori di arte locale e particolarmente su quelli che possano venir rimessi in onore e diventare una utile e piccola industria”25. Il riferimento al lavoro dopo la scuola cui Padellaro fa, e la sua attenzione all’educazione e al lavoro e all’emancipazione femminile, sono chiari: “Seguano le maestre il movimento mirabile di risveglio delle piccole industrie artistiche di opere femminili che va manifestandosi qua e là in Italia e fa ritornare in uso lavorazioni. […] Basta pensare ai merletti veneti, alle lavorazioni umbre e toscane su tela a mano, ai tappeti sardi e calabresi, ai delicati e semplici ricami taorminesi e siracusani, per comprendere l’importanza nazionale del lavoro femminile”26. La valorizzazione dell’arte locale, intesa come arte paesana, nasce dall’esempio delle opere locali e, afferma Padellaro, “a tal scopo la maestra includerà nel suo programma l’attenta osservazione di quanto ha pregio d’arte in paese […] ed adopererà per gli ornati, motivi tratti da opere d’arte, bandendo dalla scuola i soliti e triti modelli esotici, spesso volgari ed in ogni caso disformi e lontani dal nostro gusto”27. L’insegnamento, riferisce Padellaro -mostrando sempre la propria ispirazione alla filosofia (ed in questo caso al platonismo)- deve avere come oggetto il bello e le cose belle e deve trasmettere all’alunno il gusto per la bellezza e per ciò che è passato: “occorre assolutamente che cessi lo sguaiato ripetersi, in tutte le 23

Ibidem Ivi, p.218. 25 Ibidem 26 Ivi, p.219. 27 Ibidem. 24

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scuole, di motivi insignificanti e che l’amore per la semplicità nasca dalla contemplazione e dalla riproduzione continua delle cose belle, e […] dare al fanciullo il senso della solidarietà col passato; dimostrargli che ogni valore spirituale, purché tale, non può essere distrutto dal tempo; dargli il senso sacro del rispetto per il patrimonio artistico della sua gente: significa insegnargli la venerazione per le cose grandi, significa rifocillarne lo spirito con il divino dono della poesia”28. I fanciulli sembrarono apprezzare: “A me piace essere piccola Italiana, perché c’insegna a cucire, e a fare le calze, e perché ci fanno l’albero di natale e ci danno i vestiti. Io ne ho tanto bisogno. Il babbo non ha soldi per comprare le scarpette”29. Ma la grande e moderna novità, caldeggiata ed esaltata dal Padellaro, è l’introduzione dell’attività ricreativa, innovazione ostacolata e mal vista dai sostenitori della vecchia pedagogia: “novità non molto accetta fu quella delle occupazioni intellettuali ricreative. Al solito il pedantismo pedagogico gridò al perditempo, ma subito ci si dovette accorgere come in virtù di queste occupazioni ricreative la scuola perdeva la sua arcigna ed insopportabile fisionomia e diventava palestra di viva attività spirituale amata dagli alunni”30. Padellaro è convinto che in questo modo l’alunno si senta veramente a proprio agio e che “nella scuola è entrato un più vivo senso di umanità. Non è possibile negare che nelle occupazioni ricreative il fanciullo non trovi il pascolo prediletto”31. Il pedagogo individua due tipi di attività ricreativa che attraggono il fanciullo: il racconto fantastico, cui è restituita la dovuta dignità, e il gioco. Padellaro, che nella sua esposizione non tralascia di dare al suo discorso una poetica vena paesana e famigliare, nota che “il racconto, che una volta sembrava umile attribuzione della nonna, è diventato rapsodia amena. La passione del fanciullo per il fantastico espresso nella fiaba artistica, non solo non è più condannata, ma è sfruttata per la sua educazione. Il maestro insomma, non si sente menomato nel fare il cantastorie: […] il maestro che sa raccontare, sa insegnare; questo è il canone della nostra pedagogia”32. L’apice della modernità di Nazareno Padellaro si raggiunge allorché il pedagogo elogia il gioco come prezioso metodo di insegnamento per il maestro, il quale “deve sapere anche giocare, confondersi anche nel gioco, con i 28

Ibid. N. Padellaro, La Scuola vivente, cit., p.111. 30 Ibidem. 31 Ivi, p.221. 32 Ibidem. 29

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fanciulli. Tutti i volumi scritti sul giuoco dei fanciulli, hanno dimenticato che nel giuoco il maestro può veramente conquistare l’anima dei suoi alunni”33. Il maestro deve dunque mescolarsi tra i suoi alunni, mettersi al loro pari pur essendo loro guida, in definitiva, un “primus inter pares”: “se egli sa diventare il compagno di giuoco, cadono miracolosamente tutte le prevenzioni, i timori, le diffidenze. L’anima si apre, la confidenza si conquista, la diffidenza cede il posto ad una intesa cordiale”34. Il maestro abbandona quindi la sua veste di austero precettore, pronto a punire il fanciullo che non si applica e che non segue i suoi insegnamenti. Il gioco inoltre, acquista un’altra importantissima funzione: l’alunno prende coscienza che nelle attività ludiche, metafora della vita, esistono delle regole, e “le uniche leggi accettate, sono le leggi del giuoco”35. “La scuola-continua Padellaro- fino alla riforma ha ignorato questa devozione del fanciullo alla legge. La ricreazione è stata considerata come un pericolo per la disciplina e si è dimenticato che nel giuoco il fanciullo dà a sé stesso una disciplina”. Con questo concetto Nazareno Padellaro si erge a grande indagatore della psicologia infantile, che non può essere compresa prescindendo dall’importanza del gioco, presente -come affermato dal pedagogo nella civiltà ellenica e latina- : “Non si può essere ammessi nella Società dei fanciulli, cioè non si può partecipare alla loro vita, non si possono intendere i loro segreti, senza la rinuncia a certa maturità che è incapacità di gustare le gioie innocenti del giuoco dei fanciulli”36. Non si può non cogliere l’ispirazione cattolica di queste righe, in cui la dignità del mondo del fanciullo è portata, quasi evangelicamente, al massimo grado dal Padellaro; il mondo del fanciullo è terra da esplorare, e che solo gli adulti capaci di spogliarsi dei retaggi della realtà che li circonda, possono conoscere: “approfondire la vita del fanciullo significa non comprimerne lo slancio verso l’ignoro, verso il divino”37. La tecnica educativa introdotta dalla Riforma Gentile, tiene a precisare con orgoglio Padellaro, fu applaudita anche dai pedagoghi stranieri, che rimasero ammirati dalle sue innovazioni, primo fra tutti A. Ferrière -peraltro non molto ammirato dal pedagogo italiano per la sua propensione verso le scuole cosiddette nuove- il quale scrisse un elogio della scuola italiana: “il canto, lo studio 33

Ivi, p.222. Ibidem. 35 Ibid. 36 Ivi, p.23. 37 Ivi, p.138. 34

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del folklore, la cultura regionale, l’uso del dialetto che serve a stabilire un parallelo istruttivo con l’italiano, l’arte, la religione sono tanti rami che le nostre scuole più o meno ignorano e che la riforma Gentile ha introdotti! […] Una pedagogia che si appoggia su questo fondamento è buona e da invidiare in qualunque posto del mondo si trovi. Ogni paese, ogni confessione devono essere felici ed alteri di avere, se l’hanno, o devono aspirare ad averla, se non l’hanno ancora, una scuola in cui la formazione della personalità, nel senso più alto della parola, sia al centro del programma. L’Italia è sulla via di possedere questa Scuola. In ciò essa può servire di esempio e di modello al mondo intero”38. La Scuola di grado preparatorio. La riforma Gentile conferma i programmi della scuola infantile del 1914. Vengono tuttavia introdotte alcune novità, fra cui il nome di Scuola del grado preparatorio, la facoltà di optare tra il metodo frobeliano del programmi del 1914 e il metodo Montessori, con un collegamento più diretto, sul piano didattico, con la scuola primaria. In seguito la scuola infantile avrà anche l’inserimento dell’insegnamento religioso come conseguenza del Concordato del 1929. Alla vigilia della Seconda Guerra mondiale, la riforma Bottai, che resterà sulla carta, introduce il concetto di Scuola materna, nella quale si vuole accentuare, a un tempo, l’autonomia didattica e la continuità rispetto alla scuola elementare39. La nuova concezione della scuola elementare. La scuola elementare per Nazareno Padellaro. Superando la soluzione adottata da Orlando nel 1904, la riforma Gentile prevede, dopo il triennio del grado preparatorio, la scuola elementare ancora di cinque anni, divisa in un grado inferiore, di tre anni, e superiore, di due. Dopo la classe quinta vengono aggiunte classi integrative di avviamento al lavoro. Le innovazioni culturali e didattiche riguardano i programmi, sui quali opera il pedagogista più apprezzato dell’Idealismo attivistico, Giuseppe Lombardo-Radice. La scuola viene riportata alla sua funzione educativa più autentica e, sulla scorta dei presupposti idealistici e attualistici, le indicazioni metodologiche dei precedenti programmi vengono ridimensionate. La dimensione sentimentale e spontanea del bambino viene posta in rilievo, assieme alle dimensioni espressive del linguaggio e dell’arte come cardini dell’attività didattica. Si desidera tra maestro e scolaro una comunione spirituale 38 39

Ivi, p.224. U. Avalle, E. Cassola, M. Maranzana, Cultura Pedagogica, cit., p.564.

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diretta, senza la mediazione di metodi precostituiti, i contenuti sono indicativi: spetta a maestro precisarli e individuare il modo migliore di raggiungere i risultati prefissati. Infatti il maestro non trasmette cultura, ma ricrea e ricostruisce, attraverso il suo sapere, la cultura stessa40. Chiara l’influenza del pensiero filosofico di Giovanni Gentile: adeguare l’insegnamento ai principi dell’attualismo fu il compito svolto da Lombardo-Radice con i nuovi programmi della scuola elementare. L’educazione intesa come autoeducazione, lo sviluppo dello spirito come farsi contino, il rapporto educatore-educando come comunione spirituale, ispirarono il rinnovamento della vita scolastica dall’interno. Il carattere della nuova scuola era essenzialmente formativo: la quantità delle nozioni, il possesso di uno scibile più o meno vasto passavano in seconda linea di fronte all’esigenza di sviluppare le capacità individuali attraverso l’attività. Il centro dell’opera educativa si collocava nel punto di incontro dell’atto che realizza la fusione dello spirito dell’educando e dell’educatore risolvendo la loro contrapposizione. Ogni degenerazione della cultura in mnemonismo, in nozionismo ecc. avrebbe dovuto essere impedita da una realtà educativa basata sull’atto e quindi sulla comunione spirituale che garantisce la spontanea adesione, l’interesse e l’autonomia dell’educando. Una interpretazione più accurata delle esigenze della vita spirituale infantile porta ad una coerente e vitale interpretazione del suo ritmo dialettico: attività soggettiva, oggettiva, sintetica o filosofica, e alla introduzione, nel programma scolastico, di occupazioni e di attività che erano estranee alla vecchia scuola: gioco, lavoro, disegno, canto, occupazioni nelle quali il fanciullo trova i mezzi per oggettivarsi. Le attività scientifiche, introdotte dalla vecchia scuola, sono rivoluzionate; esse non sono considerate soltanto come conquista di un più sicuro possesso del mondo naturale, ma come momento dialettico dello sviluppo spirituale41: viene ulteriormente sottolineato il carattere filosofico della Riforma. Nazareno Padellaro, trovandosi a dare una propria opinione sulla scuola elementare nell’opera “La scuola vivente” utilizzando la figura retorica di una lettera scritta da un alunno fittizio che descrive la propria scuola ideale, così disquisisce: “Vorrei che la scuola durasse cinque ore. Che in prima ci insegnassero a leggere, a scrivere, e a tenere la penna nelle mani, e a conoscere l’orologio. Dopo vorrei che ci insegnassero 40 41

Ibidem. D. Bertoni Jovine, La Scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, cit., p. 266.

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le preghiere, e a fare le corse a piedi […]. In seconda che ci insegnassero la tavola pitagorica, e a fare i salti come i leprotti, e a fare le operazioni, le moltiplicazioni, divisioni, sottrazioni, addizioni e la storia. Ma però (ndr. ne sottolinea ancora una volta l’importanza Padellaro) anche la ricreazione. In terza studiare la Terra, la geografia, scienza e storia. In quarta andare su per corde, e su per pertiche, su per le corde uso marinaro, far ginnastica, e il foot-ball. In quinta poi per due ore insegnarci ad andare in bicicletta, per le altre due ore favole e storia, e per un’ora ricreazione. In sesta insegnarci ad andare in motocicletta in pista. Alla prima tecnica insegnarci un mestiere per guadagnarci il pane. Nella seconda tecnica fare lo sciaffer. Nella terza tecnica fare l’aviatore”42. Con linguaggio volutamente camuffato di ingenuità sognatrice del fanciullo, Padellaro indica le caratteristiche della scuola da lui auspicata: presenza delle materie letterarie, raffigurate dall’imparare a leggere e scrivere, fin dalla prima classe; insegnamento della religione solo nella prima classe: Padellaro condivide l’idea, ormai diffusa, che la religione dovesse avere spazio limitato all’interno della scuola. La matematica e le scienze dovevano avere anch’esse uno spazio pressoché limitato, a favore della storia, materia per eccellenza che rispondeva, per i suoi contenuti di grandezza passata, agli scopi del regime: quest’ultima viene preferita nettamente alla geografia, apprezzata solo se vista in chiave imperialista. E poi, soprattutto, l’educazione fisica: essa doveva rappresentare un momento di formazione del fisico e dello spirito del fanciullo, in vista del suo futuro di guerriero al servizio dell’Italia fascista. I Patti Lateranensi e i mutamenti della politica scolastica fra il 1926 e il 1929. Il conflitto Stato-Religione Cattolica risolto da Nazareno Padellaro. Con il consolidarsi del regime fascista, e in particolare dopo il Concordato del 1929 e la conciliazione con la Chiesa cattolica, una serie di circolari e di provvedimenti amministrativi comincia a introdurre modifiche in quella che Mussolini definì “la più fascista delle riforme”, orientando sempre più i docenti sulla linea politica del regime, evidentemente interessato a trasformare la scuola nello strumento di consenso alla sua politica.

Nel 1926 viene costituita l’Opera nazionale Balilla,

divenuta nel 1937 Gioventù Italiana del Littorio. L’istituzione dell’Opera prevede per tutti i giovani l’iscrizione obbligatoria all’età di sei anni e un percorso che, attraverso 42

N. Padellaro, La Scuola vivente, cit., p.74.

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denominazioni quali figli della Lupa, balilla, avanguardisti, giovani fascisti (per i maschi) e piccole italiane, giovani italiane e giovani fasciste (per le femmine), conduce a ventuno anni direttamente nelle file del partito. Le adunate del sabato fascista

provvedono

all’inquadramento,

all’addestramento

paramilitare

e

all’indottrinamento politico sotto la guida di istruttori del partito. Nel 1928 viene introdotto l’obbligo del giuramento per gli insegnanti elementari. La religione, considerata da Gentile semplice materializzazione della filosofia, assolve nella scuola primaria prevista dalla riforma il ruolo di centro unificatore, per essere sostituita nella scuola secondaria dalla filosofia43. La religione acquista nella scuola primaria una funzione preponderante: il momento religioso è considerato a volte come momento oggettivo assoluto, nel quale il soggetto annega come creatura riassorbita dal creatore; a volte come momento sintetico, riflessione cioè sulla propria vita e creazione della Legge morale44. Naturalmente dalla religione doveva essere estromessa tutta la parte dogmatica, in quanto si sarebbero contraddetti i principi che la Riforma voleva realizzare, e cioè l’antidogmatismo e l’antinozionismo. Dando forte connotazione di cultura italiana alla religione, Giovanni Gentile chiarì esplicitamente che la religione insegnata nelle scuole doveva ispirarsi al senso religioso espresso dai Promessi Sposi di Manzoni, in cui spiccano la Provvidenza, il timor di Dio, l’Amore: “L’insegnamento di religione si informi dalla prima all’ultima classe allo spirito che anima l’opera di Alessandro Manzoni. Amore e timore filiale, non servile terrore; il senso del divino e della provvidenza sia acceso nei cuori soprattutto con la contemplazione dell’ armonia delle cose e della vita morale, non tanto definita per aforismi e per regole, quanto rappresentata in grandi o umili figure di credenti […]45. In conseguenza dei Patti Lateranensi ci sarà invece il reinserimento dei crocefissi in aula e l’insegnamento della religione nelle scuole primarie e secondarie. Sempre nel 1929 verrà introdotto nelle scuole il testo unico di Stato, curato da una commissione di gerarchi, prelati, pedagogisti. L’obiettivo del regime è una continua e omogenea attività di formazione del consenso, da realizzarsi con particolare cura nei confronti dei giovani ancora 43

U. Avalle, E. Cassola, M. Maranzana, Cultura Pedagogica, cit., p. 564. D. Bertoni Jovine, La Scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, cit., p. 267. 45 G. Gentile, Programmi e prescrizioni didattiche del Ministro della P.I., ordinanza ministeriale in applicazione del R.D. 1 ottobre 1923, n. 2185, citato in L. Pazzaglia e R. Sani (a cura di), Scuola e società nell’Italia unita,Brescia, Editrice La Scuola, 2001. 44

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privi di capacità critiche46. I Patti Lateranensi rappresentarono una tregua nel conflitto tra religione cattolica e fascismo, ostilità che mai si risolse pienamente vista la mal sopportazione del regime nei confronti delle ingerenze della Chiesa Cattolica: questo conflitto fu affrontato, e risolto sul piano filosofico, da Nazareno Padellaro, diviso tra la sua ispirazione cattolica e la sua aderenza all’ideologia fascista. “Lo Stato fascista è cattolico, ma è soprattutto esclusivamente fascista. La prima parte del giudizio guarda la sua accennata prospettiva dell’ideale trascendente (ndr. campo esclusivamente curato dalla Chiesa Cattolica), l’altra alla realizzazione della perfezione immanente (ndr. appannaggio dello Stato Fascista)”47: in definitiva la Chiesa doveva occuparsi del trascendente, mentre lo Stato fascista, continuando per la sua strada, puntava dritto verso la realizzazione della perfezione nella Storia. Padellaro dà così una giustificazione all’avanzare di quella che divenne una vera e propria religione di stato, e cioè l’ideologia fascista, rispetto alla fede cattolica: lo Stato fascista infatti è creatore di perfezione immanente, ovvero presente e reale, facendo sì che la fede cattolica venga man mano, inesorabilmente, tralasciata. La revisione del 1934. Nella stessa logica di utilizzo della scuola come sistema di riproduzione del consenso viene anche l’obbligo per tutti gli insegnanti, a partire dal 1933, di essere iscritti al partito. Nel 1934 i programmi della scuola primaria sono modificati. La scuola deve forgiare il militante fascista, cosicché il docente non può assumere posizioni autonome e avalutative. Circa i contenuti, soprattutto, vengono cambiati i programmi di storia per accentuare l’interpretazione nazionalistica ed eroica del Risorgimento, e quelli di geografia, per sottolineare l’espansione e i successi dell’Italia nel mondo48. La “Carta della Scuola”: Introduzione del lavoro nella scuola. Commento di Nazareno Padellaro. La Riforma introdotta nel 1939 dal Ministro Giuseppe Bottai fu la vera riforma scolastica del fascismo, emanata per sostituire ad una scuola borghese per principio e per pratica, (quella prospettata da Gentile) una scuola popolare, che risponda alle necessità di tutti. Essa si propone la realizzazione di una scuola media unica al posto del ginnasio,dell’istituto tecnico e dell’istituto magistrale inferiore e l’introduzione 46

U. Avalle, E. Cassola, M. Maranzana, Cultura Pedagogica, cit., p. 565. N. Padellaro, “Scuola e Stato nemici”, Roma, Istituto Nazionale Fascista di Cultura, 1934, p. 22. 48 U. Avalle, E. Cassola, M. Maranzana, Cultura Pedagogica, cit., p. 565. 47

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del lavoro nella scuola49. Come recitato nella 5^ dichiarazione della Carta della Scuola “il lavoro, che sotto tutte le sue forme intellettuali tecniche e manuali, è tutelato dallo Stato come un dovere sociale, si associa allo studio ,all’addestramento sportivo nella formazione del carattere e dell’intelligenza. Dalla Scuola elementare alle altre di ogni ordine e grado, il lavoro ha la sua parte nei programmi. Speciali turni di lavoro, regolati dalle Autorità scolastiche, nelle botteghe, nelle officine, nei campi, sul mare, educano la coscienza sociale e produttiva propria dell’ordine corporativo50. L’introduzione del lavoro nella scuola, opposta alla concezione di scuola idealista introdotta da Giovanni Gentile, trovò invece il favore di numerosi pedagoghi dell’epoca, tra cui Nazareno Padellaro che con G. Bottai strinse un’intensa collaborazione, secondo il quale “senza lavoro delle mani non c’è mondo dell’uomo, perché non c’è intelligenza dell’uomo: in altre parole si pensa con le mani”51. Andando oltre le apparenze, non è sicuramente da interpretare questa affermazione come un’apertura alle idee attivistiche di origine deweyana: il “pensare con le mani” è solo uno spiraglio verso quanto prospettato dalle scuole cosiddette attive, per le quali il lavoro nella scuola ha una connotazione democratica, pacifista, di fratellanza e di eguaglianza troppo moderna, inaccettabile per il regime fascista, in cui non si può prescindere dall’esistenza di diverse classi che insieme compongono lo Stato. “Il pensiero tecnico è intrinsecamente vampirico. Mira in effetto a fare di tutte le forze, le spirituali comprese, la sola forza umana. […] Insorgere contro la tecnica è vano, così come è puerile far derivare tutta la serie dei mali moderni dall’effetto primo della tecnica, la meccanizzazione. Che con una leva si voglia fare un giogo per schiavi, non è colpa della tecnica, ma della morale. La tecnica è una belva che bisogna continuamente addomesticare; e spetta allo spirito farlo”52. Padellaro così non esita a chiarire la superiorità della mente (allegoria delle materie filosofico letterali) sul pragmatismo del lavoro manuale: “se io dico per esempio, la mano esegue, la mente dirige, proclamo una verità lampante, né controvertibile: e da questo deduco che la necessità che il lavoro manuale sia ultimato e garantisce la

49

Ministro G. Bottai: V Dichiarazione della Carta della Scuola. Principi, fini e metodi della scuola fascista 1939, citato in L. Pazzaglia. R. Sani (a cura di), Scuola e società nell’Italia unita, cit., p. 235. 50 Ibidem. 51 N. Padellaro, Pensare con le mani in “Primato educativo”, marzo-aprile 1939. 52 Nazareno Padellaro, Giovinezze nel mondo, Roma, Istituto Nazionale Fascista di Cultura, 1936, p. 63.

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perseveranza nello sforzo; che sia minuzioso sostiene la pazienza dell’intelligenza, che sia esatto e non approssimativo induce sane abitudini spirituali per la formazione del carattere”53: affermata l’importanza del lavoro per la società, il pedagogo corregge subito il tiro, per non essere frainteso: “Ma non è da questo punto di vista che io voglio collocarvi per far sorgere in voi quella convinzione cui accennavo … né voglio condurvi a considerare il lavoro come rivelatore d’attitudini. L’orizzonte che io voglio guardare è un altro. In esso vedo tracciato questo giudizio: il vessillo che l’intelligenza pianta nel mondo è uno strumento costruito con le mani. In altre parole l’uomo pensa, ripeto il paradosso, con le mani”54. Da quanto affermato da Nazareno Padellaro traspare anche un messaggio politico: non è posta in discussione la superiorità delle materie dell’intelletto su quelle manuali, condizione che sancisce la superiorità, nonostante la complementarietà, in quanto l’una non può prescindere dall’altra, della classe dirigente sul popolo. D’altronde la manualità, il pragmatismo, la tecnica deve “servire”: “la scuola fascista, animata da un soffio di vita spirituale, costringerà tutti i tecnici a servire […]. Di fronte a tutte le tecniche (ndr. la scuola fascista) si farà forte della sua segreta ispirazione che gli stranieri che origliano alle porte non riusciranno mai a carpire, e che è il vincolo che lega gli italiani a Mussolini”55. Proprio per il suo “servire”, il lavoro viene considerato come strumento di miglioramento dello spirito: “lo spirito, per virtù della mano, diviene più esigente e applica alla vita le qualità acquisite mediante l lavoro; aspira per esempio ad essere completo nelle realizzazioni, e si abitua a considerare i fatti come criterio dell’idea, ad evitare le fantasiose astrazioni, ad abbandonarsi a sogni inconsistenti, a dormiveglia”56. Il pragmatismo del lavoro, di cui materialmente si possono vedere i risultati, è propedeutico per le attività della mente, facendo sì che il lavoro manuale divenga, fin dai primi anni di scuola, un’attività dal grandissimo valore educativo: “quando le mani di un bambino lavorano, io vedo davanti ai miei occhi in un piano simmetrico a quello dell’oggetto che si vuol costruire, e proprio nel piano mentale, queste stesse mani che affinano, danno forma, potenziano l’intelligenza. Quindi è compromettere inesorabilmente lo sviluppo pieno dell’intelligenza deviandola nel periodo delicatissimo dal campo della neutralità a 53

Ibidem Ibid. 55 D. Bertoni Jovine, La Scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, cit., p. 341. 56 Nazareno Padellaro, Pedagogia e antipedagogia, Roma, Scuola Salesiana del libro, 1940, p. 93. 54

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quello della visione”57. Il lavoro manuale diviene quindi propedeutico allo sviluppo mentale e alla capacità di giudizio: “L’operazione mentale dunque in una prima fase fiorisce sul terreno di un’operazione manuale, ma l’operazione mentale per sua natura tende a costituire il sostituto di un’operazione manuale. Questo è il fine della mente: sostituire alla constatazione empirica una constatazione logica del ragionamento. […] Sopprimere nella formazione della mente questa tappa manuale significa sovvertire l’ordine naturale delle cose, voler risalire una scala cominciando dai gradini intermedi”58. Il lavoro nella scuola, tuttavia, non ha la valenza che potrebbe avere nella scuola moderna: non deve essere inteso come materia (simile all’educazione tecnica delle scuole medie contemporanee), né deve costituire la preparazione ad un mestiere futuro: “la scuola del lavoro non è né scuola con il lavoro né scuola per il lavoro. Se fosse scuola con il lavoro, il lavoro sarebbe una materia in più aggiunta alle altre; ma chi dice lavoro, dice attività delle mani e dell’intelligenza; e le mani e l’intelligenza ch’io sappia non sono mai state considerate come materia, perché esse sono l’uomo ossia il soggetto, che sugge dalla materia l’alimento per la propria spiritualità. La scuola del lavoro non è neppure scuola per il lavoro: se così fosse, il lavoro costituirebbe un fine estrinseco ed utilitario e non dovrebbe trovar posto in una scuola di formazione”59. Il lavoro nella scuola deve contribuire a favorire l’amalgama tra mente e manualità nel fanciullo e perciò Padellaro conclude: “La scuola del lavoro è invece la scuola dell’essere ch’è corpo ed anima, corpo ed anima che non sono coabitanti e come tali quindi possono estraniarsi qualche volta, ma sostanze unificate nella vita; è la scuola di colui che è mani ed intelligenza, che non è né bruto, né angelo, ch’è sapiens in quanto faber, e faber in quanto sapiens. La scuola del lavoro dunque è semplicemente la scuola, ossia la scuola che torna ad essere sulla misura dell’uomo, dopo l’aberrante scuola dell’intelligenza mutilata, dell’intelligenza senza mani, la quale, se pensa, mutila il reale, lo rende irriconoscibile, gli toglie ogni significato”60. Inoltre si può notare come la connotazione del lavoro ha una valenza ben diversa da quella proposta da uno dei maggiori esponenti dell’attivismo, John Dewey, per il quale il lavoro era espressione della liberazione del fanciullo da ogni schema 57

Ibidem. Ivi, p. 99. 59 Ivi, p. 101. 60 Ibidem. 58

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preformato che rappresentasse una costrizione per le sue attività, e il rispetto quindi della sua libera, spontaneità costruttiva; il lavoro nella scuola esprimeva un pacifismo internazionale, che “collocava al sommo di tutti i valori la realizzazione della pace”61. Padellaro non può che avere una visione opposta del lavoro, per il regime strumento indispensabile per l’accrescimento dello Stato e per la sua guerra su ogni fronte (anche quello economico) e non di pacifismo internazionale, nella scuola: “La scuola fascista - infatti - ha trovato il suo programma educativo il giorno che ha cominciato a registrare gli atti di eroismo dei Balilla e delle Piccole Italiane”62. Lo spiraglio concesso da Nazareno Padellaro al lavoro nella Scuola, seppur contestualizzato secondo i canoni del regime, segnò tuttavia una svolta anche nell’ambito della filosofia, che non poté rimanere indifferente al pensiero del pedagogo, che in effetti, pur occupandosi di educazione, nei suoi scritti contribuì all’evoluzione del Pensiero: dette luogo all’esaurirsi dell’Idealismo italiano e spinse gli studiosi per le vie dell’esistenzialismo e del pragmatismo63. La “Carta della Scuola: le Leggi Razziali e la Scuola. Commento di Nazareno Padellaro. La Riforma varata dal Ministro Bottai dovette affrontare anche un ulteriore problema: quello della discriminazione razziale. Esso fu infatti un aspetto peculiare della riforma, affermata sin dalla 1^ Dichiarazione: “[…] La Scuola fascista per virtù dello studio, concepito come formazione di maturità, attua il principio d’una cultura del popolo, ispirata agli eterni valori della razza italiana e della sua civiltà; […]”64. Bottai, a seguito dell’emanazione delle cosiddette leggi razziali assunse l’impegno della scuola nel difendere la superiorità della razza italiana, dovere cui anche l’Istituzione da lui presieduta non poteva sottrarsi, contribuendo attivamente allo scopo: “il 1938 fa, sul piano dell’Impero, maturare due fatti che conseguono necessariamente all’Impero: il primato in Europa dell’Italia: il razzismo italiano. […] È una battaglia di cultura e di civiltà: come potrebbe mancarvi la Scuola? Non potrebbe. […] La scuola italiana agli italiani, s’è detto. Gli ebrei avranno nell’ambito

61

D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870ai giorni nostri, cit., p. 340. Ivi, p.341. 63 Ivi, p.340. 64 Ministro G. Bottai: I Dichiarazione della Carta della Scuola. Principi, fini e metodi della scuola fascista 1939, citato in L. Pazzaglia e R. Sani (a cura di), Scuola e Società nell’Italia unita, cit., p. 250. 62

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dello Stato, la loro scuola: gli italiani la loro”65. Nazareno Padellaro affrontò anche questo problema, argomento di fondamentale rilevanza che non può essere risparmiato ai fanciulli: “basta procedere con opportune gradazioni dagli aspetti più evidenti della razza a quelli che esigono riflessioni ed esperienze storiche: il disprezzo per le altre razze deve cominciare dagli uomini di colore, per arrivare alla razza che ha caratteri distintivi meno evidenti, ma più pericolosi di noi, e cioè agli ebrei”66 .Tuttavia Nazareno Padellaro, intellettuale di ispirazione cattolica, dovette trovare un modo, a dire il vero eccessivamente ardito, per conciliare la discriminazione razziale tanto esaltata dal regime quanto deprecata dalla Chiesa Cattolica: si servì dunque del precetto di amore universale che è alla base della fede cristiana. “Il fanciullo considera l’uomo di colore come se fosse mascherato, e istintivamente ride. E’ da questo riso disprezzativo che bisogna partire per infondere l’amore verso coloro che pur ci sono fratelli minori”29. Una simile affermazione assume ancor più valore se messa in relazione con le imprese coloniali del regime: la colonizzazione fu giustificata e pubblicizzata dal fascismo come opera di civilizzazione delle popolazioni etiopiche, eritree e somale: in definitiva un amore per chi è inferiore, “non un amore egualitario, bensì tale da spingere i migliori a sentire … quella oscura vocazione che un giorno forse diverrà volontà di consacrarsi al bene di coloro che sono più giù”24. Egli offre anche un esempio pratico e schietto agli insegnanti del tempo per infondere agli alunni l’orgoglio di appartenere alla razza italiana: “se un giorno vedo un bambino incapace a trarsi d’impaccio nell’analisi logica … e gli dico Tu sei un negro oggi! avrò certo gettato il germe di un giudizio che creerà in lui quel senso di superiorità di fronte alla razza di colore, superiorità che non è disdegno, ma giusta valutazione”67. Anche Padellaro fornì una giustificazione filosofica all’esistenza della razza: deve esistere necessariamente una razza del corpo così come esiste una razza in senso spirituale, “che costituisce l’elemento primario, perché elemento animatore, formatore, propulsore, forza profonda delle origini, senza la quale la razza del corpo, anche pura, sarebbe maschera più che volto, destinata a morire per lo spegnersi ed 65

Da un discorso radiofonico del Ministro G. Bottai , pronunciato il 16 ottobre 1938, citato in D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, cit., p. 359. 66 N. Padellaro: Mezzi e forme per radicare nel fanciullo l’orgoglio e la fierezza della propria razza in “Primato educativo”, Settembre-Ottobre 1938, p. 361. 67 Ivi, p.362.

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assopirsi in essa di quella tensione metafisica ed eroica che la sostiene”68. Ed in effetti, prosegue Padellaro, deve esistere necessariamente una categoria -in senso filosofico- superiore a quella di Nazione, individuabile nella razza nordico -aria, che comprende più nazioni: “Se non dimentichiamo di essere qui in sede mistica, possiamo forse, proprio nell’ambito della mistica, trovare la soluzione del travagliato problema della razza. La coscienza di razza è, in ordine di tempo, posteriore alla coscienza di nazione: acquisizione più perfetta, più matura, perché più tardiva”69. Questa è la giustificazione storica -peraltro contestabile e fornita chiaramente per compiacere il Regime- che Padellaro fornisce della condivisione tardiva da parte del fascismo dell’ideologia della razza inneggiata dal nazismo: il razzismo non aveva trovato spazio nell’ideologia fascista dei primi anni, quella per intendersi rivoluzionaria, e fu una spregevole e anacronistica aggiunta fatta per compiacere l’alleato tedesco; alla luce di quanto predicato dal fascismo, e cioè l’estremizzazione dei valori italici, il razzismo rappresentò, oltre che imperdonabile errore storico, un errore anche sul piano ideologico -filosofico, in quanto nei suoi millenni di storia il popolo italico mai fu razzista. Lo Stato etico di Mussolini, per Padellaro, nel suo tendere alla perfezione, era così giunto, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, a scoprire il concetto di razza, che se dunque aveva una giustificazione filosofica, doveva avere necessariamente una corrispondenza anche nella realtà immanente.

1.3 DALLA POLITICA ALLA PEDAGOGIA. Scuola e Stato nemici?

Uno dei primi problemi affrontati da Nazareno Padellaro fu la derivazione della pedagogia dalla politica, elemento che in ambiente totalitario come quello creato dal Fascismo, non poteva non influenzare anche l’insegnamento e l’educazione dei fanciulli, così come gli altri comparti della vita sociale. Il tema fu trattato in un fascicolo, intitolato Scuola e Politica dai forti toni programmatici composto da due relazioni sull’argomento: La Scuola Nazionale, redatto da Luigi Volpicelli, e Scuola e Stato nemici? dello stesso Padellaro, all’indomani del rifiuto da parte della Francia di inviare propri professori al Congresso Internazionale della scuola media che si 68

N. Padellaro, Tradizione antirazionalistica e intellettualistica del pensiero degli italici: Relazione generale al 1° tema del Convegno Nazionale “Perché siamo dei mistici”, Milano, Scuola di Mistica fascista Sandro Italico Mussolini, 1940, p.8. 69 Ivi, p. 9.

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tenne a Roma nell’agosto del 1934. A quel Congresso la Francia rifiutò di mandare i suoi rappresentanti, inviando soltanto una relazione e dichiarando che “era una gloria della scuola francese il non aver mai asservito l’insegnamento ai pubblici poteri”70. Il Regime Fascista affidò a Luigi Volpicelli e Nazareno Padellaro il compito di controbattere a tale affermazione- di tradizione illuministica- e di dimostrare come compito della scuola non è solo quello di istruire, ma anche quello di educare: la dimostrazione di una simile tesi avrebbe dimostrato, per di più, la superiorità del sistema scolastico dell’Italia Fascista su quelli stranieri, a cominciare da quello francese, schiavo di vecchi retaggi Illuministici. “ Con quella franchezza che si conviene ad educatori, dobbiamo confessare a noi stessi che il punto cruciale del problema della scuola è senza dubbio la definizione del rapporto tra Scuola e Stato. […] Il razionalismo astratto ha espresso una concezione della Stato che sfocia sempre in questo sottinteso: lo Stato è un male necessario. Rousseau e Kant hanno elaborato tale concetto. Si comprende quindi, come lo sforzo educativo di tutti coloro che questo proclamano, miri soprattutto ad impedire che lo stato contamini con interventi, usurpazioni, programmi la coscienza dell’alunno. Ogni intervento dello Stato è un attentato alla libertà del fanciullo. Si può dire che lo Stato bruto che si costituisce con la forza ed il delitto così com’è favoleggiato da Rousseau, sia fantasticamente e drammaticamente presente alla coscienza di codesti educatori, i quali crederebbero di mancare al loro primo dovere, se la linea del loro insegnamento toccasse questa nefasta cometa dello Stato. […] L’insegnamento secondario sarebbe esso stesso immorale se tendesse a formare gli individui <<in vista dell’adesione ai poteri pubblici, e non in vista del pieno sviluppo della loro personalità>>”71. Padellaro critica fortemente le scuole ispirate a Kant e Rousseau, per i quali un’educazione connessa ai “pubblici poteri” ha un unico, riprovevole risultato: “La personalità dell’alunno è irrimediabilmente guastata, la libertà, principio di ogni moralità, mortalmente vulnerata, ove personalità e libertà vengano indirizzate ad un ideale perseguito dallo Stato. Sottomissione è sinonimo di dimissione. La vita dello Stato è vita peccaminosa”72. Padellaro contesta una siffatta concezione negativa dello Stato, concezione che non può che avere effetti devastanti, quali l’autodistruzione 70

D. Bertoni Jovine, La Scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, cit., p. 345. N. Padellaro, “Scuola e Stato nemici”, cit., pp. 15-16. 72 Ibidem. 71

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della Società: infatti “se lo Stato è un male necessario, induce a cospirare contro di sé tutte le energie più pure (ndr i giovani) perché più disinteressate, è bersaglio di tutti quegli entusiasmi che non sanno accettare la vita di ogni giorno, che sognano un mondo migliore”73. Padellaro confuta le idee di Rousseau e suoi precursori quali Condorcet (per il quale “nessun potere pubblico deve avere l’autorità di impedire lo sviluppo di verità nuove o l’insegnamento di teorie contrarie alla sua politica”74) mostrandone l’illogicità in quanto per questi ultimi “si dovrebbe quindi, sempre, in linea logica, auspicare come sommo ideale educativo la distruzione della città (ndr lo Stato)”. E’ questa l’ispirazione dei cosiddetti “maestri comunisti e socialisti francesi”: rivolgendosi ironicamente a questi ultimi Padellaro sentenzia: “insegnate a pensare e fate conoscere le diverse dottrine esistenti, ma guardatevi dal far apprendere quello che si deve pensare”75. Padellaro sottolinea quindi la svalutazione della figura del professore, figura necessaria a condurre l’alunno al giusto, sostenuta dagli educatori cui egli si oppone: “È così che tutte le convinzioni possono avere diritto di cittadinanza, eccetto quella di colui che ha preso sulla sua coscienza la responsabilità della formazione spirituale. L’ideale di codesta formazione consiste nel condurre l’alunno nel labirinto delle discordi opinioni ed abbandonarlo a se stesso. Ogni filo che si volesse dare per questo labirinto sarebbe un peccato di lesa libertà. Le convinzioni del professore, ossia la parte più eletta della sua personalità, debbono tacere perché se non tacciono bestemmiano. E se personalità significa irradiazione spirituale, bisogna costruirsi una tecnica di diaframmi che intercetti, svii, assorba ogni raggio perturbatore. A tutti è concessa una personalità, eccetto al professore”76. Padellaro rivendica il diritto e il dovere del professore di condurre l’alunno, soggetto non ancora in grado di ragionare e orientarsi del tutto indipendentemente, per la via giusta: è questa infatti la responsabilità, la missione di cui ogni professore si fa carico e al quale la scuola francese nega questa prerogativa. Tante infatti sono le idee, le convinzioni, ma non tutte, come sostenuto da Padellaro, possono “avere diritto di cittadinanza” e non tutte possono essere accettate: la verità e la via giusta devono essere indicate dal professore, l’alunno non può essere lasciato in balìa del 73

Ibid. U. Avalle, E. Cassola, M. Maranzana, Cultura Pedagogica, cit., p. 231. 75 N. Padellaro, “Scuola e Stato nemici”, cit., p.17. 76 Ivi, p. 18. 74

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relativismo e del libero arbitrio. La deontologia del professore ha quindi il compito di distogliere l’alunno dalle idee sbagliate. Padellaro intravede nella scuola di tradizione Illuminista tratti comuni con il marxismo laddove gli educatori francesi, ponendo lo stato come male necessario cui bisogna sottrarre l’educazione, ragionano “come i marxisti integrali i quali credono che lo Stato sia un mezzo provvisorio per pervenire al comunismo universale”. La logica conseguenza di tale insegnamento, come sopra accennato da Padellaro, non può che essere che quella che i giovani, formati nel loro individualismo, in futuro si rivolteranno al male necessario prospettato dagli educatori medesimi -lo Stato- in quanto prerogativa del giovane è appunto quella di ribellarsi al male e quella di aspirare ad un mondo migliore. “Il cittadino contro i poteri pubblici, è l’anarchia: la laicità è il razionalismo, una torcia illuminista cioè che deve appiccare il fuoco ai sacri valori tradizionali; la scuola deve essere il vivaio di questo razionalismo anarchico”77. Padellaro individua nel diverso contesto in cui si sono formate, l’origine della diversità di vedute degli educatori francesi rispetto agli educatori fascisti, le cui concezioni sono “agli antipodi di quelle fin qui discusse”: “Io non so se i nostri colleghi avessero dovuto scrivere le loro relazioni a Roma, tra queste tre presenze reali, l’imperium romanum, la Chiesa Cattolica, l’Italia Fascista; io non so, dico, se avrebbero dato identico corso alle loro idee. Noi qui a Roma non possiamo credere ad un soffio di morte che spazza, perché siamo testimoni di un miracoloso potere dello spirito che da secoli edifica per l’eternità, tagliando costantemente il passo alla morte. […] Noi non sappiamo pensare ad uno Stato bruto, perché il nostro nacque nella più grande fioritura di spiritualità che la storia ricordi: il Risorgimento. I nostri martiri sono purissime anime che guardarono il sacrificio come alba di nuova vita, i nostri condottieri si chiamano Garibaldi, i nostri filosofi si chiamano Mazzini. […] Noi siamo testimoni di questa nuova creazione storica che è lo Stato di Mussolini”78. Esprimendo forti note di misticismo che potessero sostenere la tesi della superiorità del sistema educativo italiano e la legittimità della dipendenza della scuola dalla politica, Nazareno Padellaro, servendosi di un’analisi filosofica coincidente con i valori del fascismo e che al tempo stesso esaltano e legittimano lo Stato Fascista, dà appunto allo Stato di Mussolini una valenza filosofica, descrivendolo alla stessa 77 78

Ivi, p. 20. N. Padellaro, “Scuola e Stato nemici”, cit., p. 21.

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stregua degli Stati, peraltro mai realizzati e puramente ideali, della tradizione filosofica: “Lo stato di Mussolini non è né lo Stato di Rousseau, né lo Stato di Kant e, neppure, come potrebbe sembrare a prima vista, lo Stato di Hegel o di Fichte”79. Benito Mussolini, “super-uomo” filosofico dotato di estremo pragmatismo è riuscito, primo nella Storia, a realizzare il proprio Stato Ideale, evento mai verificatosi per gli Stati teorizzati dai personaggi citati da Padellaro, pilastri fondamentali della storia della filosofia la cui scelta non è casuale: i filosofi Rousseau, Kant, Hegel e Fichte dedicarono tutti parte dei loro studi alla pedagogia e fornirono una teoria su come dovesse essere svolta l’educazione dei fanciulli, campo che interessa lo studio di Padellaro. Egli, citando il “credo filosofico del Duce” afferma che “Per la prima volta nella storia, viene affermato che <<non c’è concetto dello Stato che non sia fondamentalmente concetto della vita>>”80. L’intellettualismo di Nazareno Padellaro si fa sempre più evidente e ne sottolinea anche la completezza culturale, sfociante anche nel campo filosofico, laddove egli mostra le divergenze tra lo Stato di Mussolini, assurto a sommo filosofo italico (anche se con certa forzatura e non senza esagerazione, in quanto in realtà non si ravvede un vero impianto filosofico nel fascismo, se non in alcune marginali seppur evidenti coincidenze con la teoria del super-uomo nietzschiano, la teoria dello Stato etico, prese dal fascismo più per fini programmatici della propria politica che per fini filosofici) e gli Stati dei filosofi citati, appartenenti alla tradizione franco-germanica: “L’orgoglio della solitudine che fermenta torbido in Rousseau e alimenta il culto dell’io, ch’è quindi, originariamente antisociale, ama riguardare lo Stato come un insieme di servizi generali. Dalla forma d’individualismo di Rousseau sembra lontana e quasi opposta quella di Kant perché l’una è affettiva e l’altra razionale. Obbedire ai caporali dell’imperativo categorico significa sempre obbedire ad un sé stesso razionale, ma sempre a sé stesso”81. L’individualismo e l’attenzione che le due filosofie citate pongono all’io e all’individualismo non sono accettabili per un fenomeno di massa come il fascismo, che punta sulla globalità della Stato tutto il suo impianto politico: lo Stato fondato sulla prevalenza dell’individualismo è “una provvisoria impalcatura che l’umanità, a 79

Ibidem. Ibidem. 81 Ivi, p.22. 80

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furia di ballarvi sopra, farà crollare”.82 Non è ammissibile per Padellaro il distacco tra l’educazione e la Società proposto da Rousseau, principale educatore contestato dal pedagogo italiano; l’alunno, in quanto l’uomo indissolubilmente legato ad una vita sociale, non può essere educato al di fuori della società, come Emilio nell’opera pedagogica del filosofo illuminista, l’Emile, il quale, dopo la prima infanzia, viene portato via dalla città (allegoria dello Stato) per essere accompagnato in campagna, luogo ideale per l’educazione rousseauiana: Padellaro, forte del postulato aristotelico secondo cui l’uomo è un animale sociale, afferma che “è la natura dell’uomo che lo costringe alla vita sociale? Sì, dunque è la natura dell’uomo che esige un legame di unità intrinseca al corpo sociale. È il bene comune che richiede un ordine? Sì, dunque la natura dell’uomo e il bene comune, esigendo un legame di unità, indispensabile per l’ordine e la giustizia, esigono l’autorità. Un’autorità che realizza l’unità di ordine, che promuove le leggi della diritta ragione, che evita i turbamenti, le dissezioni e le critiche di cupidigia, che si riveste di responsabilità e d’oneri, che crea cooperazione attiva e ordinata di tutti, che dà una finalità generale a tutte le azioni sociali; questa autorità in sé è un bene o un male? Certamente un bene”83. La divergenza tra lo Stato di Rousseau e lo Stato difeso da Nazareno Padellaro è insanabile: per il filosofo illuminista infatti lo Stato-Male necessario, come ben descritto ne Il contratto Sociale, è un compromesso innaturale che gli uomini accettano pur di garantire la propria sopravvivenza, una costruzione al di fuori della natura umana in attesa che si realizzi quello che viene definito “stato di natura”, ossia il ritorno alla originaria bontà umana: per il pedagogo italiano, al contrario, lo Stato è un’entità insita nella natura dell’uomo, il quale non può farne a meno: una società ordinata esige un’autorità che come lo stato fascista si prenda la responsabilità di provvedere al bene dei singoli. Esistono secondo Padellaro nella storia della filosofia modelli di Stato molto simili allo Stato di Mussolini, ma neppure quello proposto dall’ultra-nazionalista Fichte vi coincide, in quanto “la sua concezione dello Stato è una concezione non di vita ma di cultura. […] Egli vede alla testa dell’Europa lo Stato che è alla testa della cultura (ndr la Germania)”84. Tralasciato quest’ultimo particolare - e cioè che non è 82

D. Bertoni Jovine, La Scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, cit., p. 346. Ibidem. 84 N. Padellaro, “ Scuola e Stato nemici”, cit., p.22. 83

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ammissibile una Germania alla guida dell’Europa nemmeno sul piano culturale, in quanto una prevalenza culturale sugli altri Stati non può prescindere dalla tradizione romana di cui solo lo Stato di Mussolini è unico erede - tuttavia Fichte molto si avvicina al pensiero pedagogico di Nazareno Padellaro e del fascismo: secondo Fichte il compito dell’educazione spetta allo Stato, poiché famiglia e Chiesa, per quanto agenzie educative apprezzabili, sono insufficienti. Solo lo Stato può assicurare un’educazione nazionale, in quanto dispone sia delle risorse economiche sia della forza di coercizione necessaria a sottrarre precocemente i figli a quelle famiglie che fossero ostili o titubanti di fronte al nuovo progetto. […] Fichte (ndr. molto similmente al fascismo) fa riferimento in questo caso ad uno Stato etico, guidato da uomini dotti pienamente compresi della loro missione nazionale e disposti a realizzarla con rigore e sacrificio. Appare qui nettamente il modello platonico della Repubblica, dove lo Stato giusto, guidato dai filosofi (ndr nel caso del fascismo dalla figura carismatica del Duce), realizza l’educazione ottimale per promuovere la propria continuità85. Infine, spiega Padellaro, anche lo Stato etico hegeliano (in cui moralità ed etica non coincidono, bensì l’etica è posta su un piano superiore alla morale e trascendente rispetto al mondo della morale: gli esseri morali appartenenti a questo mondo non possono che cercare di riflettersi nel mondo etico, ma mai il mondo etico e quello morale si sovrapporranno) si discosta, e non di poco come potrebbe inizialmente sembrare, dallo Stato etico di Mussolini: quando il Duce “scrive che lo Stato fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità, si pone contro la concezione grettamente giuridica dello Stato ridotto a campo di competizione tra tre poteri nemici (ndr tipologia di Stato che Padellaro definisce Stato -giure), il giudiziario, il legislativo e l’esecutivo; ripudia di circoscrivere la nozione di Stato a un insieme di servizi generali, ed afferma che la volontà che riunisce politicamente un gruppo di uomini, uniti di fatto, è volontà morale e quindi realtà formatrice, evidenza interiore, prospettiva di un ideale trascendente e realizzazione progressiva d’una perfezione immanente, ragione imperativa ed amore capaci di preservare il popolo dal suo utilitarismo ed elevarlo al di sopra di se stesso. […] Queste parole dovrebbero essere presenti allo spirito di coloro che sono proclivi a credere che lo Stato possa essere 85

U. Avalle, E. Cassola, M. Maranzana, Cultura Pedagogica, cit., p. 277.

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solo contemplazione di un ideale trascendente. […]”86 Nazareno Padellaro, in impeto di mistica esaltazione dello Stato di Mussolini, afferma che il Duce è riuscito a realizzare una situazione nuova, un “miracolo” unico nella Storia, la cui realizzazione ha diviso, fin dai suoi albori, gli interpreti della storia della filosofia, ossia far coincidere la morale, ovvero l’insieme dei comportamenti umani, con l’etica, perfezione e retta disciplina nei comportamenti: le decisioni e le idee del Duce sono il Giusto e solo il Duce è depositario delle scelte che condurranno il Popolo Italiano al suo riscatto, alla sua Redenzione. La perfezione non è più entità trascendente allo Stato, bensì immanente nello Stato di Mussolini. Infatti, trovando giustificazione nel pensiero classico, Padellaro afferma “Noi amiamo qui ricordare che la parola <<morale>> è stata creata da Cicerone per tradurre il greco , e che lo sforzo di certa filosofia speculativa che deriva da Kant e che mira a separare Etica da Morale, può produrre solo equivoci. […] Lo Stato di Mussolini è lo Stato -vita, in cui l’uomo non è da più del cittadino, né da meno”87. Nell’analisi della relazione “Scuola e Stato nemici” bisogna tener presente che, pur essendo uno studio inerente la pedagogia e l’educazione, esso è anche, e soprattutto, un testo puramente fascista (prova ne è il fatto che viene pubblicato dall’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, venendo riconosciuto chiaramente come testo di regime), che del fascismo esalta i valori e le ideologie e per questo non può fare a meno di esprimerne anche il tipico senso di ribellione; Padellaro di ciò è consapevole e proprio per questo esprime tutto il suo spirito ribelle opponendosi a pilastri della filosofia e a concetti che questa raggiunse dopo secoli di studi, già dati per assodati: la coincidenza tra uomo e cittadino qui sostenuta, che agli occhi di uno studioso di filosofia potrebbe suonare come un’eresia, era stata confutata già da secoli, allorché l’Europa si trovò assoggettata da monarchie assolute in cui il monarca non era altro che un tiranno e l’Uomo imprigionato nel ruolo di suddito; tuttavia il pedagogo italiano la ripropone prepotentemente, facendosi interprete del più vivo “me ne frego!” fascista. Alla fine della sua speculazione filosofica (in cui Nazareno Padellaro dimostra invidiabile conoscenza della filosofia e in cui lo stesso pedagogo costruisce un suo, seppur semplice ma dialetticamente corretto e coerente, impianto filosofico) il pedagogo vi raggiunge il suo scopo iniziale: dimostrare l’inevitabile -e non 86 87

N. Padellaro, “ Scuola e Stato nemici”, cit., p. 22. Ivi, p.23.

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immorale- dipendenza della Scuola dallo Stato, non più male necessario come propinato dai filosofi della vecchia Europa, bensì entità perfetta che provvede al bene dei suoi componenti: “Stato sintesi dell’inevitabile democrazia con la non meno inevitabile aristocrazia, comunità di tradizione che vive di lealtà, e quindi di libertà, d’amore e quindi di unità, creatore e regolatore di vita. […] Se lo Stato di Mussolini associa la ragione con la forza, è affinché la ragione ... possa aver ragione, ossia affinché la ragione non sia tremante postulatrice inascoltata della giustizia. Se si proclama sovrano, è perché agisce da sovrano, ossia vuole la obbedienza dei singoli per la libertà di tutti”88. Nazareno Padellaro dà quindi anche una giustificazione allo Stato forte, difendendolo oltretutto dalle critiche mosse al Regime dai suoi oppositori. Logica conseguenza è che “se questo è lo Stato di Mussolini, si dovrà convenire che il primo suo potere sia il potere educativo. Rinunciare a questo potere sarebbe come pretendere di alimentare la vita con l’inazione, sarebbe cioè voler perire”89. Lo Stato ha il dovere di educare la propria gioventù perché l’inazione, il rinunciare a questa prerogativa significherebbe per lo Stato stesso non sopravvivere: l’educazione diviene per lo Stato il primo mezzo di sopravvivenza. Alleato dello Stato in questa sua missione educativa è senz’altro il professore: quanto sostenuto dagli educatori francesi svilisce la figura del professore e addirittura richiede al professore stesso di rinunciare ala sua naturale missione di educatore, oltre che di insegnante: inveendo contro i colleghi francesi Nazareno Padellaro si rivolge loro affermando, non senza note di sarcasmo e irriverenza, “Dimostrateci che un cervello di professore sia un miracoloso congegno capace di separare la dottrina dalla verità, o da quella che si ritiene verità, e di trasmettere la prima senza il lievito della seconda, una specie di mulino che facogitizzi la crusca ed offra solo farina candida, e noi saluteremo l’avvento della più potente macchina dissociativa costruita da un ingegnere”90. La pedagogia proposta dai colleghi francesi, affermò Padellaro, “promise di sterilizzare la volontà o almeno di accecarla per farla vagare nel regno dell’indeterminazione assoluta”;

Padellaro sottolinea in queste righe come il

professore prospettato dai pedagoghi francesi sia in realtà una costruzione impossibile, quasi una macchina innaturale: non è possibile infatti fornire degli 88

Ibidem. Ibid. 90 Ibidem. 89

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insegnamenti senza imprimere il proprio pensiero ed il proprio giudizio, anche perché il professore non può prescindere dalla sua natura di uomo. Padellaro si scandalizza per il fatto che secondo gli educatori francesi il professore debba essere un’entità fredda, alienata, priva di convinzioni: “Astensione, dissociazione puntata contro la convinzione, ecco l’ideale di certa scuola che non esitiamo a definire corruttrice ed immorale di un immoralismo limite, se non nell’intenzione, certamente nei frutti. Si crede comunemente che gli uomini si divorino perché hanno delle convinzioni. È vero il contrario”91. Naturalmente ciò può accadere solo se uno Stato, come nel caso di quello fascista che impose il giuramento degli insegnanti al regime, disponga di professori fedeli, consapevoli di essere stati investiti di una grossa responsabilità -quella di preparare il futuro dello Stato- e preparati a trasmettere i giusti valori. D’altronde, prosegue il Padellaro, una scuola che trasmetta i valori dello Stato, non è per natura auspicata solo dagli educatori fascisti, ma dagli alunni medesimi -e non solo quelli italiani-, diretti interessati all’argomento. Il pedagogo, dimostrandosi studioso di ampio respiro, infatti riporta, a sostegno delle sue tesi, i risultati di uno studio condotto nella “nemica” America e in Germania dal pedagogo Martino Keilhacker (significativa l’italianizzazione del nome, in piena sintonia con l’atmosfera autarchica del periodo), dove tuttavia i risultati confutano quanto sostenuto dai pedagoghi francesi: “il Keilhacker ha chiesto a più di 4000 alunni dagli otto ai venti anni, qual è, secondo loro, il maestro ideale. Il Fauville, nel presentare i risultati del chiaro pedagogista scrive:<<Man mano che l’alunno si avvia verso i venti anni, il maestro c’egli desidera non è solamente colui che distribuisce la scienza, fa regnare l’ordine nella classe, ma colui ch’è soprattutto una guida, un modello, un amico. Egli deve presentare ai giovani un ideale di vita completa - vita intellettuale, letteraria, artistica, morale, religiosa, sociale -, ed aiutarli a partecipare ad essa>>92. Nazareno Padellaro utilizza, efficacemente ed in modo da essere difficilmente contestato, nella sua pars destruens del sistema pedagogico sostenuto dai colleghi transalpini, lo strumento scientifico della statistica, applicato alla pedagogia, scienza che non può prescindere dallo studio diretto dell’allievo che in questo caso esterna le proprie convinzioni: nessuno più dell’allievo può esprimere dove stia il giusto e Padellaro presenta ai colleghi francesi la veridicità delle sue tesi 91 92

N. Padellaro, “Scuola e Stato nemici”, cit., p. 24. Ibidem.

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grazie a questo studio condotto da un pedagogo straniero in terra straniera: “Mi sia consentito di citare una sola, tra le molte risposte affermanti lo stesso principio e raccolte da Keilhacker:<<Il maestro deve fare di noi dei cittadini e, in definitiva, questo dev’essere lo scopo ultimo della scuola>>. Il Keilhaker conclude: <<Nell’insieme non una dichiarazione senza la nota nazionale>>93. Padellaro vuole imprimere alla sua relazione note realistiche e, da esperto pedagogo -ma anche da abile scrittore-, non può che citare la figura, in controtendenza, del pessimo allievo, figura di cui la pedagogia non può ignorare l’esistenza: “No, ce n’è una di cui il pedagogista non ha tenuto conto. Un giovane di sedici anni così infatti si esprime: “Sovente si afferma che le scuole e i maestri son là per educare gli scolari. Io reputo quest’opinione, opinione di spirito limitato e di un cervello atrofizzato; essi son là per trasmetterci la scienza: giacché il sapere è la forza. Il maestro nella sua vita privata si conduca come vuole purché l’insegnamento non ne soffra>>94. Uno su quattromila -conclude Padellaro, biasimando la risposta del tipico e immancabile “somaro”- per fortuna ragiona così. Ma io non debbo chiedere a voi se condividete con me l’orrore per questo giovane di cenere, che offende il ricordo di un’altra giovinezza, la nostra, consacratasi all’insegnamento per incontenibile slancio di vocazione, perché si propagasse ad altri la pura fiamma della nostra giovinezza accendendone spiriti e cuori”95 Alla figura di professore è ridata la sua dignità, quella che gli educatori francesi volevano, al contrario di quanto prospettato da Padellaro, togliergli: il professore non è svilito, umiliato nella sua funzione di mero insegnante e non di educatore come volevano i colleghi stranieri, bensì posto in una posizione agli antipodi, bensì innalzato misticamente a figura sacerdotale, “consacrata all’insegnamento per incontenibile slancio di vocazione” e chiamata ad accendere i cuori e gli spiriti come fossero fiamme. Il risultato dialettico di questo percorso filosofico è la legittimità della reintegrazione spirituale della scuola nello, considerato avvenimento morale: lo Stato di Mussolini Stato etico e morale contemporaneamente, rivendica dunque questo potere, e non potrebbe essere altrimenti, perché, ripetendo un discorso del Duce “i fatti morali non si possono dare

93

Ivi, p.25. Ibidem. 95 Ibid. 94

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in appalto a nessuna impresa privata”96. “La volontà morale dello Stato ossia la sua essenza stessa, circola nella scuola per alimentare e creare riserve d’alimento. Se vogliamo l’unità di cultura è perché vogliamo l’unità di educazione”97. Il carattere filosofico della relazione Scuola e Stato nemici? raggiunge in questa frase il suo apice, Nazareno Padellaro dà sfoggio delle sue elevate conoscenze filosofiche, frutto degli studi compiuti: lo Stato di Mussolini, vera e propria entità spirituale

ha

un’essenza fatta di volontà morale - e non potrebbe essere altrimenti visto il culto dell’azione, dell’interventismo e della rivoluzione presente nella tradizione fascista e la scuola, anch’essa vista nella sua spiritualità, è il motore che dà slancio alla volontà morale, “stomaco” metafisico che alimenta spiritualmente il presente e crea riserve d’alimento per il futuro. Lo Stato di Mussolini è qui presentato con forti caratteri deistici ed è qui chiaro cosa significa che il fascismo fu una vera e propria “religione di stato”: la descrizione e i termini utilizzati da Padellaro ricordano le descrizioni fatte dai filosofi post-cristiani, da Kant a Hegel, di Dio visto come entità spirituale suprema dotata di volontà e che è essenza -termine filosofico per eccellenza- perfetta che pervade la realtà, la rinnova per mezzo della sua volontà e ne garantisce la conservazione, l’evoluzione, il miglioramento. E la via del futuro è chiaramente indicata: è lo Stato a decidere come i giovani devono crescere e per far ciò è necessario intervenire anche sugli insegnamenti. Ciò, secondo il pedagogo, non significa limitare la libertà di insegnamento: “Non sigilli ufficiali d’intelligenze quindi, né cervelli che pensino a comando. Ma neppure, l’eccesso crudele dell’educazione consistente […] nell’indifferenza a mostrar tutto. […] c’è un’arte da praticare, l’arte della vaccinazione intellettuale. Ci sono infatti dei morbi intellettuali dal cui contagio bisogna preservarsi; ci sono delle avventure dello spirito rovinose. Ad ogni generazione è posto il dilemma, di rincivilizzarsi o imbarbarirsi. Lo Stato che vuole introdurre i giovani nella vita intellettuale non può ignorare che da tale vita intellettuale può essere vivificata o distrutta”98. Padellaro riprende il discorso della morale coincidente con l’etica; lo Stato nell’educare i propri giovani deve porre attenzione a trasmettere loro i giusti valori e le giuste conoscenze, preservandoli da insegnamenti pericolosi che possono distruggere la gioventù (è chiaro il riferimento 96

Ibidem. Ibid. 98 Ibid. 97

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alle idee corruttrici del comunismo e delle correnti antifasciste): diventa decisivo quindi la strumento del giuramento degli insegnanti e della loro iscrizione al partito, cosicché lo Stato possa contare su collaboratori validi e ligi al regime. Lo Stato non può permettersi di proporre all’alunno anche ciò che è sbagliato, proprio perché l’alunno è un essere puro che facilmente può essere corrotto e, se ciò accadesse, il futuro dello Stato stesso sarebbe messo a repentaglio. Infatti “l’attitudine a vivere la vita dello Stato, attitudine che nasce da un’azione concertata sulle forze vive, non può essere minata da chicchessia”99: non si dimentichi che, in fondo, l’educazione aveva per il regime fascista il fine ultimo di creare la classe dirigente dello Stato ed i giovani, in particolare quelli impegnati negli studi umanistici, erano destinati a costituire un giorno il corpo dello Stato, motivo per cui essi dovevano rimanere puri nella loro fede fascista. La dipendenza della scuola dallo Stato è un fattore da cui dipendono anche le sorti dell’Umanità, fatto questo che sancisce definitivamente la legittimità di questa dipendenza: con un discorso forse anacronistico con le idee militariste del Regime, Nazareno Padellaro fissa l’obiettivo che una scuola come quella italiana, si deve prefissare: la pace. Particolare è però il mezzo cui pervenire a questo scopo: insegnare ai fanciulli l’amore per la propria Patria. “Lo spirito di pace non potrà nascere da una riduzione del nostro rispetto per il paese natale; ma dall’estensione di questo, rispetto alle altre nazioni. […] E noi crediamo - afferma Padellaro – che il più efficace modo d’insegnare l’amore dei popoli è quello di far amare il proprio popolo. Chi non è padre non sa cosa sia l’amore paterno, chi ignora la patria, ignora le patrie100. La gioventù deve essere la prima destinataria di questo messaggio, “per la sua capacità di credere senza che l’interesse ne sbianchi la fede, senza che lo scetticismo ne curvi lo slancio”101. Il grandissimo valore dei fanciulli è sottolineato, oltre che per il futuro che rappresentano, per il valore che hanno nel presente: per Nazareno Padellaro, che utilizza in un linguaggio solenne quanto drammatico, essi, piccoli “eroi” di giorno in giorno giornalmente accrescono “quelle pagine di martirologio che registra il loro sacrificio davanti alle forze brute sovrastanti, siano esse dei gorghi d’un fiume che inghiotte una vita, o quelle del fuoco che distrugge una casa, o quelle della bestia imbizzarrita e minacciante”50: 99

Ibidem. Ivi, p. 26. 101 Ibidem. 100

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questo ardore che proprio di ogni giovane è causato da un solo fattore: il “sentirsi eredi di Roma”. Proprio lo stretto rapporto con la romanità è il tema su cui si basa la mistica fascista, fattore che influenzò e caratterizzò fortemente il pensiero educativo di Nazareno Padellaro durante il Ventennio.

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2. NAZARENO PADELLARO PEDAGOGISTA DEL FASCISMO 2.1 LA MISTICA FASCISTA

La mistica fascista, vera e propria commistione di sacro e profano, è il tema alla base del pensiero di Nazareno Padellaro, argomento che influenzerà irrimediabilmente le sue posizioni in campo educativo. Egli espose le sue idee in merito alla mistica nella relazione che aprì il 19 e il 20 febbraio 1940 a Milano il primo convegno nazionale della Scuola di Mistica Fascista, intitolato “Perché siamo mistici?”, cui Nazareno Padellaro, allora direttore generale dell’ordine medio del Ministero dell’educazione nazionale, partecipò come ospite di primaria importanza redigendo il testo con ampie sfumature filosofiche con il titolo “Tradizione antirazionalistica e intellettualistica del pensiero degli italici”. Egli individuò nella mistica il motore propulsore del fascismo, quella forza segreta che infiamma i cuori del fascista, mistico per eccellenza: “il mistico infatti tende al contatto immediato con il divino, svalutando quanto si può conoscere con la ragione. Per lui il sapere è solamente il vestibolo della mistica. […] Il mistico tutto se stesso riempie di una fiamma esclusiva e veemente che brucia e consuma ogni altra realtà spirituale. Il nostro misticismo ha note sue particolari che lo inquadrano nella storia del nostro pensiero e della nostra vita psichica in modo assolutamente diverso da quello in cui può apparire altrove”1. La mistica è alla base dell’eccellenza italica, fin dai suoi albori: parlando nuovamente in termini filosofici, Nazareno Padellaro afferma che il pensiero italico, in continua evoluzione nella Storia, è contraddistinto da quel misticismo che “è sempre stato costruttivo e non puramente contemplativo, stimolatore e non rinunciatario, conservatore e non rivoluzionario”. Esso è la spiegazione dei successi italici in tutti i periodi storici in ogni sua forma, dall’arte alla poesia, all’espansione militare e che, nel periodo fascista, trova un significato politico: “bisogna applicarlo ora nel suo significato largamente politico”2. E, vincolando il presente con l’epoca imperiale romana, Nazareno Padellaro mostra l’esistenza di una tale “mistica essenzialmente politica in Roma, vera divina eredità con tutti gli attributi degli dei a cominciare da quello dell’eternità. La mistica imperiale […] diviene efficienza stimolatrice ed 1

Nazareno Padellaro, Tradizione antirazionalistica e intellettualistica del pensiero degli italici: relazione al 1° tema del Convegno Nazionale “Perché siamo dei mistici”, Milano, Scuola di mistica fascista Sandro Italico Mussolini, 1940, p. 3. 2 Ivi, p.4.

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operante come sentimento”2, sentimento che anima la politica del regime, che come l’imperatore Marco Aurelio si fa portatore del “senso mistico della dignità umana, la quale nasce dalla ragione, che l’uomo ha in comune con gli dei”3. Proprio questo senso mistico spinge il regime al sacrificio, così come Marco Aurelio, nel testo di Nazareno Padellaro, donò tutti i suoi averi per finanziare una campagna bellica: il fascista, così come l’imperatore filosofo: “sa spogliarsi di tutto, e sa concepire, com’è di tutti i mistici, la ricchezza interiore come riflesso della nudità delle cose del mondo”4. Naturalmente un simile concetto può essere colto solamente da chi è erede della civiltà italica e depositario di quei sacri valori che essa esprime: infatti Padellaro elenca esempi di filosofi stranieri, eredi di una cultura barbara che ignora questi valori, da Cartesio a Spinoza, da Malebranche a Hegel, i quali, disprezzando la Romanità, non colgono che “l’uomo di Roma è l’homo naturaliter obediens”, e perché tale, pronto a donarsi alle sante potenze dell’essere. Contro codesto uomo dell’obbedienza, che è l’uomo di Roma, si ergono periodicamente nella storia sotto forme diverse, le forze della ribellione5. Obbedienza che fu l’elemento che, secondo Padellaro, doveva contraddistinguere anche, e soprattutto, l’educazione: solo questa virtù può portare, come descritto nell’esempio fornito, a grandi prospettive: “c’è una virtù - scrisse- che ha creato la grande milizia della Chiesa, gli ordini religiosi sparsi in tutto il mondo a diffondere e a difendere l’Evangelo. Questa virtù è l’obbedienza. Il creatore di milizie che debbono difendere l’ordine nuovo: il fascismo, il giorno in cui disse ai fanciulli: “Obbedite perché dovete obbedire” infranse l’ideologia educativa dominante e fondò una nuova scienza dell’educazione incentrandola sull’obbedienza. Chi dice obbedienza, dice: rinuncia al giudicare e al volere proprio, alle sollecitazioni e incertezze del criterio individuale, ai sofismi dell’egoismo”6. L’implicita critica all’io kantiano, all’autodeterminazione, pone l’obbedienza come “virtù che salverà il nostro tempo dal veleno della ribellione, dell’odio per la disciplina”7. Un grande popolo, per essere considerato tale, deve seguire un unico pensiero, rinunciare all’arbitrio che è fonte di autodistruzione e perciò deve fare dell’obbedienza un proprio stile di vita, cui soprattutto i giovani devono informarsi; 3

Ivi, p.5. Ibidem. 5 Ibid. 6 N. Padellaro, Il poligono mentale, in “Primato educativo”, giugno 1938. 7 Ibidem. 4

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come prospettato dal Padellaro “lo spirito umano è simile a quelle piante rampicanti che cercano un sostegno per non strisciare sul terreno e sollevarsi: questo sostegno è l’obbedienza. L’arbitrio riduce l’uomo a pezzi. Ma se c’è un’anima per la quale l’obbedienza è ossigeno, essa è l’anima del fanciullo. Che cos’è quell’amore del fanciullo per la divisa e la squadra? È l’amore per una azione drammatica in cui due personaggi sono di fronte: chi comanda e chi obbedisce”8. E Padellaro fissa questo concetto di obbedienza, sfociante nell’acriticità, in modo chiaro anche nel suo Libro di testo della terza elementare, nel testo”Obbedite perché dovete obbedire”, dove il fanciullo è chiamato ad eseguire quanto gli viene chiesto senza chiedere neppure il perché, che sarebbe sintomo di debolezza: “con l’ubbidienza noi facciamo al Duce il dono della nostra volontà temprata. […] Un fanciullo che, pur non rifiutando di obbedire, chiede “Perché?” è come una baionetta di latta”9. L’obbedienza è quindi quel punto d’unione tra il presente e il passato, legame tra il fascismo e la romanità: “Grande cosa la romanità, ma chi questo proclama non sa procedere più oltre ed affermare con convinzione che in nome di essa l’ondata dell’umanità tocca il suo grado più alto, tocca le stelle”10, e questo risultato è spiegato appunto dalla mistica che contraddistinse l’uomo romano, ossia “quella misteriosa forza d’attrazione ch’è dedizione senza travaglio, senza crisi, senza rinuncia dell’essere all’essere. La sacralità fa sì che la vita sia tutt’intera consacrata e in ogni suo atto, quasi liturgica. Dall’aspirazione liturgica nasce la grandezza […]”11. Scopo del fascismo è plasmare una società che sia obbediente, come la società dell’impero romano: “noi attendiamo ancora che la cultura italiana si faccia fascista, ossia sappia discernere ciò che porta in sé il germe della ribellione, dell’apostasia, dell’eterodossia, dell’irreligione, da ciò che vuol fiorire nello spirito come devozione, come disciplina, ortodossia, religione”12. Infatti, nel suo percorso storico, il pensiero italiano, visto sul suo piano filosofico, sembra aver dimenticato la mistica, valore sacro della romanità, cadendo in secoli di crisi: Mussolini è colui che, ripercorrendo la via della romanità, può rialzare le sorti dell’Italia: “Se tutti gli storici di Roma non hanno saputo darci quel 8

Ibidem. N. Padellaro, Il libro di testo della terza elementare: letture; illustrazioni di Carlo Testi, Roma, La libreria dello Stato, a.XVII dell’E.F.\1937-1938, p.56. 10 N. Padellaro, La Scuola vivente, Torino, G. B. Paravia e C. , 1931, p.7. 11 Ivi, pp.9-10. 12 Nazareno Padellaro, Tradizione antirazionalistica e intellettualistica del pensiero degli italici, cit., p.7. 9

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senso di Roma che Mussolini ci ha ispirato, si deve credere e si deve dimostrare che la verità della storia è con Mussolini e non con gli storici”13. La mistica fascista è dunque “la proiezione di una intransigenza ortodossa, che nonostante l’apparenza di razionalità, poggia su di un sentimento traboccante, su di una fede ombrosa e un bacchico entusiasmo”14. L’utilizzo di quest’ultimo aggettivo è chiaro riferimento alla filosofia nietzschiana, laddove l’irrazionalismo dionisiaco è fonte di vita, al contrario del razionalismo che della vita è il distruttore: l’irrazionale infatti è stato, sul piano filosofico, fonte del momento iniziale della nuova era fascista, “la Rivoluzione fascista, che è movimento volontaristico” scatenata appunto da quell’ “ideale di dedizione, di rinuncia, di sacrificio per una causa che trascende l’individuo empirico”15: la Rivoluzione fascista è vero e proprio momento filosofico, che innesca una nuova fase nella vita psichica del popolo italiano; l’irrazionale della mistica, vera e propria volizione e passione, va a completare la razionalità della realtà: la razionalità infatti è fattore importante ma limitato che da solo non può costituire né spiegare la realtà. Il motto “omnia fiunt matematice”, ossia tutto nella natura si conforma alle leggi della ragione o alle leggi del mondo”16 è confutato dal fatto che nella realtà tutto scorre ed è soggetto a mutamento ed evoluzione: è la matematica stessa a contraddirsi, per mezzo del famoso principio di Carnot e ad ammettere l’esistenza dell’irrazionale: esso “è un enunciato fondamentalmente irrazionale, giacché la ragione esige la persistenza e quel principio afferma il mutamento, il flusso. Ed ecco che, se è vero che il flusso delle cose sia più essenziale e più importane da conoscere che la loro conservazione, è vero altresì che la scienza esplicativa, […] deve dichiarare la sua impotenza a penetrare il divenire. Irrazionalità ha denominato la ragione questa sua impotenza […]”17. Un processo storico come la rivoluzione fascista, partita appunto dal momento volitivo della marcia su Roma, e che attraverso le sue diverse fasi è giunta alla conquista dell’Impero, può essere spiegato solo da un fattore irrazionale, che è appunto la mistica, opposta alla ragione, entità inadeguata a dominare l’intera realtà. Padellaro, smontando l’universalità e l’assolutezza della ragione: essa, “che voleva portare il fardello dell’universo e del 13

Ibidem. Ibid. 15 Ivi, p.8 16 Ivi, p.12. 17 Ibidem 14

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pensiero, della fisica e della metafisica, è costretta a confessare che questo fardello è troppo grave per le sue spalle. Essa ha dimenticato che l’uomo è un essere che desidera e che soffre, che spera e che lotta, che piange e che prega, un essere tormentato da un desiderio profondo di vita integrale. […] La ragione, regina matematizzante, non sa quale teorema opporre a quella parabola così divina e così umana, che ci racconta come il pastore lasci le novantanove pecorelle per andare a ricercare quella smarrita. Uno, maggiore di novantanove, è teorema del cuore, ma scandalo della ragione”18. Quanto il pedagogo afferma ha un riflesso anche nelle sue posizioni pedagogiche: egli afferma la superiorità delle materie letterarie su quelle matematiche, incapaci di cogliere l’azione dell’uomo, il sentimento, il divino. La lotta alla razionalità non può che passare per la lotta al massimo esponente e precursore: Cartesio, sostenitore di quella razionalità che è “mortificazione dell’affettività, perché estranea alla ragione; espulsione di Dio dal mondo, espulsione a cui concorrono con forze nuove e gagliarde l’idealismo e il positivismo, il liberalismo e il marxismo. L’eredità cartesiana è la matrice di tutti gli assurdi contro cui ci battiamo, assurdi tra i quali il minore non è certo quello di aver ridotto l’uomo ad un consumatore coronato di scienza, […] il quale è sollecitato in tutti i versi dalla fuga da sé, talché egli non sa più che volto abbia il suo io […]19. Padellaro si schiera chiaramente sull’onda di quella corrente di pensiero chiamata Umanesimo Fascista, corrente che riscopre il valore dell’uomo, essere volitivo, combattivo e dedito all’azione, il quale si libera dalla schiavitù del meccanicismo e della scienza, campo da lui stesso creato ma che nei secoli aveva finito col sopraffarlo, imponendogli canoni che ne limitavano il sentimento e la libertà di espressione. Cartesio, (che “decise che il metodo matematico sarebbe diventato oramai il metodo della metafisica”20), è, sottolinea Padellaro, filosofo della nemica Francia, “cui dobbiamo il materialismo, l’ateismo”21. “La pena di questo peccato -continua Padellaro- della ragione è la caduta del subumano, quel subumano che è la parodia del divino. A questo subumano noi daremo il nome di misticismo, […] o oscurità torbida,

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Ivi, p.14. Ivi, p.15. 20 Ibidem. 21 Ivi, p. 15. 19

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passionale, incoerente”22. Il pedagogo, nella sua speculazione filosofica, individua i tre modi con il quale l’uomo si può rapportare con l’irrazionale: quest’ultimo citato, ossia il misticismo, la mistica religiosa, la mistica umana. Il primo, degenerazione del razionale, che ha riconosciuto i propri limiti, è pura parodia del divino, dell’eterno, che nella Storia si è realizzata attraverso forme come la massoneria, i cui “simboli matematici che ne formano il suo stemma, il ritualismo delle logge, mostrano appunto quella triste simbiosi, onde il misticismo diviene mistificazione”23, ossia inganno. Anche il comunismo può essere ritenuto espressione di misticismo, derivante proprio da un razionalismo che Padellaro collega con una bieca matematicità delle cose: “tutti i biografi di Lenin mettono in rilievo la passione di lui per le cifre, per la statistica. In ogni ambiente la sua autorità si rivelava subito preponderante, appunto per quel suo inoppugnabile vigore nel recare cifre su cifre. Una vera macchina calcolatrice, insomma. Ora, tutti sanno che le cifre son la caricatura dei fatti; e i fatti sono la caricatura della realtà spirituale. I numeri possono servire, non si nega; purché si ricordi che essi sono la caricatura di una caricatura. […] Chi pensa che alla certezza si debba pervenire senza impegnare la propria anima nella fede e nella virtù, si arrampica sulle cifre. Ove esse conducono lo sappiamo: all’assurdo, il quale appunto ha il volto della verità. […] Lenin, l’asceta senza religione e morale, e quindi il blasfemo [...] Lenin: il manovale delle cifre, con le quali costruisce il caos”24. Il misticismo non può che essere svalutazione dell’uomo, il quale ha invece la possibilità di ricercare la verità percorrendo due valide vie: la mistica religiosa, , la quale ha per “oggetto la verità soprannaturale”25, e la mistica umana, che “ha per oggetto la verità-vita”26, ed è la via perseguita propriamente dal fascismo. Entrambe “professano la convinzione che la vita non vale che per la ricerca della verità, e che bisogna cercarla non solo con la ragione, ma con l’anima intera”27: l’uomo si accorge che il razionalismo, che “si fa innanzi con i suo schemi di identificazione (ndr. il principio di identità è stato per secoli strumento filosofico per eccellenza), secondo i quali la salma di un eroe e la carogna del suo cavallo, caduti 22

Ivi, p. 16. Ivi, p. 17. 24 Nazareno Padellaro, La Scuola vivente, cit., p.133. 25 Ivi, p.16. 26 Ibidem 27 Ivi, p.17. 23

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insieme, sono accomunati nel destino perché accomunati nella sorte fisiologica28, non può rispondere alle sue domande e perciò “insorge, si ribella; […]. Ecco perché l’uomo chiede perpetuamente soccorso, onde sia ricostituito nella sua dignità perduta. Talvolta il soccorso gli proviene dall’arte”29. L’arte fu per secoli uno dei temi affrontati dai filosofi e Padellaro coglie l’analogia del mistico con l’artista, accomunati dalla “docilità e sottomissione all’ispirazione. […] offerta di sé, oblio di tutto ciò che ci circonda; passività sovente eroica dell’artista e del mistico; ecco i tratti consonanti dell’uno e dell’altro”30 ; il Padellaro filosofo, alla stregua dei grandi filosofi, dedica così un passo all’arte, ambito che da Platone ai suoi contemporanei, occupò le speculazioni filosofiche dei grandi interpreti della Storia della filosofia: l’analogia tra il poeta e il mistico diviene più stretta quando si pone mente al fatto che l’artista conosce l’uomo, perché lo ama, e il mistico ha esperienza del divino per virtù d’amore31. Lo stesso spirito che guida l’artista, condiviso dal mistico, è espressione di un umanesimo nuovo che salverà l’uomo e lo redime dinanzi alla Storia: “tutti accusano l’uomo: l’arte solo lo difende. Quanti peccatori non assolve il teatro; quante riabilitazioni nei romanzi. L’arte è grande atto di carità che l’uomo compie per l’uomo”32. Il riconoscere che l’Uomo è composto da ragione, ma anche di puro sentimento, è proprio del pensiero filosofico italiano: “l’uomo non è solamente portatore di ragione e di valori logici, ma altresì di valori etici ed estetici […]. In questo senso la tradizione del pensiero italiano può dirsi veramente eroica. L’Italia non ha peccato”33. E le radici del pensiero italico affondano nella civiltà romana, che sempre protesse i propri valori dalle spinte esterne: “la romanità rifiutò i culti orientali (ndr. chiaro riferimento al marxismo), ossia l’assalto di un misticismo contaminato da occultismi malefici, da fantasmi disumani, da fanatismi sanguinari”34. La romanità è contraddistinta da valori puri della propria fede: “quel che colpisce nei culti dell’antica Italia è il loro carattere strettamente locale e domestico. […] Questa religione più che nazionale era una religione casalinga. Ora questo senso religioso della famiglia è quello che ispira le più grandi azioni romane 28

Ibidem. Ivi, p.18. 30 Ibidem. 31 Ibid. 32 Ibidem. 33 Ivi, p.19. 34 N. Padellaro, Tradizione antirazionalistica e intellettualistica del pensiero degli italici, cit., p.20. 29

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nel mondo. Accenno alla lotta contro Cartagine. […] Il carattere della civiltà infranta da Roma è il carattere di tutte le civiltà commerciali. La civiltà commerciale è spietata; essa non ammette soprattutto il governo personale, perché non ammette il talento personale. […] Contro questo mercantilismo si erge una concezione poetica della vita che affonda le sue radici nella sanità rustica. La felicità della campagna è così trasfusa nella romanità […]35. In questo senso si può dire che le guerre puniche non sono ancora finite, se è vero che i punici mercanti si affannano in tutto il mondo a stabilire una equazione tra denaro e valore della vita36. Evidente è il messaggio politico di queste righe; l’Italia fascista, erede della tradizione agraria degli italici, grazie al proprio sentimento mistico prevarrà contro le nazioni cosiddette plutocratiche, che ispirano la propria vita al gretto materialismo: i Romani non sono i conquistatori per virtù di numero, di strategia, di mezzi, ma per virtù di un’idea”37. Inoltre una nazione non può prescindere dalla mistica: “l’esistenza della nazione presuppone l’esistenza di una mistica umana o profana che dir si voglia. La nazione è sempre un corpo mistico. Essa ha i suoi simboli, e noi sappiamo che simbolo significa intermediario”38. Dimostrazione di ciò è il regime fascista, basato sulla sacralità dei simboli, sacralità più volte sottolineata da Padellaro anche nel suo Libro di testo della terza elementare”. Il simbolo è infatti strumento per vincere la “tentazione perenne del pensiero di laicizzarsi, negando il divino, o di abdicare, negando se stesso”39. Il pensiero italiano, prosegue Padellaro, non fu mai laico, perché ebbe insopprimibile l’aspirazione, incrollabile la certezza che i due ordini, l’umano e il divino, dovessero coesistere, affiché quell’essere paradossale che è l’uomo, potesse avere integra vita spirituale, la vita dei due ordini”40. L’uomo, pur essendo altro dal divino, tende al divino: “Dio è <<posse, nosse, velle infinitum>> (ndr. e cioè potere, non volere, volere infinito), l’uomo <<posse, nosse, velle infinitum quod tendet ad infinitum >> (ndr. e cioè potere, non volere, volere finito che tende all’infinito)41. Questa è un’ulteriore dimostrazione dell’adesione del Padellaro all’Umanesimo Fascista: “se in noi non fosse la forza propria di Dio, come 35

N. Padellaro, La Scuola vivente, cit, p.13. Ivi, p. 14. 37 Ivi, p. 15. 38 N. Padellaro, Tradizione antirazionalistica e intellettualistica del pensiero degli italici, cit., p.21. 39 Ibidem. 40 Ivi, p. 22. 41 Ibidem. 36

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potrebbe entusiasmarci il divino? […] Codesta linea sacra, custodita come abbiamo detto dalla romanità, rivelata dalla tradizione del pensiero italico è la trincea del Fascismo, ch’è nella sua essenza, è mistica di combattimento. Una posizione eroica non si tiene senza combattimento: i valori divini della vita esigono il sacrificio della vita. […] ove non c’è offerta di sé, dice il fascismo, non c’è realtà dei valori. […] Così per la mistica fascista è connesso ad un sacrificio da compiere”42. Padellaro svolge un panegirico del sacrificio e dell’offerta di sé, valori che traspaiono in tutta quell’opera che è il Libro della terza elementare, valori che traggono origine dalla filosofia nietzshiana, dal futurismo e già ampiamente rivisitati da esponenti di spicco dell’epoca quali D’Annunzio. Sono valori che il Padellaro riconosce, per i contenuti pervasi di combattività ed eroismo, come rivolti ai giovani e che dimostrano la visione puerocentrica del pedagogo.

2.2 IL FASCISMO COME MESSAGGIO AI GIOVANI. VISIONE PUEROCENTRICA

Nazareno Padellaro porta il discorso della mistica nel campo pedagogico, mostrando come il fascismo sia messaggio ai giovani: egli mostra come la gioventù sia tema centrale del Fascismo, il quale, come il mondo romano, dimostrò un vero e proprio culto dell’infanzia. Ciò è dimostrato fin dagli albori della civiltà romana, con la leggendaria fondazione: “In principio della leggenda noi scorgiamo il culto dell’infanzia. Una lupa allatta due bambini. La ferocia che si ammansa dinanzi alla innocenza”43. Padellaro dà una giustificazione storica al valore che il bambino, il giovane assume non solo per il fascismo, bensì per tutti gli studi pedagogici: egli è l’avvenire, il futuro che la società deve formare per garantirsi un destino migliore. La romanità, e di conseguenza il fascismo, hanno colto l’importanza dell’infanzia, colta anche dal Cristianesimo: “in tutte le altre civiltà è l’uomo che è feroce con l’infante: in modo palese o larvato il sacrificio del fanciullo è sempre un rito, religioso o politico, non importa. L’esaltazione dell’infanzia è l’esempio più sorprendente della originalità del Vangelo, che il mondo pagano non comprese mai, ma che Roma ebbe come segno inviolabile della sua predestinazione. Che il bambino sia una cosa più

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N. Padellaro, Tradizione antirazionalistica e intellettualistica del pensiero degli italici, cit., p. 23. N. Padellaro, La Scuola vivente, cit., p. 8.

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alta e più sacra dell’uomo è un sentimento mistico moderno, adombrato per la prima volta nella leggenda originaria di Roma […] che nel primo capitolo della sua Genesi porta scritto: In principium erant pueri.”44, visione opposta a civiltà come quella Punica del cui culto Padellaro cita “l’atto principale per propiziarsi la benedizione di un Dio: esso consisteva nel gettare centinaia di bambini nella bocca di una fornace”45. È comprensibile allora come per Padellaro la gioventù sia la prima destinataria del messaggio fascista, “se teniamo presente che la mistica fascista combatte per i valori spirituali, comprenderemo perché essa è messaggio ai giovani. Il giovane è sempre un mistico, perché ha cuore e mente disponibili, perché non è ancora sotto il giogo degli interessi, perché aspira consapevolmente o inconsapevolmente ad un mondo migliore di cui egli sia artefice, perché possiede capacità di contemplare più che di sperimentare”46. E la spiegazione di ciò sta proprio nella purezza del giovane, animo pronto al sacrificio, il quale “comprende i processi purificatori perché ha capacità di sforzo catartico, […] si lascia invadere e conosce quella sofferenza amara e soave che è lo purificazione passiva, ossia la purificazione che si opera con l’abbandono di sé”47. Infatti, ribadisce il Padellaro” non c’è parola di Mussolini che non possa essere considerata come parola ai giovani, perché questa parola è appello costante alla rinuncia, alla purificazione, al sacrificio, all’offerta di sé, a ciò che ci trascende. […] il premio di questa offerta consiste nel possedere il bene servendolo. Il giovane, per Padellaro, è appunto il mistico per eccellenza, detentore di quella “mistica umana che è mistica fascista perché difende i valori umani, mistica di combattimento perché pronta a testimoniare la santità di questi valori con il sangue”48. Il fanciullo diviene per Padellaro destinatario del messaggio fascista, tuttavia la sua purezza fa sì che il fanciullo stesso diventi esempio per il mondo degli adulti, perché capace grazie a quella libertà dai retaggi del mondo contemporaneo, di cogliere pienamente il messaggio del fascismo e del Duce. Il pedagogo in numerosi passi della sua Opera presenta numerosi esempi che esaltano la grandezza del fanciullo e la sua fede disinteressata al Duce. Il fanciullo 44

Ibidem. Ivi, p.13. 46 Nazareno Padellaro, Tradizione antirazionalistica e intellettualistica del pensiero degli italici, cit., p. 24. 47 Ibidem. 48 Ibidem. 45

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fascista, pur nella sua semplicità, è ammirabile e dotato d’una saggezza invidiabile che, sottintende Padellaro, non appartiene agli adulti: egli dedica al contatto con i fanciulli, alle loro impressioni molto spazio nella sua opera pedagogica, esempio ne è il testo di pedagogia, rivolto agli insegnanti fascisti, La Scuola vivente, retorica esaltazione, appunto, della scuola fascista, entrata ormai, nel 1931, a pieno regime. Questo testo è vero e proprio vademecum dell’insegnante fascista, il quale può cogliere facilmente ispirazione dai temi affrontati da Padellaro nello svolgimento delle sue lezioni. I vari esempi riportati vogliono mostrare non solo le capacità, la saggezza dei fanciulli, i quali fanno ragionamenti da piccoli adulti, in quanto sono già a conoscenza di tutti i postulati della demagogia fascista: il sacrificio, lo spirito guerriero, la devozione al Duce e al Re, l’odio per il nemico sono concetti già chiari al fanciullo fascista (ideale), che esprimendo le sue frasi, ancor intrise di ingenuità infantile, mostra il suo giovane eroismo. Nel Capitolo I fanciulli al Duce Padellaro percorre quei valori che la scuola doveva insegnare agli educandi, utilizzando anche la fine figura retorica della lettura di lettere scritte proprio dai fanciulli che in quel tempo frequentavano una seconda classe elementare, i quali si dovevano attenere al tema “Scrivete un pensiero al Duce”. Innanzitutto la sottomissione, conseguenza di riconoscenza, al Duce, Salvatore della Patria: “quando venne il Duce con il suo esercito trovò che tutta Roma era scappata”49. Commentando, Padellaro, coglie la grande capacità critica del fanciullo, che ancor giovane, conosce, condivide, appoggia, l’evento più importante degli ultimi anni, la Marcia su Roma. Un altro fanciullo -venendo definito ironicamente studioso di problemi politici- coglie un altro elemento fondamentale della storia di quegli anni, ovvero la concordia tra le componenti dello Stato: “Il re e il Duce si vogliono bene come fratelli e gli Italiani dovrebbero fare lo stesso” - ndr ed apprezzando il saggio fanciullo, Padellaro afferma- “E’ bene rilevare che tre parole sacre hanno la maiuscola (in molti libri di testo da me esaminati le stesse parole sono scritte consuetamente con la minuscola: è questione anche di buona educazione!)”50. Ricollegandosi a quanto già sopra esposto, è la dimostrazione di come il fanciullo, piccolo mistico, riesca a cogliere aspetti che un adulto, per di più colto, intellettuale nonché autore di libri di testo, non riesce a

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N. Padellaro, La Scuola vivente, cit., p.79. Ivi, p. 80.

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carpire. Il fanciullo ideale di Padellaro, pur in tenera età, è conscio del sacrificio futuro che lo attende, sacrificio per il Duce e per la Patria (elementi indissolubili) che si spinge fino alla morte: “Io morirei sotto al cannone per amare il Duce” ed un altro ancora “Io giuro che quando sarò grande salvo l’Italia in qualunque caso. […] Mi farò Balilla e sarò riconoscente al Duce perché ci ha salvato da tutti i guai. […] Il mio Duce è la salvezza del mio cuore. Io amo molto il Duce: Evviva l’Italia! A chi tocca il Duce sarà fatto arrosto”51. Il fanciullo, ne è consapevole Padellaro, è pur sempre fanciullo e il pedagogo ne coglie il lato emotivo, affettuoso, sentimento comunque rivolto sempre al messaggio politico del testo: “…ti voglio tanto ringraziare del tuo cuore dolce e tanto buono. […] Con grande stupore gli rendo un saluto, con grande cuore al Duce che è il mio affettuoso Duce. […] Io voglio tanto bene al Duce e gli porto un regalo […] Caro Duce tu sei molto buono e bravo”52. Il pedagogo mostra l’espediente con cui il regime, sfruttando anche la psicologia del bambino, riuscì ad avvicinare i fanciulli al Duce, vera e propria figura provvidenziale paterna e materna sempre vicina al suo popolo e pronta a soddisfare i bisogni anche materiali della sua gente (“Se non era il Duce, l’Italia sarebbe in rovina. Dobbiamo essere riconoscenti a lui. Lo difenderemo fino alla morte. […] Benito Mussolini io lo amo tanto, perché ci dà il pane e i soldi”53), non dimenticandone la figura di condottiero che difende l’Italia dallo straniero (Io voglio tanto bene al Duce perché ci ha salvata l’Italia dai forestieri cattivi54). L’espediente dell’ “intervista” ai bambini per esprimere il proprio pensiero è frequente nel libro pedagogico La scuola vivente, e si manifesta nel capitolo Fanciulli Sardi: per bocca dei fanciulli, interrogati sul tema “Ti piace essere balilla?”, Padellaro esprime le linee guida per l’insegnante fascista, il quale deve porre attenzione a trasmettere lo spirito guerriero del fascismo agli educandi. L’educazione al militarismo deve occupare gran parte delle lezioni e, secondo il pedagogo, ciò non sembra dispiacere neppure agli alunni: infatti “l’ideale di tutti gli alunni è fare il soldato”. […] Il marciare ha per questi fanciulli valore di conquista; anzi, è la conquista stessa, perché non è ammissibile che un sardo

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Ivi, p. 83. Ivi, p. 82. 53 Ivi, p. 80. 54 Ivi, p. 82. 52

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inquadrato in un reparto militare non raggiunga la meta”55. Padellaro sceglie non a caso allievi della Sardegna: egli deve percorrere la strada della propaganda militarista del Regime e i piccoli sardi sono scelti, a loro insaputa, perché eredi di quei mitici Dimonios che nelle file della Brigata Sassari combatterono strenuamente sino alla morte durante la Prima Guerra Mondiale, difendendo il suolo della Patria dal nemico austriaco. “I soldati che nella guerra meritarono la riconoscenza della Nazione, ebbero nella loro fanciullezza la stessa ardente aspirazione di esser soldati che ora manifestano i piccoli alunni di Siniscola”56. E, scorrendo i temi dei fanciulli come nel capitolo I fanciulli al Duce (utilizzando evidentemente una figura retorica degna di un esperto scrittore) enumera esempi di precoce saggezza infantile, esempio per gli adulti: “A me piace essere Balilla, perché amo la Patria. Non solo per quello ma perché quando saremo militi faremo la guerra per l’Italia, per farla bella e ricca”57. La scelta di alunni di Sardegna si evince anche in seguito, dove Padellaro, con rigore storico, ricorda che quello Sardo fu, insieme a quello Piemontese, il primo popolo italiano: “l’attaccamento devoto a Casa Savoia traspare in quasi tutti i compiti. <<Esser Balilla è rispetto alla Casa Savoia e al duce Benito Mussolini>>. In questa parola rispetto c’è tutta la secolare fede dei sardi al Re. Ho detto fede per sottolineare il carattere religioso di questa devozione”58. L’insegnante, continua Padellaro, deve insinuare nella mente del fanciullo la coscienza del nemico: il piccolo fascista, alla fine del suo componimento infatti conclude: “<<io so anche chi sono i nostri nemici>>. […] Forse -commenta Padellaro- qui vado troppo oltre; ma c’è in questa frase buttata a sigillo del proprio pensiero un desiderio di covare quella vendetta che sarà più feroce, quanto più a lungo dissimulata; c’è il bisogno di sentirsi grande perché chiamato a custodire un segreto di grandi; c’è la gioia di un pensiero costante ignoto agli altri ma vivo ed operante in sé da formare la ragione di vita. La cosa più tragica per un sardo, per un isolano, è non conoscere il proprio nemico. […] Conoscere i propri nemici significa aver già causa vinta: basta attendere; e l’attesa non è che sapore di speranza”59. Il fanciullo così educato è reso aggressivo nei confronti del nemico, proprio come desiderato dal Regime: nonostante queste note 55

Nazareno Padellaro, La scuola vivente, cit., p. 107. Ibidem. 57 Ibid. 58 Ivi, p.108. 59 Ivi, p.109. 56

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violente, traspare nuovamente la modernità di Nazareno Padellaro, che mettendo in bocca queste frasi ai piccoli alunni, mostra ai lettori la grande dignità ch’egli dà al fanciullo, indicato come vero e proprio salvatore della Patria. È l’espressione più pura del puericentrismo del pedagogo. Alcuni fanciulli, non contenti, mostrano come già si sentano appartenenti alle milizie del Regime e Padellaro, cogliendo l’occasione di sfoggiare apprezzabili doti di scrittore, continua a fornire indicazioni agli insegnanti fascisti utilizzando vibranti tocchi di poetico realismo, che trasmettono a chi legge, emozionanti espressioni fanciullesche in un periodo che fu, nonostante la propaganda di regime, caratterizzato da estrema povertà: “Mi piace esser balilla, però non ho la divisa e non posso andare con quelli che sono in divisa. Se per esempio fanno un corteo a me non mi vogliono perché non ho la divisa e se me la danno gratis vi vado, se no, non ci vado. Se avessi la divisa sarei forte come un carabiniere. Ma non ne ho, sono Balilla lo stesso”60. Padellaro attira l’attenzione sull’importanza della divisa, rigorosamente nera, elemento importantissimo non abbandonato neppure ai giorni nostri, anche nella scuola: i fanciulli sono tutti uguali, senza distinzione di ceto e condizione sociale e si sentono orgogliosi di indossarla. “Una piccola Italiana scrive: col vestito di piccola italiana io sto meglio”61. L’insegnante, adottati questi accorgimenti, deve trasmettere all’alunno un’ultima, tragica realtà: l’Italia è già in guerra. Nonostante il testo La Scuola Vivente, pur scritto nel 1931, risente del clima del periodo, che con il diffondersi delle dittature, con il dilagare della crisi economica, lasciava già presagire le basi di un conflitto: “Se potessi scrive un’allieva- farei una bandiera e la darei a mio fratello ch’è Avanguardista per portarla alla guerra. Per questa fanciulla la guerra c’è già. Chi più sapiente: l’ingenua contadinella sarda o i lungimiranti Ulissi di Locarno che voglion insegnare, ciascuno al proprio cavallo, a dire: pace, pace?”62. Stando così la situazione, è d’esempio l’aggressività del piccolo alunno sardo che esclama: “Ricordate quel bambino che scriveva: “chi tocca il Duce lo faremo arrosto? Anche tra questi piccoli sardi c’è il difensore eroico; ma egli si esprime così:“chi tocca Mussolini lo sbudello”63. Padellaro, con tocco di ironia, mette l’accento su un luogo comune inerente il

60

Ivi, p.110. N. Padellaro, La Scuola vivente, cit., p. 110. 62 Ibidem. 63 Ivi, p 111. 61

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carattere duro dei sardi (peraltro non del tutto contestabile!) da prendere come esempio nell’educazione dei fanciulli di tutta la Nazione: “Il bambino romano bonaccione, sorridente, sceglie una forma di supplizio che sembra ferocissima; ma appunto da questa ferocia traspare che il caso non avverrà. Ad ogni modo l’impresa sarà sempre collettiva: lo faremo arrosto. Insomma nello scrivere il fanciullo romano nello scrivere la sua frase impercettibilmente sorride. Il sardo non sorride affatto; il suo proposito è diritto come la lama che ha occhieggiato. La sua decisione riguarda lui e lui solo; il verbo toglie ogni voglia di scherzare”64. Come evidente, il testo di Padellaro ricopre una preziosa funzione di documento storico del periodo fascista, in cui si può cogliere il carattere di fenomeno di massa, capace di coinvolgere ogni angolo d’Italia, che ebbe il Regime Fascista.

2.3 STUDIO DELLA GIOVINEZZA, ARTEFICE DELLA STORIA. Risentimento, ribellione, rivoluzione. Educazione rivoluzionaria. Lo studio della gioventù, ponte di collegamento del presente con il futuro, occupò dunque molto spazio all’interno dell’opera di Padellaro che, in quanto pedagogo, non poté esimersi da un’analisi utile soprattutto per comprendere l’evolversi del proprio momento storico: “De iuventute! Tema facile; tanto facile che ormai è nell’orecchio di tutti. Esiste già un’intera letteratura sui giovani. Sembra che per la prima volta giovinezza abbia fatto il suo ingresso nel mondo. Guardata con stupore, studiata con simpatia, accarezzata e lusingata, la gioventù comincia a diventare estranea solo a sé stessa”65. La fiducia di Nazareno Padellaro nella gioventù è senza riserve e incondizionata: l’avvenire ha padroni e servi. Servi sospetti, perché conservatori di vizi e di errori, i vecchi; padroni audaci, portatori di idee nuove, arcangeli contro il drago, i giovani, il cui trionfo cambierà la faccia del mondo; faccia che non è per nulla rassicurante. […] La gioventù è la parte più attiva, più vivente, più forte della nazione, avida di azioni utili, sempre sospinta dal bisogno di rinnovare, inventare, di

64 65

Ibidem. N. Padellaro, Giovinezze nel mondo, Roma, Istituto Nazionale Fascista di Cultura, 1936, p. 5.

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agire”66. In poche parole i giovani sono per Padellaro la forza motrice della Storia: essi, trovandosi inseriti in un contesto di grosse contraddizioni, sono chiamati a cambiare faccia al mondo, che sembra invocare proprio il loro aiuto: “Da ogni parte le voci che si levano ripetono la stessa antifona: <<Voi non potete contare che su voi stessi>>. Con gusto malsano si vuol loro mostrare che tutto ciò che li circonda è precario e che debbono per necessità respirare un’atmosfera di insicurezza”67. È necessario, per la salvezza del mondo, che i giovani debbano dunque creare un conflitto, una rottura col mondo degli adulti e con il passato: “nei paesi nei quali la vita politica è corrosione di ideali, lievitata di grandi vizi, moventesi nell’ombra delle menzogne collettiva, i giovani, rotta ogni solidarietà con gli adulti, divenuti vecchi per incapacità di superare la propria età […], non temono di paludarsi nel grottesco. I vecchi, infatti, sono esseri troppo emotivi, troppo nervosi, troppo crudeli, troppo fragili, troppo artisti anche … poveri tipi”68. […] “Poste di fronte le due generazioni avverse si dilanieranno; i giovani ripudieranno come infetto tutto quello che proviene dai maggiori, i quali, a loro volta, saranno rosi dal rancore contro cloro che voglion deviare la corrente della vita”69. Con impeto futurista e mistico “i giovani debbono spiritualmente emigrare dal proprio paese, debbono dimenticare storia, tradizioni, interessi, principi, debbono stringersi la mano, cadere in adorazione innanzi alla propria fede di nascita”70. I giovani dunque sono artefici di quell’umanesimo auspicato da Padellaro, capace di ridare dignità all’uomo, imbarbaritosi, ed essi stessi “mostreranno che l’uomo può ridiventare degno della definizione di Sofocle che lo chiamò <<meraviglia delle meraviglie>>. Centro di forze, ragione vivente, i giovani saranno campioni della vita incontaminata, di quella vita che non farà pensare ad un germe che putrefacendosi corrompa ed infetti l’epidermide terrestre, ma ad un soffio vitalizzante, veicolo di un’incoscienza, trasparente come l’intelligibile, radiante come le più pure emozioni umane”71. La gioventù è in aperto contrasto con la non-vita degli adulti, “è adesione alla vita, […] la quale nella purezza e nel fervore delle origini, non lascia supporre né inquinamento, né tradimenti, né deviazioni; […]essa è 66

Ivi, p.7. Ibidem. 68 Ivi, p.8. 69 Ivi, p.13. 70 Ivi, p.14. 71 Ivi, p.10. 67

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essenzialmente attualità morale multiforme, capacità cioè di alimentare un’idea con il proprio sangue, di accettare la verità in ogni istante della propria vita, di dare alle proprie convinzioni una palpabilità quasi di forza fisica, di rompere attimo per attimo gli incrostamenti, pur sapendo che nelle ansie di essi dimorano e crescono gli interessi, di credere contro l’evidenza”72. “La giovinezza è un vigore fisico, il quale porta in sé l’ansia di trasformarsi in vigore morale, il miracolo del sangue che attende le rivelazioni dello spirito, la luce particolare di una vita che vuole mutarsi in dono”73 ed i giovani, grazie a queste virtù, possono concretizzare tutta la potenza mistica che portano dentro e Padellaro riconosce questa virtù, nonostante diverse differenze, a tutte le gioventù della terra: egli capta una certa solidarietà tra Le giovinezze nel mondo, come appunto suggerisce il titolo, accomunate da questa forza interiore, nonostante la differenza che intercorre tra le democrazie e i regimi portati ad esempio. Il discorso decade inesorabilmente nell’esaltazione della gioventù fascista, tuttavia l’analisi che Padellaro fa delle gioventù degli altri Paesi è apprezzabile sia dal punto pedagogico, nel momento in cui egli coglie alcuni caratteri peculiari di società diverse da quella italiana, sia dal punto di vista storico-politico. Il pedagogo inizia dall’odiata Nazione Francese, in cui la gioventù, succube dei retaggi razionalisti cartesiani, è pressoché rinunciataria, legata al dogma: “i giovani debbono considerare non come debolezza, ma come una forza, l’impossibilità di intendersi su un piano dogmatico”. Essi, che hanno abdicato a favore degli adulti, “debbono por fine alla più ingiusta delle usurpazioni la quale fa sì che il paese legale sia nelle mani degli anziani. Debbono -sentenzia Padellaro- invertirsi le parti: i giovani debbono prendere le redini del paese legale”74. Un simile discorso vale per la gioventù inglese dove il disinteresse dei giovani per la politica, è controproducente per la vita spirituale della Nazione: “In Inghilterra, tra diciotto e trentacinque anni, non si pensa né alla politica né alle idee pure; si fa dello sport, si forma il corpo, il temperamento e il carattere ben più che l’intelligenza. Ciò deriva dal fatto che oltre Manica non si cerca affatto di creare pensatori e degli intellettuali capaci di prevedere gli avvenimenti, ma bensì degli uomini d’azione pronti a reagire giusto, d’istinto di fronte a qualsiasi situazione, per quanto straordinaria, illogica ed imprevedibile essa 72

Ivi, p.16. Ivi, p.19. 74 Ibidem. 73

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sia. […] Il mondo ha le dimensioni dello stadio”75. Significativa quest’ultima puntualizzazione; anche il Regime fascista fa dell’esercizio fisico una propria prerogativa, tuttavia esso ha un significato diverso: l’esercizio fisico per il giovane fascista deve essere miglioramento delle proprie capacità fisiche in vista del bene della Patria e della realizzazione della forza interiore, l’esercizio fisico per il giovane inglese è finalizzato al culto dell’io, espressione di puro individualismo in cui non si vede ombra di coraggio intellettuale. Di questa povertà spirituale -precisa Padellarone sono consapevoli persino gli studiosi inglesi: “Il nostro fallimento spirituale è evidente; noi non abbiamo più né morale né metafisica, né vita interiore”76. Il pedagogo dà un giudizio severissimo per la gioventù inglese, il cui vessillo è un antiumanesimo: “Le prefigurazioni, i presentimenti, le anticipazioni annunziano per i giovani inglesi un campione sconfitto: l’uomo”77. Nazareno Padellaro, dunque, isola e condanna due gioventù rinunciatarie e che non si offrono alla vita, perché “né in Francia né in Inghilterra i giovani hanno posto a se stessi la più alta questione di onore: <<Noi vogliamo essere responsabili dell’umanità>>78. Questa “pigrizia” d’animo è dimostrabile per il fatto che “è mancata in questi paesi una rivoluzione. Ed è così che coloro i quali non accettano, in questi paesi, di essere delle unità più sonanti e più lustre, che cercano una completa realizzazione del proprio io, che vogliono dimorare perpetuamente in contatto con l’uomo, che pretendono il loro posto nella lotta tra il bene e il male, tra lo spirito e la materia, con tutte le loro fibre, con tutta la loro sostanza, si sono legati o alla rivoluzione per il bene o a quella per il male; o alla rivoluzione dello spirito o a quella della materia; al Fascismo o al comunismo”79. Di fronte a questa rinuncia alla scelta, agli occhi di Padellaro persino la gioventù della Russia Sovietica assume maggiore dignità. Infatti, a differenze di queste ultime -francese e inglese-, “ci sono delle giovinezze che vogliono salvare il mondo. È evidente che ad esse consacreremo una più approfondita analisi”80. Innanzitutto un discorso a parte merita la gioventù americana, condizionata dalla mancanza di un’unica coscienza nazionale, sfaccettata 75

N. Padellaro, Giovinezze nel mondo, cit., p. 36. Ivi, p. 37. 77 Ibidem. 78 Ivi, p. 34. 79 Ibidem. 80 Ibid. 76

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e per questo aperta a qualsiasi tipo di evoluzione; infatti “cominciamo con il constatare che negli Stati Uniti ci sono più di mille sette religiose. […] I giovani americani non hanno ancora trovato maestri degni, ossia uomini capaci di trasformare l’ardore, l’impazienza e l’impetuosità dei desideri in una salda disciplina. Manca il punto di applicazione di forze imponenti”81. Il potenziale umano americano è quindi riconosciuto da Padellaro, che individua il difetto della società americana nella mancanza di degni maestri che guidino questo patrimonio, una forza disciplinante: “la fermentazione intellettuale tradisce l’assenza di disciplina e la mancanza di applicazione. Tutto è impreciso: dalla lingua che non distingue più il proprio dall’improprio, alla fede religiosa, al non conformismo politico che si può ridurre ad una attitudine imprecisa di reazione”82. La coscienza Nazionale degli Stati Uniti è dunque confusionaria, aleatoria e priva di ordine: seguendo il ragionamento filosofico di Padellaro, non potrebbe essere altrimenti per un popolo giovane, costituito dalle culture e tradizioni più disparate. E in aggiunta a questo, tuttavia, si inserì un fattore disgregativo della società: il produttivismo, ricollegabile ad un materialismo che “ha fatto dimenticare l’amore degli studi disinteressati. A questo produttivismo va imputato un piano di studi in cui le umanità greco -latine sono pressoché scomparse”83. Ancora una volta viene ribadito come gli studi letterari ed in particolare le lettere antiche, siano generatrici di una vivida società: l’aver tralasciato questi studi e l’aver inseguito a tutti i costi il produttivismo hanno causato forte disgregazione in una società, come quella americana, in cui, ad esempio, “la famiglia è in piena disgregazione: un divorzio su sette matrimoni. Il successo economico prima e la crisi dopo hanno assorbito i genitori nelle cure materiali producendo quel divorzio spirituale che è il primo effetto di una concezione edonistico materialista”84. La povertà negli insegnamenti e nell’educazione dei fanciulli, dimostra qui Padellaro, intacca il tessuto sociale e solo una forza veemente può ribellarsi a tale disgregazione, ovvero il “cattolicesimo, che è un appello rivoluzionario nel senso più spirituale della parola. In un paese duro per i deboli, schiavo di un ideale di rendimento, la religione cattolica è la sola ad aver preservato

81

Ibid. Ibid. 83 N. Padellaro, Giovinezze nel mondo, cit., p. 35. 84 Ibidem. 82

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l’umano. In una società pregna di materialismo, essa ha preservato il senso del mistero, del religioso in tutta la forma della parola”85. Proprio per questo, al contrario di quella Sovietica, che rifiutò proprio la religiosità, il senso del divino e dell’eterno, la giovinezza americana è ancora in tempo per la salvezza, perché “la sua anima è disponibile. Quella della Russia non lo è più. Non tutto è possibile in Russia. Tutto è possibile in America”86. La salvezza della gioventù americana non è esclusa dal pedagogo, che conclude con la frase laconica: “Saprà la gioventù americana volgersi verso la salute?”. In attesa di ottenere risposta a questo dubbio, Padellaro, volge l’attenzione a tre diverse gioventù - qui il testo pedagogico diviene commistione con lo studio della storia, della politica e della società degli anni ’20 - ’30- che hanno trovato una, seppur opposta, stabilità, accomunate da un fattore scatenante comune: il risentimento, causa scatenante dei tre regimi dittatoriali d’Europa. Il risentimento è la forza che appunto guidò nelle tre Nazioni -Germania, Unione Sovietica, Italia - i giovani, fautori della storia, a sovvertire gli ordini preesistenti e a porre in atto una vera e propria rivoluzione. “La parola risentimento nella sua accezione corrente ha due significati collimanti. In primo luogo indica l’esperienza e la ruminazione di una certa direzione affettiva contro un’altra, le quali fan sì che questo sentimento guadagni in profondità, penetri a poco a poco nel cuore stesso della persona, pur abbandonando il terreno dell’espressione e della attività. Questa ruminazione, questa reviviscenza continua del sentimento, è dunque molto differente dal puro ricordo intellettuale di tale sentimento e delle circostanze che l’hanno fatto nascere. È una reviviscenza della emozione stessa, con risentimento. In secondo luogo suggerisce un aspetto di negazione e di animosità”87. E, riferendosi in particolare al risentimento della gioventù tedesca, prosegue: sotto questo aspetto, la parola tedesca che converrebbe meglio sarebbe la Groll che indica una esasperazione oscura, grondante, contenuta, indipendente dall’attività dell’io, che genera a poco a poco una lunga ruminazione di odio e di animosità senza ostilità ben determinata, ma pregna d’intenzioni ostili. […]

Le cause e gli effetti di questo auto avvelenamento

psicologico che è il risentimento, il quale provoca una deformazione più o meno permanente del senso, del valore, della facoltà di giudizio, s’inseriscono […] in certe 85

Ibid. Ibid. 87 N. Padellaro, Giovinezze nel mondo, cit., p. 35. 86

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aspirazioni, in certi movimenti collettivi che si annunziano con

aspetto ben

differente e talvolta opposto. Il rancore, il desiderio di vendetta, l’odio, la cattiveria, la gelosia, l’invidia, la malizia, sembrano emozioni imbalsamati nei trattati di teologia”88. Il risentimento è quella forza che può accendere da un momento all’altro la gioventù, “è lo stratega invisibile, il discernitore infallibile, l’accumulatore sagace di materiale bellico, il parsimonioso distributore di energia, nemico di ogni dispersione che possa diminuire l’efficienza quando suona l’ora89. Padellaro in primo luogo nei meandri oscuri del risentimento della gioventù tedesca, esprimendo, a pochi anni dall’ascesa di Hitler, lungimiranti concetti, propri di un intelligente critico: nella sua analisi della gioventù egli utilizza un piglio storico da esperto studioso. “Chi legge il Mein Kampf di Hitler troverà in ogni pagina la collera presente, ora commentata e rammemorata, ora sventagliata per esplosione. Nessun tedesco come Hitler ha sentito la degradazione della sua patria. Nella sua vita stessa ha visto la prefigurazione della umiliazione del suo paese”90. Proprio l’umiliazione viene individuata come uno dei motivi scatenanti del risentimento, che con intuizione il pedagogo vede scaricarsi nell’odio antisemita e anticomunista: il giovane, caratterizzato da orgoglio mistico e non può accettare di vedere la propria Nazione in tali condizioni viene invaso dall’”odio contro gli ebrei e contro la iena marxista: esso costituisce il risentimento nei cuori tedeschi, quel risentimento su cui Hitler farà leva per sollevare tutta la massa e soprattutto i giovani91. Percorrendo il pensiero di Padellaro, si potrebbe affermare che la forza interiore che sospinse la gioventù tedesca fu frutto di misticismo e non di mistica, e si connotò con il culto aberrante della razza. Il risentimento, che trovò espressione perlopiù nell’antisemitismo, “ha fatto alzare in piedi un popolo che già minacciava a disperare di se stesso”92. Diversamente dal risentimento della gioventù tedesca, scatenato dal’umiliazione, il risentimento della gioventù sovietica fu scatenato dall’isolamento cui la Russia fu nei secoli relegata dall’Europa; isolamento, invero, causato da povertà culturale: “contro questa povertà culturale si appunta il risentimento comunista. La Russia fu fuori dell’unità romana. L’unità medioevale che aveva per base l’unione della Chiesa con i 88

Ivi, p.40. Ivi, p.41. 90 Ivi, p.43. 91 Ivi, p.44. 92 Ivi, p.45. 89

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popoli del Nord la scartò dal suo processo. Il medioevo, ch’è soprattutto una tradizione, una cultura e una preponderanza nordica nel cattolicesimo, trovò e lasciò la Russia dormiente. Nella comunità dei popoli cristiani non ci fu posto per la Russia. […] Si verificò questa paradossale situazione: un isolamento stabilitosi con quelle forze che sono per se stesse, per natura intrinseca forze postulatrici di partecipazione, di irradiazione, di assimilazione: le forze della cultura”93. Nello studio di questi eventi storici, Padellaro individua linee che caratterizzano la psicologia del giovane: il giovane (tedesco) non può accettare di far parte di una nazione sconfitta, umiliata dalla Storia, così come il giovane (russo) non può accettare l’anonimia e, con impeto giovanile si ribella alla sua condizione, proprio come farebbe ogni altro giovane spinto dal desiderio di affermarsi e di spiccare. La Storia diviene per Padellaro campo di studio della pedagogia, strumento utile a comprendere la psicologia del giovane, proprio per il suo pragmatismo e per la sua realizzazione nella realtà. Niente più della Storia può dimostrare le spinte psicologiche dell’uomo, ed in questo caso del giovane uomo, e le sue tensioni, le sue aspirazioni verificatesi come eventi nella realtà immanente. “La rivoluzione russa è la rivolta degli schiavi, i quali vogliono sterminare con ira iconoclasta, tutto ciò che ha voce d’imperio spirituale e che nel corso dei secoli li respinse, li segregò, li umiliò”94. E così che Padellaro, ricorrendo nuovamente alla filosofia dimostra gli errori della gioventù sovietica, “che trovò il suo profeta in Lenin, che non scese a professare tra le masse con le braccia aperte e gli occhi al cielo, ma armato dell’arma più formidabile che il pensiero abbia mai forgiato per negarsi e riconoscersi con attributi che non sembrano del pensiero stesso. […] L’umanesimo reale non ha nemico più pericoloso che lo spiritualismo o l’idealismo speculativo”95. È spiegato un altro modo della gioventù di reagire al risentimento: la negazione della religione che è negazione di sé: “il leninismo aveva necessità […] di ripudiare con l’ira del risentimento ogni intervento di dio nella storia”96. E così, come il giovane Lenin “un giorno (aveva sedici anni) si convinse che Dio non esiste e con un gesto brusco si strappò dal collo la croce che in Russia

93

Ivi, p.48. N. Padellaro, Giovinezze nel mondo, cit., p. 49. 95 Ibidem. 96 Ivi, p. 50. 94

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portano tutti i fedeli, la gettò in terra e vi sputò sopra”97, così la gioventù russa risolse il proprio risentimento con la lotta alla religione, peraltro impresa alquanto ardua, perché impossibile “recidere nell’uomo il vincolo con cui egli si lega all’eterno, per l’onore dell’effimero, vincolo in cui consiste ogni sentimento”98: “appena l’uomo sente vacillare la sua forza vitale, aggredisce se stesso e compie una sacrilega spoliazione gettando lungi i suoi doni più preziosi: la libertà spirituale, l’amore, Dio”99. Questa reazione, che portò alla rivoluzione russa, è comunque espressione della potenza della gioventù, “potenza di tutte le cose. Potenza anche di esperimentare il bene in tutti i suoi ardimenti ed eroismi ed il male in tutte le sue follie e in tutte le sue perversioni. I fondatori di regimi sanno che i giovani, non essendo nulla ancora di determinato, possono diventare tutto”100. Ed in questo caso, forse, la gioventù -stando al pensiero di Padellaro e alla storia della filosofia- decise di diventare niente, pur senza convinzione, perché -si domanda il pedagogo- “se Dio non c’è, perché vituperarlo?”101. Diversa dalle gioventù spinte dal risentimento, è la giovinezza fascista, spinta -il gioco di parole non è casuale, dal sentimento. “Affinché la nostra analisi si tenga più che sia possibile lontana dal lirismo, cercheremo di interpretare il moto che anima la nostra gioventù su un piano in cui l’investigare non è operazione affettiva di bene intellettuale: il piano della vita”102. Padellaro cerca -nonostante ciò sia difficile all’interno di un testo prettamente fascista- di rifuggire da sé ogni esaltazione della gioventù fascista, mossa appunto dalla mistica, sopra ampiamente descritta: “Giovinezza è vita nuova, ossia vita dominata da un incoercibile impulso di rinnovamento, che ha per la sua dialettica interna, […] un soffio animatore che espelle le tossine della decrepitezza, produce instancabilmente l’inedito, ossia il valore libero”103. La gioventù fascista è portatrice di valori di vita, “vita in marcia, insomma; ma una marcia che è un raccogliere nell’atto stesso di seminare. […] Oggi nel mondo c’è una sola giovinezza ch’è espressione genuina e fedele di questa vita in marcia, che n’è il volto non sfigurato, ma autentico: la fascista. Pare a noi che chi 97

N. Padellaro, La Scuola vivente, cit., p.130. N. Padellaro, Giovinezze nel mondo, cit., p. 51. 99 Ivi, p. 59 100 Ivi, p. 51. 101 N. Padellaro, La Scuola vivente, cit., p. 130. 102 N. Padellaro, Giovinezze nel mondo, cit., p. 55. 103 Ibidem. 98

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dice: <<vita>>, dica <<gioventù fascista>>, incarnando questa tutti i voti, le speranze e le conquiste di quella”104. “Il risentimento può avere missione distruttiva”105, la gioventù fascista ha al contrario finalità costruttive, contrariamente a quelle degenerative del comunismo. Il fascismo, in questa ottica, è dunque per Padellaro messaggio non solo per la gioventù italiana, ma per la gioventù del mondo: “Or chi non ha orecchie per ascoltare il dialogo tra Mussolini e i giovani di tutto il mondo, evidentemente è affetto da sordità inguaribile. […] Volete che i giovani, quelli che intuiscono che un nuovo ordine spirituale è come la verità, unico, non comprendano da quale parte sia la salute?106 Alla luce di queste parole si può dunque spiegare il pacifismo auspicato da Padellaro: esso è l’ultima fase dello Stato etico di Mussolini, la fase in cui tutti i giovani del mondo avranno aderito al fascismo e solo allora potrà avere corso la pace sperata nelle ultime righe di Scuola e Stato nemici? Ma qual è stato il segreto del fascismo per conquistare la gioventù? “La gioventù si può conquistare o per le sue virtù o per i suoi vizi. Il Fascismo l’ha conquistata perché ha saputo guardarla <<come l’istante più disinteressato di tutta la vita>>”107. “La ragione che ci fa sperare non ha bisogno di commenti; quella che ci fa trepidare va ricercata nel fatto che i giovani, fatti per l’impeto e l’attacco offensivo, dimostrano poca avvedutezza nella difensiva, la quale è fatta di calcolo, di esperienza, di saggezza, di pazienza”108. Dunque, per Padellaro, la giovinezza è stata conquistata dal fascismo proprio perché questo ha saputo cogliere ciò che di più attrae i giovani: la ribellione, lo spirito guerriero, la rivoluzione. Questi sono i motivi su cui il maestro deve insistere durante le sue ore di lezione. “Come si parla di fascismo ai fanciulli? Siamo capaci di far sentire nel fascismo una verità, un amore, una bellezza, un eroe? Sappiamo noi tradurre come istinto profondo di razza, il presentimento del nostro destino nel mondo? Sappiamo noi far sentire ai fanciulli che questa è l’ora in cui tutto quello che di buono, di generoso, di grande c’è nel loro cuore, può diventare azione e non rimanere impulso, velleità, disillusione?”109 Questa è una capacità che il maestro deve maturare fornendo agli allievi sensazioni, esempi 104

Ibidem. Ibid. 106 Ivi, p. 9. 107 Ibidem. 108 Ivi, p. 8. 109 N. Padellaro, La Scuola vivente, cit., p. 6. 105

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che del fascismo sono esaltazione: non bisogna ricorrere -ammonisce Padellaro- alla fraseologia fascista che, come “ogni fraseologia, finisce per abituare il fanciullo alle menzogne incoscienti, alle parole irreali”110 e, per ottenere ciò bisogna fornire immagini concrete della positività del fascismo: “Vi mostrate increduli? Perché la frase colpisca il fanciullo è necessario ch’egli abbia nella fantasia l’immagine di un’Italia perduta e poi di un’Italia salvata. E non basta: bisogna ancora ch’egli senta l’Italia come cosa viva, come una creatura del suo cuore. Or chi gli ha dato l’immagine di questa realtà vivente ch’è la Patria? La famiglia, la scuola? Nego. Il maestro di buona volontà”111. “Ripetiamo fino alla sazietà che il maestro deve essere un artista e cioè un creatore di stati d’animo, […] perché sappiamo che una mentalità primitiva non si lascia muovere che dalla rappresentazione viva, pittoresca, semplice del dramma”112. Il maestro è riconfermato nella sua figura di promotore del partito, in cui si individua una vena artistica, esaltata dal Padellaro: egli deve dare al fanciullo esempi vivi all’alunno, perché se “l’adulto agisce per…, il fanciullo agisce come…”113. Così si spiega la predilezione di Padellaro per l’esempio, che contraddistingue l’opera Il libro di testo della terza elementare, in cui il pedagogo veste, appunto, i panni dell’insegnante. Un ulteriore punto che l’insegnante deve toccare, è la rivoluzione, naturalmente amata dal fanciullo. E la rivoluzione è il motivo dominante della vita di colui dalla cui parte sta la verità: Mussolini, da cui non si può staccare la nomea di rivoluzionario. “Pensate ad un Mussolini che passi la sua prima giovinezza a predicare l’ordine, la pace, la rassegnazione; istantaneamente la figura del Duce sbiadisce, si rimpicciolisce e perde il suo potere di suggestione”114. Deve essere maturata nel fanciullo l’idea di rivoluzione, che è innanzitutto aspirazione ad un mondo migliore, ossia “quella magnifica qualità essenzialmente giovanile ch’è quella di non accettare il mondo qual è, ma di volerlo migliore; quella volontà di rinnovamento che si chiama ribellione”115, da cui scaturisce, dunque, la rivoluzione vera e propria. “Se sotto la parvenza dell’ordine stagna la vita del paese 110

Ivi, p. 7. Ivi, p. 8. 112 Ivi, p. 10. 113 N. Padellaro, La Scuola vivente, cit., p. 12. 114 Ivi, p. 14. 115 Ibidem. 111

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nell’ingiustizia, nella viltà, nella rinunzia, ci si slancia contro l’ordine. Se invece imperversa il disordine, ci si pone contro di esso, e si combatte, e si cimenta la vita!”116. La rivoluzione e la ribellione vanno di pari passo con l’amore per il rischio, da sempre amato dai fanciulli e proprio “l’amore del rischio è la sintesi della vita di Mussolini, e questo amore farà sì ch’egli eserciterà quel profondo fascino sulle anime giovanili, quella attrattiva irresistibile sugli spiriti generosi, quella suggestione che trascina fino al sacrificio, fino alla morte”117. L’insegnante fascista deve dunque cavalcare questa passione del fanciullo per la ribellione: “Se togliete a Mussolini l’aureola del ribelle, i fanciulli rimarranno disillusi e non lo sentiranno più come l’incarnazione del loro eroe, dell’eroe che ha sempre un mostro da combattere, sia quello ipocrita dell’ordine, sia quello sfrenato del disordine. […] Egli è sempre un ribelle. I fascisti sono i ribelli del Duce”118. “Concepita così la Rivoluzione e il Fascismo, non fomenteremo noi negli alunni lo spirito di rivolta? […] Se per rivoluzione s’intende l’amore del cimento, del rischio, il desiderio d’instaurare un ordine di cose migliori, di dimenticare se stessi per gli altri, la volontà di obbedire alle leggi della rivoluzione, di preparare corpo e spirito per esser degni dell’ora che scoccherà, allora noi sentiamo che spirito rivoluzionario e spirito educativo sono la medesima

cosa.

[…]

Educazione

fascista

significa

dunque

rivoluzione

rivoluzionaria”119. Padellaro giunge alla conclusione dando vita ad una vera e propria educazione alla rivoluzione, intesa come tensione ad un mondo migliore, così come voluto dal Fascismo. La profondità, l’innovazione, il senso filosofico che Nazareno Padellaro diede a questi scritti dall’alto valore storico, lo pongono fra i teorici più rigorosi del Fascismo: egli infatti dà al movimento in esame, non solo una valenza meramente politica, bensì pedagogica, dialettica, psicologica riscuotendo nell’ambiente culturale del tempo un successo straordinario, immeritatamente dimenticato a causa del fallimento e della degenerazione del fascismo.

116

Ibid. Ibidem. 118 Ibid. 119 Ibid. 117

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3. IL LIBRO DI TERZA ELEMENTARE 3.1 VALENZA EDUCATIVA DEL TESTO

Il libro di terza elementare rappresenta la più chiara espressione delle posizioni in ambito pedagogico tenute da Nazareno Padellaro: questo documento dall’alta valenza storica rappresenta una sintesi dell’opera del pedagogista italiano. Tra i provvedimenti che caratterizzarono la politica fascista è da mettere la legge che impose il testo unico di Stato alle classi elementari e che fu presentata da Belluzzo al Consiglio dei Ministri il 1° novembre 1928. Quella legge, costringendo tutti i maestri ad adoperare come strumento di educazione il libro pensato e compilato secondo la più rigida fedeltà al regime, costituiva l’imposizione più oppressiva che si potesse operare nel campo della scuola1. “Il libro di testo di Stato -disse Mussolini - dello Stato fascista, dovrà essere un capolavoro didattico e tecnico; il suo contenuto deve educare gli adolescenti nella nuova atmosfera creata dal fascismo e plasmare loro una coscienza consapevole dei doveri del cittadino fascista e di quello che l’Italia è stata nella Storia, nelle lettere, nelle scienze, nelle arti, di quella che essa può diventare in un domani del quale tutti desideriamo essere attori; e coltivare sentimenti del bello e dell’amore e della diligenza”2. L’essere stato scelto per questo prestigioso compito, dimostra l’immensa stima che Benito Mussolini e il regime provarono per Nazareno Padellaro, nonché la posizione di vertice occupata da quest’ultimo nell’ambito pedagogico e culturale del Ventennio fascista: egli può essere così considerato pedagogista di riferimento di quel periodo. Egli, conscio dell’importanza del compito affidatogli, espresse fieramente le ragioni per cui andare orgoglioso del risultato ottenuto, immedesimandosi in un grande del passato, lo scrittore russo Lev Tolstoj (naturalmente citato nella sua italianizzazione di Leone Tolstoj), che si dedicò alla scrittura di un libro di testo per gli scolari dell’Impero Zarista: “Ecco la mia ambizione: che per due generazioni, tutti i fanciulli russi, da quelli della famiglia imperiale a quelli dei contadini, siano formati da questo libro e ne traggano le prime impressioni poetiche, e che io possa morire tranquillo, avendolo scritto”3. E questo fu il compito di cui Padellaro fu investito: redigere un testo uguale per tutti i milioni di fanciulli d’Italia, dai più ricchi ai più poveri, senza distinzione alcuna, e che in tutti effondesse alla stessa maniera lo spirito e i valori del fascismo. Ma da saggio ed 1

D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 311. Ibidem. 3 N. Padellaro, La Scuola vivente, Torino, G.B. Paravia e C., 1931, p. 112. 2

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equilibrato pedagogo, Padellaro riconobbe che il libro di testo doveva rappresentare anche uno strumento utile a sé per immedesimarsi, e così conoscere, la vita e la psicologia del fanciullo: “chi conosce la vita di Tolstoj, sa con quanto fervore egli volle consacrarsi alle questioni educative, […]. Non dilettantismo, né capriccio d’artista lo indussero a meditare sul problema educativo, ma quella stessa inquietudine che lo trasse a considerare i problemi religiosi e sociali. Come ogni grande, egli impegnò tutta l’anima sua in tali problemi, che divennero la passione e la ragione della sua vita”4. Questo è un ulteriore espressione della visione puerocentrica di Padellaro, già ampiamente descritta nei paragrafi precedenti: lo studio del fanciullo rappresenta studio e conoscenza della realtà, “perché gli spiriti sommi furono sommi perché conobbero l’anima del fanciullo”5 e “pedagogisti, e artisti, uomini di scuola e filosofi hanno cercato la verità nel fanciullo, pervenendo alle medesime conclusioni”6. Primo passo di Tolstoj, fu quello di immedesimarsi nel maestro dei fanciulli, e lo scrittore russo, non propriamente un insegnante, “ha consapevolezza di tutte le difficoltà che avrebbe incontrate nell’azione, e soprattutto si sente impari, ad assolvere l’umile e grande compito di maestro”7. Tolstoj si accorse subito della sua inadeguatezza e perciò si affidò all’aggiornamento -fattore da sempre sostenuto dal Padellaro come fondamentale per la missione di insegnante-: “Non ci sorprende quindi che Tolstoj, con quella logica che sa arrivare in fondo, constatata la propria impreparazione, cerchi di colmarla. Va all’estero e visita le scuole di Berlino e Marsiglia; conosce I. Froebel e Auerbach, e quando, dopo nove mesi, ritorna, riprende la sua attività senza incertezza ed esitazione”8. La preparazione dell’insegnante, dunque, come fondamento di un’opera educativa: la stessa che Nazareno Padellaro poteva dire, dopo anni di studio della pedagogia italiana ed estera e di essere divenuto uomo ai vertici della cultura italiana, di aver conosciuto. Un tale lavoro (“lavoro che esigerebbe la conoscenza della letteratura greca, indiana, araba, delle scienze naturali, dell’astronomia, della fisica…”9) presuppone tuttavia anche una buona dose di umiltà socratica di sapere di non sapere e persino un grande come Tolstoj, alter ego di Nazareno Padellaro deve accingersi allo studio: “Per un umile abbecedario tanta dottrina e tanto tempo! Occorrerà nel testo introdurre brani di scrittori 4

Ibidem. Ivi, p.113 6 Ivi, p.115 7 Ivi, p.113 8 Ivi, p.114 9 Ivi, p.115 5

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greci? Tolstoj studia il greco: nel 1870! (ndr. l’esclamazione di Padellaro sottolinea il paradosso di un immenso come Lev Tolstoj che, in età matura, riprende in mano i libri). Non si può far a meno di introdurre nel libro tratti riguardanti la scienza. Ci sono tanti libri che potrebbero fornire gli elementi per la compilazione di essi. Tolstoj preferisce fare da sé le esperienze scientifiche. E così per le altre materie”10. E sottolineando la dedizione, l’impegno, il sacrificio che in un’opera così ambiziosa quanto complessa “Tolstoj lavora anche in viaggio:<< Ieri - scrive a sua moglie- invece di ammirare le rive del Volga, mi sono estenuato preparando l’aritmetica>>. Il libro diventa l’affare capitale della sua vita”11. Ogni frase di Padellaro nasconde un significato profondo che solo un’attenta lettura può consentire di apprezzare: la metafora dello scrittore che invece di ammirare il Volga prepara l’aritmetica, simboleggia proprio il sacrificio dell’insegnante, che chiamato ad una missione quasi per scelta divina, rinuncia ai piaceri della vita, se non alla propria vita stessa, per perseguire questa missione e portarla a compimento nel migliore dei modi. In effetti, il riferimento alla conoscenza di numerose discipline è collegato inequivocabilmente alla cultura sfaccettata, innovativa e fantasiosa che Padellaro dovette conquistare per scrivere un’opera come il Libro di Testo della Terza Elementare: varie sono le conoscenze che un tale testo presuppone, dalla conoscenza del mondo classico ed in particolare romano alla conoscenza religiosa, dalla conoscenza della letteratura a quella della politica e della storia passata e contemporanea. La conoscenza è proprio lo strumento che consentirà al maestro stesso, di attirare a sé i propri alunni e far sì che maestro e professori non siano due entità separate, bensì un’unica entità in cui il maestro sia il primo, l’esempio per tutti, il primus inter pares a cui già accennato: “quale prestigio non avrebbe avuto un tale maestro sui propri alunni! Un maestro nella sua piena vigoria, destro in tutti i lavori dei campi, capace di abbattere un albero, di seminare il grano e di condurre la carriola; esperto in tutti i loro giuochi e pronto ad insegnarne di nuovi; più forte di molti di loro riuniti insieme, nella lotta; a tutti superiore nella corsa e nel nuoto”12. Ma l’attrazione che gli alunni provano nei confronti del loro maestro deve risiedere anche nell’ammirazione per ciò che il maestro ha compiuto nella sua vita, vero e proprio “campo di battaglia” in cui egli può dimostrarsi esempio e guida per i fanciulli: “Un uomo che era vissuto nel Caucaso, che ritornava dopo aver preso parte alla guerra, che 10

Ibidem. Ivi, p. 116. 12 Ivi, p. 114. 11

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era stato grande cacciatore, aveva una cicatrice in fronte, e su l’occhio le tracce delle graffiature d’una fiera, e che raccontava loro come l’anno precedente, in un grande bosco, egli era stato assalito da un orso; la pelle era lì vicino, nella casa! Agli occhi degli alunni Tolstoj appariva un eroe”13. Evidentemente, le ferite riportate rappresentano, in senso figurativo, le esperienze di vita vissute dal maestro in genere, il quale, tuttavia proprio dal contatto con i fanciulli trova motivo di ispirazione per il suo metodo di educazione; Padellaro cita così un biografo di Tolstoj che riporta il suo approccio con gli educandi: <<La mattinata si passava a scuola: il pomeriggio era consacrato al gioco, la sera, allorché faceva notte, nella foresta vicina. Quantunque rassicurati dalla presenza del maestro, gli alunni tuttavia lo tenevano per mano; al ritorno, fino a mezzanotte, sopra la terrazza, essi lo ascoltavano. Tolstoj parlava loro delle avventure delle sue avventure al Caucaso, […] e leggeva loro delle favole. A loro volta, gli alunni raccontavano le storie del villaggio, ripetevano a loro modo ciò che avevano sentito, narravano i racconti che sapevano o conversavano. E Tolstoj notava con ogni cura ciò che essi dicevano”14. E questo contatto, tiene a precisare il pedagogo, è fonte di studio per l’educatore, il quale apprende proprio dai fanciulli: si instaura quel rapporto che la Riforma Gentile, nella sua accezione filosofica, voleva raggiungere: “gli alunni tengono per mano il loro maestro, in un momento in cui il mistero della notte, la novità del luogo, dà quasi un brivido di paura; un brivido che fa sentire più e meglio la dolcezza della confidenza e dell’abbandono”15. Tolstoj è consapevole, e Nazareno Padellaro più di lui, che un libro di pedagogia come il suo Abbecedario non può prescindere dal contatto e dal dialogo con i bambini e il pedagogo si sofferma “a notare un fatto che non è privo d’importanza e che riguarda appunto quella maxima reverentia ch’è dovuta al fanciullo, considerandolo un giudice non corrotto da pregiudizi e da abitudini”16. Il bambino viene chiamato materialmente a giudicare il lavoro dell’educatore, diventando vero e proprio giudice dell’educatore e del suo lavoro; infatti “Tolstoj prima di dare la redazione definitiva ai suoi racconti aveva l’abitudine di leggerli ai suoi alunni. Notava accuratamente le loro osservazioni e correggeva secondo i suggerimenti e le impressioni desunte da quel primo assaggio. Sperava di evitare, ed in effetti ci riusciva, le falsità sentimentali, le esagerazioni, il moralismo, il virtuosismo, le 13

Ibidem. Ibid. 15 Ivi, p. 115. 16 Ivi, p. 117. 14

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conclusioni eloquenti”17. In effetti il pedagogo è un adulto che cerca di entrare nel complicato mondo dei fanciulli, di cui ha dimenticato, crescendo, tutte le capacità sensitive, emozionali e che proprio il contatto con gli educandi può far tornare alla mente: dimenticare il fattore infantile può evidentemente indurre lo scrittore di libri per pedagogia, e come lui il pedagogo, a cadere in errore e a prendere abbagli che potrebbero svalutarne nel primo caso il lavoro di educatore, nel secondo caso la credibilità del libro. Riportando un aneddoto di Tolstoj, viene espresso questo concetto prendendo come esempio un altro scrittore di libri per l’infanzia russo: “tutto quel racconto, dice Tolstoj, è arbitrario: che in inverno una volpe abbia potuto rubare un’anitra è arbitrario; che dei contadini mettano trappole per le volpi; che la volpe dorma due giorni nella sua tana, mentre tali animali dormono solamente la notte, è arbitrario; arbitrari, inoltre: la buca coperta di sassi, scavata, non si sa perché, nell’inverno, e che non serve a niente; la volpe che mangia carne di cavallo, ciò che le volpi non fanno mai; l’astuzia attribuita a questa bestia che passa correndo davanti al cacciatore il quale non spara, per paura di sbagliare il colpo … tutto da principio alla fine, è assurdo e il primo contadinello, a la lettura di simili piccinerie, se sarà autorizzato a parlare, senza alzar la mano per domandarne il permesso, dimostrerà che il racconto non può stare in piedi”18. I fanciulli, sottintende Padellaro, pur nella loro semplicità, sono giudici severissimi e non si fanno aggirare dalle assurdità, come quelle dello scrittore russo citato (tale Boubnakov), il quale, evidentemente, fu poco attento a fornire ai suoi lettori pagine verosimili, perdendo così irreparabilmente la loro credibilità e fiducia. “Citazione lunga, ma in compenso piena di consigli per gli insegnanti. Se i nostri racconti fossero sottoposti a un critico tanto severo ma tanto giusto, quanti di essi otterrebbero giudizio meno implacabile?”19. Il monito di Padellaro, che nel libro La scuola vivente ha principalmente l’intento di assumere la veste di insegnante degli educandi, richiama l’attenzione all’empatia che l’educatore deve rivolgere nei confronti dell’alunno. Anche un altro grande educatore, Don Giovanni Bosco, nella sua attività di scrittore di racconti per fanciulli, diede conferma quanto sostenuto da Padellaro: “voglio ricordare che un altro grande amico dei fanciulli, Don Bosco, volle sempre sottoporre i suoi scritti destinati ai piccoli, al giudizio di sua madre: la buona Mamma Margherita, illetterata, ma capace di comprendere la grande anima del 17

Ivi, pp. 117-118. Ibidem. 19 Ibid. 18

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figlio”20. La citazione dell’episodio riguardante Don Bosco non è casuale: Nazareno Padellaro, istruito presso i Salesiani, provò sempre grande ammirazione per il santo, grande educatore di giovani ed adulti e il suo legame con l’educazione di tipo popolare molto ha in comune con quella esercitata dal prelato piemontese nei suoi oratori. Padellaro inoltre ha ben presente un fattore che potrà fare del suo libro, così come per Tolstoj, un capolavoro di bellezza, ed è la passione dell’educatore nei confronti dell’infanzia: “Se gli educatori ci ripetono che per un’opera efficace occorre passione, può il loro consiglio sembrare un generico ammonimento da rivolgersi a chiunque svolga una qualsiasi attività, ma quando noi consideriamo l’azione dei grandi, sappiamo che questa passione ha ali di fiamme e possiede come una ossessione lo spirito eletto che ne è preso”21. Proprio la passione farà sì che l’opera di Tolstoj ebbe grande successo nell’ambiente educativo, il medesimo che il pedagogo italiano auspicava per il proprio testo: l’infanzia rese grande l’opera dello scrittore russo, tanto da portare quest’ultimo a considerarla un’opera alla pari, se non superiore, a quelle che lo resero immortale: “Tolstoj, tutto preso dalla suggestione del suo lavoro, lo giudicherà quasi perfetto, anteponendolo nientemeno che a Guerra e pace. <<Io non mi aspetto dal volume molto danaro. Sono anzi persuaso che non me ne porterà, e tuttavia dovrebbe portarmene. La prima edizione andrà a ruba, poi l’originalità del libro irriterà i pedagoghi, […] e la vendita non andrà più avanti. Quando comparve Guerra e pace, sapevo che l’opera era piena di difetti, e prevedevo il successo che ha avuto. Oggi, pur vedendo pochissimi difetti nell’Abbecedario, e pur conoscendo la sua superiorità su tutti gli altri libri, io non attendo il successo e parlo del successo che dovrebbe avere un libro di scuola>>. Il successo, però, sebbene tardi, venne”22. Il pedagogo italiano, in queste frasi, individuò subito un ostacolo cui anch’egli avrebbe dovuto far fronte: l’originalità di un testo come il Libro della Terza Elementare, che nel panorama della storia della pedagogia, andava a sovvertire tutti i canoni educativi: l’indipendenza della scuola dalla politica, fulcro della pedagogia ormai affermatasi in campo internazionale, era del tutto annullata in un libro che inneggiava al Fascismo, al Duce, alla Patria. Padellaro non poteva non essere consapevole delle critiche che sarebbero derivate all’uscita di un libro di testo per la scuola come quello da lui redatto: una simile innovazione avrebbe trovato aspre contestazioni dagli evoluti sistemi pedagogici francesi o americani, che allora, a livello 20

Ibidem. Ivi, p. 115. 22 Ivi, p. 116. 21

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mondiale, erano i più accreditati; “<<l’originalità del libro irriterà i pedagoghi>>. Integriamo codesto giudizio e diciamo, non specificando, che ogni originalità irrita i pedagoghi. Si potrebbe anche aggiungere che spesso i pedagoghi scambiano ciò che è originale con ciò che è arbitrario”23.

3.2 LA FANTASIA COME STRADA VERSO LA PERFEZIONE

Partendo da queste premesse, che esplicano l’apparato pedagogico su cui costruire il proprio libro educativo, Padellaro dovette porsi l’obiettivo di redigere un testo puramente fascista, in cui ogni riga trasudasse dei valori esaltati dal regime, rispondendo appieno a quanto richiestogli dal Duce; le pagine del libro che sarebbe diventato veicolo d’insegnamento per milioni di bambini, avrebbero dovuto rispecchiare tali valori ed insinuarli nella mente del fanciullo. Nazareno Padellaro riuscì pienamente nel suo intento utilizzando un linguaggio semplice come quello di un adulto che parla ad un fanciullo, schietto ed accompagnato da chiare ed evocative illustrazioni che consentono all’alunno di fissare, senza fatica e con coinvolgimento, i concetti espressi in brevi racconti ed episodi di vita fascista, ma anche popolare e quotidiana. Anche nell’impianto del proprio libro, implicitamente è egli stesso ad ammetterlo, Padellaro si ispira all’Abbecedario di Tolstoj, di cui il suo Libro di testo della terza elementare ricalca la composizione: “la composizione di ciascuno dei quattro libri consta di 198 brani, classificati sotto rubriche speciali: favole, racconti, storie vere, descrizioni, bylines, racconti storici, soggetti di conversazione. Le “bylines” sono vecchie cantilene popolari, specie di frammenti dell’epopea russa. I soggetti di conversazione si riferiscono ad alcuni fenomeni naturali (piante, animali, ecc.)24. Queste categorie, rispecchiano pienamente quelle che compongono il Libro di testo della Terza Elementare: racconti veri, tratti dalla storia contemporanea o recente, si intrecciano a favole dal sapore classico, poesie di autori quali D’Annunzio e Pascoli, sono intervallate agli spietati canti della rivoluzione fascista; il tutto dimostra l’impegno e la capacità del pedagogo nel creare un testo accattivante, mai noioso per il fanciullo che si vede attratto da racconti che stimolano allo stesso tempo l’ingenuità infantile e il desiderio del fanciullo di diventare grande ed eroico. Il vero e il fantastico nel libro si fondono in modo equilibrato, dimostrando il rispetto di Padellaro per l’infanzia, allietata ed attratta 23 24

Ibidem. Ivi, p. 117.

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dalle note fantastiche, quanto richiamata al proprio dovere dell’essere “la pupilla del Regime Fascista”: i racconti fantastici del libro sono poi presentati con la medesima dignità di quelli legati alla realtà, al regime e alla mistica. Padellaro non nasconde ciò e già nelle righe di La scuola vivente aveva sottolineato l’importanza di tali racconti e la medesima dignità di fronte a quelli ispirati alla storia e a vicende realmente accadute: i racconti fantastici infatti racchiudono in sé la realtà nel suo senso più ampio, ovvero la ricerca della Verità, vero e proprio bisogno cui tende l’Uomo, ed in particolare il fanciullo. “Tutti sanno con quanta ansia i fanciulli domandano a chi racconta loro una storia favolosa, o narra un fatto, se storia e fatto siano veri. C’è anzi una contraddizione tra la brama dell’inverosimile che anima la fantasia dei fanciulli, e la sete di Verità che i fanciulli stessi tormenta. Il fanciullo vuole essenzialmente questo: che l’inverosimile sia vero”25. Padellaro coglie il problema che tutti gli scrittori, ed in particolare gli autori di racconti fantastici, si pongono: raggiungere la verità mediante l’inverosimile. “Conciliare questi opposti è problema di didattica. E che il problema sia di portata fondamentale, potrebbe essere dimostrato per la ragion dei contrari, dal fatto che molti libri dagli adulti destinati ai fanciulli, son da costoro spesso rifiutati come cibo inadatto e poco o nulla appetibile”26. Il concetto è spiegato in modo semplice: i racconti fantastici, pur coinvolgendo personaggi irreali, racchiudono in sé morali che indicano la via della Verità. Infatti “c’è chi tien l’occhio solamente alla verità, coglie del reale i fatti e li narra così come sono accaduti aggiungendo qualche elemento fantastico che tuttavia non altera la verità stessa”27; il fanciullo è così attratto da siffatti racconti, piuttosto che da esempi tratti dalla mera realtà, che spesso nulla indicano o insegnano: “ebbene, ho potuto esperimentare tante volte che posso essere in grado di dedurre le legge, […] il nessun interesse che tal genere di storie vere desta nei fanciulli. La realtà piatta lascia indifferenti”28. D’altronde, non sono rari neppure i casi in cui anche gli autori, credendo di eludere questo vuoto di senso, chiedono soccorso all’inverosimile, ovvero “chi d’altra parte, accertato questo fatto, ha creduto di trovar rimedio navigando con la chiglia in su l’oceano dell’inverosimile, ha parimenti preso un grave abbaglio; chè tanta innocente fantasia non ha saputo condensarsi fino a produrre il personaggio consistente e vivo. Parrebbe dunque di trovarsi di fronte ad uno di quei problemi che non hanno soluzione e 25

Ivi, p. 124. Ibidem. 27 Ibid. 28 Ivi, p. 125. 26

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quindi non debbon esser posti. Se non che la soluzione concreta esiste e non può esser né negata né messa in dubbio, noverando la letteratura per l’infanzia se non moltissimi, certo parecchi capolavori”29. Il problema viene risolto dal pedagogo affidandosi ancora una volta al suo alter ego, lo scrittore russo Tolstoj: “<<Conoscerà la verità-dice Tolstoj non colui il quale conoscerà ciò ch’è stato, ciò che è, ciò che suole avvenire, ma colui il quale sappia ciò che deve essere secondo la volontà di Dio. Chi si limita a descrivere l’accaduto, quanto è stato compiuto dal tale o dal tal altro, non scrive la verità; mentre chi fa vedere che i tali atti sono buoni, cioè conformi alla volontà di Dio, ed altri malvagi, cioè contrari a questa volontà, chi questo fa vedere scrive la verità…>> La via della verità, dunque, non è quella tracciata dagli uomini, ma quella tracciata da Dio”30. Dunque il valore di un racconto dipende dal suo conformarsi al bene (Dio) e alla sua capacità di aiutare il fanciullo a discernerlo dal male. Padellaro, non abbandonando mai la propria vocazione filosofica, non si ferma qui: il racconto non deve solo mostrare la differenza tra bene e male, ma indurre ed aiutare il fanciullo a percorrere la via della verità, che è via verso la perfezione; infatti “<<scritti o narrati, tutti i racconti sono buoni e sono utili, non quando descrivono ciò ch’è avvenuto ma quando fanno comprendere ciò che sarebbe dovuto accadere; non quando raccontano i fatti e le gesta degli uomini, ma quando discriminano il bene dal male; quando indicano la via diritta, la via unica, quella della volontà di Dio, che conduce alla vita. […] Ed ecco perché nuclei di libri consacrati a fatti reali o che tali potrebbero essere, sono menzogne, se i loro autori sono incapaci di distinguere il bene dal male … mentre invece, alle gioie, favole, leggende, che contengono il meraviglioso, nelle quali son descritte cose che non sono mai accadute e mai potranno accadere, sono verità, illustrando ciò che è sempre stato, è e sarà la volontà divina>>. Se questo criterio d’arte non ha il battesimo dell’estetica moderna, ha però il conforto di qualche documento. Dante sa veramente distinguere il bene dal male. È l’autore che ha descritto il regno della verità: della verità intesa come Tolstoj la intende, e cioè come cammino verso la perfezione”31. Ed il fine ultimo di Padellaro, nei racconti fantastici oltre che in quelli ispirati ai racconti reali del suo libro di testo, è questo: indicare la via della verità, che è sempre e comunque rappresentata dal fascismo. “Diremo questo solo agli adulti? Raccontiamolo con favole, leggende, storie, anche ai fanciulli. Essi troveranno interessante l’esser condotti 29

Ibidem. Ibid 31 Ivi, p. 126. 30

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attraverso un mondo creato non dalla fantasia incoerente, ma da una saggezza magica, la quale dimostra che più reale del fatto è la legge, più concreto dell’umano è il divino, più dolce del vivere è il morire. Possiamo ora spiegarci la sete di verità del fanciullo se essa considereremo come bisogno di eroismo”32. In questo intento, il genere della favola è quello prediletto da Padellaro, che utilizza il linguaggio favolistico numerose volte nel suo libro di testo: elementi della natura, vegetali e animali parlanti popolano periodicamente le pagine del libro. La favola è certamente funzionale alla pedagogia: da sempre i fanciulli sono attratti dai suoi personaggi, divenendo facile per chi la utilizza, trasmettere i propri insegnamenti, che nel caso del Libro di testo della Terza Elementare, sono sempre rivolti ai valori del fascismo. Egli, da sempre convinto dell’importanza di questo genere, caduto in disuso, ne

rivaluta l’importanza,

consigliandola agli insegnanti, destinatari del libro pedagogico La scuola vivente: “Le favole, una volta tanta parte nell’insegnamento, oggi sono pressoché abbandonate. Cominciarono a cadere in disgrazia quando ci si accorse che la morale che da esse si traeva era cosa astratta ed inefficace. Vederla, la morale, attaccata alle favole sembrava quasi un sacrilegio; e con l’apodittica ragione che la concretezza doveva soprattutto ispirare gli insegnamenti di etica, si è a poco a poco lasciata cadere in disuso la consuetudine di vivificare l’attenzione e lo spirito con racconti che avevano sfidato i secoli”33. L’innovazione di Padellaro consiste proprio in questi particolari: l’aver rivalutato le favole, considerate racconti “bambineschi” dalla maggior parte della critica, ne sottolinea invece la propensione del pedagogo verso il mondo dell’infanzia, la sua disponibilità ad “abbassarsi” apparentemente al livello dei fanciulli per comprendere invece realtà assolute, come la distinzione del bene e del male, nonché il tendere verso la perfezione; “queste riflessioni sono per fanciulli? Ho voluto solo dimostrare che è possibile muoversi in binario ben diverso da quello comune. […] Quando ben si medita sulla vita ci s’accorge che essa stessa è una favola”34. Il valore educativo, non solo per i fanciulli, poi è indiscusso: “Ma perché si pensa che le favole siano maggiormente adatte ai fanciulli? Comunemente si crede che l’alone dell’irrealtà che è l’atmosfera delle favole, costituisca la ragione dell’attrattiva. Io penso, invece, che si possa sostenere quasi il contrario”35; infatti egli dà legittimità al concetto sopra 32

Ivi, p. 128. Ivi, p. 85. 34 Ivi, p. 88. 35 Ibidem. 33

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affermato, e cioè alla realtà contenuta anche, e soprattutto nei racconti fantastici: “è senza voler negare che, per esempio, gli animali che parlano e ragionano attraggano l’interesse degli allievi, si può affermare che la concretezza di vita vissuta è quella che maggiormente li suggestiona”36. L’importanza della favola, poi, è nella sua semplice struttura stessa, adatta al bambino e grazie alla quale l’insegnante può più facilmente trovare un filo conduttore con l’educando e, parlando lo stesso linguaggio, trasmettergli più facilmente concetti, che a dire il vero, non sono facili, (e non sembrano -agli occhi del critico di oggi- neppure adatti all’infanzia) come quelli che il regime fascista voleva imporre ai fanciulli dell’epoca: “il canovaccio delle favole è sempre lo stesso: due attori che concludono in due battute un dramma, una commedia, una farsa. Abolite le lungaggini, soppresse le vane parole, contratti i moti, riassunti i motivi. È proprio quello che ci vuole per i fanciulli”37. La purezza della favola è la purezza del fanciullo: comprendere le favole significa comprendere, per Padellaro, le verità ultime della vita, racchiuse nella semplicità di questo antico genere: “amiamo la favola, ch’è sorella del simbolo; amiamola schietta e giovane quale uscì dalle snelle menti de’ Greci, vendicatrice elegante e modesta e veloce degli umani doveri e diritti”38. La favola è l’inizio di un mondo migliore, la via verso la perfezione: “Il mondo creato dalla fantasia è il mondo in cui cadono le barriere tra le cose e si instaura un ordine più puro, più bello, più umano”39. La favola è essa stessa tensione verso il bello, che è perfezione: “che saremmo noi, grida un poeta, senza il soccorso di quello che non esiste? Ben poca cosa, e i nostri spiriti inoccupati languirebbero se le favole, i disdegni, le astrazioni, le credenze e i mostri, le ipotesi e i pretesi problemi della metafisica non popolassero di esseri senza oggetto le nostre tenebre naturali?”40. Abituare il fanciullo alla favola e al fantastico significa immettergli la tensione verso una condizione migliore, perché “il regno incantato non è il regno senza leggi, ma quello in cui le leggi sono più poetiche, più umane, in una parola più rivoluzionarie”41. 3.3 IL LIBRO DI TERZA ELEMENTARE, ESEMPIO DI MISTICA EDUCATIVA

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Ibid. Ivi, p. 88. 38 Ibidem. 39 Ivi, p. 17. 40 Ivi, p. 16. 41 Ibidem. 37

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Il genere della favola non si discosta nemmeno dal carattere mistico del libro: la favola infatti concorre non poco a dare quel senso di romanità e classicità di cui il libro doveva essere permeato. La favola, tiene a precisare il pedagogista, è genere antichissimo, che nel mondo della classicità visse il suo massimo splendore con autori quali Fedro ed Esopo, quello splendore che Padellaro vuole fargli rivivere. Padellaro veste i panni del maestro e nel primo episodio, intitolato “Attesa” accoglie i suoi milioni di alunni in un’ipotetica, immensa scuola, in cui campeggiano tre immagini chiave: il Crocifisso, il Re, il Duce. Il bambino è entrato finalmente a far parte di una grandissima realtà, che è lo Stato, della cui appartenenza può andare orgoglioso, i cui elementi fondanti sono appunto Cristo, il concetto di Patria, il Duce, valori ribaditi esplicitamente nel brano, dal simbolico titolo “I tre doni” in cui questi 3 vengono osannati come tre doni: “Oh, i tre doni inestimabili: Cristiani, Italiani, Fascisti!”42. Attraverso ben 100 episodi Padellaro percorre, uno ad uno, i valori che gli Italici si trasmettono da secoli e che la mistica fascista ha fatto propri. Proprio questi valori fanno sì che quello Italiano sia, per il Fascismo, un popolo illustre, tra i migliori dell’Umanità. Il pedagogo, dando splendente prova di possedere un vasto quanto variegato bagaglio culturale, non tralascia nessuno degli aspetti della latinità riscoperta dal fascismo, seppure il suo sia, solo apparentemente, un semplice libro di scuola indirizzato ai bambini. Il secondo episodio, La visita del padrone, è dedicato all’ospitalità domestica, che fin dai tempi antichi caratterizzò la civiltà italiana fin dagli albori, e cioè dai popoli pre-romani, che nel loro pantheon ebbero apposite divinità preposte all’ospitalità, di cui si ricordano i Lari: “in casa mia, voi siete come a casa vostra”43 recita il primo rigo, che dimostra ai fanciulli come questo sia un valore di cui andare orgogliosi, perché proprio degli antenati. Tutto il testo è pervaso dall’aurea pagana di cui il fascismo e la mistica fascista sono caratterizzati: l’onore, il sacrificio, il culto degli eroi vengono risvegliati in queste pagine: ed è proprio con due eroi dell’era moderna, accompagnati dall’illustrazione del volto con imponente didascalia (alla maniera dei popoli antichi), che Padellaro prosegue il suo iter educativo previsto per i bambini di terza elementare: Re Vittorio Emanuele III (didascalia: Re e Imperatore) e Benito Mussolini (didascalia: Duce del Fascismo e capo del Governo). Proprio quest’ultimo, vera e propria fede dei fascisti, è posto da Padellaro 42

N. Padellaro, Il libro di testo della terza Elementare: letture, illustrazioni di Carlo Testi, Roma, La libreria dello Stato, a. XVII dell’ E. F 1937-1938, p. 101. 43 Ivi, p. 5.

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quale personaggio chiave del libro: eroico, irreprensibile, magnanimo, paterno e materno allo stesso tempo (significativo l’episodio La Lettera “M”, in cui lo scrittore, inscenando una disputa fra bambini sul significato della lettera M stampata sulle divise dei Balilla, mostra come tutte le due ipotesi siano veritiere: “è necessario un giudice. Viene interpellata la mamma. Essa spiega a tutti e tre che quella lettera “M” ricorda ai figli della Lupa, ancora tanto piccini, che il Mussolini che portano sul petto e sul cuore è un Mussolini -mamma”44), Mussolini ha le stesse doti divine di un imperatore romano. Il Duce è presenza costante lungo tutto il libro di testo; numerosi sono gli episodi in cui gli Italiani si mostrano fieri di essere sottomessi al capo del fascismo e si dicono onorati di avergli donato un caro, ad esempio nella guerra in Abissinia. Degno di nota l’episodio “Le voci del sacrificio” con cui il pedagogo intende mostrare, per mezzo di struggenti lettere rivolte al Duce e scritte da italiani che persero figli nella guerra d’Africa, quant’è onorevole ed eroico donare la vita all’Italia ed in particolare a Benito Mussolini: i fanciulli devono vivere con gli esempi mostrati dai “padri, le madri, le mogli, i figli dei Caduti nella grande vittoriosa guerra africana che han sopportato romanamente il dolore e che nelle lettere, nei telegrammi inviati al Duce […] hanno versato nel cuore del fondatore dell’Impero la fiera passione dei loro cuori”45. Evocative e strazianti sono le parole di chi, pur nel dolore, è orgoglioso di aver donato un proprio parente al Duce: “L’offerta di mio Figlio alla Patria, m’impone, pur tra lo strazio, di esprimerti la mia completa dedizione e devozione. Egli era bello come un Eroe antico, […] e volontariamente accorse in terra africana dove maturano i destini della Patria”46. Ogni parola e sfumatura racchiude in sé caratteri che Padellaro da sempre aveva sostenuto nella propria pedagogia e, nel caso presentato, egli rivolge l’attenzione degli allievi alla volontarietà dell’azione di quel valoroso caduto, concetto per lui importante come insegnato agli educatori ne La Scuola vivente: “I volontari sono stati sempre leggendari. La storia distingue gli eroi del dovere e gli eroi volontari, quelli che accettano il sacrificio e quelli che lo abbracciano come auspicato voto del cuore. I primi sono venerati, gli altri amati; ai primi la storia presta la sua degna cornice, ai secondi la leggenda le sue ali. Si potrebbe dire che l’umanità accende la lampada votiva davanti agli eroi del dovere e attizza la lampada sacra davanti ai volontari”47 e “i germi di tanto 44

Ivi, p. 129. Ivi, p. 159. 46 Ibidem. 47 N. Padellaro, La Scuola vivente, Torino, G.B. Paravia e C., 1931, p. 184. 45

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eroismo debbono essere gettati nell’anima dei nostri fanciulli”48. Il tema viene ancor di più ricalcato e, nel medesimo racconto, vi sono ulteriori prove di coraggio e di sacrificio: “Venti anni fa la Patria mi chiese il marito ora le dono il figlio maggiore. Il secondo è richiamato l’ultimo è volontario. Sono povera donna di servizio ma ho il conforto di vedere in ogni italiano un fratello che condivide mio grande dolore. Vedova di guerra et madre caduto Amba Aradam”49. E, naturalmente, non poteva mancare la testimonianza del maestro, descritto nella sua veste di padre: “la ferale notizia fu a me comunicata dal Segretario Politico locale e dal Vice Podestà. Fu uno schianto che solo chi è padre può comprendere, piansi, ma poi sollevato fieramente il capo, esclamai: lo piango come padre, lo benedico come italiano; ho perso un figlio, ma ho acquistato un eroe. Sì, mio figlio è un eroe”50. Padellaro inventa un espediente educativo che crei un filo diretto fra i fanciulli e questo eroe: il maestro in questione infatti ideò di far tenere una corrispondenza tra i suoi alunni e il figlio, prima che morisse in battaglia: quest’ultimo, alle prese col rischio della guerra scriveva “rivolgendosi ai miei alunni che tenevano corrispondenza con lui: “Salutami i tuoi cari alunni. Dì loro di tenere alto lo spirito d’Italia, che al resto pensiamo noi, […] Sapeste cosa vuol dire combattere per l’Italia! Sapeste quale gioia mi sento in cuore quando canta la mitraglia. Mi raccomando vivissimamente a voi perché vi abbiate cura; non pensate tanto a me, state tranquilli. Io sono qua e combatto per l’Italia, per il nostro Duce, e, se qualora venisse qua in Africa l’ora della mia morte, qualora dovessi morire combattendo, sarei felice e dovreste essere più fieri ancora di avermi come figlio!”51. Sommessamente, il padre-maestro sussurra “Lo piango, ma ne sono fiero. A noi!”52 firmandosi Maestro Giuseppe Allasia. È chiaro come il coinvolgimento degli alunni in prima persona sia un espediente letterario per rendere sempre interessante il proprio libro. E un fine mezzo letterario è quello di creare la figura di un alunno, disegnato come l’alunno ideale, che sia d’esempio ai suoi piccoli compagni: è Romano, fanciullo che con semplici gesti “romani e fascisti” indica ai fanciulli il comportamento che i fanciulli devono tenere. Romano, nell’ingenuità della sua infanzia, esprime grande saggezza, invidiabile anche per un adulto: egli è il prototipo del bambino fascista: devoto al Duce,

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Ivi, p. 188. N. Padellaro, Il libro di testo della terza Elementare: cit., p. 162. 50 Ibidem. 51 Ivi, p. 163. 52 Ibidem. 49

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al sacrificio, all’obbedienza, egli, fin dal primo episodio in cui è chiamato in causa mostra quale sia il giusto atteggiamento del bambino voluto dal regime. “Vi presento Romano. Immaginatelo come volete, alto o basso, magro o grasso. Vi prego solo di fargli un po’ di posto, perché da oggi è il vostro compagno di classe. Non vi meravigliate, se proprio oggi è un po’ distratto. Ha un pensiero fisso, attorno al quale gira e si rigira. […] Ecco di cosa si tratta. Romano ha giurato di farsi venire i calli alle mani. Ne vuole almeno due, uno per mano. Occorrerà trovare un contadino amico, o un buon manovale, e chiedere come si fa ad avere al più presto, due calli nelle mani”53. Il racconto, nel suo paradosso, indica la dedizione al lavoro che deve accompagnare gli Italiani fin dalla tenera età: Romano vuole a tutti i costi i calli, simbolo della fatica del lavoro perché “Mussolini un giorno disse: <<Io rispetto i calli delle mani. Sono un titolo di nobiltà, perché nobile è veramente colui che produce, colui che porta il suo sasso, sia pure modesto, all’edificio della Patria>>. […] Romano vuole guadagnare il rispetto di Mussolini, il rispetto di Mussolini! Ci può essere un’ambizione più grande di questa? […] Romano avrà gli anelli della fatica”54. Romano è un fanciullo puro, coraggioso, già consapevole dei problemi della politica, al contrario di Emilio dell’ “Emile” di Rousseau: Romano è l’anti Emilio, è un fanciullo già formato politicamente e proteso ai doveri della patria, al contrario del “collega francese” che, tolto e alienato dalla città e dalle sue difficoltà, viene allevato da un precettore che lo tiene distante dai problemi della vita: Emilio comincerà ad avere una sua coscienza politica solo al termine della sua formazione educativa. Romano possiede già questa coscienza, ed è dimostrazione della vittoria della scuola fascista, direttamente dipendente dalla politica, sulla vecchia scuola francese, d’ispirazione rossiniana. Romano è dotato di saggezza tale da avere una discreta conoscenza della vita e addirittura in un episodio -Romano Maestro- diviene egli stesso educatore della sorella Laura, cui insegna, sebbene con il suo linguaggio infantile, fatti della natura appresi con la sua seppur giovane esperienza (da notare i nomi dei due bambini: Romano, nome estremamente diffuso nel ventennio fascista, e Laura, nome che evoca l’eccellenza della cultura italiana ed in particolare così si chiamava la musa ispiratrice di Petrarca, sommo poeta italico). Se Emilio raggiunge la sua maturità dopo molti anni di apprendimenti dettati dal suo precettore, Emilio giunge al compimento della sua educazione, che è viaggio verso la perfezione, alla fine del 53 54

Ivi, p. 47. Ivi, p. 49.

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libro, nell’episodio Romano vuole il petto di vetro; egli deve dimostrare di essere puro di fronte ad un misterioso ospite (che si scoprirà essere un’effigie del Duce) che sta per venire a trovarlo nella sua cameretta, ospite dinanzi al quale egli deve essere perfetto: “se avessi il petto di vetro -pensa- potrei vedere io stesso quando il cuore sta per appannarsi. Nel petto di vetro, inoltre, potrebbero tutti leggere e io non dovrei durar fatica a convincere gli altri che voglio soprattutto essere franco. […] E poi l’ospite legge in fondo al cuore”55. Romano giunge dunque al compimento di quell’iter educativo che tutti i fanciulli devono raggiungere: essere puri davanti al Duce. Nel libro dunque si rispecchia quell’iter filosofico e catartico prospettato nella visione dello Stato etico ampiamente descritta nei primi capitoli. L’educazione del fanciullo comincia così con la descrizione di tutti gli elementi mistici del fascismo, esposti a mò di piccola enciclopedia: il saluto romano (“gesto di nobiltà. È il saluto del Duce e del più umile gregario. Gesto di soldati”56), il sabato fascista (“quando nelle ore pomeridiane di ogni sabato vedrete chiusi gli uffici, i cantieri, le officine, deserti i campi, sappiate che tutti sono accorsi a imparare la più bella delle arti: l’arte militare. Le braccia che hanno lavorato voglion provare, prima del riposo domenicale, la gioia di maneggiare un’arma […]. E chi […] è stato curvo sui libri, vuole aver l’orgoglio d’impugnare il moschetto […]. Il sabato fascista è la festa dell’alleanza tra le armi e il lavoro, celebrata da tutto il popolo italiano”57), il passo di marcia (“è stato osservato che il passo di marcia può imprimere tali tremiti a un ponte da farlo crollare. Noi speriamo che la cadenza del vostro passo faccia precipitare ciò che il nostro piccone non è stato in grado di demolire”58-passo in cui è evidente la speranza nei giovani, che possono arrivare laddove i vecchi non sono arrivati), il fascio littorio (“sapete voi che i fasci portati dai littori erano formati di verghe di betulla alba? Tali verghe, lunghe circa m. 1,50 erano tenute insieme da corregge rosse. La scure era inserita nel fascio lateralmente o era sovrastante. Coronati di lauro erano i fasci del vittorioso”59), la Marcia su Roma, la divisa, la Lupa (“modello di tenerezza materna”60), Roma (“finché Roma vivrà il mondo vivrà”61), l’Impero ( una fede ha creato l’Impero,

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Ivi, p. 221. Ivi, p. 13. 57 Ivi, p. 24. 58 Ivi, p. 25. 59 Ivi, p. 26. 60 Ivi, p. 180. 61 Ivi, p. 183. 56

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questa: Mussolini ha sempre ragione”62): tutti elementi che il fanciullo deve innanzitutto conoscere per poi portare nel cuore, venerare e adorare perché sacri oggi come ai tempi dei suoi antenati. L’alunno di Padellaro è infatti un prediletto, perché scelto dal Destino per essere Italiano, figlio del Re e del Duce e perché in futuro godrà dei medesimi successi. Rimane sempre in costante evidenza la visione eurocentrica del fanciullo: rivestito di grande importanza in quanto futuro eroe dell’Italia, rivestito di grande considerazione in quanto gli vengono proposte tematiche da adulto: il fascismo, il lavoro, la lotta al comunismo, la guerra, la morte, tutti argomenti che difficilmente oggi verrebbero proposti a bambini di 8-9 anni, come quelli cui il libro fu rivolto e che difficilmente bambini di quell’età potrebbero comprendere. All’alunno non vengono nascoste nemmeno le note più crude: il sangue versato in battaglia è “macchia” costantemente le pagine di questo testo, suggerendo all’alunno che il fine ultimo di ogni buon fascista è la morta in guerra, scopo di vita per gli eroi classici che desideravano “la bella morte”. Altro tema educativo del libro è l’educazione alla violenza: “I canti della rivoluzione” sembrano incitare il fanciullo alla violenza nei confronti del nemico, alla sua prevaricazione e distruzione. Padellaro propone un inno al manganello che farebbe rabbrividire ogni moderna coscienza: “Manganello, Manganello che rischiari ogni cervello, mai la falce ed il martello su di te trionferà […]”63 Ulteriore prova di ciò sono I canti della guerra dove il fanciullo viene precipitato in una vera e propria atmosfera bellica: “se non ci conoscete guardateci dall’alto noi siamo le fiamme nere del battaglion d’assalto. Bombe a mano e colpi di pugnale. […] Noi siam gli arditi della terza armata chi non rispetta noi gli diamo una pugnalata. […] Se l’artiglieria fa il suo bombardamento gli arditi vanno all’assalto veloci come il vento. […] Ci han messo sul trofeo un cipresseto nero e ci hanno riservato un posto al cimitero”64. Il giovane desiderato dal Regime deve essere, seppur gradualmente (anche se il ritornello de I canti di guerra, ovvero “bombe a mano e colpi di pugnal” viene ripetuto con tono nclazante), incattivito nei confronti dei nemici, del Comunismo (qui rappresentato dal simbolo della falce e martello) e per questo Padellaro è consapevole che occorre insinuargli anche il germe della violenza, della ferma disciplina e della fermezza al servizio della Patria, nonché lo sprezzo per la morte. È evidente l’ispirazione e 62

Ivi, p. 206. Ivi, p. 219. 64 Ivi, p. 43. 63

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totalitaria del testo: l’alunno capisce fin da subito da quale parte sta il bene (il fascismo) e da quale il male (il comunismo) perché è lo stesso autore che, lungo tutto il testo, glielo suggerisce: il concetto di istruzione coincidente con educazione è, come sempre, sempre rimarcato. L’ispirazione mistica prosegue e si fa evidente anche nei particolari: il vecchio sposa il nuovo,, eroi moderni, posti ad esempio dell’alunno, come Galeazzo Ciano, i quadrumviri De Bono, De Vecchi, Bianchi e Balbo sono rivestiti da un’aurea mitica e diventano un modello in cui identificarsi. Il culto dell’eroe, infatti, è uno dei temi principali della pedagogia di Padellaro: “l’aspirazione ad un mondo migliore è rinnovato, è intimamente legata ad un’altra aspirazione che è l’amore per l’eroe. Questo universo di fate dev’essere dominato da una volontà che abbia la potenza del destino, la sapienza del mago, l’inflessibilità del dominatore. Un mondo straordinario che obbedisca ad un eroe straordinario. Quest’eroe essi bramano per seguirlo, per arruolarsi nel suo esercito, per correre con lui il pericolo, per dividere con lui la gloria. Un capo, essi vogliono”65. Ogni impresa del fascismo è descritta alla maniera dei grandi eventi storici, e come ogni grande fatto il pedagogo ne sottolinea la data, da ricordare, su imitazione degli storici del passato: Padellaro cerca di creare un’atmosfera irreale, in cui fatti presenti vengono descritti con la miticità dei fatti antichi: messaggio evidente al fanciullo è quello che proprio il bambino è testimone dell’evoluzione della storia e che proprio lui è destinato a scriverne numerose e gloriose pagine. Padellaro rispetta il suo impianto filosofico anche nel suo libro di testo: dalla rivoluzione, incarnata dalla marcia su Roma, si passa al raggiungimento dell’Impero, attraverso l’impresa Abissina. “Sette mesi di guerra, sette ras sconfitti, un impero conquistato […]. Tutti hanno combattuto. Hanno combattuto i soldati e le camicie nere in Africa; e hanno combattuto gli Italiani in patria. […] S’inizia il plebiscito dell’oro. Oh, i fanciulli in quest’atto d’amore non sono stati secondi a nessuno!”66. Gli alunni destinatari del libro di Padellaro sono stati testimoni di questo grande evento e, a loro modo, vi hanno preso parte; hanno assistito ad una grande evoluzione e il pedagogo sembra voler evidenziare il cambiamento di mentalità cui anche i fanciulli si devono sottoporre: essi devono ragionare sul piano dell’Impero, l’Italia non è più una semplice Nazione e lo Stato etico di Mussolini così come teorizzato dal pedagogo ha raggiunto il suo massimo grado di perfezione e nel 65 66

N. Padellaro, La Scuola vivente, cit., p. 17. N. Padellaro, Il libro di testo della terza Elementare, cit., p. 203.

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testo l’Impero, Padellaro da sfogo ad un’accattivante retorica, propria del fascismo, con lo scopo di attrarre “i suoi alunni”: “Sui colli fatali di Roma, dopo quindici secoli, riappare l’impero. È risorta la forza di Roma. È risorto l’impero romano? È risorta la forza di Roma. È risorta la giustizia di Roma. Chi muore e risorge è immortale. L’impero è risorto perché è immortale”67. Tuttavia Nazareno Padellaro, da grande conoscitore e cultore della civiltà non si fermò ad elementi scontati e a ricalcare frasi e concetti noti a tutti e pubblicizzata dalla propaganda di regime ma volle creare nei suoi alunni una coscienza di romanità trasmettendogli fattori italici forse meno conosciuti ai più: uno di questi elementi, non di minore importanza, è l’amore per la terra e per il lavoro agricolo. Egli coglie questo aspetto, caro alla mistica fascista e al regime, che si fece promotore di bonifiche e delle cosiddette “battaglie del grano”. Padellaro non può tralasciare di infondere ai suoi alunni l’aspetto mistico dell’agricoltura, che affonda le sue radici nel paganesimo degli antichi italici: brani come “la vigna” , “la semina”, “l’albero fratello”, infondono nel bambino la sacralità della terra, vera e propria Madre, cui l’uomo stringe un legame indissolubile mediante il lavoro agricolo, onorevole e gratificante opera umana portatrice di felicità: “i canti in tempo di vendemmia sono lieti e sembrano razzi in pieno sole”68, “la seminatrice, strumento di disciplina, sa distribuire il seme con uniformità e regolarità, lo sa collocare alla profondità conveniente, a seconda della specie e grossezza dei semi stessi, e a seconda della natura dei terreni. […] Seminare è come recitare un atto di fede”69. Padellaro, facendo leva sulla commistione di sacro e profano propria della mistica, crea delle vere e proprie “parabole” profane, che indicano all’alunno la via della Verità e, mezzo verso di questa è il lavoro, strumento per mezzo del quale ogni cittadino concorre ad accrescere la propria nazione, come ben simboleggiato in “Una vanga perde la pazienza” : “è assai difficile che una vanga perda la pazienza. Il suo lavoro, infatti, non è un esercizio di pazienza? È vero che la vita della vanga è molto dura. […] Se vuoi l riso facile, lavora duro”70: il monito finale, non ammette repliche. Il libro di testo della terza elementare diviene così un libro di dottrina fascista, in cui Padellaro, in linea con la Riforma Gentile, tralascia ogni nozionismo, tutti gli esercizi di 67

Ivi, p. 206. Ivi, p. 45. 69 Ivi, p. 77. 70 Ivi, p. 131. 68

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mnemonismo tanto cari alla scuola ante riforma, trasmettendo i propri insegnamenti con un modo nuovo di insegnare. A prescindere dal messaggio fascista e dall’ispirazione totalitaria del libro di testo, l’innovazione di Nazareno Padellaro rimane fuori discussione e il metodo di insegnamento da lui proposto sembra d’altri tempi: il nozionismo, il mnemonismo e la rivalutazione delle scienze e delle matematiche forse, sono stati sin troppo recuperati dalla pedagogia moderna, a scapito del mondo favolistico, disilluso, forse più a misura di fanciullo e più stimolante per l’infanzia proposti, almeno per quanto riguarda una parte della sua opera, dal pedagogo. Un discorso a parte merita la componente cristiana del libro, indipendente dagli elementi mistici che il pedagogo inserì nel libro di testo: egli, pur consapevole della controversi età del tema religione cattolica per il regime fascista, non poté omettere di farne cenno agli alunni destinatari del libro di testo in quanto conscio della imprescindibile influenza che il cristianesimo ebbe nella cultura italiana. Sicuramente gli studi della infanzia e giovinezza del pedagogo ne influenzarono la pedagogia, facendo sì che egli vivesse una sorta di conflitto interiore tra la fede cristiana e la sua incondizionata devozione al Regime, almeno per quanto riguarda il Ventennio, visto che l’opera di Padellaro non si fermò lì, ma visse un’evoluzione dopo la Secondo Guerra Mondiale. Il Padellaro, conscio di questa scomodità della dottrina cristiana, faticosamente accettata dal regime, pone Dio al di sopra di quel piccolo universo che è, appunto, il suo libro: all’alunno ciò deve essere chiaro, fin dalla prima pagina: “entrate. Non pensate di essere attesi? Ecco il Crocifisso. Le divine braccia distese sulla Croce indicano la via del suo Amore: da oriente ad occidente. […] Ascoltate. Il Redentore esige da voi una promessa”71. Tuttavia poco spazio è dedicato a Dio, il cui primato comunque non è messo in discussione, e la divinità, grazie all’allora diffusa e sentita devozione per la fede cattolica, è posta come giustificatrice dell’esistenza del Regime: esso esiste perché Dio lo vuole, concetto che il pedagogo più volte ribadisce agli alunni. Grazie a questo espediente questi sono “costretti” a porre la propria attenzione solo e soltanto sul Duce, figura dominante di tutto il testo: questa finezza letteraria pone il libro al riparo di ogni, eventuale critica. Il Duce, protagonista per eccellenza de libro di testo, ne domina quasi la totalità: Padellaro lo mostra all’alunno in tutti i suoi aspetti, dall’aspetto paterno a quello materno, a quello eroico, spietato e affettuoso al tempo stesso. L’alunno di Padellaro ha l’impressione che quell’uomo fermo e severo sia anche, 71

Ivi, p. 4.

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e soprattutto, il suo protettore che si sacrifica per il bene di tutti e, dall’alto della sua posizione, vigili sul buon andamento dell’Italia. Con il suo linguaggio semplice, adatto ai bambini, Padellaro mostra il carattere di salvatore della patria, di super uomo nietzschiano esposto in altra sede con le complicatezze del linguaggio filosofico. Come prima sottolineato, Padellaro sa che la cultura italiana tanto deve al cristianesimo e per costruire quell’italianità voluta dal suo intento e funzionalmente vengono scelti due esempi rispondenti a questo intento; San Francesco (citato nella Conversazione telefonica tra due castagni) e Don Giovanni Bosco (protagonista de “Il grigio”) vengono scelti entrambi perché, a modo loro, “colleghi” di Padellaro: il patrono d’Italia viene visto nella sua veste di predicatore, missione simile a quella dell’educatore “Andava il Poverello d’Assisi in mezzo ad un bosco di querce secolari. […] Il Santo quel giorno meditava di aprire una scuola per gli uccelli, ai quali avrebbe voluto insegnare un po’ di alfabeto. […] Un giorno San Francesco fece una lezione agli uccelli”72; San Giovanni Bosco raccolse invece da sempre l’ammirazione di Padellaro, che appunto, svolse i suoi primi studi presso i salesiani, ordine del santo piemontese, di cui il pedagogo ammirò sempre la principale creatura: l’oratorio, che sembrava rispondere alla concezione di lavoro nella scuola, “il pensare con le mani” teorizzato da Padellaro, che non poteva fare a meno di notare i valori anticomunistici del santo, che sempre osteggiò la diffusione delle idee cui anche il fascismo era contrario. I due personaggi, oltre ai vari protagonisti in saio (quali frati che chiedono l’elemosina) rappresentano, pur nella loro mitezza, altri valori esaltati dal fascismo stesso, quali la generosità, il sacrificio, l’amore per gli altri italiani. Il tema della cristianità è poi evidente in un altro particolare della costruzione del libro: accanto alla evoluzione storica dello Stato etico fascista, c’è un percorso cristiano, che segue il calendario con le sue festività: i testi Natale, La Rane e il presepio e Resurrezione scandiscono l’anno “cristiano”, conducendo il fanciullo lungo questo percorso indipendente da quello politico-mistico. In conclusione, il libro della terza elementare, seppur rispondente alle esigenze del Fascismo, rinnegate dopo la disastrosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale dallo stesso Nazareno Padellaro, dimostra tuttavia la grandezza di questo personaggio, culturalmente evoluto e dalla spiccata varietà di conoscenze, il quale, proprio per mezzo del libro di testo, che rappresenta oltretutto un importante documento storico, si mette a 72

Ivi, p. 173.

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confronto direttamente con l’infanzia, dimostrando conoscenza del mondo emozionale e psicologico del fanciullo.

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CONCLUSIONE Questa tesi ha avuto lo scopo di riscoprire la figura di un uomo di pedagogia, nel momento storico più controverso e discusso della storia moderna italiana: un periodo in cui la storia della pedagogia visse un momento unico e di cui Nazareno Padellaro fu uno dei massimi ideatori e interpreti. L’opera di Padellaro fu sicuramente offuscata dalla cultura del dopoguerra, tesa a sopprimere i sistemi espressione del Fascismo, tra cui anche quello pedagogico. L’importanza storica di Nazareno Padellaro fu sottolineata molti anni dopo da Jurgen Charnitzky, secondo il quale, la caratteristica principale della scuola fascista è stata la diretta dipendenza della scuola dalla politica, dipendenza di cui il pedagogista italiano fu uno dei principali sostenitori e teorici: egli si servì di un discorso filosofico per legittimare questa che viene definita da Charnitzky, una peculiarità dello Stato totalitario italiano, del quale Nazareno Padellaro si sforzò di dimostrarne l’eticità. Individuata questa caratteristica, Charnitzky pone di fatto Padellaro tra gli artefici della costruzione dello Stato Fascista: egli infatti riconosce alla pedagogia, di cui Padellaro fu in quel periodo uno dei massimi esponenti, uno strumento politico di fondamentale importanza per la costruzione dello Stato Totalitario, tanto che “Durante i circa vent’anni di vita del Regime Fascista, i suoi 9 Ministri della Pubblica Istruzione, ovvero dell’educazione nazionale, votarono oltre 3500 leggi e decreti sulla scuola”1. Mediante una minuziosa analisi del periodo, Charnitzky riesce a cogliere le problematiche che, all’atto pratico, Nazareno Padellaro si trovò ad affrontare: la prima di queste fu senz’altro il conflitto tra Regime Fascista e Religione Cattolica, scontro che si svolse anche in campo scolastico; Charnitzky infatti sottolinea il ruolo ricoperto dalle scuole private cattoliche che dagli inizi del 900 avevano avuto larga diffusione e attiravano quantità innumerevoli di alunni. Conciliare queste due entità fu uno dei principali problemi da risolvere per Nazareno Padellaro che si affidò alla filosofia per giustificare l’incompatibilità del 1

J. Charnitzky, Fascismo e Scuola: la politica scolastica del Regime (1922-1943),Firenze, La Nuova Italia 1996, p. 6

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Regime Fascista con la Religione, entrambi espressione di perfezione, una a suo dire immanente, l’altra trascendente. Compatibilità di fatto possibile soltanto sul piano teorico, ma di cui Charnitzky sottolinea sin dalle prime pagine del suo testo “Fascismo e Scuola” l’irrealizzabilità, tanto che, tramite la sua indagine scolastica del periodo, egli mostra la persistente presenza e forza della scuola cattolica durante il ventennio, una presenza che il Regime Fascista non riuscì a contrastare, pur attivando misure come l’estensione dei programmi e del libro di testo unico anche alle scuole private. Proprio il libro di testo unico è un tema ampiamente affrontato dallo storico tedesco, il quale sottolinea l’importanza di un simile mezzo per lo Stato totalitario: nella sua analisi Charnitzky si sofferma sulle caratteristiche di questo che è individuato come strumento di potere, a partire dalla trattazione di “temi bellici delle conquiste del fascismo, del Duce (inviato da Dio a salvare l’Italia) e della sua famiglia”2. Lo storico tedesco mette in risalto l’atmosfera “imperiale” comunicata dal libro di testo unico e la presenza dei Balilla e piccole Italiane, che appaiono nelle illustrazioni e nelle copertine per contribuire in questo modo alla fusione tra scuola e organizzazioni giovanili fasciste; Charnitzky dà dunque un valore storico ad una componente fondamentale del libro di Nazareno Padellaro, ovvero le illustrazioni evocative del libro. L’attenta analisi consente allo storico di individuare anche gli altri temi che compongono il libro: quello religioso (tanto caro a Padellaro e frutto del suo conflitto interiore), quello agricolo, il genio italiano, il settore dell’industria, del lavoro e il tema razziale. Proprio dell’aspetto razziale Charnitzky dà una sua spiegazione oggettiva che coglie come il razzismo espresso dal fascismo sia legato principalmente all’espressione coloniale e, quindi rivolto verso l’Africa, piuttosto che agli ebrei. Egli avvalora la tesi secondo cui il razzismo fu componente anacronistica del fascismo, movimento che alle origini non fu caratterizzato da questo aspetto; esso

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Ivi, p. 406

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venne aggiunto chiaramente soltanto negli ultimi anni del Regime; infatti “la creazione dell’Asse Roma-Berlino portò inevitabilmente a uno spostamento della politica del regime in tale direzione”3. Tutto ciò è dimostrato anche dalla posizione presa da Padellaro nei confronti del razzismo che rappresenta un documento storico di elevata importanza per lo studio del fascismo; egli infatti indica come strumento educativo, il richiamo al fanciullo “incapace” fatto mediante un insulto razzista “sei un negro, oggi”; il fatto di non avere scritto “sei un ebreo” avvalora la tesi di Charnitzky, ponendo l’antisemitismo in una posizione ancor più fuori luogo rispetto al razzismo in genere. L’analisi che lo storico fa della pedagogia fascista e conseguentemente di Padellaro, mette in luce l’importanza e i limiti rappresentati al tempo stesso dell’opera di quest’ultimo: egli si distinse in un periodo in cui la pedagogia ebbe una elevata importanza quale strumento di potere. Padellaro non può essere esaminato al di fuori del suo ruolo di pedagogista del fascismo. Infatti, al di fuori di questo contesto, nonostante punte di modernità e innovazione dettate dal genio di questo personaggio, la sua pedagogia non può sopravvivere e trovare applicazione.

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Ivi, p. 472.

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