A.D. MDLXII
U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ
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CORSO DI LAUREA IN LINGUE, CULTURE E COMUNICAZIONE INTERNAZIONALE
IL PROBLEMA DELLA TRADUZIONE. IL REGISTRO LINGUISTICO IN ITALIANO E SPAGNOLO DI: LA LUNA DI CARTA DI A. CAMILLERI
Relatrice: PROF.SSA MARTA GALIÑANES GALLÉN
Correlatore: PROF. FIORENZO TOSO
Tesi di Laurea di: VALENTINA CARBONI
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
Indice
Introduzione
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Capitolo I La traduzione 1. Cos’è la traduzione 1.1. Definizione di traduzione 1.2. I principi fondamentali della traduzione 1.2.1. La traduzione di testi letterari 1.3. La traduzione come atto comunicativo 1.4. La traduzione come operazione testuale 1.5. Il metodo traduttore
4 5 6 10 12 14 17 23
Capitolo II Andrea Camilleri e la figura di Salvo Montalbano 2. Andrea Camilleri: vita e opere 2.1. Camilleri e Montalbano. Successi e critiche 2.2. La luna di carta: trama e commento del romanzo 2.3. Andrea Camilleri e il suo dialetto
37 38 53 61 65
Capitolo III Il problema del registro linguistico in La luna di carta e La luna de papel 3. Il registro linguistico 3.1. La luna di carta e La luna di papel: testi a confronto 3.2. Esempi 3.3. Omisión. Due casi particolari
70 71 85 87 95
Conclusioni
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Bibliografia
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1
Introduzione L’argomento che verrà trattato in questo elaborato riguarderà un confronto tra due testi. Da un lato quello in italiano e dall’altro la sua traduzione in lingua spagnola. Il testo dal quale si è scelto di partire per effettuare l’analisi è La luna di carta, ovvero uno dei numerosi romanzi scritti da uno degli autori italiani più importanti non solo in patria ma anche all’estero, Andrea Camilleri. L’elaborato si andrà a sviluppare su tre capitoli. Il primo di questi tratterà il tema della traduzione. Si cercherà di capire cosa significhi tradurre, partendo dal fatto che la traduzione come disciplina ha avuto una vera e propria evoluzione nel corso degli anni fino ad arrivare ai giorni nostri in cui ormai si è pienamente affermata acquisendo sempre maggior importanza. Si introdurranno anche le posizioni di vari autori che, in qualche modo, tentano di dare una definizione al termine traduzione. Inoltre ci si soffermerà sul concetto di fedeltà ed equivalenza traduttiva che si intersecherà con quello di finalità e scopo della traduzione che come si vedrà, sarà quello di arrivare ad un determinato destinatario nella maniera più corretta possibile. Di seguito si parlerà dei principi fondamentali sui quali si regge la traduzione, li si analizzerà uno per uno cercando di capire a cosa si riferiscano e quali vantaggi apportino alla traduzione. Ci sarà poi un paragrafo dedicato alla traduzione intesa come atto comunicativo, in cui si ribadirà il fatto che una traduzione non può e non deve essere intesa solo come una semplice codifica di testi, ma al contrario deve tener conto dei destinatari a cui è diretta, i quali evidentemente devono comprendere il significato di quanto espresso. La traduzione che verrà fatta dovrà tener conto non solo delle varietà linguistiche chiaramente presenti tra una lingua ed un’altra, ma dovrà essere fondamentale anche considerare le differenze culturali presenti tra i due idiomi. Un buon traduttore in questo caso dovrà avere una conoscenza approfondita non solo della sua lingua madre e della lingua in cui traduce, ma dovrà essere dotato di una altrettanto accurata conoscenza delle due lingue da un punto di vista culturale. È fondamentale infatti che il destinatario a cui è diretto il testo capisca anche le sfumature più sottili di una traduzione e che ritrovi in essa anche le caratteristiche che sono parte integrante della sua cultura di appartenenza. Altro tema che si affronterà nel primo capitolo sarà quello riguardante la traduzione come operazione testuale. In questo caso si introdurranno alcuni concetti chiave come quello di coerenza e coesione, ma anche di tema e rema. Elementi questi, chiaramente importanti in
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un testo, affinché questo risulti dotato di una certa progressione e consecuzione negli aventi e nelle azioni espresse. Un testo privo di queste caratteristiche sarà un testo scarsamente dotato di quell’unità di significato globale necessaria per conferire omogeneità al testo medesimo. Come ultima parte del primo capitolo si andrà ad analizzare il così detto metodo traduttivo. Si cercherà di verificare i principali metodi attraverso cui si può tradurre, spaziando dal metodo prettamente letterale a quello libero, interpretativo o filologico. Oltre a ciò si individueranno le posizioni espresse da vari autori sul tema delle tecniche traduttive, delle possibili strategie da adottare, e sui possibili problemi ed errori che possono presentarsi in una traduzione e che un traduttore deve saper gestire e risolvere. Tra queste varie posizioni come si vedrà spiccheranno quelle di Vinay e Darbelnet, di Newmark, di Venuti, di Presas, di Hurtado Albir ecc. Per quanto riguarda il secondo capitolo invece è possibile dire che questo si concentra su quella che è la figura dell’autore dei testi presi in esame per effettuare l’analisi, cioè Andrea Camilleri. Si procederà col dare accenni e notizie sulla sua biografia mettendo anche in risalto i numerosi romanzi scritti dallo stesso autore. Inoltre si cercherà di analizzare la figura del protagonista della maggior parte dei libri di Camilleri, cioè il commissario Salvo Montalbano. Si proverà ad analizzare la sua figura partendo dalla sua infanzia, passando per la maggiore età, fino ad arrivare alla sua occupazione di commissario della questura della città di Vigàta. Si tenterà di comprendere le abitudini del commissario, il suo rapporto con i colleghi del commissariato nonché il suo rapporto con le donne, di cui è grande ammiratore e estimatore. Si andrà a sottolineare proprio a questo proposito il rapporto che egli instaura con le due donne protagoniste di Luna di carta, un rapporto di attrazione e complicità. Nonostante le tentazioni però il commissario si dimostrerà sempre fedele alla sua fidanzata Livia per la quale nutre un profondo amore e rispetto. Di seguito si andranno ad approfondire quelli che sono stati i successi ma anche le critiche rivolte sia all’autore Camilleri che al suo personaggio più fortunato, Montalbano appunto. Per farlo, ci si servirà di due testi dedicati espressamente a Camilleri, due libriinterviste, in cui l’autore siciliano analizza la sua evoluzione di scrittore. Dagli inizi, in cui nessuno voleva pubblicare i suoi lavori perché scritti quasi totalmente in siciliano, alla svolta che successivamente ebbe la sua carriera, fino al grande successo ottenuto con Montalbano, tradotto e pubblicato in moltissime lingue. Uno dei concetti su cui ci si soffermerà poi, è anche quello che lo stesso scrittore definisce della “sicilitudine”. L’essere siciliani, appartenere a questa cultura, sembra voler dire per lo scrittore avere una marcia in più. Vuol dire avere delle caratteristiche sia positive che negative del tutto diverse rispetto ad altri.
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L’autore inoltre si sofferma anche sul cambiamento della Sicilia. Rapporta lo stato sociale in cui si trovava la regione molti anni addietro, con lo stato degli ultimi anni. Nota i miglioramenti che soprattutto per quanto riguarda l’omertà sono stati fatti. Mentre prima la maggior parte della persone si facevano “i fatti loro”, non denunciando i comportamenti malavitosi, ora è diverso, si decide di rivolgersi sempre più spesso alle autorità per permettere alla giustizia di fare il suo lavoro. Come si è anticipato però Camilleri ha ricevuto anche delle critiche. Si riporteranno pertanto alcune pozioni contrarie nei confronti sia dell’autore, che di Montalbano. Tra queste ci sono quelle di due giornalisti: Merlo e Medail, ma anche dello scrittore Vincenzo Consolo. Il capitolo si concluderà con il riassunto del testo La luna di carta, in cui appunto si andranno a narrare i passaggi più importanti e decisivi per capire la trama del libro, a cui seguirà un breve commento finale. In ultima analisi si parlerà in modo sintetico del dialetto siciliano utilizzato da Camilleri, riportando le casistiche più comuni riscontrate nel testo con un’attenzione particolare per uno dei personaggi più singolari del romanzo cioè Catarella. Il tutto verrà supportato da alcuni esempi tratti appunto da La luna di carta. L’ultimo capitolo dell’elaborato riguarderà in maniera specifica il confronto tra i due testi, italiano e spagnolo, con l’analisi del registro linguistico. Inizialmente si cercherà di evidenziare alcune posizioni espresse sull’argomento da alcuni autori. Tra gli altri si citeranno Hatim e Manson, Eggins, Milroy e Milroy, Benavent ecc. Ma in modo particolare si parlerà dello studio effettuato da Halliday, il quale come si vedrà, si concentrerà proprio sul registro linguistico parlando dei differenti aspetti che possono caratterizzare una situazione, introducendo così gli elementi di modo, campo e tono. Di seguito si procederà col confronto effettivo tra La luna di carta e La luna de papel in cui si valuterà la correttezza di alcuni elementi quali coerenza e coesione, ma anche la correttezza nel riportare nella traduzione, il reale messaggio comunicativo espresso dall’originale. Per concludere si riporteranno gli esempi con relativo commento, tratti dalla comparazione dei due testi, evidenziando alcuni problemi di registro linguistico riscontrati tra le due lingue.
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CAPITOLO I
LA TRADUZIONE
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1. Cos’è la traduzione
In questo primo capitolo, si andranno a introdurre i principi della traduzione, la sua definizione, i relativi concetti base ma anche la visione della traduzione sotto l’aspetto comunicativo. Per lunghi secoli la traduzione è esistita di fatto senza nessuna regola particolare. Così nei grandi trattati o nei manuali di linguistica non c’è né riga né capitolo che faccia cenno alla traduzione come operazione linguistica. Un simile stato di cose poteva perdurare finché l’interprete restava, nella gerarchia diplomatica, un semplice subalterno considerato con un po’di disprezzo e finché la maggior parte dei traduttori continuava ad essere qualcosa tra “l’artigiano” e il “lavoratore a domicilio”, ovvero una categoria di dilettanti che lavorassero più che altro per la gloria. Tutto questo oggi non ha più senso in un mondo nel quale i traduttori rappresentano una categoria professionale molto vasta, la cui formazione si compie in un numero sempre crescente di scuole interpreti. La traduzione quindi, dopo essere rimasta a lungo una sorta di occupazione secondaria, è oggi diventata un fenomeno di massa in una civiltà in cui superare il muro linguistico è più difficile che non superare il muro delle distanze1. È solo a partire dagli anni Trenta che gli studiosi hanno iniziato a ritenere importante l’analisi di questa disciplina. Fino ad allora infatti lo studio sulla traduzione era stato caratterizzato dalle riflessioni che i traduttori eseguivano su ciò che essi stessi chiamavano la loro “arte” e quindi solo in quanto tale valutabile. Pertanto obiettivo e interesse dei traduttori risultava essere quello di motivare e giustificare le loro scelte traduttive personali. Le traduzioni venivano messe a confronto, se ne discuteva la maggiore o minore fedeltà al testo di partenza, si analizzavano alcuni dettagli strutturali o lessicali e si concludeva spesso concordando sull’impossibilità di realizzare una traduzione che fosse allo stesso tempo buona e rispettosa del testo originale2. Successivamente lo studio e l’analisi di questa disciplina si sono evoluti, fino ad arrivare ai giorni nostri in cui tutto ciò che riguarda il campo della traduzione si è affermato. L’apice di questi studi si è avuto solo negli anni Sessanta, anni in cui inizia una riflessione più attenta e assidua, per poi arrivare agli anni Ottanta, in cui non solo si applica lo studio 1 2
G. Mounin Teoria e storia della traduzione, Torino, Giulio Einaudi editore, 1965, pp. 13-14. P. Faini, Tradurre dalla teoria alla pratica, Roma, Carocci editore, 2004, p.11.
6 prettamente teorico come era stato fatto fino a quel momento, ma si procede anche con uno studio di tipo empirico, sul campo, che consente di percepire le scienze linguistiche molto più vicine alle necessità e ai bisogni individuali. È proprio grazie a questi studi più recenti che è possibile esporre alcuni dei principi base che caratterizzano la traduzione, ma anche le tecniche e le strategie di traduzione da adottare e i problemi o gli errori che possono generarsi nella stessa traduzione. I recenti studi sono legati non solo a questi aspetti, ma anche alla traduzione come attività comunicativa, e come processo tra i testi, il cui fine è arrivare ad un destinatario che non conosce una data lingua o una data cultura. Sicuramente è possibile affermare che il tramite tra i due testi (l’originale e quello tradotto) è il traduttore. È diffusa l’opinione, benché non sia universale, che lo scopo principale del traduttore3 consista nel produrre sui suoi lettori, per quanto possibile, lo stesso effetto prodotto sui lettori dell’originale. Proprio questa opinione sembra porre fine ad una controversia tipica del XIX secolo, se la traduzione dovesse tendere versa la lingua di partenza o verso quella di arrivo e di conseguenza alle dispute a favore della traduzione fedele in opposizione a quella bella, letterale contro quella libera, della forma contro il contenuto, che ne scaturiscono. Tale principio richiede immaginazione e intuizione da parte del traduttore che non deve identificarsi col lettore dell’originale ma deve entrare in empatia con lui, tenendo presente che può reagire o partecipare in forme a lui estranee. Il traduttore dovrebbe produrre una traduzione diversa dello stesso testo a seconda dei diversi tipi di pubblico. Questo principio sottolinea l’importanza del fattore psicologico, ma è difficile verificarne il risultato. Per farlo sarebbe necessario sapere come reagisce ciascun lettore.
1.1. Definizione di traduzione
Parlando di traduzione, il primo elemento da considerare è certamente la sua definizione. Secondo Hurtado Albir la traduzione può essere intesa come “un proceso interpretativo y comunicativo de reformulación de un texto, que se desarrolla en un contexto social”4. Secondo Nida5 invece la traduzione è la riproduzione nella lingua di arrivo, ovvero la lingua verso la quale si effettuata la traduzione, dell’equivalente naturale più prossimo al
3
P. Newmark, La traduzione: problemi e metodi, Milano, Garzanti editore, 1988, pp. 30-31. A. Hurtado Albir, Enseñar a traducir, Madrid, Edelsa Grupo Didascalia, 1999, p. 30. 5 E. Nida, Toward a Science of Translation, Brill, Leiden, 1964, citato da Faini, Tradurre...., p. 14. 4
7 messaggio comunicato nella lingua di partenza, quella del testo originale. Per Newmark6 invece con traduzione si intende il tentativo di sostituire un messaggio e/o un enunciato scritto in una lingua con lo stesso enunciato e/o messaggio in un’altra lingua. Ogni traduzione, continua ancora Newmark, comporta una certa perdita di significato, per una serie di fattori. Provoca infatti una continua tensione, una dialettica, un contrasto basato sulle limitazioni imposta da ciascuna lingua e la perdita fondamentale si ha in un continuo oscillare fra “ipertraduzione” (aumento dei dettagli) e “ipotraduzione” (aumento della generalizzazione). In primo luogo, se il testo descrive una situazione che presenta elementi tipici dell’ambiente naturale, delle istituzioni e della cultura della sua area linguistica, si verifica una inevitabile perdita di significato in quanto il trasferimento o piuttosto la sostituzione con la lingua del traduttore può essere solo approssimativa. A meno che non esista già un equivalente traduttivo accettato. La seconda e inevitabile fonte di impoverimento consiste nel fatto che due lingue, sia nelle loro caratteristiche fondamentali che nelle loro varietà sociali, hanno nel contesto, sistemi lessicali, grammaticali e fonetici diversi. In terzo luogo, l’uso individuale del traduttore e quello dell’autore non coincidono. Ognuno attribuisce spesso ad alcune parole significati “privati”. Il traduttore scrive normalmente in uno stile che gli è naturale, si può sperare in una certa eleganza e sensibilità, a meno che no lo impedisca il testo. Anche Venuti7 parla di traduzione. Secondo lui infatti la traduzione, è un processo attraverso cui i significati che vanno a costituire il testo originale vengono “rimpiazzati” dai significati della lingua in cui si traduce e a cui il traduttore cerca di dare un’interpretazione. Entrambi i testi inoltre (l’originale e quello tradotto) sono caratterizzati da elementi linguistici e culturali diversi e questi ovviamente vanno a destabilizzare e a creare problemi nell’atto del tradurre. Lo scopo principale della traduzione, dice ancora Venuti, è quello di restituire ad un’altra cultura le caratteristiche del testo originale. La traduzione non è un atto di comunicazione che avviene in maniera semplicistica, ma è un’interpretazione che subisce alcuni limiti tra cui ad esempio il tipi di pubblico a cui è indirizzata.
Più o meno approssimativamente si potrebbe dire che, l’atto del tradurre può essere assimilato ad una transcodificazione e cioè: un messaggio nasce in un dato codice questo codice viene decodificato e la fase successiva è la ricodificazione del messaggio in un nuovo codice, che è poi quello di arrivo. Posta in questi termini la questione sembrerebbe abbastanza semplice. In realtà non è così perché come oramai si sa nell’atto del tradurre ci si confronta 6 7
P. Newmark, op. cit., pp. 24-26. L. Venuti, The Translator’s Invisibility, Abington, Routledge, 2008, pp. 13-14.
8 non solo con quello che è il lessico ma anche con tutta una serie di vari fattori, come il patrimonio sintattico, stilistico, idiomatico che sono parte integrante di una data cultura spesso anche molto diversa dalla cultura del testo di origine. La traduzione è senza dubbio determinata dalla sua finalità che chiaramente è quella di arrivare ai vari tipi di destinatari, tanto che a questo punto si potrebbe parlare di regola dello scopo. Ma collegato a questo tema, vi è anche, e forse soprattutto quello di fedeltà traduttiva. Nel corso della storia e dei secoli la fedeltà, intesa come relazione che si stabilisce tra il testo originale e la sua traduzione, appare come la nozione chiave delle riflessioni sul problema della traduzione. Parlando di fedeltà pertanto si può dire che essa esprime l’esistenza di un vincolo per l’appunto tra il testo originale e la sua traduzione ma non definisce la natura di questo vincolo. Pertanto questo termine (fedeltà) è solito essere indicato come assoggettato al testo originale (generando quindi una traduzione letterale) e in opposizione alla libertà di traduzione. Il concetto di fedeltà può essere caratterizzato anche da alcune dimensioni cioè: la soggettività (il soggetto traduttore), la storicità (le ripercussioni del contesto socio-storico) e la funzionalità (la tipologia testuale, la finalità della traduzione, ecc). Anche Nida8 parla di fedeltà traduttiva e un aspetto di quella che egli considera come “fedeltà” al testo è da individuare in una forma di equivalenza che egli definisce “dinamica”, in quanto deve essere continuamente adeguata per risultare sempre funzionale e poter essere trasmessa al ricevente la globalità del significato testuale. Tale equivalenza dinamica si contrappone al concetto di “equivalenza formale” che egli ritiene limitata e dunque meno adeguata. Anche la stessa nozione di equivalenza è stata a lungo dibattuta, molti sono stati gli studiosi ad utilizzare il termine, ad esempio secondo Newmark9 per quanto coloro che si attengono al principio dell’effetto equivalente tra testo originale e testo tradotto supportino fermamente questa idea, è noto che ci sono casi in cui non si può ottenere tale effetto. Se ad esempio un testo non letterario descrive, una particolarità della lingua in cui è scritto, sarà necessario spiegarla al lettore della traduzione, a meno che non sia così insignificante da poter essere tralasciata. Inoltre, è improbabile che un testo non letterario su un aspetto culturale noto al lettore dell’originale ma non a quello della traduzione produca un effetto equivalente, soprattutto se originariamente era diretto solo al primo lettore. Questo termine comunque può essere usato sia nella sua dimensione linguistica sia in connessione con aspetti di varia natura, ad esempio equivalenza come esperienza accettabile
8 9
E. Nida, Toward a Science of Translation, Brill, Leiden, 1964, citato da Faini, Tradurre..., p. 14. P. Newmark, op. cit., p. 30.
9 sia dalla cultura di partenza che da quella di arrivo. Indipendentemente dalla sua natura comunque l’equivalenza si basa su due presupposti10 importanti:
1. una presenza testuale originale 2. una rappresentazione di questa presenza testuale originale nell’ambito culturale di arrivo.
In generale in ogni caso si può affermare che: il termine equivalenza, lo si può utilizzare per riferirsi alla relazione che viene a stabilirsi nel discorso tra unità di traduzione della lingua di partenza e della lingua di arrivo. Fondamentale in questo contesto sembra essere la presenza di due elementi l’uno funzionale all’altro: interpretazione e comunicazione. L’interpretazione, mira a estrarre il senso dal testo di origine, inserendolo, ai fini della comunicazione, nel contesto della sua realtà culturale. Gli studi più recenti sull’argomento sottolineano come sia sufficiente che avvenga il cambiamento di un elemento nel rapporto tra testo di partenza e testo di arrivo affinché questo determini il cambiamento di altri elementi, con il risultato di ottenere una traduzione la cui caratteristica non sarà più l’equivalenza, bensì l’adeguatezza. Il testo tradotto a questo punto dovrà “funzionare” in rapporto al pubblico di arrivo. Dovrà pertanto risultare adeguato, in quanto l’aspetto che si intende privilegiare è l’aspetto funzionale del testo e il fine che si intende raggiungere è l’efficacia della comunicazione. L’intento ad ogni modo sembra apparire chiaro: arrivare a stabilire un equilibrio e una sorta di equivalenza che rispetti le norme interne della comunicazione e che tenga conto di eventuali vincoli imposti al traduttore come per esempio caratteristiche del lettore a cui il testo è destinato, esistenza di forme di censura, necessità di adeguamento a un preciso ambito culturale ecc. Sempre in riferimento al problema della funzionalità11, è importante vedere che nella traduzione è fondamentale verificare perché si traduce, quali sono le finalità e lo scopo del tradurre. Le ragioni possono essere diverse; sostanzialmente si traduce perché le lingue e le culture sono diverse l’una dall’altra e quindi la traduzione è indispensabile per colmare le differenze linguistiche e culturali. Ma non solo, si traduce anche per comunicare e dunque per abbattere la barriera di incomunicabilità dovuta proprio a questa differenza linguistica e culturale. L’atto del tradurre pertanto comporta, oltre al confronto tra due sistemi linguistici diversi anche il confronto tra due culture diverse. Se la comprensione testuale, rappresenta 10 11
P. Faini, op. cit., pp. 30-31. Ibidem, pp. 31-32.
10 uno degli obiettivi principale della traduzione, il raggiungimento di questo stesso obiettivo passa attraverso il rispetto dei dati della cultura di partenza, e il loro successivo inserimento nel contesto culturale di arrivo. Tutto ciò ha lo scopo di far si che chi si avvicina al testo tradotto non avverta l’imposizione di una cultura che potrebbe essergli profondamente estranea. In ogni caso un dato è certo, la traduzione è necessaria, si traduce sempre, ovunque e comunque, si traduce moltissimo e di tutto.
1.2. I principi fondamentali della traduzione
È noto che la traduzione si fonda su alcuni principi fondamentali dai quali non si può prescindere; Hurtado Albir12 fa una classificazione delle regole più importanti da seguire, pertanto parla di: •
Supremazia della comunicazione e adeguamento nei confronti della lingua tradotta
•
Il significato testuale
•
L’intervento del contesto
•
Gli aspetti culturali e il destinatario della traduzione
•
La finalità della traduzione
•
La traduzione come processo mentale
In questi principi Hurtado Albir racchiude tutti i principali aspetti che compongono il processo di traduzione, sono elementi tutti legati tra loro che vanno dal considerare la traduzione come atto di comunicazione in cui, un destinatario che non conosce la lingua nella quale è formulato un testo possa arrivare a capire il significato di questo stesso testo. Al momento di riprodurre la lingua e la cultura del testo, il traduttore deve considerare che non si tratta solo di plasmare e riprodurre gli elementi linguistici in se ma si tratta di riprodurre le intenzioni comunicative che i testi intendono esprimere. Fine specifico è poi quello di abbattere le barriere di incomunicabilità che sorgono tra individui di lingue diverse, bisogna però considerare anche il fatto che il traduttore necessita di una adeguata competenza di 12
A. Hurtado Albir, Traducción y Traductología, Madrid, Ediciones Cátedra 2004, pp. 31-36.
11 comprensione della lingua di origine ma anche di una certa competenza di espressione nella lingua tradotta, ciò che si richiede è pertanto una adeguata abilità linguistica. Anche mettere in evidenza che il destinatario è il principale protagonista nella traduzione è fondamentale, egli può appartenere non solo a sfere linguistiche diverse, ma anche a culture diverse, perciò la conoscenza di elementi extralinguistici è fondamentale in questo campo. Le conoscenze extralinguistiche variano a seconda del testo e sono indispensabili per poter tradurre; senza di esse infatti il traduttore non può ne capire il testo originale, ne riformularlo in modo corretto. Inoltre in questi principi si intende sottolineare anche come la traduzione faccia attivare quelli che sono i processi mentali e cognitivi fondamentali per comprendere il testo originale e trasformarlo poi in testo tradotto. Il traduttore deve effettuare un complesso processo mentale che consiste nel comprendere il significato che il testo trasmette, per poi riformularlo in un’altra lingua. Si tratta perciò di interpretare prima per poter comunicare poi. Da questi principi derivano diversi tipi e modalità di traduzioni, come illustra sempre Hurtado Albir13. I tipi di traduzione sono legati alla traduzione di testi che appartengono a determinati ambiti socio-professionali e a caratterizzarli sono soprattutto il campo tematico e il genere. Il campo tematico viene inteso come la variazione linguistica che interessa gli ambiti professionali o sociali. In questo senso il grado di intervento del campo tematico nella configurazione dei generi testuali è decisivo per definire se si tratta di traduzioni di testi specializzati (traduzioni di testi scientifici, giuridici ecc.) o di testi non specializzati (testi letterari, pubblicitari ecc.). Ogni tipo di traduzione appartiene quindi a uno specifico ambito. Per quanto riguarda il genere, è possibile intenderlo come intimamente legato al campo e dunque come raggruppamento di testi appartenenti, appunto, ad uno stesso campo o modo, che condividono la funzione e le convenzioni di un testo. Parlando invece di modi di tradurre, è possibile dire che uno stesso testo può essere tradotto in modi differenti, in questo caso ci si riferisce alla variazione che si produce nella traduzione a seconda delle caratteristiche del modo del testo originale e della traduzione. Si può dire quindi che: se il testo originale è scritto, la traduzione può avvenire per iscritto o alla vista, se è orale avviene simultaneamente o consecutivamente. È possibile parlare anche delle principali modalità di traduzione. Fra di esse possiamo distinguere un modo di tradurre semplice, se viene mantenuto quello del testo originale; uno
13
Ibidem, pp. 29-30.
12 complesso, se è presente un cambio di modo nel tradurre rispetto al testo originale; o subordinato quando si produce già nel testo originale una mescolanza diversa di modi. Per concludere si può dire che i tipi di traduzione hanno a che vedere con funzionamenti testuali differenti dal testo originale in relazione con le categorie di genere, campo e funzione. Nelle modalità di traduzione a cambiare è il modo di tradurre che è tanto importante da condizionare ogni tipo di modalità e richiede una certa abilità comunicativa da parte del traduttore.
1.2.1. La traduzione di testi letterari
In questo elaborato si metterà in luce in particolare quella che è la traduzione di testi letterari. I testi letterari si caratterizzano per una certa carica estetica che punta a trasmettere emozioni al lettore. In questo caso le attitudini del traduttore generale e di quello specificamente letterario sono differenti e questo proprio perché i testi letterari hanno come peculiarità principale la carica estetica appena citata. Così come il traduttore di testi specializzati, anche il traduttore di testi letterari necessita di competenze specifiche, ad esempio ampie conoscenze letterarie e culturali. Queste competenze permetteranno al traduttore di confrontarsi con i vari problemi che possono presentarsi nel momento stesso della traduzione, quindi problemi che possono riguardare lo stile, l’uso di metafore ecc. Ma anche problemi riguardanti le condizioni socioculturali del testo di origine ecc. La traduzione letteraria inoltre può avere diverse finalità che dipendono, dallo status dell’opera letteraria, dal destinatario e dal così detto incarico della traduzione ad esempio una traduzione eseguita per un pubblico colto, giovane ecc. Ad ogni modo è possibile dire che la maggior parte delle riflessioni sulla traduzione che si sono avuti nel corso della storia ruotano proprio attorno alla traduzione letteraria. Il 1976 poi, fu una data importante per la traduzione letteraria in quanto all’Università Cattolica di Lovaina si celebrò una conferenza intitolata Letteratura e Traduzione, alla quale intervennero vari autori di differenti paesi che diedero il loro contributo e espressero i loro pareri proprio in materia di traduzione letteraria. Secondo questi autori la letteratura deve essere considerata come un sistema complesso e dinamico. Gli stessi autori inoltre, difendono un’orientazione di tipo descrittiva e esplicativa della traduzione di testi letterari, ma pongono anche l’accento sull’importanza dell’analisi della
13 traduzione letteraria all’interno degli studi riguardanti la traduzione. È possibile anche affermare che esiste una grande vastità di generi letterari con i suoi corrispondenti sottogeneri, tra questi abbiamo: saggi (storici, filosofici ecc.), narrativa (novella storica, novella di avventure ecc.), poesia (drammatica, lirica ecc.), teatro (commedia, tragedia, dramma ecc)14. Inoltre, sempre in base al tema della traduzione letteraria15, si può dire anche che per la grande massa della sua produzione questa, occupa il primo posto fra tutti i vari generi di traduzione possibili. Il problema della traduzione letteraria, fu alimentato soprattutto dal conflitto fra la tradizione della versione letterale di una traduzione e l’abitudine al libero adattamento. È il perenne problema della fedeltà opposta alla bellezza. Ma la linguistica moderna permette di rispondere con grande precisione ad un interrogativo fondamentale: che cosa, di un testo, si deve tradurre, cioè che cosa si deve rendere in un’altra lingua? La risposta è che bisogna tradurre tutto il testo. Ma questa risposta in realtà non appare molto esauriente perché da questa potrebbe scaturire un’altra domanda e cioè: in che cosa consiste tutto il testo? In realtà si potrebbe affermare che questo è derivato dal contesto che è l’insieme degli elementi che vanno a caratterizzare e a chiarire le varie componenti di un testo. Sempre sulla traduzione letteraria è possibile dire che non appena si traducono testi non contemporanei e estranei alla nostra attuale civiltà, le regole linguistiche e stilistiche impongono la scelta di un registro di traduzione, cui ci si deve poi attenere fedelmente. Se si prendesse come esempio quello di un traduttore che traduce in italiano, ci si potrebbe trovare di fronte alla possibilità di scegliere tra due fondamentali e ben distinti registri di traduzione, e cioè: o si “italianizza” il testo, decidendo di trasmetterlo al lettore come se fosse un testo scritto direttamente in italiano da un italiano e per gli italiani dei nostri tempi, o si cerca di estraniare il lettore italiano dal suo mondo, decidendo di fargli leggere il testo senza permettergli di dimenticarsi che si trova di fronte ad un’altra lingua, a un altro secolo, a una civiltà diversa. Di questa due fondamentali posizioni entrambe possono essere ugualmente legittime e lecite, secondo i casi. Il solo “crimine” letterario è quello di passare dall’una all’altra senza che l’originale giustifichi quel passaggio.
14 15
Ibidem, pp. 63-64. G. Mounin, op. cit., pp. 134-140.
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1.3. La traduzione come atto comunicativo
La traduzione come si sarà capito oltre alle altre cose può essere definita come un atto di comunicazione la cui finalità è che un destinatario che non conosce ne la lingua ne la cultura nella quale è formulato un testo possa accedere a questo testo e quindi, possa arrivare a capirlo. La traduzione è senza dubbio un atto complesso di comunicazione in quanto si realizza tra due spazi comunicativi differenti (quello di partenza e quello di arrivo) all’interno dei quali oltretutto intervengono molte variabili. La traduzione è un’unità linguistica comunicativa che si sviluppa sempre all’interno di un contesto sociale e che è influenzata dagli elementi che intervengono nella comunicazione. Di conseguenza nel momento in cui si analizza la traduzione come atto di comunicazione è importante interrogarsi per prima cosa, su quali siano questi elementi che intervengono nell’atto di comunicazione e in seguito qual è la relazione della traduzione con il contesto e che funzione compie all’interno di questo contesto. In quest’atto di comunicazione che è la traduzione, si producono differenze di tipo linguistico e culturale. In realtà però posso intervenire ulteriori differenze. Ad esempio nel caso della traduzione scritta è importante considerare che il testo originale è stato scritto da un autore utilizzando una determinata lingua, in un determinato contesto, in una determinata epoca e per un determinato destinatario. Il traduttore avrà il compito di riprodurre quel testo con i mezzi dell’altra lingua, per un altro destinatario e forse in un’altra epoca.
Ad ogni modo si può affermare che le civiltà sono spesso impenetrabili fra loro. Basti considerare il lungo sforzo compiuto dalla civiltà europea per studiare le altre civiltà. Stando a questo ci si rende conto ben presto che una disciplina come l’etnografia16 ad esempio, nella sua dialettica di tentativi e di insuccessi, di ipotesi e verifiche, rappresenta uno sforzo immenso compiuto da una civiltà per trovare lo strumento col quale poter aprire una breccia nel muro che la separava dalle altre. Tutto ciò che è conquistato dall’etnografia lo è anche dalla traduzione. Se dunque chiamiamo etnografia la descrizione completa dell’intera cultura di una data comunità e se chiamiamo culture i complessi omogenei di attività e di istituzioni con i quali quella comunità si manifesta, si dovrà riconosce che l’etnografia si assume il compito di descrivere tutte le situazioni e tutti i contesti di cui il traduttore può aver bisogno. Ciò può servire ad inquadrare gli enunciati che cerca di tradurre, cioè per cogliere con
16
Ibidem, pp. 118-119.
15 maggior esattezza i significati degli enunciati stessi. Pertanto, più l’etnografia moltiplica le relazioni fra una certa cultura e un’altra, più essa assicura la compenetrazione tra le due civiltà. La loro comprensione reciproca non è data a priori, ma è il prodotto di un lungo processo di comunicazione. In quest’ottica si è parlato anche di quella che può essere la mancanza di neutralità da parte del traduttore. Se il traduttore è un individuo condizionato ideologicamente, la traduzione non potrà essere sicuramente un’attività neutra. L’autore Venuti17 parla anche di invisibilità del traduttore, che può essere presente tanto nella concezione più tradizionale della traduzione, nella quale il traduttore deve essere invisibile per rendere visibile l’autore del testo originale e i significati del testo originale, così come nella concezione che pretende che la traduzione si debba leggere come un testo originale che nasconde il suo autore (che è poi il traduttore) senza che egli compaia da nessuna parte. Questa invisibilità del traduttore secondo lo stesso Venuti contribuisce a produrre quelle che sono le barriere culturali, andando a generare una perpetua incomunicabilità. I vari tipi di traduzione afferma ancora Venuti, sono differenti dalle composizioni originali sia per intenzione che per effetto. Il punto sostanzialmente sembra essere il fatto che la natura dell’autorità del traduttore come autore, rimane vaga e non propriamente formulata e ciò evidentemente mette in ombra il lavoro del traduttore stesso. Si può dire quindi che la traduzione è sia nella sua forma scritta che nella sua forma orale un atto di comunicazione importante, che da la possibilità a utenti di varia nazionalità e cultura di potersi capire a vicenda e di poter colmare lacune profonde che in altra maniera andrebbero sicuramente a formarsi. Il traduttore gioca in questo caso un ruolo fondamentale in quanto risulta essere il tramite, il mezzo attraverso cui queste differenze possono essere risolte. È importante quindi che il traduttore sia adeguatamente preparato a risolvere tutte le possibili variabili di natura linguistica e culturale che gli si possono presentare nel momento in cui dovrà tradurre. Ad ogni modo si è anche potuto vedere che l’elaborazione di un testo meta deve tener in conto due principi fondamentali: il primo, è quello della correzione che si rivolge al compimento delle regole del sistema della lingua; il secondo è quello dell’adeguazione, che tiene in conto dei fattori non linguistici che ruotano attorno al testo. Di questi fattori che
17
L. Venuti, op. cit., p. 6.
16 determinano l’adeguamento del testo alla situazione comunicativa, si sono occupate alcune discipline, tra le quali la Sociolinguistica18. L’apparizione di questa disciplina nella decade degli anni sessanta del XX secolo iniziò a porre delle questioni su un principio importante: la possibilità di studiare le lingue prendendo come modello un parlante - ascoltatore ideale. Per la Sociolinguistica l’unica descrizione valida del sistema è quella che parte dall’osservazione del vero uso della lingua che fanno i parlanti. In sostanza accanto alla presenza della linguistica tradizionale, si posiziona la Sociolinguistica, che considera la lingua come un sistema di sistemi che presentano differenze interne più o meno profonde determinate da fattori estranei alla stessa lingua: la geografia, la gerarchia sociale e il tipo di relazione che si stabilisce tra gli interlocutori. Queste differenze si materializzano nelle denominate varietà diatopiche, diastratiche e diafasiche, concetti apportati dalla Sociolinguistica per comprendere il funzionamento delle lingue. •
Varietà diatopiche. Vengono determinate dal fattore geografico, responsabile delle differenze fonetiche, lessicali e morfosintattiche. Ad esempio lo spagnolo parlato nelle Canarie presenta caratteristiche peculiari che lo differenziano dallo spagnolo parlato in altre località geografiche. Non si tratta solo di differenze di intonazione chiaramente percettibili, ma anche di altri tipi di diversità che fanno riferimento a tutti i piani linguistici come la presenza del seseo, differenze lessicali dovute alla provenienza di certi vocaboli dal portoghese ecc. Le varietà diatopiche non costituiscono neppure un insieme di sistemi omogenei, perché all’interno di ognuna di loro si avvertono una serie di similitudini dovute a fattori di popolazione, il grado di informazione, l’occupazione ecc. Tutti questi fattori determinano l’appartenenza dei parlanti a un livello concreto della strutture socio – economica e ciò va a dar origine alle denominate varietà diastratiche o socioletti.
•
Varietà diastratiche. Esse riflettono il modo in cui i parlanti usano la loro varietà geografica a seconda della posizione che occupano all’interno della struttura socioeconomica. Parlando di questo, si può dire che gli individui che appartengono ad un certo tipo di livello socio – economico devono mantenersi all’interno dei limiti della propria classe interagendo solo con le persone che vi appartengano. Un esempio di ciò, è quello che avviene in società particolarmente gerarchizzate come
18
G. Piñero Piñero, M. Díaz Peralta, M.J. García Domínguez, V. Marrero Pulido, Lengua Lingüística y Traducción, Granada, Editorial Comares, 2008, pp. 22-25.
17 quella indiana, in cui il sistema di caste fa parlare di varietà stabili e molto differenziate. Al contrario invece in comunità caratterizzate da una stratificazione sociale debole o comunque molto fluida, come è il caso della società di qualsiasi comunità autonoma in Spagna, i socioletti si differenziano poco tra di loro. Ad ogni modo anche in quest’ultimo caso esistono caratteristiche che identificano coloro che parlano come appartenenti ad un livello socio – economico determinato. •
Varietà diafasiche. Sono caratterizzate dal maggior o minor grado di formalità dell’atto comunicativo, che dipende dalle relazioni interpersonali esistenti tra emissore e ricevente. In questo modo, gli interlocutori non si esprimono nello stesso modo quando si rivolgono a un amico o a una persona di cui hanno scarsa conoscenza, useranno quindi un tipo di relazione più confidenziale nel primo caso mentre sarà di distanza nel secondo.
Un concetto relazionato con le varietà diastratiche e diafasiche è quello della norma standard. Questa norma standard, si converte nello strumento espressivo delle attività culturali e della comunicazione sociale, economica, politica ecc. di ogni comunità. La norma standar, molto similare in tutte le varietà diatopiche di una stessa lingua, manifesta una gran prossimità con la lingua scritta, che gli serve da modello.
1.4. La traduzione come operazione testuale
La traduzione è un operazione tra testi che funzionano in maniera diversa in ogni lingua e cultura. È possibile vedere come funzionano i testi in ogni lingua, da quali principi sono retti, quali convenzioni seguono e come può essere analizzato il testo tradotto e confrontato con quello originale. Un testo non può solo essere definito come un insieme di frasi, ma bensì come un insieme di relazioni che seguono leggi proprie. Alla luce di ciò si può affermare che il problema della traduzione è in buona sostanza un problema di codici. Un testo è un atto comunicativo e pertanto prevede un messaggio il cui canale di comunicazione è la pagina scritta, e un codice in cui questo messaggio è formulato. Può avvenire che all’interno di un dato ambito culturale il codice è comune a emittente e destinatario. Nel
18 momento in cui si entra nell’ambito dello scambio interculturale però, il codice non risulta più essere comune e questo dato deve essere ben recepito in quanto ne consegue la necessità di trovare un giusto equilibrio tra la lingua e la cultura di partenza e la lingua e la cultura di arrivo. In questo caso risulta essere importante una sicura competenza linguistica e culturale del traduttore unitamente alla sua assunzione di responsabilità nei confronti delle scelte che è chiamato a intraprendere. Proprio da quest’ultima affermazione si può anche intuire come il rapporto tra traduttore e autore del testo sia in un certo senso legato. L’autore di un testo infatti è detentore di un’assoluta libertà creativa nei confronti delle norme che regolano la “sua” lingua, vale a dire la lingua del testo di appartenenza. A questo punto la posizione del traduttore non risulta semplice in quanto, da una parte egli tende ad adeguare il testo tradotto al principio di libertà che si è consentito l’autore, dall’altra parte invece può ritenere di doversi adeguare a un particolare uso della lingua, rispecchiando l’attenzione o la consapevole disattenzione nei confronti della norma che caratterizza il testo originale. Un testo è formato comunque da alcuni elementi peculiari e fondamentali dai quali evidentemente non si può prescindere. Questi elementi, conferiscono testualità a quella che è un’unità comunicativa e sono: la coerenza e la coesione19. Affinché una produzione linguistica possa essere considerata un testo, uno dei primi requisiti che deve soddisfare è quello della coerenza: il testo deve presentarsi come: un’unità globale di significato, in cui le idee sono vincolate tra di loro e con il contesto. Parlando invece di coesione, si può dire che questa si presenta attraverso i legami morfosintattici e lessicali del testo. Esistono due grandi gruppi di relazioni coesive: la referenza e la connessione. La referenza è la remissione di un elemento linguistico A verso un altro elemento B, in modo che A possa essere interpretato grazie alla conoscenza di B. I meccanismi referenziali di un testo possono essere esoforici, cioè esterni al testo (lessico, nomi propri, ecc.) o endoforici, cioè interni al testo (anafora, catafora, ellissi, ecc.). Per quanto riguarda i meccanismi di connessione invece è possibile dire che questi stabiliscono relazioni tra i diversi enunciati del testo. Gli elementi linguistici che esplicano queste relazioni sono i connettori, che possono essere: dialettici, spazio-temporali ecc. Indubbiamente coerenza e coesione sono due principi che si condizionano mutuamente. Ciò sta a significare che non serve a niente un testo che possiede coerenza ma che non ha i requisiti delle coesione. Allo stesso modo vale la situazione contraria, cioè un
19
G. Piñero Piñero, M. Díaz Peralta, M.J. García Domínguez, V. Marrero Pulido, op. cit., pp. 48-49.
19 testo correttamente strutturato può risultare inaccettabile se i suoi enunciati non mantengono fra loro una relazione logica. Altro fenomeno testuale da segnalare, che risulta essere a cavallo tra i due elementi di coerenza e coesione è la così detta progressione tematica. I testi hanno la caratteristica di trasmettere delle informazioni e queste sono organizzate per far sì che chi riceve queste informazioni possa seguirne lo sviluppo in tutte le varie fasi. Il meccanismo che regola questo sviluppo è appunto la progressione tematica che, a sua volta, si articola negli elementi tema – rema20. Nel tema si determina il soggetto del discorso a cui di solito si fa riferimento nell’enunciato precedente o che da esso è logicamente conseguente. Il rema invece è l’elemento nuovo. Il predicato lessicale che fornisce informazioni sul tema. Hatim e Mason21 sostengono che la struttura testuale, cioè i principi gerarchici di composizione di un testo, possano variare da lingua a lingua. Essi distinguono tre livelli di organizzazione testuale: 1) l’elemento, le unità lessico-grammaticali che possono compiere una funzione retorica; 2) la sequenza, unità normalmente composta da più di un elemento e che svolge una funzione retorica di rango superiore a quella dell’elemento; 3) il testo, è il livello principale di tutta la struttura testuale ed è un unità coerente e coesa, realizzata da parte di una o più sequenze di elementi rilevanti. Per ribadire il fatto che le strutture testuali non sono universali, che variano a seconda della lingua e che dunque esistono dei limiti ai quali il traduttore deve sottostare, i due studiosi propongono due ipotesi: •
Se i differenti modelli testuali si sviluppano lungo quello che può essere definito un continuum, in cui, in uno degli estremi si ritrovano forme di tipo espositivo (poca valenza) e, nell’altro estremo si ritrovano forme più argomentative (dotate di più valenza) si potrebbe dire che: più un testo ha meno valenza, meno necessità ha la sua struttura di essere modificata e viceversa, più valenza ha un testo, maggiore sarà la sua possibilità di essere modificato.
•
In testi di tipo istruttivo poi se questi modelli testuali si distribuiscono lungo un continuum, in cui, in uno degli estremi sono presenti testi di maggior valenza culturale e, nell’altro estremo quelli con una minor valenza, si potrebbe affermare che: minor valenza culturale ha un testo, meno necessità si avrà di modificare la sua struttura,
20
P. Newmark, op. cit., p. 299. B. Hatim, I. Mason, Discourse and the translator, London, Longman, 1990, citato da Hurtado Albir, Traducciòn..., cit., p. 440. 21
20 dall’altro lato invece tanto più il testo avrà valenza culturale, maggiore sarà la sua possibilità di essere modificato.
È possibile commentare ora la dimensione contestuale della traduzione. Si può sicuramente affermare che il contesto è strettamente legato alla traduzione e a quello che è l’ambito socio-culturale in cui si sviluppa. Generalmente, la nozione di contesto viene intesa in due modi in linguistica: come l’ambiente linguistico di un elemento o più in generale come l’ambiente extralinguistico nel quale viene usata una lingua. Uno degli studi più importanti su quella che è l’influenza del conteso sulla traduzione è quello effettuato dagli stessi Hatim e Mason, i quali attuano una distinzione tra cotesto, contesto situazionale e contesto. Il cotesto, si riferisce all’ambiente testuale di un unità linguistica. Il contesto situazionale, si riferisce a tutti gli aspetti della situazione in cui ha luogo il fatto linguistico. Infine il contesto, viene definito come l’ambiente extratestuale che esercita un influenza determinante nel linguaggio che si usa. Gli stessi autori sono del parere che il contesto si basi su tre dimensioni: comunicativa, pragmatica e semiotica22. •
La dimensione comunicativa. Conforma la trama del processo comunicativo ed esprime le variazioni linguistiche in relazione all’uso della lingua, ma anche all’utente che ne fa uso. Le differenze di uso sono le varietà funzionali associate a un contesto, quindi la varietà di registri, che integrano nel loro interno le categorie di: campo, modo e tono. Il campo si riferisce alla variazione di funzione sociale quindi può essere un campo scientifico, tecnico ecc. Il modo è la variazione di lingua, perciò scritta, parlata ecc. Il tono può essere generalmente di tipo formale o informale. Per quanto concerne le variazioni legate all’utente, queste riguardano le differenze linguistiche che hanno a che fare con la persona che fa uso di una data lingua.
•
La dimensione pragmatica. Configura l’intenzionalità del discorso ed è relazionata con gli atti del parlato. Questa dimensione è legata anche al concetto di fuoco contestuale dominante, che è in relazione appunto con gli atti linguistici e che determina in questo caso la funzione e il tipo di testo.
•
La dimensione semiotica. La varietà dei testi è messa in relazione con le differenze non solo linguistiche ma anche culturali. Interviene in questo caso la nozione di intertestualità: cioè la dipendenza di un testo rispetto ad un altro, che è la condizione necessaria per una corretta intelligibilità degli stessi testi.
22
A. Hurtado Albir, Enseñar…, cit., pp. 37-38.
21 Alla luce di queste proposte, sembra possibile affermare, che i testi non sono evidentemente tutti uguali e che si distinguono non solo per le loro funzioni ma anche per le loro convenzioni e per l’attitudine ideologica che trasmettono. Si distinguono così differenti categorie che caratterizzano i testi: tipi, generi e discorsi23. •
I tipi di testo. Il tipo di testo si sviluppa a partire dalle differenti funzioni che questo compie, e si parla quindi di multi-funzionalità di un testo. All’interno di questa multifunzionalità esiste una vera e propria gerarchia di funzioni in cui prevarranno una funzione dominante e una secondaria. Si distinguono così quelle che sono tre grandi funzioni prioritarie: esposizione, argomentazione e istruzione, che danno vita a tipi testuali differenti: testi espositivi, argomentativi e istruttivi. Nei testi espositivi, la funzione dominante è la presentazione di soggetti, concetti, oggetti o fatti. I testi espositivi possono essere a loro volta concettuali, narrativi e descrittivi. I testi argomentativi hanno la funzione dominante di dar valore ai concetti presenti e la loro struttura può essere lineare o di contrasto, dove in questo caso si utilizzerà una contro argomentazione. Infine, i testi istruttivi hanno la funzione principale di creare un comportamento; possono essere con opzione (ad esempio la pubblicità) o senza opzione (ad esempio i contratti).
•
Generi testuali. I generi testuali, sono raggruppamenti di testi che appartengono ad uno stesso campo e modo testuale, con una stessa funzione, con emittenti e recettori particolari e che possiedono caratteristiche testuali convenzionali. Esistono pertanto diversi generi scritti (tecnico, scientifico, giuridico, letterario), audio – visuali e orali.
•
I discorsi.
Secondo Hatim e Mason i discorsi, come l’espressione di attitudini
determinate negli ambiti delle attività socioculturali e che allo stesso modo dei generi possono arrivare a stereotiparsi ad esempio: i discorsi di tipo machista, femminista, razzista, burocratico ecc.
In ultima analisi è possibile effettuare un breve commento su quelle che sono due ulteriori fasi della traduzione: una riguarda la revisione24 del testo tradotto, l’altra riguarda la documentazione25 utilizzata nella traduzione. Per quanto concerne la prima fase, si può dire che il fatto che il testo meta si basi su un continuo lavoro di selezione implica che non tutte le 23
Ibidem, pp. 34-35. G. Piñero Piñero, M. Díaz Peralta, M.J. García Domínguez, V. Marrero Pulido, op. cit., pp. 69-70. 25 A. Hurtado Albir, La enseñanza de la traducción, Castelló de la Plana, Universitat Jaume I, 1996, pp. 79-80. 24
22 traduzioni sono appropriate. Di conseguenza il processo traduttore, deve culminare con un’ultima fase di revisione del testo denominata da Delisle26: análisis justificativo. Questa fase ha un doppio obiettivo:
1) Garantire che la traduzione sia equivalente e che, esprima il senso dell’originale. 2) Comprovare il suo grado di adeguatezza alle caratteristiche della lingua di arrivo e ai suoi nuovi destinatari.
Il traduttore come qualsiasi produttore testuale, si vede permanentemente obbligato a selezionare le distinte alternative linguistiche che il sistema pone a sua disposizione. In modo particolare la scelta deve ricadere su quella che è la traduzione che in maniera maggiore si avvicina al testo originale, ma anche alla traduzione che rispecchia l’intenzione comunicativa dello stesso testo originale. Al momento di valutare l’equivalenza comunicativa del testo meta, è possibile trovarsi di fronte ad una casistica molto differente, che può oscillare tra quelli che sono due estremi: da un lato il traduttore che, per mancanza di conoscenza del testo originale produce un testo meta con errori di significato e dall’altra un traduttore che riesce a raggiungere un testo meta equivalente e che quindi, riesce a riprodurre fedelmente l’intenzione comunicativa dell’originale. Sembra chiaro a questo punto che la fase di revisione, non solo cerca di garantire l’adeguamento del testo meta a quello originale ma cerca anche di rendere comprensibile il testo meta ai suoi nuovi riceventi. Se quest’ultima fase del processo viene disattesa, il testo meta arriverà ai nuovi destinatari con numerose mancanze che si sarebbero potute evitare con una più rigorosa e scrupolosa revisione del testo. Parlando della seconda fase citata, si può dire che come è risaputo la traduzione è un attività che a che fare con i testi perché evidentemente il compito della traduzione sta anzi tutto nel capire e riscrivere uno o più testi. Proprio per questa ragione al traduttore niente può essere più indispensabile che la conoscenza profonda della struttura testuale. Più precisamente il periodo di apprendimento, è un buon momento per cercare di conoscere a fondo la composizione testuale di ogni tipo di testo con il quale il traduttore si dovrà confrontare. Questo studio, che è una fase che ovviamente precede il processo di traduzione propriamente detto, potrà essere denominato fase preparatoria o di documentazione previa. La sua
26
J. Delisle, L’analyse du discourse comme méthode de traduction: intiation à la traduction française de textes pragmatiques anglais. Théorie et practique, Ottawa, Édicions de l’ Université d’Ottawa, 1984, citato da G. Piñero Piñero, M. Díaz Peralta, M.J. García Domínguez, V. Marrero Pulido, Lengua..., p. 69.
23 realizzazione permette al traduttore di facilitare il suo lavoro di elaborazione che per l’appunto prevede numerosi campi di azione come l’analisi del testo di partenza, la localizzazione dei problemi, la ricerca di soluzioni, la proposta di alternative ecc. Questa documentazione globale previa al processo di traduzione deve andare di pari passo con un altro tipo di documentazione che il traduttore realizza una volta che sarà completamente immerso nel processo di traduzione e che gli servirà da aiuto per risolvere problemi concreti, in quanto questi possono sorgere in qualsiasi momento del processo di traduzione. Quando si analizza il testo tradotto sorgono difficoltà di comprensione e nello scrivere la traduzione possono verificarsi altre difficoltà molte volte non previste nell’atto di analisi del testo originale. In questo caso per trovare soluzioni la cosa migliore è ricorre nuovamente alla documentazione; normalmente si utilizzano dizionari bilingue o monolingue, a volte è necessario consultare enciclopedie, dizionari enciclopedici o manuali, dizionari di sinonimi. Per concludere è possibile aggiungere che la traduzione, è una mescolanza di atti riflessi e di riflessioni, se si trattasse solo di un atto riflesso non si avrebbe bisogno di traduttori, basterebbe la presenza di conoscitori di lingue; il traduttore però deve apprendere a riflettere realizzando previamente una buona ricerca di documentazione. Solo in questo modo potrà ottenere tutti i dati necessari per relazionare le possibilità di intercambio tra le due lingue e culture. Colui che traduce è obbligato a causa della sua professione a cercare e trovare soluzioni, a raccogliere e selezionare i dati, in sostanza a saper disporre di tutte le informazioni possibili.
1.5. Il metodo traduttore La scelta in favore di un metodo traduttore o di un altro è fortemente relazionata ad alcuni elementi: al contesto in cui si effettua la traduzione, alla finalità che questa persegue ma anche al destinatario a cui questa è rivolta. Il metodo traduttore27 è la maniera attraverso cui il traduttore si confronta con il testo originale e sviluppa poi il processo traduttore seguendo determinati principi. In generale è possibile dire che vengono proposti alcuni metodi base per tradurre, in particolare quattro, che vengono raggruppati in: 27
A. Hurtado Albir, Traducción…, cit., p. 252.
24
•
Metodo interpretativo – comunicativo. È il metodo traduttore incentrato sulla comprensione e la successiva riformulazione del significato del testo originale, conservandone sia la stessa finalità che lo stesso effetto sul destinatario.
•
Metodo letterale. È il metodo incentrato sulla riconversione degli elementi linguistici del testo originale, traducendo parola per parola, sintagma per sintagma o frase per frase. L’obiettivo di questo metodo non è far sì che la traduzione abbia la stessa finalità del testo originale, ma riprodurre il sistema linguistico di partenza o la forma del testo originale.
•
Metodo libero. È il metodo traduttore che non trasmette lo stesso significato del testo originale in quanto ne vengono cambiate le categorie della dimensione semiotica (ad esempio, si passa dalla poesia alla prosa), o della dimensione comunicativa. Ciò è dovuto essenzialmente a un cambio di destinatario o a un differente uso della traduzione.
•
Metodo filologico. È il metodo che si caratterizza perché alla traduzione vengono aggiunte note e commenti di tipo filologico, storico, ecc. Di metodo traduttore parla anche Newmark28. Egli introduce un concetto che è quello
della teoria della traduzione sostenendo che in realtà questo è un termine improprio. La teoria della traduzione non è né una teoria, né una scienza, ma quel corpo di conoscenze che possediamo già e che dobbiamo ancora costituire sui processi delle traduzione. Lo scopo principale di tale teoria consiste nell’individuare metodi traduttivi validi per la più ampia gamma di testi o di categorie di testi. Fornisce una serie di principi, regole specifiche e suggerimenti per la traduzione dei testi, sostanzialmente quindi fornisce un bagaglio di base per la soluzione dei vari problemi che si incontrano. La teoria indica i possibili procedimenti traduttivi e i vari argomenti a favore o contro la scelta di una determinata traduzione piuttosto che un’altra. Prima di scegliere il metodo traduttivo, il traduttore può catalogare il testo a seconda delle diverse funzione del linguaggio. Le principali infatti sono: l’espressiva, la descrittiva o informativa e la vocativa o persuasiva. Inoltre, la preoccupazione maggiore del teorico consiste nel selezionare un metodo traduttivo generale appropriato, tenendo sempre
28
P. Newmark, op. cit., pp. 45-51.
25 presente che il “linguaggio codificato”, cioè i termini tecnici, le formule, il linguaggio ecc devono essere tradotti con un termine codificato equivalente nella lingua di arrivo. Newmark, propone due soli metodi traduttivi29, adatti per qualsiasi testo: 1) la traduzione comunicativa, con cui il traduttore cerca di produrre sui lettori della lingua di arrivo lo stesso effetto prodotto dall’originale su quelli del testo di partenza. 2)
la
traduzione semantica, con cui il traduttore cerca, tenendo conto delle sole restrizioni sintattiche e semantiche della lingua di arrivo, di riprodurre l’esatto significato contestuale dell’autore. In realtà continua ancora Newmark, le differenze tra i due metodi sono profonde. La traduzione comunicativa si rivolge esclusivamente al secondo lettore che non si aspetta forme difficili bensì un ingente trasferimento degli elementi stranieri non solo nella sua lingua ma anche nella sua cultura. La traduzione semantica invece mira a rendere l’esatto significato contestuale dell’originale e viene in aiuto al lettore solo in alcuni casi. I due metodi differiscono essenzialmente perché, in caso di conflitto, quello comunicativo deve mettere in rilievo la “forza” più che il contenuto del messaggio. Di solito la traduzione comunicativa tende ad essere più scorrevole, più semplice. Tende inoltre a conformarsi a un determinato registro linguistico e a usare quindi termini più generici e comprensibili ai più, nei passi più difficili. La traduzione semantica dal canto suo, tende ad essere più complessa e precisa. Tenda anche a essere più specifica rispetto all’originale. L’autore sostiene ancora, che mentre una traduzione semantica provoca una perdita di significato, una traduzione comunicativa può essere migliore perché il testo può compensare la perdita di contenuto semantico con l’efficacia e la chiarezza. In teoria una traduzione comunicativa è un procedimento soggettivo in quanto mira principalmente a suscitare sui lettori un certo effetto, che potrebbe essere verificato però solo con un’indagine delle loro reazioni fisiche e/o mentali. Inizialmente questo tipo di traduzione sembra essere limitata dalle parole e dalle strutture dell’originale, finché la versione viene gradualmente adattata al punto di vista del lettore.
Risulta opportuno ad ogni modo distinguere tra quello che è il metodo traduttore e quelli che sono altri concetti fondamentali come ad esempio quello relativo alle tecniche di traduzione. A differenza del metodo che è una opzione globale che riguarda cioè tutto il testo
29
Ibidem, pp. 79-86.
26 ed in particolare due elementi, processo e risultato, la tecnica riguarda solo il risultato e si riferisce a unità minori del testo. Alcuni tra i primi autori a proporre una classificazione di tecniche di traduzione sono stati Vinay e Darbelnet30. Per questi autori, nel processo di traduzione, il traduttore stabilisce una relazione tra le specifiche manifestazioni dei due sistemi linguistici, che possono essere da un lato già espresse e chiare, mentre dall’altro posso risultare un qualcosa di potenziale e adattabile. Secondo gli stessi autori le tecniche operano su tre piani: quello lessicale, quello dell’organizzazione (morfologia e sintassi) e su quello del messaggio. Distinguono poi sette procedimenti base che classificano in diretti e obliqui, relazionati con la distinzione tra traduzione diretta (letterale) e obliqua. Come già detto in precedenza, la traduzione letterale è quella in cui è presente una corrispondenza esatta tra le due lingue. Questa tecnica, che riguarda prevalentemente singoli termini o espressioni, può essere a volte anche estesa a aspetti strutturali o stilistici. Al contrario, nella traduzione obliqua una corrispondenza stretta tra le due lingue non è presente. In modo particolare le scelte dirette appaiono opportune soprattutto qualora vi sia palese intraducibilità di un termine, che deve allora essere importato. Lo stesso atteggiamento si può adottare quando il termine straniero è ormai entrato nell’uso comune della lingua di arrivo al punto che la sua traduzione risulta superflua se non addirittura impropria. È possibile dire che i procedimenti della traduzione letterale sono: 1) il prestito, la parola viene incorporata in un altra lingua senza tradurla; 2) il calco, prestito di un sintagma straniero con la traduzione letterale dei sui elementi; 3) traduzione letterale, è quella che procede parola per parola ed è una tecnica molto comune quando la traduzione avviene tra due lingue vicine tra loro: ad esempio tra francese e italiano. I procedimenti della traduzione obliqua invece sono: 1) la trasposizione, cioè il cambio di categoria grammaticale tra una parola e un’altra, senza che questo modifichi il significato del messaggio; 2) la modulazione, cioè il cambio di punto di vista o di categoria di pensiero, questo cambio può essere giustificato quando la traduzione risulta grammaticalmente corretta. In questo caso i due autori si soffermano anche su un altro punto cioè la distinzione tra: la modulazione fissa e libera. Nel primo caso, il traduttore con una buona conoscenza di entrambe le lingue può usare liberamente questo metodo accertandosi dell’esattezza della traduzione anche attraverso l’uso di dizionari o grammatiche. Nel secondo caso invece ciò che il traduttore deve tradurre non risulta essere ancora fisso tanto che la procedura deve essere rinnovata ogni volta; 3) l’equivalenza, dá 30
J.P. Vinay, J. Darbelnet, Comparative Stilystics of French and English : A methodology for translation, Amsterdam, Benjamins translation library, 1995, pp. 30-39.
27 conto di una stessa situazione con l’impiego di modi completamente distinti; 4) l’adattamento, quando si utilizza un equivalenza riconosciuta da parte di due situazioni, tanto da poter essere considerata proprio un tipo speciale di equivalenza, una equivalenza situazionale. In realtà intorno alla nozione di tecnica di traduzione non esiste né un accordo di tipo terminologico, né concettuale, né tantomeno classificatorio. È presente quindi una sorta di confusione rispetto a quella che è la definizione di tecniche di traduzione e tutto ciò rimette a due questioni fondamentali: 1) la confusione tra meccanismi processuali e meccanismi che riguardano il risultato; 2) la confusione tra fenomeni propri della comparazione delle lingue e fenomeni di indole testuale. Per quanto riguarda la prima questione, la confusione viene generata dalla proposta pioniera di Vinay e Darbelnet nel presentare i procedimenti come una spiegazione rispetto alla direzione che può intraprendere il processo di traduzione. I procedimenti non si riferiscono al processo seguito dal traduttore ma al risultato che viene raggiunto. È proprio a partire da questo punto che le tecniche di traduzione si confondono con le altre categorie traduttologiche che sono relazionate con il processo cognitivo del traduttore e cioè il metodo e le strategie. In riferimento al metodo, in realtà vale ciò che si è già detto in precedenza, e cioè che mentre il metodo risulta coinvolgere il testo in tutta la sua globalità e che va a condizionare lo sviluppo del processo traduttore, le tecniche si riferiscono al risultato e riguardano zone minori del testo. Sempre la denominazione di procedimenti, genera confusione con un’altra categoria relazionata con il processo: la strategia traduttrice. A questo proposito in riferimento a quella che è la risoluzione dei problemi di traduzione, si può effettuare una distinzione tra quelle che sono le tecniche di traduzione che riguardano il risultato ottenuto e che catalogano differenti tipi di soluzioni traduttrici, e le strategie che sono relazionate con i meccanismi utilizzati dai traduttori nelle diverse fasi del processo traduttore per risolvere i problemi incontrati e arrivare quindi a questa soluzione. I procedimenti tecnici di traduzione riguardano i risultati e non i processi, ed è proprio per questo motivo che vengono distinti dalle strategie e si propone la denominazione di tecniche di traduzione. In riferimento alla seconda questione è possibile dire che anche questa deriva dalla proposta di Vinay e Darbelnet, in cui si tende a confondere ciò che è proprio della lingua con ciò che è proprio dei testi. Da parte sua anche Newmark31 propone alcune tecniche traduttive. Egli parte dalla classifica fatta proprio da Vinay e Darbelnet, riconoscendola appieno. A questa però apporta alcune modifiche parlando di 1) traduzione riconosciuta, con cui intende l’utilizzo di un
31
P. Newmark, op. cit., pp. 138-140.
28 termine che è già riconosciuto ufficialmente o comunemente accettato, nonostante non sia il più adeguato; 2) equivalente culturale, che consiste nell’utilizzare una parola culturalmente neutra e aggiungere, a volte, un nuovo termine specifico (in un certo senso questa potrebbe corrispondere al metodo dell’adattamento espressa da Vinay e Darbelnet); 3) naturalizzazione, consisterebbe nell’adattare una parola della lingua originale alla pronuncia e alla morfologia della lingua originale (corrisponderebbe al prestito di Vinay e Darbelnet); 4) etichetta di traduzione, è un’equivalente approssimativo o un nuovo termine, riferito a una caratteristica peculiare della lingua di partenza. In un certo senso la traduzione può essere considerata come risultato o come processo. Quando parliamo di traduzione come risultato parliamo dalla prospettiva esclusiva del testo meta, come prodotto finito e indipendente dall’originale. In realtà da questo punto di vista si tratterebbe di una visione solo parziale e incompleta della traduzione, in quanto non tiene conto che questa costituisce un procedimento comunicativo completo che obbliga ad entrare in contatto, da un lato, all’autore del testo originale e al traduttore e, dall’altro, a quest’ultimo con i ricettori del testo meta. Quando invece la traduzione viene intesa come processo, si può dire che questa esige da parte dei mediatori una serie di decisioni che vertono a convogliare il significato del testo originale verso un’altra lingua e un’altra cultura. La figura del traduttore in questa prospettiva risulta essere quella di un negoziatore di significati, che partendo dal testo originale, deve effettuare una serie di scelte motivate che gli permettano di riprodurre nella lingua di arrivo il piano concettuale dell’autore. A questo punto, si potrebbe dire che se la traduzione fosse solo un mero processo di codificazione da un lingua all’altra, per tradurre basterebbe conoscere le lingue e confrontarle tra di loro. Sembra chiaro però che tradurre vuol dire anche e soprattutto risolvere problemi che di volta in volta il traduttore si trova a dover affrontare. Proprio in questo senso, si è parlato anche di competenza traduttrice32 di cui un traduttore deve essere dotato e che esige lo sviluppo di determinate caratteristiche: 1. In primo luogo, una competenza linguistica e testuale nei due sistemi, vale a dire, testo originale e testo meta. Questa competenza risulta imprescindibile per far sì che le due fasi essenziali del processo cioè, comprensione e riformulazione, possano avere luogo e vanno pienamente ad integrare lo stesso processo.
32
G. Piñero Piñero, M. Díaz Peralta, M.J. García Domínguez, V. Marrero Pulido, op. cit., pp. 4-5.
29 2. In secondo luogo, è necessaria una competenza extralinguistica. Questo perché l’operazione del traduttore non solo richiede la conoscenza del sistema linguistico di una data lingua, ma anche la conoscenza del suo contesto extralinguistico (di tipo culturale, politico, economico, sociale, geografico ecc.). Ciò riguarda tanto il testo originale come la traduzione nel quale si sviluppano le relazioni tra l’emissore e i suoi potenziali riceventi.
In sostanza dunque, una comunicazione interlinguistica e interculturale non sarebbe possibile senza le conoscenze linguistiche e extralinguistiche del traduttore che possono tra l’altro riattivarsi a partire da un qualsiasi stimolo rilevante per il traduttore. Anche Hurtado Albir33 si sofferma sul concetto di competenza traduttrice, sostenendo che a questa sono legate varie sub competenze: • Competenza comunicativa delle lingue (comprensione della lingua di partenza e della lingua di arrivo). •
Competenza extralinguistica (può essere tematica, culturale ecc).
•
Competenza relazionata con le attitudini necessarie per una buona comprensione e produzione di testi (capacità di analisi e di sintesi, chiarezza espositiva, ricchezza espressiva, creatività ecc).
•
Competenza che può essere chiamata «traslatoria», cioè una predisposizione a effettuare il cambio da una lingua all’altra senza interferenze.
•
Competenza relazionata con il funzionamento dell’esercizio della traduzione professionale.
Tutto ciò sta a significare che il traduttore al momento di tradurre, deve sviluppare vari tipi di competenza che vanno appunto da quella linguistica a quella extralinguistica, a quella testuale a quella comunicativa. In realtà sempre secondo Hurtado Albir, il termine competenza traduttrice ha iniziato a essere utilizzato a partire dalla metà degli anni ottanta, ma nonostante il fatto che molti autori nominino questa competenza in pochi la definiscono esplicitamente. Sul funzionamento della competenza traduttrice sono state effettuate diverse proposte, riguardanti generalmente la
33
A. Hurtado Albir, La enseñanza…, cit., pp. 34-35.
30 traduzione scritta. Ad esempio Nord34 fornisce alcune proposte sulla competenza traduttrice. Definisce le caratteristiche che riguardano il traduttore con il fatto che lui o lei siano (idealmente) bilingue, il che significa che dominano perfettamente tanto la cultura di partenza come quella di arrivo e detengono competenze di trasferimento, che comprendono abilità per la comprensione e la produzione del testo. In questo modo l’autrice distingue tre componenti della competenza traduttrice: la competenza di trasferimento, la competenza linguistica e la competenza culturale. In conclusione è possibile riportare quanto sostiene Presas35, la quale insiste molto sulla necessità di distinguere la competenza traduttrice da quella bilingue. Secondo la stessa autrice la competenza traduttrice risulta formata da una competenza pre-traduttice, che consta di: conoscenze delle due lingue, conoscenze culturali relazionate con queste stesse lingue, conoscenze enciclopediche, conoscenze tematiche e conoscenze teoriche sulla traduzione. Sulla base di queste caratteristiche si forma (sempre secondo Presas) la competenza traduttrice. Unito a ciò Presas segnala due tipi di conoscenze che integrano la competenza traduttrice: 1) conoscenze epistemiche, che fanno parte delle conoscenze bilingue; 2) conoscenze operative, che caratterizzano la competenza traduttrice. Per quanto riguarda le conoscenze epistemiche, queste hanno la caratteristica di integrare conoscenze nelle due lingue, ad esempio di tipo culturale, enciclopedico e tematico. Parlando delle conoscenze operative invece, l’autrice distingue tra conoscenze nucleari, periferiche e tangenziali. Le prime consistono nel comprendere il testo originale per poi poterlo tradurre. Le seconde si riferiscono all’uso di strumenti specifici che integrano il lavoro del traduttore, come ad esempio: le fonti di documentazione di cui il traduttore si serve, la capacità di utilizzare queste stesse fonti, la capacità di acquisire informazioni su quello che è un tema nuovo o comunque un tema poco conosciuto, il tempo disponibile ecc. Le terze poi si riferiscono alla capacità dell’uso di strumenti di lavoro che si basano sulle conoscenze di tipo tecnico.
Parlando invece di ciò che riguarda un altro tema fondamentale nella traduzione e cioè le strategie36 di traduzione, si può dire che alla luce degli studi realizzati dalla traduttologia, si tende a definire la strategia traduttrice come: quel procedimento individuale, verbale e non verbale, interno (cognitivo) e esterno, utilizzato dal traduttore per risolvere i problemi 34
C. Nord, Textanalyse und Übersetzen, Heidelberg, J Groos Verlag, 1988, citato da Hurtado Albir, Traducción…, cit., p. 384. 35 M. Presas, “Problemes de traducció i compètencia traductora: bases per una pedagogia traductora”, http://ddd.uab.cat/record/55047, 2010, consultato [11/02/2012]. 36 P. Faini, op. cit., p. 59.
31 incontrati durante il processo traduttore e migliorare la sua efficacia. Le strategie dunque sono in relazione diretta con la risoluzione dei problemi e ciò significa che sono particolarmente implicate con lo sviluppo del processo traduttore. Le titubanze che il traduttore può esprimere al momento di tradurre sono buoni indicatori del processo traduttore nonché un buon punto di partenza per l’analisi delle strategie. Questo perché esse fanno capire che il traduttore ha incontrato un problema e che deve mettere in moto tutta una serie di meccanismi che servono appunto a risolverli che sono poi le strategie. Ad ogni modo tutto ciò che riguarda la definizione o comunque il concetto di strategia è da sempre risultato nebuloso, in quanto non essendoci una univocità di giudizio ogni autore compone una sua classifica e parla del concetto di strategia. A questo proposito una delle classifiche di strategie che appaiono più complete sembra essere quella di Oxford37, che distingue tra: 1. Strategie dirette. Sono relazionate con la lingua straniera e possono essere: di memoria (creazione di immagini mentali, tecniche di memorizzazione ecc.); cognitive (deduzione, traduzione, analisi ecc.); di compensazione per risolvere problemi comunicativi nel momento in cui si ricevono o producono messaggi (perifrasi, mimica ecc.) 2. Strategie indirette. Appoggiano e guidano il processo di apprendimento senza relazionarsi direttamente con la manipolazione della lingua straniera. Possono essere: meta cognitive (autovalutazione del processo realizzato ecc.); affettive (soppressione di emozioni negative, auto animazione ecc.), sociali (cooperazione con altri, sviluppo di attitudini tolleranti ecc). Hurtado Albir38 è del pare che ci siano alcuni aspetti fondamentali sulle strategie di comunicazione dei quali il ricercatore deve tener conto, ovvero:
1) L’esistenza di strategie di diverso tipo. Il traduttore utilizza strategie per comprendere il testo originale, differenziare i tipi di discorso, identificare i tipi di struttura dei testi, differenziare le idee (che possono essere principali e secondarie) stabilire relazioni concettuali ecc. Altre strategie invece servono per l’acquisizione dell’informazione e molte di esse sono relazionate con la documentazione, ad
37 38
R. Oxford, Language learning strategies, Boston, Heinle & Heinle, 1990, p. 17. A. Hurtado Albir, Traducción…, cit., p. 277.
32 esempio, selezionare informazioni, cercare informazioni nei dizionari, nelle enciclopedie ecc. 2) L’esistenza di strategie su diversi livelli. Esistono strategie globali, che sono relazionate con problemi che riguardano parti più ampie del testo, e strategie locali, riguardano micro-unità o aspetti parziali del testo. 3) La diversità di strategie a seconda del tipo e della modalità di traduzione. Benché le strategie possono essere utilizzate in tutto il processo traduttivo, la loro natura e frequenza può cambiare a seconda del tipo e della modalità di traduzione. Così per esempio, nell’interpretazione simultanea ha maggior importanza l’uso di strategie di memoria che non nella traduzione scritta. 4) La diversità di strategie per risolvere un problema di traduzione. Esiste una stretta relazione tra problemi e strategie di traduzione, però questa relazione può non essere univoca, infatti può avvenire che per risolvere lo stesso problema si adottino strategie diverse, e questo porta a pensare che le strategie in realtà cambino a seconda delle necessità di ogni soggetto. 5) L’uso delle strategie non solo per risolvere i problemi, ma anche per migliorare l’ efficacia del processo traduttivo e i risultati ottenuti. Le strategie adottate, in questo caso fanno sì che il processo traduttivo e la competenza traduttrice possano migliorare e che anche gli obiettivi che si vogliono raggiungere ne traggano beneficio. Anche Venuti39 individua quelle che a suo parere sono alcune strategie identificative. Sono quelle che lui chiama strategie di “domesticazione” e di “stranierificazione”.
1. Domesticazione. Si opera adottando tutte quelle operazioni o tecniche, che riportano il testo straniero all’interno di una dimensione conosciuta che nell’operazione di trasferimento da una lingua a un’altra tolgono al testo tutte quelle caratteristiche di deviazione linguistica e culturale che lo rendono difficile da inquadrare per un lettore. Questo perché lo stesso lettore, appartenendo a una cultura diversa a quella per la quale il testo è stato scritto, trova incomprensibili le allusioni e i riferimenti. Lo scopo di questa strategia sarebbe quello di confortare il lettore all’interno di un quadro di riferimento
39
L. Venuti, op. cit., pp. 15-20.
33 conosciuto, di assecondare al massimo le operazioni di riconoscimento. Il traduttore quindi deve sembrare invisibile appunto perché il testo tradotto non deve apparire come una traduzione. 2. Stranierificazione. Va in senso opposto rispetto alla precedente strategia. Introduce nel testo tradotto degli elementi estranei, poco conosciuti, appartenenti ad una cultura differente rispetto a quella del lettore. Il traduttore a questo punto diventa visibile perché la traduzione ribadisce il proprio carattere di traduzione appunto, introducendo nella cultura in cui il testo viene tradotto degli elementi poco conosciuti. Lo scopo in questo tipo di strategia non sembra essere quello di avere un testo fluido e scorrevole, ma quello di confrontarsi con qualcosa di diverso per poterne uscire arricchiti.
Possiamo anche constatare che sempre a proposito della traduzione spesso si è parlato del tema dei possibili problemi presenti al suo interno. In realtà però sembra che non ci siano adeguati e univoci studi empirici in grado di sostenere una vera e propria classifica dei problemi. Ad ogni modo Newmark40, per definire il termine problema attua una sorta di paragone dicendo che: il testo da tradurre è come una particella in un campo elettrico, attratta dalle forze contrastanti delle due culture e delle norme delle due lingue, delle idiosincrasie di un autore e delle aspettative dei lettori. Il testo inoltre è alla mercé del traduttore che può essere carente in alcuni requisiti fondamentali: accuratezza, competenza, elasticità, eleganza e sensibilità nell’uso della propria lingua, doti che possono d’altra parte, compensare lacune sotto altri due aspetti: conoscenza dell’argomento trattato nel testo e conoscenza della lingua di partenza. Newmark individua prima di tutto quelli che secondo lui sono i problemi pratici: il primo compito del traduttore è capire il testo, spesso analizzarlo o per lo meno evidenziarne degli aspetti generali, prima di scegliere un metodo traduttivo adeguato. Ciò che deve comprendere è dunque l’intenzione del testo. Il traduttore che deve essere fedele all’autore e non alle proprie opinioni, deve tener presente nel corso di tutta l’opera l’intenzione dell’autore. In secondo luogo, è fondamentale proprio l’intenzione del traduttore. Capire quindi se la traduzione abbia la stessa carica persuasiva ed emotiva dell’originale ed influenzi il lettore nello stesso modo. Oppure ancora, se si rivolge ad un lettore diverso e non informato
40
P. Newmark, op. cit., pp. 46-48.
34 e cui è necessario rendere più esplicito il testo di partenza. In terzo luogo, è fondamentale capire il lettore e l’ambiente del testo. In questo caso il traduttore deve domandarsi, chi è il lettore? Quali sono la sua educazione, classe, età ecc? Se è profano o esperto? Queste domande lo aiuteranno a decidere il grado di formalità, (ufficiale, formale, informale ecc.) l’emotività e semplicità che deve adottare quando lavora sul testo. In quarto luogo, la qualità del linguaggio e l’autorevolezza del testo. Se il testo è ben scritto e se e/o l’autore del testo originale è un’autorità riconosciuta in quel campo, il traduttore deve attribuire ad ogni sfumatura di significato dell’autore la precedenza rispetto alla reazione del lettore. Proprio a questo proposito è errata la tipica distinzione tra testi letterari e non letterari, secondo cui i primi dovrebbero essere tradotti fedelmente, mentre con i secondi si potrebbe procedere con una traduzione più libera. In realtà la fondamentale distinzione che bisognerebbe fare non è quella appena citata ma, quella fra un modo di scrivere buono (efficace) e uno cattivo (inefficacie). Se un testo è ben scritto, letterario o scientifico, storico o tecnologico che sia, le sue componenti rivestono un’importanza fondamentale e il traduttore deve rispettarle. In ultima analisi l’autore parla di alcuni casi particolari che potrebbero creare problemi al traduttore, vale a dire: le metafore, sinonimi, nomi propri, termini culturali e istituzionali, ambiguità grammaticali, lessicali e referenziali, citazioni, neologismi, gergo. È lo stesso Newmark a ribadire che il più problematico di questi elementi è la metafora proprio perché prima di tradurla bisogna prendere in considerazione diversi elementi come: l’oggetto a cui si riferisce, l’immagine e il senso. La nozione di problema di traduzione è intimamente legata alla nozione di errore di traduzione (quando un problema non si risolve adeguatamente) e alla nozione di strategia di traduzione (meccanismo di risoluzione del problema). Da parte sua anche Presas41 parla della nozione di problema, e lo fa prima di tutto parlando della traduzione. Questa infatti viene intesa come un processo comunicativo specifico, ma anche come un processo di comprensione e produzione di testi altrettanto specifico. Si parte dal presupposto teorico che si basa sul fatto che l’unità di traduzione è il testo. É a questo punto secondo Presas che si può parlare di una definizione del concetto di problema di traduzione non vincolata a discrepanze interlinguistiche. In questo modo la nozione di problema di traduzione si svincola dalle competenze linguistiche del traduttore e si relaziona con la sua competenza traduttrice. Pertanto si definisce il problema di traduzione come un ostacolo nel processo della costruzione di un testo nella lingua di arrivo sulla base di
41
M. Presas, op. cit., http://ddd.uab.cat/record/55047, 2010, consultato [11/02/2012].
35 un testo originale. I problemi di traduzione possono quindi essere risolti attraverso criteri comunicativi e testuali. In questo modo smettono di essere considerati come fonte di errori e vengono visti come punto di appoggio per il trasferimento da un testo a un altro e quindi da una lingua all’altra.
Strettamente relazionata con la nozione di problema di traduzione, c’è quella di errore di traduzione. Differenti sono le categorie per definire gli errori di traduzione, queste per lo più si relazionano con errori rispetto al testo originale e errori rispetto alla lingua di arrivo. Per quanto riguarda il primo tipo vengono proposte categorie come: falso significato o senza significato, (una falsa traduzione del significato o l’assenza di questo), contro-significato, (si attribuisce a una parola o gruppo di parole un significato erroneo), omissione (non tradurre un elemento del testo) addizione (introdurre nel testo tradotto elementi superflui), sovratraduzione (traduzione di quegli elementi del testo originale che il testo di lingua tradotta normalmente omette) sub-traduzione (non introdurre nel testo tradotto ampliamenti, note ecc.). Si hanno invece errori relativi a: ortografia, lessico, grammatica ecc. in relazione ai meccanismi della lingua di arrivo. In maniera generale, è possibile definire l’errore di traduzione come un’equivalenza inadeguata al tipo di traduzione che viene eseguita dal traduttore. L’errore di traduzione sebbene vanti rispetto ai problemi una maggior tradizione di analisi da parte della traduttologia, ha in ogni caso in comune con essi la mancanza di studi empirici adeguati. Alcuni importanti autori comunque si sono adoperati per studiare e analizzare questo aspetto, ad esempio: Gouadec42 parte da una definizione generica di errore qualificandolo come la rottura di congruenza nel passaggio da un documento primario ad uno secondario, in altri termini, l’errore secondo Gouadec appare come la distorsione ingiustificata di un messaggio e delle sue caratteristiche. Secondo l’autore questa distorsione va di pari passo con due aspetti: 1) l’insieme di regole generiche di comunicazione, che vengono nominate come distorsione per effetto assoluto di comunicazione; 2) l’insieme degli elementi che determinano un progetto di traduzione, denominati distorsione per effetto relativo di transferenza. Lo stesso autore distingue così due tipi di errori: errori relativi e errori assoluti. Gli errori relativi sono dovuti alla non formazione o al non rispetto di uno o più determinanti nel progetto della traduzione, che possono distinguersi in: determinanti di origine esterna (ambiti di origine cronologico, geografico ecc.) e in determinanti di origine 42
D. Gouadec, “Comprandre, évaluer, prévenir”, http://id.erudit.org/iderudit/037045ar, 1998, consultato [09/02/2012].
36 interna (obiettivo da raggiungere, tema ecc.). Gli errori assoluti dipendono invece da una trasgressione ingiustificata di quelle che sono le regole di grammatica culturale, linguistica o regole d’uso. Secondo Séguinot43 invece, l’errore può essere considerato come un infrazione delle norme linguistiche o traduttrici. La stessa autrice inoltre segnala una serie di spiegazioni sulle cause che portano i traduttori a produrre errori: 1) La capacità umana di attivare processi cognitivi è limitata. 2) Il fatto per cui i traduttori dedicano meno tempo a prendere decisioni su problemi di traduzione ricorrenti, si converte in una potenziale fonte di errori quando il testo di origine non funziona come ci si aspetterebbe. 3) L’accesso alla conoscenza, in quanto esistono diversi tipi di organizzazione dell’informazione e distinte forme di attivare la suddetta informazione. 4) Aspetti relazionati con la produzione della traduzione, se ad esempio è dettata o in ogni caso scritta a mano, in quanto questa forme di produzione richiedono uno sforzo da parte di determinati gruppi di muscoli e un certo livello di attenzione in alcuni momenti della sua creazione.
Ad ogni modo è possibile affermare che l’errore si può e si deve valutarlo sempre nel contesto all’interno del quale viene a prodursi, tenendo evidentemente in conto la finalità della traduzione e il metodo scelto.
43
C. Séguinot, “Understanding why translator make mistakes”, http://id.erudit.org/iderudit/037045ar, 1998, consultato [09/02/2012].
37
CAPITOLO II
ANDREA CAMILLERI E LA FIGURA DI SALVO MONTALBANO
38
2. Andrea Camilleri: vita e opere
Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre 1925, vive da anni a Roma. Ha fatto gli studi liceali, ma non ha mai sostenuto l'esame di maturità perché a metà maggio del 1943 il preside del liceo classico di Agrigento, frequentato da Camilleri, decise che sarebbe valso il solo scrutinio a causa dell'imminente sbarco in Sicilia delle forze alleate. Successivamente si iscrive all'Università (Facoltà di lettere) ma non si laureerà mai. Si iscrive anche al partito comunista. Negli anni 1945-50 pubblica racconti e poesie, ottenendo un riconoscimento al Premio St. Vincent (la giuria era presieduta da Ungaretti). Nel 1949 si trasferisce a Roma, ove frequenta, grazie ad una borsa di studio, l'Accademia Nazionale di Arte Drammatica diretta da Silvio D'Amico; ma dopo il primo anno fu costretto a lasciarla per condotta disdicevole1. È lo stesso Camilleri in un libro-intervista2 a lui dedicato a parlare tra le altre cose, proprio di questo episodio della sua vita. Lo stesso autore sostiene che in quel periodo all’interno dell’Accademia c’era molto moralismo. Era il riflesso di una situazione in cui gli ambienti clericali del tempo sorvegliavano tutto ciò che si muoveva all’interno del mondo dello spettacolo. Sostanzialmente come racconta Camilleri, il suo “peccato” fu quello di essere stato sorpreso con la sua ragazza di allora (futura attrice) nel convento in cui le ragazze dell’Accademia vivevano (i ragazzi e le ragazze erano infatti separati, i primi stavano presso i francescani le seconde presso il convento delle clarisse). Tutto questo fu uno stratagemma organizzato per potersi vedere, proprio perché i ragazzi e le ragazze dovevano rimanere rigorosamente separati. Nonostante questo Camilleri resta a Roma, dove lavora come aiuto-regista di Orazio Costa e Luigi Zampa, e poi come regista e sceneggiatore (teatrale e televisivo); in queste vesti ha legato il suo nome ad alcune fra le più note produzioni poliziesche della TV italiana, come i telefilm del Tenente Sheridan e del Commissario Maigret, e a diverse messe in scena di opere teatrali, sempre con un occhio di riguardo a Pirandello. Ha curato complessivamente ben mille regie radiofoniche, centoquindici spettacoli di teatro e ottanta regie televisive. Nel 1974 fu nominato professore di Istituzioni di regia, proprio all'Accademia d'Arte Drammatica dalla quale era stato cacciato da giovane. Col passare degli anni ha affiancato a questa
1
M. Pintacuda, “Montalbano sono”, http://www.vigata.org/montalbanosono/montalbanosono/shtml, 2003, consultato [01/12/2011]. 2 M. Sorgi, La testa ci fa dire: dialogo con Andrea Camilleri, Palermo, Sellerio, 2000, pp. 44-49.
39 attività quella di scrittore; è stato infatti autore di importanti saggi “romanzati” di ambientazione siciliana nati dai suoi personali studi sulla storia dell'isola. La scrittura ha preso
finalmente il
sopravvento
al
momento
dell'abbandono
del
lavoro
come
regista/sceneggiatore per sopraggiunti limiti d'età3. Nello stesso libro-intervista4 a lui dedicato Camilleri parla anche, di questa svolta nella sua vita di scrittore. Lui stesso sostiene infatti che il regista è il mestiere che ha fatto di più, ma dice che ad un certo punto nel ’67 inizia a sentire il bisogno di scrivere un romanzo. Romanzo che terminerà poi nel ’68 che sarà Il corso delle cose. Lo stesso autore racconta che in questo romanzo c’è il tentativo di elaborare in qualche modo il suo linguaggio. Fa leggere il romanzo ad uno dei critici italiani più raffinati di allora Nicolò Gallo che dà un giudizio positivo su quello che è il suo lavoro pur ammettendo la necessità di qualche “aggiustatina” a livello linguistico. Accade però che il critico muore e Camilleri si trova in difficoltà nel pubblicare il romanzo trovandosi di fronte porte sbarrate. La ragione per cui il testo veniva rifiutato era proprio il linguaggio, ricco di dialettismi siciliani. Ad ogni modo Il corso delle cose viene pubblicato circa dieci anni dopo, nel 1978 e segna l’esordio nella narrativa di Camilleri. Il libro però non fu notato praticamente da nessuno. Nel 1980 esce presso Garzanti Un filo di fumo, primo di una serie di romanzi ambientato nell'immaginaria cittadina siciliana di Vigàta a cavallo fra la fine degli dell'800 e l'inizio del '900. Seguì La strage dimenticata (1984) ma come il precedente libro ebbe scarso successo. Negli anni '84-'92 Camilleri torna all'attività di regista; ma è nel 1992, con l'apparizione de La stagione della caccia che Camilleri diventa un autore di grande successo: la godibilità della trama, la novità di un linguaggio ricco di vocaboli dialettali, l'attrazione naturale del poliziesco, incontrarono subito il gradimento di un pubblico vastissimo e divertito, che apprezzava anche la vena di intelligente ironia diffusa in personaggi e ambienti descritti con essenzialità e immediatezza. Seguono in rapida successione, La bolla di componenda (1993), La forma dell'acqua (1994, in cui apparve per la prima volta il commissario Montalbano), Il gioco della mosca (1995), Il birraio di Preston (1995), e in successione gli altri romanzi con Montalbano e inoltre La mossa del cavallo (1999), La scomparsa di Patò (2000), Biografia del figlio cambiato (2000, particolarissima biografia di Pirandello di cui Camilleri è lontano parente), Il re dei Girgenti (2001). 3
M. Pintacuda, “Montalbano sono”, http://www.vigata.org/montalbanosono/montalbanosono/shtml, 2003, consultato [01/12/2011]. 4 M. Sorgi, op. cit., pp. 62-63.
40 Alla fine 2002, Camilleri accetta la nomina a direttore artistico del Teatro Comunale Regina Margherita di Racalmuto. Nell'aprile 2003, in onore allo stesso Camilleri il comune di Porto Empedocle assume come secondo nome Vigàta . Il 4 settembre 2008 ha vinto il premio de Novela Negra RBA con un inedito in lingua spagnola dal titolo La muerte de Amalia Sacerdote pubblicato in Spagna nell'ottobre del 2008 ed in Italia nel 2009 con il titolo La rizzagliata. Camilleri ha venduto più di dieci milioni di copie. I romanzi più fortunati di Camilleri hanno per protagonista il commissario Salvo Montalbano e sono:
La forma dell'acqua (1994) Il cane di terracotta (1996) Il ladro di merendine (1996) La voce del violino (1997) La gita a Tindari (2000) L'odore della notte (2001) Il giro do boa (2003) La pazienza del ragno (2004) La luna di carta (2005) La vampa d'agosto (2006) Le ali della sfinge (2006) La pista di sabbia (2007) Il campo del vasaio (2008) L'età del dubbio (2008) La danza del gabbiano (2009) Vi sono inoltre alcune serie di raccolte di racconti:
Un mese con Montalbano (1998) Gli arancini di Montalbano (1999) La paura di Montalbano (2002) La prima indagine di Montalbano (2004) Racconti di Montalbano (2008)5
5
M. Pintacuda, “Montalbano sono”, http://www.vigata.org/montalbanosono/montalbanosono/shtml, 2003, consultato [01/12/2011].
41 L'idea di scrivere un giallo nacque in Camilleri fra il 1992 e il 1993 e in modo particolare la nascita del commissario Montalbano fu del tutto casuale. In un certo senso questa ispirazione venne supportata dal primo libro giallo che Camilleri lesse all'età di sette anni e mezzo di Simenon. La lettura di un romanzo dello scrittore Vazquez Montálban, El pianista suggerì allo stesso Camilleri una strada possibile per strutturare Il birraio di Preston. Camilleri rimase grato a questo scrittore spagnolo che per altro non conosceva (di cui successivamente però diventa amico) e per rendergli merito decise appunto di chiamare il commissario del quale stava scrivendo, proprio Montalbano, che tra le altre cose è un cognome siciliano diffusissimo. Camilleri afferma6 che per scrivere i gialli su Montalbano prende spunto al novanta per cento da fatti di cronaca reali. Sceglie poi i più importanti e cerca di farli risolvere al commissario. Quindi ciò che fa è ispirarsi a casi veri per poi riportarli nei suoi romanzi e affidare al personaggio la risoluzione del caso. L’autore sostiene inoltre che il suo modo di scrivere è anarchico, mette su carta uno stimolo e non sa che sviluppo avrà. È comunque del parere che la gabbia più grande per un narratore è lo schema del giallo.
È possibile a questo punto, entrare nel vivo della descrizione del commissario Salvo Montalbano che tanto ha contribuito a far diventare famoso Camilleri. Nello stesso libro-intervista7 anticipato precedentemente, Camilleri parla del commissario. Afferma che uno dei personaggi da lui descritti che non ama particolarmente è proprio Montalbano e spiega anche il perché. Reputa Montalbano un personaggio seriale, che si ripete nel tempo e quando si comincia a ripetere un personaggio, almeno per lui, c’è un problema di diversificazione. In ogni caso lo scrittore è ben consapevole che il commissario abbia fatto la sua fortuna. Lo stesso Camilleri parlando della figura di Montalbano8 sostiene che in ogni personaggio che si va a descrivere c’è sempre qualcosa di un qualcuno che si è conosciuto, che rimane impressa. In Montalbano ad esempio, ci può essere l’ironia e la timidezza di Leonardo Sciascia. Ed è proprio riguardo al suo conterraneo scrittore che Camilleri in una intervista9 ne parla apertamente. Dice infatti che Sciascia in lui ha pesato e continua a pesare. 6
A. Bucchieri, intervista, in Andrea Camilleri: Vi racconto Montalbano, interviste, Roma, Datanews, 2006, pp. 74-75. 7 M. Sorgi, op. cit., p. 95. 8 Ibidem, p. 98. 9 Associazione culturale “Camilleri Funs Club” intervista, in Andrea Camilleri: Vi racconto Montalbano, interviste, Roma, Datanews, 2006, pp. 74-75.
42 Con lo scrittore Camilleri non ha avuto un vero e proprio rapporto di amicizia, ma piuttosto un rapporto di affetto, fiducia e simpatia. Dichiara che erano allo stesso tempo simili e diversi. Simili nel modo di pensare, divertirsi per la scrittura, Sciascia limava, perfezionava, affilava l’esercizio della scrittura come un bisturi. Camilleri parlando ancora di Sciascia azzarda un paragone tra lo scrittore e un elettrauto, nel senso che quando si sente le batterie scariche Camilleri prende un libro di Sciascia e inizia a leggerlo e di li a poco il “motore” si riaccende proprio come fa un elettrauto con il motore di una macchina. Camilleri parla anche dei silenzi10 di Sciascia, silenzi rumorosissimi e ben udibili. Gli stessi silenzi che fanno parte anche di Montalbano e che Camilleri cerca di sottolineare, descrivendone la durata, il ragionarci sopra, le pause e un ritornare sopra i ragionamenti e i silenzi in un continuum di pensiero che non si ferma mai. Quando Camilleri in vari passaggi dei romanzi su Montalbano dice la frase: “Il commissario ci pensò sopra tanticchia” vuole affermare proprio quanto appena detto: descrivere la durata dei silenzi che vanno a costituire un pensiero. Inoltre in una intervista11 Camilleri sostiene anche che ciò che ha contribuito a far nascere il personaggio Montalbano è senza dubbio il fatto che in Sicilia soprattutto negli ultimi anni si sia recuperata la fiducia nella giustizia e nelle forze dell’ordine e di conseguenza nella divisa. Se questo cambiamento importante non ci fosse stato molto probabilmente Montalbano non sarebbe stato un commissario. Proprio a sostegno di questa ritrovata fiducia nello Stato da parte dei siciliani, Camilleri nella stessa intervista afferma che un tempo prevaleva la filosofia “fatti loro” dietro a cui le persone si barricavano chiudendosi in una sorta di mutismo perenne, ora aggiunge ancora lo scrittore, sembra che le cose fortunatamente stiano cambiando. Il concetto che sta esprimendo Camilleri dunque è quello dell’omertà, che appunto troppo spesso sembra far parte del popolo siciliano. Proprio a questo proposito egli esprime brevemente un concetto, e cioè che i siciliani in realtà non sono omertosi quello che bisogna fare è saper “decrittare” il loro linguaggio ma ancor di più il loro modo di ragionare. Riguardo la medesima tematica lo stesso Camilleri in una intervista al quotidiano La Repubblica12, afferma che il rapporto tra i siciliani e Cosa Nostra è molto differente rispetto ad alcuni anni fa. I siciliani hanno sempre parlato sottotraccia, e chi voleva capire, capiva. L’omertà esisteva nei confronti della legge, ma si sapeva tutto di tutti. Tutti sapevano chi era mafioso e chi aveva ammazzato chi. Però proprio in questo senso molto è cambiato, e tanto. A 10
M. Sorgi, op. cit., p. 98. A. Bucchieri, op. cit., p. 69. 12 G. Cacciatore Palermo, “Io Camilleri emigrante con tanta voglia di ritornare”, La Repubblica, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/02/21/io-camilleri-ermigrante-con-tanta-vogliadi.html, 2010, consultato [21/12/2011]. 11
43 supporto di ciò Camilleri riporta un esempio significativo: venne a sapere che a Porto Empedocle (sua città natale) era stato ammazzato un maresciallo e che le telefonate della gente avevano intasato i centralini del commissariato dei carabinieri e di questo lo scrittore si dichiara particolarmente colpito. Mentre una volta la gente chiudeva le finestre, oggi telefona, e questo rappresenta un grande cambiamento. La figura di Salvo Montalbano13 risulta chiaramente connotata: è nato nel 1950 e quindi ha ormai superato i cinquant'anni, è originario di Catania e ha iniziato la carriera poco dopo i trent'anni e, prima di divenire commissario a Vigàta è stato sballottato da un paese ad un altro. Camilleri ad ogni modo non ci da mai una altrettanto chiara descrizione fisica del commissario; la madre di Montalbano muore quando lui è piccolo, un giorno il padre lo porta a casa di una sua sorella senza spiegargli che la nonna stava morendo e che la madre si era gravemente ammalata; quando il padre torna a riprenderselo, vestito a lutto, si rifiuta di seguirlo. Una figura sostitutiva della madre è Clementina Vasile Cozzo14, una settantenne su sedia a rotelle, ex maestra elementare, intelligente e signorile (che il commissario conoscerà ne Il ladro di merendine) e con la quale entra subito in sintonia, tanto che prenderà l'abitudine di andarla spesso a trovare, una volta a settimana raccontandogli delle varie indagini che ha per le mani. Il rapporto che si crea con questa donna è pertanto prettamente filiale e rappresenta per l'appunto la madre che avrebbe voluto scegliersi. Altre notizie sull'infanzia e la giovinezza del commissario non ne abbiamo. Ne Il ladro di merendine, il commissario viene avvertito che il padre sta morendo di cancro e sempre nel medesimo libro si scopre che Salvo è rimasto orfano di madre da bambino ed è stato allevato dal padre. Il padre di Montalbano, una volta laureatosi il figlio decide di risposarsi. Di questa scelta Salvo rimane male e perciò i loro incontri andranno sempre più a diradarsi. Il padre ha un'azienda vinicola e vive in un altro paese e anche la seconda moglie morirà prima di lui. Padre e figlio pur vedendosi assai di rado si vogliono molto bene: il padre collezione giornali che parlano del figlio e quando Salvo era rimasto ferito ed era stato ricoverato, il padre aveva telefonato tutti i giorni ed era andato a trovarlo una volta.
13
M. Sorgi, op. cit., pp. 96-97. M. Pintacuda, “Montalbano sono”, http://www.vigata.org/montalbanosono/montalbanosono/shtml, 2003, consultato [01/12/2011]. 14
44 Il padre decide di non dire niente a Salvo sul fatto che sta per morire. Il commissario verrà avvisato da un collaboratore del padre e ciò genererà in lui un profondo dolore che culminerà in un pianto dirotto. Decide tuttavia di non andare a trovare il padre, anche perché la sua morte è un avvenimento che il commissario si rifiuta di accettare e quando alla fine trova il coraggio per andare a fargli visita, è ormai troppo tardi perché il malato ormai è morto da due ore. I casi su cui indaga Montalbano15, sono tutti relativi a eventi delittuosi o strani, trovano sempre una logica soluzione grazie all'intuito del commissario e alla sua sensibilità di uomo, forse più che di investigatore. È proprio questa autenticità del personaggio, che non viene mai presentato come un supereroe o un genio dalle sovrumane doti intellettuali, che lo caratterizza e lo rende così familiare. Montalbano in genere non si trova nella sua Vigàta, alle prese con problemi di ordine pubblico o con eclatanti vicende di mafia; bensì con omicidi “semplici” che però evidenziano un'idea drammatica della vita, sono storie private di banditi di provincia, strazianti vicende umane e personali di gente piccola, travolta dalle cose. Ciò non toglie che Camilleri inserisca nei romanzi di Montalbano le allusioni ai temi più attuali e scottanti del mondo di oggi come: l'immigrazione clandestina, il traffico di organi, la nuova mafia, la speculazione edilizia, la droga ecc. Montalbano è un abile scrutatore delle espressioni dei volti, attento al tono della voce e ai gesti dell'interlocutore, maestro nel decriptare il linguaggio non verbale tipico dei siciliani e le frasi che nascondono riposti significati. Spesso non esita a ricorrere a metodi poco ortodossi che lo pongono persino in contrasto con le autorità, ma è ad ogni modo rispettato e ammirato dai suoi subalterni che ne sopportano le piccole manie e non ne discutono gli ordini, per quanto a volte apparentemente stravaganti. La figura di Montalbano si caratterizza anche per la simpatia che talvolta prova per i suoi avversari o addirittura la pietà per le sorti di alcuni ma non solo, spesso prova rabbia e si rammarica per il fatto di non poter cambiare le sorti della società nella quale vive, di non poterne pertanto cambiarne il destino. Montalbano non risolve i casi razionalmente, ma arriva alla verità tramite intuizioni fulminanti, vere e proprie folgorazioni improvvise. È un uomo assolutamente privo di ambizioni, non vuole essere promosso a vicequestore nonostante i suoi successi, tutto ciò per poter vivere tranquillo e nell'ombra e per non allontanarsi da Vigàta, perché la sola idea di un trasferimento e di un cambiamento di abitudini lo farebbero stare male. Le sue abitudini sono ben precise: nuotata mattutina, arriva 15
M. Pintacuda, “Montalbano sono”, http://www.vigata.org/montalbanosono/montalbanosono/shtml, 2003, consultato [01/12/2011].
45 al lavoro sempre con una decina di minuti di ritardo, pranzo in trattoria, ritorno a casa la sera con il cibo lasciato in frigo dalla cameriera Adelina e per finire TV dopo cena. Spesso legge libri anche piuttosto “impegnati” ed è un ottimo conoscitore della storia del cinema. È incapace di mentire con le persone che apprezza, mentre sa inventare le fandonie più assurde davanti ai delinquenti. Rifiuta l'uso delle armi ma quando deve usarle lo fa con grande abilità e professionalità, tanto è vero che gli capiterà anche di uccidere. Altre caratteristiche di Montalbano sono il fatto che ad esempio, non sopporta tutto ciò che è burocrazia16, per cui gli riesce difficile in caso di delitto accettare di perde tempo in attesa del giudice, del medico legale, della Scientifica, che sono capaci di metterci ore prima di arrivare sul posto. Nel romanzo La luna di carta dopo il ritrovamento del cadavere di Angelo Pardo è lo stesso commissario in un dialogo con Fazio a dire:
«Che faccio chiamo?» spiò Fazio. [...] Che ci stava a fare li? Tanto, tra picca, arrivava il circolo questre al completo, il pm, il medico legale, la Scientifica, il novo capo della Mobile, Giacovazzo, che avrebbe assunto l'indagine...Se
avivano
bisogno
di
lui,
sappivano indovi circarlo17.
Questo dialogo per l'appunto supporta quanto detto precedentemente.
Oltre a questo Montalbano sembra essere insofferente nei confronti dei compromessi politici, è contro le ipocrisie di ogni tipo, detesta scrivere e firmare carte. Così come per esempio si trova a disagio anche nelle conferenze stampa, dove si agita, diventa rosso, suda, non riesce a stare fermo, si esprime balbettando. Inoltre non gradisce la presenza dei giornalisti mentre indaga, detesta la mondanità e l'esibizionismo.
16
M. Pintacuda, “Montalbano sono”, http://www.vigata.org/montalbanosono/montalbanosono/shtml, 2003, consultato [01/12/2011]. 17 A. Camilleri, La luna di carta, Palermo, Sellerio, 2005, p. 31.
46 Per di più, non lo si dice mai chiaramente ma si intuisce che è di idee politiche di sinistra; è amico del giornalista di Retelibera, Nicolò Zito. Nega comunque di essere comunista e, ad ogni modo, non vuole parlare di politica. È di umore fondamentalmente instabile, basta poco per innescare la miccia e farlo infuocare. È metereopatico18, si innervosisce spesso, soprattutto quando ha difficoltà nel risolvere i casi, e anche i suoi uomini in queste occasioni preferiscono stargli alla larga. Possiede una buona cultura umanistica e spesso luoghi o situazioni gli suggeriscono ricordi letterari. Coltiva raffinate letture, possiede il Faust, legge Proust, Saba ecc. È anche un discreto conoscitore d'arte. Montalbano, come si è detto, dirige il commissariato di Vigàta19; ai suoi ordini c'è un gruppo di uomini con caratteristiche particolari ma animati da un autentico spirito di squadra:
il vicecommissario Mimì Augello l'ispettore Giuseppe Fazio l'agente Agostino Cattarella l'agente Gallo l'agente Galluzzo Si tratta di una squadra unita e compatta alla quale si unisce il vecchio questore Burlando, legato ad un rapporto di stima e di affetto a Montalbano, e il medico legale Pasquano che non smette mai di brontolare nel sezionare i suoi cadaveri anche se fa il suo lavoro con serietà e rigore. Sembrano essere difficili invece i suoi rapporti con Augello, che Salvo stima ma considera anche un rivale, tanto da tenerlo allo scuro delle indagini, giustificando il tutto con il fatto di sentirsi un cacciatore solitario. Inoltre è un po' diffidente e geloso nei confronti di Mimì, grande play boy, soprattutto quando questi dimostra la sua evidente simpatia per Livia. Nonostante tutto comunque Mimì rimane un grande amico di Salvo e Livia. Ad esempio nel romanzo La luna di carta, Mimì e Salvo parlano del nome del figlio appena nato di Mimì:
18
M. Loira, intervista, in Andrea Camilleri: Vi racconto Montalbano,interviste, Roma, Datanews, 2006, p. 13. M. Pintacuda, “Montalbano sono”, http://www.vigata.org/montalbanosono/montalbanosono/shtml, 2003, consultato [01/12/2011]. 19
47
«Mimì, fammi capire. La vera ragione per la quale lo chiamate come a mia è perché glia altri nomi sono nomi che vi parino strammi?». […] Prima di tutto c'è l'affetto che ho per te che sei per me come un padre e poi... […] Alla notizia che il nascituro si sarebbe chiamato Salvo, Livia era stata invece pigliata da una gran botta di chianto20.
Anche con l'ispettore Fazio, Salvo ha un sincero rapporto di amicizia. Fazio da buon siciliano è molto permaloso, però è profondamente affezionato al suo capo e spesso lo aiuta in imprese pericolose. Molto comico è invece l'agente Catarella. Più che un personaggio pare essere una macchietta, inserita dall'autore al preciso scopo di divertire con forme di comicità involontaria. Ad esempio in un dialogo tra Catarella e Montalbano ne La luna di carta:
«Non c'è il dottor Augello?». «Nonsi, dottori, tilefonò che arriva tardo in ritardo datosi che ritardò»21.
Sembra chiaro da queste battute come il linguaggio di Catarella sia paradossale e quasi incomprensibile. Pare che Montalbano sia l'unico a capire ciò che dice. Le sue frasi fanno scattare un meccanismo comico che destano simpatia nel lettore. Nei romanzi di Montalbano peraltro esistono due schiere22 di servitori dello Stato rigidamente separate fra di loro. Da una parte c'è quella guidata da Montalbano, che procede con onestà e senza secondi fini; dall'altra parte stanno coloro che puntano all'apparenza 20
A. Camilleri, op. cit., p. 14. Ibidem, p. 13. 22 M. Pintacuda, “Montalbano sono”, http://www.vigata.org/montalbanosono/montalbanosono/shtml, 2003, consultato [01/12/2011]. 21
48 piuttosto che alla sostanza, che amano mettersi in mostra di fronte alle telecamere, che non sopportano il mancato rispetto della forma e tuttavia non esitano a comportarsi in modo immorale, preoccupandosi della carriera più che della ricerca dei colpevoli. È una schiera composita, alla quale appartengono tra gli altri, il capo della Scientifica Jacomuzzi e il nuovo questore Luca Bonetti-Alderighi. Quest'ultimo appare animato dal desiderio di svecchiare e rinnovare, di introdurre i computer negli uffici giudiziari, di rompere la compattezza del commissariato di Vigàta, considerato da lui un covo di camorristi. Bonetti-Alderighi è affiancato degnamente dal nuovo capo della Scientifica, il pignolo Arquà tutto forma e poca sostanza, dal capo di Gabinetto Lattes, viscido e mellifluo (indicato da Catarella come “Latte con la esse in funno”) e dal capo della Mobile Panzacchi, fedelissimo del nuovo Questore, definito come capace di uccidere un innocente e di alterare le prove per farlo apparire colpevole. I due mondi sono ben distinti anche da un punto di vista linguistico: il primo gruppo si esprime con un linguaggio semplice, che mescola dialetto e italiano, assumendo sfumature diverse da un personaggio all'altro, ad esempio in un dialogo tra Montalbano e Fazio (nel romanzo La luna di carta):
«Cocaina? Ma che mi conti? L'ingegnere è morto d'infarto!» «Certo. Accussì dice il certificato medico, accussì dicono gli amici. Ma tutto il paisi sapi che è morto per droga»23.
In questa situazione per l'appunto vediamo come Fazio nella sua frase mischi parole dialettali con la lingua italiana.
Il secondo gruppo invece, utilizza una lingua piatta e omogenea, senza sfumature e caratteristiche personali, fatta di termini burocratici e di luoghi comuni ai quali delle volte lo stesso Montalbano è costretto a sottostare, ma dei quali spesso si prende anche gioco. Ad esempio in un dialogo tra Montalbano e il giudice Tommaseo:
23
A. Camilleri, op. cit., p. 20.
49
[…] «Niente. Non l'ho interrogata». «Perché?». «Non mi sarei mai permesso senza la sua presenza, dottor Tommaseo». Il
pm
s'impettì,
pirito
gonfiato
d'autorità, parse un gallinaccio24.
Altra caratteristica di Montalbano è quella di essere fedele e molto legato alla sua fidanzata Livia Burlando25, che risiede a Boccadasse, un quartiere di Genova. Il personaggio di Livia in realtà sembra essere stato creato in omaggio al lontano ricordo di una ragazza di Boccadasse, che Camilleri incontrò nel 1949. Ad ogni modo Livia, risulta un personaggio descritto in un determinato modo: è una impiegata non meglio identificata, tenuta a distanza, ed è l'unico esplicito legame affettivo di un personaggio che ha molto pudore dei suoi sentimenti, e cioè proprio Montalbano. Tuttavia Livia non abiterà mai con lui, il ruolo di “angelo del focolare” è affidato alla governante Adelina, che si occupa della casa quasi sempre in assenza di Montalbano. Il commissario ha bisogno di una buona governante, ma anche di una donna che rivesta tutti i ruoli della femminilità, la madre che ha perduto da piccolo, la consigliera, l'amica, la complice, l'amante e la moglie. In ogni caso a Salvo non dispiace che Livia sia lontana, così evita di impegnarsi troppo nel rapporto, anche se ogni tanto avverte qualche senso di colpa. È un rapporto consolidato dal tempo ma comunque difficile. Quando è lontana Montalbano la desidera, ma quando lei è vicina la avverte come una presenza ingombrante, che gli toglie la possibilità di vivere a suo modo e gli sconvolge le abitudini. Eppure a lei è legato. Prima di addormentarsi la pensa nel sonno e a volte la sogna, e al mattino le viene voglia di telefonarle ma non le dice di averla sognata, trattenuto da un assurdo pudore. Montalbano resta comunque un solitario e troppo spesso si dimentica di Livia. Tuttavia non la tradisce mai, fatta eccezione ne La gita a Tindari per un rapporto occasionale con la bellissima svedese Ingrid Sjestrom.
24
A. Camilleri, op. cit., p. 38. M. Pintacuda, “Montalbano sono”, http://www.vigata.org/montalbanosono/montalbanosono/shtml, 2003, consultato [01/12/2011]. 25
50 Questo tradimento da parte di Montalbano resta nel vago e nel generico, sostanzialmente avviene che: il commissario dolorante per aver abbattuto a spallate la porta di una casa di campagna, sta male, Ingrid resta a dormire da lui e nel sonno lui la scambia per Livia. Altre donne compaiono occasionalmente nella vita di Montalbano, ad esempio ne La voce del violino conosce la bella e solitaria professoressa Anna Tropeano, ne L'odore della notte è momentaneamente attratto da Michela Manganaro. Ne La luna di carta è attratto da Elena Sclafani e da Michela Pardo. Ad esempio per quanto riguarda la prima delle due donne:
La porta si raprì e comparse una trentina biunna e bella […], labbra imbronciate rosso fuoco pur senza un filo di trucco […]26
O ancora:
Era veramente imparpagliato, non sapiva come esporre la questione davanti a quella
bella 27
picciotta che dava piaciri solo a taliarla .
Per quanto riguarda Michela e lo stesso Montalbano che dopo un dialogo con lei pensa:
26 27
A. Camilleri, op. cit., p. 44. Ibidem, p. 51.
51
E, facenno la domanda finalmente lo taliò. Montalbano sintiò dintra di lui una specie di vampata. Era un paro d'occhi preciso 'ntifico a un lago viola nel quale sarebbe parso a tutti i mascoli bellissima cosa tuffarsi e annigare in quelle acque […]28.
In ogni caso, sia in queste che in altre occasioni il commissario resta fedele alla sua Livia (o forse alla sua vita abitudinaria).
Nel libro-intervista dedicato a Camilleri, l’autore commenta anche il suo rapporto con i personaggi femminili29 all’interno del romanzo. Sostiene che ciò che cerca di fare è descrivere una fantasia femminile e la descrive così per come può immaginarsela. Sostanzialmente, secondo l’intervistatore del libro, pare che le donne descritte da Camilleri siano donne furbe, leggere o traditrici o ad ogni modo sembrano essere “vittime” di uno stereotipo come ad esempio il fatto che siano sempre alle prese con storie di tradimenti per l’appunto. Ed è a tutto questo che Camilleri risponde dicendo che volendo i tradimenti (o “corna” come le chiama più esplicitamente Camilleri), sono spesso una forma di reazione alla condizione di repressione in cui si trovano a vivere le donne. Il dubbio, è quello che Camilleri tenda a descrivere le donne per come le vede lui, in una maniera un po’ retrograda rispetto alla condizione odierna. Camilleri in effetti non esclude tutto questo, dicendo che per un uomo della sua età e soprattutto della sua generazione è perfino probabile. Camilleri ci dice anche che se si guarda alla condizione femminile di oggi ci si trova davanti ad un continuo, quotidiano, terribile scandaglio psicologico per cui siamo pieni di confessioni di donne. Confessioni personali, sofferte, dolorose, ma spesso immaginarie. Donne che apparentemente sono mogli perfette, apparentemente soddisfatte del loro tranquillo tran-tran, una vita noiosa, ripetitiva, un lavoro qualsiasi oppure niente. In realtà ciò che Camilleri vuole dire è che spesso, le donne descritte
28 29
A. Camilleri, op. cit., p. 19. M. Sorgi, op. cit., pp. 105-110.
52 da lui sono probabilmente quello che le donne pensano di sé stesse, ma allo stesso tempo il contrario di come vorrebbero essere raccontate. La visione delle donne raccontata da Camilleri è quasi sicuramente, così come afferma lo stesso scrittore, legata alla sua infanzia, alle sue esperienze, e anche a un senso di timore verso le donne che in Sicilia faceva parte di una certa educazione. Si potrebbe dire a questo punto che il fatto di guardare e raccontare l’universo femminile secondo i parametri della sua infanzia potrebbe rappresentare per Camilleri un limite. Egli ammette di essere appassionato dalla forza del carattere femminile, ma sa benissimo di essere bloccato a una certa epoca, sostiene che le ragazze di oggi non le saprebbe raccontare. Ad ogni modo Camilleri, afferma anche che chi crede di capire, anticipare o prevedere le donne alla fine si accorge che è tutta uno sciocchezza. Alla base di tutto ciò, c’è un inutile senso di sgomento, la paura di perdere qualcosa. Quando invece, magari ci sarebbe molto da guadagnare. Per Camilleri è una cosa senza senso affermare la propria mascolinità cercando di giocare d’anticipo con le donne. Sarebbe una cosa del tutto impossibile e senza alcun fondamento. In conclusione è possibile dire che se si volesse descrivere con poche righe il personaggio del commissario Montalbano si potrebbe semplicemente dire che è un uomo intelligente e volitivo, con molte qualità e qualche umanissimo difetto. E soprattutto è un uomo con tutte le caratteristiche tipicamente maschili. Nella sfera professionale è generoso e si dà senza risparmiarsi, nella sfera privata è attento ad assaporare tutto ciò che la vita di bello gli può offrire è molto impegnato a sfuggire i problemi e le responsabilità che glielo possono impedire. Inoltre, come sarà noto ai più, i romanzi di Montalbano sono già da diversi anni oggetto di fiction televisive. L’avventura televisiva di Salvo Montalbano infatti, comincia nel 1998, quando il produttore Carlo degli Esposti e la struttura Cinematografica della Rai decidono di trasporre in fiction i romanzi di Andrea Camilleri. Anche la trasposizione televisiva dei romanzi ha avuto un successo clamoroso tanto di diventare un vero caso televisivo, uno dei miglior prodotti della fiction europea degli ultimi anni, tale da mettere d’accordo pubblico e critica e da meritare il riconoscimento internazionale. La scelta di interpretare il commissario Salvo Montalbano in TV è ricaduta (felicemente) sul noto attore Luca Zingaretti. Proprio a proposito di questo aspetto lo stesso Camilleri in una intervista30 afferma che lo sceneggiato televisivo è un caso straordinario ed è così ben fatto che ha
30
A. Bucchieri, op. cit., p. 75.
53 trasformato molti telespettatori in lettori. Rende merito anche allo stesso attore, Zingaretti, il quale pur non rispecchiando al cento per cento il personaggio del romanzo ci si avvicina moltissimo ed è ormai lui nell’immaginario collettivo a impersonare Montalbano a tutti gli effetti.
2.1. Camilleri e Montalbano. Successi e critiche Come è risaputo, il successo di Camilleri è per la maggior parte affidato al personaggio del commissario Salvo Montalbano. In molti oramai lo considerano un vero e proprio fenomeno, con milioni di copie vendute e numerose fiction dedicate ai vari romanzi scritti da Camilleri. Il successo raggiunto da Andrea Camilleri negli ultimi anni ci pone indubbiamente davanti ad un “fenomeno” letterario con poche analogie in Italia. Le sue opere occupano per mesi i primi posti delle classifiche dei libri più venduti. Si moltiplicano le traduzioni all’estero, dal tedesco, al portoghese, dallo spagnolo all’olandese, dal danese al ceco, dal norvegese al polacco e all’ungherese e perfino in giapponese, in turco e in antico gaelico. Camilleri è anche uno degli scrittori più letti in Francia. Lo scrittore viene chiamato in tutta Italia e all’estero per parlare dei suoi libri, dei suoi personaggi, della sua vita e del suo successo giunto nel pieno della maturità. Viene studiato nelle università ed è divenuto un vero e proprio oggetto di culto per molti giovani. Viene chiamato a collaborare per diverse riviste e quotidiani, dà origine a veri e propri fans club il principale dei quali ha sede a Palermo ove è stato creato un sito telematico ad opera del “Camilleri fans club”. È lo stesso Camilleri nel libro-intervista a lui dedicato a spiegare il successo del personaggio Montalbano31. Sostanzialmente l’autore dice che per ciò che riguarda Montalbano, la cosa più logica è che lui stesso (cioè Camilleri) vada ad occupare uno spazio vuoto, che in Italia finora non c’era, che è la scrittura d’intrattenimento alto. Dice ancora, che c’è qualcuno che lo considera un artigiano della scrittura e dice che concorda sull’aggettivo artigiano sostenendo che forse è la sua educazione teatrale che lo porta a questi risultati. Il teatro è una forma altissima di artigianato. A sostegno di ciò effettua anche dei paragoni affermando che: se in Italia non si fa una cattedrale non si è considerati architetti. Invece ci 31
M. Sorgi, op. cit., p. 79.
54 sono cattedrali orrende e chiese di campagna meravigliose. Perciò dice di credere nell’artigianato di una certa classe. È quello che secondo lui ha fatto ad esempio, la fortuna del cinema degli Stati Uniti. Mentre in Italia o si è Fellini o non si è nessuno. In un’altra intervista Camilleri afferma che il problema a questo proposito sta nel capire il concetto stesso di letteratura32, un concetto per altro molto vasto. Egli sostiene che in Italia si ha un concetto sacrale della letteratura il che vuol dire che la letteratura è per pochi e che l’autore anche quando scrive un “romanzucolo” deve erigere la cattedrale di Notre Dame de Paris. Ciò vuol dire, continua ancora Camilleri, che chi come lui non ha la pretesa di scrivere monumenti letterari, ma di costruire piccoli e godibili testi viene preso poco sul serio. Sempre a sostegno di questa tesi33 da più parti si porta avanti l’idea che quello di Camilleri è un mondo che lo scrittore è riuscito a filtrare attraverso la netta separazione tra letteratura “alta” e letteratura di mero consumo, un muro cui solo alcuni critici italiani sembrano ormai assicurare le fondamenta. Non si comprende perché la levata di scudi arrivi proprio da quelli che per posizione politica, dovrebbero essere soddisfatti dell’esistenza di un autore il cui immaginario è alla portata di tutti e del quale tutti possono nutrirsi come meglio credono, presupposto per una buona crescita intellettuale. Il dubbio in sostanza è se raccontare semplicemente una storia e lasciare che le istanze sociali e politiche siano leggibili tra le righe risulti dimostrazione di scarsa dignità letteraria. Se così fosse Camilleri dovrebbe “complicare” il suo linguaggio quel tanto che basterebbe per garantirsi un sicuro ingresso nella enclave degli intellettuali, ma a questo punto ci sarebbe da chiedersi cosa avrebbe a che fare tutto ciò con la cultura. Oltre a questo è possibile dire che è lo stesso autore ad ammettere che il “caso Camilleri”34 comincia proprio con il boom di Montalbano. Racconta, che quando inizialmente andava in libreria per presentare i suoi libri notava che il pubblico andava dai quarant’anni in su e soprattutto racchiudeva persone anziane. Invece quando pubblica La voce del violino nota che nelle librerie durante la presentazione, il pubblico non era solo composto da quarantenni ma cominciavano ad esserci anche giovani di vent’anni che facevano osservazioni intelligentissime. Da quel momento in poi il pubblico di Camilleri inizia ad abbracciare un arco di età che va dai settanta ai diciotto anni. In maniera quasi paradossale però l’autore afferma che tutto ciò, gli provoca uno stato di angoscia perché percepisce come il pubblico 32
T. Calà, M. Morreale, intervista, in Andrea Camilleri: Vi racconto Montalbano, interviste, Roma, Datanews, 2006, p. 30. 33 G. Cacciatore Palermo, “Le lettere”, La Repubblica, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2003/04/29/le-lettere.pa_008le.html, 2003, consultato [21/12/2011]. 34 M. Sorgi, op. cit., pp. 75-77.
55 possa modificarsi e cambiare anche repentinamente. Ma non solo, ciò di cui si ha la sensazione è quella di un pubblico, sopra ogni altra cosa, più appassionato e intelligente di quanto ci si potrebbe aspettare. Un pubblico così può anche spaventare. Ed è, a detta dello stesso Camilleri un pubblico che si attacca, un lettorato che segue e critica se non si è come si viene immaginati. L’autore ci dice anche che i suoi libri sono scritti con un linguaggio misto, italiano e dialetto siciliano, non facilmente comprensibile. Egli afferma che la lunga ricerca di una lingua tutta sua è nata dalla necessità di trovare il mezzo migliore per tirare fuori una percentuale non bassa di ciò che egli vuole esprimere. Afferma ancora che quando scrive non c’è conflittualità tra il dialetto e la lingua. Li adopera entrambi allo stesso livello, tutti e due sono componenti essenziali della sua “voce”35. Egli afferma anche che utilizza le parole che la realtà gli offre per descriverla in profondità. Non potrebbe mai ambientare un suo libro in una città che non conosce. È ovvio che Camilleri non abbia la pretesa di innovare la lingua, semplicemente utilizza la sua e adotta un suo modo di scrivere. La chiave di tutto ciò, secondo Camilleri, sta nel fatto che come per tutti gli scrittori siciliani, le sue storie non escono dall’isola. Gli scrittori lombardi non parlano sempre della Lombardia, gli scrittori romani evadono ogni tanto dalla loro città. Invece gli scrittori siciliani continuano a rimestare la loro terra ossessivamente perché in realtà non la conoscono e di conseguenza non sanno nemmeno chi sono loro. Questo fascino, questa attrazione che la Sicilia riesce a emanare, può essere una delle ragioni del successo. Camilleri parla anche del fatto che le sue storie non sono ironiche, sono umoristiche e che dietro la sua scrittura, c’è una tecnica, una capacità di sceneggiare appresa proprio in decine di lavori teatrali. Ed è proprio lavorando in teatro che Camilleri ha appreso la tecnica del dialogo e la creazione dei personaggi, mentre dal cinema ha appreso altre cose come la narrazione per sequenze e non per capitoli. Camilleri afferma anche che non riuscirebbe mai a raccontare una storia se non immergendola in uno spaccato storico-geografico36 preciso, tanto da affermare che la sua scrittura non acquisisce nerbo se non si esprime in dialetto. Sono le realtà più in ombra, quelle meno conosciute, le più interessanti da descrivere. E proprio la cittadina di Vigàta rappresenta quella Sicilia che vuole uscire da quell’ombra di omertà che l’ha piegata per troppo tempo.
35 36
Associazione culturale “Camilleri Funs Club”, op. cit., p. 129. A. Bucchieri, op. cit., pp. 75-76.
56 Inoltre sempre a proposito della “sua” Sicilia Camilleri parla con amarezza anche del fatto che in gioventù fu costretto ad andar via dall’isola. In un’intervista a La Repubblica37 lo scrittore dice che andò via nel 1949. Parla del fatto che si sentiva come chiuso in un sommergibile affondato, che avvertiva il deserto intorno a se e l’incontenibile voglia di scappare. Ad ogni modo dice anche che siciliani come lui sentono verso la loro terra un amore e un richiamo a cui è molto difficile resistere. È come se avesse un elastico che lo spinge a tornare, quelli che non tornano sono una minoranza. Parla anche del fatto che a questo punto della sua vita se potesse tornerebbe volentieri in Sicilia e anzi aggiunge che se nel momento in cui decise di andar via ci fossero state le possibilità di comunicazione che ci sono oggi con internet, la tv ecc non si sarebbe mai mosso. L’emigrante appena può torna. Camilleri dice anche che non saprebbe dire con certezza ciò che gli piace e ciò che non gli piace della Sicilia, non saprebbe distinguere così nettamente. E questa incertezza proverrebbe dal fatto che egli si ritiene troppo di parte, la troppa lontananza dalla sua terra rende accettabile cose che senza la lontananza non avrebbe mai accettato. La nostalgia rischia di inquinare il giudizio. In ogni caso lo scrittore afferma che una delle cose che più gli piacciono è la perdita del senso di chiusura della famiglia. Una volta venivano erette alte mura che non si capiva se servissero a non far entrare gli estranei o a non far uscire i figli. E poi aggiunge, un’altra cosa positiva è senza dubbio la maggiore capacità di comunicazione dei siciliani, la loro maggiore apertura. Camilleri parla del medesimo episodio della sua “fuga” dalla Sicilia anche nel librointervista38 a lui dedicato rendendolo ancor più ricco di particolari. Parla del fatto che tutto iniziò quando nel ’48 vinse il primo premio in un concorso letterario nella città di Firenze dopo aver inviato una commedia scritta di suo pugno. Qui ebbe modo di entrare in contatto con molti letterati importanti come Montale, Pratolini e molti altri tra i quali Silvio D’amico (direttore dell’Accademia Nazionale di Arte Drammatica) il quale a pochi mesi dall’incontro, scrisse a Camilleri invitandolo a partecipare ad un concorso come regista teatrale. Questa era l’occasione che Camilleri aspettava per poter andar via da Porto Empedocle e recarsi a Roma. Camilleri infatti vinse il concorso, non era particolarmente attratto dall’ambiente teatrale ma era il modo più rapido per potersi trasferire. Ad ogni modo però pur affermando che il teatro non era la sua più grande passione ammette di aver imparato tantissimo, di essere entrato in contatto con grandi registi italiani e di essere rimasto preso dal fascino intellettuale che questi emanavano. 37
G. Cacciatore Palermo, “Io Camilleri emigrante con tanta voglia di ritornare”, La Repubblica, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/02/21/io-camilleri- emigrante-con-tanta-vogliadi.html, 2010, consultato [21/12/2011]. 38 M. Sorgi, op. cit., pp. 42-43.
57 Camilleri tiene molto alla tematica della “sicilianità”39 tant’è che nel libro-intervista a lui dedicato parla ancora una volta di questo tema. Si parte dall’idea che qualcun altro prima di lui definisse i siciliani divisi in due grandi categorie: di scoglio e di mare aperto. Quelli di scoglio sono coloro che si allontanano dalla loro terra, quelli che nel giro di pochi giorni sentono il bisogno fisico di tornare in Sicilia, che soffrono di crisi di astinenza, che gli mancano tutta una serie di cose, come le tradizioni locali, i luoghi ecc. Di mare aperto sono invece quelli che della loro “sicilitudine” fanno una specie di patrimonio personale e lo utilizzano per vivere una vita diversa. In Sicilia ci tornano perché sta nel loro cuore, ma comunque scelgono di proiettarsi su un altro orizzonte. Molti sono i siciliani che non sono mai usciti dalla dall’isola, che non hanno mai varcato lo stretto proprio perché convinti di non potercela fare, di non poter stare troppo tempo lontano dalla loro terra. Il fatto di essere siciliani è peggio che essere isolani, perché in fondo le isole nel mondo sono tante ma poche hanno le caratteristiche delle isole del Mediterraneo. Camilleri da parte sua si sente di appartenere alla seconda categoria citata, sostenendo che uno alla fine si abitua a stare lontano. É normale che il pensiero sia sempre rivolto alla propria terra di origine ma è anche vero che la vita può portare a fare delle scelte diverse che stanno fuori da schemi prestabiliti e ovvi e ai quali pian piano ci si adegua. È bene ribadire però che nel corso degli anni all'immenso successo di pubblico riscosso da ogni libro di Camilleri non ha corrisposto spesso, un altrettanto entusiastica accoglienza da parte della critica. Qualcuno ha addirittura scorto nei successi di Camilleri un indice della pochezza intellettuale della nostra epoca, priva di grandi scrittori. Ad esempio il giornalista Francesco Merlo, deplora la “sicilitudine”40 come genere letterario. É lo stesso Merlo infatti a dire che Camilleri pare essere l'ultimo divulgatore di quella Sicilia immaginaria delle macchiette e degli stereotipi, una sorta di ambasciatore della retoricità siciliana che ormai dilaga con lui in più parti: sui giornali, nei libri, nelle televisioni, nella dialettica politica e persino nelle campagne elettorali. Secondo il giornalista la retorica di Camilleri invade più fronti, come quello dell'uso del suo italiano dialettizzato e la presenza dei suoi irreali poliziotti siciliani (come ad esempio Catarella). Merlo sostiene anche che si va a creare una Sicilia immaginaria, in cui la realtà è deformata per compiacere il senso comune, si creano pittoresche raffigurazioni attraverso cui oramai la gente sembra convinta che in Sicilia avvengano solo le cose più strane e più feroci 39
Ibidem, pp. 39-40. F. Merlo, “Camilleri, che noia”, Il Corriere della Sera, http://archiviostorico.corriere.it/2000/dicembre/11/CAMILLERI_CHE_NOIA.shtml, 2000, consultato [15/12/2011]. 40
58 proprio perché della Sicilia si tendono a scrivere e a raccontare le cose più strane e più feroci. Camilleri secondo Merlo inventa una Sicilia arcaica, un'insularità quasi biologica, come se la sicilianità fosse un caratteristica particolare che ovviamente non esiste se non come stereotipo, come pregiudizio che raccoglie banalità di ogni genere. Infine lo stesso Merlo accosta la prolificità di Camilleri a quella di un altro scrittore: Simenon, del quale dice che era nato in Belgio e dal Belgio era fuggito. Aggiunge, che però Simenon non si rifugia nella sua “belgitudine” a differenza di Camilleri che si rimette alla sua “sicilitudine” e a una sempre più presente caricatura della Sicilia. Altre critiche sono state mosse allo scrittore siciliano, infatti sono stati criticati anche i racconti brevi su Montalbano. Un altro giornalista, Cesare Medail, paragona i racconti brevi41 a dei “cortometraggi”, la brevità di alcuni racconti non sempre sarebbe utile allo sviluppo della narrazione che talvolta cadrebbe nell'aneddoto, o porterebbe alla costruzione di personaggi che rasentano un po' la macchietta. Lo stesso Medail dice che, proprio perché si apprezza la bravura di Camilleri nell'evocare atmosfere, caratteristiche e ambiguità della sua terra, resta una punta di delusione quando la narrazione appare contratta. La vena di Camilleri, secondo Medail, ha bisogno di distendersi: Camilleri infatti aggiunge poco a poco descrizioni e caratteristiche di ciò che racconta, mentre il racconto breve per essere efficacie ha bisogno di quello scarto secco proprio di altre vocazioni. Medail porta come esempio La paura di Montalbano, il raccontino che da il titolo alla raccolta. Adombra lo smarrimento del commissario di fronte agli abissi della psiche, ed è un'occasione persa perché l'ostica relazione tra il pragmatico Salvo e Freud avrebbe prodotto ben altri effetti se sviluppata fra le passioni sanguigne di Vigàta invece di essere compressa nell'aria rarefatta di una gita alpina. In conclusione di articolo Medail scrive che i “cortometraggi” dall'esile trama appaiono un'aggiunta inutile nell'economia del libro. Anche lo scrittore Vincenzo Consolo muove nei confronti di Camilleri alcune critiche42, accusandolo di non aver nulla a che fare con Sciascia, con l’impegno civile e di aver tradito gran parte della letteratura siciliana. Inoltre lo stesso Consolo sembra sostenere che uno dei motivi di successo di Camilleri è che non fa pensare. A ciò Camilleri risponde dicendo prima di tutto di non aspettarsi questo genere di critiche da parte di Consolo, e dicendo anche che alcuni suoi romanzi come Il birraio di Preston , La concessione del 41
C. Medail, “Ma i cortometraggi vanno stretti a Salvo Montalbano”, Il Corriere della Sera, http://archiviostorico.corriere.it/2002/maggio/19/cortometraggi_vanno_stretti_salvo_montalbano.shtml, 2002, consultato [15/12/2011]. 42 M. Sorgi, op. cit., pp. 145-146.
59 telefono o La mossa del cavallo che descrive un intreccio tra mafia e politica nell’800, siano romanzi civili. In una intervista43 Camilleri afferma anche che in generale lui non risponde alle critiche, ne a quelle negative ne a quelle positive, ognuno può pensarla come meglio ritiene opportuno su ciò che lui scrive e su come lo scrive. Come lui è libero di scrivere nel modo che vuole allo stesso modo il lettore è libero di essere d’accordo con ciò che scrive, così come può essere libero di comprare o non comprare un libro. Si può dunque essere liberi di concordare o non concordare con il pensiero dell’autore ma ciò che egli afferma di non tollerare assolutamente è quando lo si critica senza neanche averlo letto. Questo perché scrivere comporta un certo tipo di fatica. Dietro la stesura di un libro ci sono ore e ore di lavoro a cui qualsiasi scrittore si dedica con passione. Ed è proprio questo il concetto che Camilleri ha della letteratura. Ad esempio in riferimento al numero dei suoi lettori44 lo scrittore dice che ammette con enorme piacere che questi siano ampiamente aumentati di numero ma che lui continua a scrivere proprio come agli inizi, come quando a leggerlo erano poco più di un migliaio. Sostiene a questo proposito che ci sono critici che stroncano alcuni suoi libri asserendo che ormai il successo gli abbia dato alla testa. Ciò che a Camilleri fa rabbia non è tanto la critica in sé che comunque accetta, ma è la motivazione (cioè il fatto che il successo gli abbai dato alla testa) ed è per ciò che gli viene da dire che il successo logora chi non ce l’ha, quindi sostanzialmente che chi lo critica portando avanti queste motivazioni lo fa perché invidioso.
Ad ogni modo lo stesso Camilleri nel medesimo libro-intervista a lui dedicato parla proprio del concetto di “sicilitudine”45, spiegando nelle sue varie forme cosa questo rappresenti per lui. Parlando dell’amicizia ad esempio dice che quella siciliana è molto particolare e differente dalle altre, è un’amicizia sincera che contempla lunghi silenzi, il piacere di sentirsi fianco a fianco senza bisogno di parlare è tipico dell’essere siciliano. Altri chiederebbero il perché di un silenzio così prolungato, l’amico siciliano una domanda del genere non la farebbe mai perché sarebbe felice di stare accanto ad una persona amica e condividere con lei anche un silenzio. Questa, sempre a detta dello stesso Camilleri, è una caratteristica che vale solo per i siciliani, una particolarità. É lui stesso ad aggiungere che vista
43
T. Calà, M. Morreale, op. cit., pp. 30-33. Associazione culturale “Camilleri Funs Club”, op. cit., p. 134. 45 M. Sorgi, op. cit., pp. 23-26. 44
60 sotto quest’ottica l’amicizia tra siciliani è un qualcosa di molto forte, un sentimento simile all’amore. Sempre Camilleri aggiunge che tra amici il sentimento è così importante che l’idea del fallimento è un pericolo che incombe sempre. All’amico siciliano non si ha bisogno di chiedere alcunché perché se gli si dice tutto di se stessi, l’amico ha l’obbligo di prevenire quella richiesta. Se ciò non avviene e si è costretti a chiedere una qualsiasi cosa vuol dire che c’è un’incrinatura nell’amicizia, proprio perché l’amico rappresenta l’altra parte di se stessi. In ogni caso, è sempre lo stesso Camilleri a dire che proprio lui in prima persona si è trovato a vivere diverse amicizie anche con non siciliani con cui ha intrattenuto rapporti intensi, da vera amicizia siciliana. In realtà secondo lo scrittore il non siciliano spesso, si trova di fronte a un siciliano come non se lo aspetta. La sorpresa di tutti coloro che si recano in Sicilia non è solo per la bellezza dell’isola, ma anche constatare come sono straordinari i siciliani così diversi dall’immagine convenzionale che li accompagna. In un’altra intervista, sempre a proposito dell’essere siciliani46, Camilleri aggiunge che la gente di Sicilia è molto variegata. Il bello della Sicilia è la riscoperta quotidiana di una terra sempre nuova e diversa. Racchiudere il siciliano dentro confini e ruoli prestabiliti sarebbe un errore grossolano. Esiste in realtà anche un siciliano di questo tipo ma c’è anche da tener in conto che il siciliano è il “prodotto” di tredici dominazioni è presente quindi l’arguzia, la vivacità e l’intelligenza della mescolanza. In una intervista al quotidiano La Repubblica sempre a proposito del concetto di “sicilianità”47 Camilleri dice che i siciliani sono un qualcosa di unico, la varie dominazioni subite li hanno “imbastarditi” e in certo senso resi più forti. È vero anche che sono unici pure i loro difetti, il siciliano passa dalla depressione all’autoesaltazione in poco tempo. Altri difetti sono il pianto continuo nei confronti dello Stato e del Nord e il preferire il lamento al lavoro. Preferiscono morire da soli che tentare di vivere in compagnia. Inoltre il fatto di non creare un fronte comune, ma di vedere gli altri sempre come avversari, costituisce la più grande debolezza del popolo siciliano.
46
M. Loira, op. cit., p. 15. G. Cacciatore Palermo,”Io Camilleri emigrante con tanta voglia di ritornare”, La Repubblica, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/02/21/io-camilleri- emigrante-con-tanta-vogliadi.html, 2010, consultato [21/12/2011]. 47
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2.2. La luna di carta: trama e commento del romanzo
Come è già stato più volte ribadito Andrea Camilleri è uno tra gli scrittori italiani più letti non solo a livello nazionale ma anche a livello internazionale. È inoltre uno degli scrittori più apprezzati, anche se come si è visto non mancano le critiche. Molti sono stati quindi i romanzi da lui scritti e raccontati. In questo elaborato si andrà ad analizzare e commentare in modo particolare un romanzo scritto da Camilleri nel 2005, La luna di carta.
Il romanzo ha come protagonista il commissario Montalbano, il quale si trova alle prese con un complicato caso da risolvere. La storia è come di consuetudine per i romanzi dedicati a Montalbano ambientata in Sicilia ed in particolare nella cittadina di Vigàta. Un bel giorno si presenta nell’ufficio del commissario una donna, Michela Pardo, la quale intende denunciare la scomparsa di suo fratello, Angelo Pardo. La donna sembra particolarmente sconvolta e preoccupata perché non sentendo il fratello da diversi giorni è convinta che gli sia capitato qualcosa di brutto. Il commissario inizialmente cerca di temporeggiare, non dando probabilmente molto peso alla questione, la donna però si reca nuovamente in commissariato e prega Montalbano di accompagnarla proprio a casa di suo fratello, ed è a questo punto che la storia entra nel vivo. Montalbano infatti fa irruzione in un vecchio lavatoio adibito da Angelo Pardo a studio/appartamento ed è proprio li che trova il cadavere dell’uomo. La sorella alla luce del ritrovamento, si sente male e sviene e tra mille peripezie il commissario riesce a portarla nella stanza da letto per farla sdraiare e chiama rinforzi e scientifica. Il modo in cui viene trovato il cadavere lascia pensare ad un delitto passionale (l’uomo viene trovato infatti, con i genitali fuori dalla zip dei pantaloni) ed è proprio in questo senso che il commissario inizia ad indagare, scavando nella vita di Angelo Pardo. Nelle sue indagini Montalbano capisce che il rapporto tra il morto e la sorella era molto stretto si potrebbe dire, morboso. La sorella era praticamente a conoscenza di tutti i movimenti, di tutti i dettagli (anche quelli economici e sentimentali) di Angelo e ciò pare al commissario non poco sospetto. Montalbano viene a sapere proprio interrogando Michela che Angelo è un informatore medico-scientifico (praticamente un rappresentante di case farmaceutiche) che ha messo da parte un bel gruzzolo di soldi nel corso degli anni. Montalbano però viene anche a sapere, sempre da Michela, che suo fratello frequentava una donna Elena Sclafani alla quale era solito fare costosi regali.
62 Il commissario a questo punto decide di andare a interrogare anche la Sclafani, una giovane donna di ventinove anni, che risulta essere sposata con un uomo, un professore molto più grande di lei. La donna intuisce subito che Montalbano è andato da lei proprio per parlarle del suo amante Angelo. Tra il commissario e la donna ci saranno vari incontri nei quali la Sclafani rivelerà particolari importanti al commissario, come la conferma del fatto che il rapporto tra Angelo e sua sorella era praticamente di amore, soprattutto la sorella non poteva stare lontana da suo fratello e ostacolava in ogni modo la loro relazione e secondo la Sclafani è la stessa Michela ad aver ucciso Angelo. Allo stesso modo, nei vari interrogatori tra il commissario e Michela Pardo emerge l’odio che la donna nutre nei confronti di Elena, accusata dalla stessa Pardo, di aver soggiogato il fratello, il quale, a suo dire, aveva minacciato di lasciarla e proprio per questo secondo la donna, Elena l’avrebbe ucciso e sarebbe dunque lei la colpevole. Il commissario si trova a questo punto tra due fuochi, da un lato la versione della sorella del morto e dall’altro la versione dell’amante dello stesso Pardo. Sembra quasi che le due vogliano prendersi gioco di lui, proprio come aveva fatto suo padre quando Salvo era bambino: per prenderlo in giro gli aveva raccontato che la luna era fatta di carta e lui a ciò che diceva suo padre ci credeva. La situazione in cui si trova il commissario è molto simile a quella vissuta durante la sua infanzia, stava credendo a due donne che gli raccontavano che la luna era fatta di carta. C’è da aggiungere che Montalbano si trova stretto nella morsa delle due donne non solo dal punto di vista investigativo ma anche dal punto di vista sentimentale per così dire. Entrambe infatti sembrano essere due donne insidiose seppur molto diverse tra loro, l’una estroversa e di franca sensualità (Elena), l’altra apparentemente dimessa ma detentrice di segreti e ardori (Michela). Le due donne finiranno per mettere a dura prova la capacità di Montalbano di resistere alle tentazioni. Il commissario comunque, seppur attratto in particolare dalla giovane Elena, la quale in un passo del libro viene paragonata dallo stesso commissario ad una gottoparda, per le sue movenze e atteggiamenti sinuosi, riuscirà a non cedere definitivamente non tradendo così la sua amata fidanzata Livia. L’indagine di Montalbano a questo punto si intreccia con un'altra indagine in corso e cioè la morte di alcuni esponenti della politica locale per consumo di sostanze stupefacenti. Le due indagine vengono ad intrecciarsi in quanto grazie all’abilità del commissario si viene a scoprire che era proprio Angelo Pardo a mescolare le varie sostanze smerciandole poi a persone altolocate. Angelo infatti era finito in un giro di bische clandestine e avendo perso molto al gioco era chiaro che dovesse cercare di rimettere in piedi le proprie finanze. È
63 proprio a questo punto che la malavita locale gli offre in cambio di denaro di rifornire di cocaina per grosse quantità clienti molto importanti come politici, imprenditori ecc. Dato il suo mestiere infatti, non gli sarebbe stato difficile muoversi liberamente per tutta la provincia. È qui però che Angelo Pardo commette un errore, alterando e tagliando male le sostanze utilizzate e provocando quindi la morte di alcune fra le persone più importanti della zona. Pertanto, ad un certo punto del romanzo il commissario e la sua squadra ritengono che ad uccidere Angelo siano stati proprio quelli della malavita per fargli pagare “lo sgarro” fatto, ma Montalbano non sembra convinto del tutto della faccenda. Seppur dispiaciuto, inizia a pensare che la vera assassina sia Elena. La vicenda però prende completamente un’altra piega quando il commissario va a parlare per l’ennesima volta con Michela e questa in un momento di assenza dal commissario decide di suicidarsi, buttandosi dalla finestra. In seguito il commissario va a parlare anche con Elena, deciso a smascherare la sua mancanza d’alibi per il giorno del delitto, ma è proprio nel dialogare con lei che il commissario ha una serie di brillanti intuizioni e ricapitola alcuni indizi fondamentali. Attraverso questi comprende che in realtà ad uccidere Angelo Pardo è stata proprio sua sorella Michela la quale si era resa conto che per la prima volta suo fratello si era realmente innamorato di una donna, cioè di Elena e quindi a lei non avrebbe dedicato più alcuna attenzione. In sostanza il movente era la gelosia.
All’interno del romanzo compaiono una serie di elementi importanti che vanno da un lato a caratterizzare quello che è il personaggio di Montalbano in sé e dall’altra quella che è una caratteristica dello scrittore Camilleri che come di consuetudine nei suoi romanzi esprime tutta la sua amarezza nei confronti di un certo tipo di società. Per quanto riguarda il primo elemento, è possibile dire che Montalbano in questo romanzo si trova ad aver a che fare con una sorta di malinconia esistenziale che lo pervade per tutto il racconto, in cui si scopre particolarmente sensibile allo scorrere del tempo e degli anni. Inizia a fare i conti con il pensiero della morte e con l’orologio biologico che è presente in lui. Di notte lo si trova intento a fare pensieri lugubri, ad esempio:
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[…] un pinsero improviso gli passò per la testa, non un pinsero completo, ma un principio di pinsero, un pinsero che accomenzava con queste ‘ntifiche parole: «Quanno viene il jorno della tò morti…» […] non è che l’idea della morte lo scantava in modo particolare, ma la matina alle sei e mezza non era il posto sò […]48.
Il secondo elemento invece risulta più legato proprio allo stesso Camilleri, il quale così come negli altri suoi romanzi, anche ne La luna di carta cerca di denunciare e mettere in luce la classe politica dei nostri giorni, spesso corrotta e inquinata da vizi inconfessabili. Si capisce infatti come non manchino le allusioni esplicite alla situazione politica e sociale del momento. Tutto ciò appare in maniera molto chiara nella parte del romanzo in cui si parla della malavita e dei mafiosi di Vigàta e del giro di cocaina che circolava presso i politici e le autorità più importanti. Sembra che l’intento di Camilleri sia proprio quello di alzare il velo di omertà che spesso avvolge queste situazioni e i suoi protagonisti, mettendo in evidenza con una sempre pungente meticolosità e brillantezza il marcio di un certo tipo di società. Nel libro-intervista Camilleri affronta proprio questo discorso dell’illegalità49, in risposta alla domanda se il territorio corrotto per definizione sia proprio la Sicilia. Egli ci dice che molti autori e scrittori creano uno sorta di stereotipo secondo cui, la maggior parte dei siciliani dovrebbero divenire tutti dei Totò Riina. Se ciò non è avvenuto e perché in realtà le radici dell’onestà sono molti forti. È certamente innegabile che la corruzione e l’illegalità siano presenti in Sicilia ma ciò è un qualcosa di estendibile, purtroppo, anche ad altre realtà italiane, ad esempio Camilleri ci dice che quando si trova a dover raccontare uno scenario di grande corruzione inserisce funzionari corrotti che sono: siciliani, piemontesi, lombardi.
48 49
A. Camilleri, op. cit., p. 11. M. Sorgi, op. cit., p. 112.
65
2.3. Andrea Camilleri e il suo dialetto
Fino a questo punto si sarà compreso come nei romanzi di Camilleri sia presente non sol ovviamente la lingua italiana ma anche il dialetto siciliano. L’autore crea una sorta di mescolanza tra lingua e dialetto che lo rende molto particolare nel suo genere. Tutto ciò come è stato visto ha creato non pochi problemi allo scrittore il quale soprattutto all’inizio ha dovuto “lottare” per poter far accettare la sua scrittura. Molti infatti sono stati coloro che non credevano affatto nel suo potenziale di scrittore e questo perché la presenza del siciliano non avrebbe fatto altro che allontanare i lettori, che non avrebbero apprezzato. Pertanto questa forma di scrittura “ibrida” se così si può definire non convinceva per niente molti critici, tanto che come è stato ribadito è lo stesso Camilleri ad affermare che proprio per questo motivo gli furono chiuse molte porte in faccia e molte case editrici non gli permisero di pubblicare i suoi libri. Il linguaggio usato da Camilleri è un linguaggio che gli permette di essere se stesso, di raccontare e scrivere a modo suo le vicende legate alla sua terra e alle sue origini. Come già accennato precedentemente lo stesso scrittore sostiene che è solo attraverso l’uso del siciliano che può descrivere fatti e vicissitudini della sua terra. Scrivere di altri luoghi sarebbe per lui impensabile non riuscirebbe a descrivere così vividamente come vorrebbe le sensazioni, le vicende e le situazioni che si vengono a creare. In sostanza non sarebbe in grado di descrivere altri luoghi se non quelli della sua Sicilia, luoghi e terre che chiaramente conosce bene su cui si sa muovere e che sa ben collocare anche da un punto di vista geografico. In relazione a questo concetto di “mescolanza” si può dire che Camilleri ne parla non solo da un punto di vista linguistico, ma anche da un punto di vista più propriamente culturale. Egli infatti usa un termine un po’ forte ma a che a suo dire rende bene l’idea sul fatto che i siciliani siano ibridi già di loro, e sul fatto che questo stia nella loro natura e cioè il termine: bastardo50. Sostiene infatti che questa sia una constatazione vera e reale. Questo termine è evidentemente un insulto ma lo scrittore ritiene di doverlo adoperare in modo provocatorio e non negativo proprio per definire il fatto che i siciliani sono il risultato di una distillazione, in bene o in male, e questo afferma lui, è un dato di fatto. È radicato quindi che l’appellativo sia un insulto ma è altrettanto radicato il fatto che i siciliani ne vadano anche
50
M. Loira, op. cit., pp. 15-16.
66 fieri. C’è infatti da considerare che la Sicilia e i siciliani sono il risultato di innumerevoli dominazioni dei secoli passati. Ad ogni modo sembra che molto spesso il tema riguardante l’uso del diletto nei testi letterari sia un qualcosa da scartare, un qualcosa che desta poco interesse. In particolare proprio sull’uso del dialetto che Camilleri fa nei suoi romanzi pare ci siano scarsissime fonti attendibili. Come già anticipato in precedenza, è proprio Camilleri a sostenere che spesso le critiche a lui rivolte sono il frutto di una non lettura dei suoi testi e quindi di una sorta di giudizio a priori. Sostanzialmente egli accetta benissimo le critiche ma queste devono essere allo stesso tempo un qualcosa di costruttivo. In questo paragrafo si vogliono brevemente fornire alcuni esempi del dialetto utilizzato da Camilleri. Nei paragrafi precedenti per descrivere alcune situazioni o azioni sono stati riportati alcuni esempi proprio per chiarire ulteriormente ciò di cui si stava parlando, pertanto già da quel momento si sarà compreso come la lingua di Camilleri sia particolare. In questa sezione in maniera molto sintetica ci si vuole concentrare su quelle che perlomeno ne La luna di carta sembrano essere le casistiche più presenti. Questo proprio per dare ad intendere qual è l’utilizzo che lo scrittore fa del dialetto. Un utilizzo evidentemente variegato e costante. È ad ogni modo indiscutibile che la base linguistica dei romanzi di Camilleri è l’italiano a cui egli aggiunge termini dialettali. In sostanza Camilleri sembra partire dall’italiano, che resta per l’appunto l’impianto originario, per arrivare al siciliano. Ad esempio molto comune nei testi sembra essere la presenza di una sorta di varietà mista del dialetto siciliano che è intimamente integrato nel discorso in italiano. Questo avviene quando l’autore esprime gli stati d’animo o le azioni del commissario:
Erano le nove e un quarto di sira e non aviva pitito. Si levò i vistita, s’infilò una cammisa e un paro di jeans e, a pedi nudi, dalla verandina scinnì in spiaggia51.
In questo caso ad esempio Camilleri commenta proprio un’azione che compie Montalbano cioè quella di svestirsi, di infilarsi altri vestiti e di scendere in spiaggia. Come si vede utilizza un linguaggio misto di italiano e siciliano. 51
A. Camilleri, op. cit., p. 95.
67
O ancora:
Se la pigliò commoda, un pedi leva e l’avutru metti, pregustando quello che avrebbe mangiato. Quando arrivò davanti alla porta della trattoria , si sentì cadiri il cori ‘n terra. Era chiusa, inserrata52.
Anche in questo caso c’è una mescolanza di dialetto e lingua in cui Monatlbano esprime una volontà ben presente in lui, che è quella di mangiare e il suo successivo stato d’animo praticamente di disperazione nel trovare la sua trattoria preferita chiusa.
Presenti nel testo sono anche altre varietà miste di dialetto e lingua italiana tra di essi abbiamo modi dire o espressioni tipiche che Montalbano per mano di Camilleri utilizza:
Una quasi quarantina, a prima vista una superstite figlia di Maria […]53
Sittantino, vidovo, senza figli, il senatore Nicotra, vigatese, […]54
La porta si raprì e comparse una trentina biunna e bella […]55
52
A. Camilleri, op. cit., p. 21. Ibidem, p. 16. 54 Ibidem, p. 41. 55 Ibidem, p. 44. 53
68 In questi tre esempi si percepisce bene come siano molto comuni nel testo queste espressioni tipiche, proprio perché così è la parlata di Montalbano. Il primo sta a significare la presenza di una donna sulla quarantina, il secondo sta dando una descrizione del senatore Nicotra in cui si dice che ha settant’anni. L’ultimo esempio si riferisce alla comparsa all’aprirsi della porta di una ragazza di circa trent’anni.
In ultima analisi si è potuto vedere come in tutto il romanzo sia ben presente la figura dell’agente Catarella ma più che altro la parlata dello stesso. Catarella si esprime in una lingua che si può definire maccheronica, un miscuglio di italiano burocratico e formale, italiano popolare e dialetto. Questo tipo di lingua, che come già accennato, Montalbano pare essere l’unico a capire, crea incomprensioni e situazioni altamente comiche. Molti sono gli esempi in tutto il testo:
«Disse che siccome che stamatina al senatori che morse […] e datosi che il signori e questori devi essiri prisenti di pirsona pirsonalmenti […] il signori e questori non può arriviciviri a vossia siccome che era stabilito. Fui chiaro?»56
O ancora:
«Dottori, me lo portò il foglio che gli abbisogna?» Spiò Catarella appena lo vitti. «si, daglielo». Dove,
secondo
il
complesso
linguaggio
catarelliano, il «gli» stava per lui stisso, Catarella57.
56 57
A. Camilleri, op. cit., p. 41. Ibidem, p. 69.
69
« Dottori ah dottori! All’acqua al collo siamo, dottori. La guardia ai passi non mi fa passari! […]« Dottori, i faili con la guardia ai passi tri sono»58.
In questi tre esempi è molto chiaro come il linguaggio di Catarella sia raro nel suo genere. Desta, proprio per la sua particolarità, molta simpatia nel lettore. In particolare, come si può vedere, nel secondo esempio si tende quasi a tradurre ciò che Catarella dice sottolineando che l’articolo «gli» si riferisce proprio a lui stesso, a Catarella e si ammette la complessità e la particolarità del suo linguaggio. Nel terzo esempio poi, il discorso è tra Catarella e Montalbano. L’agente sostanzialmente si sta riferendo alla password del computer del defunto Angelo Pardo e del fatto che non riesce a comprendere quale sia (la guardia ai passi = password) e più avanti parla dei file, dicendo che ne ha scovati tre, e che tutti hanno una password diversa (faili = file). Sembra quindi molto chiaro come il linguaggio maccheronico di Catarella sia comico, spiritoso e non sempre di facile comprensione.
58
A. Camilleri, op. cit., p. 79.
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CAPITOLO III
IL PROBLEMA DEL REGISTRO LINGUISTICO IN LA LUNA DI CARTA E LA LUNA DE PAPEL
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3. Il registro linguistico
In quest’ultima parte dell’elaborato si andrà in maniera specifica ad analizzare un aspetto linguistico in particolare, cioè il registro. Si inizierà col cercare di capire cosa si intenda per registro linguistico, su che basi esso si erige e i vari elementi che lo compongono. Pur notando una non elevatissima quantità di materiale che indaghi su questo aspetto linguistico, si cercherà comunque di supportare questo stesso elaborato con le posizioni di alcuni autori che proprio di questo tema hanno in parte discusso. Ad esempio gli autori Hatim e Mason descrivono così il registro linguistico: Register is a configuration of features which reflect the ways in which a given language user puts his or her language to use in a purposeful manner. This intentionality acquires its communicative thrust when intertexuality comes into play and utterances become signs1. Con le parole dei due autori quindi si cerca di mettere in evidenza il fatto che il registro venga inteso come un’insieme di caratteri o elementi che vengono utilizzati dalla persona in un determinato modo e con un determinato scopo. Quest’intenzione, ribadiscono ancora i due autori, acquisisce la sua caratteristica comunicativa grazie soprattutto all’elemento dell’intertestualità. Inoltre secondo i due autori, il registro con i suoi vari tipi di significato e funzioni è il depositario dei segni linguistici, il cui campo semantico è intuitivamente riconosciuto dai vari parlanti di una lingua. Sempre secondo Hatim e Mason, il registro ha un potenziale significato pragmatico e semiotico. È possibile individuare la potenzialità in termini di uso marcato o non marcato di una data lingua. Il registro può essere visto come non marcato quando le aspettative sono abbastanza elevate, nel senso che si presuppone che in un dato testo non si vengano a creare problemi o difficoltà. Al contrario il registro può essere marcato quando le aspettative son ben definite e quindi quando si capisce che un dato testo può risultare problematico. Pertanto in quest’uso dinamico della lingua la stabilità comunicativa, sembra essere gradualmente rimossa. Le intenzioni sembrano meno definite e l’elemento dell’intertestualità sembra essere meno chiaro. Alle luce di ciò il registro, non sempre o comunque non in tutti i casi sembra essere una categoria neutrale. 1
B. Hatim, I. Mason, The Translator as Communicator, London e New York, Routledge, 1997, p. 100.
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All’interno del registro la dimensione di colui che utilizza questo stesso elemento linguistico sembra essere costellata da una certa varietà di fattori, come quello: geografico, temporale, sociale e dal così detto idioletto2. Un idioletto include i caratteri di tutti gli altri tipi di varietà (quelle prima citate), tanto è varo che prima di svilupparsi come idioletto affonda le sue radici proprio nel semplice uso dialettale di una lingua contornato da una serie di fattori geografici, storici o sociali. In questo modo l’idioletto incorpora tutte quelle caratteristiche che costituiscono l’individualità di un parlante o di uno scrittore. Un’altra caratteristica dell’idioletto, sempre secondo Hatim e Mason, e che al contrario di quanto comunemente si tende a credere, questo non è affatto un elemento marginale. L’idioletto infatti è un qualcosa di sistematico, il suo uso è spesso collegato a quello che è lo scopo primario dell’espressione ma è anche frequentemente connesso con quelli che sono i significati di tipo socio-culturale. Da parte sua anche un altro scrittore pone l’accento su quello che è il registro linguistico, cioè Newmark3. Egli sostiene che l’autore del testo originale usa il linguaggio auto espressivo in modo deliberato quando esprime i propri punti di vista e in modo inconscio sia attraverso indicatori di tipo psicolinguistici che attraverso il registro, che è diventato secondo l’autore un termine onnicomprensivo in cui rientrano tutti gli aspetti del linguaggio marcati socialmente. Sociolinguisti come Gumpertz e Goffman, hanno notato che in certi ruoli e/o situazioni, la gente parla o telefona o scrive, come datori di lavoro, laureati, illetterati, ingegneri ecc. con un repertorio verbale specifico espresso a livello fonologico, sintattico e lessicale, per quanto tale repertorio possa rappresentare solo una parte marginale o persino insignificante del loro discorso. Secondo lo stesso Goffman4 le principali determinanti sociali delle abitudini verbali o di scrittura sono, l’età, il sesso, la classe, l’occupazione, la casta, la religione, l’istruzione scolastica, il bilinguismo ecc. Queste determinanti sono influenzate anche dalla modalità e dall’occasione del fatto verbale o scritto. Per il traduttore esse rivestono un interesse fondamentale poiché gli forniscono sia un certo campo lessicale, che alcune tipiche “deformazioni” di parole. Sempre Newmark, sostiene che se il registro è molto distante dal linguaggio colto standard, può essere necessario che il traduttore rinunci al suo tentativo di mantenere l’equivalenza funzionale, per realizzare una traduzione informativa, quello che si potrebbe 2
Ibidem, pp. 102-105. P. Newmark, La traduzione: problemi e metodi, Milano, Garzanti editore, 1988, p. 212. 4 J.J. Gumperz, Language and social context, Harmondsworth, Penguin books, 1975, citato da Newmark, La traduzione…, p. 213. 3
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definire come un discorso indiretto. Di norma il traduttore non dovrebbe imitare il dialetto regionale o sociale (a meno che non sia il suo), proprio perché a volte tali tentativi potrebbero rivelarsi troppo artificiosi e quindi un solo errore sarà sufficiente a farlo cogliere in fallo. Anche Eggins5 si sofferma sull’argomento del registro linguistico. Partendo da quelli che sono due degli elementi più importanti e caratterizzanti di un testo cioè coerenza e coesione. Cerca di capire come i vari tipi di testo possano essere coerenti per l’appunto, nei confronti del contesto situazionale che si viene a creare, proprio attraverso il concetto del registro linguistico. Ogni testo dunque secondo Eggins, si basa anche su quello che è il contesto situazionale. Proprio a questo proposito afferma Eggins, alcuni studiosi tra cui Malinowski parlano, sia di linguaggio che di contesto6. Si afferma che effettivamente le funzioni di una lingua possono essere differenti e molteplici e in particolare si attua una differenza parlando di quella che è la funzione pragmatica (quando la lingua viene utilizzata per raggiungere scopi concreti) e quella che viene definita come funzione magica (ovvero la funzione non pragmatica). Se da un lato comunque si è fornito un grande contributo nell’identificare il fondamentale ruolo semantico sia del contesto situazionale che del contesto culturale, dall’altro non si è né formulata una più precisa definizione della natura che caratterizza questi due contesi né la loro relazione con le diverse funzionalità del linguaggio. Proprio per questo si è cercato di estendere la nozione di contesto situazionale al fatto che, data una certa descrizione dello stesso contesto è possibile prevedere che tipo di linguaggio verrà usato. Seguendo quanto si è detto fin ora, un altro studioso, cioè Halliday7, suggerisce che ogni situazione può essere caratterizzata da tre aspetti differenti cioè: campo, modo, tono. E li descrive così:
•
Modo: il ruolo che la lingua gioca nell’interazione. Ci si riferisce al mezzo che viene utilizzato per comunicare che può essere scritto o parlato.
5
•
Tono: la relazione che intercorre tra coloro che interagiscono.
•
Campo: ciò di cui si parla. Lo scopo posseduto dall’interazione.
S. Eggins, An introduction to systemic functional linguistics, London, Continuum International Publishing Group, 2004, p. 88. 6 Ibidem, p. 89. 7 M.A.K Halliday, Language as social semiotic: the social interpretation of language and meaning, Sydney, Arnold, 1978, citato da Eggins, An introduction…, p. 90.
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Queste tre variabili appena citate vengono chiamate le variabili del registro e la descrizione delle caratteristiche di ciascuna di queste variabili è invece la descrizione del registro di un testo. Parlando quindi in maniera più specifica delle variabili sopra citate è possibile dire che ad esempio per quanto riguarda il modo8 la descrizione fornita, appare un po’ semplicistica. In realtà il ruolo svolto dal modo può essere visto in maniera più specifica, definendolo come quell’elemento che va a descrivere i due differenti tipi di distanza che intercorrono tra il linguaggio e la situazione. Pertanto si parla di:
1. Distanza spaziale/interpersonale. Questo tipo di distanza collega la situazione in questione con la possibilità di un immediato riscontro tra coloro che interagiscono. In questo caso, c’è la presenza di un contatto sia visivo che orale. Dall’altro lato questo stesso tipo di distanza può essere riportato non all’interazione orale ma a quella scritta. In questo caso però non è possibile un contatto visivo o orale tra scrittore e lettore e quindi non c’è la possibilità di un riscontro immediato tra i due, pertanto pare evidente come questo riscontro sia molto limitato. 2. Distanza sperimentale. Essa si riferisce alla distanza che intercorre tra il linguaggio e il processo sociale. Per fare un esempio si potrebbe parlare delle situazioni che riguardano i giochi (in particolare quello delle carte) in cui il linguaggio viene evidentemente usato per accompagnare l’attività degli interagenti. Sembra chiaro come in questo caso ci si possa servire del linguaggio per chiamare il turno, per nominare le carte e così via. Prendendo in esame le due dimensioni del modo, appena citate, è possibile caratterizzare i contrasti basici tra l’uso del linguaggio scritto e orale. Nella maggior parte dei confronti orali ci si trova immediatamente di fronte ad un contatto faccia a faccia con la persona con cui stiamo interagendo. In situazioni come queste, abitualmente si reagisce in maniera spontanea perché ci si trova davanti alle così dette conversazioni di “ogni giorno” in cui generalmente si è rilassati e a proprio agio. Al contrario quando si scrive, le situazioni appaiono diverse. Generalmente si scrive stando soli e non è presente quindi quel contatto visivo e orale con coloro che ascoltano. Quindi, il linguaggio usato nelle situazioni orali è tipicamente organizzato in accordo con la sequenza dei turni e cioè: prima parla una persona, poi parla l’altra e in seguito la prima persona risponde. Dal canto suo invece il linguaggio scritto viene 8
Ibidem, p. 91.
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prodotto come fosse un unico blocco. È importante comprendere che queste diversità linguistiche non sono accidentali ma sono la conseguenza funzionale delle differenze situazionali all’interno del modo. Riassumendo quindi si può dire che il linguaggio parlato è interattivo, prevede la presenza di due o più partecipanti che parlano faccia a faccia, spesso si utilizza un lessico informale che viene definito da “ogni giorno”, inoltre è organizzato sulla rotazione dei turni, con i partecipanti che si avvicendano prima l’uno e poi l’altro nel discorso. Al contrario invece il linguaggio scritto non è interattivo, prevede un solo partecipante (che è colui che scrive), utilizza un lessico denso e prestigioso e chiaramente non prevede nessun faccia a faccia. Parlando poi dell’elemento tono9 è già stato detto in precedenza a cosa questo si riferisca. Sono però state identificate anche alcune caratteristiche che lo contraddistinguono, che sono: potere, contatto, coinvolgimento affettivo.
1. Potere. Generalmente questo si esplica in potere equo e non equo, riferito al momento in cui si parla. Esempio di potere equo è l’interazione che si può avere con un amico che è evidentemente di reciprocità. Esempio di potere non equo invece è quello che si può creare tra un impiegato e il suo capo che può anche essere definito come non reciproco. 2. Contatto. Per l’appunto si riferisce alle varie situazioni che permettono all’individuo di avere contatti o comunque interazioni più o meno frequenti. 3. Coinvolgimento affettivo. Si riferisce al fatto che a seconda delle diverse situazioni che l’individuo vive il coinvolgimento affettivo appunto, possa essere più o meno alto. Ad esempio tra amici o innamorati il coinvolgimento affettivo è chiaramente alto. A questo punto è possibile evidenziare due elementi in accordo con le varie dimensioni del tono e cioè le situazioni formali e informali. Una situazione informale è quella che si riferisce a partecipanti dotati di un potere equo, che hanno contatti frequenti e che hanno un alto grado di coinvolgimento affettivo. Una situazione formale invece si riferisce a partecipanti in cui il potere esercitato non è equo, i contatti non sono frequenti e il grado di coinvolgimento affettivo è basso. Sembra chiaro inoltre come la presenza di situazioni più o meno formali possa creare una diversità di linguaggio e vocabolario. In una situazione informale si tenderà ad usare parole che descrivono quelle che sono le nostre attitudini mentre in una situazione formale si tenderà a tenere per se determinati desideri e volontà. Inoltre in 9
Ibidem, p. 99.
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una situazione informale spesso si tenderà ad usare quello che viene definito come slang o comunque abbreviazioni di parole (si pensi ad esempio ad una conversazione con amici), mentre in una situazione formale il linguaggio utilizzato sarà chiaramente più complesso e articolato. Un’altra differenza da sottolineare è data dal fatto che se il coinvolgimento affettivo e il contatto tra i partecipanti è basso la conversazione sarà alquanto breve e sterile, mentre se il coinvolgimento affettivo e il contatto tra i partecipanti è alto la conversazione potrà essere lunga, e ciò evidentemente sarà dato dall’elevato grado di complicità delle persone. In ultima analisi è stato visto l’elemento campo10. Questa dimensione sembra essere quella meno problematica e il suo effetto sul linguaggio sembra essere il più semplice da dimostrare tra le variabili del registro. Il campo quindi è una dimensione linguisticamente rilevante del contesto situazionale. Tale contesto situazionale può essere “tecnico” o di “ogni giorno”. Nel primo caso la sintassi espressa sembra essere di tipo non standard e certamente la terminologia usata risulta essere ben specifica e determinata. Nel secondo caso invece il linguaggio utilizzato sembra essere molto più familiare e informale, inoltre nel caso compaiano termini tecnici questi vengono accompagnati da una definizione precisa. A questo punto ci si potrebbe chiedere il perché si tenda ad analizzare proprio queste tre variabili (tono, modo, campo) e perché esse siano considerate le tre chiavi d’accesso per analizzare gli aspetti situazionali. Secondo Halliday esse sono le tre variabili più importanti perché costituiscono i vari tipi di significati sulla base dei quali è strutturato il linguaggio. Egli giunge a questa conclusione analizzando esattamente come ciascuna variabile del registro possa influire sull’uso del linguaggio. Ad esempio, il campo, è realizzato attraverso alcune parti del sistema grammaticale cioè attraverso elementi come i verbi, i partecipanti (cioè i nomi) e le circostanze (cioè frasi preposizionale di tempo, modo, luogo ecc). Questi tipi di aspetti grammaticali esprimono a loro volta elementi importanti del tipo “chi sta facendo qualcosa, nei confronti di chi, quando, dove, come e perché” e questi stessi elementi tutti insieme vengono descritti come i modelli o schemi di transitività del linguaggio. Per quanto riguarda il tono invece, è possibile dire che questo è realizzato non attraverso quelli che sono i modelli di transitività del linguaggio ma attraverso quello che è il modello chiamato modo. Esso si riferisce alle possibili variabili riguardanti le strutture di una frase (ad esempio quella di tipo interrogativa, dichiarativa), il grado di certezza o obbligatorietà espressa (modalità), espressioni di intensificazione e cortesia.
10
Ibidem, p. 103.
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Parlando del modo poi, si può dire che questo sia realizzato attraverso una particolare area del sistema linguistico, e cioè il tema. Pare chiaro a questo punto come ci sia una correlazione tra la dimensione situazionale di un contesto e i differenti tipi di modelli lessico-grammaticali. Quindi nel momento in cui ci si chiede cosa un testo possa significare si potrà essere in grado di identificare le tre dimensioni del significato: ideale, interpersonale e testuale. Una volta identificati i tre più importanti tipi di significato, lo stesso Halliday, suggerisce che il linguaggio è altrettanto caratterizzato da tre funzioni principali11: una funzione che riguardi l’esperienza, una funzione per creare relazioni interpersonali e una funzione per l’organizzazione delle informazioni. Inoltre lo stesso autore suggerisce che il campo di un testo possa essere associato con la realizzazione di un significato ideale che a sua volta può essere realizzato attraverso la transitività e la complessità dei modelli grammaticali. Il modo di un testo può essere associato con la realizzazione di significati testuali, che sono a loro volta realizzati attraverso l’elemento del tema. Il tono di un testo può essere associato con la realizzazione di significati interpersonali e questi a loro volta sono realizzati attraverso il modo. Anche Milroy e Milroy12 pongono l’accento sulle caratteristiche di formalità e informalità del linguaggio scritto e parlato, sottolineando per l’appunto che la differenza più grande tra i due linguaggi è proprio la formalità. Il linguaggio parlato viene prodotto oralmente ed è ricevuto dall’orecchio di chi ascolta. Il linguaggio scritto invece si serve delle visività, è prodotto manualmente ed è ricevuto dall’occhio di chi scrive o legge un testo. Inoltre mentre l’attività del linguaggio parlato permette una più rapida relazione tra situazione, significato e intenzione, l’attività del linguaggio scritto è privata di un tale e immediato contesto comunicativo. I due autori riconoscono l’importanza di questa differenza, sottolineandone le implicazioni. Quando si parla si usano costantemente gli aspetti paralinguistici che possono essere: vocali (tono di voce, intonazione, pausa, enfasi) o non vocali (gesti, espressioni facciali ecc). Parlare quindi è un’attività prettamente sociale mentre scrivere è un’attività più propriamente solitaria. Una conversazione è quindi uno scambio tra partecipanti: il discorso viene usato per passare ore della giornata (effettuando spesso uno scambio piacevole), per acquisire informazioni, per trasmettere emozioni e attitudini. Dall’altro lato, scrivere è tradizionalmente usato per mantenere intatti ricordi di ogni tipo e c’è inoltre da non dimenticare che la scrittura di documenti o carte ha facilitato la comunicazione nel corso di
11 12
Ibidem, p. 110. J. Milroy, L. Milroy, Authority in language, London, Routledge, 1999, pp. 54-63.
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secoli e anni, attraversando grandi distanze. C’è poi da tenere in conto che queste caratteristiche molto probabilmente hanno fatto si che si insinuasse la tendenza nelle persone nel ritenere il linguaggio scritto molto più complesso e difficile del linguaggio parlato, evidentemente da sempre considerato molto più diretto e semplice. Risulta poi da considerare un altro elemento, cioè che non esiste alcun parlante che non decida di variare il suo linguaggio in base alla situazione con cui viene a contatto: è chiaro che a seconda della situazione in cui un individuo si viene a trovare modificherà l’uso del suo linguaggio rendendolo più o meno formale e sviluppando così ulteriormente la sua competenza comunicativa. Sempre Halliday13 poi, parla di quelli che sono gli elementi che caratterizzano la così detta teoria socio-semiotica del linguaggio. E individua: il testo, la situazione, il registro, il sistema linguistico e la struttura sociale. In particolare ci si soffermerà sui punti che più interessano cioè i primi tre elementi. 1) Il testo. È l’elemento che caratterizza l’interazione linguistica, in cui le persone si sentono realmente partecipi. Il testo è inoltre considerato come un’unità semantica, è dunque l’unità basica del processo semantico. Allo stesso tempo il testo rappresenta il significato potenziale di ciò che viene espresso, rappresenta una scelta (di significato) che viene fatta tra la totalità delle possibili opzioni presenti. 2) La situazione. È “l’ambiente” in cui il testo prende vita. In questo caso Halliday si rifà a quanto affermato in precedenza in riferimento al concetto di “contesto della situazione”. Halliday infatti afferma che la situazione è un costrutto teoretico socio linguistico ed è per questa ragione che si interpreta un particolare tipo di situazione o contesto sociale, come una struttura semiotica. Per l’appunto la struttura semiotica della situazione può essere rappresentata da quei tre elementi di: campo, modo e tono che sono stati definiti precedentemente. 3) Il registro. Può essere definito come una varietà semantica di cui un testo può essere considerato un esempio. Inizialmente il registro venne concepito in termini prettamente lessico-grammaticali. Lo stesso Halliday elaborò una prima variazione tra due tipi di varietà del linguaggio: il dialetto, definito come una varietà che va di pari passo con chi lo usa e il registro che va di pari passo con l’uso che di esso si fa. Mentre il dialetto è determinato da “chi è il parlante”, il registro è determinato da “cosa il parlante sta facendo in quel determinato momento”. Ad ogni modo la visione iniziale del registro, cioè quella di tipo lessico-grammaticale, è andata a modificarsi, tanto che lo stesso Halliday ne suggerisce una visione basata su una definizione in termini
13
M.A.K. Halliday, “Language as social semiotic: the social interpretation of language and meaning”, http://books.it, (s. d.), consultato [11/02/2012].
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semantici. Pertanto il registro può essere definito come: la configurazione di risorse semantiche, che i membri di una data cultura, associano generalmente ad una situazione tipo. Partendo a questo punto si può quindi dire che il registro è riconosciuto come una selezione particolare di parole e strutture, che dipendono dalla tipologia testuale. Quindi sostanzialmente si può dire che: un testo è la forma linguistica di un’interazione sociale. A questa interazione sociale l’individuo può attribuire il significato che più ritiene opportuno, scegliendo tra le varietà di significato potenziali. Un testo è inoltre immerso in un determinato contesto situazionale, il quale è chiaramente basato su una situazione tipo. Alcuni tipi di situazione poi, racchiudono all’interno della loro struttura semiotica alcuni elementi che fanno sì che gli stessi testi, sviluppino una funzione e una importanza centrali durante il processo di trasmissione culturale. In tutto questo si inserisce il registro linguistico, che è strettamente legato al conteso sociale e ovviamente a quello situazionale e che in qualche modo viene controllato dal codice linguistico che è differente per i vari tipi di testo. Un altro apporto allo studio del registro è quello dato dagli autori Gregory e Carroll14 secondo i quali, il registro è un utilissimo strumento per poter collegare tra loro le variazioni linguistiche e le variazioni legate al contesto sociale. Il registro pertanto è un esempio di come la lingua sia un elemento sempre attivo e in azione. Esso poi ha la capacità di poter descrivere il significato delle varie azione espresse in un testo. Il registro inoltre è culturalmente determinato, e ciò sta a significare che è la cultura di una data società che determina il modo in cui il linguaggio può svilupparsi. Questo significa che possono anche generarsi delle situazioni tipo che includono chiaramente i partecipanti all’azione, l’azione medesima ecc., i quali a loro volta vengono determinati dall’uso del linguaggio. È chiaro che i linguaggi possono appartenere a diverse tipologie, ad esempio il linguaggio che si usa in politica sarà differente dal linguaggio utilizzato in situazioni informali, come una chiacchierata tra amici, in famiglia ecc, e in questo caso è presente un rapporto di mutua reciprocità tra i vari elementi che compongono la situazione e l’uso del linguaggio. Il registro a questo punto ha la funzione di captare i cambiamenti che possono generarsi all’interno del contesto situazionale e di conseguenza, evidenziare le eventuali alterazioni di reciprocità tra gli elementi. Sempre secondo i due autori inoltre, i diversi tipi di registro richiamano da un lato a differenti tipi di situazioni e dall’altro a differenti tipi di comportamenti che si creano a seconda del contesto in cui ci si trova, il quale porta appunto a diversificare i propri atteggiamenti.
14
M. Gregory, S. Carroll, “Language and situation: language varieties and their social contexts”, http://books.it, (s. d), consultato [29/02/2012].
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Anche Thompson15 da parte sua accenna al tema del registro linguistico. Egli per l’appunto sostiene che i fattori socio-culturali possano influenzare o comunque determinare ciò che l’individuo intende dire attraverso il linguaggio. Riferendosi alle tre variabili del registro identificate da Halliday, (campo, modo, tono) l’autore sostiene che il fatto che le aree di indagine siano proprio tre non è un qualcosa di accidentale, in quanto ciascuna di esse corrisponde ad una particolare meta-funzione: 1. Il campo. Determina e si riflette nei significati empirici espressi. 2. Il tono. Determina e si riflette nei significati interpersonali. 3. Il modo. Determina e si riflette nei significati testuali. Parlando di registro Thompson, accenna anche a cosa sia il genere, sostenendo che questo esprime più in generale cosa facciano i partecipanti (in una conversazione) attraverso il linguaggio, e come gli stessi partecipanti decidano in che modo organizzare il linguaggio. Anche Simpson16 poi, parla di registro linguistico. Lo fa all’interno di un discorso più ampio, riguardante il linguaggio letterario. Afferma che uno strumento efficace attraverso il quale effettuare una comparazione tra i testi letterari appunto, e altri generi di testo è il concetto di registro. Ed è un termine che collega quella che è la variazione linguistica con la variazione di tipo situazionale. Secondo Simpson inoltre il registro, non dovrebbe essere confuso con il dialetto. Quest’ultimo infatti è una variazione linguistica definita in accordo con l’utilizzo di una lingua. Da parte sua invece il registro, mostra ciò che colui che parla o colui che scrive fa, in un dato momento. Secondo l’autore inoltre ci possono essere due modi di approcciarsi al concetto di registro. Il registro può essere dedotto o comunque compreso attraverso l’idea che in esso siano presenti gli elementi del campo, del tono e del modo. L’altro approccio invece, consisterebbe nell’identificare e nello specificare, gli elementi del campo, del modo e del tono, verificandone poi l’efficacia in una messa a confronto di tali elementi con la lingua da utilizzare. Infine sempre secondo Simpson, il canale della comunicazione letteraria, ha la capacità di assimilare vari registri per poter produrre un discorso, che risulterà multidimensionale e composito. Un’altra posizione che viene portata avanti è quella della Benavent17, che parlando di traduzione e di testo, pone l’accento anche sul registro linguistico. Secondo l’autrice, la prima 15
G. Thompson, Introducing Functional Grammar, London, Arnold, 2004, pp. 40-43. P. Simpson, Language through Literature, London e New York, Routledge, 1997, pp. 10-18. 17 J. Benavent, “Traducir del italiano: el peligro de la proximidad”, in Virgilio Tortosa (ed), Re-escritura de lo global. Traducción e interculturalidad, Madrid, Biblioteca Nueva, 2008, p. 248. 16
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condizione necessaria affinché il traduttore si appropri del testo su cui lavora è considerare come un qualcosa di suo un mondo creato in un ambito differente ma che, per ragioni culturali e personali si percepisce per l’appunto come proprio. La Benavent sottolinea anche l’importanza della relazione tra autore e traduttore nonché l’importanza della complicità tra i due. È fondamentale infatti che si stabilisca una relazione tra un testo che viene concepito nell’universo delle sua lingua e che perciò tende a rappresentare una determinata cultura e un testo che tende a rappresentare un’altra lingua e un’altra cultura, ma che con il testo originale deve chiaramente stringere un legame particolare. Autore e traduttore dimostrano quindi che non possono certo essere distanti da quella che è la “fortuna” del testo, e la caratteristica che unisce ancor di più questa relazione, sembra essere la difesa stessa del testo, la garanzia che il lettore cerca sempre di affrontare quello che è un mondo che gli arriva tradotto, cambiato. Queste caratteristiche vanno anche di pari passo con quelle che secondo la stessa Benavent sono altre peculiarità cioè: la generosità, l’umiltà e chiaramente la complicità che i due mondi che sono rappresentati dai due testi cercano di offrire al lettore, assicurandogli una piena soddisfazione nel confrontarsi proprio con il testo stesso. Altra circostanza di cui si parla è l’onestà nel lavoro del traduttore. È chiaro che la conoscenza della lingua è indiscutibile, però se si parte dal presupposto che una lingua è molto più che un’insieme di regole grammaticali, si comprenderà come ciò che il traduttore accetta come condizione per il suo lavoro, è molto di più dell’esattezza e della corrispondenza nel traslare un testo da una lingua all’altra. Proprio a questo proposito l’autrice cerca di fare chiarezza anche su un altro punto e cioè quella che dovrebbe essere l’imprescindibile conoscenza della lingua dalla quale si traduce. Così come ognuno pensa nella propria lingua o comunque in quella che gli appare come la più familiare, allo stesso modo spera di apprezzare, sentire e vedere in essa le qualità di altre scritture in una qualsiasi delle altre lingue. Le forme, i modi, le parole, l’eleganza, le sfumature di qualsiasi testo o discorso in lingua straniera si apprezzano solo in relazione con la conoscenza della lingua familiare o materna. Se la conoscenza della lingua straniera nella quale si andrà a tradurre non è completa, cioè, se con essa non si ha una familiarità pari a quella della nostra lingua abituale, probabilmente, rimarranno fuori dalla comprensione molte sfumature e dettagli e di conseguenza la traduzione che si porterà avanti risulterà chiaramente insufficiente e carente. Allo stesso modo, se la conoscenza della propria lingua non si dimostra superiore a quella della lingua in cui si vuole tradurre, non si sarà capaci di portare a termine e dunque concludere nel migliore dei modi il proprio lavoro di traduzione. Riassumendo, si tratta di riconoscere le qualità della lingua straniera e possedere una facoltà corrispondente che permetta di esprimere queste stesse qualità, nella propria lingua.
82
Sempre la Benavent, parlando di quella che lei considera una buona o cattiva traduzione e parlando anche del fatto di come secondo molti la lingua italiana e la lingua spagnola non siano poi così diverse ma al contrario molto simili, decide di non soffermarsi troppo su quelli che all’interno di un testo possono essere elementi di grande disturbo per un traduttore, cioè i così detti falsi amici. Questo perché se un traduttore è realmente bravo e consapevole delle proprie capacità può comprendere facilmente quelli che sono i possibili tranelli di una lingua ed evitarli. Al contrario un caso su cui la stessa autrice si sofferma è quello della mancata distinzione tra i distinti registri di una lingua. La lingua italiana attuale procede a partire da una così detta koinè letteraria che veniva usata per la scrittura e attraverso cui non vi è stata alcuna discriminazione di registri. La Benavent inoltre sottolinea che secondo lo scrittore Edoardo Sanguineti, l’autore in Italia si confronta con un problema, che è già stato superato da parte di altri autori europei: la scelta della lingua, in particolare del registro della sua lingua. Afferma che in Italia il romanzo è nato più per la traduzione delle opere straniere che per la propria tradizione, così che, tanto l’autore come il traduttore si confrontano con una questione delicata, estranea a qualsiasi altra situazione linguistica in Europa. Le conseguenze di tutto ciò sono evidenti in qualsiasi testo tradotto. Il punto centrale ad ogni modo sembra essere proprio la ricerca del registro più adeguato da utilizzare nei vari tipi di espressione. Se il traduttore non è adeguatamente preparato sceglierà il termine senza pensarlo a sufficienza e correrà il rischio di offrire al lettore spagnolo un’insieme di registri inaccettabili proprio nella lingua spagnola. Secondo la Benavent18 poi, non c’è alcun tipo di problema nel considerare come una cattiva o non perfetta traduzione, il testo che non riflette con esattezza la qualità del testo originale e ciò è chiaramente dovuto a una non profonda conoscenza della propria lingua. Allo stesso modo però è altrettanto errato pensare che una esattezza di natura grammaticale possa convertire il testo in una buona traduzione. L’esattezza pertanto non implica la fedeltà. Una lingua può aver raggiunto la sua corrispondente esattezza grammaticale e lessicale nei confronti di un’altra lingua, e nonostante ciò, aver perduto in questa operazione, il carattere, anche senza aver violato alcun tipo di regola grammaticale. Il compito del traduttore in questo caso dovrebbe essere quello di mantenere intatto l’equilibrio dell’opera, la sua espressione. Se ciò avviene il testo sarà intellegibile, cioè si sarà in grado di capire cosa l’autore voglia dire, anche se ci potrebbe essere il rischio che il testo arrivi a chi lo legge privato di una parte importante e fondamentale del suo spirito. Se la lingua propria del traduttore non sarà capace
18
Ibidem, p. 252.
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di mantenere vivo il suo spirito, vorrà dire che la lingua trasmessa sarà un qualcosa di espresso soltanto a metà. Far si che il testo dell’autore tradotto conservi le sue proprie caratteristiche e possa essere compreso dal lettore di un altro paese, è probabilmente il compito più delicato del traduttore, e il suo raggiungimento è chiaramente la maggior soddisfazione a cui si può arrivare. La fiducia nel fatto che la trasmissione dell’intenzione dell’autore sia stata rispettata, si erige come una garanzia per il testo tradotto e questo per un traduttore sembra essere uno dei maggiori riconoscimenti. Molte volte le traduzioni sono precedute da studi sull’autore e sull’opera che è stata tradotta, destinata ad un pubblico più specializzato. A questo punto è la stessa autrice che pone l’accento su alcune questioni per lei molto importanti. Cioè si chiede quale responsabilità può avere il traduttore nella diffusione delle opere di uno scrittore classico nonché nella piena comprensione dello stesso autore? E ancora, è cambiata la relazione tra autore e opera nel corso dei secoli o è rimasta sempre la stessa? In quale modo ha influito la storia della traduzione in Europa nella diffusione di alcuni modelli determinati? Per cercare di dare una risposta a questi quesiti l’autrice sceglie tre autori di grandissima importanza nella letteratura italiana: Dante, Petrarca e Leopardi. Iniziando da Dante la Benavent19, sottolinea come sin dall’inizio la Commedia di Dante fu tradotta in catalano e spagnolo e i traduttori sembravano avere una conoscenza abbastanza singolare dell’opera. In più riferendosi al titolo c’è da dire che l’opera è mondialmente conosciuta come Divina Commedia, che in realtà però non era il titolo originale. Dante infatti non avrebbe mai osato qualificare la sua opera in questa maniera. L’aggettivo Divina fu aggiunto inseguito da uno dei commentatori più importanti di quest’opera, che tra le altre cose era un allievo di Dante, cioè Boccaccio. Come è ben noto la Divina Commedia, risulta un testo dotato di molte note a piè di pagina che aiutano il lettore a comprendere bene il testo e a facilitarne la lettura. Spesso però avviene che nella traduzione dell’opera gli editori considerano di dover tradurre solo il testo di Dante e non quello del commentatore. Proprio per questo, il testo si presenta solo parzialmente tradotto, garantendo così al lettore straniero, che evidentemente non può leggere l’opera in italiano, una comprensione solo minima dell’opera portandolo a ignorare chi fosse Dante e cosa sia la Divina Commedia. L’altro autore su cui la Benavent si sofferma è Petrarca. Il poeta come si sa ha dedicato la maggior parte delle sue opere all’amore non corrisposto e tormentato convertendo spesso lo stesso Petrarca in un uomo solitario e disperato. Nel suo studio proprio sul petrarchismo la
19
Ibidem, pp. 255-256.
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Benavent si concentra nella trasmissione di opere come queste, dai secoli passati fini ai giorni nostri. I poeti europei leggevano in italiano, senza nessuna difficoltà i versi di Petrarca, li apprendevano generalmente a memoria, anche perché la metrica usata dal poeta non presentava difficoltà particolari. C’è da dire ad esempio che dell’opera il Canzoniere, non esisteva nella storia della traduzione spagnola una versione integrale dell’opera, fino a che il poeta sivigliano e professore di letteratura spagnola, Jacobo Cortines, non decise di avventurarsi e preparare una traduzione integrale dell’opera. Si decise che il testo spagnolo dovesse essere accompagnato dal testo in italiano in modo da dare al lettore la possibilità da un lato, di comprendere nella sua lingua il significato del testo e dall’altro, di confrontarlo con l’originale in italiano. Altro caso di un poeta italiano, su cui la Benavent20 si sofferma è quello di Leopardi. L’autrice parla del fatto che effettivamente le opere del poeta e filosofo sono realmente complicata da tradurre. E in modo particolare la Benavent si riferisce all’opera lo Zibaldone. La difficoltà dell’opera sta nel fatto che questa sia realmente troppo intima e lo è così tanto da non poter essere resa appieno nella sua traduzione. L’opera è una sorta di raccolta di pensieri che il poeta fa nel corso di diversi anni, con la volontà di volerli scrivere per non perderli rendendoli in questo caso ancora più intimi. In realtà afferma ancora la Benavent, si annunciò una traduzione dell’opera di Leopardi in Francia per l’anno 1999, ma in realtà questa riuscì ad avere la luce solo nel 2004, e non con poche difficoltà. Per quanto riguardo la Spagna, da sempre c’è stata una gran dedizione e interesse per le opere di Leopardi, ma mai nessuno fin ora ha deciso di cimentarsi nella traduzione integrale delle sue opere. Andando a vedere attentamente le varie traduzioni che comunque sono state fatte dello Zibaldone si potrà osservare che la selezione del testo dipende dagli interessi dei traduttori e non dall’intenzione di rendere nota la volontà dell’autore. Pertanto, per tornare al discorso iniziale, come si è visto dagli esempi tratti dalle opere degli autori italiani citati, le traduzioni eseguite in altre lingue compreso lo spagnolo non sempre sono state all’altezza della situazione e paradossalmente per determinati versi le due lingue (italiano e spagnolo) appaiono più distanti di quanto si possa pensare.
20
Ibidem, pp. 259-260.
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3.1. La luna di carta e La luna de papel: testi a confronto
In questa parte dell’elaborato si andrà in maniera specifica a confrontare i due testi che sono già stati menzionati in precedenza cioè il testo in italiano, scritto dall’autore Andrea Camilleri, La luna di carta e la traduzione in spagnolo che di questo stesso testo è stata fatta, La luna de papel. Il confronto che si andrà a fare riguarda in particolare il tema del registro linguistico. Come si sarà già compreso un testo è prima di tutto un atto comunicativo. Al momento della traduzione quindi il traduttore dovrà tenere conto che ciò si vuole esprimere dovrà arrivare ad un determinato destinatario e che da quest’ultimo dovrà essere compreso. È proprio per questo che si sente la necessità di una buona e corretta traduzione, ma anche la necessità di abbattere le barriere di incomunicabilità che le differenze linguistiche generano. È proprio per questo motivo che non bisogna ridurre la traduzione ad un mero atto di decodificazione tra una lingua e un’altra, ma bisogna considerarla come una comprensione, una interpretazione e una successiva ri-espressione del testo originale. Pertanto quello che si cerca di fare è capire il valore comunicativo del testo originale e adattarlo il più possibile al testo tradotto. Da questo punto di vista sembra che i due testi presi in esame rispettino pienamente quanto detto. In realtà infatti mettendoli a confronto si nota abbastanza rapidamente che il lavoro di traduzione non è né asettico né a sé stante. Ciò sta a significare che non si tratta di una mera traduzione che va a codificare fedelmente l’originale bensì di una traduzione che cerca di rispecchiare al massimo la volontà comunicativa dell’autore. Si cerca di reinterpretare il valore comunicativo originale in maniera tale da poter essere reso comprensibile ai lettori del testo di arrivo. Nel confronto emerge anche che perfino le sfumature di significato cercano di essere rese appieno e cercano di essere comunicate al lettore del testo tradotto nella maniera più veritiera possibile. L’atto di comunicazione che viene fatto dunque ricalca e rispetta i significati originali. Per di più, se si tiene in conto il fatto che il testo originale risulta composto da moltissimi elementi dialettali, che mischiano italiano e siciliano insieme, e che anche per uno stesso nativo italiano non sono semplici da comprendere, si apprezzerà ulteriormente il lavoro di traduzione fatto, che alla luce di queste caratteristiche pare rifletta in maniera ancora più efficace l’intendimento comunicativo espresso nel testo originale.
86
Pertanto proprio l’aspetto comunicativo nel confronto tra i due testi non sembra essere messo in discussione. Un altro elemento che si è andati a verificare è quello della coerenza e della coesione tra i due testi. Anche in questo caso pare che tra il testo originale e la sua traduzione non ci siano differenze rilevanti. Nel testo originale c’è consequenzialità degli eventi, gli elementi che vengono descritti sono per l’appunto coerenti tra loro e il testo è dotato di continuità logica nelle azioni. Anche l’elemento coesivo è presente e questo garantisce in maniera adeguata una relazione semantica tra le varie parti del testo. Così, coerenza e coesione del testo originale si riproducono in maniera abbastanza semplice nei testi tradotti, permettendo in questo modo anche in spagnolo una giusta connessione e interdipendenza tra le parti testuali. Sembra chiaro che questi due aspetti si condizionino a vicenda, ciò sta significare che l’uno non è disconnesso dall’altro bensì avviene il contrario, l’uno è strettamente dipendente dall’altro. Soprattutto alle prese con una traduzione quindi, si può dire che, se un testo è dotato di coerenza ma non di coesione non potrà essere sicuramente definito un buon testo perché non sarà di facile comprensione, in quanto il legame tra gli elementi lessicali e le relazioni semantiche presenti non sono rispettate. Sicuramente dunque, risulterà un testo non adeguato e all’altezza della situazione. Allo stesso modo, se un testo è dotato di coesione ma non di coerenza, significherà in maniera altrettanto chiara che non sarà comunque un buon testo. In questo caso infatti non risulterà presente l’unità globale necessaria per rendere comprensibile un testo. Le idee espresse all’interno di esso devono essere connesse tra di loro, ci deve essere una sorta di filo conduttore che lega tra loro gli enunciati e che li fa apparire agli occhi del lettore un tutt’uno, senza discrepanze e senza indugi. Risulta quindi inappropriato un testo le cui sequenze non sono legate tra loro in maniera logica e pienamente comprensibili.
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3.2. Esempi
A questo punto dell’elaborato si andrà in maniera più precisa a riportare alcuni esempi tratti dal testo originale La luna di carta e il loro corrispettivo, tradotto in spagnolo ne La luna de papel. Gli esempi che si andranno a riportare riguardano proprio il registro linguistico, sostanzialmente riguardano le casistiche più rilevanti che si sono incontrate nel corso dell’indagine e del confronto tra i due testi. In particolare come si vedrà, la maggior parte degli esempi riportati si riferirà a discrepanze e differenze di registro legate ad una caratteristica linguistica in particolare, cioè quella relativa agli insulti. Infatti dal confronto tra i due testi le diversità di registro che più si sono evidenziate vertono proprio su questo aspetto. In particolare il riferimento è a singoli segmenti di frase e non alla frase nella sua totalità. Per riportare gli esempi si utilizzeranno le seguenti abbreviazioni: La luna di carta => ITA La luna de papel => SPA
ITA «Ma
SPA
non
minchiate!
Prima
dire ¡Pero no digas tonterías! di En primer lugar es por
tutto c’è l’affetto che ho el afecto que siento por per te [...]21
ti [...]22
In questo esempio si può notare come nel testo italiano l’autore utilizzi un termine preciso “minchiate” che chiaramente risulta essere un termine forte. Nella traduzione viene usato invece il termine “tonterías” che ha più il significato di “sciocchezze” e che conferisce alla frase un senso sicuramente meno volgare e più neutrale. Nella traduzione infatti si sarebbe potuto utilizzare un termine che più si accostava all’originale ad esempio “gilipollez”. 21 22
A. Camilleri, La luna di carta, Palermo, Sellerio, 2005, p. 14. A. Camilleri, La luna de papel, Barcelona, Ediciones Salamandra, 2007, p. 13.
88
Se si tiene conto di ciò che è stato detto in precedenza riguardante gli studi effettuati da Halliday sulle tre variabili di modo, campo e tono si potrà vedere che il dialogo riportato negli esempi, avviene tra due persone (Montalbano e Augello) che si conoscono benissimo che hanno instaurato tra loro una certa confidenza e amicizia e proprio per questo tra loro è presente quello che lo stesso Halliday definisce come un potere reciproco. L’uno non è superiore all’altro sono in un rapporto di perfetta parità. Nel dialogo del testo originale quindi il tono e la forma sono più “forti”, anche perché i due sono amici e possono “permettersi” determinati tipi di linguaggio, se fossero stati due sconosciuti è chiaro che i termini sarebbero stati differenti. Pertanto nella traduzione non si è rispettato sia il tono che la forma del testo in italiano, utilizzando una modalità sicuramente amichevole ma non aderente all’intenzionalità originale. Un caso come quello appena citato si ripete tra i due testi diverse volte:
ITA Non
è
SPA un Y esa medida no se
provvedimento
toma por cualquier
che viene pigliato tontería24. per minchiate23.
Anche in questo caso come si può vedere la situazione è molto simile a quella precedente. Il dialogo questa volta è tra Montalbano e Fazio. Tra i due c’è una certa familiarità e confidenza tanto è vero che nel loro discorso utilizzano un termine molto colloquiale. Anche in questo caso nella traduzione si è scelto di tradurre in maniera più semplice e neutra che non va però, a rispettare pienamente la forma e la reciprocità tra i due dialoganti. Anche in questo caso si sarebbe potuto tradurre con “gilipollez”.
23 24
A. Camilleri, op. cit., p. 63. A. Camilleri, op. cit., p. 59.
89
ITA
SPA
Gli pisava assà la Le dolía en el alma minchiata aviva
che la estupidez que fatto había cometido al
consentendole
di permitirle que se
dormiri in casa di quedara a dormir Angelo25.
en
casa
de
26
Angelo .
Anche questo esempio supporta quanto detto in precedenza sulla frequenza nel testo di questi tipi di frase. In questo caso la variante presente nella traduzione è quella dell’uso della parola “estupidez” e non della parola “tontería”. Sostanzialmente si può fare lo stesso discorso fatto per i due casi precedenti. In questo in particolare, Montalbano si rammarica per avere commesso l’imprudenza di aver permesso a Michela Pardo di dormire nella casa del fratello morto, lasciandola così libera di inquinare il luogo del delitto. Nella traduzione si sceglie di utilizzare la parola “estupidez” appunto che risulta appartenente ad un registro più formale e neutro. Per rendere il significato dell’originale e mantenersi così sullo stesso livello linguistico si sarebbe potuto tradurre letteralmente, sempre utilizzando il termine “gilipollez”.
ITA «E
quello
SPA che Y lo que a todos
mette il pepe al les
pone
culo a tutti è che pimienta
25
el
questo
trasero es que este
spacciatore […]27
camello […]28
A. Camilleri, op. cit., p. 73. A. Camilleri, op. cit., p. 69. 27 A. Camilleri, op. cit., p. 171. 28 A. Camilleri, op. cit., p. 161. 26
en
la
90
In questo esempio il segmento in questione risulta essere “pepe al culo” che in spagnolo viene tradotto con “ pimienta en el trasero”. In questo caso la traduzione che viene fatta risulta essere posta su un piano del registro linguistico differente dall’originale. Nel testo in italiano infatti la parola risulta essere molto colloquiale e informale. Questo tenendo conto anche del fattore già citato in precedenza, cioè che la conversazione è tra Montalbano e Augello, due persone abbastanza intime tra loro, tra cui c’è un rapporto di reciprocità e amicizia. Quindi in questo caso l’utilizzo della frase “pepe al culo” sembra essere volutamente utilizzata anche per sottolineare il grado di intimità tra i due. Inoltre analizzando il contesto situazionale (che è poi uno degli elementi di cui parla Halliday) in cui è immersa la frase, è possibile vedere che il riferimento è al giro di droga che interessa anche i piani alti della società. Dunque il dialogo tra i due personaggi sembra essere parecchio coinvolgente e animato, in quanto la tematica trattata è molto delicata e particolare. Questa situazione pertanto può giustificare l’uso di questa terminologia in italiano, che sembra appunto voler sottolineare maggiormente la tensione del momento. La traduzione fatta sembra non rispecchiare questa caratteristica, attenendosi ad un livello più formale. Inoltre c’è da tener presente un altro fattore importante e cioè, che la frase “pimienta en el trasero” è un’espressione non particolarmente usata in spagnolo, e si potrebbe addirittura dubitare della sua stessa esistenza. Pertanto alla luce di ciò, appare ancora più inspiegabile la decisione della traduttrice di utilizzare proprio questa espressione.
ITA
SPA
[…] l’avvertì che […] le dijo que no non potiva esseri podría presenti all’incontro presente con la fimmina29.
reunion
estar en
la
con
la
señorita Pardo30.
In questo esempio la parola identificata è “fimmina” che in spagnolo viene tradotta con “señorita Pardo”. In questo caso in italiano si utilizza un appellativo ben definito per identificare Michela Pardo. Appellativo che risulta essere abbastanza colloquiale e informale
29 30
A. Camilleri, op. cit., p. 56. A. Camilleri, op. cit., p. 54.
91
e che tra le altre cose sembra far trapelare quella sorta di “leggera” attrazione che Montalbano prova per Michela. Nonostante l’atteggiamento un po’ sciatto della donna, Montalbano la trova per certi versi “interessante”. Il significato infatti sarebbe quello di “femmina”, di “donna intrigante” che il commissario attribuisce alla donna. Quindi nel significato che la parola vuole esprimere pare esserci questo sottile riferimento. In spagnolo invece, si utilizza sicuramente un appellativo più formale e signorile per identificare la donna. Probabilmente non si è colto questo sottile aspetto appunto che invece, appare come un elemento abbastanza significativo per l’intensità e la formalità della frase. Volendo essere più fedele all’originale si sarebbe potuto tradurre “señorita Pardo” con “hembra”.
ITA Troppo
SPA
normale Demasiado
per un omo che normal para un viene
trovato hombre
sparato
que
con aparece con un
l’affare comunque disparo en la cara di fora […]31
y la polla fuera […]32
In questo esempio la parola da osservare è “l’affare”, che viene tradotta in spagnolo con “la polla”. Si capisce come il riferimento nel testo originale sia al “membro” maschile. Infatti il pensiero espresso da Montalbano riguardo Angelo Pardo, cioè l’uomo che viene trovato ammazzato proprio con i genitali fuori dalla zip dei pantaloni. Nel testo in italiano pare che la parola in questione abbia una connotazione più neutra, di quanto non appaia nella traduzione. Infatti l’allusione che viene fatta risulta meno volgare rispetto al testo in spagnolo. Testo in cui invece si sceglie di utilizzare una traduzione più dura e quindi meno fedele all’originale. Ad esempio per potersi attenere allo stesso tipo di registro linguistico si sarebbe potuto tradurre con le parole “colgajo” o “pito”.
31 32
A. Camilleri, op. cit., p. 96. A. Camilleri, op. cit., p. 89.
92
ITA
SPA
Dopo che si viene a Después
del
scoprire che Nicotra e descubrimiento de que Di Cristoforo facevano Nicotra
y
Di
uso di droga e che per Cristoforo consumían questo
sono
succede
un
sputtanamento
morti, droga y han muerto unanime por eso, se produce un della unánime repudio de su
loro memoria […]33
memoria […]34
In questa sequenza di esempi, si può vedere come la parola da tenere d’occhio sia “sputtanamento”, la quale viene tradotta in spagnolo con “repudio”. In questo caso c’è un netto cambio di registro linguistico che passa da uno molto colloquiale, che come si può vedere tende alla parolaccia, a uno nettamente più formale e neutro. Sembra chiaro come la traduzione si discosti molto dall’originale. Nel testo in italiano infatti per sottolineare che la morte per overdose di cocaina assunta dai due politici causa la messa in ridicolo del loro ricordo, viene volutamente utilizzata una parola abbastanza decisa come “sputtanamento” per l’appunto. In effetti uno dei temi sociali di cui ben poco velatamente il testo si occupa, è proprio quello della droga e dello spaccio di cocaina anche ad alti livelli, tra cui anche quelli politici. Questo fatto genera ancora più rabbia e disprezzo, il pensiero che persone come i politici appunto, che sono chiamate a rappresentarne altre (cioè il popolo) e che proprio per questo dovrebbero mantenere una certa onorabilità e rispettabilità, facciano uso di determinate sostanze e che poi a causa di queste muoiano, convincono l’autore a utilizzare un termine volutamente forte. Il senso di smarrimento e infelicità nei confronti della situazione pare dunque abbastanza elevato. Nella traduzione la parola “repudio” non riproduce il senso espresso nel testo italiano e sembra quasi che ci sia una riduzione dell’intensità dell’originale. Per accostarsi maggiormente all’originale si sarebbe potuto tradurre con la parola “joder”.
33 34
A. Camilleri, op. cit., p. 173. A. Camilleri, op. cit., p. 163.
93
ITA
SPA
[…] non si sintiva […] no se oía ni una
voce,
c’era rumorata
non una sola voz ni el una menor sonido de di televisor36.
televisione addrummata35.
In questi esempi la parola vista è “rumorata”, che viene tradotta in spagnolo con “sonido”. Il contesto della frase è quello in cui Montalbano si reca nella palazzina in cui abitava il defunto Angelo Pardo e nel salire le scale si stupisce nel non sentire alcun tipo di rumore provenire dagli altri appartamenti. La differenza tra le due parole, appare significativa se si pensa che Montalbano è un tipo abituato al baccano del suo commissariato, alle crisi di rabbia e isteria sue e dei suoi collaboratori, quindi ad un mondo e ad una realtà particolarmente caotica. Per cui quando nel testo italiano si parla di “rumorata” ci si riferisce proprio al rumore e al caos, che Montalbano si aspetterebbe (così come probabilmente apparterrebbe alla normalità) nell’entrare in una palazzina abitata anche da altre persone. Pertanto nella traduzione spagnola la parola utilizzata sembra più formale e meno aderente all’originale, probabilmente ciò che non si è colto o ciò di cui non si è tenuto conto, è proprio questa sfumatura di significato. Ciò che Montalbano si aspetta non è un semplice “suono” proveniente dagli appartamenti ma un vero e proprio “rumore”. Quindi per potersi attenere al senso originale della parola, nonché per potersi attenere allo stesso tipo di registro linguistico si sarebbe potuta utilizzare la parola “ruido”.
35 36
A. Camilleri, op. cit., p. 23. A. Camilleri, op. cit., p. 23.
94
ITA
SPA
Carogna Pasquano, s’addivirtiva esserlo37.
era, Pasquano era un e
ci cabrón y estaba e encantado
de
serlo38.
In questo esempio si vuole sottolineare l’uso della parola “carogna” e la sua traduzione in “cabrón”. Il contesto situazionale in cui si sviluppa la frase è quello in cui Montalbano ha un confronto con il medico legale Pasquano, il quale ha il compito di analizzare il cadavere della persona morta, cioè Angelo Pardo. Tra i due nasce una sorta di batti becco dovuto al fatto che lo stesso Pasquano non rivela a Montalbano determinate prove di cui viene a conoscenza una volta appunto, analizzato il corpo di Angelo. C’è da dire che l’opinione di Montalbano su Pasquano non è propriamente negativa ma neanche totalmente positiva. Lo considera una persona scorbutica, acida e non sempre pronta a collaborare affinché i casi che gli vengono sottoposti possano essere risolti più velocemente. Dall’altro lato comunque lo vede come una persona che fa il suo lavoro con serietà e dedizione. In questo caso specifico la parola utilizzata dal personaggio Montalbano esprime tutto il disappunto che egli prova nei confronti del medico legale. Il significato della parola in italiano è sicuramente abbastanza forte proprio perché l’intendimento con la parola “carogna” è quello di una persona spregevole e moralmente marcia. In spagnolo la traduzione viene effettuata attraverso l’uso di una parolaccia, che all’apparenza potrebbe far risultare i testi posti su due piani di registro linguistico differenti. In realtà il cambio di registro in questo caso è per l’appunto solo apparente, in quanto l’intensità della frase italiana è chiaramente molto alta e l’unico modo per poterla rendere in spagnolo è solo con quel tipo di espressione. Quindi si potrebbe dire che quello preso in esame è un caso particolare, il quale ad un primo impatto può far pensare ad un cambio di registro, ma che analizzato più attentamente fa capire che in realtà questa è l’unica traduzione possibile.
37 38
A. Camilleri, op. cit., p. 156. A. Camilleri, op. cit., p. 147.
95
3.3. Omisión. Due casi particolari
Nell’analisi e nel confronto tra i due testi si sono anche notate due particolarità. In realtà queste non sono strettamente legate all’elemento del registro linguistico, ma visti i tipi di casi che compaiono (per lo meno più frequentemente) negli esempi, cioè quelli legati agli insulti, è sembrato un particolare da annotare. Una sorta di curiosità da voler mettere in evidenza. Ciò di cui si vuole parlare sono due casi di omissione riscontrati nella traduzione in spagnolo. In realtà nel testo compaiono pochi casi relativi a questo fenomeno, ma tra questi pochi, due riguardano proprio l’eliminazione degli insulti, tema appunto molto caro all’analisi precedentemente fatta sul registro. L’omissione può essere considerata come un errore di traduzione. Nel testo tradotto si eliminano in maniera ingiustificata alcuni elementi o parti del testo originale. Ma non solo, con l’omissione spesso si eliminano idee ed effetti stilistici che vanno a caratterizzare il testo originale e che per poter produrre lo stesso effetto anche nel testo tradotto andrebbero interpretati.
ITA Santiò. che
SPA
Minchia Soltò
un
grosso juramento. ¡Que
sbaglio che aviva gran error había fatto39.
ITA
cometido!40
SPA
Rimprovero
Reproche
implicito:
implícito: hace un
cornuto, è da un año que no das anno che non ti señales de vida42. fai sentire41.
39
A. Camilleri, A. Camilleri, 41 A. Camilleri, 42 A. Camilleri, 40
op. cit., p. 57. op. cit., p. 54. op. cit., p. 133. op. cit., p. 124.
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Come si potrà notare, nei due esempi appena citati i due insulti “minchia” e “cornuto” vengono omessi in spagnolo. La traduttrice decide di non riportare i corrispettivi significati delle parole. Nel primo caso ad esempio avrebbe potuto tradurre o con la parola “joder” o con quella che certi in casi risulta più utilizzata cioè, “coño”. Nel secondo caso invece per tradurre e quindi rendere anche in spagnolo il senso espresso in italiano avrebbe potuto usare “cabrónazo”. È probabile che possa aver ritenuto non indispensabile la traduzione dei due elementi decidendo che, il non tradurli non avrebbe comunque cambiato il significato della frase e che non avrebbe tolto intensità a quanto espresso. Da quanto emerge dunque si potrebbe ipotizzare che il fatto di non tradurre gli insulti non derivi da una incompetenza o da una non conoscenza della lingua originale o della corrispettiva traduzione delle parole in spagnolo, bensì da un scelta mirata e cosciente che la traduttrice decidere di attuare. Ciò che si è visto è che nell’indagine sul registro i casi di differenza che sono stati rilevati, riguardano prevalentemente come si è detto gli insulti o le parolacce e ciò che è sembrato singolare e che i pochi casi di omissione presenti si riferiscano proprio a questo stesso tema. Sembra quasi che la traduttrice in determinati casi “non si trovi a suo agio” con questo tipo di elementi linguistici che comunque possono creare qualche difficoltà di traduzione. Quello che si è notato è che il filo conduttore che lega sia gli esempi riguardanti le differenze di registro linguistico sia i casi di omissione si riferiscono agli insulti. Pur non volendo mettere in discussione i perché delle scelte traduttive fatte, quello che si vuole sottolineare è che la modifica o l’omissione di questi aspetti spesso fanno perdere alla traduzione l’intensità che invece va a caratterizzare l’originale. Gli insulti o comunque le parolacce hanno un significato ben preciso, che al di là del senso primario che esprimono cioè quello di essere decisamente forti, ne nascondono un altro più intimo che è quello di fornire “colore” alla frase e di renderla molto intensa. In realtà nella traduzione sembrano mancare proprio questi aspetti e caratteristiche. La traduttrice sembra non cogliere queste peculiarità, rendendo così il testo in spagnolo privo di questi effetti. Queste considerazioni vengono fatte anche alla luce di un altro elemento riguardante il testo in italiano, e cioè il personaggio di Montalbano. Camilleri infatti ci presenta il commissario come un individuo molto schietto, molto vero e talvolta irruento. Montalbano è una personaggio dotato di un acume particolare e di brillanti intuizioni, mette sempre molto impegno e molta dedizione nei casi che affronta, cerca di non farsi mai sfuggire indizi che possano essere fondamentali per le sue indagini, mettendo passione in tutto ciò che fa. Ne La luna di carta, uno dei temi sociali che vengono messi in rilievo come si sarà compreso è quello della droga e dello spaccio di cocaina. Questo è uno dei temi sociali chiaramente più scottanti e problematici, che coinvolgono pienamente
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Montalbano non soltanto da un punto di vista professionale ma anche da un punto di vista umano e morale. In un certo senso quindi il legame tra gli insulti e Montalbano non appare così distante. Se si va a guardare gli esempi infatti si vedrà che la persona che per prima pronuncia l’insulto è proprio il commissario, il quale con “i suoi modi” si rivolge ad uno degli altri personaggi. Proprio per le sue caratteristiche di irruenza, passionalità e interesse nei confronti del suo lavoro, al personaggio di Montalbano viene sempre conferito l’uso di un linguaggio molto “colorito” e particolare che va spesso a esprimersi anche con le parolacce. Montalbano quindi, è anche questo. È un personaggio abituato ad essere diretto e schietto con i suoi colleghi, è un personaggio che si arrabbia quando non ha una delle sue brillanti intuizioni, che non approva di non essere supportato dagli altri, in particolare dai suoi capi, quando l’indagine si fa più difficile. Ed è in tutti questi casi, cioè quando il commissario appare più vulnerabile e coinvolto che viene fuori la sua vera natura, quella che è l’essenza del suo personaggio, cioè quella appunto di persona passionale e istintiva, che esprime i suoi sentimenti e suoi stati d’animo anche così, con l’uso di un linguaggio un po’ forte. Quindi molto probabilmente se non ci fossero state queste parole a rendere particolare il testo (insulti o parolacce), si sarebbe parlato di tutt’altro tipo di personaggio e non certamente di Montalbano. Pertanto il fatto di utilizzare un livello di registro linguistico differente o il fatto di omettere gli insulti, non sconvolge il significato del testo, ma dimostra che non si è compresa pienamente la volontà del testo originale di utilizzare un certo tipo di linguaggio informale o colloquiale per così dire. Dimostra anche che non si è compreso fino in fondo il personaggio del commissario Montalbano. L’uso delle parolacce non è solo un elemento linguistico espresso dall’autore, ma è un qualcosa che descrive il personaggio, è un qualcosa che fa comprendere la natura di Montalbano. Dunque le scelte effettuata dalla traduttrice sono significative, nel senso che fanno capire come probabilmente non si siano capite fino in fondo le peculiarità di Montalbano, che non si è fatta un’indagine per studiare anche questi aspetti che dimostrano come la traduzione non sia una codifica asettica di un testo ma la piena comprensione delle sue intenzioni e della sua volontà di comunicare. C’è comunque da dire che la categoria degli insulti è abbastanza particolare e va a caratterizzare a suo modo la cultura linguistica di un popolo. Spesso nel voler tradurre questi elementi si possono creare conflitti in una traduzione e ciò può essere fonte di problemi per un traduttore. Il grado di accettazione da parte di una cultura può provocare una certa disfunzione e incompatibilità tra il testo originale e la sua traduzione appunto. Quindi ciò che è bene tener
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presente è che la categoria degli insulti non è sempre un qualcosa di scontato da poter tradurre, un elemento che nonostante tutto non crea problemi, anzi proprio perché identificativo di una data cultura e di un determinato modo di esprimersi può essere fonte di dubbio e incertezza. Il dubbio può essere se si riuscirà o meno a rendere nella lingua in cui si vuole tradurre la stessa intensità e in particolare lo stesso significato dell’originale. Proprio come è stato visto nel primo capitolo infatti la correttezza di un traduzione non è data soltanto da una adeguata codificazione linguistica del testo ma anche da una corretta comprensione delle sue caratteristiche culturali.
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Conclusioni
A questo punto dell’elaborato si possono trarre alcune conclusioni finali su tutto il lavoro fin qui svolto. L’analisi del registro linguistico è stato un tema particolarmente interessante da affrontare, anche perché, come è stato già espresso all’inizio del terzo ed ultimo capitolo gli studi effettuati su tale argomento non sembrano essere moltissimi. Pertanto anche per questo motivo è stato stimolante studiarlo. Inoltre il testo di Camilleri è stato particolarmente piacevole e per certi versi divertente, e questo ha sicuramente aiutato a rendere il lavoro più scorrevole. L’intento è stato quello di iniziare l’elaborato cercando prima di tutto di capire su che basi si erige la traduzione. Questo chiaramente perché l’analisi dei testi effettuata è un confronto tra un testo originale in italiano e la sua traduzione in lingua spagnola. Il fatto poi di soffermarsi anche sul fatto che una traduzione è da intendersi soprattutto come un atto comunicativo è stato uno dei punti centrali del primo capitolo. Tema che è stato successivamente rivisto nell’ultimo sezione con l’analisi degli esempi. Quindi, ribadire il fatto che una traduzione non è un semplicemente atto di codifica ma un vero e proprio atto di reciproca comprensione tra due lingue e tra due destinatari, è uno dei punti che si è cercato più volte di mettere in luce. Particolarmente interessante poi è stato il secondo capitolo riguardante Camilleri e il suo personaggi più fortunato e famoso, Montalbano. L’intento in questo caso è stato da un lato, quello di delineare un quadro biografico dell’autore che fosse il più veritiero e preciso possibile, e dall’altro cercare di inquadrare la figura del commissario. Figura che come si è potuto vedere è da ritenersi spesso controversa e passionale. Un personaggio quello di Montalbano, che incarna un funzionario di polizia dedito al suo lavoro, che possiede un profondo senso di giustizia e che, in determinate situazioni si pone al di sopra delle righe. È un personaggio che non ama lasciare le cose a metà, nelle varie indagini che affronta segue costantemente il suo istinto al quale si uniscono le brillanti idee di cui è dotato e che lo aiutano a risolvere i casi. Da questo punto di vista è stato interessante vedere come Montalbano sia quasi un personaggio ponte tra l’omertà che negativamente caratterizza la Sicilia, e quella voglia di riscatto e di correttezza che invece, soprattutto negli ultimi anni si sta affermando nella stessa isola. Si è cercato inoltre di mettere in evidenza non solo i successi avuti dall’autore ma anche le critiche ricevute proprio con l’intento di mettere a confronto i
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due giudizi. Da ciò è scaturito che Camilleri e Montalbano sono in realtà molti amati dal pubblico e anche dalla maggior della critica. Questo però non vuol dire che siano tutti completamente a favor dell’autore, infatti sorgono alcune perplessità da più parti che, legittimamente esprimono le loro opinioni contrarie e dubbiose sull’operato dello scrittore. Egli viene incalzato ad esempio sul fatto di contribuire ad alimentare ulteriormente gli stereotipi siciliani, attraverso cui ormai la gente pensa che in Sicilia succedano solo cose strane e cattive. È poi lo stesso scrittore a rispondere, sostenendo che qualsiasi critica è legittima e autorevole e che lui non intende sottrarvisi, a patto che le critiche si sviluppino non su semplici congetture e presupposti ma su basi quantomeno solide. Nel capitolo finale, si è decisamente passati al confronto traduttivo sul tema del registro linguistico. In realtà si è notato che la traduzione fatta in spagnolo è buona e tiene conto spesso delle sfumature di significato. Però come si è potuto vedere dagli esempi questo non succede in tutti i casi tanto che questo è per l’appunto dimostrato dalle differenze rilevate nella comparazione tra i testi. In questo caso ciò che tra le altre cose ha destato perplessità è stato il fatto che in altre situazioni, la traduttrice ha tradotto correttamente le frasi giudicate forti, quelle cioè con l’uso di parolacce, mentre nei casi analizzati si è discostata abbastanza da una traduzione aderente all’originale. Questo porterebbe a dire che più che incomprensione del testo italiano e incapacità nel tradurre quelle determinate parole, si tratterebbe da un lato di scelte ben precise nel tradurre diversamente, dall’altro si potrebbe presupporre che la traduttrice non coglie quel sottile significato espresso nell’originale che rispecchia anche il carattere dello stesso Montalbano. Egli come si è visto instaura un rapporto di confidenza e reciprocità, nonché di colloquialità e informalità, con i suoi colleghi del commissariato, e ciò gli permette di utilizzare un certo tipo di parole, che sicuramente con sconosciuti non userebbe. In altri casi però, come nell’ultimo esempio sembra accada un qualcosa di diverso. La traduzione in spagnolo apparentemente sembra più forte rispetto all’originale, in realtà non è così perché la frase tradotta cerca di rispecchiare al meglio l’intensità della parte in italiano che risulta infatti molto sentita e enfatica. Da ciò quindi si può evincere che è molto probabile che nel testo spagnolo si sia scelto di adottare un tipo di traduzione differente a seconda dei casi. In alcuni di questi, è possibile che si sia ritenuto che il fatto di non essere fedele all’originale non avrebbe recato alcun tipo di cambiamento al significato espresso, mentre in altri come nell’ultimo esempio, la differenza notata è solo apparente.
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