Re del Convito Paul Di Filippo Racconto scritto per SteamCon 2017 – Pisa
A te disfrenasi Il verso ardito, Te invoco, o Satana, Re del convito. Giosuè Carducci -“Inno a Satana”
I portoni pesanti borchiati di bronzo del tetro palazzo che ospitava il Ginnasio di San Miniato al Tedesco – borgo appartenente alla provincia della movimentata città di Pisa e sito a una quarantina di chilometri da quella cosmopolita metropoli sulle sponde d’Arno-- si spalancarono col chiudersi del giorno di scuola, dando la stura a un selvaggio torrente di scolari, tutti ragazzi dai calzoni corti e dalla casacca bianca, che tenevano strette le tracolle consunte di cuoio imbottite di libri, fogli di carta, penne e matite. Liberati dagli studi tediosi, perlomeno fino al giorno seguente, i ragazzi tumultuarono garrruli e gioiosi traverso l’acciottolato polveroso della piazza, godendo del caldo sole di quel bel meriggio d’Aprile che già andava spegnendosi. Dopo non molto si erano già dispersi lungo le varie strade, in gruppetti canterini, diretti a casa, ai mestieri e al desco, e poi, presso il camino, ai compiti, a leggere e decifrare l’antico Latino di Tacito e Orazio per tradurlo in moderno italiano. Non molto dopo che gli studenti furono spariti, da quello stesso ingresso uscirono tre uomini in abito formalmente inappuntabile. Reggendo ognuno delle cartelle portadocumenti traboccanti di elaborati d’esame, anche essi sembravano felici di essere stati liberati dal soffocante abbraccio del Ginnasio, perlomeno per i due giorni seguenti, fino al lunedì, sebbene i modi consoni all’età adulta non consentissero loro di scorrazzare in giro come caprette. Procedevano invece con dignitoso passo disteso lungo lo stesso acciottolato maltrattato poco prima dalle scarpe dei loro allievi. Il tipo massiccio al centro del terzetto, la presenza fisica più imponente del gruppo, sfoggiava una zazzera di capelli neri grandiosamente folta e riccia che faceva il paio con una barba e dei baffi altrettanto folti e ben curati. Quell’uomo dalla corporatura imponente faceva schietta mostra di un contegno al contempo severo e ribelle, come di qualcuno profondamente colpito dalla sovente tragicità, solenne e maestosa, della vita ma che tuttavia davanti a quella vita e alle sue pretese non fosse completamente disposto a piegare il proprio spirito. Sembrava parimenti pronto ad assaltare una barricata come a salire su un tavolo d’osteria e a declamare, ebbro, versi scandalosi.
Quell’uomo dall’aspetto rigido e l’aura vigile di un Bardo-guerriero era Giosuè Carducci, corrente l’anno 1857, non ancora ventiduenne. I compagni che gli erano al fianco, rispondenti ai nomi di Ferdinando Cristiani and Pietro Luperini, entrambi suoi coetanei, non davano mostra di una eguale repressa irruenza e di una temerarietà tanto iratamente smorzata, ma piuttosto manifestavano un’accomodane soddisfazione per l’andamento corrente dei loro comuni destini. L’aver conseguito il ruolo di insegnante ginnasiale a un’età così precoce, non appena finiti gli studi universitari, non era un risultato di poco conto e garantiva loro solide entrate e una posizione sociale assai rispettabile. E poiché i tre dividevano il fitto di un modesto quartierino, scherzosamente soprannominato “La Torre Bianca”, i loro salari erano bastanti a garantire un flusso vigoroso di vivaci divertimenti, utili a mitigare il tedio dell’insegnare a un branco di monelli svogliati. Cristiani, segaligno e dal viso affilato come un’aquila, fu il primo a spezzare il silenzio da dopolezione che gravava sui tre. «Ho creduto che a Pecchioli sarebbe preso un colpo quando ti ha pizzicato a scrivere poesie durante le ore di lezione, caro il mio Giosuè.» Giuseppe Pecchioli, preside del ginnasio e ben più anziano del personale a lui sottoposto, davvero un anacronismo in quell’epoca ultra-moderna, era uomo di grande correttezza, ma piuttosto rigido in materia di regole e deferenza. Carducci sbuffò, sardonico. «I miei ragazzi erano produttivamente impegnati nel coniugare il piucchepperfetto indicativo di alcuni verbi insidiosi, quindi non vedo perché non avrei dovuto ragionevolmente operarmi al fine di dare un qualche valore a quell’ora oziosa. Seppure, a dir la verità, in questi giorni, il più delle volte io mi senta incline a considerare il mio stesso verseggiare un disperato spreco di talento e di energia vitale.» Luperini annuì con fare saggio al sentire questo giudizio. Era un uomo imponente e muscoloso, che a vestirlo con abiti pesanti lo si sarebbe facilmente potuto prendere per un fabbro, la cui imperturbabilità era divenuta leggendaria tra i colleghi dell’Università. «Nemmeno io sono mai stato molto incline alla poesia. A meno che non sia conviviale e magnifichi la libagione…» Cristiani invece sembrava inorridito. «Ma Giosuè, come puoi dire una cosa del genere? La tua poesia è meravigliosa! Un tale occhio, un tale orecchio! Che ritmi, che rime! Diamine, ancora mi meraviglio di quel sonetto che hai composto dopo la nostra visita a Santa Maria a Monte.» Cristiani iniziò a declamare: «’O cara al pensier mio terra gentile/Ch’a la pura sorgendo aria azzurrina…’» Carducci tacitò l’amico con un brusco cenno della mano. «Ciarpame giovanile! Mi pento persino di averli scritti, quei versi. E che il pubblico possa mettere le sue mani unticce sui miei poemi… questo è ciò che davvero mi rende furioso. Ogni minuta virtù o piacevolezza presente nelle mie poesie è per me soltanto, e semmai per pochi compagni di adeguata sensibilità. Gli Hoi Polloi preferiscono trangugiare l’illetterata brodaglia romantica di scribacchini sconsiderati come Braccio Bracci. »
Luperini si lasciò sfuggire un’asciutta risatina. «Di certo tu e i due Giuseppe avete fatto del vostro meglio per rimetterlo a posto, il Bracci!» I due Giuseppe, letterati, cui alludeva il Luperini, erano Giuseppe Torquato Gargani e Giuseppe Chiarini che, con Carducci e alcuni altri, avevano formato una società di giovani poeti, dal nome “Gli amici Pedanti”, schierati in favore di un ritorno alle virtù classiche nella composizione poetica. I loro selvaggi scritti polemici erano stati un fiume in piena durante gli anni universitari. «E a cosa è servita, infine, la nostra satira? Le poesie di Bracci vendono ancora come caldarroste in gennaio. No, l’intero agone dell’arte oggi mi fa inorridire.» «E allora in cosa impiegherai le tue energie?» chiese Cristiani. «Guardati intorno! A cos’altro possiamo dedicarci se non al Risorgimento? A unificare la nostra antica terra. Questi sono tempi che esigono l’ardore e il sangue di ogni patriota.»