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La disabilità oggi
from GIUGNO 2020
by 50epiu
Stando ai dati di una recente ricerca, il 2030 vedrà la presenza di circa cinque milioni di anziani disabili. Questo ci pone di fronte alla necessità di investire per tempo in reti assistenziali, competenze e tecnologie, intervenendo anche sulle politiche di welfare e potenziando i servizi già attivi. A sostegno della disabilità è già stato fatto molto. Ma non tutto...
__SOCIETÀ ATTUALITÀ__
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di Barbara Di Sarno DISABILITÀ OGGI: TRA LIMITI E TRAGUARDI + "LA SALUTE È UNO STATO DI COMPLETO BENESSERE FISICO, MENTALE E SOCIALE E NON CONSISTE SOLO IN UN’ASSENZA DI MALATTIA O DI INFERMITÀ" (ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ, 1948) L L’ITALIA È UN PAESE LA CUI POPOLAZIONE INVECCHIA SEMPRE DI PIÙ, diminuendo invece nei numeri. Secondo le proiezioni elaborate dall’Istat per Italia Longeva (Rete Nazionale sull’Invecchiamento e la Longevità Attiva), nel 2050 saremo due milioni e mezzo in meno, mentre si assisterà a un exploit degli “over 65”. Nei prossimi cinquant’anni le generazioni più a rischio di non autosufficienza passeranno da un quinto a un terzo della popolazione e, già nel 2030, gli anziani disabili da assistere toccheranno la vetta dei cinque milioni. «Questo quadro solleva una questione di sostenibilità strutturale per l’intero Paese. Per far fronte alla crescente perdita di autonomia bisognerebbe investire in reti assistenziali, competenze e tecnologie - afferma lo psicoterapeuta Teo Calzaretta -. Servono
interventi sul fronte delle politiche di welfare che regolino gli aiuti in base allo stato di bisogno, potenziando, ad esempio, i servizi socio-sanitari finora in gran parte integrati abbondantemente dalle famiglie. Un’importante realtà assistenziale, qui in Italia, è rappresentata dalle case famiglia pensate per l’accoglienza di disabili adulti dai 18 ai 65 anni che non possono più vivere nel contesto d’origine. Qui si svolgono attività legate alla cura di sé e dell’ambiente in cui gli utenti vivono e individualizzate in base al bisogno e alle competenze. Parliamo quindi di igiene, di riordino ma anche di vita di tutti i giorni che comprende il fare una lavatrice, lo stendere i panni, l’apparecchiare una tavola». Quali sono, invece, le attività per la socializzazione e l’inclusione pensate in queste istituzioni? La stessa frequentazione di centri anziani o la partecipazione a soggiorni estivi, il fare la spesa o attendere in fila dal medico, ma anche fare la merenda al bar sono tutte attività che implicano un contatto con il mondo esterno. C’è poi anche l’arte terapia che permette, attraverso elementi materici, la costruzione di piccoli oggetti, e che può essere finalizzata alla comunicazione. Questo tipo di attività serve infatti a implementare la comunicazione laddove ci siano persone che non parlano e si esprimono attraverso quello che fanno. Anche lo sport è fondamentale. Oltre al potenziamento della propria struttura organica, muscolare e scheletrica, »
c’è l’apprendimento delle regole perché le attività vengono svolte in gruppo. C’è la gratificazione data dai riconoscimenti sociali come le medaglie e le premiazioni, la condivisione delle regole e tutta quella serie di giovamenti che ci sono in tutte le attività strutturate. Cosa accade, invece, quando una persona disabile compie 65 anni? Con l’avanzare dell’età c’è tutta una valutazione che porta il disabile dalla casa famiglia alle Rsa (Residenze Sanitarie Assistenziali). È un vero e proprio cambiamento di status, da disabile ad anziano, che si concretizza in un passaggio di servizi e competenze e che, per l’anziano, diventa spesso destabilizzante, traumatico. Al compimento dei 65 anni, infatti, la persona con disabilità passa da un piccolo modello abitativo formato famiglia a un luogo più complesso e strutturato come una casa di riposo. Le esigenze di una persona disabile fin dalla nascita sono poi molto diverse da quelle di chi ha una disabilità legata all’età. Possiamo dire che, in questo senso, un passo importante è stato compiuto con la Legge 112/2016 sul “Dopo di noi”? Alle persone con disabilità grave inserite nei progetti della Legge 112 la continuità di vita verrebbe assicurata da un progetto non più scandito da una sorta di orologio anagrafico, ma definito per loro in modo appropriato. Sinceramente penso che, in generale, noi abbiamo delle leggi che possono anche essere definite buone, ma c’è
LA RIVOLUZIONE DELL’ICF Disabilità e ambiente Il 22 maggio 2001 L’Organizzazione Mondiale della Sanità perviene alla stesura dell’Icf, “Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute”. L’Icf fornisce un’analisi dello stato di salute degli individui ponendo una correlazione fra salute e ambiente. La disabilità viene definita come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole. Ogni persona, in qualunque momento della vita, può avere una condizione di salute che in un contesto sfavorevole diventa disabilità. L’analisi delle varie dimensioni esistenziali (sociale, familiare, lavorativo) dell’individuo porta a evidenziare non solo come le persone convivono con la loro patologia, ma anche quali siano le loro risorse e potenzialità, e cosa sia possibile fare per sostenerle e migliorare la qualità della loro vita. Questa innovativa lettura della disabilità pone le basi per un approccio innovativo alla progettazione di ambienti adeguati e vivibili in un’ottica inclusiva e universale. ancora una mancata conoscenza di queste condizioni che sono tanto diversificate. Quindi c’è ancora molto da fare, secondo lei? Sì, direi proprio di sì. Se penso, ad esempio, alla disabilità intellettiva, nonostante siano stati fatti tanti studi, mi rendo conto che sia ancora un ambito per molti versi sconosciuto. Gli aspetti diagnostici sono molto complessi e difficili, non è facile fare una diagnosi e quindi anche una prognosi. Diventa complicato anche per un professionista mettere in atto un piano di intervento riabilitativo, psicomotorio o di terapia cognitiva che permetta un reale intervento, soprattutto quando vengono da noi persone adulte con una diagnosi in età infantile che non sia stata integrata e aggiornata nel tempo. Da un punto di vista sociale, poi, ci sono ancora molte paure rispetto ai disabili, soprattutto non si capiscono appieno le potenzialità che una persona con disabilità può avere. E una delle prime istituzioni sociali in cui l’individuo si trova a confrontarsi sin dai primissimi anni di vita è la scuola, a
cui oggi viene richiesto di riconoscere i bisogni diversificati dei propri alunni e di attivare strumenti e risorse concreti da utilizzare nella progettazione e nella formazione. «La scuola è stata depauperata nel tempo, ma ce la mette tutta per adattare i suoi sistemi didattici e formativi alle specificità delle persone con disabilità, grazie anche all’introduzione di figure nuove come l’Operatore Educativo per l’Autonomia e la Comunicazione o attraverso il Piano Educativo Individualizzato - spiega Elisabetta Belisario, coordinatrice del servizio Aec per le scuole, Assistenza Educativa Culturale, del Municipio I di Roma -. Proprio in questo documento vengono descritti annualmente gli interventi educativi e didattici destinati all’alunno con disabilità, gli obiettivi di socializzazione e di apprendimento con uno sguardo al dopo. Questi bambini e ragazzi non si devono sentire come un oggetto estraneo da infilare in un buco dove non entrano. Devono sentire che sono parte di un tutto e che in questo tutto ci sia spa-
zio per loro». Fuori dalla scuola cosa c’è a sostegno delle persone con disabilità? Ci sono tante esperienze, progettualità, sperimentazioni inclusive importantissime. Mi viene in mente il progetto “Filippide”, nato dalla volontà di Nicola Pintus, un insegnante di educazione fisica che ha capito che la corsa, essendo uno sport ripetitivo, con un’azione fisica sempre uguale, è uno spazio corporeo nel quale il soggetto affetto da autismo rientra benissimo. L’atletica, oltre a dare un beneficio fisico, affina l’autonomia, l’autosufficienza, la capacità relazionale e stimola la continuità dell’impegno. Questa e altre esperienze restituiscono competenze, abilità e dignità a coloro i quali, una volta diventati adulti, non hanno molto. Quali sono altre realtà in cui gli adulti con disabilità possono trovare una loro dimensione attiva? Penso a “La Locanda dei Girasoli” a Roma che, come altri centri di ristorazione in Italia, promuove l’inserimento lavorativo di persone affette da
Sindrome di Down, nobilitando e dando dignità alla persona attraverso un percorso di formazione e di inserimento lavorativo. Ci sono anche gli impieghi negli orti sociali o i lavori di falegnameria che agiscono sui processi motori, sensoriali e cognitivi dell’utente, attivando percorsi di socializzazione, formazione e autonomia. Se per le persone disabili in età evolutiva si riscontra l’esistenza di una sufficiente strutturazione di servizi sanitari, sociali ed educativi, nell’età adulta tuttavia si registra una minore offerta di progetti di integrazione tra interventi sociali e sanitari. Eppure non bisogna dimenticare che ogni persona disabile, di qualsiasi età sia, ha diritto ad un sistema di aiuto che garantisca lo sviluppo massimo della sua personalità e ad un inserimento sociale il più attivo e partecipato possibile. L’esercizio del diritto a conseguire una personale qualità della vita ragionevole e possibile dovrebbe essere una certezza e non una possibilità. E su questo fronte di strada da fare ce ne è ancora tanta.
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Le Residenze sanitarie assistite rappresentano un punto di riferimento per coloro che necessitano di assistenza continua, laddove l’aiuto della famiglia non è sufficiente. Spesso bersaglio di critiche, anche in tempo di pandemia, sono invece strutture che, con i dovuti interventi, possono divenire centri globali di servizi alla persona
__le INCHIESTE di 50&Più __
RSA, UNA REALTÀ DA POTENZIARE di Ilaria Romano + L’ACCURATA SANIFICAZIONE DEGLI AMBIENTI FA PARTE DEL PROTOCOLLO CHE ANCHE LE RESIDENZE SANITARIE ASSISTITE DEVONO SEGUIRE PER PREVENIRE LE INFEZIONI DA COVID-19 L L’EMERGENZA COVID HA RIPORTATO ALL’ATTENZIONE PUBBLICA IL TEMA DELLE RESIDENZE SANITARIE ASSISTITE, le Rsa, per i numeri sui decessi e i contagi fra gli ospiti, ma ha anche contribuito ad aprire un dibattito sul futuro dei sistemi di cura e assistenza per i senior in Italia. La domanda di servizi sociosanitari e la relativa spesa pubblica e privata sono infatti destinate ad aumentare nei prossimi anni, soprattutto nel campo della cura continuativa, data la crescente percentuale di popolazione over 80 e l’aumento di famiglie mononucleari, ossia di persone che vivono da sole, con conseguente azzeramento della possibilità di assistenza da parte dei familiari.
In Italia sono oggi disponibili circa 240mila posti letto fra strutture residenziali e semiresidenziali, ai quali si aggiungono i servizi di assistenza domiciliare erogati a oltre 520mila anziani. Numeri insufficienti se si pensa che oggi le persone che necessitano di aiuto sono oltre tre milioni e 500mila, con una crescita del 25% dal 2008, e che in maggioranza si tratta di over 65 (80,8%). Un mondo, quello dei servizi alla persona, spesso poco conosciuto nonostante i bisogni crescenti, che spesso lavora in sordina e torna agli onori delle cronache solo nei casi di cattiva gestione, o di emergenza, come accaduto negli ultimi mesi. «Per le Rsa e i Servizi alle persone fragili abbiamo visto consumarsi un dramma - si legge in una dichiarazione di Sergio Sgubin, presidente Ansdipp, Associazione dei manager del sociale e sociosanitario -, tanto che in moltissimi casi si sta vivendo ancora la Fase 1. Ora si conoscono queste strutture, quelle che paradossalmente avrebbero dovuto essere protette per prime e anticipatamente dal virus. Ovviamente non diciamo che errori non ne sono stati fatti anche da parte di alcune direzioni, ma solo di questo si è parlato, e molte notizie ad effetto su indagini dimostrano solo il teatrino della politica e delle contraddizioni». Dottor Sgubin, cosa non ha funzionato, dunque? Diciamo che dal punto di vista della sicurezza i dispositivi di protezione individuale e la formazione sul campo dovrebbero essere la norma a prescindere dalle emergenze, ma ci sono enti gestori o proprietari che in molti casi non hanno potenziato questi aspetti. Quindi dove già c’era un po’ di scarsità la situazione si è rivelata più critica. D’altra parte in questo periodo le procedure sono state ormai ottimizzate per tutti e oggi si può dire sia stata raggiunta una condizione di garanzia sotto questo aspetto. Ha dichiarato che le Rsa sono diventate il capro espiatorio di una serie di errori delle istituzioni nazionali, regionali e sanitarie. Qualche caso di non adeguatezza c’è stato, ma la maggioranza delle strutture ha cercato di far fronte all’emergenza e ha tenuto bene, anche quando è stata colpita direttamente dal Covid. Il problema del capro espiatorio è che ci sono state delle lacune enormi sia a livello nazionale che regionale e di Ats: nessuna di queste istituzioni ha fornito indicazioni chiare per due mesi rispetto a questo problema che, per la stragrande maggioranza, ha colpito proprio gli anziani, e dunque per assurdo si è abbandonato proprio il settore dove sono concentrati la maggior parte di soggetti deboli e non autosufficienti. A livello di prevenzione si sarebbe potuto fare tantissimo. Faccio un esempio: sono state chiuse le scuole, ma sono state fatte difficoltà per chiudere al pubblico le Rsa. Non è un paradosso? »
Quante realtà sono state lasciate alla disperazione, salvo poi andare a verificare con le ispezioni, con due mesi di ritardo, se abbiano o meno agito correttamente? Spesso ai vertici non si sa di cosa si parla, in ogni caso bisogna ripartire dalle persone, rimetterle al centro del dibattito. Le Rsa sono da ripensare? Possono essere un modello vincente anche per l’assistenza del prossimo futuro? Le Rsa e i centri di servizio alla persona sono ormai dei poli con assistenza domiciliare e altre attività integrate con il territorio, lavorano in rete, a volte gestiscono anche asili nido, centri diurni, ed è questo il mondo di riferimento al quale ci rivolgiamo. Purtroppo c’è anche una scarsa conoscenza rispetto a quello che è il pianeta dei centri per anziani, perché se ne parla solo nei casi di cronaca delle strutture lager, si parla ancora di ospizi, parola oramai anacronistica, e si raccontano solo le eccezioni negative rispetto ad un settore dove in tutta Italia possiamo vantare buone pratiche e risorse eccezionali. Noi pensiamo che le Rsa, dove già non lo sono, possano e
PER SOPPERIRE ALL’ISOLAMENTO FORZATO, IL 64,4% DELLE STRUTTURE È RICORSO A TELEFONATE E VIDEOCHIAMATE, IL 20,4% SOLO A VIDEOCHIAMATE, L’8,8% SOLO A TELEFONATE ED IL RESTANTE 6,4% A SOCIAL ED E-MAIL (FONTE: INDAGINE ISTITUTO SUPERIORE SANITÀ) 4.629
sono le case
di riposo e Rsa italiane con una popolazione di 300.000 ospiti, al 75% over 80 e al 78% non autosufficienti. (Fonte: Indagine Istituto Superiore Sanità)
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strutture,
l’82,7% ha lamentato, durante la pandemia, la mancanza di Dispositivi di Protezione Individuale, mentre il 19,9% ha evidenziato la scarsità di informazioni ricevute circa le procedure per contenere l’infezione. (Fonte: Indagine Istituto Superiore Sanità) debbano diventare un centro di servizi globale alla persona: approfittiamo di questo momento in cui il tema è stato toccato, nel bene e nel male, per affrontare il tema in modo diverso. Non vogliamo diventare ospedali di serie B di lungodegenza geriatrica, ma essere strutture residenziali di serie A e in alcuni casi lo siamo già. Per noi la cura della persona va oltre la parte sanitaria e assistenziale, ma è anche emotiva, educativa, sociale, di progetti. Il mondo sociosanitario non è quello sanitario. Ci sono casi in Italia di progetti intergenerazionali settimanali con attività didattiche, collaborazioni con musei e gallerie d’arte. Noi vorremmo spingere sulle strutture affinché quelle che sono in grado facciano sempre più attività, e le piccole realtà si mettano in rete, per aggregarsi ai progetti e ragionare su tutto il sistema di cura, che passa anche da quella domiciliare, delle residenze protette, dalla medicina di base e dal cambiamento del concetto culturale di “cura”. L’integrazione che deve essere realizzata può mettere le Rsa al centro di un sistema di servizi su cui far ruotare la rete territoriale.
Il compito dell’ente pubblico dovrà essere quello di controllo degli standard di qualità e del funzionamento delle collaborazioni che si attiveranno sul territorio. Quali sono le cose che dovrebbero cambiare per andare in questa direzione? Ci sono una serie di incongruenze che vorremmo far emergere, non come critica ma come proposta. Per fare un esempio, un paziente ricoverato in ospedale costa fra i 500 e i 600 euro al giorno al Servizio Sanitario Nazionale, mentre ad una Rsa in Lombardia vengono dati 50 euro al giorno per ogni ospite. Se solo si spostasse una piccola percentuale dei fondi nazionali e regionali sul mondo sociosanitario si potrebbe aumentare la quota sanitaria di accreditamento sulle strutture che non è adeguata ai livelli elementari di assistenza e che ora ha un peso maggiore sulle rette. Abbiamo fatto studi importanti in collaborazione con l’Università Bocconi e il Politecnico di Milano sulla necessità crescente di assistenza per gli over 75 nei prossimi trent’anni, quindi un salto di qualità complessivo va fatto ed è questo il momento di ragionarci.
MARCO TRABUCCHI: «UN SERVIZIO INSOSTITUIBILE»
di Giovanna Dall’Ongaro
«Le critiche generalizzate e spesso superficiali sono ingiuste e la retorica denigratoria nei confronti delle residenze assistite rischia di privare le persone, che ne hanno bisogno, di cure salvavita»
L’accusa riguarda casi singoli, ma la condanna diventa subito generale. Succede spesso, perché in pochi resistono alla tentazione di fare di tutta l’erba un fascio. Così, in piena emergenza pandemia, i presunti errori commessi da alcune case di riposo nella gestione del contagio da Coronavirus tra i loro ospiti si sono immediatamente trasformati nelle prove di un “J’accuse” generalizzato contro l’intero sistema delle residenze sanitarie assistenziali (Rsa). In molti hanno invocato riforme drastiche, suggerito rivoluzionari modelli alternativi, proposto piani di demolizione e ricostruzione pronti all’uso. Qualcun altro, invece, ha adottato un atteggiamento più cauto, invitando alla prudenza e ad analisi approfondite, perché lo scenario è più complesso: non tutto è da buttare, ci sono limiti che vanno superati, è vero, ma anche aspetti positivi da mantenere e potenziare. Tra queste voci fuori dal coro c’è quella di Marco Trabucchi, già professore ordinario di Neuropsicofarmacologia nell’Università di Roma Tor Vergata e presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, che durante i giorni delle polemiche si è speso molto per difendere il ruolo delle Rsa nell’assistenza agli anziani. Lo abbiamo intervistato con lo scopo di fare chiarezza. Sono state descritte come lager, parcheggi (incustoditi) per anziani, luoghi di sofferenza e solitudine, focolai di malattie. Le Rsa sono davvero così? Certamente non si può negare che ci siano strutture sul territorio che sono sfuggite ai controlli e che hanno agito in maniera deplorevole. Bisogna però fare attenzione alle notizie delle violazioni riscontrate dai Nas. A volte si tratta di gravi inadempienze, altre di piccole trasgressioni che non compromettono il benessere degli ospiti. Il clamore mediatico riservato ai casi più critici induce a pensare che l’intero sistema delle Rsa sia da condannare. Ed è uno sbaglio perché offrono un servizio insostituibile. Le Rsa sono quindi utili. Qual è la loro funzione? Il punto centrale da cui deve partire qualunque riflessione sul futuro delle Rsa è il seguente: molte persone anziane si trovano in condizioni di salute tali da non poter più essere assistite come dovrebbero a casa. Da medico non posso affermare che la famiglia sia in grado di dare una risposta adeguata alle necessità di persone malate non più autosufficienti. Superato un certo limite di infermità, serve un’assistenza infermieristica, la sorveglianza 24 ore al giorno, la presenza di medici capaci di fornire cure di qualità. E non si tratta solo di interventi per ridurre il dolore, ma di veri e propri piani di cura a tutto tondo che la famiglia non può offrire. Ecco quale è lo scopo delle case di riposo. Non bisogna quindi sentirsi in colpa se si decide di affidare un proprio famigliare al personale delle Rsa? Questo è un tema che mi sta molto a cuore. Quando si alimentano i sospetti che tutte le strutture siano luoghi di sofferenza per gli ospiti, si fa un duplice danno. Da una parte si manca di rispetto agli operatori che durante l’emergenza Covid hanno dimostrato uno spirito di abnegazione encomiabile e che meriterebbero tutta la nostra ammirazione, dall’altra si rischia di istillare nei famigliari il senso di colpa, già presente in condizioni normali, per aver deciso di mandare il proprio caro in un posto che gli ha fatto più male che bene. Queste critiche generalizzate e spesso superficiali sono ingiuste e questa retorica denigratoria nei confronti delle case di riposo rischia di privare le persone che ne hanno bisogno di cure salvavita. Ad un’analisi più approfondita emergerebbero senz’altro aspetti positivi, ma anche alcuni limiti delle Rsa… Potrebbe dirci quali sono gli uni e gli altri? Partiamo dai primi. Oltre a garantire cure qualificate sul piano clinico e assistenziale, che non possono essere prestate in maniera adeguata a casa, le case di riposo offrono un sostegno psicologico ai loro ospiti, differenziato in base alle loro caratteristiche. Il 60-70% delle persone che risiede in una casa di riposo è affetto da demenza. In questo caso verranno proposti alcuni interventi specifici per migliorare la qualità della vita delle persone malate, tra cui, per esempio, “la terapia della bambola” (l’approccio prevede che la persona anziana accudisca una bambola, Ndr). Per le persone non affette da disturbo cognitivo sono previste altre attività, sempre con lo scopo di aiutare gli ospiti a mantenere intatto il senso della vita e assicurare agli anziani un ambien»
In Lombardia e in Emilia Romagna, due volti diversi della pandemia. La Fondazione Casa di Riposo di Nembro, nella flagellata provincia di Bergamo, ha vissuto il drammatico decesso di 34 dei suoi ospiti, nonostante le immediate misure preventive. Ce ne parla Valerio Poloni, presidente della Fondazione
__le INCHIESTE di 50&Più __
DENTRO L’EMERGENZA + FONDAZIONE CASA DI RIPOSO DI NEMBRO (BERGAMO), INVESTITI DALL’EMERGENZA NEL TERRITORIO PIÙ COLPITO DAL COVID A « di Ilaria Romano «ALL’INIZIO È STATA UNA TRAGEDIA PER TUTTI PERCHÉ LA NOSTRA STRUTTURA OSPITA PERSONE ANZIANE CHE SONO RESIDENTI DI NEMBRO - racconta a 50&Più il presidente della Fondazione Casa di Riposo di Nembro, Valerio Poloni -, per cui per noi più che ospiti sono amici e parenti. Vivere questa situazione è stato un momento particolarmente drammatico per il personale che ha parenti fra gli ospiti, e per tutta la comunità. Sono decedute 34 persone su 87 ospiti, fra cui il presidente della Come vi siete mossi all’inizio per cercare di contenere l’emergenza? Noi abbiamo chiuso il 24 febbraio, senza attendere le disposizioni dell’Ats, l’Agenzia di Tutela della Salute, anzi, contravvenendo alle disposizioni del momento che ancora non prevedevano la chiusura, proprio perché ci siamo resi conto di essere di fronte a qualcosa di imprevedibile. E, nonostante questo, abbiamo pagato un prezzo altissimo. Ci siamo adeguati subito ai dispositivi di protezione individuale per il personale e Fondazione, mio predecessore, e il medico la struttura è stata sanificata dai militari che si occupava della salute dei dipendell’Esercito russo che ci hanno dato una denti; siamo, quindi, anche rimasti privi mano, ma abbiamo vissuto un mese di di queste figure di riferimento, nonostante marzo terrificante, che ha colpito tutta la le misure preventive». comunità, anche perché siamo sempre
stati una realtà molto aperta e in connessione col territorio. Quali sono i servizi che offrite come Fondazione? All’interno della Rsa abbiamo 85 operatori fra medici, infermieri, fisioterapisti, educatori, animatori, cuochi, personale per la lavanderia. Forniamo un’assistenza alla persona a 360 gradi. In più operiamo sul territorio con i servizi domiciliari agli anziani, portiamo i pasti e forniamo assistenza medica e fisioterapia a casa. La struttura si è dovuta riorganizzare completamente per garantire nuovi standard di sicurezza da quando ha chiuso i contatti con l’esterno e, come racconta la direttrice sanitaria Barbara Codalli, i 54 ospiti attualmente presenti sono stati divisi in due gruppi. «Da quando abbiamo avuto l’esito dei tamponi che finalmente siamo riusciti ad ottenere per tutti i pazienti e il personale, abbiamo creato una sorta di reparto chiuso per gli ospiti che, pur essendo totalmente asintomatici, sono risultati positivi al test». Dunque, siete riusciti a fare una mappatura sanitaria completa? Ci siamo riusciti, ma con tempi molto lunghi rispetto a quanto ci si aspettava. In questa struttura è da marzo che non ci sono più pazienti e personale sintomatici, eppure abbiamo ancora tamponi positivi o debolmente positivi, e questo ci dice che il virus può rimanere addosso per parecchio tempo e non bisogna abbassare la guardia. Come vi siete organizzati per garantire i contatti fra ospiti e familiari dal momento in cui è scattate l’emergenza? Abbiamo cominciato con le videochiamate in maniera del tutto spontanea, utilizzando i nostri cellulari. Per gli ospiti che non gradivano il video e preferivano continuare a comunicare al telefono abbiamo usato solo quello. Aggiungo che noi della direzione chiamiamo i familiari regolarmente, così da aggiornarli sulle condizioni dei loro cari. Adesso stiamo pensando a una forma nuova di riapertura nei confronti dei familiari perché ci rendiamo conto che c’è bisogno, da entrambe le parti, di ritrovare un contatto maggiore. I parenti però non entreranno nella struttura, ma resteranno all’esterno e, attraverso le vetrate aperte, comunicheranno con gli ospiti in modo da garantire la distanza sociale. Il tutto con la supervisione dei nostri operatori. Vor- »
te sereno e stimolante. In questo contesto le visite dei famigliari acquisiscono un’importanza fondamentale. Passiamo alle criticità. Quali sono i limiti che andranno superati? La crisi dovuta all’epidemia ha messo in luce alcune questioni cruciali che dovranno essere migliorate. La prima è la formazione degli operatori. Le competenze degli operatori delle case di riposo sono diverse da quelle richieste in ospedale o sul territorio e dovrebbero essere acquisite con percorsi di formazione specifici che attualmente non esistono. La seconda riguarda i costi: per fornire elevati standard di cura le strutture devono aumentare le loro entrate. Non si può pretendere di avere assistenza sanitaria di qualità, strumentazione tecnologica all’avanguardia, interventi psicologici efficaci, senza prevedere una congrua remunerazione a chi offre tutto questo. Bisognerà trovare il modo di finanziare meglio queste strutture senza dover aumentare le rette a carico delle famiglie già elevate. Si potrebbe intanto iniziare a ridurre i costi della burocrazia. Insomma, non c’è bisogno di individuare un modello alternativo. Basta riformare quello che abbiamo. È così? Sì. Per le ragioni che ho detto prima, l’assistenza domiciliare, che sicuramente deve essere potenziata, non può essere considerata un’alternativa valida alle case di riposo. La vera domanda che dovremmo farci è di natura strategica. Che direzione vogliamo prendere? Io sono convinto che il ruolo delle Rsa all’interno del Sistema Sanitario Nazionale sia fondamentale e vada potenziato. In letteratura scientifica una delle caratteristiche usate per valutare la qualità delle cure in una casa di riposo è la capacità di evitare il più possibile i ricoveri ospedalieri, sia per risparmiare ai pazienti il trauma del trasferimento, sia per ridurre l’impatto sul sistema sanitario. Ecco, io penso che bisognerebbe puntare su questo traguardo: le Rsa dovrebbero cambiare la loro pelle, diventare un centro polifunzionale meno dipendente dall’ospedale e sempre più radicato nel territorio dove convergono le attività sanitarie territoriali, medici di famiglia in primis. Lo scenario ideale sarebbe quello di avere delle Rsa strettamente connesse alle altre strutture del Servizio Sanitario Territoriale, come le case della salute e gli ospedali, con uno scambio di prestazioni fornite dai professionisti delle diverse strutture, in modo tale che l’ospite della casa di riposo non sia un perfetto sconosciuto al di fuori della Rsa.
remmo riuscire ad organizzare questi incontri con cadenza settimanale, in aggiunta alle chiamate e alle videochiamate. Come garantite la sicurezza nell’ambito del lavoro quotidiano? Abbiamo distanziato gli ospiti il più possibile: a tavola non mangiano in più di due, l’attività educativa e di animazione è stata ridimensionata a rapporto individuale o di piccoli gruppi al massimo di cinque persone, in ambienti ampi e distanza superiore al metro. Ove possibile gli ospiti indossano la mascherina, ma sono pochi quelli che riescono a tollerarla, il personale invece lavora sempre e solo con tutti i dispositivi di protezione necessari. Quali sono state le reazioni degli ospiti all’emergenza? Questa è una struttura altamente medicalizzata, e abbiamo pazienti con patologie anche gravi, con tracheotomie e peg, in alcuni casi clinicamente molto compromesse. In pratica, siamo in parte paragonabili a una struttura ospedaliera. In generale all’inizio c’è stata molta paura perché quanto accaduto non poteva passare inosservato, poi abbiamo cercato di lavorare anche per rassicurare le persone e i familiari, e il clima è andato migliorando, ma dobbiamo restare tutti estremamente prudenti. Le problematiche Sono diverse le difficoltà incontrate dalle strutture residenziali e sociosanitarie durante l’emergenza. Tra queste, il 32,9% ha segnalato la carenza di personale sanitario: il 25,5% ha evidenziato difficoltà nell’isolamento dei residenti affetti da Covid; il 21,8% ha dichiarato di aver ricevuto informazioni discordanti circa la gestione della pandemia, una mancanza di coordinamento e problemi nell’eseguire tamponi. Infine, il 10,3% ha indicato una carenza di farmaci. (Fonte: Indagine Istituto Superiore Sanità)
RESIDENZA ANNI AZZURRI, IL CASO “ZERO CONTAGI” DI BAGNOLO IN PIANO (REGGIO EMILIA)
C«CHIUDERE TUTTI GLI ACinizialmente la chiusura così CESSI DALL’ESTERNO IL 5 precoce era sembrata fuori conMARZO È STATO FONDAtesto; successivamente si è caMENTALE - racconta a 50&Più pito quanto sia stato importante la direttrice Daniela Zaccarelmetterla in atto. E comunque li -, da allora non abbiamo più non è stato facile, perché abfatto entrare non solo i parenti biamo avuto ospiti che sono endegli ospiti, ma nemmeno i fortrati nella residenza appena prinitori e i manutentori, se non ma della chiusura e quindi le per casi di estrema urgenza». loro famiglie non li hanno più Quanti sono oggi gli ospiti visti in presenza da allora; in e cosa si prevede per il condizioni normali procediamo prossimo futuro? con un inserimento graduale Attualmente abbiamo 57 perche va avanti un mese. Insomsone nella residenza, fra i 60 e ma, l’impatto è stato importante i 100 anni, tutti non autosuffiper tutti. Un servizio che abcienti, per una capienza totale biamo garantito è stato quello di 80 posti letto. Per il momento di permettere l’ingresso dei fanon abbiamo nessuna indicamiliari in caso di aggravamento zione di riaprire le porte aldelle condizioni di un ospite, l’esterno, dunque sarà un pasper l’ultimo saluto, ma attrasaggio che non si farà a breve. verso un percorso protetto e
Come avete continuato a senza alcun contatto con il resto garantire i contatti fra della struttura. ospiti e familiari dal moOspiti e personale sono mento di emergenza in stati sottoposti a tampopoi? ne? Quali sono le condizio
I rapporti tra familiari e ospiti ni ad oggi? sono garantiti sia con telefonate Sì, tutti gli ospiti e gli operatori giornaliere sia con videochiasono stati sottoposti a tampone mate attraverso i tablet. Anche e sono risultati tutti negativi. noi professionisti siamo a diAdesso stiamo stabilendo una sposizione per essere contattati ciclicità nei test, per cercare di e dare tutte le informazioni sulle ripeterli e monitorare la situacondizioni dei propri cari che zione nel tempo. Una proceabbiamo in cura. dura precauzionale che aveva
Da parte delle famiglie c’è stata mo attivato prima che fossero grande comprensione, an che se disponibili i tamponi è stata
quella di isolare qualunque ospite avesse anche solo una temperatura superiore ai 37 gradi, anche se con quadri clinici riconducibili non al Covid ma ad altre patologie. Come vi comportate in caso di nuove richieste d’ingresso? Indicazione aziendale è ancora zero ingressi, ma siamo coscienti che c’è un bisogno del territorio di svuotare le strutture temporanee nate per i pazienti Covid, quindi ad un certo punto ci verrà chiesto di essere di supporto. Per l’accesso pretenderemo comunque un’analisi del percorso fatto nei periodi precedenti, un tampone all’ingresso, seguito da un periodo di isolamento 15 gg, con un secondo tampone di controllo. Solo in seguito si potrà procedere con l’accesso vero e proprio di un nuovo ospite. Come garantite la sicurezza nell’ambito del lavoro quotidiano? Relativamente ai Dpi, di norma siamo tutti dotati di guanti e mascherina e, nei casi di isolamento sospetto, ogni operatore fa la vestizione completa da procedura Covid, con camice, copriscarpe, mascherina ffp2, occhiali e copricapo. Per fortuna, nessun caso sospetto è diventato poi un caso conclamato; in ogni caso, in via precauzionale seguiamo questa procedura. Relativamente al distanziamento abbiamo lasciato libero un soggiorno al secondo piano per dieci persone, sotto la supervisione di un operatore. Gli altri 47 ospiti sono divisi al piano terra fra sala animazione, sala lettura e palestra. Cerchiamo di non lasciarli mai in camera perché l’isolamento sociale è un rischio altrettanto elevato, e garantiamo comunque l’attività ricreativa per piccoli gruppi, con tutti i limiti del distanziamento per alcuni pazienti che vanno seguiti in modo particolare. Abbiamo anche creato un comitato interno per gestire le nuove procedure e settimanalmente incontriamo tutti gli operatori per confrontarci sugli elementi e sui comportamenti da adottare anche al di fuori del lavoro; abbiamo fatto un corso di formazione su vestizione e svestizione, perché questa è una situazione infettiva molto più grave del solito, abbiamo consegnato ai dipendenti tutte le indicazioni aziendali e ministeriali da leggere anche a casa, ci scambiamo suggestioni su quali sono le problematiche ma anche i dubbi di gestione. Insomma, abbiamo attivato una formazione continua e soprattutto ci siamo dati ruoli ben precisi, salvo poi stravolgerli in caso di necessità, come quando il fisioterapista provvede anche a tagliare i capelli e fare la piega alle ospiti o io stessa vado a fare la spesa.
Come definirebbe il lavoro delle Rsa? Il nostro lavoro comincia quando gli altri hanno finito di lavorare, è questa la nostra normalità. L’ospedale risolve la problematica d’urgenza, noi subentriamo quando serve la riabilitazione o anche solo per evitare i peggioramenti. E abbiamo avuto grandi soddisfazioni anche con pazienti con demenza, decontestualizzando la terapia riabilitativa con attività alternative alla palestra. Tutti abbiamo punti di forza e debolezza, e ovviamente ci sono altri ritmi rispetti al lavoro di cura fatto in casa, ma questo non sempre è possibile, e non significa che l’assistenza in una struttura non sia efficace o che le persone siano abbandonate. Gli anziani sono la nostra memoria e sono in grado di darci tanto. Quello che è successo con l’emergenza Covid non è una colpa, il virus poteva entrare in qualunque momento prima di prendere provvedimenti. Abbiamo solo cercato di fare del nostro meglio e non abbassiamo la guardia ora. L’immediato blocco degli accessi alla struttura e le severe misure preventive hanno consentito alla Residenza Anni Azzurri, di Bagnolo in Piano (Re), di sbarrare le porte al Covid-19. A raccontarcelo, Daniela Zaccarelli, direttrice della Residenza