2 minute read

Non-design. Dall’oggetto alla sopravvivenza

Oggi il colore è visto come qualcosa di scioccante, conflittuale, superficiale e pericoloso. Questo atteggiamento lo si può spiegare soltanto guardando la storia del secolo scorso, quando l’assenza del colore è stata elevata a incarnazione di tutto ciò che in teoria non dovrebbe essere, ovvero profondità, raffinatezza, serietà e gravità, mentre la sua presenza (se non fortemente limitata e controllata) è divenuta sinonimo di frivolezza o persino barbarie. Il colore era – ed è ancora – ridicolizzato o temuto. Oggi è piuttosto semplice guardare al passato e capire come nella cultura occidentale la differenziazione del colore sia stata un ingrediente fondamentale nella separazione della seriosa modernità mainstream della cultura occidentale da tutto quel genere di figure all’epoca considerate problematiche a cui appartengono i soggetti queer e coloniali, dalle donne e dai migranti. Eppure, mentre i ranghi più alti della cultura del mondo privo di colore erano riservati a pochi e selezionati uomini che si consideravano “illuminati” malgrado fossero terribilmente noiosi, l’universo vitale queer e coloniale ha continuato a utilizzare il colore, i pattern e la diversità di espressione estetica radicata nell’essere umano, sul nostro splendido pianeta, facendo di questi elementi uno strumento di affermazione potente dell’espressione personale. Dall’Illuminismo in poi, l’assenza di colore è stata un modo per la cultura coloniale di distinguersi dal resto del mondo e, al suo interno, un modo per mantenere una separazione netta fra la difficile complessità e diversità di una società in rapida evoluzione e coloro che pensano di guidarla. Colore per le masse, che guardino i prodotti Disney! Colore per le donne, che si godano le loro cucine pastello! Colore per le persone queer, che decorino pure i grandi magazzini! Colore per i migranti, che si imbellettino per i loro matrimoni! Ma, per tutti coloro che hanno predicato l’assenza o l’epurazione del colore, non esiste alcun rispetto. La rarefazione del colore ci è stata imposta sin dal Settecento; è divenuta forma di controllo e stratificazione sociale reificata attraverso il gusto. C’è un motivo se i movimenti di protesta sfruttano il potere dell’arcobaleno con effetti tanto potenti: perché la riappropriazione del cromatismo può distruggere questo sistema. C’è un motivo se ancora oggi la visione di una gamma variegata e impenitente di colori – senza allinearsi al livello di sofisticata morigeratezza ritenuta accettabile e raffinata – è un gesto talmente scioccante da far infuriare così tante persone. Il colore non dovrebbe essere radicale, eppure purtroppo lo è, ed è proprio per esorcizzare tale percezione che questo elemento deve tornare al centro del dibattito contemporaneo.

UFO, Ristorante Sherwood, Firenze, 1969, Archivio Titti Maschietto, Firenze

Advertisement

This article is from: