Odor rosae Paesti

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ODOR ROSAE PAESTI IL PROFUMO DI PAESTUM


Gli alunni di ARTASSO anche quest’anno, come ogni anno scolastico, hanno realizzato un allestimento nella Biblioteca di Storia dell’Arte del Liceo Classico «T. Tasso» di Salerno. Hanno trasformato l’ambiente della biblioteca in un’antica profumeria, laboratorio annesso, così come poteva essere in quei tempi quando Paestum era una città viva, fiorente e prospera. Hanno intitolato il progetto «Odor rosae Paestum» perché a quei tempi Paestum era famosa per le sue rose che fiorivano due volte l’anno e che venivano utilizzate in molteplici modi. Molto ricercati erano sia gli alimenti che i profumi. Nella profumeria, sui banchi da lavoro coperti da stoffe e tovaglie rosse, sono disposti utensili di vario genere, dai contenitori per far macerare i petali alle ampolle per la bollitura ai vasetti di vetro per la conservazione e la vendita, in disegni o stampe sono riprodotti vari tipi di torchio per produrre l’olio, indispensabile al processo di realizzazione del profumo. Ovviamente sui banchi troviamo vasi di rose e petali sparsi un po’ ovunque, ed anche piccoli bassorilievi, oggetti e reperti che rimandano all’antica città, sia alla Poseidonia greca che alla Paestum romana.



«Nei giardini di Paestum le rose furono sottoposte ad una vera e propria

coltivazione intensiva, con l’accortezza di tenerle a riparo dal vento e bagnarle con acqua calda per ottenere fioriture invernali». È l'archeologo salernitano Antonio Capano, in una sua recente relazione, a sottolineare l’importanza che avevano i roseti nella città dei templi. Su invito dell'associazione culturale Adorea, Capano ha puntato l’attenzione sui tanti riferimenti storici che fanno della rosa pestana un vero e proprio cult dell’antichità. «In Plinio il Vecchio: la rosa spunta anche sul rovo - ricorda l'archeologo - conservando un profumo gradevole (iucundi odoris). La parola che designa il rovo viene dalla stessa radice di rubeo (essere rosso, rosseggiare, tipico dei frutti di rovo acerbi), ruber (rosso). Sono gli stessi termini usati per definire il colore delle rose pestane: “Paestanis rubeant aemula labra Rosis”. Gli abitanti di Paestum avevano quindi sperimentato una nuova coltivazione di rose, allestendo profumati rovi che servivano anche per delimitare i giardini: «I Pestani - ricorda Capano - non innestavano semplicemente le rose fra di loro (operazione tutto sommato banale), ma sui rovi, o, se si vuole, su arbusti spinosi della stessa famiglia delle rosacee». Del resto gli antichi greci ritenevano che la rosa nascesse da un rovo. I Romani stessi, per indicare la rosa canina, usavano anche il termine rubus (rufus) caninus, per il fatto che essa vive di preferenza in boscaglie , cespugli e siepi. I


Oltre duemila e cinquecento anni fa c'erano grandi roseti nei dintorni del complesso archeologico della Magna Grecia. Le coltivazioni servivano soprattutto a ricavare unguenti e profumi, tanto che nell'angolo nord-ovest del foro di Paestum, si possono ancora osservare i resti di un’antica profumeria. La rosa di Paestum era chiamata dai Romani damascena bifera perché aveva una seconda forzata fioritura in autunno, dopo quella primaverile. Bene lo ricorda nei suoi scritti Ennodio, vescovo di Pavia al tempo di Teodorico e sommo erudito: «L’attività operosa dei pestani fece sì che i cespugli spinosi generassero rose, le quali mediante il lavoro germogliano dagli spini come stelle dalla terra». Le rose di allora erano dello stesso colore di cui portano il nome, non erano ancora quelle rosse che oggi troviamo più frequentemente, ma di un profumo intensissimo «tanto che i Romani - aggiunge Vittoria Bonani, presidente dell’associazione culturale Adorea - le usavano in cucina, per l'estetica degli ambienti (le spargevano ovunque, a terra, sui cuscini, sui triclini ) e per le preparazione dei cosmetici». Nelle abitazioni dell’impero, nelle ville e nelle lussuose dimore, la rosa era un motivo decorativo ricorrente per affreschi e mosaici «anche con decorazioni pittoriche di giardino - ricorda Capano - soprattutto nelle case dell'area vesuviana e naturalmente a Pompei». Furono proprio i Romani ad imparare dai Greci la tecnica per spingere la natura della pianta a fiorire fuori tempo; quasi come oggi che possiamo avere fiori e frutti in ogni stagione. II


In pratica, dopo la seconda fioritura, i Greci bruciavano la parte terminale dello stelo dopo un'abbondante potatura. Poi le rose venivano messe in ambienti riscaldati e luminosi, probabilmente persino annaffiate con acqua calda e forzate quindi a rifiorire. E se oggi, grazie ad uno studio di paleobotanica avviato dalla Soprintendenza archeologica di Salerno, la rosa paestana è tornata a fiorire nel’area archeologica - c’è anche chi come il laboratorio olfattivo Sirenae Essenze di Capaccio, è riuscito a ricreare un’essenza specifica con le rose della Magna Grecia. Emilia e Martina Marino, insieme a Mario Trevisant, hanno dato vita a Rodon: «Una fragranza estremamente femminile fiorita e sensuale con rosa dei giardini dell'antica Paestum, rosa che fu mandata dai giardini di Damasco quella stessa che portata nel fortunato grembo della fertile della nostra terra e divenne rodon, la rosa di Paestum». Il vivaista Carmine Palmese, dal canto suo, da grande esperto di rose antiche con i suoi vivai storici ha conquistato un importante riconoscimento persino a Londra, vincendo un premio al Chelsea Flower Show. «Sono riuscito a recuperare molte specie del passato, sono rose da un profumo inebriante che ci restituiscono la nostra storia attraverso la botanica». Rimane poi il rebus letterario del “De rosis nascentibus”, un poemetto che secondo alcuni sarebbe da attribuire a Virgilio, dove si fa esplicito riferimento alla particolare tecnica pestana della coltivazione delle rose e la citazione del curioso innesto che consente di trapiantare la rosa sul rovo, creando di fatto un ibrido.


Ma se sull'autore dell'opera ci sono dubbi, è invece certamente il grande poeta a citare le rose nostrane nelle Georgiche:

«Se già non fossi al termine del mio lavoro … canterei i rosai di Paestum che fioriscono due volte all'anno» <<Ataque equidem, extremo ni iam sub fine laborum… canerem biferique rosaria Paesti>> (Virgilio, Georgiche IV, 116-124).

IV


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