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Ti racconto … la Scuola Medica Salernitana! Sabato 19 dicembre, ore 16.30 Ludoteca Pediatria Ospedale S. Leonado - Salerno
L’Associazione Adorea, a conclusione dell’attività programmatica 2015, ha ideato una proposta culturale sulla Scuola Medica Salernitana da rivolgere ai piccoli degenti dell’Ospedale S. Leonardo di Salerno. Si tratta di un’iniziativa intitolata “Ti racconto … la Scuola Medica Salernitana”, che si terrà sabato 19 dicembre, alle ore 16.30, presso la Ludoteca del Reparto di Pediatria. Qui saranno raccontate dai componenti del Gruppo Gens Langobardorum, indossando abiti medievali, sei fiabe, alcune create dai nostri soci. L’evento, organizzato da Adorea e dal Gruppo Gens Langobardorum, ha trovato l’immediata ed entusiastica collaborazione del Dr. Vincenzo Viggiani, Direttore Generale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria, del Dr. Raffaele Albano, Primario della Pediatria, del Dr. Bruno Ravera, Presidente dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri di Salerno e provincia, e del Dr. Mario Colucci, Presidente del Centro Studi Civitas Hippocratica. A conclusione dello spettacolo, il fornaio Giovanni Russomando, artigiano di grande professionalità e bravura, regalerà ai piccolini tante ghiottonerie, predisponendo un ricco buffet di prodotti da lui appositamente preparati! Tutte le Istituzioni e le Associazioni coinvolte hanno inteso offrire un momento di svago e di gioia ai bambini, recitando brevissime fiabe imperniate sui medici e sulle medichesse della Scuola di Salerno e donando perfino la sua storia a fumetti, stampata dalla tipografia Gutenberg di Liberty Print di Fisciano, in un libro “tirato” soltanto in pochi esemplari. Un modo diverso non solo di proporre un’antica ed illustre Istituzione, la Scuola Medica Salernitana, che ha reso famoso il nome della nostra città in tutto il mondo, ma anche di coinvolgere i bimbi, augurando loro un sereno Natale ed un felice futuro, nella consapevolezza di essere affidati alle cure ed alla bravura di medici e di infermieri della valida ed efficiente struttura ospedaliera S. Leonardo di Salerno.
Il Presidente di Adorea Dott.ssa Vittoria Bonani www.adorea.it
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La leggenda della fondazione della Scuola Medica Salernitana Mariapina Giudice e Giuliano Rosi
C’era una volta una città di mare chiamata Salerno, bella ed operosa, dove regnava la pace e la serenità. Fresche acque sgorgavano dalle colline e irrigavano case e giardini, tanto che nell’aria si spandevano profumi di mille fiori e di tantissime erbe. Nella città ad ogni ora del giorno fervevano le attività lavorative di una popolazione dinamica e competente. In ogni angolo si potevano vedere artigiani all’opera, impegnati a tingere tessuti, a battere il ferro, a forgiare metalli. Il suono delle gualchiere e dei telai riempivano le strade, il profumo delle spezie invadeva l’aria e dovunque fiorivano i commerci, mentre ricchi mercanti compravano e vendevano con concitata animazione. Per questi motivi,molti forestieri visitavano la città perché in essa trovavano ciò di cui avevano bisogno e, venendo da tutte le zone del Mediterraneo, viportavano a loro volta tutte le merci conosciute fino ad allora. Molte erano le lingue parlate nelle piazze e nelle vie della città fortunata, ma le persone si intendevano meravigliosamente fra di loro e tante idee nuove e diverse erano scambiate fra i mercanti e la popolazione. Potevi sentire il maniscalco che ferrava il cavallo del signore catalano, che intanto raccontava della sua città, mentre lo speziale arabo convinceva il cliente greco che gli parlava intanto delle erbe di Bisanzio, mentre un po’ più in là una donna con un bambino per mano sceglieva stoffe su di un banchetto di un fiorentino e nella bottega del giudeo all’angolo un veneziano cambiava valuta del suo paese in follarid’argento, per pagare in seguito la merce acquistata. Tutto era vivace e bello nella città di mare, dove ricchi stranieri e guerrieri di ritorno dalle tante guerre passavano o venivano a farsi curare perché l’aria salubre, le occasioni di svago, la genuinità dei cibi rendevano piacevole e sano il soggiorno . La pace che vi si respirava era data soprattutto dal benessere fisico che vi si godeva e questo stava a cuore degli abitanti della città quasi quanto la bellezza del cielo e del mare tanto azzurro che li circondava. Ma il benessere fisico talvolta veniva meno e fra gli stranieri di passaggio era molto spesso in pericolo, tanto che essi dovevano farsi curare ed era stato proprio questo lo scopo del loro viaggio nella bella città di Salerno. Fu così che una sera di cattivo tempo, buia e tempestosa, nella parte orientale della città laddove una serie di archi reggeva l’acquedotto principale, passò infreddolito e veloce un forestiero. Si chiamava Pontuse veniva da Bisanzio, parlava greco e s’intendeva di 5
medicina. Data la pioggia insistente si fermò sotto uno degli archi e lì sentì dei lamenti e richieste di aiuto. Cercò nel buio e nella pioggia di distinguere da dove venissero i lamenti e s’accorse che un uomo giaceva a terra comprimendosi una ferita con qualcosa di indistinto ma che evidentemente non migliorava per niente il suo male. In nome di Dio, chi sei e che ti è successo? domandò Pontus all’uomo sofferente che, steso per terra sotto la pioggia e scarsamente riparato dall’arco gli chiedeva aiuto; Mi chiamo Salernus e vengo da Roma. sono venuto per acquistare delle stoffe che soloa Salerno posso trovare e che mi servono per i miei commerci. Mi sono ferito nella strada buia e piovosa, sono scivolato e sono finito qui sotto. Ho con me questo rimedio che mi porto nei miei viaggi e di solito mi è utile per ogni ferita o malattia, ma vedo che stasera non riesco a venir fuori da questo guaio. rispose il ferito ; Fammi dare un’occhiata alla tua ferita, propose Pontus. Ti ringrazio e ti benedico, vieni pure a vedere- disse Salernus, alzando il lembo di veste con cui comprimeva il rimedio inefficace sulla ferita; Pontussi piegò e nonostante il buio si accorse che la ferita era piuttosto grave. Che ne pensi ?- chiese affranto Salernus ; Proprio allora emerse dalla cortina di pioggia la sagoma di un altro uomo che, passando sotto l’acquedotto, era stato attratto dalle voci. L’uomo si avvicinò e si curvò anch’egli sul ferito che già era visitato da Pontus. Ma che fate?, non vedete che la ferita s’intromise il sopravvenuto;
ha bisogno
di essere curata subito? –
E tu chi sei ? e perché parli così ? Hai forse da suggerire altro rimedio?- si lamentò Salernus,; E’ vero, scusatemi, sono stato inopportuno. Mi chiamo Helinus, sono ebreo e ho una certa pratica di queste ferite.Secondo me hanno bisogno di un impacco di fango , che ben sparso sulla ferita , permetta di far agire sulla pelle i minerali che contiene , per ripristinarne l’equilibrio fra gli umori e consentirne la ricrescita- rispose il terzo uomo sopravvenuto; Beh, non mi sembra proprio ben fatto sporcare la ferita che, piuttosto avrebbe bisogno di un impacco di ruta, ben applicata e meglio adatta a restituire vitalità alla parte , dato il 6
tipo di ferita suggerì Pontus ; - E di che tipo di ferita vi pare che si tratti, dunque ?- intervenne la voce di un quarto uomo spuntato dal nulla di quella sera buia sotto l’arco del Diavolo, come era chiamato l’acquedotto. - Mi chiamo Abdelae sono arabo. Riconosco il tipo di ferita e secondo me andrebbe curata con l’apposizione di un pezzo di carne cruda che succhi tutti gli umori putrefatti e ridia alla parte del corpo offesa il turgore della salute- continuò il quarto uomo, presentandosi; - Dici? E pensi di trovarlo facilmente questo pezzo di carne?– rispose speranzoso Salernus, - Se siete d’accordo, dietro vostro consulto, posso applicare sulla ferita di Salernus una parte della carne non ancora cotta che ho con me e la rimanente la cuciniamo per una amichevole cena alla quale siete tutti invitati, assicurò Abdela. - Ottima idea, ma fate presto, che il dolore mi fa impazzire – gridò Salernus. Fu così che Abdela fece quanto aveva proposto ,sotto lo sguardo interessato degli altri tre nuovi amici. Le ore passavano, i quattro uomini, in parte rifocillati, rimasero vicino al ferito discutendo sulle diverse modalità usate per prevenire e curare i malannipropri degli uomini e delle donne. Il ferito intanto, pur continuando a soffrire, informava gli altri che il rimedio usato cominciava a dare effetti positivi: il dolore diminuiva e la speranza di guarigione diventava di ora in ora certezza. I quattro uomini ora che si erano conosciuti e presentati, presero grande interesse a continuare a discutere fra loro e le considerazioni che facevano erano sempre più ampie e coinvolgenti. Erano veramente certi che ciascuno di loro era un “sapiente in medicina e nell’uso delle spezie”. Essi, di fatto, erano portatori delle conoscenze apprese nelle zone di origine che, pur essendodiverse, costituivano il patrimonio delle conoscenze mediche dell’area del Mediterraneo, condivise e praticate in secoli di civiltà. Spuntò l’alba del giorno dopo. La pioggia era finita e il sole iniziava a salire all’orizzonte. La ferita non dava più dolore e sembrava avviata a guarigione. I quattro uomini poterono guadarsi in faccia con reciproca soddisfazione, avevano discusso con profitto e con intelligenza. Ora sapevano molto di più e ciascuno pensò che si dovesse continuare a discutere e a dibattere come avevano fatto quella notte. - Ma sapete, amici,sarebbe bello continuare a scambiare le nostre osservazioni e le nostre esperienze, così come abbiamo fatto stanotte a Salerno, in questo luogo protetto dagli archi del Diavolo- disse Pontus il greco, pensoso. Potremmo fondare una scuola, in cui realizzare tutto ciò e che sarà una fonte di conoscenza. 7
-E sì, sarebbe interessante e proficuo- disse Helinus, l’ebreo La scuola dove scambiare e far crescere la nostra sapienza medica potrebbe servire anche ad aumentare i commerci in questa città. - Esi, aggiunse Abdela l’arabo- conservare la salute degli uomini potrebbe far crescere la gloria di Dio. -Ma certamente, concluse Salernus, il latino.-la scuola servirà a stabilire anche la gloria di Salerno. - E come la chiameremo, amici ?chiese eccitato Pontus. La chiameremo:.Scuola Medica Salernitana disse Salernus ,illuminandosi in viso.
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Il povero Enrico Vittoria Bonani
Tanto, tanto tempo fa, viveva in un paese lontano, posto al dilà dei grandi monti, un giovane principe di nome Enrico, fidanzato con la principessina Elsie. Eraalto, bello e con grandi occhi, azzurri come il cielo. Un giorno, però, incominciò ad accusare forti dolori alla testa, alle braccia ed un po’ in tutto il corpo, fino a dimagrire a vista d’occhio: era affetto da una brutta malattia contagiosa, la lebbra. I medici del posto furono chiamati per un consulto e, per quanto essi fossero bravi, non riuscirono a guarirlo. Furono comunque pronti a consigliare al re ed alla regina, padre e madre di Enrico, di portare il proprio figlio a Salerno e di farlo visitare dai dottori di quella famosa Scuola. Tutta la corte si preparò alla partenza: furono approntati i bagagli e caricati sui carri, trainati da possenti cavalli, i quali attraversarono l’Italia e, dopo molti giorni di viaggio, arrivarono in vista di una bella città posta sul mare, circondata di verde e racchiusa da mura alte e robuste. In alto, sulla collina, vi era un grande Castello e lì il re e la regina furono accolti dal principe di Salerno ed ospitati con tutti gli onori. Il giorno dopo Enrico incontrò i dottori salernitani: lo spogliarono, lo tastarono, lo scrutarono attentamente e poi dissero: <<Il giovane si salverà solo se nel sangue di una fanciulla si laverà. Ma - aggiunsero donare il sangue potrebbe mettere a rischio la vita della giovane donna che lo donerà>>. Dopo aver ascoltato queste parole, la principessina Elsie rispose di essere pronta ad offrire il suo sangue e di volersi affidare aiconsigli dei medici della Scuola di Salerno, famosi in tutto il mondo. Furono inutili i rifiuti di Enrico, il quale non era disposto ad accettare un eventuale pericolo per la salute della sua fidanzata, che, invece, vollea tutti i costi consegnarsi ai dottori. Questi la condussero in una grande sala, completamente illuminata da lampade ad olio, e qui si apprestarono ad eseguire il delicato intervento, servendosi di tutti gli strumenti realizzati da quegli esperti uomini della medicina. Infine, nel sangue di Elsie, raccolto in una grande vasca, fecero adagiare il corpo del giovane. Ogni cosa riuscì alla perfezione ed Enrico guarì!!! Dopo aver ringraziato l’archiatra, il capo dei dottori, ed i suoi numerosi aiutanti, prese Elsie per mano e si avviò verso la chiesa di San Matteo, patrono di Salerno; davanti alle reliquie del Santo si inginocchiò per pregare e per ringraziarlo dell’avvenuta guarigione. 9
La città di Salerno era nota dappertutto, perché restituiva la salute agli ammalati e grandefu pertanto la riconoscenza del re e della regina nei confronti della Scuola Medica che aveva operato il miracolo e salvato l’amato figlio; essi regalarono, perciò, ai dottori tante monete d’oro e gioielli! Il principe, ritornato al suo paese, sposò Elsie e, da quel giorno, i due vissero a lungo felici e contenti!!!
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Teodenanda e la Santa della sorgente Federica Garofalo
Tanto, tanto tempo fa, nella città di Amalfi, viveva una fanciulla di nome Teodenanda: aveva appena sposato un bel ragazzo, Mauro, che le voleva molto bene. Un giorno, però, Teodenanda si ammalò: fu costretta a rimanere a letto, e cominciò a non mangiare più. Suo marito le faceva preparare tutto quello che le piaceva, ma lei non toccava niente, e dimagriva sempre più. Mauro non si rassegnava a veder morire la moglie che tanto amava: portava da lei tutti i medici più bravi che potesse trovare, ma le loro cure non facevano che peggiorare la sua malattia. Persino il mio maestro, l’archiatra Gerolamo di Salerno, famoso in tutto il mondo, con tutti i suoi libroni di medicina, non riuscì a venire a capo della misteriosa malattia di Teodenanda. Mauro era disperato: non poteva succedere che questa donna così bella e dolce, l’amore della sua vita, gli venisse portata via senza che lui potesse far niente, doveva fare qualcosa per salvarla o sarebbe morto insieme a lei! Un giorno sentì parlare di una donna vecchia e saggia che viveva nella chiesa di Santa Trofimena, nella vicina città di Minori, una monaca di nome Agata: senza perdere un solo istante, Mauro si precipitò da lei per chiederle consiglio. Si gettò ai suoi piedi e, abbracciandole le ginocchia la implorava: - Vi prego, aiutatemi! Mia moglie sta morendo, e non c’è niente che possa guarirla! La monaca guardò Mauro, poi gli sorrise. - Non disperare, figliolo: ieri notte un sogno mi ha avvertito del tuo arrivo. C’è una speranza per la tua amata, ma dovrai essere molto coraggioso. - Farò qualunque cosa, - rispose Mauro senza esitazione. - Allora mettiti in cammino, e va’ alla sorgente del fiume Reginna sul monte Cerreto. Potrai andarci solo a piedi, e senza le scarpe: se riuscirai a raggiungere la sorgente senza fermarti mai, lì troverai qualcuno che ti dirà come puoi salvare Teodenanda, ma se fallirai lei morirà. Agata non aveva ancora finito di pronunciare quelle parole che Mauro si era già tolto le scarpe e correva a piedi nudi in direzione del fiume Reginna. Il fiume si snodava in un burrone tra montagne irte di rocce, e ben presto i piedi gli si coprirono di tagli dolorosi, ma il giovane non se ne curava: pensava solo a seguire a ritroso il corso del fiume verso la sorgente. Per tre giorni e tre notti si arrampicò sul monte Cerreto, fuori dal sentiero, tra massi e rocce con il rischio di cadere giù da un momento all’altro, sotto il sole cocente che arro-
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ventava le pietre e con il vento freddo della notte. Mauro, però, sembrava non sentire né il caldo né il freddo, né la fame né la stanchezza. Alla fine, una notte, il corso del fiume cominciò a restringersi sempre più, fino ad insinuarsi in una radura: Mauro vi s’infilò e fu lì che trovò la sorgente. Era un luogo solitario, ma l’acqua cristallina che sgorgava dalla terra faceva uno strano rumore, come di una voce di donna che cantava. Pian piano il canto si fece sempre più forte, mentre il getto d’acqua cresceva in altezza, cambiava forma, fino a prendere i contorni di un essere umano. Mauro non credeva ai suoi occhi, si chiese se non stesse sognando: davanti a lui era comparsa una fanciulla bellissima, forse della stessa età di Teodenanda, vestita con una tunica d’argento e dagli occhi azzurri e trasparenti come l’acqua della sorgente. E rideva, con un piccolo suono tintinnante. - Ce l’hai fatta, Mauro, - gli disse sorridendo. - Io sono Trofimena, che voi chiamate santa. Conosco Teodenanda da sempre, e un giorno lei, quando era piccola, espresse il desiderio di sposare un giovane bello e che le volesse veramente bene: con questo ho voluto metterti alla prova per vedere se davvero l’amassi come merita. E ora il tuo amore e il tuo coraggio saranno premiati. Mauro cadde in ginocchio. - Io chiedo solo una cosa - rispose con le lacrime agli occhi. - Che la mia Teodenanda possa stare di nuovo bene. - E così sarà, - disse Trofimena avvicinandosi a lui e prendendolo per mano. - Guarda ai tuoi piedi, e troverai la medicina per lei. Il giovane abbassò lo sguardo, e, invece dell’erba tenera della radura, si ritrovò a fissare le pietre del pavimento della chiesa di Minori: da quelle pietre veniva fuori un olio che aveva un meraviglioso profumo di rosa, e ne veniva fuori tanto che se ne sarebbe potuta riempire una giara! Pieno di gioia, Mauro si gettò a terra, prese tutto l’olio che potesse portare tra le mani, si precipitò ad Amalfi, a casa, dalla sua amata moglie, e la strofinò con quell’olio da capo a piedi. Finalmente, Teodenanda aprì gli occhi, più bella di quanto non fosse mai stata. Guardò Mauro, magro e stracciato, e gli si gettò al collo piangendo di gioia. - Ho visto in sogno tutto quello che hai fatto per me, - sussurrò guardandolo negli occhi. - Ti amerò per tutto il tempo che mi resta da vivere. Mauro organizzò una grande festa perché tutti vedessero che Teodenanda era finalmente guarita: tutta Amalfi rimase meravigliata perché la fanciulla era anche più bella di prima e perché nessuno aveva mai visto due sposi così innamorati come lei e Mauro. - Che possa essere così per altri cent’anni! - dissero tutti. E il loro augurio si avverò. ht t p s: / / www. ap ho r is m. it / fed er ica_ g a ro fa lo / r acco nt i/ t eo d enand a_ e_ la_ sa n t a_ d ella_ so r g ent e/ https://ilpalazzodisichelgaita.wordpress.com/2015/12/19/teodenanda-e-la-santa-della-sorgente/
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La storia del Duca Roberto che dice sempre no! Angela Cherchi C’era una volta un duca potente e ricco di terre e di titoli, di nome Roberto, che viveva in una terra lontana, nel nord della Francia. Questa terra si chiamava Normandia, che vuol dire “degli Uomini del Nord” ed era abitata da guerrieri fortissimi, alti e senza paura, proprio come Roberto. A dire il vero, questo duca non era poi molto alto, tanto che gli avevano messo il buffo soprannome di “Gambacorta”, ma in quanto a coraggio e a voglia di menar le mani, egli non era secondo a nessuno, anzi, amava così tanto giostrar di spada e di lancia e girar rivestito della sua armatura di ferro, che quando lo vedevano, la gente canticchiava: “Se Gambacorta dice di sì, il tuo percorso non finisce qui, se Gambacorta dice di no non sperare nemmeno un po’!” E lui, sotto sotto, se la rideva, anche perché gli piaceva dire spesso di no. Un vero caratteraccio, questo duca! Preso dalla sua voglia di guerreggiare e ancor più di terre avere, pensate che iniziò a prendersela persino coi fratelli e col padre suo, il quale non era però un tipo qualsiasi: era nientedimeno che il magnifico Guglielmo, detto il Conquistatore, re d’Inghilterra! Un bel giorno il re d’Inghilterra, stanco e scontento delle continue disubbidienze di quel suo figliolo attaccabrighe ed egoista, decise di dargli una lezione e lo circondò col suo esercito, ma giusto per mettergli un poco di paura, tanto per fargli capire che non poteva permettersi di fare e disfare tutto. Purtroppo, durante la battaglia, Roberto, preso da terribile furia, ferì il padre fin quasi a condurlo a morte. Terribile sacrilegio! Colmo di vergogna e di rimorso, il Gambacorta non riusciva più a dormire e non trovava pace. Più nulla gli andava a buon fine, perché aveva portato la discordia in famiglia e nelle sue terre, che iniziarono a deperire. Non sapeva come rimediare. Una notte, in mezzo ai suoi incubi – non sapendo se stesse sognando o se fosse desto – egli socchiuse gli occhi e … oooohhhhh! … vide fluttuare nell’aria una nube dorata e da questa nube uscire una fata bellissima, dai lunghi capelli ondulati e dalla veste azzurra, che così gli cantò: “Se Gambacorta dice di sì, a Gerusalemme il perdono avrà così /se Gambacorta dice di no, a Dio non lo raccomanderò”. E la fata scomparve con un sorriso, lasciando un intenso profumo di rosmarino in fiore.
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Il mattino seguente, Roberto ordinò immediatamente ai suoi soldati di prepararsi a partire per la lontana Gerusalemme, che era la terra di Gesù, dove sperava di trovare il perdono. Iniziò un lungo, lunghissimo viaggio, giù giù, attraversò pianure e scalò montagne, sempre più giù, finché arrivò in una terra fertile e soleggiata, che si chiamava Puglia, protesa nel mare blu. Gli si fece incontro, allora, scortata da un ricco seguito, una giovane donna bellissima, che con dolce voce gli parlò: Io sono Sibilla da Conversano, figlia del signore di queste terre, e ti darò le navi per attraversare il mare, purché tu prometta di combattere a Gerusalemme solo per la salvezza degli umili pellegrini che lì si recano per pregare sul sepolcro di Nostro Signore, ma senza nulla conquistare e amici e nemici, invece, rispettare. Che rispondi, o signore di Normandia? Roberto non rispose subito. Era rimasto incantato a occhi spalancati a guardare Sibilla: lei aveva capelli lunghi e ondulati, era vestita d’azzurro e profumava di rosmarino in fiore! -Io prometto, bella dama, e in più ti chiederei, subito subito, se tu volessi diventare mia moglie. Che rispondi, o signora di Conversano? Il Gambacorta, come abbiamo detto, era un po’ bassino, sì, e di pessimo carattere, ma affascinante e coraggioso. Le nozze furono splendide, si fece gran festa, ma poi il duca dové partire verso Oriente con le navi di Sibilla. Sotto le mura di Gerusalemme si coprì di gloria, ma rispettò amici e nemici in ugual misura, senza esser prepotente come faceva prima. Non si arrabbiò neppure quando una freccia avvelenata lo colpì in battaglia. “Forse era destino ch’io soffrissi le stesse pene di mio padre! E’ giusto così”, si disse, prima di farsi portare di fretta sulla nave per tornare subito in Puglia a riveder un’ultima volta Sibilla. E attraversò di nuovo il mare blu, fino al fertile paese del Sole. La bellissima moglie, quando vide il suo Roberto in fin di vita, lo mise su di un carro: - Presto, presto, portiamolo a Salerno, dove sta la Scuola dei medici più famosi del mondo! Lì troveranno la cura per questo veleno mortale, prima che raggiunga il tuo cuore! Anche Salerno stava in una terra fertile e soleggiata, con tanta gente che ci veniva da ogni parte per farsi guarire dai suoi medici. La nobile Sibilla trasportò subito subito l’amato dai più famosi di essi per farlo visitare. O figlio del Re d’Inghilterra, o duca giocondo la punta della freccia ha colpito troppo in fondo. Bisogna succhiarti via il veleno, se vorrai guarire, 14
ma chi lo farà, purtroppo, dovrà morire! Preferisco allora, o saggi medici, morir io, ma nessun – per mia colpa – renderà mai più l’anima a Dio! E ciò detto, sempre più debole, il Gambacorta si stese sul letto e cadde addormentato. Quando si risvegliò, si sentì forte e gagliardo come mai era stato prima. Tutto contento, cercò la moglie per tutto il palazzo, ma cerca, cerca, cerca, non la trovò. O nobile duca di Normandia – gli dissero le ancelle, piangenti e afflitte – la tua Sibilla stanotte ha succhiato lei il veleno dalla tua ferita per salvarti la vita e adesso è salita in cielo. Non cercarla, non la troverai! Senza dir parola più, Roberto il Gambacorta iniziò un lungo, lunghissimo viaggio, su su, attraversò pianure e scalò montagne, sempre più su, finché arrivò nella sua terra al Nord. Una notte, nel buio della sua stanza, non poteva dormire, preso dai soliti incubi. Socchiuse gli occhi e … ooohhhh! … fluttuante nell’aria, immersa in una nube d’oro, c’era Sibilla: aveva i capelli ancora più lunghi e ondulati ed un vestito azzurro. Era bellissima. Marito mio, son io la fata che ti comparve quella notte, ma tu lo sai già. Volevo indicarti la strada per diventare migliore, e tu ci sei riuscito: quale amore più grande di chi pensa prima alla salvezza degli altri, piuttosto che alla propria vita? Non preoccuparti, io sarò sempre vicino a te, fra una magia e l’altra. Gambacorta non dice più di no e io lo perdonerò / il mio Roberto dice sì e questa terra tornerà felice così!” E da quel giorno, infatti, la Normandia fu di nuovo ricca e potente come prima. Qualcuno insiste che questa storia sia vera, qualcun altro che non sia andata proprio così. Ma c’è chi giura che, passeggiando nei pressi della Cattedrale di Salerno, abbia sentito un forte, intenso profumo di rosmarino in fiore!
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La vicenda di Trotula che salva il giovane Ugone Bernardo Altieri Quasi 1000 anni fa viveva una bambina di nome Trotula. Giocava tra le stradine del centro storico, nei suoi orti e nei giardini che si stendevano tra il mare e le colline, quello stesso mare e quelle stesse colline che vedete oggi come allora, ma in una città più piccola e silenziosa. Qui, fin da piccola, si dedicò agli studi delle erbe e della medicina rivolgendo, da grande, tutto il suo impegno alle donne che curava ed ai bambini che aiutava a nascere. Ma faceva molto di più: le piaceva rendere belle le sue amiche ed anche tutte le donne della nostra città che le chiedevano aiuto o consiglio. Insegnò loro a lavarsi ogni giorno i denti, dopo aver pranzato, utilizzando una specie di spazzolino fatto di foglie e rametti, come sciacquarsi il viso e gli occhi tutte le mattine, appena sveglie, e le mani prima di andare a dormire, oppure prima di toccare i cibi. Diede loro i primi insegnamenti di igiene personale! Era sposata con un medico molto colto ed aveva due figli bravi e belli, medici anche loro! Non poteva desiderare di più! Ma quel mattino di primavera, appena sveglia e pronta per andare in un vicino paesino ad aiutare una donna che stava per far nascere il suo primo bambino, passando per il bosco a dorso del suo fidato asinello che la portava da Ildegarda, in un ricco palazzo della città di Rota, che, oggi, si chiama Mercato San Severino, sentì un uomo lanciare fortissime grida di dolore. Scese di sella, seguita dai suoi due fedeli aiutanti, ed affacciatasi con attenzione oltre un alto cespuglio di more, vide un ricco signore, splendidamente vestito ed circondato dai suoi armigeri, disteso per terra, che si dibatteva tra dolori fortissimi. Trotula chiese subito che cosa fosse successo ed i soldati, che in un primo momento stavano per scacciarla, riconobbero Trotula, la famosa Magistra salernitana, e le spiegarono che mentre Ugone stava raccogliendo dei frutti, proprio uscendo da quel cespuglio, un serpente velenosissimo gli aveva morso il braccio. La morte di quel povero uomo era dunque imminente! Ma lei trasse subito dal suo armamentario un affilato bisturi; fece legare sopra al gomito una cintura di pelle strappata dalla bardatura di un cavallo, per evitate che il veleno arrivasse al cuore, ed incise la ferita. Tra lo stupore dei soldati, succhiò e sputò via il sangue contaminato. Quei gesti salvarono il giovane, che stava lì lì per morire. Trotula ordinò ai soldati che lo scortavano di approntare una barella di fortuna con rami e arbusti e di portarlo subito a casa, dove avrebbe potuto riposare e riprendere le forze.
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La notizia della guarigione di Ugone si diffuse subito in tutta la città di Salerno, non appena il malato varcò le alte mura che la difendevano. I genitori di Ugone, preoccupati della salute del figlio, chiamarono subito a casa un altro famosissimo medico, che veniva da terre lontane e che si trovava a passare per la nostra città. Il grande specialista, appena seppe che la guarigione era stata merito di una donna che aveva inciso il braccio di Ugone con un coltello affilatissimo, che aveva succhiato e poi gettato fuori il sangue del povero infermo, un po’ per gelosia, un po’ per ignoranza, l’accusò di stregoneria, scambiando l'arte medica di quella ben nota scienziata in atti di magia nera! Si rivolse perciò subito alle guardie, chiedendo loro di arrestare Trotula, di processarla come strega e di mandarla al rogo, così come si era soliti fare nel suo paese. Ma il Principe di Salerno, quando seppe l’accaduto, ordinò alle sue guardie di portare quell'uomo alla sua corte; e così fu fatto. Lo ascoltò pazientemente e, quando lo straniero ebbe finito di accusare Trotula, gli disse: “Vai subito via da questa città, perché non sei degno di chiamarti medico! Noi, a Salerno, saniamo tutte le malattie da secoli, i nostri medici hanno scritto i primi libri di medicina, sono chiamati per curare gli ammalati in tutto il mondo ed hanno guarito persino il re d' Inghilterra che sarebbe certamente morto senza i loro rimedi”. Trotula fu salva, seguitò ad assistere gli ammalati, anche quelli più poveri e senza soldi, ed i medici di questa bella città continuarono a svolgere questo meraviglioso lavoro, dedicandosi, con successo, a chi aveva bisogno delle loro cure. Non successe la stessa cosa in altre parti d'Europa, dove, invece, tante brave medichesse come Trotula, solo per il fatto di essere donne, furono condannate, spegnendo in un falò la scienza e la cultura.
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La leggenda di Mago Barliario Geppino Lauriello C’era una volta a Salerno, tanti, tanti anni fa, un mago di nome Pietro Barliario. Aveva da giovane studiato le arti magiche su certi libri di negromanzia scritti dagli arabi, libri che aveva acquistato in un viaggio a Costantinopoli, ed era diventato famoso a Salerno per le sue stregonerie. Tutti i giorni, leggendo questi libri, studiando le formule magiche che vi erano scritte in più colori e aggirandosi nel suo laboratorio tra fornelli e alambicchi, compiva incantesimi di ogni genere. Dicevano i salernitaniche avesse trasformato una ragazza in albero e il suo fidanzato in sasso e avesse fatto scorrere vino dalla fontana a Largo Campo!!! Era stato più volte imprigionato, ma era riuscito sempre ad evadere, facendo scomparire una volta i muri della prigione, un’altra voltase stesso. Condannato a morte e portato sul palco per essere giustiziato, aveva fatto all’improvviso dissolvere il suo corpo, lasciando nelle mani del carnefice un asino che ragliava. Addirittura in una notte, con l’aiuto dei diavoli, aveva fatto sorgere dei ponti in una via di Salerno. I salernitani, quando lo incontravano si facevano il segno della croce, perché temevano potessecompiere qualche sortilegio contro di loro. Pietro aveva due nipotini, che erano la luce dei suoi occhi, tanto li amava:li coccolava, li baciava, faceva loro tanti regali, e voleva sempre averli accanto, tranne quando si rinchiudeva nel suo laboratorio. Un giorno Fortunato e Secondino, questi erano i loro nomi, incuriositi del fatto che il nonno non li portasse mai in questa sua misteriosa officina e approfittando della sua assenza, penetrarono all’interno della stanza. Nell’immensa accozzaglia di oggetti abbandonati alla rinfusa - bottiglie, bottigliette, anfore, alambicchi, otri, vasi di varia grandezza ed altro - v’era in un angolo un rozzo tavolo di legno con sopra dei grossi libri, di cui uno era aperto. Si accostarono al libro per guardarvi le figure strane e multicolori che vi erano disegnate e, umettando le dita con la saliva e poi riportandole alla bocca, iniziarono a sfogliarne le pagine, ma quei disegni erano tracciati con un inchiostro velenoso, per cui improvvisamente si sentirono male e caddero a terra in preda a violenti mal di pancia. Quando dopo qualche ora il nonno rientrò, vide con orrore che i nipotini erano morti. La disperazione del vecchio Barliario di fronte a quella crudele realtà fu indescrivibile: piangeva, si strappava i capelli, si prendeva a schiaffi, batteva la testa contro il muro, rendendosi conto che la responsabilità di quella morte era tutta sua. Se avesse tenuta chiusa a chiave la porta dell’ingresso o meglio, se non si fosse dedicato a quelle malefiche opere di stregoneria, i nipoti non sarebbero morti. Straziato dal dolore, si recò nella vicina chiesa del monastero di San Benedetto e inginocchiatosi ai piedi del grande crocifisso, posto
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accanto all’altare, cominciò a pregare, ad implorare, ad invocare Gesù di perdonarlo di quell’orrendo delitto, di cui riconosceva in pieno la propria colpa. E sempre in ginocchio per tre giorni e tre notti stette di fronte al crocifisso, supplicando e implorando, versando un mare di lacrime, e ripetutamente chiedendo al Signore un cenno di perdono. Si narra che Gesù, alla fine, commosso da tanto dolore e da tanto sincero pentimento, girasse gli occhi verso il peccatore e gli facesse un segno con il capo dell’avvenuto perdono. Da quel giorno Pietro non volle più saperne di intrugli, fatture e incantamenti, distrusse il laboratorio e presentandosi all’abate del monastero, gli chiese di accettarlo come monaco. Il consenso gli fu dato e Pietro, vestito il saio di fraticello e tagliatisi i capelli, rimase nel convento per molti anni, vivendo in umiltà e preghiera, astinenza e digiuni fino alla morte. Sulla tomba in cui venne sepolto, all’interno della chiesa,che ora non c’è più, erano scritte queste semplici parole: “Qui è sepolto Pietro Barliario.Il crocifisso del miracolo invece c’è ancora ed è conservato nel Museo Diocesano”. Il racconto insegna che la misericordia di Dio è immensa e di fronte a un sincero pentimento non abbandona nemmeno un grande peccatore.
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