Anno XV n.7 - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - â‚Ź 2,60
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Bergamo, il mais vola oltreoceano Grazie a Expo, avviati scambi e confronti con Messico e Bolivia. VarietĂ autoctone saranno seminate in Cile e in Uruguay
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XV n.7
SOMMARIO
Berg il ma amo, vola oltreois ceano Grazie a Expo , avvia
Anno
SETTEMBRE 2015
Bergam o - € 2,60
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4 IL PRODOTTO
Il mais bergamasco abbatte i confini
10 IL PERSONAGGIO
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Chef sugli yacht. «Una carriera, mille emozioni»
12 GALLERIE
Sette storie per sette sapori
18 TRADIZIONI
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Dai cannellini bergamaschi ai cannelloni alla bresciana: storie di paste ripiene e di abbagli
20 AMARCORD
Il formaggio del tempo che fu
Val di Scalve, uno scrigno di bontà
24 L’ITINERARIO 27 RIFLESSIONI
Quanti giudizi affrettati e in malafede sul mondo del vino
28 L’INTERVISTA
Birre artigianali, il bergamasco che ha sconfitto tedeschi e austriaci
30 FACECOOK
«Che esigenti i palati di New York!»
32 IL PREZZO FISSO
Voci del Mare, 25 anni di ristorazione “formato famiglia”
Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Giuseppe Mazzini,24 - 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Pubblicità: La Rassegna srl - via Giuseppe Mazzini, 24- 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - info@larassegna.it - N° ROC 5847 - Abbonamenti: www.larassegna.it tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Laura Bernardi Locatelli, Leonardo Bloch, Laura Ceresoli, Fulvio Facci, Riccardo Lagorio, Roberta Martinelli, Lelia Parisi, Rossana Pecchi, Fabrizio Pirola, Pierluigi Saurgnani, Rosanna Scardi, Giordana Talamona, Donatella Tiraboschi - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg
IL PRODOTTO di Laura Bernardi Locatelli
Il mais bergamasco abbatte i confini
Grazie a Expo, avviati scambi e confronti con Paesi come Messico e Bolivia. E mentre il Nostrano dell’Isola si prepara a fare tappa in Cile, lo Spinato di Gandino, il Rostrato rosso di Rovetta e il Nostrano Orobico faranno una generazione invernale in Uruguay
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xpo sta portando il mais bergamasco nel mondo e creando un vero e proprio ponte con Messico e Bolivia, culle del “mahiz”, che cresce dalla pianura fino ai 4mila metri del lago Titicaca. Il progetto Mais Expo Bergamo-Meb 2015 sta raccogliendo i primi importanti frutti, creando scambi e network tra istituzioni scientifiche, enti locali e Paesi del mondo riuniti a Rho. Il governatore dello Stato messicano della penisola dello Yucatan, Rolando Zapata Bello, ha visitato la Banca del Germoplasma custodita dall’Unità di Ricerca per la Maiscoltura, una collezione unica al mondo con oltre 800 varietà tradizionali e autoctone di mais italiano (60 lombarde) e oltre 5mila ecotipi di mais, catalogati e custoditi dal 1954. Ad Expo il dibattito “Messico e Italia, il mais che ci unisce” al cluster Cereali e Tuberi ha visto Bergamo rappresentare il Bel Paese per poi ospitare a casa nostra eventi, show-cooking e una vera e propria cerimonia maya. Con la Bolivia è stato invece avviato il progetto “Piccoli semi, grandi opportunità”, grazie al lavoro delle Ong
Celim, Fratelli dell’Uomo e Aspen, per contribuire allo sviluppo locale delle comunità rurali dei dipartimenti di Tarija e Cochabamba, attraverso colture di mais e di amaranto, da cui è nato anche un cortometraggio inserito nella programmazione del Food Film Festival. Nel frattempo, i semi del Nostrano dell’Isola, mais tipico della pianura racchiusa tra Brembo ed Adda, selezionato dalla storica Stazione Sperimentale di Maiscoltura di Bergamo e custodito nella Banca del Germoplasma, si preparano a fare tappa in Cile, dove verranno sottoposti ad un ulteriore miglioramento, prima di tornare nei nostri campi. Altre varietà antiche come Spinato di Gandino, Rostrato rosso di Rovetta e Nostrano Orobico faranno una generazione invernale in Uruguay. Expo è l’occasione per ritrovare nelle pannocchie, coltivate in oltre 140 Paesi, un cereale dall’ampia biodiversità e dalle grandi potenzialità nutritive. «In Messico il mais - che non a caso dà forma al padiglione dell’Esposizione Universale - è un alimento quotidiano fondamentale, con un consu-
Paolo Valoti col governatore dello Stato messicano della penisola dello Yucatan, Rolando Zapata Bello mo medio giornaliero che si aggira sui 350/400 grammi - spiega Paolo Valoti, responsabile della Banca del Germoplasma dell’Unità di ricerca per la Maiscoltura -. Expo ha rappresentato l’occasione per confrontarsi con due Paesi a vocazione agricola come Messico e Bolivia, portatori di una cultura millenaria del mais, oltre che veri e propri centri di biodiversità, con migliaia di varietà native e criollo, coltivate con metodi di agricoltura or-
ganica, biologica e sostenibile». In Messico il mais è consumato in oltre 700 modi differenti, tanto che la creatività della cucina messicana si è guadagnata il riconoscimento di “Patrimonio Immateriale dell’Umanità” dall’Unesco. Un’occasione anche per noi per andare oltre la solita polenta, pur sempre la regina della tavola bergamasca. «Cristoforo Colombo portò i semi del “mahiz” dall’America, ma non la tecnica
I progetti bergamaschi / 1
A Cusio si coltiva il futuro. E spunta una “nuova” varietà antica montana
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Cusio la presenza di uno storico mulino con macina in pietra dell’inizio del Cinquecento, ancora perfettamente funzionante, ha dato il “la” alla Andrea Paleni valorizzazione della coltivazione del mais in Alta Val Brembana. «L’anno scorso abbiamo avviato il progetto “Coltiviamo insieme il futuro” che rientra nel programma Mais Expo Bergamo ed è sposato dal “Centro di maiscoltura di Bergamo” e da “Slow Food Valli Orobiche” - spiega il sindaco di Cusio Andrea Paleni -. In questi mesi abbiamo coinvolto 60 agricoltori, distribuendo semi di sei varietà tradizionali sperimentali (Precoce orobico, Scagliolo orobico, Locale di montagna, Pignolino orobico, Rostrato orobico e Cinquantino) particolarmente adatte per i nostri terreni». La
campagna di rilancio del mais in quota ha portato all’individuazione di una varietà di mais antica, il Nostrano orobico, coltivata da sempre da Carlo Begnis a Lenna. «L’Unità di Ricerca per la Maiscoltura ha isolato il seme in campo e sta effettuando analisi per la selezione genetica e la caratterizzazione morfologica di questo particolare tipo di mais precoce adatto ad ambienti di montagna» continua Paleni. L’obiettivo è creare una microeconomia in quota legata al mais: «C’è chi sta coltivando anche 200 metri quadri di mais e chi ha dedicato con passione un pezzo di terra alle antiche colture, per un totale di 2.500 metri quadri - continua il sindaco di Cusio -. L’anno prossimo avremo la prima farina e grazie al coinvolgimento dei ristoratori, attraverso l’Associazione Alto Brembo, si troveranno in menù piatti a base di mais, oltre all’immancabile e tradizionale polenta».
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IL PRODOTTO di cottura - continua Valoti -. Da noi il mais venne trattato come tutti gli altri cereali: macinato a secco per produrre farine adatte ad ogni trasformazione. La grande civiltà Maya, dello stato dello Yucatan, oltre a Incas e Atzechi, hanno invece sempre mangiato i piatti a base di granelle o farine dopo la cottura con calce (idrossido di calcio) o cenere. Questo processo, chiamato nixtamalizzazione, garantisce la trasformazione degli aminoacidi pregiati e permette la disponibilità della niacina (vitamina PP - Pellagra-Preventing o B3), altrimenti poco o nulla presenti nel mais. Ed è proprio la carenza di niacina, oltre a condizioni di vita difficili e miseria, una delle principali cause della pellagra, un tempo particolarmente diffusa nella nostra provincia». La stessa farina di mais, macinata più o meno fine a seconda dell’uso in cucina, con i tipi fioretto e fumetto, si presta ad innumerevoli preparazioni, dal germe si ricava l’olio ed il mais è usato nella fabbricazione di distillati, tra cui il Bourbon, e bevande, tra cui la birra. «Il mais può rappresentare un’occasione per diversificare le produzioni dell’azienda agricola, in particolare per le realtà orientate a produrre qualità e nella logica della multifunzionalità – dice ancora Valoti -. Oltre a segnare una riscoperta di antiche tradizioni e tipicità, il mais è un cereale senza glutine e rappresenta un ingrediente importante nei cibi per coloro che soffrono queste intolleranza, ma ha anche una ricca versatilità in cucina con nuovi prodotti, dalle gallet-
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I progetti bergamaschi / 2
“Nostrano dell’Isola”, da Sombreno al Cile per essere al top
Gli allievi del corso di agricoltura dell’Engim di Valbrembo
te alla pasta, dalla pizza ai dolci, dalla birra alle bibite, dai corn flakes ai pop corn, ai semplici e teneri chicchi». Le farine di mais antichi hanno caratteristiche nutrizionali eccellenti: «Un elevato contenuto di antiossidanti, antociani e carotenoidi, qualità salutistiche e di prevenzione delle patologie ancora tutte da studiare e scoprire e che ben possono contraddistinguere ogni singola varietà. Il mais blu, tra le varietà più antiche, noto sia ai Maya che agli Aztechi che lo riservavano ai guerrieri prima di ogni combattimen-
to, è stato ribattezzato “salva-cuore” per la concentrazione elevatissima di antociani che sostengono l’apparato cardiaco - continua Valoti -. E non è un caso se nel logo di Expo creato dalla Disney compaiano due pannocchie di mais blu». Ora sta agli chef mettere in campo la creatività, come stanno facendo da mesi i ragazzi dell’Alberghiero di San Pellegrino per far tornare a brillare l’”oro giallo” delle nostre tavole con nuovi piatti e sapori.
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ella pianura racchiusa le prime semine a Terno d’Isotra Brembo ed Adda, grala e si darà avvio alla prima zie all’adesione al progetto di annata di produzione». Ora si miglioramento del seme con sta registrando il marchio e, il corso di Agricoltura dell’Enin collaborazione con l’Istituto gim Lombardia di Valbrembo, d’Arte Fantoni, si sta mettensi stanno raccogliendo le prido a punto il logo: «Il progetto me pannocchie di Nostrano è nato nel 2006 per valorizzare dell’Isola, varietà tra le più anil territorio attraverso una farina tiche ed apprezzate, studiata storicamente apprezzata come e conservata dalla Stazione la nostra, che si presta ad innuSperimentale di Maiscoltura di merevoli preparazioni - racconta Bergamo, nei campi a due pasil presidente di Promoisola, Silsi dalla scuola, a Sombreno. I vano Ravasio -. Due anni fa in semi migliori per altezza e tipicicollaborazione con la Trattoria tà della pianta, isolati nel camVisconti che da sempre coltiva po sperimentale, sono pronti vicino al ristorante pannocchie Silvano Ravasio e Guido Bonacina per essere seccati e prendere di Nostrano per produrre la sua la via del Cile, per una seconfarina, è arrivata anche la ricetda selezione. «L’obiettivo è quello di ottenere una pianta ta del biscotto dell’Isola. Un vero e proprio omaggio al meno alta e più resistente ai parassiti e siccità - spiega territorio, come appare evidente dagli ingredienti: mais Guido Bonacina, esperto di mais e curatore del progetto Nostrano dell’Isola, farina di castagne e miele del Monte promosso da Promoisola -. L’anno prossimo inizieranno Canto».
Fuori porta
Da scoprire lo Scagliolo di Carenno e lo Spinato nero della Valcamonica
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due passi dalla nostra provincia, a Carenno, dal 2008 la Comunità Montana Lario Orientale-Val San Martino ha recuperato la coltura dello Scagliolo, grazie a trecento semi forniti dalla Banca del Germoplasma di Bergamo. «Oggi sono coltivati circa 6mila metri quadri da otto agricoltori, ma a regime contiamo di arrivare a 15/16 ettari - spiega Niccolò Mapelli, tecnico dell’Ufficio Agricolo della Comunità Montana -. Sul mercato hanno fatto la loro comparsa i primi prodotti, oltre alla farina: dalla galletta ai 7 mais (con Scagliolo di Carenno, Spinato di Gandino, Rostrato rosso di Rovetta, Sponcio di Belluno, Pignoletto Piemontese, Bianco Perla e Marano) ai biscotti preparati con farina fumetto, al tortino di mais proposto da un ristorante. Il prossimo passo sarà quello di coinvolgere altri chef per riportare lo Scagliolo nei menù».
In Val Camonica, il mais nero “spinua” della piana di Esine è stato coltivato fino agli anni Sessanta per poi essere abbandonato. L’anno scorso il comune di Esine, in collaborazione con la Facoltà di Agraria di Edolo, sede distaccata dell’Università degli Studi di Milano, ha avviato un progetto di studio sulle sementi per riportare le “pannocchie blu” da Darfo Boario Terme all’Altopiano del Sole, passando per la Val Grigna. «Tre agricoltori custodi portano avanti la produzione dei semi in purezza, che sono stati distribuiti ad un’altra decina di coltivatori - spiega Alessandro Federici, assessore all’Agricoltura del comune di Esine -. Con i ristoratori stiamo mettendo a punto nuove ricette per esaltare le qualità di un mais dalle spiccate proprietà salutistiche. Ad Expo il 13 ottobre presenteremo gnocchi di polenta e una zuppa di farina di mais con formaggio Silter da degustare».
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IL PRODOTTO
Tutti i luoghi dei mais antichi B
ergamo è patria della polenta, ma anche dei mais, grazie al recupero dalla pianura alle Valli di varietà antiche, soppiantate in nome della produttività dai mais ibridi. Per scoprire mais e farine d’altri tempi basta imboccare la Val Seriana. A Gandino lo Spinato, con una storia documentata dal 1632, è stata la prima coltura antica reintrodotta in Bergamasca, ingrediente del famoso biscotto “Melgotto” e al centro di una vera e propria campagna di rilancio del territorio. A Rovetta il Rostrato rosso, preservato grazie alla passione di un contadino, Giovanni Marino, si è ormai affermato come farina con il suo marchio ed è un ingrediente fondamentale, con Spinato e Nostrano dell’Isola, della polenta taragna orobica. Non mancano nuovi progetti, di cui si raccoglieranno i frutti nei prossimi anni: a Cusio, in Val Brembana, oltre 60 agricoltori e appassionati stanno riportando in quota sei varietà antiche montane e sono pronti a coinvolgere i ristoratori con la prima farina nel 2016. L’Isola si sta preparando per seminare al meglio il Nostrano sin dal prossimo anno, con un’accurata selezione genetica delle pannocchie. Per i più pigri, in un raggio di pochi chilometri è possibile apprezzare le differenze tra i mais antichi ad Astino, oltre che nel Labirinto della Biodiversità e nella Banca del Germoplasma, a Bergamo città dei… mille mais, aperte per l’occasione di Expo presso l’Unità di ricerca per la maiscoltura in via Stezzano, 24. Ai piedi del monastero sono coltivate dieci varietà di mais antiche diffuse nel Nord Italia: Spinato di Gandino, Rostrato rosso di Rovetta, Nostrano dell’Isola, Sponcio di Belluno, Bianco perla di Treviso, Scagliolo di Carenno, mais nero spinoso di Val Camonica, Pignoletti e Ottofile piemontesi.
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settembre 2015 Ipssar di San Pellegrino
Nuove ricette nascono tra i banchi di scuola
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l mais occupa un posto di rilievo nel progetto “Tutti per uno, cibo per tutti” (www.tuttixunociboxtutti.eu), con cui i ragazzi dell’Istituto Alberghiero-Ipssar di San Pellegrino, della 4B dell’anno scolastico 2013-2014, si sono aggiudicati il bando “I giovani e l’Expo” promosso dalla Provincia. Nel sito dedicato alla riduzione degli sprechi - e nato per favorire il reimpiego di eccessi alimentari all’insegna della solidarietà grazie alla messa in rete tra domanda e offerta - il mais trova posto tra le eccellenze del territorio bergamasco da valorizzare e riscoprire con creatività, andando oltre la
classica polenta. «In collaborazione con l’Unità di Ricerca per la Maiscoltura e con un consulente d’eccezione come lo chef Andrea Mainardi, che ha tenuto a battesimo la pubblicazione del libro “Tutti per uno, uno per tutti”, si stanno mettendo a punto ricette a base di mais antichi - spiega il dirigente dell’Ipssar San Pellegrino, Brizio Luigi Campanelli -. Lo studio di scienza dell’alimentazione aiuta i ragazzi a conoscere tutte le potenzialità dei prodotti e a formulare ricette». È così che nascono piatti come la sfogliatina di mais Rostrato rosso con mousse di caprini, brandad di baccalà su zoccolo di mais spinato, rollè di crespella di mais Bianco perla e, per chiudere in bellezza, cantucci al mais Scagliolo, sbrisolona con Rostrato, torta di Treviglio con Bianco perla. Sono queste alcune delle ricette - oltre ad una polenta che unisce tre mais: spinato, rostrato e nostrano - che i ragazzi dell’Alberghiero hanno proposto presso la Saps del Gruppo Agnelli per una cena voluta dal Rotary Club Dalmine. «È solo il primo degli eventi cui collaboreremo nei prossimi mesi, in particolare ad ottobre, mese di eventi clou ad Astino», continua il preside dell’Ipssar.
Via Priula, la birra pronta a celebrare le varietà bergamasche A San Pellegrino, il Birrificio Via Priula ha appena messo a punto una birra preparata con le antiche varietà di mais bergamasco, nel rispetto della formula codificata per la polenta taragna orobica: un terzo di Rostrato rosso di Rovetta, un terzo di Spinato di Gandino e un terzo di Nostrano dell’Isola. Il nome al momento è ancora top-secret, ma Giovanni Fumagalli, instancabile creatore di nuove spumeggianti formule, racconta il lavoro che porterà al lancio sul mercato dell’undicesima birra Via Priula: «L’utilizzo del mais non è certo una novità, anzi è sempre stato utilizzato dall’industria birraria come succedaneo dell’orzo, dato il suo minor costo. Noi abbiamo fatto il contrario, con l’intento di valorizzare le antiche varietà di mais recuperate e reintrodotte attraverso piccole produzioni dalle nostre valli all’Isola, dal costo decisamente superiore al malto d’orzo e dal valore aggiunto di celebra-
Giovanni Fumagalli del birrificio “Via Priula” di San Pellegrino re il territorio ed offrire un abbinamento interessante per la polenta taragna orobica». C’è voluto quasi un anno per mettere a punto la nuova birra, pronta ad accompagnare manifestazioni ed eventi dedicati al mais e la polenta nella sua versione più ricca e ortodossa: «Abbiamo fatto diverse prove: la difficoltà principale è stata quella di bilanciare il gusto che all’inizio risultava troppo “polentoso”. La scelta è ri-
caduta su luppoli aromatici in grado di regalare un gusto erbaceo e fresco». Ma le sfide non si fermano qui per Fumagalli, da appassionato homebrewer a produttore, senza mai dimenticare l’estrazione da farmacista, nonché nipote di Ermanno Bonapace, il creatore della Magnesia San Pellegrino. «L’idea è quella di mettere a punto birre diverse, capaci di esaltare le caratteristiche di ogni singola varietà di mais, pensando ad abbinamenti ad hoc, valorizzando i colori e gli aromi che ogni pannocchia porta con sé. Sarà un lavoro duro, ma senz’altro stimolante ed interessante» continua il “papà” delle birre orobiche. Oltre ai prodotti della nostra terra, Giovanni Fumagalli vuole celebrare anche mestieri e lavori dimenticati: «Abbiamo in progetto una birra affumicata, da dedicare al lavoro dei carbonari dei boschi, ai poiàt, i forni di legna verde con cui si otteneva carbone vegetale».
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IL PERSONAGGIo di Roberta Martinelli
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el mondo della ristorazione c’è una realtà che in pochi conoscono. Parliamo della cucina private extralusso, ovvero la professione di chef per il jet set. Se ne parla poco: i committenti, ricchi magnati e armatori, esigono la massima riservatezza e d’altro canto gli chef eletti sono pochi. Eppure è un mestiere affascinante, avventuroso e molto ben remunerato, che può dare grandi soddisfazioni. Gli stipendi vanno dai 2mila fino ai 10-12mila euro per i cuochi più prestigiosi. E si è spesati di tutto, dai trasferimenti agli abiti fino alle spese personali. Ad esempio, se lo yacht è attraccato a Miami e si viene chiamati, il biglietto aereo è a carico del committente. Dario Tagliasacchi, 42 anni, cuoco di Credaro cresciuto nella brigata di Gualtiero Marchesi, ha alle spalle anni di esperienza alla corte del jet set internazionale. Ci racconta aneddoti e curiosità oltre agli aspetti positivi e negativi di questo mestiere che - dice - «fa aprire la mente, conoscere tanti modi di cucinare e vivere vere e proprie avventure». Come, ad esempio, inseguire uno yacht con la borsa della spesa a bordo di un tender per cucinare una cena speciale in una caletta in mezzo all’atlantico, oppure essere mandati a fare un corso a Merano da Henri Chenot per lavorare a una dieta speciale. Cucinare il risotto lombardo per le Eurotoque a Bruxelles, imbandire un buffet di gala sotto le stelle di New York, improvvisare una cena alle cinque di notte a bordo di uno yacht MY Montrevel di 37 metri. Come si e avvicinato a questo mondo? «È iniziato tutto per merito di Gualtiero Marchesi. Un giorno sono tornato a Erbusco a trovare lo staff per un saluto. Parlando con il patron mi disse “vuoi partire in barca?”. In quegli anni Marchesi aveva in gestione un Club sulla Costa Atlantica. Dall’oggi al domani si è deciso che sarei andato io. Ho fatto otto mesi tra i Caraibi e il Mediterraneo. Poi qualche crociera
Chef sugli yacht «Una carriera, mille emozioni» Dario Tagliasacchi, 42 anni di Credaro, cresciuto nelle cucine di Marchesi, per anni ha lavorato in giro per il mondo al servizio di armatori. «Per fare questo lavoro servono voglia di sperimentare e capacità di unire culture alimentari diverse. La giornata, poi, non finisce mai, bisogna essere sempre disponibili». «A un giovane che vuole vivere questa avventura consiglio di buttarsi, di insistere e di non fermarsi al primo no» tra Venezia, Bari, Istanbul e Pireos. Finita l’esperienza ho lavorato per tre anni e mezzo come secondo di Marchesi a Parigi, al Lotti della catena Jolly Hotel che in quegli anni ottenne una stella Michelin. Qui ho avuto il mio primo incontro con il mondo private extralusso». Cosa è accaduto? «Il passaparola è stato importante. Tramite degli amici conosciuti a Parigi ho fatto dei colloqui a Cannes e in un’agenzia di Nizza. Come prova, mi hanno mandato in due abitazioni di lusso a Montecarlo. La prima era
Dario Tagliasacchi
uno stabile di 14 piani che ospitava due famiglie e l’azienda. La seconda una villa bellissima abitata da una famiglia e da 12 dipendenti fissi: eravamo due cuochi, uno cucinava per i proprietari, l’altro per i dipendenti». Come si svolgono il colloquio e la selezione? «Le selezioni vengono fatte da agenzie specializzate, si chiamano Crew Agency. Ad Antibes ce ne sono molte, valutano le caratteristiche del candidato e cercano di abbinarle a quelle degli armatori. Il colloquio è in due lingue, inglese e francese: ti viene richiesta una breve presentazione, poi ti fanno fare la spesa e cucinare». Quali sono le doti necessarie per fare gli chef privati di lusso? «Innanzitutto è richiesta preparazione sui piatti, sui prodotti e sulla cucina classica. Essere un cuoco italiano è un’eccellenza che dà il 30% di punti in più rispetto agli altri candidati. E poi occorre avere una buona esperienza ed essere
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curiosi, avere una mente aperta. Si tenga conto che, quando si lavora sugli yacht, si gestiscono situazioni impreviste, a volte estreme, e si lavora con persone di lingue e culture molto diverse. Servono voglia di sperimentare e capacità di mettere insieme anche culture alimentari diverse, tenendo conto dei gusti e delle tradizioni degli ospiti». Lei ha lavorato per anni sullo yacht di un armatore. Che tipo di impegno viene richiesto? «La giornata non finisce mai. È un impegno costante. Gli armatori chiedono disponibilità 23 ore su 24, in ogni momento bisogna essere pronti a soddisfare qualunque richiesta, anche stravagante. È un mondo extralusso dove si ottiene sempre quello che si vuole. Poi ci sono mille imprevisti». Ad esempio? «Può capitare di cucinare per gli ospiti negli orari più impensati, all’una di notte come alle quattro del mattino e poi alle cinque tornare in cucina per preparare la colazione al perso-
nale di bordo. Una sera l’armatore per cui lavoravo mi ha chiesto una cena a base di astice. Non l’avevo, così quando è sceso sull’isola sono sceso anch’io e ho girato tra i ristoranti per trovarlo. È costato una fortuna”. Quali sono invece gli aspetti positivi? «Il mestiere ti porta a conoscere tanta gente e a buttarti senza paura in situazioni nuove. Si impara qualcosa ogni giorno e si allacciano rapporti con altri chef e colleghi. Inoltre nei momenti liberi si può godere al meglio la vita in mare e i posti che si incontrano». Cosa si mangia sugli yacht? Chi decide il menù? «Il cuoco è una figura speciale, si deve interfacciare con gli ospiti, si presenta a loro, raccogliere le loro richieste, i loro desideri e in base a quelli formula il menù per il giorno dopo o la sera stessa. La cucina mediterranea è la più apprezzata, poi dipende dall’origine e dalle tradizioni culinarie dell’armatore e degli ospiti e dai loro gusti. Ci sono anche ospiti che mangiano panini e insalate da mattina a sera. In questo caso a bordo non chiedono cuochi professionisti ma steward tuttofare». Le esperienze più belle che ricorda? «Sono davvero tante. Ho comprato pesce al mercato di Saint Tropez per una cena in barca, scelto una miscela di tè ad Oxford Circus per uno stuzzichino serale, imparato a fare il Gazpacho da un fruttivendolo di Valencia, comprato pesce fresco sottobordo a Lipari. Ma forse le emozioni più grandi sono state le regate. Per due anni sullo
yacht abbiamo seguito l’American’s Cup e ho conosciuto politici e personaggi del mondo della vela e pubblici, come D’Alema e Bertarelli. Un altro anno partecipammo al Classic Week presso lo Yacht Club Montecarlo: è una manifestazione dove sfilano le più belle imbarcazioni del mondo e i loro cuochi si sfidano. In quell’edizione vincemmo noi». Puo essere un’opportunità di lavoro per i giovani cuochi? «Può essere un’aspirazione. Prima bisogna imparare a cucinare. A un giovane che vuole fare questa avventura il mio consiglio è di insistere, di buttarsi, di non fermarsi al primo no. Anche a me obiettavano che non avevo esperienza in questo settore, ho insistito finché non mi hanno preso. Consiglio anche di fare il libretto di navigazione, il documento marittimo che si ottiene dopo avere superato degli esami, perché chi lo possiede ha tutte le carte in regola per navigare ovunque». Ha dei rimpianti per quella vita? «Ora sto focalizzando le mie energie su due ambiti diversi, la consulenza professionale alle attività enogastronomiche che vogliono migliorarsi e la realizzazione di eventi domestici personalizzati ed esclusivi come “chef a domicilio”. È un’ulteriore evoluzione del mio cammino che non manca di stimoli e che mi fa svegliare ogni mattina pensando: amo il mio lavoro».
GALLERIE di Anna Facci
Sette storie per sette sapori
La Fiera di Sant’Alessandro occasione per scoprire produttori e iniziative dalle valli alla pianura. Ecco chi abbiamo incontrato e cosa abbiamo assaggiato
Non c’è dubbio: conoscere cosa c’è dietro ad un prodotto, qual è la sua storia, chi lo fa dà più gusto all’esperienza gastronomica. È così che una visita alla Fiera di Sant’Alessandro, la tradizionale manifestazione che mette in vetrina il mondo agricolo bergamasco organizzata al polo fieristico di Bergamo dalla Promoberg, può diventare un itinerario di sapori e saperi racchiuso in pochi passi. Un excursus dalle valli alla pianura che racconta di un settore vivace, tra nuovi e ambiziosi progetti o i primi passi di chi ha da poco cambiato vita dedicandosi alla terra, chi ha saputo svoltare e le realtà consolidate, prodotti “moderni” accanto ai piatti della memoria.
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Agriturismo Alle Baite / Branzi
www.agriturismoallebaite.com
Un piccolo mondo sostenibile E la cucina è da premio H anno interpretato al meglio il concetto di multifunzionalità, quel mix che unisce al lavoro agricolo una serie di servizi che integrano il reddito e rendono più sostenibile dal punto di vista economico la scelta di una vita contadina. Accade a Branzi dove Alex Quarteroni, 40 anni, e la compagna Roberta Ceruti, 30, hanno dato vita al loro progetto, recuperando 3 ettari e mezzo di terreno, in precedenza frazionati tra tanti proprietari e ormai preda del bosco. Lui originario di Ornica, sceso in città non ha resistito al richiamo della montagna, lei di Lurano, studi in agraria e iscritta a Veterinaria, nel 2010 hanno avviato un allevamento di capre, seguito nel 2012 dall’apertura dell’agriturismo Alle Baite (in quella che era una vecchia stalla, ristrutturata rispettando i materiali e la tradizione), completato l’anno dopo da tre camere per l’ospitalità. Hanno una quarantina di capi – soprattutto Camosciate ma anche della più rustica e in via di estinzione razza Orobica – e nel laboratorio producono formaggi, tra cui spiccano lo “Zolato di capra”, un erborinato, e una formaggia da 8/9 chili che viene fatta stagionare 16 mesi, cui si aggiungono yogurt e gelato. Allevano anche asini, maiali, vitelli, animali da cortile e curano un piccolo frutteto, da cui ricavano le marmellate, e l’orto. Insomma, producono tutto – a quasi – ciò che può rendere golosa una sosta. In cucina è stato assoldato il papà di Roberta, Silvano Ceruti, anch’egli risalito, in netta controtendenza, dalla pianura ai monti, affiancato dalla sorella di Alex. Le proposte sono all’insegna del chilometro zero interpretato con gusto e fantasia, tanto è vero che Alle Baite ha vinto quest’anno, aggiudicandosi la pentola d’oro, il concorso gastronomico “Il piatto di Campagna Amica” promosso dall’associazione degli agriturismo Terranostra della Coldiretti. A conquistare la giuria sono stati dei maltagliati di farina di castagne,
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Alex Quarteroni una rivisitazione dei pizzoccheri realizzata utilizzando patate di Carona, formaggio Branzi, coste bianche e burro di malga. «La polenta taragna c’è sempre – spiega Alex – poi abbiamo piatti come le lasagnette al paruch, che piacciono molto, e per secondo brasati, capretti, coniglio. Fino a dove riusciamo utilizziamo i nostri prodotti, per il resto ci rivolgiamo ad aziende della zona per sostenere comunque l’economia locale». «I nostri formaggi – ammette - sono un po’ difficili da inserire nei piatti, perché non sempre il sapore deciso della capra piace, abbiamo però un timballo con fonduta di capra ed un risotto allo “Zolato”, oltre naturalmente ai taglieri». L’idea in più è l’agrimerenda, con gelati e yogurt di capra e le torte fatte in casa o, per chi preferisce lo spuntino salato, con formaggi, salumi e confetture. Oltre che in tavola i prodotti si trovano in vendita nella piccola bottega. Sostenibile e a chilometro zero è persino il riscaldamento, un impianto a cippato che utilizza il legname proveniente dalla pulizia del bosco. L’agriturismo è aperto tutto l’anno e dà la possibilità agli ospiti di partecipare al lavoro agricolo e ai bambini di fare escursioni con pony e asinelli. È necessario prenotare.
Azienda Agricola Emiliana Bertoli / Pontoglio
tel. 320 7176778
Dai frutti antichi le confetture col sapore di una volta U n terreno di famiglia – un ettaro – a Pontoglio. Da questa “dote” è partita la sfida di Emiliana Bertoli, 39 anni, professione sarta, ad inventarsi una nuova attività in agricoltura. «Quando con mio
fratello abbiamo valutato cosa fare su una superficie così piccola – ricorda – le opzioni erano tre, piccoli frutti, aromatiche o lumache. Io non ho avuto dubbi: piccoli frutti. Era azzardato coltivarli in pianura, ma al-
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meno li conoscevo. Visto che l’habitat non era ideale, ho scelto delle varietà antiche, più adatte al territorio; la particolarità del terreno, vicino all’ansa del fiume e con un buon drenaggio, e un bravo agronomo hanno fatto il resto». A more, lamponi & co. si sono aggiunti altri frutti antichi, tutti coltivati biologicamente e trasformati in confetture. Ci sono quella di pere “Martina” o “Martinona”, dolce e granuolosa, preparata solo con l’aggiunta di vaniglia Barbour biologica; quella di pesche dalla polpa bianca e il cuore rosso, in purezza; di fichi dalla goccia, dove capita di trovare ancora il frutto tutto intero; di zucca con amaretto, buccia e succo di limone, cannella e noce moscata, oppure la particolarità dell’uva giapponese, un piccolo frutto simile al corallo e dal sapore che ricorda un po’ il lampone. «Ciò che mi piace è rendere il gusto delle marmellata di una volta – racconta Emiliana -. Le varieEmiliana Bertoli tà antiche di frutta danno già un loro preciso carattere e io cerco di intervenire il meno possibile, uso poco zucchero, 300 grammi ogni chilo di frutta, la dose minima per garantire la conservazione, e non aggiungo troppi aromi». Il risultato sono vasetti che sembrano usciti davvero dalla dispensa di casa, dal sapore pieno, semplice e sincero. La produzione è in pratica entrata a regime quest’anno («una buona annata, tutta la frutta è dolcissima ») e in futuro arriveranno anche altre varietà come le prugne goccia d’oro. Emiliana vende le confetture nel piccolo spaccio annesso al laboratorio e si può trovare ogni sabato al mercato agricolo della Cascina Carlinga a Curno. I prezzi sono gli stessi per ogni tipologia: 5,50 euro per il vasetto grande (320 g), 3 euro per quello piccolo.
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Azienda agricola Sant’Alessandro / Albano Sant’Alessandro
Mais nostrani e mulino a pie L a riscoperta dei mais locali è uno dei temi più sostanziosi sviluppati a Bergamo per l’Expo ma anche una strada concreta che il mondo agricolo vuole percorrere. Un’iniziativa recente è quella dell’azienda agricola Sant’Alessandro che ha scelto di coltivare mais vitrei di alta qualità per l’alimentazione umana, svoltando rispetto alle varietà destinate alla zootecnia assai più consuete nei campi della Bergamasca. Non solo. Ha anche impiantato ad Albano Sant’Alessando un mulino a pietra, sistema di macinazione che lavorando a temperatura più bassa permette di mantenere meglio i sali minerali e le vitamine presenti
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nei chicchi. «Il mulino è realizzato con una pietra ricostruita ed è un bell’esempio di come si possono coniugare tecnologia e tradizione, il rispetto per la materia prima e l’efficienza della produzione», spiega Michele De Cristofaro, 25 anni, che si occupa dell’intero percorso dalla semina alla vendita delle farine ed ha ereditato la passione del padre, che qualche anno fa aveva riportato in vita a Paladina un mulino a pietra recuperato dal terremoto dell’Aquila. L’impianto lavora il granoturco dell’azienda e per conto terzi. «Per quanto ci riguarda siamo al secondo anno di raccolto. I terreni si trovano in provincia
Associazione Norcini bergamaschi / Calcinate
La custodia della tradizione N on si può dire che sia un prodotto facile. Il solo nome, “Turta de sanc”, torta di sangue, evoca uno scenario cruento più che il piacere della degustazione. Eppure l’Associazione Norcini bergamaschi non si è tirata indietro e alla Fiera di Sant’Alessandro ha portato anche questo pezzo ormai dimenticato della tradizione legata alla lavorazione del maiale, interpretando fino in fondo il compito che si è data di custodire e rilanciare il lavoro del masadùr. «Fa parte della storia delle nostre campagne e il sapore non è poi così male – afferma Gualtiero Borella, referente della formazione dell’Associazione Norcini – anche perché il sangue del
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lessandro
www.agriturismosantalessandro.it
tra fan più buona la polenta di Bergamo e Cremona – continua -. Coltiviamo due varietà locali, un Quarantino bergamasco “tipo” Lucia, che ormai più nes-
suno conosce, e un “tipo” Nostrano dell’Isola, cioè un nostro incrocio, selezionato per le caratteristiche più adatte alla produzione. L’ambizione è quella di realizzare un’intera gamma di linee pure di mais locali, incrementando la biodiversità, e più avanti anche di coltivare frumenti». «Il progetto – rimarca - nasce dalla volontà di valorizzare la campagna. I bergamaschi sono considerati dei “polentoni” ma i mulini sono pressoché scomparsi così come i mais per polenta». L’operazione punta quindi a realizzare prodotti a più alto valore ma, sul versan-
te strettamente gastronomico, fa anche riscoprire i tanti gusti del mais. «La polenta non è tutta uguale – assicura De Cristofaro - e le differenze si notano assaggiando e confrontando. Si scopriranno così prodotti più amari e altri dal sapore più morbido e dolce, da utilizzare a seconda delle esigenze». Attualmente l’azienda propone cinque farine di mais diverse: una da impasto, ossia il fumetto, tre tipi di bramata (solo con varietà Lucia, miscelata o con grano saraceno) e una integrale. La grana è grossa e si mantiene il germe. «A seconda dei raccol-
passa anche dalla “Turta de sanc” maiale è presente in una piccola quantità rispetto agli altri ingredienti, più che altro dà il colore caratteristico. È un piatto che testimonia la povertà di un passato non troppo lontano quando si cercava di recuperare il più possibile, così il giorno della macellazione del maiale si raccoglieva il sangue per la torta e si mangiavano il fegato e le frattaglie». «Ricco di ferro, il sangue rappresentava un buon nutrimento – evidenzia Borella -, basti pensare che in periodi particolarmente difficili si ricorreva persino a dei salassi dei bovini per ricavare un po’ di sostanza». La ricetta della Turta de sanc che i norcini presentano nel proprio ricettario è fatta con due litri di sangue di suino, una retina o gradisela, ovvero il grande omento, la membrana ricca di grasso che avvolge lo stomaco e la milza, un chilo di pangrattato, circa 5 litri di brodo di carne, una cipolla, burro, spezie miste per salame, la scorza di due limoni e tre etti di formaggio grattugiato. La preparazione, che dura circa tre ore, parte con soffritto di burro, cipolla e retina, cui si aggiunge l’impasto cremoso di pangrattato e sangue. Viene portata a cottura aggiungendo il brodo caldo e nel finale si uniscono gli aromi e il formaggio. Ne risulta (sì, l’abbiamo provata!) un tortino “spugnoso”
Michele De Cristofaro ti i mix possono variare – precisa -, non sono prodotti costanti e si cerca un equilibrio nel gusto. Possiamo anche realizzare miscele personalizzate, ad esempio per la ristorazione». All’azienda agricola è collegato anche un agriturismo.
www.norcinibergamaschi.it
dal sapore simile al fegato. La si può paragonare ad un patè e sapientemente aromatizzata e abbinata potrebbe anche intrigare i palati più forti o nostalgici. «Non crediamo che possa tornare in auge – confessano i norcini -, ci piaceva però mantenere la memoria di questo piatto che fa parte della nostra tradizione».
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Mangili Mario / Paladina
tel. 035 542116
La storica macelleria dove tutta la carne è “fatta in casa” C iò che da tre generazioni caratterizza la macelleria Mangili di Sombreno (Paladina) è che «ci costruiamo in casa ogni pezzo di carne». Il negozio è infatti l’ultimo anello di una filiera tutta interna che parte dai campi, con la coltivazione diretta dei mangimi, e prosegue nell’allevamento e nella macellazione. «L’impostazione è sempre stata questa – spiega Luca Mangili -, prima con nonno Mario, poi con papà Oliviero e oggi anche con me e mio fratello Francesco. È una scelta che ci permette di valorizzare al meglio la qualità delle carni e di soddisfare i clienti». L’azienda agricola si sviluppa su terreni in Bergamasca e a Crema. «Per gli animali coltiviamo mais, soia, frumento, orzo e fieno – ricorda -, è un’alimentazione a secco. L’allevamento conta circa 400 capi, tra piemontesi, chianine, maremmane, limousine, blue belga e pezzate nere. Cerchiamo di diversificare le razze per rispondere alle
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diverse esigenze dei consumatori. Tra le più richieste e pregiate c’è sicuramente la chianina, carne caratterizzata da una percentuale di grasso che la rende morbida e saporita». «In negozio abbiamo pochi prodotti già elaborati e pronti da cuocere – racconta -, puntiamo tutto sulla bontà delle carni e semmai consigliamo ai clienti i tagli più adattati alle diverse preparazioni. Siamo conosciuti e un punto di riferimento». Cosa rende la carne speciale? «La qualità dell’alimentazione e il benessere degli animali, che stanno liberi nei box e non sono stressati», risponde senza ombra di dubbio Luca. La macelleria realizza in proprio anche salami, salamelle, pancette e testine, da maiali nazionali, preferibilmente allevati a Bergamo, ed ospita nel laboratorio i corsi dell’Associazione Norcini. Se negli anni molti negozi hanno abbassato le serrande, complici la grande distribuzione e il calo dei consumi di
Società agricola Miriam / Trescore Balneario
Luca Mangili carne, a Sombreno la formula del “fatto in casa” si conferma vincente. «Non solo abbiamo il controllo completo del prodotto, ma la filiera corta ci permette anche di proporlo al giusto prezzo».
Che sorpresa il nettare V
i ricordate l’uva fragola? Era il prezioso bottino delle scorribande da ragazzini nei campi dove qualche vite o filare non mancava mai. Dolce e profumatissima. Peccato per quella buccia spessa e l’accento aspro al finale che facevano un po’ arricciare il naso. Ebbene, la società agricola Miriam di Trescore Balneario ha trovato il modo per regalare solo il buono dell’uva fragola e di metterlo sempre a disposizione. Ha infatti realizzato un nettare, ossia una semplice centrifuga dai frut-
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ti, leggermente diluita con acqua e con l’aggiunta di poco zucchero per garantire la conservazione. «La frutta utilizzata è il 55% - dice Linda Brignoli che con i due fratelli conduce l’azienda -. Il nettare è infatti piuttosto denso e può diventare una bibita allungandolo con dell’acqua, un aperitivo in coppia con uno spumante, una specie di “Bellini agricolo”, o essere usato per guarnire dolci, sul gelato o sullo yogurt». L’assaggio è un tuffo nei sapori del passato, che si può fare ogni volta che si
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Gabrieli Luciano / Verdello
www.gabrieliluciano.com
Piantine da orto dal risultato garantito L
a crisi, ma anche la voglia di sostenibilità, hanno rilanciato l’orto. Che sia il giardino della villetta convertito a insalate e pomodori o il balcone fitto di vasi e pensili. Se anche voi siete stati contagiati dal desiderio di coltivare le verdure da portare in tavola e siete attenti all’origine delle vostre piantine, sappiate che a Verdello c’è un’azienda specializzata nel mercato per gli hobbysti. L’attività, a conduzione familiare, è storica ed cominciata con la produzione di ortaggi, venduti al mercato ortofrutticolo di Bergamo da Giuseppe Gabrieli, conosciuto come l’Arcangel. È proseguita con il figlio Luciano, ma la svolta è arrivata con la terza generazione, quattro femmine, un deciso tocco rosa che ha portato ad indirizzare il lavoro su un versante agricolo meno “faticoso”. Così da più di vent’anni la “Gabrieli Luciano” fa crescere piantine da orto e da giardino che vende all’ingrosso ai fornitori dei negozi al dettaglio e consorzi agrari, ma anche ai privati, tre mattine a settimana nella propria sede. Ed ha conquistato tutte e quattro le sorelle - Francesca, Veronica, Paola e Gabriella –, impegnate con ruoli diversi al fianco di mamma MariaEster e del papà. «Molti giovani stanno riscoprendo
l’orto – commenta Paola – o comunque scelgono di coltivare qualche verdura nel giardino di casa o sul balcone, un po’ per risparmiare e un po’ per avere prodotti freschi ed essere più sicuri di ciò che mangiano. Una crescita di interesse che ci ha portato ad introdurre sempre nuove varietà». L’hobbista è infatti così, è curioso e ama cimentarsi con sfide sempre nuove. Il catalogo, dunque, si arricchisce. Le quattro varietà di pomodori di un tempo sono salite oggi a più di dieci e le ultime novità sono diverse tipologie di cavoli e il cavolfiore arancio. L’elenco è vasto e comprende peperoni, melanzane, zucchine, sedano, cetrioli, zucche, insalate, cicorie, basilico e aromatiche. Ma le smanie dei piccoli orticoltori non sembrano placarsi. «Ciò che i nuovi appassionati non hanno capito – evidenzia Paola - è che c’è una stagionalità da rispettare. Capita invece che ci chiedano ciò che vedono dal fruttivendolo, senza rendersi conto della provenienza». Con le piantine Gabrieli, però, il risultato è praticamente assicurato: «Si tratta di piantine da sementi professionali, selezionate e testate – precisa –, il che offre maggiori garanzie sul fatto che crescano e fruttifichino Paola Gabrieli con successo».
www.agricolamiriam.it
di uva fragola! stappa una bottiglietta. «È una delle ultime novità – ricorda Linda -, che nasce dal desiderio di rendere più commerciabile e moderno un prodotto che un tempo c’era in tutti i giardini, quell’uva che i nostri nonni lasciavano ad appassire e poi utilizzavano nei dolci». L’azienda ha come principale attività la coltivazione e la vendita di piccoli frutti freschi (lamponi, mirtilli, more, ribes, fragole e fragoline di bosco) e frutta (pesche, pere, kaki, kiwi e prugne), che affianca alla produzione di confetture, composte, nettari e miele. catalogo è molto ricco e vasetti e bottigliette sono proposti anche in confezioni regalo o in versione bomboniera per nozze dal sapore genuino. Il nettare di uva fragola costa 7 euro (la bottiglia da 750 cl).
Linda Brignoli
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tradizioni di Leonardo Bloch
Dai cannellini bergamaschi ai cannelloni alla bresciana: storie di paste ripiene e di abbagli
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e non già un’irrefutabile patente di genitura del casoncello, la tradizione gastronomica bresciana può perlomeno vantare un concorso di paternità nella procreazione di un altro prototipo delle paste ripiene. Corre infatti il 1855 quando il milanese Giuseppe Sorbiatti - cuciniere di fama nazionale dai saldi addentellati professionali alle falde del Cidneo - dà alle stampe la prima edizione de “La gastronomia moderna”. Tra le ricette dell’enciclopedica raccolta, tutte pomposamente declinate in francese secondo la moda del tempo, spicca quella dei “Cannellons à la bressane”. Si tratta di cannoncelli dalla sfoglia ottenuta con un procedimento affatto singolare: si inizia mettendo al fuoco un paiolo con un quinto della farina e poca acqua per ottenere una polentina soda. Questa
va quindi impastata a freddo con il resto della semola, con l’aggiunta di qualche tuorlo, per ottenere una massa piuttosto consistente. Stesane una lamina sottile, la si farcisce con un composto di foglie di verza o cime di rapa sbollentate e triturate, quindi saltate con burro e cipolla e legate con cacio, pangrattato e uova. Arrotolati a forma di sigaro, gli involtini vanno infine lessati in acqua bollente, con la rifinitura di qualche cucchiaiata di burro nocciola e l’immancabile spolverata di formaggio lodigiano. Questa è, a mia notizia, la più antica codificazione in letteratura gastronomica del cannellone a guisa di pasta ripiena. Ai buongustai dell’epoca, ormai tediati dal formalismo allogeno della cucina d’oltralpe, Sorbiatti si affretta a giurare che “questa minestra è del tutto campagnuola”.
settembre 2015 In realtà i panni posticci da trattore del contado non riescono a dissimulare il gastronomo borghese che cerca di mascherarvisi. Nel suo monumentale Grand dictionaire de cuisine, l’eclettico Alexandre Dumas ragguaglia invero che i cannellons sono una preparazione di pasticceria - di gran lunga la più elitaria tra le branche della cucina - consistente in un piccolo cilindro di pasta sfoglia imbottito di composta di frutta. Il cuoco meneghino è verosimilmente il primo ad essere illuminato dall’intuizione di trasfigurare lo zuccheroso cannolo in un involucro di lasagna. Il ripieno - quello invece sì - è senza dubbio di genuina marca rustica. Stando ai glossari vernacolari del Melchiori e del Tiraboschi, corrisponde infatti alla farcia dei casoncelli come la si preparava nell’ottocento: a base di erbette, cacio ed uova. Per qualche decennio il nuovo formato di pasta resta nell’ombra, tant’è che alla fine del XIX secolo Pellegrino Artusi, nei suoi Stati Generali della gastronomia Italiana, non ne fornisce alcuna menzione. Ma a partire della belle époque il vento cambia con decisione, prova ne sia lo ieratico “Cannelloni! Cannelloni! Cannelloni!” che Gabriele d’Annunzio - per combinazione sempre dal suolo bresciano del Vittoriale verga in un carteggio indirizzato alla propria cuoca personale, ilarmente soprannominata Suor Intingola. La susseguente apoteosi è storia assai recente. Questa ricostruzione parrebbe nondimeno messa in discussione da un passaggio della ponderosa enciclopedia della pasta redatta da Oretta Zanini de Vita - edita in Italia da ERI-RAI e ripresa in inglese dall’University of California Press. L’autrice, passando in rassegna le minestre asciutte citate nel cinquecentesco trattato di scalcheria del ferrarese Giovan Battista Rossetti, tra i macaroni
all’urbinata ed i gnocchetti di Genova ritiene di dover censire anche i canellini bergamaschi. E nell’Oxford companion to food il serioso storico della gastronomia Alan Davidson sembra darle eco sostenendo - non senza una certa dose di audacia - che i cannellini siano semplicemente dei cannelloni in miniatura. Vuoi mai che anche in quest’occorrenza, come presumibilmente avvenuto per il casoncello (AdG maggio 2015), i cucinieri bresciani si siano lasciati precorrere di qualche secolo dai loro colleghi bergamaschi? Ad onor del vero, non va taciuto che nel vernacolo ottocentesco della Toscana la voce cannelloni designasse quelli che altrove erano chiamati maccheroni, e non si può certo escludere che anche il suo diminutivo, di cui non è comunque pervenuta alcuna attestazione, fosse in qualche modo entrato nell’uso corrente. Ciò non toglie che i ben più antichi canellini bergamaschi del Rossetti, serviti all’epilogo di un banchetto che Alfonso I d’Este offrì in onore della consorte Lucrezia de’ Medici e del padre di questa Cosimo I di Toscana, altro non fossero che i confetti alla cannella, noti anche come cinnamomi (AdG novembre 2014), per i quali la nostra città godeva di lustro planetario nel XVI secolo. Pur con l’indulgenza dovuta in ragione dell’innegabile assonanza, desta non poca sorpresa che in popolari testi di gastronomia dei dolciumi possano essere scambiati per una fantomatica portata di pasta, per soprammercato recata in tavola al momento del dessert. La topica giunge comunque a conforto dei paladini della tradizione culinaria bresciana: per una volta un primato della Leonessa, ancorché conseguito per mano di un cuoco forestiero, non pare destinato ad essere riveduto a beneficio degli invisi cugini d’oltre Oglio.
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Amarcord di Leo Bartoli
Preferenze e consumi dei bergamaschi nei ricordi di due negoziati, Chiari e Signorelli (Ol formager), e di un produttore, Massimo Taddei
Il formaggio del tempo che fu
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na volta era diverso. La conoscenza, il consumo e di conseguenza l’acquisto ma anche la lavorazione dei formaggi a Bergamo raccontano di grandi sacrifici da una parte ma di spese ghiotte e generose dall’altra, di prodotti che hanno fatto storia, di altri che si sono persi nel tempo e di caci che resistono imperterriti sulle tavole delle famiglie orobiche, da sempre considerate tra quelle in Italia che più amano e consumano prodotti caseari. Ci accompagnano in questo viaggio a ritroso nel tempo tre figure che rappresentano solo l’ultima generazione di famiglie impegnate con successo nei settori: Pierantonio Chiari e Giulio Signorelli per quanto riguarda il commercio al dettaglio e Massimo Taddei sul fronte della produzione. «Mio padre Emilio ha girato in lungo e in largo l’Italia prima di trasferirsi a Bergamo - spiega Pierantonio Chiari -. L’ha scelta per due ragioni: la prima perché qui ha conosciuto
mia madre, la seconda è perché la città si era già fatta la nomea per la grande passione per i formaggi: non solo quelli tradizionali: c’era anche il gusto di conoscere prodotti nuovi». Così dal 1934 tre generazioni di Chiari si sono alternate nel negozio di via Locatelli. Da oltre sessant’anni va avanti anche la tradizione dei Signorelli, presenti tra le vie storiche di San Tomaso e Borgo Santa Caterina. «L’attività in quella sede nasce nel 1946 - spiega Giulio Signorelli, Ol Formager -, quando papà Luigi e mamma Rosina decisero di fermarsi mettendo un banchetto vicino al ponte di Santa Caterina: rivendevano sei tipi di formaggi rigorosamente bergamaschi». «La mia azienda invece, gestita un tempo da mio padre e mio zio, trasformava latte proveniente da aziende agricole di Fornovo e Caravaggio - spiega Massimo Taddei -: il latte (ogni stalla ne produceva dai 20-30 litri a munta ai 150/200 per quelle più grandi) veniva raccolto due volte
al giorno, dopo la mungitura, ancora caldo, dal menalatte con bidoni da 50 litri. La lavorazione si faceva due volte al giorno, 365 giorni all’anno: la prima si iniziava alle 6 del mattino e la seconda alle 15, poi dal 1980 abbiamo acquistato un tank frigorifero per raffreddare il latte della sera, lavorandolo solo una volta al giorno: solo successivamente abbiamo smesso di lavorare la domenica. Ma il latte arrivava e i bidoni si dovevano svuotare e lavare con acqua bollente e “olio di gomito”!». Veniamo allo “shopping” di oltre mezzo secolo fa: «La spesa di formaggi dei bergamaschi era già ricca allora - ricorda Chiari -: mio padre Emilio tagliava il parmigiano in punte da mezzo chilo, poi i clienti acquistavano almeno un quarto di burro, l’emmental (tanti i frontalieri ed emigranti dalla Svizzera) e il taleggio, che non mancava mai. Tra le varianti, veniva subito il gorgonzola e i formaggi locali: dal branzi al formai de mut. Noi abbiamo fatto conoscere per primi ai bergamaschi le mozzarelle e i pecorini del sud, senza dimenticare il salva cremasco».
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In senso orario: la famiglia Chiari oggi e in una foto storica; Massimo Taddei e la moglie Camilla; Giulio Signorelli
«A quei tempi - ricorda Signorelli -, la spesa di formaggi avveniva una volta la settimana: le varietà erano poche e quasi sempre le stesse: il grana non mancava mai, con pezzi minimo di 500 grammi, poi il taleggio, quasi sempre mezza forma, seguito da emmental e gorgonzola. Pochi si avventuravano verso caci diversi, come fontina o asiago». Erano i tempi in cui trovava spazio nei primi supermercati, l’Italico, con il Belpaese sugli scudi. «Fino agli anni Ottanta, se non erano proprio specializzati, era difficile trovare negozi con più di tre o quattro tipi di formaggio - ricorda Taddei -: in Bergamasca si mangiava taleggio, gorgonzola, formaggelle e un pezzo di grana da grattare: alcuni negozi facevano ordini di 15-20 forme la settimana, mentre oggi un negozio che consuma 3-4 forme è ritenuto leader». E i momenti della “grande spesa?”. «Sicuramente a Natale –
I grandi acquisti a Natale e Pasqua; le preferenze per emmental, grana, taleggio, gorgonzola, branzi e formai de mut; i prodotti scomparsi, come il Granone Lodigiano; l’evoluzione nella trasformazione del latte. Un mondo è cambiato rispetto a 50 anni fa rammenta Chiari -: da giovane, negli anni Settanta, ricordo personalmente certe spese con 10-15 varietà di formaggi per il Cenone che superavano quota 50mila lire». «Natale, ma anche Pasqua - conferma Signorelli -. Ricordo un anno straordinario, era il 1964 con il prezzo di vendita del parmigiano, allora con la crosta nera per ragioni di migliore conservazione, a
90 lire l’etto: non ci restò più nulla in negozio». «Oltre alle feste comandate, il formaggio non poteva mai mancare neanche nei banchetti di nozze, specie all’inizio e alla fine», aggiunge Taddei. Ma esiste un formaggio che andava forte un tempo e che oggi si è “estinto”? E c’è qualche cacio un tempo sconosciuto che ora va alla grande? «Certe paste dure, come il Granone Lodigiano, erano grandi formaggi oggi scomparsi anche perché non conveniva più economicamente farli», spiega Chiari. «In compenso consoliamoci con la riscoperta dello Strachitunt che rischiava anch’esso di sparire del tutto e che io, molto modestamente e insieme ad altri, ho contribuito a rilanciare», aggiunge Signorelli. «E sui formaggi oggi in voga e un tempo quasi sconosciuti – affermano tutti senza esitazione – sicuramente ci sono i caprini, una volta di sola produzione francese: adesso sono di gran moda in Bergamasca».
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L’evento
QUATTROERRE via Marconi, 1 Torre de’ Roveri tel. 035 580701 fax 035 580782 info@quattroerre.com www.quattroerre.com
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Il 12 ottobre, alla Otus di Seriate, il “focus” promosso dall’azienda dei fratelli Rota. Un momento di confronto dedicato agli operatori del settore, dai baristi ai ristoratori
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Quattroerre, le birre artigianali tornano protagoniste a distribuzione e i consumi di birra hanno subito una profonda metamorfosi negli ultimi anni. In Italia si comincia a parlare di birra artigianale nel 1995, con l’apertura dei primi brewpub, i locali in cui si serve la birra prodotta in loco. A distanza di pochi anni, stiamo assistendo ad una situazione di profonda trasformazione del comparto dei piccoli produttori di birra italiani. Dalla fase pionieristica si è passati in maniera del tutto imprevedibile ad un momento di forte espansione, sia come numero di unità produttive, sia come quantità di etichette reperibili sul mercato, frutto della capacità ed inventiva riconosciuta anche fuori dai confini nazionali dei nostri birrai artigianali. Il fiorire di tante iniziative nel settore, di stampo imprenditoriale o meno, coincide con una richiesta crescente di birra artigianale. Questo è uno dei motivi che ha portato la Quattroerre di Torre de’ Roveri a stringere una strategica alleanza con il Birrificio Otus di Seriate, presente sul mercato dall’inizio di quest’anno. Di riflesso, visto il particolare successo che sta riscuotendo proprio la produzione artigianale, in particolare nel mondo della ristorazione, l’azienda capitanata dai fratelli Rota, ha voluto nuovamente proporre un incontro riservato agli operatori professionali. Lunedì 12 ottobre, dalle 11 alle 18, presso il Birrificio Otus di Seriate, in via Rumi 7, si terrà la seconda edizione di “Focus Birra Quattroerre”. L’evento, pur inquadrandosi nuo-
vamente nelle attività di consulenza e assistenza che la Quattroerre dedica a ristoratori e baristi della nostra regione, ha contenuti diversi rispetto alla ormai collaudata Rassegna Birrogastronomica attiva dal 2005. È una iniziativa con l’intento di raccontare e degustare le birre artigianali in bottiglia prodotte a Seriate permettendo agli operatori di vedere in prima persona gli impianti di produzione, mantenendo contemporaneamente fede al principale obbiettivo nel focalizzare l’incontro su due tematiche importanti a livello commerciale: identificare il consumatore tipo e cogliere il momento di consumo ideale. Contestualmente verrà presentata ufficialmente la nuova birra Ipa, disponibile proprio da quella data. Focus Birra Quattroerre resta quindi un momento d’incontro tra gli operatori che desiderano accrescere il proprio bagaglio culturale legato al mondo della birra. I fratelli Rota sono convinti che il mondo birrario, grazie a storia, cultura e tradizioni singolari, permetta ai consumatori un viaggio ricco di scoperte. Per apprezzare al meglio il prodotto e suggerire ai propri ospiti nuove emozioni, però, serve una conoscenza sempre più approfondita di questa bevanda. Un professionista deve quindi essere in grado di permettere al proprio ospite di vivere un’esperienza birrogastronomica unica, frutto di un’attenta valutazione, ponendo particolare attenzione proprio sugli argomenti che l’evento vuole proporre come obbiettivo.
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L’APPUNTAMENTO Sabato 19 settembre l’evento solidal-gastronomico all’oratorio di Borgo Santa Caterina. In tavola i piatti della tradizione, dal quinto quarto bovino al baccalà. Tra le novità, la formula “35x35”. In campo anche il maestro macellaio Cazzamali L’ avvocato Vincenzo Coppola, presidente di Tiatiò Onlus
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Tiatiò Onlus, tutti a pranzo e cena per supportare la “Paolo Belli” abato 19 settembre Tiatiò Onlus torna con l’incontro gastronomico annuale di solidarietà, reso possibile grazie all’ospitalità della Parrocchia di Borgo Santa Caterina negli spazi del suo Oratorio. E lo fa proponendo interessanti novità gastronomiche a conferma dei punti forti degli anni precedenti, quest’anno rivisitati e migliorati per l’occasione. Come prima novità, il pranzo: alle 12,30, per soli 35 sostenitori che vorranno prenotare per tempo, sarà possibile condividere con gli organizzatori l’evento “35 X 35”, degustazione di un menù a sorpresa il cui contenuto sarà deciso il giorno stesso in funzione delle offerte del mercato. A fronte di un contributo di almeno 35 euro, saranno servite piccole delizie cucinate con materie prime di massima qualità, ma proposte in versioni estreme, per i palati più attenti e curiosi, sulla falsa riga del menù serale. È compresa una bottiglia di vino per ogni coppia di ospiti. Per info e prenotazioni: sek@tiatio.org oppure 347 4328032 La sera, dalle 19,20, Tiatiò Onlus - con l’aiuto del maestro macellaio Franco Cazzamali - si confermerà nella preparazione di pietanze nel segno del consueto dilettantismo appassionato, mescolando conoscenza e passione per i migliori ingredienti con la rivisitazione di alcuni piatti della tradizione gastronomica italiana, reinterpretata con gusto e leggerezza e farcita di sorprese di sicuro interesse. Le novità investiranno le preparazioni incentrate sul quinto quarto bovino, noto ai gourmet come punta di diamante dell’alimentazione carnivora e ben accolto nelle
scorse edizioni, quest’anno riproposte in nuove versioni tropicali. Farà il suo ingresso il bertagnì (baccalà) di buona memoria nella cucina del nord, eseguito in modo innovativo con l’introduzione di ingredienti “spericolati”, che nella sessione di assaggio hanno riscosso grande entusiasmo. Il menù, abbinabile quest’anno alla birra artigianale bergamasca oltre che ai vini delle più varie consistenze, vedrà dunque piatti con ingredienti già presenti nelle scorse edizioni, ma con rinnovate modalità di preparazione alla ricerca di nuovi gusti e sarà completato senza dimenticare le esigenze di vegetariani e vegani, che potranno condividere la tavola con ricette pensate proprio per loro, nel rispetto delle scelte e della qualità, accompagnate dall’ottima polenta che l’anno scorso ebbe un successo inatteso. Un’attenzione in più è stata riservata all’accoglienza, così da evitare le code che l’anno scorso hanno onorato la manifestazione con un afflusso non previsto, ma che hanno penalizzato molti ospiti, e che si confida di eliminare del tutto con una migliore organizzazione. Ecco quindi un’occasione per dedicarsi al piacere del cibo più buono, aggiungendo ai sapori della cucina il gusto di contribuire efficacemente alla ricerca medica sulle malattie del sangue, sapendo che l’utile ricavato finirà come ogni anno nelle mani di Paolo Belli Onlus, che dal primo giorno Tiatiò Onlus ha scelto come destinataria della propria raccolta, per non disperdere le risorse in mille rivoli.
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l’itinerario di Lara Abrati
Val di Scalve, uno scrigno di bontà La Val di Scalve non è solo montagna e stupende passeggiate, ma anche una meta per chi non disdegna qualche sosta golosa. Del resto, come non ricordare, a Vilminore di Scalve, la storica latteria che produce anche la famosa formaggella della Val di Scalve, oppure l’Alpe Campelli, dove è possibile assaggiare ed acquistare sia la squisita formaggella che il formaggio stagionato, entrambe prodotte con il latte estivo? Nel mese di agosto, in questa zona, è anche possibile raccogliere diverse tipologie di erbe spontanee, tra cui il famoso “paruch” con cui preparare gustosi risotti.
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Dal “nuovo” formaggio Nero della Nona alla Spalla di Schilpario, dalle varie Formaggelle ai piatti con le erbe spontanee, l’area è ricca di gustose chicche. Ecco una breve guida
La spalla di Schilpario e il
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n una piccola bottega storica di Schilpario si produce ormai da decenni un prodotto unico e ancora poco conosciuto, la “Spalla di Schilpario”. La materia prima di partenza è la spalla di maiale, spesso considerata un prodotto di seconda scelta. La macelleria Pizio da cinque generazioni (oggi tocca ad Alberto detenere la ricetta segreta di famiglia), nel corso degli anni ha affinato il modo di preparare questo prodotto, in due versioni: quella da cuocere e quella stagionata cruda da affettare. La spalla da cuocere viene preparata dalla macelleria con gli aromi e le spezie e non resta che farla bollire servendola poi con spinaci lessi e purè di patate. Mentre la spalla stagionata è ottima ad esempio per farcire i panini. Spostandosi verso l’abitato di Vilminore di Scalve, alla Latteria Sociale locale, è possibile acquistare un formaggio molto particolare, una scoperta recente, ma con una storia antica: il Formaggio Nero della Nona. Tutto parte da Attilio Perego, milanese di origine e maestro d’arte di professione, che per amore s’è spostato 30 anni fa in Val di Scalve. «Nel 1998 - spiega Perego, proprietario della ricetta segreta del 1753 - stavamo ristrutturando una vecchia baita di famiglia in frazione Nona quando abbiamo trovato una scatoletta di latta che mio suocero
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La Latteria Sociale della Val di Scalve
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a latteria è situata a Vilminore di Scalve ed è affiancata dal frequentatissimo spaccio aziendale. Sono molti i turisti e non solo che la frequentano per aggiudicarsi del buon formaggio da mettere sulla propria tavola. «Fino a quasi 50 anni fa esistevano solo le latterie turnarie - racconta Luciano Bettoni, ex presidente della latteria - poi alcuni allevatori hanno fondato la latteria come società cooperativa». Insieme hanno quindi iniziato a produrre quei formaggi che sono diventati il simbolo della produzione casearia di questa zona. «Attualmente i soci della cooperativa sono 16 - spiega ancora Bettoni - e noi lo lavoriamo soprattutto a crudo, anche se in caso di necessità lo pastorizziamo». Il lavoro nel caseificio è condotto dal casaro Lorenzo che, dopo gli studi in veterinaria, dal milanese si è trasferito in valle per intraprendere questa professione. La cooperativa è stata fondata nel 1968 e l’attuale sede è stata costruita nel 1978. Diversi i formaggi e i latticini proposti: dalla classica formaggella al “Quadrel” ideale per la raclette, lo “Scalvitondo”, un formaggio stagionato, il burro e gli yogurt. Lo spaccio aziendale è aperto tutti i giorni. La latteria si occupa anche della produzione, stagionatura e vendita del Formaggio Nero della Nona.
Formaggio nero della Nona custodiva tra le sue cose, senza darle troppe attenzioni. Nel 2012 la scatoletta di latta arriva a casa mia e, una volta aperta, tra vari oggetti di comune utilizzo, vi era un’agenda con all’interno il foglio su cui era scritta la ricetta in scalvino antico». La ricetta era rigorosamente firmata, anche se tale firma non è stata tradotta, al contrario di tutto il resto che invece è stato trascritto in italiano. «Sicuramente - spiega ancora Perego - è stata scritta da un dotto. Tutto il processo di produzione viene spiegato nei dettagli, comprese le quantità degli ingredienti. L’unica cosa non indicata era la dimensione della forma». Ecco che Attilio Perego se ne interessa e, casualmente, incontra un allevatore e casaro interessato ad aiutarlo nelle prove di caseificazione. Intraprendono quindi un percorso fatto di prove, assaggi e sperimentazioni, tutt’ora in corso. Il formaggio è attualmente prodotto dalla vicina e locale Latteria con latte crudo intero di Bruna Alpina proveniente da allevamenti in cui non vengono utilizzati insilati. È un formaggio a pasta cotta con all’interno grani di pepe. Viene affinato e stagionato almeno per 4 mesi spennellando l’esterno con un mix di spezie. Un formaggio dal sapore equilibrato e dall’aroma intenso di spezie, sottobosco e balsamico. Uno di quei formaggi che si fanno mangiare volentieri! Questo formaggio è utilizzato da diversi ristoranti locali come La Baita al passo della Presolana, il ristorante albergo San Marco e il Rifugio dell’Aquila. Quest’ultimo propone anche un piatto a base di formaggio nero, spalla di Schilpario affettata e polenta.
Il Ristorante San Marco e i fiori di Mea
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oco distante dal centro di Schilpario, in frazione Pradella, sorge il Ristorante Albergo San Marco, fortemente voluto dal padre di Mea ed Enzo, attuali gestori e proprietari. «Mio padre - spiega Mea, classe 1951 - era in miniera e, dopo 25 anni di lavoro, ha deciso di costruire un albergo. Dopo il turno in miniera lavorava qua. In realtà è partito da un bar a cui ha successivamente aggiunto le camere ed infine il ristorante». Mea Tagliaferri, diplomata all’istituto alberghiero di San Pellegrino, attualmente si occupa della cucina. Tiene profondamente a questo posto, tanto che sono ormai più di 40 anni che lo gestisce con entusiasmo insieme al fratello Enzo, al marito Antonio e alla cognata Pierangela. La sua cucina è semplice e genuina, curata nei minimi dettagli estetici e gustativi. Dai sapori e dagli aromi netti, che raccontano del territorio e di Mea. Piatti colorati, vivaci, equilibrati. Nulla è fuori posto. «Circa 25 anni fa - racconta ancora Mea - ho partecipato ad un concorso in cui veniva richiesto di creare un menù con le erbe spontanee e quindi ho iniziato a studiarle. Mi aveva affascinato questo mondo». Vicino al ristorante c’è l’orto, in cui Mea coltiva oltre alle classiche specie orticole anche le erbe spontanee e i fiori che utilizza nella sua cucina e per guarnire i suoi piatti. «Al mattino vado nell’orto e raccolgo quello che mi serve». Di fronte al Mea Tagliaferri ristorante parte il “sentiero dei fiori” in cui la cuoca accompagna, previa prenotazione e secondo stagione, i suoi ospiti a raccogliere le erbe che poi cucineranno insieme subito dopo. Ogni giorno la cucina propone piatti a tema ed è possibile assaggiare dal risotto con i fiori mantecato con il Formaggio Nero della Nona, ai ravioli con la borragine e i suoi fiori. Ma anche delle squisite costolette di agnello panate con nocciole, erbe aromatiche e i suoi fiori, con un contorno di polenta fredda e fiori di zucchina.
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LA PROPOSTA di Rosanna Scardi
Chef all’Amaranto (Four Seasons), Danilo Colombi, di Cazzano, è riuscito a convincere il manager con la sua ricetta. Che ora sarà inserita nei menù come piatto “special”
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«Sedurrò Londra con i miei casoncelli»
casoncelli potrebbero entrare nel menù autunnale di “Amaranto”, il ristorante italiano che fa capo al Four Seasons, lussuoso hotel di Park Lane, nel cuore di Londra. Nella prestigiosa cucina lavora da cinque mesi Danilo Colombi, 26 anni, di Cazzano Sant’Andrea, in Val Gandino. Il cuoco veste il ruolo di capo partita ed è responsabile di contorni e secondi piatti, sia di carne, sia di pesce. Sua l’idea di inserire il tipico raviolo bergamasco come piatto “special”. «Il nostro chef canadese se ne era appena andato e avevamo bisogno di rinnovare l’offerta e così ho osato proponendo la specialità principe della nostra tradizione», spiega l’idea il giovane chef. Colombi ha preparato sia l’impasto e sia il ripieno, un tritato a base di carne cotta di vitello, pere, amaretto, salsiccia e coppa che ha miscelato con uovo, parmigiano, pane grattugiato e salvia. La pasta è stata condita con una salsa di guanciale tagliato a julienne, leggermente arrostito, e poco brodo di carne per avere un’emulsione con il burro. «Alla fine ho aggiunto un po’ di burro e parmigiano per la mantecatura e poi ho completato il tutto con una fonduta di parmigiano». Il manager tedesco del food and beverage ha apprezzato. «Aveva espresso il desiderio di inserire un piatto semplice e dagli ingredienti genuini, quasi fosse da trattoria, e l’opzione bergamasca è risultata perfetta anche
nel menù alla carta del brunch», anticipa orgoglioso il risultato del “tasting”, la prova che ha decretato il successo del suo primo. Ai fornelli del Four Seasons sono in servizio una quarantina di cuochi, quasi tutti italiani. Tra i classici che conquistano il palato internazionale ci sono la pasta romana all’amatriciana, il risotto milanese allo zafferano e la costoletta d’agnello con gratin di patate al tartufo. La passione di Colombi nasce da bambino nella cucina di casa, dove non mancava occasione di aiutare la mamma. Le basi le ha apprese alla scuola alberghiera di Nembro. I suoi punti di forza sono da sempre i primi, fin dall’impiego nel ristorante Abacanto, a Ranzanico, sul Lago d’Endine. Sono seguite le cucine alle Terme di Saturnia, al Babbo di Mayfair, a Londra, a Barboglio de Gaioncelli, a Corte Franca, in Franciacorta. Nella capitale inglese ha trovato impiego anche all’Atelier de Joel Robuchon, prima del Four Seasons. «La nostra tradizione non è superata da nessun’altra, gli inglesi cercano il cibo italiano, non il francese, siamo gli unici in grado di offrire prodotti di mare e monti preparati con gusto e fantasia», è la sua opinione. Tra le tante esperienze, anche una prova da Nobu, la catena giapponese di ristorazione, sempre nella city. «Mi sono trovato a maneggiare ingredienti che non conoscevo, mi sono detto il lavoro è lavoro, ma la passione è avere a che fare con le mie radici. E così ho lasciato per seguire il cuore».
Riflessioni
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di Enrico Rota
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Quanti giudizi affrettati e in malafede sul mondo del vino l vino rappresenta, in questi ultimi tempi, un mondo che ha per il consumatore una forte attrazione. Ne sono testimonianza i vari corsi di degustazione promossi da più attori e/o associazioni, le alte frequenze di pubblico ad eventi dedicati e il grande interesse che comunque c’è per tutto quello che ruota intorno al mondo enoico. Tutti i produttori sono coscienti che produrre un vino buono oggi non è poi così difficile. O, perlomeno, si conoscono bene i fattori che concorrono a produrre un vino con particolari caratteristiche. Sono assolutamente consapevole che parlare di “vino buono” non ha alcun senso perché l’unico giudice è il consumatore che decreta il successo di un prodotto consumandolo, basandosi principalmente sul semplice ma assai efficace criterio generato dalla piacevolezza personale. Quello che però angustia i produttori è una fase di tutto questo fenomeno che, purtroppo, non ha delle regole precise, ma è avvolto nella nebbia più spessa: la vendita. Accanto a essa, esistono vari strumenti di comunicazione a disposizione, alcune volte utili, altre no. In questi anni sono fiorite guide dalle caratteristiche più diverse, abbiamo visto nascere guru, più o meno preparati, avocarsi il diritto di giudicare il frutto di un duro e complesso lavoro senza averne alcuna preparazione e utilizzando i vari media nei modi più inverosimili. Abbiamo assistito alla nascita e alla morte di fenomeni che nulla avevano di particolare in quanto rispondevano solo ad una motivazione economica. Rimango allibito quando leggo recensioni e giudizi - in moltissimi casi i vini sono sempre gli stessi - dove la ricerca e la selezione non sono parametri presi in considerazione. Le guide e questi guru premiano il miglior enologo, la migliore azienda, il miglior vino; raramente spiegano i criteri, difficilmente raccontano la storia. I media consumano rapidamente tutto questo particolare mondo e non capiscono che in questo modo non solo non fanno l’interesse del consumatore, ma neanche dei produttori, evitando di generare quelle auspicabili riflessioni necessarie per una sana crescita. In questo mondo nebbioso, e senza confini definiti, si aggi-
rano quindi dei personaggi più inverosimili che, molte volte, senza preparazione demoliscono anni di lavoro in pochi minuti molte volte solo per motivazioni personali meramente economiche. Vorrei poi una maggiore attenzione verso un personaggio di cui nessuno parla, che molte volte non ha una preparazione specifica e normalmente è un autodidatta: il venditore di vino. Costui vive da molti anni in questo mondo, nutre per lo stesso una grande passione e vede, molte volte, le sue convinzioni messe a dura prova da comportamenti quantomeno equivoci e non spiegabili. Ricordiamoci sempre che dietro un vino ci sono un produttore, la sua famiglia, i tecnici, i venditori, che hanno cercato o cercano di fare del loro meglio. Se i loro sforzi sono stati vani non demoliamoli, il vino porta con sé una situazione fantastica: ogni anno lo si produce di nuovo, è un bene di consumo. Se non ci piace, non consumiamolo. Dobbiamo avere la pazienza di aspettare quello della vendemmia successiva, accantonando una volta per tutte i commenti, alcune volte assai faziosi, di alcuni personaggi che tutto vogliono meno che il bene di questo comparto.
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L’INTERVISTA di Anna Facci
Simonmattia Riva, di Curno, è fresco del titolo di miglior biersommelir al mondo: «In Italia la produzione proseguirà il trend positivo, ma le aziende si stanno anche potenziando e questo potrebbe ridurre il numero dei birrifici»
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Birre artigianali, il bergamasco che ha sconfitto tedeschi e austriaci er capire la portata del traguardo basti sapere che una tv tedesca ha mandato un proprio giornalista a Bergamo per intervistarlo e dare conto dell’exploit. Ha infatti interrotto il monopolio detenuto da Germania e Austria al Campionato mondiale di biersommelier (per dirlo alla tedesca), manifestazione giunta alla quarta edizione e organizzata dalla Doemens Akademie di Monaco, che da oltre cent’anni forma mastri birrai e da una decina anche le nuove figure di sommelier della birra. Simonmattia Riva, 38 anni, di Curno - che per inciso è figlio del noto scultore Ugo -, ha alzato il trofeo a San Paolo del Brasile nel luglio scorso, imponendosi, debuttante nella competizione, sugli altri 52 finalisti dopo una serie serrata di prove, tra
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n Italia il boom della birra artigianale sta proseguendo, con l’aumento di produttori, locali, iniziative. È tutto oro quello che luccica? «Sicuramente sono molto di più i lati positivi di quelli negativi. Il livello qualitativo è elevato e ci sono ormai molti birrifici eccellenti consolidati. Il risvolto meno positivo è dato dal fatto che qualcuno è entrato in questo mondo seguendo la moda e fiutando un business più che per reale capa-
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domande e degustazioni. Oltre che prestigioso, il titolo mondiale è una sorta di suggello alla svolta nella sua carriera lavorativa, da tutor in una scuola professionale a professionista del mondo della birra. Appassionato da vent’anni, quando di prodotti artigianali non si parlava e informazioni e degustazioni erano merce rara visto che Internet non aveva ancora rivoluzionato la comunicazione, Riva è biersommelier diplomato, docente di corsi sulla birra, giudice nei concorsi e collaboratore alle guide birrarie MoBI e Slow Food, ma dalla fine giugno è anche il publican di Beer Garage, nuovo indirizzo specializzato aperto in via Borgo Santa Caterina dai titolari del birrificio Hop Skin di Curno.
cità e passione, si tratta però di un numero ristretto di casi». Chi sono i consumatori e cosa piace di più? «La fascia più ampia è quella dei giovani tra i 20 ed i 30 anni. Negli ultimi anni vanno molto di moda le birre in stile americano, alta fermentazione, massiccia luppolatura. Sono birre chiare e profumate, che possono andare dai 4 agli 8/9 gradi. Probabilmente ciò si deve al fatto che è proprio da-
gli Stati Uniti che, negli anni Ottanta, è partito il movimento prima dell’homebrewing e poi della birra artigianale, in risposta al bassissimo livello toccato dalla produzione industriale. Chi scopre la birra artigianale poi facilmente va in cerca anche degli altri stili, quello belga, caratterizzato dai lieviti, ma anche la tradizione tedesca, che è una produzione più semplice ma anche la più difficile da realizzare perché mette subito in evidenza i difetti sensoriali».
settembre 2015 Quali sono i punti di forza della birra artigianale? «L’identità, la caratterizzazione gustativa, la personalizzazione. I birrai fanno in primo luogo birre che piacciono a loro, l’industria birre che devono piacere a tutti. E poi c’è il fatto che non viene pastorizzata. È un procedimento che allunga la vita sullo scaffale ma che fa invecchiare precocemente il prodotto, non consentendo quell’evoluzione nel tempo che si ha, per esempio, nelle trappiste belghe o nei barleywine». Ma la birra industriale è tutta “scarsa”? «Si possono trovare prodotti dignitosi e buoni, resta in ogni caso che la pastorizzazione incide sulla ricchezza aromatica e gustativa. Il fatto è che la produzione si basa su premesse diverse, da un lato grandi numeri e standardizzazione, dall’altro il prodotto artigianale. È un po’ la differenza che c’è tra un formaggio industriale e quello di un piccolo caseificio. Ciò non vuol dire, si badi, che artigianale sia per forza buono, tocca poi all’educazione di chi consuma fare la selezione». Tre birre che consiglierebbe a chi vuole avvicinarsi al prodotto artigianale? «Visto che devo fare nomi scelgo in Bergamasca e dico Loertis di Via Priula, una Pils classica, quindi uno stile che si conosce, una birra non troppo “complicata” per un primo approccio; Crazy Paul di Hop Skin, una saison con pepe rosa che arricchisce il bouquet, adatta anche ad un abbinamento con la cucina e infine – ma non è una classifica - Buendia di Endorama, un’ambrata scura realizzata con un’infusione di caffè Huehuetenango, presidio Slow Food». A proposito di Bergamo, a che punto è? «A un livello molto buono. Non in tutte le province d’Italia ci sono così tante possibilità di esplorare il mondo della birra artigianale. Tra i produttori occorre ricordare, oltre a quelli già citati, il birrificio Valcavallina di Endine Gaiano e il nuovo
Hammer di Villa d’Adda, che nasce da un investimento importante e che farà parlare di sé anche perché il birraio è un nome già noto e premiato come Marco Valeriani. Abbiamo inoltre alcuni dei migliori locali in Italia, The Dome di Nembro, l’Abbazia di Sherwood di Caprino Bergamasco e la Locanda del Monaco Felice di Suisio, senza dimenticare La Compagnia del Luppolo, associazione di cui faccio parte, che è stata una delle prime, nel 2003, a dedicarsi alla diffusione della conoscenza della birra artigianale».
«Le birre industriali? Si possono trovare prodotti dignitosi e buoni, ma la pastorizzazione incide sulla ricchezza aromatica e gustativa» E ora abbiamo anche il miglior sommelier di birra al mondo. Che ruolo ha questa figura? «In un Paese come il nostro che non ha una grossa tradizione in fatto di birra è ancora più importante che ci sia qualcuno che fa capire cosa si ha nel bicchiere, qual è lo spettro dei prodotti e delle variazioni possibili. Un versante interessantissimo di sviluppo è poi quello degli abbinamenti con la gastronomia. Per ora su questo argomento molto arriva dal mondo anglosassone, che non ha certo la ricchezza e la qualità di prodotti e piatti dell’Italia». Qualche abbinamento cibo-birra da provare? «Salmone al forno con una triple belga, l’ho usato anche al mio matrimonio. Oppure una mousse al cioccolato con Rochefort 10, una trappista belga, una imperial stout». Luoghi comuni da sfatare sulla birra? «C’è chi non la ama perché dice che è amara, ma non tutte lo sono e il vero aspetto in gioco è il bilancia-
mento gustativo. È sbagliato anche pensare che faccia ingrassare, perché una chiara leggera ha meno calorie di un succo di frutta, e pure che sia un prodotto solo per quando fa caldo: ci sono birre da meditazione che si gustano a fine pasto e non proprio sotto l’ombrellone». Qual è il prezzo giusto di una birra artigianale? «Le variabili sono molte, dipende dagli stili. Per una birra a ridotto tenore alcolico, senza necessità di un lungo stoccaggio, direi 7/8 euro al litro. Il prezzo cresce con l’aumento del grado alcolico, l’utilizzo di ingredienti specifici, l’affinamento in botte. Un aspetto che sta caratterizzando lo stile italiano, ad esempio, è l’utilizzo del mosto d’uva e anche questo fa alzare il costo». Il settore artigianale continuerà a crescere? «Nei volumi sicuramente sì, se come riferimento guardiamo a cosa è successo negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda dove il fenomeno è cominciato prima che da noi e la birra artigianale non ha mai fatto passi indietro. La posizione, del resto, è ancora assolutamente marginale, si parla dell’1,5% dei consumi. È probabile che si contrarrà, invece, il numero dei birrifici. Complice il successo, alcune aziende stanno infatti reinvestendo e diventando più grandi.
Significa che ampliano il proprio bacino sottraendo con ogni probabilità spazio alle realtà più piccole, che rischiano perciò di soccombere».
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FACECOOK
alla scoperta dei social chef
di Laura Ceresoli
Da 16 anni Stefano Terzi è proprietario con un altro bergamasco, Franco Lazzari, del ristorante Viceversa a Manhattan. «Chi vive qui conosce il buon cibo. È il difficile, ma anche il bello, di questa città»
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Franco Lazzari e Stefano Terzi
«Che esigenti i palati di New York!»
ltro che pizza e mandolino. Lo chef bergamasco Stefano Terzi è riuscito nel giro di pochi anni a scardinare gli ormai consumati stereotipi della cucina mediterranea, inserendo nel menù del suo locale newyorkese le prelibatezze che non ti aspetti. Una missione non facile, visto che l’americano medio crede ancora che il french chicken o gli spaghetti con le polpette siano specialità tipicamente italiane. Di Bagnatica, con esperienze lavorative in rinomati ristoranti orobici come La Taverna Del Colleoni, Terzi, che da oltre vent’anni vive negli Stati Uniti, ha ormai ben capito come prendere gli stranieri per la gola. Da 16 anni è il proprietario, insieme al suo socio Franco Laz-
zari, del Viceversa, locale situato nella Hell’s Kitchen, una delle zone più belle e frenetiche di Manhattan. Tocco distintivo sono, manco a dirlo, i casoncelli, ormai un must per molti chef emigrati all’estero. «Nel prepararli – spiega il cuoco 44enne – cerco di attenermi il più possibile alla ricetta originale, partendo dalla farina per la pasta rigorosamente “00” italiana, usando gli amaretti e l’uvetta per dar sapore al ripieno, mentre nel soffritto metto la pancetta che produco in casa». Nel menù serale c’è ancora profumo di Orobie grazie alla polenta con porcini e fonduta di parmigiano e, non di rado, come specialità del giorno, spiccano anche gli Scarpinocc di Parre o il coniglio con la polenta.
L’INTERVISTA
«Servo anche uova e loanghina secondo la ricetta di un negoziante di Bagnatica»
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ome è iniziata la sua carriera culinaria? «Sono nato 44 anni fa a Calcinate, ma sono cresciuto a Bagnatica fino all’età di 16 anni. Per lavoro mi trasferii a Milano al ristorante Cassina di Pomm di via Melchiorre Gioia, che ora credo non esista più. Sempre per lo stesso principale, Raffaele Marzorati, cucinai anche alla Cascina Gobba per circa tre anni. Poi ritornai a Bergamo a lavorare con Pierangelo Cornaro, al Ristorante dell’Angelo, che ai tempi si trovava in Borgo Santa Caterina». Perché ha deciso di trasferirsi all’estero? «Quando lavoravo in Città alta conobbi alcuni chef che mi aiutaro-
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no a trovare lavoro in California, prima a Beverly Hills poi a Laguna Beach. Ero partito con l’intenzione di trascorrere un anno in California e uno nella costa orientale degli Usa. Arrivato a New York conobbi il mio socio Franco Lazzari e dopo circa tre anni, lavorando come chef di cucina per un paio di ristoranti, tra cui il famoso San Domenico, aprimmo insieme il Viceversa». Che cosa ama del suo lavoro? «Sono 16 anni che siamo aperti, ho avuto grandi soddisfazioni lavorative, ho conosciuto persone famose e alcune meno famose, ma influenti. Quando i clienti si complimentano per l’esperienza nel nostro locale e mi dicono che
si trovano bene come in Italia, sono orgoglioso di contribuire a dare alla nostra terra una buona immagine all’estero. Non avrei mai immaginato, quando lasciai l’Italia nel lontano 1994, che sarei arrivato fino a qui. In America ho potuto fare molto: sono il proprietario di un locale in una delle zone più belle e frenetiche della Grande Mela, la Hell’s Kitchen o meglio “la cucina dell’inferno” che fino alla fine degli Anni 80 era una zona malfamata in mano alla mafia irlandese. E poi ho comperato casa nella stessa zona, nel centro del mondo». La clientela newyorkese è esigente? «Il difficile di New York (ma anche
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La pagina Facecook del Viceversa è un susseguirsi di immagini golose che rendono l’idea dell’amore e della passione che Stefano mette nella realizzazione delle sue leccornie. Tra le proposte più invitanti ci sono l’halibut con puré di zucchine, la burrata su letto di pomodori o il risotto al tartufo. Interessanti le immagini postate sul social network che ripropongono il processo di realizzazione dei ravioli fatti in casa, dalla stesura della pasta fresca alla farcitura. Tutti gli ingredienti e i vini serviti per accompagnare ogni piatto sono importati dall’Italia. E gli utenti apprezzano: la pagina ha infatti ottenuto finora 1.387 “Mi piace”. «Cibo eccellente e servizio impeccabile», commenta Vera Chen. «La prima volta in cui ho messo piede in questo fantastico ristorante ero con alcuni amici per bere e cenare – scrive Thomas Laurita –. È stato bellissimo, non riesco a smettere di dire ai miei amici quanto sono stato bene, un sacco di gente, buon cibo, proprietari gentili e con una grande passione per quello che fanno». Su Tripadvisor il Viceversa si piazza al 786esimo posto su 11.410 ristoranti nella Grande mela. Nel complesso 90 uten-
il suo bello) è proprio che la clientela è molto esigente. Chi vive qui molto spesso viaggia per lavoro: va in Europa, impara a conoscere il buon cibo e lo pretende anche a casa». Riesce a far apprezzare i piatti tipici bergamaschi agli americani? «Sin dall’apertura di Viceversa, ho proposto i casoncelli alla bergamasca. Nel prepararli, cerco di attenermi il più possibile alla ricetta originale. Cucino anche la polenta col coniglio e gli Scarpinocc che, di tanto in tanto, propongo come piatto speciale. E poi la Sbrisolona per occasioni particolari. Per brunch servo le uova con la loanghina che preparo seguendo la ricetta che mi diede tanti anni fa un negoziante di Bagnatica, Mario Brevi detto “del Leone”, con tanto di Grana Padano e un pizzico di zucchero con la vaniglia naturale». Gli americani hanno una visione stereotipata della cucina italiana? «Per fortuna mi trovo a New York City
ti giudicano il Viceversa “Eccellente”, 90 “Molto buono”, 34 “Nella media”, 8 “Scarso” e 4 “Pessimo”. Ma le recensioni positive vanno per la maggiore: «Ambiente raffinato, che sa portare un pizzico di Italia di grande stile a New York – scrive Crissy da Parma –, personale gentilissimo e molto simpatici i proprietari, soprattutto Stefano. Sono stata per una cena di lavoro in ottobre ma sicuramente questo posto entrerà di diritto tra i miei indirizzi preferiti di NY».
e la gente conosce abbastanza bene la cucina vera italiana. Nel resto degli Stati Uniti è una storia diversa, parlare di cucina stereotipata è dire poco. Ci sono piatti che nessuno riconoscerebbe in Italia, dai famosi spaghetti con sopra le polpette ai gamberi alla scampi, fino al chicken alla francese». Pollo alla francese? «Sì, alla francese. E pensano, per chissà quale motivo, che sia un piatto italiano!» Cosa pensa delle recensioni di Tripadvisor? «Le recensioni sono il mezzo per capire la reazione dei clienti al nostro locale anche se non sai esattamente chi le fa. Bisogna percepirle ma, allo stesso tempo, capire chi le scrive. Un metodo che per noi funziona da sempre è il contatto personale con il cliente, osservare come reagisce quando gli si serve un piatto, l’espressione della faccia e del corpo, come interagisce col cameriere che si prende
cura di lui. Il cliente più fedele sicuramente è quello che viene col vecchio passaparola». È andato all’Expo 2015? «Sono andato a maggio quando mi trovavo a Bergamo e penso che ci ritornerò in autunno, durante il mio prossimo viaggio in Italia. Con qualche pecca, credo l’organizzazione dell’evento sia sicuramente riuscita. Ho visto padiglioni molto interessanti tra cui Germania, Giappone, Kuwait... Del padiglione Italia, invece, tranne le belle foto delle città italiane e il personale che spingeva a muoversi velocemente tra una sala non completata e l’altra, non mi ricordo niente di più». Cosa le manca di Bergamo? «Lo stile di vita, molto meno frenetico di New York, e la qualità. A Bergamo torno sempre volentieri almeno due volte l’anno».
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il prezzo fisso di Fulvio Facci
I fratelli Maria Cristina e Vincenzo Amato hanno aperto il locale di via San Bernardino appena ventenni e festeggeranno il traguardo con una ristrutturazione. Tra le iniziative che propongono, servizio a domicilio, menù baby e il gratta e vinci che regala sconti e consumazioni La grande famiglia dei fratelli Amato. Al centro Maria Cristina
Voci del Mare via San Bernardino, 106 Bergamo tel. 035 314849 chiuso il lunedì www.vocidelmare.it
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Voci del Mare, 25 anni di ristorazione “formato famiglia”
i certo non mancavano né il coraggio né la fiducia ai fratelli Maria Cristina e Vincenzo Amato anche loro provenienti da Tramonti, sulla Costiera amalfitana, in provincia di Salerno, comune che ha dato a Bergamo e provincia un numero consistente di cuochi ma soprattutto di pizzaioli e almeno una ventina di locali. Avevano infatti rispettivamente 20 e 21 anni nel 1990 quando hanno aperto in città, in via San Bernardino 106, il ristorante pizzeria Voci del Mare. La famiglia, non solo in senso metaforico, si è poi ben presto allargata. Sono infatti arrivate due sorelle gemelle, Lucia e Lina, e i “fondatori” si sono sposati con l’inserimento quindi della moglie di Vincenzo, Luisa, e del marito di Maria Cristina, Beppe, a completare la squadra. «Siamo qui ormai da 25 anni - racconta Maria Cristina – e di strada ne abbiamo fatta conquistandoci quella che per noi è ormai una clientela tradizionale. In effetti non siamo partiti alla cieca visto che sia io, in cucina, sia mio fratello come pizzaiolo avevamo già una discreta esperienza anche in provincia di Bergamo, avendo iniziato a lavorare all’età di 14 anni. Che piatti preparo? Cucino così come piace mangiare a me: tradizionale, sano, genuino e abbondante, non mi piacciono le miniporzioni anche se mantenere il prezzo basso è difficile». Il locale è ampio, circa 200 coperti, e all’inizio del nuovo anno verranno ristrutturati sia l’ambiente sia l’arreda-
mento. Per la sua capienza le Voci del Mare si presta anche a banchetti e cerimonie con un costo massimo di 30 euro a testa (dieci per i bambini) per menù che vanno dall’antipasto al dolce. Un altro punto di forza del ristorante è il servizio a domicilio, mezzogiorno e sera, senza maggiorazione di prezzo sia per le pizze sia per i piatti di cucina: si fissa l’orario e il menù arriva tutto a casa o al lavoro, puntuale, posate comprese. «Per il menù di mezzogiorno abbiamo una clientela pressoché fissa anche se ci sono delle oscillazioni stagionali – rileva la titolare -. Alla sera abbiamo invece soprattutto famiglie, che possiamo dire ci seguono da anni, si sono affezionate ed è anche in virtù di questo che ci sforzia-
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LA PROVA
mo per proporre anche i menù baby a 3 euro e pizza baby a 2,50 euro». E se la pizza è senz’altro il piatto più gettonato non mancano spunti interessanti anche dalla carta. L’antipasto imperiale propone cozze, frutti di mare, vongole, gamberetti e spada affumicato oppure c’è il fritto campano con crocchette, olive ascolane e verdure pastellate ed anche il tris di affumicati: spada, salmone e tonno. Per rispetto alla tradizione locale non mancano i casoncelli alla bergamasca ma il richiamo del mare è fortissimo ed esercitato, ad esempio, dagli scialatielli alle vongole e pomodorini o dalla pasta al cartoccio con i frutti di mare o ancora dai tagliolini al nero di seppia. Classica la lista per quanto riguarda i secondi piatti di pesce con grigliata mista, fritto misto, orata e pesce spada. Buona anche la presenza di carne con costate, bistecche e i filetti mentre la cotoletta alla milanese, gigante, oltre che alla maniera classica, viene servita con cinque farciture diverse. I dolci sono torte fatte in casa. E per chiudere con un sorriso, alla cassa troverete una sorpresa. Per una spesa superiore a 15 euro vi sarà consegnato una specie di “gratta e vinci” con la differenza che alle Voci del Mare si vince sempre: si va da una bibita in lattina a uno sconto del 10% sul conto.
A mezzogiorno proposte per tutte le tasche È ancora fermo ai 10 euro il prezzo menù di mezzogiorno completo a le Voci del mare. Ci sono poi altre combinazioni che prevedono 6 euro per il solo primo piatto, 8 per il secondo con contorno. Altre soluzioni prevedono a 10 euro il menù insalatona e il menù pizza, 8 per il paninopizza farcito a scelta con insalata, salumi, formaggi o tonno. Infine per la costata di manzo o il fritto misto con contorno il costo è di 18 euro. Tutti i menù comprendono acqua, vino o altra bevanda e caffè. Il nostro obiettivo è, come sempre, testare il menù completo che nell’occasione prevedeva: pasta alla carbonara, alla siciliana e al pomodoro tra i primi mentre tra i secondi piatti si poteva scegliere tra il vitello tonnato, i pesciolini fritti e il prosciutto cotto ai ferri. Contorni: patatine fritte, insalata e verdure cotte. Buoni i tagliolini alla carbonara, stuzzicanti i pesciolini fritti, per altro gettonatissimi, il tutto completato da un buon piatto di verdure cotte. Per dieci euro, in tutta onestà, difficile pretendere di più, un rapporto qualità-prezzo decisamente soddisfacente.
CON CORSI
Ancora da premio i vini di Cipresso e Caminella Anche due vini bergamaschi sono andati a medaglia al Concours Mondial de Bruxelles 2015, maxi concorso che riunisce assaggiatori da tutto il mondo, svoltosi quest’anno a Jesolo e giunto alla 22esima edizione. Si tratta del Moscato di Scanzo Docg Serafino 2011 dell’azienda agricola Il Cipresso di Scanzorosciate e del Ripa di Luna Brut 2011 della Caminella di Cenate Sotto, entrambi premiati con l’argento. Per il Serafino 2011 è un secondo successo quest’anno, dopo la medaglia d’oro al 55esimo Concorso Nazionale Vini tenutosi a Pramaggiore (Ve), che ha assegnato l’oro anche al Valcalepio Rosso “Dionisio” Doc 2012 e al Valcalepio Bianco “Melardo” Doc 2013 della cantina. Anche Ripa di Luna Brut 2011 ha fatto un bis, vincendo il bronzo al concorso enologico Decanter World Wide Awards, che vede in giuria i migliori professionisti del vino di tutto il mondo.
La Locanda della Corte di Alzano vince la sfida dei risotti Una ventina di cuochi provenienti da varie regioni d’Italia si è sfidata a colpi di risotto nel quarto Trofeo Salera, promosso dall’azienda agricola bergamasca specializzata in cereali che ha tra i fiori all’occhiello il riso coltivato nel Pavese. La competizione quest’anno vedeva come ingrediente base il Carnaroli Salera invecchiato 18/24 mesi. A convincere la giuria è stato il “Risotto alla Carbonada di Bue e Barolo e crema di Strachitunt”, preparato da Mirko Miraglia giovane chef della Locanda della Corte di Alzano lombardo, su ricetta del patron Flavio Manzilli. Il secondo ed il terzo posto sono andati rispettivamente al “Risotto all’amatriciana” del gardesano Carlo Bresciani e al “Risotto all’anatra, porcini, mantecato al caprino” del pisano Gabriele Nassar. L’ormai tradizionale appuntamento alla Cascina “La Reale” di Garlasco si inseriva nel più ampio programma della giornata in collaborazione con l’Unione Cuochi Regione Lombardia, aperta ai professionisti della cucina e volta a far conoscere i luoghi e le modalità di produzione dell’azienda, ma anche prodotti di selezionati espositori del Pavese e della Bergamasca. Presente, oltre ai vertici della Federcuochi, l’assessore all’Agricoltura della Regione Lombardia Gianni Fava.
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LA VISITA
Il locale conferma le sue qualità ed esalta i prodotti del territorio, come i funghi porcini. Tappa dell’Associazione “Ristoranti Regionali-Cucina DOC” Ristorante Posta al Castello Gromo tel. 0346 41002 www.postalcastello.it
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Posta al Castello, la forza della tradizione er gli amanti dei funghi porcini e, più in generale, della cucina del territorio, è una tappa obbligata. Anche perché il Posta al Castello di Gromo non ha mai smesso di confermare la fama che s’è guadagnato negli anni grazie a un menù stagionale reinterpretato con creatività e raffinatezza. Merito di Alba Tonoli, affiancata dai figli Chicco e Mauro dopo la scomparsa del marito Vittorino, alla guida del locale e della cucina dal 1979. Materie prime di qualità, forte identità alla proposta, buona mano in cucina hanno generato il mix vincente di questo locale, che ha anche la fortuna di essere ospitato nelle bellissime sale del Castello Ginami, costruito nel 1226, rimasto immutato fino al XV secolo e poi ampliato. Castello, dominante la piazza del paese, che presenta, oltre alla struttura originaria, numerosi affreschi, peraltro recentemente restaurati. Un motivo un più per salire in alta valle e fare un salto al Posta, come ha deciso di fare anche l’Associazione “Ristoranti RegionaliCucina Doc”, che nei giorni scorsi s’è data appuntamento al locale - associato da oltre 30 anni - proprio per festeggiare la rinnovata bellezza delle sale. Per l’occasione, Alba Tonoli ha preparato un menù giocando su una delle materie prime care al ristorante: i porcini. Il pranzo è stato aperto dall’insalatina tiepida di funghi, abbinata al Franciacorta “Animante”. Quindi, a seguire, zuppa di funghi accompagnata dal Verdicchio Riserva Docg 2012 “San Paolo Castelli di Jesi” e stinco di vitello con polenta e porcini annaffiati da un “Estatatura Toscana IGT” dei Poderi
di Ghiaccioforte. A chiudere, il dolce Alba, un semifreddo al croccantino servito con crema al cioccolato. I vini serviti nel corso dell’appuntamento enogastronomico sono stati selezionati dalla Barone Pizzini, azienda franciacortina che dal 1998 applica l’agricoltura biologica, filosofia produttiva che negli ultimi tre anni è stata seguita da un terzo delle 110 aziende presenti sui 2.900 ettari vitati del territorio bresciano. Alberto Pizzi, direttore alle vendite, ha spiegato che il metodo biologico rafforza l’autodifesa
Da sinistra Alberto Pizzi, Marinella Argentieri, Alba Tonoli con i figli Chicco e Mauro (foto Gian Vittorio Frau) della vite che meglio affronta le imprevedibilità stagionali a favore della qualità delle circa 230mila bottiglie di brut che l’azienda produce ogni anno, declinate in sei etichette. La Barone Pizzini ha esportato la sua esperienza anche nelle Marche, a Pievalta (Ancona) dove produce con metodo biodinamico, e nel Grossetano dove dà vita, nei Poderi di Ghiaccioforte, anche all’eccellente Morellino.
appuntamenti
26 E 27 SETTEMBRE
27 SETTEMBRE
Nel borgo di Ogna “Assaporando Zogno”, passeggiata con s full immersion in programma domenica 27 settembre la sesta edizione della camenogastronomica “Assaporando Zogno” lungo le vie del paÈ tra i sapori pugliesi eseminata e le sue frazioni con tappe di degustazione e visita ai musei e ai
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uest’anno tocca alla Puglia. Fedele al compito di portare ogni anno in primo piano i sapori e le tradizioni di una regione italiana, la Festa della Natura di Villa d’Ogna per la sua sesta edizione ha guardato a Sud e organizzato due giorni (il 26 e 27 settembre) di full immersion tra prodotti, cucina e spettacoli. A caratterizzare l’evento è l’attenzione che i promotori del C’entro parrocchiale Ogna mettono nel selezionare ospiti e proposte, per garantire una piena espressione delle tipicità. Il programma prevede in entrambe le giornate stand di artigiani pugliesi allestiti nel piccolo centro di Ogna e spettacoli di gruppi folcloristici. Nella serata di sabato aperitivo con tagliere di specialità pugliesi, un tributo ai cantautori e, naturalmente, i balli con pizzica e taranta, mentre la domenica c’è il sempre gettonato pranzo. Si serviranno Capocollo di Martina Franca (Presidio Slow Food), Friselline di Enea al pomodorino di Manduria e olio d’oliva extra vergine del Gargano, Spuma di burrata di Andria, Crostino con patè di olive. I primi piatti saranno Tiella barese e Orecchioni del Gargano alle cime di rapa, mentre per secondo ci sarà la Braciolina pugliese con crema di fave di Carpino (altro Presidio Slow Food) e pane di Altamura accompagnata da caponata di verdure. Per finire fichi d’India e pasticceria pugliesi, Moscato di Salento e caffè. Il costo è di 25 euro e non comprende i vini. Per far conoscere ancora meglio il territorio ospite viene infatti allestita una piccola enoteca dove rifornirsi di bottiglie selezionate dal sommelier della manifestazione. La manifestazione si conclude nel tardo pomeriggio con una “focacciata” a base di focaccia barese verace. I posti per il pranzo sono 150. Per informazioni e prenotazioni tel. 348 4372246
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luoghi storici e culturali. L’iniziativa è organizzata dall’Associazione degli esercenti Punto Amico e dal Comune in collaborazione con il Distretto del Commercio “La Porta della Valle Brembana” e con il supporto del Museo della Valle ed ha l’obiettivo di far conoscere i colori, i profumi e i sapori del territorio. Non a caso si svolge nei primi giorni d’autunno quando i boschi di castagno regalano un’atmosfera suggestiva. Il percorso, di circa sei chilometri, si snoda su strade comunali e alcuni
17 e 18 ottobre
Torna la sagra delle mele brembane
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l nuovo raccolto delle mele coltivate in Val Brembana si assaggia sabato 17 e domenica 18 ottobre a Piazza Brembana nell’ormai classica sagra dell’Associazione Frutticoltori che ha rilanciato la coltivazione coinvolgendo centinaia di soci in un’operazione che unisce recupero del territorio e creazione di opportunità per la montagna. Le due giornate propongono un mercatino di prodotti tipici locali e la possibilità di provare e comprare le diverse varietà di mela, ma anche numerosi appuntamenti, tra incontri di approfondimento sull’educazione al gusto e la nutrizione, quelli tecnici su innesto e potatura, assaggi di piatti a base di mela - dal risotto ai dolcetti -, il Laboratorio del gusto Slow Food “La Mela e i suoi formaggi” e un concorso di torte che vengono poi distribuite al pubblico. Si può anche partecipare al tour gastronomico “I sapori della Valle Brembana” che al costo di dieci euro permette di effettuare altrettante soste-degustazione tra gli stand dei produttori, passando tra i sei formaggi Principi delle Orobie, il vino bergamasco, i salumi, i formaggi caprini, il paruch, le torte, la birra artigianale, il miele e l’amaro.
Le principali varietà di mela coltivate dall’Associazione sono Golden, Gala, Red Delicious, Renetta e Topaz, identificate con un marchio ispirato ai colori della maschera di Arlecchino. www.sagramela.it
Crema, rassegna
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i chiama “imondidicarta” ed è una rassegna culturale cremasca che si snoda in cinque giorni di incontri. Un’insolita commistione di editoria, musica, teatro, psicologia, arte, spirito, legati dal filo conduttore del cibo, proposta in diversi spazi della città.
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FINO AL 1° NOVEMBRE
soste golose in quattro ristoranti sentieri. Sono previste quattro tappe, corrispondenti ad altrettanti punti di ristoro, dove gli chef dei ristoranti di Zogno aderenti propongono piatti della tradizione culinaria brembana appositamente selezionati per l’evento. Ad ogni tappa una portata innaffiata da vino della Bergamasca, in uno spazio appositamente allestito all’interno dei ristoranti per la sosta e la degustazione. La quota di partecipazione è di 25 euro per gli adulti, 15 per i ragazzi da 6 a 12 anni, gratuita per ogni bambino fino a 5 anni accompagnato da un adulto. L’iscrizione è obbligatoria, entro il 22 settembre. www.puntoamicozogno.com
La gastronomia camuna si mette in vetrina
dal 26 settembre FINO AL 18 OTTOBRE
Morbegno, 14 itinerari tra i vini
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e n’è davvero per tutti i gusti e gli interessi – enogastronomici, ma anche culturali e naturalistici – a “Morbegno in cantina” manifestazione che si svolge l’ultimo weekend di settembre (26 e 27) e i primi tre di ottobre e che vede protagonisti i prestigiosi vini valtellinesi accompagnati da prodotti tipici locali come formaggi, a cominciare dal Bitto, salumi, pane di segale e la tradizionale “bisciola”. Si può infatti scegliere tra ben nove itinerari - quattro nel centro storico di Morbegno e cinque sulla Costiera dei Cèch, teatro della famosa viticoltura eroica – che permettono di assaggiare vini e spe-
cialità muovendosi tra palazzi storici, cantine e terrazzamenti. Ogni itinerario, contrassegnato da un colore, ha programma e un costo differente, dai 40 euro del percorso “oro” a quelli da 15 euro. Per chi vuole un’esperienza enogastronomica e culturale più profonda sono invece pensati i cinque tour denominati Gustosando in cui si viene guidati tra i borghi e tra i piatti della memoria (i costi vanno da 30 a 36 euro, incluso il trasferimento con navetta). Ogni pass si può acquistare anche on line dopo di che, muniti del calice, si può partire per il proprio percorso. www.morbegnoincantina.it
DAL 7 ALL’11 OTTOBRE
culturale attorno al cibo La terza edizione è in programma dal 7 all’11 ottobre e può essere l’occasione per guardare al mondo del gusto da prospettive diverse, quella degli scrittori, degli studiosi, delle aziende, dei medici e oltre che, naturalmente dei professionisti della cucina. In programma ci sono showcooking con volti
della tv come Chiara Maci e il pasticciere Ernst Knam, Cristina Lunardini e Ambra Romani, degustazioni guidate e una cena. Si affrontano anche tematiche insolite come la preparazione del cibo per gli astronauti e la cucina a base di insetti. www.imondidicarta.it
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prodotti locali e la cucina diventano strumento di promozione e di conoscenza del territorio. In Valle Camonica ritornano “Le settimane della gastronomia camuna”. Per otto settimane, dal 5 settembre al 1° novembre, la rassegna promuove la ristorazione di qualità e le ricchezze culturali e naturali del territorio. L’iniziativa, giunta alla 14esima edizione, raccoglie 28 esercizi ed è promossa dal Gruppo Ristoratori Valle Camonica. Il programma è ricco e mixa diverse proposte: menù degustazione preparati con le migliori materie prime; serate dedicate a polenta, baccalà e altri prodotti tipici, in omaggio ad alimenti legati alla tradizione popolare, noti in tutto il mondo ma diffusissimi nelle zone alpine; cene a quattro mani che vedono la collaborazione e il confronto tra chef camuni e colleghi provenienti da altri territori, pronti a cimentarsi nell’interpretazione dei prodotti agroalimentari Valligiani; visite guidate nei luoghi dove trovano origine le materie prime che vengono somministrate nei ristoranti che partecipano alla rassegna, escursioni presso vigneti, alpeggi, caseifici locali. www.ristoratorivallecamonica.it
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Che bontà la Piadinpizza! Ingredienti per 1 persona 1 piadina al farro 1 zucchina passata di pomodoro emmental a cubetti mezza mozzarella pomodorini origano essiccato e olio a piacere
Preparazione Scaldate il forno a 160-180 gradi o posizionatelo nella funzione grill. Stendete qualche cucchiaio di salsa di pomodoro sulla piadina e sopra mettete le zucchine a pezzettini, i pomodori a fettine, la mozzarella e l’emmental tagliati a dadini. Insaporite con un filo di olio e un pizzico di origano essiccato e mettete la piadinpizza in forno già caldo fino a quando il formaggio non sarà fuso. Una volta pronta, tagliatela a listarelle o quadratini, mettetevi sul divano e rilassatevi; una cena così semplice nella preparazione, ma gustosa, non capita spesso.
CURIOSITà La Piadinpizza è stato il mio primo esperimento quando ho lasciato il tetto familiare e sono andato a vivere da solo in una casa in affitto. Sono ormai trascorsi più di 20 anni, ma questo piatto rimane un “evergreen” se si ha voglia di qualcosa di speciale e di veloce da preparare. E non rappresenta solo un modo per rimediare la cena dell’ultimo minuto: molte amiche che sono diventate mamme la utilizzano come merenda sostanziosa per i figli e io stesso ho provato a servirla tagliata a quadratini per il momento dell’aperitivo. Inutile dire che ha riscosso e continua a riscuotere pareri molto positivi. Il successo della ricetta è dato anche dalla sua versatilità, considerato che gli ingredienti si possono cambiare a proprio piacere senza farsi troppi scrupoli: e così al posto del formaggio emmental è possibile inserire il tonno e al posto delle zucchine, una miriade di altre verdure e così via. Io uso solo piadine biologiche al farro o al kamut perché le trovo più saporite e leggere, ma è una questione assolutamente soggettiva. Quando la preparo, non manca mai l’emmental, il formaggio a pasta dura con i buchi, che in realtà sono sacche di anidride carbonica che si formano naturalmente
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durante le fasi di maturazione. Dal sapore leggermente piccante e acidulo, si sposa molto bene con la maggior parte degli ingredienti; facile e senza troppi problemi la sua conservazione, che avviene in maniera ottimale in frigorifero ad una temperatura di circa 10°C. Certo la confezione deve essere ben sigillata perché, se esposto all’aria, è un formaggio che esicca rapidamente e tende a coprirsi di muffe. È preferibile allora consumarlo entro sette giorni dall’apertura della confezione. Le zucchine sono forse le verdure che preferisco: dal sapore delicato, sono ipocaloriche grazie alla presenza al loro interno di un’alta concentrazione di acqua (94%) e di una bassa percentuale di lipidi e proteine. Hanno però un difetto: sono facilmente deperibili. Infatti resistono, lavate ed asciugate, per massimo 4-5 giorni nello scomparto basso del frigorifero e bisogna sapere che più invecchiano, più perdono il loro sapore e le loro caratteristiche nutritive. Quando si acquistano, è fondamentale assicurarsi che siano sode al tatto e che la buccia sia tesa, lucida e brillante e priva di ammaccature. Io preferisco quelle piccole e sottili che, oltre ad essere molto saporite, contengono meno semi e vanno benissimo per la ricetta di questo mese.
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