in copertina: Sgancio di un carico di bombe in corrispondenza di Punta Anghistri (imboccatura della rada di Lakki) nel corso della Battaglia di Leros. Si riconoscono a sx le ostruzioni della rete antisom e a dx le istallazioni foranee dell'Arsenale di Sangiorgio con la banchina di rifornimento ed il bacino galleggiante
collezione
Sermonalia
Leros on fire! 1943-2023
ISBN: 978-618-575216-3 grafica - impaginazione: Enzo Terzi revisione: Vittoria Minniti
Questo volume è stato realizzato anche con il sostegno dell'Ambasciata d'Italia ad Atene
Bisogna guardarsi dall’errore che consiste nel giudicare epoche e luoghi lontani col metro che prevale nel qui e nell’oggi. (Primo Levi)
Un popolo che non rispetta il suo passato non ha avvenire. (parafrasando un noto aforisma di Indro Montanelli)
THis historical meeting is dedicated to the memory of dr Peter Shenk, a gentleman and the first historian to realize researches on Dodecanese islands, where he spent all his vacations during the last 30 years.
Ricorre il 26 settembre 2023 l’ottantesimo anniversario della Battaglia di Leros, che vede affrontarsi il contingente militare italiano di stanza nell’isola affiancato da truppe inglesi, intervenute nel Dodecaneso in seguito all’armistizio di Cassibile, e le forze tedesche mobilitate per l’Operazione Taifun nel quadro del mantenimento della supremazia nell’Egeo.
Dopo 53 giorni di bombardamenti pressoché ininterrotti, e quattro giorni di scontri sul terreno dopo lo sbarco tedesco, la battaglia si concluse con la capitolazione finale della piazzaforte il 16 novembre 1943 a seguito della resa del Gen. Tilney e conseguente ordine di cessate il fuoco da parte dell’Amm. Mascherpa.
I numerosi eventi della manifestazione, organizzata dall’AIAL per la commemorazione dell’anniversario, intendono rendere omaggio “Ai combattenti di ogni bandiera della battaglia di Lero con equanime rispetto. Alla gloria dei morti nell’adempimento del dovere”, per citare le parole dell’Amm. Virgilio Spigai nella dedica del suo libro.
La commemorazione acquista particolare valore nell’80° anniversario in quanto, nel sottolineare il sacrificio di tutti quanti presero parte agli eventi bellici o vi persero la vita nel segno di un ideale di Patria, unitamente alle traversie della popolazione civile che ne subì gli effetti finali, si ripropone di riscattare la memoria di quei giorni e sottrarla all’oblio.
Ma anche in quanto, a distanza di tanti anni, il distacco con cui si devono rivivere quegli eventi permette di rimettere in una prospettiva storica le vicissitudini del conflitto, superando le rivalità nazionali e l’intolleranza ideologica e accomunando nel ricordo i caduti di tutti gli schieramenti di allora.
Ass. AIAL, Leros
Indice
Convegno Storico
Le unità da combattimento della Regia Aeronautica a Lero, 1923 - 1943. Ascesa e declino degli idrovolanti in guerra. pag. 11
[Giacomo De Ponti]
THe Luftwaffe over the Aegean Sea, 1943 ................................................. pag. 34
[Hans Peter Eisenbach]
Presenza e attività dei carabinieri italiani nell’isola di Lero
occupata dai tedeschi pag. 41
[Luca Pignataro]
L’Idroscalo G. Rossetti di Lepida pag. 52 [Luciano Alberghini]
THe Destroyer Adrias pag. 62
[Κώστα Κογιόπουλος]
Unknown and Missing Allied Dead of the Battle of Leros pag. 73 [Tony Rogers]
Leros, mon amour pag. 78
[Andrea Trondola, Vittorio Spigai]
La battaglia di Leros sulla stampa qotidiana in Italia ............................................ pag. 129
[Enzo Terzi]
C'ero anch'io: ricordi d'epoca attraverso i posteri
Il nonno: il militare, l’uomo pag. 157
[Werther Cacciatori]
Malta, Leros, Lag: THe 4th Buffs Before and After the Aegean .............. pag. 163
[Nikolai Debono]
Μνήμες
[Αναστάσιος
pag. 180
Un marinaio sardo a Lero (1940-43) pag. 182
[Aldo Pusceddu]
Filippo Cerenzia: Lero, 1937-1940 pag. 187
[Υάγκος
]
Il Cannoniere Armarolo Adolfo Zappa e le vicende della
Batteria PL 211 di Monte Rachi pag. 193
[Alfredo Zappa]
Un marinaio a Scumbarda pag. 201
[Andrea Calandrelli]
Il Brigadiere (RRCC) Moscatelli a Lero, 1938 - 1943 .......................................... pag. 206
[Beppe Moscatelli]
«Η
pag. 211 [Δημήτρης
Convegno storico
Le unita’ da combattimento della Regia Aeronautica a Leros 1923 – 1943.
Ascesa e declino degli idrovolanti in guerra
Gen. D.A. (r) Giacomo De Ponti
[Gli stemmi del V Stormo Misto Egeo e del Comando di Aeronautica dell’Egeo]
The Italian Regia Aeronautica was established as independent service on March 28th 1923 and because of Italy’s position in the middle of the Mediterranean, sea air bases and seaplanes became essential assets of its combat power. Following eastward the then strategic national interests, there stood the Dodecanese, the islands that were annexed by Italy in 1923. Combined naval and air bases were established in strategic positions, Rhodes and Leros, to control all sea lines of communications from surface, underwater and air. Rhodos offered more suitable surfaces for land-based aircraft whereas Leros was selected as a sea air base for its well dimensioned and natural protected harbour in Portolago-Lakki. For two decades the Lepida harbour was home to fighter, reconnaissance and maritime bombardment seaplane units; the early “30s” combat unit based in Leros, the “5° Stormo Misto Egeo”, a composite maritime fighter and bombing Wing, was transformed in 1937 in a more complex “Comando Aeronautica dell’Egeo” with its HQ in Rhodes and operational units in both islands. This High Command eventually entered WW2 with the following units in Leros: 84th Squadron Long Range Maritime Recce with 147th and 185th Flights, later joined by 11th Rescue (Maritime) Detachment; 161st Fighter Flight. As war progressed, the
fast growing aeronautical technologies dictated the end of seaplanes, their performances and effectiveness in combat could not match those of faster and more heavily armed land based aircraft. Lack of resources and insufficiently reactive politics, air Commands and industries prevented Italy to develop enough land based modern aircraft to replace the seaplanes deployed to the Eastern Mediterranean theatre to sustain combat operations in this strategic region. The armistice betweeen Italy and the Allies of September 8th 1943 dramatically affected the conflict: Leros fell under British rule and soon thereafter the units in Leros faced the fierce German air assaults to the garrison. Leros was indeed protected against traditional naval threats but its defense lacked the “air power” and the associated provisions of effective modern fighter aircrafts and ground based air defence, hence, deprived of any truly capable asset to counter the attacks, all military capabilities in the island were annihilated by German airstrikes. The German dominance of the air allowed complete surface control, the inadequate air defense proved to be no threat in a modern warfare sustained by evolutionary strategies and technologies.
I fattori che governarono le scelte
Nella definizione dei suoi strumenti militari l’Italia fece, negli anni ’20 – ’40, scelte a volte obbligate a volte sconsiderate e incomprensibili. Fu obbligata nei primi anni del riassesto delle sue capacità militari dopo lo sforzo della 1^ G.M., a seguire le priorità dettate dalla ricostruzione nazionale e dal peso relativo avuto nel conflitto dalle forze di superficie a fronte di una “aeronautica” ancora inesistente come arma indipendente e prontamente misconosciuta appena terminato il conflitto. Successivamente alla sua costituzione il 23 marzo 1923, la Regia Aeronautica ebbe grande spinta di sviluppo nella volontà di alcuni illuminati aviatori che la fecero crescere con rango non inferiore alle armi sorelle, ma la geografia del Paese e i suoi interessi largamente marittimi, diedero un imprimatur inevitabile ai mezzi della nuova F.A.; circondata dal mare, con interessi di espansione in direzioni Mediterranee, con traffici prevalentemente marittimi, fu naturale rivolgersi agli idrovolanti come componente fondamentale delle forze da combattimento. La tecnologia e le modalità costruttive erano
relativamente semplici e economiche, inoltre un aeroporto su acqua, un idroscalo, ha costi di realizzazione decisamente inferiori a quelli di un aeroporto terrestre e, in più, può essere posizionato in punti strategici dove una pista a terra non è realizzabile, come è, nel caso nostro, l’isola di Leros.
Mentre l’Italia si arricchiva di reparti di idrovolanti impiegati in pressoché tutte le funzioni armate e non, comprese le linee civili che collegavano gli estremi dell’Impero, il mondo tecnologico aeronautico - anche di paesi a forte connotazione marittima, come l’Inghilterra - produceva aeroplani terrestri sempre più sofisticati e performanti, in grado di tradurre in realtà le teorie del potere aereo e della supremazia aerea, dottrine che nel giro di pochi anni altre nazioni dei due opposti schieramenti applicheranno con risultati determinanti. L’Italia afflitta dalla cronica penuria di risorse, dai conflitti tra industrie per la prevalenza delle commesse, dalla cecità strategica della “governance” politica e militare, dall’innata incapacità di trarre insegnamenti dalle esperienze, si avventurò nell’immane secondo conflitto mondiale, campo di applicazione di tecnologie e strategie rivoluzionarie, con otto milioni di baionette e otto milioni di cuori coraggiosi, ma con ali ancora di legno e di tela montate su scafi marini.
Ma quando le scelte obbligate, che a volte possono essere superate col tempo e con l’attenta osservazione degli ammaestramenti (oggi si direbbe con le “lessons identified and learned”) conducono a risultati negativi, come le disfatte militari, le strategie imposte devono essere modificate e se non lo si fa, allora il pegno da pagare diventa scontato, come nel caso nostro, con la perdita del Dodecaneso per inconsistenza del dispositivo aereo difensivo che vi fu realizzato.
Il quadro strategico di riferimento nel Dodecaneso
La rilevanza strategica del Dodecaneso per l’Italia fu un elemento storico incontrovertibile e non è certo necessario ripercorrerne in questo contesto gli elementi fondanti. Piuttosto ci si deve interrogare sui motivi per i quali all’importanza del luogo non sia corrisposta una corretta visione dei problemi difensivi che, con il passare del tempo e con il progredire delle tecnologie di offesa, si sarebbero venuti a creare. Ciò che era importante mantenere e preservare nei primi anni dell’annessione del possedimento, nei primi anni del
XX secolo, il controllo delle vie marittime di collegamento che già fu uno degli obiettivi della Repubblica di Venezia, divenne nei decenni successivi e fino al secondo conflitto una questione vitale per l’economia italiana. Le più veloci e sicure vie di accesso ai giacimenti petroliferi rumeni, di fondamentale importanza per l’Italia, passavano attraverso l’Egeo, dal Dodecaneso si potevano controllare i mercantili e le forze navali attraverso il canale di Suez, i traffici diretti ai giacimenti petroliferi medio orientali, ostacolando le strategie di movimento e di occupazione inglesi e, conquistandoli, arricchendo le risorse nazionali. Il Dodecaneso poteva poi fare sistema con i territori italiani nel Nord Africa e impedire i movimenti degli Alleati nel sud del teatro Mediterraneo, rendendo al contempo alle proprie forze la più completa e sicura libertà di movimento.
Invece ciò non accadde, le scelte furono solo dettate da una visione di “accontentamento” di uno “status quo” che corrispondeva ad un (più o meno) bilanciato assetto degli equilibri delle forze schierate nel Mediterraneo. Le flotte navali italiane, inglesi e francesi si osservavano senza dirette minacce, le quali in Italia erano avvertite sempre e comunque orientate alle basi navali che in ossequio ad una “grande strategia” nazionale, furono impiantate nel Mediterraneo Centro Orientale. Scarse le forze aeree specializzate nell’assicurare al Paese la capacità di contrastare tentativi di attacco dal cielo, l’aeroplano fu impiegato nel teatro marittimo principalmente come supporto alle operazioni navali, quindi sorveglianza, scoperta e anche attacco. Viste poi le strepitose conquiste aviatorie italiane degli anni ’20 e degli anni ’30, con i primati mondiali individuali e con le crociere di massa del Maresciallo dell’Aria Italo Balbo, sia nel Mediterraneo che negli Oceani del sud e del nord, tutti condotti con idrovolanti, quale tipo di velivolo poteva prevalere nella neonata Regia Aeronautica, fondata il 28 marzo 1923? Naturalmente gli idrovolanti che vennero concepiti come armi poliedriche, con uno spettro di impiego a tutto tondo: dalla ricognizione, al bombardamento, al siluramento fin persino alla caccia. Ma se il concetto di velivolo idrovolante poteva sostenersi negli anni ’20 e forse ancora nei primi anni ’30 perché il mondo militare era ancora “schiavo” dei retaggi e delle tecnologie del primo conflitto mondiale, queste certezze erano destinate a svanire, insieme alla reale efficacia dell’idrovolante come mezzo bellico, dall’incalzante corsa tecnologica che si
sviluppò negli anni ’30 proprio grazie alla “passione” internazionale per le gare aviatorie, gare che certamente furono condotte con idrovolanti, come ad es. la Coppa Schneider. L’Italia che dominò diverse di queste competizioni non fu però così avveduta come altri paesi nello sviluppare mezzi militari di concezione avanzata dagli idrovolanti da primato che venivano appositamente realizzati. Un esempio tra tanti: l’Inghilterra derivò dal suo idrovolante della Coppa Schneider quello che venne poi considerato uno degli aeroplani di maggior successo della 2^ G.M., lo Spitfire, un caccia terrestre che fu un vero e proprio fattore di potenza in tutti i cieli dove gli Alleati si confrontarono con le forze dell’Asse. Viceversa l’Italia non seppe sfruttare i successi dei suoi splendidi e performanti idrocorsa, e riuscì a derivare da un velocissimo idro monoplano con moderno motore in linea, l’MC.79 - idrocorsa che conquistò nel 1934 il record mondiale di velocità per idrovolanti, ancora oggi imbattuto, con 709 km/h - un caccia, il CR.42, biplano con motore stellare… Un biplano alle soglie della incombente guerra, strano ma non tanto nella psicologia dell’epoca, perché essendo il biplano più manovriero di un monoplano, avrebbe tenuta alta la fama nazionale nell’acrobazia aerea, forma di volo di abilità che costituiva un vanto storico della R.A.
È quindi evidente che il dispositivo militare dislocato nel Dodecaneso avesse solo una funzione difensiva delle isole, ma, dobbiamo aggiungere, orfano di qualsiasi capacità di controllare lo spazio aereo perché i caccia moderni che l’Italia riuscì a sviluppare, raggiunsero i reparti troppo tardi e in numeri irrisori per pesare nel conflitto che distrusse tutte le distorte illusioni belliche nazionali.
Guerra nel Mediterraneo – Una strategia (?) nazionale per il controllo delle linee di comunicazione
Il punto interrogativo nel titolo è d’obbligo nel riassumere quella che fu la linea di condotta italiana per la guerra nel Mediterraneo e lo si è usato per mettere in dubbio l’applicabilità di questo sostantivo, strategia, di solito associato a una condotta vincente, a quella che come si vedrà di seguito, fu una visione del tutto erronea dell’impiego dei fattori di potenza della nazione nel corso del confronto armato nel Mediterraneo.
Nella “Memoria segreta di Mussolini sulla condotta della guerra”, datata 31 marzo 1940, indirizzata al Capo di Stato Maggiore Generale e ai 3 Capi di Stato Maggiore delle Forze Armate, il Duce tracciava quelle che dovevano essere le linee operative della Forze Armate italiane nel probabile caso dell’entrata in guerra. Per quanto riguarda l’atteggiamento della Regia Marina, esso doveva essere offensivo su tutta la linea, nel Mediterraneo e fuori. Le disposizioni che invece riguardavano la Regia Aeronautica erano ben diverse: adeguare la sua attività a quelle dell’Esercito e della Marina, conducendo attività offensiva o difensiva in funzione delle circostanze e a seconda delle iniziative nemiche. Una visione a dir poco opaca e al di fuori di quanto la guerra di Spagna e la Blitzkrieg tedesca avevano già dimostrato sull’impiego corretto del potere aereo, anche se su scala ancora contenuta rispetto a quanto sapranno sviluppare gli Alleati nel corso del secondo conflitto. Mentre la Marina doveva portare l’offesa su tutti i mari, dentro e fuori il Mediterraneo, l’Aeronautica, essendo praticamente legata alle operazioni di Esercito e Marina, doveva misurare il suo atteggiamento sulle loro necessità, offensive o difensive che fossero; unica autonomia che le era consentita, adottare le azioni di contrasto più opportune in caso di iniziative nemiche. In definitiva, mentre il Capo di Stato Maggiore della Regia Marina doveva dare disposizioni d’attacco a tutti i Comandanti della flotta e ai Governatori dei possedimenti in A.S.I., in A.O.I., nel Dodecaneso e in Albania, il suo paritetico della Regia Aeronautica era costretto ad adottare un sistema operativo di collaborazione delle Forze Aeree che tenesse conto delle necessità difensive o offensive del Regio Esercito e della Regia Marina. Un grave errore strategico che nessuno contrastò e condusse al disastro nell’intero teatro Mediterraneo. La diversa, e alla fine vincente, visione del modo di operare nel teatro la offre una sintetica ma efficace valutazione da parte degli Alleati: “Il teatro del Mediterraneo e del Medio Oriente copre un'area di oltre 3 milioni di miglia quadrate. La sua geografia richiedeva una capace e complessa interazione tra forze terrestri, marittime e aeree. La parte in grado di conquistare e mantenere la superiorità aerea e condurre nel modo più efficace operazioni combinate all'interno del teatro, basate su solide strategie politiche e militari, avrebbe avuto il maggior vantaggio.”
Le esitazioni dell’Inghilterra nel Teatro Mediterraneo. Un vantaggio “svantaggioso”.
Forza, astuzia e conoscenza dell’avversario sono fattori indispensabili per prevalere sul nemico (Sun Tzu, L’arte della guerra, VI sec. a.c.), ma se non si è in grado di trarre vantaggio dalle sue indecisioni e dagli errori, allora la sorte ti si rivolge contro e il risultato è inevitabilmente la sconfitta. E questa massima vecchia di secoli ha puntualmente reclamato la sua verità anche nel caso in esame.
L’Inghilterra non stava inizialmente meglio dell’Italia nei riguardi delle scelte sull’impiego del potere aereo nel Mediterraneo. Quando l'Italia dichiarò guerra agli Alleati, si gravò di un pesante fardello, a lungo rivelatosi insostenibile, per il rifornimento dei vari teatri di guerra di uomini e materiale (come carburante, veicoli, munizioni e vettovagliamento); si rendeva necessaria una rete di approvvigionamento marittimo più ampia nel teatro Mediterraneo di quella controllata negli anni anteguerra. Le operazioni in Albania e successivamente in Grecia furono rifornite attraverso il Mare Adriatico, mentre i territori nelle isole del Dodecaneso richiedevano rifornimenti nell'Egeo. L'Egeo era anche la fondamentale via di passaggio del traffico di petroliere che portavano petrolio in Italia dai giacimenti di Ploiesti in Romania. Anche territori come la Sardegna, la Corsica e Lampedusa erano sostenuti dall'approvvigionamento marittimo e infine la navigazione costiera percorreva le rotte lungo le varie coste del Nord Africa, dell'Italia, della Francia e dei Balcani.
La campagna di interdizione iniziata dagli inglesi contro questa vitale rete di approvvigionamento, al fine di degradare la capacità di combattimento delle forze italiane, si concentrò nel Nord Africa, che divenne l'obiettivo principale. Solo successivamente la campagna è stata ampliata per supportare la preparazione delle invasioni dei territori dell'Asse come Pantelleria, Sicilia, Italia e le isole del Dodecaneso.
La potenza aerea doveva diventare una componente chiave nella campagna di interdizione delle vie di comunicazione nel Mediterraneo, ma la componente aerea britannica nel teatro Mediterraneo era in una situazione disastrosa nel 1940. Gli sforzi iniziali furono pochi e spesso fallimentari dato che La Royal Air Force (RAF) disponeva di un contenuto numero di tipi di aeromobili efficaci per quel tipo di operazioni. La bassa priorità delle operazioni di contrasto marittimo nel Mediterraneo negli anni tra le due guerre significava anche che mancava una
dottrina tattica efficace per l’interdizione aerea di mezzi navali. Nel frattempo, la Fleet Air Arm (l’Aviazione della Marina) aveva capacità e mezzi, ma semplicemente ne mancavano i numeri per avere effetti determinanti. Tuttavia, dopo che l’Inghilterra riconobbe una maggiore priorità alle operazioni di interdizione ai traffici navali, le forze aeree ebbero velivoli adeguati e in quantità da sostenere la capacità di operare in condizioni di superiorità. Dalla fine del 1942 in poi, la potenza aerea fu il contributo più importante all’efficacia della campagna. Quello che dai ritardi decisionali inglesi poteva derivare come un vantaggio a favore dell’Italia, nelle scelte strategiche riguardanti la condotta delle operazioni nel Mediterraneo e, per quanto di nostro interesse, nell’Egeo e a Leros, non servì all’alta dirigenza politica e militare nazionale per elaborare concetti di impiego congiunto delle forze (oggi si dice interforze) e far affluire nel teatro velivoli ben più moderni delle modeste dotazioni di idrovolanti, velivoli già superati all’inizio del conflitto e che mai avrebbero potuto confrontarsi con la guerra che già si era annunciata come una gara alle tecnologie più avanzate e innovative.
Il ruolo del potere aereo nella guerra nel Mediterraneo Negli anni del consolidamento del teatro dell’Egeo, tra i vari di interesse dell’Italia, il quadriennio dal ‘36 al ‘39 è caratterizzato dalle guerre di Etiopia e di Spagna che di fatto applicano quanto sul piano dottrinale si era andato consolidando nei due decenni precedenti sul “potere aereo”, caratterizzato dalle due scuole di pensiero divenute predominanti in tutto lo scenario mondiale (degli italiani Douhet e Mecozzi). Le due differenti idee, che molto sommariamente possono essere sintetizzate come il “bombardamento contro città” (Douhet) in contrapposizione al “bombardamento contro forze” (Mecozzi), formano la base dottrinale che conferirà quel ruolo assolutamente determinate che il potere aereo assumerà durante il secondo conflitto mondiale, dove esse non sono più in antitesi tra loro, bensì complementari, ossia l’una e l’altra insieme. Ma se per un verso le due citate guerre aggiungono poco ai convincimenti dottrinali maturati in precedenza, esse consentono invece di sperimentare nuovi mezzi e materiali, ben diversi da quelli che equipaggiavano i reparti durante il primo conflitto mondiale. Dottrina e tecnologia si stimolano
reciprocamente tanto che spesso diventa difficile dire quale delle due ha il sopravvento o meglio quale delle due guida il processo di evoluzione. Douhet e Mecozzi credono entrambi nel futuro del potere aereo, il primo sostenendone le peculiarità e le capacità sul piano strategico, il secondo su quello tattico. Di fatto l’impiego sul campo di battaglia fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale ha largamente dimostrato la valenza del mezzo aereo sul piano tattico, mentre ha solo lasciato intravedere o immaginare le sue potenzialità su quello strategico. Il salto di qualità avviene proprio con la Seconda Guerra Mondiale, conflitto questo caratterizzato per la prima volta dall’industrializzazione della guerra.
Nel periodo prebellico i Paesi più industrializzati avevano seguito approcci diversi nel costruire ed equipaggiare le rispettive forze aeree. I Paesi più vicini all’idea di Douhet, convinti della natura strategica del mezzo aereo, avevano costituito forze aeree indipendenti, come nel caso della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, e avevano puntato sui bombardieri, velivoli questi che per colpire il nemico in profondità dovevano essere dotati di grande autonomia di volo; la Germania aveva assimilato la strategia ma ne aveva affidato l’esecuzione a velivoli di caratteristiche più “tattiche”, ma come si è visto negli attacchi a Leros, altrettanto efficaci e micidiali. Altri Paesi, tra i quali l’Italia, pur riconoscendo la validità dei bombardieri, non avevano posto elevata priorità su questi assetti e si erano maggiormente concentrati sui velivoli tattici. In queste nazioni l’aereo veniva visto prevalentemente come un’arma utile ad allungare il raggio d’azione dell’esercito e della marina. L’Italia, artefice della dottrina del dominio dell’aria, come si è visto diede ampia prova di questa dipendenza dell’arma aerea dalle altre due armi di superficie: i suoi velivoli furono concepiti e costruiti con ostinata, non lungimirante, propensione al supporto alle operazioni di superficie. In rarissime occasioni si sono viste operazioni di “pura” aviazione, dirette contro il potere aereo avversario, quindi le caratteristiche e le tipologie (un numero esorbitante per le limitate risorse e capacità industriali del Paese) degli aeroplani della Regia Aeronautica riflettevano questa impostazione.
Dal punto di vista degli Alleati, invece, il Teatro Mediterraneo è stato un laboratorio di apprendimento di fondamentale importanza (sebbene non decisivo) e uno dei grandi luoghi di sconfitta dello
sforzo bellico dell'Asse. Insieme a una serie di disastrose scelte di strategie politica e militare - e degli associati, conseguenti, fallimenti - da parte delle Potenze dell'Asse, la concezione e la condotta della guerra aerea emergono come aspetti di vitale importanza della sconfitta dell'Asse.
L’impiego combinato delle proprie Forze Armate da parte degli Alleati, compreso un uso molto efficace delle risorse aeree in collaborazione con le potenze terrestre e marittima, si è rivelato centrale per le vittoriose operazioni alleate e per la prevenzione di disastri strategici nel teatro Mediterraneo composto prevalentemente di deserto e mare, due ambienti in cui il potere aereo si è dimostrato particolarmente efficace. La capacità di operare in sinergia di forze ha cambiato le sorti della guerra nel teatro a favore degli Alleati e ha negato all'Asse una serie di realizzazioni strategicamente vitali che erano alla loro portata.
I benefici strategici positivi - in termini di negazione di qualcosa di vitale per l'impero britannico e per il più ampio sforzo bellico alleato - che le potenze dell'Asse potrebbero avere derivato dal loro controllo del teatro Mediterraneo, sarebbero stati sostanziali e avrebbero cambiato il corso e la durata della guerra. Per quanto attiene in particolare a uno degli obiettivi più rilevanti per le forze dell’Egeo, catturare i giacimenti petroliferi britannici in Iraq e Iran sarebbe stato un danno irreparabile agli sforzi dell'Impero in Medio ed Estremo Oriente.
Rapida ascesa e ancor più rapido declino dell’idrovolante
Per quante giustificazioni possano trovarsi per avvalorare l’ascesa degli idrovolanti negli anni ’20 e ’30, non si potrà che constatare e condividere il complesso di fattori che portarono inesorabilmente al declino di questo mezzo che pur si dimostrò versatile nell’uso e anche economico nella progettazione e realizzazione, ma che fu rapidamente superato dai tempi, dalle strategie e dalle tecnologie nell’impiego bellico.
Leros fu base navale primaria sin dai primi anni ’20, una determinazione del Parlamento del Regno registra, il 9 dicembre 1924 che: “…È necessario sviluppare l’importantissima base idoaviatoria di Leros…”; nel 1927 Italo Balbo, Sottosegretario di Stato per l’Aeronautica, conduce una crociera nel Mediterraneo con il suo idrovolante S.55M per ispezionare le basi aviatorie e i reparti dipendenti del Regno d’Italia, nel corso della quale visita le basi di Leros e Rodi per sottolineare il significato del Dodecaneso quale base operativa di reparti di idrovolanti.
Evoluzione tecnologica della guerra aerea
La guerra aerea, cosi come si era manifestata fra gli anni 1939/1943, aveva espresso costantemente un miglioramento qualitativo dell’aeroplano, inteso come macchina volante e come arma offensiva, miglioramento che si era tradotto:
- nel concepimento progettuale di aerei che racchiudessero tutte le esperienze di guerra raccolte sino a quel momento; - nel miglioramento di macchine già esistenti perfezionate in uno standard qualitativo ottimale cosi come i canoni della moderna guerra aerea richiedevano ed esigevano pena la decadenza tecnologica e l'handicap operativo.
Fu una gara condotta con ritmo assillante incentrata sullo slogan del «far presto e bene», che impegnò tutti gli stati belligeranti, mobilitando i migliori cervelli, ogni risorsa scientifica e industriale, ogni più avanzato congegno tecnico e bellico atto a prevalere sull’avversario, ogni più sofisticato ritrovato tecnico elaborato e tradotto in prodotto di alta tecnologia sotto l’aspetto progettuale, costruttivo, d’impiego. I migliori risultati furono ottenuti ovviamente dai paesi più sviluppati scientificamente e industrialmente: Stati Uniti, Germania, Inghilterra furono le nazioni che imposero le direttive nell’evoluzione tecnologica della guerra aerea, sia pure in forme contrapposte, offensiva gli USA e la Gran Bretagna, difensiva la Germania. La “corsa” alla migliore strategia di bombardamento portò con sé la ricerca di sempre più sofisticati caccia da superiorità aerea. Con i nuovi e “avvenieristici” caccia introdotti massicciamente dagli USA nel teatro Europeo
e Mediterraneo, come i P.38 Lightning, P.47 Thunderbolt, P.51 Mustang, dotati di motori di elevata potenza (da 1.475 a 2.000 HP) e poderoso armamento (da 6 armi da 13 mm. a un cannone da 20 + 4 mitragliatrici Browning e sino ad 8 mitragliatrici da 0,50 cal.) nasceva il nuovo caccia offensivo, non più creato, come fatto e concepito sino a quel momento, per la difesa, l'intercettazione, la scorta a breve distanza come potevano manifestare «Spitfire», Bf.109 e Macchi C.202, ma in grado di accompagnare e scortare i bombardieri strategici e nel contempo svolgere durante la missione, azioni offensive basate sulla superiorità aerea che possedevano: potenza elevata, maggiore velocità, superiore armamento, eccezionale tangenza, notevole capacita manovriera anche alle alte quote.
Le innovazioni tecnologiche e dottrinarie nell’aviazione italiana furono di contro molto modeste anche se progettualmente previste nel ristretto limite visuale di un avvertito rinnovamento, non realizzato per mancata lungimiranza e ristretta interpretazione operativa risalente all’anteguerra e per l’ormai incolmabile handicap tecnico-scientifico che si era venuto fatalmente a creare dopo lunghi anni di inattività progettuale in fatto di velivoli-motori, rimasta circoscritta sfortunatamente anche come armamenti, nei consueti schermi dottrinari e tradizionali della filosofia aeronautica italiana ormai superata. Non erano stati realizzati nuovi progetti di bombardieri se non per estrapolazione di precedenti modelli, alcuni dei quali ormai decisamente obsoleti come concezione, struttura, capacità d'interpretazione. L’aviazione italiana da bombardamento che rappresentava all’inizio del conflitto la base portante e il punto di forza della politica aeronautica italiana, risultava quasi inesistente alla vigilia dell’armistizio, priva di effettiva rilevanza e ridotta a poche decine di superati trimotori. Se il settore progettuale per il bombardamento denunciava una preoccupante carenza rinnovativa, la situazione per quello della caccia non poteva dirsi migliore. Una palese riprova della discontinua e contrastante visione progettuale nel settore della caccia italiana, ricca di taluni positivi risultati contrapposti ad altrettanti numerosi fallimenti, era stata avvertita ed accertata anche quando le preziose ma dolorose esperienze di tre lunghi anni di guerra, avrebbero già dovuto creare, da tempo, sufficiente chiarezza in materia di costruzioni aeronautiche, illuminando tutti, indistintamente, sulle necessarie potenze motrici da installare, sulla struttura della cellula, sull’armamento
occorrente, sulla sicurezza della macchina e soprattutto sulla salvaguardia fisica del pilota. Ebbene, quando tutti i maggiori e minori progettisti aeronautici del mondo progettavano e realizzavano caccia da combattimento con peso superiore alle 4/7 tonnellate, motori dell’ordine dei 2.000 HP, velivoli corazzati con blindature, poderoso armamento con cannoni di calibro superiore ai 20 mm., velocità oltre 700 km/h, tangenze di 13.000/14.000 m. e autonomie di volo fra i 1.400/1.800 km., all’industria italiane era concesso di fare esattamente il contrario di questa visione progettuale costruendo in una utopistica visione autarchica velivoli idrovolanti come i CZ.501 e 506, quest’ultimo persino nel ruolo di bombardiere marittimo, aeroplani da caccia ancora del tipo biplano come il CR.42 e monoplani come i Macchi MC.200 e i Fiat G.50, velivoli questi ultimi ancora con l’incomprensibile formula dell’abitacolo aperto, tutti con fattore comune le caratteristiche di avere motori di scarsa potenza e armamento del tutto inadeguato al ruolo.
Per quanto riguarda quindi la Ricognizione Marittima, predominante “dominio” aeronautico di Leros, si era venuta a trovare in un progressivo declino operativo nel Mediterraneo fino a non registrare, nel corso del 1943, sostanziali novità sia nel campo del materiale di volo impiegato, sia nei metodi. Le modeste assegnazioni di personale di volo, le altrettanto modeste caratteristiche e quantità degli idrovolanti a disposizione erano considerate sufficienti per le necessità dell’Aviazione Ausiliaria per la Marina - una delle componenti della Regia Aeronautica dal 1925 al 1943 - la cui politica aeronautica, venuta meno per l’evoluzione negativa del conflitto, si stava indirizzando cautamente nella costituzione di squadriglie di protezione navale (3 esistenti nel ‘43 dislocate fra Taranto e La Spezia) dotate di una componente mista idro-terrestre comprendente Ro.43, Ro.44, G.50, CR.42; e infatti questi erano i velivoli che, insieme ai bombardieri S.79 e CZ.1007, definivano la modesta (a fronte delle forze opponenti con cui dovevano confrontarsi) e multiforme componente aerea schierata a Rodi sino alla data dell’armistizio.
Le unità da combattimento della Regia Aeronautica a Leros – L’inevitabile fine dell’idrovolante come mezzo bellico
Dal 1927 la baia di Lepida a Leros diventa la base del primo reparto della R.A. schierato nell’Egeo; è il primo dei reparti dell’Aviazione Ausiliaria per la Regia Marina che nel tempo verranno destinati a Leros e Rodi.
Si tratta, naturalmente, di un reparto di idrovolanti, la 185^ Squadriglia Ricognizione Marittima, equipaggiata con gli idro a scafo centrale, biplani, monomotori S.16, prima e poi S.59bis. Si tratta di aeromobili che nel 1927 rappresentano lo stato dell’arte, due anni prima Leros era stata testimone e tappa fondamentale del passaggio, nei voli di andata e rientro, dell’S.16ter con il quale Francesco De Pinedo aveva condotto, con grande risonanza mondiale, il volo record di 55.000 Km Italia – Australia – Giappone.
Leros cresceva di importanza marittima e nel 1932 finalmente si verifica un importante incremento della sua dotazione aerea: a Leros viene costituito lo “Stormo Misto Egeo (V)” (5° Stormo Misto Egeo) le cui componenti operative sono:
- il 92° gruppo Bombardamento marittimo, su due Squadriglie, 200^ su idro S.55M e 201^ inizialmente su idro Dornier J “Wal” e poi su S.55M entrambe basate a Leros;
- la 185° Sq. RM su idro S.59 e successivamente sui meglio armati idro S.78, basata a Leros;
- la 161^ Sq. Caccia Marittima - prima comparsa di velivoli, pur se ancora idrovolanti, non ricognitori o bombardieri - su idro CR.20 bis, basata a Leros;
- dal 1936 la 163^ Sq. caccia Terrestre su CR.1 Asso, un caccia biplano primo dei successivi sviluppi CR.32 e CR.42 sempre su modello biplano, basata a Rodi Maritza - finalmente la componente da superiorità aerea fa la sua comparsa nel Dodecaneso, ma già dalla Guerra di Spagna emergevano aeromobili monoplani terrestri, veloci e fortemente armati, che di lì a pochi anni avrebbero dominato i cieli di guerra, come ad es. il tedesco Messerschmitt Me.109.
Ma, come annotazione sulla diffusione degli idrovolanti nel teatro Egeo, dobbiamo ricordare che insieme alla Regia Aeronautica anche l’aviazione commerciale sfruttò le capacità di trasporto offerte dagli
idrovolanti, pur se contenute dalle minori dimensioni tecnicamente raggiungibili da un idro rispetto ad un velivolo terrestre, e dagli anni ’30 aerolinee civili aprirono rotte dall’Italia al Mediterraneo Orientale, facendo scalo a Rodi:
- la S.A. Aeroespresso Italiana, dal 1930 con idrovolanti a scafo Dornier “Wal”, versione civile dei velivoli della 201^ Sq. Bombardamento di Leros, volava nelle rotte Brindisi – Atene – Rodi e Brindisi – Atene – Istanbul; - nel 1937 subentrò nelle rotte Mediterranee l’Ala Littoria che con i nuovi idrovolanti Cant Z.506C, facendo scalo a Rodi (due dei suoi CZ.506 avevano indentificativi I-RODI e I-LERO); questi idrovolanti, con lo scoppio del conflitto e la creazione delle Sezioni Soccorso, prima, e successivamente delle Squadriglie di Soccorso aereo, vennero inquadrati in questi reparti della R.A. come CZ.506 C/S e non è da escludere che gli stessi I-RODI e I-LERO ritornarono a servire a Rodi e Leros come velivoli da soccorso. La versione civile destinata al Soccorso del CZ.506, appunto “C”, differiva da quella militare da ricognizione e bombardamento marittimo, il CZ.506 “B”, per la fusoliera molto affusolata in quanto non possedeva la gobba ventrale del vano bombe, e per l’abitacolo piloti che aveva due posti affiancati mentre il ”B” li aveva in tandem; naturalmente il “C” non aveva alcun armamento difensivo ed era verniciato di bianco con vistose croci rosse sulle ali e sulla fusoliera.
Le vicende della base di Leros scorrono senza particolari emozioni sino al 1937, interrotte nel 1934 dal volo record di Mario Stoppani, anch’esso condotto su un idrovolante, il Cant Z.501 che pochi anni dopo vedremo tornare a Leros come protagonista bellico nello schieramento della R.A.
Mario Stoppani, "Asso" nella prima guerra mondiale, nel dopoguerra era stato assunto ai Cantieri Riuniti dell’Adriatico (CRDA) di Monfalcone, dove collaborava strettamente con l’ingegnere Filippo Zappata, progettista di numerosi modelli di idrovolanti e velivoli terrestri. Il 18 ottobre 1934 Stoppani, con Corrado altro pilota e Suriano radiotelegrafista, batte il record mondiale di distanza senza scalo per idrovolanti, volando da Monfalcone a Massaua sul prototipo di Cant
Z.501 con marche I-AGIL. Conquistato il record, il volo di ritorno è di promozione del velivolo e Stoppani fa scalo a Leros come base di partenza per successive destinazioni nel Mar Nero e nel Mediterraneo Orientale. Negli anni successivi Stoppani conquisterà altri record mondiali su idro Cant Z.501 e 506.
Soffermiamoci qualche secondo a conoscere questo nuovo idro che compare nei cieli di Leros e che fu il protagonista, negli anni anteguerra e durante l’intero conflitto, delle dotazioni dei Gruppi e Squadriglie della Ricognizione Marittima Lontana, una delle componenti dell’Aviazione Ausiliaria per la Regia Marina. Il Cant Z.501 “Gabbiano”, fu usato dall’Aeronautica italiana a partire dal 1934 con compiti di ricognizione, salvataggio in mare e bombardamento. L’idrovolante, il cui equipaggio era costituito da 4/5 uomini, era un monomotore a scafo centrale, monoplano ad ala alta, di 14 m. di lunghezza, 4,40 di altezza e 22 m. di apertura alare. Il velivolo poteva raggiungere la velocità massima di 276 Km orari, aveva un’autonomia di 2400 Km., era dotato, nella versione definitiva, di due postazioni per mitragliatrici, una nella parte superiore della gondola del motore e una nella parte posteriore della fusoliera dietro la cabina di pilotaggio; per il bombardamento poteva trasportare fino a quattro bombe di 160 Kg. Nel dopoguerra fu utilizzato fino al 1950, anno in cui fu dismesso.
Il volo record di Stoppani lo lanciò nel mondo aeronautico dove si affermò per diversi degli anni anteguerra, ma la sua formula e la tecnologia che lo aveva costruito rimasero ferme nel tempo, nulla fu fatto per cambiare formule costruttive e assicurargli migliori caratteristiche di combattività e sopravvivenza - ad esempio, anche i tedeschi avevano idrovolanti per la sorveglianza marittima e il soccorso, come il Dornier DO.24 che, tra l’altro operò anche da Leros, ma erano velivoli dotati di ben tre motori con le conseguenti capacità di carico e armamento difensivo, per non parlare delle prestazioni. Basti pensare, come attestato di capacità bellica complessiva del Cant Z.501, che gli equipaggi lo soprannominarono “Mammaiuto” per le sue scarsissime possibilità di sopravvivenza in caso di attacco nemico a causa della bassa velocità, maneggevolezza e scarso armamento difensivo; solo il coraggio e l’abilità degli equipaggi permisero in alcuni casi di “cavarsela”, adottando modalità di volo, le cd. “manovre evasive”, che impedivano o ostacolavano il successo dell’attacco avversario.
Il 1937 vede quindi importanti eventi “aeronautici” maturare nel Dodecaneso e a Leros di conseguenza. A seguito del consolidarsi dell’importanza del teatro e dei “venti di guerra” che si delineano all’orizzonte, si assiste al potenziamento del dispositivo aereo che passa dalle dimensioni di uno Stormo a quelle ben più cospicue di un Comando di zona: il 1° aprile 1937 viene costituito il “Comando di Aeronautica dell’Egeo” con sede a Rodi e aeroporti sulle isole di Rodi e Leros. Il rango di questo Comando è quello di un Comando di Zona Aerea come quelli del territorio metropolitano ed è indubbio annotare che la decisione di schierare forze ben più rilevanti del precedente V Stormo Misto Egeo, fu un tentativo della R.A. di assumere una posizione di maggior peso della divisione dei poteri che governavano “militarmente” il Dodecaneso, cosa che non accadde perché come si vedrà e purtroppo se ne subiranno le conseguenze, la visione strategica rimase quella della difesa delle installazioni marittime locali, con puntate offensive aeronavali contro obiettivi commerciali, sia a terra che su mare. Leros era e rimase sino alla fine, secondo la dicitura ufficiale del periodo: “zona di prevalente interesse marittimo”.
Il nuovo Comando ebbe a disposizione nuovi reparti di volo su Leros e su Rodi – Maritza e progressivamente sugli altri aeroporti terrestri che venivano realizzati a Rodi (Gadurrà, Cattavia). Il complesso di forze aeree comprendeva reparti da bombardamento e caccia su velivoli terrestri a Rodi, mentre la vocazione marittima di Leros la rese sede di reparti equipaggiati sempre con idrovolanti:
- 84° Gruppo Ricognizione Marittima, organizzato sulla 185^ Sq. RM equipaggiata sui “nuovi” CZ.501 e sulla VI Sez. RM - che allo scoppio del conflitto verrà sostituita dalla Sezione Soccorso –equipaggiata con pochi CZ.506;
- 161^ Sq. Caccia Marittima, equipaggiata con gli idro a scarponi, biplani monomotori CR.20 bis.
Prendiamoci ora il giusto tempo per vedere l’altro nuovo idro che affiancò il CZ.501 nei reparti della RM e Soccorso, il Cant Z.506 Airone. Era un idrovolante a doppio galleggiante trimotore ad ala bassa, multiruolo, prodotto dalla Cantieri Riuniti dell'Adriatico, Cantiere Navale Triestino (C.R.D.A. CANT) dalla metà degli anni trenta.
Inizialmente progettato come aereo civile, venne utilizzato come idrovolante postale e da trasporto, e - durante la seconda guerra mondiale - come bombardiere, ricognitore e mezzo da soccorso, dalla Regia Aeronautica, Aeronautica Cobelligerante Italiana, Aeronautica Nazionale Repubblicana e dalla Luftwaffe. La versione militare si rivelò uno dei migliori idrovolanti mai costruiti in Italia e, nonostante avesse la struttura in legno, era in grado di operare anche in condizioni atmosferiche e marine proibitive. Aveva una velocità massima di 370 Km/h, una autonomia di 2300 Km ed era armato con tre mitragliatrici difensive, due dal calibro di 7,7 mm e una da 12,7 mm. Era insomma decisamente più avanzato del CZ.501, ma pur sempre un idrovolante che si troverà sovente a confrontarsi, con purtroppo mortali esiti, nel Mediterraneo con i veloci e potentemente armati caccia inglesi Bristol Beaufighter o Blenheim e gli Hawker Hurricane. A volte neanche le vistose croci rosse sulle ali e in fusoliera della versione da Soccorso li potevano salvare dall’agguerrita e talvolta noncurante caccia inglese, come accadde al CZ.506C (ex Ala Littoria marche I-POLA) che fu abbattuto al largo di Malta, mentre portava soccorso a un altro CZ.506 anch’esso abbattuto in mare, da un Hurricane il cui pilota riportò:
Abbattei un Cant Z.506 vicino alla Sicilia, che aveva croci rosse sulle sue ali, ed era apparentemente un aereo-soccorso. Il mio Squadron
Leader disapprovò, ma l'ufficiale AOC mi diede ragione. Io non vidi le croci rosse sulle ali e non so se - in caso le avessi viste - questo avrebbe fatto qualche differenza.
Sulla valenza militare del caccia CR.20 idro in uso a Leros dal 1937 al 1940 non serve dilungarsi in dettagli tecnici per trovarne giustificativi, basta ricordare la velocità, 240 Km/h e l’armamento, due mitragliatrici da 7,7 mm, per qualificarlo come un inefficace esempio di arma posto di fronte a qualsiasi velivolo da caccia avversario di quegli anni. E per quanto riguarda il nostro esame della componente aerea del Comando Aeronautica Egeo basato a Leros e della sua effettiva efficacia bellica, basta analizzare lo schieramento alla data di inizio delle ostilità, il 10 giugno 1940:
- l’84° Gruppo RML, già organizzato sulla 185° Sq. (CZ.501) viene incrementato della 147° Sq. (CZ.501 e CZ.506) sempre della
RML (una Squadriglia storica che attraverserà la guerra e gli anni della rinascita per rimanere in vita sino a oggi nella specialità SAR in seno all’83° Gruppo del 15° Stormo dell’AM);
- una Sezione Soccorso, che dal maggio 1943 diventerà 11^ Sez. Soccorso inserita nella 147^ Sq. RML, armata su CZ.506C/S e B/S; - la 161^ Sq. Caccia Marittima che dagli idro CR.20 bis è riequipaggiata sugli idro Ro.43/44, velivoli idonei alla ricognizione, erano anche imbarcati sulle navi della R.M. appunto con compiti di ricognizione avanzata, ma la cui efficacia come velivolo da caccia e superiorità aerea era già in principio pressoché inesistente.
La vera “potenza aerea” del Comando Aeronautica Egeo era schierata negli aeroporti di Rodi, dove prevaleva - a parte l’idroscalo di Mandracchio dove si alternavano a turno sezioni degli idro di Lerosla componente di velivoli terrestri. Senza scendere in un dettaglio che non appartiene a questo intervento concentrato sugli idro di Leros, per la durata del conflitto a Rodi vennero schierati velivoli di prim’ordine della RA, ma prevalentemente nel ruolo di attacco che venne sempre rivolto a obiettivi navali e terrestri con esclusione di obiettivi di contraviazione, che avrebbero fiaccato le componenti del potere aereo avversario.
Privi di qualsiasi capacità offensiva e, riconosciamolo pure, difensiva, gli idrovolanti di Leros condussero la loro solitaria e silenziosa guerra nel Mediterraneo Orientale, partecipando anche a grandi scontri navali, come le battaglie tra Regia Marina e Royal Navy di Punta Stilo nel luglio 1940 e di Capo Matapan nel marzo 1941. Mentre il dispositivo aero offensivo di Rodi si modifica e si plasma a seconda degli eventi navali che occorrono nel Mediterraneo, con alternanze di velivoli bombardieri, siluranti, da ricognizione strategica a lungo raggio, poco o nulla accade di rilevante nella componente da caccia per l’effettivo controllo del cielo del Dodecaneso, la - inutile - squadriglia caccia su biplani idrovolanti Ro.43/44 di Leros viene trasferita a Rodi e trasformata in caccia terrestre, dove la specialità si “difende” sempre con i superati CR.42 e G.50 bis e bisogna attendere il tardo 1943 per vedere a Rodi pochi e ormai ininfluenti esemplari dei “nuovi” caccia italiani MC.202, velivoli di classe superiore ai precedenti, ma ormai a loro volta superati anche tra i caccia disponibili negli inventari della R.A. (ad es. MC.205, G.55)
Persa l’Africa Settentrionale e l’Africa Orientale, caduto il regime fascista e con gli Alleati ormai alle porte dell’Italia, l’attenzione strategica si concentrò sulla difesa del territorio metropolitano e alle soglie dell’armistizio dell’8 settembre 1943, con le conseguenti indecisioni sulla continuazione della guerra, la forza della R.A. nel Dodecaneso venne significativamente ridotta e quella specifica di Leros era ormai una presenza in grado di assicurare una capacità operativa simbolica. Rimanevano a Leros solo pochi CZ.501 e CZ. 506 della 147^ Sq. RML.
Poi giunsero l’8 settembre e di lì a poco i drammatici eventi che ne conseguirono e che determinarono, nell’Egeo, l’annientamento delle forze italiane.
Per avere un’idea della complessità e della grandezza dei fenomeni che accaddero in quei concitati mesi che seguirono l’8 settembre, basti pensare che nelle sole isole dell’Egeo, stazionavano almeno 70.000 uomini del Regio Esercito, 10.000 circa della Regia Marina e 3.000 uomini della Regia Aeronautica a fronte di una presenza tedesca crescente ed altamente specializzata e manovriera di poco superiore ad un decimo della Forza italiana (9.000 unità circa).
Per quanto riguarda l’Aeronautica, il Comando Supremo aveva disposto che nessun apparecchio italiano della componente rimasta ancora nell’area e non evacuata dovesse cadere in mano tedesca e che in caso di impossibilità si provvedesse alla distruzione. Purtroppo tali istruzioni, coperte da misure di estrema segretezza per non allarmare i tedeschi, causa la rapida dichiarazione di armistizio, non raggiunsero tutti i Comandi interessati, o li raggiunsero quasi contemporaneamente alla notizia dell’avvenuto armistizio.
Non è scopo di questo studio ripercorrere il complesso dei drammatici eventi cui Leros fu protagonista durante quella che venne chiamata la battaglia di Leros, possiamo e dobbiamo però trarre una conclusione dalla quantità di elementi sinora analizzati e che costituiscono, da una parte le motivazioni di una disfatta, dall’altra gli ammaestramenti che, se riconosciuti e applicati dalla R.A. avrebbero potuto forse rovesciare le sorti dei combattimenti a Leros e a Rodi.
I tedeschi riuscirono a vincere perché ebbero e usarono quanto la R.A. non ebbe mai nella sua permanenza in Egeo:
- conoscevano e applicarono la dottrina per l’impiego efficace del potere aereo, conducendo un’intensa campagna aerea tesa a distruggere gli obiettivi di superficie che avrebbero potuto ostacolare la successiva manovra delle forze di superficie;
- dimensionarono le forze per la campagna aerea in modo da saturare le capacità di reazione avversaria - impiegarono oltre 180 bombardieri tra convenzionali e a tuffo, per la sola campagna aerea contro Leros;
- conoscevano le debolezze difensive dell’avversario, la sua pressoché inesistente componente di caccia da difesa e superiorità aerea (la cui importanza avevano sperimentato a loro danno nel corso della battaglia d’Inghilterra dove le grosse formazioni di bombardieri tedeschi venivano regolarmente distrutte dai moderni, veloci e armati caccia inglesi, condotti da piloti agguerriti e determinati).
I nostri inadeguati idrovolanti, vanto e orgoglio della “potenza” industriale e militare nazionale negli anni ’30 e i loro coraggiosi equipaggi furono alla prova del combattimento le generose e innocenti vittime di un sistema nazionale di preparazione e condotta della guerra che si può definire strategicamente incapace e tecnologicamente inadeguato, pervaso di livelli di ambizione verso orizzonti esterni per i quali, la storia dimostrò, mancarono le capacità politico-economiche per il loro mantenimento e le forze, in quantità e qualità, indispensabili per la difesa.
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The Luftwaffe over the Aegean Sea 1943
Wing Commander ret. Hans Peter Eisenbach
The briefing “The Luftwaffe over the Aegean Sea 1943” will give an well illustrated account on the tactical air support of the German Luftwaffe to maritime operations in the Aegean Sea in October and November 1943, including the close air support operations during the invasion of Kos and Leros in autumn 1943. The focus of the author is directed to the air operations of Dive Bomber Wing 3, the “German South East Stuka Wing”, which operated successfully since 1942 over South Europe, Crete, the Mediterranean Sea, Malta and North Africa. Part one highlights the political background for the German engagement on the Dodecanese Islands in 1943 and the British policy to use this theatre of operations, called “soft underbelly” by the British Prime Minister, Winston Churchill, to establish a military basis in the region for an invasion via the Balkans to Germany and to have air bases for the Royal Air Force Bomber command for raids against the Ploesti airfields in Romania, which were vital for the German war machine. Part two outlines the German built up of forces in Greece in summer 1943, in order to be prepared against any British major operation in this theatre of war, e.g. a British invasion of the Italian Dodecanese Islands or an Italian armistice with the Allies after the invasion of Sicily. Actually Churchill instructed in January 1943 the commanders-in-chief to plan and prepare the capture of the Dodecanese, codename “Accolade”. German Intelligence was aware of this. Part three demonstrates the military situation in September 1943. Part four points out the air activities of the Luftwaffe over the Aegean Sea against the British Navy in October 1943, especially the most dramatic Air-Sea and Air-Air Battle on October 9, 1943 between British, US and German naval and air forces west of Rhode Island. Part five gives a detailed view on the air operations from 12. - to 17. November 1943 during the battle for Leros, including the dive bomber attacks against the gun positions with a comparison of the gun sites then and now. Some reference photos to the guns used will be shown.
The Luftwaffe over the Aegean Sea 1943” is an account about the tactical air support of the German Luftwaffe1 to maritime operations in the Aegean Sea in October and November 1943, including close air support operations during the invasion of Kos and Leros in October and November 1943. The focus is directed towards air operations of Stuka, or Dive Bomber, Group 3.
In 1943 much of Europe was occupied by German and Italian Axis forces. The islands of the Dodecanese had been part of the territory of Italy since 1923. The Island of Leros became a major Navy Base due to its deep water port at Portolago (today, Lakki). The island was heavily defended by heavy anti-shipping and anti-aircraft artillery.
The Conference of Casablanca was held from 14 to 24 January 1943 to implement the strategy for the next phase of World War II. Discussions were between US President Franklin D. Roosevelt and the British Prime Minister Winston Churchill.
Roosevelt wanted to have an allied cross-channel operation in northwest Europe involving an invasion from England to the Normandy beaches in France. Otherwise, he would switch his military strategy of “Europe First” to the Pacific theatre.
Churchill desired an invasion from Southeast Europe. The British policy was to use the Dodecanese Islands to establish a military bridgehead in the region for an invasion via the Balkans to Germany and to have air bases for the Royal Air Force Bomber command for raids against the Ploesti airfields in Romania, which were vital for the German war machine. Additionally Churchill wanted to realize his imperialistic ambitions in Southeast Europe and take control of the Balkans.
In Casablanca, Roosevelt and Churchill compromised with an Allied invasion in Sicily in 1943 and a major cross-channel invasion of France in 1944.
The German High Command (OKW) was aware of the British plans to occupy the Dodecanese islands and thus German troops were sent to Italy and Southeast Europe to bolster its defenses against a probable British attack on Italian soil and in the Aegean area.
1 Luftwaffe = German Airforce in II. World War
Concurrently Churchill planned a British-led attack against the Dodecanese islands, but without US support. In January 1943, Churchill instructed the commanders-in-chief to plan and prepare the capture of the Dodecanese, codename “Accolade”.
Following this plan British troops between 10. – 17. September 1943 occupied the Dodecanese islands, but not RHODES, as the German Ground Forces in Rhodes disarmed Italian Forces on the islands. So the most important island was lost to Churchill, with the airfields on Rhodes coming under German control. Now only one airfield was available for the British Air Forces – on Cos.
In September 1943, the German Air and Ground Forces were engaged in the Battle for the Ionian Islands and were unable therefore to prevent the British Invasion of the Dodecanese. The Battle of Kefalonia and Korfu against Italian troops took place from 12 – 17. September 1943. The German Army was supported by JU 87 Stukas from Araxos. By the end of September 1943, the German Air Force commenced bombing the Dodecanese islands and the German Army began preparations to invade Kos. For this purpose, the I./StG 3 (I. Wing Dive Bomber Group 3) deployed to Crete - Kastelli Airfield. The Battle for Kos took place from 3rd to 4th October 1943. There was only one mission flown by I./StG 3 against Kos. Now the British had lost all airfields in the Aegean Sea. However, there were main German airfields near Athens, on Crete and Rhodes. Due to poor weather conditions an imminent German assault on Leros had to be postponed. In the meantime the German Luftwaffe started to bomb the island. A first raid of I./StG 3 was flown on 5th October 1943 between 05.45 hrs (German Time) to 08.50 hrs with a flight time of 185 minutes, from and back to Megara airbase west of Athens. A second mission was flown by I./StG 3 on 6th October 1943 between 10.20 hrs (German Time) to 13.45 hrs, again from Megara airbase over the Aegean Sea. A third mission was flown by I./StG 3 on 7th October 1943 between 08.10 hrs and 12.15 hrs. The task was “Search and destroy British warships heading from Kos to Alexandria via Rhodes.” The Wing spotted the ships and the cruiser HMS Penelope was hit severely. After a flight time of 245 minutes in the single engine Ju 87 “Stuka” over the Aegean Sea the crews landed safely in Megara.
On 9th October 1943 I./StG 3 was tasked to attack at 12.00 hrs (British Levante time) a British warship convoy heading from Samos
to Alexandria. The Wing attacked between 12.00 – 12.05 hrs the ships and the cruiser HMS Carlisle was destroyed and HMS Panther sunk. After a flight time of 235 minutes the Stukas returned from the tactical air support of maritime operations mission to Megara with only one loss by ship anti-aircraft fire. II./StG 3 from Argos, tasked with the same target, was intercepted at 12.15 hrs west of Rhodes by US Lightnings from Gambut in North Africa and lost six aircraft and their crews2. The US Lightnings flew via Gambut to Tunisia and did not assist British plans further. The British brigade on Leros was therefore effectively left without Allied air support. The sea and air space was completely under Luftwaffe control. The Royal Navy no longer attempted to enter the Aegean sea by day. Until the end of October, I./StG 3 flew only a further six missions against Leros3 and on 10. November I./StG 3 flew one more mission against the island.
On 12th November 1943 the German Army attacked Leros by sea, supported by paratroops of the Luftwaffe. Stukas were tasked to fly two missions per day. Main targets were the artillery positions on Leros and to provide close air support for German ground troops on Leros. The last mission against Leros was flown on 15.11.1943 between 12.20 hrs and 15.40 hrs. British troops in Samos were attacked on 17.11.1943 in Vathy harbour. This was the last Stuka mission in Southeast Europe, before I./StG 3 deployed via Germany to the Eastern Front. On 27. February 1944, they landed in Dorpat in Estonia. A new bloody battle begun.4
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2 See: A. Rogers, KOS AND LEROS 1943 – THe German Conquest of the Dodecanese, pp. 35 - 42. OSPREY
3 On 10. / 11. / 14. / 16. / 22. and 26 October. Flight time was between 170 - 185 minutes from and to Megara.
4 See: H. P. Eisenbach, Stuka Einsatz an der Pantherlinie by HELIOS ISBN 978—3-86933-162-1
Presenza e attività dei carabinieri italiani nell’isola di Lero occupata dai tedeschi
Luca Pignataro
During the German occupation, the civil administration of the Aegean islands remained formally entrusted to the Italians. The Carabinieri, who remained in charge of public safety, were divided between those who refused to take the oath of the Italian Social Republic, and for this reason were deported by the Germans, and those who accepted instead, starting with their commander, lieutenant colonel Mittino. The remaining often played both sides, aimed at safeguarding the Italian presencethreatened by the Germans on one side and by Greek irredentists on the other - and to prepare to welcome a British landing by siding alongside them, in the hope that the latter would recognize the their role and the persistence of Italian sovereignty. Some examples of this are some testimonies of soldiers in service in Lero in 1944-45, released in Italy after the end of the war and in order to avoid the accusation of collaboration with the Germans (cf. L. PIGNATARO, Il Dodecaneso italiano 19121947, vol. 3, 1936-1947/50, pp. 450-453 and 457-459). They allow us to glimpse the psychological and social climate of the Aegean islands during the war and the German occupation.
Durante l’occupazione tedesca l’amministrazione civile delle isole egee rimase formalmente affidata agli italiani. I carabinieri, che rimasero incaricati della pubblica sicurezza, si divisero tra chi rifiutò di prestare giuramento alla Repubblica Sociale Italiana, e per questo fu deportato dai tedeschi, e chi invece accettò, a partire dal loro comandante, tenente colonnello Mittino. I rimasti spesso svolsero un doppio gioco, mirante a salvaguardare la presenza italiana – minacciata dai tedeschi da una parte e dall’indipendentismo ellenico dall’altra - e a prepararsi ad accogliere uno sbarco degli inglesi schierandosi al loro fianco, nella speranza che questi ultimi riconoscessero il loro ruolo e la persistenza della sovranità italiana. Ne sono un esempio alcune testimonianze di militari in servizio proprio a Lero nel 1944-45, rilasciate in Italia dopo
la fine della guerra e ai fini di evitare l’accusa di collaborazionismo coi tedeschi (cfr. L. Pignataro, Il Dodecaneso italiano 1912-1947, vol. 3, 1936-1947/50, pp. 450-453 e 457-459), che riportiamo di seguito in quanto ci lasciano intravvedere il clima psicologico e sociale delle isole egee durante la guerra e l’occupazione germanica.
Dichiarazione del Tenente CC.RR. compl.
Guglielmi Giuseppe, classe 1919
Io sottoscritto Tenente CC.RR. compl. GUGLIELMI Giuseppe, sulla mia attività dall’8 settembre 1943 al 2 settembre 1945 dichiaro quanto segue:
“Alla data dell’8 settembre 1943 mi trovavo da circa un mese, proveniente dall’Italia, sull’Isola di Calino (Egeo) al comando di quella tenenza CC.RR. Mentre l’isola di Rodi cedeva ai tedeschi (11 settembre 1943), sull’isola di Lero (15 settembre 1943) e, successivamente, su quelle di Coo e Calino (20 settembre 1943) venivano accolte dai presidi italiani le truppe alleate. Durante il periodo di permanenza a Calino delle truppe alleate (20 settembre – 8 ottobre 1943) con tutti i carabinieri continuai il normale servizio con le precedenti attribuzioni a fianco della polizia alleata. Il 4 ottobre, dopo due giorni di combattimento, cadde in mani tedesche l’Isola di Coo e, lo stesso giorno, tutte le truppe alleate lasciarono l’isola di Calino e la difesa rimase al presidio italiano. Il giorno 7 fu occupata pure l’isola di Calino (sempre in ottobre 1943). L’esiguo presidio italiano fu concentrato e trasportato, il giorno dopo, in altra isola e i CC.RR. ricevettero l’ordine di rimanere consegnati tutti nella caserma principale dai tedeschi. Io rimasi bloccato dai tedeschi ma riuscii ugualmente a dar l’ordine ai dipendenti che chi ne avesse avuto la possibilità fosse fuggito dall’isola con mezzi in precedenza decentrati dal comando italiano dell’isola o con altri mezzi di fortuna. Infatti una decina di essi riuscì a lasciare l’isola. Il giorno dopo mi fu ordinato di continuare il servizio limitandomi, con i pochi rimasti, un’altra decina, a compiti di polizia civile in funzione del Governo civile italiano delle isole dell’Egeo, rappresentato in Calino da una delegazione di Governo. L’isola di Lero cadde ai tedeschi il 16 novembre 1943 dopo cruentissimi combattimenti aeronavali e terrestri.
Cercai subito di collegarmi con i miei comandi superiori di Rodi, ma solo verso la fine di dicembre, riuscii, con mezzi di fortuna o proibiti, a far giungere notizie a Rodi e ricevetti pure i due fogli, rispettivamente in data [...] settembre 1943 e 25 novembre 1943 del comando gruppo CC.RR. di Rodi che si allegano in copia conforme e che davano le direttive sul servizio da svolgere. In seguito, nelle poche comunicazioni d’ufficio, il comandante gruppo di Rodi, T. Col. Mittino Ferdinando, chiarì più volte che i CC.RR. erano da considerarsi a tutti gli effetti, impiegati civili alle dipendenze del Governo civile italiano dell’Egeo. Infatti ricevevano dal Governo viveri, trattamento economico e disciplinare. Nei mesi di febbraio, marzo, aprile e maggio 1945, invece, ricevettero dalla C.R.I. la razione viveri della popolazione civile.
A Calino feci ogni cosa per assicurare alla popolazione civile, italiana ed egea, la tutela dei loro interessi contro l’autorità occupante. Favorii gli espatri, proibiti dai tedeschi, della popolazione civile affamata durante l’inverno 1943-44. Conoscevo e agevolavo spie locali al servizio degli inglesi. Con il prestigio personale e con quello dell’Arma tenevo calmi gli esponenti più accesi dell’irredentismo locale greco, sempre favoriti dai tedeschi, ed evitavo che contro le famiglie dei connazionali fossero compiuti moti di rappresaglia maggiori di quelli, nonostante tutto, verificatisi. Ad esempio, cito un fatto avvenuto a Calino dopo che io ero stato trasportato dai tedeschi a Lero: certo connazionale Visentini Augusto, maestro elementare, fu trovato assassinato da numerosi colpi di pugnale insieme alla moglie e ad una bambina di 4 anni, nel mese di luglio 1944, ad opera di irredentisti del luogo.
Il 24 aprile 1944 fui fatto imbarcare dai tedeschi su un mezzo militare e trasportato a Lero e colà mi dissero che dovevo fare lo stesso servizio di Calino e che ero stato “trasferito” in questa ultima isola perché sede più importante. Lero era fortezza e ogni fuga sarebbe stata impossibile, forse vi sono stato trasportato per tema che io fuggissi. Lo stesso giorno giunse a Lero anche il T. Col. Mittino Ferdinando per ottenere da tutti i dipendenti la firma di una dichiarazione collettiva di lealtà verso il Governo italiano civile di Rodi, uguale a quella firmata nello stesso periodo di tempo dalla totalità degli impiegati civili e dipendenti del Governo stesso. Disse inoltre che a Rodi, Coo e Calino tutti i militari avevano di buon grado firmato. Spiegò inoltre
che se tutta la polizia civile italiana avesse abbandonato le isole italiane dell’Egeo, i tedeschi avrebbero certamente interpretato questo come abdicazione ai nostri diritti e agli interessi italiani colà esistenti ed avrebbero inoltre passati tutti gli affari civili in mano dei greci, tanto più che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 i movimenti irredentisti greci di quelle isole davano serie preoccupazioni per l’incolumità della minoranza italiana. In proposito il metropolita, capo degli ortodossi delle isole italiane dell’Egeo, aveva assicurato formalmente l’amministratore militare germanico dell’Egeo, appena cedute le isole ai tedeschi, di avere già pronti elementi per sostituire in pieno la polizia italiana e gli impiegati del Governo. Questo era fatto al fine di spingere i tedeschi a cacciare gli italiani dalle isole italiane dell’Egeo con tutte le loro istituzioni. Le persone e gli interessi dei connazionali avrebbero corso grave rischio per opera di un furente ed acceso irredentismo greco, aiutato per scopo politico e per bassi interessi, dai tedeschi. Il prefato T. Col. Mittino ci fece comprendere e tutti ne convennero che la permanenza nostra in quelle isole era assolutamente necessaria per tutelare i connazionali e tutti gli interessi italiani in genere. Successivamente, allorquando ci chiese il già detto impegno, ci assicurò che non trattandosi di impegno a carattere militare né politico, ma esclusivamente civile, e che essendo quella l’unica via d’uscita per poter rimanere ulteriormente sul posto, dato che i tedeschi avevano motivo di dubitare della nostra lealtà nei loro confronti, che a conflitto ultimato non solo non saremmo stati in alcun modo compromessi o biasimati ma avremmo trovato sicura comprensione da parte del Governo Italiano e degli Alleati.
Come fecero tutti i militari di Lero, circa 30, che ancora non conoscevo, anch’io non esitai a firmare la detta dichiarazione collettiva. In quelle isole vivevano numerosissime famiglie italiane e vi erano numerosi ed ingenti interessi di ditte e di privati italiani, le isole erano considerate, a tutti gli effetti, italiane, ed io, perciò, sentivo l’imperativo categorico di rimanere per tutelare, come già fatto a Calino, con il prestigio personale e dell’Arma, la sovranità italiana e gli italiani.
I tedeschi che, sempre, per motivi politici e bassi moventi, appoggiavano l’irredentismo greco, vennero più volte sollecitati dagli esponenti principali del luogo a concentrare tutta la polizia degli organi italiani e a dare la direzione delle cose civili ai greci. A Lero, infatti, era
già stato progettato dai tedeschi l’imbarco e l’invio in continente dei CC.RR., ma non fu possibile loro attuare il progetto perché mutate contingenze strategiche nei Balcani avevano chiuso ogni loro comunicazione con l’Europa.
A Lero, a mezzo di fidati collaboratori dell’Arma, e a mezzo di organizzazione sicura negli uffici civili e negli stessi comandi tedeschi, mi riuscì possibile il rilascio di numerosi documenti falsi di identità, il rinnovo di altri falsi già in precedenza rilasciati, di dichiarazioni false attestanti che l’interessato non era sottoposto ad obblighi militari (in Egeo i documenti di identità e tutte le altre funzioni di P.S. venivano fatti dai CC.RR. a mezzo di uffici circondariali di polizia). Circa 300 furono così, a Lero, i documenti rilasciati a mia firma, per la maggior parte a militari italiani alla macchia dall’occupazione tedesca e che così riuscirono o a lasciare l’isola o a restare sicuri alla macchia stessa. Certo Volpe Roberto, soldato italiano, ricercato dai tedeschi perché condannato a morte per tentativo di fuga, rimpatriato tramite campo inglese di Taranto “S” settore n. 2, fu salvato per due volte perché, arrestato dalla polizia tedesca siccome privo di documenti personali, fu fatto apparire per altra persona dallo scrivente e dal m.llo Basile Luigi comandante la stazione di Lero.
I miei collaboratori più fedeli furono:
S.T. s. p. Basile Luigi – comandante la stazione di Lero
V. Brig. Simoncini Severino, scrivano addetto all’ufficio circondariale
C/re Di Petrillo Salvatore, addetto all’ufficio circondariale P.S.
Sig. Michelli Ermanno, direttore del Banco di Roma di Lero, interprete presso l’ufficio del comando isole tedesche
Capitano R. Marina Ciani Umberto, già comandante in 2° del C.T. “Euro” interprete presso il Comando Marina tedesco
2° capo R.M. Marinelli Giovanni, interprete presso un comando di zona tedesco.
Gli ultimi due sono stati deportati dai tedeschi perché già sospettati, sono stati accusati di essere in possesso di radio-trasmittente e di voler organizzare un colpo di mano a danno dei tedeschi stessi nel mese di settembre 1944.
Conoscevo il maresciallo capo Primeterra Augusto, in servizio a Rodi che si collegò con me fin dalla fine di dicembre 1943. Seppi così, in seguito, che a Rodi esisteva un’organizzazione nell’Arma a
favore dell’Intelligence Service e che molti militari e sottufficiali ne facevano parte.
Nel periodo agosto-settembre 1944, quando fu iniziata dai tedeschi l’evacuazione dell’Egeo, non portata a termine per sopravvenuti cambiamenti della situazione strategica, procedetti ad organizzare, con armi che tenevo nascoste presso la stazione di Portolago (Lero) dei nuclei armati per la difesa dell’ordine pubblico in previsione di qualche colpo di mano da parte degli irredentisti che volevano rovesciare, dopo l’evacuazione tedesca, le autorità italiane e passare alla rappresaglia armata. Organizzai e diedi direttive per creare altri nuclei che avrebbero dovuto combattere i tedeschi per la tutela degli impianti militari o di utilità pubblica che i tedeschi si accingevano a far saltare. Infatti in quei giorni, alcuni coraggiosi erano già riusciti a togliere i contatti elettrici o a rendere comunque inattive diverse mine e bombe poste alle centrali elettriche delle officine “S. Giorgio” e dell’idroscalo. Fu sempre svolta attività antitedesca e resistenza passiva e attiva a tutte le loro disposizioni da parte di tutti i componenti di quell’Arma.
A Lero non esistevano forze partigiane propriamente dette perché l’isola era molto piccola o fortemente vigilata, ma tutti i militari italiani e i civili coi quali tenevo continuo contatto esplicavano in varie forme attività sabotatrice: si sabotavano macchinari, impianti, autoveicoli, siluri che poi in sede di prova andavano perduti, depositi di carburanti, ecc.
Purtroppo non mi è possibile ora avere documenti probatori perché in quel tempo ritenni superfluo procurarmeli, ma in seguito, qualora mi fosse richiesto, potrei rimettermi in comunicazione coi principali esponenti di tali atti e documentarli.
La divisa rimase sempre intatta nonostante in quel particolare momento politico fosse tanto invisa ai tedeschi.
Non si fece a favore dei tedeschi mai polizia militare e non ci fu mai per essi alcuna forma di collaborazionismo.
Ricevetti delle delegazioni di Calino e di Lero, per ordine del Governo civile di Rodi, somme mensili variabili, ammontanti, dopo l’8 settembre fino al 31 marzo 1945 (ultima mensilità) circa 45 mila lire.
Dal 9 maggio al 22 giugno c.a. collaborai con la polizia inglese a Lero. Si allegano:
- lettera in data 13/9/1943 del comando gruppo CC.RR. di Rodi (n. 37/1 prot. seg.)
- lettera in data 25/11/1943 dello stesso comando (N. 40/I prot.)
- dichiarazione del colonnello tedesco Koschella, comandante la Fortezza di Lero, in data 27 febbraio 1945, relativa alla garanzia da me fatta onde poter ottenere la scarcerazione del connazionale Rubino Edmondo che soffriva di malattia ed aveva famiglia con numerosi figli a carico in Calino, per dimostrare che non si esitava a metter in gioco la nostra persona per aiutare i connazionali e soprattutto, che sotto la stessa data eravamo chiamati dai tedeschi, seppure di malanimo, carabinieri.
- dichiarazione firmata dal connazionale Rubino Edmondo sopracitato.
- dichiarazione rilasciata dal maggiore di cavalleria, internato dai tedeschi, Zocca sig. Ludovico, sull’attività dei CC.RR. Il prefato ufficiale, ex capo dell’ufficio informazioni del Comando Superiore FF.AA. italiano dell’Egeo, è riuscito a rimanere fino all’8/5/1945 sull’isola di Rodi.
- elenco incompleto dei militari italiani che ottennero i documenti falsi come è già specificato nella presente relazione
Bari, lì 2 settembre 1945
Tenente dei CC.RR. (Guglielmi Giuseppe)
D i c h i a r a z i o n e
Io sottoscritto, maggiore di cavalleria ZOCCA Lodovico, dell’ufficio informazioni del comando superiore FF.AA. dell’Egeo, dichiaro che dagli elementi che mi fu possibile raccogliere nel periodo 11/9/1943 – 8/9/1945 per seguire le vicende del proseguimento durante l’occupazione tedesca è sempre emerso come i carabinieri reali in servizio nell’isola di Lero ed isole minori (Calino – Patmo – Lisso -) abbiano sempre mantenuto una linea di condotta irreprensibile tale da non smentire mai, neppure nei minimi particolari, le nobili tradizioni dell’Arma.
Mi risulta specificamente:
1°) – che nessuno venne meno al giuramento di fedeltà prestato; 2°) – che l’uniforme fu conservata intatta come simbolo di prestigio e dignità;
3°) – che i carabinieri parteciparono, a fianco degli alleati, alle operazioni belliche che si svolsero nell’isola nel periodo settembre-novembre 1943.
Per tale fatto allorché l’isola stessa fu conquistata dai tedeschi, i carabinieri furono oggetto di rappresaglie ed in parte avviati come prigionieri in continente. Gli elementi che rimasero ripresero il servizio d’istituto alle dirette discendenze del Governo civile del possedimento, mentre il servizio di polizia militare fu disimpegnato dai competenti organi delle truppe di occupazione;
4°) – che gli stessi elementi, incuranti del rischio pur si esponevano data la loro delicatissima posizione, agevolando i militari italiani che si erano dati alla macchia, concorrendo anche nel fornire loro i mezzi di sussistenza ed innumerevoli documenti falsi onde riparare in Turchia, evitando in tal modo la loro cattura da parte dei tedeschi; 5°) – che, nonostante le continue vessazioni e minacce da parte dei tedeschi, i carabinieri di Lero si opposero al compiere qualsiasi atto che comunque potesse contrastare con i loro sentimenti di italiani e di soldati esplicando sempre azione di tutela per gli interessi del Governo e della popolazione civile. Al delinearsi dell’evacuazione dell’isola da parte delle forze tedesche, nel periodo agosto-settembre 1944 i carabinieri di Lero furono elemento valido di coesione fra i connazionali e la popolazione locale, mentre contemporaneamente si apprestavano ad appoggiare con nuclei armati una eventuale azione degli alleati nell’isola ed a salvaguardare dalla distruzione gli impianti militari e di pubblica utilità.
Quanto sopra affermo coscienziosamente, come del resto già ho fatto alla competente commissione per ottenere la doverosa discriminazione degli interessati.
Taranto, lì 15 agosto 1946
il Maggiore – F° Lodovico Zocca P.C.C.
Bari, li 8 settembre 1945
Trieste, li 31 agosto 1953
Su richiesta dell’interessato, Dott. Prof. Giuseppe Guglielmi, residente a Legnago (Verona), via Bussi 8, dichiaro quanto appresso:
“Ho avuto il piacere di conoscere il Prof. Guglielmi, allora Tenente nell’arma dei Carabinieri, pochi giorni dopo il suo arrivo sull’isola di Lero (Egeo) nell’aprile del 1944. A Lero, dove rimasi bloccato dagli avvenimenti del settembre 1943 – dovevo rientrare a Rodi a fine dello stesso mese – venni richiesto, per la mia conoscenza della lingua tedesca, di coadiuvare quella Delegazione di Governo, quale interprete nei rapporti che la stessa intratteneva con il Comando germanico occupante.
Ebbi così sentore, ancora prima che il Ten. Guglielmi giungesse sull’isola, del suo arrivo e rammento che il Ten. Kloss, ufficiale prussiano che si interessava principalmente della polizia e dal quale dipendeva per tale servizio anche la vicina Calino, ebbe ad esprimersi: “che aveva disposto il trasferimento a Lero d’un giovane ufficiale dei carabinieri che – per particolari ragioni – intendeva sorvegliare più da vicino e personalmente”.
Avuta presto possibilità di prendere contatto col Ten. Guglielmi, in ripetute occasioni, anche quale interprete, me ne accorsi dal suo atteggiamento che era un ufficiale deciso a non farsi sottomettere dal suo parigrado tedesco.
Nell’opera di aiuto ed assistenza ai connazionali e soldati rimasti sull’isola quali lavoratori trovai, in un primo tempo, nel Ten. Guglielmi un coraggioso collaboratore; presto però egli ne divenne l’organizzatore ed ideatore di molte azioni che, con raggiri ed inganni a danno degli occupanti, hanno dato possibilità a parecchi elementi perseguitati o ricercati a sfuggire attraverso le maglie della rete loro tesa dai tedeschi.
Il Ten. Guglielmi ebbe, nel settembre del 1944, la geniale idea di proporre al Comando germanico una revisione delle carte personali d’identità. Tale, opportunamente studiata revisione, gli consentì, con l’aiuto valido del Carabiniere Di Petrillo Salvatore che prestava servizio presso la Delegazione, di munire di carte d’identità i soldati sfuggiti a suo tempo alla cattura e datisi alla macchia sull’isola, regolarizzando così la loro posizione quali civili.
Mentre il Ten. Guglielmi forniva all’autorità di polizia germanica le richieste dichiarazioni, sotto la sua responsabilità, di non appartenenza alle FF.AA. dei suddetti militari, il carabiniere Di Petrillo – dietro indicazioni del suo superiore – inseriva i nominativi nel registro della popolazione civile, nonostante il controllo di un caporale tedesco in servizio presso la Delegazione, correndo così il rischio della alterazione di documenti ufficiali.
Mi consta che vennero rilasciate oltre 250 nuove carte d’identità ed altrettante attestazioni, per la più gran parte in favore di ex militari. Quando, nell’autunno avanzato dello stesso 1944 venne deciso il ritiro delle truppe tedesche dalle isole per il loro ripiegamento sulla terraferma greca, il Ten. Guglielmi ideò prontamente un piano che avrebbe dovuto fronteggiare – almeno fino allo sbarco degli alleati – la situazione certo precaria che si sarebbe venuta a creare per gli italiani rimasti in balìa degli irredentisti greci. Egli riuscì nel contempo ad accordarsi con alcuni elementi fidati dei diversi servizi speciali perché cercassero, in ogni modo, di rendere innocui alcuni congegni che gli ultimi soldati germanici nell’abbandonare l’isola, avevano il compito di azionare per la distruzione a mezzo mine delle opere militari e civili. A quanto personalmente mi consta, si sarebbe così evitato, fra l’altro, la distruzione della centrale elettrica di Timenia (Lero).
Nelle vicinanze della caserma dell’Arma in Porto-Lago e, precisamente nei rifugi che ben conoscevo per essere stato ricoverato con il mio Personale durante i bombardamenti dell’ottobre 1943, il Tenente Guglielmi creò un deposito di armi e munizioni di primo impiego, materiale che era affidato alla custodia del vice brigadiere Caforio. Ulteriori depositi, abilmente truccati, egli era riuscito a sistemare anche in altre località dell’isola.
La situazione del Ten. Guglielmi divenne però ancor più delicata allorché i tedeschi dovettero rinunziare a sloggiare dalle isole egee per la impossibilità di una ritirata attraverso la Grecia ed i Balcani. Egli si era esposto parecchio, anche per aver preso contatti con esponenti antitedeschi del luogo ma, nonostante ciò, continuò ad agevolare molti connazionali nella fuga verso la vicina Turchia e nell’esodo, anche in contrasto con le severe disposizioni degli occupanti.
Riuscì ad imbarcare, a quanto mi consta, un sottufficiale della Marina che prestava servizio alla centrale elettrica ed intorno al quale i tedeschi – avuti indizi sul suo conto – avevano iniziato a stringere la loro rete.
Nel febbraio del 1945 riuscì a sottrarre, questa volta alla immancabile fucilazione – il marinaio VOLPE Roberto che, aderente quale lavoratore, era fuggito dal reparto germanico assieme ai compagni d’armi: Cutugno, Fricano, Panico e Servi che, arrestati a seguito di informazioni fornite da un greco, vennero fucilati, dopo un breve processo, l’8 marzo 1945.
Arrestato anche il Volpe dalla polizia tedesca, riuscì a declinare false generalità ed il Tenente Guglielmi, mercé il suo personale intervento, poté consegnare il Volpe – per il periodo di accertamento della sua identità – al proprio maresciallo Basile per la custodia in caserma. Il Volpe, fuggì e venne ancora ripreso e, questa volta, trattenuto nelle carceri dei tedeschi. Presi accordi col medico leriota Bulafendi Giorgio, il Guglielmi fece apparire ammalato grave il Volpe che ben si prestava alla commedia e lo fece ricoverare d’urgenza alla infermeria, da dove, ancora una volta il Volpe fuggì dalla finestra e si salvò definitivamente.
Altri ancora, dei quali a distanza di tempo mi sfuggono i nomi, debbono la loro salvezza al Ten. Guglielmi che – posso affermare per essergli stato lealmente vicino in quel periodo, aver goduto della sua piena fiducia ed averlo coadiuvato nel limite del possibile nella sua attività patriottica – ha agito unicamente spinto da profonda e del tutto disinteressata fede, mettendo costantemente a rischio la sua stessa persona, sfidando – quanto meno – il pericolo della deportazione in Germania qualora il suo doppio giuoco e la sua resistenza fossero state, per poco, scoperte.
Sono certo che altrettanto, e più ancora, debbono dire oggi di lui i suoi subalterni, per l’onore dei quali e dell’Arma egli si è costantemente battuto con le autorità di occupazione.
Il Ten. Guglielmi, dopo essere stato impiegato dagli stessi inglesi nel servizio di vigilanza dei prigionieri tedeschi sull’isola di Lero, venne imbarcato con i suoi uomini, tutti fatti oggetto di particolari attenzioni, verso la fine del mese di giugno del 1945. Da allora, solo recentemente, sono riuscito a rivedere il Ten. Guglielmi. In fede di che:
Ermanno MICHELLI – Trieste […]
L’Idroscalo Giovanni Battista Rossetti (Baia di Lepida) Lero
Luciano Alberghini Maltoni
In July 1912 the Royal Italian Navy occupied Rhodes and the islands off the Dodecanese (including Leros) property, Turkey was soon forced to surrender and peace was signed in October 1918 in Lausanne. The annexation of the Dodecanese islands was then ratified by a series of agreements between 1922 and 1923. The Italian occupation of the Dodecanese will last until 10 September 1943, when the Third Reich, having vanquished the "Regina" Infantry Division, took possession of the island of Rhodes but not of Leros which will fall later in November 1943. From a military point of view, the Dodecanese was considered a naval air garrison useful for Italian foreign policy in the Dardanelles area and towards the Middle East. Since the most suitable island for this purpose and close to the Dardanelles was Lero (Leros), the first naval base was installed there, followed by the first airport-seaplane base, named after Giovanni Battista Rossetti, a pilot officer who died on 29.3.1924 during of operational activity with seaplane S 59 just in the bay of Lepida. The two most significant buildings of the seaplane base are the Palazzina Comando and the Caserma Avieri, both built between 1929 and 1930 in two different styles and perhaps two different designers. The most important operational buildings of the seaplane base were the hangars, built by the Società Nazionale delle Officine di Savigliano. The hangars of Lero were dismantled after the war and reused by the Hellenic Air Force, in particular a Savigliano hangar houses the Hellenic Historical Aviation Museum in Tatoi, it is still designated as "Hangar Leros" while the second hangar "ex Leros" is currently located at the Elefsina airport. Two 15-ton ANSALDO cranes allowed the seaplanes to be moved from the sea to the quay. The base, which survived 5 years of war practically unscathed, ceased its military function but the buildings soon found other collective uses.
Origini E Sviluppo
Il possedimento italiano delle Isole dell’Egeo (più conosciuto con la denominazione Dodecaneso) fu acquisito come diretta conseguenza della conquista coloniale italiana della Libia. Le ostilità si protrassero a lungo costringendo il governo italiano ad aumentare il corpo di spedizione e ad allargare il conflitto: infatti, nel luglio del 1912 la Regia Marina occupò Rodi e le isole del Dodecaneso appartenenti alla Turchia. La Turchia fu ben presto costretta alla resa e la pace fu firmata nell'ottobre del 1918 a Losanna. In base al trattato la Turchia riconosceva all'Italia il possesso della Tripolitania e della Cirenaica e s’impegnava a far cessare la guerriglia. A garanzia di tale impegno l'Italia conservava il Dodecaneso. L’annessione delle isole del Dodecaneso fu poi ratificata da una serie di accordi tra il 1922 e il 1923. L’occupazione italiana del Dodecaneso durerà sino al 10 settembre 1943, quando il Terzo Reich, sgominata la Divisione di fanteria “Regina”, prese possesso dell’isola di Rodi ma non di Lero che cadrà dopo nel novembre del 1943. Alla resa dei tedeschi nel maggio 1945 subentrò il mandato britannico e solo nel corso del 1947 le isole torneranno alla Grecia. Dal punto di vista militare, il Dodecaneso fu considerato un presidio aereo navale utile alla politica estera italiana nell’area dei Dardanelli e verso il Medio Oriente. Poiché l’isola più adatta all’uopo e prossima ai Dardanelli era Lero (Leros) in essa vi fu installata la prima base navale e a seguire il primo aeroporto-idroscalo, intitolato a Giovanni Battista Rossetti, ufficiale pilota deceduto il 29.3.1924 nel corso di attività operativa con idrovolante S 59 proprio nella baia di Lepida. Giovanni Battista Rossetti, nato a Cremona il 29.4.1899 si arruolò nella Regia Marina ammesso al Corso Accademia Navale 1914-1919, nominato sottotenente macchinista in servizio effettivo permanente (SPE) il 14 settembre 1919 era in servizio nella stazione di Miraglia a Venezia (all’epoca il più grande idroscalo della I.a G.M. con circa 100 idrovolanti), fu poi ammesso come Allievo nella Regia Scuola di Aviazione di Taranto (la Regia Aeronautica fu creata come Arma Autonoma successivamente il 28 marzo 1923) risultando presente in quella base navale al 1 gennaio 1921. Il 24 giugno 1922 il sottotenente macchinista Rossetti ottiene la certificazione di Pilota d’Idrovolante (STV essendo la sigla V distintiva degli ufficiali iscritti nel servizio aeronautico) e viene citato come tale nel foglio d’ordini n. 160 del 15
luglio 1922. Alla fine della I.a G.M. la Regia Marina disponeva di una sua Forza Aerea divisa in otto comandi aeronautici, dipendeva dal Capo di Stato Maggiore della Marina e allineava 5.538 uomini di ogni grado, fra piloti e personale di governo, 675 aerei basati in 40 “stazioni di velivoli” e 17 dirigibili operanti da 14 aeroscali. Senza entrare nel merito delle complesse vicende storiche che determinarono la creazione della Regia Aeronautica con l’assorbimento del personale e dei mezzi dei corrispettivi servizi aeronautici dell’Esercito e della Marina, Rossetti in qualità di ufficiale pilota d’idrovolante fu incorporato nella Regia Aeronautica e trasferito all’Idroscalo di Lepida in cui iniziò la sua attività operativa.
Il giovane Tenente aviatore Giovanni Battista Rossetti riportò gravi traumi a seguito di un incidente aviatorio in fase di ammaraggio e morì qualche giorno dopo. I rapporti degli italiani con la popolazione locale erano così buoni che le autorità locali ortodosse proclamarono il lutto ufficiale ed egli ebbe dei solenni funerali con grande partecipazione della popolazione locale e del clero ortodosso. Il giovane deceduto era infatti molto conosciuto essendo fidanzato con una ragazza leriota. A ricordo di Rossetti è presente nel Cimitero di Cremona un importante tumulo monumentale definito “Icaro” opera in bronzo dello scultore A. Ferraroni e anche una targa nella Cappella dell’Accademia Navale di Livorno. Nel luglio del 2011 la sezione dell’ANMI (Associazione Nazionale Marinai d’Italia) di Cremona assunse la denominazione “ANMI S.T.V. pilota Giovanni Battista Rossetti”.
A Lero fu dislocata la 185.a squadriglie Ricognizione Marittima ed una delle otto stazioni di telecomunicazione per la navigazione aerea denominate Centri di Protezione della Navigazione (sei centri erano localizzati in Italia e due nelle colonie). La baia di Portolago (attuale Lakki) era già stata identificata negli anni Venti dal Regio Esercito quale base per dirigibili, in seguito la Regia Aeronautica, ormai arma autonoma, decise si stanziarvi una squadriglia idrovolanti nella baia di Lepida, la parte finale e più riparata della più grande baia di Portolago. Nell’ottobre del 1927 esisteva un hangar di legno di circa 55 metri di lunghezza per 15 di larghezza mentre il piazzale di manovra era lungo circa 80 metri con uno scivolo per gli Idro e due pontili di servizio per le barche. Dimensioni assai modeste che consentivano l’operatività di pochi velivoli idrovolanti del tipo Macchi M 18 ed S 59.
Ad oggi nonostante le ricerche effettuate presso gli archivi italiani e greci, non è stato possibile trovare i documenti progettuali e le mappe originali dell’effettivo assetto dell’idroscalo negli anni dal 1923 al 1930. Una rielaborazione si è potuta fare in anni recenti utilizzando una mappa inglese postbellica, copia di originali italiani. Il reperimento di una serie fotografica, versata dall’Ufficio Storico dell’Aeronautica Militare negli anni 60 all’Archivio Centrale dello Stato, ha consentito di datare con certezza le varie fasi di costruzione degli edifici e dei due hangar principali. Alcune fotografie hanno consentito di attribuire la paternità della direzione dei lavori alla Sezione Distaccata di Lero dell’Ufficio Demanio della III. a Z.A.T. (Zona Aerea Territoriale) che aveva sede a Roma. Negli anni successivi, ovvero dopo il 1936, essendo stata creata la IV Z.A.T. con sede a Bari, i lavori aeroportuali relativi agli aeroporti di Rodi (Maritza e Gadurra) furono gestiti dal Comando Aeronautica Egeo con sede a Rodi in collaborazione con quell’Ufficio Demanio. Non possiamo pertanto attribuire con certezza la paternità del progetto dei due edifici più significativi dell’idroscalo ovvero la Palazzina Comando e la Caserma Avieri. Entrambi realizzati tra il 1929 e il 1930, hanno due stili diversi e forse due progettisti diversi. La Palazzina Comando è posta su un rilievo con una pendenza accentuata per cui il progettista ha dovuto realizzare due ordini di scalinate contrapposte per superare il dislivello in poco spazio, l’effetto è di un’imponente scalinata che enfatizza le dimensioni dell’edificio in realtà di soli due piani. Essa comunque torreggia nella baia di Lepida tra il mare e le alture circostanti. La struttura dell’edificio con due avancorpi simmetrici con portone e finestre ad arco nel piano superiore la rende più simile a una grande villa residenziale piuttosto che a una palazzina d’uso militare. La palazzina è stata intonacata e ridipinta di bianco coprendo il paramento esterno a conci dei due avancorpi e delle scalinate originariamente a vista, le attuali bordature color giallo ocra non rispettano quelle originarie mentre in situ sono ancora i due originalissimi lampioni al culmine della scalinata, purtroppo mancanti delle sfere luminose. Questi ultimi sono stati riutilizzati a mo’ di supporti per un improvvisato cancello che doveva sbarrare il passo ai malati dell’ospedale psichiatrico. Allo scoppio della guerra il 10 giugno 1940 fu installata una stazione radio aggiuntiva nel sottotetto della palazzina. Nel sedime aeroportuale esiste tuttavia una villa molto più antica, quella di un ricco leriota tale Tzigada Pashà.
Essa fu trasformata nel circolo ufficiali, era circondata da uno splendido giardino con palme ed impreziosita da una grande vasca- fontana. Immediatamente sotto la Palazzina Comando esiste un edificio basso rettangolare senza particolari pregi architettonici che ospitava la scuola Radio Telegrafisti, dobbiamo, infatti, ricordare che a Lero era localizzata la stazione di “radioprotezione” ovvero di navigazione aerea e quindi vi erano moltissimi avieri specialisti. La scritta che l’identificava è stata cancellata. Tra la Palazzina Comando e la Caserma Avieri erano collocati una serie di edifici addossati alla collina di cui ignoriamo la funzione esatta ma che possiamo attribuire a officine varie, magazzino ricambi e locali di servizio.
Assai diversa da tutti questi edifici è invece la Caserma degli Avieri, realizzata nello stile eclettico che richiama architetture medievali – bizantine - veneziane, che sembra una copia in formato più grande e senza balconi dell’Albergo del Gelsomino realizzato a Coo (Kos) nel 1936 verosimilmente dall’Arch. Rodolfo Petracco (1889 – 1979. Per questo motivo e poiché sappiamo che Petracco operò prevalentemente a Lero, l’autore ritiene che il progetto della Caserma possa essere attribuito a quest’ultimo. La Caserma degli Avieri, costruita tra il dicembre 1928 e la primavera del 1930, ha una pianta rettangolare, si sviluppa su tre piani e si presenta come un edificio massiccio molto più grande di quanto sia effettivamente. L’esterno conserva seppur molto rovinato un intonaco colore ocra chiaro, ai lati del portone d’ingresso ancora parzialmente leggibile è la scritta “Caserma Avieri”. Un marcapiano poco accentuato delimita il primo piano mentre un massiccio portale ad arco a tutto tondo molto pronunciato con due riseghe laterali attenuano l’effetto di appiattimento del frontale. Le cinque merlature e le due coppie di finestre a bifora fanno riferimento al medioevo veneziano. L’uso di questi elementi decorativi e la tonalità calda della pittura ne fanno un unicum tra gli edifici militari progettati sia in Italia sia nelle Colonie e nello stesso Dodecaneso, al punto che quest’edificio così elegante non sembra una caserma ma piuttosto un albergo o un palazzo residenziale. Gli interni, seppur deteriorati e modificati dal successivo uso come ospedale psichiatrico sono tuttora leggibili e in alcuni punti vi sono archi di tipo medievale con scudetti dei Savoia. La caserma poteva ospitare tra i 4 – 500 avieri. Per non gravare logisticamente sull’edificio principale fu costruito accanto, lato collina, un edificio di servizio probabilmente destinato a lavanderie e
cucine. La caserma è posta a ridosso dell’altura, dove sono state scavate una serie di gallerie utilizzabili sia come rifugi che come depositi. In alcuni punti delle gallerie sono tuttora presenti strutture metalliche assai arrugginite che dovevano sostenere dei cavi per illuminazione. La caserma ha subito numerose modifiche e adattamenti negli interni per l’utilizzo come ospedale psichiatrico, molte camerate sono state divise, molte pareti sfondate, si sono aggiunte strutture murarie per bagni, docce e altri locali di servizio. Apparentemente i serramenti originari in legno sono stati conservati. Di fronte alla caserma era situato un grande piazzale (Campo Marzio) destinato all’addestramento formale, alle cerimonie e alle parate.
Gli edifici operativi più importanti dell’idroscalo erano naturalmente le aviorimesse ovvero gli hangar costruiti dalla Società Nazionale delle Officine di Savigliano, essi avevano ovviamente gli accessi rivolti verso la banchina. Ogni aviorimessa aveva un’apertura netta di circa 51,20 metri e un’altezza utile di 12,50 metri, in grado di ospitare idrovolanti come gli S55 e i Cant Z 506. Le dimensioni in pianta di ogni aviorimessa erano di metri 54,30 in larghezza e di metri 60,60 in lunghezza. Gli Hangar erano stati progettati per non avere piloni interni ed essere installati come una scatola di montaggio. Gli hangar cosiddetti Savigliano furono adottati dalla Regia Aeronautica negli anni Venti e Trenta come “aviorimesse” standard, ne abbiamo molti tuttora utilizzati in Italia come nell’ex idroscalo di Brindisi. Gli hangar di Lero, così come quelli di Rodi Maritza, furono smontati dopo la guerra e riutilizzati dall’Hellenic Air Force, in particolare un hangar Savigliano ospita a Tatoi il Museo Storico Ellenico dell’Aviazione. Esso è tuttora designato come “Hangar Leros” mentre il secondo hangar “ex Leros” si trova attualmente presso l’aeroporto di Elefsina. Due gru da 15 tonnellate ANSALDO consentivano la movimentazione degli idrovolanti dal mare alla banchina. Gli hangar erano stati montati su un piazzale ottenuto da un taglio della collina retrostante, alle spalle degli hangar erano state scavate delle profonde gallerie utilizzate come rifugi, una grande caverna ospitava il serbatoio del carburante mentre un’altra caverna ospitava una centrale elettrica e di comando dei servizi tecnici.
Operatività prima del conflitto
Non abbiamo al momento attestazione certa sulla costituzione del V° Stormo Misto Egeo, che, al pari della documentazione riguardante l’idroscalo, sembra essere dispersa. Lo Stormo fu, infatti, soppresso nel 1937 e la documentazione più antica rintracciata presso l’Ufficio Storico A.M. risale al 1932. Si può ritenere che lo Stormo Misto sia stato creato in contemporanea alla costruzione degli hangar a ridosso degli anni Trenta poiché la sola aviorimessa del 1927 non avrebbe potuto ospitare gruppi da Bombardamento Marittimo e la preesistente squadriglia da Caccia Marittima. Talmente evanescente è l’origine di questo Stormo che se non fosse per la presenza di alcune cartoline e distintivi circolanti nel mercato collezionistico oggi non sapremmo neppure quale fosse il suo stemma. Tra coloro che prestarono servizio a Lero annoveriamo ben 13 aviatori della famosa crociera atlantica di Balbo, il destino avrebbe fatto ritornare nel Dodecaneso due di loro, i generali Ulisse Longo e Alberto Briganti che comandarono l’Aeronautica dell’Egeo negli anni più difficili del conflitto, in particolare il gen. Briganti fu direttamente protagonista insieme al Governatore e Comandante Militare Amm.glio Campioni delle vicende dell’armistizio (8-10 settembre 1943) a Rodi e fu poi internato dai tedeschi sino alla fine della guerra.
Nell’aprile del 1936 il sottocapo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica, gen. Pietro Pinna fece un accurato sopralluogo in tutti gli aeroporti del Dodecaneso e incontrò tutti i capi militari della Marina e dell’Esercito con cui ebbe approfonditi colloqui. Scopo della visita era di definire l’allestimento e la localizzazione degli aeroporti, dei depositi carburanti e delle munizioni, il dimensionamento e la tipologia degli stormi dislocati, insomma tutta l’organizzazione e la struttura di forza armata nel possedimento. Al suo rientro presentò un dettagliatissimo rapporto in cui tracciava lucidamente le direttive strategiche relative alla Regia Aeronautica, direttive che furono integralmente accolte dal sottosegretario di stato gen. Valle, che come noto fungeva “de facto” da ministro (il titolare formale del dicastero dell’Aeronautica era all’epoca il Capo del Governo Mussolini che cumulava in sé le tre cariche, Aeronautica Esercito, Marina). Tuttavia, il nuovo rilievo strategico assunto dal Dodecaneso aveva già determinato la costituzione del Comando Aeronautica dell’Egeo in data 1° marzo 1937, che si era già
stabilito a Rodi (primo comandante fu il col. Ezio Padovani) mentre il successivo 30 ottobre veniva sciolto lo Stormo Misto Egeo. Era, infatti, accaduto che il gen. Pinna nella menzionata visita, pur riscontrando una situazione di buona efficienza dell’idroscalo, dotato di due grandi hangar Savigliano, due gru di sollevamento da 15 tonnellate, caserma, servizi e riserve munizioni e carburanti, ne propose il declassamento a sede di squadriglie idrosoccorso e ricognizione. La ragione principale era dovuta allo sfavorevole regime dei venti sulla baia di Lepida Portolago, non adatto agli idrovolanti più pesanti come il Cant Z 506 e il fatto che l’ammaraggio e il decollo erano ostacolati dal traffico delle imbarcazioni commerciali oltre che dalla presenza del naviglio della vicina base navale S. Giorgio, da cui tra l’altro partì il 14 dicembre 1941 il sommergibile Scirè per la famosa azione contro le corazzate britanniche nel porto di Alessandria. Il 1° ottobre 1937 si costituì il LXXXIV.O GRUPPO R.M. composto dalla 185.sq R.M. dalla VI. a Sez. Costiera e dalla 161.a sq. C.M. su Fiat CR 20 Idro, tuttavia questa squadriglia aveva solo 6 piloti e, anche se nel 1938 abbandonerà gli obsoleti Cr 20 per i Ro 44, sarà ben lontana da una minima efficienza operativa. Alla fine del 1938 il LXXXIV.o GRUPPO R.M. aveva 126 uomini tra ufficiali e specialisti in organico. Nell’estate del 1939, quando i tamburi di guerra già cominciavano a rullare, anche le Forze Armate in Egeo furono poste in stato di sicurezza, in pratica un livello di allerta paragonabile all’attuale DEFCON 2, tuttavia, questo non migliorò di molto l’efficienza dell’idroscalo in cui continuava la vita normale, si organizzavano le consuete gare di calcio, nuoto e ciclismo contro la Marina, l’Esercito e la M.V.S.N., solite cerimonie ed eventi con i pacchi dono a Natale. Gli eventi precipitarono l’anno dopo.
Periodo bellico
All’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940) l’idroscalo era classificato come aeroporto armato di prima classe Numero 802, aveva circa 420 uomini, due sole mitragliatrici contraeree, circa 700 moschetti 91/38, 70 pistole Beretta cal. 9, circa 380 tonnellate di benzina avio tra vari depositi e fusti, quattro giorni d’autonomia alimentare (le uniche grandi riserve alimentari disponibili erano costituite da scatolette di carne del 1935 che furono gettate perché ritenute avariate) ed
acqua razionata. Il problema delle scorte era comune a tutte le isole e solo nell’aprile del 1941, con la conquista di Creta e della supremazia aerea e navale nello scacchiere da parte dell’Asse, fu possibile ripristinare i collegamenti e i rifornimenti con la madrepatria e la Grecia. Durante la guerra, sino all’armistizio, l’idroscalo subì pochi danni: nell’inverno del 1941 lievi danni ad un hangar, mentre nel febbraio 1942 una formazione britannica lo sorvolò senza sganciare bombe destinate invece a Portolago. In compenso si ebbero numerosi affondamenti e incidenti dovuti ai velivoli con ammaraggi di fortuna o urti contro le banchine per le avverse condizioni del vento, mentre un altro bombardamento senza danni ci fu il 2 maggio 1942. Il 1942 si chiuse pertanto con numerosi incidenti e feriti ma pochi decessi, l’operatività fu sempre della 147.a sq. Su Cant Z 501 e 506 ma lo stop all’attività di volo arrivò il 15 giugno 1943 con un ordine dello Stato Maggiore R.A. che sciolse il Comando Idroavia e della 185.a Sq., l’ultimo comandante dell’aeroporto fu il cap.pil. Enzo Romano alla data dell’armistizio l’8 settembre 1943. L’isola di Lero rimase in mani italiane (ormai cobelligeranti con gli Alleati) sino al 16 novembre 1943 quando il gen. Tilney e l’amm.glio Mascherpa dichiararono la resa dopo una feroce battaglia di alcuni giorni contro le forze germaniche. 5.350 militari italiani delle tre armi furono catturati, tra di essi circa 400 avieri, quasi tutti gli italiani furono evacuati in terraferma tra novembre ‘43 e gennaio febbraio ‘44. Non possiamo dimenticare la tragedia del piroscafo Oria affondato con circa 4.000 militari italiani nei pressi dell’isolotto di Patroclo nel febbraio del 1944. La vicenda militare dell’idroscalo Rossetti, sebbene già chiusa l’8 settembre 1943, è suggellata dalla resa tedesca del maggio 1945. La base uscita praticamente indenne da 5 anni di guerra cessò la sua funzione militare ma gli edifici trovarono ben presto altri usi collettivi.
Periodo postbellico e attuale
Dopo l’acquisizione definitiva dell’isola alla Grecia nel marzo 1947, furono istituite le Scuole Tecniche presso l’idroscalo e la vicina Caserma dell’ex base navale italiana S. Giorgio. Le scuole furono poi chiuse nel 1964 ma già con l’istituzione del “manicomio” nel 1958 avvennero i primi massicci trasferimenti di malati. In pratica tutti o
quasi i malati mentali della Grecia furono spediti sull’isola tristemente assurta a ruolo di lager. Le strutture dell’idroscalo ospitavano circa 2.650 malati nel 1965. Nel 1981, l'anno in cui si registrò il maggior numero di pazienti ricoverati, un gruppo di medici che svolgeva il proprio tirocinio, denunciò le gravissime condizioni di vita degli internati in un simposio internazionale, chiese che i ricoveri fossero interrotti e che l'ospedale fosse chiuso. Nel 1982 un documentario girato da Kostizoi (“Oi azetetoi”, “gli abbandonati”), contribuì in maniera sostanziale a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla questione di Leros. Nel 1989 un crudo reportage fotografico realizzato dalla fotografa Antonella Pizzamiglio fu diffuso pubblicamente. Queste iniziative riuscirono finalmente a cambiare la situazione. Negli anni ‘90 la CEE finanziò la riforma psichiatrica in Grecia, assegnando un contributo sostanziale per l'Ospedale di Leros. Ci vollero comunque molti anni per la riconversione dell'istituzione psichiatrica in struttura integrata d’infermieri, cittadini e malati con l’adozione delle moderne terapie psichiatriche. Gli edifici furono quindi progressivamente svuotati innescando una progressiva situazione di degrado che prevedibilmente subirà un’altra accelerazione a causa dell’installazione nel 2015 di un campo profughi (cosidetti Hotspot) nell’ex Campo Marzio piazzale antistante alla Caserma Avieri. Sebbene la funzione storica cui furono destinati questi edifici sia cessata, si tratta di un patrimonio di grande valore architettonico che potrebbe essere destinato ad una nuova funzione. Allo stato attuale manca una concreta alternativa per un riuso sociale degli edifici a causa della crisi economica greca, l’unica soluzione proponibile sarebbe quella di destinare questi edifici o parte di essi ad uso turistico, considerando che il porto di Lakki è uno dei porti naturali più ampi e protetti del Mediterraneo Orientale. La situazione di degrado della Caserma Avieri richiede oneri di ristrutturazione elevatissimi per la trasformazione in “albergo“, ma altri edifici più piccoli come la Palazzina Comando potrebbe più realisticamente essere riconvertiti in casa vacanze per i velisti del vicino porto turistico. Progetti simili potrebbero essere co-finanziati da società private con beneficio economico li per l’economia dell’isola.
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The destroyer "Adrias"
The destroyer “Adrias” after a successful activity in the Mediterranean, in 1943 took part in the military operations on the Dodecanese Islands. On 22nd of October 1943 sailed to Kalymnos together with the British HMS “Hurworth”, in order to attract the attention of the Germans, so that the other ships could supply Leros. “Adrias” had struck a mine and due to the explosion had lost its bow. “Hurworth”, on its attempt to aid “Adrias”, also struck a mine and sank, taking 143 men to the bottom of the sea. “Adrias”, despite the damage, succeeded to reach the nearby Turkish coast in the bay of Gümüşlük. The casualties were 21 dead and 30 wounded. How “Adrias” was rescued and returned to Alexandria is a unique achievement in greek and international naval annals. In 2003, together with Peter Schenk, we visited the place where “Adrias” has fled after the incident. We tried to find out if there was still something in the area from that era. Although the village has changed a lot, it’ll always remain the place that “hosted” “Adrias” for about a month. With the photos in hand, we tried to make a “then and now” identification and to locate the exact place of first stranding of “Adrias” as well as the second. At the end, a short history of the creation of the monument of “Adrias” in Leros is included. The text and testimonies are enriched by abundant photographic material, older and new, in order to become more understandable the locations where the events took place.
(D-06),
(D-14),
L-53 (D-34),
L-91 (D-59),
(D-72).
Swan Bunter & Wigham Richardson Ltd. στο Wallsend. Η
3/2/1942.
Στοιχεια του πλοιου
Εκτόπισμα: 1490/1050 τόνοι
Μήκος: 85,30 μέτρα
Πλάτος: 11,40 μέτρα
Βύθισμα: 2,40 μέτρα
Πρόωση: Ατμοστρόβιλοι 19.000 hp
Ταχύτητα: 26 κόμβοι
Πλήρωμα: 170 Άνδρες
Οπλισμός: 4 πυροβόλα (2 δίδυμα) 101,6 mm, 1 τετραπλό πυροβό-
40 mm, 3 πυροβόλα 20 mm, 2
533 mm και
Francis Beaufort το 1811-1812, ο Charles Boileau Elliot το 1838, ο χαρτογράφος του Αγγλικού Ναυαρχείου, πλοίαρχος Thomas Graves το 1837, ο C. T. Newton, συνοδευόμενος από τον υπολοχαγό Smith το 1857.
6 http://gumuslukhistory.blogspot.com/ The Gülsüm Balcony Project 7https://anterhaber.com/yunan-savas-gemisi-parcalanmis-vaziyette-gumuslukli manina-sigindi/2204/
8
594.
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Unknown and Missing Allied Dead of the Battle of Leros
Anthony Rogers
During five days of fighting on Leros, from 12 to 16 November 1943, over 280 British and Commonwealth personnel lost their lives, on land, at sea and in the air; some 3,200 became prisoners of war. Up to 200 and probably more Italians died; about 5,350 were taken prisoner. The battle cost the Germans at least 1,100 casualties: dead, wounded and missing (including prisoners of war).
A cemetery for German dead was hastily prepared just inland from Alinda Bay. Allied, including Italian, dead were buried where they fell, or in nearby civil cemeteries.
Post-war, German and Italian war dead were exhumed for reburial elsewhere. In 1945, the remains of British and Commonwealth dead were transferred from field graves and wherever else they lay and reinterred at Alinda Bay War Cemetery. Many could not be identified. Without anything to connect them to their unit and place of demise, unknown casualties initially buried in local cemeteries will probably remain unidentified. But, what of those whose remains were found on the field of battle? Field graves might have included both known and unknown personnel. In such cases, those whose names are known might provide a clue to the identity of others buried with them. The location of each field grave is another, very important, factor.
Attempting to identify those who are still unknown is a difficult and, often, impossible undertaking, with the Commonwealth War Graves Commission rightly requiring positive proof before amending records or a gravestone. I believe that in some cases, however, it is possible to determine who has been buried as ‘A Soldier of the 1939–1945 War’.
This will be a short talk about the unidentified interred at the War Cemetery at Alinda Bay.
I wish to pay tribute to the late Peter Schenk, a real gentleman, historian and friend, who inspired me to research and write about the 1943 war in the Aegean.
My focus today is British and Commonwealth war casualties. Unfortunately, I do not have the resources to adequately research Italian and German casualties.
We do not know the precise number of those who perished during the Battle of Leros, or how many were mortally wounded and died later. According to the Commonwealth War Graves Commission, there are 183 burials at Alinda, comprising the remains of 127 identified and 58 unidentified. Mathematics is not my strongpoint, but I am sure 127 plus 58 equals 185 burials, not 183. Of these, 161 seem to be casualties from the five-days of fighting in November 1943.
Probably as a result of overcrowding at the cemetery, three identified casualties were buried in Kos. In 1957, however, local authorities reclaimed the War Cemetery, as the land was needed for redevelopment. Consequently, all remains were disinterred and reburied in Rhodes.
British records also vary with regard to the strength of Allied forces on Leros. Figures range from nearly 3,200 to more than 3,800 British and Commonwealth, mostly army, personnel. There were at least 5,500 to 6,000 Italians and 6,000 or so Lerian civilians. From 12 to 16 November, up to 3,000 German troops arrived in a combined air-sea assault that, as we all know, ended with Leros remaining in German hands until the end of the war in Europe.
On land, at sea and in the air, there would be at least 281 British and Commonwealth fatalities, including some who died of wounds within days of the battle, but discounting those who continued to die in the following weeks and months; 236 were reported to have escaped in the immediate aftermath and more would follow. As many as 3,200 were taken prisoner.
Up to 200 Italians, perhaps more, lost their lives, among them officers who were shot after being captured. Some escaped. About 5,350 became prisoners.
The battle cost the Germans 1,100 or so casualties, including over 300 killed.
A German military cemetery was hastily prepared just inland from Alinda Bay. Allied, including Italian, dead were buried where they were fell, or in civil cemeteries. Later, German and Italian war dead were exhumed for reburial elsewhere.
In 1945, the remains of British and Commonwealth dead were transferred from field graves and wherever else they lay and reinterred at Alinda, together with casualties from 1940 and the years 1944–46.
Of at least 165 Leros-related casualties commemorated on the Athens memorial at Phaleron, 110 are infantry of 4 Buffs who were lost with HMS Eclipse while on the way from Samos to Leros during the night of 23/24 October 1943; two more casualties are buried at the Haidar Pasha cemetery in Turkey, two are buried in Rhodes and another is commemorated on the Cassino memorial, in Italy. Naval personnel lost at sea, not least crew members of HMS Dulverton, sunk on 13 November 1943, are commemorated on Naval memorials in the UK.
There has been speculation that German troops on Leros removed identification discs from some Allied war dead, resulting in the high number of unnamed burials. I think this is unlikely. A simple explanation is that some soldiers probably went into battle without any means of identification.
Casualties initially buried in local cemeteries, with nothing to connect them to their unit or place of demise, will probably remain unidentified. But what of those whose remains were found on the battlefield? Communal burials sometimes included both known and unknown personnel. In such cases, named individuals might provide a clue to the identity of others buried with them.
The Commonwealth War Graves Commission rightly requires positive proof before amending records or a gravestone. This precludes DNA testing. Even so, I believe that in a minority of cases it is still possible to determine who has been buried as ‘A Soldier of the 1939–1945 War’.
In order to determine who is who among the unidentified interred at Alinda, it is necessary to have an in-depth knowledge of the battle of Leros. Source material, such as personal diaries and the recollections of those who experienced events first-hand are essential; so, too, are unit War Diaries and casualty records.
The location of each field grave is a very important factor. On 12 November 1943, there was on Leros a detachment of the Special Boat Squadron (SBS). The SBS had spent the night of 11/12 November at a gulley, or valley, the location of which is known from a wartime
map reference in the SBS after-action report. Early on 12 November, a group of SBS was ordered to position three machine guns on a hill overlooking the gulley. In the afternoon, the men were withdrawn and, in the process, a corporal was shot and killed.
In 2015, I joined others in exploring the hilltop. Just one (British) .303 empty cylinder was found. According to the SBS, their corporal had been buried close by. And, yet, the lay of the land partly obscured one’s view, making this, in my opinion, an unsuitable machine-gun position. What is significant is that Commonwealth War Graves Commission records confirm that in 1945 the remains of a corporal were recovered, but closer to the Alinda–Partheni road. I suspect that someone had erred in their map reading.
To my knowledge, only the SBS and the Long Range Desert Group were anywhere near the aforementioned hill and gulley, with the nearest other Allied forces being situated on high ground about a kilometre further west and a similar distance to the south-east. The SBS corporal was reported to have been ‘sniped’, inferring that the shot that killed him was fired from some distance away, which makes sense, as his death occurred outside the main battle area.
It is logical to assume the corporal was buried where he fell, close to where the machine guns had been sited. Interestingly, the SBS were equipped with captured German M.G. 15s. Almost certainly, empty cylinders will remain in situ. If they are German (7.92mm) and identifiable as having been fired from a machine gun, this would further indicate that it was indeed the SBS corporal who had been buried nearby.
If so, and if the Commonwealth War Graves Commission accept this as final conclusive evidence, the gravestone inscription can then be amended. Numbered (as opposed to named) gravestones can be linked to where and when an individual was found.
I did say that I do not have the resources to research German and Italian casualties. Before finishing, however, I should mention those Italians who were not accounted for after the battle. In recent years, I am informed, the graves of two have been located, one in the area of Blefuti and the other at Alinda. Possibly, one or two may still lie atop Meravigli. The location is recorded by the Commonwealth War Graves Commission as being on the northern slopes. By my reckoning, it is about 150 metres to the south-west, on the reverse slope.
The terrain is little changed today. In 1945, Major Richard H. Dixon (Cheshire Regiment), Captain Charles S. Duncan (Royal Artillery), Naval Lieutenant Alan Phipps and an unknown lieutenant were transferred from here to Alinda. do not know what became of any Italians found at this location. In addition, there may be at least five, as yet undiscovered, Allied burials on Leros.
Further investigation might also lead to the identification of the graves at Alinda War Cemetery of two soldiers of the Buffs, who were recovered from the area of Belfuti.
So, my search continues – it is an ongoing process, with no end in sight. But I consider it a worthwhile cause, not least for those who remember the fallen.
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Leros, mon amour
Andrea Tirondola, Vittorio Spigai
Here are some excerpts from the writings of Virgilio Spigai, recently re-edited by the publishers inEdibus and Mursia, from the book "Lero", from the treatise " Cento uomini contro due flotte" [One hundred men against two fleets] and from the unpublished autobiographical story " Anime bianche” [White souls] recently published by the Historical Office of the Italian Navy.
It concludes with some reports of the final results of the Battle of Leros, taken from the 16th volume of " La Marina italiana nella Seconda Guerra Mondiale - Avvenimenti in Egeo dopo l'Armistizio (Rodi, Lero e isole minori)” [The Italian Navy in the WWII - Events in the Aegean after the Armistice (Rhodes, Leros and smaller islands)].
A compelling picture of the decade between 1933 and 1943, which saw in the young commander a witness linked to the events of Leros by his military duties but also by the love for the island and its inhabitants, colleagues and fellow soldiers, the special world of the Italian Navy in that decade.
Si riportano alcuni brani dagli scritti di Virgilio Spigai, recentemente riediti dagli editori inEdibus e Mursia, dal libro Lero1, dal trattato Cento uomini contro due flotte2 e dall’inedito racconto autobiografico Anime bianche3 da poco pubblicato a cura dell'Ufficio Storico della Marina Militare italiana.
1 V. Spigai, Lero – la battaglia per il Dodecaneso, Edibus comunicazione srl, Vicenza 2017 ((precedenti edizioni dell’Ed. Belforte - Livorno dal 1948 al 1975).
2 V. Spigai, Cento uomini contro due flotte, prima edizione dell’Ed. Belforte - Livorno nel 1957. Riedito nel 2022 da Ugo Mursia Editore srl- Milano. (prefazione di E. Cernuschi e A.Tirondola).
3 V. Spigai, Anime bianche – Romanzo autobiografico di Virgilio Spigai (a cura di A.TIRONDOLA), edito postumo dall’Ufficio Storico della Marina Militare nel 2021.
Si conclude con alcuni resoconti degli esiti finali nella Battaglia di Lero tratti dal XVI° volume La Marina italiana nella Seconda Guerra Mondiale - Avvenimenti in Egeo dopo l'Armistizio (Rodi, Lero e isole minori)4 .
Un quadro avvincente del decennio tra il 1933 e il 1943, che videro nel giovane comandante un testimone legato alle vicende di Lero dai suoi doveri di militare ma anche da un amore per l'isola e i suoi abitanti, i colleghi e i commilitoni, il mondo speciale della Marina italiana in quel decennio.
Nell’ultima, lunga resistenza di Lero, il comandante di Fregata Virgilio Spigai era il responsabile del DICAT-FAM, l’Osservatorio e il Comando per le batterie antinave e antiaereo di tutta l’isola, sulla vetta del Monte Patella. Nei locali sotterranei, sottostanti all’intelaiatura sfasciata dell’osservatorio, sono ancor oggi leggibili le scritte del Comando, accanto al rivelatore acustico parabolico scavato nei pressi e recentemente restaurato. Attorno, i piedistalli a cui erano imbullonati i gruppi antiaerei a difesa del Comando che soprintendeva all’organizzazione del tiro in tutta l’sola.
Il rapporto tra Lero e l’allora comandante Spigai, dopo il ritorno dalla prigionia nella primavera del 1945, rimase indissolubile e vivo per tutta la vita.
1912-1933
Racconta Spigai: (da: Lero )
“Conobbi le isole per la prima volta nella tarda primavera dell’anno 1933. Ero già stato da quelle parti con qualche nave in transito, ma la fugace apparizione di quel mondo non aveva destato in me alcuna speciale sensazione. Nel 1933, invece, fui costretto a sostare abbastanza a lungo nell’Arcipelago per lavori idrografici, che la Marina vi svolgeva sotto la direzione dell’allora comandante Bonetti5, e lo
4 Ufficio Storico della Marina Militare, La Marina italiana nella Seconda Guerra Mondiale - XVI° volume - Avvenimenti in Egeo dopo l'Armistizio (Rodi, Lero e isole minori).
5 Capitano di fregata Mario Bonetti, all’epoca comandante della nave idrografica Ammiraglio Magnaghi. Destinato dal novembre 1940, nel grado contrammiraglio, al
splendido paesaggio ebbe tempo e modo di affermarsi in modo indimenticabile nel mio spirito.
Le basse Sporadi, costituenti nell’insieme il non vecchio possedimento italiano dell’Egeo, impropriamente denominato Dodecaneso, si stavano, proprio in quell’epoca per dirla con Shelley «vestendo di musica e di luce».
Gran parte del lavoro, in verità, lo avevano già fatto Dio e la storia. Dio sbalzando dal mare solenni e incantevoli diademi di terre sotto il più bel cielo della creazione; la storia, concentrando nell’Arcipelago, alle soglie del Bosforo, le vicende più immaginose e sensazionali dell’umanità. Dopo la civiltà di Creta perduta nella nebbia delle origini del vivere civile, dopo il geniale sorriso della libertà ellenica, i Romani di Roma e di Bisanzio, i guerriglieri arabi e turchi, veneziani e genovesi, si erano avvicendati alla signoria dell’Egeo che apriva la via alla signoria del Mediterraneo. I Turchi avevano avuto la penultima parola; l’ultima, poi, l’avevano avuta gli Italiani, i quali, ponendo piede nel 1912 sulle isole, avevano trovato il deserto.
Mentre nei secoli Dio si era conservato fedele al patto creativo conservando gli armoniosi aspetti del paesaggio e i dolci ricami argentei intessuti dal Nord-Ovest sullo smagliante drappo di seta del mare, gli uomini non avevano fatto altrettanto: bisognosi di pietra, avevano rosicchiato e demolito i resti dell’architettura primitiva; bisognosi di legname, avevano tagliato gli illustri alberi secolari e aperta la via all’insulto del salino sulle terre grasse; bisognosi di braccia, con la forza e il miraggio dei traffici, avevano indotto a emigrare i pacifici isolani. Al principio del secolo XX le isole erano ridotte una pietraia, una specie di sbriciolato Kalahari disseminato assurdamente nel mezzo del più interessante mare d’Europa; e le minori di esse erano affatto disabitate. In alcune altre pochi pastori privi di ogni possibilità di comunicazione col mondo graffiavano la terra nelle depressioni del terreno e custodivano gli armenti, comparendo davanti a voi inattesi come se fossero scaturiti dalla terra solitaria. Vestiti e calzati di pelle, incolti e baffuti, in molti casi lebbrosi, dediti talvolta all’incesto, spesso al contrabbando, essi erano nonpertanto ospitali
Comando Superiore Navale Africa Orientale Italiana nell’aprile 1941 fu fatto prigioniero dagli inglesi con la caduta di Massaua.
nei modi, fieri nel portamento, e parlavano una lingua squillante: avevano profondo il senso religioso e il rispetto della vecchiaia; mettevano al mondo fanciulli con il viso angelico, segnato da tratti di indiscutibile nobiltà; ma nell’insieme costituivano i resti di una collettiva tragedia. Le isole, che la poderosa architettura tettonica faceva apparire dominatrici a sconcertante altezza sull’inutile agitazione del mare, non erano in sostanza che tremende zattere della fame, ove gli eredi di una delle migliori famiglie umani, travolta dal torbido flusso della storia, vivevano isolati in un implacabile silenzio.
Rodi, la più grande, la più ricca, la più popolosa delle isole era certamente una gran dama. Si era disputata per secoli il titolo di Favorita del Mediterraneo, con altre dame piene di fascino e portamento, che si chiamavano Malta, Cipro, Majorca, Sardegna, Sicilia, Creta; poi era rimasta abominevolmente indietro. La prima volta che la vidi, già dodici anni dopo l’arrivo degli Italiani, mi fece un senso di pena. Le ero corso incontro con l’immaginazione accesa dai ricordi del suo passato e dalle citazioni classiche e la trovai sciatta e scaduta, come una vecchia cortigiana ridotta ad altro mestiere. Meglio le isole minori, meglio il deserto dove la costante fedeltà della natura correggeva gli errori degli uomini. «Che diavolo siamo venuti a fare in queste terre?» pensai in quell’occasione.
Allora ero un ragazzo e non sapevo che le flotte non si costruiscono per farle muovere in pellegrinaggio sulle orme degli eroi e dei poeti. Confondevo la mitologia con la politica: ecco tutto.
Ma torniamo al 1933. Quell’anno, un po’ per piacere e molto per necessità di mestiere, vidi le isole da vicino. Non abbiate paura: non ho intenzione di occuparmi di nessuno dei capitoli di scienza che le riguardano. Ho un altro compito, devo farvi il racconto di una storia viva e presente che vi lascerà sorpresi. Mi basta che vediate, con gli occhi dell’immaginazione, la cornice del quadro che devo dipingere, l’impalcatura spirituale ed estetica senza la quale i fatti che vi andrò dicendo risulteranno incomprensibili. Se non facessi così il mio quadro vi sembrerebbe prodotto di pura fantasia, come il ritratto di Dorian Gray, anche se volto al nobile, invece che all’ignobile.
Dunque, quell’anno, imparai il linguaggio delle isole. È vero che arrivando a Rodi trovai sulla banchina una musica con molta folla adunata per ricevere un alto personaggio; ma appena quello spettacolo in sé innocuo ma assai contrastante con la cornice delle mura,
mi si tolse di sotto gli occhi, fui incantato dalla sorpresa. La città non si riconosceva più: aveva scavalcato Tripoli, Bengasi, Tunisi, Porto Said, Suda, Cagliari, Malta: era diventata uno dei luoghi più ameni del Mediterraneo. Rideva, meditava, giocava, in un lusso delizioso di fiori. Comprava, vendeva, ospitava, con un brusio discreto e signorile. Aveva aperto al sole alcuni insuperabili alberghi coloniali, sul tipo di quelli che dovevano poi formare l’incanto di Tripoli. Gli italiani avevano lavorato senza impulsi sovvertitori e con l’intento di armonia: non per niente li guidava un artista. L’artista si chiamava Mario Lago e governò lunghi anni, fino alla fine del 1936, con uno stile che pareva quello dei pastori delle favole ed era invece oltremodo realistico. Tra le sue sagge mani germogliò un Dodecaneso che non si era più visto da millenni. Pace, turismo armonia, tranquillità degli spiriti, scuola, culto del bello, ripresa dei traffici. Documentare queste affermazioni sarebbe offesa all’appassionata opera di quel ricostruttore. Dal suo studio non era visibile l’isola dalla quale Icaro tentò il grande volo; ma forse era abbastanza vicina alla sua mente per suggerirgli il principesco equilibrio che lo guidò nell’azione di governo. Nel 1932 la sua opera era già a buon punto: «Io non capisco - mi diceva Maria Luisa Wiedemann, allora giovane e bella (ora non so dove sia) - perché voi Italiani abbiate così intimo il culto delle tradizioni, anche di quelle degli altri.»
Disse così e le rideva la scintillante bocca nordica contro l’orlo del bicchiere allagato di sole. Avevamo a tavola con noi anche un giovane ebreo che si chiamava Benatal e anch’egli rise: «Gli Italiani - osservòproteggono persino noi. È tutto dire.»
Volse su di me, italiano, il penetrante sguardo come se davvero mi amasse. I suoi denti scintillavano assai meno di quelli di Maria Luisa, perché le labbra un po’ troppo piene li lasciavano quasi in ombra.
A quell’epoca la sala da pranzo dell’Albergo delle Rose era una specie di santuario del buon gusto e dell’intelligenza mondiale, almeno di quella parte dell’intelligenza e della raffinatezza mondiale che aveva la possibilità di perdere qualche giorno in un angolo del Mediterraneo. La commissione che deve stabilire l’idoneità degli Italiani a reggere i vecchi possedimenti potrebbe benissimo non muoversi da casa. Prenda gli elenchi degli ospiti turchi, egiziani, greci, svedesi, britannici, americani, tedeschi, olandesi, svizzeri, e statunitensi dell’Egeo di quei giorni, e domandi: domandi se hanno mai visto fustigare
un uomo, domandi quanta gente era in prigioni, domandi che regole erano imposte ai nativi, domandi quanti colpi di fucili e quante forche hanno contristato le isole in trentacinque anni; poi domandi quanti matrimoni, quante nascite, quante nuove aziende sono state registrate, quante nuove vie, ospedali e scuole aperti, quanti alberi piantati. E poi potrà anche non riconoscere, se vuole, la commissione, che l’Italia ha fatto enormemente di più nei Paesi che le sono stati affidati in custodia, che non a casa propria. E perché poi? Non lo so. Chiediamolo al nostro istinto di viaggiatori, di pionieri, di poeti. Non aggiungo di scienziati e di eroi perché potrebbe portarmi poca fortuna.
[...]Dopo Rodi, subito dopo, conobbi le altre isole, quasi tutte. Coo, dove allora era ancora vivo il fico di Ippocrate (sarà ancora in piedi ora? mi hanno detto di no), aperta sul golfo spettacolare di Alicarnasso. Piscopi, dove i religiosi italiani stavano dando i primi soccorsi ai lebbrosi. Calino, nota per un certo entusiasmo filo-greco che faceva pitturare le case di molti a strisce bianche e azzurre (non stavano niente male). Nisiro, che ricorda nella struttura un po’ Stromboli e un po’ Santorini. Patmo, coronata in vetta da un famoso monastero e tutta arrogante perché San Giovanni vi aveva scritto l’Apocalisse. Farmaco, che vide Cesare prigioniero dei pirati. Poi Stampalia, Sirina e Levita, battute dai venti inestinguibili del canale di Scarpanto. A Stampalia esistevano ancora poche tracce dell’organizzazione militare che vi era stata improvvisata durante la guerra italo-turca e durante la prima guerra mondiale, ma soprattutto si notavano tracce evidenti di capre, come a Calchi, come a Simi, come a Risso, come a Gaidaro, come in altri isolotti solitari che non mi fu possibile vedere. Delle isole maggiori mi rimase straniera solo Scarpanto, la selvaggia Posydium, che allunga verso l’alto mare a Sud formidabili bastioni di pietra e che si sta riducendo un’immane coltello sotto la potente azione erosiva delle correnti marine. A Chinaro, altro colossale monolito che sorge nell’estrema zona Ovest del possedimento, ebbi un piccolo incidente con un collega della marina greca arrivatovi per caso come me e convinto che l’isolotto fosse greco esattamente come io ero convinto fosse italiano. I giornali di Atene parlarono del fatto con un certo rilievo: forse ne avrebbero parlato meno, se avessero saputo che l’incidente si svolse davanti a due piatti di spaghetti e due tazze di caffè. Fu una parodia di avvenimento internazionale tra un gazolino lungo venti metri (il greco) e una pirobarca da scandaglio lunga dodici metri (la mia). Se
ne parlò perché in quei luoghi la pace era da decenni assoluta come il silenzio di certe notti di bonaccia, in cui negli accampamenti gli uomini parlavano a bassa voce perché sembrava che se uno di essi avesse gridato si sarebbe incrinata la volta del cielo.
A molte delle isole approdavano postali e postalini, ma le più solitarie le raggiunsi con l’aiuto del vecchio Cambozo. Egli aveva in affitto tutta l’isola di Levita, per molto meno di quanto oggi non costi un pacchetto di Morris, ed era anche guardiano stipendiato del faro: un vecchio faro ereditato dai Turchi. Cambozo aveva a disposizione molto spazio, cavalli e muli, molto bestiame, alcuni fucili e un caicco a motore nuovo fiammante, che saltava come un delfino sulla groppa delle onde. Anche se il tempo era cattivo, la navicella sormontava agevolmente le creste ricciute e attraversava senza difficoltà i canali approdando alle terre scoscese da sottovento. Non so quanto valesse come zoofilo, il vecchio Cambozo, ma come nocchiere era eccellente e come anfitrione non lo batteva nessuno. Fui suo ospite con dieci uomini per due mesi e alla fine gli chiesi il conto, che il Governo avrebbe liquidato senza difficoltà.
«Il conto? - interrogò, con strano dolore nella voce, quando ebbi finito - Ma voi siete stati nella mia casa e avete diviso il mio pane.»
Per l’appoggio dato alla spedizione ebbe un elogio dal Governatore che espose in un bel quadro all’ammirazione di nessuno, perché sull’isola viveva solo con la propria famiglia.
Tale era, lettore, lo scenario che apparve ai miei occhi in quel 1933 che pare a tutti noi, ora, data lontanissima. Stese, placide e ridenti sotto la benedizione del sole tra braccia speculari d’acqua senza moto, tinta di intenso azzurro; erte, come giganti pareti di pietra dura, scaturite dal mare per far nido ai mostri degli abissi; disseminate di rovine millenarie nelle vallate e sulle spiagge, dove mare e terra si baciavano insaziabilmente, le isole mi innamorarono. Quando le lasciai, il Nord-Ovest imprimeva al postale salti alquanto bruschi, ma io non mi accorsi di nulla. Avevo ventisei anni e mi pareva che sotto l’effetto del vento le isole cantassero. Mi pareva che qualunque cosa fosse accaduta nel mondo, nulla avrebbe ormai più potuto alterare il finalmente ritrovato equilibrio e l’armonia di quell’angolo del creato.
“Quando sarò più vecchio - pensavo - e avrò bisogno di riposo, verrò qui con colei che sarà allora la compagna della mia vita, a godere questo sole che non si estingue mai.”
Avevo ventitré anni e non sapevo che il mondo è molto piccolo e i fatti umani assai mutevoli. Benché educato alla vita militare non supponevo neppure che già in quel momento, uomini assillati da gravi pensieri, dentro severi uffici, stessero determinando le premessi dei fatti memorabili che dovevano scuotere anche la pace dell’Arcipelago. Soprattutto non supponevo che la sorte mi avrebbe condotto a vivere le ore più drammatiche della sua terribile avventura. Avevo ventitré anni e credevo che il rispetto che tutti gli uomini ostentavano per la pace e la bellezza fosse sincero. Dimenticavo che l’uomo è capace di uscire sospirando da un concerto di Beethoven e riprendere tranquillamente il giorno dopo lo studio di una bomba che può uccidere un milione dei suoi simili.
[Isole Italiane dell’Egeo (Dodecaneso). Andamento della linea di confine all’8 settembre 1943. (da una carta dell’Istituto Geografico Militare Italiano)]
Il lavoro degli uomini pensosi
«Eravi allora dislocato nell’isola di Rodi - scrive il col. Fanizza6con un modesto dislocamento nell’isola di Lero, un solo reggimento di fanteria, e tutta l’attrezzatura bellica del possedimento consisteva nelle sciabole degli ufficiali e nei fucili dei pochi fanti nel tempo di pace.»
Ma Mussolini intraprese la campagna etiopica e la campagna di Spagna, mentre Hitler al nord delle Alpi scuoteva l’apparente letargo mondiale con gesti da facinoroso. Gli uomini pensosi, i quali sono pallidi ragni che hanno le maniche blu con bottoni scuri, le maniche grigie con bottoni marroni e qualche volta soltanto le maniche rigate d’oro, di fronte a queste non inattese novità cominciarono a far pesare gli occhi densi di calcolo sui punti focali della rete d’acciaio che a un certo punto avrebbe anche potuto avviluppare il mondo e metterlo a fuoco. Da una parte e dall’altra, le menti pensose, mentre la politica e la stampa si affaticavano a conquistarsi la simpatia umana e il monopolio del diritto, calcolavano il valore di questi punti. La strategia è una specie di lotta libera dove risulta vincitore colui che piazza per primo i colpi più duri, ma nella quale chi si scopre con iniziative di carattere evidente resta squalificato. Anche in Italia c’erano menti pensose. Gli Italiani chiamano la Marina “la grande silenziosa” perché la Marina, venendo spesso a contatto con popoli più educati alla politica e alla strategia ha un po’ dello stile che occorre per prepararsi seriamente a un’impresa. Così, quando nel 1936, con la sostituzione del governatore Lago da parte del conte Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon il Governo italiano, alquanto incautamente, denunziava al mondo la sua intenzione di valorizzare militarmente il possesso dell’Egeo in vista di possibili complicazioni, mentre si procedeva a aumentare frettolosamente gli effettivi ivi dislocati, la Marina aveva da tempo volto il suo sguardo sull’isola di Lero.
6 Si riferisce al volume del colonnello Ruggero Fanizza, all’epoca dell’armistizio sottocapo di Stato Maggiore del Comando delle forze armate delle isole italiane dell'Egeo (EGEOMIL), De Vecchi, Bastico, Campioni : ultimi governatori dell'Egeo: uomini, fatti e commenti negli ultimi anni di pace e durante la guerra, sino all'armistizio con gli Anglo-americani, Valbonesi, Forlì, 1947.
L’isola di Lero è una specie di grosso insetto assai articolato che fa sistema con l’adiacente isola di Calino dalla quale la separa uno stretto, ingombro di isolotti. Ha per caratteristica, quest’isola, di possedere coste frastagliatissime, di essere, per dirla con Manzoni, “tutta seni e golfi”. Di questi seni almeno due si prestavano, e forse si presterebbero ancora, per accogliere apprestamenti logistici e per consentire l’ormeggio in condizioni di sufficiente sicurezza a idrovolanti e mezzi navali.
L’isola è tutta colline, lunga quindici chilometri, in qualche punto larga appena mille metri; e la ricchezza delle alture, molte delle quali
[L’isola di Lero. Aspetto naturale. (da una carta dell’Istituto Idrografico della Marina)]
scoscendono al mare con vistosi dirupi, e l’abbondanza delle articolazioni le conferiscono un aspetto oltremodo vario e leggiadro, nonostante la severità del profilo che si presenta assai imponente a chi la raggiunge dal mare.
Nativi, che preferiscono vivere addensati nelle vallate che si scorgono sulla carta, vivono, come tutti i loro compagni egei, di traffico, di contrabbando, di artigianato, di pesca, di allevamento e di agricoltura, e godevano fama dal più remoto passato di essere autentiche canaglie. In modo particolare, come afferma il padre Lega7, godevano fama di essere amanti della satira e dell’imbroglio. Scrisse Strabone: «Tutti i Lerioti sono malvagi, eccetto N. che è un filibustiere.»
E un altro che la sapeva lunga: «Una vipera morse un Leriota, ma morì avvelenata.»
Il 12 maggio 1912, quando i marinai della nave San Marco vi sbarcarono, l’isola dormiva intorno alle sue rovine e al suo castello, e nessuno dei Lerioti, per quanto acuto calcolatore, poteva prevedere le conseguenze derivanti da questo fatto. È vero che da Lero mosse la spedizione dell’ammiraglio Millo per l’impresa dei Dardanelli8; è vero che, nella Prima guerra mondiale, Inglesi e Italiani inviarono navi in temporaneo ridosso nelle due rade di Portolago e di Parteni. Ma in sostanza, sia alla fine della guerra italo-turca, sia alla fine della Prima guerra mondiale, la partenza delle navi restituiva l’isola alla sua pace e e alla sua solitudine. Quando vi misi piede per la prima volta, nel 1924, mi chiesi come uomini potessero rassegnarsi a vivere così anacoreticamente.
Quando vi tornai nel 1933 solo l’aeroporto aveva alzato i suoi impianti nell’angolo incantevole della Villa del Pascià.
Poteva essere discutibile l’efficacia di un impianto simile in una rada che il maltempo da Libeccio empiva di cavalloni potenti e
7 Cappellano militare a Lero, per il proprio comportamento nella difesa dell’isola fu decorato di medaglia d’oro al valore militare. Morì per incidente stradale nel 1951. Si veda la sua raccolta di ricordi, più volte citata nel testo, inedita al tempo della prima edizione del presente volume e pubblicata postuma: Lero eroica, Centro veritas et amor, Sermoneta, 1974.
8 L’allora capitano di vascello Enrico Millo, al comando di una squadriglia di torpediniere, aveva fatto tappa a Lero (Parteni) per sbarcare il materiale non strettamente necessario alla progettata incursione nei Dardanelli. Si era trasferito poi a Strati, da dove la notte sul 18 luglio 1912 mosse la missione che gli valse la medaglia d’oro al valore militare.
ordinati, molto belli a vedersi, ma non certo comodi per il decollo degli aerei. Poteva essere discutibile se, date le prevalenti correnti aeree da Nord-Ovest, la baia di Parteni non si prestasse meglio al decollo degli aerei che non la baia di Portolago, assai stretta e male orientata rispetto al vento dominante.
Ma una cosa è sicura: hangar, magazzini, villette e altri apprestamenti erano stati inquadrati con alto senso artistico nell’ambiente naturale; tanto che non si aveva affatto la sensazione, avvicinandosi al luogo, che si trattasse sul serio di un impianto militare. L’Aviazione, c’era poco da dire, aveva battuto la Marina in velocità. Era l’epoca in cui, con un concetto che si presterebbe per molte discussioni, Italo Balbo lanciava l’Aereonautica italiana, con metodi un po’ simili a quelli in uso a Hollywood per lanciare le stelle del cinema.
Di fronte all’aeroporto, dall’altra parte del golfo, era stata costruita una banchina stile Novecento. E a quella banchina cominciavano lentamente a giungere piroscafi oltremodo vecchi e malconci che sbarcavano pochi uomini e pochi materiali, testa a testa, chilo a chilo, ma interminabilmente. Erano gli occhi vigili della Marina, che da un lato seguivano in obbedienza, ma con acuta osservazione, lo sviluppo esponenziale delle opinioni e delle speranze di Mussolini; e dall’altro, con i piedi ben appoggiati sulla terra, cercavano di valorizzare con i pochi mezzi a disposizione tutti i punti che un giorno avrebbero potuto servire di appoggio per la flotta italiana.
Per la Marina, vista la nullità del porto di Rodi e l’assenza di rade chiuse in tutte le altre isole dell’Egeo italiano, non restava che concentrare l’attenzione sulle due baie di Portolago e di Parteni che solo potevano offrire alle navi un punto di appoggio di carattere permanente. Gli uomini si succedettero, i mezzi restarono pochi, e le armi e gli apprestamenti di cui era possibile disporre per attrezzare quella lontana non principalissima base non rappresentarono certo il fior fiore della produzione moderna del nostro Paese. Il Paese doveva pensare soprattutto alle corazzate, agli incrociatori, ai cacciatorpediniere, ai sommergibili. Se fosse avanzato qualche soldo, dopo aver espletato, economizzando al centesimo, tutto il programma navale, occorreva pensare prima di tutto agli apprestamenti delle basi metropolitane: Spezia, Taranto, Napoli, Messina, Augusta. Lero, alla pari di Massaua, dopo Tripoli e dopo Tobruk, veniva in coda a questa colossale e insoddisfacibile catena di richieste.
Vecchi cannoni, vecchie mitragliere, lavori in economia, naviglio di uso locale e vetusto, costruzioni del minimo prezzo, personale in quantità ridotta e di qualità non eccellente: ecco ciò che si poteva (e non senza notevole sforzo) mettere a disposizione di Lero. Tutto il resto doveva farlo la paziente cura degli uomini, destinati a realizzare un’opera colossale partendo da premesse impossibili.
L’opera ebbe in soccorso due aiuti provvidenziali: la tenacia dell’operaio italiano e la natura del territorio. Un cosa è improvvisare un bastione difensivo; e una cosa è completare con apprestamenti in conveniente ubicazione un bastione difensivo naturale.
Ciò mi permise di osservare, ritornando nell’isola di Lero nella primavera del 1940, dopo sette anni di assenza, che le formiche italiane, con l’aiuto di Dio, avevano fatto un miracolo.
Maggio 1940
Spigai ritorna a Lero nel 1940. (da: Lero)
Se vi dico che nella primavera del ’40 ritornai a Lero con un sommergibile9 che faceva parte di una schiera abbastanza notevole di sommergibili là dislocati, voi già intuitivamente apprezzate che nel poco tempo trascorso gli uomini pensosi della Marina non erano stati con le mani alla cintola. Una schiera di sommergibili presuppone una Stazione sommergibili, che si compone di caserme, depositi, stazioni di carica degli accumulatori, officine per l’esecuzione di lavori di riparazione, bacini di carenaggio per le visite agli scafi, stazioni e centrali per i rifornimenti di acqua, combustibile, ossigeno e così via.
«Che diavolo! - esclamerete - Ci vorrai mica far credere che in sei o sette anni fosse sorto un arsenale.»
Ebbene, piccolo, sì, ma completo in tutti i dettagli che si sono detti e in molti altri che ometto per non essere noioso, l’arsenale era sorto. Si chiamava democraticamente Officina mista, ma era in sostanza assai più di una officina. Vi lavoravano centinaia di operai della Marina, senza tener conto degli assoldati delle imprese civili. E siccome era mancato lo spazio per costruire l’arsenale lungo le rive della baia di
9 Il sommergibile Ametista.
Portolago, si era lavorato con la dinamite a spianare le dirute sponde meridionali della baia. Ci si era un po’ interrati e ci si era arrampicati con le costruzioni e le baracche fino a mezza falda delle colline. Un bacino galleggiante era stato portato dall’Italia. Centinaia di metri di banchine, depositi di siluri e tante altre cose erano stati edificati con la pazienza e il cemento: due cose che legano molto. Una rete metallica a zig-zag, vegliata da garitte e posti di guardia, circondava tutto l’arsenale, che non ospitava solo i sommergibili, ma anche vecchi cacciatorpediniere, nuove torpediniere, navi del dragaggio e navi di uso locale, nonché MAS e motosiluranti. Per tutti questi mezzi, che si dovevano muovere, erano state immagazzinate decine di migliaia di tonnellate di nafta dentro serbatoi per metà piantati nella roccia e per metà invelettati come vecchie signore, a scopo di occultamento. Marinai e carabinieri, con caserme proprie, vegliavano sulla sicurezza della zona, detta di San Giorgio, ove, data la pochezza dello spazio, uomini e galleggiati brulicavano. Pontoni e bettoline di tutte le specie infittivano la ressa alle banchine e quando il Libeccio era forte tutto quel catenume e cavume animato dalla risacca si metteva a cigolare. I nostromi passavano notti insonni sotto i Sud Ovest marci d’acqua e bestemmiavano fumando perfido tabacco.
Dal seno interno dell’aeroporto la catena delle installazioni dell’arsenale si spingeva fino quasi all’imboccatura, sempre a ridosso dei monti, che parevano pronti a schiacciare tutto, tanto ripidamente pendevano sopra alle costruzioni. Da quell’insieme di fumaioli, di antenne, di tetti, di ferraglie di pietre e di sterpi scaturiva una brutale armonia che conferiva alla scena aspetti alquanto virili, se non proprio belli. Un paio di migliaia di anacoreti custodiva e impiegava i mezzi del lavoro e del mare. Era sorta sulle sponde meridionali del lago una organizzazione industriale che, unita al valore delle navi ospitate, costituiva un discreto obiettivo per un eventuale assalitore. Sulle sponde settentrionali sorgevano invece l’Ospedale10, il Comando Marina, la Chiesa, altre caserme, magazzini e uffici amministrativi, nonché una borgata abitata in prevalenza da Italiani, con palazzine moderne. Una
10 Sulle vicende e i personaggi dell’Ospedale di Marina di Lero si veda il volume di ricordi di un marinaio infermiere che vi prestò servizio: D. Pischedda, Guerra in Egeo (1940-1945) – Un marinaio racconta..., Antonio Lalli Editore, Poggibonsi, 1979.
casa di ragazze allegre e ampi depositi di munizioni completavano la corona degli edifici, che aveva ricacciato verso le vette l’amenità del paesaggio. Le munizioni erano in caverna e le donne no; ma ambedue questi pericoli erano stati alquanto isolati dall’abitato.
L’intero obiettivo, costituito dagli impianti della Marina e dell’Aviazione addensati, come si è detto, a Portolago, e in misura ridotta nella ridentissima insenatura di Parteni, aveva bisogno di essere difeso. A ciò provvedeva un certo numero di sbarramenti e di ostruzioni portuali; un certo numero di sbarramenti di mine che si era tentato di disporre in modo che chi si avvicinasse all’isola con intenzioni ostili saltasse in aria; e un certo numero di batterie di cannoni e di soldati di fanteria. I soldati erano cinquecento e appartenevano al 10° Fanteria (Divisione Regina). Le batterie costituivano un insieme numericamente elevato. Come qualità, erano un campionario della produzione nazionale degli ultimi cinquant’anni. Dal vecchio cannone 152/40 della batteria «Ciano» che i nostri nonni avevano visto dominante su tutte le navi costruite al principio del secolo, si scendeva, attraverso un discreto assortimento, al moderno 90/53 contraereo della batteria 127 che faceva bella mostra di sé anche sulle nuove corazzate tipo «Vittorio Veneto». La media delle età, per i motivi che sono stati esposti, era alquanto spostata verso il passato, perché le batterie di cannoni nuovi erano una e le batterie dei cannoni vecchi 23. Non inarcate le ciglia, è proprio così: la piccolissima isola aveva 24 batterie di cannoni, con circa cento bocche da fuoco. Batterie navali, di cannoni grossi, batterie contraeree di cannoni piccoli, batterie navali e contraeree insieme (il maggior numero) anch’esse di cannoni piccoli. Tutto l’insieme dipendeva da un comando DICAT-FAM (difesa contraerea territoriale, fronte a mare). La rete fronte a mare era articolata in tre gruppi, EST, OVEST e SUD detti navali; la rete contraerea in altri gruppi NORD, CENTRO e SUD detti contraerei come indica lo schema. Non era una organizzazione eccellente, ma neppure perfida, come i fatti che vedremo dimostrarono in seguito. In totale, quindi, data la sua microscopica estensione, la sua distanza dalla madre patria, il suo isolamento e la nostra povertà di mezzi, l’isola era armatissima. Non si può dire che fosse armata bene, ma il motivo di quest’ultimo non gradevole fatto non era incuria. Anche oggi che i morti sono morti e i vivi hanno la mania di criticare tutto, si deve onestamente riconoscere che gli uomini pensosi della Marina avevano fatto quanto
era umanamente possibile per dare all’insieme una discreta efficienza bellica. Gli uomini della Marina avevano lavorato con onestà e coscienza.
Pregio di molte opere e soprattutto di molte batterie era la eccellente posizione in cresta, vantaggiosa non solo dal punto di vista panoramico. Qualche cosa, come la modernissima centrale elettrica, era anche stata sistemata in caverna e altre cose vi furono sistemate nel corso della guerra; ma nessuno dei combattenti, neanche quelli delle batterie maggiori, ebbe, in tutti i fatti che ci accingiamo a raccontare, altro ridosso che il proprio fegato. Intorno pietre e sulla testa il cielo: un cielo quasi sempre bellissimo, ma di nessuna efficacia protettiva contro bombe e proietti. Uomini e cannoni vissero tutta la tragedia allo scoperto, come all’epoca della guerra dei cento anni: questo elemento tecnicamente negativo ebbe il lato positivo di abituare la gente, sin dal primo giorno, a guardare in faccia il pericolo e ad accorgersi che il diavolo non è poi tanto brutto come lo si dipinge. Ma non divaghiamo, procediamo con ordine. Preghiamo solo il lettore di non muovere rimprovero agli uomini della Marina per questa mancanza di protezione per i cannonieri: non è che essi non ci avessero pensato; ma determinate caratteristiche richieste ai campi dei pezzi e la natura del terreno non avevano lasciato adito a dubbi: spendere, per ogni postazione, somme immense o chiedere agli uomini di battersi all’aperto. Le somme immense non c’erano e fu adottata la seconda soluzione. I cannonieri risposero con generosità superba, «nonostante fossero italiani», come direbbe uno storico che fosse anche nostro liberatore.
Mag.1940
Nel libro autobiografico Anime Bianche, scritto in prigionia e recentemente edito dall’Ufficio Storico della Marina, Spigai – sotto lo pseudonimo di Giovanni - torna a parlare della roccaforte italiana del mediterraneo orientale:
“Alle tredici del 10 maggio la radio diffuse la notizia che le truppe tedesche avevano varcato la frontiera dell’olanda e un’ora dopo cinque sommergibili lasciarono il porto di Meina diretti al Sud. lo
Stellamaris uscì secondo, preceduto dal Delfino e seguito dallo Jantina, dallo Zaffiro e dallo Jalea.11 I bestioni s’incolonnarono con una certa lentezza: paragonati alle torpediniere parevano vere lumache. «All’abbordaggio, Grifone!» aveva gridato il “Norge”, salutandolo dalla banchina.
«C’è poco da abbordare» brontolava ora Giovanni, seccatissimo «questa carcassa non si muove.»
«Comandi?” interrogò il mite Parodi12, l’ufficiale di rotta, lanciandogli un’occhiata circospetta.
«Non ce l’ho con lei. Sta seguendo la navigazione?»
«Signorsì, ma tanto dobbiamo andare dietro al Delfino. »
«Questo non è un discorso. Siamo alle solite. Lei non è mai preciso. »
«Ma…»
«Insomma, taccia.»
Capo dell’armi. Il procombere delle montagne calabre intagliate profondamente dalle fiumare sassose, la delicata linea bigia delle spiagge, e, contro questo paesaggio mozzato in vetta da un tappeto uniforme di nubi, lo Jonio addormentato, plumbeo, macchiato qua e là da banchi di foschia. I cinque mostri dal pesante passo inoltrarono nella quiete degli elementi, scuotendo l’aria col rombo regolare dei motori.
Capo Spartivento. Larghe onde morte da Nord-Est impressero un pigro dondolio alle schiene degli anfibi. La terra impallidì e si perdette nella luce falsa e sonnolenta dell’ovest. A un tramonto senza colori seguì una notte torbida e illune. Ombre nell’ombra, le cinque unità
11 Tutti i battelli citati erano destinati al V° Gruppo sommergibili di base a Lero; a parte il Delfino, gli altri 4 costituivano la lii Squadriglia. i comandanti di Jalea, Zaffiro e Jantina erano i compagni di corso di Spigai, rispettivamente, Sandro Cetti (“Sandrino”), Giovanni lombardi (“Coboldo”) e Vincenzo politi (“Zinzo”). al comando del Delfino c’era Giuseppe aicardi (del corso precedente, 1922).
12 L’allora guardiamarina (dopo pochi mesi sottotenente di vascello) di complemento Sergio Parodi. in tarda età pubblicò un volume autobiografico in cui così si espresse su Spigai: «la cultura di questo ufficiale molto vasta e profonda, il suo acume politico e la sua attenta conoscenza della storia erano qualità sprecate in un comandante di sommergibile perché sarebbero state molto meglio utilizzate se Spigai avesse fatto parte del gabinetto del capo del governo o, quantomeno, dello Stato Maggiore della Marina.» S. Parodi, La mia Marina, a torto o a ragione. 25 anni fra guerra e pace, Il Libraccio, Genova, 2003, p. 74.
[Pianta di Lero con Arsenale S.Giorgio, caserme, batterie, e tutte le altre località citate nel libro]
proseguirono la corsa, regolandosi sui fanali di via. Le nove, la mezzanotte, le due. «Vada a dormire, Costa13 - disse Giovanni al tenente - al suo posto io l’avrei già fatto.»
«Quando si naviga io non dormo mai.»
13 Il sottotenente di vascello di complemento Francesco Costa. Proveniente dal complemento, in servizio permanente dal 1939, dopo l’imbarco sull’Ametista ottenne di essere destinato ai mezzi d’assalto della regia Marina. Quale pilota di siluri a lunga corsa (SLC, altrimenti detti maiali) prese parte alla sfortunata impresa di forzamento di Malta del 26 luglio 1941, venendo fatto prigioniero e meritandosi la medaglia d’argento al v.m. Nel dopoguerra ricoprì per due anni l’incarico di comandante del raggruppamento Subacquei e incursori della Marina Militare (l’attuale COMSUBIN).
«Bene. Faccia come vuole, ma badi che a Corinto, se ci fermeremo qualche ora, dovrò dormire io.»
«Ma a Corinto arriveremo domani notte.»
«Quando si naviga» disse il comandante, come un’eco «io non dormo mai. E le sue bambine?» interrogò con altra voce.
«Sono tre» spiegò Costa, col tono di chi parla da solo. «Se ne aspetta una quarta. La rivedrò dopo la guerra. Dicono che la guerra sarà corta.»
Giovanni non rispose. Dietro le proprie spalle sentì un risucchio d’aria e una voce: «Buona sera, comandante.»
«Buonasera, direttore» rispose, senza volgersi. Era arrivato Camorani, l’uomo ombra.14 Basco di panno, gabardine bleu, volto scuro, espressivo, tagliato nell’avorio vecchio, sigaretta incollata sghemba al labbro inferiore, Camorani non aveva età. Era imbarcato sui sommergibili come semplice fuochista all’epoca delle crociate, era anche stato contabile di bordo sotto il grande Napoleone e adesso era direttore di macchina. Dell’illustre fortunoso passato non si scorgeva traccia sul suo viso, inalterabile come certi acciai dei suoi mastodontici motori. Saliva in torretta per fumarsi una sigaretta e vedere (che fosse buio non gliene interessava nulla: vedeva lo stesso) se gli scarichi facessero fumo. «Di notte» egli diceva «dormo poco.» in verità anche di giorno non dormiva quasi affatto. Si appisolava seduto sulla cassa di noce, sotto la tastiera dell’aria, a due passi dalla scaletta che conduceva al portello; e così riposava a occhi chiusi e orecchi aperti. Un irregolare battito di un motore o il soffio di una perdita d’aria lo facevano alzare e muovere come un animale da fiuto. Sul lavoro non comandava: in parte agiva, in parte indicava con cenni. La voce gli serviva per conversare in tono pacato e quasi dolce. Anch’egli aveva una bambina. Ne parlava dominando a stento la propria fierezza: «Me l’hanno già chiesta, ma per ora non voglio. È ancora troppo giovane.» Alba indecisa. Aurora moscia. Un velo di stanchezza sui volti insonni. «Non vedo l’ora di essere in Grecia. Questa informe calma jonica è più pesante di una tempesta.» sbadigliò Giovanni. «Io non vedo l’ora di tornare a casa» disse Costa. «Non amo i greci. Sono un normanno, io: mametizzato15 finché volete, ma normanno sempre.»
14 Il tenente del CREM (Servizi Macchina) Amedeo Camorani, classe 1894
«Non concordo. Lei bestemmia perché non sa. Vedrà luoghi bellissimi.»
«Per ora non vedo nulla…cioè, vedo dei sommergibili, a Sud, con prua a Nord-ovest. Uno, due, tre, quattro, cinque. Sono quelli di Tobruch che ritornano a Taranto, dopo il turno in colonia. Beati loro. Guardi, ci attraversano la rotta. Lei che parla sempre di poesia direbbe: “incrocio di rotte e di destini nell’immensità del mare.” io dico che è una schifezza che proprio noi si vada a Lero.» Alle sette e mezzo, dai monti dell’Etolia, il Grecale si stese e si insinuò sotto il banco delle nubi. All’Est, a oltre centocinquanta chilometri di distanza, apparvero sull’orizzonte nitidissimo le sagome delle grandi isole che vegliano l’accesso al golfo di Patrasso. Parodi giunse in coperta con gli occhi imbambolati dal sonno: «Cefalonia!» esclamò sorpreso, dopo aver studiato nel binocolo. «Cefalonia!»
«Bravo» commentò ironico il comandante. «Credevamo che fosse l’Australia.»
Bonifazio si inerpicò per la lubrica scala di ferro con caffettiera, zuccheriera, lattiera, biscotti, tazze, posate e burro. Spazzate le nubi dal vento, un gioioso raggio di sole brillò sulle lacrimose lamiere, sui cucchiai, sui piattini, ed empì di luce tutto il mare.
«L’Ellade!» proruppe Giovanni, stiracchiandosi. «Era impossibile che non ci salutasse così.»
«Se è per questo,» mugolò Costa infilando il muso nella tazza «credo che un po’ di sole ce l’abbiamo anche in Sicilia.»
Il gruppo dei veltri neri dal cuore rombante passò tra Cefalonia e Zante, entrò nel golfo dove la tramontana alzava corte onde rabbiose, penetrò tra Locri de e Acaia e a notte fatta si snodò nell’angusto canale di Naupatto come un centopiedi ornato di rubini e smeraldi. Nel golfo di Corinto lo attendeva una notte senza stelle e senza vento.
«Dorma qualche ora» consigliò Costa, sbinocolando verso le luci di terra. «Sono trentadue ore che è in piedi.»
«Lo faccio per abituarmi. Lei mi capisce. Tra poco ci fermeremo a Corinto. Ma che cosa succede in coda?»
Lo Jalea, l’ultimo della fila, che si era lasciato pigramente scadere per navigare in pace, serrava ora la distanza e chiamava a lampi
15 Termine marinaresco per “levantino”. Costa era un calabrese trapiantato a Messina.
bianchi: «Che cosa vorrà Sandrino?» pensò Giovanni, riandando per un istante con la mente ai bei tempi di Pechino.
«Strana la sua chiamata. È sempre così quieto.» «Parodi» sbottò, scorgendo che anche lo Zaffiro si era messo a segnalare - «si può sapere che cosa succede?» E intanto meditava: «Sullo Zaffiro c’è il Coboldo.16 In vent’anni non è cambiato niente: bassotto, vivace, occhi chiari, testa triangolare. Dovrebbe mangiar meno. Finirà col diventare rotondo.»
«Lo Jalea ha dato un segnale allo Zaffiro» riferì Parodi. «Ora lo Zaffiro lo passa allo Jantina che lo passerà a noi, perché è diretto al Delfino.»
«Non aspetti che passi, lo riceva subito. Lasci vedere: è in chiaro. Dia intelligenza. Chiami il Delfino e gli trasmetta: DA JALEA A DELFINO: ROMA VI CHIAMA.»
«Alla faccia!» intervenne Costa. «Siamo in buone mani. Non sanno neppure fare l’ascolto r.t. Roma chiama. Che cosa sarà? Se fosse la guerra? Faccio preparare i siluri?»
«Esagerato. Tra poco lo sapremo. Parodi, che cosa risponde il Delfino?»
«RICEVUTO. GRAZIE.»
«Ha incassato. Bella figura! Io prenderei un caffè.»
Dieci minuti di corsa sulle acque immote, poi altra catena di luci saltellanti da una torretta all’altra: «DA JALEA A DELFINO: ROMA VI CHIAMA.» Zinzo, il perenne scugnizzo napoletano comandante dello Jantina,17 nel ritrasmettere il segnale aggiunse un punto esclamativo. Parodi rise. «Non rida» lo investì Giovanni. «Non ritrasmetta l’esclamazione. Questo casino nelle comunicazioni è tragico. Se accadrà a noi una cosa simile le farò saltare i galloni.»
Il Delfino dette un RICEVUTO frettoloso e annoiato.
Un altro quarto d’ora di pace, poi, dalla coda della formazione, un
16 Il tenente di vascello Giovanni Lombardi, compagno di corso di Spigai.
17 Il tenente di vascello Vincenzo politi. Anch’egli entrato in accademia con Spigai, dovette ripetere il primo anno, aggregandosi al corso successivo, al pari del citato Carloantonio De Grossi Mazzorin, che così lo ricordò in un volume dedicato ai Caduti del corso 1924: «Egli fu indubbiamente il più affettuoso, il più espansivo e il più generoso fra i compagni che ricambiavano unanimi i suoi sentimenti ed ammiravano la sua intelligenza vivida ed il suo spirito chiaro e sereno.» C. A. De Grossi Mazzorin, In ogni tempo e con ogni arme bravi, Danesi, Roma, 1951, p. 121.
terzo zampillare di punti e linee: «DA JALEA A DELFINO: ROMA VI CHIAMA ANCORA.»
«Insomma!» Scattò Giovanni, letteralmente inferocito. «Abbiamo o non abbiamo a bordo una stazione radio? Parodi, per Dio, che cosa fanno i nostri r.t.? Perché non dicono nulla? Se il Delfino non risponde vuol dire che non può! interveniamo noi. Facciamoci dare il suo traffico. Voli giù, si rompa una gamba, ma mi sappia dire che cosa succede.»
Un altro quarto d’ora di attesa, poi il solito risucchio d’aria per il portello e la voce di Parodi: «È un telegramma per il Delfino. Vuole che glielo legga?»
«No, se lo tenga in tasca e domani ci si pulisca il didietro. Si spicci, andiamo!» Parodi lesse: «OCEANO DESTINATARIO NAVE DELFINO PER SOTTOCAPO TELFIRO BUONACCORSI – TESTO: NENNELLA TUA TI PENSA - SALUTE OTTIMABACI AMORE - FIRMATO NENNELLA - FINE MESSAGGIO».
«Cornuti» sentenziò Costa. «Tanto chiasso per una fesseria. I siluri» aggiunse insolente «li teniamo pronti per Nennella.» a mezzanotte le ancore caddero sul fondo melmoso dell’imboccatura del canale di Corinto. Tutti a dormire, dentro le botti fredde cerchiate all’interno dalle umide doghe d’acciaio. Sul ponte di ogni unità rimase solo il piantone che si sentiva padrone del mondo, mentre il fumo della sua sigaretta gli sembrava salisse fino alle stelle. All’alba sbucarono dal canale altri cinque bestioni neri: i sommergibili del Gruppo di Lero ai quali il gruppo «Delfino» dava il cambio. Da un sommergibile all’altro, dopo gli onori di regola, qualche frizzo salato e anche qualcuno di quei gesti che noi marinai chiamiamo «del folle sconosciuto». Appena l’ultima coda degli uscenti lasciò libero l’ingresso del canale, il musone del Delfino vi s’infilò. Le scoscese sponde banchinate di fango scorsero lente ai lati delle unità che muovevano coi motori elettrici al minimo. Superato il ponte pieno di gente curiosa, il prospetto delle sponde si riallargò sulla spettacolare armonia del golfo di Egina. In attesa degli ultimi, i primi arrivati all’uscita del canale sonnecchiarono al sole. Marussi18 ne approfittò per fare le sue recriminazioni al comandante. Il richiamo alle armi – diceva – lo aveva
18 Francesco Marussi, fiumano, anziano (quasi quarantenne) guardiamarina di complemento.
fregato sul più bello, quando, dopo anni di attesa sulle carrette, stava per avere l’imbarco su una nave della Marina sovvenzionata.19 Quel porco del federale di Fiume non aveva mai voluto aiutarlo e ora il tenente non gli voleva far fare il comando di guardia in plancia. Aveva il viso lavorato dal salino oceanico, Marussi, e parlava il sincopato italiano dei dalmati. Giovanni gli dette ragione e lo spedì tutto gongolante a mettere a soqquadro rispostigli e cassette per organizzare un buon pranzo, sicuro che Costa, disturbato nel sonno, lo avrebbe rimbalzato in coperta con selvagge grida. Tolte le sue piccole manie, Marussi era un marinaio finito e aveva negli occhi, perenne, l’ombra vaga di tempeste lontane. Quindici anni più giovane di lui, Parodi lo sfotteva; ed egli sopportava, con la pazienza del molosso che si fa tormentare dal bambino. A Parodi e a Camorani egli corse a raccontare la grande nuova: «C’è poco da dire, ah! il comandante m’ha dato ragione, ah!» Se non avesse detto «ah» alla fine di ogni frase sarebbe morto sul colpo.
Il branco nero sorpassò il Pireo e il Falero, uscì nell’Egeo battuto dal Maestrale gagliardo, superò al tramonto il passaggio tra Thermia e Zea e sotto un quarto di luna occhieggiante tra brandelli di nuvole in corsa diresse a tagliare il cuore delle Cicladi. «Terra da pipe» commentava Costa, volgendo con disprezzo l’occhio alle isole spettralmente vestite dalla luce lunare. E Giovanni: «Taccia. Lei bestemmia. Tra le colonne di un tempio, l’arcipelago è una grande basilica che ha per abside l’Attica e Atene per altare. Aspetti a giudicare. Aspetti di vedere le isole sotto la sovrana luce del sole. Guardi che stelle, guardi il colore del cielo, guardi la corsa delle nubi. Su di esse navigano gli angeli, in missione verso terre infedeli e pagane. Quella, vede, è la patria di Aiace.»
«Mah,» osservò Camorani, che non aveva molta dimestichezza con i classici «sarà come lei dice, ma io preferisco la nostra Spezia.»
«Naturale. Anche Parodi preferisce il lido di Albaro. Ma anche lei, Marussi, preferisce la casetta di Laurana. Siete tutti servi della vostra pancia. Sono solo nel deserto, come dice Bonifazio. Ci vuole un caffè.»
19 Ramo della Marina mercantile sovvenzionato dallo Stato per necessità pubbliche; l’imbarco su navi di queste compagnie garantiva particolari privilegi, in particolare un contratto di lavoro sostanzialmente a tempo indeterminato.
«E un doppio cognac» ringhiò Costa «da vuotare alla faccia della Grecia.» Ancora avanti, dopo il tramonto della luna, tra le masse cupe delle Sporadi meridionali. All’alba la formazione si presentò davanti a un bastione di scoscesa pietra che non presentava traccia di porti. Il Delfino segnalò e una luce rispose. Su una rupe si accese un fanale verde. Uno dietro l’altro, i sommergibili si infilarono nelle carie del mastodontico dente: furono nel fiordo mentre rideva l’aurora.
Lero. Sulla banchina molti marinai isolati dettero ridendo il benvenuto ai sopraggiunti. Dietro quella folla, sotto la montagna sassosa, si alzavano tre edifici: la caserma della Base navale, il palazzone dei sommergibili, denominato Sing-sing per il suo cubico aspetto, e la palazzina ufficiali. Davanti alle tre case, una spianata praticata con la dinamite e una banchina piena di sommergibili e di MAS. Più a ovest, verso l’imboccatura della rada, l’arsenale di San Giorgio, stretto anch’esso tra monte e mare: baracche di cemento e di lamiera e altre banchine zeppe di galleggianti. E ancora più a ovest, la banchina delle torpediniere e dei combustibili, con molte unità all’ormeggio. Un’altra successione di edifici militari occupava anche l’opposta riva del golfo. Polveriere, depositi e stazioni r.t. erano disseminati nelle valli; e in alto, in vetta alle colline, strumenti camuffati e gole di cannoni. Una piccola Spezia era sorta dove qualche anno prima non c’era che il volo dei gabbiani. In fondo al seno rideva ancora l’aeroporto dove un giorno Tony aveva così amorevolmente accolto Giovanni. Birillo, comandante del Narvalo, Cerrione del Tricheco, Bebè dello Squalo20, si fecero strada nella ressa degli ufficiali in chiacchiera e delle ordinanze sgattaiolanti con le valigie. Poi giunse don Alessandro21, il comandante del Gruppo, asciutto, smilzo, bruno, dai begli occhi caldi: «Longobardo» disse a Giovanni, stringendogli la mano «mi scrive che il suo compressore non funziona bene. Come facciamo, cazzo?»
20Tutti capitani di corvetta di corsi precedenti a quello di Spigai: Renato Lucchesini («Birillo»), Alberto Avogadro di Cerrione («Cerrione») e Giuseppe Migeca («Bebè», medaglia d’argento al v.m., caduto il 9 settembre 1943 sulla corazzata Roma).
21 Il capitano di fregata Alessandro Mirone, comandante del V Gruppo sommergibili. Successivamente assunse il comando del cacciatorpediniere Mitragliere, meritandosi una medaglia d’argento al v.m. Da capitano di vascello aderì alla R.S.I. reggendo il Comando Marina di Pola.
«Non funziona bene, ma funziona. Il battello è pronto.»
«Meglio così, ma a Messina sono dei bei coglioni.»
«Col suo linguaggio, avrei fatto il diplomatico» esordì Giovanni. Don Alessandro rise e passò a dargli del tu: «Sono nei guai con le mogli che non se ne vogliono andare. C’è chi le ha lasciate a casa e chi le ha piantate a Messina, ma tre sono qui. Poi ce ne sono delle altre, non dei sommergibili. Rimarranno tutte qui imbottigliate. Sarà un bel casino.»
La sera, all’albergo Roma, si mangiava poco, si ballava meno e si ascoltava molto la radio: signore, ufficiali, viandanti, domestici, tutti insieme, tutti pensosi. Battaglia dell’ovest, campagna di stampa, incidenti ai piroscafi a Gibilterra e nel Mediterraneo. Ogni tre o quattro giorni l’ammiraglio22 veniva in volo da Rodi e consigliava le donne ad andarsene. E quelle dure.
«Perdoni» domandò una di esse a Giovanni, che era «morto» dopo essersi fatto contrare quattro picche, tirandolo in un angolo.
«Mi dicono che lei è molto studioso e intelligente. Io sono qui con due bambini. Parli in coscienza: crede che la guerra scoppierà?»
«Sì» rispose Giovanni adagio.
«Oh, mio Dio!»
«Si calmi, prenda un cognac. Non si faccia vedere così da suo marito.»
La donna obbedì e Giovanni riprese il suo posto. «Le hanno chiesto il suo parere sulla guerra, vero?» domandò l’avversaria che l’aveva contrato, fissandolo.
«Sì» rispose Giovanni. Prese le carte: «Un cuori.»
«E lei, che cosa ha risposto? Che la guerra è sicura?»
«Sì. Ne sono assolutamente certo. Non impallidisca. Non si metta a piangere. Le donne che mandano i mariti alla guerra non si possono permettere di piangere.»
«E quanto durerà? Chi dice due mesi, chi dice un mese, chi dice quindici giorni.»
22 Il contrammiraglio Luigi (Gino) Biancheri, all’epoca a capo del Comando Superiore Navale del Dodecaneso (MariEgeo), situato a Rodi. Già valoroso combattente nella Grande Guerra, personaggio sanguigno e irruento, uso a dirigere in prima persona operazioni rischiose, è il protagonista di una ricca e divertente aneddotica.
Giovanni tacque. Aveva un parere proprio, ma dirlo a quella poveretta sarebbe stato spaventoso.
Esercitazioni. A fine maggio dislocazione dello Stellamaris e dello Zaffiro a Parteni, solitario e ridente ancoraggio a Nord dell’isola. Giovanni si impadronì del Coboldo, gli pose una lenza in mano e lo iniziò ai misteri della pesca. La novizia mano del Coboldo rivelò un tocco miracoloso: saraghi, occhiate, boghe e lisce si avventavano sui bocconi ingannatori e venivano tirati su boccheggianti, con la bocca spalancata e gli occhi contratti. Appena liberati dall’amo e gettati nel mastello, i corpi duri e contorti si scioglievano e prendevano a divincolarsi, tambureggiando febbrilmente sul legno le code pazze e le teste disperate. La follia di ogni nuovo arrivato scuoteva l’immoto coma dei predecessori già morenti e li richiamava a un ultimo guizzo convulso, a un ultimo salto verso la bocca del pozzo di morte. Il fondo del mastello sparì, invaso dal tremore dei dorsi bruni, dei ventri bianchi e degli argentei fianchi squamosi. Il Coboldo era tutto rosso di commozione e di piacere: più della prima volta che aveva comandato una nave.
Verso il tramonto Maddaluno e Virgona23, due isolani delle Eolie, prendevano il battello e andavano a distendere il tramaglio che veniva salpato a buio fatto, dopo aver pranzato nel tunnel di ferro, dove la luce elettrica rimbalzava sul lucido legno rosso, sugli opachi bronzi e sui candidi acciai. Le grosse triglie, gli scorfani dall’immane testa spinosa, i granchi incoccati nelle maglie traditrici, venivano rifatti liberi dalle mani dei pescatori per morire in un silenzioso e gocciolante gioco d’ombre. Dopo l’avvampata diurna, l’aria umida della notte frizzava sulla schiena bruciata e faceva correre brividi per tutto il corpo. Immersi nell’acqua scaricata dalla rete in fondo al battello, i piedi avevano freddo. Faceva piacere vogare verso le luci di bordo, sulle strade gialle che esse allungavano sull’acqua nera, arrivare alla scaletta appoggiata al bottazzo, salire in coperta, essere circondati dal riverbero asciutto delle lamiere ancora calde, mostrare la pesca fatta e obbedire a Bonifazio che porgeva i sahariani e le calze di lana grossa di Coo. Un sorso d’alcool e una sigaretta, mentre i marinai cantavano.
23Il marinaio Giovanni Virgona morì a Rodi nel settembre 1943.
«È talmente bello tutto questo» pensava Giovanni «che non può durare.» Si rideva molto alle spalle di Galante che una sera, a mezzanotte, mentre era solo di guardia sul ponte, aveva visto un mostro. Galante era corto più che basso, tozzo più che panciuto, un po’ balbuziente quando parlava con gli amici e tartaglione quanto lo interrogava il comandante. Non era un adone: aveva occhi da turco, naso da civetta, baffi spioventi, vent’anni di età e trentaquattro di aspetto. Ricordava alcuni versi di Dante e dell’Ariosto, ma credeva nei mostri. Interpellato in proposito dal comandante, ammiccò nervosamente, si pizzicò i pantaloni, girò intorno lo sguardo come in cerca d’aiuto, ma confermò:
«Sissignore, l’ho visto: era tutto bianco e grande come il battello. Se nuotava? Sicuro che nuotava! Gli occhi e la bocca? No, quelli non li ho visti.»
Parodi, provocato da Camorani, disse che Galante era un povero disgraziato. Marussi fu meno scettico: credeva anch’egli nei mostri, sebbene recisamente non lo affermasse. Parodi, che non era molto ricercato nel linguaggio, gli dette dell’imbecille. Infastidito dal battibecco, Costa li mandò al diavolo tutti e due. Il comandante intervenne e raccontò la storia, verissima, di un pesce diavolo che in Mar rosso gli aveva ingoiato uno scandaglio di venti chili e rimorchiata a ritroso la motobarca. Tutti sorrisero.
«Abbiamo capito:» commentò Camorani placido «oggi il vermouth lo offre lei.»
Parodi uscì e rientrò in ritardo per il pranzo. Il comandante lo investì con un’occhiata feroce: «È stato da Maria “la sudiciona”, vero? Se si ammala la uccido. Se ritarda un’altra volta, guai a lei. Che cosa crede che sia, questa, un’osteria?»24
«Sì» rispose globalmente il povero ragazzo mortificato. Tutti risero. Giovanni guardò la propria camicia a maniche corte, girò l’occhio alla tuta bigia di Camorani, al costume ginnico di Costa, al longevo giaccone bleu di Marussi. Ripensò alla mensa «stiff »25
24 Ricorda lo stesso Parodi che Lero «non aveva molte attrattive da offrire: aveva però un ottimo clima che permetteva interminabili partite a palla a volo fra gli equipaggi, nelle quali Spigai cercava di essere sempre presente nonostante fosse una discreta schiappa in questo sport; 25Formale.
dell’Abruzzi e alle tavole gioiello del Lampo e dell’Aretusa. Ricadde con l’occhio sulla testa arruffata di Bonifazio che serviva con il solo corpetto, come se dovesse vogare: «Fare il pignolo qui? impossibile. Olio, nafta, acidi, siluri: ecco il sommergibile. È la guerra senza estetica e senza luce, quella dei quattro cavalieri dell’apocalisse.»
«Mah» sentenziò Camorani come se lo avesse sentito «queste sono rose e fiori.»
Molto sul tardi, non proprio come Galante lo aveva visto la sera, ma tuttavia in carne, se non in ossa, il mostro si fece vivo: attratto dalle luci di bordo, un polpo di dimensioni straordinarie si inerpicò sul bottazzo e là restò con gli otto tentacoli distesi, incantato dal dardo latteo della lampada. L’uomo di guardia diede l’allarme. Tutti si radunarono in coperta e bisbigliarono, con occhi piantati sull’immobile ombrello bianco, ma nessuno si mosse. Nessuno, per dirla chiara, aveva il coraggio di misurarsi con la bestia di aspetto ripugnante e minaccioso. Chi consigliava di trapassare l’animale con una fiocina e chi correva in cerca di gaffe e lime appuntite. La piovra, insensibile al brusio, si manteneva immota come morta. Aveva la testa grossa come quella di un adolescente e bianca come il cranio di un affogato. Sembrava ridere malignamente con i grandi occhi neri. Pareva si prendesse gioco di tanto odio, di tanta cupidigia e di tanto timore.
Alla fine Virgona si decise: si tolse le scarpe e il corpetto, rimboccò i calzoni di sargia sopra al ginocchio e con un lampo negli occhi selvaggi: «Comandante,» disse «se permette, vado giù e lo agguanto.» Giovanni guardò quel torace nudo: sotto la pelle bruna e senza un pelo era dissimulata una forza primordiale. «È un Bileno» pensò. «Se te la senti, va:» disse «ti autorizzo.»
Tutti si trassero indietro e tacquero, stringendosi spalla a spalla per non perdere lo spettacolo. Virgona non indugiò: scivolò sul bottazzo, si afferrò con la sinistra alla base di un candeliere e con un «ciaff » raccapricciante piombò la destra sul collo della preda. Colto di sorpresa, l’animale trasse a sé gli otto tentacoli e li spinse in disgustoso intreccio su per il braccio dell’aggressore. Avambraccio, gomito e bicipite sparirono subito nel brulicame delle ventose che dilagò verso il collo, ma la belva uomo aveva previsto il gioco della belva bestia: incurante del peso e dell’invasione succhiante che ormai gli aveva raggiunto le spalle, Virgona si issò a bordo col braccio libero, indi affondò il viso nella massa schifosa e con una tremenda forbiciata dei suoi denti uniti
e candidi, con un vero morso da antropofago, sbranò la testa del nemico. Assunta infine inconsciamente la posa del discobolo fece roteare con impeto crescente, come una clava sola, il groviglio braccio-bestia, finché il mostro centrifugato non sbatté sul legno del ponte col rumore di un pallone che scoppia.
«Inglese!» profferì Virgona anelante, tergendosi il viso imbrattato di inchiostro. Guardò rannuvolato i compagni che applaudivano: aveva paura che lo sfottessero. Era inconscio della sua opera d’arte.
Ottobre 1940
La guerra contro gli inglesi proseguiva, Lero viene bombardata. Nella flottiglia dei sommergibili la tragedia del Gemma, comandato dall’amico fraterno Guido Cordero di Montezemolo. (da: Anime Bianche)
Una montagna di luce
A metà settembre i bombardieri britannici attaccarono Lero per la prima volta. Molto chiasso, molte bombe e nessun risultato. Uccisero un contadino, un gatto e un porco. Il grafico dei crateri dimostrò con sufficiente eloquenza che la luce lunare li aveva ingannati di ben poco, ma tutti rimasero con l’illusione che la fortezza fosse invulnerabile. Giovanni scrisse: «Cara Mad. Oggi sono incominciati i concerti anche in porto. Mentre pioveva ho pensato a una cosa che ti domanderò tra qualche giorno.»
Il 30 settembre i sommergibili uscirono per aspettare all’agguato nei canali del Sud una formazione uscita da Alessandria.
Gemma e Stellamaris mossero insieme alle sedici e qualche minuto, uno sulla scia dell’altro, e diressero arrancando a Sud-sud-ovest contro il fulgore del sole. «Guardi come si sono accorciate le giornate» disse Giovanni a Costa. «Sa che cosa ho fatto oggi? ho telegrafato a una ragazza se mi vuole sposare. A mia madre ho scritto che abbiamo un lungo periodo di riposo.» Si interruppe. «Camorani, dobbiamo intercettare un convoglio. Dobbiamo correre.»
«Fino a quando?» domandò il geloso custode dei motori non nuovissimi.
«Fino a mezzanotte.»
«Va bene. C’è il sinistro che zoppica un po’, ma faremo il possibile.»
La velocità crebbe. Lo Stellamaris si portò a fianco del Gemma. Guido disse qualche cosa nel portavoce. Le due navi procedettero pari, sottilmente impennacchiate di bianco. I due musi di ferro squarciavano il mare mosso frantumando le creste e guardandosi rivali dalle cubie delle ancore. Costa imprecava perché le vedette invece di guardare fuori seguivano l’affascinante la gara. Dopo un’ora dalla plancia del Gemma si levò un trillo acuto. Gli uomini si impalarono sull’attenti e Guido salutò. Lo Stellamaris restituì il saluto, poi dette due colpi di sirena: riposo. Le due unità si allontanarono: il Gemma accostò verso Sud-ovest, per Stampalia, lo Stellamaris verso Sud26. Guidò alzò il braccio e lo fece ondeggiare in cielo alla moda degli scandagliatori. Anche Giovanni alzò il braccio. Presto il Gemma non fu che una macchietta nera nel lusso di luce del tramonto. Mare solitario. Tramonto fosco di vento. Notte scura, illune, un po’ caliginosa. Lento sfilare di ore. Per guadagnare tempo il sommergibile si era buttato a rompicollo per meridiano, fuori dalle rotte controllate. «Sulla dritta» disse Costa verso le dieci «vedo due masse scure.»
Giovanni frugò nella memoria. Erano passati più di sette anni: «Sono gli isolotti Adelfi. Ci ho lavorato sopra. Tra poco vedrà un’isola grossa che si chiama Sirina. È nuda e impervia come un castigo di Dio. Ci sono vissuto per un mese con quattro marinai e un lebbroso.»
«Eccola» disse Costa. «Passeremo lontani tre miglia.»
«Son poche, perché fuori dell’isola sporgono tre isolotti. lì cerchi di prua. Sono bassi e tondi come torte.»
«Ne vedo due soli» dichiarò Costa dopo una lunga ricerca «e sono molto vicini alla rotta.»
«Se non ricordo male,» proseguì Giovanni, rileggendo nella memoria un grafico sul quale aveva sudato sangue «il terzo dovrebbe sbucare all’ultimo momento.»
«Eccolo!» esclamò Costa «ma è strettissimo, quasi esattamente di prua.»
26 Gemma e Ametista dovevano rimanere in agguato rispettivamente a Nord e al centro del canale di Caso; l’accesso meridionale doveva essere presidiato dal sommergibile Tricheco.
«Accosti venti gradi. Qui le coste sono ripide. Se io non sono lo smemorato di Collegno, troveremo venti metri di fondo.» Sul fianco dritto della nave le linee livide delle scogliere scorrevano veloci come se fossero autotrainate. Si sentiva il nitido rombo della risacca. Gli scogli rinviavano caoticamente il martellare dei motori. «Se quest’uomo si è dimenticato una punta,» pensava Costa «ci spacchiamo come un bicchiere che casca dal quinto piano, o ci cesoiamo come una scatola di sardine.» Parodi, ammutolito dalla rotta scandalosa e sconosciuta, non seppe resistere alla tentazione e mandò in funzione lo scandaglio ultrasonoro: «trentotto, diminuisce!» comunicò con voce alterata. «Trenta! Venticinque! Venti! Diciotto!» poi si calmò:
«Venti, quaranta, settantasei, centotrenta…» Gli scogli si perdettero verso poppa.
«Lei sa navigare» disse Costa con poca disciplina e molto rispetto.
«Di qui a Capo Sidero la rotta è centosettanta» rispose Giovanni. «Io mi riposo. Se la veda lei.»
«Sa tutti i numeri a memoria?»
«Certo. Potrei andare al buio fino ad Atene e fino a Salonicco. Vuole che le dica tutte le rotte dell’arcipelago, o preferisce che ci facciamo un caffè?»
A notte avanzata brillò il faro di Capo Sidero. Niente convoglio. Niente quella notte, niente i giorni successivi. Pendolamenti senza fine tra Caso e l’isolotto Elasa, con la prua sempre rivolta su un pezzo di crescente luna. Anche gli altri sommergibili sparsi per i canali non videro nulla. Gli inglesi avevano altre gatte da pelare. Roma dette un telegramma al Gemma ma non fu possibile sapere cosa dicesse per motivi che qui non si possono spiegare.
La sera del sei ottobre apparvero al Nord, lontanissimi, traccianti, bengala, vampate e scoppi. «Palle a terra a Stampalia» ridacchiò Marussi. Con sommo divertimento la scena fu seguita coi binocoli. «Nella notte di ieri» disse il bollettino il giorno dopo «unità navali inglesi hanno bombardato Stampalia.» le risate divennero costernazione. Erano stati giocati, e non dal nemico: dai nostri, che sentendo arrivare le pillole le avevano prese per bombe di aereo e si erano messi a sparare con le armi rivolte contro il cielo. Alla guerra succede questo e altro.
La notte sull’otto ottobre, poco dopo il tramonto della luna, lo Stellamaris era fermo a Nord dell’isolotto Dragonera. Il Maestrale lo sballottava e lo occultava tra le pecorelle che impennellavano il mare bruno. Dalla stazione r.t. avvisarono che c’era un telegramma papa, precedenza assoluta sulle precedenze assolute, diretto a due sommergibili dell’Egeo. Parodi scese a decifrarlo. In quel preciso momento, a enorme distanza, in direzione Est, dietro l’isola di Caso, si alzò una vampata immensa. Larga come metà dell’isola, si alzò silenziosa come il pino di fuoco di una grande eruzione. «Ha visto?» chiese Costa trasalendo.
«Se non avessi visto non crederei» rispose Giovanni. «I monti che si sono profilati sulle fiamme sono alti milleduecento metri e distanti ottanta chilometri. Dietro quell’isola è accaduto un dramma.»27
«Sopra!» chiamò dal basso la voce di Camorani. «Che cos’è questo colpo?»
«Salga» ordinò Giovanni. Lo guardò con interesse: «Che cosa ha sentito?»
«Un colpo secco, come di gong. Lo scafo ha vibrato.»
27 Alle 01.15 dell’8 ottobre 1940 il sommergibile Tricheco, di rientro a Lero dal suo pattugliamento, a tre miglia dall’isola di Scarpanto, avvistò un sommergibile in emersione. Poiché nessun battello italiano doveva trovarsi in quelle acque, il Tricheco, ritenendolo nemico, lanciò due siluri, che andarono a segno provocando l’esplosione del bersaglio e la perdita di tutto l’equipaggio. Si trattava del sommergibile Gemma, che aveva avuto ordine di recarsi tra Rodi e Scarpanto. Ritardi nel traffico radiotelegrafico non consentirono che i due battelli venissero a conoscenza dei reciproci spostamenti: solo successivamente a bordo del Tricheco fu decifrato il messaggio, citato nel testo, con cui si informavano i due battelli della reciproca presenza in quella zona. La vicenda, non l’unica nella storia di ogni Marina, turbò naturalmente i sommergibilisti di Lero. Particolarmente amara fu la vicenda del comandante del Tricheco, capitano di corvetta Alberto Avogadro di Cerrione. Sergio Parodi ricordò: «il comandante Avogadro, già sbarcato dal Tricheco, fu mio comandante sul smg. Delfino, nella seconda metà del 1942, dove ebbi il privilegio di essere il suo tenente. Non potrò mai dimenticare la sua figura di gran gentiluomo, calmo e deciso, imperturbabile di fronte al pericolo. Non lo vidi mai ridere e partecipava con un mite sorriso agli avvenimenti allegri che non mancano mai di costellare la vita a bordo di un sommergibile, anche se in guerra. Il dolore di essere il responsabile, ancorché inconsapevole, della morte di uno dei suoi più cari compagni e di un intero equipaggio di cui conosceva personalmente molti dei componenti, doveva essergli ossessionante e, forse, fu la causa della sua scomparsa prematura avvenuta negli anni dell’immediato dopoguerra.» Parodi, La mia Marina, op. cit., p. 87.
«E noi nulla…» meditò Giovanni. «Comincio a capire. Noi abbiamo visto una montagna di luce e non abbiamo udito alcun rumore per i monti interposti e il vento avverso. L’acqua ha trasmesso il colpo alla perfezione. Non c’è più dubbio: dietro quell’isola qualcuno è saltato in aria.»
«Che cosa diceva il telegramma?» chiese repentinamente a Parodi.
«MASSIMA ATTENZIONE. SOMMERGIBILE NAZIONALE NELLE VOSTRE ACQUE»
«Non capisco. Dei nostri, là dietro, non c’è sicuramente nessuno…»
«A che cosa pensa?» insinuò Costa.
«A nulla. In ogni caso noi abbiamo il divieto assoluto di fare quello che io avrei una pazza voglia di fare. Se poi non si sa come stanno le cose e oltre a disobbedire si passa dal guaio al disastro…»
«Perché dice “un guaio”?» reinterrogò Costa acutamente.
«Mah, un presentimento. Non solo le ragazze ne hanno.»
Non si vide e non si udì più nulla. L’agguato proseguì. Il mattino del dieci ottobre lo Stellamaris rientrò in porto, ma non trovò la solita lieta animazione sulla banchina.
«Che cosa è successo, sono tutti morti?» osservò Costa.
«Ben tornato» disse il comandante del Gruppo. «Ha visto il Gemma, stamane, all’approdo?»
«No.»
«Non lo ha mai incontrato, in mare, durante la missione?»
«No.»
«Quando l’ha visto per l’ultima volta?»
«L’ho perduto di vista alle diciotto del 30 settembre. Lui ha diretto per Stampalia e noi per Sirina. Era esattamente in rotta e in velocità. Ma che cosa succede?»
«Niente. Doveva rientrare ieri all’alba e non si è visto. Nel dubbio ho sparso la voce che ha avuto ordine di rientrare in Italia. Conto su di lei…poi vedremo. Ora vada a riposare. Non ci pensi.»
«Grazie» ritornò trasognato sulla banchina dove il sole scottava. Sedette sulla lurida scala di pietra che scendeva in mare. Tutto rosicchiato dal salino, lo Stellamaris metteva già fuori la ruggine. «L’acciugata è pronta» disse Bonifazio sottovoce.
«Grazie. Tutti possono fare colazione. Io resto qui.»
Bonifazio andò e ritornò con un piatto di pasta e una forchetta che brillava al sole come una spada: «Mangi, comandante» disse con un accento di protezione nella voce.
L’uomo abbassò il viso sul piatto e spinse furtivo lo sguardo all’imboccatura della rada. Tacque, aspettò, stremato e insensibile dentro il puzzolente maglione.
Il sole crebbe ancora. Zinzo si avvicinò, lo prese, lo trascinò in palazzina: «Cambiati» ordinò. «È quasi mezzogiorno.» Giovanni non rispose. Entrò in camera, aprì la finestra e lanciò ancora lo sguardo all’imboccatura, sul mare che rideva: nulla. Guido non tornò mai più.
Dicembre 1941
La Base Sommergibili, di cui Spigai ebbe il comando fino a quando sommergibili italiani ve ne furono ancora, fu il punto di riferimento per azioni memorabili dei sommergibili italiani durante tutto il conflitto.
Il forzamento di Alessandria (sommergibile Scirè – dicembre 1941). (da: 100 Uomini contro due flotte)
La sera del 9 dicembre 1941 il vento impazzava nella profonda e oscura baia di Portolago, nell’isola di Lero. Sulla banchina, alla base della quale le onde morte di risacca soffiavano come foche infilandosi nelle tane e nelle fessure, un gruppo di uomini di mare, tra i quali l’autore di questo libro, aspettava che la notte partorisse un figlio ancor più nero di lei. E l’attesa fu breve: pilotato dal demonio Borghese, lo Scirè, con i suoi cassoni roridi del bacio dell’alto mare, giunse presto in vista e, benché duramente battuto dal vento, portò con precisione la poppa aguzza come una coda di lucertola a pochi metri dalla banchina. Accogliemmo Borghese, Ursano e gli uomini dello Scirè nel modo migliore concesso dalle francescane sistemazioni della caserma sommergibili, già bombardata più volte, e sulla quale, come su tutta l’isola, incombeva, senza che noi allora lo sapessimo, uno straordinario e implacabile destino. Borghese sbaglia facendomi merito nel suo libro di queste accoglienze, perché io non comandavo il gruppo (retto a quell’epoca dal comandante Luciano Morra) ma solo un
sommergibile di quel gruppo. Ciò non toglie nulla all’affetto con il quale lo accolsi, ma anzi lo accresce perché, dovendo io lasciare il giorno dopo la base per una missione in alto Egeo con il mio sommergibile, potemmo passare insieme una sola serata, con in mano un bicchiere di Maga di Rodi: egli a raccontare le cose dell’Italia e delle persone a me care, io a descrivergli la «porca vita» dell’Arcipelago, al quale una curiosa sorte mi stava da tempo legando e mi doveva, dopo, ancor più tenacemente legare.
Ma io sto divagando e devo invece dire tante cose. Quella sera, dunque, il vento urlava e la radio suonava, come eternamente ogni sera «Lily Marlene», trasmessa dai tedeschi di Belgrado. La Maga era buona.
Quel che avevo da raccontare io era la storia di scarso successo e di molto sangue dei sommergibili del Mediterraneo Orientale. Noi del gruppo di Lero eravamo stati relativamente fortunati: a quell’epoca avevamo perduto solo il Gemma, il Neghelli e lo Jantina, con i loro tre superbi comandanti, Guido Cordero di Montezemolo, Carlo Ferracuti e Vincenzo Politi; ma il gruppo di Tobruk era stato praticamente distrutto.
Borghese aveva cose più piacevoli da dire: intanto le notizie dell’Italia, che quando è lontana fa morire d’amore la gente, e poi buone notizie di due importanti colpi compiuti da sommergibili tedeschi presso Gibilterra e presso Alessandria, con l’affondamento dell’Ark Royal e del Barham. Parlavamo con indifferenza di queste stragi, perché ci eravamo in mezzo: non indifferenza sentimentale, quella era impossibile mantenerla, ma noncuranza che il colpo buono, o il cattivo, tra due giorni, o due settimane, o due mesi, toccasse anche a noi. Tutti questi discorsi ronzavano intorno a un argomento del quale non facemmo cenno, ma che costituiva il centro recondito della conversazione: se lo Scirè fosse riuscito a mettere in ginocchio le due corazzate Valiant e Queen Elizabeth ancora galleggianti ad Alessandria, un importante cambiamento avrebbe potuto verificarsi nella situazione navale del Mediterraneo. Così Borghese, ridendo e piangendo insieme (un vizio che ha da quando era ragazzo), parlava di donne, di esplosioni e di giochi della sorte. Eravamo allora dallo stesso lato della barricata e speravamo di vincere, e volevamo la vittoria. Eravamo illusi, ma se in ogni generazione non ci fossero illusi di questo tipo, la storia del Paese sarebbe una sequenza di insulse e tristi vergogne. Per quel che mi
riguarda, io sono ancora del parere che sia meglio vincere una guerra insieme col diavolo che perderla insieme con gli angeli custodi. Ma io torno a divagare e invece il mio tema è limitato.
Dunque, lo Scirè giungeva quella sera di dicembre a Lero da La Spezia dopo sei giorni di navigazione invernale, parte della quale compiuta in compagnia notturna con un sommergibile nemico, che gli stette a fianco per circa un’ora ritenendolo probabilmente della propria razza. Queste curiose scene, tra sommergibili, accadevano abbastanza spesso, per la riluttanza dei sommergibilisti a ricorrere ai segnali di riconoscimento, che ponevano chi li faceva in tremenda inferiorità rispetto all’altro sommergibile, se nemico. I sommergibilisti, poi, come gli aviatori, sono sempre un po’ disordinati con le carte (per mancanza di spazio e di luce nei posti di comando) e così vanno in giro come Iddio vuole. Da questi incontri scaturivano talvolta scambi di siluri o bombe a casaccio, non sempre con assoluta certezza che si trattasse di amici o nemici; ma in genere, nel dubbio, si cercava di evitare catastrofi tra amici e si finiva col lasciar passare tra le maglie anche qualche nemico. Ciò accadeva soprattutto nei punti chiave, ove le rotte erano utilizzate da ambedue gli avversari. Per non essere attaccati dagli aerei, c’erano fumate che cambiavano tutti i giorni. Siccome non ce le ricordavamo mai, facevamo fumate con colori mescolati che andavano bene per tutti gli aerei, perché anche i piloti erano sempre in dubbio come noi. In altre zone, invece, la situazione era chiara e non si poteva ricorrere ad alcun trucco per avere il tempo di tagliar la corda sott’acqua. Il cul di sacco del Mediterraneo Orientale, tra Alessandria, Giaffa, Caifa, Beirut, Alessandretta, Famagosta, fino a Bagasse (a Nord di Cipro), era una di tali zone senza equivoci e vi passammo settimane sudando sangue. Lo Scirè era diretto a uno dei poli di quella zona tremenda e la sua impresa, giudicata a priori, si presentava tecnicamente quasi impossibile. Si trattava di un mezzo ormai perfetto, armato col miglior equipaggio subacqueo che sia forse mai esistito, ma l’unità non poteva contare neppure sull’unico elemento favorevole, il maltempo invernale, perché l’impresa doveva obbligatoriamente compiersi in una notte di bonaccia. Chi è stato sommergibilista conosce il significato sinistro di tali parole, tanto care ai villeggianti e agli innamorati.
Lo Scirè aveva a bordo, dentro i cassoni cilindrici, tre semoventi perfettamente a punto. L’impresa era stata studiata accuratamente,
per la parte da compiersi a tavolino. Il comandante Ernesto Forza, nuovo capo della Xa Flottiglia Mas, si era già stabilito al Pireo per il collegamento con gli aerei del Decimo CAT (tedesco) che avrebbero dovuto assicurare le ricognizioni e l’appoggio aereo. Di Alessandria si conosceva tutto il possibile, ma non certo tutto il necessario. L’attività intensa della flotta britannica rendeva inoltre fortemente probabile che, al momento dell’impresa, le unità più importanti non si trovassero in porto. Oltre a ciò, gli auspici iniziali non erano stati lieti: il tenente di vascello Sogos era morto per un incidente, mentre si recava in Grecia per gli accordi preliminari con Marisudest.
Per la storia: i semoventi avevano numero 221, 222 e 223. Gli equipaggi, che giunsero in volo a Lero il 12 dicembre, erano:
Semovente n. 1 tenente di vascello Luigi De la Penne, capo palombaro Emilio Bianchi;
Semovente n. 2 capitano armi navali Vincenzo Martellotta, secondo capo palombaro Mario Marino; Semovente n. 3 capitano del genio navale Antonio Marceglia, palombaro Spartaco Schergat.
Equipaggi di riserva: tenente D.M. Luigi Feltrinelli, palombaro Luciano Favale, S.ten. medico compl. Giorgio Spaccarelli, sottocapo palombaro Armando Memoli.
Il sottotenente medico Spaccarelli era anche medico della intera spedizione.
Per un curioso e involontario scherzo della sorte, ogni equipaggio rappresentava un corpo della Marina e i gradi degli operatori variavano da quello di capitano a quello di semplice marinaio. [...]
Appena arrivati gli operatori, l’ammiraglio Biancheri volle vederli e insistette a lungo per allenarseli. La cosa non poteva non mettere a disagio il comandante Borghese, che sapeva essere tutto già pronto e temeva la compromissione del segreto. Così il dinamico e brillantissimo ammiraglio non si poté «terziare» i semoventi come aveva fatto con i barchini. Duro colpo per un uomo amante delle novità e del dinamismo come lui. Intanto il Decimo CAT, sottovalutando evidentemente l’importanza dell’impresa, non forniva notizie esatte su Alessandria e non agiva contro di essa, perché impegnato in Cirenaica. Nel dubbio, Borghese decise di partire il giorno 14 e partì.
La navigazione verso Alessandria non presentava difficoltà speciali fino all’isobata delle acque minabili (profondità 500 metri). Poi bisognava proseguire, sperando di non incappare in sbarramenti di mine automatiche, o comandate da terra (ginnoti), o nelle reti degli strumenti rivelatori, o sotto la prua di unità di vigilanza. Per diminuire la probabilità di finire in questo modo, occorreva mantenersi in quota profonda (per quanto lo consentisse il fondo); ma, ciò facendo, risultava impossibile determinare la posizione, che invece doveva risultare rigorosamente precisa per ciò che concerneva il punto di arrivo. A questo fine, nei luoghi di corrente, bussola e solcometro servono abbastanza poco. Occorre una conoscenza profonda dell’idrografia della zona, un accurato controllo dei fondali e quel senso subacqueo che il comandante Borghese chiama «arte» e che egli possedeva in altissima misura.
Dentro un sommergibile che così procede verso una base nemica il silenzio è cosa assoluta. Gli uomini son fermi, calzati di gomma e non parlano; le macchine, se il sommergibile non è un pietoso scassone, girano come se fossero immerse nell’olio. Una goccia d’acqua che cade dal soffitto sul cellofan che avvolge la carta di navigazione fa una botta come un uovo sodo che cada da un secondo piano.
Nulla accadde allo Scirè durante la marcia di avvicinamento, salvo la sacramentale tramontana che insegue sempre chi naviga dall’Egeo verso l’Africa. La sera del 17, Borghese, tenuto conto di vari elementi, decise di rinviare l’esecuzione del tentativo al giorno 18. I motivi che egli adduce sono professionalmente perfetti, ma niente dalla testa mi leva che egli, da buon marinaio, si sia ben guardato dal supporre di dare il via a un lavoro simile proprio il giorno 17! Io non sono superstizioso, ma al suo posto me ne sarei guardato… Alle 02,15 del 18 dicembre il sommergibile raggiunse l’isobata dei quattrocento metri. Inoltrò cautamente. Alle 14, raggiunse il fondale di 100 metri. Alle 15, raggiunse il fondale di 50 metri e proseguì quasi strisciando sul fondo. Prima del tramonto mise fuori il periscopio e fece un bel punto-nave. Alle 18,40, si posò sul fondo; in 17 metri, a miglia 1,3 (circa 2400 metri) a nord del molo di ponente del porto commerciale. Un po’ più tardi si spostò ancora verso sud fino a trovare un fondale di 15 metri, nel quale, tra le 20,45 e le 21,30, mise fuori i tre semoventi, con i tre equipaggi effettivi. Durante l’operazione di messa fuori dei semoventi furono forzate le chiusure dei portelloni dei cilindri poppieri che non volevano
aprirsi e per poco questo lavoro non costò la vita al medico, che, insieme col tenente, assisteva i partenti. Il medico, svenuto, cadde per caso in coperta e il tenente Feltrinelli riuscì a ricuperarlo e a riportarlo dentro il sommergibile.
Il quale sommergibile, messo in rotta verso nord, ebbe gravi difficoltà dovute non al nemico, ma ai portelli dei cassoni poppieri che non volevano più chiudersi. Ciò costrinse il comandante a due pericolose emersioni per rimettere le cose a posto, e provocò un grave appoppamento dell’unità (50 gradi) durante una manovra. Finalmente, a mezzanotte, il sommergibile poté riprendere l’allontanamento in condizioni normali. Riemerse la sera dopo, ormai fuori pericolo (per modo di dire), dopo trentanove ore di immersione. La sera del 21 dicembre giunse a Lero, e ne ripartì la sera del 23 per La Spezia. Il giorno di Natale, sotto Creta, si azzuffò con un aereo Kaki trimotore (quindi quasi certamente alleato) che gli tirò cinque bombe. Giunse a La Spezia verso mezzogiorno del 29 dicembre. La missione era durata ventisette giorni e aveva avuto un esito trionfale.
[...]
Che cosa fecero gli operatori? Ecco il rapporto di De la Penne:
«In qualità di Capo gruppo ed in relazione alle esperienze nelle missioni precedenti, presi accordi con i miei compagni, decido di eseguire la navigazione in superficie ed in formazione sino alle ostruzioni.
Alle 20,30 circa fuoriusciamo dal sommergibile. Mi porto sul cilindro di prua con Bianchi ed eseguo assieme a lui la manovra di sfilamento che avviene regolarmente in pochi minuti: il mio vestito fa acqua, il respiratore va bene.
[…]
Dopo pochi minuti arriva Marceglia. Aspettiamo ancora qualche minuto e quindi, non vedendo arrivare il capitano Martellotta, ci portiamo in superficie…
Siamo nel frattempo raggiunti dal capitano Martellotta che ha avuto difficoltà durante l’estrazione dell’apparecchio. Il mare è calmo, non c’è vento, la temperatura dell’acqua è circa 18°, nessun segno di allarme. Non si vede la costa, dato il buio della notte…
Navighiamo in formazione senza respiratori; con Marceglia sulla mia sinistra e Martellotta sulla dritta, sorvegliamo la zona di prora mentre i secondi sorvegliano quella di poppa. Il mio apparecchio è
sensibilmente più lento degli altri, tanto che Martellotta e Marceglia debbono ridurre continuamente la velocità. Dopo circa un’ora avvistiamo una scogliera e successivamente il palazzo reale. Dopo circa due ore, siamo al traverso di Ras el Tin. Ci fermiamo per verificare la posizione con lo scandaglio e per accertare se vi è corrente. Rilevo che siamo in rotta e che vi è corrente.
Essendo in anticipo sull’orario, apriamo il tubo portaviveri e facciamo colazione. Durante questo tempo si accende il faro di Ras el Tin che ci illumina in pieno. Siamo a circa 500 metri di distanza. Allaghiamo l’emersione e restiamo fuori. Vedendo che il faro non accenna a spegnersi ci allontaniamo a lento moto. Dopo qualche minuto, possiamo aumentare velocità ed esaurire l’emersione rimettendoci in rotta. Alle 23 circa, accostiamo per 189° avvicinandoci al molo esterno. Durante questa rotta, noto in porto grandi luci bianche e molte luci azzurre; defilando lungo il molo noto delle aperture fra gli scogli…
Controllo ancora la posizione con lo scandaglio e dirigo su una nuova rotta che mi deve portare all’imboccatura del porto. Navighiamo sempre in superficie. Dopo circa 20 minuti sentiamo un rumore simile all’urto dell’apparecchio su un cavo d’acciaio molto teso, rumore che dopo qualche minuto si ripete. Continuiamo la stessa rotta. Dopo circa 5 minuti sentiamo il primo scoppio di bomba ed avvistiamo di prua le ostruzioni. Faccio mettere il respiratore ai secondi uomini e navigare gli apparecchi appoppati con il primo uomo fuori con la sola testa senza respiratore. Ci avviciniamo all’ostruzione foranea. Vediamo e sentiamo parlare alcune persone che sono sulla estremità del molo; una di esse si muove con la lampada a petrolio accesa. Vediamo anche un grosso motoscafo che incrocia silenziosamente dinanzi al molo e lancia delle bombe. Le bombe ci danno abbastanza fastidio. Mentre navigo seguendo le ostruzioni foranee, vedo che i fanali che delimitano i canali navigabili fuori porto si accendono. Ritengo quindi che qualche unità sarebbe entrata o uscita. Il lancio delle bombe prosegue ad intervalli abbastanza lunghi. Considerando che: tentare il passaggio delle ostruzioni durante l’entrata delle unità presentava il pericolo di investimento o di avvistamento da bordo ma che, in compenso, con ogni probabilità, durante il passaggio delle navi, il motoscafo di vigilanza si sarebbe allontanato e che il pericolo di avvistamento sarebbe stato relativo in quanto l’equipaggio, in quel momento
occupato per il posto di manovra, non si sarebbe occupato di quanto era in mare, che dopo l’entrata o l’uscita delle unità ci sarebbe stata la manovra di chiusura della porta ed anche relativo traffico di imbarcazioni sulle ostruzioni che potevano eventualmente avvistarci se fossimo entrati dopo, decido di entrare assieme all’unità prevista.
Infatti il motoscafo si allontana. Siamo a ridosso delle boe. Passa a pochi metri e molla un’altra bomba che mi dà qualche fastidio. Dopo qualche secondo, chiamo a galla Bianchi per chiedergli se la bomba gli ha fatto male: mi risponde di star bene. Intanto si accendono i fanali della porta, ma siccome sono defilato, mi devo allargare per vedere l’apertura. Navigo senza respiratore, solamente con la testa fuori. Ho perduto il collegamento con Marceglia. Vedo di poppa delle macchie scure che si avvicinano rapidamente; sono tre grossi Ct. Continuo per la stessa rotta pensando di passare loro di prua. Infatti passo a pochi centimetri dalla prua del primo tanto che temo di essere investito e l’onda di prua mi butta di sotto. Aumento velocità e vengo in superficie. Entro in porto assieme al 2° Ct. Mentre l’onda del terzo mi butta sotto la boa della porta e mi trovo illuminato in pieno dal fanale. Perdo il contatto con Martellotta. Il 3° Ct. si è traversato ed è a poca distanza da me. Vedo chiaramente l’equipaggio che traffica e aspetto si allontani. All’interno delle ostruzioni c’è una barca ferma. Siccome il Ct. non si muove, decido di passargli di poppa e riesco ad aggirarlo senza essere visto. Ho molto freddo perché il vestito continua a fare acqua. Noto che nelle vicinanze della zona ove devo operare vi è molta luce a causa di un bastimento che carica. Ritengo quindi opportuno, anziché passare tra il frangiflutti interno e la banchina, passare esternamente al frangiflutti in modo da sfruttare la zona d’ombra. Dirigo sul frangiflutti e comincio quindi a randeggiarlo a mezzo metro di distanza. Dopo un centinaio di metri trovo ormeggiati di poppa due incrociatori. Non posso passare loro di poppa causa le imbarcazioni ormeggiate tra la poppa e la banchina, quindi aggiro e mi riporto sotto il frangiflutti. Arrivo al posto di ormeggio della Lorraine che è all’estremità del frangiflutti; ma tra la poppa e il molo vi sono pochi metri. Lascio il frangiflutti ed avvisto la massa scura del mio bersaglio. Dirigo verso il centro, attraversando la zona di mare illuminato. A circa 50 metri, trovo un’ostruzione di tipo a me sconosciuto in cui i galleggianti hanno forma sferica di circa 30 centimetri di diametro e sostengono
un cavetto d’acciaio. Al cavetto è appesa una rete di corda di 4-5 mm di diametro. Le sfere sono molto vicine ed urtandosi tra loro fanno molto rumore. Provo a sollevare la rete per tentare di passarvi sotto: cede per circa un paio di metri e poi non si solleva più. Penso che non sia prudente insistere. Dovrei allora aggirare l’ostruzione per trovare un passaggio. Dato che debbo cercare di perdere meno tempo possibile perché le mie condizioni fisiche, in quel momento, causa il freddo, sono tali che ritengo non poter resistere ancora a lungo, decido di superare le ostruzioni in superficie.
Percorro allora qualche metro e, trovata una zona ove le sfere sono tra loro ad una distanza di circa un metro, presento l’apparecchio e comincio il passaggio. Il cavetto e la rete restano impigliati alle staffe e all’elica e faccio molto rumore. Finalmente, liberato l’apparecchio, risalgo a bordo e dirigo verso il fumaiolo della nave. Sono circa le 2 del 19 e mi trovo a 30 metri di distanza dalla corazzata. Rilevo la rotta e metto per la prima volta il respiratore. Mi immergo a quota 7 metri e mi avvicino. Dopo poco urto contro la carena. Il freddo mi ha reso le mani inutilizzabili e non riesco a fermare il motore. Resto un momento a contatto della nave e quindi l’apparecchio si allarga e, allontanandosi, casco sul fondo fermandomi a 17 metri. Il fondo è fangoso e molle. Dai rumori che sento ritengo essere abbastanza vicino. Debbo risalire in superficie per prendere la nuova rotta per ritentare l’attacco. Sono molto pesante per l’acqua che ho nel vestito e devo riempire abbondantemente il sacco del respiratore per avere la spinta necessaria per portarmi a galla. Con l’ascensore vado verso la superficie e devo scaricare molto ossigeno. Arrivato a galla, l’ossigeno che esce dalla maschera fa molto rumore. Rilevo essere a circa 15 metri al traverso delle torri di prua, non riesco a vedere la sentinella. Scendo sul fondo e tento di mettere in moto l’apparecchio, ma non parte. Chiamo allora Bianchi e gli dico di andare a vedere se è libera l’elica. Avendo atteso qualche minuto decido di andare a poppa ad aiutare Bianchi, ma mi accorgo che il 2° uomo non è più con me, suppongo che deve essere svenuto e quindi andato a galla
Ritengo che non debbo lasciare a galla il palombaro, perché sarebbe un segno troppo evidente della nostra presenza e, considerando che se a bordo fosse stato dato l’allarme sarei stato danneggiato probabilmente dalla eventuale reazione, e quindi avrei dovuto mettere in moto le spolette per il minimo tempo possibile al fine di
fare almeno qualche danno, decido di salire a galla per tentare di ricuperare Bianchi. A circa 4 metri sono illuminato da un proiettore. Continuo a salire. Arrivato in superficie, sempre nella luce del proiettore, non vedendo il palombaro e, notando che a bordo vi è calma assoluta, decido di portare l’apparecchio sotto la nave. Mi immergo nuovamente e vado all’elica dell’apparecchio per tentare di liberarla. Un cavo di acciaio vi si è incattivato e non mi possibile toglierlo. Dovrò perciò trascinare l’apparecchio sul fondo. Siccome l’apparecchio non si muove, alleggerisco ancora e quindi tento di muoverlo portandomi nel fango e lavorando con le due mani sul parabrezza. L’apparecchio si muove di qualche centimetro, non posso vedere la bussola causa le nuvole di fango che sollevo lavorando. Ripeto la manovra. Sento una pompa alternativa e mi dirigo su di essa. Dopo qualche minuto sono tutto sudato. Gli occhiali sono appannati e non vedo più nulla. Mi fermo e tento di pulire gli occhiali per verificare la rotta. Durante questa operazione allargo la maschera. Provo a scaricare l’acqua dall’interno e non ci riesco. Devo quindi berla. Verificata la rotta, che è quella in precedenza calcolata, ritengo che potrò dirigermi con sufficiente esattezza guidato dal rumore della pompa. Ricomincio a trascinare l’apparecchio e sento che si alleggerisce, appesantisco e continuo il lavoro. Sono tormentato dalla sete e dal pensiero di come potrò fare il lavoro in carena. In quel momento mi sembra di non poter più continuare per l’eccessiva fatica e per l’affanno e di dovere quindi andare a galla. La vicinanza del bersaglio però mi dà forza, non sono preoccupato per le eventuali bombe ma solo del riposo per un paio di minuti. Riesco a leggere la rotta che è quella voluta. La profondità è ora di 14 metri. Il rumore della pompa è ora più forte. Ricomincio a trascinare l’apparecchio e devo ancora appesantirlo, dato che si alleggerisce per le variazioni di profondità. Questa volta compio il lavoro fermandomi molto più spesso. Le pieghe del vestito mi fanno molto male. Sento che mi avvicino, causa l’aumentare dei rumori di bordo. Gli ultimi metri sono i più duri, lavoro meccanicamente senza capire dove vado e cosa faccio. Mi accorgo che la pressione dell’acqua diminuisce. Mi fermo ancora per riposare e verificare la rotta, quindi ricomincio a trascinare l’apparecchio. Sono passati circa 40 minuti da quando ho cominciato. I rumori sono ora molto più forti e finalmente urto con la testa contro lo scafo.
Con l’ascensore eseguo una ispezione sotto lo scafo per verificare la posizione in cui mi trovo. Non c’erano alette di rollio ma la larghezza della nave era tale che consideravo essere in buona posizione. Torno sull’apparecchio, metto immediatamente in moto le spolette, per evitare che una eventuale bomba mi impedisse di terminare la missione e ricomincio a trascinare l’apparecchio fino al completo esaurimento delle mie forze. Copro quindi il cruscotto con fango per evitare che la luminosità possa indicare la posizione per eventuali ricerche, appesantisco completamente l’apparecchio e quindi, non ritenendo opportuno mollare le bombette incendiarie che potevano identificare facilmente la posizione dell’apparecchio, mi porto in superficie lungo lo scafo. Appena a galla mi tolgo il respiratore e lo affondo: vedo che sono sotto le torri di prua. Nuoto per allontanarmi e, dopo circa 10 metri, vengo chiamato da bordo. Continuo ad allontanarmi e da bordo mi illuminano con proiettori e mi tirano una scarica di mitragliatore. Vado allora sotto bordo e mi dirigo sulla boa di prua della corazzata e lì trovo Bianchi che mi dice di essere svenuto ed essersi quindi ripreso in superficie. Gli dico che l’apparecchio è a posto e che le spolette sono in moto. Intanto da bordo ci dicono frasi irridenti, credono che la nostra missione sia fallita: parlano di italiani. Faccio notare a Bianchi che se aspettano un paio d’ore avranno una diversa considerazione per gli italiani. Intanto da bordo continuano a parlare e a chiamarci. Pensando che volessero che io andassi a bordo per la catena dell’ancora, comincio ad arrampicarmi ma, passate poche maglie, vengo fatto segno ad un’altra scarica di mitragliatore. Scendo allora sulla boa e non mi muovo più. Sono le tre e mezzo circa. Dopo poco si avvicina un motoscafo con due persone armate di mitragliatore che ci ingiungono di alzare le mani. Al mio rifiutò non insistono oltre: ci tolgono gli orologi e verificano se siamo armati. Saliamo sul barcarizzo di poppa: a bordo tutto è calmo. Veniamo portati in quadrato, ove siamo messi sotto sorveglianza della fanteria di Marina che ci fa segni di minaccia. Chiedo mi aiutino a togliermi il vestito impermeabile e, mentre eseguo questa operazione, sono aiutato piuttosto brutalmente. Viene un ufficiale che mi chiede chi siamo e da dove veniamo e mi dice che non abbiamo avuto fortuna. Consegno quindi i miei documenti e vengo accompagnato, insieme a Bianchi, dall’ufficiale stesso sul motoscafo.
Ci impediscono di parlare fra noi. Il motoscafo dirige per Ras el Tin. Veniamo portati dinanzi a una baracca. Siamo fortemente scortati. Bianchi viene portato dentro la baracca ove resta pochi minuti. Quando esce mi fa segno di non aver detto nulla. Quando mi portano nella baracca, trovo un ufficiale armato di pistola, che mi chiede, in italiano, dove ho messo l’apparecchio e mi consiglia di rispondergli perché lui è molto nervoso avendolo fatto io alzare a quell’ora della notte. Siccome non rispondo, mi dice che il mio palombaro ha già detto tutto. Non ci credo e allora mi dice che avrebbe trovato il modo di farmi parlare. Torniamo sul motoscafo che dirige verso bordo: sono circa le 4. Troviamo a poppa il comandante della nave che mi chiede anche lui dove ho messo la carica. Siccome mi rifiuto di rispondere vengo accompagnato dall’ufficiale di guardia e dalla scorta verso prua.
Attraversiamo i corridoi mentre la gente sta ancora dormendo. Ci fermiamo davanti al portello di una scala e mi fanno scendere assieme a Bianchi e alla scorta. Noto che nella cala sono appesi al soffitto dei maniglioni da catena ed altri strumenti in ferro. Chiedo dove siamo e mi dicono che siamo tra le due torri: ritengo quindi che la carica sia sotto di noi. Gli uomini di scorta sono piuttosto pallidi e molto gentili. Mi danno da bere del rum e mi offrono delle sigarette: cercano anche di sapere qualche cosa. Bianchi, intanto, si siede e si addormenta. Dai nastri del berretto dei marinai constato che sono sulla corazzata Valiant. Quando mancano circa 10 minuti all’esplosione chiedo di parlare con il comandante. Mi portano nel corridoio, dove trovo l’ufficiale che mi ha già interrogato e mi dice di dire a lui quanto io volevo dire al comandante: rispondo che voglio parlare con il comandante. Vengo portato allora a poppa alla presenza del comandante. Gli dico che fra pochi minuti la sua nave sarebbe saltata, che non vi era più niente da fare e che, se voleva, poteva mettere in salvo l’equipaggio. Il comandante mi chiede ancora dove ho messo la carica e, siccome non rispondo, mi fa riaccompagnare nella cala. Mentre passo i corridoi, sento gli altoparlanti che danno ordine di sgombrare la nave che è stata attaccata dagli italiani e vedo la gente che corre verso poppa. Rinchiuso nuovamente nella cala, mentre scendo dalla scaletta dico a Bianchi che era andata male e che per noi era finita, ma che potevamo essere soddisfatti perché eravamo riusciti a portare a termine la missione malgrado tutto. Bianchi però non mi risponde. Lo cerco e non riesco a trovarlo. Ritengo che gli inglesi, credendo che io parlassi, lo avevano
[Grafico del forzamento di Alessandria. Sommergibile Scirè e tre SLC. Notte sul 19 dicembre 1941. La figura indica i percorsi seguiti dai tre assaltatori]
portato via. Passano alcuni minuti ed avviene l’esplosione. La nave ha una fortissima scossa. Le luci si spengono e il locale è invaso dal fumo. Sono circondato dai maniglioni che erano appesi al soffitto e che sono cascati. Non ho nessuna ferita, solo un ginocchio mi duole essendo stato colpito di striscio da uno dei maniglioni stessi. La nave sbanda sulla sinistra. Apro un oblò che è sulla sinistra ed è molto vicino al mare sperando di poter uscire ed andarmene. Non è possibile perché l’oblò è troppo piccolo e rinuncio al tentativo; lo lascio però aperto sperando possa essere un’altra via d’acqua. Aspetto qualche minuto. Il locale è illuminato dall’oblò. Ritengo non sia prudente restare ancora in questo locale, sento intanto che la nave appoggia sul fondo e che continua a sbandare lentamente sulla sinistra. Salgo la scaletta, e trovato il portello aperto, vado verso poppa: sono solo. A poppa vi è ancora gran parte dell’equipaggio che si alza in piedi al mio passaggio.
Proseguo e vado dal comandante. In quel momento sta dando gli ordini per la salvezza della nave e gli chiedo dove ha messo il mio palombaro. Non mi risponde e l’ufficiale di guardia mi dice di tacere. La nave si è sbandata di circa 4 o 5 gradi ed ora è ferma. Vedo in un orologio che sono le 6 e un quarto. Dirigo a poppa dove sono molti ufficiali e mi metto a guardare la corazzata Queen Elizabeth che è a circa 500 metri alla nostra poppa. L’equipaggio della Queen Elizabeth è sulla prua. Passano pochi secondi ed anche la Queen Elizabeth salta. Si solleva dall’acqua per qualche centimetro e dal fumaiolo escono pezzi di ferro, altri oggetti e nafta che arriva in coperta da noi e sporca tutti quanti sono a poppa. Sono raggiunto da un ufficiale che mi chiede di dirgli, sulla mia parola d’onore, se sotto la nave vi erano altre cariche.
Non rispondo e vengo quindi di nuovo portato nella cala. Dopo circa un quarto d’ora mi portano in quadrato ove posso finalmente sedermi e dove trovo Bianchi. Dopo poco mi imbarcano sul motoscafo e mi portano nuovamente a Ras el Tin. Noto che l’ancora che era appennellata di prua è sommersa. Durante il percorso, un ufficiale mi chiede se siamo entrati dalle aperture che sono nel molo. A Ras el Tin ci chiudono in due celle dove ci tengono fin verso sera. Chiedo di essere portato al sole perché ho di nuovo molto freddo. Viene un soldato, mi sente il polso e mi dice che sto benone. Verso sera veniamo imbarcati su una camionetta che ci porta in un campo di prigionieri ad Alessandria.
Nel campo troviamo alcuni ufficiali italiani che hanno sentito nella mattinata le esplosioni. Senza mangiare, ci sdraiamo a terra e, benché bagnati, dormiamo sino al mattino dopo. Vengo ricoverato all’infermeria per il colpo ricevuto al ginocchio ed alcuni infermieri italiani mi fanno avere un’ottima pasta asciutta. Il mattino successivo vengo portato al Cairo».
Novembre 1943
L’idillio con l’isola dopo il primo incontro nel 1933, si trasformò in tragedia. Nel novembre 1943, al termine della battaglia, dopo la caduta della roccaforte, Lero vide infine la partenza delle tradotte dei
prigionieri, alleati e italiani, verso i lager polacchi e tedeschi. (da: La Marina italiana nella Seconda Guerra Mondiale - Avvenimenti in Egeo dopo l'Armistizio [Rodi, Lero e isole minori])
Nella notte tra il 16 e il 17 novembre continuarono ad avvicendarsi sull’isola bombardamenti tedeschi e, ironia della sorte, anche rifornitori inglesi. L’ufficiale tedesco che era andato a Portolago a prendere l’Amm. Mascherpa, alle proteste dell’Ammiraglio per la continuazione dei bombardamenti dopo la resa, rispose che non poteva farci nulla, tutt’al più consigliava di sparare qualche “very” bianco, che era il segnale delle zone sulle quali i bombardieri non dovevano sganciare. Così fu fatto, ma fu subito constatato che i bombardieri sganciarono proprio in corrispondenza dei segnali. All’alba del 17 entrarono in porto alcune piccole unità tedesche, motovedette e caccia sommergibili, che portavano altri contingenti di truppe. La bandiera della Difesa, che la mattina del 17 ancora sventolava sul tetto della Caserma della Difesa, fu ammainata in ritirata per ordine del comandante della difesa C.F. Re.
[...]
Verso mezzogiorno buona parte degli ufficiali era riunita davanti alla Sede protetta e cominciarono gli interrogatori a cura di un C.C. e di un T.V. tedeschi che parlavano discretamente l’italiano. Erano i Comandanti dei gruppi di unità entrate a Portolago la mattina. Si comportarono con molta asprezza.
Essendo l’Ammiraglio lontano e segregato, chi sostenne l’urto principale fu il C.te Re che assunse in pieno tutte le responsabilità che gli venivano dalla sua posizione di secondo anziano e di Comandante della Difesa.
[...]
Gli ufficiali delle batterie erano stati subito riuniti quasi tutti nel campo di concentramento dell’aeroporto, dove il secondo giorno dopo la resa cominciarono gli interrogatori ad opera di due ufficiali dell’Esercito, un Maggiore e un Sottotenente. Di questi interrogatori ci dà notizia nel suo libro Lero il C.te Spigai che, quale Comandante del fronte mare e antiaereo fu sempre presente. I tedeschi parlavano in francese. Gli interrogatori si svolsero sotto il duplice incubo della fucilazione per chi aveva sparato e ordinato di sparare contro i tedeschi e dell’invito a collaborare nel proseguimento della guerra contro
gli Inglesi. Durarono tre giorni e il C.te Spigai, che faceva anche da interprete, assunse per sé tutta la responsabilità degli ordini di fuoco. Lo stesso fece, per quanto lo riguardava, il suo C.te in seconda Cap. Caprioglio.
[...]
Il C.te Re e gli ufficiali trattenuti con lui rimasero a Gonià una decina di giorni (soccorsi anch’essi, per i viveri, dalla popolazione civile), fino al 28 novembre. (Forse questa data coincide con la fine dell’ispezione tedesca alle batterie e con la constatazione che non erano stati compiuti, dopo la resa, atti di sabotaggio). Il 28 essi furono trasferiti al campo di concentramento dell’aeroporto e di lì il mattino del 29 mossero con una colonna di circa 1.500 prigionieri per recarsi a Portolago ad imbarcarsi. La popolazione dell’isola, che già si era prodigato in favore dei prigionieri e per di più si era anche prestata a sottrarre armi portatili ai tedeschi e a nasconderle, seppellend le sottoterra, ebbe ancora una volta occasione di mostrare ai partenti la propria simpatia e la propria pietà.
[...]
1° trasporto - giorno 17 novembre: 30 ufficiali e 40 feriti sul Ct. Crispi. Tutti gli italiani furono riuniti nel locale fochisti, dove l’atmosfera divenne ben presto irrespirabile per il numero delle persone, la presenza dei feriti e la perdita di vapore dagli assi degli argani. Sotto il castello vi erano truppe inglesi di colore, a poppa in coperta ufficiali inglesi. Giunsero al Pireo il mattino del 18.
2° trasporto - giorno 21. Sul piroscafo, di cui non si è potuto rintracciare il nome, erano molte truppe inglesi, truppe di colore e 150 ufficiali italiani. Fra essi anche l’Amm Mascherpa al quale non fu concesso il minimo segno di distinzione. Fece il viaggio come tutti gli altri, nel tunnel degli assi dell’elica, nel peggior posto cioè dopo gli inglesi e le truppe di colore. L’Ammiraglio sopportò con serenità ogni maltrattamento. Fu sempre calmo e dignitoso e molti reduci ricordano con frasi commosse le parole di fede e di speranza da lui pronunciate durante la traversata.
3° trasporto - giorno 30 novembre. Circa 1500 uomini con un piroscafo. Il C.te Re e gli altri due ufficiali, che con lui erano stati segregati dalla massa dei prigionieri, furono imbarcati sul Cacciasommergibili che scortava il piroscafo, dove furono tenuti sempre sotto stretta sorveglianza di sentinelle. Il convoglio giunse al Pireo il 1° dicembre e
ad esso, prima che entrasse in porto, si aggregarono altri 3 Cacciasommergibili, una Mz. e 6 caicchi armati. In onore dei vittoriosi di Lero era stata organizzata sulla banchina una solenne cerimonia alla quale presiedeva l’Ammiraglio tedesco dell’Egeo col suo Stato Maggiore con la musica.
Nell’isola, dopo la partenza sopradescritta del 3° gruppo, si ebbe, il 2 dicembre, partenza della Nave-Ospedale Gradisca che batteva bandiera tedesca. Vi avevano preso imbarco malati, feriti e il personale sanitario inglese. Doveva imbarcare anche una parte del personale sanitario italiano ma per esso all’ultimo momento venne un contrordine. La Gradisca era diretta a Trieste, ma giunta nel canale d’Otranto, fu fermata una squadriglia di CT inglesi che la dirottavano su Brindisi. Il personale prigioniero poté così riacquistare subito la libertà.
Il gruppo più numeroso parti il 17 dicembre col piroscafo Leopardi. Furono, a quanto risulterebbe, 3.700 uomini ai quali, come già detto, si aggregò volontariamente il Padre Lega. Ne rimasero a Lero ancora circa 1.200 con una ventina di ufficiali.
Il 1 gennaio 1944 vi fu un’altra partenza, dopo la quale rimasero nell’isola soltanto un gruppo di circa 200 prigionieri. Il loro campo di concentramento a Lero funzionò anche da campo di smistamento di prigionieri provenienti da altre isole. Di ufficiali rimase a Lero solo qualche medico e qualche tecnico.
La battaglia di Lero sui quotidiani italiani del 1943
Enzo Terzi
The Battle of Lero began on the 26th of September 1943 with a series of bombardments by the German air force, as reported in almost all the existing bibliography. On November 12th, the Germans, coming from Rhodes, landed on the island, to complete its conquest on the 16th. In the meantime, in Italy, since the Allies had been proposed an armistice on the 8th of September, there were chaotic moment due to the establishment of the new government and the birth of the Republic of Salò on the 18th of the same month. Moreover, the Allied invasion had reached Salerno the day after the armistice. All state apparatuses, and with them propaganda and information, plunged into absolute chaos, while every Italian decided in his heart - or at least tried to do so - which side to be on.
La Battaglia di Lero, come riporta pressoché tutta la bibliografia esistente, iniziò di fatto il 26 settembre 1943 con una serie di bombardamenti operati dall’aviazione tedesca. I tedeschi poi sbarcarono sull’isola, risalendo da Rodi, il 12 novembre, per conquistarla definitivamente il 16.
Nel frattempo in Italia, chiesto l’armistizio agli Alleati l’8 settembre, si vivevano momenti particolarmente caotici per l’instaurarsi del nuovo governo e la nascita della Repubblica di Salò il 18 dello stesso mese, senza contare l’invasione alleata che oramai aveva raggiunto, proprio all’indomani dell’armistizio, Salerno.
Tutti gli apparati statali e con essi anche la propaganda e l’informazione, piombarono nel caos più assoluto mentre ciascun italiano decideva – o almeno cercava di farlo – in cuor suo, da quale parte schierarsi.
Tale complessa situazione era il coronamento della famosa riunione tenuta dal Gran Consiglio il 25 luglio 1943, nel corso della quale Mussolini era stato sfiduciato e poi arrestato su ordine del Re,
Vittorio Emanuele III. Liberato dai tedeschi il 12 settembre con un blitz a Campo Imperatore in Abruzzo, dove era detenuto, Mussolini, il 18 settembre, proclamò attraverso Radio Monaco di aver ripreso le redini del comando e che di lì a breve si sarebbe dato inizio “al funzionamento del nuovo Stato Fascista Repubblicano”.
In questo contesto la stampa italiana ed in particolare i quotidiani, non solo soffrivano di questa nuova atmosfera apparentemente senza guida e controllo, ma erano soprattutto divisi tra l’emergenza della situazione interna al Paese e le vicende belliche che comunque coinvolgevano migliaia e migliaia di militari italiani dislocati sui molti fronti aperti ancora in quella fase della guerra. Le direttive si sovrapponevano, le une in aperto contrasto con le altre e molto spesso, specie in ambito militare, la decisione dei vari comandanti sul campo, ovvero se aderire alle nuove direttive di collaborazione con gli Alleati del governo Badoglio o continuare nell’alleanza con i tedeschi, dette origine in molti casi a decisioni che talvolta si rivelarono fatali.
Su tutto regnava l’impossibilità di potersi informare se non attraverso le rispettive catene di comando che pur faticavano a diramare ordini chiari, pur sapendo che in tale caos avrebbero potuto avere un peso – dopo molti anni – anche considerazioni di altro genere, molto spesso intime e personali, che, a qualsiasi livello della gerarchia, dal semplice soldato al comandante, si sarebbero fatte largo nella coscienza di ciascuno, dopo decenni di sopito silenzio.
Questa serie complessa di motivazioni fu all’origine del tardivo, se non sommario per taluni aspetti, interessamento dei quotidiani italiani alle vicende di quel Dodecanneso (ed in particolare di Lero) che pochi decenni prima, all’atto della sua occupazione, era stato celebrato a tutta pagina.
La raccolta e la disamina degli articoli qui effettuata non è certo esaustiva ma, provenendo dal Corriere della Sera, da La Stampa, da Il Resto del Carlino e da Il Pomeriggio (edizione sempre del gruppo del Corriere), può considerarsi emblematica.
Lero in realtà non era stata mai considerata molto dalla stampa italiana: dalla sua occupazione che rintracciamo negli enfatici articoloni a tutta pagina del 1912, si hanno poi pochi cenni. Eppure a cavallo degli anni ’30 era stata oggetto non solo della costruzione di una
importante base militare e di una capillare fortificazione ma, con la costruzione di Portolago (oggi tornata a chiamarsi Lakki), era salita alla ribalta come una delle isole ospitanti quelle nuove città di fondazione che concentravano nei loro edifici e nella loro urbanistica tutto il più moderno sapere in tema di architettura. Non a caso, quale esempio di tanta modernità, era stata inserita, proprio negli anni ’30 come meta – seppur fugace e secondaria – delle crociere dal Touring Club Italiano nel Dodecaneso che, all’apice del suo splendore italiano, veniva promosso dal regime come nuovo paradiso mediterraneo. Delle imponenti costruzioni ed attrezzature militari poco se ne sapeva e, forse nel timore che il nemico ascoltasse, non se ne dava notizia se non incidentalmente, in piccoli trafiletti nelle ultime pagine. La base degli idrovolanti, prima fra tutte, era riuscita a scardinare il muro del silenzio su Lero, anche se per dolorosi motivi1:
18 ottobre 1930: “E’ giunto qui [a Gaeta] il cacciatorpediniere Turbine recante a bordo le salme degli aviatori ten. Di vascello Sedanti e secondo capo Milzoni, vittime dell’incidente aviatorio accaduto qualche tempo fa presso l’isola di Lero. Nel pomeriggio le bare saranno trasportate per ferrovia ai rispettivi paesi natii; 23 marzo 1933: “Ieri, alle 8,15 un idrovolante di Lero, pilotato dal capitano Federico Russo ed avente a bordo l’aviere scelto elettricista Mario Cesaretti, durante la manovra di ammaraggio, per cause non ancora precisate, si è infilato in acqua. L’apparecchio è andato distrutto e l’equipaggio deceduto” (Agenzia Stefani, Corriere della sera del 23 marzo 1933); 11 aprile 1934: “Il giorno 9 aprile un idrovolante dell’idroscalo di Lero, pilotato dal Tenente Giuseppe Melandri, durante un volo di prova, per cause non ancora precisate, è precipitato in mare distruggendosi. Il pilota è deceduto (Agenzia Stefani, Corriere della Sera 11 aprile 1934); 23 gennaio 1935: “Il giorno 21 corrente un idrovolante all’aeroporto di Lero, pilotato dal cap. Orazio Silvestri e dal sergente pilota Iginio Lucchi, precipitava da circa 50 metri di quota nella baia di Porto Laki. I piloti, data la minima quota, non hanno potuto fare uso del paracadute. Il
1 È curioso come, ad esempio, non sia stato possibile rintracciare alcuna notizia –dai quotidiani presi in esame – circa la morte, avvenuta il 29 marzo 1924 nelle acque di Lero, del pilota Giovanni Battista Rossetti, al quale verrà poi intitolato proprio l’idroscalo dell’isola.
cap. Silvestri è rimasto leggermente ferito, il sergente Lucchi è deceduto. (Agenzia Stefani, Corriere della Sera del 24 gennaio 1935).
Occorrerà arrivare al 1940 e poi al 1942 per trovare proprio sul Corriere della Sera dei pezzi su Lero che non siano unicamente note belliche di agenzia che riportano dei falliti – o perlomeno dai toni considerati tali – attacchi aerei inglesi, confermanti contestualmente la supremazia italiana su quella parte di Mediterraneo. Gli articoli in questione, ben precedenti nella stesura (almeno il primo) alla data di pubblicazione, ci raccontano di un paradiso antico e tranquillo, lontano da una guerra che sembra non scalfire un clima irreale di serenità. L’obiettivo – neanche a dirlo – è quello di esaltare gesti d’eroismo e di virtù italiana (insignificanti ai nostri fini) ma anche quello di mostrare come a seguito dell’occupazione, il clima fosse quello infinitamente tranquillo e compiacente di una comunità che apprezzava e conduceva nella pace la propria vita, anzi, addirittura mostrando gratitudine per certe vicende risalenti al 1912, per le quali l’esercito italiano ebbe di che dare qualche bella lezione ai pochi turchi riottosi che tentavano di impedire l’inevitabile conquista.
Da Rodi a Lero non c’era scoglio che non avesse visto un piccolo battello greco, da noi requisito, che portava il nome sonante di Tachidromos. Il Tachidromos era passato mille volte con qualsiasi tempo, carico di uomini, di bestiame, di mercanzie, di ceste d’uva, di montagne di frutta e si può dire che il suo ponte rappresentasse un mercato errante dove si potevano comprare le cose più impensate del mondo: uova, pecore, scampoli di stoffa, mazzi di cipolle, panieri di pomodori e spugne bellissime e coralli degni di figurare nelle vetrine dei Lungarni Fiorentini. Il Tachidromos ci portò in tre giorni a destinazione dopo averci fatto sostare negli scali intermedi che rappresentavano le tappe obbligatorie della sua frastagliatissima navigazione. Cominciavamo a saperci stare sopra con un certo equilibrio quando ci si presentò allo sguardo il panorama bianco e azzurro di Lero, sormontato da una fortezza veneziana, incorniciato dallo spumeggiante mare. Avemmo dapprima la sensazione di approdare di fronte a un presepio o a un villaggio di bambole, poi nello scendere constatammo che avevamo messo piede sopra un’isola bella e primaverile che ci salutava coi colori vivacissimi delle case, con le macchie rosee degli oleandri sormontate dal crinale della fortezza che ci riconduceva con la
memoria ad antiche storie del nostro Paese. Sapevamo che Lero aveva una baia famosa che ora si chiama Porto Lago ed è trasformata in scalo marittimo, ma che allora aveva l’aspetto placido di un golfo addormentato dove si nascondeva una villa adagiata nel fondo della rada dentro alla quale un vecchissimo pascià egiziano custodiva la giovanissima moglie. […]
(da Visita a Lero di Paolo Nomade, Corriere della Sera, 20 giugno 1940)
Una schiera di scapitozzati mulini a vento, candidi, che orlano la collina rocciosa quasi a delimitare dove si appoggia latteo il villaggio di Santa Marina; il verde dei fichi, degli aloe incastonato come in un mosaico vegetale e un profumo di terra rossiccia vaporante da una luce da acropoli; scassate automobili che portano marinai scesi a terra; asinelli cavalcati da donne semivelate che reggono con un braccio il bambino e con la mano il parasole; le barche di forma omerica, di snellezza arcaica dove ciurme greche caricavano botticelle di vino resinato, cassette di pasta e bidoni di benzina; i nostri passi perduti per la via delle Muse e la via Nicolaidi in attesa dell’ora del pranzo o della sera per andare a fare bisboccia in una casa di piacere isolata, tra gli ulivi, sulla collina: Lero. Questa, Lero alla vigilia della guerra. Il porto ospitava una squadra da battaglia, il porticciuolo di San Giorgio allineava sommergibili. Dall’alto delle gru, degli aerei, delle torrette, nei trasparenti fondali, le alghe profondissime e i bassifondi si vedevano ondeggiare come oscuri presagi. Sedemmo a un tavolino di ferro in una taverna di fianco al Mercato. Ricordo la voce dell’amico sullo sfondo di un grammofono interrotto dalle sirene dei rimorchiatori. E il bicchiere colmo di birra si alzava ogni tanto propiziatorio verso un impassibile cielo blu […]
(da Lettera “D” di Raffaele Calzini, Corriere della Sera, 17 ottobre 1942)
Con queste immagini ancora impregnate di quell’orientalismo che tanto aveva contraddistinto buona parte della letteratura occidentale negli anni a cavallo tra i due secoli, l’isola di Lero, ancora all’inizio del 1943 rappresentava nell’immaginario collettivo del pubblico italiano la classica isola mediterranea, sperduta in una serenità senza tempo.
Unica eccezione a tale sereno quadretto fu un articolo del 27 novembre 1940 inneggiante l’insuccesso di un attacco aereo inglese
all’isola di Lero. Una delle poche testimonianze pubbliche e popolari sull’esistenza di un presidio militare italiano evidentemente di una certa importanza:
Gli attacchi aerei inglesi contro Lero e Stampalia si sono risolti in due insuccessi. Da un aeroporto nell’Egeo, 27 novembre. Che il nemico mastichi male i bocconi che successivamente è stato costretto ad ingoiare nel settore dell’Egeo, è cosa che oramai appare chiara e netta. Le nostre iniziative a breve e lungo raggio, in tutti i cieli ove sia possibile e qualche volta sembri impossibile estendere la nostra azione per vibrare colpi tremendi ovunque esista un centro vitale da colpire; la pronta reazione dovuta a una mirabile vigilanza accompagnata sempre da impavido coraggio, sono colpi durissimi contro i quali si sferra, benché vanamente, la sorda ira nemica. Ancora una volta oggi ne abbiamo la conferma. La reazione contro il pietoso episodio dell’isolotto di Gaidaro e che ha condotto al bombardamento aereo-navale di Samos è probabile abbia suggerito ai nemici l’incursione di cui ci occupiamo e che ha avuto luogo esattamente alle 4.15 di ieri […] contro l’isola di Stampalia e una in più grande stile sull’isola di Lero che, come sanno anche i nostri nemici, è come una specie di istrice pericoloso i cui aculei si protendono minacciosi, in ogni senso. L’incursione non ha realizzato alcun tangibile risultato. […] Intanto l’istrice aveva, con rapidissima manovra, allungato i suoi aculei e l’isola apparve, nella notte buia e nuvolosa, come incendiata da numerosi fuochi d’artificio, da scoppi e sibili, da improvvisi bagliori dovuti prevalentemente alle batterie antiaeree e alle mitragliatrici la cui azione creò, intorno alle opere fortificate, una cintura impenetrabile di ferro e di fuoco. […] Ancora una volta è rimasto così provato esuberantemente che l’Egeo nostro per quanto ci riguarda, sente il morso della briglia che lo guida e che non invano il Comando Superiore delle Forze armate del settore ebbe ad affermare che chi tocca l’Egeo è destinato a lasciarci le penne.[…]
(da Alfredo Chiorando, Corriere della Sera, 27 novembre 1940)
Nessuna citazione apparirà poi sui quotidiani italiani fino a quando, oramai, si sarà consumata la Battaglia. Nessuna notizia sembra trapelare dei bombardamenti tedeschi iniziati nel settembre ad eccezione di un articolo, apparso su La Stampa anche se proprio nell’imminenza dell’invasione tedesca.
Le acque di Samo e di Lero infide per i britannici. Berlino, 10 novembre. Le isole di Samo e di Lero sono continuamente sotto la minaccia aerea dei bombardieri della Luftwaffe. Il comando britannico si è visto costretto a far cambiare residenza ai reparti e a lasciare in conseguenza le isole pressoché indifese. Le acque che circondano queste isole sono assai pericolose per le unità britanniche in quanto che numerose mine sono state disseminate lungo tutto il tratto di mare. Ciò rappresenta un ostacolo serio per tutti i movimenti delle navi nelle acque del Dodecaneso. Nella giornata di ieri, apparecchi da combattimento tedeschi hanno attaccato la base di Lero, nel Mare Egeo. Le bombe sganciate su Porto Lago hanno provocato parecchi incendi ed hanno causato danni e perdite nelle postazioni delle batterie avversarie […].
(La Stampa, 11 novembre 1943)
La storica Agenzia Stefani, che serviva anche tutta l’area balcanica, è impossibilitata ad operare in mancanza di direttive politiche che stabilissero il confine tra quanto si poteva e quanto non si poteva raccontare2. I quotidiani italiani erano oramai quasi completamente dipendenti da agenzie di altri paesi, soprattutto quelle tedesche e quelle inglesi. Nella probabile incertezza, in attesa che il pandemonio causato dall’armistizio e dalla nuova Repubblica di Salò si calmasse, si optò per non diramare nulla che oramai non fosse accaduto e confermato da più fonti. D’altronde, vista la cattiva sorte che accompagnava tali avvenimenti né il governo Badoglio né il governo di Salò ardevano dalla voglia di diffondere notizie che, da qualsiasi parte le si vedesse, erano sconfortanti.
2 Le vicende dell’Agenzia Stefani che dal 1924 era diventata l’Agenzia giornalistica del regime, sono ben dettagliate nel Diario di Roberto Suster, direttore durante i 45 giorni che seguirono l’arresto di Mussolini, visto che il precedente direttore, Manlio Morgagni, appresa la notizia dell’incarceramento del duce, si era tolto la vita. Di non minore importanza sono i faldoni di comunicati stampa che l’Agenzia diramò in quei mesi di caos, conservati, fra la documentazione relativa alla RSI, nell’Archivio Centrale dello Stato. Di fatto, a seguito degli eventi verificatisi tra il luglio ed il settembre 1943, anche all’interno dell’Agenzia convissero due anime, quella fascista e quella badogliana fino a quando, dopo il 23 settembre, l’Agenzia divenne portavoce della RSI, la sua sede fu spostata a Milano con direttore Luigi Barzini (Suster nel frattempo era stato incarcerato dalla RSI per ordine di Mussolini. Fuggirà dal carcere e si darà alla macchia per poi tornare al giornalismo a guerra finita). L’Agenzia verrà poi sciolta il 29 aprile 1945. Negli anni a seguire la sua struttura venne utilizzata per la costituzione della nuova Agenzia ANSA.
Il primo comunicato sulla stampa relativo a allo sbarco tedesco è del 13 novembre 1943, quando, su Il Pomeriggio, viene ripreso un comunicato proveniente da Berlino. Tutto il dramma di Lero si proporrà, con ritmo serrato, per l’intera settimana, all’attenzione del popolo italiano.
Sbarco di forze germaniche nell’isola di Lero: le fortificazioni costiere superate. Violenti combattimenti in corso con la guarnigione britannica. Berlino, 13 novembre.
Dopo un attacco compiuto da squadriglie di aerei germanici contro forze navali britanniche, durante il quale veniva affondato un numero considerevole di piccole unità nemiche, le truppe germaniche, a quanto riferisce la “Agenzia Internazionale di Informazioni”, sono sbarcate nelle prime ore di ieri nell’isola di Lero nel Dodecaneso. Le forze tedesche hanno superato ben presto le fortificazioni costiere britanniche e combattono attualmente contro la guarnigione di Lero composta di truppe inglesi e di reparti rimasti fedeli a Badoglio. L’azione contro l’isola è stata preceduta, nei giorni scorsi, da continue e violenti azioni aeree. Nel corso di una di queste gli apparecchi germanici avvistavano nelle acque dell’isola un convoglio nemico in navigazione, scortato da alcuni cacciatorpediniere. Nonostante la forte reazione contraerea, quattro mercantili sono stati centrati. Su un incrociatore pure colpito sul ponte, si è verificata una forte esplosione. L’unità deve ritenersi perduta. Le navi danneggiate sono state rimorchiate nelle acque territoriali turche. Nel corso di azioni esplorative e di sorveglianza gli aerei tedeschi hanno abbattuto nella giornata di ieri cinque apparecchi nemici (Il Pomeriggio, 13 novembre 1943).
Le notizie sono scarse, prudenti e non fanno il minimo cenno al fatto che già Rodi sia caduta e che sia interamente in mano tedesca – grazie anche alla parziale resa del contingente italiano – dal 12 settembre.3
3 Relativamente a Rodi, le vicende della occupazione tedesca sono legate alle sorti di Inigo Campioni, allora governatore del Dodecaneso e Luigi Mascherpa comandante della piazzaforte di Leros. Entrambi, per l’atteggiamento “badogliano” tenuto subito dopo l’Armistizio, vennero condannati a morte nel 1944 dal Tribunale della RSI di Parma.
Rimbalzerà la notizia Il Resto del Carlino con un articolo, sempre ripreso dall’Agenzia di stampa tedesca (Berlino, 13 novembre) che, nel contesto di un riassunto circa i vari teatri di guerra aperti in Europa, riporta:
[…] Una forte formazione di apparecchi da combattimento germanici ha attaccato gli impianti portuali dell’isola di Lero nel Dodecaneso. Gli aerei attaccanti avvistato un convoglio del nemico navigante nei dintorni, passavano all’azione. Nonostante la forte reazione contraerea, quattro piccoli mercantili sono stati distrutti. […] [riproponendo qui pedissequamente l’articolo uscito il giorno precedente su Il Pomeriggio] Dopo tale attacco, truppe germaniche sono sbarcate nelle prime ore di ieri nell’isola di Lero. Le truppe tedesche hanno superato ben presto le fortificazioni costiere britanniche e combattono attualmente contro la guarnigione composta di truppe inglesi e di reparti rimasti fedeli a Badoglio.
(Il Resto del Carlino, 14 novembre 1943)
Considerando il fatto che la fonte del comunicato è inequivocabilmente la stessa, resta da osservare come l’articolo de Il Pomeriggio del giorno precedente abbia omesso il trafiletto finale che riportava dello sbarco avvenuto delle truppe tedesche. Con tutta probabilità, l’oramai consueta abitudine di minimizzare le “cattive notizie” ancora una volta si era fatta sentire. Ma oramai il velo di silenzio sulle vicende di Lero era stato tolto e nei giorni successivi l’isola tiene il privilegio della prima pagina.
Quasi tutta Lero in possesso dei germanici. Monaco, 15 novembre. Le operazioni germaniche per la conquista dell’isola di Lero proseguono con grande successo. La maggior parte dell’isola si trova già in possesso delle truppe tedesche che si apprestano ad eliminare gli ultimi focolai di resistenza distribuiti sulle alture. Durante la giornata di ieri formazioni da bombardamento e in picchiata della Luftwaffe continuavano il martellamento degli obiettivi e degli apprestamenti militari nemici di Lero, appoggiando nello stesso tempo altre operazioni di sbarco e sostenendo i reparti germanici impegnati in combattimento. Parecchie batterie postate nella zona centro-meridionale dell’isola venivano ridotte al silenzio. L’intervento in massa dell’aviazione tedesca ha contribuito a scompaginare la difesa. Alcune formazioni britanniche e badogliane rimaste
isolate sono state costrette ad arrendersi. I primi carri armati sbarcati entravano ripetutamente in azione a sostegno degli attacchi sferrati da reparti di paracadutisti. Numerosi prigionieri, armi e materiale bellico di vario genere, sono caduti nelle mani germaniche. (Corriere della Sera, edizione del mattino, 15 novembre 1943)
E questo il classico comunicato dove, tuttavia, un particolare appare estrema importanza. I tedeschi non stanno combattendo a Lero contro inglesi ed italiani ma contro inglesi e badogliani. In questa semplice attribuzione sta tutto il dramma che l’Italia stava vivendo nelle settimane successive all’Armistizio. La dose viene rincarata in un altro articolo sempre sul Corriere dove i badogliani vengono ancor più chiaramente etichettati:
Come sbarcarono i germanici in Lero irta di armi. Berlino, 15 novembre. Circa i combattimenti di Lero, importante base strategica del nemico, il D.N.B. [agenzia di stampa ufficiosa tedesca] nota che non c’è da stupire se di quest’isola, dotata di porti naturali e di posizioni militari profondamente scaglionate che le rendono la chiave di volta delle isole italiane dell’Egeo, abbiano cercato di impadronirsi gli anglo-americani in stretta collaborazione con gruppi di italiani rinnegati […]
Nel tentativo di offrire una informazione obiettiva, il Corriere riporta anche notizie dal campo alleato. Nel seppur breve trafiletto è curiosa l’assoluta mancanza di riferimento ai combattenti italiani presenti, non considerati, già integrati nella nuova veste di “alleati” o vittime della sindrome di Montogmery (di cui parleremo più tardi)?:
Le forze alleate di Lero tagliate in due. Roma, 16 novembre. Secondo quanto riferiscono i corrispondenti di guerra britannici, aspri combattimento sono attualmente in corso nell’isola di Lero, dove i germanici continuano a sbarcare nuove forze lungo la costa occidentale. Mercé i continui assalti, appoggiati dagli apparecchi in picchiata i tedeschi sono riusciti a tagliare in due le forze alleate e hanno eseguito congiungimento delle proprie colonne attraverso la parte più stretta dell’isola. Il corrispondente del Times dal Cairo informa che, a parte i paracadutisti atterrati venerdì, che hanno conquistato la parte centrale
dell’isola, tutti gli sbarchi germanici sono avvenuti per via mare.
(Corriere della Sera, 17 novembre 1943).
Con un brevissimo trafiletto, sempre il 17 novembre, Il Pomeriggio, diffonde la notizia della caduta di Lero:
A Lero, gli inglesi hanno capitolato. Berlino, 17 novembre. Da fonte militare, l’agenzia “Transocean” apprende che l’isola di Lero, nel Dodecaneso, ha capitolato. Circa la capitolazione di Lero “Interinf” apprende che hanno deposto le armi davanti alle truppe tedesche 3000 soldati britannici e 500 soldati di Badoglio. Sono stati catturati 130 cannoni oltre a numeroso altro materiale da guerra.
(Il Pomeriggio, 17 novembre 1943)
La notizia verrà poi riportata con maggior dovizia di particolari dal Corriere del giorno successivo così come da Il Pomeriggio. In tali articoli, dove si menzionano unicamente gli avversari inglesi (a parte specifiche note sulle perdite inglesi, di “accaniti combattimenti" e di "forze avversarie”) si precisa come :
[…] con la capitolazione dell’isola di Lero tutto il Dodecaneso si trova saldamente nelle mani delle forze dell’Asse dato che soltanto lo scoglio di Castelrosso, privo ormai di importanza strategica, è ancora occupato dal nemico.[…].
Degli italiani presenti nessuna menzione.
Il giorno successivo il Corriere della Sera non manca di riportare il malcontento di casa inglese sulle sorti oramai definite del Dodecaneso:
Partita perduta a Lero per i “padroni del Mediterraneo”. Lisbona 18 novembre. La notizia della conquista da parte delle truppe germaniche dell’isola di Lero, ha suscitato in tutta l’Inghilterra un’impressione tanto più profonda in quanto è giunta completamente inattesa, dopo che oltre un anno d’ininterrotti – anche se in parte sterili – successi militari anglosassoni. […] l’opinione pubblica anglosassone si era abituata, specie dopo l’8 settembre, a considerare il conflitto come virtualmente prossimo alla fine e la Germania come un Paese allo stremo delle sue energie, capace
solo d’incassare colpi e nell’impossibilità di assumere iniziative di qualunque genere. […] Il Times, mettendo appunto in rilievo che non si tratta di una catastrofe, ammonisce che non si deve prendere l’evento alla leggera. “per tenere il Dodecaneso o semplicemente per mettervi piede – scrive l’organo della City – era necessario dominare Rodi. Certamente erano state prese disposizioni per occupare questa importante isola ma, nel caso specifico, vennero annullate dalla capitolazione immediata della guarnigione italiana, sulla quale si era forse riposta soverchia fiducia. La perdita di Lero fa ora pensare che il piano elaborato dal Comando britannico non sia stato abbastanza vasto oppure che esorbitasse dia mezzi a disposizione[…](Corriere della sera, 19 novembre 1943)
Così Il Resto del Carlino sempre il 19 novembre nel riportare un comunicato proveniente da Berlino direttamente – pare – dal Comando supremo del Reich, riferisce sui numeri della battaglia di Lero. Alle numerose unità catturate si affiancano i prigionieri, divisi, ancora una volta tra inglesi (300 ufficiali e 3.000 soldati) e badogliani (350 ufficiali e 5.000 soldati).
Con le notizie dunque delle possibili, pesanti ripercussioni della sconfitta in casa inglese, si conclude l’interesse della stampa italiana per le vicende del Dodecaneso ormai perso e quindi, forse, da dimenticare se non ammonendo tutti che la Germania è ancora lontana dal potersi considerare sconfitta per la capacità dimostrata nel produrre attacchi vincenti su obiettivi strategici.
La situazione interna all’Italia divisa tra zone occupate dai tedeschi, zone occupate dagli alleati, un governo facente capo a Badoglio ed una Repubblica Sociale, era più la distopica immagine di una penisola preunitaria. Ma le vicende legate a Lero ed alla battaglia appena consumata non sarebbero finite lì. Della perdita del Dodecaneso qualcuno doveva pagare. Ecco dunque che Lero torna alla ribalta della prima pagina per una vicenda ancora più oscura alla fine del gennaio 1944:
Generali e Ammiragli deferiti al Tribunale speciale. 29 gennaio. Sono stati deferiti al Tribunale speciale per la Difesa dello Stato i generali Robotti, comandante la II Armata, Vercellino comandante la IV, Gariboldi, comandante l’VIII, Rosi e Vecchiarelli comandanti le Armate dislocate in Montenegro, Grecia e Albania; insieme con loro il generale Moizo, alto
commissario di Lubiana. Allo stesso Tribunale sono stati deferiti gli ammiragli Campioni, Mascherpa, Pavesi e Leonardi.[…] Gli uomini incriminati hanno, infatti, ammainato le bandiere, deposto le armi, abbandonato i loro reparti e i territori a loro affidati alla mercé degli invasori. […] l’ammiraglio Campioni, Rodi, l’ammiraglio Mascherpa Lero[…] La tragica situazione in cui il tradimento ha posto il Paese esige una inflessibile opera di giustizia e questa deve ricadere prima di tutto su quegli italiani ai quali la fiducia del Paese aveva affidato funzioni di comando in una lotta decisiva per la sua libertà ed il suo avvenire. Gli uomini che saranno giudicati hanno fatto causa comune col nemico, infangando le nostre bandiere. Il loro tradimento deve essere scontato e il popolo che in tre anni di guerra ha dato alla Patria molto sangue prezioso esige che giustizia sia fatta.
(Il Pomeriggio, 30 gennaio 1944)
Mascherpa e Campioni verranno fucilati il 25 maggio 1944 e il tenore degli articoli, tutti in prima pagina, contenuti ne il Corriere della sera, Il Pomeriggio e Il Resto del Carlino, recita le stesse parole provenienti da un comunicato del “Quartier generale”:
La pena capitale inflitta a Campioni, Mascherpa, Leonardi, Pavesi. Quartier generale, 25 maggio. Il giorno 22 maggio il Tribunale speciale per la difesa dello Stato si è riunito a Parma per giudicare gli ammiragli
Campioni Inigo, Mascherpa Luigi, Leonardi Priamo e Pavesi Gino. […]
I quattro ammiragli dovevano rispondere delle seguenti imputazioni: CAMPIONI del delitto previsto dall’art. 103 C.P.M.G. [Codice Penale Militare di Guerra] in relazione all’art. 241 Cap. C.P. perché, quale ammiraglio di squadra, governatore e comandante militare dell’Egeo, avendo appreso il giorno 8 settembre 1943 dal giornale radio delle ore 20 la notizia dell’armistizio e successivamente, alle ore 23 dello stesso giorno, avendo ricevuto l’ordine dal comando supremo di “non ostacolare contatti e sbarchi anglo-americani e di opporsi alle violenze da qualunque parte fossero pervenute”, comunicò tale ordine ai comandi dipendenti dimostrando così di darvi la sua piena adesione e l’intenzione di volerlo eseguire pur essendo esso palesemente criminoso e in contrasto alle leggi di marinaio e di uomo d’onore che gli imponevano, avendone i mezzi e la possibilità, di difendere i possedimenti affidati al suo comando ed evitare a qualunque costo che venissero distaccati dalla madrepatria come era nelle intenzioni dei traditori del comando supremo. MASCHERPA
del delitto previsto dall’art. 103 C.P.M.G. [Codice Penale Militare di Guerra] in relazione all’art. 241 Cap. C.P. perché, quale comandante la base navale di Lero, appresa alle ore 20 del giorno 8 settembre la notizia dell’armistizio e successivamente, alle ore 23 dello stesso giorno, ricevuto dall’ammiraglio Campioni l’ordine di immediata cessazione delle ostilità contro gli Anglo-Americani e di resistenza contro qualsiasi offesa da qualsiasi parte provenisse, supinamente lo accettava, trasmettendolo ai reparti dipendenti; non si opponeva il 12 dello stesso settembre allo sbarco degli Inglesi che così occupavano l’isola, consentendo che quel possedimento venisse distaccato dalla Madrepatria senza aver tentato una difesa qualsiasi e fatto quanto gli era imposto dall’onore di marinaio e di soldato e dimostrando in tale maniera la sua volontà piena e cosciente di essere solidale con i traditori del comando supremo. […] Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, visto l’art. 103 C.P.M.G. [Codice Penale Militare di Guerra] in relazione all’art. 241 Cap. C.P. ha dichiarato Campioni Inigo, Mascherpa Luigi, Leonardi Priamo e Pavesi Gino responsabili dei reati loro ascritti e li ha condannati alla pena di morte mediante fucilazione nel petto. La sentenza nei confronti di Campioni Inigo e Mascherpa Luigi è stata eseguita stamane alle ore 5.(testo comune ai tre quotidiani sopracitati)
Il Corriere della Sera e Il Resto del Carlino, il 26 maggio, arricchiranno tale comunicato di un commento che, se varia nelle parole, nella sostanza cerca di argomentare le ragioni in base alle quali il Tribunale di Parma avrebbe emesso e fatto eseguire la sentenza:
[…] questi ammiragli sono stati condannati più che da un Tribunale, dalla Patria e dalla Storia. Tremendo e inappellabile è il giudizio che li colpisce non tanto per la gravità della pena quanto per la gravità della sentenza morale che non si cancellerà mai poiché deriva dal maggior delitto di cui possa macchiarsi un soldato. […] Ma la Nazione non può transigere di fronte ad una simile colpa […] Il Paese deve poter sempre fidare sulla lealtà, sul coraggio, sulla coscienza dei capi militari dai quali dipende il suo destino in tempo di guerra. […] La Repubblica Sociale, generosa verso i gregari che sono rimasti disorientati e sbandati nel caos provocato dal tradimento è, come deve essere, inflessibile nei confronti degli alti responsabili del tradimento.
Nel frattempo, aveva ripreso le pubblicazioni anche Il Mattino da Napoli, in territorio oramai occupato dagli Alleati alla fine del settembre 1943. Usciva al tempo la testata Risorgimento che raggruppava i quotidiani Il Mattino, Roma e Corriere di Napoli. Il 26 maggio 1944 così riportarono la notizia:
Onore alla memoria degli ammiragli condannati e fucilati dai fascisti. Sede del Governo, 25 maggio. Il Consiglio dei Ministri si è nuovamente riunito stamane, alle ore 10, in continuazione di seduta per riprendere l’esame dei provvedimenti posti all’ordine del giorno. All’inizio della seduta il Presidente ha dato notizia della fucilazione degli ammiragli Inigo Campioni e Luigi Mascherpa [nell’articolo i nomi di battesimo sono stati invertiti .N.d.A.] fatti prigionieri dai tedescchi rispettivamente a Lero e a Roma a seguito di condanna pronunciata da un tribunale militare fascista straordinario: ed il Consiglio ha rivolto unanime, un saluto alla memoria di questi eroici ufficiali che hanno dato la loro vita per il Paese e di tutti quelli che sono caduti vittime del fascismo e del nazismo […].
(Risorgimento, 26 maggio 1944)
Si chiudeva così la vicenda della battaglia di Leros, in un’Italia talmente lacerata che per lunghi anni non vi furono le condizioni né per rievocare né per interessarsi pubblicamente dei tanti che nell’occasione subirono, decisero e pagarono. Occorrerà ad esempio attendere il 1965 per avere notizia sul Corriere della Sera di una cerimonia tenutasi a Parma in commemorazione dei due Ammiragli sacrificati, così come solo a partire dalla metà degli anni cinquanta, pienamente inseriti in un clima di ripresa, iniziano ad apparire le prime storie dei protagonisti, anche dei più umili. Come Angelo Legari la cui storia di marinaio fatto prigioniero a Lero, apparve sul Corriere d’Informazione del 17 marzo 1956. Il Legari fu trasferito in un Lager a Vienna e da lì, dopo che la zona venne occupata dai sovietici, trasferito in Russia e da lì in Polonia. Difficile per lui, tredici anni dopo, superare la cortina di ferro. Finalmente, grazie a un accordo fra governi, fu possibile riportarlo in Italia.
Storie simili anche se non tutte così avventure iniziavano a trovare spazio sui giornali, a testimonianza di come fosse terminata quell’emergenza che aveva tenuto il Paese a cercare di salvare il salvabile e ad instradarsi sulla via della ricostruzione.
Relativamente a Lero particolare fu poi la storia di Padre Igino Lega, cappellano militare dell’isola.
Prodigatosi durante i giorni della battaglia nell’assistenza spirituale e religiosa dei militari della propria guarnigione, partecipò addirittura come servente di cannone durante l’infuriare dei combattimenti. Caduta l’isola, si consegnò prigioniero volontario per seguire e assistere i suoi nei campi di deportazione in Germania. Insignito della medaglia d’oro, morirà a Varese nel marzo 1951.4
Così come affiorano le vicende dei singoli, si fanno sempre meno rare le commemorazioni ufficiali e tra queste non può mancare un accenno alle vicende che segnarono i rapporti non semplici tra i comandanti inglesi ed i comandanti italiani a Lero. Non essendo possibile contare su una consolidata fiducia – dopotutto eravamo stati nemici fino al giorno precedente – i rapporti si basarono su un seppur sospettoso rispetto fondato sulla parola data. Non fu possibile inventare una sinergia efficiente tra Mascherpa, Tinley, Hall e Brittorus e pertanto era rimasto il sospetto di una malcelata diffidenza costruita sul precipitare degli avvenimenti e su qualche luogo comune che, nei secoli, aveva fatto sì che ognuno guardasse ironicamente ai costumi dell’altro. In altre parole la situazione era tale che ciascuno avrebbe fatto meglio a contare sui propri nella speranza che dall’unione ne scaturisse quell’energia sufficiente a ricacciare i tedeschi. Così non fu e velate recriminazioni erano sempre rimaste sospese nell’aria.
Su questo argomento apparirà su La Stampa il 16 novembre del 1958 un articolo che ha come premessa: Risposta senza polemica al maresciallo Montgomery. Il pluridecorato maresciallo inglese aveva infatti da poco rilasciato alle stampe un volume contenete le proprie memorie (poi pubblicato anche in italiano già dal 1959 da Mondadori, con prefazione di Arrigo Benedetti) nelle quale ebbe modo di esprimere apprezzamenti non certo lusinghieri nei confronti dei militari italiani e tali da sottolineare ancora una volta come non potesse esserci, anche a Lero, quell’empatia che sarebbe invece stata di grande aiuto nel frangente.5
4 Da un articolo riportato sul Corriere d’informazione del 17 marzo 1951
5 A tale proposito vi fu una presa di posizione anche da parte del governo greco che, attraverso il suo ministro degli Esteri, Averoff, in occasione di una visita a Roma, ebbe
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L’articolo che qui sottopongo, a chiusura della rassegna presentata, contribuirà a mettere fine a tutte le inevitabili polemiche che erano seguite agli eventi di Lero, aprendo la strada a quella serie di comuni celebrazioni e commemorazioni che fino ad oggi hanno visto uniti tutti i protagonisti di quei giorni terribili, indipendentemente dalla parte in cui servirono.
Un inglese ricorda il disperato coraggio degli italiani a Lero dopo l'8 settembre. Per due mesi l'aviazione germanica tentò di piegare, con attacchi massicci e mal contrastati, il presidio della piccola isola; il 12 novembre i tedeschi sbarcarono in forze - Invano i nostri reparti chiesero al comando alleato di poter lanciare azioni di contrattacco - Quattro giorni dopo il generale inglese Tilney decise la resa dei suoi uomini, sbandati forse troppo frettolosamente; ma dovette intervenire di persona per imporre agli italiani l'abbandono della lotta - Un gruppo isolato ricevette I’ordine con segnali ottici; il capitano rispose: «Non ci crediamo» e continuò a battersi (Nostro servizio particolare). Roma, 15 novembre. «Appena il primo Stuka cominciò la sua urlante discesa, mi capitò di trovarmi vicino ad una posizione di mitragliera italiana. Il mitragliere che gli Irish fuslliers chiamavano Francesco aveva sparato con gran foga e prodigalità tutta la mattina, e la canna della sua arma si era fatta rossa. Ora era venuto il suo grande momento. Stava immobile in attesa con gli occhi scintillanti. Appena il primo Stuka fu a distanza ravvicinata, gli diresse una scarica nella pancia. Lo Stuka oscillò, si riprese e poi si allontanò verso Coo, lasciandosi dietro un lungo e sottile filo di fumo nero. Francesco, estremamente soddisfatto, si volse verso di me facendo smorfie di felicità con la liscia faccia olivastra, e la mascella quadrata, raggiante. Era la faccia di un legionario romano. Si sarebbe potuto dipingerla, sormontata da un elmo antico. Pensai che questa era la migliore risposta a coloro che consideravano gli italiani decadenti,
modo di dichiarare che “la combattività del soldato italiano – lo diciamo basando la nostra affermazione sull’esperienza – è ottima tanto nella difesa quanto nell’attacco. Nei primi giorni del ’41 io stesso ho assistito al grande attacco dell’esercito italiano ed ho veduto i fanti d’Italia avanzare con una decisione incrollabile contro una morte certa”. Al netto dei toni politici di tale affermazione (riportata su La Stampa del 16 novembre 1958), una testimonianza della franchezza di Averoff la si ritrova invece nel volume La Grecia in Guerra (Ed. italiana Garzanti, 1950) del generale Alessandro Papagos, allora capo di stato maggiore greco, che si esprime con rispetto nei confronti dell’esercito italiano.
isterici, cattivo materiale per farne soldati. Gli altri Stukas, dopo questa inattesa accoglienza da parte della disprezzata difesa antiaerea, si rimisero in formazione, ed apparve evidente che avevano preso per bersaglio non più i Buffs che si opponevano allo sbarco dei loro soldati, ma Francesco. Ciò era per me così poco igienico che mi lasciai scivolare giù dalla cima e mi acquattai dentro una buca. Francesco era rimasto calmo al suo posto e sparava senza interruzione contro gli assalitori. Tre bombe caddero rombando a qualche centinaio di metri. Quando la polvere ed il fumo nero delle esplosioni si diradarono, vidi Francesco incolume nel suo pozzo, e gli Stukas delusi allontanarsi, ed una nuova formazione subentrare al loro posto. Francesco volse lo sguardo verso di me e disse con orgoglio, "Sono italiano"». Questo avvenne sul Monte Maraviglia nell'isola di Lero, Egeo, un giorno della prima metà del novembre 1943. Il mitragliere Francesco faceva parte delle scarse forze italiane, male armate, dell'esercito e della marina, che avevano il compito di difendere l'isola dagli attacchi tedeschi. Gli Irish fusiliers (fucilieri irlandesi) e i Buffs (nomignolo che si dà ai fanti di linea del famoso terzo reggimento East Kent) facevano parte delle truppe inglesi sbarcate nell'isola l'ottobre precedente, per cooperare con gli italiani alla difesa. L'episodio si legge nel libro Long Road to Leros del giornalista inglese I. M. Gander, corrispondente di guerra del Daily Telegraph, che si trovò a Lero il novembre del '43 e assistette agli ultimi combattimenti del presidio angloitaliano. L'ho preso da un'opera voluminosa e documentatissima dell'Ufficio Storico del Ministero della Marina, La Marina italiana nella seconda guerra mondiale, al volume V, tomo secondo, che ha per titolo «Attività dopo l'armistizio, avvenimenti in Egeo» (per cura dell'ammiraglio di divisione Aldo Levi, compilatore, e dell'ammiraglio di squadra Giuseppe Fioravanzo, revisore).
In questi giorni che il volume di memorie del maresciallo Montgomery offre materia a tante discussioni, in Inghilterra ed in Italia, sul contegno dei nostri soldati nella seconda guerra mondiale, ritengo che più che battagliare con aggettivi e con ritorsioni convenga risalire ai documenti ufficiali e cercare in essi quale fosse l'animo dei nostri combattenti; e con quali sentimenti la maggioranza di essi, che secondo quanto dichiarò Montgomery al comando alleato nel 1943, «non avrebbero mai combattuto i tedeschi adeguatamente», seppero adattarsi al capovolgimento della situazione e affrontare il mutato nemico, pur coscienti che venivano così a creare a sé stessi nuovi e più aspri rischi di guerra.
Tutti coloro che non hanno esatta memoria o idee chiare di quell'anno 1943 dovrebbero leggere nel citato volume soprattutto il capitolo ove si descrivono gli avvenimenti nell'isola di Lero dall'8 settembre fino alla fine di novembre 1943. Li riassumo brevemente. Dopo l'8 settembre il presidio italiano dell'isola e le unità navali assegnate a quel porto sospesero ogni azione di guerra, assumendo tuttavia un atteggiamento di difesa contro ogni eventuale attacco, secondo gli ordini ricevuti dal comando supremo, prevedibile soltanto da parte tedesca; ad ogni modo i possibili dubbi furono chiariti il 13 settembre quando l'isola subì un primo attacco aereo tedesco. Di conseguenza furono accolti come amici e, dopo il 13 ottobre, avvenuta la dichiarazione di guerra del governo d'Italia alla Germania, come alleati i soldati inglesi che cominciarono a sbarcarvi il 16 settembre. Dopo continue azioni di bombardamento dall'aria durate dal 26 settembre al 31 ottobre, e riprese con maggiore violenza il 7 novembre, i tedeschi iniziarono all'alba del 18 novembre sbarchi in vari punti delle coste, lanciando nello stesso tempo paracadutisti sul centro dell'isola. Il generale Tilney, comandante le truppe britanniche, aveva assunto il comando anche del presidio italiano, vietando ad esso, nonostante la combelligeranza, azioni offensive d'ogni genere; esso doveva difendere solo le posizioni assegnategli.
I tedeschi sostenuti da un'attivissima aviazione mal contrastata dalle scarse batterie antiaeree fanno progressi in ogni punto. Gli italiani hanno l'impressione che gli inglesi li contrastino con poca convinzione. Il generale Tilney pensa ad un contrattacco in forze per la notte del 13; dopo vari tentennamenti lo rimanda al giorno seguente; ma commette l'errore di dividere le sue forze, e non ottiene alcun risultato apprezzabile. L'aviazione tedesca continua indisturbata a picchiare sulle posizioni dei difensori. Il comandante del presidio ammiraglio Mascherpa, e il comandante della difesa capitano di vascello Re, facendo propria una richiesta del tenente colonnello di fanteria Li Volsi, chiedono più volte al comando inglese di passare ad un contrattacco generale con il concorso delle truppe italiane, ma non ne hanno risposta alcuna. La mattina del 16 novembre la lotta si riaccende; sotto il martellamento aereo le batterie sono praticamente rese inefficienti. Il comandante della difesa antiaerea Spigai propone di nuovo un attacco generale contro i tedeschi, impiegando anche il personale delle batterie ormai inutile. «Le truppe avrebbero dovuto cominciare a prepararsi al tramonto e l'attacco sarebbe avvenuto nel cuore della notte, anche all'arma bianca».
La sera del 15 la situazione appare estremamente grave; gli inglesi sono sconfortati, sperano soltanto nell'arrivo di rinforzi. Il mattino seguente il comando inglese chiede l'aiuto italiano per difendere il Monte Maraviglia ove ha la sua sede, ordinando alle nostre truppe di lasciare ai soli inglesi la difesa del trincerone a sud della città e del Monte Maraviglia. Mentre gli italiani resistono nella difesa attigua di Porto Lago, gli inglesi abbandonano il trincerone, e la situazione precipita. Alle 12 e mezzo i tedeschi inviano un parlamentare al comando italiano per chiedere la resa delle truppe italiane, promettendo salva la vita a tutti, il comando italiano rifiuta. I comandanti, gli ufficiali, i soldati sanno bene che cosa significhi questo rifiuto. Per gli inglesi arrendersi vuol dire trovarsi nella condizione di prigionieri di guerra, con tutte le garanzie stabilite dalle convenzioni internazionali. Per gli italiani, considerati traditori dai tedeschi, la cosa è diversa. Tutti sanno che cosa è successo nell'isola di Coo, occupata dai tedeschi il 3 ottobre dopo aspri combattimenti; più di cento ufficiali italiani con il loro comandante Leggio sono stati fucilati, dopo essere stati costretti a prepararsi la fossa con le loro mani; i soldati sono stati angariati in modo disumano, condannati a opere ripugnanti, puniti con l'inedia. Sanno questo gli italiani, e respingono la proposta di resa. Non così risoluti sono gli inglesi. Già la mattina del 16 mentre un battaglione di Buffs inizia un'azione offensiva contro i tedeschi con qualche successo, altri soldati britannici si sbandano, abbandonano con risolutezza il luogo della battaglia. Un radiotelegrafista ne dà notizia ad un suo collega presso il comando dell'isola di Bamo: «Da Lero. Nota per radiotelegrafista B. M.: ricevuto ore 10,35. Ho paura che fra poco tutto sarà finito alt Tommy si ritirano distruggendo le proprie riserve senza voler più combattere alt Nostri resistono ma non possono tenere molto alt».
Poco dopo le sedici giunge al comando italiano un ufficiale inglese con l'ordine di sospendere ogni resistenza perché il comando inglese si è arreso. (Con una certa precipitazione. Subito dopo la cattura alcuni ufficiali inglesi del comando raccontarono al nostro cappellano militare Padre Lega che il generale Tilney, che fino ad una certa ora aveva a lungo sparato personalmente con la sua mitragliatrice, era stato poi costretto a ritirarsi nel rifugio del comando scavato nella roccia. I tedeschi mitragliavano l'imboccatura del rifugio al minimo movimento: «Un fazzoletto bianco legato alla estremità di un palo fu portato via da una raffica. La medesima fine fece il berretto del generale messo fuori allo stesso scopo con la speranza che fosse riconosciuto. Allora, temendo l'invasione dentro il
rifugio con i lanciafiamme, il generale giocò tutto per tutto, prese la rincorsa, spiccò un lungo salto fuori della imboccatura, poi si sdraiò a terra agitando un fazzoletto bianco e cercando di far vedere le insegne del suo grado sulla manica. I tedeschi se ne accorsero e cessarono di sparare».
L'ordine portato dall'ufficiale inglese fu accolto con incredulità. Gli italiani fino ad allora avevano resistito con impegno, con tutti gli uomini disponibili. Il tenente colonnello Li Volsi comandante le truppe dell'esercito aveva racimolato tutte «le cariche speciali», telefonisti, dattilografi, conducenti, attendenti, cuochi, improvvisandone plotoni che erano stati avviati dove c’erano falle da tamponare. «Si deve constatare che, eccetto molte onorevoli eccezioni, la massa degli inglesi non sentiva più l'utilità di continuare a combattere»; lo stato d'animo degli italiani era ben diverso; e si parlava di continuare la resistenza, nonostante l’ordine portato dall'ufficiale inglese, quando questo fu confermato perentoriamente dal generale Tilney in persona, che venne al comando italiano accompagnato da un ufficiale tedesco: dicendo che si era impegnato di far arrendere anche gli italiani. L'ordine di resa non arrivò subito ai reparti italiani distaccati: alcuni resistettero fino al mattino seguente. Ad un gruppo contraereo a nord dell'isola l'ordine di resa fu trasmesso con segnale ottico. Il capitano di artiglieria Amadei, comandante del gruppo, rispose: «Non ci crediamo. Viva l'Italia».
Bisogna dire che non in tutte le isole del Dodecaneso gli italiani hanno dimostrato la stessa tenacia e lo stesso fervore dei difensori di Lero. Con molta onestà il volume citato non tace gli episodi meno belli della resistenza ammettendo che «l'azione italiana in Egeo non fu sempre e in ogni luogo quella che si sarebbe potuta desiderare». Ma conviene anche pensare al particolare stato d'animo di quei combattenti, sorpresi i primi giorni da ordini succinti e non privi di contraddizioni, fatti incerti e perplessi da notizie frammentarie e spesso ingannatrici di ciò che avveniva nelle altre isole; sì che ogni azione di comando appariva rivestita, anche agli occhi dei dipendenti, d'incertezza e di dubbi. E molti erano infiacchiti da una lunga inerzia, esacerbati da anni di vita disagiata, senza licenze dall'inizio della guerra. Eppure a Lero, quando il comandante Spigai fu mandato a tastare il polso dei reparti, specie di quelli più isolati, e parlò ai soldati del dovere che avevano di difendere l’onore dell'esercito e della patria combattendo, ma invitò anche cordialmente chiunque non fosse d'accordo a uscire dalle righe ed esprimere chiaramente il suo pensiero,
uno solo fra tutti quei soldati (che pure sapevano delle uccisioni in massa di Cefalonia e di Coo e per cinquanta giorni avevano subito il tormento degli insistenti bombardamenti dall'aria), uno solo venne fuori per direi che non se la sentiva di combattere contro gli antichi alleati. Paolo Monelli (La Stampa, 16 novembre 1958)
C'ero anch'io. Ricordi d'epoca attraverso i posteri
Il nonno: il militare, l'uomo
Werther Cacciatori
"To our great misfortune, battery 127, commanded by a real strong man, Captain Cacciatori from Apuania (Gold Medal for Bravery), exhausted after a few days the supply of ammunition that could not be completed before the armistice. Shipments were desperately asked to the British who could have taken some at will in Alexandria on our ships, but we have received only a very small quantity which was allocated with parsimony in two or three days. Nevertheless the battery by no means ceased to participate in the action. The commanding officer held the men at their posts alongside the guns without ammunitions to demonstrate to the nearby English tactical command that the sailors were not afraid of death. Left without cannons, the battery fought with the machine guns. Always present in the most exposed points, Cacciatori magnetized his troops. At the head of his men he later sustained the hand-to-hand fighting for the last defense of Monte Meraviglia from the German assault, and he lost an arm in the action [...]” (From: Virgilio Spigai, Leros. La battaglia per il Dodecaneso – InEdibus ed, 2017
Questa giornata, queste celebrazioni per cui vi ringraziamo, segnano in realtà per noi Cacciatori un ritorno a Leros. Sette anni fa, in occasione dei 70 anni di mio padre, siamo stati qui, in una sorta di pellegrinaggio laico dal profondo portato emotivo. L’isola in cui mio nonno ha combattuto è da sempre nella nostra geografia delle emozioni un luogo significativo e, in quella circostanza, essere qui con mio padre, i miei figli, mia moglie, ci ha permesso di riannodare i fili con un’esperienza dolorosa e bella al tempo stesso e di calarla nella realtà, in un’ideale trasmissione del testimone tra generazioni.
Vedere i paesaggi che avevo sempre immaginato, calpestare gli stessi tratturi che aveva calpestato mio nonno, figurarmi le azioni, i momenti salienti della battaglia laddove si erano svolti, mi ha permesso di sovrapporre questa isola fisica con la nostra Lero, quella dei racconti che sentivo da bambino, quella riportata sulla motivazione della
medaglia d’oro inquadrata e appesa in casa, quella che ha significato l’esistenza stessa della nostra famiglia.
Mio nonno non ha mai raccontato direttamente quello che accadde, se non per brevi cenni col fratello; le sue esperienze di guerra in famiglia le conosciamo tramite i verbali militari che ricostruiscono i fatti, raccogliendo tra le varie voci dei protagonisti anche la sua.
Quando nel 16 novembre 1943, nell’infuriare della battaglia ridotta allo scontro all’arma bianca, una bomba a mano scoppia vicino a mio nonno, in pochi secondi si gioca la possibilità nostra di essere qui. I soldati tedeschi stanno salendo sul monte Meraviglia, mio nonno con una decina di uomini, tra militari inglesi e marinai italiani, rallenta la loro avanzata prima con gli ultimi pezzi di mitraglieria, poi a colpi di bombe a mano , un’esplosione gli riduce in poltiglia il braccio destro, ma lui imperterrito continua a lanciare bombe, quando un capitano tedesco lo punta, armato di mitragliatore; con slancio generoso e purtroppo a lui stesso fatale, il marinaio Pietro Cavezzali balza dalla sua piazzola con moschetto e baionetta innestata, trafigge il tedesco ma lui stesso cade esanime; da lì in poi, come spesso avviene nella vita, un insieme di circostanze giocano a favore di mio nonno e nostro.
Gravemente ferito si trascina al riparo nella grotta sede del comando inglese, un ufficiale gli appoggia addosso una loro divisa, per proteggerlo da ritorsioni anti-italiane; il dolore alla spalla è atroce, per non morire dissanguato solleva il braccio maciullato e se lo ripiega, il seguente tragitto verso l’ospedale non è privo di rischi: un aereo bombardiere si abbassa e fa fuoco, un suo attendente fa scudo a mio nonno e miracolosamente sono solo sfiorati dai proiettili. Procedono, ma vengono fermati da alcuni soldati tedeschi: capiscono che era lui a comandare sul monte Meraviglia, ma sulla vendetta ha la meglio il
senso di rispetto per chi, pur a loro danno, ha combattuto con onore e lo lasciano andare.
Gli amputeranno il braccio ma è salvo, sebbene provato intuisce che sul monte tutto è perduto e, come spiega nei verbali resi all’autorità militare, per questa amara delusione non esiste per lui sollievo.
Riceve le prime cure e l'8 dicembre lo imbarcano sulla nave ospedale Gradisca, diretta a Trieste con a bordo circa 800 prigionieri italiani e inglesi feriti o malati destinati a lager tedeschi, l’ennesimo colpo del destino va a suo vantaggio e la nave viene dirottata su Brindisi da cacciatorpedinieri britannici, che fanno scendere gli infermi.
Trasferito prima all’ospedale militare di Francavilla e poi a quello di Bari, approda infine al centro mutilati di Giovinazzo. Viene collocato in congedo assoluto e iscritto al Ruolo d’Onore dal 15 marzo 1946.
Ma al di là delle vicissitudini belliche, chi è stato Werther Cacciatori, o meglio chi era prima di questi eventi e chi è diventato in conseguenza?
Mio nonno aveva intrapreso la carriera militare dopo gli studi medi di indirizzo commerciale compiuti a Carrara: ammesso nel 1931 alla Scuola allievi ufficiali di complemento di Pola, un anno dopo nominato sottotenente di art. Assegnato al 1° reggimento da costa, viene collocato in congedo nel 1933. Dal settembre 1935 al giugno 1936, presta servizio nel gruppo autonomo di art. da costa della Sardegna. Tenente dal luglio 1937, è richiamato nuovamente nell’agosto 1939 presso il Comando del Dipartimento Militare Marittimo Alto Tirreno ed assegnato alla 177ª btr. nell’isola di Palmaria, dove viene promosso capitano dal gennaio 1942. Nel maggio 1943, come abbiamo visto, viene trasferito al Comando Difesa di Lero nell’Egeo, al comando della 127ª btr. da 90/53 in posizione su Monte Meraviglia. Insieme ai compagni, nella strenua difesa dell’isola, eroica anche se non coronata dal successo, vive i momenti già descritti, epici e tragici al tempo stesso, che cambieranno il suo destino. Nel continuo susseguirsi di colpi di scena, che sembrano portarlo in salvo sempre a un soffio dalla fine, sarebbe banale leggere solo un disegno del destino, senza trovare una diretta consequenzialità nel suo carattere e nel suo modo di essere. Al netto delle circostanze
fortunate e imprevedibili, certo gli interventi di due attendenti che a rischio della propria vita si espongono in due distinte circostanze per salvarlo, sono infatti da leggersi come frutto del rapporto instaurato con le truppe, guidate con fermezza e intrepida condivisione del pericolo. Mio nonno ebbe la fortuna di scampare per ben quattro volte alla morte: per lo scoppio che lo ferì soltanto, per la mitragliata che appena lo sfiorò, per la pietas del nemico tedesco che lo lasciò andare, per il dirottamento della nave che lo avrebbe portato verso un lager e quindi incontro a morte certa per la sua mutilazione; certo però ebbe sicuramente anche la capacità di costruirsi parte di questa fortuna: grazie alla stima guadagnata dei commilitoni che arrivarono ad aiutarlo addirittura a discapito della propria vita, grazie alla prontezza con cui si tamponò la ferita evitando il dissanguamento, grazie alla risolutezza con cui si trascinò dove avrebbero potuto raccoglierlo e assisterlo.
Tratti che possiamo riconoscergli anche nell’approccio di vita tenuto dopo il congedo. Infatti, nominato Presidente della Federazione Nazionale Combattenti della Liguria, passa dalla carriera militare all’insegnamento dell’educazione fisica, presso l’Istituto per geometri e ragionieri Domenico Zaccagna a Carrara, trasferendo lo stesso volitivo rigore nella formazione di generazioni di studenti, a cui intese trasmettere il valore dello sport come guida ed esempio nell’affrontare la vita.
Non visse mai la menomazione fisica come un limite alla pratica delle attività sportive, diventando lui in prima persona modello vivente di quella perseveranza e impegno che pretendeva, quasi con severità militare potremmo dire, dai suoi allievi.
Da vero sportivo e con una forza di volontà incredibile, riusciva addirittura ad allenarsi agli anelli col solo braccio rimasto.
Ma nonostante il carattere burbero e la rigidità che contraddistingueva il suo insegnamento, nel 2015, dopo 25 anni dalla sua morte avvenuta a Carrara il 12 febbraio 1990 all’età di 78 anni, l’Associazione ex allievi dell’Istituto Zaccagna, dove lungamente aveva insegnato, ha voluto erigere un monumento alla sua memoria.
E questo è un ulteriore motivo per cui oggi siamo qui, con orgoglio ed emozione, per la nostra famiglia che si è formata perché mio nonno a questa battaglia è sopravvissuto, ma anche per la nostra città, Carrara, che ha riconosciuto lui e le sue azioni a Lero come parte di una storia più grande e ne ha voluto fissare il ricordo.
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Malta, Leros, Lag: The 4th Buffs Before and After the Aegean Through the Memoir of Lieutenant C.J.H. Morgan
Nikolai Debono
After the publication of Lieutenant C.J.H. Morgan’s memoir in full, a new light was shed on the Battle of Leros. Specifically, the experience of the 4th Buffs among the four British infantry Battalions which fought on the Island. However, the author also wrote a ‘war-time log’ of his experiences in Malta, and his Battalions’. More so, he also documented his life as a prisoner of war in Germany. Therefore, this account is yet another excellent means to trace the lives of hundreds of British men, from Malta to Leros and as prisoners of war in the Reich; the 4th Buffs before, during and after their service in the Aegean.
Following the publication of Charles J.H. Morgan's account, some of the key moments in the Battle of Leros became less obscure. Morgan’s account of the fighting on Quirico, as Anthony Rogers rightly points out, is elucidating on the initial victories of the 4th Battalion of the Buffs (Royal East Kent Regiment) during the early days of the Battle. Morgan’s account also allows the reader deeper access into the lack of communication during the battle, as well as the meagre rations and billeting areas the men endured and came to terms with during the Battle. At times, it is particularly confusing, but one must keep in mind that the entire Battle was so. From Bren gun stoppages to misinterpreted orders, Morgan writes of Leros as it truly was. To the student of the British army and warfare in general, this account is poignant in the author’s attempt to decipher what John Keegan calls ‘the Face of Battle’.1 Morgan tries his best to describe his
experience under fire, going so far as to narrate his thought process, not only the final result. A poignant episode is his audience with Major Bourne, on being asked to move to new positions in a few hours time. The rituals that govern the British army dissolve as Morgan stated: “How the B… am I supposed to do that?”. It is common across war memoirs, and especially pertinent to the British army, that in the ‘field’ (on the battlefront) military organisation becomes more democratic.2 As bullets start flying in the air and death becomes a possibility if not certainty, behaviours which would be punishable in normal conditions are deemed tolerable, if not perfectly acceptable.
I will not extrapolate the Battle of Leros from Lt. Morgan’s account as it is outside the scope of this text, and it has been exhaustively documented and researched by authors such as Peter Schenk and Anthony Rogers. That being said, what is particularly fascinating in Morgan’s account is the fact that he uses the Maltese term ‘Wied’ to describe the valleys in which his company sheltered and moved through.3 It is, arguably, a piece of Malta carried all the way to the Aegean. By focusing on the British army at the Regimental, or even Battalion level, diverging histories begin to emerge.4 One must remember that after Dunkirque the 4th Buffs were sent to the island of Malta. On this island just below Sicily and above Libya the 4th Buffs would spend almost three years in service. Here, they would endure the ‘Siege of Malta’, where more than 15,000 tonnes of bombs were dropped on an island slightly larger than Leros, making it the most bombed place on earth.
1 J. Keegan, 1976.
2 A. Alpoor, 2015.
3 The term ‘Wadi’ is also used by Milner Barry, quoted in Anthony Roger’s book ‘Churchill’s Folly’.
4 One must remember that the British army was really a collection of regiments, each of them with their own traditions, histories, and identity. If one battalion is sent abroad, the men could still find distinction as representatives of their regiment, and perhaps even their battalion. C. Kirke (2009, p. 32) calls this the ‘loyalty/identity structure’; the British soldier’s efforts to define the “meaning and use of the word ‘we’”.
Malta to Leros
Lt. Morgan largely agrees with the Battalion war diaries. The memoir begins after the Battalion’s experience as part of the territorial army, training in the U.K. before joining the British Expeditionary Force in France. Lt. Morgan embarked with the 4th Buffs when, following the evacuation of Dunkirk, they received orders to leave the U.K. for Gibraltar before Malta in late 1940.5 On the island, The Buffs’ regimental topography largely spanned the central regions of Malta. During 1941, the Buffs were billeted in Attard and guarded the Governor’s palace (‘San Anton’), a duty carried throughout their service in Malta. They would also form the honour guard for numerous dignitaries which Alex Randon lists as: General Eisenhower, General Alexander, General Giroud and Montgomery.6 However it was not all spit and polish for the 4th Buffs. They were also billeted in ‘cowsheds’; a building which would later be used to accommodate enemy P.O.W.s.7 By 1942 they also made use of Palazzo Gomerino, a palace hidden behind the Victoria Lines; Malta’s late 19th century defensive wall from the North East to the South West of the island. An advert for Palazzo Gomerino can be found in the Battalion’s war diaries which prompts the estates’ wine production. One can only imagine the Buffs stationed there making use of such a treat.
When they formed part of the Western Infantry Brigade in 1942 they were responsible for the defence of a sector surrounding ‘Baħrija’ and the immediate coast. If one speaks of Military topography. Throughout the siege several platoons occupied static defensive positions made out of reinforced concrete such as in Pembroke and ‘Msida’. Much like other regiments on Malta, they were also given the important task of organising a mobile Coy. (Company). A percentage of the buffs were responsible to counter-attack any enemy parachutists
5 Men under 30 with a Territorial Army Contract were allowed to be immediately re-enlisted on a regular army ‘engagement’ (WO 169/3279).
6 J. A. Mizzi, M. A. Vella, p. 124.
7 Also referred to as ‘Fort Hamrun’ in other war diaries.
[Drummers of 4th Buffs’ band leading the march in Rabat, Malta, 1942. (National Army Museum, 2001-01-74)]
landing in specific sectors. The Buffs’ mobile Coy. were billeted in some strange places. Namely, right next to Malta’s biggest cemetery: ‘Addolorata’, and other remote locations. They were issued hundreds of bicycles to fulfil this mobile role; fuel being ever scarcer in war-time Malta. Much like other regiments, they also attended lectures on the latest battles, on land, sea, and air, including one given by the 1st battalion of the Durham Light Infantry on the siege of Tobruk which they themselves had taken part in. More so, they were kept up to date on the latest enemy development, especially those concerning parachutist equipment and tactics.
Contrary to popular belief, the Buffs, and all the other regiments in Malta did in fact carry out training. Albeit not always at a battalion level or involving multiple battalions and corps, the men tried their best to keep a somewhat regular exercise calendar. Some even pursued training during air-raids, and all had their chance to train in Gozo, which Lt. Morgan got in 1943 and describes as “Quite the most enjoyable week the Coy's had since leaving England.” On their return to Malta the Battalion would be busy guarding supply pens and airfields as thousands of troops left the island for Sicily. During this period the Buffs occupied Malta’s heights in the South East and North such as ‘Annunziata’ and ‘Dueira’. They were very familiar with Malta’s valleys and scarce open plains. Returning to Lt. Morgan’s adoption of
the Maltese term ‘wied’, it is perhaps indicative of the topographical picture they built in Malta. For two and a half years, every single defence plan involves Malta’s landscape; its Mediterranean shrubbery, rocky coasts and sandy inlets. They marked possible parachutist landing sites, and exercised every possible scenario for what was a wholly expected invasion of Malta.8 One can perhaps venture to imagine if this clue can lead us to understand how this mental cartography of the island was or was not used in Leros.
Lasty, one can also speak of the 4th Buff’s social topography on the island. Like all regiments they were active in sports such as boxing, football, rugby, and even hockey, often playing against battalions from other regiments or even local Maltese teams. Nevertheless, much like other battalions on Malta, they had their own scruffs with the locals. The War occurrences for the ‘Birkirkara’ and ‘Attard’ Police
8 Lt. Morgan also mentions he was made C.O. of the Home Guard in ‘Pace Ville’ area, further pointing at the Buffs involvement with local troops and the imminent island war.
[‘The Buff's Company Billet at Ta Kali, Malta’, by Leslie Cole.
stations record several instances where the Buffs damaged property during training. Collapsed rubble walls, trespassed fields and crops, or broken fig trees, snapped prickly pear cacti, and erected barbed wire posts are just some of the many reports attributed to the 4th Buffs.9 Having said this, there is also solid evidence that the 4th Buffs integrated well with the local population. According to Alex Randon, the Buff’s corps of drums was very popular among Maltese Villages.10 The Official History of the 4th Buffs further states that the battalion would beat retreat in various villages to sustain morale.11 The Battalion war diary also writes in March of 1941 that “the 4th Buffs was a popular unit amongst [local] recruits”.12 During the same year, Cpl. F.C. Whitaker was employed as a Physical Instructor at the “Reformatory” in Hamrun with a per diem wage.13 Just before leaving for Egypt, in August of 1943, the British Institute specifically requested that Lance Corporal Hallwood of the Buffs remain in Malta instead of joining his Battalion overseas owing to his invaluable skills at the time, adding that “it is impossible to find a competent unemployed projector operator”.14
One can only imagine what it was like for these men to leave Malta after three years, arrive in Egypt for extensive training, and later Leros, finding another Malta, far more hilly and daunting to protect.15 In Malta they had more than two years to perfect their defence plans. On Leros they would have just a bit more than two weeks, not to mention recuperating the losses incurred from H.M.S. Eclipse en route. More so, to be even farther away from home, detached from their
9 National Archives of Malta, POL.8: 01/ 131, 01/132, 01/133, 01/137. Not all complainants received compensation, owing to the veracity of their claims.
10 J. A. Mizzi, M. A. Vella, p. 124.
11 C.R.B. Knight, 1951.
12 There are frequent mentions of Maltese recruits ‘attached’ to the 4th Buffs Coys in the Battalion war diaries. However one also finds instructions on their eventually transferal to one of the King’s Own Malta Regiment Battalions, if not were only attached for training prior to passing out.
13 National Archives of Malta, CSG-3805-(1941).
14 National Archives of Malta, CSG-5549-(1943).
15 One should also briefly mention that 23 O.R.s participated in the brief Kerkennah Island raid before returning to Malta and embarking for Egypt. For these men in particular, Leros was the third island they set foot on.
then familiar Malta, with Greeks and their Italian enemies, which had caused them such havoc on George Cross Island, fighting alongside them.
Leros to Lag
It is very easy to write about war in a matter that interests everyone by focusing on battles and their heroic or tragic moments. It is much more difficult to write about the events leading up to it, and even more so to garner interest for whoever was left behind to pick up the pieces. After the Battle of Leros, the Buffs and Lt. Morgan were sent to Athens to start their next chapter as prisoners of war (P.O.W.). Julie Peakmen writes of this journey that:
The soldiers were squashed into the hold, and were plunged into darkness as the hatch was closed, each man struggling to find a small space to rest. The stench was horrendous, the unwashed bodies smelling of putrid sweat. The heat climbed, and no air was coming in. Men were urinating in their helmets, and the overpowering smell of ammonia led to retching. They cracked open the hatch and called to the guards to let six of them out at a time for some air, and to empty their helmets.16
The officers’ experience was a stark contrast to that of other ranks. Although Lt. Morgan recounts an Italian band entertaining them as well as great food (in comparison to their previous stint on compo rations), he also expresses his concern towards the lower ranks whose conditions in their respective camps were only somewhat known to them at this point. Anthony Rogers’s book includes an anecdote by Lt. Geoffrey Hart in which an Italian Colonel was kicked out of his new bunk to accommodate two British officers: resentment towards the Italians among the Germans was more than palpable at this point.17
16 J. Peakman, 2018, p. 346.
17 A. Rogers, 2004p. 297.
Before long the Buffs boarded a train that would take them deep into the Reich. En route, the Officers enjoyed an overall jovial experience, while others undertook daring escapes across central Europe. Although the men endured terrible cold (and some even got sick and parted ways to reach a hospital) Lt. Morgan writes of coffee and rationed but hot meals. They were definitely aware of their location as he recounts reaching Salonica, passing through Yugoslavia, arriving at Belgrade and even singing Strauss’ ‘Blue Danube’ while crossing the Danube. In Budapest, they experienced snow which Lt. Morgan writes “was the first since 1939.” Without a doubt, a touching temporal experience for him, perhaps also inducive of nostalgia.
By the 15th of December the men were at Moosburg, South Bavaria, where they would be imprisoned at Stalag VII A, the largest P.O.W. camp at the time. Accommodations were not up to standard for Morgan’s rank as he writes of hope that they will soon move to a proper officer’s camp. The privates and corporals, in significantly more packed and discomforted train trucks, arrived a few days later. The men would spend their Christmas here toasting “the King and Absent Friends”. As Claire Makepeace notes, one must understand that the P.O.W.s really lived two lives: one as prisoners in Germany, and the other as husbands, fathers, and sons desperately trying to keep living a normal life back home, albeit far away from it.
At Stalag VII A, Lt. Morgan was also imprisoned alongside Italian and American officers, and even recounts the ghastly sight of Russian soldiers as “mere skeletons”. The dire state of the Russian prisoners of war are also noted by others from Leros. Reg Neep recounts:
One night a guard dog was released into the Russian compound where it attacked the prisoners, but they retaliated by killing the dog. It was then skinned and eaten raw, the skin and bones being then thrown back over the wire.18
18 As quoted in Peakman, 2018, p. 364.
The men would spend a few more months at Moosburg before leaving for Oflag VIII F at Mahrisch Trubau, modern day Czech Republic in April. Here too they were welcomed with the ever present ‘Red Cross Pack’ which were also delivered to them en route. The contents sustained their recipient but also allowed Lt. Morgan and others to bribe their German guards with cigarettes and treats, both luxuries the other ranks did not enjoy as fully. Lt. Morgan was also welcomed by his friend ‘Pistol’, who had previously been sent to Lukenwalde for interrogation. Morgan was more than satisfied with the new camp. Interestingly, he notes that an important feature was the daily chirping of a bird. This, according to Julie Peakman, was a reference to the BBC radio whenever they could get signal in hiding from their camp guards. Already, the men had to learn to do things in secrecy to retain their humanity.
Their re-acquired state of high class in a biscuit factory turned Oflag (‘Offizierslager’, ‘officer’s Camp’) was short lived. As the Allies marched closer to the Reich’s borders, they were moved in their entirety to Oflag 79: the largest officers’ camp in Germany. At their new camp in Brunswick, Lt. Morgan makes a stark realisation: “I reckon this move is a bit "off-side" as this new Camp is a Luftwaffe Barracks and too close to a big Aerodrome to be healthy!”.
Despite this, the men settled into their new location and reality. By 1945, as the allied bombing campaign inched closer to their camp, Lt. Morgan writes of ‘bomb happy cases’, and even ‘excitement’ as the Allie’s bombs and gunfire were heard from the distance. Equally content and overwhelmed with anxiety of being a bomb target, the men could only brace themselves for the unknown, as they always did. Being a P.O.W. is a perpetually liminal state. The men were confined behind barbed-wire for being soldiers, for their military skills they could re-employ against Germany should they be released. However, the men felt completely powerless and anything but fearsome line infantry. P.O.W. are stuck between the army and civilian life, both of which were the only identities they knew hitherto but cannot possibly return to until the war ends. This confused state was often a source of renewed frustration. Lt. Morgan seems to address a resolution of such tensions (among unimaginable others) in his first Christmas as a P.O.W.:
Hoped very much that news that I was a P.O.W. would have by this time arrived home, otherwise Xmas would not be a very cheerful one for them. Went to bed at 9.30 feeling very much at peace with the World. It was a White Xmas as we did have a spot of snow.
Ofcourse, a big source of anxiety was the lack of communication with home. The men could communicate with their family (to an extent) and slip back into their ‘ordinary’ civilian lives through text. In such conditions, even something as simple as a letter from home could take up the position of an entire person, a fragment of a loved one, or a relic of someone one holds dear.19 Lt. Morgan did receive letters from home, directly mentioning his Father. He had already “cabled home” on the 20th of November while still a fresh P.O.W. in Piraeus, near Athens. He also recounts clear instances where life back home was transported into their Oflag. On the 3rd of June, “the men still celebrated “H.M. The King's Birthday” with a parade.” On Christmas of 1944, they even listened to the “King’s speech”, which
[Prisoner of war, Lieutenant Peter Neave, using a hidden radio inside Oflag 79 in Braunschweig’, (Alexander Turnbull Library, New Zealand)]
172 19 C. Makepiece, 2017.
they thought was “very good!”. In this speech George VI states: “In our thoughts and prayers are also with our men who are prisoners of war, and with their relatives in their loneliness and anxiety”. The men tried to live in England, in the Oflag. On the other end of Europe, British people back home tried their best to facilitate their efforts, even if through such a simple message.
Tolerating such frustrations for years, it should not be surprising that the eventual transformation from prisoner to civilian was an exceptionally overwhelming experience for many. The first thing Lt. Morgan did was “walk "outside the Wire" with Phyl. It was a beautiful day and I just can't describe what it felt like to be a free man again.” Soon enough food parcels started coming in. On being liberated on the 12th of April in 1944, Lt. Morgan writes: “Had first "Egg" for over 18 months for supper in the evening.” It is both interesting how something as simple as an egg surfaced so poignantly in his memory as a marker of his new state of being, not to mention that he could recall the last time he had an egg in Egypt or Leros.
Food is a recurrent feature in P.O.W. memoirs, including in Lt. Morgan’s. From being garrisoned in Malta to fighting on Leros, his rations and gastronomic bravados are mentioned, sometimes in great detail. Most notably, during the battle when he eats whatever could be mustered from compo rations into palatable meals. Despite enjoying the privileges of his rank and status Lt. Morgan still endured hunger. Writing of Christmas in 1944, Morgan recounts:
Even though only a ½ Parcel we all had an excellent day with more than enough to eat, our stomachs, it must be remembered, have somewhat contracted since last year!!
In the P.O.W. camps the men were so starved that returning to a normal diet proved painful. Cases of sickness were not uncommon and are mentioned. Ted Jhonson also recounts: ‘“There was a fantastic atmosphere when we were liberated. I went out in search of food, and came back with a loaf of bread and a Luger pistol. I ate the whole loaf in one go. I had one hell of a bellyache.”20 Just a month
20 J. Peakman, 2018, p. 390.
earlier, Lt. Morgan records his weight at 8 st 9 oz, or 51 kg. The day they were liberated, food features as a souvenir in and of itself. Morgan records the menu on the day (a common practice across British forces). Indeed, the odd moments where good food was found or concocted became some of the more enduring memories for the P.O.W.s Bob King recounts:
We would become obsessed with anything to do with food. It was not unusual for someone to be unable to sleep at night because he could not get his mind off, say, a bacon sandwich. Lectures started about food. An officer called Acton who was a fellow of the Institute of British Bakers and who had been employed by “Cadbury gave us exotic recipes. I returned home with twenty-seven recipes for everything from Rum Babas to Chung Wings. Those who had been in the wine trade took orders for post-war deliveries, South African fruit farmers promised deliveries of tropical fruits. It was a world of fantasy21
Soon after P.O.W. camps became populated, fully fledged camp economies can be observed. Lt. Morgan recounts: “Pistol sold the watch he bought off Freddie in Alex for 1000 Cigs.” This event corroborates Lt. Gordon Horner’s memoirs, stating that “The richest man in the camp was the man with the most cigarettes.”22 Lt. Morgan even documents the records of his German bank account, but the Oflag had its own system of values.23 Besides their own ‘currency’, the men developed their own parlance ‘behind the wire’ with phrases such as ‘goon up’ or ‘golden balls’, the precise meaning of which (for some) are yet to be deciphered. However, one can surely see the picture of the Oflag as a community if displaced individuals, forming their own identity, thrust into camaraderie amidst the pressure of surviving
21 Bob King, as quoted in Peakman, 2018, p. 384-5.
22 J. Peakman, 2018, p.38.
23 One should not forget to mention Richard A. Radford’s study of the POW camp economy, having himself been a POW. In his research, he states that the economy was more than just ‘playing shops’, but rather allowed the men to achieve some level of ‘comfort’: “True, a prisoner is not dependent on his exertions for the provision of the necessaries, or even the luxuries of life, but through his economic activity, the exchange of goods and services, his standard of material comfort is considerably enhanced.”
imprisonment, whilst living their life back home through thoughts and letters.
The Oflag as ‘place’ in itself, and perhaps an ersatz piece of England, come to fruition in Lt. Morgans account of Camp societies and entertainment venues. The men had no choice but to make the camp their home, even if temporary. Lt. Morgan recounts: “I started reading Economics as well as Book-keeping and attended "Economic Geography "," Political Theory" and all "Business Lectures", (the forming of Partnerships, Limited Companies, etc). This was a pretty busy period and the days fairly slipped by.” Morgan also provides us with a list of camp societies, including but not exclusive to the ‘insurance’, ‘theological’, ‘Highland Dancing’, and ‘mountaineering’ society. The variety of skills and professions among the men also allowed for lectures, not to mention running the ‘Rumpot’; a recreation room turned cabaret, organising concerts, and even cinema shows. According to Adrian Gilbert, they participated in such activities and organisations to get out of their claustrophobic bed spaces and participate in a sort of social life they created for themselves.24 Of Course, the other ranks were kept busy through labour. They were sent to repair roads, work in oil refineries, mine shafts, and farms. Some, like Fusilier MacTaggart, were even sent to Leipzig to clear debris caused by the allied bombing efforts.25
As Lt. Morgan himself puts it, “"What about getting Home”? One must remember that the men had been deployed overseas since November of 1940; almost a full 5 years away from England. One can only imagine the concerns Lt. Morgan had as his imagination of getting home slowly became reality. Meanwhile, in England, Civil Resettlement Units (CRUs) were organised. According to Clare Makepeace, “this programme was one of the first controlled experiments in social psychology, an early example of ‘therapeutic communities’”.26 It was understood, even from lessons in the First World War, that P.O.W.s would return as a mass of ‘awkward men’, who needed some form of buffer or even ‘half-way house’ between imprisonment and
24 A. Gilbert, 2014.
25 MacTeggart of the Irish Fusiliers, as quoted in Peakman, 2018, p. 366.
26 C. Makepiece, 2018.
their return to normal life.27 It would appear that some of the men from Leros participated in such a programme, Ted Johnson of the Irish Fusiliers was sent to a “European POW resettlement course in Dunbar”.28 Depression, guilt, anxiety, and a disjointed sense of temporality are just some of the symptoms the programme assisted the P.O.W.s to overcome. Of course, P.O.W.s did not all exhibit the same symptoms, but rather each had his own selection. There is even an attempt to medicalize the P.O.W.s state with the title “stalag mentality”. Makepiece refines the British’ understanding of their returning prisoners; she points at a 1942 article by Major Philip Newman, stating that the traumatic events the P.O.W.s endured would slowly reemerge, as if repressed emotions needing release:
He wrote of ‘release phenomena’, which he characterised as the psychological equivalent of ‘the bends’ or ‘decompression sickness’. Just as the deep-sea diver’s body exhibits a variety of symptoms if insufficient time is taken to release it from high underwater pressure, so an ex-POW, having gone through the intensity of captive life, would exhibit symptoms of restlessness, irritability and even dishonesty after returning home.29
I would argue that to understand the thoughts brewing in Lt. Morgan’s mind about his return home can be seen most vividly in the ‘Daily Mirror’ snippet titled ‘When he comes home he’ll be shy’ which he added to his very own memoirs. Given this explicit selection, one can venture to assume the resonance Lt. Morgan felt with the author’s words. Besides warning of their heightened cynicality, pensiveness, moodiness, and rude language, the piece explains that they, the soldiers held prisoners of war, expect to find their home and country
27 However, one should also note that prisoners of the First World War were not expected to have developed any psychological issues in captivity. E. Jones and S. Wessely (2010) argue that it was only after the conflict that the term “barbed wire disease” was created for symptoms exhibited by P.O.W.s. It was thought to be caused by a lack of privacy, monotony, and ‘sexual deprivation’ (among other conditions) in P.O.W. camps. Nevertheless, it would be late into the Second World War that the mental difficulties of P.O.W.s were addressed as a health concern at all.
28 J. Peakman, 2018, p. 392.
29 C. Makepiece, 2018.
greatly changed, and they might feel alienated until they readjust. Attempting to generally but cautiously speak on behalf of all P.O.W.s, the author states that:
We shall want to go to Dances, Parties etc. but in a great many cases you will find that we shall not be able to stand them for long. And, of course, we shall not be able to hold our drink as well as before our captivity. This will adjust itself in a short time. One thing we would love on our return is a good strong Whiskey! In many cases we shall be rather shy of the opposite sex, not having been in contact with it for so long. This will soon right itself, but at first we may appear awkward, through trying to remember our manners. We shall have the habit of giving our opinions, & arguing on any subject under the sun whether we know anything about the subject or not. Another habit that will be hard to break will be cadging lights from cigarettes & not using matches. Some will have the habit of collecting old junk, saying it will come in handy sometime. [...]
As we get better we will pass through a very irritating stage. You must forgive us our faults in this stage & try to help us through it as much as you can. Now as for our wishes, & these are important, do not try to do too much for us or fuss over us too much, such as to arrange too many amusements or too elaborate a welcome home. Most of us want to be able to slip home quietly without a great deal of fuss. A great many of us I know would rather their families did not meet them at the Station or off the boat, but wait at home. If we do not want to do a thing, do not try to press us to do it. Again, a large number of us, after being home for a fortnight or so, will want to go away by ourselves right away from everyone. Do not try to stop us & keep us at home. It will do us a great deal of good to go on this sort of holiday. Very few will have anything mentally wrong. I am quite sure that after a few months we will adjust ourselves, but those first months may be a trial to our families. All we ask is that they will understand the confusion of our minds & outlook, and will bear with us with patience until we function normally again.
Lieut. Morgan’s account weaves together a fascinating yet tragic story. However, one should also state what is missing in his account that can often be found in other memoirs, such as quarrels between
P.O.W.s, the political life of camps, escape attempts, as well as the pervading sense of loneliness.30 There are several publications on Leros as well as life for those captured with which one can compare and add context to both Leros and P.O.W. life. However, a closer look at accounts of the likes of Lt. Morgan’s, spanning from Malta to Brunswick, provide a seamless story that may reflect thousands of others. One can understand the 4th Buffs' context before Leros, as well as the many years spent behind barbed-wire after the crucial event that was the Battle of Leros. Malta, Leros, Stalag VII-A, Oflag VIII-F, and Oflag 79 were all unique spaces that produced such memoirs, and invariably the people that wrote them.
Bibliography
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30 A. Gilbert, 2014.
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National Archives of Malta, CSG-5549-(1943)- ‘Retention of L/Cpl. Hallwood in Malta to carry on as Cinema Projector Operator for B.I. and Information Office Films’. The request, however, was not accepted.
National Archives of Malta, CSG-3805-(1941)- ‘Employment of Cpl. F. C. Whitaker of the Buffs Regiment as a Physical Training Instructor at the Repository’.
National Archives of Malta, POL.8: 01/ 131, 01/132, 01/133, 01/137, Police Occurrences Birkirkara, Attard and Lija, 1941-1942.
The Advertiser, Europe’s Lamps Being Re-Lit: King’s Christmas Message of Hope, 1944.
The Daily Mirror, When he comes home he’ll be shy, 30th May 1944.
The National Army Museum, A Wartime Log of No 145023 Lieut C H J Morgan 4th Bn - THe Buffs P.O.W. No. 2115/ VIII F Oflag 79 Germany, NAM.2001-07-525.
The National Archives (Kew), WO 169/7424, Malta Command: Infantry: 4 Buffs (Royal East Kent Regiment).
WO 169/3279, Malta Command: Infantry: 4 Buffs (Royal East Kent Regiment).
WO 169/14582, Malta Command: Infantry: 4 Buffs (Royal East Kent Regiment).
WO 169/10185, Malta Command: Infantry: 4 Buffs (Royal East Kent Regiment).
WO 169/908, Malta Command: Infantry: 4 Buffs (Royal East Kent Regiment).
WO 166/4165 INFANTRY: 4 Buffs (Royal East Kent Regiment).
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Great – grandson of Nikolas and Antonia Kontrafouri
Leros… 1938. A married life begins within another one, imposed by the rules of 1912 and indeed, it seems bizarre how possible it is for one life to flourish within the other, the obligatory, the oppressive and fixed in everyway life. Perhaps it is a one way street when your life begins and you spend your youth under these conditions. Nikolas and Antonia two young newly married people, in the era of the flourishing Italocracy, are leading their life with a positive outlook.
Nikolas works with his father at a butcher shop he has rent in a post in the Italian market near the fruit market. Good organization, quality and cleanliness characterize the operations of the market. The control of the maintenance, of order and quality is frequent and strict. Everything works perfectly.
But the social life of the Italians does not deprise of all this perfection in any way. Nikolas and Antonia remember the brilliant receptions at the hotel Roma as well as the film projections at the Italian cinema. Wealth and opulence thunder ostentatiously through the abundant noiseless footsteps on the thick red velvet carpet. But all these, only for the chosen few… Italians and not only!!
Nikolas and Antonia, confess with honesty, depicting the surface of everyday life of Leros in the 1940s… But in the fact the darkness of the depth remains silent… and yes by order: No parlare Greco!
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Livio Pusceddu, un marinaio sardo a Lero (1940-43)
Aldo Pusceddu
The sailor Livio Pusceddu, born in Guspini (Cagliari/Italy) on 2 december 1919, arrived in Lero in the spring of 1940. Until February 1941, he was posted to the Regia Marina Lero Command - PL 102, except for a brief period at the gunpowdwer store in Merikia. From march to August 1941he was assigned to battery PL 248, and then from March to October 1942he wasin force at the battery PL 749 on the island of Arkangelos, located nortwest of Partheni Bay. From November 1942 to June 1943 his correspondence reports that he was again in force at Marine Command Lero – Unit 43 and again at Unit 4 – Marine 10. There are still acronysm that are difficult to identify. We do not know where he was operating during the 56 days of the Battle of Lero; he recalled the German Stukas’ swoops on the San Giorgio batter at Scumbarda mountain and the DICAT-Fam command at Patella mountain. He always held Admiral Luigi Mascherpa and Military Chaplain Father Igino Lega in hig esteem. He was taken prisoner by the Germans on 16/11/1943 and deported to Germany, to the Hemer VI A stammlager, near Dortmund. He returned to his family in Sardinia on 14/8/1945.
Livio Pusceddu nasce a Guspini (Cagliari/Italia) il 2 dicembre 1919. A 20 anni è arruolato nella Regia Marina Italiana e dopo un breve periodo presso la base di La Maddalena in Sardegna, viene inviato a Taranto da dove scrive in famiglia che a fine gennaio 1940 sarà destinato nelle isole italiane del Dodecaneso, in mare Egeo, ma dice di non sapere ancora esattamente dove. Il suo foglio matricolare lo qualifica come ‘fuochista’, ed è imbarcato sulla regia nave Sebastiano Caboto, inviata in Egeo come nave appoggio sommergibili. Tutte le sue lettere, cartoline postali militari e cartoline illustrate dal marzo 1940 al febbraio 1941, riportano come indirizzo del mittente: distaccato PL 102 Comando Servizi Regia Marina – Lero. Dai suoi pochi racconti orali e da una foto inviata in famiglia, tra giugno e luglio 1940 risulterebbe comandato presso il deposito/polveriera di Merikia. Sempre dalla sua
corrispondenza in famiglia, nei mesi da marzo ad agosto del 1941 risulta distaccato alla batteria PL 248, con un periodo intermedio presso il Comando Marina Lero – PL 101, sigla anche questa di difficile interpretazione come la precedente PL 102. A Lero, Livio Pusceddu ritrova una sua cugina, maritata ad un maresciallo sassarese della RM, Antonio Cao. Ed è spesso loro ospite, partecipando anche alle loro ricorrenze, come ad esempio la nascita e il battesimo (ottobre 1942) del terzogenito Luciano, della famiglia Cao. Dal febbraio 1942 e sino a tutto ottobre di quell’anno Livio è in forza alla batteria PL 749 dell’isola di Arcangelos, posta subito a nord ovest della baia di Parteni. Tra i suoi ricordi del periodo trascorso ad Arcangelos raccontava delle grandi pescate di polpo e di altri pesci con cui il personale integrava il poco vario rancio militare. Non bisogna dimenticare come i rifornimenti verso il Dodecaneso fossero difficoltosi a causa della presenza della flotta inglese. Sono di questi 6 mesi le foto più significative che riesce a mandare in famiglia. A Lero ritrova anche un suo compaesano, Luigi Matta, imbarcato su uno dei MAS di stanza sull’isola e militarmente più anziano di lui; i due avevano modo di ritrovarsi nei momenti liberi dei rispettivi compiti. Luigi Matta viene rimpatriato a novembre del 1942, a differenza di mio padre che in tre anni non riuscì mai ad avere una licenza per tornare a casa. Già dall’inizio del 1943 la sua corrispondenza diventa meno frequente; in una lettera esortava i familiari ad inserire un foglio di carta nello loro risposta, in modo che lui potesse scrivere perché sull’isola era diventato difficile trovarne. A maggio del 1943 segnala anche il prossimo rientro a Guspini della cugina Antonietta con i figli, la moglie del maresciallo Cao. Lui invece dovrà ancora aspettare… invano. L’ultima corrispondenza dell’estate 1943, una lettera e una cartolina postale, riporta come mittente le sigle: distaccato Reparto 43 – Comando Regia Marina Lero e Reparto 4° - Marina 610. Poi la battaglia e la prigionia tedesca; più nessuna notizia, tant’è che in famiglia lo credevano disperso. A marzo del 1944, la prima scarna lettera a casa dalla prigionia del campo di Hemer, stammlager VI A, nei pressi della città di Dortmund, nella Germania occidentale e a cui ne seguiranno poche altre. Liberato dagli Alleati ad aprile del 1945, rientra in famiglia ad agosto dello stesso anno. Ha sempre commentato con serenità il periodo di Lero prima della battaglia, conservando della gente greca di quelle isole un piacevole ricordo. Ha sempre riconosciuto profondo rispetto per l’Amm.glio Luigi Mascherpa e immensa gratitudine per il Cappellano Militare, padre Igino Lega.
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Filippo Cerenzia - Lero 1937-1940
Civil engineer from the University of Rome, Filippo Cerenzia born in Campana (Calabria) on 6-6-1903, and he was commissioned under orders of the Italian Navy to the island of Leros at the beginning of 1937 in order to make military and civil installations on the naval base of the island.
From the brochure of F. Cerenzia’s studio « CATALOGE OF THE MAIN WORKS PERFORMED FROM 1930 TO 1963» in the hands of his daughter and now my wife Vera Cerenzia, I was able to locate several works and to present them under the following groups: a) Marine works, b) Works in galleries, c) Street constructions, d) Military and civil housing. To these I have added about 20 private photos of the family, which was transferred to Lero until it was abandoned together with other civilians on board the Italian ship «Egitto» after the beginning of WWII.
Very recently I was able to obtain copies of some 100 photos from an album of that period, after the death of a dear family friend Marilu Fradella, daughter of Colonel Rugiero Fradella, who was serving in Leros at the same period, and I decided to include some of the most important of them in this collection. My presentation ends with an aerial photo of the Rossetti Air Base taken in 1948 from my father Officer Dimitrios Voutsinas Commander of the airport of Rhodos in that period.
Flora Carlomagno.
STUDIO TECNICO
LAVORI Ing. Filippo Cerenzia & Ing. Giovanni Lanzara
Cerenzia
Fradella,
Ruggero
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[Filippo Cerenzia (a destra) sulla nave con destinazione Lero. 1937]
[La GIL (Gioventù italiana del Littorio) schierata davanti all'Albergo Roma, 1940]
[Sulla spiaggia di Alinda uno stabilimento balneare italiano, 1938 ]
[In attesa di una parata davanti alla Casa del Fascio, 1938]
Lero 1943. Il Cannoniere Armarolo Adolfo Zappa e le vicende della Batteria PL 211 di Monte Rachi
Alfredo Zappa
My father did not talk too much about the battle of Leros. His wish to return to the island never came true. He died in 1986 at the age of 63. He had landed on Leros in late June 1943. On July 10, the Americans landed in Sicily. The armistice was signed on September 8, and the Germans attacked on September 26.
The Navy’s News Sheet indicated my father's destination at the 211 anti-aircraft and naval battery.
One phrase used to come up in the documents I collected: “Quite little is known about the outcome of defence of Battery 211, because its commander, artillery lieutenant Antonino Lo Presti, was apprehended and murdered immediately on the field.”
During the first phase, from September 26 to October 31, Battery 211 was heavily bombed. On Monday, November 8, a Henkel escaped Battery Mount Maraviglia and discharged its bombs on 211. The four 102/35 guns of 211 were out of order due to the raid and to damage caused by overuse.
At around 2.30 p.m. on Friday, November 12, a squad of Junkers 52 started to discharge hordes of paratroopers across the sky. A few aircrafts were knocked down by a British gun, whereas the Breda 37/54 machine gun of Battalion 211 played pigeon shooting. Most of those avoiding the shots crashed on rough rock, because the pilots had released them at too low an altitude. Others got stuck in wire fences and were easily shot. According to estimates, about half of the 600 paratroopers were lost at sea or on the field. With them, heavy weapons and ammunitions were discharged. The use of mortars in the battle had a devastating impact. Dad himself had a scar near his left ear, caused by the shard of a grenade that came from those fire mouths.
The fight was fierce on the mountain. The front was not clearly outlined, the paratroopers from the sky were scattered everywhere. Only at sunset did the stormtroopers prevail.
Meanwhile even white weapons were used.
I don’t know how and when dad was apprehended. He was deported to Athens and, from there, to Ukraine and Belarus. Upon his arrival in Poland, he was released by the Russian troops in April 1945, following the battle of Gdansk. He returned to Italy on October 17, 1945.
Sommersi da selfie e scatti digitali, oggi sembra impossibile che per molti dei nostri genitori esistano vuoti di immagini che durano decenni. Ancora più incredibile, per quanti di loro coinvolti nella tragedia del secondo conflitto mondiale, è che non esistano immagini mentali che abbiano voluto condividere. Mio padre è stato uno di quelli. Non ho immagini di lui in divisa, sono andate perse sul campo. Così come ha pochissimo narrato della battaglia di Lero e della seguente prigionia con i tedeschi. So solo che aveva l’ardente desiderio di tornare sull’isola ma, dopo una lunga malattia, si è spento nel 1986 a soli 63 anni. Lero non l’ha mai rivista.
Dopo molto tempo dalla sua morte per puro caso mi imbattei nel libro di Giuseppe Teatini Diario dall’Egeo, Rodi-Lero: agosto-novembre 1943. Mi avvicinai al testo con la curiosità di chi avendo sentito parlare di quei fatti cercava qualche riscontro. Ma è bastata la lettura di poche pagine per entrare in una dimensione inaspettata. Volevo assolutamente saperne di più. Cominciai così a procurarmi libri e resoconti ufficiali.
Le informazioni del Foglio Notizie della Marina Militare per il Cannoniere Armarolo Zappa Adolfo, indicavano la sua destinazione presso la Batteria antiaerea e navale 211. Era giunto a Lero alla fine di giugno del 1943. La guerra era già praticamente persa. Il 10 luglio, a pochi giorni dal suo arrivo sull’isola, gli americani sbarcarono in Sicilia. L’8 settembre venne firmato l’armistizio e domenica 26 esplose la battaglia scatenata dai tedeschi per espugnare l’isola. Una frase è ricorrente nei documenti che ho pazientemente raccolto nel corso di alcuni anni: “Di quanto accadde durante la difesa della batteria 211 poco si sa perché il suo comandante, il tenente di artiglieria Antonino Lo Presti, è stato assassinato sul campo appena dopo la cattura”.
Mi sono allora deciso, conscio delle manchevolezze e delle approssimazioni del caso, a provare ad accostare le tessere del mosaico che ho rinvenuto.
La batteria PL 211 (PL è l’acronimo di Pezzi Leggeri) poteva contare su quattro postazioni di cannoni 102/35 modello 1914 collocate in fila indiana da Nord a Sud lungo la dorsale di Monte Rachi (quota 109 m s/m), dotate ognuna di una riservetta sotterranea per le munizioni. Il 102/35 era un cannone della Ansaldo, prodotto all’epoca della Prima Guerra Mondiale. Come noto negli ambienti militari e palesatosi in combattimento, i 102 erano facili alle avarie e non atti al tiro prolungato. Già durante il primo conflitto mondiale furono sostituiti dal più prestante 102/45 modello 1917 e tra le due guerre dal 120/45. Ma a Lero nel 1943, per combattere contro i micidiali Stukas e Junkers della Luftwaffe, erano fermi al 1914 e a una tecnologia bellica ampiamente superata. Dopo le prime settimane di combattimento i molloni dei meccanismi di rinculo dei cannoni erano snervati per l’eccessivo lavoro e l’impropria necessità di sparare con un alzo elevato verso gli obiettivi provenienti dal cielo. Le canne esauste per le temperature raggiunte. I dispositivi di regolazione e puntamento usurati dall’impiego e danneggiati dalle schegge che, in assenza di efficaci protezioni, schizzavano ovunque. Alle bocche da fuoco della 211 si aggiungevano una mitragliera contraerea automatica a canne binate Breda 37/54, per impiego a corto raggio (molto efficace anche se non priva di complicazioni meccaniche), oltre a un limitato assortimento di armi leggere e bombe a mano per la difesa ravvicinata.
Durante la prima fase, dal 26 settembre al 31 ottobre, la batteria 211 fu pesantemente bersagliata, dai caccia Messerschmitt e dalle bombe sganciate in picchiata dagli Stukas e dagli JU88 tedeschi che scendevano accompagnati dall’ululato terrificante delle loro sirene a flusso d’aria, tristemente note come “Trombe di Gerico”. Cannonieri e serventi ai pezzi, (papà era uno di loro), non reggevano più dalla stanchezza, dalla fame, dalla sete, dall’intossicazione di balistite. I continui attacchi avevano ridotto e in alcuni casi azzerato i rifornimenti: mancava l’acqua da bere e bisognava razionare il vettovagliamento.
Ai primi di novembre le incursioni aeree registrarono una pausa inaspettata. I tedeschi si preparavano all’assalto finale.
Lunedì 8 novembre verso le 11 un Henkel proveniente da Sud volando alla quota suicida di 600 metri sfuggì alla batteria 127 di Monte Meraviglia per scaricare le sue bombe sulla 211. Un bombardamento a tappeto devastante. A causa di questa incursione e delle avarie causate dall’intenso impiego, i quattro cannoni da 102/35 erano fuori uso. Lo testimonia il rapporto datato 12 novembre dell’Ufficio Storico della Marina Militare.
Verso le 14.30 di venerdì 12 novembre, uno stormo di Messerschmitt Bf 109 scese a mitragliare la dorsale di Monte Rachi per aprire la strada a una cinquantina di Junkers 52 che, nella sorpresa dei difensori, cominciarono a scaricare nel cielo nugoli di paracadutisti.
Appartenevano alle unità speciali Brandenburger, composte da volontari addestratissimi per blitz di questo tipo.
Un cannoncino inglese, posizionato a Nord di Monte Meraviglia, centrò alcuni velivoli. I cannoni della 211 erano inservibili, ma la Breda 37/54 binata fece il tiro al piccione. Secondo uno dei rari racconti di mio padre, il mitragliere con lo sguardo fisso nel puntatore riduceva a brandelli decine di persone appese ai fili dei paracadute. Piangeva e urlava mentre sparava, ma non poteva fare altro per salvarsi la vita. Roba da uscirne pazzi. Come se non bastasse, molti di quelli che sfuggivano al tiro finivano sfracellati sull’impervio terreno roccioso, perché per contrastare il forte vento e concentrare gli assaltatori sulla ristretta dorsale, i piloti avevano sganciato gli uomini a una quota troppo bassa. Altri ancora finivano imprigionati nei reticolati divenendo facile bersaglio. Secondo alcune stime gli uomini paracadutati furono circa 600 e circa la metà andò perduta in mare o sul terreno. Oltre ai parà giunsero a terra armi pesanti e munizioni. L’uso martellante dei mortai tedeschi fu devastante nello scontro. Papà stesso portava vicino al trago dell’orecchio sinistro una cicatrice, provocatagli dalla scheggia di una granata uscita da quei mortai.
Sul monte la lotta fu feroce. Non esisteva un fronte preciso, i paracadutisti piovuti dal cielo erano sparsi ovunque. Qualche marinaio si difese attorno ai pezzi o al bunker della centrale di tiro, altri furono sorpresi al campo tende, altri ancora rimasero tagliati fuori a mezza strada, appiattiti tra i cespugli della macchia. Le urla, gli ordini, le imprecazioni dei compagni riempivano le orecchie di animali braccati prima che di eroi. Eppure, contro ogni aspettativa non alzarono le mani e resistettero molte ore in queste condizioni.
Bisognò aspettare fino all’imbrunire perché gli assaltatori tedeschi avessero la meglio sulla 211. Nel frattempo si arrivò a combattere perfino all’arma bianca, in definitivi e furibondi corpo a corpo. Dov’era papà in quei momenti non lo saprò mai. Non ho mai trovato il coraggio di chiedergli se avesse ucciso. Esiste un limite oltre il quale il silenzio tace l’indicibile.
Nella confusione, qualcuno era riuscito a sottrarsi alla resa scappando. Uno di loro riuscì a raggiungere la batteria di Monte Meraviglia e a comunicare che il tenente Antonino Lo Presti era stato trucidato. Dettagli sulla sua tragica fine li riferisce il comandante Spigai: “Si combattè senza quartiere (…) intorno all’ultima mitragliera della 211, dove il tenente Lo Presti fu ucciso da una revolverata alla testa”.
La battaglia alla 211 si concluse così. Per la conquista di Lero bastarono solo altri quattro interminabili giorni. Poi la resa e per gli italiani la tragedia di vedersi presentare con spietatezza disumana il conto delle pesanti perdite inflitte agli assalitori.
Non so come e quando fu catturato papà. Di certo mi raccontò di aver rifiutato di arruolarsi nelle file della Wehrmacht, così come di collaborare nei campi di lavoro. Venne quindi deportato via mare come prigioniero al campo di raccolta di Atene e da qui ai primi di dicembre in carri bestiame verso l’inverno ucraino e bielorusso. Per lui cominciarono così due anni di inferno sul gelido fronte orientale da vero e proprio schiavo al servizio della ritirata tedesca. Giunto infine in Polonia, venne liberato dalle truppe russe nell’aprile del 1945 dopo la battaglia di Danzica e trasferito nel campo di raccolta di Bromberg. Tornò in Italia ben sei mesi dopo, Il 17 ottobre 1945, al Centro Alloggio di Pescantina di Verona.
Dopo aver ricostruito, seppur sommariamente, le immagini dei fatti che aveva taciuto, mi decisi a cercare di collocarle in un contesto fisico. Il passo logico è stato quello di venire a Lero. La prima volta nell’agosto del 2011.
Sapevo che la batteria PL 211 sorgeva da qualche parte sul lungo crinale di Monte Rachi ma, a differenza delle altre postazioni militari che avevo visitato in quei giorni sull’isola, non riuscivo a localizzarla. È stato grazie a Tasos Kanaris che è avvenuta la svolta. Nel suo piccolo museo di Platanos riuscì a trovarmi una sbiadita planimetria militare della batteria. A causa della mutata viabilità e alle
nuove costruzioni non è stato comunque facile identificare il luogo. Poi, accanto alla chiesetta bianca e azzurra Prophetas Elias, ho scorto il vecchio bunker di cemento indicato in mappa come centrale di tiro. Alle sue spalle, verso Nord la piazzuola numero 4 era pressoché intatta così come la sua riservetta sotterranea dove venivano sistemate le scorte di proiettili. Le tracce della numero 3 erano sparite per lasciare il posto al giardinetto di un villino. Mentre la 2 era completamente metabolizzata sotto una casetta per vacanze. Della numero 1, che sorgeva poco più in alto in direzione Sud verso Monte Meraviglia, nessun segno. Ho cercato a lungo, ma due ville, circondate da terrazzamenti e muretti recenti hanno sepolto tutto. O forse tutto era già stato sepolto dai bombardamenti. Nessuna traccia anche degli alloggiamenti dei marinai. Grazie al suggerimento di un locale riuscii a identificarli il giorno dopo. Mi disse di cercare sotto gli eucalipti. Gli eucalipti non sono mai esistiti su queste isole. Li avevano piantati gli italiani. Crescono in fretta ed erano sembrati il sistema più rapido per mimetizzare le numerose installazioni militari. Peccato che ai bombardieri tedeschi bastava individuare gli eucalipti per trovare gli obiettivi da colpire. Fate mente locale: tutte le postazioni militari italiane sorgono ancora oggi all’ombra degli eucalipti. Attorno alle polveriere di Merikia ne esiste addirittura un grande bosco.
E sotto un gruppo di eucalipti trovai quello che cercavo, sparso su un piccolo terreno rivolto verso la Baia di Alinda. Di costruito c’era pochissimo. Le rovine di una garitta, i resti di alcuni muri diroccati e un basso volume rettangolare completamente scoperchiato, che forse ospitava vettovagliamento e cucina. Lungo una balza due piattaforme di cemento di una quindicina di metri per 4. Sulla loro superficie i fori dove un tempo erano infisse le strutture metalliche che reggevano i tendoni militari. Dalla loro dimensione ho stimato che alla 211 potevano essere in forza circa una trentina di marinai, tra addetti ai pezzi, al supporto e al vettovagliamento. Non mi sono potuto avvalere di documenti ufficiali, ma il fatto che il comando fosse affidato a un tenente lascia intendere che la forza di stanza fosse assimilabile a un plotone. Poco oltre, alcuni frammenti dei servizi igienici con un unico trogolo. Rimasi incredulo. Con tutto quello che gli italiani avevano costruito sull’isola in oltre 30 anni di dominio coloniale, i marinai della 211 vivevano nelle tende!
La quotidianità in questi avamposti era parametrabile alla frugalità delle condizioni date. Non a caso il comandante Spigai definiva gli uomini di queste batterie “anacoreti”.
Ho rivisto quello che avresti voluto vedere papà, ma come ci insegna Socrate c’è una profonda differenza tra ciò che è visto e ciò che è vedente.
Non so se era questo che cercavi. Forse molto più semplicemente ti saresti seduto quassù a guardare il mare. In silenzio, pensieroso, fumando lento una sigaretta. Vorrei saperlo fare per te, ma è troppo quello che mi sfugge. C’è il luogo, manca il tuo vissuto.
I padri sono opera postuma. Talvolta dolorosamente incompiuta.
Per chi volesse approfondire la completa ricostruzione degli accadimenti occorsi attorno alla Batteria PL 211 e la storia delle mie ricerche sul campo, rimando alla lettura del romanzo Nati per riesistere edito da Le Piccole Pagine nelle librerie italiane da ottobre 2013
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Un marinaio a Scumbarda
Andrea Calandrelli
Comitato Consultivo Scientifico Leros Military History
“Il soldato prega più di tutti gli altri per la pace, perché è lui che deve patire e portare le ferite e le cicatrici più profonde della guerra.”
Douglas MacArthur, Generale
The purpose of this work is to provide, by means of an analytical reconstruction of a “Soldbuch”, the testimony of a sailor enlisted in the German armed forces (Wehrmacht) on the island of Leros, of his service at the San Giorgio battery of Scumbarda, and of his hospitalization at the Hospital of Portolago.
The Soldbuch, or payroll, was, among the personal documents assigned to every soldier enlisted in the German Army, the most important, since, unlike the Wehrpass, which remained in the archives of the headquarters, it was always carried with them, strictly kept in the upper left pocket of the uniform. For this reason, it is not uncommon to find personal memories, such as photographs, or concerning the places where the soldier served.
There were four kinds of Soldbuch, each linked to an armed force of the Third Reich (Heer, Kriegsmarine, Luftwaffe, SS).
The Soldbuch of the Kriegsmarine, that is, of the German Navy, where our soldier served, consisted of 40 pages containing personal data of the sailor, ranks, garments and changes of clothing, weapons, departments of assignment, pay and licences, health information concerning, for example, hospitalizations and vaccinations, and prizes received during the performance of military service itself, both in time of peace and in time of war.
The postage stamps (Feldpostnummer, FPN) on the inside allow us to trace the exact assignments of the places, departments and companies where the soldier served on the island of Leros.
The aim of this work is to provide a historical and documentary
contribution to the events following the Battle of Leros, where the German forces were replaced at the end of the battle by garrison troops of the island in which our sailor was assigned until the end of the Second World War.
Il soldbuch
Il soldbuch o libro paga era il documento più importante che ogni soldato tedesco aveva sempre con sé, rigorosamente tenuto nella tasca superiore sinistra dell’uniforme. Esistevano quattro modelli di soldbuch ognuno legato ad una forza armata del Terzo Reich (Heer, Kriegsmarine, Luftwaffe, SS). Il soldbuch della Kriegsmarine, ovvero della marina militare tedesca, era composto di 40 pagine contenenti i dati anagrafici del marinaio, gradi, capi e cambi di vestiario, armi, reparti di assegnazione, paghe e licenze, informazioni sanitarie (ricoveri e vaccinazioni) ed i premi ricevuti nel corso dello svolgimento del servizio militare stesso sia in tempo di pace che di guerra. I timbri postali (Feldpostnummer, FPN) presenti all’interno ci permettono di rintracciare le assegnazioni dei luoghi, i dipartimenti e le compagnie in cui il soldato prestava servizio. Le informazioni del marinaio di Scumbarda in nostro possesso sono ricavate dal suo soldbuch e da materiale fotografico.
Un marinaio a Scumbarda
Eduard D., giovane apprendista falegname di Vienna, ha ricevuto il soldbuch a Novembre del 1941 all’età di diciassette anni entrando nella 2.Kompanie della 14.Schiffs-Stamm-Abteilung precisamente nella scuola di addestramento della Marina Imperiale tedesca presso la Chassé kazerne di Breda.
Nel 1942 è stato inviato nella Marine Bordflak Kompanie Kriegsmarinewerft (compagnia contraerea della Marina) a Wilhelmshaven, un'importante base navale con grandi cantieri militari. Nel 1943 è stato integrato inizialmente nella 8.Schiffs-Stamm-Abteilung con sede a Leer e successivamente nella 3.Kompanie della 4.Marine-Kraftfahr-Abteilung (unità di rifornimento navale della
Kriegsmarine) presso la città di Cuxhaven. I ruoli svolti dal marinaio della Kriegsmarine nelle suddette destinazioni sono stati probabilmente di tipo amministrativo. Dalla data di arruolamento alla fine del 1943 è passato per i gradi di matrose (marinaio semplice), Matrosengefreiter (sergente) a Matrosenobergefreiter (caporale).
Il 28.01.1944 il Matrosenobergefreiter Eduard D., inviato ad Atene nella 2 Ersatz-Marine-Artillerie-Abteilungen (Feldpost 41914), viene trasferito nella unità 624 della artiglieria marina (Marine artillerie abteilung 624) con sede a Leros. La M.M.A 624 istituita a Leros nel Gennaio del 1944 era posta sotto il comando del Dodecaneso; comprendeva 10 batterie di artiglieria marina sull’isola di Leros e 2 sull’isola di Astypalea. Dal sistema postale militare tedesco ricaviamo che fu assegnato a partire da Maggio 1944 alla 4a compagnia della M.M.A 624 corrispondente alla batteria “San Giorgio” presso il monte Scumbarda postazione presidiata precedentemente dai marinai italiani. Il ‘felpostnummern’ della suddetta batteria era il 18696D. I cannoni navali di grosso calibro della batteria “San Giorgio” restano famosi perché ispirarono nel 1957 il romanzo Guns of Navarone di Alistair MacLean e successivamente il film omonimo di J. Lee Thompson.
Le notizie ricavate dal soldbuch del marinaio, relative al periodo trascorso a Leros, vanno da Gennaio 1944 a Giugno 1945. Sicuramente la vita nelle batterie militari a partire da questa data aveva dei ritmi molto diversi da quelli vissuti durante la battaglia di Leros del 1943. Da Gennaio a Marzo 1945 è stato ricoverato presso il Festungslazarett di Portolago per aver contratto una “Epidemie Gelbsuch” probabile ittero epidemico (Epatite A). A pagina 21 del soldbuch, firmato dal Leutnant Ingegnere Ringena, troviamo l’assegnazione alla batteria “San Giorgio” di Scumbarda e, cosa insolita, impressa nella pagina stessa l’impronta di un fiore conservato all’interno, probabilmente per un lungo periodo di tempo (periodo di permanenza a Leros?). Il fiore sembrerebbe una Moraea sisyrinchium (L.) Ker Gawl una pianta bulbosa della famiglia delle Iridacee a diffusione prevalente nel bacino del mediterraneo e nelle isole dell’Egeo, di aspetto suggestivo con prevalente fioritura da marzo a maggio. Al termine della guerra, con l’insediamento degli inglesi nell’isola di Leros, è stato trasferito nel campo di prigionia 383 di cui non conosciamo la sede. È ritornato a Vienna definitivamente a dicembre del 1946.
Conclusioni e significato della pubblicazione
Il Solbuch presentato è una testimonianza della permanenza del marinaio tedesco a Leros e del suo servizio presso la batteria “San Giorgio” di Scumbarda e del ricovero presso l’Ospedale militare di Portolago. E’ pertanto un contributo storico agli avvenimenti relativi alla battaglia di Leros dove le forze in campo italiane, al termine della battaglia di Leros, furono sostituite da truppe di presidio tedesche fino alla fine della seconda guerra mondiale.
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Bibliografia
Panitsa M., Tzaniudakis D., «Floristic diversity in small islands and islets: Leros islets group» in Phytologia Balcanica 16(2), pp. 271-284, 2010.
Scapini, A. Gorzanelli, A., Wehrpaß e Soldbuch - Guida allo studio dei documenti tedeschi della Seconda Guerra Mondiale, 2012.
Tesapsides B., Die Kriegsmarine in der Ägäis im II. WK 1941 – 1944. Schiffe, Einheiten, Fp.Nr., Offiziere, Gefechte, 2008.
Sitografia
Lexikon-der-wehrmacht: https://www.lexikon-der-wehrmacht Feldpost Numbers of World War II: https://www.germanstamps.net/feldpost-number-database/ Leros Military History: https://lerosmilitaryhistory.com
[E. D. giovane apprendista falegname di Vienna, ha ricevuto il soldbuch a Novembre del 1941 all’età di diciassette anni entrando nella 2. Kompanie della Schiffs-StammAbteilung precisamente nella scuola di addestramento della Marina Imperiale presso la Chassé kazerne di Breda]
Il Brigadiere (RRCC) Moscatelli a Lero, 1938 – 1943
Giuseppe Moscatelli
In April 1943 my father, Gennaro Moscatelli, returned to Italy, leaving from the Tatoi airport, as he was promoted to ordinary marshal of the Royal Carabinieri and assigned to a station in the province of Padua. My mother had already returned on 10.6.1940, at the outbreak of war, with the ship Oceania. He had spent 6 years in Leros. He had arrived there on 3.3.1938 at the Autonomous Group CC.RR. of Rhodes, with the rank of deputy sergeant and assigned to the permanent post of S.Giorgio-Portolago.
Upon his death, among his documents which he jealously guarded, there were several photo albums that retraced the time spent in the Carabinieri. One of these concerned his time spent in Leros. These photos testified to the daily life of his service. There are few photos related to the war. This is the memory I have of my father and of all the people depicted in the photos of Leros, which has remained in the heart and in the memory of those who have stayed there.
Nell’aprile 1943, mio padre, Gennaro Moscatelli, rientrava in Italia, partendo dall’aeroporto di Tatoi, in quanto promosso maresciallo ordinario dei Carabinieri Reali, ed assegnato ad una stazione in provincia di Padova, mia madre era già rientrata il 10.6.1940, allo scoppio della guerra, con la nave Oceania. Aveva trascorso 6 anni a Lero. Vi era giunto il 3.3.1938 presso il Gruppo Autonomo CC.RR. di Rodi, con il grado di vice brigadiere ed assegnato al posto fisso di S. Giorgio-Portolago, sede di una importante base navale italiana. Negli anni successivi della sua carriera militare, durata 40 anni e terminata nel 1968, pochissime volte ha accennato al periodo trascorso a Lero.
Alla sua morte, tra i suoi documenti, che custodiva gelosamente, vi erano diversi album di foto che ripercorrevano il tempo trascorso nell’Arma.
Uno di questi riguardava il suo periodo passato a Lero. Foto che testimoniavano la quotidianità del suo servizio: le giornate trascorse
con i commilitoni, i servizi alle feste locali e militari, i servizi temporanei nelle stazioni CC. svolti a Patmo, Calino, Stampalia e Coo, i servizi per l’arrivo di personalità. Poche le foto che riguardavano la guerra (che a Lero si percepì solamente nel 1941 con un bombardamento inglese, e poi fu calma sino al settembre 1943)
Tutto questo per me, dimostra che il periodo trascorso da mio padre a Lero, era scandito da una vita, sia pur in un periodo anche di guerra, incentrata nella cordialità con i nativi e militari; senso del dovere, spirito che ha sempre contraddistinto l’Arma dei Carabinieri nello svolgere i propri compiti e ha fatto in modo che l’Arma fosse amata e rispettata dalla gente sia nel periodo di pace sia in quello di guerra. Voglio altresì ricordare i militari (carabinieri, marinai, soldati, avieri e finanzieri) che dopo l’8 settembre morirono o furono deportati e non poterono riabbracciare i propri cari.
Questo è il ricordo che ho di mio padre e tutte le persone raffigurate nelle foto di Lero di quel periodo, degli edifici costruiti dall’Italia in quest’isola dimenticata, lontana dalle brutture che attorno a lei si svolgevano, e rimasta nel cuore e nel ricordo di chi vi ha soggiornato.
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[Il brigadiere Moscatelli accanto ad un taxi a Portolago; sullo sfondo il cineteatro Roma e gli esercizi commerciali sul lungomare]
[Il brigadiere Moscatelli adavanti alla Caserma dei Carabinieri Reali]
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[Una bomba inesplosa dopo un bombardamento della RAF nel settembre '41 viene fatta brillare a mare a Portolago e la descrizione autografa riportata sul retro della foto]
[ Il cratere di una bomba esplosa sulla strada di fronte il cineteatro Roma ed i segni sull'intonaco lasciati dalle schegge]
[ Un altro cratere di bomba esplosa sulla strada di fronte il blocco degli edifici commerciali sul lungomare, poco oltre la precedente. Si possono notare i segni delle schegge sull'intonaco e le saracinesche divelte dallo spostamento d'aria dell'esplosione]
The writer Dimitris Kostopoulos gives us a sneak peak of his latest book “The Chalk”, with “Alexandria” as publisher, in which the image of a wrecked island whose state is to be blamed by the Battle of Leros, is portrayed. The Lerian businessman of Alexandria, Dimitri Aggelov , in specific, arrives on the island after the great battle, together with the then royals, as a representative of the Greeks of Egypt. He finds his family home in a critical condition “Broken window glasses, cracked kitchen wall and a wooden ceiling suffering great water damage”. The book gives a vivid description of the gloomy financial status of the locals, caused by the destruction of the island's production network. Poverty and hunger around every corner, with looting located inside the Italian military structures, being the only economic activity throughout the whole island. Humans and houses become one in the form of ruins looking as if they had just emerged from a Munk painting. In fact, Aggelov even mobilized the Lerian community in Alexandria and 100 tons of food for help were sent.
[ Nelle due immagini: Distribuzione rancio nel corso di una esercitazione alla batteria PL 262 di M. Scumbarda (identificazione; H.P.Eisenbach, fonte: Archivio Centrale dello Stato]
Finito di stampare in Atene nel mese di settembre 2023 con i tipi della ETPbooks