AINAS N° 7_06.19

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aínas N°7 . 09/2019



This is my letter to the World That never wrote to Me The simple News that Nature told With tender Majesty Her Message is committed To Hands I cannot see For love of Her - Sweet - countrymen Judge tenderly - of Me

(Emily Dickinson)

Questa è la mia lettera al Mondo che a Me non ha mai scritto La semplice Notizia da Natura Detta con tenera Maestà Il suo Messaggio è dato a Mani ch'io non posso vedere Per amor Suo - Dolci - concittadini Giudicate teneramente - Me

(Traduzione Giovanni Bernuzzi)


aínas W W W . A I N A S M A G A Z I N E . C O M

Secondo anno AÍNAS Nº7 . 09/2019 WWW.AINASMAGAZINE.COM INFO@AINASMAGAZINE.COM Direttore Roberto Cossu Condirettore Giorgio Giorgetti Direttore artistico, direttore editoriale Bianca Laura Petretto Grafica Gabriele Congia Informatico Michelangelo Melis In copertina la fotografia dell’opera è di Evelyne Galinski: Taoo, 2014, photo d’enfumage. Scultura terracotta Le opere delle sezioni sono di Lena Peres, Serie Fotogravures © Lena Peres . La poesia è tratta da: Giovanni Bernuzzi, Tramontata è la luna. Traduzioni poetiche da Saffo al Novecento, Happy Hour Edizioni © Aínas 2019 La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge. is aínas faint is fainas . gli strumenti fanno le opere Secondo anno AÍNAS nº7 © 09/2019, reg. n° 31/01 Tribunale di Cagliari del 19 09 2001, periodico di informazione trimestrale, cartaceo e telematico. Iscrizione n° 372004 al Registro della stampa periodica Regione Sardegna, L.R. 3 luglio 1998, n° 22, ART. 21. ISSN 2611-5271 Editore Bianca Laura Petretto, Cagliari, Quartu Sant’Elena, viale Marco Polo n. 4 Direttore responsabile Roberto Cossu

B&BArt MuseodiArte contemporanea

Un ringraziamento speciale a Guido Festa Progettazione e costruzione di “GLOVE BOXES” e prototipi per la ricerca farmaceutica e nucleare www.euralpha.it

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www.bbartcontemporanea.it info@bbartcontemporanea.com

info@quintaclasse.it


AINAS MAGAZINE

AÍNAS Nº7 4

editorial .

tempo di restauri . roberto cossu

chapter I . the special

7

8 faire la vision . bianca laura petretto 9 milena arango . evelyne galinsky 32 matrix la scelta . maria bonomi 33 lena peres

43

chapter II . the new code

44 identità ibrida . alecsandra matias 45 alex flemming

55

chapter III . portraits

56 in su mesu ‘e su mesu . paolo fresu 62 linea libera 63 osvaldo e sergio cavandoli 66 gianni e dandy massa

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chapter IV . crossing

70 spuntino a ulcinj . luca foschi 72 the indian treasure . gianfranco mura

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chapter V . news 80 il mimo e l’intruso . 81 liu bolin

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chapter VI . pataatap 86 christian tagliavini

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chapter VII . swallow

94 monelli tra i fornelli . giorgio giorgetti

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EDITORIAL

aínas TEMPO DI RESTAURI

In questo squarcio del terzo millennio piovono sulla Terra notizie talvolta stravaganti. Con due insolite peculiarità: non hanno bisogno di commenti e riguardano (in un modo o nell’altro) l’ambiente. Poco meno di duecento società americane (perlopiù multinazionali) ammettono che effettivamente negli ultimi decenni (o qualcosa di più) hanno esagerato nel privilegiare i profitti e da ora in poi punteranno su un’economia più umana. Green economy in salsa da definire, per i dipendenti e, va da sé, per tutti. Nel frattempo il presidente americano Donald Trump ha dichiarato che vuole comprare la Groenlandia e già si è vista la sagoma immaginaria di una nuova tower nel mezzo dei ghiacci che si stanno sciogliendo a velocità vertiginosa. Per la cronaca, la Danimarca ha risposto che la Groenlandia non è in vendita e, dettaglio non banale, ha una precisa autonomia governativa. Don si è irritato e ha cancellato la visita ufficiale già in programma a Copenaghen. Nel frattempo gli Usa, ancora loro, hanno lanciato un missile dalla base di San Nicolas in California. Esperimento nucleare, test a medio raggio. Russia e Cina hanno protestato, ma senza insistere troppo, accennando al fatto che potrebbe aprirsi una nuova stagione di competizione e (inevitabile) rischio. Nel frattempo, proprio in Russia, a Severodvinsk, un altro test nucleare è finito male: qualcuno è morto, il livello di radiazioni è salito, secondo alcune fonti il disastro è peggiore di quello di Chernobyl. Dal governo russo sono filtrate poche notizie che vorrebbero essere incoraggianti. E l’Amazzonia? Brucia. Prima di tutto questo, nell’isola norvegese di Sommarøy, gli abitanti hanno deciso di abolire gli orologi. Per riprendersi il tempo e viverlo decentemente. Con meno ansia, con più calore. In realtà, è emerso poi, la notizia era una trappola turistica, ma non del tutto falsa: rivedere la nozione del tempo è un antico pallino degli abitanti di Sommarøy. Forse non è una coincidenza che la Norvegia non sia troppo lontana dalla Groenlandia (e dalla Russia). E nemmeno il fatto che qualche scintilla radioattiva dal fungo di Severodvinsk abbia lambito la Norvegia. C’è un nesso fra tutte queste notizie, che non sono solo stravaganti? Il pianeta Terra è un’opera d’arte, di autore ignoto. A sentire le novità, sembra che abbia bisogno di restauri. Il punto è che non si capisce chi, cosa e perché restauri. Pare che non tutti gli esperti del ramo siano animati dalle stesse intenzioni. E che alcuni orologi funzionino fin troppo bene. Roberto Cossu

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VESTIGIUM TECTONA GRANDIS - VTG - ROSE . Ph. Milena Arango, Jupiter, Florida, US 2019

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SERIE FOTOGRAVURES © Lena Peres 2019


I the special

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SPECIAL

faire la vision

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MILENA ARANGO . EVELYNE GALINSKI Sicuramente il fare è un elemento che accomuna le artiste Milena Arango e Evelyne Galinski. Sanno entrambe usare le mani per dipingere, per scolpire, per plasmare ma soprattutto le accomuna la visione. Entrambe creano forme dinamiche e hanno un progetto artistico. Se da un lato Milena parte dalla tela per cimentarsi con la dimensione e lo spazio dell’opera che è trasportabile e si estende, si snoda, si mimetizza e si evolve nei luoghi dove transita l’artista o dove la stessa opera sceglie di vivere, sia essa metropoli, foresta, mare o montagna, dall’altro lato Evelyne plasma la terra per creare corpi nascenti, fermati prima di esistere. Sono messaggeri contemporanei che attraverso gli occhi chiusi trasmettono bellezza, la memoria arcaica degli avi, tracciano il solco tra il respiro vitale e l’attimo che precede la morte. Sono forme sfiorite e la creta si fa petalo che dischiude la crisalide di una esistenza. Sono forme luminescenti, vibrano e risuonano per riflettere la scintilla universale che fa nascere il corpo dell’umanità. Arango e Galinski usano la tela, la terra e compiono il processo alchemico di trasformazione in opera d’arte. Forti dell’azione di Duchamp creano una economia ingenua del desiderio. Ma ancor di più guardano all’effetto specchio di Jeff Koons per riflettere l’immagine della gente, degli uomini, delle donne, dei bambini, di quelle realtà quotidiane da cui non possiamo separarci. Siamo noi riflessi nella tela di Milena Arango, con le nostre viscere, il nostro sangue, il dolore, l’attaccamento, il silenzio e siamo ancora noi negli occhi chiusi dei corpi di Evelyne Galinski, luoghi senza nome dove vivono il mito e la realtà e nelle pieghe della creta emerge il viso con un risvolto simile alla tela. Quella che Duchamp chiamava “la bellezza dell’indifferenza” sta stretta alle due artiste che con tenerezza e forza guardano al mondo rifugiandosi nelle proprie viscere o nella possibile luminescenza dell’anima. Non riescono a accettare il banale e l’inutile come nuovi valori del desiderio e attraversano il distacco dalle cose con il bisogno di sentire fisicamente il dolore della ferita, il rumore del silenzio, di rifugiarsi nella magia dell’arcano o nell’abbraccio della madre. Hanno bisogno della visione dell’arte, dello sguardo antico eppure contemporaneo per riconoscersi tra la gente. Entrambe hanno bisogno di un luogo dell’intimità dove vivere il privilegio di riconciliare l’arte con le persone. Bianca Laura Petretto

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SPECIAL

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◀ VESTIGIUM TECTONA

GRANDIS - VTG - SNAKE Ph. Milena Arango Jupiter, Florida, US 2019

VESTIGIUM TECTONA GRANDIS - VTG - LA PESCA Ph. Milena Arango Juno Pier, Florida, US 2019

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SPECIAL

VTG . Vestigium Tectona Grandis Vestigium Tectona Grandis es el proyecto que estoy desarrollando hace 3 años. VTG, fue hecha con el pigmento del árbol Tectona Grandis. V representa el vestigium (vestigio) la huella de la planta, el vientre, las venas, la venus, versatil. La T es de Tectona, el nombre cientifico del árbol, transformación, transición, tiempo, traslado. G de Grandis (Tectona Grandis). De García (mi apellido materno) gracias, gratitud. VTG nace a partir de un llamado biológico, mi cuerpo necesitaba mi atención. En el 2014 estuve en una residencia de arte en la India en donde había aprendido una técnica que me había impactado mucho y quería ver como la podía conectar con mi obra. Trabaje con muchas plantas y descubrí que el pigmento de la Teca me daría la tonalidad que estaba buscando. Viaje a La Pintada, Antioquia a un cultivo de Teca, detrás de un purpura intestinal. Necesitaba representar el color de mi vientre que era el único color que veían mis ojos en ese momento. Sobre una tela (Dacron) de 60 metros x 150cm realizaría mi obra. VTG, es mi cordón umbilical con mi madre, mi lenguaje con el universo mi relación con la tierra. Es la respuesta a un llamado de mi cuerpo. Una alerta a unos cambios que vendrían. Viajo con VTG a donde voy, la guardo en el baúl del carro y siempre busco diferentes espacios, dependiendo lo que quiera representar. Es una obra que te exige un trato continuo pero a cambio, ella te da todo. Por lo general busco espacios generosos, con amplitud visual, por sus grandes dimensiones. Es dinámica y se deja trabajar muy bien, pero debes conocerla y tratarla con mucho cuidado. Ella tiene personalidad. A veces se revela. Es una pieza que requiere trabajarla en un estado meditativo y en buenas condiciones físicas por su gran tamaño. Interactuar con ella es una obligación, de esta manera puedes obtener lo mejor de VTG. Te permite retornar al cordón umbilical; volver a ser niño; jugar, transformar y crear. VTG es mi parque de diversiones. Milena Arango

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SPECIAL

◀ VESTIGIUM TECTONA GRANDIS - VTG - THE WOODS WITH IN (ME) Ph. Beatriz Arango La Pintada, Antioquia, Colombia 2017

VESTIGIUM TECTONA GRANDIS - VTG SOMEONE IS WATCHING US Ph. Milena Arango Lake Tahoe, California, US 2019

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VESTIGIUM TECTONA GRANDIS - VTG FOLLOW THE PATH Ph. Beatriz Arango La Pintada, Antioquia, Colombia 2017

VESTIGIUM TECTONA GRANDIS - VTG REVELACIONES Ph. Milena Arango Bogotà, Colombia 2017


SPECIAL

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◀ VESTIGIUM TECTONA GRANDIS - VTG STAND BY ME Ph. Milena Arango Juno Pier, Florida, US 2019

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SPECIAL

ÂNH Evelyne Galinski Scultura terracotta, “photo d’enfumage” 29 cm h., 2014

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SPECIAL

Mes personnages naissent d’une mémoire personnelle inconsciente et profonde. Il me semble qu’ils peuvent également émmerger d’une mémoire collective. Ils ne racontent pas le corps humain, mais un rêve d’humanité. Ils brouillent les pistes... Ils invitent à perdre les repères du temps, ceux du féminin/masculin, enfant /adulte, vivant ou mort. Ils incitent à laisser tomber toute forme de référence et à retrouver un regard semblable à celui de l’enfant. Evelyne Galinski

◀ QUÔ

Evelyne Galinski Scultura terracotta, 59 cm h., 2014

JÄN Evelyne Galinski Scultura terracotta, 38 cm h., 2014

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SPECIAL

MADOO Evelyne Galinski Scultura terracotta, “photo d’enfumage” 30x47x38 cm, 2014

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SPECIAL

OTO SCULPTS Evelyne Galinski Scultura murale terracotta, 42 cm h., 2015

TAOO Evelyne Galinski Scultura terracotta, “photo d’enfumage” 58 cm h., 2014

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SPECIAL

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TEY - ERA Evelyne Galinski Scultura murale terracotta, 50 cm h., 2011

◀ THANH Evelyne Galinski Scultura terracotta, 58 cm h., 2013


SPECIAL

HOPE © Lena Peres, 2019

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SPECIAL

matrix la scelta

SERIE FOTOGRAVURES © LENA PERES . 2019 Abstract / Figurative Photo Engraving where black and white colours are added or removed materials of construction and composition of the image, as if it is done in a copper plate or wood block or serigraphy supports or forms.

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LENA PERES For more than a decade, Lena Peres has been dedicated to investigating the unconventional possibilities of photography. Her academic training in chemistry has enabled her to expand the envelope of techniques, researching with a scientific mindset and curiosity. A journey fraught with risks, but one she has nonetheless taken up. The result appears in this series, Photogravures, which evinces her interest for ideas and sensations rather than depictions of the world. With this recent, never-before-shown production springing from vital immersions in art, Lena Peres leads the spectator along a path of artistic freedom rarely seen nowadays. The vision of her fascinating proposals is couched in a give and take… her scenes look out at us as though from a mirror. Inverted right to left, up to down, or displaced, their large-scale format allows for their shuffling in unusual but fully structured compositions. Her artistic practice escapes from materiality. Light and darkness are captured as a proof of their own existence, never to define another “natural” presence. Her painstaking search thus continues in her persistent aim to nail down the chance or purposefully generated event. Lena Peres waits in quiet expectation for long hours, to suddenly seize the precise shadow. And then, incredibly, she often discards it, to begin the process anew… In a split second of self-recognition/surprise, she freezes dazzling lights and profound blacknesses as an underlying theme. The true matrix of her photography is the instant of the click: the choice. She remains aloof from the digital solutions magically furnished by the contemporary immediatism. Her uncommon “discoveries” stand in opposition to the current status of communication. She is not content to tread the established paths of mainstream photography, rather, she invents a world that unsettles our mindset, where reality consists in the solidity of the ephemeral. Beyond the threshold of awareness, this is the path that leads to her work’s center of gravity, where backlights burst out from behind dark silhouettes, perhaps of passing beings, or like the flashing of albatross wings made of pure light, a luminous mirage in the void… The views from these windows and this particular building are more than this; her experience belongs to whoever recognizes themselves in this instant of life. There is a strong feeling of loss in her choices. An intense sense of “nevermore” is always hovering in the air, as seen notably in Hope and Steps to Infinity. The dog in movement and the visited forest are references to a condition of transit and continuous transformation, in light of a constantly circling set of fleeting, dematerialized images. When the light fades, a few visual gestures remain, altering the surroundings… the choice. As one among a thousand voices spreading out in every direction, Lena Peres is a pioneer in choosing the throbbing essence of the “things” as a variable presence of light, and only that. Maria Bonomi (translated from the Portuguese by John Norman)

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SPECIAL

Most of the time, my photography follows my obsession with the belief that we are able to create with/from whatever is available and presented by the elements and surroundings at the time you feel the impulse to create. I can overvalue a distant and tiny light hidden in a corner that was almost insignificant to my own sight, and transform it into a protagonist of my image. Or I could imagine that the mountains I see could have, proportionally, less impact than a very tiny flash of light on the snow behind the mountain. Or I can see a line of horizon ahead of that limit and imagine it could be diluted by our finitude. I end up surfing in an elliptical way from what is there and what is me, and make it my own way, as a result of both; often with the form and ways of etching, I live with what’s around me. Lena Peres – 34 –


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SERIE FOTOGRAVURES © Lena Peres 2019

SERIE FOTOGRAVURES © Lena Peres 2019

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SPECIAL

SERIE FOTOGRAVURES © Lena Peres 2019

SERIE FOTOGRAVURES © Lena Peres 2019

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SPECIAL

SERIE FOTOGRAVURES © Lena Peres 2019

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SPECIAL

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◀ STEPS TO INFINITY © Lena Peres, 2019

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SERIE FOTOGRAVURES © Lena Peres 2019

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II the new code


THE NEW CODE

identità ibrida

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ALEX FLEMMING Dividido entre dois grandes centros urbanos São Paulo e Berlim, Alex Flemming (São Paulo, 1954)1 nos desperta para o cotidiano, onde as identidades tendem a se perder. Na cidade atuais, os indivíduos deslocam-se aceleradamente por espaços reais e virtuais que parecem estar sempre no mesmo lugar, sentindo o vazio de não chegar a lugar algum. Em São Paulo, os sentimentos de desraizamento e de pertencimento são complementares. A cidade, considerada a maior da América Latina, é um conglomerado arquitetônico mesclado por pessoas vindas de diversos locais do Brasil e do mundo. Os sentimentos de “em casa” e de “homeless” apresentam-se forte e simultaneamente. As referências entre eu e o outro estão presentes nos retratos de anônimos dispostos pela estação de metrô Sumaré – instalação de Flemming realizada em 1998 – uma obra que marca a diversidade étnica dos brasileiros e que traz trechos de poemas selecionados pelo artista (de Anchieta a Haroldo de Campos/de autores do século XVI aos contemporâneos). Fotografias e poemas compõem um imenso painel de celebração de uma identidade híbrida, impressa em vidro. Intrigado pela “verdade dos olhares nos documentos”, Flemming registra os 44 modelos frontalmente, como nos passaportes ou nas carteiras de identidade. Por segundos, esses desconhecidos (entre eles, a imagem do próprio artista – metáfora do viajante que carrega o mundo dentro de si), ganham destaque silencioso entre os passageiros. De modo diverso da série para a Estação Sumaré e dezoito anos mais tarde, Flemming apresenta a série Biblioteca. Agora, são 16 vidros nos quais funcionários e frequentadores da Biblioteca Municipal Mário de Andrade surgem coloridos por três camadas de tinta superpostas, imprimindo às fotografias um ar de tridimensionalidade, mas, sobretudo, de encantamento. As fotografias vistas internamente ou externamente não apresentam as mesmas cores. O aspecto sisudo da fotografia para o documento de identidade que poderia pairar sobre os registros da estação Sumaré sumiu e deu lugar a cores vivas e alegres. Os excetos literários desapareceram – nada mais óbvio na visão do artista do que colocar literatura na Biblioteca. Flemming não é dado às obviedades. Na histórica Biblioteca Pública Municipal Mário de Andrade, o artista optou por evidenciar a vibração das cores e a energia do humano. Tecnicamente, a série Biblioteca é integrada por 16 vidros laminados com cerca de 2,30 de altura por 1,70 de largura cada um. A partir de 35 voluntários que se apresentaram para os registros fotográficos, foram selecionados oito homens e oito mulheres. Suas fotografias foram realizadas em cinco cores puras, como, o vermelho, azul, amarelo, verde e branco. O processo desenvolvido por Flemming, no chão da fábrica, faz com que a tinta fique dentro do vidro – aqui um detalhe importante, o artista optou por não usar a cor preta. Isso não nos admira, quando observamos o emprego das cores no percurso poético do artista. 1 . Filho do comandante Ary Flemming e da comissária Maria Adelaide de Almeida Prado. Junto com seus irmãos, Ary e Júlio, viveu sua infância em São Paulo e em Miami. A família materna era católica e a paterna era luterana. Em 1970, seus os pais se mudaram para Portugal. Ao voltar para o Brasil, em 1973, engajou-se no movimento estudantil. Em Portugal, Flemming estudou economia e, no Brasil, por imposição do pai, cursou Administração na Faculdade Getúlio Vargas e em seguida, na Fundação Armando Álvares Penteado, fez um curso livre de cinema por dois anos. Também cursou arquitetura na Universidade de São Paulo, não chegando, porém, a completar seus estudos. Sua formação vem do contato direto com artistas, tais como: Cristiano Mascaro e Regina Silveira. A aprendizagem de técnicas com grandes nomes da arte brasileira foi relevante para o desenvolvimento de sua linguagem própria.

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THE NEW CODE

Sem dúvidas, Flemming deu vida nova à fachada da Biblioteca, ou melhor, o artista nos ofertou rostos, biografias e memórias de anônimos que revigoraram o espaço público. Não nos esqueçamos: a imagem do artista também está ali (vendo e sendo visto). Externamente, o colorido das fotografias e os tipos étnicos selecionados quebram a cor cinza soturna dos edifícios do centro da cidade e nos dão a sensação de pertencimento (em algum daqueles rostos percebo minha representação). Construímos nossa imagem na cidade. Internamente, o corredor – antes somente visto como local de passagem – passou a ser espaço de acolhimento, onde os visitantes da biblioteca podem ler, estudar, acessar a internet ou apenas conversar (ver e ser visto pelo outro). Alecsandra Matias de Oliveira

Opere di Alex Flemming Fotografie di Henriquez Luz © da pagina 44 a 51

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SERIE FOTOGRAVURES © Lena Peres 2019

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III portraits


PORTRAITS SPECIAL

in su mesu ‘e su mesu

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32 est unu numeru ‘e mesu. Si ponet tra su 31 - naturale prosecutzione de su primoriale e semiperfettu 30 - ei su 33, palindromu de sa maduridade e de sos annos de Cristu e puru numeru chi issindzat s’incomintzu ei sa fine de sas cosas. 32 est quasi unu numeru ordinale e essende in sa positzione mesana si mustrat tzifra propitzia e importante. Comente su numeru 2 chi faghet de ispartiabbas in sa suddivisione binaria e chi resultat, isse matessi, diciosu e de bona ura1. Si infatti a 1/4 li narant “unu quartu” e 1/3 si narat “unu tertzu” 1/2 est s’unicu a essere jamadu “unu mesu” in cantu “tra duos” comente s’editzione de cust’annu de Time in Jazz e comente un’isula, sa Sardigna, chi est idealmente collocada tra s’Africa ei s’Europa. Una “Terra de mesu” duncas. Comente s’Arda, posta in s’universu immaginariu de J. R. R. Tolkien, chi s’iscrittore britannicu descriet comente <paraula pro indicare su pianeta in ‘ue vivimus, immadzinendelu abbratzadu dai s’oceanu>. S’isula, si puru tancada dai su Mediterraneu, divenit duncas s’oceanu cuntemporaneu de sas migratziones noas de sos annos Duamidza e si faghet treatu ‘iu de sas tematigas ligadas a sos viadzos de s’isperantzia chi, dae sas ribbas de su Nord de s’Africa, movent dzentes in diretzione de su Sud de s’Europa. Est propriu in custu essere “in mesu” numericamente e geograficamente chi andat ledzida custa editzione de su Festival internatzionale Time in Jazz. Una manifestatzione istorica chi isperiat e ascultat dende attentzione a sas migratziones sonoras e culturales de custos annos isterridas tra passadu e presente, sonos acusticos e elettronica, mainstream e chilca cun, in pius, trasformatziones in caminu e convulsiones sotzio-politigas. Sempre pius retzepimus sa responsabbilidade de devere rebbaire su rolu tzentrale de s’istoria musicale italiana in sinu a su pius estesu limbadzu de su jazz chi naigat in atterettantos mares e oceanos dai chentu annos. Ma cale est su nessu tra Casadei ei su jazz? Oppuru tra Ornella Vanoni e Chet Baker? Oppuru ancora tra Gegè Munari e Nils Petter Molvær? L’iscoberimus como, posca de aere sighidu sos tantos eventos de su riccu cartellone de una editzione ‘e mesu chi traghettat Time in Jazz a unu ‘enidore marcadu no solu dae sos numeros, apparentemente frittos e matematicos, ma dae sa pius calda poesia e emotzione de sa musica afro-americana e populare. Si cherimus offerrere una risposta a sas preguntas nostras custas nos diant jughere, manu a manu, a logos misteriosos de s’arte ‘ue totu incomintzad e totu si concluit. In su buscare una collocatzione istorica, sotziale e antropologica - oltres che musicale - custa si diat ponnere tra su salpu ei s’approdu de una nae in viadzu, cun sa medzana irvoligada e aisettende su ‘entu gregu. Paolo Fresu 1 . Sas cosas bonas benint a coppias . Dicciu cinesu

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PORTRAITS

Paolo Fresu, Time Jazz, Sardegna . Fotografia di Bianca Laura Petretto © 2019

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PORTRAITS

Paolo Fresu, Time Jazz, Sardegna . Fotografia di Bianca Laura Petretto © 2019

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32 è un numero di mezzo. Si colloca tra il 31 - naturale prosecuzione del primordiale e semiperfetto 30 - e il 33, palindromo della maturità e degli anni di Cristo oltre che numero che indica l’inizio e la fine delle cose. 32 è quasi un numero ordinale e nella sua posizione mezzana appare cifra propizia e importante. Come il numero 2 che funge da spartiacque nella suddivisione binaria e che risulta, anch’esso, fortunato e di buon auspicio1. Se infatti 1/4 si dice “un quarto” e 1/3 si dice “un terzo” 1/2 è l’unico ad essere chiamato “un mezzo” in quanto “tra due” come l’edizione di questo anno di Time in Jazz e come una isola, la Sardegna, che sta idealmente tra l’Africa e l’Europa. Una “Terra di mezzo” dunque. Come l’Arda, posta nell’universo immaginario di J. R. R. Tolkien, che lo scrittore britannico descrive come <termine per indicare il pianeta in cui viviamo, immaginato circondato dall’oceano>. L’isola, pur recinta dal Mediterraneo, diviene l’oceano contemporaneo delle nuove migrazioni degli anni Duemila e si fa teatro vivo delle tematiche legate ai viaggi della speranza che dalle sponde del Nord Africa muovono genti verso il sud dell’Europa. E’ in questo essere “nel mezzo” numericamente e geograficamente che va letta questa edizione del Festival internazionale Time in Jazz. Una manifestazione storica che osserva e che ascolta porgendo attenzione alle migrazioni sonore e culturali di questi anni tese tra passato e presente, suoni acustici ed elettronica, mainstream e ricerca oltre che trasformazioni in essere e violente convulsioni socio-politiche. Sempre più sentiamo la responsabilità di dover ribadire il ruolo centrale della storia musicale italiana da innestare nel più vasto linguaggio del jazz che naviga in altrettanti mari e oceani da cento anni a questa parte. Ma quale è il nesso tra Casadei e il jazz? Oppure tra Ornella Vanoni e Chet Baker? Oppure ancora tra Gegè Munari e Nils Petter Molvær? Lo scopriamo dopo aver seguito i tanti eventi del ricco cartellone di un’edizione di mezzo che traghetta Time in Jazz verso un futuro marcato non solo dai numeri, apparentemente freddi e matematici, ma dalla più calda poesia ed emozione della musica afro-americana e popolare. Dovessimo offrire una risposta alle nostre istanze queste ci porterebbero per mano verso i luoghi misteriosi dell’arte dove tutto inizia e tutto si conclude. Dovessimo altresì trovare una collocazione storica, sociale e antropologica - oltre che musicale questa si localizzerebbe tra il salpo e l’approdo di un veliero in viaggio, con la mezzana spiegata in attesa di grecale. Paolo Fresu

1 . Le cose buone arrivano a coppie . Detto cinese

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PORTRAITS

linea libera

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OSVALDO E SERGIO CAVANDOLI Era un tipo in perpetuo cammino. Si mangiava la riga diventando vagamente umano. La bocca dispiegata, parlottava, brontolava, si arrabbiava. Diceva cose poco comprensibili, una sorta di gramelot. Il papà, Osvaldo Cavandoli, un nome vero non glielo aveva dato. Così bastava “La Linea”. E molto conoscevano più facilmente l’azienda per cui camminava allora, Lagostina. Quella delle pentole. Di strada ne fece molta, più fuori che dentro l’Italia. Anni Settanta, quel periodo di belle speranze ed economia spavalda. Lei, la Linea, era essenziale, non entrava nei dibattiti, ma si capiva che ce l’aveva un po’ con tutti. Era suscettibile e irascibile. Con qualche virtù, per esempio avere scoperto - almeno graficamente - l’infinito. A suo modo era disobbediente. Ma a cosa disobbediva? Beh, nel mondo c’era sempre qualcosa per cui prendersela, anche oltre gli ostacoli che la matita gli metteva davanti. A pensarci bene, la Linea potrebbe continuare a camminare e inciampare ancora oggi, e non troverebbe un paesaggio molto diverso. Forse scoprirebbe solo qualche numero cambiato. Il mondo invadeva la marcia di quel tipo strano con una mano sbucata dal margine. Quella di Cavandoli. E anche del figlio. Perché Cavandoli padre - ha raccontato Sergio - amava stare con la gente e talvolta si prendeva delle pause, giù al bar con gli amici. Ma evidentemente la Linea aveva fretta e la mano del figlio, ogni tanto, sostituiva quella del padre. Ecco, altro tratto contemporaneo, anche la Linea amava la velocità. Il movimento perenne. Però forse era un’altra cosa. E’ un buon consiglio rivedere l’omino che cammina. Il figlio si impegna a mantenerne il ricordo, anche perché non se ne trovano tante di idee veramente geniali. E il confine tra artigianato e arte Cavandoli poteva comodamente superarlo. Così anche Sergio, che lavora ugualmente sull’immagine (fotografia, in particolare), a modo suo disubbidisce: reagisce al potere oscurante del tempo. E quando parla del famoso studio di via Prina, a Milano, rammenta l’aria da favola: luci, colori, pupazzi, macchinette. Il paese dei balocchi. Perché Osvaldo non aveva creato solo la linea. C’era bellezza, insomma.

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PORTRAITS

Fotoritratto con Sergio Cavandoli e La Linea di Simona Lanzi. Elaborazione fotografica e grafica di Sergio Cavandoli, 2017, pagina 63 Osvaldo Cavandoli nel suo Studio crea il personaggio La Linea. Fotografie di Sergio Cavandoli, 1978, pagine 64 e 65

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AINAS MAGAZINE

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PORTRAITS

GIANNI E DANDY MASSA Figli che ricordano, che vogliono ricordare. Servirebbe un’enciclopedia per riunirli. E tanto meglio se quelli da ricordare disobbedivano, in un modo o nell’altro. Di poesia e di pratica, di idee e di azioni. Per esempio, in Sardegna, segnaliamo Dandy Massa. Il figlio di Gianni. Non evoca remoti scenari internazionali, Gianni Massa, professione giornalista, eppure vale una voce incancellabile, non meno ruggente di quella dell’americano “The Post” celebrata al cinema da Spielberg. Erano ancora gli anni Settanta, periodo di giornalismo diffuso, forte e talvolta ruspante (erano nate le radio e tv private). Gianni dirigeva l’Agenzia Italia e nel giornalismo sardo era una figura forte. Non si limitava a smistare notizie. Partecipava, come un torrente. Cercava il confronto ed era ricercatissimo dove si faceva il confronto. Un giorno finì in carcere e non gli risparmiarono le manette. Motivo? Si era rifiutato di rivelare ai magistrati una fonte di notizie sul caso Manuella, la vicenda più oscura della storia recente di Cagliari. Allora sul fronte della stampa non c’era il segreto professionale, arrivò un anno dopo grazie soprattutto a Gianni Massa. Subito dopo l’arresto montò la protesta in tutto il paese. Dandy era a casa. Fra le tante telefonate di sostegno ricevette quella di Sandro Pertini. Che disse: “Ha fatto la cosa giusta”. Non finirà mai la lite fra giustizia e legalità, ma fa piacere quando personaggi indiscutibili si schierano schiettamente da una parte. E per una volta Gianni ammanettò le due contendenti. Dandy ha ricordato il padre qualche settimana fa, a un festival (neanche a dirlo) sulla disobbedienza. Ha parlato di coraggio, com’è naturale. E di bellezza. Quella che si può trovare in una sola parola, magari in un semplice “no”. La bellezza delle cose e degli atti, che cammina sempre, anche se non salverà il mondo. R.C. Anni 70. La Legge non prevedeva il segreto professionale per i giornalisti. Gianni Massa si rifiutò di fornire il nome del suo informatore. Il giudice lo fece arrestare. Uscì dal Palazzo di Giustizia scortato da due poliziotti. Con i ferri di campagna (le catene ai polsi) lo condussero in carcere. A casa un gran movimento, verso le ventuno squillò il telefono. Corsi a rispondere e dall’altro capo parlai con il Presidente Sandro Pertini che mi disse: “Tuo padre ha fatto la cosa giusta”. Quella notte, mio padre fu liberato. Un anno dopo, nel 1981, la Corte Costituzionale pronunciò una sentenza storica per il nostro Paese. Modificò gli articoli 348, 351 e 372 del Codice di Procedura Penale riconoscendo l’Istituto del segreto professionale per i giornalisti.

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Papà mi portava ogni giorno nel suo ufficio. L’Agenzia Giornalistica Italia in corso Vittorio Emanuele 400 a Cagliari. Un luogo, quello della redazione, che per un ragazzino come me era un mondo parallelo dove ho imparato a utilizzare la macchina da scrivere. Ma soprattutto, tra l’odore della carta e il rumore delle telescriventi, attraverso senza accorgermene, un pezzo di storia, della mia città. Una storia, quella degli anni 70, fatta di personaggi: politici, avvocati, magistrati, informatori, sindacalisti, preti, professionisti, minatori, ricetrasmittenti e forze dell’ordine. Apprendo la difesa dei diritti dei più deboli, il non piegarsi alle richieste del potente di turno, l’equidistanza, la dignità della professione, la passione per il lavoro. Di mio padre risuonano ancora le sue parole: “se credi in quello che fai, i sogni, talvolta, si avverano”. Entrambi ci abbiamo provato. Un giornalista e un ingegnere, uomini liberi. Dandy Massa Le fotografie a pagina 67 sono gentilmente concesse da Dandy Massa

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SERIE FOTOGRAVURES © Lena Peres 2019


IV crossing


CROSSING

spuntino a ulcinj SPECIAL

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Curvo sull’acqua, l’uomo è un airone o una minuscola eclissi. Il sole opaco sospeso a pochi metri dall’orizzonte dello stagno concede alle sponde la sua metà d’ombra, lo distingue appena dal profilo digradante dei monti. Dritto e di ritorno passa sulla geografia di alghe in superficie. L’acqua diventa poi un riflesso d’acciaio nuovo. Metro dopo metro lentamente accresce la figura, aliena dall’indistinto le braccia ciondolanti, piccone e martello. Ancora infilato nella tuta gocciolante, estrae dall’automobile un fagotto. Sono enormi e spaccate come terra secca le mani che spalmano sul pane la crema di carne povera o di formaggio, che offrono intorno. “Faccio uno spuntino. Solo? Siamo cinque nel turno di oggi. Non so dove siano gli altri. Non avevano voglia di lavorare”. Pur non ricevendo lo stipendio da mesi Borim è fortunato. Pochi ex operai delle saline di Ulcinj hanno trovato impiego come guardiani o manutentori delle terre d’acqua. Monarchia o comunismo, per novanta anni le saline hanno garantito lavoro a centinaia di persone. Nel 2005 la compagnia Bajo Sekulic è stata privatizzata, e le azioni cedute a Eurofond, fondo che nulla ha investito nella produzione, arrestatasi completamente nel 2013, quando molte delle pompe che guidavano l’acqua nei canali sono state rubate o distrutte. Due anni prima erano emersi i piani di vendita. Sulle meravigliose zone umide montenegrine sarebbe sorto un resort di lusso, campi da golf, una marina scintillante di ristoranti e negozi. Prezzo suggerito 150 milioni di euro, 180 volte la cifra spesa da Eurofond nel 2005. Proteste diffuse e insistenti hanno bloccato la cessione, costretto lo Stato ad addentrarsi in cavilli di proprietà. Inchieste giornalistiche e associazioni ambientaliste poco hanno impiegato a trovare i fili che legano l’operazione alle massime cariche istituzionali. Bruxelles, dove si valuta la candidatura del Montenegro a Stato membro, ha posto come condizione la rinascita delle saline, fondamentali per preservare l’osmosi di ambiente e lavoro. All’accettazione del governo, nel 2018, non è seguita nessuna azione. Identità e benefici continentali passano anche dalla cura di fenicotteri e pellicani, dei cavalieri d’Italia e delle oltre 250 specie volatili che fanno di Ulcinj la Heathrow del Mediterraneo, il labirinto perfetto per la fragile Empusa pennata, lo pseudopo che guizza nell’acqua e si confonde con le banchine, per le tartarughe, le lontre, i pipistrelli. “Dulcigno” degli illiri e dei romani, dei serbi e dei veneziani, di pirati e ottomani, sospesa fra moschee e chiese che cantano pacifiche al tramonto sul golfo, fra i cementi sovietici e i coralli di salicornia, fra l’epoca delle oligarchie rapaci e la flebile voce della natura. Luca Foschi

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CROSSING

the indian treasure SPECIAL

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Questo “paesino” di 25.000 abitanti non è solo una delle tante splendide spiagge del subcontinente. Gokarn, che secondo una delle psichedeliche leggende prodotte dall’affollato pantheon indù significa “orecchio della mucca”, è molto di più: un antico luogo sacro, uno dei sette in India, abitato prevalentemente da famiglie bramine. Ogni anno viene invaso da più di 50mila pellegrini che arrivano da tutto il paese per la celebrazione religiosa dello Shiva Ratri, sorta di compleanno di Shiva, a metà febbraio. Zigzagando sulla high street di Gokarn tra sacerdoti bianco vestiti e occidentali un po’ troppo svestiti, se si alza la testa per un attimo atto di gran coraggio perché bisogna stare sempre all’erta per schivare mucche, risciò, ciclisti, tombini spalancati e orde di pellegrini euforici - si può scorgere una scritta curiosa, Study Circle. Il cartello è nascosto tra mille altri, fantasiosi esempi di mispelling - vegiterian resturent, suitings and shirtings, jarman bekery, visit against - al secondo piano di uno dei tradizionali edifici in legno che bordano la strada principale della cittadina. Se si è fortunati, cioè se l’atto di coraggio capita in un’ora propizia della giornata ovvero qualsiasi visto che in India gli orari sono spesso aleatori, lo Study Circle sarà aperto. Salendo un’antica scala in legno si entra nel paradiso-incubo di qualsiasi bibliotecario e studioso. Questa biblioteca è una delle più fornite e malconce del Sud India, con un fondo di circa 100.000 volumi in quaranta lingue, 150 diversi commentari alla Bhagavad Gita, testi litografati e su foglie di palma e una collezione di francobolli da tutto il mondo, monete antiche e fotografie. Un autentico museo. Il creatore di questa raccolta, quasi del tutto ricoperta da uno spesso strato di polvere tranne i fortunati volumi conservati in armadietti di legno stracolmi e traballanti, è un ultraottantenne magrissimo, con pochi denti e occhi vispi dietro le spesse lenti degli occhialoni quadrati, che adora parlare con i rari visitatori della sua biblioteca. Perché è davvero un miracolo trovare la biblioteca, e soprattutto trovarla aperta. Poi, una volta fatta amicizia con il suo creatore, tutto diventerà semplice: Sri Ganapati Vedeshwar sarà felice di aprirvi le porte di casa e di mostrarvi i suoi tesori. E’ un collezionista, o meglio un accumulatore. Figlio di una famiglia bramina tra le più rinomate nel villaggio, ha iniziato a raccogliere libri alla tenera età di dieci anni, e data la nascita del suo Study Circle al 1945. Ma come è sopravvissuta la biblioteca agli insetti, ai violentissimi monsoni, al semplice passare del tempo? È un altro miracolo. Ma il miracolo vero e proprio l’hanno fatto due francesi, capitati per caso a Gokarna. L’incontro con Vedeshwar è stato un coup de foudre, uno di quei casi di serendipity che possono cambiarti la vita. E la vita di Daphné Piquet e Elias Tabet, attrice lei e regista di teatro lui, è davvero cambiata. Vivono per buona parte dell’inverno a Gokarna e sono riusciti, animati da grande passione e pazienza, a trovare i fondi per far sopravvivere la biblioteca di Vedeshwar. La lotta al mammut della burocrazia indiana è iniziata con la richiesta di permessi per fondare un’associazione culturale, e poi della licenza per poter costruire una nuova biblioteca su un terreno appartenente allo stesso Vedeshwar. Con l’aiuto di associazioni francesi, governative e non, Piquet e Tabet hanno raccolto fondi per creare un centro culturale in cui trasferire non solo i libri, ma tutti i collectibles di Vedeshwar - dopo averli ripuliti e restaurati, ovviamente. Un centro per accogliere studiosi, traduttori, scrittori, ricercatori ma anche lettori e per lavorare con le scuole locali, per diventare un punto di riferimento culturale con attività di lettura, teatro, danza e cinema. Gianfranco Mura

Fotografie di Gianfranco Mura © Serie Study Circle . Sri Ganapati Vedeshwar, Gokam, India, 2009 - 2019, da pagina 74 a 79

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NEWS

il mimo e l’intruso

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LIU BOLIN L’arte di Liu Bolin è in una parola: “entrare”. Nelle cose, nelle persone, nei relitti, nelle rovine, nei supermercati, nelle celebrazioni. Entrare per restare. Ed “essere”. In sintesi con ciò che è già. La definizione di arte mimetica dice tutto e niente. Liu Bolin, in questi mesi al Moudec di Milano, si infila dove il mondo è oggetto, fatto o sfatto, e lo ingoia. Meglio, si fa ingoiare, bardato di tutto punto, professionalmente travestito, soldatino degli eventi di questo mondo. Si insinua, si spalma, si fa spettro, si incista. Tende a scomparire, insomma, senza mai farlo definitivamente. Resta lì, nella densità arrogante dell’immagine fotografica, perpetuo avvertimento di ciò che quella cosa era, è e sarà. Sia un tetto crollato, una parata, il Colosseo, un quadro. Perfettamente “integrato”, si può dire, con un termine che oggi solleva più di una inquietudine. Quella stessa inquietudine che ha imposto una rotta precisa all’artista cinese: il confine del mondo dove l’integrazione genera mostri e spegne illusioni che avevamo scambiato per certezze. Ecco allora la monocromia dei corpi, dei migranti, distesi sulle spiagge della Sicilia, una distesa di membra color sabbia confusi nella sabbia. Retorica, direbbe qualcuno, magari facendo confusione con necessità. La fama di Liu Bolin è consacrata. Si può discutere sull’esile confine tra arte e funambolismo, sulla ripetitività di un’idea che alla fine rischia di dissolversi in se stessa. Sul fatto che lo stupore - e le invenzioni di Liu generano stupore - non sono garanzia di durata. Si può convenire che oggi una certa fetta di arte contemporanea campa (e piuttosto bene) sulla scelta di una linea di consumo, possibilmente eclatante, e generatrice appunto di bagliori, effimeri per natura. In poche parole, si può discutere sull’inesorabile rischio dell’incrocio fra moda e arte, ma davanti alle immagini di Liu Bolin, se si osserva per qualcosa di più di un secondo, lo stupore è lentamente sostituito dall’inquietudine. E magari qualcuno può verificare che quel tizio travestito vuole “entrare”, certo, ma rimane estraneo. E’ un intruso. Rischia di sparire davvero. E non nel senso panteistico, profondamente orientale, che permea tutto ciò che fa Liu, ma nel timore che l’essere umano, la sua autentica umanità, tenda a svanire. In fondo, se non si aprono bene gli occhi, la sagoma multiforme di Liu Bolin non si percepisce. E la distrazione, così prossima all’indifferenza, è un diffusissimo bene di consumo del nostro tempo. R.C.

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NEWS

Alas 5 . 2015, opera di Bianca Laura Petretto


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Logo patafisico di © Gigi Rigamonti


VI pataatap


PATAATAP

christian tagliavini SPECIAL

Christian Tagliavini grew up in Italy and Switzerland. His artistic development as a technical and graphic designer shaped his complex relationship with photographic art. His artworks are designed narratives for which he invents components himself: ranging from the interior to the dresses, hats and tiniest ornaments. He considers himself a photographic craftsman using ancient and modern technologies. Tagliavini’s passion for art-historical references is extended to another level by breaking the boundaries of imagination: Fantastical creations become visible in unique, self-made objects. Moreover, the thoroughly application of colors, light and forms establish his value of artistic recognition in the art world.

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AINAS MAGAZINE

DORA DA FULTAGNANO, 2017 © Christian Tagliavini pagina 89

SEQUELE, 2017 © Christian Tagliavini pagina 90

LA MOGLIE DELL’OREFICE, 2017 © Christian Tagliavini pagina 91

BIANCA BARONI DELLA ROCCA, 2017 © Christian Tagliavini pagina 92

RITRATTO DI FANCIULLA, 2017 © Christian Tagliavini pagina 93

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PATAATAP


AINAS MAGAZINE


PATAATAP


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SERIE FOTOGRAVURES © Lena Peres 2019


VII swallow

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SWALLOW

monelli tra i fornelli

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Se infrangi le regole della cucina, sei solo un pessimo cuoco. Perché le leggi celate dietro a una frittata perfetta non si nutrono di creatività e improvvisazione, ma possiedono i principi che muovono i pianeti e illuminano le stelle. La fisica e la chimica non hanno nulla da spartire con l’estro e l’umore: un quadro dall’ispirazione furbetta può anche intortare il critico superficiale, ma nessuno si lascia conquistare da una frittura molliccia. Per troppa gente, la disubbidienza in cucina è mescolare ingredienti a caso e vedere che cosa salta fuori. Nella realtà, non funziona mai in questo modo. E non solo tra pentole e padelle. Non è buttando colori a casaccio su una tela che si crea un quadro. E apostrofarlo “astratto” non lo migliorerà. Ciò che invece funziona è una meditata riscrittura delle vecchie regole, fondando su basi più certe quelle valide e alienando quelle nate dal caso e dall’uso, ma poggiate sulla superstizione. Gli chef più monelli si sono ricreati scienziati per ridiscutere tutto, fuorché sogni e fantasie. Se le leggi naturali non si modificano, solo una conoscenza intima le avrebbero piegate ai sogni. A piatti che fossero sogni. Ferran Adrià, 57 anni, è forse il cuoco più famoso del mondo. Ha cominciato la sua carriera nel 1980, lavando i piatti all’Hotel Playafels a Castelldefels, in Spagna. Cinque anni dopo era chef in quello che sarebbe divenuto il più prestigioso ristorante al mondo, El Bulli a Roses, sulla Costa Brava. Quando sfoglio i suoi quaderni, scopro il desiderio di rimescolare le carte e di cercare giochi nuovi da mettere in tavola. Persino le sue ricette più semplici sono frutto di una disubbidienza di base che s’è fatta metodo e scienza. Fai una granita con il succo di pomodoro fresco, condito con olio d’oliva e origano. Fai un biancomangiare partendo dal latte di mandorla e dall’acqua di mare. Unisci in un bicchiere da cocktail e crei un aperitivo che è un piccolo sogno mediterraneo. Heston Blumenthal ha 53 anni. Non ha seguito nessuna scuola di cucina. È, come il nostro Niko Romito, un cuoco autodidatta. Da quando ha cominciato a bazzicare tra i fornelli, si chiede qual sia la differenza tra gusto e sapore. Sinonimi? No davvero. «Fai questo esperimento» dice. «Prendi un biscotto, tappati il naso con le dita e poi dagli un morso. Mastica sempre tenendo il naso tappato. Che cosa senti? Forse ti accorgi che è dolce, forse che è anche un pochino salato. Ma nient’altro. Questo è il gusto. Ora apri il naso. Improvvisamente la tua bocca avvertirà tantissime altre sensazioni piacevoli, profumi, ricordi… Quello è il sapore». E proprio la ricerca del sapore lo ha condotto, con certosina e spericolata disubbidienza, a tentare abbinamenti inconsueti e sulla carta all’apparenza impossibili: caviale e cioccolato bianco; salmone e liquirizia; kiwi e ostriche; aglio, cioccolato e caffè; banana e prezzemolo; ananas e gorgonzola… Disubbidienza alla tradizione, obbedienza però alla scienza. Perché c’è una spiegazione scientifica a questi accostamenti bizzarri: “se due ingredienti condividono, nei profili aromatici, una o più molecole, possono dar luogo a una combinazione piacevole”. Nella nostra piccola cucina, possiamo disubbidire anche noi? Naturalmente. Ma non gettando a casaccio dei colori su una tela. La miglior trasgressione è riflettere su ciò che sappiamo di cucina e su ciò che ci hanno sempre insegnato, tentando di comprendere se siamo davanti a una superstizione tramandata da secoli, perché si è sempre fatto così, o a qualcosa di vero. Come in ogni altra cosa, la disubbidienza più utile è il dubbio. Giorgio Giorgetti – 95 –



SERIE FOTOGRAVURES © Lena Peres 2019 Finito di stampare nel mese di settembre 2019


ISSN 2611-5271 € 33.00

aínas W W W . A I N A S M A G A Z I N E . C O M


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