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ISSUE Nº3 . 12/2016
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AINAS ISSUE Nº3 . 12/2016 INFO@AINASMAGAZINE.COM Direttore Roberto Cossu Direttore artistico Bianca Laura Petretto Grafica e fotografia Sofía Arango Echeverri Comunicazione Maria Victoria Gomez, Lucía Vaca Foto di copertina e capitoli © sofiaarangoe Copy 2016, Ainas Nº3 La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’Editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge.
Is ainas faint is fainas . gli strumenti fanno le opere AINAS reg. n° 31/01 Tribunale di Cagliari del 19 09 2001, periodico di informazione bimestrale, cartaceo e telematico Iscrizione n° 372004 al Registro della stampa periodica Regione Sardegna, L.R. 3 luglio 1998, n° 22, art. 21. Editore Bianca Laura Petretto Direttore responsabile Roberto Cossu
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ISSUE Nº3 9 CHAPTER 1 . NEWS 10 sangre de perro e i mestieri perduti 14 ci piace multitasking 16 brueghel, il mondo secondo la famiglia 20 hitomi sato, il viaggio della luce
25 CHAPTER 2 . SPECIAL 26 legami di sangue 27 bodyart 34 il corpo dell’arte 40 i pugni di franko 45 CHAPTER 3 . INTERVIEW 46 simposio asiatico
65 CHAPTER 4 . CROSSING 66 cuba bella, dannata e stanca 76 amantes del fin de tarde 77 argentina
86 il fascino del niente
87 sahara 98 orfeo si è voltato 99 da “carnet crudo”
101 CHAPTER 5 . PATAATAP 102 il mondo fluttuante
115 CHAPTER 6 . SWALLOW 116 la velocità dell’ostrica 120 la ricetta . ostrica in centrifugato di mela verde
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EDITORIAL
aínas ISSUE Nº3 IL PESO DEL SILENZIO
C’è un dibattito sottinteso, spesso sotterraneo, ma comunque pressante, nel mondo contemporaneo: quello sul silenzio. Parola dolce, concetto complesso. A cosa serve? Cosa è, dati i nuovi parametri? Perché praticarlo? Dove si trova o si nasconde? E stato assassinato? O si è solo trasformato? È bello, è brutto? E, prima di tutto, perché questo dibattito sembra necessario? Forse perché oggi il silenzio, cioè l’assenza di rumori (nell’accezione più banale), è assediato più che mai: è visto – sentito - come una specie di collante tra una chiacchiera e un’esplosione. Una semplice “frattura” tra zone esponenziali di chiasso. C’è persino il rischio che diventi memoria: il suono ineffabile di una volta contro il volgare suono moderno. E diventando memoria si vesta di sacro. Che acquisti il potere di religione. Una fra le tante. O magari che diventi il gioco dei nuovi snob, la raffinatezza della nicchia. Una forma di ribellione carbonara. L’estremo rifugio. Nel 1952 John Cage compone “4’ 33’’ e dimostra che il silenzio non esiste. Nell’opera nessuno strumento suona, agli spettatori sembra, occhi e orecchie inutilizzati, di assistere al “vuoto”. Non è così. Il silenzio, fa capire Cage, è un mare di suoni. A cominciare dal respiro o dal battito del cuore. L’opera non è una provocazione, ma (fra l’altro) un antidoto alla distrazione. Anche l’ascolto può essere un luogo comune. Il problema è sempre lo stesso, nelle cose del pianeta: il silenzio va vissuto. E basta pensarci un po’ per catalogare mille “situazioni”, centomila meraviglie del silenzio. La notte, forse la più ovvia. Lo sguardo su un quadro, il lavoro dell’artista, la composizione di una poesia. Un riflesso d’amore. Un certo tipo di solitudine. Un campiello veneziano molto lontano da Rialto. Una minacciosa banlieue parigina. Il deserto. La cima di una montagna innevata. Non sono momenti di “collegamento”, di inutile stasi, fra un rumore e un altro. Sono lavoro, creazione, piacere. Sensazioni, emozioni. Proviamo a sfogliare le pagine letterarie e il concetto diventa ancora più chiaro: Poe, Proust, Hugo. Elenchiamo i protagonisti dei loro libri, oltre a quelli più evidenti, e –6–
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troviamo sicuramente ciò che non parla ma dice molto. Bisognerebbe scrivere saggi sul significato del silenzio come traspare dai romanzi di Cormac McCarthy. Bisognerebbe soffermarsi di più sul “silenzio”ostinato di Pynchon o di Salinger. Se c’è un fenomeno assolutamente irriducibile è il silenzio. È l’energia oscura dell’universo. Non a caso regna dove, solo qualche miliardo di anni luce più in là, una stella collassa e diventa un buco nero. Nel dibattito c’è chi dice che ha paura del silenzio. Fino al panico. C’è chi dice che il rumore è società, cioè vita. Relazione, scambio. La parola deve essere detta, e quindi è rumore, e la parola è sempre vita. Non a caso si fa massa dove cresce il brusio. Ed è curioso il paradosso di Internet: il chiasso assoluto nell’involucro del silenzio. Che spesso è proprio horror vacui: se ne ha orrore persino in una sala cinematografica. Sul fronte intellettuale, c’è chi sottolinea che si sta organizzando una retorica del silenzio, mentre il mondo, soprattutto quello che una volta si chiamava terzo mondo, ha bisogno di parlare per progredire. In questa ottica il silenzio è nemico. E per molti aspetti è vero: il silenzio nasconde, impedisce, sottrae, può essere un’arma micidiale. Quello degli Stati, dei regimi, tanto per capirci. Impossibile negarlo. Ma è possibile evitare la retorica ed esaltare un’esperienza più antica dell’uomo. Il punto è che se ne sente la necessità e chi la sente non vuole essere obbligatoriamente un’élite. Solo sperimentare, per il tempo che gli è concesso, un’altra prospettiva di esistenza. Perché il silenzio pesa quanto la leggerezza. Questa rivista, per esempio, ha bisogno di viaggiare dove il silenzio è un semplice abitante. Attorniato da spettatori che non riderebbero di Cage. Roberto Cossu –7–
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NEWS
CHAPTER 1
NEWS
sangre de perro e i mestieri perduti – 10 –
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Un po’ passione un po’ malattia. “Sangre de Perro” ha debuttato a Quito, capitale dell’Ecuador, il 15 settembre 2016 al teatro dell’Università Cattolica per la regia di Jorge Mateus. La scenografia è firmata dall’italiano Gianni Garbati col quale ho condiviso i primi anni di esperienza, sui palcoscenici e nelle piazze italiane, negli anni Settanta. Il teatro non lo puoi fare da solo. Un niente, una suggestione, un’idea, devi condividerla, si sviluppa, ne nascono altre. Sul palcoscenico devi trovare il contatto con altre sensibilità, altri mondi fantastici, altre abilità artigiane, e a volte il contrasto è utile quanto il procedere in armonia. Non è detto che quello che vedrà il pubblico sia rispettoso dell’idea iniziale. Una produzione teatrale è sempre un viaggio, si può arrivare dritti allo scopo oppure perdersi, pensare di non poter arrivare mai più, scoraggiarsi a vicenda perché le insicurezze di ciascuno coinvolgono e disorientano gli altri e le personalità mostrano asperità insospettate quando affrontano difficoltà impreviste, e poi incontrare per sbaglio una nuova indicazione, arricchire il percorso seguendo un sentiero tortuoso, scivoloso ma bellissimo. È un bel momento quando si raggiunge insieme la meta, e per alcuni è la prima entusiasmante esperienza, per altri una conferma di essere ancora in grado di comunicare qualcosa nella civiltà di oggi, pur avendo cominciato la propria attività in un’altra epoca, in un altro secolo addirittura, e in un altro luogo geografico, lontano. Gianni Garbati ha coltivato negli anni l’arte ormai poco richiesta sul mercato di realizzare i fondali per il teatro dipingendoli su tela. E la tela ha bisogno di spazio per diventare una scena, ha bisogno di essere stesa e inchiodata su legno e trattata con strumenti idonei. E poi i colori devono asciugare, c’è da aspettare del tempo, cosa impensabile nel mondo nevrotico che viviamo anche nell’ambiente teatrale. Forse in Ecuador c’è più tempo di realizzazione e più disponibilità nel mettere a disposizione degli artisti spazi di lavoro anche di dimensioni notevoli. Comunicare questo sapere, condividerlo coi giovani che si avvicinano alle arti sceniche è una delle attività preferite da Gianni che ha già tenuto più volte laboratori sull’argomento. È un’arte antica conosciuta da pochi ormai. Gianni ricorda i suoi – 11 –
NEWS
primi anni a Cagliari con la Compagnia Stabile dei mimi. Poi le stagioni liriche al Teatro Massimo, prima come attrezzista, poi macchinista per vivere nella pratica del palcoscenico il mestiere fino allora soltanto sognato di scenografo. Vennero poi le esperienze col teatro di prosa e infine la partenza per Roma, prima per seguire Architettura, poi l’Accademia di Belle Arti. Per approfondire i suoi studi entrò in contatto con la vecchia scenografia Parravicini gestita da Mario Amodio, uno dei due grandi laboratori che realizzavano scenografie in Italia. I laboratori professionali di scenografia allora erano a Milano e a Roma, ma l’alta qualità era a Roma. “Ero innamoratissimo della pittura scenografica”, ricorda Gianni: “La magia che riusciva a ricreare un semplice fondale grazie alle prospettive, i chiaroscuri, i tagli, mi portava a ritrovare nella memoria il teatrino con cui giocavo da piccolo, sentivo che quello era il mio mondo. Per anni abbiamo dipinto facendo le nottate, soprattutto per il teatro dell’opera di Parigi, quello di Roma, e le varie compagnie teatrali e poi la tv: ricordo con entusiasmo, nonostante la stanchezza, i programmi di Pippo Baudo al Teatro delle Vittorie. E non era un lavoro facile, bisognava a volte rubare i segreti ai più bravi, dovevi conquistare la tecnica e non tutti i pittori scenografi avevano piacere di condividere le loro abilità. Oggi quasi nessuno usa più i fondali dipinti, è considerata un’arte da tramandare”. La scenografia per “Sangre de Perro” è stata realizzata col contributo di giovani entusiasti: “È un lavoro che è facile pensare di essere in grado di portare avanti da soli, ma io suggerisco sempre di avere prudenza. Ci sono tanti particolari da tenere presenti prima di lasciare andare la fantasia, ci vuole esperienza, bisogna conoscere la tela di cotone che si usa come base, usare i pennelli giusti, lunghi un metro, il telone si stende per terra, la pittura è ad acqua e non si deve sgretolare quando viene sollevata, e soprattutto l’aspetto particolare è che si dipinge in piedi. Il desiderio di apprendere, la fame di teatro che ho trovato in Ecuador in questi anni in Italia ormai non li trovo più. Definirei “Sangre de Perro”, una esperienza rivitalizzante”. Cristina Maccioni, attrice – 12 –
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SCENOGRAFIA Gianni Garbati
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NEWS
ci piace multitasking
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L’informatica permette di eseguire più programmi contemporaneamente e sembra aver contagiato le donne e gli uomini (alcuni sostengono che le prime siano più portate) in una pratica sempre più diffusa dove la lentezza, l’approccio univoco alle cose vengono banditi. Questo non avviene solamente nei meandri delle aziende iper efficienti, ma è sotto i nostri occhi, nelle nostre case, negli oggetti quotidiani, nelle nostre stanze, tra i cassetti e i pertugi privati. I mobili diventano flessibili e si trasformano: un sistema di sedute, schienali, tavolini, imbottiture formano un monoblocco scomponibile che alla bisogna diviene tutto quello che occorre, letto, salotto, pranzo, isolamento acustico. Design per ogni esigenza, veloce, versatile, vivace. Non solamente linee dinamiche ma colori accesi. Si chiama trend. E l’ultima tendenza è colorata, trasparente e soddisfa molteplici esigenze. Insomma ci piace multitasking, ma in questa ultima parte dell’anno riappare il total black, cuscini fiabeschi, vetri fumé, broccati iridescenti, brume veneziane nel fascino della notte che avanza e svanisce la visione di tutto, rimane il ritmo silenzioso delle cose essenziali e uniche tra le vibrazioni di uno smartphone.
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NEWS
brueghel, il mondo secondo la famiglia – 16 –
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“Sono stato centinaia di volte davanti a ogni quadro di Brueghel, li conosco tutti come le persone che mi sono più care…”, scrive Elias Canetti in “Il frutto del fuoco”. Brueghel come “dono perenne”. Difficile davvero sottrarsi al fascino sinistro e mirabolante della sua “Danza della morte”. E difficile non calarsi sia pure per un attimo nelle sue moltitudini sanguigne, volgari, vive, così vicine a noi, a tutti, nel loro realismo. Si parla naturalmente di Pieter, “il Vecchio”, il geniale. Ma la mostra aperta alla Reggia di Venaria alle porte di Torino fino al 19 febbraio 2017 amplia lo sguardo all’intera famiglia dei Brueghel, unicità assoluta nell’arte di tutti i tempi. Cinque generazioni infaticabili tra il XVI e il XVII secolo, dal Vecchio al giovane Pieter (il pittore degli Inferi) all’altro figlio Jan (il pittore dei Velluti) fino a Jan il Giovane. Un arco di 150 anni che risale fino a un pronipote di Brueghel il Vecchio, Abraham. E attorno alla famiglia altri artisti, come Marten van Cleve, figli a loro volta dell’ispirazione del capostitipite. Oltre cento opere che partono dai “Sette peccati capitali” di Bosch, la gigantesca figura che ha attraversato il 1400 e l’inizio del 1500 come un torrente di fiamme. Non a caso Baudelaire parlava di Brueghel come di “un cafarnao diabolico e grottesco” pensando probabilmente a Hieronymus. C’è sicuramente il grottesco e il diabolico nell’universo artistico della famiglia Brueghel, ma il fascino della mostra è nell’impressionante varietà del “racconto”. Soprattutto quello di una lunga età e, alla fine, del mondo: immagini di esistenza quotidiana, paesaggi invernali, feste contadine, cerimonie sfrenate, nature morte, ricchezza e povertà, miserie fisiche e morali, divertimenti semplici, piaceri innocenti e triviali. La realtà descritta minuziosamente, quasi una cronaca, ma anche una lunga riflessione sulla vita. E un senso profondo e partecipato della morte. Impossibile non fare i conti con gli “scheletri” di Brueghel. Ma sempre, e qui si parla soprattutto del capo della dinastia, una meravigliosa, intrigante ironia. Allargando lo sguardo ai figli e nipoti si colgono i paesaggi, si incontrano la mitologia, la storia. E ancora tracce infernali di Bosch. Un magnifico e inimitato caos. – 17 –
NEWS
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BRUEGHEL IL VECCHIO a detailed view
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hitomi sato, il viaggio della luce – 20 –
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Qualcosa di magico, di impalpabile e di irreale. Il senso dello spazio è quello che restituisce l’installazione dell’artista giapponese Itomi Sato. Sense of Field: due pareti di luce parallele lasciano aperta una via centrale dove lo spettatore si immerge per entrare visivamente e con il tatto nella luce. Materiali tecnici, migliaia di pellicole trasparenti compongono la luce, un’emozione fisica trasporta l’osservatore che vive l’opera, prova emozioni e stimoli ancestrali. Un viaggio nel nulla e nell’universo per scoprire che la luce è forma vivente dinamica. L’opera d’arte assorbe lo spettatore che diventa protagonista, genera la luce, le particelle trasparenti come piccolissime setole vibrano attraverso lo spostamento del corpo di chi attraversa i muri di luce e si crea una danza che rimanda riflessi, luminescenze, bagliori. Un’illusione estetica cambia a seconda dell’angolazione e della posizione di chi guarda e prova la sensazione del riflesso, della trasparenza dell’acqua, della luce che filtra tra le fronde o le linee dei raggi che fendono le nuvole. Vi è in Itomi la necessità della materia, quella analogica, ma anche la forma della natura e nella sottile sperimentazione la poetica dell’inafferrabile.
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SPECIAL
CHAPTER 2
SPECIAL
legami di sangue
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BODY ART A partire dagli anni ’60 del Novecento si assiste ad una rivoluzione nell’arte performativa che vede in lavori come “La colazione sull’erba” di Manet un predecessore spirituale. La provocazione del nudo adagiato sul prato apre la strada ad una serie di riflessioni sulla potenza evocativa del corpo e sulla forza comunicativa insita in esso. Da qui muovono i primi passi tre eccezionali personalità destinate a diventare punto di riferimento imprescindibile per la body art: le francesi Gina Pane e Orlan, l’italiano Franko B. Non sono i soli ma sono sicuramente i più conosciuti esponenti di questo ambito artistico che vede nel corpo umano una infinita possibilità di declinare emozioni. La carne viene piegata al volere dell’artista in modo sistematico, alla ricerca di un’essenza, di una verità naturale, di un’umanità sempre meno esposta. Ogni mezzo è concesso: dal disturbante bagno di larve di Gina Pane all’impianto di ali sulla schiena di Orlan che recita poesie, fino all’esplorazione di ogni macchinario medico e all’uso di fluidi corporei da parte di Franko B. Tutti gli elementi più temuti divengono mezzo espressivo: il sangue e il dolore assurgono a spettacolo rituale o rito spettacolare generando sconcerto. Ogni gesto viene filmato, fotografato, sottolineato da recitazione o azioni mirate a trovare nello spettatore una voyeuristica complicità, nel bene e nel male. Gina Pane sosteneva che “Vivere il proprio corpo vuol dire allo stesso modo scoprire sia la propria debolezza, sia la tragica ed impietosa schiavitù delle proprie manchevolezze, della propria usura e della propria precarietà. Inoltre, questo significa prendere coscienza dei propri fantasmi che non sono nient’altro che il riflesso dei miti creati dalla società [...], il corpo (la sua gestualità) è una scrittura a tutto tondo, un sistema di segni che rappresentano, che traducono la ricerca infinita dell’Altro”. Questi artisti hanno cercato di spostare i confini della fisicità per renderli sempre più labili e confonderli con il concetto stesso della performance. Teso, provato, oltraggiato, il fisico trova nuove strade per comunicare che coinvolgono a volte interi gruppi impegnati nella realizzazione di un’immagine, di un’idea, come nelle celebri azioni collettive di Marina Abramovic dove l’elemento carne diventa veicolo per lo spirito. Esistono precedenti illustri ai quali la Abramovic fa riferimento, come il teatro di Antonin Artaud, che – 27 –
SPECIAL
già dagli ’30 del Novecento inizia a spingere il suo lavoro verso aspetti scioccanti con il Teatro delle Crudeltà. Il corpo umano da tela ideale dove creare segni e messaggi diventa oggetto, e nello specifico un ponte di comunicazione con la parte spirituale, con l’anima, con il lato più nascosto e privato. In parallelo alla costante ricerca in ambito performativo e artistico inizia anche ad ampliarsi il concetto stesso di body art che guarda a pratiche meno estreme come il body painting e soprattutto al tatuaggio e al piercing come modi per abbellire il corpo ed esprimere appartenenza, ribellione, libertà. Tra i performer che utilizzano piercing e tatuaggi come azione artistica ricordiamo lo statunitense Ron Athey. L’inevitabile dolore che Athey offre ai suoi spettatori diventa sacrificio, catarsi e rinascita. Sono i marinai ad introdurre nell’occidente perbenista la pratica del tatuaggio, malvista dalla borghesia, ma diffusa e accettata in altri luoghi del mondo dove il segno sul corpo è considerato pratica comune. I tatuaggi, insieme al piercing e alla scarificazione, per le popolazioni stanziali dell’Africa, dell’India, dell’Australia (ma non solo) sono simboli che scandiscono le fasi vitali delle persone: dal superamento dell’adolescenza all’ingresso nell’età adulta, dall’impegno matrimoniale fino ai riconoscimenti sociali. In Europa marchiare la pelle o forarla naturalmente non segue un percorso di tipo tribale in senso stretto ma trova consensi nelle cosiddette tribù urbane che ne fanno largo uso: le controculture punk e gothic in primis, (ricordiamo per esempio le esibizioni estreme della band Throbbing Gristle, dedita ad una elettronica di matrice industriale oscura e inquietante) e a seguire poi col movimento grunge degli anni ’90 fino al colorato mondo dei rave party. Oggi tatuaggi e piercing sono pratiche socialmente abbastanza accettate, non ascrivibili in ambiti e contesti precisi e sfuggono anche a vincoli d’età. L’accettazione è stata un processo lungo e contrastato perché se inizialmente tali elementi erano indice di ribellione e di provocazione all’autorità (Stato, famiglia, scuola) e al perbenismo (pensiamo agli anni ‘70 e ‘80), piano piano sono diventati semplici decorazioni svuotate del loro originario significato. La massificazione di queste pratiche ha portato da un lato ad una perdita di contenuti originali, ma dall’altro a un maggior controllo sugli aspetti professionali e igienici e una maggiore qualità tecnica nell’esecuzione. – 28 –
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Che senso ha marchiarsi oggi, in un’epoca in cui non esistono più correnti definite e schierate, e in cui ogni gesto pare già essere stato ideato, catalogato e fagocitato? Esiste sicuramente una ricerca estetica che travalica l’edonismo e l’esibizionismo per inseguire ideali personali di bellezza al di là dei diktat della moda. Per quanto siano diffusi piercing e tatuaggi una fetta della società trova ancora respingenti o autolesionisti coloro che vi si dedicano e ricercare l’equilibrio in sfere non incasellate ha ancora oggi un certo fascino per chi si vuole in qualche modo distinguere e rendere unico. Questo non riguarda solo le pratiche legate alla body art ma anche le scelte legate all’abbigliamento che, non dimentichiamolo, è uno dei principali mezzi con cui le persone esprimono se stesse. È innegabile inoltre che la progressiva spersonalizzazione, l’adesione cieca delle masse a brand commerciali nel tentativo di uniformarsi ai canoni proposti/imposti scatenino la reazione di chi cerca di sottrarsi a questo meccanismo. In tal senso la body modification diviene veicolo di espressione del singolo e piercings, scarificazioni, tatuaggi e impianti aiutano a sottolineare un rifiuto all’obbedienza. E il diniego tutto sommato prosegue come un fil rouge il senso di sfida all’ordine costituito che risale alle origini di tali pratiche. Cosa resta ancora del gesto primordiale? Resta l’esperienza soggettiva del dolore che, come nella citazione di Gina Pane, ci rende estremamente coscienti della nostra vulnerabilità, della nostra caducità, in una parola della nostra umanità.
Giacomo Pisano
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SPECIAL
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ABRAXAS E KOKESHI
Fotografie di Michele Reginali Modelli: Veronica Zanchetta (in arte Kokeshi Kuro Neko), piercer dal 2007 e tatuatrice dal 2014. Oltre ai numerosi tatuaggi e piercing (tra cui capezzoli e genitali) presenta modifiche corporee come una scarificazione a forma di luna crescente sulla fronte, la lingua biforcuta (split tongue) e l’impianto di canini allungati. Riccardo Mattioli (in arte Abraxas) è un fachiro, performer e piercer. Tra i suoi interventi di body modification ci sono numerosi tatuaggi, diversi piercing, capezzoli dilatati da 4mm, lingua biforcuta.
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Š michele reginali
Š michele reginali
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il corpo dell’arte – 34 –
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<…C’è l’uomo coperto di tatuaggi che si è messo in testa una corona di spine. Questa è arte…C’è la donna che dipinge con la vagina. Questa è arte…>. Frammenti del romanzo “Body art” di Don DeLillo. La protagonista è Lauren, una performer. Che dice di sé: <Il corpo non è mai stato mio nemico. Mi sono sempre sentita bene dentro il mio corpo. Gli ho insegnato a fare cose che gli altri corpi non riescono a fare. Gli dedico un’attenzione totale. Tento di analizzarlo e ridisegnarlo>. Così Lauren entra ed esce dai corpi che, di volta in volta, diventano sue proprietà. Sono lei. Ma nel mezzo della sua giovane vita Lauren trova la realtà: un amore, che si spezza presto sotto i rottami di un incidente stradale. L’amante muore e, in una strana casa spaziosa e silenziosa, squadrata e semivuota, immensa e inquieta (prima ancora che inquietante), vaga un’ombra - una presenza, piuttosto - che potrebbe avere le sue sembianze. Anzi, è lui. Che parla con lei. O forse è proprio lei. Solo lei. Gli spettri sembrano appropriarsi della scena, ma è di corpi che si parla. Corpi vivi, e chissà, a questo punto, che senso ha la morte. Quei corpi sono una meta: l’arte di Lauren deve fagocitarli. L’arte supera il dolore: se ne nutre, anche se non lo cancella. Non è il passaggio dalla realtà alla rappresentazione, ma una nuova qualità della realtà. Quella artistica. Il romanzo, il suo tema, è rispuntato all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Il regista francese Benoit Jacquot (curioso, anche il protagonista della storia è un regista) l’ha trasformato in film, “A jamais”. A parte il valore della pellicola (le critiche si sono divise) e un evidente auto-compiacimento, colpisce che Jacquot, nella sostanza, non si allontani di un millimetro da DeLillo. E anche questa è una stranezza per molte ragioni, a cominciare dall’inafferrabilità del libro. Forse per questo l’accusa peggiore che si può fare al regista è la presunzione. Ma resta il fascino del tema. E, per chi si occupa d’arte, della sua urgenza. Sono in gioco i limiti, le possibilità, le barriere che la vita e l’arte sono in grado di elevare, l’una contro l’altra. E a un tratto di fondersi, non senza conseguenze. I frammenti raccolti all’inizio sono frasi di un’altra presenza (fra le pochissime) del romanzo, una critica e amica di Lauren. Che dice ancora in una recensione: la sua performance <comincia con una vecchissima donna giapponese al centro di un palcoscenico vuoto, che si produce nei gesti stilizzati del teatro No, e finisce – 35 –
SPECIAL
settantacinque minuti dopo con un uomo nudo, emaciato e afasico, che tenta disperatamente di dirci qualcosa>. Lauren può convivere con l’ombra di Rey, che aveva sposato da poco tempo ed è andato a sfracellarsi, forse deliberatamente, con una moto che era la sua espressione di libertà, può persino dissolverla magnificamente nella sua arte. Ma nella mente di chi legge il libro e guarda il film resta impresso il video proiettato sulla parete (e nella pellicola più volte) che “mostra semplicemente una strada a due corsie, con pochissimo traffico. Una macchina procede in una direzione, un’altra nella direzione opposta. C’è un display digitale con l’ora”. Che cosa è irriducibile nell’esistenza e nella sua rappresentazione? Alla fine, in quella casa-castello dagli echi gotici, Lauren spalanca una finestra e capisce: “Voleva sentire l’odore forte della salsedine sulla faccia e lo scorrere del tempo dentro il corpo, voleva che le dicessero chi era”. R. C.
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© ottaviopinna
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À L’HEURE FIXÉE
Fotografia di Ottavio Pinna ______________________________________________ ◀ AVANT AUJOURD’HUI Fotografia di Ottavio Pinna
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i pugni di franko
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Dal sacco maltrattato per 40 minuti piove latte. Dal corpo di Franko B cadono gocce di sudore. Lo spazio è stretto, l’odore è forte. E come se il sacco e il corpo, in fondo simili, sprigionassero, round dopo round, la loro essenza, oltre l’energia. Sul ring il pugile si muove con gesti sempre uguali, l’”avversario” oscilla. Ma non sono più avversari, sono nemici, ovvero ciò che lo spirito sportivo, boxe compresa, respinge religiosamente. Il sacco è il mondo, così come appare oggi, più inquietante dopo l’elezione di Trump. Il pugile è chi lo vive. Con le sue inquietudini, facilmente fagocitate dagli incubi. che in questo pezzo di teatro si spezzano in parole. Solo parole, non frasi. Discorsi destrutturati, frammentati, lasciati al loro nocciolo estremo di significato. Ecco “Milk and blood”, un esempio del teatro-performance di Franko B (visto al teatro Massimo di Cagliari). Vero che negli anni questo attore italo-inglese non ha percorso una sola strada, ma a conti fatti non ha cambiato casa. E se vale la frase che gli viene attribuita “Il corpo è la mia casa” allora il discorso si semplifica: il latte (materno?) non è che una variante del sangue, il mare rosso da dove è partito. Qual è il rumore della performance, del resto? I suoni sordi provocati dai guantoni contro la pelle del sacco, l’ansimare del pugile, le sue parole smozzicate, il gong che protrae uno scontro potenzialmente infinito. Franko B isola il suo corpo abbondantemente tatuato, lo dilata e lo comprime, lo spreme e lo stanca. Sino allo sfinimento. Con una brillante contraddizione: il dorato luccicante della sua divisa di atleta, che dalla testa ai piedi lo fanno assomigliare a un antico guerriero romano costretto in un’estetica patinata molto contemporanea. Dopotutto questa è realmente una guerra: dell’attore contro se stesso e del performer contro il mondo. E poiché non esistono guerre piacevoli neppure lo spettacolo risulta “piacevole”. Anzi, è ruvido, ripetitivo, disturbante. E il pubblico attorno al ring non è disturbato da altri elementi oltre il corpo: è costretto a seguirne i movimenti limitati, ossessivamente uguali, a coglierne gli umori fino a storcere il naso. A vivere il respiro affannoso di questo atleta della società. Perché il corpo sputa letteralmente pezzi di una società che sta perdendo il suo significato. “Insignificant” è la parola che ritorna implacabilmente, infilata come una lama nel campo di ortiche che non sarà mai giardino. C’è tutto in quell’apparentemente vacuo elencare, che colpo su colpo collima perfettamente col suono del – 41 –
SPECIAL
sacco fallico. Educazione, amore, dignità, intimità, in un mix probabile con profitto, assassinio, stupidità, politica. E Trump, sentito omaggio al working in progress. La retorica è evitata proprio dal gioco al massacro, dall’accumulo di relitti. Il senso è nelle pochissime frasi che arrivano quasi di nascosto: “Potete dormire la notte?”. E poi: “Io ho dalla mia parte il linguaggio”. O almeno lo aveva. Un autentico vocabolario della disfatta, “la bancarotta dell’umanità” direbbe papa Francesco. E non a caso anche quella parola, “umanità”, stilla per attimo dal dizionario di Franko B. Per un solo attimo.
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THE UNCANNY Sculpture by Han Hyo Seok
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CHAPTER 3 INTERVIEW
INTERVIEW
simposio asiatico
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CHANGWON SCULPTURE BIENNALE, SOUTH KOREA INTERVIEW WITH DIRECTOR YOON JIN SUP Questa Biennale si apre con una performance, interazioni tra corpo e materia, uno sguardo attonito sul mondo inquieto, fatto di violenza, di paura, di incapacità di comunicare. Una scultura dell’umanità? Quale leitmotiv guida la Biennale di scultura 2016? First of all, we have to examine the world surrounding us. Where is this world going towards? The religions that try to save corrupted souls are becoming secular day by day. The politics to make a better and more abundant society by practicing the social justice are exercising power every day. Against this backdrop, what can the art do? The art is much weaker than the politics or religions. But it has a mysterious power to refine human emotions and prevents the community from being corrupt. The opening performance of the 3rd Changwon Sculpture Biennale holds a great significance in that vein by using sculptures in the Yongji Lake Park, the outdoor exhibition area, and multinational artists who presented experimental and avant-garde performances. Through the ritual form with the functions of purification, artists presented a festival with their bodies. In the performance, they worried about the world economy manipulated by the game of capital and gave a hard blow to the secular religions and the plutocratic power. Changwon Sculpture Biennale aims to restore purifying functions of art through sculpture. To make this world a better and more abundant place through the interaction among artists, artworks and the audience. This is Changwon Sculpture Biennale’s ultimate goal. Chi sono i protagonisti e quale percorso accoglie i visitatori? Based on the characteristics of a Biennale, artists naturally play a role as protagonist. As modern art needs the audience’s participation, the artworks can’t exist without the audience who appreciate them. Therefore, the Changwon Sculpture Biennale puts priority on education of the audience and the public. Among various art genres, the public nature is an important element for sculpture because, historically, a public artwork existed in the public area where the multitude used to gather. For prehistoric people who danced around – 47 –
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a heap of harvested corns, the heap of corn was like a public artwork. Even the ages have changed, such tradition and symbolism have been passed to the public sculptures in public places of cities today. I palloncini bianchi, lasciati al vento, le fontane trasparenti, i suoni e i gesti armonici legano le opere, gli artisti, i curatori in un grande spazio all’aperto che diviene mondo possibile per l’arte contemporanea. A festival is the cultural form that brings people of various races and walks of life together and makes the human community stronger. In that vein, I believe the Biennale is the last bridgehead, because it is a free from the commercialism tries to implement the creativity, which is free and not to bound to the rules by presenting the experimental and radical art. The problem is the commercialization of biennales centering on artists, curators and artworks. Like a dinosaur, the absolute power of capital works as poison to eat away the spirit of biennales. Even now, the capital smells of corruption. We need to renew our commitment to cut off the connection with commercialism and start going on our own way. Quale impegno e quali difficoltà comportano, oggi, i preparativi, l’organizzazione e la realizzazione di una Biennale di scultura? As a Biennale is the venue for experimental and radical artworks and artistic implementation, it is not easy for a sculpture Biennale to gain a lot of popularity. So-called project-based large scale artworks may correspond to the Biennale’s own characteristics. However, if a Biennale depends too much on projects, the public may feel separated from the Biennale. The public’s complaints start from this area. It is not easy to find the cross point between the artworks that are easy to understand and the artworks that are hard to understand. Considering the future audiences, the public is culturally advanced, so I believe it is better to display artworks of high quality, than the artworks that are easy to understand. Con opere e artisti che provengono da tutto il mondo cosa significa curare una Biennale di scultura? From the ideal perspective, a sculpture Biennale must be like an Olympiad where artists from all over the world compete showing off – 48 –
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their artistic capabilities. Just as the term ‘Symposium’ means, a sculpture Biennale is the venue for social stroking where artists from all over the world gather together, work together, have discussions while drinking, and exchange views on the art with the audience. When considering the public nature of the sculptural art, sculpture is the most appropriate medium, more than any other genres of the art. Therefore, when we curate a sculpture biennale, we must think deeply about the public nature of sculptures. That is the social function and role of the sculptural art. Come è cambiata la scultura in questi anni e gli artisti in che modo coniugano le contaminazioni? The biggest change in the sculpture field is expansion and convergence of media. Changwon Sculpture Biennale is fully aware of this issue and shed a new light on the issue at [Objet – Materialistic Imagination]. Such awareness is based on the fact that social media is deeply mixed with our daily lives and decides the quality and the form of life of humanity, more than any other times in the history. The issue of how traditional form of sculpture will survive in the age of technical convergence is not something we can neglect. No matter how technologies advance, the pure form of sculpture will matter. Just like the movie survived after emergence of the video (rather, the video has disappeared these days), the pure form of sculpture will continue to exist even though no matter how much convergence takes place in the art. Perché una Biennale di scultura contemporanea? Risultati e progetti anche per stimolare le nuove generazioni? The identity of Changwon Sculpture Biennale comes from the cultural characteristics of Changwon. Changwon is a city where the art of sculpture has developed. Five modern Korean sculptors are from Changwon, such as Kim Chong Yung, Moon Shin, Park Chong Bae, Park Suk Won and Kim Yong Won. At the Changwon Sculpture Biennale, their presence is highlighted and their artworks are displayed with Italian renowned sculptors. By inviting artworks of Italian sculptors such as Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto and Novello Finotti, we wanted to clearly show the identity of Changwon, which is the city of Korean sculpture. This is also a part of the efforts to create the characteristics of the Changwon Sculpture – 49 –
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Biennale. Future vision of the Changwon Sculpture Biennale is closely related to sculpture education for future generations. I hope Changwon Sculpture Biennale draws more global attention and becomes the hub event in the global sculptural art field. Esiste una cifra comune asiatica dell’arte contemporanea? Especially when it comes to stone and wooden sculptures, Asia has abundant cultural assets since the Buddhism and folk religions had been widely spread in the region. Therefore, a lot of modern Asian sculptors have insights from their traditional culture and historic relics. They have different artistic characteristics from those in the Europe, American or African regions. L’arte oggi è in grado di raccontare i conflitti mondiali? Among the things that can approach the heart of human beings without any prejudice, the most important thing is art. Art has no practical purpose except for pure appreciation of the artworks. In that regard, it has a great function to heal conflicts and pain of the humanity. As I mentioned earlier, art seems to be the only way to lead the humanity towards a more ideal status by keeping secular religions and political power in check. However, there is a limitation in art as it does not have any coercive power like politics and art itself is weak. Even though, it is very fortunate since the art gradually carries out such good functions in a permanent way.
Bianca Laura Petretto
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Yoon Jin Sup
YONGJI LAKE PARK
Third Paradise by Michelangelo Pistoletto
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DIRECTOR
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CHANGWON CITY Sculpture by Mimmo Paladino in the Yongji Lake Park
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YONGJI LAKE PARK
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YONGJI LAKE PARK
Opening Performance
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SUNGSAN ART HALL
Murale con formelle by Mimmo Paladino
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Opening Performance
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Dynamic Sculpture by Jaime Arango Correa
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SUNGSAN ART HALL
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CHAPTER 4 CROSSING
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cuba bella, dannata e stanca
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“Il peggiore dei sacrilegi è il ristagno del pensiero”. Fidel Castro Impossibile dimenticare Cuba, catalogarla. Vorresti cristallizzare certe immagini in fuga, paesaggi di quiete campestre rubati dal passeggero di un treno, inafferrabili, già perduti. Cuba è bella e dannata con la sua polvere, le sue auto sconquassate che corrono sulla strada a velocità da Gran Premio. I musicisti con vecchie chitarre e rumbe struggenti che commuovono. La vera Cuba inizia fuori dall’Havana. Nella capitale si inizia a fare i conti coi paradossi dell’isola. Il centro, Habana Vieja, è molto ben tenuto. In piazza Vieja spicca la grazia di palazzo Cueto, costruito nel 1906 e ispirato allo stile di Gaudì. Ha ospitato una fabbrica di cappelli ed un albergo, è tuttora considerato il miglior esempio di art nouveau dell’Habana. Lo si vede anche dai delicati interni, attraverso le finestre e i solai sfondati. Palazzo Cueto è un guscio vuoto, ormai disabitato. Una rovina in cerca d’autore. Per il resto, tracce fiammanti di sovvenzioni dall’estero, che spesso di concretizzano in sculture contemporanee di incerta comprensione ma di suggestivo e quasi surreale impatto visivo, a contatto con le eleganti piazze coloniali o davanti a una chiesa nel “tozzo” barocco cubano. Statue bronzee dedicate ai visitatori illustri, compreso l’onnipresente Hemingway, il cui ricordo viene sparpagliato un po’ dovunque. I taxi d’epoca, fintissimi e lucidi, che fanno un po’ Disneyland. Le botteghe di orologiaio, che all’occorrenza, diventa anche ciabattino o altro. I negozianti asserragliati nelle librerie dedicate al Che, l’odore dei vecchi libri in Calle Obispo o nei chioschi di carte antiche di Plaza de Armas. E poi, le finestre. Spicchi di vetro colorato, studiati per far entrare ovattata la luce dell’accecante sole habanero. Ogni palazzo ha le sue finestre caleidoscopiche, in una gara di estro ed eleganza che fa intuire come potessero apparire, nelle sere coloniali, illuminate dal di dentro dalla luce delle candele. Ma non appena si oltrepassa l’elegante Paseo del Prado, la – 67 –
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desolazione si fa assoluta. Questo è il “Centro Habana”. Strade buie, rigagnoli, buche da cui ti aspetti che salti fuori qualsiasi cosa. Palazzi sbrecciati, a tre piani, che stanno su per miracolo. Facciate ornate in stucchi capricciosi in stile ottocentesco, ringhiere che hanno conosciuto miglior sorte e da cui ora penzolano panni stesi ad asciugare; resti scoloriti di intonaco color pastello. Poi, poggiate su palazzi in rovina, terrazze lussurreggianti di piante e lampade. E poi, come in tutta l’isola, le case “particular”, forma locale di alloggi privati mandati avanti da faccendiere ingioiellate e traffichine. Colazioni abbondanti, tantissima frutta. Saloni che nella migliore delle ipotesi sono piccoli capolavori in stile coloniale, dal pavimento anni ’20 al lampadario con gocce di cristallo. Alla porta, graziosi battenti di bronzo. Facciate lussuose a cui però corrispondono camere da letto microscopiche che manco i loculi giapponesi. E scalinate, ripide. Normale, nei palazzi che si sviluppano in verticale, spesso divisi in due, comunicanti dalla corte interna. Lasciata l’Habana, Cuba riserva altre sorprese. Cittadine diverse l’una dall’altra. È possibile scattare centinaia di foto con la paura di non distinguerle più, una volta a casa, invece si nota con sorpresa che non accadrà, perché ogni luogo ha i suoi colori, la sua luce, la sua punta precisa di afa. Isole fuori dal mondo, set cinematografici bell’e pronti che, da soli spiegano il complicato passato delle isole caraibiche. Cienfuegos, per esempio, è una perla neocoloniale francese. La sua elegante piazza ospita ville con colonnati, il teatro, un gazebo sotto il quale si svolgono concerti di musica classica e letture teatrali. Nelle campagne bambini, vecchietti, famiglie intere, che trascorrono il loro tempo nel patio della loro minuscola casa (nelle campagne ogni abitazione ne ha uno, è in dotazione automatica più o meno come l’intonaco color pastello ): pomeriggi sonnolenti a non fare nulla, il cavallo legato in cortile. Il domino o gli scacchi, per gli anziani nei circoli. Il tempo che non esiste. Trinidad ti avvolge col suo caldo torrido, la musica pazza dopo – 68 –
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il tramonto, la dolcezza inebriante della Camchànchara bevuta nelle conche di terracotta e la quantità di giovani di ogni razza che si scatenano con ballerini di ogni età, vecchiette comprese. Ballano anche da sole, con uno stile e un’eleganza irraggiungibili. L’acciottolato, caratteristico della città, che scoraggia ogni calzatura diversa da quelle rasoterra. Sulle porte delle case, foto ingiallite di Papa Francesco e la scritta “Bienvenido”. Anche a Trinidad, come in ogni cittadina cubana, c’è la Casa della Trova. Si paga un Cuc (l’equivalente di un euro) per l’ingresso e si assiste all’alternanza dei gruppi musicali locali. Suonano a tutte le ore, dal primo pomeriggio in poi. La bravura è variabile. Le chitarre spesso rattoppate. Sempre a Trinidad è possibile incontrare un personaggio alquanto bizzarro: il “barbero pintor”, come dice l’insegna dipinta che sovrasta la sua bottega. Barba e capelli, servizio completo e il barbero indica i suoi quadri visionari esposti tutt’attorno, come in un atelier. Ma il prodotto per cui è famosa Trinidad sono i tessuti ricamati. È una tradizione molto diffusa in tutta la vicina Valle de Los Ingenios, che una volta era la sede di sterminate piantagioni di canne da zucchero. La famiglia più importante era quella degli Iznaga, piantatori di canna da zucchero e trafficanti di schiavi. La loro dimora è ancora in piedi, un perfetto esempio di stile creolo coloniale con l’ampio porticato che fronteggia la torre di 44 metri da cui veniva controllata l’attività degli schiavi. Tutt’attorno, un tripudio di tovaglie ricamate. Metri e metri di lino che fluttuano al sole, esposti con eleganza, simili al corredo di una principessa. Quando si riesce a riemergere dall’assalto dei venditori, si riprende la strada verso il resto dell’isola e i suoi tesori. Camaguey strega coi suoi dedali di viuzze e l’anarchia dei Bicitaxi, risciò a due posti che tra loro ingaggiano pazze gare di velocità. È la cittadina dalla pianta architettonica più bislacca di Cuba, proprio per questo è particolarmente suggestiva. Si ricorda per le sue piazze, una delle quali ospita le sculture e l’atelier di Marta Jimenez Perez, con le sue donne dalle forme burrose e i suoi giochi d’acqua, in una fusione tra eterno femminino ed – 69 –
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elemento liquido primordiale. Nella Plaza del carmen, la Jimenez Perez ha voluto raffigurare alcuni personaggi della quotidianità di Camaguey, come due innamorati e, tema preferito dall’artista, le pettegole. Quattro massaie intente al taglia-e-cuci di paese. Una di loro dev’essersi assentata un attimo, perché è rimasta la sua sedia vuota. Ci si siedono, in posa, i visitatori. Camaguey è bellissima nelle sue botteghe dai nomi fantasiosi, nei ristoranti italiani, nei labirinti di stradine in cui ci si perde ma anche le case con porte e finestre difese da robuste grate, eredità dei vandalismi e dei furti consueti, nel XVIII secolo, più o meno in tutta l’isola. E poi c’è Baracoa con la sua allegra sporcizia, la cioccolata perfetta, il lungomare che ti fa perdere nell’infinito dell’orizzonte. Sotto il parapetto, le alghe si mescolano a una serena discarica. Foto di case nei colori più allegri, un uomo passa con dei pesci appena pescati. La chiesa dove è custodita la più antica croce lignea donata da Cristoforo Colombo, che sbarcò in quelle zone e fu fulgorato da quella bellezza. Istantanee che ora fa male guardare: poche settimane dopo queste immagini, Baracoa e le sue casette di legno sono state pesantemente colpite dall’uragano Matthew. Ora nelle stradine – dove tutt’al più scorrevano rivoli maleodoranti – si accumulano macerie di povertà sommata alla povertà. Si volta pagina, con gli allegri taxi di Santiago, dove evidentemente confluiscono tutte le carrette del pianeta. Prenderne una è un’esperienza a rischio, divertente e iniziatica quanto salire sul più avveniristico Shuttle. Porte che non si aprono dall’interno, sui sedili tappezzeria da salotto della nonna, ma anche il cellophane. Sonnolenti autisti che temi ti portino chissà dove… Gatti e cani affamati e magrissimi; i ramarri con la coda a ricciolo. Galline e pulcini. I maialini sulla Sierra Maestra. La campagna cubana è di un verde che emoziona, rotto ogni tanto dall’apparizione di mucche macilente o di qualche capretta. Terreni lussureggianti e incolti, scenario stupefacente per chi è abituato all’operosità europea. A Cuba sembra che si viva di grazia, come “gli uccelli nei campi” di cristiana memoria. Così le – 70 –
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ordinate baracche sparse sulla Sierra Maestra, a 950 metri di altitudine, i camini accesi all’ora di cena, le urla dei bambini che ti fanno spostare dalla strada: li vedi sfrecciare in discesa, su rozzi carrettini di legno. Frenano e svoltano con perizia, manco guidassero una Ferrari. Poco più in là, un laghetto, due panche, l’insegna “centro ricreativo”. La sensazione che se ne ricava, però, non è di pace francescana o di primigenio affresco caraibico. Dappertutto percepisci insoddisfazione, un’invidia strisciante per il turista, tampinato con continue richieste di spiccioli persino prima di entrare in cessi da epidemia di colera, che hanno visto l’ultima secchiata d’acqua ai tempi del Che. L’ospitalità è finta come uno scenario di cartone, come gli slogan politici di incoraggiamento scritti in rosso sulle pietre, uniche righe da scorrere in un paese che fino a poco fa vietava la pubblicità. Cuba gronda di storia, di eroismi commoventi. Figure memorabili di avvocati, poeti, condottieri ragazzini che hanno bruciato le loro vite abbandonando famiglie borghesi, lauree e ricchezza, senza arrivare a cinquant’anni (come lo stesso Guevara, che ha esaurito la sua parabola terrena in 39 anni). Eppure sembra che quest’isola abbia ormai consumato tutta la sua energia, la forza propulsiva che in passato l’ha fatta destreggiare e dialogare a tu per tu con i colossi del mondo. Sul destino di Cuba esistono ipotesi discordanti, resta da capire come sopravviverà questo mélange di danze indiavolate e prostitute minorenni, di rum al miele, di aragoste bruciate e salate, riso in bianco e pollo bollito. Di lungomare che sa di marcio, di terra rossa che profuma dopo la pioggia. Di una quiete che freme di energia sotterranea, simile a una fenice in attesa di una nuova metamorfosi. Tanto più dopo la morte di Fidel. Annapaola Ricci
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ARGENTINA AFT (Amantes del Fin de Tarde) è un movimento d’arte internazionale creato in Argentina da Pedro Romero Malevini,con sedi in diverse parti del mondo e riconosciuto nel B&BArt museo di arte contemporanea in Sardegna, Italia, per l’alto valore culturale dal Ministro della Cultura Argentina. “Decirte qué es ser un Amante del Fin de Tarde es limitarme y limitarte a todo lo que un fin de tarde te puede dar… y si existe la contundencia de un sentimiento de un Amante es la contundencia de saber que los límites no existen, que las posibilidades son infinitas, que la vida la elegimos para vivirla como queremos, porque decidimos no traicionar nuestros sueños, porque siempre miramos el horizonte, y ahí, en ese preciso instante vemos todo, y lo que no vemos lo imaginamos, porque tenemos la certeza que así será… no creemos que todo está inventado porque creemos en el placer de inventar, creemos en el placer de vivir, creemos en el amor de los amigos, creemos en el perfume natural del pelo de una mujer, creemos en todo lo que la tierra nos da, creemos en el sol, creemos en el mar pero sobre todas las cosas creemos en el lugar que nosotros ocupamos, lo que hacemos, lo que vinimos a dejar y lo que nos llevaremos”. Pedro Romero Malevini
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il fascino del niente
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SAHARA È stato il “fascino del bel niente” ad ispirare il mio viaggio nel deserto. Avevo voglia di andare lì, a trascorrere un capodanno, camminare, mangiare, dormire, felice, soprattutto, di essere irreperibile a tutto ciò che lasciavo alle mie spalle. Avevo percorso il deserto giusto sulla cartina, guardando l’Atlante a scuola, soddisfatta che non vi fosse alcuna catena montuosa da memorizzare e incuriosita da quei confini fra Stati disegnati col righello. Ho attraversato la catena l’Alto Atlante e il passo di Tizi n’Tchka prima di arrivare alle porte del Sahara Occidentale, e qui ho capito subito che quel “bel niente” era diverso dalle linee geometriche che avevo immaginato. Ogni giornata è stata scandita dal camminare lento, dalle pause ristoratrici ad ammirare il paesaggio, dall’attraversamento delle oasi dove tutti – uomini col carretto, donne con fasci d’erba e bambini col pallone – ci hanno salutato cordialmente al nostro passaggio: “Salam Aleykun!” La pace sia con te! Quotidianamente una carovana di Berberi ci ha fatto trovare un bivacco prima del tramonto, cucinando per noi piatti semplici e gustosi e preparando il “pane di sabbia”. La sabbia ha riempito ogni pertugio delle attrezzature portate con me impregnando la più piccola e sconosciuta cucitura mentre dalla Grande Duna Rossa dell’Erg Zahar, alta 300 metri, abbiamo ammirato un tramonto rosseggiante al confine tra Marocco e Algeria. Chi dice che il deserto è deserto? Le rose, i cespugli, i rami secchi e le mille tracce lasciate da animali misteriosi hanno documentato uno spazio, un paesaggio, un territorio molto diverso dalla mia immaginazione scolastica. Il deserto è di mille colori – bianco, giallo, ocra, rosso – e la sabbia è fatta di granelli sferici che la fanno comporre e scomporre in forme sinuose e mobili diverse da quella del mare. Ma è stata la notte a svelare uno dei segreti più belli. Nel nostro accampamento illuminato dai fuochi, quando il profilo – 87 –
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delle dune comincia a svanire e sembra quasi che tutto possa dileguarsi come un paesaggio fiabesco, è bastato alzare gli occhi al cielo per scoprire l’Empireo. È proprio qui che, per la prima volta, ho visto davvero il cielo stellato sopra di me: sovrastante, immenso e luminoso. Il “bel niente” è stato davvero questo. Tutto.
Irene Melis Sahara Occidentale, tra il Marocco e l’Algeria 26 dicembre 2014 – 5 gennaio 2016
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DA “CARNET NUDO” “Getterò via la penna da qualche parte dove troverò un silenzio che tenta di riposarsi, per starmene un attimo in intimità con qualche attimo. Sappi, però, che un solitario non cerca mai volentieri la solitudine, perché sa che la solitudine fa male. La cerca solo quando ha qualcosa che deve guarire” Martino Reggiani
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il mondo fluttuante
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Avvicinarsi all’erotismo e alla bellezza nel Giappone dell’età moderna significa cercare un punto d’incontro fra molte tensioni, in qualche caso opposte e contradditorie come nelle “immagini della primavera”, le shunga, termine con cui si indicano le pitture e le stampe a soggetto erotico. Il genere shunga si sviluppa nella produzione xilografica dell’ukiyo-e, l’arte del “mondo fluttuante”, esprimendo un’estetica, un’idea della vita dinamica e raffinata. L’incedere della morte, la precarietà quotidiana, l’esistenza che muta, sollecitano il gusto per il piacere e il godimento e la raffigurazione dei piaceri della sessualità compone l’ideologia dell’arte dell’ukiyo-e. La pittura, di cui l’incisione è figlia, risale in Giappone almeno alla metà del quinto secolo dell’era cristiana, antecedente all’avvento (538 d.C.) e alla diffusione del Buddhismo che tanto modificò la storia culturale delle genti che popolavano l’Arcipelago. Sin dall’inizio, gli artisti, raggruppati in corporazioni di lavoro, furono sottoposti a un controllo che favorì il progressivo costituirsi, nel corso dei secoli, di una sorta di “arte ufficiale”, vero e proprio specchio di una cultura e dei suoi mutamenti. Tale sistema ebbe una vita lunga e iniziò a perdere la sua stabilità soltanto nei primi decenni del Novecento, come diretta conseguenza dell’influenza europea promossa dai Meiji. Esiste quindi una ininterrotta storia della pittura giapponese, lunga diciassette secoli, con le sue specificità, le sue scuole, i suoi maestri, le sue fasi evolutive, le sue innovazioni e le inevitabili fratture. Per quanto riguarda i generi shunga e bijin-ga, che costituiscono una ricca produzione che si fonda sull’erotismo e la bellezza, abbiamo a che fare con un’estensione cronologica che copre ed eccede l’intero periodo Edo o era dei Tokugawa, dal nome della famiglia che resse le sorti del Paese dal 1615 al 1868. Durante questo lungo periodo la cultura giapponese vive in uno stato di sostanziale isolamento dal resto del mondo e si afferma progressivamente la ricca classe mercantile. I gusti di questa borghesia determinarono la fioritura della produzione artistica che produsse nuovi stili e nuove maniere tanto da influenzare l’affermarsi della rappresentazione di genere, – 103 –
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riflesso della vita e delle aspirazioni di un’intera classe sociale, detentrice del potere economico, ma subalterna nei confronti della casta dei samurai. La richiesta d’arte da parte del ceto medio favorì la diffusione delle stampe cosiddette del “mondo fluttuante” che a un costo contenuto permettevano di accarezzare con lo sguardo le immagini di quei piaceri in cui il teatro, le cortigiane e il sesso costituivano un interesse primario per gli artisti e per gli amatori. Le opere dell’ukiyo-e esprimono linguaggi artistici che esulano dalla fenomenologia dell’arte occidentale. Vi è nella pittura giapponese un legame profondo e organico tra calligrafia e pittura. Gli ideogrammi, importati dalla Cina nel IV secolo d.C., sono segni che comunicano ma anche forma e manifestazione in grado di esprimere, nell’immediatezza del tratto, immagini e pensieri. Nel Giappone antico scrivere era come dipingere. Figure e parole si fondono sullo stesso piano della rappresentazione, rimandando a un sistema di composizione e comunicazione degli universi poetici. Vi è anche la sottesa ambizione della semplicità espressiva che si trasforma idealmente con un solo movimento della mano per creare unità tra pensiero e materia della creatività. Le shunga e le bijin-ga sono composizioni semplici con la pienezza di un’idea maturata a lungo prima di divenire forma: sono le okubi-e, le immagini dell’onorevole collo di Utamaro, dove il volto sembra spiccare il volo dal corpo. Sono le composizioni drammatiche di Hokusai, le opere erotiche dove il sesso è una delle importanti manifestazioni dello spirito; rappresentare una salutare vita sessuale è considerata una forma indispensabile per la vita felice, longeva e in buona salute. Con le shunga ci troviamo di fronte a un vero e proprio ribaltamento, vivifico e vitale, dei valori. Kitagawa Utamaro è definito l’artista erotico per eccellenza. Le sue opere sono sapienti composizioni di eleganza, sono descritti minuziosamente le vesti, i volti espressivi degli amanti da cui traspare l’emozione interiore. Il sesso è impregnato di consapevolezza: la rilassatezza del corpo esprime la volontà e il guizzo del desiderio. Vi è una ricerca plastica, una danza dell’eros. Lo stile di Utamaro che dipinge il sesso come tecnica d’amore e – 104 –
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come estetica del bello, sarà ripreso tra la fine del ‘700 e i primi dell’‘800 da artisti come Eishi e Eisho. Con la morte di Utamaro si chiude un’epoca. L’eterno femminino viene abbandonato per un disegno di maniera; la monumentalità dei corpi, l’eleganza e l’introspezione psicologica sono abbandonate per una ricerca decorativa del disegno e del colore. In Hokusai l’erotismo assume forme grottesche attraverso il segno e si manifesta in scene dal tratto nervoso e drammatico. In Kunisada e Kuniyoshi il colore raffinato diviene forma densa e lussuosa. Il gioco delle trasparenze è funzionale al gioco erotico dei corpi tra i tendaggi nel movimento degli amanti. Quelle che in origine erano immagini destinate all’educazione sessuale delle giovani spose, poi espressioni estetiche di un gusto del sesso come manifestazione della bellezza, perdono nel tempo la semplicità e la forza simbolica e filosofica del mondo orientale per declinare ai primi del ‘900 con la censura e con il divieto di esporre le opere in pubblico e nei musei. Del mondo fluttuante rimane traccia tra le pagine private e intime dei manuali erotici nascosti sotto i cuscini delle spose. Delle shunga resta il sapiente incontro della scrittura con la pennellata della bellezza che fluisce nel battito degli amanti, eterne immagini della primavera. Bianca Laura Petretto
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Le foto sono cortesemente concesse dal prof. Marco Fagioli Collezione privata
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CHAPTER 6
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la velocità dell’ostrica
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Esistono velocità inimmaginabili. Non penso ai razzi, alle astronavi, ai wormhole che trapassano da parte a parte l’universo o alla rapidità del pensiero. Penso alle ostriche di Marennes-Oléron e alla loro inerzia. Poiché non c’è nulla di più statico di un mollusco dentro a una conchiglia, se ci pensi. Eppure, proprio per questo, come deve essere veloce l’universo che lo circonda, se lo guardi con i suoi occhi! Perché la velocità è qualcosa di relativo, nel senso einsteiniano del termine. Se io appaio fermo, mentre tutto attorno a me gira vorticosamente, sei sicuro che quello immobile sia proprio io? O che magari io corro e tu resti, o che corriamo entrambi ma a volte tiriamo il fiato e tu mi vedi proprio e solo in quell’istante? Oppure, ed è l’ipotesi che non mi fa dormire quando penso alle ostriche di Marennes-Oléron, il mondo gira così in fretta che, volente o nolente, entra dentro di me e trascina nei flutti ogni mia àncora, ogni mia certezza, ogni esperienza conquistata per farne tabula rasa, spiaggia di rena monotona e silenziosa, costringendomi a ripartire ancora una volta da capo, a lasciare nuove impronte nella sabbia che mi indichino un ritorno. Ti sei mai sentito così, come un’ostrica di Marennes-Oléron? Perché posso anche star fermo quanto voglio, proprio come un’ostrica. Ma riuscirei mai a impedire il turbinìo di situazioni, esperienze, sensazioni, emozioni, gioie, dolori, amori e indifferenze e tristezze, silenzi e poi ancora fracasso, spossatezza, brillante allegria, imprevisti, accidenti, difficoltà, opportunità, desideri, odi e amori senza soluzione di continuità? Se fosse capace di pensare, di provare qualcosa, quanto spaventosa sarebbe la vita di un’ostrica francese... Marennes-Oléron è un bacino naturale si trova sulle coste occidentali della Francia, Charente-Maritime, nei pressi di Rochefort, la cittadina dell’omonimo formaggio erborinato. Questo luogo è noto fra i gastronomi per la sua produzione d’ostriche eccellenti, riconoscibili dal colorito verdastro dato loro da un’alga particolare, la Navicula blu. Ma non è questa la causa della loro vita rapidissima e terribile. Dalla nascita alla piena giovinezza, – 117 –
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se posso dir così, le ostriche di Marennes-Oléron sono allevate in mare aperto. Poi, un bel giorno, sono sradicate dalle loro case e trasferite nelle claires. Che cosa sono le claires? Sono pozze d’acqua naturali, vicino alla foce della Seudre. A seconda del flusso delle maree, a volte si riempiono d’acqua dolce, altre d’acqua salmastra, con ritmi incostanti come la luna. In questo strano ambiente, le ostriche maturano. S’affinano, dicono gli esperti. Diventano più forti, resistenti, il loro sapore migliora, le loro carni si rassodano, i muscoli si tendono, il guscio inspessisce, come se assorbissero il meglio dei due mondi. O resistessero al peggio. Perché a ogni marea, il loro mondo muta. A ogni ricambio idrico, l’universo attorno a esse si spoglia di ogni stella polare, i pianeti deviano dalle orbite e la Luna naufraga fuori dallo sguardo, perdendosi nell’infinito. Oggi respiro, domani solo a fatica. Oggi mi sfamo, domani soffrirò l’inedia e proverò ancora una volta a stringere i denti per superare quest’avversità nella speranza che, attorno a me, il mondo non si cristallizzi e mi lasci nella sventura. Sorriderò sanguinando fra le gengive. Ora provo gioia, domani strazio. Ogni volta che l’acqua marina si perde, la risacca precipita nell’oceano ogni speranza, per poi ridonarla poco dopo, per poi toglierla, per poi renderla, con una frequenza che, vista dall’immota conchiglia, parrà incalzante e insensata. In mezzo al dinamismo e all’oblio di una claire, un’ostrica vede tramontare e sorgere i suoi soli come nastri infuocati nel cielo e la sua vita è un’altalena impazzita di emozioni contrastanti, che franano lungo le rotaie di un ottovolante impazzito. E patisce e gioisce così tante volte, che dolore e piacere si confondono in un magma insensibile. Mentre tutto il mondo attorno a essa impazza, nel silenzio più devastante dell’universo. Poiché non esiste niente di più veloce di un’ostrica di Marennes-Oléron. Né un dolore più muto. Giorgio Giorgetti Watch more here: WWW.CUCINODITE.IT – 118 –
© sofiaarangoe
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LA RICETTA . OSTRICHE, MELA VERDE E CENTRIOLO Preparazione per 4 persone Ostriche (12 g)
Mele verdi Smith (2 g)
Frutto della passione (1 g) Foglie di cappero (4 g)
Succo di limone (20 g) Per il Centrifugato Mele verdi Smith (6 g) Cetrioli (2 g)
Succo di limone (1/2 g)
Olio extravergine d’oliva (10 g) Sale (qb)
Pepe nero (qb)
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Esecuzione Per prima cosa, prepara la granita di mele, perché deve stare per una giornata nel freezer. Togli il torsolo alle 2 mel eSmith e congelale nel freezer per 24 ore.
Una volta congelate, grattugiale (con una grattugia da formaggio, naturalmente) e rimettile nel freezer.
Muovi ogni tanto, con un cucchiaio o una forchetta, le mele grattugiate, per evitare che si congelino formando blocchi troppo grossi. L’effetto deve esser proprio quello di una granita. Per seconda cosa, fai il centrifugato.
Lava le 6 mele Smithe e i 2 cetrioli, senza togliere la buccia. Passa tutti alla centrifuga.
Condisci il succo ricavato con l ’olio extravergine, il sale, il pepe nero e il succo di mezzo limone.
Apri le ostriche, senza perdere l ’acqua che contengono. Puoi quindi schiuderle su un piatto fondo o su un qualsiasi contenitore.
Apri anche il frutto della passione. Componi la coppa.Componi la coppa.
Prendi una coppa Martini o da Asti Spumante e versavi un po’ di centrifugato.
Aggiungi tre ostriche a testa, qualche goccia di succo di limone e una parte della polpa del frutto della passione.
Sopra deponi un cucchiaio abbondante di frutto della passione e una foglia di cappero. Servi immediatamente.
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