AINASMAGAZINE Nº4.12/2018

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aínas N º4 . 12/2018 Nº4



Soft Snow I walked abroad in a snowy day. I askd the soft snow with me to play. She playd & she melted in all her prime And the winter calld it a dreadful crime. (William Blake) Neve fresca In un giorno di neve andando a passeggiare chiesi alla neve fresca di star con me a giocare. Giocando lei si sciolse in tutto il suo splendore ma all’inverno sembrò un crimine e un orrore. (Tr. Giovanni Bernuzzi)


AÍNAS Nº4 . 12/2018 WWW.AINASMAGAZINE.COM INFO@AINASMAGAZINE.COM Direttore Roberto Cossu Condirettore Giorgio Giorgetti Direttore artistico Bianca Laura Petretto Grafica e layout Sofía Arango Echeverri La fotografia della copertina è un’opera di Maria Bonomi: Tetraz, 2003. Xilografia, 80 x 300 cm. Le fotografie delle sezioni sono di Manuela Reyes: Serie Luces, 2012. La poesia di William Blake è tratta da: Giovanni Bernuzzi, Tramontata è la luna. Traduzioni poetiche da Saffo al Novecento, Happy Hour Edizioni © Aínas 2018 La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’Editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge. is aínas faint is fainas . gli strumenti fanno le opere AÍNAS nº4 © 12/2018, reg. n° 31/01 Tribunale di Cagliari del 19 09 2001, periodico di informazione trimestrale, cartaceo e telematico. Iscrizione n° 372004 al Registro della stampa periodica Regione Sardegna, L.R. 3 luglio 1998, n° 22, ART. 21. ISSN 2611-5271 Editore Bianca Laura Petretto, Cagliari, Quartu Sant’Elena, viale Marco Polo n. 4 Direttore responsabile Roberto Cossu

B&BArt MuseodiArte contemporanea

www.bbartcontemporanea.it info@bbartcontemporanea.com

Un ringraziamento speciale a Guido Festa Progettazione e costruzione di “GLOVE BOXES” e prototipi per la ricerca farmaceutica e nucleare www.euralpha.it

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AINAS MAGAZINE

AÍNAS Nº4 4

editorial

4 il candore della santa

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chapter I . special 8 la profetessa dell’arte pubblica 8 dialogando con maria bonomi 26 printmaking forever

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chapter II . interview 32 voluspa jarpa 33 los archivos descalificados

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chapter III . the new code 42 codice ritmico 43 julio victoria 43 manuela reyes 46 liquid faces 46 giorgio bertazzoli 46 antonello diodato guardigli

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chapter IV . crossing 58 lord of the mangrove: felipe jacome 68 ho perso l’aereo a tokyo 72 il bazar di kobane

75

chapter V . pataatap

76 andrea forges davanzati . andrea maia . pas de deux

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chapter VI . swallow 92 la carne, il pane, il vino

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EDITORIAL

aínas IL CANDORE DELLA SANTA

L’immagine di Marina Abramović che annuncia la mostra “The Cleaner” a Palazzo Strozzi di Firenze è l’immagine di una santa. Il dito già annerito sul fuoco acceso della candela, la veste bianca col colletto chiuso, i capelli divisi da una linea netta e ben stretti sulle orecchie. Lo sguardo profondo fisso su di noi e sull’invisibile. Una santa o una martire imminente. Una creatura che potrebbe – dovrebbe – nutrirsi di dolore, di estasi, di mistica. Di stimmate. O semplicemente di volontà di comprensione. Così forse doveva apparire Emily Dickinson per gran parte della sua vita. La stranezza è che Marina Abramović è stata ed è una santa senza Dio. Se per Dio accettiamo la versione corrente. Eppure l’intera esperienza di questa artista è religiosità, quell’istinto che non si accontenta dell’esistenza. La sua parabola è sincretismo, assorbito da Occidente a Oriente, riformulato in vari modi, in ogni stagione. E cominciato dalla visione “dei raggi del sole e delle stelle” che indicarono la via artistica. Una sorta di rivelazione interpretata subito dal dolore, concetto che ha come compagno la parola “limite”. “Il limite di ogni dolore è un dolore più grande”, scriveva Cioran. Cos’altro è l’autoflagellazione, sia pure laica, dei primi tempi? Quel tavolo colmo di arnesi da offesa che, nella performance, gli spettatori potevano usare liberamente per infierire sul corpo dell’artista? O il fuoco che le lambiva il corpo mentre era distesa “dentro” una croce? Oppure parliamo di “Luminosity”, cioè l’artista nuda quasi impalata su un sellino da ciclista, crocifissa nella parete. Affiora immediata un’altra parola compagna di religiosità: martirio. La pronunciano i commenti critici, e anche i visitatori della mostra. E del resto l’idea del limite riassume la vita di Marina. In fondo, dice lei stessa, la simbiosi con Ulay si interruppe quando l’uno non fu più in grado di superare i limiti che l’altra esigeva. Marina Abramovic si è misurata con la sua intimità fino allo sfinimento. Ma è andata oltre i “giochi proibiti” col corpo, oltre Gina Pane, Franko B e Orlan. Ha esaminato se stessa cercando un possibile dialogo col trascendente: è anche questo il senso del francescano scambio di confessioni con un asino. E persino la cipolla divorata fino alle lacrime. E non si è fermata sul mistero più grande delle religioni: la morte. La convivenza con un cadavere, lo strofinare ossessivo delle ossa sanguinolente, e persino l’attività metodica e assolutamente disperata in “The House with the Ocean View” sono racconti in tempo reale di ciò che, dentro questa vita, consumiamo senza poterci fermare. Un’intimità - altri martirii - offerta al pubblico per un biglietto senza prezzo. Roberto Cossu

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◀ BALADA DO TERROR Maria Bonomi Xilografia, 1970 203,5 x 84

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MURAL CASCATA Opera di Maria Bonomi Cemento armato e vetro, 2003 ResidĂŞncia Particular


I THE SPECIAL


SPECIAL

la profetessa dell’arte pubblica DIALOGANDO CON MARIA BONOMI L’atelier di Maria Bonomi a San Paolo è un luogo chiaro, ordinato: litografie, legni, grafiche, ceramiche, metalli e un giardino dove le opere di stampa sono, come dice l’artista, un linguaggio non una tecnica. La stampa è una possibilità infinita di realizzazione su materiali diversi: gesso, argilla, legni, metalli. Sono accompagnamenti sui materiali. È un processo, una nascita, come la litografia, non un effetto. Maria Bonomi cerca sempre nuovi materiali e le piace scoprire. La creazione di una stampa o di un’incisione è un evento. Quanto gioca nell’invenzione l’emozione e quale legame ha il suo linguaggio con la meraviglia? Non credo nella “creazione” di un artista. Nessuno “crea”, solamente Dio. Noi possiamo proporci progetti per compiere azioni più o meno vissute, ingerite e restituite alla natura, in maniere differenti. Alla “Estação da Luz” si trova un’opera contemporanea di Maria Bonomi nel corridoio di collegamento tra la Metropolitana e i treni della CPTM. Accompagna il viaggio contemporaneo, quello dell’ideazione e del processo di narrazione attraverso i ricordi delle diverse etnie che si incrociano a San Paolo. Risulta dalle liste d’oggetti smarriti e trovati durante 100 anni nei vagoni dei treni. Quest’opera è geneticamente testimone dello status sociale e collettivo della città. Tutti si possono identificare con la questione trattata, anche se le soluzioni sono ambigue. In una nazione nuova e povera l’Arte deve essere permanente, inserita nella realtà quotidiana per creare riferimenti comportamentali. Altrimenti si rischia la solitudine e l’inutilità degli spazi decorabili e ridicoli che invadono le città. L’Arte Pubblica che concepisco fa parte del patrimonio urbanistico e funziona politicamente come valore sociale e contributo di riflessione in “site-specific”.

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L’architettura assume una forma epica e lei con l’incisione traccia una mappa sulla poetica dei ricordi? L’arte è un evento inaspettato. Dal solco scavato o dal taglio si costruisce un’immagine. Quale strada stiamo percorrendo lo sapremo in seguito. Lavoro come per fare “una domanda”... Poi corro per darmi una risposta... Ho sempre fatto solamente incisioni (non so fare nulla di più), che a loro volta sono diventate o rilievi in cemento armato, o in bronzo, o in alluminio, oppure tessuti o carte stampate. L’idea della moltiplicazione di esemplari per un pubblico che possiede un originale è stata sostituita dai numerosi sguardi dei passanti, dalla platea infinita che cammina. Ci sono due modi di fare un tiraggio: o possedendo o guardando. Da mettere via o da visitare sempre. Se la pittura ha abbandonato il cavalletto da tempo e la scultura il piedistallo, pure da tempo le arti grafiche si sono disperse e liberate dai libri e dalle cornici, dai tavolini vetrati, oramai sono divenute graffiti su pareti, muri o vagoni in tutto il mondo, grondaie e tettoie che illustrano la città, le navi, i sommergibili … Mentre internet ci circonda con spazi cognitivi sperimentali. E io registro. Nata a Meina in Piemonte nel 1935, papà italiano e madre brasiliana, si è trasferita in Brasile nel 1947. Ha seguito gli insegnamenti di Segall, Plattner e Livio Abramo. Il suo lavoro lo ha sviluppato durante gli stages con Prampolini a Roma ed Emilio Vedova a Venezia. Oltre vicinanze conviviali con Magnelli, Arp e Marini e altri dell’epoca: Sophie Taeuber Arp, Sironi e Burri. Il rigore formale e la disobbediente coscienza della libertà sembrano aver animato i momenti importanti della sua vita e, di rimando, della sua arte. Qui, cara Aínas, devo parlare anche del cinese Seong Moy, con cui ho lavorato a New York al Pratt Institute anni dopo. E di due viaggi in Cina molto decisivi: nel 1974 e nel 2015. La domanda nascosta è sempre perché sono rimasta in Brasile. E la risposta pure nascosta è perché amo questo Paese dove tutto mi è capitato (anche il grande amore, nella vita matura) e che tutto era da farsi. E dove ho potuto sviluppare questioni nell’arte privata e pubblica che in nessun altro Paese sarebbe stato possibile. Da qui sono partita per mostre in tutto il mondo. E per discorsi importanti sulla grafica e sul fare dell’arte e nella politica dell’arte nel mondo. Lamento non aver mai fatto una mostra individuale in Italia. Chissà perché, questo non era destino... In Brasile ci sono molte opportunità di lavoro eccezionali, è una nazione in sviluppo spaziale e da inventare. La fondazione della Biennale di San Paolo, dei grandi musei, la Transamazzonica dove andai con Pierre Restany... Il suo studio è quello di Merlino al femminile, un luogo alchemico ricco di invenzioni poetiche. Ho avuto molti “studios”, piccoli e grandi. Piuttosto che locale alchemico, un deposito di detriti raccolti ovunque nei numerosi viaggi... della vita. Per ragionarci sopra. Poi di colpo il mio atelier è anche “la casa” di altre persone che vi hanno lavorato in progetti collettivi o di Arte Pubblica. Dagli indiani che elaborano ceramiche confuse da mettere nel forno ad alte temperature, fino ai bambini ciechi che ci visitano per esperienza di sensibilizzazione... Momenti fantastici, poi nessuno vuole andare via... Si chiude, arriva la notte. Alle volte l’università o i grossi clienti ci prestano uno spazio più adeguato. Ci andiamo con i nostri attrezzi e gli aiutanti e lavoriamo il tempo necessario. Sempre in movimento e in cambiamento, senza nostalgie... Le sue opere sono ossimori o testimoni di uno status sociale e collettivo. E l’arte è l’espressione più alta della politica? Secondo Paulo Herkenhoff “essa politização do abstrato é a dimensão maior da sociabilidade da obra de Maria Bonomi”. “Sua postura é sempre politicamente engajada e não apenas durante o período da repressão pela ditadura militar brasileira (1964-1984) sua obra transforma-se sempre em instrumento de combate e denuncia. Mas é uma gravura de argumentação sem a necessidade de ser panfletaria. Mesmo após sua breve prisão política”.* *Cit. Alecsandra Matias de Oliveira. “Memoria e Poetica de Maria Bonomi. Uma discurso Social”.

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SPECIAL

Artista eclettica. Virtuosa nella stampa, nella scrittura, nel pensiero. Le sue opere appaiono solenni, ironiche e politiche, trasudano di vocazione e di tecnica. L’arte di Maria Bonomi è un continuo penetrare ed emergere, attraversare e svelare. Apre solchi, rasa superfici, semina tracce su un tessuto. Un viaggio esplorativo che dura tutta la vita attraverso le dimensioni. “Horizons of Men”, 1998, è un “altro punto di vista” ma anche il luogo dove siamo. I piani sono materie, visibili e nascoste al contempo. Ho immaginato che attraverso la sua arte conosca le grandi dimensioni, quelle dell’universo. O forse ogni tanto viaggia su una mongolfiera con le sue opere che contengono la geometria, la matematica, la fisica, la metafisica, la quantistica ed esplora luoghi senza tempo. Quale linguaggio vuole insegnare a noi che guardiamo i suoi bozzoli, i suoi orizzonti, le sue linee e le sue curve? L’Arte é sempre stata un processo di conoscenza, strumento per fare scoperte, per scoperchiare ciò che esiste... Cerco di alimentare e sostenere la discussione su internet, la velocità come conclusione, come nuova conoscenza. Mi ristoro applicando il laser a mano, come uno scalpello per dominare l’acciaio con nobiltà e leggerezza che ridiventa qualcosa di quotidiano, forse memoria, ricordi... Qui l’emozione è libera, liberissima per compiere qualunque percorso. I mezzi sono diventati infiniti, dalla conchiglia, ai pezzetti di fango... La parola chiave è Scoperta. Ci permette di imparare e fare. L’artista scopre e scopre in continuazione. Impara a scoprire mentre lavora e anche il pubblico, a sua volta, scopre nell’arte se stesso e tutto quello che lo circonda. Impara e scopre. Nessuno sa nulla a sufficienza, ci si arricchisce con le scoperte possibili... Ci aiuta in questo la “protesi” che per me è il computer, l’ordinatore. Legittimamente si tratta di una protesi che ci fa accelerare, avanzare (disegnare mai e poi mai)… una ragionatrice veloce… La disciplina è un potente mezzo che Maria Bonomi sa maneggiare, ma non si conforma a una rigida regola di stile. Nulla è inutile, superficiale e edonistico. Il suo percorso significa che l’applicazione costante della sottrazione rigorosa e poetica si è avvicinata all’armonia. Vetri, terra, argilla, sabbia, allo stesso tempo una stampa, una postura mentale e un pensiero grafico. Ma anche un dialogo con la natura. Lei ha viaggiato e esposto in tutto il mondo, dal Brasile all’Europa, all’India e alla Cina, come se avesse una missione. Una vita generosa e produttiva come la sua ha alcuni ingredienti fondamentali. Se penso a Maria Bonomi, penso alla pienezza, alla forza e alla fragilità, al rigore e alla conoscenza, al sorriso e all’ironia, a opere grandi e straordinarie disseminate per il mondo. In due parole ci dipinge il suo volto. E l’altro? Cosa ne pensa dell’eredità e quale vorrebbe lasciare, come donna e come artista, e a chi? Mi preoccupa sempre un dovere. Quello di trasferire al più grande numero di persone di tutte le età e possibilità sociali il convivio cosciente con l’Arte che ci circonda. Di ognuno. È l’impegno con questa ricerca che vorrei lasciare. (Aínas, hai capito tutto, svelato tutto ciò che pretendo e ho fatto in questi 83 anni di vita...) Chiunque può coinvolgersi con l’Arte se stabiliamo un grado di possibile intimità con la visualizzazione e il contatto di quanto ci circonda, in un nuovo paradigma. L’Arte Pubblica è questa possibilità. Il suo prossimo progetto e il suo prossimo viaggio? Un’installazione scultorea in acciaio grezzo realizzato con il “laser”, di proporzioni monumentali, composta da 20 elementi bidimensionali circolari al centro di una piazza a San Paolo. Non dobbiamo dimenticare mai i 20 milioni di abitanti urbani... Servirà per la celebrazione storica nel 2022 di un’iconica artista degli anni 1920, un centenario dunque... Non posso rivelare nomi o dettagli, tutto ancora in fieri. Un impegno dunque nell’Arte Pubblica che dipende da sponsor e burocrazie ufficiali, dal Sindaco della Città e da molti partner.

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Se dovesse dare una definizione di arte contemporanea in due parole? In poche parole l’arte contemporanea (quella buona o l’altra?) esiste in due mondi paralleli. Come possibilità di espressione disordinata ma spontanea, accelerata dalla tecnologia che non cerca uno status convenzionale ma desidera veicolare emozioni originali e legittime per qualunque lettura. Oppure come ricerca artificiale di mercato e status, associata al “commercio di idee” e di concetti visuali pastorizzati. Definita da terzi, non autentica e con bassa possibilità di permanenza. A un giovane artista che cosa regalerebbe? E a me non più giovane? A un giovane artista regalerò la certezza che se s’impegna in maniera ossessiva in quel che crede “senza ascoltare nessuno” arriverà a un risultato sicuro. La sua forza sarà nel non cercare “scorciatoie”, buttarsi sulla via più centrale e forse più lunga, non avere fretta mai. Non bruciare le tappe, nulla va bruciato, riempirsi d’ingredienti tecnici e di esperienze vissute, di preferenze. Anche malandate... Andare a fondo prima di chiudere un discorso “con se stesso”. L’ultima cosa è la soddisfazione. E a te non più giovane, come dici, ma per me giovanissima, devi essere severa nella tue scelte e proposte. Anche con ciò che ti piace, un risultato in movimento o un’opzione che hai praticato (indagine o altro) vanno esauriti al massimo. Non aprire due porte ma una sola e fai passare tutto da questa apertura. Non crearti un’immagine alternativa e soluzioni parallele, meglio depurare e scaricare tutto... ma a varie riprese. Sono sempre del parere che siano necessarie le pause revisionali. Lasciare al tempo di operare uno stacco e poi riprendere... Rivedere il proprio lavoro in occasioni diverse, è una grande decisione che tu devi fare e non il tuo pubblico. Le redini devi tenerle in mano sempre… - e sorridendo conclude - It is your baby now! Bianca Laura Petretto

A printmaker with a monumental production, Maria Bonomi has produced woodcuts, etchings and lithographs throughout her 65-year-long artistic career. She worked with Paulo with Lívio Abramo, Yolanda Mohalyi and Karl Plattner, then went to New York on a study grant where she trained with Fritz Eichenberg, Hans Müller and Seong Moy at Columbia University and with Miguel Ponce de Leon at Pratt Institute. She later worked with Friedlander at MAM do Rio de Janeiro and with Emilio Vedova in Berlin and Venice. She has participated in nine editions of the Bienal de São Paulo (winning the Printmaking Prize at the 8th), six editions of the Ljubljana Biennial and Venice, and the Triennials of Prague. She won the Printmaking Prize at the 1967 Paris Biennale. From 1974 onward she began to produce works of public art in São Paulo, Manaus and Chile. Some of her most outstanding works are her altar for the Cruz Torta Church (Mãe do Salvador), the installation Futura Memória e Etnias do Primeiro e Sempre Brasil at the Memorial da América Latina and the panel Epopeia Paulista at the Luz Subway Station, all in São Paulo. Based on the thesis “Public Art: An Expressive System/Anteriority,” she received her PhD from ECA/USP in 1999. She was decorated with the Order of Rio Branco in 2001 and with the Order of Cultural Merit (MINC) in 2008, and was conferred the title of Cidadã Paulistana in 2014. She has held solo shows at prestigious venues, most notably at the Pinacoteca de São Paulo in 2008, the Centro Cultural Banco do Brasil em Brasília in 2011, the Maison de l’Amerique Latine in Paris in 2012, the Centro de Bellas Artes in Madrid in 2013, and the Griffon (Neuchatel) in Switzerland in 2016. In 2014, she was invited by Sesc Belenzinho to produce a monumental suspended artwork called Circumstantiam. In 2015, as an invited resident artist she worked at the Original Printmaking Base of Guanlan (China) where she participated in the 5th Guanlan Printmaking Biennial. In 2018 at Museum of Modern Art São Paulo (Ibirapuera) she is the eminence of the exhibition “8 Decades of Informal Art”.

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SPECIAL

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Le opere da pg.12 a pg.28 sono di Maria Bonomi

A ÁGUIA Xilografia, 1967 75 x 122 cm _________________________________

◀ BANCO EXTERIOR DE ESPANHA

Cemento armato e rame, 1984 Santiago do Chile

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SPECIAL

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Pg. 14 Dettagli dei pannelli ARROZAL DE BENGUET Relevos feitos com dois tipos de concreto, 1979 Hotel Maksoud Plaza ____________________

A PONTE Xilografia, 2011 140 x 243 cm ____________________

◀ Dettagli dei pannelli ARROZAL DE BENGUET Relevos feitos com dois tipos de concreto, 1979 Hotel Maksoud Plaza – 15 –


SPECIAL

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SPECIAL

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Pg. 16 CONSTRUÇÃO DE SÃO PAULO Políptico em concreto, 1998 Estação Metrô Jardim SP ________________________ Pg. 17 PEDRA ROBAT Xilografia, 1974 98 x 90 cm ________________________

◀ FUTURA MEMÓRIA

Pannello in solo-cemento Memorial da América Latina, 1989 ________________________

MURO, MURALHA, PASSO Xilografia, 1975 74 x 177 cm

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SPECIAL

◀ MECHANICUS

Xilografia, 1967 88 x 84 cm _________________ ROOFS, VC Xilografia, 2015 100 x 65 cm

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SPECIAL

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PAUGRESSO Xilografia, 1975 64 x 70 cm ____________________________________________________

◀ Dettaglio dell’Installazione SOBRE A ESSÊNCIA: 7 HORIZONTES DO HOMEM Mirror, sand, salt, glass, coal, clay, cement, earth and writing, 1998 100 x 440 x 480 cm. Fotografia di Romulo Fialdini

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GINETE SERASA Alumínio fundido, matriz em argila, 2003 Sede do Serasa em São Paulo ______________________________

◀ SAPPHO I

Xilografia, 1987 190 x 56 cm

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◀ VIAGEM PARA DENTRO Xilografia, 1975 159 x 85,5 cm

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SPECIAL

printmaking forever Maria Bonomi can not be described in a few words, just as her extensive creative oeuvre that crosses many mediums can not be spoken about unequivocally. Maria is one of the most prominent names of Brazilian contemporary art and culture, and her name is known all over the world. Her popularity at home is demonstrated by the many important national accolades that have been bestowed upon her, she has been commissioned to create a good number of public projects, not only expert articles have been written about her, but also poetry, she has become one of the characters in a Brazilian mini soap opera, and it would come as no surprise if a popular Brazilian song were to be written for her. She has always liked to share her liberal and unorthodox views on printmaking and contemporary art with young people – and still does... “Everything you throw in the fountain floats to the top next morning. That is the idea; then comes the thinking and hard work.” Maria Bonomi. I have been following the work of Maria Bonomi since we met in the mid-1990s. I am fascinated by her inexhaustible investigative energy and dedication to printmaking and the graphic arts. Her graphic works embody a great expressive force, while they are distinguished by an unusual fragility and apparent simplicity. Maria’s art is, regardless of content, deeply personal, always optimistic, brimming with enthusiasm, curiosity and joy for life. It is precisely the described features that drive her to continually experiment and search for the expansion of the expressive and formal possibilities that are traditionally ascribed to printmaking. Nothing scares her since she is not interested in the reproducibility of printmaking, but the tangible, creative and psychic power of the matrix. She says that, “there is nothing superfluous and nothing quotidian in printmaking. It is an art that is intended as ‘brain to the soul’.” In Maria’s work, everything is grand and monumental. It requires a direct and sensual contact with the raw material, which she gesturally transforms by incising, carving, cutting into it, to create deep and sensual

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rhythms. It is more than obvious that she enjoys attacking the material with her tools, opening the gaps to take away material, where she wants areas of white/emptiness. What is most important to Maria is the matrix. It is the beginning, the space of creativity. This is what she has written about it: “The matrix, the only original and fixed component of printmaking, passes through a vital instability, which is why it is open to experimentation, given that it can communicate with all the contemporary directions and mediums.” Maria is prone to creating space, she is interested in the three-dimensionality of forms. This tendency escalates in her production, as she found early on that black and white prints posses only a two-dimensional effect regardless of the expressive power of the physical treatment of the matrix. She therefore introduced colour and large-scale formats that affect the viewer on a physical level, finally finding the plastic and haptic power of the impression of the matrix in concrete and other materials, or in the juxtaposition of the impression and the matrix in the same space. “When you are looking for real wood, you are doing printmaking; you are already thinking about what will arise. You do not plan a print; you conceive it.” Maria Bonomi The visual language of Maria Bonomi has been marked by the vocabulary of the woodcut. She has expanded this to also include other methods of printing and making images. In addition to the woodcut, she also uses lithography and screen printing, experimenting also with digital manipulation of images. All these techniques allow for her gestural approach, which has grown with her and with her modus operandi. Confronting the wood and working on it, incising, marking, making grooves – not only with the hands but the entire body – tackling the substance in order to elicit its expressive content, are inherently expressive gestures. Maria loves the process of creating the image, because she is a woman of gesture and action, so she never limits herself in her work to perfecting the traditional handicraft. She is constantly inventing unusual tools for the realization of her artistic ideas through the matrix. We can therefore really believe her when she says that her printmaking “is born in wood, not on paper.” Her prints are made up of large impressions of geometric shapes. The shapes in them are in constant tension; “they are like conductors of energy or like moving, blinking mechanisms” (Ivo Mesquita, 2005). The tension in her printmaking is also maintained on paper. She uses thin and transparent Japanese paper, which creates a delicate contrast to the gesturally treated wood of intense colour. The colours on the transparent paper create colourful transparent veils, and the graphic print within the space can also gain a double reading of the image. Her prints ‘attack’ us on the physical level as well as with their symbolic nature and the language of signs. So it comes as no surprise if she incorporates the matrices into her installations. Ultimately her public works also have the effect of huge matrices in the space. All have the potential of being a graphic print. Similarly as in the formation of the matrix, she also uses unconventional and experimental approaches in the making of the impression. When printing, she makes very specific use of the matrix; overprinting, assembling, multiple impressions, adding and taking away ... it is all part of the game, and serious work at the same time. Everything is in the feeling. One piece bares another; it is all interconnected and intertwined. Forms repeat, technologies intertwine. Maria finds the motifs in her environment; in the newspapers and literature, in her wanderings across the city, in politics, history, in her own family, sexuality and elsewhere. Her life is interesting and dynamic; everything that she has lived through has been incorporated into her artistic interpretation in one way or another. She says that she is not interested in realism, but reality, and she never sways into full figuration

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SPECIAL

in her work, even though this can sometimes be anticipated. Maria also finds ‘graphic situations’ in nature, such as footprints in the sands of Copacabana or the grooves in the bark of trees made by insects, for instance. It is therefore not surprising that she has chosen wood as her material par excellence. This already has a graphic structure in itself. She is an advocate of the communication of ideas and collaboration in art. She has always taken the standpoint that her production springs from ‘the mutating graphic arts’. This applies to both the actual graphic prints on paper and those on concrete slabs, projects in public spaces and the three-dimensional objects that she casts from a variety of materials, as well as her art installations. Hers is a world of sculpturally treated, communicative matrices, within which she prepares the wood forms so that they can be used for modelling concrete as well as other materials, and are not necessarily printed on paper. For Maria Bonomi, graphic art is art in the making and in the process – be it via computer technology, projection, installation and mixed media – unbound by technology and materiality. With her modus operandi, with her ‘graphic philosophy’ as she calls her creative process, texts and public appearances, Maria is the most eloquent advocate of the creative power of contemporary printmaking.   Breda Skrjanec

Breda Skrjanec ha curato la personale di Maria Bonomi alla Jakopic Gallery, spazio 32º Biennal of Graphic Arts, giugno 2017, Slovenia a Ljubljana, catalogo “Printmaking Forever”. Curatrice e Museologa del Centro Internazionale di Arti Grafiche (MGLC), Ljubljana-Slovenia Ha realizzato oltre 50 mostre: From the Cradle to the Grave, selected drawings by Damien Hirst; The Partisans in Print; Edward Zajec, The Artist and the Computer; FV Alternative Scene of the Eighties; Sol Lewitt – The Book: A Machine That Makes Art, The Big Ones! Works from the Collection of the MGLC (Slovenia); Impressiones +386 (Spagna); The Spirit of Image and Drug As Art (in Cina).

AMOR INSCRITO Gravação espacial em alumínio fundido, 2009 149 x 149 x 45 cm. Fotografia di Andre Rosso ______________________________ MARIA BONOMI Fotografia di Lena Peres

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SERIE FOTOGRAFICA LUCES Fotografia di Manuela Reyes, 2012


II INTERVIEW


INTERVIEW

voluspa jarpa

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LOS ARCHIVOS DESCLASIFICADOS “Todo se desvanece en la niebla, el pasado está tachado y la tachadura olvidada. Todo se convierte en verdad y vuelve a convertirse en mentira”, (Orson Well) La artista chilena Voluspa Jarpa (Rancagua, Chile, 1971) representará a Chile con la obra “Altered Views” en la 58ª Bienal de Arte de Venecia, 2019, a cura de Agustín Pérez Rubio. Planteado como un ejercicio de descolonización, el proyecto Altered Views se basa en la experiencia de la artista de haber revisado los archivos secretos de organismos norteamericanos sobre América Latina durante el siglo XX. A partir de estas investigaciones, Jarpa se pregunta “cómo se configura la mirada modernista, eurocentrista y colonial que luego se expande a Estados Unidos, y que construye el menosprecio simbólico que se impone como sometimiento político, cultural y económico en las regiones no eurocéntricas?”. Tu proyecto Altered Views, representará a Chile en la próxima edición de la Bienal de Venecia, la historia es un territorio simbólico en disputa, porque es donde el pensamiento hegemónico se sostiene y donde se estructura el poder. “Desde mi punto de vista estético, investigativo y creativo, he buscado las fuentes que expliquen y visibilicen esa disputa, y despejen los hechos”. Dices. Leo que a través de tu investigación sobre Latinoamérica y los archivos de la CIA como estos estados que se ponen de acuerdo secretamente en la represión de la región, cuyas policías secretas acuerdan operar fuera de las soberanías y de las fronteras nacionales, en una clara situación de impunidad. Como enfrentarás artisticamente esto? “Esta propuesta es inédita, y nueva en mi producción artística. Es un ejercicio de decolonización”; se basa en la experiencia tras haber revisado los archivos secretos de los organismos norteamericanos sobre América Latina durante el siglo XX. Desde allí surge la pregunta: ¿cómo se configura la mirada modernista, eurocentrista y colonial, que luego se expande a EUA y que construye el menosprecio simbólico, que se impone como sometimiento político, cultural y económico en las regiones no eurocéntricas? La obra propone rescatar conceptos acuñados desde una perspectiva eurocéntrica, nociones que den luces sobre esta violencia con la que se reduce el mundo a un modelo expansionista, desarrollista y hegemónico; verificando a través de casos históricos específicos, que van construyendo una estructura y conceptualización, derivados de los discursos científico y culturales. Este relato histórico, centralizado en Europa, transformó todas las otras historias culturales en historias periféricas. En el montaje del pabellón, reponemos esas concepciones europeas sobre raza, género y organización del poder, proyectadas sobre los otros no-europeos. Así, la obra se propone como un proceso de decolonización. A través de la mirada y de la información histórica, revisa fragmentos de esa estructura, para hipotetizar que: los conceptos impuestos al otro son productos del rechazo y proyección de lo propio. Así lo expresa el antropólogo Peter Mason: “Se tratan de estereotipos y formas muy fijadas de alteridad, con raíces en Europa(…) los europeos no necesitábamos descubrir América para aplicar la imágen que hicimos sobre los indios. Estas imágenes realmente fueron sacadas de un ‘depósito’ que ya había y que ya se aplicaba a los musulmanes, o a algunos grupos de mujeres, como por ejemplo las brujas europeas”. Al ver tu historia me doy cuenta que te ha tocado vivir en Latinoamérica en sus peores momentos, donde prevalecían las dictaduras, hablo de Brasil, Paraguay, Argentina, Chile (eso que Juan Downey llamaba desamparo cosmico). Ver y vivir las dictaduras siendo aun una niña, de que manera influencio tu vida? Mi urgencia por el archivo se debe a percibir desde niña la violencia y sus síntomas, una nube flotante de malestar percibida a través de mi infancia anclada en el Cono Sur de América Latina. Infancia que me ha

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Pg. 32 Dettaglio dell’opera DE LOS ARTILUGIOS COTIDIANOS 3.0 FIAC, Francia, 2015 _____________________ Pg. 34 DE LOS ARTILUGIOS COTIDIANOS 3.0 FIAC, Francia, 2015 _____________________

◀ DE LOS ARTILUGIOS COTIDIANOS 2.0 Frieze NY, EUA, 2015

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INTERVIEW

hecho preguntarme muchas veces cuánto de mi subjetividad está cruzada, modelada, por esos hechos y atmósferas que envolvieron mi niñez, por esas dictaduras militares y sus códigos y lenguajes de los que fui testigo en mi propio país y también en los otros países de la región por donde viajé y viví. Al descargar algunos de estos archivos, tuve una primera impresión directa con el hecho mismo de la desclasificación de los documentos. Es decir, dimensionar el tener acceso a información que durante toda mi vida había presentido. Para mi generación acceder a esos documentos burocráticos que revelan datos duros, fechas, sumas de dinero, personas implicadas, esquemas de organización, planificaciones estratégicas escritas era acceder a un aspecto de la realidad con la que no habíamos lidiado. Mi generación era una generación que tuvo que escuchar las versiones contrapuestas de la historia, es decir, las versiones propagandísticas-ideológicas de la historia, con los testimonios y testigos contrapuestos de esas versiones contradictorias, con titulares que decían “No existen tales desaparecidos”. Así mismo, sufrí un segundo impacto pues muchos de estos documentos están tachados: párrafos y páginas completas borradas con líneas, rayas y bloques negros. Me conmoví por esa información borrada y, a su vez, por la historia de Chile, aquella que sentí pequeña e insignificante desde esa borradura; pensé en el abismo que había entre los hechos sucedidos en Chile, lo mucho que nos han conmocionado por largo tiempo y esas tachas. De alguna manera tenía expectativas históricas de que esa información repararía la torcida historia de Chile que yo vivía, y sin embargo apareció, no la torsión, sino la desfachatez de la borradura. Las dictaduras latinoamericanas estaban directamente relacionadas con los intereses económicos de Estados Unidos en la región, tiene empresas con intereses en la extracción de las materias primas y, por lo tanto, el asunto está más relacionado con el dinero que con la ideología. Podríamos llamarlo el tuyo un malestar ético. Es este tu desasosiego? Trabajo desde hace quince años con los archivos de la CIA y otros organismos de inteligencia de Estados Unidos sobre países latinoamericanos que han sido desclasificados, en un período que comprende desde 1948 hasta fines del siglo XX. Empecé trabajando con los archivos que se publicaron sobre Chile (en lo que se denominó Proyecto de desclasificación Chile) en los años 1999, 2000 y 2001, cuando Augusto Pinochet estaba preso en Londres, suceso que propició la voluntad internacional para hacer visibles estos archivos, siendo Chile uno de los países que tenía el mayor volumen de desclasificación de documentos. Con desclasificación quiero decir que los documentos que Estados Unidos ha sacado a la luz pública sobre América Latina estuvieron clasificados bajo la condición de secreto y esta condición a su vez se subdivide en otras como “Confidencial, No Distribuir, Prohibida o Restringida su Circulación, Secreto Sensible / Sólo Mirar, o el sello de Secreto / Delicado, Nodis (no distribuir a otros organismos), Noforn (no distribuir a otros países), Roger Chanel (prioridad máxima; difusión restringida), Top Secret, etc.” Entonces, conceptualmente, desclasificación quiere decir sacarlos de esa condición restrictiva o de supresión que es el secreto y hacerlos públicos. En Chile todavía es difícil procesar socialmente nuestra historia, hay versiones antagónicas y míticas, con un habla que es más parecida a un rumor que a una voz ética y pública, nos puedes explicar esto? No es un problema de Chile, es más bien una característica de la estrategia de no saber cómo sucedieron o suceden los acontecimientos sociales y políticos que provienen de un diseño de la Guerra Fría. En una interesante frase de Bill Clinton de esos años, pronunciada para celebrar la desclasificación, afirmó: “los chilenos tienen derecho a saber su historia”. Interesante. Interesante por varios motivos: el primero es que al parecer hasta ese momento no sabíamos nuestra historia, es decir no habíamos tenido ese derecho y nos estaba siendo otorgado recién a comienzos del siglo XXI. Interesante también pensar que ese derecho no

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era pleno, ya que habían muchas páginas borradas completamente, o párrafos o líneas que dificultaban la compresión de la información que además está en inglés, un idioma extranjero. Quiero detenerme y hacer una pequeña reflexión sobre el significado político de qué es una tacha de censura de información. Las tachaduras son el borrado de información que permite que un documento clasificado como secreto sea liberado de esa condición y por lo tanto desclasificado. No es un acto histérico solamente -me refiero a borrar / reprimir para simultáneamente mostrar- sino que una tachadura posee al costado una marca burocrática, escrita a máquina o a mano que señala, a qué interés corresponde la necesidad de mantener esa información como secreta. Puede ser B1, B2, B6 etc. Esto códigos se refieren a cuáles son las razones de Seguridad Nacional Norteamericana que hace que esa información se mantenga oculta hoy. Quiero decir con esto que aún cuando el documento sea de 1972, por ejemplo, existen razones en el presente para que esa información no sea revelada. Lo que equivale a entender que esa tacha corresponde al presente de ese documento. Puede ser que la operación de inteligencia descrita esté activa aún. Puede ser que la persona que aparece mencionada, tal vez como informante o agente, esté de alguna manera operativa, puede ser que la información se refiera a algún interés norteamericano que se mantiene intacto en el tiempo. Es decir, lo que nos impacta de una borradura no solo es que hay algo que no puedo leer, sino que lo que impacta es que hay algo que no puedo leer HOY, ya que aún no es historia, ya que esa tacha es presente, una no-historia, algo que no ha terminado de suceder. Han sido diez años de trabajo, leyendo y articulando información de servicios de inteligencia, que en ves de lograr con eso finalmente llegar a la verdad te has llenado de nuevas preguntas¿Qué es lo masculino? ¿Acaso la Guerra Fría es, en realidad, una disputa de dos tipos de masculinidades? ¿Es propio de lo masculino la violenta disputa por el poder? ¿Es propio de lo masculino liderar procesos de cambios sociales históricos, dejando fuera lo femenino? Pensar en la dimensión geopolítica de esa información y la manera en que involucra a toda una región, como Latinoamérica, es entender que una de las características de la segunda mitad del siglo XX, es que nos pone, obligatoriamente, en una discusión política, económica y también cultural, sobre los lineamientos con los que la región está definida y determinada. Pensar que esto no tiene un correlato en el arte, es ignorar la plataforma histórica en la que nos movemos. Como dice Charles Esche, en el libro que editamos con ocasión de mi exposición “En nuestra Pequeña Región de por acá” en el Museo Malba de Buenos Aires, y que puede servirnos para pensar hoy algunos puntos geopolíticos que implican a los artistas, obras y sistemas críticos de asimilación cultural. Charles afirma que: “Lo que planteo es que el arte puede comprenderse en tanto existan dos ontologías paralelas o maneras en que pueda ser clasificado e identificado. En los contextos académicos de los museos, la historia del arte y la estética, se aspira, por sobre todas las cosas, a identificar las obras de arte como una discusión en torno a la estética ejercida entre iguales nominales —artistas y sus distribuidores que los representan, curadores y críticos— que buscan involucrarse en un intercambio equitativo de proposiciones formales, materiales y éticas en contextos culturales, étnicos y geográficos. Esto podría denominarse como un enfoque universalista y es la forma predominante en la que el arte se ve representado en la discusión pública oficial. Una segunda ontología ubica al arte dentro de un marco geopolítico como un portador de valor social y civilizador avanzado. Aquí, el arte moderno se clasifica en su mayoría según criterios locales o regionales, sobre todo en cuanto a tradición occidental, y se utiliza como medida de aceptación social de conceptos políticos como la democracia, libertad, tolerancia y progreso en diferentes países y culturas. Dicho de manera más sencilla: la complejidad y naturaleza avanzada del arte occidental son mediadas como prueba de la superioridad ética de la sociedad occidental (y recientemente de la sociedad blanca) y sus instituciones políticas. Aunque la primera ontología permite la posibilidad de que los sujetos no occidentales se adhieran a este discurso sobre el arte, esos artistas solo pueden hacerlo bajo los términos de la segunda ontología propuesta.”

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INTERVIEW

La característica material de los documentos desclasificados de la CIA tienen otro mensaje implícito: la borradura. Se trata de un palinsesto contemporaneo donde todavía es necesario seguir rascando para sacar la verdad y sobre ella escribir una nueva historia? Mis razones para trabajar con el archivo no provienen de los fundamentos de la historiografía, ni tampoco de la necesidad de comprobar y contrastar fuentes de información para narrar el punto de vista que disputa el historiador. Mis razones para acercarme y zambullirme en la necesidad de archivo en la que he vivido los últimos veinte años provienen del encuentro con la borradura y la tachadura, que surgen de la no-historia o, lo que es más misterioso, provienen de la dimensión del SECRETO como asunto de seguridad, de su histeria y de su mudez. Desde las artes visuales, ha sido mi interés construir una tensión entre forma estética y contenido político que permita al espectador/lector problematizar la noción de archivo, teniendo por objeto producir una experiencia para el que mira, pero considerando que éste también puede ser a ratos un lector. Asimismo, la manera de espacializar los documentos, de disponerlos en el espacio, busca construir, más allá de la información que contienen, una dimensión simbólica de la experiencia de estos archivos y de la historia que portan. Para poder pensar el material de los archivos desclasificados como material para las artes visuales, en el sentido de visualidad, lo primero que entiendo es que son documentos que contienen textos y tachas, pero que al ser exhibidos, no están dispuestos solamente, o mayoritariamente, para ser leídos sino para, en primer lugar, ser vistos. Es decir, en su condición de imagen y luego de texto. La característica de la tacha y el texto del documento confunden al que las observa, al suprimir “las más viejas oposiciones de nuestra civilización alfabética: mostrar y nombrar; figurar y decir; reproducir y articular; imitar y significar; mirar y leer”. Antonio Arévalo

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EN NUESTRA PEQUEÑA REGIÓN DE POR ACÁ MALBA, Argentina, 2016 Cortesia di MALBA


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SERIE FOTOGRAFICA LUCES Fotografia di Manuela Reyes, 2012


III THE NEW CODE


THE NEW CODE

codice ritmico


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JULIO VICTORIA

MANUELA REYES

Un giovane colombiano che ha sempre lavorato nelle discoteche, DJ di professione con l’aspirazione di portare l’anima della musica elettronica nella quotidianità, con la luce e nella natura. Un progetto sperimentale che prende il nome dal suo ideatore, Julio Victoria Live, forse autoreferenziale e allo stesso tempo genuino. “Más de 5 años de experimentación. Más de 5 años encontrando un sonido singular. Más de 5 años de producir tracks sin finalizar. Más de 5 años buscando un concepto. Más de 5 años buscando una forma envolvente e intrusiva en la música, racconta Julio “5 años en realidad es poco para una carrera como músico, y como artista; pero es un tiempo que da indicios de un proyecto que pisa fuerte. Julio Victoria Live, se crea como un proyecto de música electrónica que mezcla instrumentación colombiana, sin recaer en los sonidos típicos folklóricos”.

Giovane artista colombiana con un’attività creativa vivace e multidisciplinare che sviluppa tra Bogotá e N.Y. Le sue opere spaziano dalla fotografia, alla grafica, alla moda, alla pubblicità e all’editoria, alle forme sperimentali e indaga spazi sentimentali e sensibili legati alla natura e alle percezioni umane. Una particolare attenzione è rivolta al ritmo attraverso la luce e le forme simboliche che si riferiscono allo spirito con l’uso di linguaggi tecnologici, elettronici e virtuali.

L’idea diversa è quella di coinvolgere artisti che suonano dal vivo e mischiano i suoni elettronici con i suoni della natura, gli stimoli ancestrali, i ritmi tradizionali e propongono un percorso identitario contemporaneo. Il risultato è tangibile, in luoghi non usuali e in forme nuove. Sonorità si accompagnano a elaborazioni pittoriche che restituiscono il ritmo della composizione attraverso un’opera visiva. E le forme sonore sono concerti all’aria aperta, per la gente che frequenta i luoghi per la cultura, per la conoscenza e per l’incontro. Dal Teatro Colón al Planetario de Bogotá, a BAUM Festival e Estéreo Picnic, uno dei Festival più importanti della Colombia; e ora in Europa, Helsinki, Oslo e Parigi. Una volontà, quella di Julio, di unire le sue radici, la sua terra, le tradizioni e la memoria, nel vivere quotidiano: la musica viaggia tra la gente, nelle strade, nelle piazze, nei mercati per essere ascoltata e vissuta da tutti. “Surge, no sólo como un proyecto musical, sino como un proyecto artístico, que busca trascender más allá de la pista de baile. Junto a un contenido visual que se aleja de las estéticas comunes dentro de la electrónica, es un proyecto que representa un choque sonoro de múltiples culturas colombianas, e involucra varios instrumentos autóctonos que se fusionan con ritmos y bases oriundas de Detroit, Chicago y Berlín”.

www.juliovictoria.com

Manuela Reyes is a visual artist and a curator. As an artist, she has ventured in photography, painting, sculpture, and installation. Her art works have been exhibited in places such as Museo Bolivariano de Arte Contemporáneo, The Botanical Garden of Bogotá, Museo de Arte de la Universidad Naconal, Rojo Galería, and Salón Regional de Artistas. She currently works at the Inter-American Development Bank in Washington, DC co-curating the exhibitions of IDB’s Cultural Center. Reyes was the founder and director of COLORS.INC, a photography agency and book editorial as well as for Capitalgreen – Green Fund, a foundation for tree reforestations in Colombia. For twelve years, Reyes worked as an art director and photographer of different magazines and printed media such as Capital Club, Amarilo, Panorama, La Barra and MARRIAGE.INC. She also worked teaching photography at the Universidad Jorge Tadeo Lozano of Bogotá in the faculty of advertisement. Reyes worked at The Museum of Modern Art in New York at the Department of Drawings and Prints and at the consulting firm Sokoloff + Associates. Her curatorial projects include The Ocean We Inhabit, at the National Aquarium of Baltimore, Fashioning the Future, at IDB’s Cultural Center, Mirroring Horizon at CP Projects Space, (Re)Vision, in alliance with No Longer Empty, and Performing Bodies, a curatorial competition of The Robert Rauschenberg Foundation and Artsy, winning an honorable mention. Reyes was born in Bogotá, Colombia, where she studied Visual Arts at Universidad Javeriana. She has a master’s degree in Curatorial Practice from School of Visual Arts in New York City.

www.manuelareyesart.com

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È libertà il mattino, solitudine la sera: gli anni sono come treni che passano, treni che corrono sempre più veloci... A volte li guardava da lontano, a volte li rincorreva, ogni tanto inciampava, qualche volta volava. C’erano momenti in cui si sentiva come a battaglia navale, da bambini: colpito e affondato; altri in cui aveva l’impressione che sarebbe morto felice. Ogni tanto si chiedeva la differenza tra sempre e mai, che il più delle volte gli sfuggiva, e ogni giorno ripartiva, sapendo di non andare da nessuna parte. Ma gli piaceva camminare. Giovanni Bernuzzi (dal romanzo Sogni di Gloria)

◀ SERIE FOTOGRAFICA

RAINBOW PLANET Fotografia di Manuela Reyes, 2007

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liquid faces GIORGIO BERTAZZOLI

ANTONELLO DIODATO GUARDIGLI

È un artista italiano eclettico che spazia dalla pittura alla poesia con una intensa attività pubblica dove spiccano le sue doti di scrittore, giornalista, insegnante, editore e comunicatore. Per la sua arte ha ottenuto diversi riconoscimenti e premi in ambito internazionale e ha esposto in Italia e in Europa anche con la Fondazione Lucio Fontana. Le sue opere pittoriche indagano i volti e i caratteri dell’umanità con segni e campiture espressioniste che evidenziano un uso del colore impulsivo e graffiante. I suoi ritratti, a volte immaginari, sono maschere che svelano inquietudini, violenze e pulsioni non espresse, sono urla che provengono da luoghi sconosciuti e paurosi, sono l’altra faccia inesplorata che talvolta esplode tra pirotecnici colori danzanti.

È un artista italiano aperto alle sperimentazioni creative. Le sue opere sono energiche e esprimono rabbia e violenza con tracce, solchi, colature, visioni esuberanti e invadenti. Sono pezzi di carta e segni, fotografie e sculture, sono collage, assemblaggi di scorie lasciate dalla memoria e dal passaggio frenetico di una umanità in movimento. Gallerista e esperto d’arte, lavora la materia sin dagli anni ‘80 e i riferimenti all’arte pop guardano ironicamente le espressioni impulsive dell’arte con la dissacrante missione di denunciare il degrado di una esistenza che deve trovare la forza di recuperare la propria nobiltà attraverso la religo.

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LA SFINGE DELL’ERA MODERNA Giorgio Bertazzoli Tecnica mista su tela, 2017 70 x 100 cm

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◀ SPRING

Antonello Diodato Guardigli Tecnica mista con sovrapposizione di elementi, 2015 60 x 80 cm _____________________ NUDO DI DONNA-FIORE IMMERSA NELLA NATURA Giorgio Bertazzoli Acrilico e pastelli con pigmenti puri su tela, 2018 70 x 100 cm

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SENZA TITOLO Antonello Diodato Guardigli Acrilico su tela, 2014 100 x 100 cm __________________________

◀ LA PRIGIONE DELL’UOMO MODERNO Giorgio Bertazzoli Tecnica mista su tela, 2017 60 x 80 cm

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MOBY DICK Antonello Diodato Guardigli Acrilico su tela, 2017 150 x 100 cm _____________________ IL SEME Antonello Diodato Guardigli Tecnica mista Opera donata dall’artista alle Istituzioni Maltesi 70 x 100 cm

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MOON Antonello Diodato Guardigli Acrilico su tela, 2014 100 x 100 cm __________________________

◀ SELF PORTRAIT N.1 Giorgio Bertazzoli Tecnica mista su tela, 2017 60 x 80 cm

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SERIE FOTOGRAFICA LUCES Fotografia di Manuela Reyes, 2012


IV CROSSING


CROSSING

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An excess of light is like an excess of shadow: it doesn´t allow to see the inward look. Octavio Paz The mangrove lives between the worlds of freshwater and salt water. It may seem as a passive organism, yet it possesses an immense force within. It is a sleeping giant. And the children play with it. Over seven years ago Felipe Jácome entered the Cayapas Mataje reserve for the first time. It is one of the last mangrove reserves left in Ecuador. Initially guided by his curiosity – for two years, the photographer had worked for the UN High Commission for Refugees in the Ecuadorian-Colombian border – this memorable visit made him realize that he wished to go back to observe and study this intricate universe. He would not be able to photograph on sunny days, given the strong contrast between light and shadow. Instead, cloudy days would offer him a balanced chromatic space, with arms wide open. The true protagonists of this series are the children: the lords of the mangrove. Although it is not exclusively a children’s pursuit – adult men and women alike participate in it – Jácome has focused on the young shell pickers, known locally as concheros. Their mission is to find and collect shells that are deviously tucked within the complex tangles formed by the branches of the mangrove. Despite earning an average of only 8 cents per shell, the lords of the mangrove continue to immerse themselves in this humid, dense, and at times hostile world. After long hours of arduous work in the elements, these children collect about a hundred shells per day, providing a significant income for their families. “One finds refuge in the imperative that certain things must be documented in order to exist, so that they are not lost among the noise,” responds Jácome when asked what drives him to document these lives. Indeed, anecdotes would be a poor substitute for the inquisitive power of his lens to describe the eery beauty of these scenes. Jácome captures emotions and transforms them into images. There is a game of lights, a game of shadows, and of glances. So many penetrating glances permeated with honesty. These are the glances of the children that meld their joy and sweetness with the unyielding aggressiveness of the mangrove. This is why many of them wear long gloves, to avoid slicing their hands and forearms and ward off relentless mosquito bites. They also use rubber boots to protect their feet from the mud and from the coarse mangrove branches. There is another danger: the toadfish. Its sting triggers a searing pain and in most cases leaves a scar. It is best to cover up as much as possible in the mangroves. As children, however, they are inevitably prone to play. “They take time to be kids,” explains Jácome. And so, in their vast mangrove kingdom, these children appropriate their forbidding environment and merge into nature. As they look for shells, the children sing and laugh. Sometimes they play hide-and-seek or have contests to see who can collect the most shells in the least time. “It has been a visual exploration for me,” explains Jácome, describing this environment as “a contrast between the tenderness of childhood and the harshness and madness of the mangrove.” And now, let us dive into this madness. Diana Murray Watts Curator

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Jefferson Muñoz lights a torch made out of coconut husks. The torches blow smoke for hours repelling the vicious mosquitoes and black flies of the mangrove. Cayapas Mataje Reserve, Ecuador, 2014. – 61 –


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A group of kids take a break from picking shells. Despite the efforts of local authorities to keep kids in school, many of them drop out to pick shells full time. Reserva Cayapas Mataje, Ecuador, 2013. ______________________________________________________

◀ Un group of children climb the mangrove trees to pose for a picture during the Lord of the Mangrove exhibit in the Cayapas Mataje Reserve, 2017. – 63 –


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Shell pickers have traditionally worked barefoot. In the past years, however, most people use rubber boots and gloves to protect themselves from toadfish and water snakes living in the mud of the mangroves. Cayapas Mataje Reserve, Ecuador, 2014. – 64 –


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Cesar Castro has 7 brothers and sisters. He is the only one of his siblings to pick shells to contribute to his family´s income. Cayapas Mataje Reserve, Ecuador, 2013. – 65 –


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The mangroves of the Cayapas Mataje Reserve are the tallest in the world. The dashing roots and branches of the trees grow in shapes and forms that seemingly defy any logic. Cayapas Mataje Reserve, Ecuador, 2014.

Local communities visit the Lord of the Mangrove exhibit in the forest Cayapas Mataje Reserve, 2017.

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Alejandra Bones has 3 brothers and sisters. She is the only one of her siblings that picks shells to contribute to the family´s income. Cayapas Mataje Reserve, Ecuador. 2014.

Inhabitants of the Cayapas Mataje Reserve arrive at the Lord of the Mangrove exhibit in the forest of the Cayapas Mataje Reserve, 2017.

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ho perso l’aereo a tokyo

GIAPPONE Le fotografie da pg.69 a pg.71 sono di Iolanda Anna Pani, 2018

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Una tazza di tè a Shirakawa-go, lontano da Tokyo. Nella sala c’è poca gente, malgrado il luogo sia una voce turistica e le stradine attorno siano sempre affollate. Può capitare, nel tardo pomeriggio, che il silenzio si riappropri di se stesso. È naturale, quasi sacro, rispettarlo, fissare sul tavolo basso la tazza e il gattino di legno con gli occhiali che legge un libro. Oltre il vetro, le sagome delle fattorie con i tetti di paglia spioventi. Stile gassho-zukuri, “mani in preghiera”. Cascate di paglia, con l’eterno timore del fuoco. Spiegano che prima del 1960 queste case erano altrove. Per difenderle da una colossale diga, furono smontate e trasportate qui. “Salvate dal turismo”, enfatizzano le guide. Oltre l‘orlo delle case il verde assoluto, imperatore di tutta la strada percorsa fin qui. Fissare la tazza e sollevare lo sguardo implica non parlare, perché più voluttuoso del silenzio è il sentimento del silenzio. Poco oltre c’è uno stagno coperto di petali. Loto o ninfee, è uno spettacolo giapponese. Che si ripete. Il senso ultimo di questa osservazione? Il vuoto. Se lo si intende con poco spirito occidentale. Non è felice o infelice. Forse è una porta, un ingresso sgombro per la mente troppo sazia, prima che i proprietari della sala ridano perché non è facile districarsi dalle sedute basse a pavimento. Si può cogliere la singolarità: qui c’è il Giappone di una volta e la moda che lo ingloba. Paese di metafore e di pignola perfezione. Di teatro e di spirito. Di colori vistosi e di giardini. Dove il silenzio è anche un treno superveloce che non fa il minimo rumore.

Può diventare fastidioso leggere che un luogo è stato dichiarato “patrimonio dell’umanità”. Sembra una regola di massa, la locomotiva debordante del turbo turismo. Per fortuna c’è la sostanza. Qualcosa che resiste ai cellulari. Qui più che altrove. Bisogna sfrondare, chiudere gli occhi, cancellare chi ti sta attorno. Aspirare all’introvabile energia oscura dell’universo, rischiare l’incontro col lato oscuro della Forza – siamo nel paese dei manga. O semplicemente tentare di cogliere una scintilla. Niente di sensazionale, un granello di spirito, se è rimasto. Chissà se si “vede” meglio a piedi scalzi, ma il giardino Kenroku-en, a Kanazawa, è una sosta trascendentale. Parolina magica: Zen. Risuona soffice e armoniosa, più della fontana “più antica” del Giappone, un dettaglio del luogo. Certo, è lo schema classico, che conosciamo - senza nutrircene - anche in Occidente: gli alberi, le rocce, l’acqua o la ghiaia chiara, il ponticello, la lanterna. E il panorama “cooptato”, l’elemento esterno, casuale, che si insinua nel quadro. Una collina, uno scorcio. Il canone estetico rischia di portare tutto in superficie, ma non ci riesce. Sotto, nella sua perfezione, resta l’ordine invisibile, la diffusa liturgia della natura…”L’universo non ha un centro” medita la poetessa italiana Chandra Livia Candiani, che conosce le dimensioni del Buddhismo. E spesso qui “c’è questa pace/ fonda e minuziosa/pace che piove/pace che cuce”. Se hai molti anni sulle spalle pensi al sorriso di Siddharta di cui parlava Hermann Hesse. Il “sorriso” del Buddha che in oriente incontri spesso. Il volto tondo. Pacioso o serafico. Impenetrabile e familiare. Di colui che ha raggiunto. Qui è ovunque, tra i giardini che rappresentano il mondo, nella scala perpetua di terra, acqua, vapore, fuoco, vuoto. Superfluo parlare del Daibutsu di Kamakura, l’antica capitale, l’immensa statua all’aperto del Buddha. A Nara ce n’è un’altra più grande, di bronzo, dentro il tempio, con ombre che sembrano accenderla. Queste in fondo sono attrazioni facili, immensità costruita. Ciò che conta non si può dire. Forse è un diverso concetto di durata, il viaggio rallentato della meditazione. L’immobilità sopra la cresta sottile del lago? La sospensione del pensiero? Valgono ancora dopo le mistificazioni occidentali?


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È sterminato il numero dei templi. Kyoto, che soffre ancora per aver perso la corona della capitale, è capitale delle colonne che raccontano una religiosità senza Dio e con molti dei. Tanti quanti siamo noi e ciò che ci circonda. Gran dono il panteismo, così arcaico e così lontano dalla maledetta idea occidentale di colpa, un antidoto naturale all’inesorabile violenza delle religioni. Scintoismo, Buddhismo, chi vuole può cercare le differenze, e non solo negli ingressi dei templi in terra e in acqua, nel rosso fiammante e nel legno corroso dal tempo: è forte la sensazione che ci sia una sola radice. E quindi un identico bisogno. Una stessa anima, sorvegliata dai volti corrucciati dei guerrieri all’ingresso. Ci si chiede che senso abbia per i visitatori con altre fedi ripetere il rito della purificazione: l’acqua dal mestolo di legno sulle mani e sulla bocca. E poi la moneta sull’altare, i battimani, gli inchini. Generalizzando non si perde il rispetto? E nel frattempo la foto non conserva. Banalizza. Magari ha un senso, e solo in questo senso, l’idea di nazionalismo. Che poi, in questo caso, è la supremazia dell’individualismo. Una religione che non uccide. Ad Arashiyama c’è una foresta di bambù. Viene in mente il film “La foresta dei pugnali volanti” di Zhang Yimou. Le spade che frusciano e fanno sanguinare. La magia delle spade, i codici d’onore che rimangono nell’inchino perpetuato ovunque. Persino in treno o al ristorante. Il Giappone è storia di cerimonie, shogun e guerre intestine. Altrove si trovano vecchie case-fortezze, nobili residenze con i pavimenti che “cinguettano” meccanicamente. Si fabbricavano così per segnalare le presenze, magari pericolose: una sorta di dolcezza bellica. A Kyoto c’è il Padiglione d’oro. Fu dato alle fiamme da un monaco e la storia venne raccontata da Yukio Mishima: ricostruito, forse non nasconde più il “mistero della bellezza” di cui parlava lo scrittore. Quei segni del nulla, colti dal protagonista, perché “il nulla era la vera essenza di quella bellezza”, che però “non scompariva” mai. Da qualche parte ce n’era sempre un’eco”.

Hiroshima. Il monumento di ciò che cadde e accadde è un edificio in rovina ma riconoscibile. Lo chiamano A-bomb dome. Prima che arrivasse Enola Gay era l’Industrial Promotion Hall. Non fu interamente distrutto perché era nell’epicentro dell’esplosione. Un frammento scheletrico e scuro di vita, umana e disumana contraddizione. Qui dicono che non c’è tanta vita attorno ai monumenti. I visitatori non sono molti. Non quelli che ti aspetteresti. Non c’è il silenzio della post follia, ma quello dell’attualità. Più in là il turista fa suonare una campanella. Chiunque in questa piazza fa suonare una campanella, ma non è più un concerto. La memoria…


AINAS MAGAZINE Si vorrebbe dire che Tokyo riassume tutto, ma non è così. Come una metropoli non è mai il suo Paese. Se qualcosa respira dei vecchi tempi, la modernità congiura, nasconde tutto nei quartieri distanti dal centro, in periferia. In qualche oasi strappata al turismo, se credete alle guide. Forse non è nemmeno così: basta guardare “Un affare di famiglia”, il film di Hirokazu Kore’eda palma d’oro al festival di Cannes. I drammi della società contemporanea hanno madri uguali, camminano in processione, salgono sui grattacieli e sui palazzi che ne sono una mezza copia. Mentre Shinjuku, Arajuku, Shibuya, Rappongi, i quartieri dove le folle si incrociano senza dormire, sono le vetrine. Le punte avanzate dei nuovi immaginari. I colori accesi stordiscono quando una volta rallegravano. Le luci abbagliano quando una volta illuminavano. Le fiamme della pubblicità non devono lasciare fessure, sono pareti complete che fanno frullare gli occhi, il cervello e – chissà quando – il cuore. C’è ancora un luogo al mondo dove puoi tornare dentro te stesso, anche se ti sfiorano file di persone spersonalizzate, con i pantaloni scuri, la camicia bianca e le scarpe di pelle? Divisa sociale. Oppure un esercito che, per contrasto, spiegazza, scompagina, colora come su un album di bambini. Obbligo metropolitano. Qui si può dire tutto e il contrario di tutto. Tokyo divora il tempo mentre l’altro Giappone lo gusta. Luna park, supermarket, profumeria, il materiale si rincorre a velocità supersonica. Sono ovvietà. Ma puoi davvero rimanere sbigottito sommando ciò che compri nei negozi e nei negozietti, come diceva Josif Brodskij a Venezia. E non è colpa della bellezza. È un tarlo più effimero. Un sopruso. Glamorama. Troppo pieno e troppo febbrile, spesso soffocante, per essere colto in immagini che restano: un altro genere di nulla sotto il dominio di nuovi dei. La tecnologia, per esempio. Ma in una stradina famosa, piena all’inverosimile, l’istantanea prolungata è quella di un giovane che ti guida in un negozio di tutto. Di tutto ciò che è colorato, cioè. Anche lui è colorato, dal ciuffo alle scarpe, dal viso alla maglietta, dagli orecchini ai pendagli. Niente di strano, Arlecchino ha molte vite. Però l’espressione del volto è malinconica. Più in là si può entrare in una sala giochi. Una delle tante. Il trionfo dell’artificio è scontato, sono i nuovi campi di battaglia. E ragazzo è l’Aiace del luogo: nel video si combatte all’ultimo sangue e lui si esalta, sbraccia, si contorce, urla. Si getta all’indietro e si catapulta in avanti. Così forse apparirebbe un hater di Internet se uscisse dal nascondiglio. <Vorrei abbracciarlo> dice la guida. Perché? <Per difenderlo>.

Leggerezza e pesantezza si incrociano. Spesso l’occidentale non è in grado di capire. Leggerezza spirituale, la paura del contatto, l’incanto delle cose minute e per questo più vive, persino il silenzio della velocità Shinkansen. Una cortesia che, per qualche straniero stabilitosi quaggiù, può macchiarsi di ipocrisia. Possibile che il Giappone arrivi prima di tutti al futuro pur essendo partito in ritardo? Ha in mano le carte migliori e si leggono sui grattacieli, sulle insegne, sui brand internazionali, sugli altissimi stipendi, sulle facciate dei ristoranti che scalano i palazzi, piano dopo piano. E sulla feroce determinazione nel lavoro. Ecco la pesantezza, che affiora negli occhi di qualche giovane piegato ubriaco sull’asfalto. Sulla regola inflessibile delle regole indiscutibili. Tutto è designato, la minima trasgressione stupisce. L’inchino universale è un segno di cortesia ma anche di inquadramento militare. L’etica del capitalismo, che spesso punta sulla ripetizione e sulla fantasia, è una nuova scimitarra? Forse la religione elastica è uno sfogo. La leggerezza del passato necessaria contro i tifoni umani. Roberto Cossu


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il bazar di kobane

◀ PASSATO REMOTO

Andrea Maia Stampa fotografica su carta 100% cotone Milano, 2010

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C’è un negozio di vestiti per bambini che prende il nome dal piccolo Aylan nel bazar di Kobane. La serigrafia del suo minuscolo corpo riverso esclude sul vetro la risacca che gli è stata culla nella morte, il viaggio per i campi profughi dell’Anatolia, la città assediata dallo Stato Islamico. Nel gennaio del 2015 la notte era un inferno di bombe dal cielo e mitraglie nei cunicoli, il califfato premeva dalla periferia sud per toccare il confine e l’Europa, i cugini curdi di Turchia e Iraq accorrevano per la resistenza ultima. Sarebbe cominciata qui la regressione della sterminata macchia nera allargatasi nel Vicino Oriente, nell’epica della piccola Kobane, casa di Aylan Kurdi e dei suoi fratelli. Chi ha superato l’infanzia ronza fra le bancarelle, è vacanza e il figlio del farmacista porta in bilico fra le braccia un castello di pomate che crolla, gli altri bambini emergono dalla folla e ricompongono la commessa. Nella nube di fumo del barbiere tutti s’interessano allo straniero, l’intervista è reciproca, Ahmad spiega in inglese che finite le elementari, le superiori e l’università sarà contadino e traduttore al contempo. Fuori le adolescenti portano a spasso in gruppo le chiome libere dal velo e il primo smalto. Grigio è il colore della vita, la distesa di case risorte dalle macerie che corre fino alla periferia da dove venne il nemico. “Il quaranta per cento della forza lavoro oggi è costituito da donne, la distruzione islamista ha lasciato un segno nelle coscienze, ha stimolato una reazione. Ma la difficoltà maggiore è trasmettere i valori democratici a una popolazione da sempre abituata alla dittatura” spiega Birivan Hessen nell’ufficio che tre anni prima era una feritoia sul fronte. La co-presidente del cantone di Kobane ha 28 anni e viene dai quadri civili del PYD. Non ha imbracciato il kalashnikov, concede con un breve istante di imbarazzo, nella genesi militare della rivoluzione in Rojava, il Kurdistan occidentale sollevatosi dentro i confini della Siria. La precarietà della rivoluzione è parsimonia nelle mense dei soldati. Giorno dopo giorno riso, uova e verdure vengono pescate da un piatto comune al centro del tavolo. Ogni lembo di pane è preservato come cosa sacra. A sera i soldati si ritirano nei dormitori, vecchie palazzine abbandonate sul limitare del deserto. Riuniti in una stanza fumano, sonnecchiano e ridono sull’ovvio di una soap opera. Lungo sarà il sentiero che la poesia della rivoluzione dovrà percorrere nelle coscienze dove resistono i totem di religione e patriarcato. Dal balcone la notte è un’allucinazione lunare. Il vento arriva dalla linea arida dell’orizzonte. Il faro che dovrebbe illuminare gli scavi di un pozzo concede una partita a pallavolo per giovani e adulti del caseggiato. Il campo è privo di linee e arrangiato su un piano obliquo, il movimento prevale sulla competizione. Tutti sanno e tutti ignorano la fossa comune scoperta pochi giorni addietro mezzo chilometro più in là. Nella poderosa avanzata dell’estate 2014 i miliziani del Daesh trucidarono ad Ain Issa 110 soldati governativi. L’esercito di Assad in Rojava è invisibile, pochi uomini negli aeroporti e al confine, nelle caserme e negli incroci di Qamishlo, capitale amministrativa abbandonata nei decenni da Damasco e albergo diroccato per i profughi di Aleppo e Afrin, bambini che invadono i ristoranti per un bicchiere d’acqua. Nelle redazioni di giornali e reti televisive si ripete il rito dal pasto minimo e collettivo, sugli schermi scorre la gloria propagandistica dell’esercito rivoluzionario mentre nelle case delle classi alte si elabora il ritorno del regime. Oltre Qamishlo è solo terra bruna di paeselli avvolti dalla polvere, le vecchie pompe che beccano indefesse il terreno per l’estrazione del petrolio, oro dell’oligarchia siriana e fame di una nazione mai nata. Infine è Fishkhabur, il faccione baffuto del demiurgo Ocalan ovunque negli uffici di frontiera, un budello del Tigri da attraversare su una chiatta con uno sbuffo di motore, e il caos iracheno. Luca Foschi

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Logo patafisico di Š Gigi Rigamonti


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Pg.78-79 FORMICA POLICTENA Andrea Forges Davanzati Argento 925, 1995 35 x 12 x 14 mm _____________________ ATTIMI Andrea Maia Stampa toner su carta 100% cotone Napoli, 2018

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Pg.82 INSOSTENIBILE Andrea Maia Stampa toner su carta 100% cotone Milano, 2010 __________________________

FIEVOLE Andrea Maia Stampa toner su carta 100% cotone Milano, 2010 __________________________

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Andrea Maia Stampa toner su carta 100% cotone Milano, 2010

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FRANTUMABILE Andrea Maia Stampa toner su carta 100% cotone Napoli, 2018

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Sopra NINFA DI CRISOMELIDE CRYSOMELA Andrea Forges Davanzati Argento 925, 1995 27 x 25 mm

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Sotto INDELEBILE Andrea Maia Stampa toner su carta 100% cotone Milano, 2010


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LIN’ARIA Andrea Maia Stampa toner su carta 100% cotone Napoli, 2018

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PUPA DI CULICIDE CULEX PIPIENS ZANZARA COMUNE Andrea Forges Davanzati Argento 925, 1995 42 x 12 x 8 mm

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FORMICHE OTRI DEL DESERTO Andrea Forges Davanzati Argento 925, 1995 47 x 28 x 25 mm

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INDELEBILE Andrea Maia Stampa toner su carta 100% cotone Milano, 2010

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SERIE FOTOGRAFICA LUCES Fotografia di Manuela Reyes, 2012


VI SWALLOW


SWALLOW

la carne, il pane, il vino

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C’era una volta il Figlio di Dio che si fece carne e infine, non contento, si trasformò anche in pane e vino. Con entrambi gli alimenti aveva già avuto dei trascorsi. A Cana, durante una festa di nozze, tramutò l’acqua in una bevanda più appagante, per diretta richiesta di Maria. Secondo Giovanni, unico testimone degno di nota, Gesù non era d’accordo. Voleva attendere a rivelarsi o, forse, temeva un controllo della polizia lungo la strada. Non si sa con certezza. Ciò che è certo, invece, è che l’intercessione della Vergine ebbe il suo bel peso. Da quel momento, la Madonna divenne bersaglio di qualsiasi preghiera possibile e inimmaginabile - e non solo degli alcolisti - nel tentativo di invischiarla in una catena di richieste e favori che culminassero in suo Figlio (no, la catena di Sant’Antonio, per quanto simile, questa volta non c’entra per nulla). Gli ex voto in tutto il mondo testimoniano che non m’invento nulla. Anche con il pane Gesù ebbe il suo bel daffare. Al contrario delle nozze di Cana, della moltiplicazione dei pane e dei pesci parlano davvero tutti gli evangelisti, scongiurando il pericolo di una fake news. La cronaca: cinquemila persone ascoltavano Gesù parlare, quando gli apostoli si resero conto che presto o tardi la folla avrebbe avuto fame. Terrorizzati all’idea di dover condividere i cestini da viaggio, sottoposero con discrezione il problema a Gesù, dubitando una volta ancora delle sue capacità organizzative. “Non abbiamo cercato neppure uno sponsor di merendine e girelle” gli dissero. “E ora che si fa? Che cosa diamo loro da mangiare?”. Il resto è noto: con soli cinque pani e due pesci, Gesù inventò in quattro e quattr’otto la grande distribuzione, miracolo che ancor oggi si rinnova in ogni supermercato. Il pane e il vino, scrivevo. Il pane è bello e buono quando c’è. Quando manca, sventola sul ponte bandiera bianca. Il pane, nella società mediterranea, è sinonimo di cibo. Il contrario di pane è digiuno. Non a caso, tutte le religioni cresciute in zona Mare Nostrum hanno giorni canonici di digiuno, affinché non ci si scordi mai della bontà del pane. Il vino, lo si è capito a Cana, è sinonimo di festa, ma anche di sangue, del legame profondo che l’uomo ha con la terra da cui nasce. Ma non basta. Luigi Veronelli, giornalista, scrisse: “Il vino è il canto della terra verso il cielo”. Scegliere pane e vino, insomma, fu l’ultima grandissima azione di marketing di Gesù. La pensata è rimasta, a tutt’oggi, senza epigoni: Gesù non trasformò i due alimenti nel simbolo di se stesso, ma trasformò se stesso nei due alimenti. A chi non bazzica cose di chiesa, ricordo che quest’operazione si chiama transustanziazione, una parola difficile anche da pronunciare, che però indica la presenza reale del Cristo nel sacramento eucaristico, attraverso il passaggio totale della sostanza del pane e del vino in quella del corpo e del sangue di Gesù. Amen. E tutto questo attraverso le parole della consacrazione, pronunciate dal sacerdote durante qualsiasi Messa in qualsiasi angolo della Terra. A chi si chiede come sia possibile, ricordo che la transustanziazione è un dogma, ossia un mistero indecifrabile a cui occorre credere esclusivamente per fede e neppur tentare di sondare attraverso il semplice raziocinio umano. Ed è incredibile ancora una volta (oltre che miracoloso) pensare che i dogmi siano spessissimo legati al cibo. Il cibo, oggi ancor più di ieri, è un atto di fede. Chi ci alimenta merita la nostra fiducia, la nostra incondizionata arrendevolezza. Non possiamo mordere la mano che ci nutre, non sputiamo nel piatto in cui mangiamo. Perché, poi, alla fine è tutto qui, una verità elementare che ci condiziona dalla prima volta che ci siamo attaccati a un seno per poppare, fonte di cui non potevamo dubitare nulla, in quanto - nelle nostre menti infantili - neppure riuscivamo a credere che fosse altro da noi. Vivere e mangiare, ai tempi, era le stessa cosa. E non è più mutata. Il cibo è sacro perché, sotto sotto, non è altro che la nostra personale transustanziazione nella vita. E amen ancora una volta. Giorgio Giorgetti www.cucinodite.it

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SERIE FOTOGRAFICA LUCES Fotografia di Manuela Reyes, 2012



SERIE FOTOGRAFICA LUCES Fotografia di Manuela Reyes, 2012 Finito di stampare nel mese di dicembre 2018


ISSN 2611-5271 € 33.00

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