BOOK | INVIOLATA ILIO . 09/2016

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Inviolata Ilio

Roberto Cossu . Marcello Maxia



INVIOLATA ILIO Roberto Cossu . Marcello Maxia


A Maria Pernanbuco Ciclista


“Ma dove sono finiti questi maledetti dei? Anonimo bizantino


INVIOLATA ILIO Roberto Cossu . Marcello Maxia Opere grafiche e collage di Sofía Arango Impaginazione di Sofía Arango Direzione Editoriale Bianca Laura Petretto Copy settembre 2016 Ainas . Monografia 8 rivista iscritta al n. 31/01 del Registro della Stampa del Tribunale di Cagliari Editore Ainas La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’Editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge.

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SOMMARIO Prologo Parte Prima Libro Primo Libro Secondo Libro Terzo Libro Quarto Libro Quinto Libro Sesto Libro Settimo Libro Ottavo Libro Nono Libro Decimo Libro Undicesimo Libro Dodicesimo Libro Tredicesimo Libro Quattordicesimo Libro Quindicesimo Libro Sedicesimo Libro Diciassettesimo Libro Diciottesimo Libro Diciannovesimo Libro Ventesimo Parte Seconda Parte Terza Epilogo Prologo Finale Personaggi Storici Biografie

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PROLOGO Piove. È raro da queste parti. In una sala che nei secoli verrà distrutta più volte, ma rimarrà sempre una scuola, Platone tiene una lezione. Ha appena parlato di Ippia il sofista e vorrebbe dire “Non pensate che…” quando un giovane, forse il più giovane, solleva il capo, poi timidamente il dito, e dice: “La menzogna è un’arte. E dunque chi non dice il vero è un artista. Ed è tanto più capace quanto più la sua menzogna è indistinguibile. Anzi, quanto più assomiglia alla verità. Se potesse identificarsi con essa, e nessuno potesse distinguere l’una dall’altra, fosse pure Socrate, come definiremmo il mondo? Buono o cattivo?”. Nella sala si leva un brusio interessato. Quando sta per diventare rumore, un altro giovane dice: “Ma poiché gli artisti sono un’eccezione, possiamo stare tranquilli”. Il brusio si fa più fitto e il rumore si attenua. E un altro allievo dice: “La verità, in quanto tale, è immediatamente riconoscibile”. Ora si distinguono le voci. Platone è sorpreso. Come la pioggia e come gli artisti, è altrettanto raro che si sviluppi una discussione che lui non ha cominciato. Per rispetto, se non per timore. Ma il filosofo tace. Poi si alza un terzo giovane, che Platone conosce più di quanto conosca gli altri. E dice: “Se da una parte del campo ci sono tre pecore e dall’altra quattro, e qualcuno mi chiede di contarle, io dico che sono sette. E sfido chiunque a darmi torto. Ma cosa possiamo dire di una battaglia che si trascina per anni e il numero dei morti è più o meno lo stesso in un campo e nell’altro? Quali sono i vincitori e quali i vinti?”. Il primo interlocutore, che ha preso coraggio, visto il risultato pubblico delle sue riflessioni, dice: “Credo che si chiami storia”. E le voci si fanno più alte, mentre Platone sorride. “Dunque”, dice il secondo giovane, che si diletta di teatro e ama Aristofane lo scrittore di commedie, “dunque, se io sono capace come Odisseo dai molti aspetti, posso prendermi gioco della storia?”. Ora sorridono tutti. Anche il giovane che Platone conosce più di quanto conosca gli altri.

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PARTE PRIMA


Anno 130 d.C. Misia, casa di Elio Aristide. C’è una mosca fastidiosa nell’aria. Elio Aristide la scaccia. Poi fa scorrere il pollice sulla corona di capelli che gli cinge il cranio calvo. È indeciso. Custodisce quel rotolo da lungo tempo. E in quel tempo molte cose sono cambiate. Tutto è cambiato da oltre un secolo. Si è diffusa una parola che, istante dopo istante, in un arco inconcepibile, è diventata un insulto: “Paganesimo”. Quelle lettere sono pronunciate con disprezzo, storcendo la bocca. Sono rimasti solo i miasmi dell’Ade, con un altro nome. Aristide non si capacita. L’intelletto non lo tradisce, il cuore sì. Per lui il mondo degli dei è giusto. Come è giusta, di riflesso, l’umanità. Che non deve essere punita, ma semplicemente accettata. Lui del resto si sente un pagano giusto. E buono, anche se questa parola lo fa sorridere. Non capisce perché la setta diventata religione, il cristianesimo, voglia spazzare via tutto. Non adora un dio tra altri dei, non combatte la battaglia degli immortali, sia pure l’ultima. È l’invasione che non ammette resa perché la resa è già scritta all’inizio dell’aggressione. Cosa sono gli dei? Perché c’è un dio per ogni strada della vita? Cosa c’è di vero? E cosa di sbagliato? Chi ha il dono di assegnare i trofei? Aristide intuisce che quelle domande non hanno più senso. Non ci sono più domande, solo certezze. Quelle favole, quelle menzogne, sono state cancellate. Esiste qualcosa di più mutevole del blasfemo? Forse, pensa Aristide con un sorriso triste, qualcuno ha esagerato. Ma sente che anche lui deve fare la sua parte, per piccola che sia. Evitare che la celia si aggiunga alla celia, da parte dei cristiani, ma pure dei pagani che cominciano a guardare il loro mondo con altri occhi. E forse domani, oppure oggi stesso, cambierebbero idea. Sposerebbero l’altra religione. L’unica, la vera, come si dice. Quel rotolo, minuti intarsi di parole, pallida imitazione del sublime Omero, coda di giochi letterari ai confini estremi della Grecia, aggiunge confusione. Minaccia la credibilità. E non si capisce da dove arrivi. E come. Elio Aristide lo ha esaminato per tanto tempo. Ora lo prende in mano e si avvicina lentamente al fuoco. Sempre più lentamente. Si ferma di colpo. Un’altra idea gli ha attraversato la mente. Un ricordo, anzi. Come un refolo leggero ma anche pesante. E insistente. La scena diventa chiara, come i contorni che all’aurora si trasformano in linee nette: lui era ancora giovane e quell’uomo che si era seduto accanto a

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lui, nel tempio di Atena, era vecchio. Con i capelli lunghi e lucenti, forse sporchi, ma lo sguardo indomito. Leale, avrebbe detto Aristide. Era comparso all’improvviso, non convocato e neppure desiderato, perché in quel momento Aristide pretendeva solo raccoglimento. Un raccoglimento pagano, pensa ora, e se ne sente fiero. Quel vecchio, col fiato insolente e sgradevole, gli aveva raccontato una storia, che aveva saputo da altri che l’avevano saputa da altri. Una storia di inganno e sangue. Sentiva l’odore del vino e in quell’odore galleggiavano le sue parole smozzicate. Era un odore troppo forte perché le parole che sentiva potessero essere vere. Nel tragitto dalla locanda al tempio non si compie mai il miracolo. Alla fine, mentre il vecchio sembrava esalare la vita, Aristide gli aveva messo nella mano una moneta e l’altro non l’aveva rifiutata. E il suo sguardo era diventato rassegnato. Aristide non ama i sotterfugi, ma alla forza si reagisce con la forza, si dice. In fondo è figlio della guerra dei dieci anni, del suo mito. Dei tanti ritorni. Di eroi che hanno coltivato la vendetta, perché la vendetta è la spada della giustizia. Forse lui può fare qualcosa. Qualcosa che ostacoli la nuova religione. Che ne sporchi le vesti sempre più preziose. Possibile? Bisogna ritardare la vittoria, insinuare il sospetto che il nuovo non sia necessariamente il meglio. Non è forse anche lui un figlio di Odisseo? Certo, in fondo alla mente, dove si affollano le illusioni, qualcosa vorrebbe convincerlo che tutto può convivere. Il suo sentimento è tollerante. Ma alla superficie del cervello, e soprattutto in fondo al cuore, Aristide non ha più dubbi. È certo del finale, ma altrettanto certo che i suoi dei siano buoni, ancora quella parola che gli sfugge da labbra di bambino, e non è sicuro che i nuovi lo siano altrettanto. Gli dei possono essere crudeli, sanguinari. Colpire e conquistare il potere con l’inganno. Lo sa perfettamente, conosce Zeus e i suoi figli, ma sa anche che Zeus è immensa saggezza, una saggezza che piaceva anche al Fato. Gli altri dei, invece… Jahwè, dio degli orrori. E quel figlio che sarebbe giunto, per rimettere i peccati degli uomini. Anche quelli del padre? Aristide si rimette a sedere e riapre il manoscritto che ha trovato per caso, tanto tempo fa, nel magazzino di uno scalco. Strano posto per un rotolo. Una coincidenza può essere solo una coincidenza, ma anche un segno degli dei. Aristide pensa che la storia del vecchio e il rotolo dello scalco abbiano qualcosa in comune. Il rotolo è consumato, è riuscito a sopravvivere più di quanto la natura o la tecnica consentano.

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Anche questo è un segnale? Scrive per molte ore, senza cedere alla stanchezza. E così il giorno dopo. E così il terzo giorno. Il suo tavolo è ricoperto di rotoli. Ha frugato in casa, tra gli strumenti di studio, ha camminato per le strade alla ricerca di quanto gli serviva. Ha terminato il lavoro. E’ stanco. Quando si alza sente dissolversi le forze. Si appoggia allo sgabello e poi stramazza al suolo. Elio Aristide è malato. Accorre subito il suo servo più fedele, Sermione, che tenta di rianimarlo e poi, disperato, lo trascina fino al letto. Aristide respira ancora e piega una mano verso il pavimento. Al servo sembra che in quel gesto ci sia un comando. Vuole andare a prendere dell’acqua, ma Aristide, con una forza incredibile, gli afferra il braccio con la mano che prima indicava il suolo. L’altra è inerte. Poi tutto il corpo si inarca, dalla gola esce un lamento e Aristide ricade pesantemente sul letto. Il servo lo guarda, sospetta che la morte sia arrivata, fa per chiudere gli occhi di Aristide, ma si ritrae quando vede che le palpebre si sollevano nuovamente, anche se lo sguardo rimane fisso verso il soffitto. Poi il servo si alza e solo allora scorge il rotolo, quasi nascosto dal letto. Ne vede solo un angolo. Forse è ciò che il padrone indicava. Perché? È importante? Lo prende e lo nasconde sotto il mantello. E’ stato un falso allarme, dovuto probabilmente all’eccessivo lavoro. Elio Aristide si è ripreso. I servi lo hanno assistito, i medici lo hanno curato al meglio delle loro possibilità, anche se non hanno capito la causa del malore. Quando ha riaperto gli occhi si è guardato attorno. Non c’era nessuno. Al suo debole lamento sono accorsi due servi. Con voce ansiosa ha chiesto dove fosse il rotolo che stava leggendo. Sorpresi, i servi hanno risposto che non lo sapevano. Non potevano saperlo: non erano stati loro a soccorrerlo. Ha domandato del suo servo più fedele e uno di loro, il più anziano, a capo chino, ha risposto: “Se n’è andato”. “Non lo troviamo più”, si è intromesso un servo giovane, suscitando un’occhiata di rimprovero dell’anziano. Che ha proseguito, con voce stizzita: “Se n’è andato senza avvertirci. Nella sua stanza è tutto in ordine. Voglio dire: non ha portato niente con sé. Dunque potrebbe tornare presto. Abbiamo pensato che tu gli avessi affidato un incarico”. Aristide ha scosso dolorosamente il capo. “No”. Ha sentito una fitta, la voce di nuovo un soffio: “Che cosa significa?” “Non lo sappiamo, padrone. Se c’è qualcosa da capire diccelo. Dicci cosa dobbiamo fare”.

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Elio Aristide li ha congedati con un sospiro. Al buio ora chiude nuovamente gli occhi. “Assurdo”. Scaccia l’idea che forse non è stato un semplice malore. Alessandria d’Egitto, 391 d.C. È una giornata radiosa ad Alessandria. Finalmente, dopo tanti giorni di pioggia, splende il sole e un vento teso ma delicato che spira dal mare porta onde lunghe che s’infrangono sugli imponenti contrafforti del faro. Una nebbia vaporizzata rinfresca l’aria. Teofilo passeggia lentamente lungo l’Eptastadion, la grande diga che unisce Faro alla città e divide il porto in due bacini. “Lode a Tolomeo”, pensa il patriarca. “Ha costruito una bella città. “Non è Roma, ma sa ammaliare come Roma, mi hanno detto”. Per orgoglio, suo e di tutti i cittadini, farebbe il confronto. Si vede uscire da sé, si immagina più grande. Come una statua gigantesca sulla banchina del porto. Da quel corpo immenso lo sguardo vola lontano, abbraccia il Mediterraneo. Con gli occhi della mente osserva Cipro da una parte, la Sicilia dall’altra, Creta davanti. E sopra Roma. Un guardiano che, per natura, ha sempre le dita sulle armi. Sente il rumore leggero delle onde che si infrangono: suggerisce pace, tranquillità. Brevi istanti da conservare. Perché ad Alessandria raramente è tempo di pace. Teofilo sembra sorridere, se il sorriso si addicesse al patriarca. Pace, guerra. Cristiani, pagani. Teofilo non sorride quando pensa ai pagani. Eppure oggi ha un buon motivo di soddisfazione. Gli hanno appena riferito che i lavori di trasformazione del tempio dedicato a Dioniso procedono rapidamente e presto la nuova chiesa sarà ultimata. Non si inganna, è consapevole che il suo sguardo affilato terrorizza i costruttori, ma è altrettanto sicuro che non gli hanno mentito. E le visioni lo addolciscono di nuovo: ha una missione. Il guardiano è un guerriero, che cancella ogni traccia della vecchia religione dalla città. Un demiurgo – certe parole che vengono da troppo lontano si possono ancora accettare – che distrugge quello che non può trasformare. Immagina una piana sterminata, come quella della leggendaria Troia, colma di idoli infranti. Qualche pezzo addirittura galleggia. Non impressiona Teofilo pensare che sia sangue. “Il paganesimo deve sparire”. Indugia ancora qualche istante: l’imponenza del faro, meraviglia della città

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e del mondo, quell’ombra che in certe ore del giorno la taglia e quasi la oscura come un monito, incutono timore e rispetto. Solleva il capo, i raggi del sole lo abbagliano, sospira e abbassa lo sguardo che casualmente cade sull’angolo di un gradone. Gli sembra di scorgere un sacco. No, è un corpo contorto. Una massa informe da cui spunta un braccio, che pare invitarlo. Un mendicante. Teofilo indovina gli occhi scuri che lo osservano dal basso. Non si ferma benché il braccio lo chiami di nuovo. Sente una strana inquietudine e decide di tornare verso la sua abitazione. Ad Alessandra non tutto è come appare. Dove il porto termina ode dei rumori e non ha dubbi sulla loro origine. È Alessandria. Da qualche parte, non lontano, si combatte. Ogni rissa è parte della stessa guerra. Teofilo è uscito da solo, una concessione alla propria forza, ma capisce che ora è preferibile affrettare il passo. Nel palazzo tira un sospiro di sollievo, che forse offende intimamente il patriarca, sempre accompagnato da una scorta, perché così impongono la tradizione, il momento, la religione. Ma talvolta Teofilo pretende l’isolamento e l’imprudenza lo eccita. Vorrebbe soffermarsi su questi concetti, ma il segretario non gliene dà il tempo: “Eccellenza, sono scoppiati dei disordini nel tempio di Dioniso”. Teofilo ha un fremito di rabbia. “Nei tuoi pochi anni di vita hai mai visto un tempio?”, chiede con apparente pacatezza. Il segretario tace, sorpreso. Non capisce il senso della domanda. “Mai. Non puoi averlo visto. Perché non esistono templi, né dedicati a Dioniso né ad altri. Tu forse alludi a una chiesa”. Le ultime parole assomigliano alle onde che si infrangono sul porto quando comincia la tempesta. Poi, come consapevole di una rabbia esagerata, a voce più bassa, “una chiesa. Hai visto una chiesa. E ora riferisci”. “Perdonate, patriarca. Il fatto è che oggi, durante gli scavi, è stato scoperto un edificio segreto. Dentro c’erano oggetti singolari. Dicono che sembrano falli, considerati sacri dai pagani”. “Falli ?” “Si, patriarca, falli, di molti tipi e…”. “E ?” “Dimensioni. Perdonate.” Teofilo sa di cosa parla il segretario. Segretamente ha sempre ammirato l’arte cara a Priapo. Il balenio dell’oro, i riflessi delle pietre preziose, le

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scanalature scure e i rilievi lucenti. Ma un giorno ha vomitato e si è detto che quell’arte è blasfema. È in suo potere distruggerla e lo farà. “Che cosa è successo?”. “I cristiani se ne sono impossessati e sono scesi nelle strade per sbeffeggiare i pagani, i quali hanno reagito come potete immaginare. Avete sicuramente udito l’eco dei tumulti”. Teofilo si rivede nella smagliante armatura. Lo sguardo infinito che supera Roma, viaggia verso l’Europa, arriva ai confini del mondo, accarezza l’Oceano. “Bene. Qualcuno dovrà rendere l’anima al diavolo”. Pensa che Dio sia con lui: “Demolite i loro altari, frantumate le loro colonne, abbattete i loro idoli…”. Sono accasciati contro i muri nelle parti ormai scurite dall’urina. Una decina. Uomini e poche donne. Hanno i vestiti stracciati, non si lavano da diversi giorni. Qualcuno si lamenta, ma è perlopiù il silenzio a dominare. I pagani restano in piedi, controllano i varchi del Serapeion. Sono agitati e si lanciano sguardi furtivi. Non sanno cosa accadrà ma lo temono. Né gli ostaggi cristiani né quel gruppetto di pagani in rivolta fanno ormai caso al fetore che dilaga. “Serapis, dio della fecondità”, si sente. Voce roca. “Chi ha parlato?”. Nessuna risposta. Una giovane esile, la bocca semichiusa e lo sguardo implorante, si avvicina a un pagano che probabilmente ha la stessa età: “Guardami”. La voce è stridula. “Cosa ho fatto per essere punita?”. Il giovane la guarda con pietà. “Sono la terza di dieci figli. E una settimana fa sono arrivati altri cinque figli. Profughi, ma non potevamo mandarli via. Sono nostri cugini. Non c’era nulla da mangiare, non è cambiato molto. Credi che abbia il tempo di pensare a dio?”. Si è alzato anche un vecchio con la barba lunghissima, una matassa sporca dove gli insetti sono infaticabili. Si è accostato silenziosamente alle spalle della giovane, che ha un sussulto quando sente le sue parole: “Io l’ho detto. Non distruggete quel mitreo. Non ci sono già abbastanza chiese? Perché indispettirli? Giuro, ho detto proprio così. Non mi hanno ascoltato. E così voi vi siete arrabbiati. Ma domani? Ci arrabbieremo noi. Loro. Io no”.

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La giovane gli accarezza la barba, aspetta una risposta, un cenno, del giovane. Che però resta muto. Parla solo il suo sguardo di pietà. Sia la giovane che il vecchio si allontanano. La giovane piange anche se le labbra strette dicono che non vorrebbe. Se il giovane parlasse direbbe che la sua storia, e quella della sua famiglia, non sono diverse. Aggiungerebbe solo che ha rotto le braccia di un esattore. Non si cavano tasse, altre tasse, dal nulla. Nei suoi pensieri segreti c’è anche una sorda maledizione. Contro un dio. E qualche perplessità sugli dei. Ma ora non pensa alle divinità. Oltre il muro scrostato, nella stanza accanto, i suoi compagni stanno parlando animatamente. Sono i più anziani. E i più ricchi. Stanno decidendo cosa fare degli ostaggi cristiani. Sanno, come lo sa lui, che Teofilo non aspetterà. Anzi, sfrutterà l’occasione per distruggere anche il tempio del dio della fecondità, le pietre, e pure i rotoli. Quei quarantamila rotoli, gli hanno raccontato, custoditi nell’edificio. Gli hanno anche assicurato che Teofilo non vuole scatenare una guerra nella città, ma chi ci crede? L’alta politica è lontana dai pensieri del giovane, che si chiama Timodeo, ma una regola l’ha afferrata: troppo spesso i servi sono più crudeli dei padroni. Il suo maestro, prima di morire, pochi giorni prima, gli ha detto che l’imperatore Teodosio non è un sanguinario, come giurano i suoi amici. E i padri dei suoi amici. Anzi, è prudente, ha aggiunto il maestro. Sì, ha emanato un editto che abolisce le religioni. È vero, il dio dei cristiani regnerà incontrastato, nessuno può farci più nulla. Ma la religione è solo una parte del potere, ha detto ancora il maestro. E Timodeo, pur non comprendendo appieno, ha annuito. “E lo dimostra, lo so per certo, che l’imperatore vorrebbe un’amnistia. Uccidersi a vicenda, anche ad Alessandria, non ha senso”. Ma Teofilo è un servo. E un vescovo servo è doppiamente pericoloso. Timodeo è certo che proprio queste parole vengono ripetute nella stanza accanto. Come tutte le mattine Britore si alza molto presto, fuori è ancora buio. Il vecchio custode greco ha bisogno di poco riposo e dedica le prime ore allo studio dei manoscritti che poi riporterà alla biblioteca. Non ricorda da quando ha confuso la biblioteca con la casa. Non si è sposato e non ha figli. Neppure quello che Pulcro Sanito, il mendicante mummificato

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all’angolo del porto, gli attribuisce con cattiveria. L’ha detto spesso, quando Britore gli ha rifiutato l’elemosina. L’ha urlato e i passanti lo hanno sentito. Ma nessuno ci crede, e Britore lo sa. Non sa invece quando i libri sono diventati tutto ciò che è. La mente, persino la pancia. Forse per questo è dimagrito fino a sorprendere i medici che ogni giorno si siedono sulle panche della biblioteca. “Non mangi più?”. Lui si stringe nelle spalle e non risponde. L’alba lo sorprende ancora chino alla sua scrivania. La stanchezza è il perno naturale, la clessidra che scandisce la sua vita. Esce e getta uno sguardo distratto ai venditori che aprono le botteghe, qualcuno che come lui si reca al lavoro, i soliti mendicanti già all’opera. Non c’è Pulcro Sanito, non ha bisogno di controllare. Il mendicante livoroso si fa vedere davanti alla biblioteca sempre negli stessi giorni e quello non è il giorno giusto. Quando si avvicina al Serapeion avverte qualcosa di strano. Sono nuovamente scoppiati incidenti fra cristiani e pagani, immagina. Quante volte è accaduto? Britore non ha mai dichiarato di essere pagano, e neppure cristiano. Nel cerchio della bellezza questo pronunciamento non ha senso. Per lui una parola è bella o brutta, provenga dall’alto o dal basso. Così, nel suo abbigliamento indefinito, nelle frasi che non offendono, i cristiani lo ritengono un cristiano e i pagani un pagano. Ora sente urla provenire da tutte le direzioni e vede uomini e donne che fuggono in cerca di un riparo. Improvvisamente viene investito da una folata di vento caldo e solo allora, sollevando lo sguardo che tiene sempre basso, soprattutto quando cammina, si accorge che dal tempio si leva una lunga colonna di fumo. “No”, lo sentono urlare gli abitanti che scappano. Un grido che è il lamento di un animale ferito. L’uggiolare di un cane che scopre il padrone morto. Il vecchio custode non può correre. Si trascina in direzione del tempio e lo fa rapidamente, per quanto gli è possibile. Nell’ultimo tratto qualcuno lo aiuta. Pulcro Sanito. D’istinto vorrebbe liberarsi, ma quando coglie lo sguardo triste del mendicante quasi gli si addossa. E si lascia sorreggere. Non c’è più niente da fare: lo sfarzoso edificio, orgoglio della città, è avvolto dal fuoco, il tetto del tempio è già crollato e le fiamme hanno invaso anche le stanze della biblioteca. Nonostante il fumo soffocante e il calore insopportabile Britore si infila dentro, dando uno strattone a Pulcro Sanito. Non bada all’esclamazione del mendicante. Riesce a strisciare in un corridoio e a raccogliere quanti

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più rotoli può dalle nicchie di pietra non ancora incandescenti. Intanto dal tetto cadono calcinacci, mattoni, travi di legno come gigantesche torce. Britore, a malincuore, è costretto a interrompere la ricerca se non vuole essere risucchiato dalle fiamme. Una volta all’aperto il vecchio custode lascia cadere a terra la sacca con quello che è riuscito a salvare, s’inginocchia e si lascia andare a un pianto disperato che zittisce gli uomini accorsi a domare l’incendio. Dopo un tempo lunghissimo si rialza, raccoglie la sacca e senza mai voltarsi si allontana. Pulcro Sanito lo osserva sconsolato e sussurra, senza che nessuno lo senta, “perdonami”. Britore vaga per le strade della sua città senza una meta, non si accorge del frastuono che lo circonda, della gente che grida, corre, si ammazza. Per farsi forza, tenta di riflettere, e scendono altre lacrime. “Per scrivere tutti quei manoscritti ci sono voluti secoli. La fatica e l’ingegno dei migliori. Paradisi e Olimpi ci hanno prestato i loro abitanti. Angeli e demoni, quando scrivevano, sono rimasti in silenzio, per non disturbarli. In pochi attimi tutto è andato distrutto. Ma da dove vengono i distruttori? C’è un inferno di cui nessuno parla. Quello degli idioti. Dei maledetti idioti”. Britore ha orrore della violenza e delle parole che esprimono violenza. Non è più lui. Rientrato a casa dà subito uno sguardo a quanto è riuscito a salvare. Col cuore in gola spera di trovare qualcuna delle opere preferite, che ha letto e riletto con devozione. Controlla e controlla ancora. Quando capisce che la speranza è inutile si prende la testa fra le mani e beve acqua da una tazza che conserva fin da piccolo. Sono poche le esclamazioni di gioia, troppo poche. Scorre ancora i manoscritti e a un tratto si accorge che non conosce ciò che sta leggendo. Non ha mai visto quel manoscritto coperto da uno strato di pelle scura e si stupisce. Pensava che, nel suo regno, non fosse possibile. Le lacrime non scendono più, la curiosità è una medicina. Si tratta di un vecchio rotolo greco. Dopo le ultime righe c’è un nome: Eschifilo. All’inizio un titolo: “Inviolata Ilio”. Britore beve altra acqua e legge con più attenzione. Dall’inizio. E la lettura è come un balsamo leggero.

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INVOCAZIONE Potente Zeus, Dio di tutti gli dei, Signore assoluto del mondo, dai coraggio e forza al mio cuore affinché possa cantare le miserevoli gesta dell’esercito dell’atride miceneo in terra di Ilio. Intercedi presso il tuo diletto figlio Apollo, affinché io possa raccontare, con la certezza di essere creduto, le atroci imprese dei re achei contro il popolo del sempre giusto Ettore… “Che tracotanza”, pensa Britore. “E quale sprezzante giudizio prima ancora di narrare. Esistevano forse in Grecia seguaci di Troia? Di certo questo Eschifilo è stato dilaniato, strangolato. Le membra ai quattro venti. Ma chi è, cosa vuole raccontare e perché? Aveva anch’esso gli occhi chiusi? Oppure era un aedo che odiava Omero e il suo trionfo? O più semplicemente qualcuno mi ha giocato un tiro mentre la biblioteca andava a fuoco?”. Britore improvvisamente si sente stanchissimo. Troppe emozioni in una sola giornata per un vecchio. Vorrebbe proseguire, ma sente che il corpo rifiuta la veglia. Si alza lentamente tenendosi un fianco. Ripone il manoscritto su uno scaffale della biblioteca e si dirige verso il letto. “Domani. Domani mi prenderò cura di te, Eschifilo”. Ma non ci sarà domani per il vecchio custode. Britore muore nel sonno ed Eschifilo è il nome che spegne il suo respiro. Francia, febbraio 1307. Filippo il Bello ha fretta. Vuole eliminare in tempi brevi l’Ordine dei Templari. Forse è convinto della colpevolezza dei cavalieri, accusati soprattutto di blasfemia, più probabilmente vuole entrare in possesso del loro tesoro per rimpinguare le casse del regno ormai vuote. Emissari sono stati sguinzagliati ovunque alla caccia di carte, documenti, prove. E testimonianze, che, magari opportunamente aggiustate, confermino le accuse, a cominciare da quella di empietà. In un castello dei cavalieri in Normandia arriva il cancelliere e consigliere del re, Guillaume de Nogaret, con un gruppo di sgherri che rovistano brutalmente dal piano inferiore al soffitto. La perquisizione dura parecchie ore, ma senza risultati. Nogaret non si scoraggia, sa perfettamente che questo non significa nulla. La vita segreta del castello è nei corridoi, nelle

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stanze, nei sotterranei che apparentemente non hanno accesso. I padroni sono in carcere e negano qualsiasi accusa, ma non è stato difficile strappare, con lusinghe e minacce, informazioni alla servitù. La caccia prosegue anche di notte e alla fine è premiata: in un baule nascosto dietro la parete della biblioteca viene trovata una sacca di pelle che custodisce, insieme a un fascio di documenti, un’altra sacca di pelle più sottile con l’intelaiatura di metallo leggero e flessibile. Dentro c’è un rotolo bruciacchiato. Il ritrovamento sembra promettente, perché Nogaret, almeno in parte, crede realmente che esistano prove dell’adorazione di Bafometto ed è convinto che gli uomini di Jaques de Molay, il Gran maestro attualmente a Cipro, abbiano tentato di far sparire, bruciandoli quasi tutti, i codici rituali più segreti e rivelatori. Non a caso la ricerca è partita da un’informazione secondo cui il castello è uno dei centri di iniziazione. Quando una delle guardie gli consegna la sacca, il consigliere del re fa un primo esame del contenuto, poi porta tutto nel suo alloggio. Il giorno successivo spedisce il grosso degli uomini in un altro castello dei Templari mentre lui, accompagnato da un drappello scelto, prende la via di Poitiers, dove si trova il re. All’ingresso del palazzo questa volta non deve aspettare troppo. Filippo è ansioso di ricevere buone notizie e lo accoglie in tempi insolitamente rapidi. Nogaret gli consegna la borsa e, a capo chino, deve confessare che la ricerca non ha prodotto i risultati sperati: “Mio sovrano, abbiamo rovistato il castello da cima a fondo, ma il refolo non era un vento. Purtroppo ho poco o niente da offrirvi”. La maggior parte dei documenti riguarda la gestione minuziosa del castello, le note ordinarie della vita quotidiana: conti, riparazioni, consegna dei cibi, vendite e acquisti, entrate e uscite. In più, stranamente, un rotolo che – gli è sembrato – riporta una vecchia leggenda. Non ha alcun legame con la natura degli altri documenti e probabilmente si tratta di una storia utile a intrattenere gli abitanti del castello. Filippo ascolta in silenzio, poi si allontana di qualche passo e sembra riflettere. Infine, irritato più di quanto Nogaret ricordi sia mai stato, lancia il rotolo sul viso del consigliere: “E voi vi presentate davanti al mio cospetto con in mano i conti del servo e un manoscritto per musici a corto di fantasia? Siete un incapace, Nogaret”, urla il re. “Dovrei farvi rinchiudere per la vostra inettitudine, e non è detto che prima o poi non lo

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faccia”. Poi Filippo punta lo sguardo verso l’alto, oltre le finestre, dando le spalle a Nogaret. Quindi si volta di scatto, guarda il consigliere con aria più assorta che rabbiosa, e lo congeda con un gesto secco: “Andate via, sparite, e ripresentatevi solo quando avrete delle prove schiaccianti, altrimenti…” Le parole si spengono nella bocca di Filippo, mentre Nogaret raccoglie il rotolo, temendo che il sovrano gli imponga di lasciarlo dov’è, e arretra verso la porta. Più tardi si chiederà perché ha sentito l’urgenza di portarlo via. E’ stata una sciocchezza. Forse voleva soltanto eliminare ciò che aveva scatenato l’ira del re, rischiando così di raddoppiarla. Nel suo alloggio riflette a lungo e poi riprende in mano il rotolo. Nogaret conosce la storia e la cultura greca. Per quanto cerchi di ricordare, il nome di Eschifilo non gli dice nulla, e tanto meno il poema che si attribuisce: “Inviolata Ilio”. Ne ha già letto un frammento e gli piace continuare la lettura. Scaccia le espressioni di dispetto verso il re che lo tentano: non saprebbe dire perché, ma intimamente quel gesto di disprezzo, quei fogli sul suo viso attonito, lo definirebbe sacrilego. “Non ha senso” si ripete. Non c’è niente di sacrilego. E del resto l’idea di sacrilegio non è contemplata nella sua mente. Molti lo temono, lo considerano un consigliere spietato, tanto fedele alla ragione di stato quanto intermittente nelle ragioni di Dio. Ha visto scorrere il sangue dei nemici, piegarsi le ginocchia dei miscredenti, bruciare i piedi degli eretici e non ricorderebbe un istante di emozione. Gli scatti di rabbia del re gli sono stati sempre comprensibili, e la sua improvvisa ferocia ragionevole. Perché allora il dispetto? Il rotolo non è stato la causa, solo l’occasione. “Non ha senso” si ripete e si accorge con altrettanto dispetto che non riesce a scacciare la condanna. Sì, si sente pronunciare dentro la parola “condanna”. Si china sul rotolo, lo spiega per l’intera lunghezza del tavolo e lo guarda superficialmente, come se da una semplice occhiata potesse comprenderne il mistero. C’è qualcosa di pericoloso in quel rotolo? “Che assurdità”. Riprende la lettura, ma il cancelliere ha studiato superficialmente la lingua greca e il testo è di difficile interpretazione. La calma non è una sua virtù, tuttavia Nogaret non abbandona l’impresa e si ripromette, quando tornerà nel suo palazzo, di convocare il monaco di Espineux. Gli serve la sua esperienza di studioso.

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LIBRO PRIMO Sciagurato laerziade, ingannatore di uomini e maledetto dall’Olimpo. Le tue gesta causarono infiniti lutti in terra di Ilio, per le quali Poseidone, colui che scuote la terra, ti condannò a infinite disavventure prima di poter toccare il suolo della tua petrosa isola… Piana di Troia. L’esercito di Agamennone è allo stremo dopo dieci inutili anni di guerra. Molti achei sono arrivati nella Troade poco più che adolescenti e ora si ritrovano adulti, con le rughe profonde, consumati dalla nostalgia e desiderosi di riabbracciare mogli e figli, molti dei quali non hanno fatto in tempo a conoscere. Troia dalle alte e possenti mura resiste a qualsiasi attacco e sembra quasi che dietro le porte Scee la quotidianità sia la stessa che si viveva prima della guerra. È questa semplice costatazione che infiacchisce i greci: a Troia la vita continua, nell’accampamento acheo non si vive più da molti anni. L’euforia è un lontanissimo ricordo, così come la speranza di una rapida vittoria. Eppure i soldati sono ancora decisi a dare battaglia, ripongono una fiducia assoluta nei loro condottieri, si allenano senza tregua e sono disposti a morire piuttosto che coprirsi di disonore e vergogna. Fino a quando? Anche i comandanti sono stanchi e molti di essi non riconoscono più l’autorità del figlio di Atreo che li ha portati quasi alla fine del mondo per un’avventura che in fondo al cuore nessuno di loro voleva. Achille lo considera apertamente un incapace. Gli altri eroi, anche se non lo manifestano, non sopportano più la sua boria. Solo Odisseo, l’astuto re di Itaca, non si esprime, non perché approvi il comando di Agamennone, ma perché la sua mente instancabile è alla ricerca di una soluzione: “Gli achei devono presto far ritorno in patria, io per primo, io che ho sempre intuito il disastro, e dunque Troia deve cadere a qualsiasi costo. Sia pure col più vile degli inganni”. Anche oggi i due schieramenti si fronteggiano dal primo mattino nell’immensa piana, avanzano compatti, lanciando urla e percuotendo gli scudi con le lance, più per farsi coraggio che per impressionare il nemico. Ma appena i loro corpi entrano in contatto con quelli degli avversari, sbandano, si disuniscono. In pochi attimi ogni soldato combatte da solo per tentare di sfuggire a quell’immane carneficina. E i greci più dei troiani, perché la foga non è un

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leale alleato. Achille, scintillante nel suo cocchio, avanza alla testa dei suoi formidabili mirmidoni, mettendo in fuga i nemici che hanno la sfortuna di trovarsi sulla sua strada di sangue. Improvvisamente, senza averlo cercato, scorge Ettore, il figlio maggiore del re Priamo, il comandante dell’esercito troiano: di colpo tutto si ferma e gli eserciti ammutoliscono. Anche in cielo le nuvole interrompono la loro corsa, la pioggia che voleva cadere si sospende, e tutti sentono che gli dei guardano partecipi, seduti nel grande anfiteatro dell’Olimpo. Sono i guerrieri più forti, gli eroi dalle cui gesta può dipendere l’esito della guerra. Non si sente parola, solo il forte ansimare dei loro respiri e il violento clangore delle spade che s’incrociano e segnano a sangue le parti scoperte dei corpi. Non arretrano mai e continuano a colpirsi fino al calar della sera. Solo al tramonto si fermano esausti e per un tacito accordo. Per suggellare la fine del combattimento, l’acheo dona al principe troiano la sua scintillante panoplia, ultima fatica del dio Efesto. “Ettore valoroso, ti sei battuto da grande guerriero e hai tenuto testa al guerriero più forte. Quest’inutile guerra ci vede nemici, ma io so che tu difendi la tua terra con coraggio, mentre Menelao continua a piangere una donna che non ha saputo domare. Ma il Fato e gli dei hanno deciso diversamente e le cose non si possono cambiare, la guerra andrà avanti fino all’annientamento di uno dei due eserciti. Vogliano gli dei non farci più incontrare in battaglia perché io non avrò pietà”. “Nobile Achille, fammi l’onore di accettare questo scudo, lavorato non da un dio ma dai migliori artigiani di Troia. Che possa sempre proteggerti in battaglia, anche se la tua forza e il tuo coraggio non hanno bisogno di nessuna protezione, e pure se fossi io il tuo nemico del momento. È vero, questa guerra è assurda e dovrebbe risolversi in un duello fra il re di Sparta e mio fratello Paride, che continua invece a nascondersi dietro il mio scudo. Ma hai ragione, non si può tornare indietro”. Le porte della città si aprono davanti al passo orgoglioso di Ettore, due ali di achei si allargano all’incedere fiero di Achille. Ma i pensieri degli eroi sono assai differenti. Per la prima volta Achille non è uscito vincitore da un duello e sa che questa notizia porterà lo sgomento fra le sue fila, Ettore invece è convinto che a Troia lo stiano aspettando per acclamarlo come il vero vincitore e la visione della bella Andromaca sorridente e del piccolo Astianatte con le manine frullanti gli alleggerisce il peso dello scontro e dell’armatura.

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Alessandria, 391 d.C. Cleta, la giovane serva di Britore, non ama i libri. Quelle storie che appassionano il suo padrone e anche il suo terzo cugino, Lubeki. Sente sempre un’unghiata al cuore quando ne pronuncia silenziosamente il nome. Forse la madre se ne è accorta: così almeno ha interpretato una volta il suo sguardo freddo, che si è fissato a lungo sui suoi occhi. La madre sa che la figlia non riesce a nascondere i sentimenti. Quella volta ha sollevato il dito, come un avvertimento, ma non ha detto niente. Pensa spesso a quel gesto. Ha notato che da allora, come per una cattiva magia, le possibilità di incontrare Lubeki si sono diradate. Così il giovane, per la rinuncia forzata, è diventato ancora più bello ai suoi occhi. Ma Cleta con la mente ritorna volentieri indietro nel tempo, quando bambina restava incantata ad ascoltare le storie meravigliose che le raccontava il cugino poco più grande di lei. È allora che è nato quello strano sentimento che non si è più sopito. Anzi, è cresciuto quando Lubeki, adolescente, la portava a pescare in quegli immensi acquitrini nel delta del grande fiume. Non approfittò mai di lei, pensa oggi con rammarico Cleta. E poi è arrivata la conversione. Quel vecchio sacerdote diceva che dovevano conservare il corpo e l’anima puri fino al giorno del matrimonio, che doveva in ogni caso celebrarsi fra cristiani. Questo Cleta non l’hai mai capito, anche se si fida ciecamente del sacerdote. Ma il suo amore per Lubeki anziché spegnersi è divampato, come lingue di fuoco alimentate dal vento in un campo di sterpi. Ma ecco perché non ama i libri: Lubeki li ama troppo e lei ne è gelosa. Cosa avranno di tanto interessante da perderci il tempo e la vista? Cosa resta dopo la lettura di quelle storie? La meraviglia, certo, che svanisce nella pioggia o in un bacio non dato. E da tempo per Cleta la meraviglia è diventata dispetto. Ora pensa che chi immagina racconta sempre falsità. Non c’è da fidarsi. E allora? Preferisce ancora ascoltare chi racconta. Perché così almeno può guardarlo bene in viso e decidere se credergli o meno. E lei sa quando è giusto credere. E in cosa credere. Ha aperto la porta della casa di Britore ed è entrata. Deve pulire, poi andrà al mercato per acquistare quelle poche cose che le serviranno per preparare un pasto semplice che il padrone consumerà la sera al rientro dalla biblioteca. Così fa da anni. Ma non sarà più come prima: la biblioteca è stata distrutta dal fuoco. E cosa farà ora il padrone che passava lì tutti i suoi giorni? E cosa ne sarà di lei? Britore avrà ancora bisogno di una serva?

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Il dubbio le attraversa la mente, ma non riesce a credere che il vecchio e gentile custode possa mandarla via. Si guarda attorno, pensava di trovare il padrone in casa. Probabilmente sarà tornato alla biblioteca. A piangere i suoi unici figli, i libri, che raccontano bugie. Sospira, e comincia il lavoro della giornata. A dire la verità c’è poco da pulire: Britore è un uomo ordinato, difficile trovare qualcosa fuori posto. Anche i libri, sistemati con cura, sono un segno della sua natura. Non sporgono mai da una distesa piana che sembra un tappeto. Come se fossero falsi. “E sono falsi”, si ripete Cleta con stizza. Anche i rotoli sono disposti con estrema attenzione e a Cleta sono sempre apparsi più inquietanti di qualsiasi altra cosa: misteri di diverse dimensioni, provenienti da un passato lontanissimo. Tutto ciò che viene dal remoto profondo la intimorisce. Una paura quasi sacra, anche se non saprebbe spiegarla. Posa le dita su quei dorsi, giusto per confermare l’inutilità di spolverarli, e poi, riluttante, si avvicina ai rotoli. Anche in quello scaffale fa scorrere delicatamente la mano e quando sta per ritirarla si blocca: avvicina i polpastrelli al viso e constata che sono scuriti da una polvere ruvida. Briciole cadute sicuramente da uno dei rotoli. Poche, ma visibili. Guarda, come se aspettasse di vedere la pioggia. E una briciola cade ancora. L’inquietudine diventa terrore. Cleta ha confusamente abbracciato la religione cattolica, ma non ne ha parlato in famiglia. I suoi genitori e i suoi parenti sono pagani senza esaltazione, è sicura che la rimprovererebbero. Segue, dopo la cena, le discussioni in famiglia e ha colto più volte un’espressione: “Meglio non immischiarsi”. Il padre ha detto che il denaro è il dio più cattivo. La madre si è risentita per questo, ma quasi ha sorriso. Profumi o incenso, il valore è lo stesso, ha aggiunto il fratello più grande, che non le è troppo simpatico (e per questo ha già chiesto perdono a Dio). Meglio dunque non svelare la sua scelta, che del resto sarebbe messa a dura prova nella discussione. Cleta è ingenua, ma non stupida. E da quando ha cominciato a pregare ha notato un cambiamento: le cose strane della vita quotidiana le sembrano segni di una volontà superiore. Vogliono dirle qualcosa. Poiché ignora che cosa, subentra la paura. Ma non può essere tutta farina di Dio o del diavolo, oppure sì? Cleta sfrega i polpastrelli gli uni sugli altri, attenta a che neppure una briciola le finisca addosso, vorrebbe spolverare quel rotolo maledetto, ma non se la sente. Indietreggia fino all’ingresso della stanza da letto di

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Britore e si volta. Non urla, ma impallidisce e le sembra di svenire quando vede il suo padrone steso sul letto. Si sente impudica, ma non è colpa sua. Non immaginava che Britore fosse in casa e la sua stanza aperta. Non ha udito alcun rumore. Poi la coglie un altro pensiero. Si fa forza e si avvicina, guarda meglio, piegandosi sul corpo di Britore. “Dio mio, è morto”. Fugge, apre la porta e quasi travolge Lubeki. È lei a cadere e il cugino la aiuta a rialzarsi. “Cosa succede?”, chiede il giovane che smorza la preoccupazione con un sorriso. “Lubeki, Dio misericordioso, il padrone…”. “Calma, giovane cugina, cosa è successo a quel vecchio brontolone”? “E’ morto, l’ho trovato disteso sul suo letto, morto”. “Ne sei sicura? Forse ha esagerato col vino e dorme pesantemente”. Parole a cui non crede: Lubeki sa benissimo, come tutti, che Britore non ama il vino. “Ti giuro che è morto, ha gli occhi e la bocca spalancati, ma non ho avuto il coraggio di toccarlo”. Lubeki entra in casa, seguito a distanza dalla cugina, si avvicina al letto e si china. Rimane immobile a lungo e alla fine capisce che Cleta ha detto la verità. Più che la compassione sente la rabbia. E dentro di sé pronuncia un’orazione funebre. “Povero vecchio, hai dedicato l’intera vita alla biblioteca. Ti sei privato di tutto, dell’amore di una donna e dei figli, per preservare quel tesoro e consegnarlo intatto alle generazioni future. I cristiani hanno infranto il tuo unico sogno e il tuo debole cuore non ha retto. Che siano maledetti”. Abbazia di Sant’Antoine a Clerville, aprile 1307 Il crepuscolo si fa notte. Il refettorio è già chiuso. Nella sua stanza Guillaume de Nogaret è chino sulle pagine del poema di Eschifilo. È una copia, ma il cancelliere del re ha ancora davanti agli occhi i fogli contorti e giallastri dell’originale. Solleva il capo lentamente e si guarda attorno. Sarebbe eccessivo definire ciò che vede un arredamento: oltre il tavolo e la sedia su cui è piegato, un’altra sedia di cuoio brunito, un candelabro che rilascia una luce ovattata, un vaso, un catino. Il monaco di Espineux ha fatto un lavoro soddisfacente. Gli ha spiegato i passaggi più ardui e ha fatto eseguire una copia del rotolo osservando che

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l’originale è danneggiato in parecchi punti. Nogaret torna a curvarsi sul manoscritto, ma ora i suoi pensieri vagano e non riescono a fissarsi, come vorrebbe, sui particolari. Da quasi quattro mesi è immerso nel racconto e non riesce a estrarne la sostanza più profonda. Ha letto e riletto. Ha portato con sé il libro, tenendolo da conto, come mai gli è accaduto in passato per qualsiasi altra cosa. E si è trascinato le stesse domande che si era posto all’inizio. Perché i greci – e chi fra loro – hanno tentato di rimuovere dalla memoria questo poema, una narrazione che non coincide con quella di Omero e del ciclo epico? Metteva in discussione la loro storia, i loro principi vitali? Nogaret sa per esperienza personale, e dopo le vicende di oltre due millenni, che c’è sempre un potere interessato a trasmettere immagini diverse. E in questo caso la Grecia doveva scegliere il mito più celebrativo, quello più rassicurante. Ma fino a che punto ciò che racconta Eschifilo nasconde un pericolo per le ragioni dell’Ellade? E quasi con un sorriso, perdendosi nei mille rivoli della guerra, sentendosi persino infantile, il cancelliere pensa che Elena è ancora viva. Tenta con difficoltà di fermare le riflessioni. C’è qualcos’altro che non lo convince. Sente un fruscio, si guarda attorno. Nella camera non può esserci nessuno. Né uomo, né dio, si dice. Perché immaginare il contrario sarebbe assurdo. Ma la sensazione è che in quella stanza così spoglia fluttui un’entità indefinita. Forse si sta lasciando suggestionare. Da studioso, per quanto dilettante, deve ammettere che i miti sono parole in libertà, solide solo perché tramandate, ma sa anche che sono piacere, immaginazione, arte, armi, veleni. Si è sempre chiesto se c’è un fondo di verità in quei racconti. Ma se la verità riguarda gli uomini, cosa dire degli dei? Dove sono? Dove erano? Nogaret sente un altro fruscio e un’eco lontanissima, un suono. Forse di cetra. Oramai è notte fonda, ma non è stanco e il sonno è svanito: continua a leggere.

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LIBRO SECONDO La pace è un tenero fiore. Lo è in cielo, lo è in terra. Più forte è il gelo, più forte la tempesta, più forte il fuoco. Chi regge il fiore nelle dita non è mai buono. Troppo semplice, per gli eroi e per i vili, è sbriciolarlo… In aiuto dei troiani è arrivato Memnone, sovrano di Etiopia e figlio di Eos e di Titone, che si unisce, con il suo seguito, ai festeggiamenti per la vittoria (che tale è considerata, dato il valore di Achille) di suo cugino Ettore. Memnone ha avuto in dono da Efesto, su supplica della madre, la stessa invincibile armatura di Achille ed è ansioso di provarla sul campo di battaglia. Si avvicina a Ettore che tiene in braccio Astianatte e gli si rivolge così: “Tu oggi hai combattuto valorosamente, non hai perso, ma non hai nemmeno vinto. Io porterò a termine l’impresa che tu non hai saputo compiere. Affronterò in duello il fortissimo pelide, lo ucciderò e ti regalerò la sua formidabile coppia di cavalli, Xanto e Balio. Così potrai diventare invincibile come me”. Il tono arrogante fa infuriare l’eroe troiano che si china per depositare Astianatte e avvicina il viso a quello di Memnone: “Forse tua madre ti ha partorito in un momento di debolezza, o tuo padre era distratto al momento del tuo concepimento, etiope dallo sguardo sprezzante e dal cuore marcio. Non ti rendi conto che con le tue spregevoli parole stai offendendo due eroi, chi ebbe il coraggio di affrontare Achille e colui che nessuno riuscì e riuscirà a sconfiggerlo. Mi irrita maggiormente che tu offenda il capo dei mirmidoni, perché a me basterebbe soltanto, ora e qui, nel tempo di un baleno, sfoderare la spada e trafiggerti per spegnere la tua arroganza. Ma Achille non è presente e non può replicare. Comunque ti lascio la possibilità che vagheggi. Domani poco dopo l’alba, sul campo di battaglia, i nostri araldi chiameranno a gran voce Achille e gli diranno che un altro eroe, venuto da lontano, vuole misurarsi con lui. Potrai combattere e, se vincerai, avrai il mio ringraziamento, gli onori di Priamo tuo zio e la riconoscenza della città. Per il momento hai solo una speranza superiore alla tua abilità e inferiore al tuo orgoglio”. Ciò detto riprende in braccio il figlio e si allontana. Memnone non riesce a replicare, è impallidito fin dalle prime parole di Ettore e il gelo ora gli blocca le membra. Guarda le spalle di Ettore che incede nobilmente e si sente invadere dalla rabbia. Ma anche la madre sa che la sua furia,

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così pronta a tracimare, non può rimanere senza compagnia e che la sua baldanza ha bisogno di sostegni sicuri. Accanto a lui cammina Perfidia, benché tenti di nascondersi. Aurora però non può permettere che stavolta abbia il sopravvento sul figlio: le getta sul capo un manto nero che immediatamente si chiude sul collo rugoso. Così la notte Memnone non riesce a dormire, ripensa alla sfuriata del cugino e non riesce a capire perché Ettore si sia offeso per le sue parole. Pensava di parlare da eroe ad eroe. E tra gli eroi l’arroganza è un’armatura necessaria. La falsa modestia una debolezza pericolosa. La sua mente però si riempie di dubbi: forse è stato troppo avventato nel volere sfidare subito in duello il campione degli achei e ora il suo gigantesco corpo è pervaso da uno strano senso di angoscia, molto simile alla paura. Ma nessuno dorme quella notte. Neppure Zeus, furibondo perché gli eserciti dimenticano di compiere sacrifici agli dei. Scatena allora un violento nubifragio che si abbatte su tutta la Troade. Il giorno seguente il cielo è ancora plumbeo e piove senza tregua, ma ciò non impedisce ai due eserciti di schierarsi nella piana allagata. Memnone è alto e cerca di riconoscere fra le fila dell’esercito avversario il prode Achille, ma il sole non splende e così neppure l’armatura dell’eroe acheo. Anche quel giorno ha inizio il massacro. Tutti i guerrieri combattono con ferocia inaudita: le spade roteano veloci nell’aria pregna di umidità per colpire e mozzare braccia, gambe, teste. Le lance scagliate con potenza e precisione trapassano armature, i soldati gridano, invocano un aiuto che non arriverà, le vite si spengono. Memnone scorge il vecchio Nestore in difficoltà e si precipita verso di lui, ma arriva il giovane Antiloco che riesce a far allontanare il padre parandosi davanti al re etiope. Ha inizio un duello dall’esito scontato. Aiace sta combattendo e facendo strage di troiani da un’altra parte dello schieramento acheo, però è il più alto di tutti nella piana e vede ciò che sta accadendo lontano da lui. Cerca di farsi spazio nella calca per prestare aiuto all’amico, ma il terreno è pesante e, quando arriva sul luogo dello scontro, il figlio di Nestore giace a terra ormai morto. Il gigantesco principe di Salamina è furioso e si getta subito su Memnone. I due sono fortissimi, forse secondi solo ad Achille, ma la potenza di Aiace è raddoppiata dall’odio e l’acheo fa arretrare il nemico fin sotto le mura della città. Accecato dall’ira, non si rende conto di essere rimasto isolato dal resto del suo esercito e ben presto è accerchiato dai nemici. Si batte rabbiosamente, ma i troiani incalzano e, vigliaccamente, quando lo vede

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voltarsi, Memnone scaglia la sua possente lancia che colpisce il figlio di Telamonio alle spalle trapassandogli l’armatura. Improvvisamente un urlo disumano si leva sul campo di battaglia, tanto potente da far tremare perfino Zeus che fa cessare la pioggia: è il grido di Achille che ha visto il suo grande amico morire e ora si lancia in avanti per trovare vendetta. Sta per iniziare il duello tanto agognato da Memnone. Le madri dei due eroi, Teti e Eos, hanno visto la scena e si precipitano da Zeus, che si prepara a pesare le anime dei due duellanti, per ottenere pietà per i propri figli. Ma il piatto della bilancia su cui poggia il destino dell’etiope già scende verso l’Ade. Memnone non fa in tempo a mettersi in guardia che la sua testa rotola sul terreno fangoso. Subito il suo corpo viene squartato dalla furia del figlio di Teti: i troiani restano in silenzio a guardare il macabro spettacolo. La giornata però non è ancora terminata. Una lama di luce riesce a trapassare la coltre delle nuvole e a illuminare il campo di battaglia che riluce di un numero infinito di colori. Le armature dei guerrieri splendono finalmente al sole rendendo subito riconoscibili gli eroi che le indossano. Ben presto si fronteggiano i due uomini che hanno fatto scoppiare quest’inutile guerra: Menelao e Paride. L’atride è un guerriero forte e valoroso ma stupido e avventato, il figlio di Priamo invece è un vigliacco ma furbo e velenoso e tenta in ogni modo di non fare avvicinare l’avversario. Menelao si trova più a suo agio in quel pantano e si sforza di accorciare la distanza per irridere il troiano: “Grande e nobile guerriero, avvicinati, la mia spada vuole assaggiare le tue tenere carni e stabilire se dentro le tue membra scorra sangue o fango”. Paride non raccoglie la provocazione del re di Sparta e tiene sempre l’avversario a distanza rispondendogli: “Potente re Menelao, la tua fama di combattente oscura perfino le gesta di Ares. Per questo ti supplico, dimostrami il tuo valore, spero solo che tu sia più abile come guerriero che come sposo”. A queste parole Menelao, accecato dall’ira, si lancia verso Paride riuscendo a vibrargli un colpo mortale. Elena, impassibile, osserva la scena dall’alto delle mura della città. Il troiano, ferito a morte, arretra e Menelao, lasciando cadere a terra lo scudo e la spada, urla trionfante rivolto alla città: “Elena, vengo a prenderti”. Ma questo gesto gli è fatale perché Paride, in ginocchio, prima di morire riesce a scoccare una freccia che trapassa la gola del fratello di Agamennone che muore con una domanda sul volto. Il giorno volge al termine, sono morti molti eroi e i due eserciti si ritirano per piangerli. I comandanti, Agamennone ed Ettore,

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decidono di sospendere i combattimenti in modo da consentire la disputa dei giochi funebri. Alessandria, 391 d.C. Antigonos è soddisfatto. Si sfrega le mani, ma evitando di guardarle. Le vene sempre più grosse gli danno fastidio. E così le macchie scure che le attorniano. Non gli piace la sua età, però pensa che il denaro sia la cura migliore. E lui è ricco. Di più, conosce l’arte di mantenere e moltiplicare la ricchezza, che non sperpera mai. Spende, parsimoniosamente, solo per le donne. Quella casa è stato davvero un buon affare. Ciò che poi rende Antigonos euforico è l’acquisto del magazzino accanto. La città gli ha venduto l’una e l’altro a un prezzo alto ma accettabile. È convinto che quanto ha versato, in breve tempo, rientrerà raddoppiato. E nel futuro, se la sorte vorrà… Non si è preoccupato di sapere a chi appartenesse la casa, ma gli è stato detto ugualmente. Vi abitava il custode della biblioteca bruciata, Britore, morto senza figli né parenti. Così tutti i suoi beni sono stati incamerati dall’impero e immediatamente rivenduti, perché le casse pubbliche sono sempre vuote. “Buon per me”. Il mercante di Mileto si sfrega ancora le mani mentre attraversa le stanze della sua nuova proprietà. Dal portico guarda la parete esterna del grande magazzino: da molto tempo cercava uno spazio ampio a ridosso del porto per stivare le merci in transito ad Alessandria. Ha visitato molti edifici, ma nessuno rispondeva alle sue esigenze. Quelli che riteneva adatti erano già occupati e, per acquistarli, avrebbe dovuto pagare più di quello che era disposto a spendere. Cercava anche un alloggio adatto al suo rango, dal momento che si trattiene in città sempre più spesso. Anche Alessandria, con il suo caos, è un affare. Basta assecondare la confusione, farne apparentemente parte senza scegliere mai una direzione precisa. Lui si considera un uomo di rango, anche se non ignora che il rispetto che lo accoglie ovunque è dovuto al suo oro. Nessuno lo urta in strada o all’ingresso di un ufficio. Da molto tempo non si sposta quando c’è la calca. Antigonos osserva con più attenzione l’arredamento della casa. La semplicità non lo disturba. Stranamente. Intuisce che nasce da una personalità. Quella di chi vi abitava. Non la definirebbe raffinata perché questa parola non la comprende appieno, ma di rango sì. Un altro rango,

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diverso dal suo, che non gli è del tutto sconosciuto. Si sofferma soprattutto a osservare, quasi con affetto, lo studio, dove nella biblioteca dietro lo scriptorium sono conservate opere di Platone e Aristotele, una copia in greco del Libro dei morti, commedie di Aristofane, tragedie di Eschilo e altri manoscritti che non conosce ma che gli sembrano rari e interessanti. “Ecco dove dovrei arrivare per conquistare il rango che mi merito”. Confusamente, ha capito che anche i libri sono un affare. Perché quegli uomini e quelle donne possedevano dei libri e li leggevano. Ad Alessandria non lo sanno, ma a Mileto e altrove Antigonos è considerato un mecenate. Molti artisti gli devono la sopravvivenza. Guardando i volumi e i rotoli della casa che fu di Britore, decide improvvisamente: “Nel prossimo viaggio trasferisco questo patrimonio a Mileto. E nel futuro, se la sorte vorrà…”. Dà un ultimo sguardo attorno e poi varca l’ingresso. Si ferma perché ai piedi della scala di pietra c’è una giovane a capo chino. Antigonos è abituato a giudicare immediatamente l’aspetto fisico delle donne. È più forte di lui, un impulso irresistibile. Il viso della giovane gli sembra grazioso. Per il resto non ha elementi sufficienti a dare un giudizio: è piccola, ma sembra ben proporzionata. E continua a tacere. Antigonos chiude la porta e poi si volge nuovamente. Non gli dispiacerebbe avere accanto i suoi servi: conosce l’effetto che provocano. E la soggezione e il piacere non sono contendenti, gli ha detto una volta, maliziosamente, uno dei suoi protetti. Nel più leggero dei casi il riguardo per il padrone si trasmette agli altri e Antigonos non può mai nascondere il compiacimento. Ne ha bisogno, alla sua età. Ma questa mattina ha lasciato liberi i cinque servi. Per poche ore, si intende. Anzi, dovrebbero tornare da un momento all’altro. E, in fin dei conti, non è male trovarsi solo davanti alla giovane taciturna. “Sono il nuovo proprietario. Forse cercavi me? Sono Antigonos di Mileto”. “So chi siete”, sussurra la giovane sollevando appena il capo. “Io sono Cleta. Ero al servizio del padrone. Cioè di Britore il bibliotecario. Lui è morto”. “Lo so, carissima. Mi è stato detto. Devi portar via qualcosa che ti appartiene? Non ho nulla in contrario. Se vuoi, ti accompagno”. Cleta scuote il capo. “No. Ho già preso tutto. Era proprio poco. Vorrei chiedervi un’altra cosa. Conosco questa casa molto bene. Ho servito qui per tanti anni, fin da piccola. Mi dispiace abbandonarla. Ma non è solo

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questo”. “Hai bisogno di questo lavoro, vero, figliola?”. Cleta annuisce. “E perché no?”, sorride Antigonos. Ha gozzovigliato a pranzo e a cena. Ha bevuto il miglior vino di Cipro, ha accarezzato le bellissime gambe della sua ancella Cripide. Lei ha sorriso e le ha schiuse leggermente. Antigonos è sazio, soddisfatto, anche se stanotte non avrà la forza di frugare su quella pelle di seta. Non importa, lo farà domani. Ora Cripide ride di gusto, gettando la testa all’indietro. Ma Antigonos non ricorda di aver detto qualcosa di divertente. Vero che i suoi servi, e soprattutto le sue serve, ridono spesso alle sue facezie. Talvolta ha notato che prima si guardano l’un l’altro. Mentre veniva sorretto per le ascelle, piegato sulle ginocchia, e sentiva ancora le risate di Cripide, ha dato un rapido sguardo, chissà perché, a un lato della biblioteca. Gli è sembrato che si sollevasse un refolo di polvere. Sempre più in alto, per diventare invisibile prima di lambire il soffitto. Ora sta per addormentarsi e non si sa se il suo sonno sarà popolato di sogni o incubi. Perché incubi, poi? Tratta con umanità i suoi servi e nessuno gli ha mai rubato qualcosa. A parte il tentativo di qualche giorno prima. Considera Cripide come una moglie, anche se non disdegna altre ancelle dai seni invitanti. Del resto ha talvolta la sensazione che Cripide accetti il cambio quasi con sollievo. L’amministrazione pubblica lo rispetta. Anche i suoi concorrenti lo ammirano e non hanno da temere trame o inganni. All’orizzonte non ci sono cause. Chiunque potrebbe intentarle, il pericolo è quotidiano, ma l’intuito di Antigonos dice che non è questo il tempo. È tranquillo, tutto lascia credere che il sonno imminente gli sarà amico. Ma forse Antigonos non conosce tutto ciò che lo riguarda. O forse riaffiora un lembo dell’angoscia che lo ha colto qualche giorno prima. Se n’era quasi dimenticato. Sì, il tentativo. Un servo infedele, il primo nella sua vita. E per rubare cosa? Forse non intendeva nemmeno rubare. Antigonos lo ha colto di sorpresa mentre nascondeva un rotolo sotto il mantello. Ha urlato il suo nome, che ora neppure ricorda. Il vino di Cipro spesso lo confonde, nuoce alla mente. Gli è già capitato. Il servo è impallidito. Ha balbettato una scusa e Antigonos ha riso sguaiatamente. “Rubi un libro per leggerlo? Ma sai leggere? Su, leggi. Fammi sentire. Se ne sei capace, allora

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non ho visto niente”. Il servo ha steso il rotolo, tremando, e ha aperto la bocca. Antigonos lo ha schiaffeggiato spingendolo da parte. “Attento a non rovinare quel rotolo. È prezioso. Volevi rubarlo per questo? Speravi di ricavarci qualche soldo? Te lo avrei forse negato, se me lo avessi chiesto?”. Avrebbe potuto punire severamente il servo. Denunciarlo. Oggi non c’è clemenza per i furti. Ha preferito scacciarlo, ingiungergli di lasciare Alessandria. Se dovesse incontrarlo di nuovo non sarebbe così generoso. Del rotolo ha letto il titolo e nient’altro. Ha mentito: non sa se sia prezioso o meno. Del resto lui non commercia in libri. “Inviolata Ilio”. Il titolo gli ha detto qualcosa dai contorni imprecisi. Strano titolo. Antigonos protegge scultori, pittori, architetti e scrittori, ma il pudore che viene dalla povertà finora lo ha sempre lasciato in fondo alla stanza dove si radunavano i suoi protetti. Non è colto, non ha letto ciò che gli è stato suggerito. Ha sempre detto che i suoi affari, i viaggi, non gli lasciavano molto tempo. Ma sicuramente lo avrebbe fatto. Forse. Davanti agli artisti vuole apparire riguardoso ma non succube. Loro vivono del suo, lui vive del suo. Eppure quelle due parole gli sembrano bizzarre. Ilio. Ricorda vagamente che ha a che fare con una città distrutta. Bruciata proprio dai greci, se ricorda bene, maledetto vino. Come la biblioteca di Alessandria di cui gli hanno raccontato. Lui non c’era allora. Ma se è inviolata non è stata distrutta. Ilio, non la biblioteca. Sì, leggerà il rotolo, questa volta lo farà. Il greco è la sua lingua e il rotolo è scritto in greco. Ne è sicuro. O no? Ma perché il servo ha tentato di rubarlo? Nella rabbia del primo istante lo ha chiesto, ma non ha avuto risposta. E ha cacciato subito il ladro. Se si ruba una volta forse si è già rubato e sicuramente si ruberà in futuro. A proposito, cosa può avergli rubato? È sempre stato attento, ha sempre controllato tutto. Dalla casa non manca niente, ne è sicuro. E se manca qualcosa è di scarsissima importanza. Non vale la pena ricontrollare. Che stupidaggini. Eppure dopo che il servo ha varcato la porta – e lo ha visto correre e sparire in pochi istanti – è stato colto dall’inquietudine. Una stretta al cuore. “Che ci sia un mistero?”. Si è calmato e ha chiesto ad altri due servi mandati a chiamare di rintracciare il ladro. Sono tornati dopo qualche ora scrollando il capo. “Non l’abbiamo trovato, padrone. È svanito. Siamo andati anche a casa della sorella. Non sa niente, si è stupita. E si è messa a piangere quando le abbiamo raccontato quello che è successo”. ”Non importa”, ha lasciato perdere Antigonos.

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L’inquietudine, però, non lo ha abbandonato per tutta la giornata. Poi ha nascosto il manoscritto. Non ha avuto il coraggio di rimetterlo nello scaffale. “Meglio così”. Il lavoro gli ha fatto dimenticare l’episodio. Perché ora sente di nuovo quell’inquietudine? La stessa angoscia. Nel cuore della notte. Quando non può difendersi. Ma difendersi da cosa? Finalmente si è addormentato, oppure è solo una forma bizzarra di veglia. I pensieri prendono forme strane, di oggetti, animali, uomini deformi. E questi ultimi si moltiplicano. Attimo dopo attimo diventano un esercito. Antigonos ha paura, ma per fortuna ha nascosto il libro. Dov’era prima non c’è più nulla. Ha visto anche la polvere sollevarsi. La polvere, ecco cos’era quella polvere. Il posto del libro. Ma il libro lì non c’è più. E dov’è in questo momento non lo sa nessuno. Nessuno. No, qualcuno lo sa. Cleta. Lo sa Cleta. Glielo ha chiesto lei, col garbo che la distingue. Cleta è graziosa, non vuole prenderla con la forza, ma lei sembra distratta. È una serva puntigliosa, puntuale. Ma finora non ha visto un solo lembo della sua pelle. Neppure una caviglia. Solo le mani diafane, che si attorcigliano divinamente attorno ai manici. Agli utensili della casa. Sì, lo ha chiesto mentre spolverava la biblioteca. Proprio il giorno in cui è rientrato in casa per pochi minuti. Quasi affannato. “Padrone. Qui c’è un vuoto. Lo vedo. Sapete, conosco a memoria questi scaffali. Avete fatto spostamenti? Scusate la domanda, vi prego. È che ho paura che vi rubino qualcosa. Il mio povero padrone Britore mi ordinava ogni giorno, davvero ogni giorno, di stare attenta. Pulisci con delicatezza, ti chiedo solo delicatezza, mi diceva”. Dolce Cleta, ha pensato Antigonos senza pronunciare le parole, “sì, c’è un vuoto”, ma pensava ad altro. La serva ha abbassato gli occhi. “Hai ragione, c’era un rotolo. Un servo maledetto ha tentato di rubarlo e io l’ho cacciato. Ora il rotolo è nella mia stanza”. Perché glielo ha detto? Non saprebbe spiegarlo. “Ma ti chiedo di non farne parola a nessuno. Non te lo perdonerei”. “Certo, padrone. Credetemi, non saprei a chi dirlo. E perché dovrei dirlo?”. Sì, pensa ora, l’ho detto solo a Cleta. Ma Cleta non è una ladra. Così graziosa. E cosa sa lei di libri e artisti? Di storie e leggende? Ecco, “è una leggenda, ora ricordo”. Ma forse non avrebbe dovuto parlarne neppure con Cleta. Se sotto c’è un mistero chi garantisce che Cleta non ne faccia parte? I pensieri si intrecciano furiosi nella testa di Antigonos. Come tenta di afferrarli gli sfuggono e si confondono con gli altri pensieri. Gli occhi sono chiusi, ma lui vede attraverso le palpebre spesse. D’improvviso una

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forma si fa più netta delle altre. Antigonos fa uno sforzo per definirla prima che sia completa, e gli costa molto. Apre solo un occhio e vede appena la scure che lo colpisce tra le costole. Che affonda interamente nel suo corpo. Abbazia di Saint’Antoine a Clerville, giugno 1307 Nell’abbazia di Sant’Antoine da qualche tempo si respira un’atmosfera strana. Il silenzio è la divinità del luogo e non potrebbe essere altrimenti, ma da quando è arrivato il cancelliere del re, che si è chiuso in quella stanza, i monaci si sentono inquieti senza comprenderne i motivi. Continuano a svolgere quotidianamente i loro servizi, però non sono tranquilli. Qualcuno si azzarda a dire, bisbigliando, che Nogaret cerca in un antico manoscritto le prove delle ignominie compiute dai Templari. Altri invece sono sicuri che in quell’antica storia si nasconda, codificato, il luogo dove i cavalieri di de Molay hanno accumulato le loro immense ricchezze: il tesoro del Tempio. Ma sono solo dicerie. Gli uomini al servizio del cancelliere sono invece preoccupati. Raramente vedono uscire Nogaret da quella stanza, e sempre per poco tempo. Sono uomini d’azione e l’inattività li rende nervosi. Filippo invia ripetutamente emissari per ottenere notizie e loro non sanno più cosa inventarsi per nascondere l’assoluto immobilismo del cancelliere. Hanno provato prudentemente a scuoterlo da quello che considerano un pericoloso torpore, ricevendo sempre la stessa risposta: “Sto per porre fine alla caccia”. I suoi uomini temono che sia una falsità. È vero invece che da quando si è rinchiuso in quel cubicolo Nogaret ha perso la cognizione del tempo. Le settimane trascorrono rapide e presto Filippo prenderà atto con violenza della sua inettitudine, che sembra nascere da un incantesimo. Nogaret comunque non sembra dare molto peso al rischio che sta correndo. Sa che presto, molto presto, dovrà riprendere le indagini, ma per ora la sua mente è completamente assorbita dalla lettura. Nella testa si è fatto largo il pensiero che quel manoscritto nasconde qualcosa di eccezionale e deve assolutamente scoprirlo. Continua a leggere.

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LIBRO TERZO Giovane, intrepido e valoroso pelide, a te e alla tua discendenza eterna gloria. Attento però, o glorioso Achille, perché già la Moira recide il filo e la divina madre, in silenzio, piange il figlio caduto… Piana di Troia Achille è sfinito, ha seminato morte e distruzione fra i troiani per nove anni e ora vuole rientrare a casa. La gloria che tanto cercava non lo sazia più. Non vuole più combattere questa guerra che non è la sua, anche se lo ha reso immortale. È giunta l’ora di rientrare in patria, anche lui, il distruttore di eserciti, è stanco di questa carneficina. I re greci sono riuniti nella tenda di Agamennone e il figlio di Teti inizia a parlare senza aspettare il permesso del re dei re che lo guarda con irritazione: “Argivi, il nodo del contendere è venuto meno, Menelao e Paride sono morti e con essi deve terminare questa guerra. Celebriamo i due valorosi eroi e prepariamoci a rientrare in patria e a riabbracciare le nostre famiglie che soffrono quanto noi e più di noi la lontananza. Quello che doveva essere fatto è stato fatto, è giunto il momento della pace”. Agamennone non è dello stesso parere. Vuole vendicare il fratello e dare un significato alla guerra, soprattutto non vuole tornare a Micene dalla sua Clitennestra a mani vuote. Bisogna continuare a combattere, conquistare Troia e l’oro di Priamo. “Re achei, voi tutti molto tempo fa avete fatto un giuramento. Prima che Elena facesse la sua scelta vi siete solennemente impegnati davanti a Tindaro suo padre ad accettare il prescelto e a difendere, anche a costo della vita, quel matrimonio. La morte di Menelao, che tanto sgomento e dolore ha portato a tutti noi e a me in particolare, non annulla il giuramento dato. Noi dobbiamo onorare quel patto e la memoria di Menelao, dobbiamo continuare a combattere fino a quando di Troia non resterà che polvere. Rientrare in patria ora significa tradire, non potremmo guardare in faccia le nostre mogli e i nostri figli senza provare un’immensa vergogna. Chi non la pensa come me che sia maledetto da Zeus fino alla fine dei suoi giorni”. L’ira di Achille si abbatte fulminea sul povero Agamennone, l’eroe vorrebbe trafiggerlo con la sua spada per le parole ingiuriose pronunciate ma viene bloccato a fatica dagli altri re che lo costringono ad abbandonare l’assemblea. Si decide di continuare a combattere, non tanto per il giuramento prestato, ma perché

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tutti pensano che non si possa tornare in patria a mani vuote. Nelle file dell’esercito troiano intanto compare una nuova formazione di guerrieri con armature nere. Sono arrivati da qualche giorno dalle rive del fiume Termodonte, chiamati da Ecuba, la regina di Troia, imparentata con il loro re. Costui è un guerriero alto ed elegante che si muove con grazia e leggerezza, nonostante il peso dell’armatura, davanti ai suoi soldati. Achille è incuriosito e ordina al suo auriga di muovere verso quella formazione il carro trainato dai suoi splendidi cavalli. I Mirmidoni avanzano compatti e ben presto Achille sbarra la strada al comandante dalla scura armatura. Inizia un nuovo duello. Il figlio di Teti non ha rivali in combattimento, l’altro però è rapido a schivare i suoi colpi e il combattimento si protrae per l’intera giornata. “Giovane guerriero, sei molto abile a evitare la mia spada, ma forse non ti hanno riferito contro chi stai combattendo. Io sono il glorioso Achille, figlio del re Peleo e della divina Teti. Io sono il terrore di tutti i troiani che scappano come codardi davanti al mio carro. Solo tu sembri non aver paura, ma questo non ti salverà da morte sicura. Com’è che non ti ho mai visto prima? Chi sei”? Il troiano non risponde e continua a guardare con attenzione la punta della spada di Achille. Finalmente il figlio di Peleo riesce a far breccia nella guardia dell’avversario e con un colpo preciso recide il cinturino che tiene l’elmo ben saldo sulla testa facendolo rotolare nella polvere: la sorpresa è grande, il guerriero è una donna dal volto bellissimo, Pentesilea, la regina delle amazzoni. Tutti ammutoliscono sul campo di battaglia. Achille rimane immobile a contemplare quel viso sublime, incorniciato da lunghi e splendenti capelli corvini, dove sono incastonati due occhi da cerbiatta. Ma l’esitazione tradisce il figlio di Teti perché Pentesilea si accorge del suo smarrimento e, rapida come la folgore, fa roteare la sua ascia che colpisce mortalmente il grande guerriero greco. Gli achei osservano la scena terrorizzati, mentre i troiani si buttano esultanti sul cadavere dell’eroe greco per farne scempio. Ma un urlo acuto, come di uccello impazzito, si leva altissimo sulla piana e paralizza i due eserciti: “Nessuno osi toccare il corpo di Achille”. È l’amazzone a gridare mentre si avvicina al giovane greco e pietosamente ne ricompone il cadavere. Poi lo solleva e lo prende in braccio con estrema facilità, come se la fuoriuscita dell’anima avesse reso quel corpo improvvisamente leggero, e con passo fiero si avvia verso lo schieramento nemico per depositarlo ai piedi di un incredulo Agamennone.

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Alessandria d’Egitto, 391 d.C. “Era necessario togliergli la vita?”. “Non siamo stati noi”. Teofilo si volta di scatto e guarda Eusebio con diffidenza: “No?”. “Quando i miei uomini sono arrivati era già morto. Massacrato”. I pensieri di Teofilo sembrano prendere un’altra direzione: “Non si parlerà d’altro, in città”. Eusebio annuisce. “Chi è stato?”. “Non lo sappiamo. La stanza era devastata. Il corpo di Antigonos in terra. Qualcuno ha rovistato a lungo”. “La biblioteca?”. “Questo è uno degli aspetti più strani”, risponde il prefetto. “Era intatta. I libri in ordine. Ma non è possibile che non abbiano cercato anche lì. A meno che non abbiano trovato prima quello che cercavano. E comunque non volevano che si pensasse che la biblioteca fosse il nascondiglio”. “Un libro non può che trovarsi nella biblioteca. E stento a credere, a questo punto, che non sapessero che anche noi cerchiamo quel rotolo”. “Così ho pensato anche io quando i miei uomini sono tornati a mani vuote. Ma come hanno fatto a sapere della nostra ricerca? E se ci hanno preceduto….”. “Conclusione ovvia”. Poi, dopo una pausa: “Perché siete entrati nella casa in quel momento? Non potevate ignorare la presenza del mercante”. “Altra stranezza. Ci era stato detto che non c’era”. “Stranezza dopo stranezza, una sequela di errori, Eusebio”. Il prefetto china il capo contrito. E’ notte e anche nel palazzo di Teofilo l’illuminazione è fioca. I bagliori delle fiaccole si intrecciano e svaniscono come ombre inquiete. Il vescovo sospira rumorosamente e poi fa oscillare un dito della mano destra: “Cercate la serva”. Eusebio annuisce ancora e si ritira con un inchino. Teofilo si siede e si prende la testa fra le mani. Strano lo sviluppo di questa vicenda. All’inizio era una questione di curiosità. Un’inezia. Aveva saputo che il servo di Antigonos era stato cacciato per aver tentato di rubare un rotolo. Cosa poteva importare al vescovo di Alessandria? La città è piena di ladruncoli di ogni genere. Ma perché trafugare un libro? Certo, non ignorava le

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voci su Britore. “È uno stregone”, “un maestro di magia”, un adepto del demonio”, si sussurrava. Qualcuno giurava di aver visto fiamme uscire dalle sue mani. Qualcun altro di avere scoperto un feto tra i libri. “E cosa ci facevi tra i libri?” era stato chiesto all’uomo che non sapeva leggere, come era facile presumere. “Non solo gli eruditi trafficano con i libri”, aveva risposto quello con stizza. Sapeva che si parlava di Britore con timore, ma fra servi e gente di modesto valore. Anche fra i suoi servi. Britore era un solitario e le maldicenze scontate. Si sarebbe stupito del contrario. Il custode era morto, senza dispiacere per il vescovo, ed era spuntato Antigonos. E, dopo, il servo malfattore. Altri del suo stampo avevano bofonchiato qualcosa al mercato. Stupidaggini. Castelli di supposizioni sul libro che si voleva rubare. E di nuovo la domanda: ma cosa c’è in quel rotolo? Ultimo atto: la morte violenta di Antigonos. Niente fa pensare che i due fatti siano legati, ma Teofilo non può non pensarci. Ricorda l’indolenza con cui ha chiesto al prefetto di procurargli quel manoscritto. Curiosità, si ripete. Forse anche altro. Non vuole ingannarsi: non era indolenza, era falsa indifferenza. Curiosità. Ogni segnale va preso in seria considerazione, ad Alessandria. Qualsiasi cosa può significare tutto. E in molti ora chiederanno un’indagine accurata. La vicenda ha preso una piega che non si aspettava. Cosa c’è in quel libro? Leggende del tempo pagano, ha carpito. Come le storie di Omero. L’importanza? Vorrebbe esaudire la curiosità. Ma Antigonos è morto. Ed è solo una leggenda. Gaudenzio. Un nome come un altro. E chissà perché ha pensato subito che non fosse quello vero. Ha la bocca storta, le narici enormi e le sopracciglia foltissime. Il volto è sempre piegato da un lato e le labbra contorte disegnano un sorriso che non si cancella nemmeno quando è irritato. Ma capita raramente. Con lei Gaudenzio è stato sempre gentile. Anche adesso: è seduta e non si sente bene. Un malessere che cresce da tre giorni. Non saprebbe definirlo. Come se le braccia, le gambe e la testa si stessero rammollendo. Come se le forze, e Cleta di solito si sente forte, la stessero abbandonando. Gaudenzio è venuto a trovarla anche oggi. Cleta non sa come, ma riesce sempre a scegliere il momento in cui è sola in casa. E’ servizievole. Cleta si sente assistita, si sforza di sorridere, anche se la sensazione di penosa fiacchezza oggi è ancora più forte. Gaudenzio scioglie nella tazza una

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pozione e lei, ubbidiente, la beve. Dice che le farà bene, un portento che conserva gelosamente dagli anni nel deserto, è solo questione di tempo. “Debolezza, talvolta è proprio una malattia. Ma passa. Questo è il rimedio giusto”. A Cleta sembra una fiaba. Si sentirebbe riscaldata se non fosse malata. Non è malata. Solo indisposta. Gaudenzio le dice che è meglio stendersi. Tranquilla, sul letto. La posizione aiuta la pozione, dice. E sembra che il sorriso diventi davvero un sorriso. Si appoggia a Gaudenzio che fa di tutto per evitare contatti che potrebbero infastidirla. Sempre, da quando si sono incontrati. Non vuole il suo corpo. Cleta si stende. Gaudenzio si siede nell’angolo lontano, confuso nell’oscurità. Cleta intuisce la sagoma. Sa che la guarda, attento e pronto. Un amico. Di più. Torna con la mente a quel pomeriggio nel recinto magico della chiesa. Lo chiamano così. Quattro lastre delimitate da una striscia scura, nella navata di destra. Nessuno sa chi ha tracciato quel confine, ma sopra quelle lastre si cammina più adagio. Si vorrebbe volare per non toccarle con i piedi o con le scarpe infette. Non si sa quando, ma è certo che accadrà, un soffio è la fortuna che Dio sparge. Forse a caso. Non si accorge di quell’uomo con la bocca storta. Compare all’improvviso, esce quasi dal soffio che spira proprio in quel momento. È fortunata. L’uomo è molto brutto, ma incredibilmente, almeno a Cleta, non fa paura. Pensa subito che dietro quei tratti sbilenchi ci sia più passione che disperazione. E neppure un’idea di lascivia. “Ti ho vista altre volte”, dice. “Ti seguo da tempo”. Parole che potrebbero intimidirla e invece la tranquillizzano. Ma è costretta a chiedere “perché?”. “Non chiedere. Non qui”. Una voce possente eppure bassa, mirabilmente ovattata. Percepibile a brevissima distanza, ma inudibile poco più in là. Si avvicinano altre donne, silenziose, a passo soffice. Un leggerissimo tocco dell’uomo sul gomito la invita a spostarsi. Pochi passi e sono davanti a un affresco: la conversione di San Paolo. “Gaudenzio, è questo il mio nome”, comincia a raccontare. Cleta sa chi è Paolo, ma l’uomo descrive cose che lei non sa. E poi parla della prigionia del santo. E delle catene che gli impedivano di muoversi. Del sangue che si raggrumava su quei ferri. “Era un colore indicibile”. Tanto quanto gradito il suo dolore, perché volontà di Dio. Quando Paolo fu liberato, le catene non andarono perdute. Qualcuno le raccolse. Non era un furto, chi le avrebbe volute? Non si conosce il loro viaggio, le strade che hanno

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percorso, le mani che le hanno toccate, “ma tutti coloro che le hanno maneggiate erano uomini di fede”. Una folla, e poi una moltitudine, e poi l’intero mondo avrebbe voluto accarezzarle e allora santi uomini limarono il ferro e raccolsero quelle briciole in sacchetti di pelle. Con movimenti lentissimi Gaudenzio estrae un sacchetto dalla tasca, lo agita leggermente e Cleta quasi si aspetta che dentro ci siano monete e che tintinnino. Gaudenzio avvicina il sacchetto alla bocca, poi solleva con una nocca un dito di Cleta e lo avvicina alla pelle. Il polpastrello si adagia sul sacchetto e Cleta sente qualcosa muoversi dentro, come un corpicino minuto e morbido. “Qui, qui c’è l’ultima polvere di quel ferro. Ho dovuto lottare a lungo per averlo, ma senza sangue. Non temere. Il sangue cancellerebbe la sua virtù. Solo la bontà lo ha passato di mano in mano, perché è giusto, divino, che tutti ne abbiano vantaggio”. La voce è ancora più bassa. Cleta non riesce a credere che da quella bocca immonda possano uscire note musicali. Che il suo orecchio si senta cullato. Adagiata sul letto, con la nausea che le serra il naso, ripensa ora al piacere, anzi al privilegio, di possedere, anche per poco, quella reliquia. E la nausea si fa più forte, pensando a quanto è stata blasfema. Si è sentita più vicina a quel dio nuovo, portatore d’amore, ma è stata proprio quella parola, amore, a tradirla. Si rivede. Ansante, con le gote in fiamme, mentre apre con immensa prudenza il sacchetto, infila il dito e guarda affascinata due briciole di ferro, dal colore veramente indicibile, fra il rosso e l’azzurro. E si vede slacciarsi il corpetto e far cadere una sola briciola sul seno. Che poi sfrega a occhi chiusi. Riesce a far cadere l’altra briciola dentro il sacchetto, al posto che le compete. “Basta averlo, non è necessario usarlo”, aveva detto Gaudenzio. Un’espressione che lei non aveva capito. Ma aveva visto il lampo di malizia negli occhi nascosti di Gaudenzio. E lei, sfregandosi il seno, scendendo con la mano fino all’ombelico, aveva sentito un calore sconosciuto. Come una promessa. Poi più giù. Era il fuoco del ferro, quel sudore? Il giorno dopo ha incontrato Lubeki e sapeva che così doveva essere. Dopo i saluti, lo ha guardato fisso. Forse Lubeki immaginava ancora in lei il dolore per la morte di Britore. Gli ha chiesto di Antigonos. Cleta ha risposto che si trovava bene, continuando a fissarlo. Come se gli frugasse dentro gli occhi e si aspettasse qualcosa. Lubeki ha sorriso, un pò sorpreso. E di colpo Cleta ha sentito il cuore correre e la delusione, anzi la rabbia,

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farsi strada. “Tu non capisci mai”, ha sentito prorompere dalla bocca. E subito si è pentita. Un pentimento acuto, una sofferenza reale. “Non sono stupida come credi. So cose che tu pagheresti per conoscere”. E anche di queste parole si sarebbe pentita. “Cosa vuoi dire?”, ha chiesto Lubeki irritato. “Di cosa parli?”. “Parlo dei tuoi libri maledetti, che Dio mi perdoni. Io ne posseggo uno che non potresti mai leggere”. E poi è fuggita, mentre sentiva le lacrime scendere. Sulla porta di casa, mentre cercava freneticamente le chiavi, ha avvertito un tocco ormai familiare. Gaudenzio. Che l’ha presa per le spalle con la consueta delicatezza e l’ha scostata dalla porta. “Vieni, è una bella giornata, camminiamo. C’è tempo per rinchiudersi di nuovo in casa”. Cleta l’ha seguito docilmente. Ha fiducia in Gaudenzio, anche a lui ha parlato di quel rotolo. A dire il vero, se non ricorda male, è stato lui ad accennargliene. Sì, un discorso lontano, inutile, di argomenti che sfumavano. Non pensava che i libri fossero interessanti per Gaudenzio. E forse non lo erano davvero. Perché gliene ha parlato? Ah, voleva farsi importante, sentiva che Gaudenzio lo meritava. Importante perché conosceva un segreto. Antigonos, il suo padrone, gliene aveva parlato. Un’opera antica, certo, una vecchia leggenda. Ma Antigonos era bizzarro. Dio, ha dimenticato il suo padrone. Non torna a casa dal mattino, non è mai successo. Fa per alzarsi e il fianco le duole, ma Gaudenzio è ancora vicino a lei, la bocca che quasi respira sul suo viso. Un respiro fetido e maligno, tra labbra sorridenti. Ora Cleta non sente più la leggerezza di quell’uomo. Non capisce. Sarà perché il rotolo è ormai nelle sue mani, che sciocchezza. Lei gli ha detto dove trovarlo. Dove Antigonos l’aveva nascosto. Ma cosa le importa? L’avrebbe detto anche a Lubeki, se l’avesse ascoltata, se si fosse dato un po’ di pena per lei. Se san Paolo beatissimo l’avesse aiutata. Fa per alzarsi, deve andare a casa. Antigonos avrà cercato di lei. Ma Gaudenzio le respira ancora addosso e dice qualcosa che non capisce. La trattiene giù col sorriso, col fiato che non riesce a sopportare. Sta male. Ora il dolore è molto forte, si è esteso anche all’altro fianco e sembra voler esplodere nel petto. La pozione non fa effetto. A dire il vero, non ha mai sentito benefici, da quando la prende. Lo dice a Gaudenzio, che scuote il capo come se non capisse. Perché sorride ancora? Cleta non vede più la bocca di Gaudenzio. Non vede più il tavolo, le sedie, i barili, la brocca. La stanza sembra piena di ombre. Non riconosce niente

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perché non è casa sua. Gaudenzio l’ha portata nella propria abitazione. Si è lasciata portare. Un tugurio, pensa che sia un tugurio, ma anche i pensieri stanno svanendo. Gaudenzio è sempre sopra di lei. Non la tocca. E il sorriso è solo il sorriso della bocca storta. Se potesse sorridere davvero, forse non sorriderebbe. Attende. Immobile. Fino a che può chiudere gli occhi di Cleta. Spegne la fiaccola. Va verso la porta a capo chino, la apre e si trova davanti tre uomini. Non li conosce, ma sa che sono guardie del prefetto. Rouen, ottobre 1307 Una pioggia gelata martella la Normandia mentre Guillaume de Nogaret, la guardia al seguito, si dirige a Rouen per interrogare alcuni cavalieri del Tempio. Il viaggio è lungo ed estenuante. Il drappello avanza con difficoltà nella campagna allagata, i corpi e le menti intorpiditi. Solo Nogaret non sembra soffrire. Se i suoi uomini potessero penetrare nella sua mente, scoprirebbero che è lucida, ma lontana nello spazio e nel tempo. E seguirebbero i suoi pensieri correre oltre i ferri, le mura diroccate, i riti blasfemi. E persino oltre la cupidigia. Non capirebbero le domande che si affollano. E neppure i numeri che si aggrovigliano. Scorgerebbero persino le sagome di santi e dei che si guardano con malanimo, le armi levate e pronte a colpire. Finalmente in lontananza si scorge la grande ansa della Senna che anticipa l’ingresso a Rouen. In città il cancelliere viene ospitato con tutti gli onori negli appartamenti del vescovo, alla cattedrale di Notre Dame. Lo invitano a rifocillarsi e riposarsi dalle fatiche del viaggio. Il giorno seguente, di buon mattino, con un cielo finalmente sereno, varca il cancello di un edificio grigio e malsano. I Templari, provati dalla dura prigionia, malnutriti e avvolti in luridi cenci, vengono fatti entrare uno per volta in un‘immensa sala gelida e spoglia. Sono obbligati a inginocchiarsi davanti al cancelliere e alle sue guardie. I cavalieri non hanno diritto alla difesa, devono subire passivamente le accuse di blasfemia e tradimento mosse da Nogaret che tenta, attraverso poco velate minacce di tortura, di estorcere una confessione totale. Ma questa volta, osserva il capo delle guardie, il cancelliere non si limita a cercare un assenso di colpevolezza. La brutalità si attenua pian piano, la voce diventa quasi suadente. Malgrado le diversioni ad arte, un vagare verbale e un apparente distacco nei gesti

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e nell’attenzione che potrebbero nascondere uno stratagemma, Nogaret pare particolarmente interessato a ottenere informazioni su un antico manoscritto greco ritrovato in un castello di proprietà dei cavalieri. Gli uomini interrogati sono sorpresi e diffidenti. Nogaret, pensano, sa ciò che noi non sappiamo. Un’altra strada verso l’infamia. Tutti comunque, sotto uno sguardo che sembrerebbe persino pietoso, si dicono all’oscuro dell’origine di quel libro, tranne uno che racconta a bassa voce, quasi inudibile, forse sperando in una salvezza che non potrebbe mai ottenere, che quel manoscritto appartiene ai Templari dai tempi delle prime crociate, probabile dono del vescovo di Antiochia…

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LIBRO QUARTO Rispondete, o magnifici dei, voi che abbagliate gli umani e forse li rendete ottusi nelle loro illusioni. È più il sangue versato dagli eroi o è più il fiume di lacrime che scorre dopo il sangue versato? Sono più numerose le lacrime dei figli e dei padri delle vittime o quelle degli eroi che piangono le loro vittorie? E c’è chi non sa piangere? Sia lode a lui… Piana di Troia È allora che dall’estremo limite destro dell’esercito acheo si fa avanti un guerriero dal bronzo nero. Più nero della pelle di Memnone. Cammina come un’ombra spessa che genera terrore. E la sua ombra vera è più nera del suo corpo. Pochi nel campo acheo hanno sentito finora la sua voce e nessuno sa da dove provenga. E si contano sulle dita di una mano quelli che, interrogati, racconterebbero le sue gesta. Se gesta furono. Il suo nome è Scatramante, figlio di Autolico e della tredicesima dea, il cui nome è impronunciato e impronunciabile. Il suo destino contempla che neppure il nome del padre venga rivelato ai mortali. La sua ascendenza è vanto solo per i recessi del suo cuore e della sua mente. Scatramante conosce il vaticinio della sua vita: vivere come figlio senza genitori. Vivere senza che nessuno sappia che è un parente di Odisseo. Vivere senza la gloria dell’ascendenza. Perché Autolico era grifagno anche nell’amore e la tredicesima dea era avvolta nella melma quando fu concepito. E Scatramante porta addosso il lezzo di quell’unione. Ma gli dei spartiscono comunque i loro doni. E Scatramante non è un debole. Il suo odore incute paura prima che a lui agli altri, ma ha la forza di un Aiace, la volgarità di un Menelao, l’astuzia di un Odisseo e la prepotenza di un Agamennone. Un indovino gli ha predetto che un giorno avrebbe parlato a lungo e sarebbe stato ascoltato attentamente. Un solo giorno e forse – su questo era stato reticente – l’ultimo della sua esistenza. Ora Scatramante si fa avanti, prima nella sabbia e poi nella terra inumidita dal sangue e dal sudore, e arriva davanti all’esercito nemico che rientra festante a Troia dopo la morte di Achille. “Troiani”, e il suo ululo sembra rendere il crepuscolo più scuro. “Non rallegratevi. Voi vincerete ma scomparirete ugualmente. Avete ucciso Achille? No. Le lacrime hanno ucciso Achille. Era forte ma debole allo stesso tempo. Egli è morto perché la morte era in lui. E ciò non significa nulla. Voi non

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tramandate gesta di gloria, voi siete larve. La vostra gloria è nelle vostre armature, che perderanno la lucidità, vedranno offuscato il loro splendore. I vostri dei non vi proteggeranno perché la loro era è giunta al crepuscolo. E voi rimarrete nudi, nudi e sporchi. E il vostro odore vi perseguiterà”. E così dicendo si spoglia. Lentamente. Mentre attorno a lui regna il silenzio. Né i troiani né i greci muovono un muscolo. Alla fine, mentre l’ultima fibbia cade al suolo in un fragore incredibilmente assordante, Scatramante rimane nudo. Un’ombra scura nella sera che diventa notte. E ancora parla: “Questa guerra, che tanto piacere mi dà, terminerà, ma sarà soltanto l’inizio del mio piacere supremo. Da allora in poi sarà soltanto la mia nudità contro la vostra, e non avrete scampo. Sarete figli miei, anche se piangerete per questa paternità. Cercherete e forse troverete un altro padre ma saprò strapparvi anche a lui. E allora piangerete di più, e senza gloria. Attendetemi e attendete il mio seguito, dal ragno allo scorpione, dal topo alla biscia, dall’avvoltoio alla iena, tutte le specie che popolano i vostri incubi. Il loro odore già vi lambisce”. E incredibilmente un odore intenso, terrificante e nauseabondo, si spande da un fronte all’altro. Come se l’armatura di Scatramante l’avesse imprigionato e, ora, dal corpo liberato, si diffondesse rapidamente. Come un torrente che sgorga impazzito dalla roccia. Una voce si leva dal campo troiano. “Chi sei?”. Una voce uggiolante, tremante. Nella domanda non c’è la forza della minaccia. Scatramante fa un passo in avanti: “Lo saprai quando dodici leopardi ti morderanno. E ventiquattro leoni si contenderanno le tue povere membra. E quarantotto lupi si porteranno via i tuoi resti. Puoi anche chiedermi, miserabile, come conosco tutto ciò. Ti risponderei: perché io non sono io, se è solo un nome che cerchi. Ne avrò tanti e tutti ti bruceranno la coda al solo pronunciarli. Perché tu sei bestia come me, come i tuoi dei e come quelli che verranno. Una bestia con due corna come quelle di un agnello. Figlia di un’altra bestia che ha invece dieci corna. L’una e l’altra attenderanno pazienti. Mille anni sarà l’attesa, un solo giorno il tuo destino, e i millenni a non finire la vostra sofferenza. Avremo modo di parlarne e avrò qualcosa da offrirvi. Per ora, scannatevi”. A quel punto il cielo nero diventa rombo. E troiani e achei sentono i gemiti del mare. Scatramante si volta verso il campo acheo. Così almeno pare a chi cerca di scorgerlo da lontano. E la sua voce si fa ancora sentire nel frastuono del cielo: “Tutto ciò che ho detto, greci, vale anche per voi. Perderete e scomparirete. Di voi non rimarrà traccia. Le parole

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dei rapsodi faranno di voi dei buffoni, racconti per bambini lerci e adulti stupratori. Attendete anche voi diecimila formiche affamate, centomila rospi che cercheranno ristoro nelle vostre vene, e un numero infinito di polpi che paralizzeranno le vostre gambe. Sarete certi che Odisseo vi salverà. E invece vi avrà condannato. Ti vedo, Odisseo, là in fondo. Vedo i tuoi occhi aguzzi che tentano di forare le tenebre. Vedo i tuoi pensieri che si affollano disperati attorno al canto della deduzione. Puoi far riposare la mente. Non hai tempo. Questo è solo un attimo della vostra giornata. Un mio gioco. Il primo momento in cui mi svelo in queste spoglie nere che ora posso abbandonare. Come la pelle avvizzita di un serpente. Così mi piace. E così vi saluto”. Il mare è un tumulto. La sagoma scura di Scatramante si confonde nella notte e svanisce nel buio. Cosa veramente strana, nei giorni seguenti nessuno chiede di Scatramante e, se qualcuno lo facesse, forse un altro risponderebbe: “Di chi parli?”. In quel crepuscolo, che lentamente riacquista il suo odore naturale. Di morte quotidiana. Senza zolfo puzzolente. In quel crepuscolo non è accaduto nulla. Alessandria, 391 d.C. “Chi sei?”. Gaudenzio non risponde alla domanda di Teofilo. Guarda fisso il vescovo e sembra che la bocca sorrida. Solo la bocca. Ma Teofilo capisce che non ride. Intuisce anche che quest’uomo, di cui non conosce il nome, non dirà nulla. Vede nei suoi occhi il riflesso di un fanatismo lucido, come il bagliore di un incarico remoto e irrinunciabile. Ha conosciuto creature simili, ma sa che stavolta è diverso: legge nella fronte stretta un segno invisibile che viene dal suo stesso mondo. Un mondo in cui Dio ha diviso le armate dotandole di armi e compiti diversi. Non spera nulla dalle sue parole, ma i molti interrogatori gli hanno procurato l’esperienza dell’imprevisto. Nel momento in cui lo ha osservato per la prima volta, quando Eusebio e le sue guardie l’hanno condotto al suo cospetto, ha ordinato di sciogliergli le catene. Non si attende gratitudine, ma una sorta di rispetto. L’uomo continua a tacere e il suo sorriso innaturale inganna Eusebio, che gli si avvicina minaccioso. “No”, dice seccamente Teofilo. Eusebio si tira indietro. “Tu hai ucciso la serva. Per quanto possa sembrarti strano, non mi interessa la fine di quella donna. Potrei persino dirti che non verrai giudicato per

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questo. Era solo una serva. Mi interessa perché. Mi interessa quel rotolo”. È stato solo un attimo, ma Teofilo è sicuro che la fronte dell’uomo si sia contratta. Non ha dubbi: è un’emozione. Dunque il mistero è in quel rotolo. “Non ti importava di lei. Volevi quello. Dico bene?”. L’uomo piega appena il capo. Forse è l’unica concessione alla curiosità. Come se attendesse con un certo divertimento lo sviluppo del ragionamento del vescovo. Che annuisce: “Domanda inutile, lo comprendo. Sei un greco? Un pagano? Un letterato? No, niente di tutto questo. Se così fosse potrebbe interessarti la storia”. Allunga la mano verso il prefetto che gli porge il rotolo. “Questo era sotto il tuo mantello. Intatto, penso. Non hai avuto il tempo di leggerlo, e del resto sono certo che ne conosci perfettamente il contenuto. O non hai avuto il tempo di distruggerlo”. Teofilo si aspetta quasi che il prigioniero si lanci sul rotolo per completare l’opera che qualcuno gli ha affidato, ma l’uomo, di cui non conoscerà mai il nome, non muove un muscolo. “Proseguiamo. Dunque è altro. Ho letto. E ho capito”. Pesta più volte il dito sul rotolo. È infamante per la mia religione. Anche per la tua, giusto? E posso essere d’accordo con te, e persino con Eusebio. Cos’è il delitto, quando è il volere di Dio che solo alcuni sono in grado di decifrare e dunque di realizzare? Ma il mio più grande peccato è la curiosità, per cui torno a chiederti: chi sei? Se non vuoi rispondere al servo di Dio, rispondi almeno al tuo fallimento”. Ora Gaudenzio ride davvero. I tratti del viso si distendono. E apre la bocca per la prima volta: “Dove vivo io, e non vivi tu, non esiste il fallimento, vescovo. Vita e morte sono la stessa cosa”. La voce è bassissima, ma piena. Potrebbe essere di un oratore infuocato e allo stesso tempo pacato. Teofilo ed Eusebio quasi sobbalzano. Gaudenzio si porta la mano alla bocca, come ad asciugarsi la saliva. “Non sono il primo, ma per primo mi arrogo il diritto di darti un consiglio. E Dio mi perdoni. Brucia quel rotolo. Brucialo subito. Non potresti affrontare i molti nemici che scatenerebbe contro di te”. Poi comincia a sudare e lentamente si piega sulle ginocchia. Eusebio si lancia e lo afferra prima che si accasci. Vede allargarsi tra le sue labbra una poltiglia verdastra. “Questione di dosi”, sussurra l’uomo. È giusto così. Un servo per una serva”. Gli egiziani, che chiamano Alessandria Rhakotis, sono sempre guardinghi verso tutto ciò che minaccia le loro credenze, in una città dove ci sono

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cento sfumature nel colore della pelle, e un palazzo ha nomi diversi, e certi quartieri non capiscono i diritti esercitati dietro l’angolo. Qualche notizia è trapelata. Molti parlano apertamente di una cospirazione da parte dei cristiani. Si accenna a uno scritto. Si pensa anche che i cristiani vogliano farla finita con la comunità egiziana. L’incertezza e la diffidenza, sempre affiancate, eccitano gli animi e una moltitudine di uomini e donne inferociti grida e minaccia davanti al palazzo del patriarca. Teofilo non ha paura, è abituato alle sommosse che scoppiano in città per motivi gravi o banali. E d’altronde la sua residenza è ben protetta da un gran numero di guardie perfettamente armate e addestrate. Ma questa volta Teofilo ha sottovalutato la portata della protesta. Il tumulto cresce d’intensità, gli egiziani travolgono la prima fila di guardie e invadono il cortile del palazzo. Teofilo si rende conto del pericolo e fugge da un ingresso secondario, pensando rabbiosamente alla reazione. Gli egiziani entrano, devastano e saccheggiano. Ma tra la folla c’è anche chi ha uno scopo diverso. È Lubeki, il cugino di Cleta, il giovane che ha studiato alla scuola di Zenodoto di Efeso. Che non ha saputo placare la rabbia degli altri e ha deciso di sfruttarla. Con alcuni amici fidati, riesce a infilarsi nello studio e a presidiare la biblioteca del patriarca. Poi, respingendo a fatica ma con decisione quanti vogliono appiccare il fuoco, trova ciò che cerca. Tours, maggio 1308 Nogaret ha portato a termine il compito affidatogli dal re. Quasi tutti i Templari disseminati nel suolo francese sono caduti nella grande trappola preparata dal cancelliere e ora sono rinchiusi nelle carceri del regno. Filippo si trova a Tours, dove ha convocato gli Stati Generali per ottenere dall’assemblea l’approvazione al definitivo smantellamento dell’Ordine. Il cancelliere è stanco, ha bisogno di riposo e decide di riprendere la lettura del manoscritto di Eschifilo. Un pensiero che, come gli capita da quando ne è entrato in possesso, gli dà una strana emozione. È solo nella stanza, ha allontanato bruscamente guardie e servi, si è spogliato e ha indossato la veste da camera. Con estrema lentezza. Sorride intimamente a questo rito che gli fa pregustare il momento in cui lo sguardo si fisserà sulle prime lettere. E come altre volte è accaduto, sente un fruscio. Per abitudine si guarda attorno e divide mentalmente le ombre e le zone appena illuminate.

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Per un uomo di battaglia è una visione da sognatori, eppure è forte la sensazione di non essere solo. Di essere attorniato da creature indefinibili. Alcune pacifiche, altre minacciose. C’è un consesso contraddittorio attorno a lui. Evanescenze. Estrae il manoscritto da uno scompartimento segreto del tavolino da lavoro che porta sempre con sé, dovunque i suoi incarichi lo conducano. Non ha motivo di pensare che qualcuno possa trafugarlo o soltanto maneggiarlo. Chi si azzarderebbe? E perché? Nogaret pensa che quel manoscritto sia un balocco e lui l’unico infante del reame di Filippo. Nota subito però un’arricciatura che non ricorda di avere mai osservato. Una piccolissima ondulazione. Come se qualcuno avesse piegato il foglio con furia o comunque senza la grazia che merita, sforzandosi poi di riparare. No, la piega c’era già oppure l’ha provocata proprio lui. Non ricorda. Del resto è passato del tempo dall’ultima volta che ha avuto il manoscritto sotto gli occhi. Tempo impiegato a correre qui e là, sentendo sul collo il fiato del re, che ha bisogno dei beni dei Templari. Basta. Ora è il tempo dell’ozio. Senza quasi accorgersene, sta riassumendo ciò che lo incuriosisce del manoscritto. Prima ancora di rileggere. La sua mente analitica lo ha già portato a pensare che si tratti di un falso. Ma chi, allora, era interessato a stravolgere una storia che era il cuore della cultura greca? Certo, le leggende si incrociavano, si nutrivano l’un l’altra, e così si distorcevano, si modificavano. Ma la maggior parte di questa immensa e necessaria fantasia è giunta fino a noi e di ciò che si è perso abbiamo notizie, seppur frammentarie. Ormai padroneggia il testo, alcuni passi li può ripetere a memoria. E troppe stranezze lo incuriosiscono. Muore Menelao ucciso da Paride, e Paride ucciso da Menelao. Pentesilea addirittura uccide l’invincibile Achille. E perché, morto Paride, in maniera diversa da quella raccontata da Omero, la guerra non finisce? Morto il vile che ha provocato la carneficina, morta la guerra, imporrebbe la logica. Tanto più che è morto anche Menelao. Ma ci sono alcuni brani che crede di avere già sentito o letto, non riesce a ricordare dove e quando. Si ostina a leggere. Al diavolo i fruscii.

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LIBRO QUINTO O vecchio e canuto Priamo, e tu Ecuba, sposa reale e regina madre, in silenzio e soli piangete l’ingiusta sorte del diletto figlio. Insieme alla sciagurata donna ora ospitate anche lo sconforto nella nobile reggia e nel vostro cuore… Piana di Troia. Anche oggi il divino Elio ha terminato la sua corsa. Con la quadriga ha attraversato i cieli, da oriente, nella lontana Colchide, fino all’estremo occidente, dove scioglie i cavalli e li lascia pascolare nelle isole dei Beati. Su tutta la terra cala la notte. A Troia si preparano i festeggiamenti per Pentesilea e le sue amazzoni. Nessuno ricorda, o vuole ricordare che, oltre a Memnone, è morto il principe Paride, l’uomo che con la sua stoltezza ha scatenato questa guerra. Ma oggi bisogna festeggiare la morte di Achille, perché senza di lui gli achei possono essere sconfitti e ricacciati in mare. Bisogna rendere gloria alla regina delle Amazzoni. Solo il vecchio re piange l’amato figlio, e pensa a quanti altri dovranno fare la stessa fine prima di vedere la città liberata. Ecuba, la regina, invece non piange. Il suo cuore non ha più lacrime da versare. Troppi i figli caduti in questi dieci lunghi anni. I suoi occhi hanno visto atrocità che mai nessuna madre vorrebbe vedere. Ma il vincitore deve comunque essere festeggiato e per questo motivo viene imbandito un sontuoso banchetto. Le libagioni, nonostante il lungo assedio, sono abbondanti, anche perché i troiani hanno mantenuto il controllo dell’Ellesponto, da cui arriva la maggior parte dei rifornimenti. Sono state servite sette portate di carne e tre tipi di vino, di cui uno particolarmente speziato. Al termine tutti i commensali si ritirano ubriachi nelle proprie stanze. Per qualche tempo non si combatterà per onorare la memoria degli eroi caduti. Ettore è stanco, la battaglia è stata molto dura, più volte si è esposto rischiando la vita, e questa notte il sonno arriva presto. In sogno viene visitato da Apollo che lo culla con una dolce melodia e gli sussurra: “Nobile principe, non aver timore per la tua città e per la tua gente. Troia non cadrà in mani nemiche. Le sue possenti mura resisteranno all’assedio perché sono opera divina, io le ho costruite insieme a Poseidone e solo l’intervento di un altro dio può farle cadere”. Pentesilea invece non dorme. Ripensa alla festa organizzata in suo onore

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e si rende conto solo ora che non ha reso omaggio nella giusta maniera alla mensa di Priamo. Ma la sua mente era lontana. Ha ancora davanti agli occhi il bellissimo viso del giovane Achille e non sopporta che sia caduto per colpa di quella straniera. “Elena è bella, la più bella, come hanno stabilito gli uomini. Ma è più fredda della morte, distante dalla sincerità come possiamo esserlo noi dall’Olimpo. Non vale tutto il sangue versato”. Neppure la regina di Sparta dorme. Oggi sono morti i due uomini che l’hanno amata fino all’estremo sacrificio. Si sente sola a Troia, solo il buon Priamo ha pietà di lei, ma l’intera corte le è ostile e teme di venire uccisa o, peggio ancora, di essere restituita agli achei. Mediterraneo, 391 d.C. Lubeki osserva il faro farsi sempre più piccolo fino a scomparire. Non riuscirebbe a contare quante volte l’ha guardato, scoprendo ogni volta la stessa ammirazione. Fin da piccolo gli hanno detto che è una delle meraviglie del mondo. E con ragione, pensa. Non potrebbe immaginare una costruzione più imponente. Una sentinella e un amico fra la terra e il mare. Un dio di pietra. Così l’ha sempre visto. Il giovane egiziano ha dovuto abbandonare Rhakotis precipitosamente, e ora si trova in mare aperto, sul ponte di un mercantile diretto a Sidone. Mentre la nave si allontana, ripensa con tristezza ai fatti degli ultimi giorni. Il manoscritto è al sicuro nella sacca da viaggio, che gli sta accanto su un tavolaccio. Uno sguardo al rigonfiamento gli dà un pò di sollievo, ma subito si sente oppresso. “Cos’ho fatto?”. Valuta che ciò che è accaduto ad Alessandria non è proporzionato a un piccolo libro, di cui ancora gli sfugge l’importanza. “E probabilmente non ne ha, se non per i deboli di mente”. Subito dopo il furto è riuscito a far perdere le sue tracce e gli amici l’hanno nascosto in una casa sicura lontana dal centro. In città le guardie di Teofilo, dopo aver ripreso il controllo del palazzo, hanno scatenato una durissima caccia all’uomo, ma il suo nascondiglio non è stato scoperto. Ammesso che cercassero proprio lui. La reazione del vescovo era attesa, ma lui è una briciola invisibile. Quante rivolte e quante repressioni ha visto negli ultimi anni? Gli stessi amici hanno poi organizzato la fuga a bordo di un’imbarcazione in partenza alle prime luci dell’alba. “Ma cosa mi dice che tutto questo fosse necessario? Perché fuggo? E quando potrò tornare?”. Avverte una mancanza di senso e la spiacevole sensazione che

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forze immani, inumane, guidino violentemente il suo destino. Il destino di un ragazzo che non ha mai varcato i confini della città in cui è nato. Ora che il suo cuore ha ripreso un ritmo regolare, Lubeki ripensa con dolore e una fitta di rimorso alla morte di Cleta. “Povera cugina. Voleva dirmi qualcosa e io non l’ho ascoltata. L’ho sempre vista come una bambina e ho sbagliato”. Intuisce vagamente che la ragazza provava qualcosa che non riusciva a esprimere e che si leggeva appena nel tremolio delle labbra. Anche lei, ne è sicuro, è stata coinvolta in qualcosa di più grande di loro poveri mortali. Questo concetto si illumina d’improvviso nella sua testa. Non ci aveva pensato fino ad ora. Cosa significa? Non sa esprimerlo, ma sente che è importante. Ricorda le parole di Cleta quel giorno che è fuggita fra le lacrime. “Ha urlato che io non avrei mai potuto leggere questo manoscritto. Ma io posso leggerlo. È qui, nelle mie mani. Ciò che lei sapeva ora posso saperlo anche io”. Un’altra idea lo afferra con dolore: Cleta non poteva sapere, non poteva capire il valore, se un valore esiste. Sicuramente aveva parlato con qualcuno. Ma perché qualcuno aveva sentito la necessità di parlarne con Cleta? Con una servetta di Britore e poi di Antigonos. Di nuovo la mancanza di senso. Britore era un bibliotecario e questo forse ha un senso. Ma Antigonos, che tutti apprezzavano anche se la sua fin troppo celata malizia disturbava Lubeki, quale ruolo ha avuto? Sua cugina è morta. Ha potuto sapere solo questo e osservare il suo corpo immobile. E carpire una strana paura, quasi una sorpresa nel volto di marmo. Era giovane, troppo giovane. L’hanno uccisa. E lui sta fuggendo, non saprà mai perché l’hanno uccisa. E chi l’ha uccisa. Per la comunità egiziana è stato Teofilo e probabilmente è così. Ma qualcosa gli dice che esistono altre possibilità. Lubeki scuote il capo, afferra la sacca e scende sotto coperta. Si distende sugli stracci che gli hanno dato e sfila il manoscritto con più cautela di quanto vorrebbe. Inizia a leggere, ma è stanco e le visioni che le parole suscitano si confondono. Sente in lontananza lo scalpitio dei cavalli, il cozzare delle armi. Le urla e i lamenti. E poi gli sembra di vedere Teofilo, che urla frasi insensate: “Non esistono profeti pagani. Falso, è falso”. Scorge la sagoma del patriarca dissolversi, per ultime le braccia lanciate verso l’alto. “Falso, ma non ci screditeranno. Presto, trovate il ladro. Ad ogni costo concesso o non concesso da Dio”.

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Castello di Chinon, giugno 1308 La fortezza di Chinon è inespugnabile. È stata costruita per resistere a qualsiasi attacco, ma più spesso è una prigione dalla quale è impossibile evadere. È per questa ragione che nella sua torre sono stati rinchiusi alcuni cavalieri del Tempio. Tra questi vi è Jaques de Molay. L’ultimo Gran maestro è stato condannato al carcere a vita per aver confessato, sotto tortura, peccati ignominiosi che probabilmente non ha commesso. Ora giace solo, sulla panca di una piccola cella buia, fredda e umida, dove trascorre giornate interminabili e sempre uguali. Medita, de Molay. Le sofferenze non hanno fiaccato il suo spirito. Anche in questa mattina forse piovosa, forse soleggiata. Ha fame, ma ormai convive con la fame, che gli serve a scandire il tempo. La brodaglia, che gli viene sgarbatamente passata sulla stessa scodella ormai scura, scandisce la sua prigionia. Con l’unghia segna i giorni sul muro. E medita, cercando di dare una direzione alle visioni che si intrecciano come nuvole tempestose. Si accavallano le immagini, sono agitate e perlopiù incomprensibili. De Molay è un Templare, un guardiano della fede, è da giorni che riflette sulla provvidenza, un concetto con la coda che lui non riesce ad afferrare. Si sente un cacciatore disperato: deve agguantare una preda senza armi, perché gliele hanno tolte. Si sente ancora più disperato quando la porta cigola e, dopo un tempo che i demoni sembrano prolungare, una sagoma si staglia nella fioca luce che ora illumina una parte della cella. Malgrado i dolori, ha tutto il tempo di volgere il capo, rimanendo disteso sulla panca. La porta si richiude. De Molay crede di essere nuovamente solo, quando una fiaccola si accende illuminando il viso e il tronco di una figura che conosce bene. Dall’alto verso il basso, gli occhi di Guillaume de Nogaret esplorano il suo corpo smagrito. E poi il volto sporco, avviluppato dalla barba e dai capelli unti. De Molay quasi sorride: cosa può volere il cancelliere del re, il responsabile principale delle sue sventure? Chiude gli occhi e rivede i terribili momenti della tortura. Sente scricchiolare le ossa nella ruota, la fronte insanguinata che sfreccia verso il suolo e poi si lancia verso il soffitto, mentre le secrezioni del suo corpo imputridiscono l’aria. Si rivede crollare e confessare. Quasi sorride, senza parlare. È Nogaret a rompere il silenzio: “De Molay, gli interrogatori sono finiti. Avete confessato e siete stato condannato alla giusta pena. Sono certo che in fondo al vostro cuore non me ne volete. Qualunque sia il luogo che

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Dio ha riservato a me e a voi, siamo soggetti alla stessa legge. Ora indosso un’altra veste. Forse sarà inutile, ma aiuterà me e io sono ancora in grado di aiutare voi”. De Molay tace ancora e volge il capo verso la parete lurida. Nogaret riprende con un sospiro: “Sono qui a chiedervi, da uomo di cultura a uomo di cultura, ciò che sapete di un manoscritto greco nascosto nel castello di Saint Croix de Valois. Non sembra possedere un grande valore, ma è stato occultato con particolare cura e questo mi incuriosisce. Anzi, mi insospettisce. Qualunque cosa riveli, vi do la mia parola che non sarà usata contro di voi”. De Molay tossisce. Poi sussurra: “Data la situazione, la vostra garanzia è comica”. Se la rabbia è il sentimento prevalente, Nogaret la nasconde. Del resto non si aspettava molto. Torna il silenzio, interrotto dallo stillicidio di una goccia d’acqua che cade dal soffitto sul pavimento in pietra e dal fruscio di qualche insetto che striscia sulle pareti. Il cancelliere prova disagio, come se si trovasse al cospetto del re. Ed è questa debolezza senza motivo ad accrescere la sua rabbia. Ma a un tratto si stupisce. Come cogliendone il momento di fragilità, il Gran maestro si solleva stancamente dalla panca, facendo leva sui gomiti, e si avvicina al volto del carnefice. “Cancelliere senza onore, figlio di una puttana troppo oscena per definirsi donna, servo senza ritegno, ti dirò che si tratta di un manoscritto molto antico. Redatto probabilmente nei primi secoli cristiani. E forse è addirittura la copia di un originale ancora più antico. Ma non vale la pena infilarlo nella sacca piena d’oro che avete coscienziosamente messo nelle mani di Filippo. Cancelliere, cosa andate cercando dentro quei fogli ingialliti e pagani?”. “Un segreto”. Il Gran maestro ora ride apertamente, per quanto glielo consentano i muscoli rattrappiti: “Incredibile. Vi siete lasciato impressionare da tutti quei numeri e avete finito per convincervi che vogliano dire qualcosa. Ma non dicono proprio niente, sono numeri banali”. “Come fate a esserne così sicuro”? “Perché altri prima di voi hanno studiato quei fogli, hanno inventato codici per dare un significato a quei numeri. Hanno contato, tolto, aggiunto, incrociato, paragonato, e ancora sommato per arrivare infine alla conclusione che si tratta solo di un poema. E neanche ben scritto”. E poi, dopo una pausa lancinante: “Non mi credete?”.

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Nogaret scuote il capo. E de Molay si lascia andare sulla panca fissando lo sguardo sul soffitto invisibile. “Cancelliere, avete detto voi stesso che si tratta di un manoscritto greco. Sapete cos’era per i greci la parresìa? No? Ve lo dico io, il Gran maestro di un ordine degno. È l’arte di dire la verità. I greci ci erano affezionati. Potevano anche morirci sopra. La verità, Nogaret. Odisseo mentì per necessità. E voi? Erano pagani, Nogaret. Pagani. E ora lasciatemi andare in pace, almeno con me stesso. Puzzate più di questa mirabile cella”.

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LIBRO SESTO O potente re degli achei, vacilla il tuo primato in terra di Ilio, e i guerrieri argivi più non riconoscono il tuo prestigio. Vacilla anche il regno in patria e la bella Clitennestra giace nel tuo regale letto con altro uomo, col cuore gonfio di odio e sete di vendetta per l’atroce delitto della dolce figlia… Piana di Troia. L’accampamento acheo è immerso nel silenzio. Tutti si sono ritirati nelle proprie tende, ma nessuno questa notte riesce a prendere sonno. Non dorme Agamennone, che in silenzio piange la morte del fratello. Si dispera anche per la morte di Achille e di Aiace, non perché li amasse, anzi, ma perché senza di loro è quasi impossibile conquistare la città maledetta. Il silenzio viene interrotto da lamenti disperati: sono le grida di Patroclo che piange la morte del cugino. Era tutto per lui: comandante, fratello, amico, amante. Vivere senza di lui gli è impossibile. Odisseo non piange, pensa. Non ha mai sopportato quella brutale macchina da guerra, ma si rende conto che senza il suo contributo in battaglia il destino dei greci è segnato. È soprattutto preoccupato perché Atena, la sua dea, non gli fa visita da molto tempo, proprio ora che avrebbe più bisogno dei suoi preziosi consigli, ora che spetta a lui, e a Diomede, condurre gli uomini in battaglia. Non dorme il resto dell’esercito. I semplici soldati sono terrorizzati. Nei loro cuori semplici si è insinuato un triste presentimento: senza Achille sono destinati a morire lontano dalla loro patria, in quella terra disgraziata. Odisseo però si sbaglia. Atena è vigile, perplessa e timorosa, per quanto possa esserlo una dea. Desidera la vittoria dei greci, ma non può permettere che il trionfo arrivi a scapito del Palladio, la statua che la raffigura, vanto e onore di Ilio, il simulacro che Zeus donò a Dardano come pegno della durata e della salvezza eterna della città. C’è solo un modo per risolvere la questione: far sparire, ma non distruggere, la statua. Qualcuno deve rubarla. E chi può farlo meglio di Odisseo, maestro di inganni e stratagemmi? Così, mentre il re di Itaca cerca invano di sciogliere nel sonno i suoi dilemmi, Atena, dentro la sua candida veste che la rende quasi trasparente, scuote leggermente il capo dell’eroe e gli sussurra: “O più astuto fra i mortali, ti aspetta un’impresa che richiede la forza del braccio, ma anche la fatica della mente. E ti serve anche il coraggio, che tu hai, anche se non quanto agli uomini è consentito e quanto i tuoi uomini ti riconoscano nel fondo

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del loro cuore. Devi superare le porte Scee, penetrare in città travestito da mendicante e trafugare il Palladio. I troiani non devono capire che sono stati gli achei a compiere il sacrilegio, quantunque possano immaginarlo. Solo se sarai accorto e la tua azione andrà a buon fine, sarà possibile conquistare la città”. Odisseo si desta e si solleva dal giaciglio, è subito lucido e vorrebbe sapere altro dalla dea, ma Atena si dilegua prima che possa schiudere le labbra. Si distende nuovamente e non tenta neppure di riprendere sonno. Sa di dover fare ciò che Atena gli ha chiesto e nelle ore che portano all’aurora colorata d’arancia mette a punto il suo piano. Il giorno successivo si alza di buon’ora e fino a notte nessuno lo vede nel campo. Lo vedono invece, ma non lo riconoscono, gli abitanti di Troia, perché si è camuffato indossando i cenci del vecchio Dette, un mendicante che si aggira tutti i giorni nell’accampamento acheo e a cui una volta ha regalato un fermaglio per raccogliere i capelli lunghi e incolti. Odisseo non fa niente per caso e anche quella volta ha elargito un dono pensando che, presto o tardi, persino un rifiuto umano sarebbe servito ai suoi scopi del momento. E Dette, in cuor suo e a viso aperto, gli ha giurato fedeltà eterna. Non contento di questo, l’Ingannatore si fa colpire dall’amico Toante fino a quando il sangue non cola dal mento. Ora è anch’egli un rifiuto umano, irriconoscibile per nobiltà di presenza, ma neppure così volgare da suscitare l’attenzione. Gli è facile varcare le porte della città e tra le prime persone che incontra c’è Elena, che distrattamente gli lancia un rapido sguardo. Lo riconosce, la provocatrice d’amore, la scatenatrice di guerre? Forse no. Non resistendo all’impulso e dimenticando la sua missione, Odisseo la segue. Elena sale velocemente verso l’acropoli, dove si erge il palazzo. Nessuno la saluta o la degna di uno sguardo e lei, d’altronde, non ha voglia di parlare. Vuole solo raggiungere le sue stanze per riposare un po’. “Ma chi era quel mendicante che ho visto prima?”, pensa. “Aveva l’aria di una persona conosciuta, direi quasi familiare”. Intanto Odisseo continua a seguirla discretamente fino a intrufolarsi nel palazzo senza essere notato. “Forse è la Dea che mi rende invisibile agli occhi del nemico”. Segue la figlia di Tindaro fin dentro le sue stanze, dove finalmente Elena, voltandosi, riconosce il vecchio amico. I due si osservano per un istante, nei loro occhi scorrono i dieci lunghi anni di guerra, i rimpianti, le colpe, i pentimenti, alla fine si prendono per mano, si abbracciano, siedono sul letto. Ed Elena inizia a raccontare. “Odisseo, sono arrivata in questa città in un giorno che ben ricordo e sono stata accolta come una regina. Tutti

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si davano da fare per rendermi felice e non farmi sentire la nostalgia della mia terra. Paride è stato un tenero amante, non come Menelao il rozzo. Ma tutti, dal vecchio Priamo, che per me è un padre, fino all’ultimo dei servi, mi hanno trattato come se fossi stata io la regina e non Ecuba. Poi tutto è cambiato. È arrivata la guerra, troppo lunga perché le cose rimanessero tali. Molti sono morti: figli, fratelli, cugini, nipoti, e il dolore si è mescolato alla rabbia e la rabbia all’odio e al disprezzo. Poiché la guerra non si poteva vincere, bisognava scaricare la responsabilità su qualcuno e, nel giro di breve tempo, sono passata dall’essere la donna più amata e desiderata a quella più odiata e maledetta. In fondo, se questo è potuto succedere, è anche colpa tua”. L’argivo la guarda perplesso e vorrebbe replicare, ma Elena riprende a parlare: “Sì, Odisseo, è anche colpa tua. Se tu mi avessi preso come tua donna e sposa oggi non sarei qui e questa guerra non si sarebbe combattuta”. Odisseo ricorda bene quei giorni, quando furono convocati tutti i più giovani e forti eroi argivi come pretendenti alla mano di Elena e al trono di Sparta. E ricorda anche le parole sussurrate da quella bella donna che voleva diventare sua moglie. Ma non si è mai pentito della scelta fatta: Penelope è e sarà sempre la donna giusta per lui. Mentre pensa questo, Odisseo risponde: “Elena, ormai è tardi per recriminare, il Fato ha voluto che le cose andassero diversamente e nulla possiamo fare contro il suo volere, nemmeno Zeus”. È notte, e Odisseo si accorge di desiderare da troppo tempo una vera donna, non una volgare prostituta, e non resiste alle lusinghe della carne. Prende Elena con la forza, lei reagisce debolmente e infine si arrende al re di Itaca pensando che in fondo è quello che aveva sempre desiderato. Odisseo scivola affannato tra i suoi seni che si imperlano di sudore, i gonfiori si cercano e si intrecciano, fino a che i corpi si muovono sperando nella fine. Dopo è il turbamento a colpire Odisseo come una lama. Sa che ha goduto come mai gli era accaduto e guarda il volto disfatto di Elena, che sembra assumere altri tratti. Odisseo chiude gli occhi per non vedere Penelope che giace sola e ignara nel suo letto regale. Si risveglia improvvisamente nel cuore della notte ricordando la missione da compiere. Esce furtivamente dal palazzo e va a cercare il tempio dov’è custodito il Palladio. Lo trova. È li, a pochi passi, ma non si accorge che nell’oscurità due occhi lo osservano: è Cassandra, la figlia del re, la veggente destinata a non essere creduta per aver rifiutato l’amore di Apollo. Cassandra riconosce Odisseo e intuisce anche il motivo per il quale si trova li, davanti al tempio di Atena, nel cuore della notte. Ma non

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si muove, non dà l’allarme e lo lascia andar via. È quasi giorno, il figlio di Laerte ha terminato il suo compito e si nasconde a pochi passi dalle porte della città. Presto saranno aperte e lui potrà far ritorno al campo acheo. Sidone, 392 d.C. Lubeki giunge a Sidone nei primi mesi dell’anno. Si aspetta il freddo, ma è un clima tiepido ad accoglierlo. Trova ospitalità nella bottega di un fabbro alessandrino, vecchio amico di suo padre, che non gli chiede niente. Lubeki ha uno sguardo incerto e l’amico del padre è un uomo riservato. “Voglio viaggiare”, spiega timidamente. Il vecchio annuisce: “Hai l’età giusta”. Dopo l’ansia Lubeki sente farsi strada il sollievo, se non proprio la tranquillità. Racconta di suo padre e ascolta con rispetto i racconti del vecchio, vedovo e senza figli. Ma il suo istinto lo lascia ancora inquieto ed esce soltanto la sera all’imbrunire. Anche per questa stranezza il vecchio non ha nulla da eccepire. Preferisce brontolare sugli incerti del suo mestiere. I giorni trascorrono uguali. Il vecchio accetta con indifferenza l’inattività di Lubeki e i suoi racconti si diradano. Non c’è fastidio nell’atteggiamento del giovane che ascolta, ma il fabbro capisce che la sua testa è già colma di pensieri e i suoi nervi si tendono sempre più rischiando di spezzarsi. In questo periodo di ozio forzato Lubeki riprende in mano il manoscritto, che legge e rilegge soffermandosi su alcuni passi. E sulle domande che lo inseguono fin dalla morte di Cleta. Come mai la guerra di Troia è cantata in modo diverso? E perché Teofilo è disposto a uccidere per entrare in possesso di una storia che non può nuocere a nessuno? Si ripete le stesse frasi, sino alla nausea, cammina sui bordi di ipotesi taglienti che fanno sanguinare la mente. Ma pian piano, giorno dopo giorno, i pensieri diventano nuvole, prima si arricciano e poi perdono i contorni, sciogliendosi nella nebbia al largo del porto, che prende l’abitudine di visitare ogni mattina, esplorandone gli angoli e i sotterranei. Parla con la moltitudine che lavora, dà persino una mano ottenendo un pò di cibo come compenso non richiesto. Lo affascinano i mercanti che partono e tornano, gli ordini ai servi, i familiari che si affollano per salutare. Si sente invadere dalla nostalgia quando scopre la fretta di tornare a casa, ma anche da una sorta di frenesia quando scorge negli occhi di chi si imbarca il brivido dell’imprevisto. Così Lubeki ha quasi dimenticato eroi e dei, quando un pomeriggio riceve la visita di

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un amico. Il vecchio fabbro lo ha fatto accomodare senza chiedere nulla e lo ha fatto attendere. È una sorpresa e Lubeki si stupisce. Abbraccia il giovane, che ha la sua età ma un’esperienza maggiore, e lo porta nella sua stanza. “Non credo, caro amico, che tu abbia viaggiato fin qui per me. Quali affari ti portano a Sidone? I ricchi hanno ancora bisogno delle tue merci?”. L’amico scuote il capo. “Non più di ieri e spero non meno di domani. Sidone non era nella mia rotta, ma ho deciso di fare una tappa proprio per te. E vengo al dunque: qualcuno ad Alessandria ti ha tradito e venduto al patriarca. Teofilo conosce il tuo nome, sa che hai in mano qualcosa che gli sta a cuore, non so cosa, e suoi emissari sono in viaggio, forse sono già sbarcati, per darti la caccia. Ti direi di venire con me, ma sospetto di essere controllato anche io. E comunque potrei essere un riferimento per le loro ricerche. Sinceramente non capisco il senso di tutto ciò”. Lubeki tace a lungo. Poi annuisce, come se confermasse a se stesso quanto in fondo già sapeva. “Neppure io. E devi credermi”, dice. Quella sera stessa Lubeki annuncia all’amico del padre che deve andare via, senza spiegazioni. Ancora una volta l’uomo si limita ad annuire. Lo guarda in silenzio, poi aggiunge: “Hai denaro?”. “Sì”, risponde Lubeki, ma il mattino successivo, mentre si prepara a partire, trova sul tavolo un sacchetto di monete. È incerto, poi decide di prenderle. Sa che è un modo di onorare l’amicizia fra due vecchi di poche parole e molto affetto. Forse l’uomo lo ha preso in simpatia perché ha apprezzato la sua indole così simile a quella del padre. Lubeki si unisce a una carovana di mercanti diretti a nord. Prima in compagnia, poi da solo, attraversa molte città dell’impero: Damasco, Antiochia, Palmira. Nessuno gli chiede niente, ma non abbassa mai la guardia, anche se le domande continuano a tormentarlo. Senza capire perché, è un uomo in fuga. E comincia ad abituarsi a questa condizione: il timore si confonde con lo spirito dell’avventura che lo ha sempre lambito. Non lo abbandona l’intuizione che in fondo a quella storia ci sia un mistero, lo stesso che avvelena Teofilo. Dovunque arrivi si sostiene come può. Rimane qualcosa del denaro che gli ha dato il vecchio. E lavora, soprattutto nei porti. La fatica lo aiuta a non pensare. Continua ossessivamente a chiedersi il senso di questo vagare senza meta. Forse ha sempre sognato. A Palmira un mendicante a cui ha dato una moneta fa una strana osservazione, dopo averlo guardato

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attentamente: “Giovane, perché le tue palpebre non si abbassano mai? Ti ho notato, poiché sei qui a naso in su da lungo tempo. È davvero strano. Quale divinità ti ha punito in questo modo?”. “Perché ti colpisce?”, replica Lubeki, sorpreso. Non aveva mai udito parole dal mendicante, solo lamenti. “Accade a molti, credo. Spesso le palpebre hanno una vita propria. Spesso obbediscono all’impulso della mente”. “È vero ciò che dici. Ma le tue palpebre restano aperte come se fossero guardiane degli occhi, mai chiusi e sempre aperti. Ti difendono, o forse ti puniscono. Sono sicuro che si chiudono solo quando dormi e magari neppure allora”. Lubeki non sa cosa rispondere. È assurdo ciò che sente. Il mendicante lo osserva ancora e poi dice: “C’è una visione davanti a tuoi occhi. Forse è quella che impedisce alle palpebre di abbassarsi. Stai attento”. Lubeki non risponde, fa un gesto con la mano e si allontana. Prima di svoltare all’angolo della banchina getta un ultimo sguardo al mendicante, che gli risponde con un sorriso. Così almeno gli sembra. Sulla riva di un laghetto che neppure un refolo di vento increspa avvicina il volto all’acqua e si osserva. È vero. Le sue palpebre non si abbassano mai, ma è naturale, pensa. Dopo alcuni mesi Lubeki arriva a Efeso, dove stabilisce di fermarsi più a lungo. Non sa perché, e ancora una volta lo sfiora il sospetto che la sua esistenza sia guidata da altre entità. Efeso è una splendida città della Lidia che ha conosciuto tempi migliori, ma ancora conserva il suo fascino. Nei primi giorni, girando per le strade e le piazze, ammira il tempio dedicato alla dea Artemide, appena chiusa al culto da Teodosio perché monumento pagano. Vede anche quel che rimane della biblioteca di Celso: un’imponente facciata trasformata in ninfeo. Girovagando senza meta, s’imbatte nella nuova biblioteca e decide di entrarvi per riposare un po’. Non è particolarmente grande ma ben curata e il direttore che la dirige, Basilio, si ferma volentieri a chiacchierare con quello straniero che guarda tutto con occhi di bambino e tutto sembra trovare irresistibile. Alla fine Lubeki gli confida di essere appena arrivato a Efeso e di non avere un posto dove alloggiare. Basilio è colpito dal tono amichevole del giovane, che non sembra privo di cultura, e legge in fondo ai suoi occhi un rovello che non ha nulla di malvagio. Cedendo a un impulso improvviso, gli offre una stanzetta inutilizzata della biblioteca.

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“Se vuoi, posso anche darti un lavoro come aiutante, ma la paga è misera”. “Sei molto gentile. E accetto”. Nei giorni seguenti Lubeki scopre che Basilio è pagano, è nato ad Antiochia e ha studiato in alcune importanti città dell’impero. Inoltre ottiene la conferma che anche a Efeso, come aveva già intuito, la comunità cristiana ha preso il sopravvento. Si temono scontri. Una sera, mentre cenano insieme, nel retro della biblioteca, Lubeki chiede a Basilio il permesso di allontanarsi per qualche istante. Quando torna gli porge il manoscritto. Gli spiega come ne è entrato in possesso e gli chiede di dargli un’occhiata. La notte ripensa a questa decisione improvvisa e si convince che ha agito per il meglio. Si rende conto che aveva deciso di mostrare il manoscritto a Basilio fin dal primo istante del loro incontro. Dopo pochi giorni senza un accenno, Basilio dice a Lubeki che, secondo lui, quel manoscritto è molto antico, forse del periodo della scuola di Atene, ma nutre dubbi sulla reale esistenza di Eschifilo. È un personaggio completamente sconosciuto, nessun autore greco lo menziona nelle proprie opere: Erodoto, che pure ha parlato della guerra di Troia, non lo riporta mai come fonte, e neppure Tucidide. Come è strana la storia che il manoscritto racconta, molto differente da quella di Omero ma anche da quelle cantate nei cicli epici. Possibile che un racconto così singolare non abbia lasciato nessuna traccia in tutti questi secoli? No, secondo Basilio, Eschifilo non è mai esistito e quell’opera è inventata, probabilmente da qualche scrittore o filosofo, magari della scuola di Atene, che aveva in odio Omero. Anche l’aggiunta successiva lo lascia perplesso, potrebbe trattarsi dell’opera di qualche pagano del tempo di Giuliano l’apostata, l’estremo tentativo di arginare la prepotente avanzata cristiana. O forse è ancora più vecchio, magari del secolo precedente o, addirittura, del secondo secolo. In ogni caso – aggiunge Basilio con un tono didattico che fa sorridere Lubeki – l’intenzione era probabilmente destabilizzare la comunità cristiana non ancora sicura di sé e del proprio dio. Lubeki rimane a Efeso per un lungo tempo. Nessun altro amico viene a trovarlo e, benché la sua vita trascorra tra la biblioteca e il porto, non può lamentarsi di nulla. Se lo inseguono, ancora non sanno dove trovarlo. Ogni altra città, ogni altro viaggio, ogni altra traccia, sarebbero un rischio immenso. Le palpebre non si abbassano mai mentre guarda lontano, verso il mare. Cerca di decifrare la visione immaginata dal mendicante, ma

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conclude sempre che non c’è da fidarsi di chi deve procurarsi qualche soldo per mangiare. E intanto Teodosio, prima di morire, divide l’impero in due parti, assegnando l’occidente a suo figlio Onorio e l’oriente all’altro figlio Arcadio. Di questi fatti nulla può giungere alle orecchie di Lubeki, ma proprio nel giorno, forse nello stesso istante in cui l’imperatore prende la sua decisione, in una taverna dove non è stato mai, perché raramente la notte lascia la biblioteca, Lubeki decide di trasferirsi nella capitale. L’osteria non ha nulla di particolare. Nessun avventore è sospetto. Il vino non è eccellente ma non peggiore di quello che gli offre Basilio. Ha mangiato carne di capra speziata e ne ha apprezzato il sapore. Si è avvicinata una donna ed è stato tentato, ma i suoi denti sghembi lo hanno scoraggiato e ha pensato a Cleta. Che non è riuscito a salvare. La ringrazia, ma le fa capire che non vuole compagnia. Rimane a lungo nella taverna osservando tutto e tutti. Poi sente il bisogno di abbassare le palpebre, anche se non è stanco. Parigi, palazzo del re, agosto 1308 “Cancelliere!”. E dopo un sorriso beffardo, “nonché consigliere del re, se ricordo bene. Per quanto da qualche tempo i consigli preferiate tenerli per voi anziché elargirli”. È stato convocato senza spiegazioni. Da uomini rispettosi e guardinghi ma vagamente minacciosi. Nogaret conosce bene Filippo e non esclude che quell’atteggiamento sia stato imposto proprio da lui. Magari con una risata che pregustava il piacere della sorpresa. Una messinscena. Filippo adora lo scherzo, ma lo scherzo di un re non può essere adorabile: non ammette folle sincere, troppo vicino è il bordo del precipizio. Ora Nogaret è immobile davanti al re. Filippo non ha ancora formulato domande e il cancelliere tace, anche se la sua ampia fronte è imperlata di sudore. Goccioline solide, sparse geometricamente come sassi. Sì, Nogaret ha la sensazione che questo sia uno dei momenti di irridente infanzia del re. Ma quale trama ha scelto stavolta? Filippo getta la testa all’indietro e riprende: “Come certamente sapete, anch’io dispongo di solerti informatori. I quali mi hanno appunto informato che spesso impiegate il vostro prezioso tempo nello studio di uno stravagante manoscritto. Non stupitevi: è difficile custodire un segreto a Parigi, una città così piccola. Nulla da dire sui vostri sollazzi, ma

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gli informatori, non tutti a dire il vero, sospettano che questo manoscritto abbia a che fare con i Templari. E voi sapete – non dimentico mai i vostri illuminanti consigli – quanto mi stiano a cuore le sorti dei cavalieri di Dio. E allora ho pensato: e se in quelle pagine, in qualche riga di quelle pagine, ci fossero indizi sul luogo dove sono custoditi i beni del Templari? Sarebbe nel loro stile, non credete? E sarebbe un sospetto degno di un cancelliere del re. Devo continuare, Nogaret, o preferite parlare voi”? “Maestà, non esiste alcun segreto, siete stato male informato”. “Bene, illuminatevi voi allora”. Nogaret si rilassa. Sa che non ha nulla da temere su questo fronte. La voce non trema. “Il manoscritto di cui parlate è lo stesso che vi portai più di un anno fa dopo la perquisizione del castello di Saint Croix de Valois. Dopo averlo esaminato me lo avete restituito non ritenendolo degno di un’attenta lettura. Mi sono preso io la briga di leggerlo, per un vezzo di cui ora mi pento, vista la vostra reazione, ma che dovete considerare solo il cedimento momentaneo alla curiosità. Apprezzate se non altro il risultato: posso garantirvi che non c’è il minimo segno di quanto sospettate. È soltanto un poema, una versione, stravagante come avete giustamente sottolineato, della guerra di Troia. Nient’altro d’interessante, nessun mistero. Se posso permettermi, maestà, questa non è una caccia al tesoro”. Filippo sorride. Ancora quel sorriso che in certi bambini è sintomo di perfetta futura cattiveria. “Sapete, Nogaret, talvolta ho la sensazione che mi riteniate un lattante. Da cullare con qualche gorgheggio. Ma non ve ne voglio. Non oggi. La guerra di Troia, dite? Mi hanno sempre entusiasmato le gesta di quegli antichi eroi. Saranno esistiti veramente o è tutta fantasia di Omero? Sì, forse ho sbagliato allora, o forse mi contagia la vostra curiosità. Vorrei dare un’occhiata a quel manoscritto. Ma prima, parlatemene ancora un po’”. Ecco, proprio quando il tono di Filippo diventa così suadente e il suo spirito così vicino a quello dei servitori, proprio allora un brivido corre sulla fronte del cancelliere. Che diventa rovente e scioglie le gocce di sudore. “Come vi dicevo, maestà, è una storiella. Sofocle era un greco, e così Platone, ma lo era anche Aristofane. Dal racconto della guerra dei dieci anni si rafforza una religione, ma dove c’è il tutto c’è anche il contrario. Chi scrive il dramma e chi la commedia. Chi esalta e chi sbeffeggia. I blasfemi, maestà, razza antichissima. E magari c’era un tornaconto che non conosciamo. In fondo, contro chi combattiamo oggi?”

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“Proseguite”. “Che altro dirvi? Eroi piccini e non più splendenti. Gesta meschine e per niente nobili. Vittorie mancate e imprese fasulle. Ma perché anticiparvi questa accozzaglia, maestà? Leggete e ditemi, se ne avete piacere”. Filippo fissa Nogaret e poi esplode in una risata sincera. Addirittura cristallina. “Ah, che amabile giardino d’infanzia è questa corte”. Si avvicina a Nogaret e gli prende la testa fra le mani: “D’accordo, portatemi il manoscritto e vedrò di condividere il vostro piacere. Ma da voi voglio anche altro, è ora che me lo diate”. Nogaret si china, come a voler abbandonare la testa alle carezze del re. “Siatene certo”. E pensa che è ora di frenare la curiosità. È sicuro che il manoscritto brucerà tra le fiamme di uno dei grandi camini del palazzo. L’incontro è finito. La carrozza di Nogaret si allontana dal palazzo reale. Il cancelliere ripensa al colloquio e si sente più disteso. Ma la sua mente subito si distrae andando dietro a quel pensiero che rincorreva pochi giorni prima, quando ancora poteva sfogliare il manoscritto. “Ah”, sorride il cancelliere pensando a Odisseo. “Mente diabolica. Diabolica. Curiosa, davvero singolare, questa parola. E così spropositata. Fuori luogo. Fuori tempo, e così divinamente ridicola. Come corrono i tempi. Più veloci della competenza e della frenesia. Che sia un’aggiunta del mio traduttore? Ne dubito. È solo nel posto sbagliato. A tempo debito saprò. E ora basta lettere. È arrivato il tempo di mettere da parte Eschifilo e il suo poema. A noi, Templari”. Ma subito sente una fitta. No, una prurigine, un pizzico. Qualcosa che viene da fuori e gli entra dentro. Non può essere solo così. Se così fosse stato perché tanta segretezza? Perché questa storia non è stata accettata, come tutte le altre? Rispettata o irrisa. Altre leggende per la stessa storia, perché ciascuno credesse ciò che voleva. Materia per altri aedi, perché ognuno costruisse la memoria del proprio universo. E poi i suoi figli, e altri padri e altri figli. No. Ci deve essere qualcos’altro. Qualcosa che non doveva essere tramandato.

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LIBRO SETTIMO Sia tu maledetto, Odisseo dal pensiero complesso. Sette volte sia tu maledetto dai dodici dell’Olimpo, o uomo scaltro e ingannatore di popoli, ladro e profanatore di templi. Alla tua mente s’addice l’astuzia, ma nel tuo cuore allevi la serpe dal mortale veleno… Piana di Troia L’accampamento greco è in subbuglio. Odisseo, rientrato dalla città, trova tutti i re radunati nella tenda di Patroclo e capisce che durante la notte qualcosa è successo. È Nestore che si incarica di riferirgli che il giovane cugino di Achille si è ucciso, dopo una notte trascorsa a piangere e a maledire gli achei. “I soldati sono agitati”, racconta il vecchio re, “fra loro serpeggia la paura e lo sgomento. Molti iniziano a dire apertamente che dobbiamo rientrare in patria perché abbiamo offeso qualche divinità che ora si vendica massacrando i nostri migliori eroi. Lo so, non è vero niente, nessun dio ci odia a tal punto, ma i soldati sono uomini semplici, spesso ignoranti, e vedono segni divini dappertutto. Dobbiamo intervenire prima che sia troppo tardi”. Odisseo intuisce che non c’è un istante da perdere, se si vuole evitare la disfatta, e decide che è giunto il momento di agire. È il tempo delle armi deposte, per disputare i giochi funebri in onore degli eroi caduti, e Odisseo vuole sfruttarlo per attuare il suo piano. Convoca in segreto Calcante e lo istruisce. Il giorno successivo, davanti all’assemblea dei re riunita in consiglio, l’indovino si presenta e prende la parola: “Nobili principi e nobili re, questa notte ho fatto un sogno. Mi è apparso Apollo, preoccupato nel vedermi pensieroso e rassegnato. Mi ha sorriso e mi ha esortato a continuare la guerra perché presto Troia cadrà. Per impossessarvi della città occorre però che recuperiate tre cose, ha continuato: Neottolemo il figlio di Achille, l’arco di Eracle in mano a Filottete e soprattutto il Palladio di Ilio”. L’assemblea si rianima e, prima che Calcante possa continuare il racconto, interviene Odisseo: “Argivi, avete sentito le parole dell’indovino. Presto Troia cadrà, noi la saccheggeremo e solo dopo, carichi di bottino e di gloria, faremo ritorno in patria”. “Fermo, Odisseo dalla mente troppo acuta”, tuona Agamennone, “mi sembra di aver capito che abbiamo bisogno di qualcosa per entrare in città, o sbaglio“? Il re di Itaca gli mozzerebbe volentieri il capo, invece risponde tranquillamente: “Sì, re dei re, hai ragione, ma io so come entrarne in possesso. Domani

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stesso, dopo aver sacrificato a Poseidone, partirò con Diomede e quindici itacesi alla volta di Sciro, dove Neottolemo vive col nonno. Sono sicuro che sarà felice di unirsi a noi per vendicare la morte del padre. Di ritorno ci fermeremo a Lemno, dove Filotette, che custodisce l’arco avuto in dono da Eracle, vive da dieci anni. So cosa state pensando: Filottete è furente con noi perché lo abbiamo abbandonato e lasciato a marcire in quell’isola maledetta”. “Veramente è stata tua l’idea di abbandonarlo”, interviene l’arrogante Agamennone. “Lo so, Agamennone, l’idea è stata mia, ma voi tutti l’avete appoggiata. E comunque saprò come convincerlo”, risponde Odisseo, frenando la rabbia. “Quindi ci manca solo il Palladio”, interviene Nestore. “Per quanto riguarda il Palladio, ho già studiato un piano che vi illustrerò al mio ritorno. Vi chiedo solo di avere fiducia in me”. Agamennone è diffidente, non perché dubiti delle parole e delle capacità del figlio di Laerte, ma perché vede nuovamente il suo comando messo in discussione. Lui è il comandante, ma sono gli altri a decidere. Gonfio d’ira, scioglie l’assemblea approvando il piano di Odisseo. La mattina successiva, dopo aver sacrificato sette agnelli al dio di tutti i mari, il manipolo di guerrieri salpa in direzione dell’isola di Sciro. I venti leggeri che spirano da est favoriscono la navigazione e, nel giro di alcuni giorni, Odisseo e Diomede si presentano alla corte del re Licomede. Neottolemo è cresciuto, ma resta sempre un fanciullo, anche se è stato allevato per diventare una perfetta macchina da guerra come suo padre. Per lui niente balocchi e carezze, ma solo addestramento con ogni arma e ferma disciplina militare. Il nonno vorrebbe trattenerlo in tutti i modi: “Valoroso Odisseo, è solo un bambino. Non puoi trascinarlo a Troia e condannarlo a morte sicura”. Ma è il figlio del pelide a intervenire prima che Odisseo possa replicare: “Padre di mio padre, tu mi hai allevato come un figlio ed io ti sarò riconoscente in eterno. Ma devo partire, devo vendicare il genitore che non ho conosciuto o vivrò per sempre nella vergogna. E tu devi stare tranquillo perché io tornerò, carico di gloria, di bottino e con la coscienza tranquilla per aver compiuto il mio dovere”. Parla con voce dolce, Neottolemo, ma il suo animo è duro. E pregusta il sangue. Ciò che per il padre era eroismo per lui è solo violenza. Non ne è consapevole. La sua mente è uno scudo, il suo braccio un arco, la sua mano una spada. Licomede sa di non poter fare niente per trattenere quel bambino precocemente cresciuto, lo abbraccia cercando di nascondere le lacrime che gli rigano il volto e infine benedice il suo viaggio, scuotendo il capo. Forse pensa a quanti moriranno sotto i suoi dardi. I tre

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non perdono altro tempo e prendono il mare alla volta dell’isola di Lemno. Odisseo è soddisfatto. Convincere Neottolemo è stato più facile del previsto ma ora, mentre dirigono la prua verso Lemno, ripensa a quando, dieci anni prima, abbandonarono, sotto suo consiglio, Filottete sull’isola a causa di una ferita a un piede che emanava un lezzo insopportabile. Non sarà altrettanto facile convincere lui e ottenere l’arco di Eracle. Ma la diabolica mente dell’itacese ha già preparato l’ennesimo inganno. La nave solca sicura l’azzurro Egeo. Questa volta gli dei sono stati magnanimi con i greci e il viaggio termina senza ostacoli. Nelle ore d’attesa, mentre gli altri scrutano l’orizzonte, Odisseo ha convinto Neottolemo a conquistarsi la fiducia di Filottete: “Devi fingere di sentirti profondamente oltraggiato perché non ti sono state concesse le armi di tuo padre”. Odisseo confida nel buon cuore di Filottete che per consolare l’amico gli regalerà il suo formidabile arco, dono di Eracle. Quando sbarcano, nessuno li accoglie. Cercano giorno e notte ed è soltanto al terzo mattino che nell’angolo estremo a sud dell’isola scorgono tra il fitto fogliame due occhi accesi che li guardano. Odisseo ferma con un gesto i compagni e leva la voce: “Veniamo in pace, Filottete”. Avanza il greco insultato e abbandonato, il labbro trema e le gote sono striate di nero. “Maledetti da Zeus, siete qui per completare l’opera? O volete salvare le vostre carcasse dalla punizione divina? Come, non sentite più il lezzo?”. “No, Filottete”, risponde Odisseo allargando le braccia. “Lo sentiamo, e non puoi negarlo. E non ti offriamo neppure il pentimento. In tempo di guerra è permesso, se non imposto, ciò che la virtù quotidiana rifiuta. Ma le sorti di questo scontro senza fine, che ci costringe a ricercare disperatamente nuovi alleati ovunque sia possibile, ci hanno portato vicino alle sponde della tua isola e il pensiero della tua solitudine ha lacerato i nostri cuori”. “Conosco il tuo compagno di imprese, grande ingannatore, ma chi è quel giovane che ti affianca?”. “È Neottolemo, il figlio di Achille. Giovane sì, ma non abbastanza da rifiutare ciò che la giustizia impone: la vendetta”. “Odisseo, tutto ciò che dici, una parola soltanto, e poi l’altra e l’altra ancora, deve essere esaminato dal più alto consesso degli dei in tenuta di guerra e sentimento di odio. Non altrimenti valgono la tua parola più sentita e il tuo racconto più avvincente”. “Non hai torto a parlare così, lo confesso”. Quella notte Neottolemo racconta ciò che Odisseo gli ha suggerito e la reazione di Filottete è quella che il re di Itaca si attende. Altre lacrime scendono sul viso dell’eroe dimenticato che si ritira nella misera capanna che ha costruito con le sue

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mani. Gli altri vegliano all’aperto: hanno detto che la mattina seguente ripartiranno. Alle prime luci Filottete lascia il suo giaciglio, esce all’aperto e li trova pronti alla partenza. Timidamente si rivolge a Neottolemo e gli porge l’arco di Eracle. “Questo ti ricompensa oltre ogni tua aspettativa. Lo meriti per la tua età, il valore di tuo padre e il dolore che io patisco. Ma un’arma di tale potenza non può restare inerte, in un’isola solitaria. Non è nata per un pastore”. Neottolemo ringrazia, fingendo stupore. Ma è ancora Odisseo a parlare: “Se per una volta mi puoi dare credito, Filottete, allora ti dico che neppure un grande guerriero deve restare in un’isola deserta, tra le pecore che non conoscono la mano del padrone e le foglie che proteggono solo la selvaggina. Vieni con noi. Un grande uomo, giunto dalla linea dove nasce il sole ha mirabili capacità, può curarti”. Diomede assentisce e Neottolemo sorride. Il cuore di Filottete, disobbedendo alla mente, si allarga. Costantinopoli, 397 d.C. Ha viaggiato a lungo perché non ha seguito la rotta più ovvia. Lubeki giunge a Costantinopoli un pomeriggio d’autunno. Il suo scopo è preciso, anche se i modi sono incerti: appoggiare la resistenza dei pagani contro l’oppressione dei cristiani. Nelle serate vuote, sulle imbarcazioni affollate all’inverosimile, tra il puzzo di vomito e i profumi dispensati all’eccesso, ha riflettuto intensamente. Tra urla, vagiti, imprecazioni e pochi accenni di cortesia, si è tenuto la testa fra le mani, dormendo poche ore e fissando più spesso l’orizzonte, di giorno, e la luna, di notte. Nei porti, prima di imbarcarsi, si è guardato furtivamente alle spalle, più volte ha incrociato sguardi che lo hanno insospettito per rivelarsi subito dopo innocui. Sa di essere ben poca cosa negli eventi dell’epoca e non sopravvaluta il suo idealismo. Ma non riesce mai, non gli è mai riuscito fin da piccolo, ad arginare la piena delle emozioni. Da dove arriva? Lubeki la attribuisce alla sua ascendenza, che non conosce ma immagina, con un pizzico di presunzione, forte e nobile. Sacralmente pagana. Non ignora neppure, ma tutto è confuso, che forse non c’è un istinto religioso alla base dei suoi sentimenti. Forse nasce dalla giustizia, che sente offesa, forse dalla nostalgia, che lo avvolge. Forse da un disperato bisogno di rapporti amichevoli fra uomo e uomo. Quando i suoi pensieri arrivano a questo punto, Lubeki si spaventa, teme per sé e per gli altri, e si sente inadeguato. Sospetta persino che la sua misera cultura sia un’arma

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rivolta contro se stesso. Ora non sa cosa potrà fare, ma l’obiettivo, dopo anni di molle volontà, è diventato un fuoco. Si è acceso segretamente ed è divampato facendolo sudare il giorno e la notte. Ora lo accarezza sotto braci che non si spengono e disegnano, sui muri delle stanze, dove dorme e che neppure ricorda, sagome ondeggianti chiare e tenebrose. Figure di dei e demoni. Di vili ed eroi. Di viaggiatori e di principi. Anche ora, nel tugurio poco oltre il porto, dove ha trovato alloggio a poco prezzo. Quelle immagini si levano più imponenti al termine della giornata. Lubeki è sicuro, per quanto questa certezza sia presuntuosa oltre ogni limite e non abbia motivi evidenti, che forze misteriose, di cui non conosce la natura, sono impegnate a frenarlo. Lui, che pure è poca cosa. Giunge in città quando Nettario, il vescovo, è appena decaduto dalla carica. Il suo successore è Giovanni Crisostomo. Lubeki sbarca dalla nave proprio mentre sono in pieno svolgimento i festeggiamenti per la nomina del predicatore di Antiochia. Partecipa anche l’eunuco imperiale Eutropio che lo ha scelto. Lo vede da vicino, perché in quel momento lo sfarzoso corteo sta fiancheggiando il porto, probabilmente diretto verso il palazzo. Per il resto della giornata Lubeki si sposta da una parte all’altra della città, a dispetto della stanchezza, e continua a vagare anche quando il buio è già calato. Ha osservato i cortei, i discorsi, il fasto. Ora raccoglie la protesta strappata, i mugugni favoriti dal vino. Lo colpisce una frase in greco pronunciata da una voce roca, quasi certamente di una vecchia: “Guardate un pò. Li festeggiamo, ma forse loro festeggiano noi?”. Non ne capisce interamente il senso, ma gli sembra strano che il concetto, proprio con quelle parole, si levi dal popolo. Nell’osteria sotto il suo alloggio. Tra bocche bavose, nasi incredibilmente grossi e cinture sbottonate. La verità, Lubeki, gli disse un giorno il bibliotecario, “abita nei luoghi più luridi. Questo, e solo questo, insegnano i libri”. Non tenta neppure di scoprire chi ha parlato.

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LIBRO OTTAVO E ora cantaci, o musa, l’ira del Signore dell’Olimpo che si abbatté sulla sua diletta stirpe. Ira che provocò ribellione e tradimento dei figli nei confronti del potente padre. Tutti sconfitti uscirono dalla sanguinosa lotta, ma già una nuova genia di dei s’impossessava dell’infinito cielo… Olimpo, forse giorno, forse notte. La coltre di nuvole che sempre sta sulla vetta del sacro monte oggi è scura. Più che grigia sembra nera e ciò non fa presagire alcunché di buono. Nuovi scontri s’intravedono all’orizzonte, nuove guerre non sembrano più rimandabili. E il monte divino vive uno dei momenti cruciali della sua non storia. Zeus è irritato. Di più, è furioso. Neppure qualche ora in compagnia di Ganimede, il bellissimo coppiere della stirpe di Dardano, gli ha placato lo spirito. Dieci anni di guerra sono molti, troppi. Per gli dei e per gli uomini. E forse non è più divertente. O forse è più divertente ciò che sta per imporre ai suoi agguerriti figli. O forse è arrivato il momento, anche per gli dei, dell’umanità e della pietà. Se umanità e pietà possono essere considerati sentimenti degni di un dio. Tutto questo attraversa, in un lampo non concepibile dagli umani, la mente di Zeus mentre Eos gli cinge il capo con un serto colorato e gli chiede, dolcemente ammiccante, se ha bisogno di qualcos’altro, senza ottenere risposta se non un grugnito. Zeus ha deciso, chiama a raccolta tutti i coppieri e tuona: “Rintracciate gli dei, nessuno escluso, ovunque siano e in qualsiasi vicenda siano affaccendati. Una volta raggiunti, dite loro che, quando il bianco che avvolge il monte diventerà rosa, tutti dovranno trovarsi al mio cospetto. Se ci saranno opposizioni annunciate pure, e nessuno vi farà del male, che questo è il mio volere”. Congedati i messaggeri, Zeus siede sulla cresta più alta e aspetta. I pensieri sono già svaniti, nella mente del dio ci sono solo decisioni. Certezze. Attende. E vennero tutti. Ultimo Efesto il fabbro, zoppicante. L’aria è rarefatta, la luce sfumata. Nessuno proferisce verbo. Tutti attendono. Nella pianura più estesa dell’Olimpo non ci sono fuochi accesi, ma il chiarore avvolge ogni figura e tanto basta. Zeus lascia vagare lo sguardo da un estremo all’altro del consesso, poi guarda oltre i loro capi, verso l’infinito cielo perché nessuno pensi che si rivolga a uno in particolare. E sentenzia: “Ciò che vi dico è legge, non ci sono eccezioni.Dai tempi della grande

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guerra, che alcuni di voi hanno conosciuto e altri sentito narrare, una guerra che ha costruito la vostra fortuna, questa è la prima volta che vi riunisco. Con una solennità ben giustificata. Voglio che da questo momento, prima ancora che la notte scacci il giorno, nessuno di voi si occupi più di ciò che accade davanti alle mura della città di Priamo. Né oggi, né domani, né mai. Solo il Fato farà il suo corso, ma esclusivamente per mano degli uomini. Noi resteremo a guardare. Qualcuno di noi proverà le emozioni che ci sono concesse, ma queste non dovranno avere un seguito sul campo dove si combatte. D’ora in poi i vostri protetti saranno soli con le loro virtù e le loro debolezze. Quello che è stato è stato e non sarebbe giusto cambiarlo, perché i vostri impegni sono sacri. Ciò significa che i poteri e le armature che avete già donato conserveranno la loro efficacia, ma niente di più. I vostri interventi sono sospesi. Di più, cancellati. Le armi sono pari e il destino, ma solo lui, conosce se stesso. Ora andate, ma ricordate che a nessuno di voi è concesso informare i propri protetti di questa decisione. Non preoccupatevi, avranno modo di accorgersene da soli. Qualcuno di voi dirà che tutto ciò è crudele, ma sento che in dieci anni si è insinuato l’Errore, e forse noi siamo i primi responsabili. Non posso punire voi, come non posso punire me, ma posso, voglio e devo imporre una penitenza che non alteri l’equilibrio. Un po’ d’angoscia per chi combatte e uccide. Così ho detto”. La riunione è sciolta, tutti mestamente fanno ritorno alle rispettive dimore. Alcuni sono d’accordo con le parole di Zeus e non trovano niente da obiettare. Altri, e tra questi Apollo e Atena, sono indispettiti e, istante dopo istante, furenti. Essi vogliono intervenire nelle vicende umane. È questo il loro essere dei, la cura al tedio divino. Vogliono influenzare l’esito della guerra. Vogliono partecipare attivamente all’aspra battaglia. Vogliono consigliare e difendere i loro protetti. Sta per nascere, nelle braci della rabbia, la dea della Disobbedienza. Costantinopoli, 397-398 d.C. Per il suo ascetismo Giovanni Crisostomo è amato da Eudossia, moglie dell’imperatore Arcadio. Ma i favori, soprattutto quando non imposti, sono fuggevoli come i petali delle rose che sfioriscono. E del resto i cambiamenti nella Chiesa non scalfiscono l’arroganza contro il paganesimo, che pure ha creato cultura e istruzione, come qualche spirito cristiano illuminato ammette con prudenza. Lubeki ha letto, ha incontrato, ha discusso. E

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qualcuno gli ha spiegato che dove c’è poca cultura gli estremi si allargano. “La tolleranza si può trovare solo tra gli alti spiriti”, gli ha detto un saccente. Ma Lubeki, senza mostrarlo, non ha accettato quelle parole. È proprio un saccente, si è detto. Lubeki è un estraneo a Costantinopoli. Qualche contatto e molti rischi. Non ha tempo per farsi figlio della città, ma non vuole più perdere tempo, dopo avere sprecato una vita. Una sera, mentre le strade si svuotano e il rumore si attutisce, cammina a lungo, per itinerari tortuosi che non saprebbe ripetere, seguendo a fatica una vaga indicazione, e alla fine bussa alla porta di una casupola, alla periferia della città. Non sente la stanchezza, concepisce ormai il riposo come un nemico. Gli apre la porta, reggendo un lume, Gerostomo di Antiochia: è, o piuttosto era, un cristiano seguace di Origene. Ma anziché entrare nelle fila dei Lunghi Fratelli, Gerostomo, dopo vicende e riflessioni che non ha mai raccontato ma che molti sospettano, ha abbandonato il credo cattolico. Una volta, confessando qualcosa di sé, ha usato il termine “ribellione”. E c’è stato chi ha sorriso. Il contatto però è importante perché Gerostomo ha avuto possibilità di accesso alle stanze di Nettario. E Lubeki è alla caccia di qualcuno o qualcosa che gli indichi un sentiero. Sa che le sommosse, nelle zone rurali, possono esplodere facilmente, ma in città rischierebbero soltanto di moltiplicare le persecuzioni. Pensa da tempo che solo una intelligente opera di screditamento raggiunge risultati soddisfacenti. Gerostomo può aiutarlo, se riesce a conquistarne la fiducia ed essere egiziano non sia un affronto: hanno amici in comune e fra questi un perseguitato pagano che è stato intimo, e forse altro, di Gerostomo. Di quest’uomo sa ciò che, prima di partire, gli ha raccontato il comune amico. Lubeki ha ottenuto garanzie, ma anche uno sguardo finale di sottecchi. “Tu ti fidi?”, gli ha sussurrato. “Certo, ma non mi fido dei tempi”, ha replicato l’altro. “C’è qualche altra cosa che devo sapere?”. L’amico ha scosso il capo: “No. Ma il tradimento può diventare un’abitudine. Non credo sia questo il caso, vigila comunque. E temo che tu non abbia scelta”. Gerostomo lo accoglie a braccia aperte, anche se il suo sguardo incute diffidenza. Il giovane è aitante e Gerostomo non è insensibile. Gli sfiora il braccio con intenzione. Lubeki non vuole contrariarlo, ma con un gesto secco lo blocca e gli dice: “Non sono qui per questo né per qualcosa di

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simile”. Se Gerostomo si infuria, non lo dà a vedere. Forse, pensa Lubeki, ha imparato da tempo a nascondere i moti più violenti dell’animo. Fa accomodare Lubeki su una sfarzosa poltrona, decisamente stonata in un ambiente del tutto spartano. Sorride e Lubeki intuisce lo sforzo, che attribuisce alla stizza. “Di norma non faccio sedere nessuno in quella poltrona, ma stavolta faccio un’eccezione: hai un lungo cammino dietro di te. Come sta il nostro amico?”. “Quando sono partito, bene. Ora non so”. Si rende conto di essere stato troppo sbrigativo nella risposta e scostante ancora prima. Non ha cominciato nel modo giusto e questo lo irrita. La diffidenza è salutare, ma da cosa nasce in questo caso? Solo dagli accenni dell’amico? Lubeki è incerto perché già più volte il suo intuito lo ha tradito. Gerostomo lo guarda a lungo senza parlare. “Cosa vuoi?” gli chiede all’improvviso, a voce bassa. “Voglio parlare con Eutropio”. I destini si scrivono a corte e il giovane egiziano non lo ignora. I pagani non sono così forti da resistere all’assalto dei cristiani, ma i cristiani non sono ancora così forti da superare le divisioni. Anzi. Gerostomo era uomo dei cristiani, ora è soprattutto un uomo che vuole vendetta, per ragioni segrete che l’ex seguace di Origene non ha mai voluto rivelare. Così almeno ha lasciato intendere il comune amico. E ancora, Gerostomo non è estraneo alla cerchia dell’eunuco imperiale che ha scelto Giovanni. Anzi, Lubeki sa che corre una voce: avrebbe avuto rapporti intimi con lo stesso Eutropio. Gerostomo resta in silenzio per molto tempo. Aprendo il suo pensiero – si dice Lubeki – non sarebbe difficile scrutarne e valutarne la sostanza: non ha alcuna antipatia nei confronti dei pagani, di cui ha potuto conoscere la cultura, il valore, l’onore. Soprattutto di alcuni, ancora in vista in città malgrado le persecuzioni, e di uno di loro ha persino ottenuto i favori. Ma non è disposto a rischiare per questa simpatia. Le motivazioni di Lubeki, ammesso che sia verità ciò che dichiara, per lui non sono primarie. Forse addirittura inesistenti. “Cosa mai puoi volere da Eutropio? Qualsiasi cosa tu abbia in mente, non mi sembra una buona idea. Eutropio in questo momento è adorato dall’imperatrice. Che lo considera….”. E qui Gerostomo si rabbuia e stringe le mascelle: “un santo”, conclude. “E tu non ami più i santi”, si lascia scappare Lubeki. Gerostomo si volta incollerito, lo sguardo al cielo: “I santi? E chi è santo?

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Chi non mangia? Chi non beve? Chi non mescola la carne con la carne? Chi vive su un sasso? Chi studia Aristotele? Chi ti urla che Gesù è uomo e chi ti urla che è dio? Chi si fa strappare un piede perché non sa godere diversamente? Chi si getta dentro la fossa dei leoni perché non sa più che farsene della vita? Chi crede che il silenzio sia migliore della parola? Chi condanna la crudeltà quando viene dall’uomo ma non quando viene da Dio?”. Lubeki non resta sorpreso dalla tirata. Poco tempo gli è bastato per capire l’indole umorale di Gerostomo. Però sente di avere riacceso un fuoco che covava. China il capo e poi lo solleva con un sorriso che non è di scherno, ma di comprensione. “Allora potremmo essere d’accordo. Su molti punti non la pensiamo diversamente. Ma dimmi: Eutropio può qualcosa sull’animo di Eudossia, la vostra pia imperatrice? E sa Eudossia che Giovanni è fin troppo asceta per lei? Dipendesse dal nuovo vescovo, dovrebbe andare vestita con un saio sporco e corroso. Niente stoffe e niente gioielli. Anche questa è crudeltà”. Gerostomo rimane a guardarlo apparentemente assorto. “Ma tu cosa vuoi veramente?”, gli chiede di colpo, sporgendosi in avanti come ad aggredirlo. “Stai parlando di cose troppo grandi per te, piccolo pagano dalle divinità egizie, neppure greche. E le stanze che immagini sono troppo lontane. Non sei un faraone, non uno scriba, non sei un santo e non sei uno schiavo. Cosa pretendi?”. “Niente, ho qualcosa, poca cosa, da far vedere. È solo un manoscritto. Una parodia, forse. Una storia assurda, neppure ben scritta. Ma qualcosa mi dice che potrebbe essere utile”. Fa una pausa. Gerostomo lo incalza: “E dunque?”. “Il punto è che Teofilo, il distruttore del Serapeion, lo vuole a tutti i costi. O almeno lo voleva. Lo ha cercato, lo ha trovato e lo ha perso. Qualcuno è persino morto”. “Interessante”. Gerostomo si alza e va nella stanza accanto a prendere una caraffa d’acqua. “Vuoi bere?”, chiede mentre torna. “Certe diffidenze verso essenze più forti mi sono rimaste. Non c’è vino in questa casa”. “Non importa. Non ne bevo”. “Non hai vizi”, sorride Gerostomo. “È un peccato farti del male”. Fa un cenno e subito due uomini appaiono nell’arco che divide le stanze.

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Lubeki se ne accorge benché gli arrivino alle spalle. Prende il bicchiere che Gerostomo gli offre e gli getta l’acqua sul volto, lanciandosi immediatamente contro la porta d’ingresso. Non fa in tempo a raggiungerla. I due uomini lo afferrano e lo immobilizzano. Hanno la barba, nota Lubeki. Significa qualcosa? No, si dice amaramente il giovane. Ecco, la cura dei dettagli quando è inutile. Tipico della sua ingenuità. Almeno su questo Gerostomo ha ragione: cose troppo grandi per un piccolo uomo. Gli eroi sono rari e non si inventano. Forse aveva sospettato che Gerostomo fosse un traditore. Un danzatore del tradimento. Ma non ha seguito l’intuizione, che spesso lo ha tradito. E del resto l’amico comune l’aveva messo in guardia. Amici. Potrebbe Gerostomo avere amici? Ma anche questo è irrilevante, ora che si sente sollevare violentemente, dopo che gli hanno infilato un cappuccio sulla testa. Lo spingono, gli abbassano il capo, urta la gamba contro qualcosa ma trattiene l’imprecazione che gli sale alle labbra. Poi finisce di nuovo su un pavimento che comincia a sobbalzare. Ha sbagliato tutto, ma è ancora vivo. È irresistibile, mentre sul fondo di un carro – “Non può essere altro” – tenta di attutire i colpi, tornare ai sogni, all’adolescenza. Ad Alessandria. Ricorda quell’inno che avevano tramandato e tutti conoscevano: “Gli altri dei si sono allontanati, o non ascoltano o non esistono, o in ogni caso non prestano attenzione a noi”. Così cantava. Ma non era mai stato convinto da quei versi. Che volevano solo glorificare il re, figlio di Poseidone e di Afrodite, azzardavano i suoi mielosi cantori. Lubeki non amava Poseidone – “Troppo violento”, pensava da ragazzo – e solo Afrodite lo stuzzicava. Ma era troppo poco ed Afrodite, con quello o con un altro nome, non poteva non esistere in qualunque angolo del mondo. Sentiva il cuore restringersi quando pensava che nell’inno c’era una verità: “Gli dei non ci sono”. E se anche fosse? Aveva capito molto presto che era meravigliosamente attratto dal meraviglioso. E il dio dei cristiani non aveva meraviglie da offrire. Il carro prosegue il suo viaggio. Gli sembra che non proceda velocemente. Forse quelli che lo hanno rapito non hanno fretta. Meraviglie. Lubeki pensa al brivido che provava, tra l’infanzia e l’adolescenza, leggendo le storie di Flegonte di Tralle. E soprattutto quella di Filinnio. Si immedesimava col giovane Macate che godette per due notti dell’amore di Filinnio e la terza notte scoprì che quella bellissima ragazza era morta da tempo. Era risorta

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per lui. Tre notti, resurrezione. Troppo per Macate, che si era suicidato. Come Protesilao, gli dicevano gli insegnanti: fu il primo tra i greci a morire a Troia dopo avere goduto di una sola notte di nozze. Anche lui ebbe il permesso di abbracciare per poche ore la sposa Laodamia. Perché Filinnio, scoperta, aveva detto ai genitori che aveva lasciato il sepolcro per volontà divina? Perché gli dei non sono cattivi e Filinnio, morta giovane, aveva un credito d’amore. Si sarebbe ucciso anche lui come Macate? Sono così evanescenti i miei motivi? Così lacrimose le mie passioni? Sono qui come potrebbe esserci un lattante? La mente di Lubeki vortica sempre più, perdendosi tra vallate lontane dalla strada accidentata che sta percorrendo ora, quando il carro si ferma. Francia, castello di Chinon, 1308 A Guillaume de Plaisians quei tre cardinali sembrano un compendio di geometria. Il capo di Bérenger Fredol evoca una sfera, quello di Etienne de Suisy un triangolo e quello di Lorenzo Brancacci un rombo. Quasi segue le loro linee con lo sguardo, preparandosi a misurare. É affascinato da una sorta di astrazione che gli fa perdere il senso delle loro prime parole. Ma sa che sono soltanto saluti falsificati da deferenza e disprezzo. Ricambia meccanicamente e osserva di sbieco che Nogaret non riesce a nascondere un atteggiamento minaccioso. Mal per lui. Plaisians ha capito che la stella del cancelliere si sta offuscando: troppe distrazioni, un genio rugoso, un torrente che non scorre più in un solo letto. Lui, Plaisians, il suo luogotenente per così dire, ne prenderà il posto. Questo è il momento della diplomazia assoluta, non serve la minaccia sia pure larvata. Clemente V ha inviato i cardinali per interrogare cinque dignitari del Tempio. Si vedrà, ora bisogna blandire la geometria, sublime intuizione greca… Plaisians si maledice silenziosamente, gli sfugge un gesto senza significato: si sta ancora perdendo nell’astrazione. E intanto Nogaret sembra avergli letto nel pensiero perché ora esibisce un sorriso scintillante. Forse non sarà così facile convincere definitivamente Filippo. Forse Nogaret conserva un lampo del suo potere. “Potete interrogarli a vostro garbo domani stesso. Il sovrano ha disposto che niente vi ostacoli e tutto il tempo sia a vostra disposizione”, dice il cancelliere del re, invitando i cardinali a prendere posto nella sala. Sul

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tavolo cinque tazze per l’acqua. Il vino è bandito. “Vi ringraziamo e, attraverso voi, ringraziamo sua maestà”, dice Fredol chinandosi. Seguito lentamente da Suisy e Brancacci. I toni sono freddi, ciascuno dei presenti lo avverte ma non può fare nulla per modificarli. Tra un fronte e l’altro si erge l’assoluzione del Papa nel concistoro pubblico. Che il re ha accolto con un’esclamazione volgare, Nogaret senza sorpresa, Plaisians con l’aria di chi ha qualcosa da proporre. Ma il re non ha ascoltato: ha già previsto le contromosse. Il compito di Nogaret e Plaisians? Essere sempre presenti soffiando sugli altri presenti il fiato dello stesso Filippo. Così Plaisians si stupisce udendo le parole di Nogaret: “Sono certo che non mancheranno le sorprese”. Troppo diretto, pensa: queste teste potrebbero pensare che abbiamo preparato una trappola, che abbiamo indirizzato gli eventi, che abbiamo usato tutto il potere del re per convincere i dignitari. “Cancelliere, la sorpresa ci segue da tempo, in questa triste vicenda. Dalle prime accuse, potrei dire. E qui si tratta di figli della Chiesa. Ma è vero che l’eresia si nasconde ovunque, anche dove solo il Signore la scorge. Sarà lui a guidarci”, dice Brancacci con affettazione. Nogaret non risponde alle accuse implicite. Plaisians è sorpreso: l’aria untuosa di quel cardinale italiano è smentita dalle sue parole. Non si attendeva quell’amichevole atteggiamento di sfida. No. Per i tre cardinali il timore del re è meno forte della lealtà al pontefice. Ma su questo non aveva dubbi. “Poi saremo lieti di consegnarvi una lettera per il sovrano in cui vi comunicheremo l’esito dei nostri interrogatori”. Non è cortesia, né eleganza, solo l’annuncio che il Papa ha deciso: né Nogaret, né Plaisians, né altri uomini del re, potranno assistere all’incontro fra i cardinali e i dignitari del Tempio. Ancora una volta i plenipotenziari di Filippo si inchinano. Poi è Suisy a parlare, chinandosi impercettibilmente verso Nogaret: “Sapete, cancelliere, siamo rimasti molto colpiti, e sua santità prima di noi, dalle vostre parole di qualche giorno fa: il cielo e la terra sono agitati dal soffio di un così grave crimine e gli elementi sono turbati. Così avete detto e noi concordiamo. Avete ragione: contro una peste così deleteria tutto deve sollevarsi. Le leggi e le armi, gli animali e i quattro elementi. Ah, ma io affermo che bisogna anche guardarsi dalle calunnie lanciate da quelli che dicono di esser giudei e non lo sono, ma sono una sinagoga di Satana. Così è scritto nell’Apocalisse di Giovanni”.

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Nel silenzio improvviso un gesto di Plaisians fa tintinnare le tazze. “Ma non possiamo neppure tollerare che Jezebel seduca i servitori perché commettano fornicazione e mangino cibi sacrificati agli idoli”, aggiunge Fredol. A Plaisians sembra che i tre corpi solidi si muovano lentamente per un incastro perfetto. Lo infastidisce che i cardinali individuino il principale nemico, dopo il re, in Nogaret, ma il silenzio è la sua unica arma. Per ora. E Brancacci riprende a parlare: “Sì, le vostre parole hanno rievocato nelle nostre menti l’Apocalisse. È giusto e utile che l’uomo si senta sempre davanti ai ventiquattro troni di Dio. Che, come Giovanni, senta le voci e veda ciò che accadrà. L’agnello e la bestia, gli angeli e i suggelli, le trombe e i tormenti. Che veda che Babilonia cadrà e si spalancheranno le porte della nuova Gerusalemme”. Così il cardinale italiano. “Ed è veramente singolare, cancelliere, che abbiate citato i quattro elementi”, aggiunge Suisy quasi omaggiando il suo spirito profetico. Plaisians si volta verso Nogaret. Ha la certezza che il cancelliere risponderà come si conviene. Perché in quelle affermazioni intrecciate come un festoso canestro ci sono l’accusa e la promessa, lo scetticismo e la diffidenza. Si stupisce, Plaisians, nel vedere il corpo di Nogaret più piccolo di quanto ricordasse pochi istanti prima. E nell’incrociare uno sguardo perplesso, come se le sue idee viaggiassero e fossero più lontane. In altri luoghi. Come se Nogaret avesse già visto la bestia levarsi dallo zolfo e puzzare del puzzo dell’Inferno, e allontanarsi con ira dai ventiquattro troni minacciando, o promettendo, di continuare a combattere contro l’agnello. Nei secoli dei secoli.

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LIBRO NONO O Ilio inviolata, quanto tempo ancora le sacre porte resisteranno all’assalto del malvagio acheo? Quanto ancora le tue possenti mura, di divina costruzione, argineranno l’ira funesta dell’Olimpo offeso?... Piana di Troia. I giochi funebri in onore degli eroi caduti stanno per terminare. Tutti i guerrieri più forti, greci e troiani, si sono distinti e hanno trovato gloria e premi. Ettore non è tranquillo. Odisseo e Diomede non hanno partecipato alle gare e il principe troiano si chiede perché. “Senza Achille e Aiace sono sicuramente i più forti e valorosi fra tutti gli achei e avrebbero potuto vincere molte dispute e distinguersi per coraggio e forza”. È strano poi, pensa Ettore, che siano scomparsi dal campo acheo, per poi ricomparire, come per un incantamento, proprio ora che sta per riprendere la battaglia. Tutto ciò non è logico, salvo che i due non si siano allontanati volutamente per tramare qualcosa contro la città. È preoccupato il principe, non si fida di Odisseo perché, se non è il più forte dei guerrieri, è sicuramente il più astuto e pericoloso, capace di escogitare stratagemmi dall’esito fatale. Questi pensieri accrescono il nervosismo e l’insicurezza del primogenito di Priamo. Nell’accampamento greco si festeggiano invece i nuovi alleati appena giunti e si spera col loro aiuto di riuscire a conquistare Troia. I giorni dell’angoscia e del pessimismo sono dimenticati e ci si prepara con rinnovato vigore alla ripresa della guerra. I guerrieri caduti eroicamente in battaglia sono stati onorati, ma Neottolemo e Filottete hanno già soppiantato nel cuore dei soldati il ricordo delle gesta di Achille, Menelao e Aiace. Tutto passa, e anche il coraggio, l’eroismo, la crudeltà in combattimento dello sfolgorante figlio di Peleo cadono nell’oblio. Manca solo un’ultima azione da compiere: trafugare il Palladio, la statua cara ad Atena e sacra per la città di Troia. Odisseo, diventato per acclamazione lo stratega dell’esercito, ha studiato un piano dettagliato e si presenta davanti ai comandanti dell’esercito greco per spiegarlo: “Argivi, sento che la vittoria è vicina. Prepariamoci alla battaglia finale. Questa notte, con l’aiuto di Diomede, entrerò all’interno di Troia, dove ormai riesco a orientarmi anche al buio. Il tempio della dea Atena si trova lì, a due passi dal palazzo di Priamo. La sorveglianza è scarsa perché i troiani sono convinti che

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nessuno possa violare le loro porte, e noi, infatti, non le violeremo. Scaleremo invece le mura in un punto lontano, dove la sorveglianza è minore e dopo che le sentinelle saranno tornate indietro. La statua si trova dentro il tempio di Atena, nostra preziosa protettrice, e riusciremo a prenderla e a fuggire prima che gli abitanti si accorgano della nostra presenza. I troiani si sentono al sicuro nella loro città fortificata e per le strade non vi sono soldati di guardia. La notte senza luna ci favorirà. Nel giro di poche ore ritorneremo con il Palladio. Che gli dei siano con noi e ci proteggano”. Tutti acclamano il re di Itaca. Hanno approvato il suo discorso, la sua strategia, la sua perizia nell’ideare il piano, e ora si preparano all’azione ormai imminente. Tutti tranne Agamennone che continua a infiammarsi di rancore e invidia. Nessuno ha chiesto il suo parere e la sua autorità è stata scavalcata dall’itacese. Dovrà ricordarsene in futuro. La notte scende rapida e fredda, rischiarata solamente dai fuochi dell’accampamento acheo. I due argivi lasciano furtivamente le loro sicure postazioni e riescono a introdursi a Troia secondo il piano prestabilito. Le mura, per quanto elevate, vengono scalate con facilità. Delle guardie non vi è traccia, ma i due sono molto lontani dal tempio e devono attraversare l’intera città per raggiungerlo. Le strade sono deserte e scarsamente illuminate dalle fiaccole. Solo un gatto sonnecchiante, spaventato nel vedere sopraggiungere di corsa Odisseo, scappa via miagolando. Ma nessuno sembra accorgersene o dargli peso. Il silenzio ora è assoluto, solo in lontananza si sente il lento andirivieni delle sentinelle sulle mura. Tutti dormono un sonno tranquillo questa notte a Troia. I due eroi devono comunque agire rapidamente. Ed ecco finalmente il tempio che si erge in tutta la sua maestosità al termine della scalinata che porta all’acropoli. È Diomede, il più forte tra i due, a penetrare al suo interno e a prelevare la statua. Il Palladio è al centro della grande sala ipostila, illuminato dalla fiammella di sette lucerne. Nonostante il notevole peso è facile per Diomede trafugare la statua, anche perché – ed è strano, pensa – dentro il tempio non c’è traccia di essere umano, nemmeno di una sacerdotessa devota alla dea. Una volta all’esterno il re di Argo si ricongiunge a Odisseo e insieme ripercorrono la strada che porta alle mura, alla salvezza, alla vittoria e infine alla gloria. Ma spesso l’aiuto di un dio può essere vanificato dall’intervento di un altro dio, e Apollo, che ha capito le intenzioni di Atena, porta il suo aiuto ai troiani. Così i due divini fratelli hanno già

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violato l’ordine del padre. E infatti, non tutti dormono a Troia. Deifobo, il fratello più amato da Ettore, uscendo dalle stanze di Elena, dove ha trascorso una notte d’amore, scorge i due compagni mentre si precipitano verso le mura. Apollo ha saputo orientare i suoi occhi. Immediatamente risuona l’allarme e una pattuglia di guerrieri si mette all’inseguimento dei fuggitivi. La notte viene illuminata dalle fiamme di decine di torce e gli intrusi sono ben presto raggiunti. Si scatena la battaglia. Diomede lancia il Palladio oltre le mura e, con la spada in pugno, inizia a menar fendenti facendo indietreggiare i troiani. Odisseo gli è al fianco, ma la foga con la quale combatte il suo compagno presto lo lascia indietro. Diomede riesce da solo a tener testa all’intera pattuglia e Odisseo vede improvvisamente aprirsi per lui una via di fuga. Sale sulle mura e si cala verso la salvezza, abbandonando l’amico al suo destino. Ed è un destino crudele quello cui va incontro il re di Argo. Diomede, infatti, massacra molti nemici, ma soccombe a un colpo di spada vibrato da Eurilao, cugino di Ettore, tra gli eroi più modesti, che nessuno ricorderà se non per le inclinazioni verso il suo stesso sesso. Urlando di gioia, i troiani vittoriosi sbranano Diomede, ciascuno sventolando trionfalmente un brandello delle sue carni. È sempre Eurilao a gridare più degli altri nella vertigine della vittoria: “Oggi Troia ha ottenuto molto di più della sconfitta di un guerriero che, in dieci anni, ha seminato lutti e rovine davanti alle porte Scee. Tempo fa un aruspice mi ha predetto che la morte del figlio di Tideo, protetto di Pallade, sarebbe stata l’inizio della fine per l’esercito acheo”. Tutti gli credono, ma qualcuno alza la voce per ricordare che intanto il Palladio è sparito. Solo allora una schiera di soldati armati si precipita fuori dalla città, ritenendo che nessuno, neppure l’astuto Odisseo, possa aver avuto il tempo di fuggire trasportando la statua. Ma quando i loro sguardi furiosi e accorati spaziano da un estremo all’altro dell’immensa piana, scorgono solo il deserto e il silenzio. Si spingono verso le rive, ma Enea, che è con loro, li avverte: “Fermi. Non possiamo andare oltre. Il pericolo è più grande del nostro coraggio”. Parole suggerite da sua madre Afrodite, la terza divinità a violare la nuova legge imposta da Zeus. La bellissima dea non potrebbe aiutarlo in campo aperto, e questo rappresenterebbe un pericolo mortale per Enea, che mai, nei dieci anni di scontri, ha combattuto da solo. Sempre è stato aiutato dalla divinità, sempre ha sollevato l’arma con la garanzia di una protezione invisibile ma certa. Uno spirito che Enea, se dovesse sopravvivere,

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porterebbe con sé. Lontano, oltre l’Egeo, sulle sponde del Tirreno, quando dovesse riuscire nell’impresa. O se gli dei non volessero decretare la sua fine nella terra dove è nato. Così la pattuglia torna indietro e fa chiudere le pesanti porte. Non si è accorta che Odisseo si è celato agli occhi dei troiani, ma non è andato molto lontano perché il peso del Palladio gli ha impedito di correre verso l’accampamento. E’ riuscito solo ad avvolgerlo in una tela grezza usata dai pescatori e ad appoggiarlo a una piccola roccia nascosta in un anfratto. Un nascondiglio perfetto ma solo per un tempo breve. Costantinopoli, un luogo imprecisato, 398 d.C. La fronte dell’uomo è nascosta da un cappuccio. I tratti del volto rimangono nell’ombra. La veste è lunga, sicuramente scura, chiusa alla vita da un cordone. Seduto su uno scomodo sgabello, Lubeki scorge appena i contorni dell’uomo che ancora non parla. La stanza, forse una cantina, è quasi cancellata dal buio. Non si intravedono finestre. In fondo, davanti alla porta, Lubeki intuisce le sagome di altri due uomini. Quelli con la barba, probabilmente. Il primo è seduto. Tra lui e l’uomo col cappuccio, un tavolino. Sopra non c’è nulla. Chissà perché, Lubeki si aspettava almeno qualche foglio. “Il mio nome non ha importanza. E nemmeno il tuo, giovane egiziano. Sono qui per farti delle domande e ottenere delle risposte”. La voce è pacata, il tono di chi va subito alla sostanza delle questioni, ma non per questo dimostra fretta. L’atteggiamento di un funzionario di alto rango, direbbe Lubeki. Che risponde sfiorando l’arroganza: “Le sto cercando anche io”. L’uomo non raccoglie la sfida. Segue probabilmente il suo pensiero. “Potrà sembrarti strano, ma in questo caso, e solo in questo, tu ne sai più di me. Sono anche convinto che questa storia all’apparenza complicata in realtà sia semplice”. “Quale storia?”, chiede stupidamente Lubeki. Se l’uomo sorride Lubeki non è in grado di dirlo. “La riassumo, anche se è tempo perso. Ma il tempo è l’unica cosa che non ci manca. Tu sei venuto in possesso di un manoscritto. Sappiamo che probabilmente c’è una sola copia, e già questo è un mistero. Racconta una storia sciocca e assurda. O meglio, una storia particolare, una questione davvero interessante, che però al momento accantoniamo. Il punto è un altro: come fa una storia

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così insulsa a riportare passi dell’Apocalisse?”. Lubeki è pronto ad affrontare molte sorprese, ma il riferimento diretto dell’uomo lo sbalordisce. E, sempre stupidamente, non apre bocca. Mentre l’altro, Lubeki ne è certo, lo osserva con estrema attenzione. “Vedi, egiziano, questa è un’epoca guerriera, le direzioni sono tante e nessuno sa quale il destino vorrà imboccare. Il destino o, se preferisci, il Fato. Giusto? Parola antica. Per questo è importante che le cose non siano troppo confuse”. Tace per qualche istante, poi riprende: “Si discute molto dell’Apocalisse. Una rivelazione importante, molto importante per i cristiani. E se un libro è intinto, sia pure per un soffio impalpabile, nell’Apocalisse, anche quel libro diventa importante. Soprattutto perché non è verosimile che l’abbia scritto un oscuro greco di molti secoli addietro. Ne converrai”. Lubeki decide di parlare: “Non mi è chiaro tutto ciò. Sono uno studioso, o almeno tale vorrei essere. Quel manoscritto offre una versione diversa della guerra di Troia. Storia di cui non ci sono accenni altrove. Mi incuriosisce. Posso concederti anche che mi affascini. Ma solo per questo”. L’uomo scuote lentamente il capo. “Non solo per questo. E non insultare la mia intelligenza. Quel libro doveva sparire tra le fiamme. Tu sei inseguito da anni. Non ci sono altre copie, l’unica è nelle tue mani e ti segue come una bava. Non ne parli mai se non qui, a Costantinopoli, terra di cristiani, pagani, ebrei”. “E traditori”, lo interrompe Lubeki, senza astio. “Vero”, ammette l’uomo. “Normale. Giorni guerrieri, come ti ho detto. Dove ci sono eroi ci sono traditori. Dovresti saperlo bene, nella tua cultura pagana. Ora il nodo fondamentale: quella storia, almeno in parte, è falsa. E qualcuno ha aggiunto qualcosa che non doveva aggiungere. La parola blasfemo è assai pericolosa, di questi tempi. Chi ha aggiunto i passi?”. Lubeki riflette, a bocca aperta, lottando contro la nebbia che gli vela gli occhi: “Non lo so”. E poi: “Ma non è un bene per voi? Non so chi tu sia, ma di certo non sei un pagano. Se fossi un cristiano dovresti essere soddisfatto. È un bene per la tua religione. L’onnipotenza di Dio”. “No, egiziano, e sappi che il sarcasmo non ti aiuta. Non è un bene. L’operazione mi sembra molto raffinata. L’aggiunta è talmente stupida, anche se ben mascherata, che chi l’ha progettata sperava proprio che fosse scoperta. E cosa penserebbero, secondo te, gli immancabili scopritori?

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Semplice. Che è un imbroglio, architettato proprio da chi crede nelle parole dell’Apocalisse. Potrebbero anche dire che non è la prima volta. I pagani avevano Odisseo, i cristiani… diciamo che la passione religiosa si fa condizionare. Sai, anche i cristiani, anche gli ebrei, hanno bisogno di mitologie”. “Sempre in nome di un dio che pretende vendetta contro la menzogna”. “Non scherzare, egiziano. E tieni presente che io mi occupo più di politica che di religione”. “Ma perché tanto interesse? Davvero temete in quelle righe una minaccia? Direi che è solo un piccolo accidente fra tanti”. “Vero anche questo. Un caso fra migliaia. Non può fare male. Quasi niente. Ma questi sono anche i tempi del quasi. E c’è qualcosa in questa storia che ci sfugge. Chi ha fatto l’aggiunta?”. Lubeki non risponde e l’uomo non dice altro. Cala il silenzio per qualche minuto. Poi a Lubeki sembra che vicino alla porta qualcosa si muova. È lui a riprendere la parola. “Non lo so, ti dico che non lo so. Ma anche se lo sapessi, e ti dicessi per esempio che è stato un pagano, cento o duecento anni fa, cosa cambierebbe? Asserisci che c’è una sola copia: bene, bruciatela, e tutto finisce. Sono certo che avete già frugato fra le mie cose. Avete trovato il manoscritto, la storia è chiusa. Gli enigmi senza tracce servono soltanto agli autori che hanno tempo da perdere”. “Non hai torto, egiziano. Ma chi ci dice che le cose non stiano diversamente? In un giardino non cresce solo un fiore, soprattutto se piove molto. E si parla dell’Apocalisse, ti ripeto. C’è sempre da bruciarsi quando si discute di una rivelazione che per sua natura conquista i popoli. I credenti e quelli che, proprio per questa rivelazione, lo diventerebbero con entusiasmo. E c’è un secondo mistero: non esiste un’altra copia in greco, ma se ti dicessi che potrebbe essercene una in latino? Se fosse vero, non ti sembra che troppa gente si stia dando da fare attorno a un insulso, miserevole ed eccentrico manoscritto?”. Francia, 1308 Mentre viaggia verso il Toulousain, dolcemente scosso dalla carrozza, Guillaume de Nogaret si chiede se debba riferire al re ciò che ha scoperto. Da quello stravagante manoscritto afiorano, come punte di coltelli, frammenti dell’Apocalisse di Giovanni. Sono imprecisi ma nitidi, confusi ma evidenti.

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Come è evidente la sua cecità. Era stato curioso ma cieco, stranamente ottuso, fino all’incontro con gli inviati del papa. Un accenno improvviso, forse (forse?) inconsapevole, e Nogaret ha afferrato in un istante il cielo e l’inferno. I pezzi sparsi si sono uniti. Rivelazioni. L’arrivo della Bestia, la profusione di numeri. Ciò che accadrà in mille anni dopo la morte degli dei. E Cristo? Un gioco aberrante, una fantasia inconcepibile prima, molto prima della nascita di Cristo. Come se il tempo si fosse ribaltato e la storia procedesse verso il passato. Le regole sconvolte. Assurdo. Se non altro ora capisce perché era così attratto da quel manoscritto. Ne intuiva il segreto potente? Cosa lo guidava? Ma tutto questo cosa può importare a Filippo? Quel mistico che lui, Nogaret, ha nutrito, blandendone allo stesso tempo la cupidigia. Inculcandogli il disprezzo verso qualsiasi eresia. Una creatura che crede di dominare e cammina invece sulla strada indicata da lui stesso, Nogaret. “Sono pazzo io? Credo davvero di essere circondato da eserciti di eretici?”. Sorride il cancelliere che si prepara a confiscare i crediti degli ebrei, nei villaggi del Toulousain. E crede alla metà di ciò che dice di credere, in pubblico, al cospetto del sovrano, davanti ai nemici. Commissario implacabile del re affamato di denaro. Sarà ruvido come sempre. E non c’è tempo, in questi tempi, per indagare sul mistero di Eschifilo. Potrebbe servire alla causa sua e del re? Riflette a lungo, il cancelliere, superando campi e colline, cieli nuvolosi e squarci di azzurro, ma poi esclude di poter utilizzare il manoscritto. Ci sono fin troppi intrighi. Necessari? Si vedrà. Nel peggiore dei casi, dopo i roghi dei Templari, avrà un nuovo passatempo.

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LIBRO DECIMO Ah, sventurato Diomede, le tue membra sparse in terra straniera mai troveranno il giusto e meritato riposo. Meritasti una fine tanto ignobile? Tu, o re di Argo, che in vita ti ricopristi di gloria? Tu, o Epigono, che conquistasti la città dalle sette porte?... Piana di Troia. Odisseo è nascosto fra le rocce, immobile come la statua del Palladio coperta con un telo a pochi passi da lui. Il cuore batte forte per la lunga corsa, ma soprattutto per la paura che lo avvolge. Non ha fatto in tempo a raggiungere l’accampamento e ora è lì, nella terra di nessuno, a poche centinaia di metri dalle porte della città. Dietro di sé sente il tranquillo sciabordio delle onde di risacca, davanti ascolta le urla dei troiani che scrutano nella notte buia, nella speranza di individuarlo. Un piccolo rumore lo tradirebbe. Dopo un tempo che al re di Itaca sembra non finire mai, Enea ordina alla pattuglia di troiani di rientrare perché ha paura di qualche imboscata da parte degli achei. Ora Odisseo è solo con se stesso e si lascia andare a un pianto tanto disperato quanto liberatorio. Ha abbandonato il suo migliore amico, quello con cui in dieci anni ha diviso gioie e dolori. Ha lasciato che Diomede cadesse in mani nemiche e si sente, a ragione, un traditore e un vigliacco, anche perché sa che, a parti invertite, Diomede gli sarebbe rimasto accanto. Ma gli eroi, anche quelli più grandi, anche i re, sono uomini, con le loro debolezze e le loro meschinità. Attenuatasi la paura, Odisseo rientra in se stesso e riprende a ragionare tentando di trovare una giustificazione al suo comportamento: “Ho fatto la cosa giusta. Dovevamo compiere una missione importante colma di rischi mortali. Diomede si è sacrificato perché io riuscissi nell’impresa. Non lo dimenticherò. Ciò che conta è che il Palladio sia nelle mie mani”. Con questi pensieri in testa fa rientro al campo, dove tutti sono in allarme perché hanno sentito le urla dei troiani. Alla vista del Palladio si levano grida di gioia e i soldati festeggiano l’eroe. Subito però si chiede a Odisseo perché il suo compagno non sia con lui. Per il re di Itaca è giunto il momento di raccontare la sua verità, una verità che sarà diversa dalla realtà. Ma nessuno potrà mettere in dubbio la parola di un re. La riunione è sciolta, la statua di Atena viene custodita in un luogo segreto e Odisseo può ritirarsi nella sua tenda per riposare in attesa della

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battaglia di domani. Il sonno però non arriva, troppi fatti sono accaduti questa notte e la sua coscienza, che cerca di non ascoltare, gli urla che è il più disgraziato fra gli uomini. Anche a Troia non si dorme, il popolo ha saputo di quanto è accaduto, e l’entusiasmo per l’uccisione di Diomede ha contagiato tutti, soprattutto perché si è scoperto che la statua rubata dal tempio di Atena è solo una copia, l’originale la custodisce Cassandra. È notte di ringraziamenti e di sacrifici, l’intera popolazione acclama gli dei per i buoni auspici: la vittoria è vicina. Troia presto sarà libera. Arriva il giorno: Elio, sopra il suo carro, corre sicuro nel cielo. È una giornata meravigliosa, senza una nuvola: il giorno ideale per combattere, vincere, soccombere, morire. Archeptolemo, l’auriga di Ettore, prepara con cura il carro del suo signore perché la battaglia sarà decisiva. I soldati sono in fila davanti alle porte Scee, pronti per uscire a combattere. Si aprono i varchi e una fiumana di guerrieri urlanti, di carri e di cavalli, si riversa sull’ampia piana, pronta ad affrontare l’odiato nemico. Anche l’esercito acheo è schierato e Agamennone, in testa, fa segno ai suoi di avanzare. Ben presto i due eserciti vengono a contatto con un fragore assordante: urla, puzza di sudore che sa di terrore, e di escrementi di bestie impaurite, polvere che tutto impasta e avvolge nascondendo ora il nemico, ora il compagno vicino. Non c’è gloria in questo nauseabondo macello, ma solo morte e devastazione. Nell’intrico di corpi, Archeptolemo manovra bene il suo carro per avvicinarsi ad Agamennone. Ettore intuisce che è il momento di agire e scaglia con tutta la violenza di cui è capace la lancia colpendo al braccio il re degli achei, quindi si precipita giù dal carro per finirlo. L’atride non ha scorto il principe troiano e non ha visto nemmeno partire la lancia, sente solo cedergli il braccio di schianto, vede la sua spada rotolare giù dal carro prima di cadere a terra privo di sensi. I suoi soldati hanno osservato la scena e si precipitano a circondare il re, proteggendolo dall’avanzata di Ettore che è costretto a indietreggiare. L’esercito acheo sbanda, si sparge subito la voce che il re è ferito, gli uomini rimasti senza guida si ritirano disordinatamente. Finalmente Odisseo, ricordandosi di essere anche lui un condottiero di eserciti, prende il comando e sotto la sua guida gli uomini serrano le file e riconquistano terreno mettendo in fuga i troiani. Nella controffensiva Teucro riesce a scorgere in mezzo alla polvere la sagoma di Ettore e a scoccare, con il suo potente arco, una freccia che però uccide l’auriga, lasciando il figlio di Priamo senza guida. I troiani si ritirano, hanno

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combattuto aspramente per tutto il giorno e sentono che il morale dei nemici sta cedendo. Presto riusciranno a ricacciarli in mare. Periferia di Costantinopoli, 398 d.C. I suoi uomini sorvegliano da giorni quella casa lontana dal cuore della città. Hanno notato pochi movimenti nell’unico piano che si stende per quasi tutta la strada. Yashim sospetta che ci sia un sotterraneo ed è lì probabilmente che Lubeki è imprigionato. Chiedere ai suoi uomini di moltiplicare l’attenzione è una banalità e non ha bisogno di ripetere gli ordini. Dà uno sguardo al quarto uomo rattrappito in un angolo con la mano tesa e il bastone quasi conficcato nel mento, e torna alla sua abitazione per trascorrere la notte. Yashim non ha molti elementi per comprendere ciò che sta accadendo. Ha ricevuto il messaggio di Basilio cinque giorni dopo l’arrivo di Lubeki. Così almeno risulta dalle indagini al porto. Qualche anno prima ha frequentato la nuova Biblioteca di Efeso e ha conosciuto Basilio. Non è rimasto stupito dalla richiesta di aiuto del vecchio. “Qualsiasi cosa”, gli aveva detto stringendo forte al petto quell’uomo minuto, prima di rimettersi in viaggio per Costantinopoli. Ora è una questione d’onore rispettare l’impegno. Ma il messaggio di Basilio non è chiaro: prega, quasi implora, di proteggere un egiziano che sicuramente è giunto in quei giorni. Fornisce anche una descrizione del giovane. E allude a un manoscritto che porta con sé. Null’altro se non che, se lo vorrà, sarà lo stesso giovane a confidarsi con lui. Yashim è potente in una parte della capitale, eppure ha impiegato diversi giorni a trovare una pista. Nelle taverne del quartiere qualcuno, gente di membra forti e necessità altrettanto prepotenti, conosce Gerostomo e il filo tenue ha portato Yashim davanti a quella casa. Ma ora? Yashim è certo che Lubeki sia entrato e non sia ancora uscito dall’abitazione. Tutto lascia credere che sia trattenuto contro la sua volontà. Ma da chi? Considerando la fama di Gerostomo e le poche informazioni ottenute dai suoi seguaci e da chi vende informazioni – una moltitudine – i cristiani sono interessati alle sorti del giovane egiziano. E sicuramente è questa la causa dei timori di Basilio. Se il problema riguarda i cristiani allora coinvolge anche lui. Del resto la frase più sibillina del messaggio è una certezza: “Non è amico di dio”. Non gli è sfuggito il significato nascosto dal gioco di parole. Teofilo è parte di questo intrigo.

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Yashim è un venditore di spezie al mercato di Costantinopoli, ma in quello spazio brulicante il banco è solo una finzione. Un vestito per tutti i giorni. In realtà è un ricco pagano che ha ereditato una fortuna da parenti lontani e dedica ogni sua energia alla lotta clandestina, prima contro Nettario e ora contro Giovanni, diventato da poco vescovo della città. Yashim è fra quelli, e non tra i meno autorevoli, che sobillano i pagani alla rivolta e, con buona frequenza, organizzano sommosse in ogni angolo della città. I cristiani hanno anche tentato di coinvolgerlo nell’incendio della chiesa di Santa Sofia, rimediando soltanto una minaccia indiretta ma precisa di saccheggio. “Impudente” è stato definito, ma nient’altro. E Yashim estende il suo potere anche nelle campagne che attorniano Costantinopoli: lì i suoi desideri sono la contropartita della protezione. La notte trascorre tranquilla e al mattino Yashim, come ogni giorno, solleva la tenda sopra il banco delle spezie, che non ha bisogno di altri sistemi di sicurezza. Difficile immaginare un furto. E comunque i suoi uomini sono dappertutto, almeno in quell’angolo della città. Al di là della sua rete di spie, Yashim ha un fiuto eccezionale. Sente nell’aria qualcosa di particolare, oltre la consueta atmosfera di diffidenza reciproca. Una minaccia incombente. Sente il bisogno della sommossa: è nei piccoli gesti, più secchi del solito. Negli odori, più intensi del solito. Nelle voci, più frementi del solito. Se è la rivolta che preme, non gli resta che favorirla e farla coincidere con un atto di forza limitato in un angolo di quella periferia. Tanto più che i suoi uomini gli forniscono altre informazioni. Per la seconda volta in pochi giorni è entrato nella casa un personaggio che conoscono. È lui il proprietario, non c’è dubbio: è uno dei macedoniani, quelli che non riconoscono la natura divina dello Spirito Santo, tra i più subdoli adepti di una delle sette che pullulano a Costantinopoli. Nei quartieri pagani corre voce, con un sottofondo di timore superstizioso, che la setta custodisca codici misteriosi. Ma Yashim sa bene che la voce è amplificata dagli stessi macedoniani. Considerando i precari rapporti di forza, è fondamentale accreditare più potere di quello che si ha realmente. E ciò che non si può sapere con certezza è fonte di paura e dunque, ancora, di potere. Yashim conosce Molone – questo il nome del personaggio – e non lo sottovaluta. Di più, pur non disponendo di prove, sa che è incline al gioco sporco. Non esclude dunque l’idea di un collegamento con Teofilo. Solo un pensiero lo lascia perplesso: sono rapporti che si tendono a una certa altezza, troppo

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apparentemente per la figura di un anonimo egiziano. A meno che Basilio non intendesse qualcosa di più. Possibile. La sommossa scoppia improvvisamente alle prime ombre della sera. E viene scatenata proprio dal finto mendicante nell’angolo opposto al lato stretto della casa dove è rinchiuso Lubeki, in un quartiere dove i cristiani si sentono al sicuro. “Sicurezza”, mormora Yashim mentre osserva attentamente la scena. Un gesto brusco, forse, ma innocuo di un passante alla pressante richiesta di denari, e il mendicante solleva rabbiosamente il bastone. Le sue urla e quelle dell’uomo aggredito richiamano in pochi istanti decine di esagitati. Non è una novità, ma è ugualmente portentoso: come se qualcuno avesse calpestato un formicaio. Piccoli gruppi armati devastano le botteghe e sfondano le porte delle abitazioni. I passanti colti di sorpresa tentano disperatamente di fuggire, ma vengono bloccati e depredati. Yashim ha ordinato di evitare massacri, ma sa che sarà obbedito solo in parte. Lui, con i più fidati, assalta la casa di Molone.

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LIBRO UNDICESIMO Ettore glorioso, guerriero valoroso e giusto, non esultare per la vittoria della tua città. Il sacro suolo di Ilio sarà violato, non dal cavallo acheo, ma dal tridente divino che la terra scuote portando fuoco, morte e distruzione in ogni luogo… Piana di Troia. Anche gli achei abbandonano il campo di battaglia e si ritirano nel loro accampamento. Agamennone si è ripreso, ma sanguina copiosamente e viene lasciato alle cure di Macaone, il medico figlio del dio Asclepio. Tutti gli altri capi sono riuniti in assemblea. In assenza del re di Micene è Nestore, il vecchio re di Pilo, che prende la parola: “Odisseo di Laerte, l’esercito acheo oggi ti è riconoscente. Sotto la tua sagace guida ha combattuto valorosamente, respingendo i troiani fin sotto le mura della città, in un momento di difficoltà estrema”. Tutti i soldati sono d’accordo e acclamano l’eroe. Nestore trova anche il tempo per elogiare l’azione degli ultimi arrivati, Neottolemo e Filottete: hanno combattuto con grande coraggio sterminando molti nemici e seminando il terrore fra le fila dell’esercito troiano. In cuor suo però si è accorto che gli uomini sono cambiati. Non combattono più con quella ferocia che mostravano nei primi anni di guerra. Sono stanchi e scoraggiati, nonostante i molti segni positivi inviati dagli dei. La nostalgia della patria lontana sta fiaccando le energie, pensa il vecchio re. Tutti sognano il ritorno. Odisseo ha lo stesso pensiero, ma la sua mente corre, sempre alla ricerca dello stratagemma che possa condurli alla vittoria. L’assemblea viene sciolta e tutti si ritirano nelle loro tende per riposare. La giornata è finalmente terminata, sulla terra cala la notte dalle ali nere, la dea che s’impone perfino al rispetto di Zeus. Il giorno dopo il re di Itaca si alza alle prime luci dell’alba, il sole non ha fatto ancora il suo ingresso nel cielo dietro la collina di Ilio. Ha deciso di andare a passeggiare sulle rive dello Scamandro, per mettere ordine alle idee che gli sono venute durante la notte. Un rumore però lo mette in allarme e sguaina la spada, pronto a difendersi da un attacco, ma, nella poca luce che inizia a diffondersi, scorge solamente un fanciullo dagli occhi verdi che conduce il suo gregge ad abbeverarsi alle acque del fiume: “Odisseo dai mille pensieri, rinfodera la tua spada e avvicinati”. E’ la dea, la sua dea che

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lo chiama, lo prende per mano e lo conduce a sedersi su una roccia vicina. “Re di Itaca, Troia non cadrà mai sotto i colpi delle vostre armi. Dovrete conquistarla diversamente, con l’inganno di cui tu sarai l’artefice. Il ricordo della tua impresa geniale durerà in eterno, ma il mondo ti maledirà. Fai costruire da Epeo, il focese, un gigantesco cavallo di legno di faggio, cavo all’interno. Su un lato dovrà esserci una porticina ben nascosta, sull’altro lettere sfolgoranti annunceranno che il cavallo è consacrato ad Atena, in segno di gratitudine anticipata per un felice ritorno in patria. I greci dedicano quest’offerta alla dea. All’interno farai nascondere quindici guerrieri scelti personalmente da te, i più valorosi, i più forti, perfettamente armati e pronti a saltare fuori quando il cavallo sarà portato nella città per ringraziare la dea”. Il gregge di Atena continua placido ad abbeverarsi alle acque del fiume, ma non tutti bevono. Un bellissimo ariete, dal vello immacolato, osserva i due mentre parlano: è Apollo, che non ha perso una parola di quello che sua sorella ha detto a Odisseo. La dea dagli occhi verdi infine raccomanda al suo prediletto di far bruciare l’accampamento acheo e fingere il ritorno in patria di tutto l’esercito. In realtà si nasconderà dietro l’isola di Tenedo, in attesa di un segnale che giungerà dalla città finalmente aperta. Odisseo ha capito il messaggio e, euforico, rientra al campo, dove fa schierare l’intero esercito. E parla: “Valorosi guerrieri di Achaia, tutti noi stiamo sopportando enormi sacrifici e combattendo una guerra che pochi hanno voluto e di cui non vediamo la fine. La realtà però è differente, molto diversa da quella che tutti voi immaginate. Il rapimento di Elena, meschino e vigliacco, è stato solo il giusto pretesto per muovere guerra alla città più ricca del mondo”. “Ma allora perché siamo qui?”, grida qualcuno. “Troia”, continua Odisseo, “con la sua potentissima flotta controlla l’ingresso dell’Ellesponto, il tratto di mare che immette nel ponto Eusino. Nessuna nave straniera può avventurarsi in quelle acque, per commerciare con le popolazioni locali, se non pagando pesanti tributi alla città di Priamo. Persino Giasone con i suoi Argonauti, uno dei quali era Laerte, il glorioso padre mio, dovette pagare per riportare indietro il vello d’oro dalla Colchide. Quelle terre sono molto ricche e per gli achei sarebbe assai vantaggioso fare scambi commerciali e fondare nuove colonie. Argivi, non vi ho mai mentito, presto, molto presto, dormirò nel letto di Ettore”. Ancora una volta Odisseo, con le sue parole, è riuscito a conquistare e a infiammare i suoi uomini che, rianimati, sono pronti

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all’ennesimo sacrificio. Quello stesso giorno Apollo sale sull’Olimpo per informare Zeus del dialogo tra Atena e Odisseo. Periferia di Costantinopoli, 398 d.C. Gli echi della sommossa hanno già messo in allarme gli uomini dentro la casa. Per Yashim è un vantaggio, un modo per farsi un’idea del numero. L’edificio è circondato da un letto d’erba stretto e giallastro. Ai primi clamori due guardie si precipitano al cancello e commettono l’errore di aggrapparsi al ferro con le mani. Per l’uno e per l’altro ecco subito quattro assalitori. Le guardie vengono immobilizzate attraverso le sbarre. È Yashim stesso a chiedere le chiavi. La sua voce è bassa e roca. Apparentemente dolce, ma inesorabilmente minacciosa. Le guardie non parlano e in un attimo le lame dei pugnali rigano le gote. Il sangue cola sulle bocche tappate. Uno dei due accenna a una tasca posteriore. E dita frenetiche ma salde estraggono le chiavi e aprono il cancello. “Dov’è Molone?”, chiede Yashim. La guardia scuote il capo. Nello stesso momento esplode un grido dall’interno della casa e Yashim scorge alcune sagome oltre le cornici delle finestre. Il venditore di spezie sa che non ci sono alternative, se vuole salvare l’egiziano. Non c’è il tempo di immobilizzare le due guardie, che si afflosciano senza un lamento. Con cinque uomini si precipita alle finestre più vicine ed evita per un soffio un colpo di spada. È il suo uomo più fidato a ricevere il fendente sulla spalla. Yashim lo guarda e l’altro lo tranquillizza mentre posa la mano sulla stoffa dove si allarga una chiazza rossa. Ha un buon motivo per tagliare la gola di chi lo ha ferito. Anche lui, come gli altri, riesce a scavalcare la finestra e lanciarsi dentro la casa. Altri quattro difensori li affrontano. Nel buio è una lotta senza gemiti. Gli uni e gli altri sono abituati allo scontro. Yashim non ha dubbi sull’esito e il suo sguardo corre per l’intera stanza alla ricerca di una torcia. Il balenare delle lame è una luce che lo guida. La fiamma si accende all’improvviso e Yashim può costatare che la sua fiducia è stata ben riposta. Ma per terra, ansante e col fianco sanguinante, c’è anche uno dei suoi. Ordina di soccorrerlo e portarlo via. Solo due uomini restano con lui. La stanza è collegata ad altre stanze. Una lunga successione scandita da arcate. Nell’ultima una pesante tenda copre l’intera parete. Yashim la vede oscillare, ma le finestre sono chiuse e fuori non soffia il vento. Si avvicina al lembo di sinistra, punta il pugnale dove la tenda è più gonfia e sente

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quasi un petto che si irrigidisce. Strappa la tenda verso destra e urta con la fronte il volto sudato di un uomo che trema. Yashim lo guarda e sorride. “Gerostomo, infine”. Il sorriso si spegne subito. “Dov’è l’egiziano?”. Il pugnale preme ora sulla gola di Gerostomo, che volge il capo mentre gocce di sudore bagnano la lama. Yashim guarda oltre le sue spalle e scorge una porticina. Trascinando Gerostomo e con un cenno ai suoi uomini si avvicina alla porta. Guarda ancora il prigioniero che estrae un chiavistello e glielo porge. Il sotterraneo è umido. Lo sì intuisce fin dai primi gradini. Alla luce della fiaccola le pareti sono lucide. Sempre più in basso, gli uomini vedono l’acqua colare dagli interstizi. Ma in fondo, stranamente, l’aria è più calda. E più malsana. La scena che si presenta ha qualcosa di falsamente familiare. Due sedie e un tavolo dove troneggia un rotolo. Ed è il rotolo la prima cosa che Yashim vede, seguendo la luce della fiaccola. Poi è la volta dell’uomo con le mani e i piedi legati che, come un sacco, occupa un angolo della stanza. Yashim gli si avvicina e ne illumina il volto. Rimane colpito dagli occhi del giovane. Legge qualcosa, oltre la paura. Forse una rassegnazione atavica, ma anche orgoglio, fierezza. Yashim lo guarda per lunghi istanti. “Non conosco il tuo nome”, dice mentre taglia col coltello la fascia lurida che gli copre la bocca. Il giovane respira. “Lubeki”. Yashim sorride. “Bene, Lubeki di qualche luogo, andiamo”. Il tempo è sempre più stretto, Molone non può non avere intuito ciò che sta accadendo. E non tarderà ad arrivare. L’egiziano viene aiutato a sollevarsi, è in grado di muoversi: piegato in avanti, faticosamente, si avvicina al tavolo e prende il rotolo. Con delicatezza. Yashim si avvicina alla porta, seguito dai suoi, ma prima di aprirla si ferma e guarda Gerostomo il cui capo è spinto all’indietro da un coltello. “Quest’uomo ha tradito?”, chiede a Lubeki. Lubeki guarda Gerostomo con disprezzo e Yashim annuisce. “Non ho molto tempo, ma il disprezzo di questo giovane mi affascina. Non voglio ucciderti, ma non voglio neppure che, per un caso improbabile, tu procrei un altro Gerostomo. I nemici li sopporto, gli amici dei nemici no. Ti tolgo il tuo gioco preferito, ti lascio il resto”. Gerostomo urla mentre Yashim, il suo seguace e Lubeki varcano la porta. Sentono l’urlo

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più disperato che il sotterraneo abbia mai sentito e dopo pochi istanti vengono raggiunti dall’uomo che infila il pugnale nella cintura. Yashim guarda Lubeki, ma nei suoi occhi non legge né pietà né soddisfazione. Quando salgono sul carro guidato dal mendicante il clamore della sommossa non è cessato. Hanno il tempo di scorgere un gruppo di uomini che sbuca dalla stradina sul lato orientale scavalcando i corpi delle due guardie. Chi li guida è una figura alta, che si gira di scatto verso la strada, frugando gli angoli con lo sguardo. Lubeki la vede, intuisce la ferocia e non sa nascondere un sorriso. Il carro svolta nell’angolo opposto mentre le case vicine bruciano. Una donna si aggrappa al carro e poi si accascia. Un uomo saluta Yashim. Si sente un pianto. Lentamente il rumore diventa eco.

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LIBRO DODICESIMO Zeus tonante, scatena la tua collera contro l’innocente uomo, puniscilo per colpe che non ha commesso. Ma bada, o immortale, presto arriveranno anche per te i giorni dell’oblio… Olimpo. Zeus ascolta e il suo furore, di parola in parola, supera le vette bianche del sacro monte, supera le cime delle montagne vicine, supera il mare e l’Oceano che tutto circonda, supera gli scogli e le pianure, supera le colonne d’Ercole, verso le terre degli Iperborei, perdendosi nell’ignoto all’uomo. Talvolta ha sopportato, gelandole con un solo sguardo, perplessità e inquietudini dei suoi figli, forse una rabbia malcelata, ma mai un’aperta ribellione a un ordine espresso, categorico, irrefutabile. Vorrebbe incenerire, sul momento, con la sua folgore quella figlia che tenta di scalfire il suo potere, ma sa anche che il Fato ha deciso diversamente. Per Atena ci saranno altre storie e altri destini, simili a quelli scritti per lui e per l’intero Olimpo. Poiché non può scagliare i suoi fulmini, fruga nel suo immenso cervello a caccia di un’idea. Rovista nel passato infinito degli uomini, nel loro intreccio di passioni e tradimenti, inganni e stratagemmi, ripetendosi ciò che gli uomini mai sapranno: non sono stati gli dei a inventare gli uomini, ma gli uomini a inventare gli dei, a dar loro una carne che non si mangia, ma si desidera, e dunque sono gli uomini a fornire gli esempi, i sogni crudeli e quelli dolci, i dolori atroci e le gioie intense, gli attentati sanguinosi e gli assassinii indicibili. Fruga nelle case, dove uomini hanno ucciso mogli e figli, figli hanno ucciso padri e madri. Cerca nei palazzi, dove principi senza credito hanno ucciso servi inadempienti, nei sotterranei, dove per decenni prigionieri senza colpa sono rimasti in piedi e in catene, con uno straccio in bocca perché il loro grido di dolore non si sentisse ai piani superiori. Fruga soprattutto in quella stanza senza confini, dove il genere umano ha accumulato tradimenti prima di Cronos e prima del padre di Cronos, prima delle rocce e dei flutti, prima del nulla. Quando c’era altro che non era nulla e forse era ciò che c’è adesso. Cerca fatti e personaggi, ma poi capisce che non deve andare così lontano. Il suo sguardo vaga dall’alto sugli eserciti che combattono a Troia, e dopo tanto vagare, valutando quanto un uomo può sopportare prima di dedicare la sua

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vita alla vendetta, sorride e si sofferma sul volto di un uomo claudicante e capisce che dietro i riflessi del suo occhio c’è qualcosa che non dice, ma si è ripetuto mille volte nella solitudine di un’isola. Che poi ha nascosto dietro un sorriso e un gesto di falsa gratitudine. Conosciamo quell’uomo, è Filotette. Piana di Troia. La rabbia del dio nei confronti della figlia ingrata non si placa. Zeus troverà, a suo tempo, il modo di punirla severamente. Per ora scatena la furia del dio ferito mandando sulla terra un diluvio. Gli uomini innocenti devono subire la sua ira. Perché sia chiaro: Zeus è Zeus, l’assoluto, e gli uomini non sono niente. Ora deve riequilibrare le sorti della guerra che l’ago della bilancia ha fatto pendere dalla parte degli achei. Quella sera a Troia il temporale tiene tutti al riparo nelle proprie case, mentre nel campo greco si continua, in privato, a maledire gli dei. Ettore, nella sua stanza, dorme un sonno agitato, preda degli incubi. Si sveglia improvvisamente, madido di sudore, e si precipita nella stanza, dove il figliolo dorme con la vecchia nutrice. Ha fatto un sogno terribile: un cavallo inferocito dilaniava le tenere carni di Astianatte. Il piccolo però è beatamente addormentato ed Ettore può tornare nella sua stanza, anche se il sonno è passato. Nel campo acheo Epeo è stato informato da Odisseo del lavoro che deve portare a termine nel più breve tempo possibile. Il focese di Parnasso è giunto a Troia con trenta navi, ma non si è certo distinto come guerriero valoroso. Anzi, i compagni lo considerano un codardo. È però è un ottimo carpentiere e un fantasioso artigiano, è per questo motivo che Atena gli ha affidato la costruzione del cavallo. Il giorno successivo è già al lavoro, ben contento di non rischiare più la vita in battaglia. Intanto i combattimenti continuano. Neottolemo sta facendo strage di troiani che appena lo vedono fuggono terrorizzati. Perfino Ettore si guarda bene da sfidarlo a duello: ha retto gli assalti di Achille, ma non è certo di poter fare altrettanto con il figlio. I giorni fuggono, ma la situazione nella piana di Troia, a distanza di dieci anni, è immutata. Solo gli uomini sono cambiati. Non c’è più traccia in loro dei giovani partiti dalla Grecia con la certezza di riportare presto a casa la bella Elena e conquistare la gloria eterna. La certezza si è trasformata in speranza, poi in desiderio e infine è morta. Come morti sono anche i più grandi eroi argivi, l’orgoglio della loro patria. I guerrieri

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rimasti invece si sono trasformati in esseri abbrutiti dai combattimenti. I loro occhi hanno visto atrocità che non potranno dimenticare, nemmeno col sospirato ritorno che ormai non sognano più. Dopo un mese di lavoro il cavallo è pronto. L’opera è salutata con meraviglia e stupore, tanto è perfetta e, per la prima volta, Epeo riceve i complimenti di tutti. Non resta che convocare i quindici che parteciperanno all’impresa. Odisseo li sceglie personalmente, includendo Neottolemo e persino Epeo, nonostante la sua resistenza, perché è l’unico a conoscere il meccanismo che fa scattare l’apertura della porta. La prima notte senza luna il cavallo verrà trasportato in mezzo alla piana, i guerrieri armati entreranno nel suo ventre, mentre i greci rimasti al campo, seguendo le istruzioni di Odisseo, daranno fuoco alle tende, spingeranno le navi in mare per nasconderle dietro l’isola di Tenedo. Roma, una sponda del Tevere, 400 d.C. “E questa è Roma”. “La città di Dio”. Il legato si gira di scatto e guarda il giovane dritto negli occhi: “Sei beffardo, Antioco Lupomeno. Ma questa è certamente la città di Dio”. “Non ho nulla da obiettare. E non confonderti sui miei sentimenti. Voglio solo dire che le città non sono gli uomini. Né i pescatori, né i macellai, né i vescovi. Neppure i Papi”. “Strani discorsi per un inviato del vescovo di Alessandria. E alle orecchie del legato papale”. Antioco sorride. “Hai ragione. E sono le mie orecchie a rischiare. Il taglio netto. Ma Teofilo è lontano e comunque non tradirò il suo mandato, stai sicuro. Come sono certo che non mi tradirai tu. Vero, Giovanni?” Giovanni osserva intensamente il fiume che scorre placido. “Guarda il fiume. Cerca di vedere oltre lo specchio leggero. Penetra fra le increspature. Non vedi nulla?”. “Potrei vedere dei pesci, se l’acqua fosse meno torbida. Ma ora nulla”. ”Guarda meglio. Forse scorgi le sagome di qualche rottame di imbarcazioni. Tante sono affondate proprio qui davanti, e più su e più giù. Ma non vedi altro? Ti aiuto. Non vedi braccia, gambe, dita, ossa, muscoli lacerati? E corpi interi maciullati? Pesci, dicevi, certo, e ingrassati. Felici”. “Mi racconti una storia”.

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“Solo quella che ho visto con i miei occhi. Il sacro e il profano come mai dovrebbe essere. C’ero nei giorni in cui Damaso pagava con moneta sonante la feccia di Roma per scagliarla contro Ursino, che di sicuro in cielo non aspirerebbe a un posto migliore. Ricordo, i corpi cadevano nel fiume come la mollica che, nei momenti di pace, gettiamo agli stessi pesci. Pietanze più prelibate. Era una ricca pesca. Lo fu per tre giorni: i cadaveri si incagliavano sotto i ponti. Erano lembi e metà di ciò che erano stati, quando presidiavano le chiese. Le chiese di Roma. Gli uni e gli altri”. “A quanto si dice, Damaso era un guerriero anche nell’alcova. E con le mogli dei suoi guerrieri”. “Già. Che lo foraggiavano con i loro seni e con le borse della famiglia”. “Prima scherzavi sulle mie parole. Ora vedo che nell’animo le condividi. Nella città santa il demonio è un verme che ingrassa. Ma allora perché servi il demonio che veste di bianco e di rosso? Te l’ho chiesto un’altra volta, ma non ho avuto risposta”. Giovanni si volta e si appoggia alla balaustra dando le spalle al fiume. “Perché mi chiamo Giovanni e il nome non mi fu dato a caso. Da mio padre e da mia madre e da chi venne prima. Quelli col mio nome hanno molte incombenze, persino qualcuna che non posso rivelare neanche a te, amico da anni. Sono rimasto molto sorpreso quando ho saputo che Teofilo ti aveva designato a questo incarico. Ma felice, credimi”. “Lo so. E a me piaceva immensamente l’idea di rivederti”. “Tra poco saremo al cospetto di Atanasio. Guarda negli angoli in fondo alla sala. Vedrai donne belle e dalle guance troppo rosse per stare a poca distanza dal Papa. Da un Papa che io e te saremo obbligati ad approvare. Schiave, piuttosto, cariche di anelli, collane, sospese sui profumi e pronte a slacciare vesti cucite per essere sfilate in fretta. Cosa chiederai al Papa?”. “Non chiedermi cose che già sai. Non ho nulla da chiedere e molto per rendere omaggio. Solo questo dovrò fare: inchinarmi, come si conviene all’inviato di un vescovo del lontano Oriente. Ti dico che non ce ne sarebbe bisogno. Il potere di Roma è troppo lontano dalle nostre beghe e Teofilo blandisce prima di tutti l’imperatore. Ma seppure io morissi nel viaggio chi piangerebbe? La storia non ricorderà questo incontro”. “Atanasio ti dirà qualcosa che potrebbe far piacere a Teofilo”. “Ma cosa? Qualche interpretazione dell’Apocalisse per ricordare all’Oriente che un fuoco eterno brucerà assassini, avidi e lussuriosi? Teofilo non lo

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dimentica, e accende personalmente qualche ramo. Pare addirittura che sia enormemente interessato a un manoscritto che ne parla in maniera misteriosa. Una strana storia di cui ci sono solo echi. Persino per me, di cui pure si fida”. Giovanni tace e stringe gli occhi. Quando riprende a parlare il suo tono è diverso, più guardingo e più affilato. E le sue idee sembrano intrecciarsi ad altre idee, momentaneamente nascoste. Ma Antioco Lupomeno non lo avverte. “L’Apocalisse, dici? E quale manoscritto potrebbe parlarne che non sia già noto?”. “Questo non lo è, Giovanni, è l’unica mia certezza. Ma non metto in dubbio la sua esistenza”.

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LIBRO TREDICESIMO Verranno gli dei che non accettano e puniscono. Verranno le lame che tagliano le anime e le dividono in parti diseguali. E le vendette non saranno più tali. E le lacrime si chiameranno misericordia… Piana di Troia. E nuovamente la città e l’accampamento vomitano nella piana una quantità sterminata di guerrieri pronti a massacrarsi. Avanzano in file serrate verso il luogo del combattimento cantando canzoni di guerra per farsi coraggio. Di colpo la loro avanzata è frenata: al centro del campo di battaglia una figura abbagliante blocca i soldati. È un uomo alto e snello, con una candida barba, ricoperto di stracci bianchissimi che, come specchi, riflettono la luce sfavillante di un sole rabbioso. Ha le braccia e gli occhi rivolti verso l’immensità del cielo, quasi volesse rivolgere una preghiera alla divinità. E grida: “Eserciti di Troia e di Achaia, smettete di combattere e fate ritorno alle vostre case. Riponete le spade, deponete gli scudi e prendetevi cura delle vostre mogli, dei vostri figli, delle vostre vecchie madri. Pentitevi degli atroci delitti che avete commesso. Chiedete perdono per le vite che avete brutalmente strappato. Ma voi non sentite, siete convinti di essere vivi e invece siete morti. Non siete né caldi né freddi e poiché siete tiepidi io vi vomiterò dalla mia bocca. Andate dicendo che avete accumulato una quantità di ricchezze e che non avete bisogno di nulla, ma siete solo degli esseri meschini, miserabili, poveri e ciechi. E nudi. Ecco, comprate da me delle vesti bianche affinché non appaia la vergogna della vostra nudità”. I soldati tacciono e ascoltano. Alcuni sono impauriti dalle parole e dall’energia che scaturiscono da quella figura, altri rivelano il nervosismo continuando ad accarezzare le impugnature delle spade, pronti a difendersi da un attacco che però non immaginano da dove potrà arrivare. Agamennone, in qualità di comandante supremo, si sente in dovere di replicare alle parole dell’uomo e tuona: “Vecchio pezzente, è Agamennone che ti parla, il capo e re assoluto degli achei. Sparisci immediatamente dalla mia vista o la mia lancia strapperà la vita dal tuo misero corpo prima di questo istante”. “Atride scellerato, ricaccia nelle profondità della lurida bocca la tua stupida lingua, più stupida del tuo stupido cervello. Tu non sai che stai rivolgendo le tue sprezzanti parole a Galvanico, figlio della

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torpedine Zara e di Poseidone, unico signore dei mari e dell’immenso Oceano che tutto circonda. Il padre mio che sta nelle profondità marine è facilmente irritabile e veloce all’ira”. E improvvisamente un rumore sordo, foriero di sciagure, si solleva dal mare. I guerrieri osservano terrorizzati le acque agitarsi violentemente, per poi tornare placide. L’uomo non c’è più. Nireneo, il più impressionabile fra i greci, giurerà più tardi, non creduto e deriso, di averlo visto ascendere in cielo, sostenuto da una parte e dall’altra da due figure luminose e trasparenti. Alessandria, 412 dopo Cristo. Scuola di Ipazia. La Scuola non ha porte. Solo varchi visibili, che non sono porte. E se fosse possibile non esisterebbero neanche questi. Sarebbe un solo spazio infinito, almeno per gli occhi degli uomini. L’ingresso è libero e mai nessuno viene mandato via. Nel giardino un giovane greco sfoglia un’opera di Diofanto, un giovane cristiano un’opera di Apollonio di Perge. Entrambi posano i libri su una lastra di marmo, dove troneggia una piccola statua che raffigura un bambino inarcato verso il cielo con i palmi delle mani aperti. Discutono e poi si allontanano lasciando lì i libri. Difficile che nella Scuola, durante la giornata, lo spazio, qualsiasi spazio, resti vuoto. Eppure ora il giardino è deserto. La terza lezione è terminata. Dall’interno si sente una voce e poco dopo dall’ombra spunta la figura snella e aggraziata di Ipazia. È circondata da un gruppetto di allievi. Tutti cominciano a camminare lentamente sui sentieri che fanno del giardino un quadrato rigoglioso, quasi una tavola verde. Lubeki sorride mentre sente le voci intrecciate senza capirne il senso. La matematica permea quel luogo, l’egiziano lo avverte prima ancora di intuirlo: lo spazio è uniforme se visto da lontano, è una trama di combinazioni se osservato da vicino. Il mistero prende forma senza perdere la sua essenza. E in fondo è per questo motivo che è venuto qui. E per questo motivo che è tornato ad Alessandria, anche se ha deciso di ripartire prima ancora di arrivare. È addossato a un pilastro e attende da molto tempo. Non ha fretta di incontrare Ipazia, ammesso che sia possibile. L’egiziano sa poco della Scuola, solo un’eco della sua fama lo ha lambito mentre viaggiava. O fuggiva. L’idea della fuga è sempre dentro di lui. È la sua vita. Mentre segue le sagome che si allontanano in fondo al giardino e poi diventeranno chiare

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quando sfileranno davanti a lui, ripensa a un giorno di molti, forse troppi anni prima. Yashim lo ha liberato ma non gli ha chiesto niente. E ciò è sorprendente, anche se lui sa poco di quell’uomo che ha agito per amicizia, anche se ha colto lo sguardo rapido e in qualche modo avido che si è posato sul manoscritto. Per un istante ha avvertito un interesse profondo e malsano in quello sguardo, ma non c’è stato alcun seguito: Yashim ha lasciato, fingendo di guardare altrove, che Lubeki infilasse il rotolo in una sacca scura. È sicuro che altri sguardi siano scoccati mentre riprendeva le forze, steso su un letto. Forse un dito si è avvicinato per posarsi delicatamente sulle righe scritte a mano. Ma è stato solo un gesto istintivo e non compiuto. Nel dormiveglia il manoscritto è rimasto sempre accanto a lui, su una tavola. Nessuna mano lo ha sfiorato. Non sa che Yashim ha un codice d’onore. “Se vorrà parlartene”, era il messaggio di Basilio. Ora Lubeki ha la sensazione che Yashim attenda. Forse che lui parli. Ma non gli chiede niente. E non lo opprime. Neppure quando Lubeki, in grado di alzarsi, gli chiede che cosa abbia da suggerirgli. “Poco o niente”, risponde Yashim. “Esattamente ciò che so di te”. “Vale anche per me”. “Diciamo che abbiamo un amico in comune”. “Allora teniamolo stretto. Gli amici sono una rarità, quelli in comune una sorpresa”. “Parla l’esperienza, immagino. Per me è un’intuizione che gli dei mi hanno regalato insieme alle prime parole”. “Capisco il messaggio. Non sai se puoi fidarti di me. Non posso garantirlo, perché sarebbe solo la mia parola. E comunque non avrai nulla da temere. Andrò via al più presto”. “Ti aiuterò ancora” “Grazie. E ora vorrai sapere qualcosa di più. Giustamente. E apprezzo il tuo silenzio, che nasconde bene la curiosità. Credimi, Yashim, non sono ingrato e non nascondo nulla. È tutto assurdo e anche io devo saperne di più. Questa storia ha mangiato i miei anni. Il mare si è portato via il mio tempo. I viaggi hanno ingoiato le mie speranze. E perché? Perché continuo a correre? Questo rotolo non contiene altro che una fiaba. O almeno così ho sempre creduto. Non ti può stupire, perché conosci le strade invisibili dei nostri miti. Si racconta che Troia non è caduta mentre sono caduti gli dei. Tutto qui”.

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Il viso di Yashim è immobile. Senza reazioni. Lubeki annuisce: “Comprendo i sospetti. Eppure è così. Per gli accademici è materia meravigliosa, ammesso che non si gonfino di risate”. “E tu sei inseguito, minacciato, aggredito, e quindi destinato alla morte, per una favola?”. “È ciò che vorrei sapere. Ne avevo abbastanza, ma una frase mi ha riacceso come una fiaccola. E devo spegnerla, se non posso farne un incendio. Per questo devo andare. Non troverò la risposta a Bisanzio. Qui posso trovare solo la morte, che neppure gli amici e gli uomini generosi come te possono impedire. Ma voglio farti una promessa, e ti prego di credermi: se saprò ciò che voglio sapere, tornerò qui. E se ciò che avrò saputo servirà ai tuoi scopi lo conoscerai. Sarà tuo insieme al mio braccio, per quel che vale”.

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LIBRO QUATTORDICESIMO Già il germe del tradimento sboccia nel cuore del guerriero offeso e oltraggiato: sua sarà la vendetta. E tradimento genera tradimento, perché l’uomo dal molteplice pensiero presto violerà con l’inganno il sacro suolo di Ilio splendente… Isola di Tenedo. Zeus ha messo a punto la sua strategia. Strategia di dio, che in fondo assomiglia molto a quella meschina degli uomini. Pensa e fa quello che avrebbe potuto fare Odisseo, il più astuto fra gli uomini. E non avrebbero potuto fare altri eroi più forti, ma d’intelletto modesto. Nel campo acheo non pochi erano di quest’ultima specie. Scorrendo lo sguardo sulle fronti corrugate dei greci, Zeus osserva l’occhio velenoso e assetato di vendetta di Aiace figlio di Oileo. Sa, naturalmente, ciò che cova sotto quei capelli ispidi e striati di sangue. Ai giochi funebri in onore di Patroclo, Aiace ha partecipato alle gare di corsa. In palio c’era un cratere d’argento, sbalzato su sei misure, forse il più bello sulla terra, poi un bue grande e grosso, infine mezzo talento d’oro. Aiace non aveva rivali nella corsa e andò subito in testa, seguito da Odisseo, che partecipava a quell’unica gara, proprio alla fine dei giochi, di ritorno dalle sue missioni di stratega. All’ultima curva, quando la vittoria era già scontata, il laerziade richiese l’aiuto della dea e Atena, sempre generosa con lui, fece scivolare Aiace dove veniva ammucchiato il letame. Sputandolo Aiace disse fra sé: “Mi ha fatto inciampare l’intervento divino, e mi è stato impedito di vincere a vantaggio di Odisseo che mi è inferiore. Perché punirmi così?”. Accettò di buon grado il bue ma di notte, preso da rabbia violenta, spezzò le zampe della povera bestia, gioendo del suo dolore, e buttò in mare il tronco. Non avrebbe mai mangiato un secondo premio, quando gli spettava il primo, e nessun altro ne avrebbe mangiato. Dopo le premiazioni qualcuno aveva cercato di consolarlo accarezzandogli il capo, altri lo avevano apertamente deriso. Ma lo sconforto e poi la rabbia e infine l’odio di Aiace nei confronti di Odisseo, benché dissimulati, non aspettarono. E crebbero ancora, di giorno in giorno. Aiace è crudele, brutale, ambizioso, forse pazzo. E poco intelligente. Un carico naturale troppo forte per la pazienza. Così ha meditato. E continua a meditare seduto su uno scoglio dell’isola di Tenedo, in attesa di un segnale da Troia, mentre ancora si levano i fumi dell’accampamento bruciato. Fissa l’immenso mare, verso la Grecia, e

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ancora gli sembra di sputare letame. Di colpo sente un rumore. Trasalisce e la mano corre veloce alla spada. Ma subito si rilassa: lentamente, col sorriso sulle labbra, si avvicina Filotette: “Figlio di Oileo, non ti si addice la cupezza del volto. E poiché ho notato che il sorriso, l’allegria, pure in tempi così funesti, non vogliono sentirne di tornare sulle tue gote, mi è venuta la curiosità d’interrogarti. Se ti farà piacere potrai rispondermi, anche se temo di conoscere già la risposta, perché probabilmente tu sei stato offeso e oltraggiato dagli stessi che hanno offeso e oltraggiato me”. Piana di Troia. È notte fonda, gli achei nel ventre del cavallo sono raccolti nei loro pensieri. Non hanno più niente di eroico. Stanno per compiere un atto vile, un tradimento, un inganno meschino per quanto ispirato dalla dea, un tranello che forse li porterà a conquistare la città, ma certamente non li consegnerà alla storia con l’elmo degli eroi. Ma quest’aspetto ha perso la sua importanza, è già superato. Fondamentale invece è penetrare in città, in qualsiasi modo e a qualsiasi costo, saccheggiarla, prendere Elena e finalmente tornare a casa. La mente di Odisseo viaggia lontano, verso Itaca, dove Penelope dalle bianche braccia starà dormendo sul letto nuziale che lui ha costruito. Sarà sola? Avrà avuto la forza e la volontà di aspettarlo? Oppure sul suo letto ora dorme un altro uomo? E Telemaco? Il suo unico figlio ormai sarà un fanciullo, ma al momento della partenza per la Troade era solo un bimbo che non aveva iniziato a camminare. Non può conservare un ricordo di Odisseo, salvo che la madre non gli abbia raccontato di questo padre partito tanto tempo prima, diretto a un paese lontano per mantenere fede a un giuramento fatto a un altro re. E i pensieri non si fermano. Odisseo ora ricorda Anticlea, la vecchia madre, che continuava a trattarlo come un bambino anche quando era già re. Forse sarà morta, oppure continuerà a combattere con la servitù per mantenere la reggia sempre pulita e ordinata nell’attesa del ritorno del figlio. L’ultimo pensiero è per Laerte, l’eroe Argonauta, il padre che gli aveva lasciato il regno e che da dieci anni ha dovuto riprendere il comando. Odisseo spera che il peso di tanta responsabilità non l’abbia definitivamente consumato. I pensieri si sono esauriti, la testa è vuota e il pianto arriva sorprendendolo. È un pianto silenzioso, intimo, ma non per questo meno doloroso. Epeo ha pensieri diversi, che non lo conducono molto lontano. Il terrore si è impossessato di lui, vorrebbe essere in qualsiasi altro posto, lontano da quei pazzi, perché le probabilità che il piano riesca sono molto scarse,

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mentre il rischio di venire uccisi o, peggio ancora, di essere catturati è altissimo. E lui non vuole morire. Ma c’è anche chi non ha pensieri, chi non ha paura, chi non ha lacrime da versare: è Neottolemo, il figlio di Achille. Lui aspetta, pazientemente aspetta il momento in cui sbucherà da quella strana bestia per scatenare la sua furia. A Troia questa notte nessuno dorme. Le sentinelle, ai primi rumori, hanno dato immediatamente l’allarme e ora tutti sono saliti sulle mura a domandarsi perché gli achei stiano manovrando con i carri in mezzo alla piana a quell’ora di notte, e a chiedersi cosa saranno mai quei bagliori, simili a lingue di fuoco che si scorgono lungo la spiaggia. Qualcuno vorrebbe organizzare una sortita per andare a controllare da vicino i movimenti dei nemici, ma Ettore, saggiamente, preferisce restare al sicuro dietro le porte Scee e aspettare il sorgere del sole. E pensa ancora a Odisseo. Si chiede ancora, ma non ha risposte se non timori, dove sia andato durante i giochi funebri. Alessandria, 412 d.C. Scuola di Ipazia. L’uomo ha la pelle scura. Egiziano, pensa Ipazia. “Ho i sensi molto acuti”, dice rispondendo a una domanda che lei ha solo immaginato. “Li ho affinati in questi ultimi anni”. Ipazia lo guarda incuriosita. Non sono le parole che si attendeva da un uomo che l’ha chiamata a voce bassa mentre rientrava nella Scuola. Era sola. Solo un moto di sorpresa, Ipazia non ha paura. Ma forse di quest’uomo bisogna avere paura. “Sento gli odori dei luoghi. So distinguere gli odori di sempre e quelli nuovi. Quelli di sempre sono amichevoli, normalmente. Quelli nuovi sono pericolosi, spesso”, riprende l’uomo, seguendo un filo che si attorciglia dentro la sua mente e che Ipazia non può conoscere. Eppure quel filo sembra sciogliersi, anzi si è già sciolto, per disegnare d’incanto una stanza accogliente, piena di luce naturale, con comode sedie e ancelle discrete ma pronte ai comandi. “Siedi”, lo invita Ipazia accennando al colonnato. “Non è un dono di natura, mi pare di capire”. “No”. “E qui c’è un odore nuovo?”. L’uomo si guarda i piedi, appoggiando le braccia alle ginocchia. Un movimento che sembra costargli fatica, ma troppo consueto per rinunciarci. Forse non c’è un solo filo nella sua mente. Forse è un groviglio e la vita di quell’uomo è solo il tentativo di scioglierli a un a uno e riconoscerne

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i capi e farli sfilare fra le dita per ricordare ciò che raccontano nei nodi e dove sono sfibrati fin quasi a spezzarsi. Trascorre un lungo tempo prima che riprenda a parlare con voce ancora più bassa: “Il profumo è intenso in questo giardino. Ma un altro profumo sta tentando di insinuarsi. Lo sento. E non mi piace. Non viene da lontano e sa di incenso. È molto tenue, ma lo sento”. Ipazia guarda in alto. Come una bambina annusa l’aria spalancando gli occhi. Non saprebbe dire se lo fa per compiacere quell’uomo o perché crede a ciò che dice. “Sono un egiziano”, continua l’uomo, di mezza età, con i capelli che iniziano ad ingrigire. “Avrei una storia da raccontare, ma forse non è il momento”, aggiunge con un sorriso stanco. “È un uomo che non è riuscito a realizzare ciò che avrebbe voluto”, pensa ancora Ipazia. E si sente stupida mentre lo pensa. La banalità è l’unico mare che non vorrebbe mai solcare. “Una storia molto lunga. Una parte è meglio che la legga su un manoscritto che porto con me da tanto tempo. Forse la troverai divertente. Magari, se ne avremo il tempo, tu soprattutto, mi dirai cosa ne pensi. Ma in ogni caso ti chiedo di proteggerlo”. E le porge una sacca di pelle consunta. “Perché proprio a me?”. “Per disperazione, forse. O forse no. Tu sei una matematica, quale profumo potrebbe avere la matematica?”. Ipazia ride alla domanda bizzarra. Una risata spontanea, che sorprende Lubeki. Come se da tempo, in quella intensità, sia stata frenata. Poi risponde: “Tutti e nessuno. Ti direi la stessa cosa se mi chiedessi del colore. Tutti e nessuno. Dove esistono solo cerchi perfetti e linee infinite, sempre dritte, non può esistere un solo profumo. Se esiste, li contiene tutti. Solo ciascuno di noi, qui o in Africa, può decidere quale scegliere. Si diffondono come i petali di una rosa”. “Dunque per noi è più facile che per gli dei?”. Ipazia ride ancora. E l’uomo sembra sciogliersi, fino al punto di ricambiare la risata. O almeno un accenno. “Domanda affascinante. Non ho detto che la matematica è cibo per gli dei”. “Lo hai detto. Ho sentito alcune tue lezioni”. “Ho detto, e così pensava il divino Platone, che la matematica è eterna. Non è la stessa cosa”. “Perdonami, sono la stessa cosa”. “Noi non sappiamo nulla degli dei. E non sapremo mai nulla. Possiamo

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invece correre a perdifiato nelle strade della matematica. E poi fermarci per osservare un fenomeno. Il fenomeno c’è, dobbiamo solo scoprirlo. Mentre gli dei, o ciò che sono, dobbiamo inventarli. Ma se vuoi farmi dire che la matematica è un Olimpo posso anche convenirne”. L’uomo si solleva come a stirare le membra. “Allora sono nel posto giusto. Io e questo manoscritto”, dice picchiettando sulla sacca di pelle consunta, “abbiamo bisogno della matematica”. Poi anche lui annusa l’aria: “Sì, quell’odore è sempre più forte. L’ho sentito subito, appena sono rientrato ad Alessandria. E non è l’odore che sentivo da bambino. Dilata le narici, Ipazia. Potresti avvertirlo anche tu mentre il prefetto Oreste ti consulta e tu credi di poter esprimere il tuo pensiero in libertà. Dietro le pareti della stanza in cui parlate sono certo che sentirei un odore di incenso ancora più forte. Un odore nuovo anche se in poco tempo è diventato vecchio. L’ho sentito spesso, più spesso di quanto avrei voluto, in questi ultimi quattordici anni. In genere coincideva con l’odore del sangue. Che sgorgava senza pensare all’età. Ho visto un bambino crocifisso e non ho capito perché lo avevano crocifisso. Quelli dalla parte sbagliata, ho pensato. Quando hanno iniziato a inseguire me perché avevo visto il bambino crocifisso non me lo sono più chiesto. E allora ho sentito quell’odore ancora più intenso. Poi ho visto molto altro, ma il naso non mi si è ancora seccato”. L’uomo si alza e si avvia, bloccando con un gesto brusco ma amichevole Ipazia che vorrebbe aprire la bocca per replicare. “Quando puoi, se puoi, dai un’occhiata al manoscritto. Poi verrò per dirti altre cose”. Ipazia ha la certezza che non è opportuno chiedergli altro. Quando sta per scomparire dietro l’ultimo angolo del giardino, l’uomo ode la voce squillante della filosofa di Alessandria. “Il nome, almeno”. L’uomo risponde senza voltarsi, sollevando il viso al cielo e poi allargando le braccia, così da assomigliare a un uccello che vorrebbe prendere il volo ma è troppo goffo per riuscirci. “Lubeki. Egiziano e pagano. Servo tuo”. le braccia, così da assomigliare a un uccello che vorrebbe prendere il volo ma è troppo goffo per riuscirci. “Lubeki. Egiziano e pagano. Servo tuo”.

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LIBRO QUINDICESIMO Tu che ricevesti in dono il magico arco del divino Eracle, tu che ingiustamente abbandonato fosti sulla deserta isola, tu, o figlio di Peante l’Argonauta di gloria ricoperto, tu che per vendicare l’anima offesa ti macchiasti del peggior delitto, tu, o Filotette, condannato sarai alla dannazione eterna… Piana di Troia. E arriva nuovamente il giorno a Troia. L’esercito è già schierato, ma le sentinelle sulle mura avvertono Ettore che la scena è cambiata. Dell’esercito acheo non c’è traccia e l’immagine che si presenta agli occhi increduli dei soldati troiani è irreale: la piana è deserta, deserta e silenziosa. “Dov’è l’esercito greco, dove sono i carri, cos’è quella strana macchina al centro del campo di battaglia?”, si domanda Ettore. Il principe troiano è titubante, ha sempre il timore che l’infido Odisseo abbia escogitato qualche tranello per sorprendere i suoi uomini. Ordina a una pattuglia di andare a controllare, il resto dell’esercito rimane indietro pronto a intervenire. Presto quella macchina misteriosa si rivela essere un cavallo, un gigantesco cavallo di legno montato su ruote. “Ecco svelato il mistero del rumore di carri che si sentiva la notte scorsa”, pensa il principe. I soldati sono colti da stupore, circondano il gigante di legno e si accorgono che sul lato sinistro una grande scritta annuncia che il cavallo è un dono per Atena, affinché benedica il ritorno in patria degli achei. E, in realtà, i greci sono spariti. L’accampamento è vuoto, le tende bruciate, le navi scomparse. I troiani sono increduli, non è possibile che dopo dieci anni di guerra il nemico si sia ritirato senza un grave motivo. Ma i soldati sono stanchi e logorati dal troppo combattere per pensare che tutto questo sia il frutto di un inganno. Hanno lottato fino all’estremo limite delle forze e ora bastano poche grida di gioia per convincerli che la guerra è davvero terminata. La popolazione, che fino a quel momento si era ammassata sulle mura, si riversa urlante fuori dalla città per festeggiare la vittoria. È Timete, il fratello di re Priamo, a prendere per primo la parola: “Troiani, abbiamo combattuto valorosamente, con grande sacrificio per troppi anni, tanto che molti di noi disperavano di poter tornare a una vita normale. Molti, troppi sono morti per evitare che il sacro suolo della gloriosa Ilio venisse profanato. Questo cavallo, dono per la dea Atena, è la dimostrazione che non sono

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caduti invano e che le nostre pene sono terminate. Dico che dobbiamo trasportarlo dentro la città ed esporlo sull’acropoli, quale monumento celebrativo della vittoria sugli achei”. Le urla di giubilo che si levano in favore di Timete fanno capire come la pensa il popolo, e qualcuno si sta già adoperando con le funi per trascinare il cavallo all’interno. Non tutti però sono convinti. È Capi, il nonno di Enea, a parlare: “Popolo di Troia”, grida il vecchio per sovrastare le urla, “aspettate a festeggiare. Troppe volte la dea ha favorito i greci contro di noi perché possiamo fidarci. Questo cavallo non ci porterà niente di buono, bisogna bruciarlo subito o aprirlo per vedere cosa nasconde”. È lo stesso pensiero di Cassandra che urla, senza essere ascoltata, che quella bestia è una trappola messa a punto da Odisseo. E anche Laocoonte, l’indovino sacerdote di Apollo, tuona che non bisogna mai fidarsi dei greci e tanto meno dei loro doni. Ma il popolo vuole credere che quel regalo sia divino, si aggrappa a qualsiasi cosa garantisca il ritorno a una vita serena. Alla fine è Priamo, dietro consiglio di Ettore, a mettere tutti d’accordo: il cavallo viene portato in città ma resta nella parte bassa, sorvegliato da un corpo di guardia. Anche sulle mura è raddoppiata la sorveglianza, mentre il resto della popolazione sale sull’acropoli per festeggiare. Nella pancia del cavallo serpeggia il timore. I greci odono le urla dei troiani e le parole sinistre di Cassandra e Laocoonte, ma il Fato sembra favorirli. I festeggiamenti si protraggono per buona parte della notte, fino a quando i troiani, esausti ed ebbri per le abbondanti libagioni, si ritirano nelle proprie case. Solo Elena, che non ha partecipato alla festa, si avvicina al cavallo per osservarlo con attenzione, sospettando che lì dentro si celi Odisseo con i più valorosi guerrieri achei. Accarezza la gigantesca bestia e le pare di sentire un esile lamento provenire dalle sue viscere. Anche questa volta però tiene il pensiero per sé. Ettore invece si è già ritirato nella propria stanza e prima di addormentarsi, abbracciato ad Andromaca, ripensa al sogno fatto qualche giorno prima. Ma il principe, nell’intimo, non crede a ciò che sembra soltanto divino e non pensa che gli dei abbiano voluto mandargli un avvertimento. A Troia ora dormono tutti. Gli achei si calano silenziosamente dal ventre del cavallo, si sbarazzano delle sentinelle che sonnecchiano, aprono le porte della città e si recano sulla collinetta, dove si erge il tumulo di Achille, per accendere un falò: è il segnale per l’esercito che si trova sull’isola di Tenedo.

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Isola di Tenedo. È notte avanzata. Agamennone non dorme, i pensieri s’intrecciano e si confondono sempre nello stesso punto: il ritorno. Dieci anni di guerra, le preoccupazioni quotidiane, le speranze di pronta vittoria e le delusioni, il sospetto che non ci sarà una conclusione felice, che tutti moriranno lì, non hanno cancellato quel dolore iniziale. La spedizione cominciata col delitto, perché di assassinio si trattava, di sua figlia. E chissà cosa pensa Clitennestra. L’idea poi che lui e il fratello siano gli unici responsabili di questa guerra lo angoscia. Ha già pianto molte lacrime, in silenzio e da solo, non vuole versarne altre. China il capo e lo sorregge con la mano, assorto. Sente un rumore e si volta subito, attento. Vede una figura con il capo coperto da un cappuccio, ma la sua spada non è a portata di mano. “Non temere, grande re figlio di Atreo, sono Filotette”. Agamennone si rilassa. “Cosa ti porta qui, o sfortunato e valoroso eroe?” “Perdona la visita notturna e senza preavviso, mio re, ma non potevo aspettare oltre. Ora il tempo corre veloce, molto più rapido di quello che abbiamo trascorso qui. Forse anche gli dei si sono stancati e vogliono le feste anziché le guerre”. “Dimmi, Filotette, parla e fammi sapere cosa ti tormenta”. “Poco prima che Odisseo e gli altri nostri compagni entrassero nel cavallo mi trovavo con Aiace figlio di Oileo su una roccia che guarda lontano, verso la nostra terra, che non so se rivedremo mai. Parlavamo pur non avendo niente da dire, perché anche noi abbiamo il cuore oppresso, benché ora sembri risorta la speranza. Ci raccontavamo le nostre sofferenze, quelle di tutti, cercavamo di ridare un volto ai nostri cari, di pensare come sono ora, se alle gioie che non abbiamo da tanto non si sia aggiunto qualche lutto”. “Ciò che facciamo tutti, Filotette”. “Lo so, grande re. Lo so. Devi sapere che la roccia dove ci trovavamo è come nascosta da un’altra roccia più grande, verso l’interno, cosicché resta un passaggio fra esse, un corridoio stretto. D’un tratto abbiamo capito, dai mormorii, che qualcuno stava passando nella gola. Coglievamo solo un’eco indistinta e la curiosità ci ha colto. Forse i nostri istinti si sono acuiti troppo e il timore va oltre il reale pericolo. Ci siamo sporti e abbiamo visto Odisseo passare in compagnia di Epeo. Il re di Itaca pronunciava parole ferme e rassicuranti, così sembrava dal tono. Epeo aveva il capo chino e lo scuoteva con forza. Poi Odisseo gli ha avvolto le spalle col braccio e gli ha detto, questo lo abbiamo udito chiaramente: “Stai tranquillo, Epeo, calma i tuoi nervi. Le cose non sono

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mai come sembrano. E ciò che si dice non sempre si fa. Tutto questo deve finire. Io lo farò finire. E se non ci sarà gloria per tutti, ci sarà pace per molti”. Ecco, Agamennone, io so, e lo sa anche Aiace, che noi stiamo per combattere l’ultima battaglia, la più grande, eppure ho avuto il sospetto, bada bene solo il sospetto, che quelle non fossero le parole giuste per un evento da cui dipendono le nostre sorti“. Alessandria, 412 d.C. Casa di Ipazia. Ipazia si chiede se sia rimasta più colpita dall’uomo o dalla storia. Un manoscritto? Quale importanza può avere? Il cielo di Alessandria oggi è scuro. Sono trascorsi due giorni dall’incontro con Lubeki. È quello il suo nome. Certo, non è bello Lubeki, magari asciutto a dispetto dell’età che avanza. Ma non è neppure questo. Ipazia ha intuito che in fondo a quegli occhi, più scuri della pelle, ci sono gli ultimi bagliori di una guerra. Che si accendono violenti ma brevi tra il coraggio e la rassegnazione. Tra la giustizia e la sfiducia. Teme che in un punto imprecisato della storia dell’egiziano sia affiorata l’accidia. E non conoscendola, in quanto pagano, l’abbia accettata. Perché nella sua forza ha scorto anche una dolorosa apatia. Sospetta però che non tutto sia perduto, che ci sia ancora spazio per l’attesa. Ci ripensa adesso, mentre si prepara per recarsi alla Scuola. Ipazia è bella, ma non fa nulla per esaltare la sua bellezza. Il padre Teone era un matematico e si sarebbe detto che nella simmetria del suo cervello ci fosse poco spazio per quella bimba e poi donna, e invece Teone amava profondamente la figlia. Aveva valutato subito la sua intelligenza. Quella che lui, sorridendo, chiamava “il delitto perenne della cultura”. Naturale che Ipazia seguisse le sue tracce fino alla Scuola. Non si sente mai sola, e non perché le sue lezioni sono seguite da giovani che provengono dall’Europa, dall’Africa, dalla Persia. E anche da anziani che hanno camminato a lungo, con le unghie sanguinanti, per confrontare ciò che sanno con ciò che sa Ipazia. E Ipazia ha segretamente, più volte, ringraziato Platone. Pensa a Lubeki, che non ha avuto bisogno delle sue lezioni, e a un giovane, Sinesio, un cristiano, che l’ascolta attentamente a labbra serrate. Lo ammira perché ha compreso che non dà niente per certo e le sue domande non restano mai soddisfatte. Pensa che salirà molti gradini prima di trovare la quiete. Non immagina le stesse cose per Lubeki. È presto e sente rumori provenire dall’esterno. Grida, forse. Non ci

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fa caso, Alessandria è una città viva, nel migliore dei casi. Violenta, nel peggiore. Nel mezzo c’è lo scontro fra i cristiani e i pagani. Non c’è nulla che possa scongiurarlo se non l’impossibile silenzio di ognuno. Le barriere non hanno bisogno di artefici. Per un Cristo che non è mai nato un altro nascerebbe, prima o dopo, in un luogo o in un altro. L’urto chiassoso ha raggiunto il limite e lei non è indenne, ma la mente non ha limiti e sarebbe delittuoso, questo sì, fissarli deliberatamente. La sua vita è in questo concetto, ma qualcuno intende abolirlo. La rattrista costatarlo, e non per sé. Negli ultimi mesi, le hanno detto gli amici fedeli, è circolata la voce che lei è una strega. Che con le sue arti ha infiacchito i cristiani, che li ha contagiati. Ha sorriso a questa parola. Sorride anche adesso. Poi si fa subito seria, ripensando a Lubeki. Egiziano. Come Cirillo, il vescovo che la detesta. Forse l’uomo che ha fatto diffondere quelle assurdità. Ma forse Ipazia è davvero una strega. Non arriva da secoli lontani? Quei secoli dove il mito imperava e tutto era possibile, fra cielo e terra, prima della scienza, prima della matematica. Anche il manoscritto che gli ha affidato Lubeki è nato nell’affascinante disordine del mito. La parola una volta era più forte. Creava realtà e non era necessario confermarla con la scienza. Chi ha scritto quella storia diversa? Perché contestare Omero? Ipazia non ha avuto molto tempo per riflettere sul manoscritto. Lo ha letto e si è ripromessa di rileggerlo. Lubeki le ha detto che sarebbe tornato per raccontarle una storia. E lei lo aspetta. Arriverà quando vorrà. Ha avuto la sensazione che Lubeki lasci molto spazio all’improvvisazione. “Ormai”, pensa, e non sa quali storie, quanto sangue, quali delusioni ci siano dietro quelle poche sillabe. Ma lo immagina, ricordando la profondità degli occhi. Del manoscritto l’ha sorpresa soprattutto la seconda parte. La sua mente matematica ha sistemato i concetti: si narra la morte degli dei e forse la nascita di un solo dio. Ma può essere l’idea di un antico greco? Si può profetizzare, ma non comprendere esattamente ciò che avverrà. E allora qualcuno è intervenuto, qualcuno ha falsificato. Qualcuno ha tramato. Ipazia non vaga con la mente, non crede all’eccesso di trame. Sa che la mente piccola, o solo normale, cede alla facilità delle risposte. Nel mondo ci sono meno trame di quante Omero potesse immaginare. I rumori diventano più forti. Sembra che si avvicinino. Ipazia ha sempre nascosto ciò che pensa fino in fondo degli dei. Ha nascosto anche la

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convinzione che il dio dei cristiani l’ottavo giorno ha creato il tedio e lo ha diffuso a piene mani. Ritiene che siano sempre preferibili le divinità che mostrano le stesse debolezze degli uomini e commettono gli stessi errori, al contrario di un essere infallibile e assolutamente giusto. Che ha sentito il bisogno di correggersi con un figlio da dare in pasto alle sue vittime. Un ricordo interrompe le sue riflessioni: perché Lubeki ha accennato alla matematica? Perché è venuto da lei in quanto matematica? Ora i rumori vengono certamente dalla strada su cui si affaccia la sua casa. Molte persone urlano e, fra tutte le parole sprigionate, le sembra di udire il suo nome. Poi un colpo sordo alla porta e poi altri colpi più forti. Qualcuno abbatte il legno e lei si trova davanti un gruppo di uomini inferociti. Sono monaci parabolani, costata Ipazia, la guardia di Cirillo, con lo sguardo indurito, la sorpresa nascosta nelle membra irrigidite. Ma stavolta il carisma di Ipazia non ammorbidisce i gesti, i pensieri e gli sguardi di chi le sta davanti. Viene rudemente gettata a terra e trascinata fuori dall’abitazione. Le legano le mani e la portano nella chiesa più vicina. La colpiscono ripetutamente con conchiglie affilatissime.

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LIBRO SEDICESIMO Cadono le possenti mura, e già all’orizzonte s’ode l’eco di battaglie nuove. Tutti cancellati saranno, a Ilio inviolata come sull’Olimpo sacro. Solo polvere resterà, in ricordo della gloria immensa… Isola di Tenedo. Le parole di Filotette hanno profondamente turbato il grande capo degli achei. Agamennone non si è mai fidato di Odisseo, sa perfettamente che il re di Itaca non ha mai amato questa guerra. E non ha mai amato Menelao e il suo smisurato orgoglio, pensando che il corpo di una donna, pur bella come Elena, non valesse una goccia di sangue. Soprattutto del suo sangue. E non ha mai amato lui, Agamennone, la sua autorità, il suo comando. Odisseo ha il senso dell’onore, ma non superiore al desiderio di vivere, e neppure al valore della parola data. Il giuramento è stato voluto da Odisseo, ma Agamennone ha sempre sospettato che il grande ingannatore attendesse solo l’occasione per rinnegarlo. E dieci anni sono troppo lunghi per mantenere un giuramento. E allora perché ha escogitato lo stratagemma del cavallo? Forse perché si è già accordato con Priamo, magari quando ha trafugato, o finto di trafugare, il Palladio. E non è il Palladio la statua della dea, sua protettrice? E perché è stato ucciso Diomede, di gran lunga superiore a lui nel combattimento? Forse perché Diomede non voleva tradire. I sospetti lacerano Agamennone, ma pensa onestamente che sia possibile sbagliarsi. Se il trucco venisse scoperto, le prime vittime sarebbero gli stessi eroi dentro il cavallo. E allora? I dubbi sconvolgono la mente semplice del re. E’ fortemente tentato di credere a quelli di Filotette, che però non ha parlato apertamente di tradimento. Fa convocare Aiace, che sa più modesto e meno brillante del compagno, e gli chiede di testimoniare. Il figlio di Oileo conferma le parole dell’amico e non aggiunge altro. Anzi, gli sembra che mostri perplessità, come se non volesse credere all’ennesimo inganno di Odisseo. Alla fine manda via tutti e si accascia. Vuole riflettere, ma non dorme da giorni. Le palpebre si abbassano, resiste al sonno ma non al sogno. Gli appare Clitennestra e inorridisce: la vede tra le braccia di un altro uomo. Un uomo dai contorni confusi ma che gli pare di conoscere. Non fino al punto di riconoscerlo completamente. Sullo sfondo c’è Ifigenia, la sua giovane figlia, avvolta

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in un drappo rosso sangue. Ha le labbra serrate e le lacrime le rigano il volto. Ma lo sguardo è freddo, accusatore: “Non c’è vittoria che segua al delitto”, la sente sussurrare. Agamennone apre gli occhi e balza in piedi. È sudato. Sente delle voci, entra Epolido che gli dice qualcosa che non capisce. Epolido lo guarda, ammutolisce, poi, a un cenno del re, ripete: “Il falò è acceso, o figlio di Atreo. Il segnale”. Agamennone scuote il capo e non dice niente. “Il falò è acceso, il segnale”, ripete Epolido. Il capo degli achei lo afferra per le spalle e lo spinge indietro, quasi con violenza. “Che nessuno si muova”, urla rabbioso. Piana di Troia. È quasi giorno, l’ultimo giorno a Troia per gli achei. Odisseo e i suoi compagni hanno raggiunto da tempo la spiaggia e ora iniziano a preoccuparsi e innervosirsi perché delle loro navi non c’è traccia. L’isola di Tenedo è vicina e l’esercito ormai dovrebbe essere sulla battigia. Odisseo si chiede ansiosamente cosa possa essere accaduto, ma non riesce a trovare una spiegazione. Il tempo corre e un timido sole spunta dietro le colline di Troia. “Non è possibile, ma siamo stati abbandonati”, è il pensiero assillante del re di Itaca. Il nervosismo si trasforma in panico quando da Troia si sollevano nuvole di polvere: i troiani hanno scoperto il grande inganno e ora si precipitano verso la spiaggia sui loro carri. I greci sbandano e, in un estremo tentativo di salvezza, alcuni si levano le armature e si gettano in mare. Per essere inghiottiti dai flutti: i greci, infatti, sono ottimi navigatori ma pessimi nuotatori. Altri cercano la salvezza scappando lungo la spiaggia, per cercare riparo dietro le rocce. Sono immediatamente raggiunti dai troiani e massacrati. Restano immobili sul posto solo in tre: Epeo, Neottolemo e Odisseo. Il focese piange terrorizzato e Odisseo, per tranquillizzarlo, gli ordina di restare al suo fianco perché niente gli accadrà. Arrivano i troiani e a quel punto si scatena la furia di Neottolemo, il quale, armato della sola spada, si lancia contro di loro. Ma i nemici sono molti, troppi anche per una macchina da guerra come il figlio di Achille. I troiani riescono a rallentare il suo slancio colpendolo ripetutamente con le frecce. Neottolemo piega il ginocchio a terra, senza un lamento, e i nemici gli sono subito addosso per far scempio del suo corpo. Odisseo è rimasto impassibile, ha gettato a terra la spada e aspetta. Epeo invece non resiste a quell’orrore, si getta in terra chiedendo disperatamente pietà: “Troiani, non

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ho nessuna colpa, sono stato costretto a obbedire agli ordini del re di Itaca che ha ordito quest’infame piano”. Sono le sue ultime parole. Deifobo, scandalizzato dalla vigliaccheria dell’acheo, lo uccide con la sua spada. In realtà neanche il figlio di Priamo brilla per coraggio: forte con i deboli, debole con i forti. È rimasto solo Odisseo che continua a restare immobile. Deifobo ora rivolge la spada insanguinata verso di lui ma è fermato da suo fratello Ettore. Il principe è sorpreso da tanto sangue freddo e domanda: “Re di Itaca, stai per morire, non hai paura?” Odisseo è terrorizzato, non vuole morire, ma riesce a dissimulare il suo stato d’animo e, rivolgendosi a Ettore e ai presenti, risponde: “No, nobile principe, io non ho paura. Chi è nel giusto non può avere paura, ed io sono nel giusto. Noi achei abbiamo combattuto una guerra che non abbiamo voluto, scatenata da un miserabile, Paride, che si è macchiato di un orrendo crimine quando era ospite nella nostra terra: il rapimento della regina di Sparta. Questo atto vigliacco non doveva e non poteva rimanere impunito. No, troiani, io non ho alcuna colpa, sarei perfino disposto a rifare tutto da capo. Voi solo siete i colpevoli. Voi che avete consentito al vostro principe di profanare la sacra ospitalità di un popolo che vi era amico. Voi che col vostro atteggiamento scellerato avete scatenato questa guerra che si è portata via il meglio dei nostri guerrieri. Ma abbiamo perso e quindi, se gli dei lo vogliono, sono pronto a morire”. Le parole del greco non cadono nel vuoto, molti troiani, anche se non apertamente, sono d’accordo con lui, e anche Ettore è rimasto colpito dal discorso e dal coraggio dell’acheo. Per ora lo risparmia, la sua sorte sarà decisa dall’assemblea cittadina. Odisseo viene incatenato e condotto nella prigione della città. Ma l’esercito troiano non ha ancora finito di combattere. Il mare improvvisamente si fa nero, nero come il colore delle navi achee che arrivano a tutta velocità. Al largo di Tenedo Agamennone vede alzarsi del fumo. Intuisce il fragore della battaglia. Ha capito tardivamente che Zeus gli ha ottenebrato la mente, che le Erinni hanno agito ancora, come sempre quando parenti uccidono parenti. Ma stavolta hanno agito in silenzio, non si sono mostrate, non hanno urlato. Hanno solo corroso il suo spirito. Odisseo è un ingannatore, ma non si è concesso l’ultimo tradimento. Lo sguardo del capo degli achei ruota all’indietro, le navi sono schierate, le osserva una per una, per un tempo interminabile, nel silenzio assoluto che poi si scioglie in un grido: “Avanti”. Le imbarcazioni partono, dapprima lentamente, poi sempre più rapide. In

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breve raggiungono la riva, ma quando la sponda è già in vista, Agamennone e gli altri comandanti scorgono una moltitudine. L’esercito troiano è schierato al completo nel porto. Per un solo istante pensa di fermare le navi, ma scaccia subito il pensiero. In un modo o nell’altro, pensa, doveva finire quel giorno. E quel giorno finirà. Quando i primi achei sbarcano urlando, i troiani sono pronti a riceverli. E’ una carneficina. La fiducia è già stata sconfitta. E Agamennone non ignora che la responsabilità è solo sua. I suoi uomini forniscono innumerevoli prove di valore, ma soccombono. Un guerriero troiano si distingue fra tutti: Ettore con le armi bianche e lucenti. Smagliante di ardore. Gli sbarchi successivi non spostano la marea dei troiani. La carneficina continua. Le navi con i capi achei si trovano dietro e il panico dilaga. Il re capisce che votandosi alla gloria si vota alla morte certa. E sceglie. Aspetta che altre imbarcazioni approdino, sperando in un ultimo aiuto da parte degli dei, ma il massacro si ripete ancora, l’urlo di trionfo dei troiani continua, dilaga, giunge fino alle navi in attesa e oltre, fino all’isola di Tenedo che doveva preparare la vittoria e invece sancisce la disfatta. Agamennone abbassa il capo e dà l’ordine di tornare indietro. Alessandria, 412 d.C. Hanno urlato che è una strega. Che ha dissanguato i cristiani. Il diacono Pietro ha guidato gli assassini. Le armi lanciate verso l’alto evocavano una foresta impazzita per il vento. L’hanno fatta a pezzi e i pezzi sono stati bruciati. Lubeki era fra quelli che hanno tentato di opporsi alla furia della folla. Per la prima volta ha ferito e ucciso. Ha cercato di avvicinarsi a lei, nel frastuono ha implorato i suoi studenti di formare un cerchio per proteggerla, è stato urtato da uomini barcollanti. Poi un colpo di spada l’ha fermato. Al fianco. Non è morto subito, si è piegato sulle ginocchia e ha guardato il suo sangue colare sul terreno. Per cercare subito e di nuovo la sagoma di Ipazia spezzata nella bolgia. Maledetto dio per lei, peccato per lui. Avrebbe voluto dirle che aveva saputo qualcosa di importante sull’infallibile universo dei numeri. Che i numeri parlavano ed erano parole, pensieri nel manoscritto. Avrebbe voluto dirle che la storia dell’Apocalisse non ha niente di divino. E che gli eroi greci non hanno nulla di eroico. Questo e solo questo aveva capito. Avrebbe voluto dirle che lei, sublime studiosa, forte donna, sorpresa per gli occhi, carne che fa vibrare, profetessa di bene, pensiero che non divide, unguento per

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l’età, sorriso sorprendente anche nelle pene, avrebbe potuto aiutarlo a infiammare le menti. No, perché infiammare? Soltanto a ottenere giustizia. Perché anche le fiamme non sono tutte uguali. E spegnere è una missione. Avrebbe voluto dirle che gli era bastato guardarla per ritrovare la fiducia. Per convincersi che non era un uomo incompleto. Che i tentativi sono risultati. Che illudersi non è un male. Che credere non è perdere. Avrebbe voluto salvarla.

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LIBRO DICIASSETTESIMO Tradimento, grida il dio offeso. E come da un amante tradito la sua rabbiosa collera si abbatte sull’ingrata stirpe di Dardano. Non c’è scampo per nessuno, tutti saranno inghiottiti dalla madre terra insieme all’immensa gloria… Piana di Troia. La guerra è finita e a Troia è il trionfo. Si festeggia la vittoria sugli achei e si festeggiano gli alleati che, dopo tanti anni, possono finalmente fare ritorno alle loro terre. Odisseo è in catene. L’assemblea cittadina dovrà decidere se chiedere un pesante riscatto a Itaca o giustiziarlo. Ma ogni cosa a suo tempo. Oggi Priamo, finalmente raggiante e orgoglioso della sua gente, offre un sontuoso banchetto di commiato al termine del quale il vecchio re ringrazia commosso e distribuisce doni agli alleati in partenza. È presente Enea con il suo esercito e il vecchio padre Anchise, c’è Pentesilea con le sue amazzoni. E ci sono tutti i sovrani e i comandanti che hanno offerto generosamente braccia, armi e sangue. Si festeggia a lungo. Poi, in breve tempo e in fretta, come per un ordine divino improvviso, tutti lasciano Troia. L’ultima vela biancheggia al largo per diventare un punto invisibile mentre Zeus osserva dall’alto dell’Olimpo. Il suo sguardo maestoso si distende dalla piana alle mura e poi al mare. Vaga come un rapace incerto ma attento. E sente dentro di sé un brivido, che definirebbe umano se non fosse un dio, che lo turba. Non è ciò che si attendeva stabilendo la fine della guerra. Quella guerra ha rappresentato il suo trionfo. Simile a quello su Cronos. Allora era il metallo, adesso è la morale. Sì, Zeus ha dato l’esempio di qualcosa che i mortali dimenticano spesso. Che persino gli dei dimenticano talvolta, ma proprio per questo devono insegnare e far rispettare. Ha evitato che la grande città cadesse per un miserabile stratagemma. Ha cancellato il potere dell’inganno. E non a caso il più grande artefice di trame pagherà per la sua capacità. Ebbene, achei e troiani, sconfitti e vincitori, meritavano questo regalo che avrebbe dovuto compensare le pene degli uni e nobilitare l’esultanza degli altri? Il dubbio divino è una montagna che supera il cielo, un mare infinito, che persino Zeus fatica a contenere. Che gli strazia il cranio. Peggio, non sono stati grati. Nella furia della felicità per la fine della guerra non un solo troiano

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ha sentito l’esigenza di ringraziare gli dei. Neppure un uomo. E allora un senso di giustizia, di quella stessa morale, gli impone di ripagare tutti con lo stesso oro ardente e maledetto. Come è vecchio e fanciullo, Zeus. La sua collera si scatena repentinamente con fulmini e saette che si abbattono sulla città ebbra. Non vuole dare neppure uno sguardo allo stupore che ai primi lampi si diffonde tra le strade della capitale vincitrice. E la rabbia più cresce e più pretende: così il padre di tutti gli dei spedisce Hermes, il messaggero, nelle profondità del mare per cercare e convocare sull’Olimpo Poseidone. Vuole chiedere aiuto al fratello per scatenare il terrore. Per squassare la terra. Accanto a lui è Apollo che, rivolgendosi al padre, chiede in tono sdegnoso: “Padre, hai vietato ai tuoi figli di intervenire in questa guerra. Cosa fai ora?”. Zeus lo guarda con disprezzo: “Figlio arrogante, ho incatenato Cronos e gli altri titani nelle profondità del Tartaro, io sono colui che comanda e posso fare tutto e il contrario di tutto. Rammentalo. Ciò che tu puoi capire non è ciò che io voglio”. E alla fine giunge Poseidone a percuotere la terra. Una due tre volte la percuote con il suo tridente. La terra frustata dal dio reagisce sollevandosi come un cavallo imbizzarrito per poi ricadere pesantemente. Dalle ferite aperte si sprigionano fuochi come tripodi accesi in onore del dio crudele, fuoriescono odori nauseabondi come da ferite infette e tutto è poi sommerso da onde che si estendono da una terra all’altra in una sola linea: lo sconvolgimento è assoluto. Dopo la gioia gli abitanti naufragano nello stupore. Per molti non c’è neppure il momento del terrore. La reggia di Priamo è la prima a crollare. Il re e la sua devota consorte Ecuba muoiono nella caduta della grande volta che si abbatte sul loro talamo sigillandolo come un sarcofago. Ettore dal sonno sempre vigile riesce ad alzarsi e il suo primo e ultimo pensiero va al figlio addormentato nella stanza accanto. Non riuscirà a raggiungerlo, il pesante architrave sopra la porta lo travolge prima che egli possa uscire. Astianatte invece continua a dormire beato e a sognare le imprese del padre glorioso. La morte non lo risparmia, ma è per lui più dolce. Nelle strade avvolte ancora nell’oscurità il caos è primordiale. La polvere che tutto avvolge impedisce di vedere e di respirare. Molti scampati al crollo delle proprie case cercano la salvezza correndo verso l’acropoli. Altri si precipitano invano verso la parte bassa della città per tentare di superare le mura. Le nozze del fuoco con l’acqua non ammettono testimoni sopravvissuti. Le possenti mura, opera di dio e vanto della città, crollano a terra come foglie

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che cadono dall’albero trascinate dal vento all’inizio della stagione fredda. Tra i pochi che riescono a mettersi in salvo, ignari di un destino che non sarà migliore, c’è Odisseo, miracolosamente uscito illeso dal crollo della sua prigione. Si salva anche Elena che la notte, corrompendo una guardia, era entrata nella cella del re di Itaca. Si racconta che si siano allontanati insieme in direzione dell’Ellesponto. Quando si alza un simulacro di Eos la gloriosa Troia è ridotta a un cumulo di macerie e la stirpe di Dardano cancellata per sempre. Finalmente Ilio è stata violata. La terra sfinita ora tace. Si ode solo un lamento, lo strazio dei pochi scampati all’immane tragedia. E il lamento sale verso l’alto a coprire l’intera volta celeste. Sale verso l’Olimpo senza trovare conforto e pietà. Viaggia verso Occidente, superando le colonne d’Eracle, arrivando fino alla terra degli iperborei senza trovare asilo. Ritorna indietro per andare a incagliarsi, come una nave che naviga su bassi fondali, sulle vette del Parnaso, dove Atena e Apollo hanno fissato la propria dimora. Non desiderano trovarsi al cospetto del padre Zeus. Sono stati privati di se stessi e questa è una colpa che non ha famiglia. Che cancella il dio Rispetto, umile tra gli umani ma possente tra gli dei. Nemmeno il Fato può cancellarla. Il mondo avrà una seconda guerra, dopo quella contro Cronos che tanto sprezzantemente Zeus ha rievocato. Qui il lamento si ferma e viene ascoltato. Atene, 529 d.C. Il ricordo di Proclo è lontano. Sbiadisce anche quello di Nonno di Panopoli. Le piante sono sempre rigogliose, i muri dipinti fiammeggianti come fosse ieri, i corridoi affollati, ma non è un giorno come gli altri. Giustiniano ha deciso: la Scuola di Atene sarà chiusa tra qualche istante. Non ci saranno più discussioni su Omero, almeno in queste sale. Il lascito degli dei sarà depositato in altre biblioteche. La sera le ombre di Platone non avvolgeranno più le statue. Ci sarà ancora il silenzio, ma di un’altra natura. Gli ultimi maestri sono al centro degli ultimi crocicchi. Molti volumi sono già stati portati via, molti altri lo saranno tra poco. Oggi la scuola vive di un sussurro prolungato, e preoccupato, che si propaga dagli spazi chiusi a quelli aperti e viceversa. I volti sono chini, i commenti sfrangiati. La parola “pagano” ha un bel suono, ma una cattiva opinione. Eppure qui c’erano ieri e ci sono ancora molti cristiani. Con il senso dell’Uno ma il rispetto

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del Tutto. C’è chi si muove lentamente. E chi ha fretta. E nell’ansia qualche libro rotola giù, cade dalle braccia, sfugge ai carri riempiti in tutta fretta. Un carretto, in particolare, sembra lasciare una scia di polvere. Lo hanno colmato dei libri custoditi nell’angolo più nascosto della biblioteca. Dove raramente, in quegli anni, qualcuno si è avventurato. A una svolta del parco il carretto rallenta e un gruppo di allievi lo osserva. Con tristezza. Con nostalgia. Fra di loro c’è Finesio, figlio di genitori che hanno abbracciato appassionatamente, e persino di più, il cristianesimo. Forse qualcuno che non è ancora nato, di quella famiglia, lotterà per la nuova religione. Forse vorrà emulare i primi martiri. Dal carretto cadono alcuni volumi, le copertine si piegano e le pagine si sgualciscono. C’è un rivolo d’acqua sul terreno, Finesio vede le righe svanire, perdere nel liquido un significato che immaginava eterno. Chiude gli occhi, li riapre, poi si china e raccoglie un rotolo spesso e già umido. Quasi con affetto lo asciuga delicatamente sul mantello, evitando che le strisce scure si allarghino. L’amico che lo accompagna ne raccoglie un altro, scorre le prime righe, ha un gesto di affetto e poi di rabbia, corre verso il carretto e butta sopra il volume. Finesio dà un’occhiata al rotolo che ha raccolto e lo stringe tra il corpo e il braccio. “Che te ne fai?”, chiede l’amico. “Non lo so”. “Ma cos’è?” “Non lo so”. Il carretto è già lontano.

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LIBRO DICIOTTESIMO Bella, dolce e sensuale figlia di Leda e del saettante, le tue forme e le tue movenze divine uomini e dei cadere fanno ai tuoi piedi. Ma lunga è la scia di sciagure lasciate dal tuo passaggio. Per te non ci sarà mai pace, solo amori effimeri che porteranno lutti e dolore… Olimpo e Parnaso, le dimore degli dei Zeus è inquieto. L’Olimpo si è svuotato dei suoi illustri abitanti: gli altri dei hanno abbandonato il padre che ora è solo. La sua possente mano si allarga sul sacro monte, facendo gracidare anche le nuvole, e chiama nuovamente il figlio messaggero: trovi i figli, tutti, e li convochi. Un solo pensiero ha sempre offuscato la mente immensa del padre degli dei: il suo potere non è assoluto, anche lui deve piegarsi al Fato fissato dalle Moire. E il Fato, per quanto silenzioso, parla alla sua mente. Le parole non sono intelligibili, non sono neanche parole, ma i suoi segni sono chiari: disegnano ombre negli occhi di Zeus che non può interpretarle ma soltanto avvertirne la minaccia. Hermes sa dove si trovano i fratelli. Raggiunge in un baleno le vette del Parnaso, luogo dell’unione fra Urano e Gea. Atena e Apollo lo ricevono come si conviene. Hermes riferisce il messaggio di Zeus e poi scuote il capo: “Il mio compito finisce qui. Come messaggero vi invito ad obbedire. Come fratello vi esorto a non tenere conto della richiesta”. Non dice altro, ma Atena e Apollo capiscono che Hermes ha fatto la sua scelta. “Ora raggiungerò gli altri e porterò due messaggi: quello del nostro padre e quello che voi vorrete affidarmi”. Atena guarda lontano, sembra preoccupata dalle nuvole che intravede fin dove lo sguardo si perde nell’infinito, nuvole troppo rapide per una giornata senza vento, e poi sentenzia: “Riferisci a Era, Afrodite e Ares che un monte non basta più. Se gli umani, inconsapevolmente, hanno vinto e perso una guerra per scatenarne un’altra, allora abbiamo il dovere di addobbare al meglio i nostri giacigli. E così faremo”. “E così farò”, risponde Hermes: “Tanto più che sono irritato: Zeus ha chiamato al suo fianco i suoi fratelli Ade e Poseidone, ma si è servito di un altro messaggero. Ciò non è giusto”. Il suo breve discorso ha un significato molto umano e i fratelli lo intendono. La scia di Hermes svanisce all’orizzonte. L’attesa non è lunga. L’Aurora si accende una sola volta e i primi vapori si aprono come un sentiero dove

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camminano ritti e forti i fratelli convocati. Nel cerchio magico, in cui arde un fuoco che non si spegne, Atena prende la parola: “Abbiamo abbandonato la nostra antica dimora, umiliati dal comportamento di quello che era il nostro padre. Non possiamo più tornare indietro, dobbiamo combattere. Ma non sarà certo con l’uso della forza che possiamo sconfiggere Zeus. Dobbiamo usare il cervello e l’astuzia, escogitare uno stratagemma che lo faccia cadere in trappola rendendolo vulnerabile”. “Io so usare solo la spada”, interviene sprezzante Ares, “e con essa affronterò il saettante”. “Fratello stolto”, replica Atena, “come puoi non capire che agendo in questo modo sei destinato a soccombere? No, ascoltatemi tutti, le uniche armi che possono sconfiggere Zeus sono quelle della seduzione. Solo con l’amore struggente di una bella donna riusciremo a farlo cadere in trappola”. “E chi sarà la prescelta”?, domanda curiosa Afrodite, ”non certo una di noi, capirebbe immediatamente. E allora non rimane che una mortale”. “Giusto”, riprende Atena, “e nessuno meglio di Elena può fare impazzire il cuore del signore dell’Olimpo. Ella è sopravvissuta alla distruzione di Troia e ora sta cercando di rientrare a Sparta. Io la porterò su una strada sbagliata spingendola verso le pendici dell’Olimpo, dove Zeus, vedendola, non potrà resistere al suo fascino”. “Ha sempre resistito”, obietta beffarda Afrodite. “Finché infuriava la guerra”, conclude Atena. L’inquietudine di Zeus si trasforma in ira. Che si abbatte, come sempre, sulla terra. Non può esistere, per i suoi miseri abitanti, una colpa tanto grande da essere scontata dagli dei. Eppure è ciò che sta accadendo. La furia distruttrice della natura si scatena per la seconda volta con diluvi e terremoti che tutto distruggono: quel poco che era sfuggito al fuoco divampato dopo la fine della guerra e all’acqua che l’aveva spento. Gli dei sul Parnaso assistono inerti alla manifestazione di quella potenza devastante. Non hanno folgori da lanciare, possono solo sfruttare l’esperienza della debolezza. La bella figlia di Leda è sopravvissuta alla distruzione di Troia e ora sta tentando di rientrare a Sparta. Nei recessi dell’Olimpo, al termine di strade tanto segrete da essere quasi inesistenti, di ruscelli silenziosi e profondamente interrati, in una pianura dalla temperatura immutabile, ci sono due alberi a breve distanza l’uno dall’altro: sono gli alberi del Fato e della Saggezza. L’albero del Fato non ha bisogno di sostegno per vivere. S’innaffia da solo, si pota da solo, dà e perde i frutti con perfezione e simmetria. L’albero della Saggezza invece ha bisogno di cure costanti. Attorno al recinto che

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custodisce le due piante, sosta perennemente un manipolo di giardinieri di Zeus. Sono asessuati, non sono armati, non sono corruttibili ma invisibili, invincibili, intoccabili. Non hanno passato né futuro. Sono solo presente. Zeus, e solo lui, può interrogarli per avere risposte semplici, innocue, futili. Ciò che c’è da sapere si sa già. Attorno ai due alberi non ci sono profezie, e nessuno sa quando siano fioriti. Probabilmente alla fine del Caos. Il segreto è stato protetto dalla conoscenza degli uomini, ma tutti gli dei conoscono il loro significato. L’albero del Fato è intoccabile, se qualcuno si accosta sparisce improvvisamente. L’altro albero invece può essere toccato da mani divine. La saggezza che emana è concentrata nel cuore e nelle viscere di Zeus. È questo che gli consente di non scontrarsi mai col Fato, di evitare i contrasti con le decisioni ultime. Se l’albero muore, se qualcuno lo distrugge, Zeus perde la sua saggezza e diventa vulnerabile. Ma questo è impossibile, forse, perché la mente del dio ha sempre presente l’immagine dell’albero. Solo nel caso in cui la sua mente venga ottenebrata al punto da non vedere più l’”immagine”, è possibile attaccare l’albero. Solamente una donna, la più bella della terra e dei mondi conosciuti, può confondere la mente della divinità. Ma questa donna, sia pure Elena, deve concentrare su di sé la sensualità di Afrodite e il senso dell’amore di ogni dea dell’Olimpo. La nave che trasporta Elena verso casa fa naufragio in una riva non distante dai contrafforti dell’Olimpo, un luogo caro a Dioniso. La figlia di Leda, per lo sforzo di sfuggire ai flutti, perde i sensi. Quando riapre gli occhi, un giovane biondo la sta osservando, chino su di lei. Elena ha la veste bagnata, tutt’uno con le sue forme ambite, che non lasciano indifferente Hermes. Il dio le offre la mano e la solleva delicatamente, non impedendosi il contatto con i rilievi più seducenti. Il brivido che percorre il corpo di Elena è infinito. Altri dei l’hanno conosciuta e lei spesso ha taciuto ciò agli uomini, ma stavolta è come un vento terribile e nello stesso tempo soave. Elena sente dei rumori lontani: “È solo un tiaso”, le dice subito il dio. “È una terra devota a Dioniso?”, domanda la donna. “Sì, a mio fratello. Vuoi entrare?” Elena non risponde ma si lascia condurre per mano dal giovane. Mentre si avvicinano al recinto del tiaso, si odono anche dei gemiti. Da lontano la sublime figlia di Leda vede un fumo bianco, e vesti candide che si sollevano verso il cielo e ricadono lentamente. E braccia che si levano di colpo e corpi chini e strane figure intrecciate. Così almeno le sembra. Da vicino, però, le figure non sono più nitide, ma più

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sbiadite, i contorni lattiginosi. Si accorge che il giovane che la teneva per mano è sparito, non saprebbe dire quando e come. Sempre più confusa, entra nel recinto, delimitato solo da una striscia di ciottoli. Atene, 530 d.C. “Sì, Giustiniano è rozzo. Ma non avremmo dovuto aspettarci niente di diverso”. Simplicio ha provato un’immediata simpatia per quel giovane. I tratti del viso ispirano sincerità. E il giovane si è già definito “fatuo” senza alcun patema. Giulivo, quasi. Simplicio è un filosofo e il suo pensiero, in questo caso, è che la sincerità non aderisce alla morale. Anzi, può esserne nemica. Ecco perché si fida di Finesio. E può dire cose che alle orecchie di altri sembrerebbero avventate. Ma in questo luogo non c’è spazio per nobili riflessioni. Questo è il luogo della carne e Simplicio reputa la contemplazione un momento della giornata. Probabilmente l’idea è condivisa da Finesio. Ma con qualcosa in più che Simplicio non ha mai conosciuto: il giovane, pensa, non sa come riempire la giornata. Da primo erede di ricca famiglia, nei bisogni quotidiani è riempita da altri. Negli svaghi c’è l’imbarazzo della scelta col credito sempre aperto. Dal suo bicchiere trabocca puntualmente il vino migliore, anziché acqua di fonte. Ma se finora si è compiaciuto dell’ozio, un disagio di cui non sa valutare ancora la forza comincia ad affiorare: Finesio lo avverte, Simplicio lo capisce. Quanto sono utili, pensa ancora, le volgarità della vita: quando lo ha conosciuto, lo sguardo di Finesio, dopo lunghe ore d’amore con la meretrice, era ancora carico di lascivia. Ora fugge via. Come se il suo corpo avesse sbrigato una semplice incombenza. E il tempo, nella stanza profumata delle effusioni, si è accorciato. Per Simplicio, invece, il tempo ad Atene è finito. Domani partirà per la Persia. Finesio gli ha chiesto perché. Lui ha risposto che la chiusura della Scuola è stato l’ultimo e decisivo affronto. Sì, forse molti libri non andranno perduti – Giustiniano non può essere così stolto, ma chi può garantire per i cristiani che vogliono eseguire con entusiasmo eccessivo i suoi editti? – e dunque se ne andrà. Con altri sei insegnanti della Scuola. “E dove andrai?”, ha chiesto Finesio, che si è affezionato al filosofo. “Alla corte di Cosroe. Un buon sovrano, si dice”. Finesio è rimasto turbato. Così è sembrato a Simplicio, che con un pizzico

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di vanità attribuisce ora l’indolenza del giovane allievo alla mestizia. Gli amici sono rari, lo capisce anche Finesio. Che è fatuo, ma non stupido. E se nella sua fatuità c’è anche la passione per i miti dell’antica Grecia, ciò è meglio dell’ignoranza. Nella Scuola Finesio è sembrato più incline allo studio dell’anatomia femminile – gli esemplari non mancavano – che alla filosofia, alla matematica, all’astronomia. Ma l’eco dei miti accendeva la sua espressione, come l’anca liscia e piena di una ragazza. Giasone era il suo eroe. E forse cercava Elena in tutti i postriboli di Atene. C’è dell’altro. La famiglia di Finesio ha abbracciato con fervore la religione dei cristiani, ma lui, senza darlo a vedere e senza comprenderne tutti i motivi, è rimasto sospettoso verso quel nuovo dio che impone troppi sacrifici. Su questo punto Finesio non ha speso molte parole, ma Simplicio ha intuito la distanza. E ora, in quel lupanare che entrambi frequentano da tempo, mentre le prostitute li guardano languidamente invitandoli ad altre frenesie, offrendo scorci di pelle levigata, un’idea gli attraversa la mente. “Perché non parti con me?” Finesio sembra ridestarsi da pensieri vaghi, ma fastidiosi come mosche. Guarda Simplicio con attenzione, ma anche con quella vaghezza che il filosofo conosce bene. Poi sorride: “Perché non ci ho pensato”. “Pensaci ora. Hai l’età giusta. L’età della conoscenza e della scelta. E il dubbio è già nella tua testa”. Finesio fa per replicare, ma Simplicio lo blocca con un gesto. “Non dire niente. Rifletti sulla risposta”. Finesio riflette e se Simplicio potesse vedere le immagini dei suoi pensieri, noterebbe, in un anfratto, il giovane chino su un manoscritto. E chiedersi, con infantile e accigliato stupore, perché i ferventi cristiani parlano di un dio giusto e infallibile. Perché gli dei non possono essere umani e gli uomini vogliono essere dei anche se li temono. Costaterebbe, come ha intuito, che il giovane è confuso. Ma non saprebbe che Finesio ha già deciso: vuole visitare i luoghi dove è nato e vissuto il figlio del dio dei cristiani, colui che ha sconfitto le divinità dei pagani. La Persia può essere un’interessante deviazione. Persino divertente. “E perché no?”.

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LIBRO DICIANNOVESIMO Maledetti. Maledetti siate tutti voi, figli indegni del dio sovrano. Egli ora giace insieme al padre, incatenato nelle profondità del Tartaro, ma per la sua stirpe non ci sarà più gloria. La maledizione delle sette stelle aleggia su di voi, che possiate bruciare in eterno nel sacro fuoco che sempre arde e mai si consuma… Un tiaso alle pendici dell’Olimpo Elena entra nel tiaso. Il suo spirito è obnubilato, ma il suo corpo è percorso da correnti di piacere. Non sa che intorno a lei, invisibili ma prorompenti, danzano Atena, Apollo, Hermes, Afrodite e Ares. Si muovono come in un amplesso, entrano ed escono reciprocamente dai corpi, sprigionando fiotti di sensualità divina, che avvolgono le membra nude di Elena. Sente, ma non capisce, che quel consesso di dei le sta infondendo il massimo della seduzione che cielo e terra possano offrire. Un tesoro infinito e irresistibile, che mai nessun tempo ha concesso a una sola creatura, sia umana che divina. Non saprebbero resistere uomini, donne, animali, piante e forse neppure le pietre, i fiumi e le montagne. Un tesoro che non può restare inerte, ma che solo braccia immense come il tempo e come il Fato possono desiderare, accogliere e sopportare. Elena continua a ballare con gli dei, è finalmente felice dopo tanti anni, si sente leggera, eterea, trasfigurata. Il tempo si è fermato e il luogo non esiste più. Gli dei continuano a tenerla per mano, ma improvvisamente svaniscono, come inghiottiti da un vortice che loro stessi hanno creato. La donna ora è sola, il tempo ha ripreso il suo lento scorrere, ma lei sembra non accorgersene, è ancora ebbra e continua a muoversi come una baccante. L’alone che fino a poco tempo prima la circondava è svanito ed Elena ora è ben visibile. E desiderabile come non è mai stata, per uomini e dei. Questa volta però gli uomini possono aspettare, troppe sciagure sono accadute a causa di questa donna, ora è giunto il tempo degli dei. E Zeus, infatti, non può non vedere la creatura meravigliosa, non può non desiderarla, non può non volerla. Si precipita giù dall’Olimpo come un cinghiale impazzito, assume le sembianze di Paride e si presenta con un sorriso rassicurante alla moglie di Menelao. Elena si sveglia improvvisamente dal suo torpore e non crede ai suoi occhi. Paride le viene incontro, ma Paride è morto a Troia, l’ha visto lei stessa cadere sotto i colpi di Menelao. È spaventata, ma

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non indietreggia e aspetta. Zeus avanza, la cinge col suo abbraccio divino e la conduce con sé. Il dio è inebriato da tanta bellezza, ha occhi, mente e cuore solo per lei. I suoi figli non sono lontani, osservano la scena e si preparano ad agire. Prima dovranno sradicare l’albero della Saggezza, poi occuparsi dell’odiato padre. Non sanno gli dei traditori che l’albero non può essere sradicato, nemmeno da mani divine. E non sanno nemmeno che otterranno ugualmente ciò che vogliono. Non sanno, infatti, che l’albero della Saggezza è curato dagli intoccabili giardinieri, figli di figli sconosciuti, di un’età che né Zeus e, prima ancora, neppure Cronos potevano conoscere. Ma in realtà la sua eterna freschezza è alimentata dall’albero del Fato. Canali sotterranei, meandri segreti, fiumi di linfa fluiscono da un albero, quello del Fato, all’altro, quello della Saggezza. E il Fato ha deciso. Ha fissato i suoi decreti, insondabili a uomini e dei, e questi sono gli ultimi decreti. Lentamente, ma inesorabilmente, i giardinieri diventano pesanti, i loro passi lenti, le loro menti intorpidite. Fino all’immobilità. Solo gli occhi, increduli, continuano a vedere. E nello stesso tempo l’albero della Saggezza comincia a perdere i suoi colori vivaci. Il verde impallidisce, il tronco rammollisce, le foglie avvizziscono, i frutti cadono. In quello stesso istante, Zeus scioglie le vesti di Elena. Ha le sembianze di Paride, ma alla donna appaiono differenti. Rimane stupita nel vedere il grosso membro del dio, ma la sua mente è confusa e non ha il tempo di riflettere. Del resto il membro di Zeus rimane inerte nonostante gli splendidi seni di Elena spuntino sfrontati e ondeggino alla leggera brezza del tiaso. Il dio si accanisce sull’ombelico della regina di Sparta, mentre, per la prima volta, grosse gocce gli imperlano la fronte. Non conosceva il sudore. Le sue mani accarezzano vogliose le lunghe cosce della donna, ma non accade nulla, benché Elena continui a muoversi sinuosa. Zeus è chino: può sembrare un corpo che si accinge all’amplesso, invece è solo un corpo che si piega. Stanco e debilitato. Con le orecchie che un tempo potevano sentire tutto, ode dei rumori in lontananza. Ha la percezione che creature, dai volti noti, si avvicinino con armi infallibili. Cosa sta accadendo? Zeus non aveva mai fatto una domanda, conosce solo le risposte. Questa è la sua prima e ultima domanda. Le creature si avvicinano sempre di più, quei corpi ancora avviluppati assumono contorni più definiti e Zeus finalmente riconosce la sua famiglia. La potente divinità non è più in grado di opporre resistenza, il suo corpo è pietrificato, impossibilitato a compiere qualsiasi movimento, come se la linfa divina non scorra più dentro di lui. Però è vigile, vede Apollo avanzare, seguito dai fratelli e da Era, anche lei pronta a tradirlo.

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Elena si sveglia dall’incantesimo. E in un istante rivive tutte le atrocità che ha già vissuto a Troia durante la guerra. I suoi occhi sono costretti a fissarsi su immagini di violenza che non è più in grado di sopportare. Cade a terra priva di sensi. Gli dei si accaniscono sul corpo nudo di Zeus martoriandone le carni che si riproducono immediatamente. Il dio per sua stessa natura è immortale ma sensibile al dolore come gli uomini, vorrebbe gridare ma dalla sua bocca non esce alcun suono. Solo il pensiero è ancora lucido, ma non è più in grado di trasmettere ordini, è prigioniero. Alla fine i suoi figli lo incatenano e lo trasportano all’estremo occidente, dove si trova l’ingresso del Tartaro. E così, anche il più potente dio, il signore dell’Olimpo, lo Zeus tonante e saettante, viene fatto precipitare negli abissi più profondi, dove già marcisce suo padre Cronos. Ade e Poseidone non sono intervenuti in soccorso del fratello, non si sa se per codardia o per bramosia di potere. Uno di loro potrebbe diventare il nuovo signore degli dei. Per ora ognuno si ritira nel proprio regno. Gli dei traditori sono raggianti, il piano ordito da Atena è riuscito, hanno sconfitto Zeus. Ma la loro è una vittoria effimera. Qualcuno, dall’alto dei cieli, invisibile anche agli occhi degli dei, ha osservato. Presto verranno i suoi giorni. Patmo, 90 d.C. “A coloro che avranno in mano questo rotolo. Io, Eschifilo, giuro sulla veridicità di ciò che vi ho raccontato. E molto di ciò che vi ho raccontato ho visto con i miei occhi. E molto ho sentito con i miei sentimenti. Non ho raccontato per tutti, ma solo per quanti non si ravvedono dei loro omicidi, delle loro malie, delle loro fornicazioni, dei loro furti. L’uomo attraversa un numero non preciso di età, è certa invece l’età della menzogna. Beati coloro che sanno riconoscerla. Ma attenti: gli omicidi, i furti, le menzogne, non esigono la pena corrispondente. Diffidate di chi urla a gran voce e pretende la vendetta per il sangue versato, sia pure per una giusta causa. Zeus è stato ucciso e nessuno ha pagato. Zeus non è stato vendicato perché essere uomini non è un male. La colpa non è una pena, solo una condizione. La nostra. Peggio della colpa è la lacrima. Tutte le lacrime versate sono la storia dell’uomo. È l’inizio di un’altra età. Ci saranno ancora eroi ma non piangeranno. Ci saranno ancora divinità ma non faranno piangere. Dico di più: solo la virtù è e sempre sarà sacra. Innaffierà il terzo albero, quello che non potrà sfiorire. È il momento in cui Alfa e Omega coincidono…”. Giovanni legge attentamente le ultime parole. Il racconto non è terminato, ma quel concetto per lui è definitivo. Ha sorriso a quelle parole: “La

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colpa non è una pena, solo una condizione”. E col sorriso ha provato un sollievo che non sa definire. Lo affascinano le contraddizioni ed è certo che Eschifilo ha fatto delle contraddizioni la sostanza della sua opera. Ma come in un campo di erba cattiva, se si è pazienti, si può trovare quella che lenisce le ferite, così lui è in grado di estrarre l’essenza. “Una condizione”. Certo, di più. Giovanni, nei panni di Eschifilo, avrebbe scritto che la colpa è la vita. E la colpa resta anche dopo la vita, fino al banchetto finale, dove tutti saranno invitati ma non tutti mangeranno. Come può, però, un uomo come Eschifilo avere scritto tutto ciò? Ne era consapevole? O si può raggiungere la verità anche sulla scena della commedia? Col mantello dell’attore? E la bocca storta? E i colori infami dell’imitazione? Oppure la filosofia è una madre troppo influente? Ha riflettuto per giorni e giorni, Giovanni. Le domande sono sempre uguali. Ha rischiato di perdere il senno. Ecco perché ora prova sollievo. Ha scartato le domande, le ha scaraventate giù dall’Olimpo dei pagani e sono cadute con grande fragore ai piedi del Creatore vincitore. Ora ci sono solo risposte. Giovanni prende un altro rotolo intonso da un tavolo vicino e comincia a scrivere. Dà uno sguardo al rotolo di Eschifilo e poi a quello che ha davanti. Così per l’intera sera. Dopo dovrà distruggere il manoscritto. L’uomo che ha fatto assassinare – sì, assassinare, non ha vergogna di pensarlo – ha giurato che non ci sono altre copie. Forse quell’uomo non aveva colpe, ma qualcuno aveva caricato sulle sue spalle, sulle sue mani, un peso peggiore della colpa: la conoscenza. Sia pure limitata allo scritto di un piccolo, lontano, invisibile autore. Giovanni non si fida di ciò che gli ha detto quell’uomo. “Una sola copia”. Non si fida, però non può fare altro che sperare. Valuta i rischi e conclude che sono pochi. Quasi inesistenti. “E se anche fosse? Se spuntasse un’altra copia? Come ha armato la mia mano, Dio la difenderà”. E comunque Giovanni darà disposizioni perché il controllo sia assoluto. Oggi e negli anni a venire, in una catena che nessuno potrà sciogliere. C’è una veglia divina che brucia sempre e non si spegne mai, come una fiaccola che giorno dopo giorno uomini fedeli sapranno reggere, a prezzo della vita. Finché ci sarà una sola vita. Quando la notte è già avanzata e il suo lavoro terminato, brucia il manoscritto di Eschifilo.

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LIBRO VENTESIMO Tutto è finito, tutto è compiuto. Anche il crepuscolo, o potenti dei dell’Olimpo, ha esaurito la sua luce. Solo il ricordo di una mitica epopea brillerà in eterno… Il sogno di Zeus Cade, Zeus, cade nell’Erebo. E la sua caduta è rapida e ferma nello stesso tempo. Gli uomini non riescono a spiegarselo, non hanno meccaniche perfette, matematiche precise, immaginazione sufficiente per capire cosa sta accadendo a Zeus. E il dio precipita. Cade lungo pareti di cristallo, di tutti i colori dell’Universo. Pareti che lasciano l’esatto spazio per cadere. Il cristallo è ciò che è stato e più non sarà. Il dio ha la sensazione che i colori stiano svanendo e alla fine ne rimarrà uno solo che non potrà riflettere alcunché. Sa che questo accadrà in un attimo infinitamente breve e in un tempo estremamente lungo. E in fondo ci sarà il fratello ad accoglierlo, comunque si sia schierato. Ma Ade non sa che anche a lui resterà un solo colore. Una volta il dio degli inferi aveva rivelato a Zeus che, malgrado i fini del Fato, nulla avrebbe potuto modificare il suo regno sotterraneo e, comunque, ci sarebbe sempre stata l’isola dei beati ad accogliere gli ultimi eredi del sogno divino. Zeus sapeva più di Ade. Sapeva che non sarebbe andata così. Sapeva anche, senza averlo mai detto ai suoi figli, che morendo il primo sarebbero morti anche i secondi e i terzi, e i figli dei secondi e dei terzi. E non ci sarebbe stato un quarto. Mentre precipita, sente un chiacchiericcio, un frusciare di vesti preziosissime, un tintinnare di calici. Una risata che genera altre risate. Sa cos’è: è la festa di nozze di Cadmo e Armonia. Cadmo li aveva invitati tutti e tutti gli dei erano discesi dall’Olimpo. Tutti. Zeus sapeva che una simile festa, in apparente affetto reciproco, non sarebbe mai stata una festa sincera. Eppure erano lì, e tra di loro non accadde nulla di grave, nulla di fatale da ricordare. Nulla per cui vendicarsi o scatenare guerre. Anche gli dei, il Fato lo sapeva, conoscevano il nocciolo dorato e succoso dell’illusione. Ma solo esso intuiva che nel futuro, il futuro della mente se non quello dell’esistenza, ci sarebbe stata la morte. Che non litiga con l’immortalità. Gli uomini sono come loro, e come loro comandano su altre genie, e altre genie comandano sugli dei. Conoscere l’ultimo anello della catena è impossibile. Queste immagini

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vorticano nell’ultimo sogno di Zeus. Il padre sconfitto sente che nella caduta le sue vesti si gonfiano e alla fine si slacciano lasciandolo nudo, solo con la sua carne. Quella viva, mortale, martoriata dai figli. Finché, forse poco prima del termine della caduta, di quella carne non resta che essenza. Impalpabile. Destinata a conoscere solo se stessa. E per sempre. Ha anche la sensazione che ciò che gli dei, i suoi figli, i suoi fratelli, sono stati, sarà un ricordo tramandato. Sa anche altro. Sta per ripeterselo quando sente una voce, che non è la sua, ma di qualcuno che sta salendo nel vuoto circondato dai cristalli. Trovandoselo davanti, Zeus vede occhi fiammeggianti e candidi capelli e piedi che sembrano rame arroventato. E la voce, la voce è come il rimbombo incessante di un numero infinito di torrenti, di acque che si rimescolano e riempiono il mondo. La voce esce dalla bocca della creatura come una spada. E di colpo, quasi prima non se ne fosse accorto, vede che quell’essere tiene in mano sette stelle. “Puoi e devi davvero temere”, dice la voce. “C’è posto solo per uno nei secoli dei secoli. Ecco cosa il Fato ti teneva nascosto, giù, in un luogo di cui tu non potevi avere la chiave”. E mentre parla, le sette stelle si trasformano nei fregi brillanti dell’occhiello di una chiave fiammante, che, in un attimo incomprensibile, lacera il petto di Zeus. Dallo squarcio esce ruggendo il cuore del dio, e con esso schiere di mortali, donne e uomini, guerrieri e contadini, uccelli e quadrupedi. E fiori e insetti. E acque e montagne. Che hanno nomi familiari a Zeus. E il suo cuore e l’intera schiera di cose e personaggi precipitano con lui, alla sua stessa altezza, svanendo a poco a poco, fino al nulla che si schianta in uno spazio che gli uomini chiamerebbero suolo. Ma che suolo non è. Il nulla. Il Caos. Il Caos, dove il sogno è realtà e la realtà è sogno, ma anche ciò che non è. Dove l’aria è terra e acqua e fuoco, ma sono indistinguibili. Neppure Zeus può avere coscienza di sé. Non conosce la natura degli elementi che lo avvolgono. Eppure un angolo, il più piccolo, il più nascosto, diventa improvvisamente verde, attraversato da un torrente. L’erba e l’acqua sono uscite da un punto che si allontana vertiginosamente. Zeus è accasciato sulla sponda del torrente. Sull’altra riva, un essere che gli somiglia è accasciato allo stesso modo. Sembra l’immagine speculare del dio, ma dopo un lungo momento la creatura gli sorride. “Sto provando le forme”, dice. Zeus non capisce, anche se ha la sensazione che in quelle parole ci sia qualcosa di familiare. “Le sto provando da molto tempo. Devo provare e riprovare per specializzarmi. “Per fortuna non ho fame”.

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“Io ho fame”, dice Zeus. “Sì, è una fame che avrai sempre. D’ora in poi. Ma qui non c’è ambrosia”. Qualcosa deve pur esserci, vorrebbe dire Zeus, ma non lo dice perché quelle parole sarebbero assurde. Non tutto è cibo per gli dei e il cibo degli dei è raro. “Quali forme?”, chiede invece. E ancora con la sensazione che non sia la domanda giusta. “Quelle di tutto. Vedi? Il torrente, il verde? Sono io l’artigiano, il costruttore. Ma sono solo all’inizio dell’opera. Devo farne tante, tantissime. Un numero infinito ma finito perché ci stia dentro il mondo. Che però continua a darmi altro lavoro. E pensa agli altri artigiani”. A Zeus viene voglia di bere. “No, non affaticarti, se tenti di prendere quell’acqua con le mani, ti sfuggirà, come l’aria, anche se qui non c’è aria”, lo avverte la creatura. Zeus è sempre stato irritabile e, anche in questo che può sembrare un sogno, non riesce ad arginare la sua natura: “Spero che gli altri artigiani, se avrò modo di conoscerli, siano meno enigmatici”. “Enigmatici? Suona bene, ma non conosco il significato. Che strano, io sono qui a costruire e tu conosci cose che io ancora non ho costruito”. “Dimmi di quelle forme”. “Te l’ho detto. Ho formato il torrente. Che poi diventerà un torrente. Uno dei tanti”. Zeus prende il fiato e sta per parlare quando l’altro lo ferma con un gesto improvviso e quasi minaccioso. “Non dire altro, dio dei greci e solo dei greci e pochi altri. Ho capito che non puoi capire, come prevedevo. Perciò ti do un annuncio: tu non ci sei più. Come non ci sono io, Ftah, che credevo di aver inventato tutto e invece sono qui a iniziare a inventare. E, pensa, ogni istante comincio, ogni istante devo ricominciare. Vuoi fare il mio assistente? Per sempre, almeno questo l’avrai capito”. Olimpo, un tempo imprecisato Per gli dei senza Zeus è un momento sospeso. Riprendono a intrecciare le loro diatribe, ma è proprio il tempo che li sorprende. Prima coglievano e governavano il tempo degli uomini. Ora un soffio di vento, un raggio di sole, un riflesso sulle foglie, il mormorio delle acque, sembra essere il loro tempo. Qualcosa che scorre e che porta una minaccia. Sono raccolti in una radura, nel cuore della montagna. Sentono un’eco lontana, come proveniente dalle viscere del loro sacro monte, e mangiano il loro cibo. Sono chini, assorti, Hermes addirittura guarda gli altri furtivamente, facendo ruotare gli occhi troppo in fretta. Apollo vuole mantenere la sua postura fiera e sprezzante, ma sente il corpo piegarsi, come se debba

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chinarsi verso qualcosa o qualcuno che non conosce. Afrodite non ha più un pubblico che possa ammirarla, e la sua bellezza sembra addirittura sfiorire. Guarda Elena e sente che questo mondo non è più tanto distante dal suo. Atena è saggia, o semplicemente si è sempre sentita più umana degli altri. Non teme le ombre e il tempo degli uomini l’ha già sfiorata, ma avverte ugualmente un brivido nel cuore e nella mente. È lei ad accorgersi che attorno al fuoco che brucia in eterno c’è un commensale in più che non è stato invitato. Che lei non ha mai visto e non conosce. Non saprebbe neppure descriverlo. È in mezzo a loro, ma anche ai margini. È un uomo o una donna? Un dio o una dea? Si stupisce che gli altri non ne parlino. Forse, assorti come sono, non se ne sono accorti. O forse aspettano che parli un altro. Atena lo osserva con attenzione, ma non riesce a percepirlo interamente. Vorrebbe dire qualcosa, ma non parla, perché è lei a sentire una voce che non viene dalla bocca dello sconosciuto, piuttosto da un infinito che intuisce senza comprendere. Pian piano il mormorio diventa comprensibile: “Non mi avete mai visto e non mi vedrete più. Sono stato partorito dal Fato, prima che voi nasceste, prima che qualsiasi dio nascesse, e fino a ora ho dormito. A lungo, ma non lontano da voi. Conoscete le mie cugine che siete soliti lanciare dietro assassini di madri, di padri e di figli. Ma sono solo ancelle, il dio sono io. Serviva qualcosa di eccezionale per svegliarmi e mi sono svegliato. Ma non è un bene per voi. Porto con me alcune figlie, cui assegneranno i giusti nomi. Una avete cominciato a conoscerla anche voi: Ansia, dovreste chiamarla. Molto umana”. Atena ormai afferra tutte le parole. Guarda ancora i suoi fratelli, con un timore sconosciuto che immediatamente, e non sa perché, attribuisce alle figlie del dio. Nessuno sembra essersi accorto di quell’essere. I loro movimenti si fanno più lenti, slegati. Le mani non vanno più alle bocche, ma alle stesse mani. Non parlano, forse neppure mangiano, anche se le labbra ora si muovono freneticamente. “Sono il dio della Colpa”. Ansia ha due sorelle: Angoscia e Paura, le chiamerebbero gli uomini. Si muovono all’unisono comandate dal padre. Non hanno sostanza, non sono fatte di materia viva, ma esistono e le loro azioni hanno effetti distruttivi sugli stessi uomini. E sugli dei. Non si vedono, ma si muovono sinuose, a volte tempestose come il vento di borea, e circondano i corpi con il loro abbraccio opprimente e indissolubile. Sussurrano parole inquietanti che non si sentono, ma si percepiscono, che arrivano diritte al cuore generando insicurezza. Angoscia.

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E Paura. Apollo non capisce, sente un peso esagerato opprimergli il petto. Gli sembra di non avere più certezze, è assalito dal dubbio e sente che la sua condizione sta mutando, che si sta trasformando: è diventato uomo. E piange. Le tre sorelle hanno terminato il loro lavoro. Possono fare ritorno alla casa del padre, che è nell’alto dei cieli. Gli dei, tutti, sono stati trasformati in uomini e costretti ad abitare una terra lontana, lambita dal mare a occidente, dove muore il sole, ma all’interno, verso oriente, è deserta e inospitale, attraversata da un fiume e da un mare interno. È in questo posto che i nuovi uomini sono costretti a piegare la schiena per ricavare dalla madre terra il necessario per sopravvivere. Alcuni di loro sono diventati pastori, altri pescatori, altri ancora, come Afrodite ed Era, vendono i loro corpi. Tutti si trovano in questa misera condizione quando incontrano colui che laverà la colpa. Maggio 1309, abbazia di Sant’Antoine a Clerville Guillaume de Nogaret è accasciato e il capo copre il manoscritto. La stanchezza si è impossessata del suo corpo, ma non della sua mente che ora è attraversata da un sogno. O da un incubo. Guillaume vede l’arcangelo Gabriele venirgli incontro, minaccioso e incalzante con la sua spada. È furente l’angelo, inveisce contro Nogaret perché sta perdendo il suo tempo dietro a un manoscritto empio che deve essere distrutto. “Salva la tua anima”, riesce a sentire prima di risvegliarsi di soprassalto, sudato e febbricitante. Una frase che lo urta nella sua indiscutibile banalità. “Questa storia è falsa”, si dice. “Ma non è forse falsa la lancia di Longino, o il legno della vera croce, o tutte le reliquie sparse in giro per il mondo?”. Si solleva a fatica per uscire dalla stanza. Vuole respirare, trovare sollievo. Ma un rumore lo blocca. Non è possibile che dei cani, presumibilmente neri, raspino alla porta. Nogaret possiede due cani, e non sono neri. Non sono loro. Non è possibile che il diabolico – come lo rincorre, questa parola – lo attragga fino a fargli perdere il senno. Non è possibile che abbia perso tempo, che abbia corso rischi mortali, che sia mancato al suo dovere di cancelliere. Che la sua sana ferocia si sia imbastardita fino a questo punto. Si chiede di colpo, e per la prima volta, che cosa abbia instupidito la sua mente e rammollito le sue braccia. La successione di silenzi e stranezze, così numerosi negli ultimi, mesi, si illuminano d’improvviso e gli bruciano gli occhi. Non è possibile

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e basta. Eppure è accaduto. Accade. E quei maledetti cani sbattono i musi contro la sua porta, sanguinando per la rabbia. Ma non sono i suoi. Ne è sicuro. Non ha senso. Non sono fruscii. Vede la bava che riga i battenti. E le puttane che lo chiamano con nomignoli che non ha mai sentito. E i nani che lo sbeffeggiano, chiedendogli di uscire. Di mostrarsi. Folle di deformi si strusciano contro i suoi fianchi. Lo assediano, lo contaminano. Gli appestati di tutto il mondo si sono riuniti e gli gettano addosso gli stracci infetti. Non è possibile. Ricorda perfettamente il momento in cui ha accecato Antoine Deloubianne, perché aveva preso a calci il suo cane più giovane. Ricorda il guaito della bestia e l’urlo di Deloubianne. Lo ha accecato con le sue mani, guardandosi poi fieramente attorno, godendo dello stupore dei suoi uomini. È allora che hanno iniziato a temerlo. E allora che il re ha cominciato ad amarlo. E a fidarsi di lui. Cosa gli ha iniettato quel rotolo maledetto? Pagine per rovistare nel culo e infilarle nelle bocche dei templari. Rutti diabolici, ancora, ancora diabolici. Questa melma, questa merda che gli esce dalle maniche e non riesce ad arginare. Non ha senso. Nogaret è forte, sempre presente a se stesso, impermeabile ai sospiri del demonio, figurarsi, quel sodomita che si azzanna da solo, quell’invenzione degli imbecilli. Come Dio. I pagani, almeno… Eccolo che torna. Sì, il veleno torna indietro, gli inonda la bocca e le labbra sono chiuse. Le gote stanno per scoppiare. Non ha senso. Qualcuno deve morire. Qualcun altro. Maledetti cani. Sono neri. Non sono i miei. Dove sono i miei? Perché non mi proteggono? Chi li ha addormentati?

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PARTE SECONDA


Cartagine, 240 d.C. Ultimi giorni di Tertulliano. “Portentoso. Ma come è arrivato fin qui?”. Tertulliano fa una smorfia, si sente eccitato. È rientrato da poco tempo. È andato al porto personalmente per ritirare le opere che aveva richiesto, arrivate tre mesi dopo. Negli ultimi giorni sentiva salire l’irritazione. Tra quei libri ce n’è uno che non aveva sollecitato. Non avrebbe potuto: non lo conosce. Non sa perché si trovi tra quelli che invece conosce, almeno nei titoli. È stanco. Da molto tempo è stanco. Non si sente bene. I medici non hanno scoperto nulla. Uno di loro ha addirittura scherzato: “Troppa passione, maestro, La passione è fuoco. E il fuoco brucia”. Tertulliano non ha il senso dell’umorismo. Ha risposto con un grugnito. Eppure sa di non stare bene. E ora troppe cose lo infastidiscono. Per esempio quelle donne con abiti sfarzosi che ha visto mentre rientrava a casa lentamente. Le ha guardate con una riprovazione che non ha fatto nulla per nascondere. Anzi. E quelle hanno sghignazzato. È sicuro che almeno una sia un’attrice. A dire il vero certe cose lo hanno sempre infastidito e non lo ha mai nascosto. Neppure pubblicamente. Ma ora basta un’inezia, un dettaglio, una sillaba. Tertulliano ama il suo dio, ora non è più sicuro di amare anche l’uomo. Forse lo infastidisce. Ha mangiato, se si può definire mangiare una fetta di formaggio e un bicchiere d’acqua. Non ha mai mangiato molto. Mangiare è un lusso. Nutrirsi una necessità che bisogna evitare di trasformare in lusso. Poi si è seduto e ha dato un primo sguardo ai libri. Ha notato subito ciò che non doveva esserci. Pelle marrone e, dentro, un rotolo sgualcito. Scritto in greco, lingua che non usa da molto tempo ma che conosce benissimo. Tertulliano ha cominciato a scorrere le righe. A leggere quello prima degli altri. Anche la curiosità è un peccato, ma forse è l’unico che Tertulliano commette scientemente. Legge sino alla fine, senza interruzioni. Passa la notte al debole lume e la mattina lo trova ancora lì, chino sul tavolo. Così lo trovano anche i servi, che addirittura temono il peggio. Poi lo sentono sussurrare: “Strabiliante. Eschifilo?”, Quando li vede, con un cenno li manda via e si china nuovamente sul manoscritto. Ora la stanchezza sembra averlo lasciato, malgrado la notte insonne. Si domanda chi possa avergli inviato quel manoscritto, e perché. Per natura è sospettoso, diffida persino di un fiore che cresce. Se non avesse trovato la spiegazione in Dio il suo intelletto si sarebbe

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macerato fino allo sfinimento. Non trova interpretazioni plausibili. Ma certo non può essere un’idea del popolo. Un attore forse? Una disgustosa messinscena per prendersi gioco di lui? No, anche questa ipotesi non lo convince. Perché avrebbero dovuto immaginare la sua curiosità per quella storia? Eppure la curiosità è forte. Gli abbacina la mente. Gli occhi ora sono accesi, e amici e nemici (soprattutto) conoscono quella luce. Tertulliano ha la sensazione di vivere altrove, in un mondo perduto. “Zeus è morto”, sussurra ancora. Si agita e qualcosa si agita dentro di lui. Rimane a lungo a pensare, immobile. Poi dice ancora, a se stesso: “Perché no? Uno scherzo per un buon fine. Il migliore. Il più sacro. Certo, teatro, e perché no? La pentola può rovesciarsi addosso al demonio. Io non vedrò più e non sentirò più, ma qualcuno troverà. Interpreterà. Si devono capire i segni del Signore. E rispettarli. Il cammino di questo….imbroglio? Provvederà lui. A sua maggior gloria”. Ha deciso e comincia a scrivere: “Potente Zeus, Dio di tutti gli dei, Signore assoluto del mondo…”. Sohag, Egitto. Monastero Bianco, 439 d.C. Shenouda definirebbe la propria risata omerica, se non detestasse dal profondo del cuore e della mente tutto ciò che sa di pagano. Una risata larga, chiassosa e grassa, invadente. Ma simpatica, malgrado tutto. Ormai è vecchio, ma sa che invecchierà ancora nel pieno delle forze, dei muscoli e della volontà. “A Efeso mi invitasti per i miei muscoli, Cirillo. E in fondo ti chiedevi, come se lo chiese Nestorio, cosa ci facessi nelle sale di quel concilio. Io, un monaco copto. Con poco cervello”. “Questo non lo pensavo”. “Ma sì che lo pensavi, non ti biasimo. E non ti biasimavo allora. In fondo diedi proprio una dimostrazione di forza fisica”. E la sua risata fa sorridere Cirillo, che sapeva da tempo di dovere una visita al profeta, all’archimandrita del Monastero Bianco. Colui che a Efeso baciò in fronte ponendogli il velo sul capo. Ripensa a quei momenti: quando Nestorio entrò in aula, su una sedia era posato il libro dei Vangeli. L’empio spostò il libro e si sedette. Shenouda afferrò il libro e con quello colpì Nestorio sul petto. Nessuno pensò al sacrilegio, tutti erano certi che il sacrilegio lo avesse commesso Nestorio accomodandosi disinvoltamente su quella sacra sedia. Shenouda gli urlò in bocca: “Vuoi che il figlio di Dio sieda per

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terra e tu sul trono?”. Nestorio, sprezzante, gli rispose: “Tu sei solo un monaco, cosa fai in questo Sinodo?”. Fu per questo che Cirillo gli pose il velo sul capo. Lo nominava così archimandrita del monastero. Ora siedono in un’ampia sala. L’ospite non può non osservare, alle spalle dell’archimandrita, l’icona che raffigura Cristo e san Mena. Il braccio di Gesù è posato sulla spalla di Mena. Cirillo ricorda che, quando si sono incontrati, poche ore prima, anche Shenouda ha posato il braccio sulla sua spalla. Una strana coincidenza. L’egiziano è molto più alto del vescovo di Alessandria e la sua figura incombe come un gigante pagano. Hanno già mangiato pane e verdura, come tutti nel monastero. E Cirillo ha potuto verificare che ciò che si dice, malgrado la lontananza, ha qualcosa di vero. Shenouda gli ha permesso di restare mentre stabiliva la punizione per una monaca. Era accusata di avere sedotto un’altra monaca. Cirillo non è sorpreso: è uno dei maggiori problemi del Monastero Bianco. Gliene ha parlato lo stesso Shenouda in una lettera. Le hanno trovate avvinghiate, nude, carne sulla carne: proprio i loro gemiti hanno attirato i guardiani che l’archimandrita ha sguinzagliato ovunque. Il monastero è una città con quattromila monaci. Le due giovani, anzi giovanissime, non hanno protestato. A Shenouda hanno detto che addirittura non volevano staccarsi l’una dall’altra. Cirillo non confesserebbe mai, a nessuno e per nessun motivo, il brivido che gli ha attraversato il basso ventre al racconto dei guardiani. Shenouda invece è rimasto impassibile: solo le pupille si sono ristrette, preludio spesso ai suoi scatti di violenza. Ha deciso che la monaca più grande deve essere frustata. E non mangerà per cinque giorni. Sette giorni di clausura e in questo arco di tempo niente cibo per la più giovane, benché, secondo il racconto dei guardiani, fosse quella che emetteva i gemiti più alti. Ora Shenouda e Cirillo sono soli, e l’archimandrita guarda intensamente il vescovo. “Non è questo il problema più grande. Vedi quei sacchi là in fondo? Sai cosa contengono? Amuleti, talismani, teste di serpenti, denti di coccodrillo. Il paganesimo è una foresta, un immondo acquitrino, dove le bestie più orrende diventano oggetti da adorare”. “Non sprecare la tua rabbia con me. Non siamo diversi, abbiamo bisogno anche noi di immagini”. “Parli di rabbia? Tu? Quanto si dice di te! Dimmi, Cirillo, come e quando decidi di essere feroce o tenero? Dalla notte precedente o dall’alba? Sai

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cosa diranno di te quando morirai? La sua morte allieta chi resta, ma se possibile scoraggia i morti. E molti, moltissimi, spereranno che Dio, per la tua impareggiabile fedeltà, non ti rimandi fra i viventi”. “Anche tu?”. “Io no. Lo sai” . Shenouda tace per qualche istante. Poi riprende: “Ricordi le serate a Efeso? Mi parlasti una volta, per pochi istanti, di un manoscritto che Teofilo, tuo zio, inseguiva disperatamente”. “Ricordi anche questo particolare? Sì, è vero. Gli ho dato la caccia anch’io. E l’ho perso. Per colpa di un altro egiziano, guarda caso. Avete sempre un ruolo nelle mie vicende”. “La nostra è una civiltà molto antica. E preziosa. Voglio confessarti una cosa: ho fatto grattare via dai miei monaci tutti i geroglifici sui muri dei templi. Ho fatto la cosa giusta, ma mi sono chiesto se Dio lo avrebbe davvero preteso. Non sai ciò che dicevano quei caratteri. E forse non lo saprà più nessuno”. “Non ti tormentare. La crudeltà, se non la giustizia, è necessaria”. Shenouda sorride. “So a cosa pensi”. “Non rispondermi con quell’aria saccente, Shenouda. E non alludere a storie che non conosci. Chi mi riterrà colpevole sia maledetto”. “Ti irriti contro di me? Non puoi. Ma voglio riparare al mio errore, se ho acceso la tua ira”. L’archimandrita si alza e si dirige verso la parete opposta. Molti libri e rotoli sono disposti in ordine e Shenouda ne prende uno con gesto sicuro. Torna al tavolo e lo porge a Cirillo. Il vescovo di Alessandria legge con calma, nel silenzio di Shenouda, poi alza gli occhi ed esclama: “Ma è quel maledetto manoscritto, però in latino”. “Già”. E di nuovo rovescia sul vescovo la sua prorompente risata. “Perché ridi?”. “Poi ti dirò. Ora mi gusto la tua sorpresa”. “Come l’hai avuto?”. Shenouda scuote il capo. “Non saprei dirtelo. So solo che non ha mai varcato il mare. Solo questo mi disse il monaco che lo portò qui chiedendomi di rimanere per sempre nel monastero. È morto l’anno scorso. Mi disse solo questo: non ha mai varcato il mare”. “Da dove veniva il monaco?”.

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“Da Cartagine. Rifletti, vescovo. E collega. Ma ora, un po’ di stregoneria. Leggi dove trovi quella foglia. Là dove si parla di nostro Signore”. Il tempo trascorre e il vescovo non ha fretta. Poi solleva lo sguardo: “Eschifilo non sarebbe mai stato un allievo di Omero. Omero lo avrebbe ucciso”. Shenouda è d’accordo col vescovo. “Non lo era, infatti. Ma non era neppure greco. O almeno non lo era chi ha scritto quella parte”. “Lo so benissimo. Era il senso della mia caccia”. “Forse non è stata vana. Stregoneria, ti dicevo. Eccoti un esempio”. L’archimandrita estrae dalla manica una sostanza grigia, la riscalda facendola accarezzare dalla fiammella di una candela e poi ne sparge un velo sul bordo del manoscritto. Dopo pochi istanti sotto il bordo compaiono due parole. Sono chiarissime e Cirillo può leggerle senza sforzo: “Res ridicula”. Cirillo rimane assorto mentre Shenouda, che non ha un’indole priva di difetti, lo guarda soddisfatto. Quando Cirillo, riaffiorando dai pensieri, riporta lo sguardo sul rotolo, le due parole sono scomparse. Alessandria, dimora del patriarca, 442 d.C. “Bene, bene. Cosa c’è su questo tavolo? Strano apparecchio, vero, patriarca? Lo chiameremo alambicco. Shhh, piano. È uno strumento di magia. Persino voi potreste essere torturato per questo. Voi che torturate con piacere. Non solo stregoni, giusto? Anche ebrei, nestoriani, novaziani. E pagani, s’intende”. Bizzarro. Cirillo sogna, ma il sogno è così reale da infastidire il vescovo di Alessandria. E chi è quell’uomo che cammina sulla sua lunga barba che gli arriva quasi al petto, come su una distesa di neve? Affonda quasi, ma è ben ritto. Comunque procede lentamente verso il basso, verso il petto sudato. “Chi sono? Sinesio. Ero assorto nei miei studi e nelle mie incombenze, vescovo come voi, e poco prima di morire, proprio qualche giorno prima, mi hanno detto che Ipazia, la mia maestra, è morta. Dilaniata, scorticata, bruciata. Ma non importa, quel che è fatto è fatto. Pietro il lettone sarà un criminale e voi un santo. Onore che non mi toccherà, per fortuna. E non preoccupatevi, questo è solo un sogno. Io sono esperto di sogni, una materia che la mia divina maestra, la mia amata maestra… Pensate, la mia ultima lettera l’ho inviata proprio a lei. Ero su un letto, come voi ora, piangendo i miei figli morti, e sollecitavo il suo interesse per ciò che mi

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accadeva. Non mi ha risposto. Ora, dove sto ora, so perché”. Cirillo vorrebbe sollevarsi. Anche con uno sforzo immane. Ma non ci riesce. Vorrebbe dire che lui è innocente, almeno di questo delitto. Non ha ordinato di uccidere Ipazia. Certo, la sua fama era insopportabile e non è esistito un santo che non sia stato lambito dall’invidia. Però… “Shhh, patriarca. Non ha più importanza. Quand’anche foste innocente di questo non lo sareste per null’altro. Dunque, tacete. Ricordate ciò che dicevate pochi minuti fa?”. “Cosa dicevo?”, chiede muto il patriarca di Alessandria. “Cenavate. Lieto che Pulcheria vi avesse ancora una volta manifestato la sua adorazione per voi. C’erano emissari dell’imperatore. Era… era meraviglioso. Persino le vostre guardie, i barellieri, i parabolani, erano lieti. Avete concesso a tutti di bere. Serata di amene concessioni. E alla fine non avete resistito. Come può resistere Cirillo alla virtù di scagliarsi contro gli eretici. Ah, a proposito, sapete che io non credo alla resurrezione della carne? No, non lo sapete, è un’altra storia. Diversa da quella che racconta il manoscritto che avete sventolato, come carta diabolica, manufatto del demonio, tra i resti delle carni e le lische dei pesci”. “No, no”, vorrebbe dire Cirillo al vescovo di Tolemaide. “No, quel manoscritto è una parodia. Scritta ad arte per denigrare la santa religione. Per questo ne ho parlato. Ho urlato, sì. C’è un’altra lunga storia dietro… A cosa possono arrivare i nemici della Chiesa. Dobbiamo reagire. Dio lo vuole”. Neppure un suono esce dalla bocca, ma l’uomo annuisce. Per lui le parole di Cirillo sono chiarissime. E così sarà sino alla fine. “Lo ripetete troppo spesso, badate. Ma com’è lunga la vostra barba. Patriarca, devo dirvelo, non è neppure pulita. Si fanno strani incontri qui”. “La siccità. Non possiamo sprecare l’acqua, devo dare l’esempio”. “Bene, vi concedo anche questo, san Cirillo. Dicono che siete violento, intrigante. Ma anche intelligente? No. Avete considerato l’abbondanza di numeri in quel manoscritto? No, evidentemente. Come? Vero, voi non avete letto l’originale. Solo la contraffazione. Non sapete nulla del racconto autentico. Ecco, io sono esperto anche di matematica. La mia maestra…. Patriarca, se sapeste cosa dicono talvolta i sogni. E cosa dicono gli astri, che sono numeri a loro volta. E anche dei, lo sapevate? Il firmamento dell’Olimpo. Tutti i dodici dei, compreso qualche estraneo che i miti non contemplano. Gli astri saranno anche gli dei del Paradiso, credetemi. Buon

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Gesù, quanti segreti, inviolabili per voi, ma non per me, avete cancellato per sempre scorticando una donna”. “Non sono stato io”. “Giusto, perdonate. Quell’assassino di Pietro. Pietro, che strano, lo stesso nome comincia e poi finisce. Crea e uccide. Ma anche questa è un’altra storia. Dicevo del corpo perfetto del cielo. Delle straordinarie analogie fra le cose di giù e le cose di su. Perdonate il discorso volgare, ma così potete capire agevolmente. E questo apparecchio che chiameranno alambicco servirà, state sicuro che servirà. Dobbiamo unire cielo e terra, non credete? Come? Ognuno per la parte che gli compete”. “È giusto”, tenta di sussurrare Cirillo mentre il vescovo di Tolemaide si lascia cadere sul suo petto e poi tenta quasi di scavare verso il cuore. “Ma dov’è? Deve esserci. Non può non esserci”. Cirillo vorrebbe spostarsi. Piegarsi su un fianco per coprire la parte del cuore. Ma è difficile, impossibile. Per sua fortuna Sinesio si ferma e ride. Ride in maniera sfrenata. “Che cosa può un bicchiere di vino, vescovo. Uno solo, per chi coltiva la temperanza. Un disastro. Vi sentite morire? Non sarò io a uccidervi, non conosco quest’arte. La mia maestra… Scomparite in pace, avete pochi mesi di tempo. Peccato che non conosciate quell’opera come si converrebbe. E vi regalo una profezia: quando vi sveglierete, il vostro cuore sarà ancora lì, il manoscritto no. Nemmeno quello distorto, tagliato, imbrattato da un imbroglione e ritrovato da un esaltato. Nulla. Puff. La storia si scioglie, l’arte si rigenera. Ciò che era non sarà. Possibile? La potenza degli dei, san Cirillo, è la potenza degli uomini, quando gli uomini vogliono fortissimamente. Conoscete guerre che non si raccontano? Peccato, ancora peccato. Eh, alambicchi, stregonerie, astri, numeri. Quel manoscritto riposerà altrove per molti secoli. Non tentate di rintracciarlo. Misteri, patriarca. La mia maestra…”. Antiochia, 1135, stanze private di Alice di Gerusalemme Il siniscalco è sudato. Respira affannosamente. Alice è esosa. Forse lo era anche con Boemondo, ma il principe era spesso in guerra. E in pace era sicuramente distratto. Alice invece aveva occhi mobilissimi e passava spesso in rassegna la guardia reale. Comunque sia, Boemondo è morto da cinque anni. Il siniscalco muove gli occhi lentamente. Sembra impaurito. Si rilassa

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quando nota che Alice, accarezzandogli comunque i peli del petto e poi, quasi involontariamente, quelli del pube, guarda altrove. Capisce che i pensieri della principessa ora sono distanti dai suoi sussulti. Ma naturalmente tace. Non gli è consentito chiedere qualcosa. Qualsiasi cosa che non sia un desiderio da esaudire. “Folco, ti sono simpatici i greci?”, chiede di colpo la principessa, a voce bassissima. Il siniscalco è assalito di nuovo dal timore. Non è abituato a quel tono. E non ha alcun senso che la principessa lo interpelli su questioni politiche. “Tranquillo, ti ho chiesto solo se i greci ti sono simpatici”, riprende lei. Come se gli avesse letto nel pensiero. “Potrei chiederti ugualmente se ti sono simpatici i franchi, ma questo lo so perché sei un franco. Voglio dire, gli uomini del re”. “Voi siete la sorella del re”. “Intendi dire che devono esserti comunque simpatici”. Il siniscalco tace. La principessa sospira. “Hai ragione”, aggiunge: “La simpatia non c’entra. Alessio non mi è simpatico, ma questo è irrilevante. Non mi è simpatico neanche il figlio. E non importa neanche questo. Non sposerà Costanza. Dimmi, piuttosto, cosa si dice di me?”. Il siniscalco capisce che anche il silenzio è un sovrano limitato. “La città apprezza la vostra determinazione. E sa che siete stata una moglie eccezionale”. “Mi stai dicendo, in parole povere, che mi reputano intrigante e magari cinica?”. “No, principessa”. “Beh, hanno ragione. Ma non si può essere altro in una città come Antiochia che sembra attirare come il miele tutti i pretendenti della terra. Chi non vuole governare da qui a Odessa e naturalmente a Gerusalemme? Sono felici e non vedono l’ora di incontrare basilischi, capricorni, chimere, draghi. Considerano miracoli persino le invasioni di cavallette, a parte quelli che hanno dovuto affrontarle personalmente. Chi non vuole estendere la sua influenza come un fiume che sgorga impetuoso dalle montagne?”. Alice si solleva leggermente e guarda le labbra umide del siniscalco. “Costanza non è più una bambina, ma dubito che sia già una donna. So cosa si dice: che la tratto come merce di scambio. So anche che mi hanno definita volgare. Eppure, Folco, credimi, lo faccio anche per lei”.

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Il siniscalco ha idee precise sul potere. E giudizi fin troppo netti per i suoi protagonisti. Stima prudente non manifestarli. “Il nuovo re si chiama come te. E gli piacciono i franchi. Non ama i greci e neppure i siciliani. Ma guarda quanta gente! Non trovi che Antiochia sia un piccolo mondo che racchiude tutto il mondo? E dimenticavo i chierici. Hai già visto Rodolfo di Domfront? Ha un’aria truce, si porta appresso le sciagure. Sono certa che la rissa è il suo elemento. Altri intriganti. Prevedo anni disastrosi, Folco”. Gerusalemme, 1139 La città santa vive un momento di splendore e tranquillità. Le strade sono sicure e gli abitanti si dedicano alle loro attività con fervore e serenità, convinti da una causa infallibile. Tutto ciò che vive e si agita l’ha voluto Dio. Il sorriso del fabbro non è più forzato di quello del funzionario. Il ladro ha più sensi di colpa che altrove. Le prostitute nascondono una croce nel petto e non tentano di nasconderla quando qualcuno chiede e paga la loro compagnia. Il male, che non può essere eliminato, ha un segreto rispetto per il bene. Non si può dire altrettanto per il resto del regno, costantemente minacciato dagli attacchi di Zengi, l’atabeg di Mossul e Aleppo: una spina dolorosa. Ma ciò che più preoccupa il re Folco è la litigiosità dei principi cristiani, che stringono e rompono alleanze con disinvoltura e cinismo. Per il momento il buon sovrano riesce a garantire la sicurezza, contando, oltre che sul suo potente esercito, sull’ordine dei cavalieri del Tempio. La distesa di stoffa bianca punteggiata di rosso, dove, riflettendosi, i raggi del sole sembrano più luminosi, ha un effetto certo sull’umore del popolo. E Folco crede davvero che lo Spirito santo abbia preso possesso delle ampie fronti dei cavalieri: l’iscrizione è benedetta, Astarotte non può comunicare nulla di eccitante al suo signore. Ben altro ha da raccontare volando oltre i soffitti dei palazzi dei principi, dove le luci sono basse, le parole sussurrate, le decisioni perlopiù contrarie ai disegni del re, domani se non oggi. Ma Folco non ignora che ogni giorno ha il suo ingombro e il minimo è sempre il massimo che Dio concede. Maestro dell’ordine è il borgognone Robert de Craon, che ha plasmato lo stile dei cavalieri: implacabili con il nemico, umili con l’ultimo dei servitori.

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De Craon è soddisfatto del lavoro svolto in questi anni e ora, nel periodo di quiete, può dedicarsi a un compito che gli sta ugualmente a cuore: catalogare e leggere i libri della grande biblioteca dell’ordine. Qualche giorno prima si è trovato fra le mani un manoscritto latino, un poema epico di un autore sconosciuto che racconta la guerra di Troia. De Craon è affascinato. Mai in vita sua ha sentito parlare di Eschifilo, presunto autore greco, e tantomeno della sua opera, “Inviolata Ilio”, che, come tutti i poemi greci, inizia con la preghiera al dio perché infonda l’ispirazione.

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INVOCAZIONE O potente Zeus, dio di tutti gli dei, signore assoluto del mondo, infondi coraggio e forza nel mio cuore, affinché possa cantare le gesta misere dell’atride miceneo in terra di Ilio. Intercedi presso il tuo diletto figlio, il nobile e divino Apollo, affinché io possa raccontare, con la certezza di essere creduto, le infelici e atroci imprese dei re achei contro il popolo dell’intrepido e sempre giusto Ettore… Il manoscritto latino fa parte del tesoro del Tempio, ricevuto in eredità, insieme con altri oggetti e reliquie, da Hugues de Paynes, il primo Maestro, che ha amministrato l’ordine prima di lui. Era custodito in uno scrigno di legno, insieme a un biglietto lapidario scritto di pugno – de Craon ne è certo – dal vecchio de Paynes: “Da custodire, ma non rivelare”. Nient’altro. De Craon è perplesso, non capisce il bisogno di tanta segretezza per un poema epico sicuramente interessante, ma apparentemente innocuo, almeno per gli interessi dell’ordine. Si parla della guerra di Troia, un argomento celebre. La storia è diversa da quella cantata da Omero e non si conclude con la caduta della città di Priamo. Si parla anche di un’altra guerra, combattuta dagli dei greci, che porta alla capitolazione del pantheon dell’Olimpo a favore del Dio dei cristiani. A un tratto de Craon si ripete ad alta voce le parole che pensa e si prende la testa fra le mani. “Dove è scritto che arriva il Dio dei cristiani? Sto andando troppo oltre? Questa è una mia interpretazione”. Che diventerebbe un’assurdità se attribuita a un antico autore greco. Per il Maestro la riflessione diventa la spira di un serpente. “È forse questo il segreto da nascondere?”, si domanda. “E comunque chi può avere interesse a trarre profitto dalla libera circolazione di questo manoscritto? Non certo i cristiani, tantomeno gli ebrei, che adorano lo stesso Dio. I musulmani? E per quale motivo? Non vedo quali vantaggi potrebbe portare al popolo degli infedeli. E i greci? Già i greci, e magari il manoscritto originale doveva essere scritto nella lingua di Omero. I greci dunque”, riflette de Craon”, anche se la comunità greca di Gerusalemme è ben poca cosa. È vero però che nel principato di Antiochia costituiscono la maggioranza della popolazione e, segretamente, sono ostili ai cristiani, devoti solo al Basileus di Costantinopoli che ritengono il loro sovrano

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legittimo. Questi greci potrebbero trarre giovamento dalla divulgazione del manoscritto? “Improbabile”, conclude de Craon. “Comunque le ultime volontà del vecchio Maestro saranno rispettate: il manoscritto verrà custodito come una rivelazione”. Antiochia, luglio 1140. Guarda il cielo. Il sole gli chiude gli occhi. Vorrebbe bere il calore: sarebbe il vino migliore. Rorgo Fretellus non ha nostalgia del suo paese. La Piccardia è rapinosa e lui la ricorda volentieri, ma niente di più. Le immagini sbiadiscono, i raggi del sole sono più veloci del tempo. E lui vorrebbe una veste di sole. Non è solo questo. Rorgo si sente cittadino del mondo, e sovrano nei luoghi dove non deve accumulare mantelli sulle spalle per ripararsi dal freddo. Ha più bisogno di luce che di cibo. È arrivato ad Antiochia una ventina d’anni prima, spinto irresistibilmente dal suo spirito d’avventura. La crociata è stata una leva potente: vedere, osservare, forse capire un mondo barbaro, misterioso. In cuor suo, ma non ha mai espresso pubblicamente l’idea, non è rimasto entusiasta per l’ingresso ad Antiochia di Boemondo di Taranto, ma in fondo cosa può importargli? Nelle cose politiche c’è un cuore nero. E Rorgo non ama ciò che non è illuminato. Rorgo di Nazareth, come ormai lo chiamano, si sente viaggiatore, scopritore. Come il nocchiere di una nave veloce che procede in un mare sconosciuto e ancora più rapida quando gli enigmi sono sciolti, lui ha saputo ciò che c’era da sapere. Più in là potrebbero esserci mostri sanguinari, tempeste rovinose, terre pericolose, ma questo non è un male. Conoscere, conoscere: è la sua stella, che brilla di giorno. Cose, luoghi, persone. Con tutto quel che significano. E provocano. “Bene i greci, più complicati i giacobiti”, si dice spesso. È andato e tornato. E di nuovo. Dalla Galilea all’Oriente conosciuto, e dall’Oriente alla Galilea. Sa che la sua guida per i luoghi sacri, che ha scrupolosamente visitato, è molto apprezzata. Rorgo ha dedicato tutto l’impegno possibile a un lavoro che è il suo piacere. E non ha inventato nulla, neppure i dettagli nascosti dalle barriere dell’epoca. Confrontare, scegliere, comporre, è il suo mestiere. Rorgo odia inventare, si sente un compilatore e non un poeta. Un cronista attento e obiettivo. Diffida dell’immaginazione. La mitologia, l’impero mentale dei pagani, gli suscita il

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riso. Ma è sufficientemente intelligente per capire che la cultura si contesta, non si elimina. E può sempre capitare che faccia capolino la curiosità. Di luogo in luogo, di biblioteca in biblioteca, da cristiani a musulmani, da greci a ebrei, e da cristiani a cristiani (“Non tutti sono d’accordo su tutto”), ha scoperto, visto, catalogato. Anche un manoscritto capitato chissà come nelle mani di un nestoriano – è sicuro che lo fosse – incontrato in una taverna malfamata. Ha un brivido al ricordo. Cosa ci facessero lì entrambi non avrebbe saputo dirlo. Rorgo sa che l’essere umano ha bisogno di veleni. Bisogna solo centellinarli, come una medicina. E pazienza se qualcuno la pensa diversamente. Forse ciò valeva anche per l’altro. Ha bevuto. Hanno bevuto. Cosa che capita raramente, non ha calcolato la dose giusta. Probabilmente ha ecceduto. Ecco perché il ricordo è già scolorito. E anche l’immagine del nestoriano, se tale era, sembra fuggire. Cosa aveva detto? E perché avevano fatto amicizia? Per Rorgo non è certo un problema stringere amicizia. Anzi, è doveroso. E non fa alcuna fatica. Però in questo caso non ricorda nulla. Solo qualche sensazione che, deve ammettere, non è piacevole. Eppure era solo il racconto di un viaggio in Persia. E i dettagli? Ci pensa su. Ecco: dopo l’uscita dalla taverna, il tragitto verso la casa del nestoriano, la sosta nell’atrio, il saluto, e il ritorno nella sua modesta abitazione, si è ritrovato nelle mani quel manoscritto. Rorgo è un certosino. E guadagna quel che gli basta per una vita decente. Ha sempre amato viaggiare e il piacere, fin dalla più grande vittoria dei cristiani dal tempo della Resurrezione, ha coinciso col mestiere. Seduto in una panca, mentre attende di essere chiamato al cospetto di Raimondo, si rivede di fronte al Santo Sepolcro. Ripercorre di nuovo Rue de Paumiers, osserva ancora i pellegrini che comprano i rami di palma. È lì che ha avuto l’idea di una guida ai luoghi sacri. Quelle folle erano ignoranti, appassionate ma ignoranti, ferventi ma ignoranti. Lo sono ancora. Hanno bisogno di indicazioni. Da allora ha viaggiato ancora. Ininterrottamente. Ha aggiornato la sua guida, l’ha perfezionata, con mille dettagli e aneddoti. Una autentica attrattiva di per sé. Scritta e riscritta, copiata e ricopiata, è comparsa in ogni angolo del Grande Cammino verso Gesù. Rorgo non è un religioso, non è un governante, non è un nobile, tuttavia è un uomo importante. Raimondo lo conosce, non lo onora della sua amicizia, ma fa intuire quantomeno il rispetto. E già altre volte lo ha aiutato. Per questo Fretellus è qui.

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Servono nuovi aggiornamenti. Sa che la cerchia militare di Raimondo ha messo a punto mappe più precise. Le rotte si sono moltiplicate, così i punti di accesso e quelli di ritrovo, di ristoro e di scambio. A Rorgo quelle mappe sarebbero molto utili perché intende indicare i nuovi servizi di accoglienza. Stavolta non vuole tramiti, farà appello direttamente a Raimondo. È tranquillo e confida in una risposta favorevole, ma non ignora certo la situazione di Antiochia. Da cronista qual è, la definirebbe perennemente in bilico. Troppa gente, troppi poteri, troppi desideri. E troppe spie. Le mappe sono il terreno militare. E se Raimondo diventasse più sospettoso di quanto già è (per necessità, bisogna ammettere)? Ma ha deciso, chiederà e si accontenterà di quel che potrà ottenere. Inutile promettere qualcosa in cambio, Rorgo non ha nulla da offrire. Si limiterà a un omaggio. Quel manoscritto che il misterioso nestoriano gli ha lasciato nelle mani. Rorgo ci ripensa. Raramente si è ubriacato in quel modo. E chi era quell’uomo? “Basta”, si dice. “L’aria di Antiochia mi fa male”, sorride. Inutile aggiungere complotti immaginari a quelli reali. Il numero è già altissimo. E’ solo un manoscritto. Lo ha osservato, ha letto qualche frammento, ha verificato che si tratta di un’antica leggenda. Rorgo è colto, quanto è ammissibile per un franco che vive di commercio. Una storia intrigante. Ma poiché i suoi interessi sono esatti, ha osservato il manoscritto anche da un’altra angolazione. Ha stabilito che è originale. O almeno è stato scritto molto tempo fa. Non sa valutare con precisione, ma sicuramente è qualcosa di prezioso, almeno per chi sa apprezzare questo genere di cose e ha denaro a sufficienza per permetterselo. Raimondo non è solo un energico comandante, conosce il piacere della pausa rischiarata dall’arte. Perché non offrirglielo? Sa anche che il principe è giusto: se il manoscritto varrà qualcosa lo ricompenserà senza bisogno di pretese. Persino oltre una mappa. La porta della grande arcata che immette nelle stanze di Raimondo si apre. Una guardia fa un cenno a Rorgo Fretellus per ammetterlo alla presenza del principe. Antiochia, agosto 1140. “Attento, principe di Antiochia. Tutti gli dei muoiono. Tutti. Anche il tuo”. Il volto dell’uomo è tumefatto. La voce roca, parla come se la strappasse alla gola. Il sangue è rappreso sulla fronte e sulle gote. Le labbra sono

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ingrossate e dagli angoli cola un liquido verdastro. È piegato sulle ginocchia, incatenato. Raimondo ha visto altri esagitati. E per tutti conosce una sola punizione. Non sa perché ha chiesto che questo venisse portato davanti a lui. Forse perché si ignora dove sia nato, di chi sia figlio, da dove provenga. Potrebbe essere persino musulmano. Ma qualcuno, vicino a Raimondo, ha pensato ai bizantini. Guardandolo con disprezzo, Raimondo gli ha posto le domande più ovvie. Ha ricevuto sempre la stessa risposta: “Non lo so più. Sono solo un uomo”. Una risposta stupida, ma che gli ha dato un indizio. Ciò che ha mosso quel miserabile individuo è sicuramente un motivo religioso. Il fanatismo ha armato la sua mano mentre la levava contro di lui. Eppure i suoi movimenti erano lenti. Chi aggredisce, in genere, è più rapido, determinato. Sembrava quasi che all’uomo importasse il gesto più che l’esito. Non hanno avuto difficoltà a bloccarlo. Quella frase sugli dei ha interrotto di colpo la litania della risposta sempre uguale e non è stata pronunciata dopo l’ennesima, identica domanda. Anzi, ha interrotto un silenzio di riflessione, almeno per Raimondo. “Chi ti ha mandato?”, chiede il principe. L’uomo solleva faticosamente il capo, ma gli occhi guardano oltre, sopra la testa di Raimondo. Forse oltre le pareti. “Da molti luoghi”. La voce è sempre più roca. Raimondo deve abbassarsi per udirla. E lo fa, anche se sminuisce la sua dignità. “Quali?” “Tutti. Dalla sinagoga dove avete arso centinaia di ebrei, per esempio. Ho visto le ossa che diventavano cenere. Non potevo uscire, ma ho trovato un nascondiglio. Poteva proteggere solo me. Quando ho sentito il puzzo dei corpi bruciati pensavo di non resistere, principe. Credevo che le mie narici si fossero seccate per sempre. Invece erano ancora vive, abbastanza da sentire, fuori, l’odore del sangue, che usciva da dieci braccia strappate. Erano tutte in fila, dall’altra parte della strada. Per terra. Qualcuno doveva avere un alto senso dell’ordine. Era un numero magico, principe?”. Raimondo si solleva. “No, principe, non andartene. Ho avuto altre visioni. Era una bella cosa vedere gli ebrei e i musulmani uniti nella morte. Quei monconi così ben

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allineati appartenevano sicuramente ai musulmani. Lo dico perché ho visto un cristiano che strappava il braccio di un musulmano. E poi decapitava il musulmano che si chinava a raccogliere il suo braccio. Anzi, ora ricordo meglio, era una donna musulmana. Credimi, principe, non l’ha violentata. E anche questa è una bella cosa. Poi c’è il capitolo del fuoco, ma non ho voglia di raccontarlo. Sono stanco”. Gli serve molto tempo per raccontare tutto questo e molto deve essere intuito più che sentito. Raimondo lo guarda e un riflesso di pietà gli distende i tratti del viso. “Perché hai detto che tutti gli dei muoiono? Non è il momento, nelle tue condizioni. E anche tu hai un dio”. “Non più, principe, qualunque sia stato. E qualunque sia il tuo, sei colpevole, come lo è il tuo dio”. “Non bestemmiare, miserabile”. “Attento, principe, vedo anche il tuo braccio lontano dal corpo. E la tua testa è ancora più lontana”. La rabbia invade il cuore e la mente di Raimondo. Che si gira con violenza. “Squartatelo”. Poi non osserva più niente. Seduto sul trono, sente i rumori: il corpo del prigioniero trascinato da un capo all’altro della sala. Le armi che urtano i fianchi delle guardie, le porte che si chiudono. Raimondo si prende la testa fra le mani. Scaccia il pensiero dell’uomo, molte questioni incombono. “La morte degli dei”. Dove ha letto qualcosa di simile? Sì, ora ricorda, in quel manoscritto che gli ha donato Rorgo Fretellus. Una coincidenza. Ma non è il tempo delle pause e delle riflessioni. E’ il tempo dell’energia. Antiochia, novembre 1140 I Templari sono arrivati in città di notte e a piccoli gruppi, attenti a non suscitare una curiosità eccessiva. Hanno un motivo, sigillato da due re. Raimondo ha chiesto un aiuto militare a Folco, dopo avere ricevuto informazioni giudicate attendibili su un imminente attacco dell’esercito di Zengi, e il sovrano di Gerusalemme ha inviato quattrocento cavalieri comandati dal Maestro Robert de Craon. La città sembra tranquilla e la tensione si avverte solo nelle file dei soldati sparsi ovunque e dei cavalieri che vengono accolti e alloggiati subito dopo l’arrivo. Le manovre sono precise e silenziose. Nessun intoppo. È possibile, se non probabile, che Zengi sia venuto a conoscenza dell’intervento dei Templari, o forse le

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informazioni non erano così attendibili come si pensava. A ogni buon conto i cavalieri rimarranno in città, piazzati nei punti nevralgici delle mura, per scongiurare qualsiasi iniziativa dell’atabeg di Aleppo. De Craon controlla con puntiglio i forti e le mura, alla ricerca di qualche falla nel sistema difensivo. In questi giri d’ispezione è spesso accompagnato da Raimondo, che considera un buon soldato e un capace governante. Spesso è ospite nel suo palazzo, nel cuore della città, dove non si sottrae alle conversazioni. La corte è sempre affollata e, se non è possibile evitare i cortigiani più fastidiosi e millantatori, molti personaggi colti e non di rado eccentrici, magari ospiti per una sola sera, lo incuriosiscono. Del resto le Bourguignon, come viene chiamato, non ha dimenticato i fasti e i piaceri talvolta insidiosi delle grandi famiglie europee, di cui fa parte per nascita. Poco tempo prima si è trovato faccia a faccia col suo rivale di un tempo nella caccia alla mano dell’erede moderatamente affascinante di Confolens e Chabannes. Il tempo che pensava di trascorrere senza il bisogno del danaro e con la compagnia di un affetto se non dell’amore. Entrambi hanno eluso il passato, tentando di dimostrare che uomini d’onore considerano vittorie e sconfitte immagini uguali e necessarie della vera nobiltà. Ma era indubbio per entrambi che la disfatta sentimentale di de Craon era stata ampiamente ripagata dal suo successo pubblico. Se nella mente del rivale fosse passata un’ombra di invidia, de Craon avrebbe fatto di tutto per evitare di accorgersene. O meglio, per evitare che l’altro intuisse che se n’era accorto. Il Maestro non ha chiesto neppure che ne era dell’erede diventata sua moglie. E sinceramente non ha sentito il bisogno di chiederlo. Una sera di novembre Raimondo e Robert sono soli nel salone delle mappe, una grande stanza rettangolare dove una delle pareti è interamente tappezzata di carte militari della regione. Quella di fronte è occupata da un’imponente libreria, interrotta da un ampio finestrone che getta una luce abbagliante sulla sala. Su uno dei due lati corti della stanza è ricavato uno splendido camino, sormontato da una contorta trave di ginepro, davanti al quale siedono i due uomini. Il fuoco arde: la fine dell’anno si avvicina e il freddo inizia a farsi sentire. Raimondo ha chiesto a de Craon la sua opinione sulla situazione di stallo che si è creata ad Antiochia. “Principe”, esordisce il Maestro, “sicuramente l’atabeg può contare in città su una rete di spie che l’ha informato della nostra presenza, e ora

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se ne sta rintanato in qualche gola ad attendere pazientemente il nostro rientro a Gerusalemme. Ciò che dobbiamo fare noi”, continua alzandosi dalla poltrona per passeggiare lungo il salone, “è esattamente ciò che fa lui. Aspettare. Con un vantaggio. Zengi non potrà rimanere nascosto per molto tempo, avrà bisogno di rifornimenti, e quando uscirà dal suo nascondiglio ci troverà pronti”. “Ma è indubbio che l’attesa è snervante anche per noi, i soldati allentano la guardia e i pericoli aumentano”, obietta il principe, raggiungendo l’ospite davanti all’immenso tavolo di quercia al centro della sala. “È vero, ma temo che non possiamo fare altrimenti, se non impegnare i soldati in manovre diversive. Un buon modo per perdere tempo e far credere il contrario”, ribatte il Maestro, afferrando un manoscritto che gli fa corrugare la fronte. “E questo da dove salta fuori?”, chiede, quasi in tono irrispettoso ma spontaneo. “Quel vecchio poema?”, chiede a sua volta Raimondo dopo aver gettato un’occhiata sorpresa al manoscritto: “Ah, una piacevolissima lettura, de Craon, avvincente quasi quanto la sua stranezza”. “Intendevo dire, come ne siete venuto in possesso? O si trovava già qui nella biblioteca del palazzo?”, chiede ancora de Craon facendo scorrere il rotolo. “No, è un dono di Rorgo Fretellus, che sicuramente conoscete anche voi. Me l’ha regalato qualche mese fa, per ottenere in cambio delle mappe che gli servono per la sua guida. Ma perché tanto interesse da parte vostra? È solo un vecchio manoscritto greco, non credo abbia un grande valore”. “Non è questo il punto, principe. Il fatto è che anch’io sono venuto in possesso, non chiedetemi come, dello stesso documento. È il titolo che mi ha attratto. Solo che la mia copia, mi accorgo ora, è in latino. Non lo trovate strano? Due copie dello stesso manoscritto, una in greco l’altra in latino, si trovano entrambe nel regno di Gerusalemme. Per curiosità, posso chiedervi di farmelo leggere?” “Posso fare di più, caro amico, ve ne faccio dono”. Agli osservatori dell’epoca, se l’avessero conosciuta nei dettagli, la carriera di Folco de Lenclos sarebbe apparsa esemplare. Avventuriero di due mondi, sull’orlo di una malattia indecifrabile poi misteriosamente scomparsa, naturalmente spia e infine siniscalco per meriti di letto, indubbiamente

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giustificati. Almeno da Alice di Gerusalemme. Incarico assolto con perizia quanto all’abbigliamento e al portamento. Persino agli inchini, sempre misurati, e alle lusinghe, sempre opportune e mai eccessive. Certo, sul piano dei risultati qualcuno avrebbe avuto da obiettare. E infatti, qualcuno obiettò, soprattutto quando gli ambienti politici di Antiochia si convinsero – ma il sospetto era già aleggiato – che Alice era poco più che un’intrigante. Folco de Lenclos si trovò improvvisamente su un piano inclinato. Lo capì, benché la sua intelligenza non fosse eccelsa, quando qualcuno gli disse che il suo abbigliamento era “troppo vistoso”. Quello stesso qualcuno che spesso l’aveva ammirato. In realtà una donna. Pensò allora che i meriti di letto sono fugaci come tutti i meriti, e forse più. In tempi abbastanza stretti non riuscì più neppure ad avvicinarsi alle anticamere delle stanze di Alice e, di fatto, a nessuna anticamera. Sembrava che tutti lo preferissero operativo sulle strade e non nei palazzi e nelle camere da letto. Misericordiosa, così annotò Folco, la Chiesa lo raccolse proprio dalla strada, come un pellegrino bisognoso. Lo rifocillò, gli diede qualche insegnamento minimo di teologia e un buon numero di indicazioni su ciò che sarebbe stato opportuno fare per il bene della Chiesa. Niente di sensazionale, ma sufficiente per mantenere almeno la metà del vestiario ereditato dalla carica di siniscalco. Folco però ha un’altra dote, la fortuna. L’ha sempre avuta, il che spiega perché sia ancora vivo. E proprio grazie alla fortuna si è guadagnato il favore tiepido di Rodolfo di Domfront, il vescovo di Antiochia. Che lo ha ben valutato ma, dato il suo realismo, non ha esitato ad affidargli incarichi di una certa rilevanza. Con la parte più scadente del suo vestiario, sufficiente a mimetizzarsi ma non a nascondere del tutto le fortune precedenti, Folco de Lenclos si trova ora al mercato di Antiochia. Ha appena parlato con Rorgo Fretellus ed è perplesso. Non tutto, anzi ben poco, gli è chiaro di questo incarico. Ha avuto la sensazione che Domfront lo canzonasse. Non gli passa mai per la testa che il tono scherzoso del vescovo è un modo per celare ciò che non è uno scherzo. In questo caso il vescovo ha persino ridacchiato. Gli ha detto che negli ultimi tempi si è divertito tantissimo nella lettura delle opere di Goffredo di Monmouth che, dalla Gran Bretagna alla Terrasanta, non hanno perso niente del loro valore, per lo spirito delle pause se non per il pensiero che ogni tanto deve riposare. Un meraviglioso mistificatore. S’intende, la Chiesa non ama questi personaggi e queste storie, ma laddove

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si cantino i fanti e si ossequino i santi – e Goffredo lo ha sempre fatto, da arcidiacono e da vescovo – la Chiesa sa essere accondiscendente. Folco non ha capito, ma ha annuito per compiacere il vescovo. Cosa c’entrava tutto questo? Lo sguardo bovino ma attento di Folco ha tradito la domanda. E Domfront ha risposto con un sorriso: pare che dalle mani e dalla fantasia illimitata di Goffredo sia spuntato un nuovo libro, ha detto con uno svolazzo della mano nell’aria. “Vorrei leggerlo”, ha aggiunto Domfront. “Anche se forse dovrò farlo quando non indosserò più questo mantello. Il mio tempo sta per finire”. “Eccellenza…”. “Non importa, de Lenclos”, ha tagliato la frase il vescovo sollevando il braccio destro. “Dunque, il libro è stato portato ad Antiochia da un nestoriano. In realtà, stranamente, non sappiamo niente di questo individuo. Ma perché strano poi? Di chi sappiamo qualcosa di certo nel torrente che scorre incessante dall’Europa, caro Folco? So però che ora il manoscritto è nelle mani di Rorgo Fretellus”. “Il geografo?”. “Sì. E ti sarei grato se te ne facesse dono. Puoi anche pagarlo. Con una cifra adeguata, che non vada oltre il valore, modesto comunque, del manoscritto. Si intende anche che non è necessario che faccia il mio nome: in questo caso il geografo potrebbe attribuire al manoscritto un’importanza che non ha e tirare sul prezzo. Sai come funziona il mercato ad Antiochia: sono i ruoli a fissare i prezzi”. Al mercato, tra schiamazzi e risse che giungevano fino al tavolo sbilenco dove sono seduti, Rorgo Fretellus dice a Folco che il manoscritto non è più nelle sue mani. Ne ha fatto dono al principe. “Con sua grande soddisfazione”, sottolinea Rorgo con orgoglio. “E vedo che è stato davvero un bel regalo, se tante eminenze lo desiderano”, ha aggiunto maliziosamente. Folco non ha trovato nulla da replicare, se non la parola “pazienza”. Con un’alzata di spalle. Sorride a Rorgo, che ha voglia di scherzare. “Immagino che ora non vorrai offrirmi altro da bere. Non importa. Ti dirò che il manoscritto mi è stato lasciato da un nestoriano, che mi ha fatto bere molto. Non ci tengo a ripetere l’esperienza”. Rorgo scherza perché vuole evitare che una punta di serietà, in questa faccenda, metta in allarme Folco. Da qualche parte ha sentito che de Lenclos è un uomo del vescovo. Forse è una falsità, forse no. I due uomini si sono guardati come si guarderebbero due bestie che

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devono aggredirsi, ma in questo caso l’attimo dell’attacco è svanito subito. La storia avrà un altro svolgimento. Ora si salutano, Folco si siede di nuovo e Rorgo va via. Da lontano l’ex siniscalco nota due uomini che lo seguono. Ma forse vanno semplicemente nella stessa direzione. Antiochia, una stamberga alla Porta di San Paolo, novembre 1140 “Potremmo anche farne a meno, ma sono tempi complicati. Un granello può diventare una montagna. E non è un compito impegnativo”. Fa una pausa. “E voi siete abili in queste cose”. “Tutti i compiti sono impegnativi”, dice l’uomo col cappuccio nero. “Abili a sporcarci le mani, volete dire”. “Non lo dico, se volete. Ma non vorrei nemmeno che faceste la parodia della nostra morale”. L’uomo col cappuccio sorride. Un sorriso ambiguo, in parte fiero in parte truffaldino. “Avrete la giusta ricompensa. E la benevolenza…”. “Di Rodolfo di Domfront”. “Della chiesa di Antiochia”. “Un centro di potere un po’ instabile”, sussurra l’uomo col cappuccio. “Beh, l’instabilità è il vostro campo di battaglia. Ma direi di lasciar perdere queste schermaglie e venire al dunque. Come vi dicevo, un lavoro semplicissimo: si tratta di prelevare due manoscritti”. “Di rubarli”. “In un certo senso. Non è escluso che in un secondo momento vengano restituiti ai possessori. Non posso neanche dire legittimi possessori”. “Non siamo ladri”, dice l’uomo col cappuccio, a voce bassa e piegando il volto sulla destra. Come segno di dignità offesa. “E non vi avremmo convocati se volessimo un semplice furto. Posso dirvi che si tratta di un intrigo”. E la parola è accompagnata da un sorriso. L’uomo col cappuccio china il capo e rimane immobile per qualche secondo. Poi, sempre a voce bassa: “Dove si trovano?”. “In questo momento nelle mani di una sola persona. Il Maestro del Tempio”. L’uomo col cappuccio solleva la testa. Un movimento breve e rapido. “Posso ricordarvi che noi paghiamo tributi ai cavalieri del Tempio?”.

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“Lo so, ma non sono altrettanto sicuro che, come dire, li amiate”. “Strano. Cristiani chiedono a musulmani di sottrarre ai cristiani. Non potreste chiedere i manoscritti direttamente?”. “Potremmo. Ma vedete, in questo momento, in qualsiasi richiesta, e soprattutto in una richiesta formale, c’è il rischio che si... intraveda ciò che non c’è. E in questo caso non c’è proprio niente”. L’uomo col cappuccio scuote il capo. “Ah, noi Fidai rubiamo, voi cristiani mentite. Avete ragione, sono tempi davvero complicati. Dovremo cambiare equipaggiamento, dopo queste metamorfosi del prestigio”. “Non esagerate. E voi per primi avete lasciato la strada maestra. O del Maestro: non mi risulta che seguiate ancora la sua stella. Almeno voi. Che molti non siete e molto volete”. “Non offendete coloro a cui chiedete un favore. Anche se il Maestro accendesse il fuoco sotto i nostri piedi rispetteremmo lui più di quanto rispetteremmo voi. Ma rispettiamo le intese, e con chiunque li abbiamo sottoscritti. Volete dunque che vi portiamo un pugno di niente?”. “È niente fino a che non lo esaminiamo. E tenete presente che il Maestro del Tempio non ha motivo di temere il furto dei manoscritti. Posso garantirvelo. E dunque non esistono particolari sistemi di sicurezza”. “Si chiederà dopo il perché del furto di quei manoscritti”. “No. Se voi farete una razzia. Anche per la vostra, di sicurezza”. L’uomo col cappuccio si alza, si volta e si avvia verso l’ingresso della stamberga. Prima di sollevare il gancio, si volta. “Come li riconosciamo?”. “Dal titolo. “Inviolata Ilio”. Uno in greco, l’altro in latino”. Poi, interpretando lo sguardo freddo dell’uomo col cappuccio: “Già, lingue che non conoscete nei loro percorsi più raffinati, ma quel che sapete è sufficiente. Un’ultima cosa: è certo che i due manoscritti si trovano ora nel tavolo di lavoro del Maestro. Ma attenzione, non ci resteranno per molti giorni. Con tutta probabilità de Craon li darà al principe”. “C’è anche il principe di mezzo?”. “No”. “Sapete che non siamo mai curiosi, se non è necessario. Ma cosa c’è di così… inutile in quei manoscritti?”. “Solo vecchie leggende”. “E naturalmente voi state architettando tutto questo per entrare in possesso

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di vecchie leggende”, conclude l’incappucciato, uscendo dalla stamberga senza più degnare di uno sguardo l’emissario di Rodolfo di Domfront. Antiochia, dicembre 1140 Antiochia è una città che pullula di spie. Si può dire che in questo luogo quella del delatore sia un’arte. Ce n’è uno in ogni famiglia che si rispetti, anche perché è un mestiere pagato profumatamente. Il sospetto regna incontrastato, per cui tutti sono spiati, molti sospettano di esserlo, nessuno ne è sicuro, ma le probabilità sono altissime. Ad Antiochia le spie sono veri professionisti, possono essere ingaggiate per qualsiasi motivo: pedinamenti, tradimenti, informazioni politiche o religiose, traffici di reliquie, screditamenti. E quasi sempre riescono a soddisfare le esigenze dell’occasionale o permanente datore di lavoro. Robert de Craon ha scoperto di essere seguito da qualche giorno, ma non ha preso contromisure. Lo muove anche la curiosità. Sa perfettamente che lo spionaggio è un’abitudine, una norma non scritta, talvolta passivamente praticata, che va oltre la necessità e i reali risultati. Anche lui si sposta accompagnato da una rete di informatori che setacciano ogni angolo della città. Quando il gioco lo ha stancato, il Maestro decide di saperne di più. La caccia si inverte. La spia, un ragazzo, si è infilato furtivamente dentro il palazzo del vescovo, si trattiene a lungo e quando esce, in una stradina stretta e al riparo da presenze indiscrete, viene catturato dagli uomini di de Craon e trasportato in un luogo sicuro della periferia. Sono molti i ragazzi, spesso giovanissimi, coinvolti nelle operazioni incrociate. A dispetto dell’età sono abilissimi, ma, una volta scoperti, non forniscono alcuna garanzia. Bastano larvate e persino poco credibili minacce per far confessare anche colpe che non hanno commesso. In questo caso però il ragazzo non ha nulla da dire. Le minacce non servono e neppure la promessa di un premio raddoppiato. Al ragazzo brillano gli occhi, ma de Craon intuisce che sta per mentire. No, la giovane spia è all’oscuro di tutto. Un dettaglio comunque affiora: il ragazzo è soltanto una pedina, quella che si può sacrificare. Altre spie sono sulle tracce di de Craon. Dunque il caso è speciale. Il Maestro riflette su Domfront: è un personaggio ritenuto ignorante oltre che sgradevole, almeno negli ambienti settari del Tempio, e quando è alle prese con l’incomprensibile può diventare estremamente

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pericoloso. Tra le sue poche virtù c’è la capacità di aizzare il popolo. Di rafforzarne la fede, secondo i sostenitori. Non è molto, per il giudizio di de Craon. Che non si spinge però a ritenerlo un semplice demagogo religioso. Quando ha avuto a che fare con lui ha stabilito che conosce gli eccezionali guadagni della finzione. E che il suo spirito può essere molto acuto se ritiene che valga la pena. È strano ora, con i problemi legati all’insediamento come patriarca di Antiochia, che tra i suoi obiettivi ci sia il Tempio. O almeno lui, il Maestro. Cosa cerca Domfront? Non esistono indizi visibili per una risposta. Dopo alcuni giorni, rientrando a casa, Robert de Craon trova la sua abitazione devastata: hanno rovistato ovunque, molti oggetti di valore sono stati rubati e mancano libri e manoscritti. Tra cui “Inviolata Ilio”. Se ne accorge perché il testo, nella traduzione greca, era in evidenza sul tavolo. Come ultima lettura. Passa mentalmente in rassegna i titoli degli altri libri trafugati e non trova nulla che possa essere di qualche interesse per i ladri. Ma quali ladri poi? Mandati da chi? E perché? La prima domanda è irrilevante, la seconda ha una risposta ovvia, la terza è un mistero. Un pensiero improvviso attraversa la mente del Maestro. Si avvicina all’effigie di San Giovanni, nel vestibolo, la osserva e poi preme il dito sul dito sollevato del santo. Lentamente si apre una porticina sulla parete. De Craon constata che il manoscritto latino, e non solo quello, è ancora lì. Si chiede perché abbia adottato questa precauzione. Cosa lo ha spinto a nascondere un manoscritto che ha letto – mentre non aveva ancora terminato la lettura della versione greca rubata – senza trovare particolari motivi di suggestione? Ripensa ancora a ciò che è stato trafugato. Ancora nulla di particolare: si direbbe che ai ladri interessasse soprattutto rovistare e devastare. La confusione. Non riesce a immaginare Domfront come ladro, ovviamente. E dunque? Se il patriarca ha commissionato l’irruzione, qual è il suo scopo? De Craon decide di infiltrare il suo uomo più fidato dentro il palazzo del vescovo. Bernard de Chabligny conosce de Craon da sempre. Abitavano nella stessa strada, in un paesino della Borgogna, hanno frequentato le stesse scuole e insieme sono entrati nell’ordine dei cavalieri del Tempio. La loro amicizia, a distanza di tanti anni, è rimasta intatta, nonostante de Craon ora sia il Maestro e lui un semplice cavaliere. Con doti che però lo rendono

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preziosissimo: riesce a infiltrarsi in qualsiasi ambiente senza essere notato. Nessuno sa chi sia, nessuno lo conosce, nessuno lo vede. Per de Craon è una fonte inesauribile di notizie. Per un mese ha spiato il vescovo e ora aspetta da un’ora il Maestro per informarlo su quanto è riuscito a scoprire. L’incontro è segreto e dunque la puntualità non è un’esigenza, casomai una necessità. L’arrivo di de Craon è preceduto dallo scricchiolio dei cardini di una porta che si apre. “Gente come noi dovrebbe stare attenta a questi dettagli”, pensa de Chabligny. “Serata difficile”, esordisce de Craon, come se avesse fatto il suo ingresso nel palazzo dove si svolge un’affollata festa. “Già”, risponde de Chabligny un pò stupito. “Volete bere qualcosa, Maestro”? De Craon scuote il capo. “Non ho molto tempo e so che c’è parecchia agitazione in giro. Sbaglio o è sorto qualche problema con i nostri amici tagliagole?”. Un modo per entrare subito nella questione che li ha riuniti. “Sì, questo è appurato. Il vescovo è furente con loro. Aveva chiesto qualcosa che non è stato trovato”. “Lo so, lo so”, taglia corto il Maestro. De Chabligny sospira. “Maestro, non potete pensare che non sappia niente di questa storia. Più di quello che speravate, d’accordo, ma non più di quello che era necessario per svolgere il lavoro che mi avete affidato”. “Non importa, Bernard, tutta questa storia è assurda. Avete almeno fatto un po’ di luce”? “Non sono in grado di dirlo con certezza. Posso darvi però qualche elemento. Il vescovo ha realmente bisogno di entrambi i manoscritti”. “Ma perché?”, chiede con fastidio de Craon “Perché non sono uguali”. De Craon si acciglia. “Ho letto la versione latina e parte di quella greca, Bernard. Finora sono uguali. Nel senso che raccontano la stessa storia e la traduzione è fedele, per quanto non abbia avuto il tempo di terminare la lettura della versione greca”. “Può darsi, ma nel testo greco ci deve essere qualcosa che ha un senso solo in quella lingua. Un secondo senso che in quella latina si perde”. “Di quale secondo senso andate parlando”? “Non ne ho idea, Maestro, lo ammetto. Riferisco solo ciò che sono riuscito a cogliere finora. Ma posso offrirvi una sensazione importante: stiamo

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parlando di… passaggi fondamentali per noi”. De Craon non riesce a nascondere il dispetto. “Noi chi? Misteri, codici, forse sette. Ci risiamo, mio caro Bernard”. “Certo, ma il vescovo sembra dare importanza e credito a parte di questa storia. Non a tutto, ma a qualche elemento, questo è sicuro. Mi sono anche formato una convinzione personalissima”. De Craon lo invita a proseguire con un gesto stizzito. “Credo, ma posso anche sbagliarmi, che il punto centrale della questione sia l’Apocalisse di Giovanni”. Antiochia, gennaio 1141 Robert de Craon si presenta all’alba. È stato convocato la notte prima. Una richiesta inattesa, ma dopo aver letto la lettera si è limitato ad annuire e congedare il chierico che gliel’ha consegnata. La sala delle udienze è sempre silenziosa. E gelida. Più del vento che spira dal mare non troppo lontano, in direzione della città. Data l’ora, il silenzio è persino più spesso. I passi risuonano a lungo e assomigliano a una minaccia. E per il Maestro, attraversata l’immensa sala, è ancora più sorprendente scorgere il manoscritto che è stato trafugato dalla sua abitazione: troneggia, accanto a una guaina di pelle, al centro del tavolo dietro cui è seduto il vescovo. Rodolfo di Domfront gli fa cenno di sedersi a sua volta. “Prezioso”, dice sfiorando il manoscritto con le dita. “Materia per intenditori e collezionisti. Non si usa più, quanto meno è rara. Da dove proviene, secondo voi? Persia? Africa? Alessandria?”. Solleva il viso e per la prima volta guarda de Craon negli occhi: “Non dissimulate la sorpresa, de Craon. Sì, è proprio quello. Ho fatto la mia scelta. Avete sentito rumori venendo qui? No? Qualche minuto di ritardo e li avreste sentiti. Ci saranno, e sempre più forti. Non dovrete aspettare troppo. Quindi niente giochi e niente tornei. E posso ricordarvi che siamo dalla stessa parte? Io diffondo e voi difendete ed entrambi proteggiamo. Vi chiedo di rammentarlo anche quando avrò finito di raccontarvi una storia. Sono sicuro che siete ansioso di sentirla”. “Come desiderate, eccellenza”. Domfront parla lentamente e nella voce si può cogliere una nota malinconica. Inconsueta, per quanto ricorda de Craon.

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“Sì, una storia interessante. Non posso dire che desidero raccontarvela, ma a questo punto devo farlo”. Si rilassa, quasi scivolando col corpo sotto il tavolo. “Come comincia? Diciamo per comodità che a un tratto spunta, chissà come, un manoscritto. Narra una vicenda della mitologia greca, molto originale e sorprendente. Sapete bene che queste storie sono numerose. Materia per filologi, sognatori, ingannatori. Chi vorrà farà… Ma c’è dell’altro ed è ciò che ci interessa. Dalla guerra di Troia, dove Troia non è sconfitta, come avrete letto, si passa alla guerra degli dei e la vicenda imbocca un altro cammino: la morte degli dei, la fine di una religione e l’inizio di un’altra. Curioso. Ma non è nemmeno questo il punto, giusto?”. Il Maestro dell’ordine dei Templari rimane muto e attento. “De Craon, vi ho chiesto di affrontarci a viso aperto. Siete colto e intelligente, sapete benissimo che in quel manoscritto ci sono passi interi, neppure mascherati, dell’Apocalisse di Giovanni”. “Sì, eccellenza. Una lettura molto divertente. Un falso persino esagerato. Ho pensato quasi a una parodia, almeno al punto a cui sono giunto”. “Già, prima che scomparisse dal vostro tavolo. Parodia, dite? Può essere, ma solo fino a un certo momento della storia. E qui nascono i primi interrogativi. Chi e perché ha falsificato? Badate che io ho elementi certi e un buon numero di supposizioni. Ho fatto interrompere la vostra lettura perché volevo verificare. Ma, credetemi, non ne ho più bisogno. Anzi, lascio a voi questo compito, di cui conosco l’esito. Non dovrete fare altro che un cenno per confermarmelo, se sarò ancora da queste parti. Consentitemi intanto di riprendere il racconto. Mille anni fa il manoscritto capita nelle mani di un pagano. Un pagano raffinato e per niente agguerrito: Elio Aristide. Sapete di chi parlo, vero?”. De Craon annuisce. “Cosa ne fa, Aristide? Forse, segretamente, ha l’indole del comico. O forse gli piace seguire le orme dei cantastorie della sua cultura. O forse ancora intravede la possibilità di nuocere alla religione che sta soppiantando la sua. Comunque sia, manipola la storia, soprattutto nella parte finale. E fa in modo che la manipolazione sia evidente, lampante. Cioè accusatoria. Vuole che si creda che l’intervento sia opera di mani cristiane”. “Cioè, trasferisce spensieratamente nel manoscritto parti dell’Apocalisse”. Le labbra del vescovo si increspano. Come in un sorriso malizioso. “No, de Craon, non è andata così. L’Apocalisse era già nel manoscritto che

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arriva ad Aristide”. Per la prima volta De Craon è realmente sorpreso. Socchiude le labbra, resta in silenzio, poi sbotta: “Eccellenza, questa è un’assurdità”. “De Craon, lo ripeto e vi chiedo di credermi. C’era già. L’autore di quel libro, ben prima di Giovanni, aveva scritto tutto o quasi tutto”. “Mi state dicendo che qualcuno ha copiato, diciamo fatto proprio, il racconto, per trasferirlo nel libro che chiamiamo Apocalisse”. “Sì. E il ladro è Giovanni. Se ci sono stati intermediari, complici, poco importa. Il colpevole è Giovanni”. “Ma perché Aristide non ha diffuso la notizia? Non ha sollevato lo scandalo?”. “Troppo raffinato? O forse non ne ha avuto il tempo? Ma di sicuro voleva tramandare la notizia. Vedete, de Craon, molti in questa storia non hanno avuto il tempo giusto, quello necessario. Uno dei misteri sui quali purtroppo non ho né dati né supposizioni. Una storia infinita, comunque, dove in troppi intervengono. Sembra assurdo, ma questo libro minimo, che non riesce ad avere più di due o tre copie, sguscia dalle mani come un’anguilla. E c’è di più. La cosa peggiore”. De Craon si accorge di trattenere il fiato. Si aspettava un incontro del tutto diverso. “Aristide sapeva un’altra cosa: il possessore non aveva ceduto spontaneamente il manoscritto. Era stato assassinato”. Dalle ampie finestre filtrano i primi rumori. Domfront le guarda e sorride: “Sentite?”. Ma non aspetta la risposta: “Per carità di Dio, non voglio credere che sia stato Giovanni, anche se l’ipotesi non si può scartare”. Solleva una mano: “Lo so. Il fuoco eterno del cristianesimo, quello che darà giustizia ai morti, è stato acceso da un delitto. E così deve aver pensato Aristide. Forse era una cosa troppo grande da rivelare. E Aristide ragionò a modo suo. Inserì nel manoscritto, con poche parole, la rivelazione del delitto e probabilmente della vittima e del colpevole. Come? Potete arrivarci da solo: ghematria. Facile da fare, difficile da decifrare. Infatti nessuno lo ha ancora decifrato. Sono sicuro che, proseguendo la lettura, ve ne sareste accorto anche voi. Mi spiace che ci sia sempre un complotto nelle nostre vicende, evidentemente non se ne può fare a meno. E vi dirò di più, gli enigmi possono restare tali per sempre e si può fare a meno di risolverli. Non complicano niente e la storia va avanti. Ma in questo caso c’è stato un


intoppo. Vi sto annoiando?”. “No, eccellenza, e lo sapete bene. Non pensavo…”. “Già, nemmeno io, fino a qualche tempo fa. L’intoppo è un egiziano. Un giovane di valore, a quanto ho saputo. E parliamo ancora di tanti secoli fa. Non chiedetemi come, questo egiziano conosce la storia e riesce a impossessarsi del manoscritto. Sappiamo che vuole usarlo e che vuole decodificare il messaggio di Aristide. Non ci riesce, malgrado la passione e i molti tentativi, e alla fine offre il manoscritto a una grande matematica. Che, guarda caso, non è troppo ben vista dai cristiani”. “Buon Dio”. “Non bestemmiate, de Craon, già c’è qualcuno che non vi apprezza”. “Scusate, eccellenza”. “E vi dico un’altra cosa. Pochi giorni dopo, quella grande mente viene massacrata da quel pazzo di Cirillo, uno dei tanti folli che ci ritroviamo sempre dentro il tempio”. “E l’egiziano….”. “Massacrato anche lui mentre, insieme ad altri fedelissimi, tenta di difendere Ipazia. In una mia preghiera, non so perché, ho reso omaggio a quest’uomo”. De Craon avvicina il viso al tavolo. La luce sta invadendo la stanza, mentre i rumori crescono, ma sente la necessità di vedere ancora meglio il volto del vescovo. “Eccellenza”, dice posando la mano sul manoscritto che occupa il centro del tavolo: “È tutto qui dentro?”. Domfront si solleva con fatica, distogliendo lo sguardo: “Già, potrei aprire il manoscritto e trovare tutto senza fatica. Si può dire che lo conosca a memoria. Ma, ditemi, voi conoscete il testo in latino. Non vi ha rivelato niente?”. De Craon si porta le dita al mento. “Non più di quello che vi ho detto”. “Certo. Capisco. La parodia. Sapete che in tanti si sono dati da fare su queste pagine? Anche qualcuno dei nostri fratelli, sembra. Qualcuno che forse sapeva del gioco di numeri e lettere e che comunque, pur non sapendolo, ha modificato poche cose, aggiungendone altre ugualmente minime, per ottenere un grande risultato: l’incomprensione. Col più rozzo manto possibile, il ridicolo. Ciò di cui tutti quelli che hanno accarezzato il manoscritto si sono accorti. Voi compreso. Eppure è possibile attribuire

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al contraffattore un obiettivo ancora più raffinato: chi può dire, nel nostro piccolo mondo umano, che la storia raccontata nel libro non sia credibile? Non c’è il sublime nel passaggio dagli dei a Dio? Voi sapete bene che non esistono confini tra superstizione e verità, almeno dove la fede è sovrana. Non c’è un solo popolo, e se c’è i sapienti sono una minoranza. E i saggi tra i sapienti ancora meno. E gli onesti tra i saggi introvabili o quasi. Chi è intervenuto? Un’idea ce l’ho e qualche piccolo elemento. Di sicuro una persona che amava molto il teatro oppure l’odiava moltissimo, tanto da organizzare una meravigliosa rappresentazione”. “Credo di aver capito. Colpa, Ansia, Angoscia: le tre Marie nere… Un giullare avrebbe fatto di meglio”. “Trovate così tanta differenza tra le facezie e le profezie? Ma anche questo ormai poco importa. Per me almeno. Non ho più tempo di interpretare e non voglio neppure. Non sentite i rumori che crescono? Mi cacciano, come se fossi il Male. Sia fatta la loro volontà. Il sole è già sorto. Il mio tempo è stato turbolento e lo sarà ancora per poco. Me ne vado e francamente non credo di dover dare più di quel che ho avuto. Troppo umano per un religioso, certo, ma mentirei se dicessi il contrario. Vi lascio i libri, de Craon, e potete richiamare Chabligny, anche lui mi sembra un giovane di valore. Non servono altri intrighi, per me, la storia ora è in mano vostra”. “Per farne cosa, eccellenza? E perdonate la mia volgarità”. “Lascio a voi la scelta. Abbiamo lottato contro il paganesimo, lottiamo contro gli ebrei, stiamo lottando contro i musulmani. Non possiamo lasciare nulla alla sete di guerra o vendetta degli uni e degli altri. L’Apocalisse non è un libro qualunque. È la nostra profezia più grande, più esaltante di qualsiasi altra profezia. È il commento alle ultime parole di Cristo. Non può essere lambita da nulla che non sia meraviglioso, terribile, minaccioso al massimo grado. Come possiamo accettare che sia un’invenzione dei pagani? Come possiamo accettare che la sua scrittura sia accostata a un omicidio? Ma questa è solo un’interpretazione, appunto. Ce ne sono altre. Riflettere e agite, se potete. Distruggere? Cercare? Usare? Fate voi”. “Troppe strade, eccellenza. E molte sono lontane dai nostri semplici passi. Rimane da chiarire anche il perché, che voi scaricate come un peccato”. Domfront sorride e si guarda attorno. I rumori sono diventati clamore e nella stanza si sono moltiplicati i rettangoli di luce. “Vedo che estendete al vostro ordine il compito che vi affido. Bene, lo


prevedevo. Le circostanze vi hanno portato vicino ai manoscritti. E, in generale, ho l’impressione che voi e i vostri durerete a lungo. Da parte mia un solo consiglio: inseguite le ombre, de Craon, inseguitele, voi e chi vi succederà”. Robert de Craon si allontana dal palazzo del vescovo da un’uscita secondaria e il clamore crescente lo investe. Sono gli ultimi istanti di potere di Rodolfo di Domfront. Non è una sollevazione, nessuno impugna armi. Semplicemente la città esulta per l’arrivo di Almerico. Il che equivale a constatare che non sopportava più Domfront. Ad Antiochia la storia procede rapidamente e i favori danzano. Robert de Craon ne è consapevole, non lo sorprendono movimenti già intuiti se non scritti. Si fa largo quasi distrattamente tra la folla invasata. Sente il suono delle voci, ma non fa attenzione a ciò che si urla. Se qualcuno, incontrandolo, lo guardasse negli occhi vedrebbe il volto di un uomo scosso. Preoccupato. Ed è così che si sente il Maestro dei Templari mentre fa rientro al suo alloggio all’estremità delle mura occidentali di Antiochia. Le rivelazioni di Domfront sono eclatanti, per certi versi catastrofiche e mettono a dura prova la sua fede. Ma la sorpresa più grande, ragiona de Craon, è stato il comportamento del vescovo. Lo ha sempre considerato rozzo e ignorante, si è trovato invece davanti una persona, se non proprio raffinata, sicuramente colta e tollerante. Poi il pensiero corre subito alle rivelazioni. “L’Apocalisse, dunque, è il fulcro segreto del manoscritto e Domfront è convinto che sia stato scritto prima dell’avvento di Giovanni. Di conseguenza un pilastro del cristianesimo poggia sulle rivelazioni di un ladro, se non addirittura di un assassino. Sempre che Giovanni non abbia fatto sue le idee di qualcun altro. Sì, ma di chi? Di Eschifilo? Difficile che sia realmente esistito un simile personaggio. Elio Aristide, invece, avrebbe potuto davvero scrivere quei passi. Ma no, Domfront è sicuro che tutto fosse già presente nel manoscritto e il pagano si sarebbe limitato a inserire e nascondere il nome del vero autore dell’Apocalisse”. E qualcos’altro insegue de Craon. Una sensazione. La sensazione che de Domfront non gli abbia detto tutto. È anche la logica a suggerirlo. Il vescovo ha dimostrato di conoscere molti dettagli della storia, ma ha detto poco sui protagonisti. A parte quelli


morti. Se altri sono a conoscenza di questi segreti, chi sta rincorrendo il manoscritto? E chi lo insegue fin dove è disposto ad arrivare? E fin dove si è già spinto? E ancora: chi ha custodito finora ciò che andava custodito, in primo luogo il segreto più devastante? È lecito credere che sia stato ben custodito, ma a quale prezzo? Se tutto è nato con un delitto, difficile pensare che non sia stato versato altro sangue. E di quali ombre si parla? Di quelle scatenate da Giovanni nei secoli dei secoli? Follia. Un numero infinito di interrogativi, ma de Craon è conscio che almeno da Domfront non avrà più risposte. Per ora si limiterà anche lui a fare da custode. Depositerà i due manoscritti nei forzieri del Tempio. Terra Santa, fortezza di Chateau-Pèlerin, agosto 1291 Gli ultimi Templari se ne vanno con onore. O almeno pensano che la cristianità li ricorderà con gratitudine e lacrime. Malgrado la caduta di Acri. Malgrado la fine inattesa di un’altra guerra di Dio. Negli occhi di chi è stato in quella città fortificata solo allo sguardo delle bande di disperati giunti dall’Europa scalzi e sognanti, dei cavalieri che si opponevano senza speranze alle milizie del sultano Malik al-Ashraf, è fissata per sempre l’immagine di Guillaume de Beaujeu adagiato sullo scudo, la freccia conficcata nel corpo. E le mani affannate ma delicate di coloro che lo avevano avvolto nella coperta e lo trascinavano verso la spiaggia. Non era fuggito, il Maestro. Mentre abbandonava la battaglia aveva chiesto agli uomini perplessi di guardare la sua ferita. E aveva anticipato la sua morte: “Signori, sono morto”. Una tempesta aveva impedito di imbarcarlo. E per molte ore era rimasto in un luogo appartato, in silenzio contrito davanti all’eco dell’ultima strage. Gli pareva che il fiume di sangue lambisse i suoi piedi ormai immobili. Un’immagine più lancinante di quella della casa dell’Ordine, che dieci giorni dopo avrebbe seppellito difensori e assalitori, sancendo però nel fuoco e nel fumo la vittoria dei musulmani, quegli stessi musulmani con cui Beaujeu aveva tentato di mantenere un cordiale rapporto. Adesso è tempo di fuga anche da Chateau-Pélerin. Non sono molti i templari rimasti nella fortezza e quei pochi sanno che il tempo si sta esaurendo rapidamente. Tiro, Beirut, Tortosa e Sidone sono già state abbandonate. Non ci si può fidare del sultano: la testa rotolante del maresciallo Pierre de Sevrey potrebbe confermarlo. Alla sua parola solenne che la resa di Acri

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non avrebbe scatenato altro sangue è seguito un massacro. Ora arrendersi significa morire. E senza armi in pugno. Le spade sono appoggiate alla base della muraglia, sopra le armature ammaccate e macchiate, depositate alla rinfusa. Non sono arrivate notizie del commendatore Thibaud Gaudin che ha fatto rotta verso Cipro alla caccia di rinforzi. Tutto congiura e niente è più speranza. Così Dio ha voluto. Qualcuno, difficile dire di chi si tratti, impartisce ordini secchi e brevi prima dell’arrivo di un’altra tempesta. I beni del Tempio si stanno accumulando rapidamente su tre imbarcazioni pronte a salpare. Altre armi, stoffe, coperte. Preziosi, oro, reliquie. E libri.

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PARTE TERZA


Roma, residenza dei Colonna, agosto 1314 Guillaume de Nogaret dorme poco. Non ha mai concesso troppo al sonno, il lavoro notturno l’ha sempre stimolato, ma da qualche tempo è l’insonnia a rubargli il tempo. Qualcosa è cambiato anche quando c’è la luce: non ha più voglia di parlare e cavillare. I suoi giorni sono finiti, e ora viaggia per l’Europa e l’Oriente, deve farlo, se non altro per salvare la faccia: dopo tutto è stato condannato. Le cose non sono andate come dovevano andare, come avrebbe voluto che andassero, pensa ora. Non per tutti, non per lui. Ha eseguito gli ordini di un re. Spesso li ha preceduti, più spesso li ha esaltati con impegno e dedizione. Un sanguinario, lo ha definito qualcuno. Inquietante, qualcun altro. Comunque sia, ha ottenuto molto ed è ancora vivo. Al grande processo contro i Templari è seguito l’altro processo ai nemici dei Templari e lui è uscito fuori dalle sale del giudizio con un invito all’esilio. Il minimo. Ogni tanto, sempre più spesso, scorrono nella sua mente immagini che non gli piacciono, anche se è stato lui a scatenare i fatti che suscitano quelle immagini: interrogatori notturni, volti di spie, fronti imperlate di sudore, discussioni col re. E biblioteche devastate, fogli corretti, prove falsificate, oggetti sacri corrotti. Una voce che arriva da lontano continua a sussurrargli: “Dio sa chi ha torto e chi ha peccato. Molto presto verrà decretata una disgrazia per coloro che ci hanno condannato ingiustamente”. Nella ricca stanza che i Colonna gli hanno assegnato Nogaret sorride tristemente. Tra i suoi finti pellegrinaggi ha inserito questa visita a Roma, magari nel ricordo intrigante del giorno in cui ad Anagni osservava, nascosto da un fitto tendaggio, gli uomini che, dietro parole di circostanza, insultavano Bonifacio. “Ma del resto cos’altro meritava quel personaggio?”. E poi le risate e i lazzi, con i Colonna, che ora lo ospitano, resi più esuberanti da molti bicchieri di eccellente vino. E ricorda anche il momento in cui si era presentato al Papa: “Santità, forse c’è stato qualche eccesso, ma non consideratevi prigioniero. Però ora serve un gesto riparatore. Un concilio…”. Cosa importa ormai? Bonifacio è morto. È notte. Nogaret ha fatto disfare i bagagli. Non sa quanto si tratterrà a Roma. Ha molti libri con sé. E fra le mani gli capita quello strano manoscritto. Si ricorda che avrebbe voluto utilizzarlo contro il Tempio, ci aveva pensato a lungo, ma poi aveva rinunciato. Nogaret non crede alle profezie, agli spettri, a ciò che si annuncia dall’Inferno, ma non gli era

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piaciuta la reazione di Filippo. Filippo, il suo re, così duro e avido ma così malleabile. E lui sì che aveva certi timori… E poi rammenta ancora quel fruscio… Stupidaggini, naturalmente, e chissà perché non ha bruciato il manoscritto e addirittura se lo è portato appresso nei suoi pellegrinaggi. Forse perché si è convinto che nasconda qualche messaggio importante per la cristianità? O qualche rivelazione per chi sa cercarla? Passa la mano sul dorso del manoscritto, fa scorrere qualche pagina, in fondo è come una sfida. “Sono le sue ultime letture, cancelliere del re”. Nogaret si gira di scatto, il manoscritto gli cade dalle mani. Quasi addosso a lui vede il corpo di un giovane. Indossa un mantello bianco, ma non nasconde il viso. Sorride e poi sguaina la spada. “Ho una richiesta per voi, cancelliere: spogliatevi”. Nogaret è avanti con gli anni, non ha più l’energia di un tempo, i suoi movimenti sono lenti, ma non riesce a impedirsi di guardare la spada e di accennare un passo in avanti. Il giovane indietreggia, ma non per timore, intuisce Nogaret, forse solo per sferrare meglio il colpo. “Non fareste che favorire il mio braccio. Spogliatevi”. L’orgoglio di Nogaret è intermittente, lo è sempre stato, alla fine fa ciò che gli viene chiesto. Cerca di prendere tempo. “No, mantenete la camicia. Non ho mire su di voi, non di quelle che avete attribuito ad altri perlomeno”. Nogaret ubbidisce e solleva lo sguardo verso il mento del giovane, che non sorride più. “Non vi chiederò di voltarvi. Guarderete la morte in faccia. A voi, per tutto quello che avete fatto in vita, non è neanche permesso di morire dolcemente”. E con un colpo secco gli affonda la spada nel cuore. Gli occhi di Nogaret si stupiscono, il cancelliere del re sente scendere la pesantezza nelle membra, le ginocchia si piegano, ma, in un ultimo sussulto di quell’orgoglio ondeggiante, decide di non appoggiarsi al corpo del giovane. Poi si affloscia. Il giovane attende a lungo, quindi si abbassa e mette la mano destra sulla macchia di sangue che si allunga sul petto di Nogaret. Con calma, e abilmente, riesce a comporre una croce rossa. Alla fine si solleva e nota che il capo di Nogaret è rivolto proprio verso il libro che gli era caduto dalle mani. Lo prende e decide che anche un essere infernale come quello che ha appena ucciso merita un gesto di pietà: con la mano gli chiude gli occhi ancora increduli.

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Parigi, Natale 1314 Nell’angolo più buio della cattedrale di Notre Dame un uomo è inginocchiato, raccolto in preghiera. Sembra un giovane di bell’aspetto, anche se l’oscurità cela parzialmente il suo volto. È lì da più di un’ora, in fondo alla navata, e non sembra intenzionato ad alzarsi per andarsene, malgrado l’ora tarda. Un uomo pio, pensa qualcuno che riesce a scorgerne la sagoma, un peccatore che ha parecchio da farsi perdonare, pensa qualcun altro. Avvicinandosi, si potrebbe osservare che sussurra. «Sono morti tutti: il papa, il re, il consigliere. Riposate in pace, Maestro». Parole che solo le sue visioni possono afferrare. Il viso dai tratti distesi, benché fiammeggianti per natura, il sorriso che appena gli ingrossa le gote, lasciano pensare che l’interlocutore immaginario gli risponda. E la risposta sia quella che il giovane si aspetta. Oltre le porte della chiesa, la città si prepara al Natale, ma il lamento segreto per la morte di Jaques de Molay si leva ancora. Molti sono convinti che l’ultimo Maestro dei Templari, morendo, si sia trasformato in un angelo vendicatore. Lo pensa anche Pierre Mathieu, il carceriere di de Molay nelle prigioni del castello di Chinon, che ora continua a pregare. Pierre ha trascorso con lui gli ultimi sette anni della sua vita. Tutti i giorni gli portava da bere e da mangiare. All’inizio lo guardava con sospetto, come se si attendesse che da quelle labbra nascoste dalla lunga barba spuntassero denti aguzzi o fiamme di drago. Poi lo ha guardato con curiosità e quando de Molay gli ha parlato è rimasto sorpreso: non ha afferrato il senso delle parole, ma si è sentito accarezzato dal tono. Il Maestro chiedeva soltanto altra acqua. Pierre è un ragazzo semplice: non sa leggere e scrivere, ma è abbastanza intelligente da capire che la disperazione di un prigioniero sa architettare un numero infinito di stratagemmi. E da capire che non è questo il caso: de Molay ha già dato l’addio. Ciò che dirà, con la voce sfibrata, nei giorni seguenti sarà per Pierre un dono senza contropartite tranne il ricordo. Un dono che il giovane dovrà custodire in silenzio, perché il re, e cioè la Francia, non lo gradirebbe. Poi un mattino, mentre ancora parlano e Pierre invita il Maestro a mangiare, de Molay gli chiede candidamente di servirsi entrambi dalla stessa scodella. “In fondo anche da libero cavaliere non avrei potuto offrirti di meglio. Dunque, è il pasto più regale”, sorride faticosamente de Molay. E Pierre capisce che quella è una sorta di investitura. E poiché

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mangiano con un solo cucchiaio, è già un rito. Pierre ha raccolto molte dicerie sui riti di quell’ordine così severo a cui la cristianità deve molto. Così aveva pensato fino a qualche tempo fa. Poi si è detto a voce alta che nelle mani dei cavalieri l’incenso si trasformava in carbone. Carbone ardente, della fucina del diavolo, gli ha detto un altro carceriere facendosi il segno della croce. “Lupi in vesti bianche, pelli di agnelli”. E, con la voce che si abbassava fino a scomparire, elencava: eresia, bestemmie, idolatria, sodomia. Intimamente Pierre non ci ha creduto, forse per questo motivo ha accolto con curiosità l’illustre prigioniero. Un altro giorno Pierre intuisce che de Molay non rimarrà ancora per molto in quella cella. Nei giorni precedenti il Maestro ha parlato a lungo. O meglio, le parole sono state poco più dei silenzi, ma raccontavano una storia. Pierre si è chiesto più volte perché de Molay la raccontasse proprio a lui. Un carceriere gentile, ma niente di più. Probabilmente una spia per poche monete. Non migliore di quell’Esquieu de Floyrac nominato dal prigioniero. E sicuramente non migliore di quel Guillaume di Nogaret che – questo lo ha capito bene – ha raccolto un’infinità di informazioni sull’ordine. “Una preghiera per ogni falsità, Pierre, e sarà come se pregasse l’intera Notre Dame. Per me e i miei cavalieri. Dio ci accoglierà con gioia”, dice ora de Molay con gli occhi improvvisamente accesi. “Ma il re?”, chiede timidamente Pierre. De Molay guarda Pierre e la sua mano destra si sposta a sinistra. Lievemente. “Ormai è inutile parlarne”. “Mi avete già detto tanto”. “E non sai perché, vero? Ho sbagliato spesso sull’amicizia. Hai sentito da qualche parte il nome di Guillaume de Plaisians? Diceva che era un mio amico. Se così fosse allora dovrei cercare gli amici migliori in questo carcere. E lo sto facendo. Di te mi fido”. “Se fossi in voi non lo farei”. De Molay sorride. “Sei intelligente, lo avevo capito. Sai leggere e scrivere?”. Pierre scuote il capo, come subendo l’umiliazione. “Meglio. Neppure io sono colto, ho avuto bisogno che qualcuno mi aiutasse e i sapienti mi hanno spalancato le porte del carcere”. E racconta ancora. Nomi, fatti, sospetti, tradimenti. Pierre capisce che il Maestro sta parlando per sé. Non lo interrompe, ma non perde una parola, e neppure un

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episodio. Pochi giorni prima di essere arso vivo, proprio nell’isola davanti a Notre Dame, de Molay gli dice, posando le mani sulle sue spalle: “Avrei voluto ricompensare degnamente l’amicizia di un buon carceriere e fissare un legame che forse, in altre condizioni, avresti apprezzato e coltivato”. Poi aggiunge: “Saresti stato un ottimo cavaliere, Pierre Mathieu”. “Sicuramente sarei stato devoto”, risponde Mathieu. “Lo so. E mi basta”. Francia, Moret-sur-Loing, 1327 Non bestemmia, ma vorrebbe farlo. C’è un buco nella barca, un ammasso sbilenco di legno che ha vissuto a lungo. Pierre Moguy non ricorda più quante volte ha dovuto ripararlo. Si limita a sospirare, mentre guarda l’acqua che lentamente sale dal fondo. Per fortuna sta per approdare. E per fortuna è abile con le mani. La barca avrà un altro rattoppo, ma non morirà prima di lui. Guarda anche il cielo nuvoloso. Sarà brutto tempo. Ripete gesti che ripete da sempre. Poi cammina lentamente verso casa, affondando dapprima nella sabbia e poi nei sassi minuscoli. Sente le voci della moglie e dei due figli e una risata che gli sembra estranea. Strizza gli occhi, si fa attento. La porta è aperta, ma le voci vengono da fuori, dalla parte della casa che guarda la collina. Quando gira l’angolo vede i bambini correre, la moglie ridere e un uomo che manovra con le mani strane figurine. Per terra c’è una cassa con due maniglie e il coperchio aperto. Un mago, un giocoliere, pensa Pierre. “Cosa ci fa qui?”. Moguy è diffidente. “Pierre”, grida la moglie quando lo vede. Moguy si avvicina, abbraccia la donna che ha le guance arrossate, mentre i bambini sembrano inseguire uno sciame di farfalle, e intanto guarda l’uomo. Non più giovane, ma neppure anziano. “Chi è?”, chiede. “Un girovago”, risponde la moglie, “è divertente. Ha tante cose strane”. L’uomo si avvicina. “Pierre? Abbiamo lo stesso nome. Mi chiamo Mathieu. Pierre Mathieu”, dice, tendendo le mani. Moguy non sa cosa dire. D’istinto vorrebbe respingere quelle braccia troppo amichevoli, poi si arrende. Ma il viso si incupisce. E l’uomo sembra accorgersene. “Se mi date un bicchiere di vino vado via. Avete bisogno di stare con loro e ho capito che qui non si fanno troppi affari”. Il tono è di scusa, ma quasi sbarazzino. Moguy assentisce col capo e fa un cenno

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alla moglie, che intanto ha richiamato i bambini. Abbraccia anche loro e capisce che stavano giocando con delle figure sospese miracolosamente nell’aria, appena sorrette da un filo quasi invisibile. Li lascia andare, si siede sul gradone di pietra davanti al tavolaccio e il girovago, con naturalezza, lo affianca. “Anche per un vagabondo è strano capitare qui. Non è facile arrivarci dal villaggio”, dice Moguy. “Ah, ma non sono un vagabondo. Sono un mago commerciante”. “E cosa vendi?”. “Un po’ di svago. E dei congegni che ho raccolto qui e là. Potrei dire che sono anche un collezionista. Volete vederli?”. “Ti ho chiesto come hai fatto ad arrivare fin qui” L’uomo si piega e guarda Moguy dal basso. “Siete molto diffidente, Pierre. Cosa temete?”. “Non temo niente”. “Bene, allora. E cosa dovreste temere, del resto? So che ci sono molti riguardi per voi”. “Cosa vuoi dire? Quali riguardi?”. “I soldati vi rispettano. Il re vi rispetta”. Moguy fa per alzarsi, ma la mano di Mathieu lo blocca. “Restate ancora, Pierre. Come vi ho detto, ho molti congegni, e non tutti di pace”. Il tono è ancora di scusa, ma la stretta della mano è quasi una minaccia. La moglie di Moguy torna e posa una brocca di vino e due tazze sul tavolaccio. “Signora, mi siete simpatica. Guardate pure dentro la cassa. Ci sono molte cose che vi piaceranno”. La donna lancia un’occhiata al marito, non trova una risposta nei suoi occhi e con un passo di danza si gira e va verso i figli. E’ ancora giovane e snella, eppure la vita non deve essere facile per lei. “Una bella donna, Pierre”, commenta Mathieu. E ora il suo tono è più freddo. “Allieterà ancora i tuoi giorni. Non hai nulla da temere. Nemmeno da parte mia. Ascoltami solo per qualche istante. Ricordi quella cassa che ti fu affidata cinque anni fa da Pierre Gaudes? Ah, ancora Pierre, deve essere il destino. Una cassa quasi uguale alla mia. Forse è per questo che mi hai accolto con tanta diffidenza? Erano tempi duri, lo so. Ti spaventasti e la portasti al balivo del re. Nessuno può condannarti, per questo. Però non riesco a credere che tu abbia consegnato la cassa così com’era. Voglio

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dire, non guardasti dentro e non prendesti nulla? Mi è difficile crederci. Sono certo che ci sai fare con le mani. Come è vecchia quella barca, chissà quante riparazioni. E non hai soldi per farla aggiustare dal carpentiere del villaggio. Giusto, Pierre?”. Moguy non ha mai sudato. E non suda neppure stavolta. Si guarda attorno, come a cercare una via d’uscita da quella situazione. Mathieu lo fissa e gli posa una mano sul collo. “Non voglio rubare a un ladro, se è questo che pensi. E non sono qui per farti del male. Voglio solo sapere cosa ti sei tenuto e forse ti chiederò un dono, in cambio della gioia dei tuoi bambini e di tua moglie”. Poi allenta la presa sul collo di Moguy, che si alza lentamente e si dirige verso la casa. Mathieu lo segue e quando l’altro entra dentro si ferma sulla soglia. Moguy armeggia nell’oscurità, poi torna e consegna a Mathieu un libro. Sulle labbra aleggia quasi un ghigno: “Non è rimasto altro, solo questo e non so cosa sia. Se fosse prezioso qualcuno lo avrebbe chiesto. Io non so leggere. Dimmelo tu, è prezioso?”. “No Pierre. E neppure io so leggere. Però donamelo e te ne sarò grato. Ma nascondi sempre le tue cose sotto il letto? Non importa. E poiché io sono più onesto di te, ti dirò che non ne avresti mai tratto un solo soldo. Non avere rammarichi. Lo pago, anche. Ti lascio la cassa e stavolta potrai tenerti tutto. Al re non interessa”. Ha vagato a lungo, Pierre Mathieu, ma non ha mai lasciato la Francia. Il grigio dei capelli, all’altezza delle gote, dice la sua età di mezzo. Ha lasciato il carcere sputando sul piatto del comandante delle guardie. Aveva una meta? No. Non ha trovato un lavoro, forse non lo ha cercato. Gli è sempre sembrato di vivere, camminare, mangiare, amare, in una nuvola scurissima, carica di pioggia. Trasportato chissà dove. Eppure una meta ce l’aveva. Luoghi. Molti luoghi. Castelli e abbazie, torri e case. Spesso diroccati. Là dove qualche cavaliere del Tempio aveva sostato, camminato, mangiato, amato. Là dove gli stessi cavalieri avevano discusso fra loro, avevano cenato a due a due dalla stessa scodella. Dove erano stati traditi. Dove avevano cercato di riorganizzarsi. Ha sempre trovato macerie e questo ha incupito il suo sguardo, moltiplicato le sue rughe, annerito il suo umore. Quando le fronti quasi si toccavano, in quei lunghi anni in una cella angusta, de Molay gli raccontava storie di passioni, forza, potere e fede.

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“Ma anche le cose minime contano”, gli disse una volta e quella volta il suo sguardo era ambiguo, scrutatore. Malgrado il Maestro fosse ancora più fiacco e sfiduciato. In un piccolissimo villaggio della Bretagna, vicino a Saint Malo, osservando stancamente i gesti di un pescatore, Pierre ricordò improvvisamente la vicenda del commendatore delle case di Dormelles e di Beauvoir, vicino a Moret. Pierre Gaudes, rammentava perfettamente il nome, come tutti i dettagli dei racconti di de Molay, temeva – non a torto – che si tramasse contro l’ordine e decise di nascondere una cassa che gli era stata data in custodia da un ispettore del Tempio. Commise un errore: la consegnò a un pescatore, che la nascose sotto il letto, come si seppe in seguito. Quando Filippo ordinò l’arresto dei Templari il pescatore si spaventò e consegnò a sua volta la cassa alle autorità del re. A Guillaume de Hangest, ricordava anche questo. Chissà per quali misteriosi sentieri la storia si è risvegliata nella mente di Pierre e si è collegata al manoscritto consegnato a Moguy. Quando il pescatore scompare oltre le poche case, Pierre Mathieu rimane a lungo disteso, a fantasticare, cullato dal debole sciabordio delle onde. E ricorda altre cose. Un’altra stranezza. D’improvviso, una sera, de Molay gli aveva chiesto: “Ma davvero non sai leggere?”. Dubbio bizzarro, perché il Maestro ne dubitava? Non glielo aveva detto più volte, sempre con quel senso di umiliazione? “Davvero, Maestro”. E gli era sembrato che de Molay fosse soddisfatto della risposta. Ma non aveva aggiunto altro. Era rimasto assorto, come seguendo una segreta strada della mente. Mentre lascia a cavallo Moret-sur-Loing, ripensa alla storia di Gaudes e a quella strana domanda di de Molay. Che non aveva bisogno di una conferma: sapeva benissimo che per Pierre i libri erano misteri. Segni incomprensibili. Questo che ha infilato in una sacca oscillante sul fianco del cavallo gli sembra un vecchio manoscritto. Dovrebbe chiedere a uno studioso, ma non lo farà mai. Dunque non sa che farsene di quel libro, ma sa anche che lo conserverà. Dall’Europa a Dio e ritorno, 1328 André Marie si è spogliato di tutto. Anche del nome. Non ricorda più da quanti anni ha la barba lunga, che gli copre tre quarti del viso. Forse dal giorno in cui a Parigi, nell’isola della Senna davanti a Notre Dame, vestito

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da pezzente, ha visto il fumo levarsi dal rogo. Bruciava de Molay, bruciava anche la sua adolescenza. Lo stesso giorno in cui ha deciso che era arrivato il momento di partire per Roma. Il viaggio è stato lungo, forse troppo, ed è arrivato nella città santa dopo molti anni. L’eco del massacro degli ultimi Templari si è già spento, ma non nel cuore di André Marie. A chi lo avvicina gli occhi appaiono profondi, scuri, spesso allucinati. Cammina ancora eretto, quasi con la testa all’indietro e il petto incredibilmente in avanti. Chi volesse schernirlo potrebbe dire che ha qualche malformazione alla colonna vertebrale. André Marie ricorda invece quando ha conosciuto Meister Eckart a Parigi. E quando l’ha rivisto, l’anno precedente. Erano gli ultimi giorni del mistico Johannes. Il corpo era stanco ma la voce dolce eppure tonante. E le sue parole lucide nelle lezioni seguitissime. La sua fama cresceva mentre il corpo deperiva. André Marie non aveva bisogno di quelle parole per arrivare dove era arrivato da tempo. Ma la conferma dei suoi pensieri, e dei suoi propositi, era stata comunque un conforto. Da altrettanto tempo si era spogliato anche di se stesso. In un primo momento aveva attribuito tutto al suo delitto, ma poi aveva capito che se non c’era rimorso non c’era colpa. E André Marie non aveva alcun rimorso. Anzi. Le leggi divine non rispondono delle leggi umane. André Marie ha viaggiato molto. Dalla Francia alla Scozia, dove è stato accolto, in segreto ma amichevolmente, da alcuni rifugiati del Tempio. Dall’Italia al Portogallo. Dall’Olanda alla Sassonia. Ha sempre portato con sé poche cose. E quel manoscritto che aveva raccolto accanto alla bocca senza respiro di Guillaume de Nogaret. Lo ha letto, la storia l’ha incuriosito. Ma non è andato oltre. Le sottigliezze, gli studi approfonditi li ha sempre lasciati agli altri. In ogni momento André Marie si è fatto guidare dall’istinto piuttosto che dalla cultura. Ha sempre concesso che le immagini lo invadessero, senza discuterle. E ogni istante della sua vita un po’ di più. Sorride quando si rivede giovane: voleva essere un guerriero. Di Dio, ma comunque un guerriero. Aiutare i pellegrini era per lui un atto di forza. Se tutto avveniva senza intoppi, cioè senza violenza, avvertiva una corrente di delusione di cui si vergognava e chiedeva perdono. Ora André Marie bussa alla porta di una locanda, in un paesino vicino a Tubingen. Ha letto il nome del paese, ma non lo ricorda. Il padrone è

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burbero, alla sua richiesta di una stanza per una sola notte si è accigliato e lo ha squadrato. Poi ha bofonchiato un sì. André Marie è salito al piano di sopra e ha posato le sue bisacce. Si è steso sul letto. Non mangia da due giorni, forse ha fame, ma è abituato a respingere la voglia di mangiare. Questa è la sua battaglia, in mancanza d’altro. Se non ci sono nemici, ha sempre pensato, bisogna accontentarsi di se stessi. Forse mangerà più tardi o forse domani. Il cibo per lui non rientra fra le cose indispensabili. È un bisogno che può essere tenuto a bada. Prende solo un po’ di laudano per lenire i terribili dolori che da tempo lo perseguitano. Socchiude gli occhi e le immagini degli ultimi tempi tornano puntualmente. André Marie sente i suoni. Uno scalpiccio. Non ha paura. Dio è con lui, e lo sa. Dio non ha mai giudicato il sangue e la spada, ma la fede e il sostegno. Dio non ha mai avuto bisogno di altari ma di pensieri. Mai di riti ma di volontà. Mai di altri ma di ciascuno. Al centro di una candela sempre accesa. Al centro di quel fuoco. Si avvicinano sagome scure che danzano, lo scalpiccio è un canto. Intuisce contorni di bestie che forse vogliono aggredirlo, ma André Marie non sa accettare che qualcosa che viaggia nella sua mente, e dunque viene da Dio, possa essere ostile. Eppure sono proprio cavalli, André Marie non ha dubbi. Sorride. Il Signore è più forte dei cavalli. Ora gli sembra di intuire anche i colori. Vede strisce di bianco che scorrono su strisce di rosso. Il bianco non è macchiato dal rosso, ma André Marie non sa dire se il rosso sia smacchiato dal bianco. Vede anche dei numeri che si confondono in quei colori. Ora la stanza è nel buio assoluto, ma per André Marie è sproporzionatamente illuminata dalle immagini che gli scavano dentro. Uno scavo che non fa male ma inquieta, questo André Marie non può negarlo. Inizia a sudare, freme, si vede dentro una carrozza sfarzosa che dapprima viaggia lenta, poi rapida, sempre più veloce. Ma non è una carrozza, anche se è trainata da quattro cavalli. André Marie è sballottato, tenta di afferrarsi al velluto dove è seduto, ma riesce solo a stracciare la stoffa. La testa sbatte contro gli spigoli della carrozza che può essere – addirittura – una biga. I contorni sono rossi, rosso scuro, André Marie sa che il rosso è il colore del delitto. “Ma non di quel delitto”, sente dire da una voce lontanissima. A ogni svolta sente il suono inconfondibile di una tromba. Di molte trombe. Forse conosce anche il numero delle trombe, ma il numero gli passa accanto troppo veloce perché possa scorgerlo.

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E poi i musi dei cavalli che quasi entrano nella carrozza. Anzi, sono dentro, dalle froge cola un liquido bianco spumoso che finisce spruzzato tutto intorno. Soprattutto sul suo grembo. André Marie si ritrae, ma non ha ancora paura. Non ne avrà mai, sa anche questo. Non gli importa quante bestie entreranno nella carrozza. Neppure la possibilità che entri la Bestia. Neppure quando la vede. Ma non è una Bestia. Ha gli zigomi dolci, i capelli corvini scarmigliati, i seni pesanti, un pube invitante, una veste che ondeggia e non copre. Non è una bestia, e nemmeno un impero maledetto. “Questo è il vero impero”, si sente dire. E subito si pente. Si percuote il capo, già intontito dai colpi sugli spigoli. La visione svanisce e André Marie si tortura per i sussulti al basso ventre. Quando ha finito le maledizioni, si accorge di non essere più sulla carrozza, sta camminando. Di fretta. Poi si ferma di colpo: davanti a lui ci sono due alberi. Sono spogli, ma danno l’impressione, chissà perché, di essere meravigliosamente rigogliosi. Uno in particolare lo colpisce, quello di destra. Delle strane figure si materializzano ai lati, ma non fanno niente, si limitano a osservarlo. André Marie sa che ha sempre voluto nutrirsi dei frutti di quell’albero. Dell’altro ha paura. Lui non conosce la paura, perché ha paura? “Perché non sai cosa ha dentro di sé”, sente una voce. Una voce normale, forse di un vecchio, accovacciato oltre i due alberi e quasi nascosto dal fogliame che scende folto fino al suolo. Anche lui ha la barba, ma è diversa dalla sua. Come se non fosse cresciuta qui, ma altrove. Una barba eterna, gli viene da pensare. “Sei caduto anche tu nel buco?”, gli chiede la creatura. E non aspetta risposta. “Strano”, continua. “Devi avere qualche speciale missione”. André Marie supera il limite dei due alberi e si avvicina al vecchio, ha deciso che lo è. “Ah, ecco perché ti interessa tanto l’albero della Saggezza. Ma attento, questa è una terra di confine, qui non puoi contare nulla. Non sai quanti dei ci sono, quanti sono morti e quanti nasceranno. Per te è complicato, anche se vuoi avvicinarti a un dio unico. A proposito, come sta il tuo Dio? Gioca sempre con i suoi figli? Li martirizza ancora? No, non rispondermi, non me ne preoccupo. Chi più chi meno… Però è anche vero che il tuo sta piantando un altro albero. Laggiù, vedi… Non so come lo chiamerà, o lo chiameranno per lui. Forse albero dell’angoscia”. André Marie sente la rabbia montargli dentro. “Come osi, vecchio? Credi che mi sfuggano le tue parole, solo perché vivo in questo sogno?”

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“Ma tu non stai sognando”, ribatte la creatura. André Marie apre gli occhi. Non ha dormito. Non dorme mai. Il sonno è il nemico dell’estasi. Si alza di scatto, per quanto gli è possibile, e fruga nelle bisacce. Estrae un libretto, piccolo, col dorso verde cupo, consunto dall’uso. Le mani scivolano e bagnano le pagine. E’ sudato all’inverosimile. Si dice che non ha capito molto di ciò che ha visto con gli occhi della mente e del cuore, eppure sa quello che deve fare. André Marie è un essere speciale. Parigi, febbraio 1334 Questa volta Pierre non ha bevuto molto. Il vino faceva troppo schifo anche per lui, più schifo del solito. In genere si accontenta, ma ci sono momenti in cui un gusto antico spunta dalla gola e sembra rimproverarlo. Come se fosse stato a lungo e barbaramente trascurato. Esce comunque barcollante dall’osteria e non sa se è colpa del vino, di questo vino, o di tutto quello che ha bevuto durante la sua discutibile esistenza. Fuori fa molto freddo, ma non se ne accorge: quel liquido, anche se poco, anche se schifoso, lo ha riscaldato. Dalla bocca esce un fiato che si avvolge come una fiamma bianca. La stamberga dove vive, al piano terra, in un cortile interno, non è molto lontana e lui s’incammina in quella direzione girando dietro l’osteria. La strada è stretta ma lunga da percorrere, per niente illuminata. Non lo sorprende sentire un “ehi”. Aveva già notato la donna da lontano, nonostante l’oscurità. E anche questa, da quelle parti, non è una sorpresa. Pierre Mathieu, non avendo una donna sua, frequenta abitualmente le prostitute, ma questa sera non ne sente il bisogno e affretta il passo senza rispondere. Dopo un po’ però se la ritrova addirittura davanti. È strano, non ha sentito i passi e deve aver corso per raggiungerlo e superarlo. “Ehi, aspetta”, e gli sbarra il passo. Non è sola. A poca distanza c’è un’altra figura. Scruta quasi controvoglia e intuisce che è più giovane di quella che lo ha chiamato. Per un istante ha pensato che fosse un uomo e, malgrado l’indifferenza per le ultime cose della vita, si è fatto attento. Ora respira e scuote la testa. “Scusa, ma non è la serata giusta”. Pierre non è mai stato arrogante e volgare con le prostitute. Le rispetta. E quella che gli si avvicina e gli tocca un braccio non gli pare sconosciuta.

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Dell’altra vede solo pochi tratti. “Invece lo è. Anzi, oggi è un giorno speciale”, dice la prima. “Non ti disturberemo oltre quello che ti piacerà”. “Non mi disturberete?”, chiede Pierre stupito. “Certo. C’è anche la mia amica. Anzi, parente. Non è di queste parti e non ci resterà per molto”, aggiunge con una certa incongruenza. Pierre si sporge in avanti per guardarla meglio. In effetti, non ha un viso conosciuto. Tutto questo gli sembra davvero strano: è abituato all’insistenza, ma stavolta gli appare eccessiva. E incomprensibile. “Ti prego, lasciami andare, non ho molti soldi. Anzi, non ne ho proprio”. “Non ti preoccupare”, sussurra la più giovane. “Vedrai che qualcosa riuscirai a trovare”. E dall’accento Pierre capisce che non è parigina. E il suo non è un linguaggio da prostitute, almeno di quelle che frequenta lui. Ma ormai ne ha viste troppe di cose bizzarre. E dolorose, paradossali. Da molto tempo fa caso solo a pochissime cose. Quelle elementari, come mangiare e dormire. E bere, naturalmente. Le due donne gli si mettono ai fianchi, gli afferrano le braccia e quasi lo trascinano. Mathieu si arrende. Arrivano subito alla sua stanza e lui le fa entrare con un senso di vergogna e una leggera stretta al cuore. Questa volta gli dispiace che il suo alloggio sia così miserabile. “Aspettate”, dice, e accende una grossa candela, poi altre due appese alla parete opposta. Ora l’illuminazione è accettabile e l’effetto, se possibile, peggiore. Mentre la donna meno giovane si siede sul letto e, pateticamente, gli posa il capo sulla spalla, la ragazza rimane in piedi e si guarda attorno, incuriosita. Va da una parete all’altra per osservare da vicino le poche proprietà di Mathieu: una cassa, un baule, un armadio e un letto. Nient’altro. Naturalmente non fruga nell’armadio e non tenta di sollevare il coperchio del baule, ma Pierre ha come l’impressione che vorrebbe farlo. E intanto la osserva, dimenticando l’altra. Non è bella: ha gli zigomi troppo alti. Intuisce, sotto il corpetto, dei seni piccoli e sodi, ma le gambe sono lunghe, lunghissime. Dopo qualche istante cambia idea: no, è bella. Ma perché? Per gli occhi, direbbe, mobilissimi, ma anche quelli in fondo non hanno niente di particolare. E allora? Il fatto è che non capisce perché quella donna, che non è certo una prostituta, sia con lui in quella topaia. La prima, quella che lo ha chiamato, ha i seni grandi e persino superbi, il cerchio delle natiche meravigliosamente ampio. Dalla memoria affiora qualche dettaglio: sì,

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la ricorda. La ragazza termina la sua invisibile perlustrazione e si adagia anche lei sul letto. “Vieni, siedi vicino a me”, gli dice. Più un ordine che un invito, anche se delicato, qualcosa che l’amica non potrebbe fare. O almeno così pensa Pierre, che si solleva pesantemente. Per lui il sesso è pura e sbrigativa necessità, raramente piacere pieno. La giovane si spoglia lentamente e con coscienza, ma è facile intuire, per uno come Mathieu, che non sono movimenti naturali. E questo è un dettaglio che eccita la fantasia di Pierre. Non capita spesso. Tanto meno ora che ha cinquant’anni. Ma se si aspetta che la ragazza liquidi l’incontro in pochi istanti di mestiere, si sbaglia. E solo ora si accorge dell’altra, che si è spogliata ugualmente alle sue spalle. Ed è proprio lei a piegarlo dolcemente sulla schiena, liberarlo dei vestiti e passargli le mani sul torace, avvicinando alla bocca i seni pesanti. Così non vede nulla di ciò che fa l’altra. Lo sente e non lo vede. Sosta a lungo sui suoi piedi, che non possono essere puliti. Per Pierre è un’altra fonte di vergogna. Forse la più dolorosa. Poi prova un dolore fisico improvviso e fortissimo, come se fosse stato morso e le vene si liberassero del sangue. Di scatto si inarca, ma l’altra, la prostituta, lo blocca chiudendogli la bocca con la bocca. Il dolore si rilascia lentamente e scompare quando Pierre capisce che le labbra della giovane si stanno chiudendo sul pene. Avverte i denti che scivolano come un pettine. Accade a quel punto ciò che Pierre considera un miracolo: capisce che per le due donne, e soprattutto per la più giovane, non c’è niente di disgustoso in quella stamberga. Né Pierre, né i suoi anni, né la sua sporcizia. Forse è deliziosa anche la sua riluttanza. I capelli scarmigliati che nascondono gli zigomi della ragazza sono un balsamo che scioglie tutte le rughe, anche le più intime. E la più anziana sembra voler rendere lisce e innocenti le mani ruvide e callose. Infine sono distesi tutti e tre e Pierre Mathieu non può nascondere la vergogna più intensa. “Ho pochi soldi, davvero. Se li do a voi, non mi resta niente”. “In compenso avrai molti ricordi”, sussurra ancora la giovane. “Già, e con questa stramaledetta guerra né avrò molti altri”. “Eh sì, navi distrutte, un esercito malconcio… Vedo un futuro disastroso per voi”. Mathieu piega il viso per guardare la faccia della ragazza, che però è rivolta al soffitto. Non si è nemmeno accorto che l’altra non c’è più. Non ha

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voglia di accertare se si è solo spostata in un altro angolo della stamberga. “Non sei francese”? “Solo un po’. Penso che tu abbia visto di peggio”: “Già”. “Imbrogli, morti. Roghi, infamie. E torture. Immagino”. Pierre la guarda con lo stesso stupore di prima. “Normalità, insomma, non fare quella faccia. Se viviamo vediamo. Ma come mai non sei nelle Fiandre o in qualche altro campo di battaglia”? Pierre Mathieu sorride. “L’ho semplicemente evitata. Ne avevo abbastanza. E a Parigi è facile evitare tutto”. “Non tutto, direi. Beh, è ora che vada”, dice sollevandosi. E la voce, per quanto delicata, non è più un sussurro. “Mi dispiace, non posso pagarvi”. “L’hai già detto. Io invece penso che tu possa pagarmi, magari non con le monete”. “E con che cosa allora”? “Con un vecchio libro, per esempio. A me piacciono i libri”. “Non ho nemmeno libri. In questa casa, se casa vogliamo chiamarla, ci sono solo muffa e povertà”. “Sei sicuro? Nemmeno uno? Magari l’hai scordato e lo conservi da parecchi anni”. Mathieu rimane interdetto. Dopo un tempo lunghissimo i suoi occhi si illuminano. “Oddio, quel manoscritto”? “Se ne hai uno solo, allora è sicuramente quello”. Pierre guarda la giovane e poi piega il capo verso il basso. Trascorre altro tempo nel silenzio di entrambi. Si direbbe che quell’uomo invecchiato precocemente stia leggendo qualcosa sul pavimento. Con la mente che si commuove. Una storia svanita giorno dopo giorno nella frustrazione. Le macchie, che abbondano, sono tanti capitoli, una carta geografica. Ad ogni macchia dedica un sorriso. Poi si solleva, va verso una cassetta per la frutta nell’angolo opposto al letto. Fruga a lungo e torna indietro. Sul palmo della mano, senza che le dita lo stringano, c’è un rotolo protetto da una fodera di cuoio. Soffia sulla polvere che si solleva come una nube. “Non ci pensavo più da molto tempo. Non so perché, ma ho sempre avuto paura a… maneggiarlo”.

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“Tranquillo, non morde i buoni di spirito”, dice la giovane prendendolo senza fretta, ancora distesa. “Del resto non avrei potuto leggerlo. E…” “Non ti fidavi a mostrarlo a qualcuno, immagino. Avresti potuto imparare a leggere”. “Già. E non sai quante volte ci ho pensato. In realtà, è assurdo che non l’abbia fatto”. “Questione di spirito, Pierre Mathieu. Credo di capire. Hai lasciato che la lealtà andasse oltre. Forse troppo. Non ti era stato chiesto di offrire tutta la tua vita”. “Se è per quello, non mi è stato chiesto niente”. Ora Mathieu sembra irritarsi. “Ho deciso da solo”. La giovane gli tocca delicatamente il braccio, ma non dice niente. Poi sussurra: “Hai ucciso qualcuno?”. Pierre annuisce: “Sì, uno spagnolo. Ma non voglio raccontare. È stato dopo, non molto tempo fa”. “Non ti chiedo niente. Casomai ti importasse, il pescatore invece è ancora vivo. Un po’ più vecchio, ma vivo”. “Io ti chiedo come hai fatto a trovarmi”. La giovane si solleva sul bacino, poi si piega all’indietro portando le braccia al fianco, un gesto che Pierre giudica volgare e stonato. La risposta arriva attutita: “Dei buoni amici rimangono sempre le tracce. E altre amiche le conservano”. Solo a questo punto Pierre si chiede di nuovo dove sia finita l’amica. Forse è andata via, anche se non ha udito rumori. Neppure la porta sgangherata che certo non si sarebbe chiusa in silenzio. “Questa non è una risposta”. “Lo è. Teniamo un conto preciso degli amici, anche se sono carcerieri”. Pierre annuisce ancora: “Suppongo che non sia il caso di chiedere altro”. “Sì. Ma non addolorarti. In sensi diversi siamo entrambi vittime. A te è stata riconosciuta l’intelligenza: non hai avuto difficoltà a capire cosa intendesse dire il Maestro e cosa volesse da te. Io non lo so ancora”. Ora dall’occhio di Pierre potrebbe sgorgare una lacrima. Da un momento all’altro. Come se lo intuisse, la ragazza si alza di scatto, si riveste e si avvicina alla porta.

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“Addio, Pierre Mathieu. Sai, sei ancora vigoroso. E parli come un letterato”. “Il nome, almeno il nome. Alla mia età si comincia a vivere di ricordi”. “Ma i tuoi sono cattivi, quindi faresti meglio a dimenticarli. Sostituiscili, hai ancora il tempo. Comunque il mio nome è Ginevra”. “Nient’altro?”. “Se pure hai brutti ricordi conservi qualcosa di cui andare fiero: la lealtà. E quindi posso fidarmi. Ginevra Larmenio. Ora devo andare, per dividere con la mia amica”. Reims, 1335 Ciò che unisce Ginevra Larmenio e André Marie è una corona di spine. Molti anni prima Ginevra, ancora adolescente, aveva assistito a una rappresentazione sacra nella cattedrale di Notre Dame, a Reims. Naso all’insù, non riusciva a staccare gli occhi dai petali del grande rosone. Non era la prima volta, ma era sempre come se lo fosse. Quelle vetrate l’attiravano più di ogni altra cosa. Forse i colori, forse l’altezza, forse il mistero che emanavano. Sotto, confuso nei fumi eccessivi dell’incenso, c’era un Cristo vivente adagiato su una lastra di marmo. Aveva molte ferite, troppe persino rispetto alla tradizione più macabra, e il viso dell’uomo disteso riusciva a trasmettere un dolore infinito. Ma anche un sottilissimo piacere. C’era qualcosa di scabroso e perverso in quella messinscena. Attorno al Cristo circolava, forse pascolava, un agnello. In altri tempi sarebbe apparso profano, ma allora i fedeli si chinavano ogni volta che l’animale passava davanti a loro. E, come se fosse ammaestrato, l’agnello, irrealmente luminoso, non deviava mai dal tragitto: un cerchio rasente il Cristo sanguinante. Ginevra vide le gocce di sangue, quando riuscì a staccare gli occhi dalle vetrate. Osservò anche, con un brivido di ribrezzo, un gruppo che si lamentava oltre il cerchio ideale dell’agnello, dietro la testa del Cristo. Erano uomini e donne, avevano i volti coperti da sudari che, si capiva, volevano cancellare ciò che di naturale c’era in quei visi. Come se fossero decapitati. E non a caso ciascuno portava tra le mani una maschera cadaverica imbottita sul retro. Tante teste staccate. “È un passo dell’Apocalisse di Giovanni”, le sussurrò all’orecchio il padre, Giovanni Marco Larmenio, il nuovo Maestro dell’ordine. Ginevra non disse niente. Sperimentava ancora una volta una sensazione

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che per lei era diventata antica, a dispetto dell’età. L’esaltazione del colore rosso. Prima le mancava l’aria, poi sentiva le gote infiammarsi e infine la coglieva un senso spasmodico di attesa. Intuiva vagamente che al fondo, o all’inizio, c’era qualcosa di indicibile che le sfregava dolorosamente la pelle. E che doveva essere consumato, contro ogni legge insegnata. Era proprio in quella condizione quando alla fine del mistero religioso, che ripeteva altri passi dell’Apocalisse, i fedeli si accostarono pudicamente al Cristo. Era carne viva e donne e uomini la toccavano, con discrezione e – alcuni – con piacere. Il suo sguardo si fissò su un giovane che si avvicinava con passi pesanti al volto del Cristo, osservandolo per un tempo infinito. Poi il giovane premette un dito sulla corona di spine autentiche finché non sgorgò una goccia del suo sangue. Lanciò attorno uno sguardo furtivo e la succhiò, tenendo avidamente il dito dentro la bocca. Ginevra non si perse un istante della scena. Seguì il giovane fino alla porta della chiesa, senza dire niente al padre che parlava a bassa voce con alcuni parenti. Si aspettava che bagnasse la mano sull’acquasanta e invece tirò dritto. Ginevra affrettò il passo e poi, senza sapere cosa la spingesse, prese il giovane a braccetto. Oltre il grande portale, nella luce naturale. Il giovane non reagì, si lasciò condurre sulle strade puzzolenti, intuendo soltanto che quella donna non aveva una direzione precisa. Si stupì della forza delle mani, che lo stringevano e quasi lo trascinavano. Camminarono, in silenzio, fino alle porte della città. E ancora oltre, dove già piante giallognole prendevano il posto della case. Fino a una cappella sconsacrata e diroccata, dove entrarono senza fermarsi sulla soglia abbattuta. Ginevra allontanò le mani dal corpo del giovane e gli si piazzò davanti, guardandolo negli occhi. Poi lentamente prese la sua mano, accarezzandola più volte. Individuò il dito che il giovane aveva succhiato, trovò il punto nero da cui era sgorgata la goccia di sangue, avvicinò la bocca e con i denti riaprì la ferita. Succhiando a sua volta il sangue. Poi, ancora più lentamente, fece scivolare il dito lungo il suo corpo, fino al bacino. Lo premette come un coltello su quella parte dove era sicura fosse più forte l’attesa. Il vestito non era un ostacolo per i suoi sensi, ma forse lo era per il giovane, che, ansimando, spinse con forza il dito, quasi volesse perforare la stoffa. Ginevra chiuse gli occhi, sentì una folata fresca scorrere sulla pelle e poco dopo si sentì strattonata e lacerata. Il dito insanguinato si muoveva dentro di lei, che iniziò a ruotare il bacino,

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come se il coltello fosse troppo stretto per lo spazio che lo conteneva. Dopo un tempo lungo e breve il giovane si accasciò. Non aveva detto ancora una parola udibile. Piegati l’uno sull’altra, si soffiarono il fiato sui volti. Poi parlarono a voce bassissima. Di ciò che si dissero la storia non riporta nulla, ma da allora – era il 6 aprile – ogni anno in quello stesso giorno Ginevra Larmenio e André Marie si sarebbero ritrovati sotto le volte della cattedrale di Notre Dame. Anche oggi sono lì. Ginevra è tornata a Reims lottando contro il senso di insicurezza che la perseguita da tempo. Un compagno infedele, pensa con un sorriso, segno fedele dell’arroganza che non l’abbandona mai. Ora i suoi legami familiari sono sospesi, affidati soprattutto al ricordo. Come altri templari, Ginevra Larmenio è in fuga. Ha molti compiti da assolvere e di alcuni di loro non capisce il senso. Ha vagato per l’Europa, da Bruxelles a Magonza, da Aquisgrana a Praga. Ma ha sempre rispettato l’appuntamento con André Marie. Se non li unisse la corona di spine, lo farebbe il colore rosso. Il sangue. André Marie, per ordine di Larmenio, ha cercato, trovato e giustiziato Nogaret. André Marie non era e non è un templare e il Maestro aveva avvertito che la mente del giovane era troppo tortuosa per fermarsi su un’idea, meno che mai su una fede con le sue regole. Era un mare in tempesta, perché fosse utile bisognava inseguire le sue onde e dirottarle con abilità. Aveva capito che il miglior nocchiere era Ginevra. L’occasione per mettere entrambi alla prova era arrivata e tutto in quell’occasione rispondeva ai bisogni insondabili del giovane. Per Ginevra non era stato difficile convincerlo. Scoprì addirittura che l’idea era sorta spontaneamente nella mente di André Marie. Quel che non poteva prevedere era che il giovane, dopo l’esecuzione, si portasse appresso un bizzarro libro e sentisse il bisogno di affidarlo a Ginevra. E a Ginevra quel libro, dopo una rapida lettura, non disse nulla. Ma non lo gettò nel fuoco. Lo conservò e lo consegnò al padre, l’ultima volta che si incontrarono. Ginevra comprese allora che c’erano, in terra e in cielo, in quegli anni mai così vicini all’Inferno o al Paradiso, molte cose che non conosceva. Il padre rimase pensieroso per un’intera giornata. Nelle settimane seguenti non nascose l’agitazione e si aggirò inquieto per tutte le sale della villa, in un villaggio sperduto del sud della Francia. Era come se cercasse di

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afferrare un ricordo. Un episodio a cui non aveva attribuito importanza e che adesso invece si mostrava sotto un’altra luce. “Mi spiego ora perché sono stati separati”, lo sentì borbottare una volta. “Perché, trovato uno, restasse l’altro. Ma è forse arrivato il momento di riunirli? Come due gemelli che non possono essere divisi. Che soffrono”. Una notte, mentre Ginevra era avvolta dalle coperte ma non dormiva, sentì la porta aprirsi e il padre, al chiarore fioco di una candela, una sagoma che vibrava tra luci e ombre, le disse che doveva ripartire. E le spiegò il suo incarico. Doveva rintracciare un uomo che si chiama Pierre Mathieu. Ma doveva raddoppiare l’attenzione. Forse i pericoli stavano per moltiplicarsi, ma neppure lui, il Gran Maestro, avrebbe saputo spiegare la natura di quei rischi. Ginevra Larmenio guarda per la millesima volta le vetrate della cattedrale di Notre Dame. Sembra voler bere quel vetro che si scioglie in acqua benedetta, anche se ha abbandonato da tempo il concetto di benedizione, ma senza farne mai parola con il padre e con tutti i templari fuggiaschi che ha incontrato. Sente un passo pesante e si volta. André Marie le sorride. E lei lo prende a braccetto. Poi gli posa un dito sulle labbra e lui lo succhia, chiudendo gli occhi. Dopo qualche istante di un piacere che si direbbe reciproco, Ginevra piega la mano, gli scarmiglia i capelli e gli dice: “Dobbiamo partire. Stavolta insieme”. Continua a parlare e contemporaneamente guarda rapita il rosone della facciata. Quella perfezione sferica, quei colori luminosi e caldi l’hanno sempre incantata. Ma qualcosa rompe l’incantesimo. Un uomo colossale e armato di pugnale avanza rapido alle sue spalle, la ragazza percepisce il pericolo riflesso negli occhi sbigottiti di André Marie. Si gira fulminea, artiglia con le unghie il volto dell’uomo e fugge rapidissima verso l’uscita del transetto nord. Il gigante ha un attimo di smarrimento, si tocca il viso rigato di sangue, e questa esitazione permette ad André Marie di scappare nella direzione opposta, verso l’uscita sud. Ripresasi, quella creatura corpulenta si mette all’inseguimento di Ginevra, che proprio in quel momento abbandona la chiesa. Una volta all’esterno l’uomo viene investito dal tremendo vociare di una folla immensa: oggi è giorno di mercato a Reims. “Maledizione. Dove ti sei nascosta, lurida puttana?”, biascica.

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Avanza spintonando le persone che gli si parano davanti, mentre Ginevra, poco oltre, è confusa fra quella moltitudine che urla, chi per vendere la propria merce, chi per spuntare un prezzo migliore, chi per insultare chi storce il naso. Lei si è fermata: osserva attenta e non perde di vista quel gigante che si staglia su tutti. Deve trovare con urgenza un nascondiglio ma, allo stesso tempo, non vuole uscire da quel fiume umano che la protegge. Continua ad avanzare curva, finché non intravede una possibilità di salvezza: un carro carico di maiali è fermo lungo la strada. Riesce a raggiungerlo, a salirci sopra e a confondersi con gli animali. Dalle stecche del carro controlla la strada e vede l’uomo avanzare con difficoltà, voltandosi in tutte le direzioni. È furibondo, continua a sanguinare dal volto, ma non ci bada. In questo momento ha altro di cui preoccuparsi: se non ritroverà la ragazza, il cardinale sarà implacabile. Ecco, ora è proprio davanti al carro, Ginevra trattiene il respiro e al resto ci pensano i maiali, che con il loro tanfo allontanano l’inseguitore. Dopo un tempo che a Ginevra sembra non finire mai, l’uomo ripercorre la strada da cui era giunto e, dopo qualche istante, scompare in mezzo alla folla. Ginevra attende ancora prima di saltare giù dal carro finché il cuore riprende a battere regolarmente. Il padre le aveva spiegato che una cosa del genere poteva succedere, ma aveva anche predisposto un piano di fuga. Ora deve raggiungere la vicina abbazia di Saint Rémy e chiedere asilo all’abate. Con André Marie, se è ancora vivo, si ritroveranno in qualche modo. Abbandona il nascondiglio e si immerge di nuovo nella calca del mercato con i vestiti imbrattati di sterco di maiale, emanando un odore che fa spostare la gente al suo passaggio. Tremando, si sente più vulnerabile. Riesce comunque a raggiungere Saint Rémy. Una sola parola al monaco portinaio le spalanca le porte dell’abbazia. Ginevra è stesa sul lettino. La stanza è spoglia, più ancora di quelle quotidianamente abitate dai monaci. Si trova in un’ala segreta dell’abbazia. O almeno difficilmente raggiungibile per via di un ingresso nascosto. L’abate Perry, davanti a cui è stata condotta, non le ha chiesto nulla e questo ha detto a Ginevra più di quel che immaginava. Il potere residuo del Tempio le è chiaro da tempo, ma non manca mai di sorprenderla. Pochi gesti verso un altro monaco, esageratamente curvo in avanti, e Ginevra è stata scortata nell’ala segreta. Ha sentito su di sé qualche sguardo lanciato

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dalle ombre dietro le colonnine del chiostro. È notte e lei è immobile sul letto. Non dorme. Adesso più di qualche ora fa le domande si affollano. Chi era quel gigante? E cosa vogliono da lei e da André Marie? Ginevra sa che drappelli reali e cattolici sono ancora sulle tracce dei Templari. Anche lei è perennemente in fuga, ma ha già avvertito che il senso di insicurezza va oltre la caccia. C’è qualcos’altro ed è legato all’agitazione del padre quando le ha affidato l’incarico di varcare la Manica. Ma cosa? La risposta, o parte della risposta, è in quei due manoscritti che le sono stati affidati. Quello che le era stato consegnato, per una strana casualità, da André Marie e che lei aveva mostrato al padre, e quello strappato a Mathieu dopo un’ora d’amore che chiunque considererebbe sporco. Il padre le aveva riconsegnato l’altro manoscritto e i due libri erano il suo bagaglio nel viaggio fino a Canterbury. Un viaggio bruscamente interrotto. Ma Ginevra non ha portato con sé i manoscritti. Li ha messi al sicuro, prima di entrare in città e dirigersi verso la cattedrale, in un luogo poco oltre Reims, sulla via che porta a Calais. Non è difficile recuperarli, il problema è sapere chi e perché è interessato a ciò che rappresentano. Il padre non le ha detto nulla e ciò che lei ha letto in quelle pagine non ha svelato il mistero. Anzi, lo ha infittito. Dove non si trova niente se non la normalità di una leggenda qualunque, ma è evidente che qualcosa c’è, allora esistono persone che sanno. E sono disposte a tutto pur di impossessarsene. Anche a uccidere. Ginevra sente il freddo crescere. Non ha mai amato la retrovia della guerra. E sente sempre montare la determinazione, anche l’istinto alla violenza, quando affronta qualcosa di grande. Conosce la paura, ma fin da giovanissima è riuscita a trasformarla in piacere. E perfino in bisogno. Ecco perché infrange spesso le regole. Personali e generali. Della pelle e della mente. Ma ciò che non sopporta è il buio: ignorare la ragione per cui sta combattendo. Perché quei manoscritti sono così importanti? Vede la risposta come una massa scura che si muove incerta fra le sue visioni. L’impotenza le strappa un grido, che rimbalza forte tra le pareti nude della cella. Un’idea senza senso la artiglia improvvisa: quell’inseguimento, quella ricerca, va oltre i secoli, raggiunge i millenni. Ha un’origine antica e tremenda. Lei è solo l’ultima preda. Lei e André Marie. André Marie? Dove sarà? Fuggendo, è riuscita a scorgerlo mentre si

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lanciava nella direzione opposta, per disorientare il gigante. Ed è certa che poi è tornato indietro e ha rintracciato l’aggressore e lei stessa. Sentiva la sua presenza. Non ha paura per lui e sa che lui non ha paura per lei. È un altro dei tanti anelli della catena che li lega. Se avessero avuto un istante di tempo prima di fuggire i loro sorrisi si sarebbero incrociati. Ma dove sarà andato? E non si può escludere che sia stato catturato. Persino che sia stato ucciso. È certa però che la terza ipotesi è da scartare. Nell’oscurità sente anche un rumore lieve, quasi impercettibile. Ginevra è nuda sul letto, ma la lama del pugnale è sempre a contatto del fianco, come a tenerla sveglia. Con movimenti lentissimi impugna l’arma. Ha appena il tempo di sollevarla ma non di affondarla quando la luce di una candela illumina il volto di André Marie quasi sopra il suo. E allora, anche se in ritardo, i loro sorrisi si incrociano. Tra loro, creature di scontri ma in fondo senza tempo, non è mai tempo di spiegazioni. Vale solo il momento presente, con la promessa di stranezze involontarie che li ha sempre avvinti. Così André Marie, come cercando conferma ad antiche visioni, perlustra gli zigomi dolci, i capelli corvini scarmigliati, i seni piccoli e duri di Ginevra. E intanto le unghie di Ginevra scorrono violentemente sulle spalle del giovane, fino a cercare le aperture del vestito e la pelle nuda. E forzarla fino a far sgorgare il sangue. Ginevra rimane nascosta nell’abbazia di Saint Rémy per cinque giorni, fino a quando l’abate, apparendo all’improvviso e provocandole un leggero fastidio, non le comunica che è arrivato il momento di lasciare la città. “Domani all’alba partirai per Calais e da lì, una volta raggiunta l’Inghilterra, andrai a Canterbury. Prenderai la via francigena, la strada che percorrono i pellegrini che rientrano da Roma”. Ginevra scuote nervosamente il capo, ma prima che possa aprire la bocca l’abate continua: “So cosa vuoi dirmi. Non sei sola. Un’ombra ti segue. E forse, a quanto mi è stato detto, è qualcosa di più un’ombra”, e a Ginevra sembra che negli occhi dell’abate baleni un riflesso malizioso. “Ma voglio che sia ancora meno sola. Benché il cardinale si sia ormai convinto che tu abbia già abbandonato Reims. Sarai scortata da un gruppo di monaci che devono recarsi in visita pastorale a Christchurch, la cattedrale di Canterbury. Sotto il saio saranno perfettamente armati, e sfido chiunque a trovare in terra di Francia qualcuno che sappia maneggiare la spada meglio di loro.

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Per ridurre ulteriormente i rischi anche tu indosserai il saio e viaggerai sempre nel mezzo del gruppo. Una volta a Canterbury, alloggerai alla locanda del Pavone, vicinissima alla cattedrale. Lì qualcuno ti dirà come raggiungere un luogo segreto in Scozia. Un’ultima cosa: dal momento in cui entrerai a Canterbury non disporrai più della scorta. Dovrai uscire dalla locanda il meno possibile. Che il Signore giusto e misericordioso ti protegga”. “Quale cardinale?”, domanda Ginevra. “Non serve che tu lo sappia”. E sono giorni inquieti quelli che André Marie e Ginevra trascorrono a Canterbury. Sanno di poter essere rintracciati. Escono raramente dalla locanda, quando il tanfo della stanza diventa insopportabile, e solamente dopo l’imbrunire, per andare a nascondersi nell’oscurità delle navate della cattedrale che si innalza a pochi passi. Anche tra le mura scrostate dove ci sono solo un letto e due sedie la tensione non li abbandona e vivono quei momenti interminabili nella disperazione dell’inattività. Fino a quando un giorno non ricevono il messaggio che li esorta a mettersi in viaggio per raggiungere la Scozia. La notte prima della partenza Ginevra preme il dito su una piccola ferita alla mano che André Marie si è procurato nelle ore d’ansia, rovistando con i denti tra le pellicine. Mentre gli succhia una goccia di sangue, Ginevra fissa i suoi occhi in quelli del giovane: “Le tue visioni ti uccideranno, piccolo principe”, gli sussurra. “Forse lo hanno già fatto”, risponde André Marie a voce ancora più bassa. Ginevra resta a fissarlo senza parlare. Conosce le strade della sua mente. “Ho visto tutto. Ho ricevuto il bacio degli dei. E, sai, non ho sudato. Stavolta non ho sudato. Non ho sentito quelle maledette viscide perle sulla pelle. Dunque è vero”. “Cosa è vero?”. “So come morirò. Spezzato in tre parti. E tre sepolcri accoglieranno i miei resti. E tre candelabri…”. “André Marie”. “Hai ragione. Stavo scherzando”. “Non stavi scherzando. Ma ora taci”. Il sangue inebria Ginevra e André Marie è inebriato dal sangue. Tace l’una

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e tace l’altro. E l’altro non può dire che alla sua morte, già raccontata, in un luogo lontano, dopo insensati pellegrinaggi, Ginevra non ci sarà. Non l’ha vista nelle sue visioni senza sudore. Scozia, rovine di una cappella sulle rive del Loch Erickt, 1335 “Ah, severe matematiche, più dolci del miele. Onda fresca nei nostri cuori, anche se sembrate così astratte, incapaci di parlare, ma non di esprimervi. Com’è difficile spezzare il vostro guscio, ma come è facile, per chi può, gustarne il succo e toccare la conoscenza”. “E per voi è facile, mastro Skyfelt. Altrimenti non saremmo qui”. La voce di Ginevra sembra la risacca lieve del freddo lago mentre mastro Skyfelt agita un braccio verso il cielo lasciando immaginare il passaggio in territori celesti che a nessuno, o a pochi, è consentito esplorare. “Sapete che tutte le conoscenze matematiche sono già definite e protette da una creatura? No, non lo sapete. Si chiama Maldoror, un giorno racconteranno le sue gesta. Dovrebbe essere un mostro, e perché non un angelo? Comunque sia, ha tentacoli terribili. Dunque è rischioso, fatale anzi, avventurarsi nei suoi domini”. Nelle rovine della cappella il tetto è crollato da molto tempo. Il sole vi penetra indisturbato ma non riscalda. I tre indossano vesti pesanti. Skyfelt sembra rannicchiarsi negli strati di lana e infine si decide a guardare Ginevra e André Marie: “Sì, è una questione di numeri, come forse aveva intuito il vostro superiore”, dice chiudendo gli occhi. André Marie guarda con rabbia il vecchio che parla, ma, a un gesto quasi impercettibile di Ginevra, distende i muscoli del braccio. “Questo manoscritto non ha numeri, nemmeno uno. Quest’altro ne ha molti. Forse troppi, per una vita prudente”. “Ma un Ospedaliere, per quanto avanti negli anni, non ama la vita prudente”, sorride Ginevra. “Io sì, in caso contrario non mi sarei ritirato in questa landa desolata”. “Già, ma non troppo lontana da dove i vostri… compagni si appropriano dei beni del Tempio”, dice André Marie. “Frena la tua indole, cavaliere senza un degno passato. Gli anni non ti hanno giovato”. “Non dategli retta, mastro Skyfelt, André Marie sa cos’è lo spirito, lo coltiva ogni giorno a suo rischio e pericolo, la materia lo infastidisce”, dice

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Ginevra accarezzando il capo di André Marie. Skyfelt apre e chiude gli occhi in un baleno. “Questo è bene, se è vero. Ma allora dovrebbe amare i numeri, la parola di Dio, la sua parabola. Dio si racconta con i numeri e con nient’altro. Pensateci: i numeri sono enigma, infinito, folla, solitudine, commercio, stragi, greggi, cielo. Brevissimi tratti umani, ghirigori di una cattedrale che s’inerpica nell’alto dei cieli, perché puoi sempre mischiarli e avrai altre cattedrali. Ah, sui numeri non riusciremo mai a dire tutto ciò che si può raccontare, ecco perché vengono da Dio. Sono Dio”. “È una giornata fredda, mastro Skyfelt, e il nostro viaggio non è terminato”. “Non dite frasi abusate, madonna Ginevra. I viaggi non terminano mai. Non so molto di questi due manoscritti, ma qualcosa mi rivela che hanno fatto anche loro un lungo viaggio e che non sono ancora arrivati a destinazione. Perché c’è sempre una destinazione”. “Ora vi contraddicete. Se il viaggio non finisce non c’è destinazione”. Ginevra alza la testa di scatto, qualche ciocca di capelli vorrebbe uscire dal copricapo. “Mastro Skyfelt, mentre voi approfondivate le strade indicate dai numeri e vi inoltravate in caverne oscure, in antri segreti, noi avevamo altre questioni da risolvere. Numeri? Sapete, ho visto decine di uomini uccisi. E so che molti di più sono stati torturati. Ero piccola e non sapevo ancora contare, ma mi sembravano proprio molti. Chi mi ha dato questo libro, quello che tenete a destra, sapeva contare benissimo. Era il suo mestiere. Quanti entravano e quanti uscivano da una cella. Mi ha detto che non ha visto nulla, però ogni giorno contava i lamenti. A un certo punto ha perso il conto”. Ginevra si piega e il suo alito quasi inumidisce il viso di Skyfelt. “Quando i numeri diventano troppo alti cresce in proporzione la potenza di Dio?”, chiede con ironia. “Attenta, donna, la vostra famiglia ha giurato di difendere quel Dio proprio per accrescerne la potenza”. “Ma io non ho più famiglia. Ho perso le tracce anche di mio padre. Forse i numeri potrebbero aiutarmi”. “Voi volete nuocere a Dio”. “Come potete dirlo? André Marie, vogliamo nuocere a Dio?”. “No, certamente, solo ai suoi pessimi seguaci”.

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“Potrebbe essere la stessa cosa”. “No”, André Marie scuote violentemente il capo, poi lo solleva verso l’alto. “Ho visto Dio che si contorceva felice nel collo di un giovane, dove un altro giovane faceva ruotare un coltello, sempre più a fondo. In quella ferita c’era Dio, ma c’era anche il demonio. Mastro Skyfelt, ho tanti dubbi. Perché Dio si è fatto uomo per una volta e il demonio fa lo stesso molte volte? Perché i cristiani uccisi sono martiri e quelli pagani no? Oggi va così, ieri andava diversamente, domani in un altro modo ancora. Oddio, non solo gli stivali subiscono l’ingiuria della moda”. Cade il silenzio. Poi mastro Skyfelt ride e annuisce. “Ora capisco perché siete qui. Volete una piccola lezione. Bene. Leggete qualsiasi libro, ci sono lettere e numeri. Diversi gli uni dagli altri. Per i greci invece erano la stessa cosa, i numeri si scrivevano con le lettere. Dunque, se ci sono numeri sono lettere. E se sono lettere, una volta sommate, dicono qualcosa. Ma le combinazioni, per chi deve capire, tendono all’infinito. Forse allora era chiaro, oggi no. Vi fa tremare il numero 666? Ireneo toccato da Dio citava tre interpretazioni, Euanthas, Teitan e Lateinos. Il significato? Se lo conosceva non lo ha detto”. “Quindi…” “Quindi serve una chiave di interpretazione, che si è persa nei secoli”. “E che voi avete”. “Qui si dice che un uomo si è macchiato di un delitto per ottenere questo libro”. “Il nome?”. “C’è, ma non ha più senso di una pietra. Giuliano di Cananea. Probabilmente, a quel tempo, erano migliaia con quel nome”. “Nient’altro?”. “C’è scritto anche: nel nome di Giovanni. E allora c’erano probabilmente più Giovanni di Giuliano”. “Dunque Giuliano, nel nome di Giovanni, ha ucciso lo sconosciuto che possedeva questo libro”. “Sì, e magari nello stesso modo in cui voi volete uccidere me”. “Vero”, dice Ginevra senza abbassare gli occhi. “Sapete, mastro Skyfelt”, dice André Marie, “mentre eravamo in cammino abbiamo sentito una storia edificante. Un vagabondo ci ha raccontato che il castello dove serviva e, dice lui, era molto felice perché i nobili

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erano buoni, è stato espropriato a Temple Liston. Lo ha venduto un certo Rudolph Lindsay. Per pura curiosità abbiamo chiesto a chi è stato venduto. Alla famiglia Skyfelt, ci ha detto. Sono diventati ricchissimi, ha aggiunto, poi si è guardato attorno e ha preso a camminare come una capra impazzita, benché avesse il bastone. Forse era inseguito dalla paura. Avete parenti, mastro Skyfelt?”. Ginevra Larmenio si alza e si toglie il cappellaccio. I cappelli si sciolgono. “Ora mi devo avviare, sono meno veloce di André Marie, capite, e lo devo precedere. Vi ringrazio, mastro Skyfelt”. Ginevra si allontana, gira attorno alla prima ansa del lago e, quando si volta, del rudere si distingue appena una cima. Una specie di coltello di pietra che punta minaccioso verso il cielo. Si siede sulla riva e, incurante del gelo, fa scorrere le mani sull’acqua. Poi si bagna la fronte. Dopo qualche minuto André Marie si siede accanto a lei e ripete gli stessi gesti. “Il manoscritto latino non serve più”, dice Ginevra. “Cosa ne facciamo?”. “Visto che il viaggio è infinito, concediamogli di viaggiare. Chi ha cancellato quei numeri era sicuramente un teatrante, un grande ingannatore, magari un presuntuoso illusionista. Bene, permettiamogli di avere un palco e, finalmente, un pubblico. Un incarico per te, André Marie. Ora dobbiamo dividerci”. André Marie tiene le mani giunte con i gomiti appoggiati sulle ginocchia. China il capo. “I numeri sono sovrani”, dice Ginevra accostando la fronte a quella di André Marie e sfiorandogli la guancia con due dita. “Uno è bellissimo, tre perfetto, due un numero sbagliato”. “L’Apocalisse è stata scritta e pensata da un pagano. Per averla un cristiano ha ucciso un pagano. Un cristiano l’ha data a un altro cristiano che ha raggiunto la santità. E per riaverla ancora ora i cristiani inseguono altri cristiani. Ora? O da secoli? O da millenni?”. I pensieri di Ginevra corrono come le zampe del suo cavallo mentre attraversa la campagna scozzese e poi quella inglese. Fra i pensieri che seguono il ritmo della corsa e il suono sordo della pioggia c’è anche la sensazione che il senso di insicurezza sia finito. Non è finito, lo sa bene. Anzi. Ma sente salire l’euforia. Pensa anche a Skyfelt. Ha avuto l’impressione, fin dal primo istante, che sapesse ciò di cui lei e André Marie intendevano parlargli. Li aspettava. O forse

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voleva solo una conferma. La sua morte non era programmata, ma, date le circostanze, inevitabile. Si batte il petto e sente l’angolo del manoscritto cucito dentro il giubbetto rosso. Cavalca con più energia. Verso Dover. Inghilterra, alle porte di un villaggio della Cornovaglia, 1336. Il carro è partito molti mesi prima da Smithfield. Ora è a poca distanza dal primo paese della Cornovaglia segnato nella mappa sgualcita. Di stazione in stazione la rappresentazione della vita di San Meriasek è stata un successo. Come quella di Santa Caterina, il pezzo forte della compagnia. Il carro oscilla nel sentiero stretto che esce dalla brughiera, ma non è un problema. Gli attrezzi di scena sono ben legati. Solo l’inginocchiatoio, come sempre, dà da pensare ad Haber, che non a caso sta sdraiato accanto e con le mani è sempre pronto a bloccarlo, se la corda dovesse allentarsi troppo. Pare che quello sia l’unico incarico di Haber, che invece è di volta in volta un esaltato chierico, un sobrio vescovo, un dignitoso ufficiale. Chester è in fondo al carro guidato da Lurino e accarezza meccanicamente il piede di Corinna. Che lo fissa da qualche minuto. Chester non se ne accorge, assorto nella lettura di un libro dalla copertina color cuoio scuro. Glielo ha dato un artigiano di Smithfield al termine della messinscena del mistero. A dire la verità, si è presentato come artigiano, ma non ha detto il suo nome. E Chester ha pensato che forse non era un artigiano. Le mani erano troppo lisce, la postura troppo eretta. Non gli sembrava abituato a inchinarsi. Però è stato gentilissimo. Gli ha fatto i complimenti – solo a lui: una stranezza a ben guardare – e poi ha estratto con cautela quel libro da una borsa riccamente decorata. Era un manoscritto, come avrebbe più tardi constatato Chester. Che l’ha guardato un po’ stupito. “È una storia leggermente diversa da quelle che raccontate voi, persino profana”, ha detto sorridendo il presunto artigiano, “ma secondo noi merita una certa considerazione. Se non altro perché ha fatto un lungo viaggio. Fino alla Scozia”. “Noi?”, ha chiesto Chester mentre altri paesani si accalcavano e premevano. Lo ha colpito il linguaggio colto, neppure mascherato. Un artigiano con la passione delle lettere? L’uomo è stato inghiottito dalla piccola folla e, se ha risposto, Chester non lo ha sentito. L’attore vagante ha messo il manoscritto dentro una cassa e

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per un po’ se ne è dimenticato. Rovistando nel baule, l’ha notato qualche tempo dopo e fra un trasferimento e l’altro ha iniziato a leggerlo. “Cosa stai leggendo con tanta passione?”, gli chiede Corinna con una punta di stizza, di cui, come spesso gli capita, Chester non si accorge. “Come?”. “Cosa stai leggendo”, ripete Corinna colpendolo col piede sul mento. “Ah, scusa. Una storia strana”. Corinna gli strappa il manoscritto dalle mani, incurante del gesto di protesta di Chester, e fa scorrere gli occhi sulle prime lettere. “Ma è in latino”. “E allora? Io conosco il latino”. “Chi te lo ha dato? Non l’ho mai visto qui dentro”. “Un tipo, a Smithfield. Uno che si è presentato come artigiano”. “E non lo era? Come si chiama?”. “Non me lo ha detto”. “Chester”, sbuffa Corinna, “la tua tendenza alla distrazione assoluta ti procurerà molti guai, te l’ho già detto. Si pretende sempre di conoscere il nome, soprattutto quando ti fanno offerte inaspettate. E magari pericolose”. “Pericolose?”, replica Chester allegramente: “Ma qui non c’è niente di pericoloso. Anzi, è divertente, e non so perché me l’abbia regalato. Vuoi sapere di cosa si parla?”. “Mi sembra di avertelo già chiesto”. “Si dice che Troia non è stata sconfitta. E poi la storia prende una piega singolare. Si parla degli dei greci che diventano uomini”. “Ma quanti erano gli dei greci?”, chiede Haber, che ascolta con la mano posata sull’inginocchiatoio. “Dodici, credo. Già, dodici”. “Come gli apostoli, allora”, esclama Corinna con voce squillante. “E poi?”. “Beh, poi niente. Diventano uomini dopo avere ucciso Zeus e devono renderne conto a un altro dio, il dio della Colpa”. “Ma allora diventano tredici”, interviene di nuovo Haber, saggiando la consistenza della corda. “Beh, sì. Ma quello della Colpa, se non ho capito male, è il più importante”. “Ma non è Zeus il più importante?”, chiede Corinna spalancando i begli occhi.

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“Sì, ma Zeus muore”. “Zeus non può morire”. “Qui sì”. “Senti, Chester”, si intromette ancora Haber. “Io ti conosco, non è che hai qualche brutta intenzione?”. “Cioè?”, si acciglia Chester. “Non è che vuoi mettere in scena questa roba?”. Chester ci pensa un po’, lasciando il piede di Corinna e accarezzando il manoscritto. “E perché no?”. Inghilterra, round a Mevagissey, 1338 È una rappresentazione bizzarra, ma finora è piaciuta. Nessuno, almeno, ha distrutto il carrozzone. “La morte di Zeus” si legge nei fogli appesi alle porte d’ingresso del villaggio e nelle stradine strette che si agganciano ripidissime, come tentacoli, al porticciolo. Nelle tre recite precedenti, sempre in Cornovaglia, il pubblico del round ha rumoreggiato, poi mormorato e infine forse si è intorpidito. Qualche applauso, lontano dall’entusiasmo, persino sobrie strette di mano. E poiché le bottiglie non sono state nascoste, la compagnia ha brindato discretamente al successo. Chester non ha ancora capito se si può parlare di autentico piacere teatrale. A dire il vero, non ha capito neppure perché ha deciso di portare sul palco una storia così strana. La religione? Sì, la vicenda la sfiora, ma niente più. E sempre sul bordo rischioso del paganesimo. Nel testo comunque ha inserito frasi che non lasciano dubbi. “Qui si celebra una fine. E un nuovo inizio”. Più chiaro di così. Parole semplici per gente semplice. Si narra di Zeus che precipita, ovvero Haber a testa in giù, che si agita urlando, appeso a una corda che scende dall’insegna della locanda più elegante del villaggio, oltre il recinto del teatro. Chester e Corinna si piegano all’unisono, più volte, come a seguire il re degli dei che cade dall’alto in un crepaccio infinito. Scende delicatamente un telone e Zeus via via si dissolve. Per ultimo il viso. Chester ha dovuto convincere Haber a non ridere davanti al pubblico. Poi entrano in scena gli dei superstiti. Chester e Corinna, Apollo e Afrodite. La vista della ragazza, necessariamente in veste seducente, è sottolineata da qualche mormorio. Bisogna dire che la ricerca dei costumi non è stata facile e un’abituale rammendatrice, nel

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paese natale di Chester, ha fatto miracoli. E forse ha aggiunto un ricamo di malizia vendicativa nel cucire la sottilissima veste di Corinna. Haber arriva per ultimo, dopo essersi districato dalla corda. E infine dalla porta della locanda esce Lurino, una creatura nera anche nella pelle. Il fatto è che Chester è rimasto colpito da Scatramante, una figura che compare e scompare in un lampo nel manoscritto che un ancor più misterioso artigiano gli ha regalato due anni prima. Chester non ha resistito. Quella figura per lui, e così deve essere per il popolo, è Satana. L’angelo scacciato che torna per regolare i conti. Ma cosa c’entra con gli dei dell’Olimpo in via d’estinzione? C’entra. Dio e Satana per una volta insieme, nello stesso progetto. Dio non si vede, non può vedersi, non scherziamo. Satana sì. Il grosso della rappresentazione è nei dialoghi fra i tre attori, dove Chester si è sbizzarrito, pescando ovviamente nelle opere del suo repertorio. In più, quel meraviglioso gioco silenzioso delle tre sorelle, Ansia, Paura e Angoscia. Che non hanno necessità di parlare, ma devono esserci. In ogni villaggio Chester ha reclutato tre uomini. Li ha chiusi dentro sacchi grigi, con un effetto spaventoso, ha spiegato i movimenti da compiere e ha notato con soddisfazione che il sistema funzionava. E non costava più di un bicchiere. Così a Mevagissey. La ricerca è stata facilissima, anzi Chester avrebbe detto che i tre prescelti non aspettassero altro. Pensandoci, avrebbe addirittura concluso che erano stati loro a scegliere la compagnia di Chester. Anche stavolta finora tutto è andato bene. Mentre Chester, Corinna e Haber recitano, entrano le figure nei saii scuri, le teste piegate e le braccia incrociate. Annuiscono quando i dialoghi si riferiscono a loro, si drizzano quando vengono chiamate in causa. Il pubblico segue con attenzione più marcata del solito, ha modo di notare Chester. Che però vede all’improvviso un filo di fumo levarsi dal carrozzone. Si interrompe, spalanca gli occhi e poi si lancia verso tutto ciò che possiede. Ma si ritrova con la faccia sul terreno. Una delle tre figure, muovendosi fulmineamente, lo ha sgambettato. Chester si rialza mentre un altro incappucciato sta pestando Haber, che tenta di ripararsi la faccia con le mani, piegandosi all’indietro. Corinna urla e subito due donne la aggrediscono. Megere di oltre 50 anni con la faccia rubizza. Eppure Chester riesce a pensare soltanto al carrozzone, dove intanto il fumo è diventato vampa. È il fuoco che dilaga. Si solleva nuovamente e

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si trova davanti l’uomo che lo ha fatto cadere. L’ha ingaggiato, ma non ricorda nemmeno il suo volto. E comunque non ha importanza. Non vorrebbe combattere, soltanto salvare dalle fiamme il suo teatro. Ma l’altro lo afferra per la spalla e lo costringe a piegarsi. Chester scalcia, ma colpisce solo l’aria. E proprio in quel momento, assurdamente, si chiede perché. Sente le urla di Corinna e vorrebbe aiutarla. Ma si ritrova ancora al suolo, schiacciato da Lurino sanguinante. Il rosso sul nero, un contrasto che lo agghiaccia. Lurino Scatramente, il pezzo forte della messinscena: pochi istanti ancora e sarebbe arrivato a cavallo, nero anch’esso. Con fasce rosse e ondeggianti sul muso. Sono andati a scovarlo, Lurino. E massacrarlo. Dal suolo, con la testa rovesciata, prima di ricevere un calcio in faccia, Chester vede il carro in fiamme. Con le maschere, i costumi, gli attrezzi, i canovacci, i libri. Magonza, 1347 Dicono che sono stati loro, gli ebrei, ad avvelenare i pozzi e a inquinare l’aria. Istigati da Satana. Così è iniziata la caccia al giudeo. La bambina non piange, anche se gli occhi sono lucidi. Quasi immobile, volge il faccino a destra e a sinistra e sembra addirittura fiduciosa. Come se fosse questione di istanti: la madre si farà vedere, tra poco. Ginevra Larmenio la guarda e neppure lei piange, anche se conosce ciò che è accaduto alla madre. Ciò che è accaduto a tante altre madri. E a tante altre figlie. Mentre da un angolo della piazza uomini armati di bastoni inseguono vecchi ebrei e molti di loro entrano nelle botteghe per riapparire trionfanti, trascinando qualcuno o qualcuna, Ginevra non si avvicina alla bambina. La guarda soltanto. Osserva la sua storia che si svolge in un attimo e che comprende il suo passato e il suo futuro. Sono trascorsi cinque anni da quando ha guardato la doppia scia di schiuma bianca dietro la barca che la portava a Calais. Non ha saputo più nulla di suo padre. E nulla di André Marie. Ha bussato alle porte di figli di Templari, che hanno negato. Si è venduta ad altri servi che le hanno sputato sul petto. Si è genuflessa anche davanti a un principe che odiava la Chiesa perché gli aveva sottratto un feudo. Le è sembrato, ma non può essere, che la carta del manoscritto sia ingiallita, che sia comparsa qualche piega, che i caratteri siano diventati pallidi. Ora ha la sensazione che scompariranno prima che lei riesca a farne qualcosa.

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È tornata in Francia, ha costeggiato le Alpi entrando a Vienna, a Varsavia, a Praga. Nessuno l’ha fermata, ma il senso di euforia, che ben ricorda ancora, si è spento presto. E il sospetto, senza prove, che teorie di ombre, sempre diverse, con altre uniformi, la inseguissero incuranti del tempo, non l’ha mai abbandonata. Anche quella bambina ha un’uniforme. Potrebbe essere il vestito di una bambola. Non troppo fantasioso, ma delicato, come tutte le cose piccole. Non ci sono sorrisi da spargere, però. Quello è un pogrom, parola che a Ginevra fa venire in mente un pasticcio di maiale. E la parola “maiale” la sente ripetere, urlare, spesso, anche in questo tardo pomeriggio. Nella piazza principale di Magonza, dove tanti anni prima è stata firmata una tregua. Protezione, ma niente armi, per il popolo eletto. L’inizio della fine, per gli ebrei. A Ginevra quella storia è stata raccontata in molte versioni e lei è sicura di aver capito qual è quella giusta. Ora più che mai, guardando la bambina, che continua a volgere il capo e sembra perdere la fiducia. Molti ebrei sono già fuggiti a est. Da Magonza e da tutte le altre terre a ovest. Puntando sulla città della Renania anche lei aveva molte speranze. Lì i cittadini avevano avuto la forza di ribellarsi al potere del Papa. Quel potere che per lei era diventato nefasto. Più demoniaco dei demoni che la Chiesa esorta a scacciare. Anche quelle speranze sono andate deluse. Ci sono sempre armi da scoprire e usare. Forse è quell’indifferenza acquisita a frenarla davanti alla bambina. Cosa c’è da salvare? Ginevra ha deciso di andare via, al seguito della famiglia ebrea che l’ha accolta a Magonza e che ha vuole stabilirsi in Italia. Non ha condiviso il disprezzo di chi al banco del padrone di casa chiedeva soldi con la bava e storceva la bocca quando riportava più soldi di quelli che aveva preso. Ha vissuto nella famiglia e ha capito. Di più, si è sistemata dietro il banco il giorno in cui il padrone si è ammalato e ha trasformato il disprezzo in sfida. Guarda per l’ultima volta la bambina, si gira e fa per andarsene. Ma sente un urlo e vede che un giovane afferra la piccola per il braccio e tenta di trascinarla via. Ginevra conosce le pulsioni che si nascondono dietro i tumulti che vorrebbero essere giusti o almeno motivati. E in questo caso sa perfettamente cosa vuol fare il giovane. Torna indietro, estrae il vecchio pugnale che non ha mai abbandonato, dono sofferto del padre, e lo immerge nel torace del giovane. Quasi un segnale: mentre il giovane si

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accascia urlando, altre figure le si fanno attorno. Ginevra è una guerriera, le ferite non la fermano, in breve tempo davanti a lei si apre uno spazio vuoto, la fuga è possibile. Torna alla casa della famiglia ebrea, lasciando dietro di sé una sottile striscia di sangue. Il padrone fa un cenno alla moglie e a due figli, la sostengono e la distendono sul letto. Si lascia curare il tanto che ritiene necessario e vuole che tutti lascino la stanza. Ma la notte il figlio più giovane, che fin da quando è arrivata la guarda con gli occhi bassi e un tremito che Ginevra conosce, entra nella stanza. Sente il suo sussurro. “Hai bisogno di qualcosa?”. “Sì”, risponde Ginevra con una voce che sembra allontanarsi. “Portami il giubbetto, se non hai paura del sangue”. Il giovane esegue goffamente. Ginevra scuce la stoffa ed estrae il manoscritto. Sorride al giovane. “Per scherzo o per davvero mi hai detto che faresti qualunque cosa per un mio sorriso?”. Il giovane non risponde, ma lei nota il tremore delle labbra. “Allora porta con te questo manoscritto. Dovunque arriverai, saprai cosa farne. Ti guiderà la tua fede. Sei un ebreo, non sei un cristiano”. Il giovane non sa cosa rispondere. Aspetta che Ginevra prosegua. Ma la figlia dell’ultimo Gran Maestro, lo sguardo nel vuoto, non ha più nulla da dire. Firenze, 1348 David Hosser è giunto in città da un anno, l’unico della sua numerosa famiglia a esserci riuscito. Il padre Menachem aveva pianificato con ansia, ma nel modo migliore possibile per i suoi mezzi, la fuga verso l’Italia. La situazione a Magonza è precipitata e la concitazione del rabbino ha avuto l’unico effetto di aizzare gli animi. L’inerzia rapace sembrava l’abito perpetuo di quegli uomini e quelle donne che abitavano nel tugurio, sopra l’insegna della bottega che nei giorni di pace apparente raccoglieva richieste, disperazione, rancore. L’improvvisa agitazione, per quanto mascherata, non è sfuggita alle finestre della strada e del quartiere. L’intera famiglia è stata sterminata durante un rastrellamento prima spontaneo e poi, a pochi metri dall’uscio, fin troppo organizzato. Tutti i parenti di David sono stati sorpresi in casa. Non hanno avuto la possibilità di uscire. Le porte sono state bloccate e loro sono arsi vivi nel

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rogo acceso con mani febbrili e sguardi sghignazzanti. Solo David, il più giovane, si è salvato perché al momento dell’assalto non si trovava nella casa. Un amico cristiano, disperato quanto lui, gli ha descritto le spallate furenti e angosciate per abbattere le porte. Le grida, i lamenti. “Qualcuno ha implorato, l’ho sentito. Ma non tuo padre”. Uno sforzo inutile, che fuori moltiplicava gli insulti e le risate feroci. L’amico, malgrado il rischio, lo ha aiutato e David è riuscito a lasciare la città e partire per l’Italia. Con poche cose addosso e lacrime represse. Sapeva, perché così aveva deciso il padre, di dover raggiungere Firenze e la bottega di stoffe di un lontano parente, Samuele da Todi, col quale Menachem aveva mantenuto anche rapporti di affari. Un’indicazione vaga: nessun indirizzo, niente e nessuno che potesse aiutarlo. Lo ha guidato la forza della disperazione e, dopo una lunga ricerca, più faticosa per la magrezza spaventosa, è riuscito a scovare la bottega del parente, in una viuzza non distante dalla piazza e dalla stamberga dove ha trovato accoglienza in cambio di un lavoro: ripulire dallo sterco la strada della Gilda. Samuele è un uomo ricco, per il quale la generosità è un segno della sua ricchezza, e ha accolto David come il figlio che non ha avuto. Sua moglie è morta da qualche anno e la presenza del giovane ha ammorbidito una solitudine interiore che i denari, gli amici e il vino potevano soltanto esaltare. Per David è cominciata una vita nuova. Ha lavorato con energia nella bottega di Samuele e pian piano ha conquista la fiducia del parente, che da parte sua ha accettato discretamente la tristezza che vela gli occhi del giovane. Un giorno, durante una pausa, David esce dal riserbo che lo ha accompagnato fin dal suo arrivo e gli parla. “Vorrei raccontarti una storia, cugino, e chiederti un consiglio, perché, francamente, la mia testa è piena di dubbi”. “E quali dubbi può avere un giovane bello e forte come te?” “Negli ultimi anni, a Magonza, è arrivata una donna straniera, bellissima. Viveva con noi, e soprattutto aiutava mio padre, con grande abilità. Il mio cuore impazziva ogni volta che la vedevo, ma ero troppo piccolo per poterle dichiarare il mio amore. Mi limitavo a guardarla e questo mi bastava. Un giorno è rientrata a casa barcollante e macchiata di sangue: l’avevano ferita a morte, probabilmente in un agguato. Si è stesa sul letto, mi ha fatto cenno di avvicinarmi e mi ha consegnato un vecchio libro

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sussurrando che era molto prezioso e che io avrei sicuramente saputo cosa farne. È morta subito dopo. Ho provato un dolore immenso. Ma non c’è stato tempo nemmeno per quello. Sai cosa è accaduto e quali altri dolori mi sono caduti addosso. Sono fuggito, ma ho portato sempre con me quel libro scritto in una lingua che non conosco, forse perché era il suo unico e ultimo regalo. Non so perché, ma sono convinto che nasconda qualcosa d’importante”. Samuele prende in mano il manoscritto che il giovane gli porge con infinita delicatezza, lo maneggia con altrettanta cura, ne saggia la consistenza e l’età, poi dice: “Sì, sembra molto antico, e direi che è scritto in greco, anche se, a voler essere sincero, neanch’io capisco questa lingua. Però ho un amico fraterno, Giovanni, uno scrittore. Se non hai niente in contrario, glielo affidiamo”. Il giorno dopo, con una lettera che sollecita il suo aiuto, il manoscritto viene portato da un servo a Giovanni. David non nasconde l’amarezza per il fatto di doversi staccare da quelle righe che sono tutto ciò che gli resta di Ginevra, che lui ha conosciuto con un altro nome. Pensa anche, con un po’ di gioia, che però è l’unico modo di compiere qualcosa che lei avrebbe sicuramente approvato. E dopotutto se aveva avuto fiducia in lui doveva essere ragionevolmente certa che le sue azioni sarebbe state giuste o almeno giustificate. Ricorda, ed è uno dei ricordi che non potrebbe cancellare neanche volendolo, il suo sguardo dolce e rassegnato. Così per giorni e giorni attende che il cugino gli dia notizie del manoscritto. Non ha la minima idea di cosa aspettarsi. Finora, quando ci ha pensato, visioni fantastiche e nebulose gli hanno attraversato la mente, mescolate ai gesti di Ginevra, al suo silenzio carico di mistero. Un lungo sogno pieno di dettagli senza senso che non sembrano venire dalla sua mente, ma dall’esterno. Da lontano. Da molto lontano. Come se, dal luogo in cui si trova e che la religione ormai abbrutita del giovane non sa individuare, Ginevra gli parli e lo guidi. Ma con un linguaggio troppo diverso dal suo perché possa capire. Non avrà il tempo di sapere, comunque, né in un verso né nell’altro. Il 1348 è iniziato da pochi mesi quando a Firenze scoppia un’epidemia di peste nera. Il flagello si diffonde rapidissimo facendo strage della popolazione. Non risparmia neppure Samuele e David, che si ammalano e muoiono con lo stupore sui volti. Per una felicità svanita, per una felicità mai arrivata.

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Muoiono a distanza di pochi giorni, in due letti affiancati, dove la sporcizia cade a grani grossi dai bordi. Grecia, Monte Athos, 1350 Non ricorda quanti anni ha. Non succhia più il sangue. Solo il viso di Ginevra conserva un’impressionante nitidezza e André Marie considera questa immagine la giusta punizione. Ci convive e ora è un sorriso ora una fitta. È vecchio, e si sente ancora più vecchio. Le dispute religiose non lo appassionano più, per lui quel luogo, in quel momento, è stata una scelta naturale. Non gioiosa, ma sufficiente a sorreggere l’alito di vita che gli resta da lungo tempo. Ha capito che non deve conoscere più nulla e che il tempo si è fermato. Accanto a lui c’è un gatto, che sembra preferirlo a tutti gli altri, nel monastero. André Marie non sa perché e non se lo chiede. Attende che il sole inverta il suo lento cammino. Certaldo, abitazione di Giovanni Boccaccio, primavera 1362. Frammenti di una lettera dello scrittore a Francesco Petrarca. “…hai detto più volte che se avessi un solo pane saresti lieto di dividerlo con me. E così è per me verso di te, Francesco amatissimo, si rinnova sempre il piacere di inviarti una lettera perché so che così certamente ne avrò una in risposta. Ma oggi ti scrivo perché il mio cuore non è sereno. Qualcosa lo grava. A costo di tediarti, ma so che tu inorridisci nel leggere di questo timore, voglio raccontarti ciò che mi è accaduto nelle ultime settimane. Ho cominciato a comporre un libro a cui tengo molto e che intitolerò “Genealogia deorum gentilium”. Vi dedico molto del mio tempo. Ricerco, compulso, interpreto. Voglio essere di casa nell’Olimpo e voglio che anche i lettori lo siano. Sono avanti nel lavoro e ne traggo piacere. Dovrei dire, ne traevo. Qualche giorno fa è arrivato un monaco. Veniva da parte del certosino Pietro Petroni, pio uomo che entrambi conosciamo, morto, come Dio ha voluto, nel trionfo dell’amore del nostro Signore. Lo dicono già santo e, se non lo è ancora, sicuramente lo sarà. Mi ha stupito molto la visita del monaco. E mi ha spaventato, non temo di dirtelo, il suo sguardo allucinato. Pareva, e credo sia la sua condizione abituale, un leone sul bordo di una fossa. Dentro, nuotano tutti i briganti e i lerci del

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mondo. E lui sembra pensare che al mondo non possano esserci che lerci e briganti. Ed è quello che pensa anche di me. Non riporto tutto ciò che mi disse perché non voglio annoiarti e neppure ricordare la mia impressione. Mi chiese, anzi mi ordinò, ripetendo – mi ha giurato – le parole di Pietro Petroni, di pentirmi, di rinunciare ai miei studi profani che tanto danno avrebbero arrecato al Signore nostro Dio. Mi disse di bruciare le opere che avessi già scritto in questo senso, e di dedicarmi esclusivamente all’esercizio della virtù. Gli chiesi perché lui, o meglio, il certosino, volesse questo da me. E perché proprio da me, piccolo e insignificante. Lo chiesi mentre un sentimento sgradevole mi stringeva il cuore. Mi rispose che era necessario che mi disponessi all’ultimo passo nelle condizioni migliori. E questo era tutto ciò che poteva dirmi, e non a tutti, aggiunse, è data questa fortuna. Sì, mi colpì questa visita. E mi terrorizzò, ghermendomi il cuore e la testa. Eppure, per quanto sconcertante, era ancora poco rispetto a ciò che vidi poco dopo. Il monaco non se ne andava, benché garbatamente lo invitassi a farlo. Continuava a vagare da una stanza all’altra, mentre io mi tenevo a debita distanza. Ero perplesso. Ciò che aveva da dirmi l’aveva detto, cos’altro pretendeva? Nulla, apparentemente. La sua voce si smorzava ripetendo parole di scongiuro e di preghiera per le mie supposte offese. Era una cantilena, ma, oltre il significato delle parole, il tono mi pareva ora indifferente. Poi prese a rovistare qui e là, ma con negligenza, come se pensasse ad altro. Si fermò di colpo quando intravide, sotto una pila di libri che non leggo o consulto da tempo, un volume quasi nascosto. Se ne scorgeva solo un lembo. Non so perché lo attrasse. Ma fece una cosa strana: lo estrasse con cautela, lo tenne tra le dita della mano sinistra, facendolo oscillare nell’aria e guardandolo come cosa infetta. E guardava anche me come cosa infetta, con gli occhi incendiati. Non so perché reagii a quel modo: ebbene, caro Francesco, mi sentii invadere dalla rabbia, gli strappai quel libro dalle mani, lo riposi sopra la pila, e poi ebbi la forza di spingere il monaco fuori. Spingerlo, letteralmente. Rimase perplesso, ma non disse niente. Vidi la sua bocca storcersi, come se un’altra preghiera premesse per uscire, ma non disse niente. E potei così chiudere la porta dietro le sue spalle frementi. Non sapevo cosa fare. E ancora adesso non so come spiegare. Quando mi calmai ripresi in mano il libro e mi ricordai come fosse giunto nel mio

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studio. Sono passati molti anni da allora, ma forse ricorderai la morte del nostro comune amico Samuele. La peste lo ha portato via, come tanti altri che amavamo. Samuele, prima di morire, mi fece avere un antico manoscritto perché lo facessi tradurre. È redatto in greco e ora, come già altre volte, mi rammarico assai di non avere appreso questa lingua a cui molto, se non tutto, dobbiamo. Quando ebbi la triste notizia della morte di Samuele, dimenticai quel libro. O forse mento: non volli occuparmene. Ciò che avessi saputo, del resto, non gli sarebbe servito più. Puoi capire come la strana curiosità del monaco si sia trasferita su di me. Vincendo l’inquietudine che mi prese e mi prende ancora, ho consultato Licio Portinari, sul cui intelletto nutro molti dubbi ma a cui riconosco una certa perizia. Dopo pochi giorni mi ha restituito il manoscritto e, accanto, una traduzione letterale, anche se letterariamente discutibile. Ho cominciato a leggere e devo dirti che più volte ho pensato di smettere e non riprendere. So che mi darai del pazzo e del visionario, ma passo dopo passo l’inquietudine si è moltiplicata. Un’inquietudine orribilmente uguale a quella che mi perseguitava mentre ascoltavo le litanie del monaco. Saranno solo coincidenze, ma non riesco a liberarmi del disagio. Come se percepissi che Petroni volesse mettermi in guardia, e perdonami se mi libro in territori scoscesi per la mente umana. E comunque c’è qualcosa di concreto, di meno spirituale nel mio atteggiamento. Caro Francesco, io sto scrivendo un libro sulle imprese degli eroi e degli dei, questo manoscritto racconta la guerra di Troia, il teatro più sfolgorante di queste gesta, ma nel manoscritto non c’è niente che rifulga, non vedo i riflessi abbacinanti delle armature, i rumori possenti delle spade che si incrociano, l’eco delle mirabolanti imprese. In poche parole non vedo gli eroi. Vedo solo il sangue, le feci e la morte. Questa è una guerra laida, sporca come l’acqua che buttiamo dai catini dopo le pulizie, orrida come la peste che ci ha così duramente colpiti…”. Lo sfogo con l’amico è servito a Giovanni. Gli sembra di aver ritrovato energia sufficiente per riprendere a scrivere il libro sugli dei pagani. Francesco, come sempre, è stato affettuoso, la sua lettera di risposta è giunta in breve tempo. Poco poteva dire per confortare l’amico e ciò che ha detto era ciò che Giovanni in fondo si aspettava. Adombrato il sospetto che si trattasse di un pazzo, dunque di una follia da non tenere in conto,

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è pur vero che ciò che cade dal cielo, sia pure attraverso la bocca di un monaco stupido o inquieto, trascende la ragione e le sue buone cause, ha scritto Francesco. E per un poeta è come una malattia, ha aggiunto. In lui le minuzie invadono lo spirito e lo sorprendono più di quanto possano sui comuni mortali. Ma bisogna stare attenti a non agitarle, a non dar loro vita, perché in quel caso diventano visioni, che accecano la mente. Se ciò accadesse, comunque, l’arte, dopo la religione, saprà trasformarle e ricondurle, mansuete, allo spirito rasserenato. Il disagio di Boccaccio è sembrato attenuarsi, ma da qualche giorno lo ha ripreso. Le sue dita si paralizzano, come per incanto, sulla pagina. La notte è visitato dagli incubi: sogna di essere legato in catene a una colonna, come Prometeo, mentre un’aquila famelica gli divora il fegato. In un altro è inseguito dalle Erinni che vogliono fargli scontare pene infernali per colpe che sa di non aver commesso. Si sveglia ogni volta madido di sudore e con fitte di dolore che attribuisce al terrore. La mattina, nonostante la stanchezza, si siede al tavolo per cercare di scrivere qualcosa. Ma inutilmente. È in una di queste giornate che riceve la visita di Leonzio Pilato, un religioso calabrese che insegna greco allo Studio Fiorentino, anche se lui ama definirsi tessalo, come il possente Achille. Entrando nello studio di Boccaccio trova l’amico in uno stato di prostrazione tale da fargli temere per la sua salute. “Giovanni carissimo, cosa ti è accaduto?” Boccaccio solleva il capo e guarda il monaco senza riuscire a metterlo a fuoco. “Ah, è così chiaro? Leggi così facilmente il mio volto? Ebbene, hai ragione, da un po’ di tempo in questa casa si è abbattuta la maledizione del Signore. Non può essere che così”. E Giovanni dice tutto all’amico, accorgendosi che il racconto ripete l’angoscia di quei momenti. “È proprio questo libro a preoccuparmi e squassare i miei nervi. Narra una storia incredibile, che a grandi linee è anche l’argomento dell’opera sugli dei pagani che sto scrivendo. In tutto questo io vedo un disegno divino. Forse il Signore vuole veramente punirmi per le mie opere e le mie letture, come profetizzato da Petroni. Credimi, Leonzio, a volte mi assale il desiderio di abbandonare tutto, dare alle fiamme il regalo di Samuele e smettere di scrivere. Ma poi sono assalito

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dai dubbi e persino, Dio mi perdoni, dalla paura di commettere un peccato. Più blasfemo di tutti i peccati che posso avere commesso”. Leonzio prende in mano il manoscritto che Giovanni, tremando, gli ha allungato, lo sfoglia, legge qualche frase e dice: “Proprio in questo periodo, non te ne ho ancora parlato, sto traducendo in latino i poemi omerici. Credo proprio che questo manoscritto potrà essermi utile. Fammene dono: per te sarà un conforto, per me un aiuto insperato”. Dopo molti giorni il viso di Giovanni s’illumina. “Leonzio, non sono io che faccio un regalo a te, sei tu che ne fai uno a me”. Costantinopoli, autunno 1365 Nostalgia, è forse nostalgia la malattia che affligge Leonzio Pilato? Non potrebbe negarlo. Si è rifugiato a Costantinopoli alla corte dell’imperatore Giovanni V Paleologo per proseguire gli studi sui classici greci, ma il ricordo del suo paese, l’Italia, lo sta consumando. Non ha dimenticato che alcuni anni prima ha lasciato Firenze per una falsa accusa di furto. Chi lo incolpava ha avuto la giusta punizione, ma il disgusto non gli ha permesso di restare, malgrado gli amici, quelli che lo avevano sostenuto fin dall’inizio, lo implorassero. Ha lasciato anche Venezia, che lo ha accolto nell’indifferenza. È partito in una giornata nebbiosa che si accordava col suo furore. Venezia, incapace di riconoscere il talento, se non la virtù. Ha viaggiato a lungo, sentendosi un fuggiasco senza motivo. Ha visitato luoghi sacri, in ogni angolo d’Europa. È stato a Jumieges in Normandia, dove lo splendore della sua abbazia lo ha estasiato. Simon du Bosc, l’abate, lo ha accolto con onore, facendogli capire che il suo nome non gli era sconosciuto, e Leonzio, sensibile ai complimenti, si è trattenuto per qualche tempo. Lungo gli immensi corridoi bui e freddi dell’abbazia, immersa nel silenzio, la sua anima irrequieta ha finalmente trovato un pà di pace. Proprio qui ha avuto modo di riprendere in mano il dono di Giovanni Boccaccio, quel manoscritto greco che tanto l’ha incuriosito. Busson, il monaco bibliotecario, gli ha messo a disposizione la mole di libri custoditi nell’abbazia. Con lui Leonzio ha parlato, discusso, commentato. E alla fine Busson, che sente l’arte fin troppo prossima al Paradiso, a dispetto di quasi tutti i confratelli, l’ha introdotto nelle stanze segrete della biblioteca mostrandogli alcuni volumi proibiti. Leonzio Pilato ha così potuto consultare “Il libro della creazione”

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e, per vie tanto rischiose quanto misteriose, “Il libro dello splendore”, convincendosi che solo lo studio della Cabala potesse aiutarlo a districarsi nei misteri del manoscritto. Fin dal primo momento è rimasto affascinato dal mosaico di numeri che disegna il libro come uno scheletro. Ha intuito un’alchimia che non era in grado di sciogliere nei suoi elementi primari. Il soggiorno a Jumieges è ancora piacevole e proficuo, ma pure in questo luogo che lo ha accolto con affetto arriva il momento in cui Leonzio decide che bisogna riprendere il viaggio. Si trasferisce in Renania e bussa alla porta dell’abbazia di Prum. L’accoglienza è ben diversa da quella ricevuta a Jumieges. L’abate Diether von Kerpen è un uomo che vive nel lusso e i suoi monaci corrotti si dividono le entrate dell’abbazia trascurando la vita comunitaria. Leonzio non vede il trionfo della virtù, e neppure quello della dignità. Quando in un angolo, senza essere visto, scopre il monaco più giovane sudare sul corpo di una ragazza che vorrebbe urlare, torna rapidamente nella sua camera, mette in un sacco i suoi averi, percorre a lunghi passi gli interminabili corridoi e a capo chino, quasi non volesse toccare, neppure con lo sguardo, ciò che lo attornia, si avvicina all’uscita. Lo blocca una risata troppo sonora per il luogo. Si volta e sente i muscoli del viso tendersi: a passo lento, con le braccia allargate, quasi a benedirlo, avanza Diether von Kerpen. Nel resto della sua breve vita Leonzio Pilato non saprà mai spiegarsi il senso di ciò che avvenne dopo. L’abate gli sembra circonfuso di bonomia, saggezza e rammarico. Quale infame contrasto con le usanze ignobili di quell’abbazia che dovrebbe santificare Benedetto. Leonzio torna indietro col dito proteso e quasi urla: “Ora et labora. E nient’altro, abate maledetto”. Il dito arriva a lambire il naso di Kerpen, che con un gesto rapidissimo lo afferra e inizia a torcerlo. “Ora et labora. Stupido uomo, che non sa niente. Più stupido di quel motto stupido. Dimmi quale altra frase saprebbe escludere così perfettamente la vita”, dice con una voce sottile, sussurrata eppure tagliente. “Solo la malattia più antica e resistente può concepirla. E solo la mente più schiava e animale può accettarla”. Leonzio si piega, ma non si lamenta per il dolore. Non vuole. “Tu sei un monaco”, scandisce. “E tu non sei un uomo, se non vedi gli inganni”. “E allora chiudete questo maledetto monastero”. “E perché mai? Dove troveremmo maggiore protezione?”.

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“Ma io… io posso parlare”. “Fai pure, se vuoi. Dirigiti verso gli altri monasteri di questa regione. E racconta. Pensi che ti ascolteranno?”. “Andrò più lontano”. A queste ultime parole l’abate scuote il capo e la sua bocca sorridente si allarga ancora. “Leonzio Pilato, tu sei piccola cosa, ma leggo comunque la condanna nei tuoi occhi. Non sei stato sempre scacciato, forse? E non ti sei mai chiesto perché? Il motto ti si addice: ora et labora. E nient’altro, maledetto ficcanaso”. Poi lascia la presa sul dito e scaraventa Leonzio contro una parete del corridoio. Pilato cade, si rialza e senza più guardare l’abate, di cui intuisce il riso scolpito, abbandona il monastero. Perché è stato così infantile? Perché gli sfugge qualcosa? Come un fruscio del pensiero. Si dirige a Egmond, in Olanda. Nella piccola abbazia di questo paese trova riposo e ristoro prima di rimettersi nuovamente in viaggio per tornare nel Mediterraneo, ma dirigendosi verso la sponda opposta. Ed è a Costantinopoli che si trova ora Leonzio Pilato, in una città accogliente che non sente sua. Si chiede, a dire il vero, dove mai abbia trovato una città, o un villaggio, o una stamberga, che senta sua. Si chiede il perché di tanto inutile vagare. “Chi mi insegue senza che io lo sappia? Chi mi scaccia senza che io possa combatterlo?”. Dopotutto solo Firenze ha tentato di imprigionarlo. Come una madre feroce e innaturale. “Ma non sono stato l’unico. Infame città”. Cosa ha cercato in questi lunghi anni? Potrebbe scrivere cronache e libri di viaggio, farebbe fortuna se fosse ciò a cui aspira, e lascerebbe in pace gli dei che mai si sono sentiti in dovere di premiarlo. In una giornata autunnale, particolarmente fredda e piovosa, Leonzio decide ancora una volta di partire. Farà ritorno a Venezia e non sa perché abbia scelto questa meta. Ci sarebbero tanti motivi per starne alla larga, eppure non cambia idea. Si imbarca su un mercantile diretto in Italia. La navigazione è tranquilla per tre quarti del viaggio. Poi, quando già ha udito il comandante della nave annunciare che domani o il giorno dopo sarebbero entrati nella laguna, è investito da urla improvvise. In coperta, dove fino a un istante prima guardava assorto lo scorrere delle onde, non capisce cosa stia accadendo, mentre lo strepito aumenta e si incrociano

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ordini e richieste di aiuto. Ha solo il tempo di vedere la fiancata di un’altra imbarcazione che urta la prua della nave. Nulla può impedire il naufragio. Leonzio Pilato, che tanto ha viaggiato, non riesce a chiudere la bocca prima che l’acqua invada il suo corpo. Lione, 1522 Johann Neumeister è già stato a Lione. Questa è la terza volta che i suoi piedi battono le strade della città. Piedi pesanti, rosi dalle vesciche. Nella sua vita lo stampatore di Magonza raramente ha avuto la possibilità di sedersi. Fin dai tempi in cui lavorava col maestro Gutenberg. Mentre sale le scale di una delle locande più miserabili della città ha tutto il tempo di ricordare. E ricorda nella stanza spoglia, dove ringrazia – forse Dio – di avere un catino. Dal Reno a Magonza, da Subiaco a Foligno e Roma, da Basilea a Tolosa. Da Albi a Lione. Dovesse tracciare ora una mappa dei suoi pellegrinaggi, avrebbe molte difficoltà. Non ha viaggiato sempre a piedi, certo, ma ora gli sembra di averli sempre usati per spostarsi da una città all’altra, da un paese all’altro. Forse il periodo di maggior riposo lo ha vissuto in carcere. Ed è già un miracolo – già, un miracolo – che nelle luride celle d’Europa ci sia stato sola una volta. Perché i debiti li ha avuti sempre e dovunque. Chissà se ha viaggiato per lavoro o per fuggire. Il suo bagaglio è perennemente esiguo. Molto più grande la sua arte, che però si vende a poco prezzo. Ora le sue labbra disegnano addirittura un sorriso, mentre ripensa alle “Meditationes” di Torquemada. Era un bel libro con quelle incisioni sul metallo. In Renania aveva perfezionato la sua tecnica. Però Torquemada… Ha un brivido, ma passeggero. Johann ha visto tutto. O niente. Ora è ufficialmente “povero” e se non altro non paga le tasse. Misera consolazione. Per vivere è stato costretto a lavorare alle dipendenze di Michel Topié, il suo vecchio socio. Eppure è la speranza a tenerlo ancora in vita: forse dovrà riprendere a viaggiare, ma questa nuova macchina è una passione, una tortura, una catena. O forse è tutto ciò che sa. Vuole ancora cavarne qualcosa. Meglio, vuole iniziare a cavarne qualcosa, forse non è troppo tardi. Dopotutto, a Parigi a Gering e agli altri non è andata male. Ma cosa si vende? Il “De bello italico adversus Gothos” di Bruni è stato un fallimento. E anche le “Epistulae ad familiares” di Cicerone non sono

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state un successo. E nemmeno – persino – la “Commedia” di Dante. Forse servono opere nuove. O particolari. Che suscitino interesse e curiosità. Nella sacca che lo segue dalla Renania, che invecchia con lui, ha alcuni manoscritti. Uno in particolare lo ha incuriosito, ne ha letto frammenti durante l’ultimo trasferimento. Forse è arrivato il momento di leggerlo per intero. A proposito, come gli è capitato fra le mani? Non lo ricorda con precisione. Sa solo che viene dall’Inghilterra, e chissà per quali strani sentieri è arrivato fino a lui. Ha rinunciato a capire le vie dei libri, che sono scritte nelle pagine ma sono senza nome. I libri tendono a nascondersi, pensa, proprio loro che dovrebbero esibirsi. Questo esibisce anche delle macchie scure. A Johann sembra sangue. Forse è solo la sua immaginazione. Ecco, pensando e rimuginando ha dimenticato di riposarsi. E ora deve tornare al torchio di Topié. Sì, non rinuncia, ma adesso deve andare. Scende faticosamente le scale, mormora un saluto a Fossé, il proprietario, che risponde con un grugnito, e si avvia nella stradina che lascia la locanda a sinistra. Non fa molti passi: due uomini che gli sembrano ben vestiti gli si affiancano, lo stringono e poi accelerano il passo. Johann Neumeister sente una fitta al fianco, neanche troppo dolorosa, e si accascia. Il sangue che si mescola alla pioggia è il suo. Un’ora dopo Fossé, che si era allontanato per qualche minuto dal suo angolo nell’ingresso, vede uscire due uomini dalla locanda. Ha solo il tempo di scorgere le loro spalle. Urla “Ehi”, ma i due sono già lontani. Fossé comunque non si preoccupa, la locanda è già piena di segreti, non c’è nulla da rubare e, nel caso, sono affari dei clienti. Lui, i suoi averi, li ha in tasca. Concilio di Trento, una sala del Palazzo Cles, 1546. “Grazie di avermi ricevuto, eccellenza”. Angelo Massarelli parla a voce bassa, l’aria contrita. Rispettosamente in piedi. Giovanni Maria Dal Monte fa un gesto di noncuranza e sospira. “Siete il segretario. Ma sono stanco, Massarelli. Questa città non mi piace. Mi dicono che tutto costa troppo. E non abbiamo neppure iniziato”. “Ma oggi forse avete un motivo di più per essere indulgente. La lettura dell’arcivescovo di Torres…”. Il legato pontificio lo blocca col dito levato. “Già, e poi? Minuzie, richieste insulse, ancora dettagli. Non finirà mai”. “Capisco”.

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“Dite, Massarelli”. “Ecco, eccellenza. Questa è un’altra minuzia. Davvero un piccolo dettaglio, ma vorrei il vostro parere. Di questi tempi e con quel che ci aspetta è bene non trascurare nulla”. Dal Monte tace. E Massarelli prosegue. “Ricapitolo, per vostra comodità. Abbiamo notizia di un manoscritto che circola da tempo. Da molto tempo. Una favola, come tante dell’antica età greca. Omero e dintorni, eccellenza. Un secondo di più per discuterci sarebbe un secondo sprecato”. “E allora perché discuterne?”. “Come dicevo, eccellenza, a quanto sappiamo, è la storia della guerra di Troia da un altro punto di immaginazione. Per non tediarvi, la sostanza è che Troia non perde la guerra. Poi si va avanti con assurdità da capogiro. Divinità in lotta, qualche facezia dall’Egitto. Gli dei muoiono, come comuni mortali. Anzi, peggio”. Le ultime parole Massarelli le pronuncia con un mezzo sorriso, che spera di condividere con Dal Monte. Ma il legato non muove un muscolo. “L’autore sarebbe un certo Eschifilo, che non compare in alcun codice, mi dicono gli esegeti… Esegeti per diletto, eccellenza”. “Proseguite”. “Curioso che questa storia sia rimasta inascoltata. Diciamo seppellita. Ma questo non sarebbe neppure affare nostro. Il manoscritto, le notizie sono tuttavia incerte, si trovava comunque nella Biblioteca di Alessandria. Non finì tra le fiamme, questo è sicuro. Forse c’è stato un passaggio precedente, pare che anche Elio Aristide ne conoscesse l’esistenza”. “Il pagano?”. “Sì, eccellenza. E poi, oltre cent’anni dopo, nella casa di un mercante, forse in una cittadina dell’Egeo. Pare anche che il mercante sia stato assassinato per qualche affare poco chiaro. Non pensiamo a ragione del manoscritto”. “O forse sì, se conosco il vostro tortuoso modo di pensare e parlare, segretario”. Massarelli annuisce, abbassando gli occhi. “Quel che è certo, eccellenza, è che il libercolo agli inizi del 1300 è nell’abbazia di Sant’Antoine, a Clerville, sotto di occhi di Guillaume de Nogaret. Mi perdoni, eccellenza, ma sembra che i cavalieri del Tempio occupino tutti i pertugi della storia”. “Continuate”, dice Dal Monte visibilmente spazientito, “se ritenete che

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questo racconto sia utile”. “Solo per inquadrare, eccellenza. Tanto più che nessuno che io conosca, ha potuto prendere visione del manoscritto. Ma da qualche voce proveniente dalla dieta di Vormazio so che c’è un altro dettaglio, come dire, fastidioso. La favola si chiuderebbe, perdonate l’ardire, con un accenno a nostro Signore. In poche parole, Zeus morente farebbe una profezia. Verrà un solo dio, non sarà solo ma sarà unico, così pare dica, imperfettamente, il dio dei pagani”. “Ottimo, Massarelli”, sentenzia Dal Monte finalmente con un sorriso. “Non trovate che possa essere un bel regalo?”. “Non è così semplice, eccellenza. I soliti esegeti, e stavolta non per diletto, sono convinti che si tratti di un’aggiunta. Ben confezionata, non c’è dubbio, ma sicuramente un falso”. “L’autore?”. “Lo ignoriamo, eccellenza. E chi lo dice sa di dire un falso su un falso. Però se ne parla, e poiché da Costantino…”. Dal Monte solleva il capo e gli occhi si stringono. Massareli sente il bisogno di piegarsi, con più urgenza del solito. “Si dice, o si potrebbe dire, eccellenza, che noi non siamo estranei. Che la storia si ripete. Che le fondamenta del nostro…”. “Segretario”. “Sì, eccellenza”. “Non compiacete troppo gli esegeti”. “No, eccellenza. Ma forse sarebbe opportuno trovare il libro e renderlo inoffensivo. Screditarlo, magari… cancellarlo. I tempi, come voi mi avvertite costantemente, sono difficili, i nostri nemici aumentano, i luterani frugano nella melma”. Dal Monte resta in silenzio per qualche minuto. Poi parla, ma come se gli costasse: “Non mi sembra tanto pericoloso. Ma sono d’accordo. Qual è l’ostacolo?”. “Dall’abbazia di Clerville si sono perse le tracce del volume”. “Se se ne parla da qualche parte deve essere”. “Sì, eccellenza, e mi sono permesso, prima ancora di accennarvene, di ordinare qualche discreta indagine. Non vorremmo, converrete con me, che qualche assurdità arrivi alle orecchie del sommo pontefice”. “Ovvio”, dice Dal Monte con condiscendenza. “Ottimo. Procedete e

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fatemi sapere a tempo debito”. “Certo, eccellenza. C’è un ultimo problema”. Dal Monte alza gli occhi al cielo. “Stiamo parlando del manoscritto in lingua greca”. “Cosa significa, Massarelli? E non è una domanda”. “Quello che state temendo, eccellenza. Esiste anche una copia in latino ”. Bologna, pausa del Concilio di Trento. Residenza di Giovanni Maria Dal Monte, 1547. “Eccellenza, suggerirei di lasciar perdere. Non se ne sente più parlare e se dovessimo frugare ulteriormente solleveremmo curiosità sopite”. “Cosa significa, Massarelli?”. “Dall’Inghilterra …”. “Cosa c’entra l’Inghilterra?”. “Si parla di teatro vagabondo, eccellenza. Sembra che qualcuno, molto tempo fa, abbia messo in scena, diciamo, qualcosa che richiama vagamente il nostro manoscritto. Frammenti, dicerie, ma niente di concreto. Solo un ricordo sbiadito”. “Forse non piaceva agli inglesi, che del resto non piacciono a me. E comunque apprezzo la vostra prosa poetica”. “Grazie, eccellenza. In Inghilterra le carrozze del teatro non viaggiano più e di quella roba si sono perse le tracce, che invece abbiamo ritrovato nel sud della Francia”. “Massarelli, avete mentito: non è vero che le vostre discrete ricerche non hanno portato a niente”. “E così è, eccellenza. Ho condensato la questione. Ma parliamo sempre di molti anni fa. Sappiamo che il manoscritto è arrivato nelle mani di un tipografo tedesco a Lione”. “State scherzando?”. “Non mi permetterei. Ma, ecco, anche il suo interesse è svanito nel nulla. E poiché parliamo di una trentina d’anni fa...”. “Nel nulla? Capisco. Ma il manoscritto è stato stampato”. “No, eccellenza”. “No?” “No”. “E dunque?”.

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“Come vi ho detto, eccellenza, nulla più. E comunque vigiliamo”. “Nei modi tradizionali”. “Certo, eccellenza”. “Un momento, Massarelli. Come sapete perfettamente, ho una buona memoria, altrimenti mi sarebbe difficile sopravvivere in questa bolgia. Di cosa state parlando? Non mi piacciono le storie a metà”. Massarelli annuisce. “Lo so perfettamente, eccellenza, e non dubitavo che avreste fatto questa osservazione. Sì, stiamo parlando della copia in latino, perché è la sola sulla quale siamo riusciti a ottenere informazioni”. Massarelli non aggiunge altro e Dal Monte si spazientisce: “Massarelli…”. “Eccellenza, non ho altro da riferirvi. Se mi consentite di rimediare, vorrei dirvi che noi siamo la Chiesa, ma, in questa vicenda, la Chiesa non ha solo noi. Siamo un esercito fra molti che vogliono la stessa vittoria, e forse ci sono altri eserciti, anonimi, per così dire. E alquanto determinati”. “Lo avevo intuito, Massarelli. Vengono dal nulla e difendono il nulla”. “Una sintesi superba, eccellenza”. Abbazia di Egmond, 1573 Anche questa mattina inizia prestissimo per fratello Edgardo. Ci sono le preghiere da recitare, l’orto da accudire, tante altre faccende da sbrigare. È rimasto solo nell’abbazia perché la guerra oramai è alle porte del villaggio. Una guerra sanguinosa e inutile, pensa Edgardo. Tutti i suoi confratelli sono partiti da una settimana, diretti a Utrecht, ospiti del vescovo, almeno per il momento. Con loro hanno portato ciò che era possibile trasportare: libri sacri, paramenti, qualche oggetto prezioso e poco altro. L’abbazia è povera. Ora anche Edgardo si prepara a partire, è troppo pericoloso restare lì: gli eserciti quando avanzano non risparmiano niente e nessuno, nemmeno un’abbazia, nemmeno un religioso, pensa il monaco. Deve portare con sé la cosa più preziosa custodita nell’abbazia: le sacre reliquie di Sant’Adalberto. Non c’è altro di valore nella chiesa, sono rimasti solo alcuni libri, dono, secoli fa, di un monaco italiano capitato in visita da quelle parti. Edgardo sistema tutto sul carro diretto ad Amsterdam, lascerà il carico al vescovo della città e poi, e poi il suo destino sarà nelle mani di Dio. “Del nostro Dio”, si ripete fratello Edgardo, che incita con delicatezza il mulo. Edgardo è uno spirito semplice, qualcuno gli ha detto che “due

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fedi non sono l’inferno”, ma lui si è fatto il segno della croce. Le fiamme hanno lambito le mura dell’abbazia, ma lui crede che ad accenderle sia stata solo una fede, “quella sbagliata”, si dice rifacendosi il segno della croce. La sua visione, e lo sa, è fatta di frammenti. Ha sentito parlare dello stathouder Egmond e di altri di cui non ricorda il nome. Anche di Guglielmo, e pure questo nome lo fa soffrire. Negli ultimi anni i fratelli gli hanno raccontato che sono spuntati ovunque bastoni, asce, martelli, scale, funi. Che sono stati assaltati conventi, cappelle, chiese. Che hanno scacciato i fedeli malmenandoli, che hanno abbattuto gli altari, mandato in pezzi le statue, lacerato i dipinti, scrostato gli affreschi, disperso le sacre reliquie. Le folle si sono moltiplicate, folle di indemoniati che non hanno risparmiato nessuno. Da Saint-Homer a Menin, Comines, Verviers. Una congiura contro la madre chiesa: le Fiandre in fiamme. Come si può accettare questo? Qualcuno ha detto che bisogna sentire tutti, che Egmond non è un pazzo. Ha sentito l’eco di una parola che suona splendida, non certo divina, ma per lui vagamente incomprensibile: libertà. “No, Dio li perdoni. E perdoni anche noi”. Gli spagnoli sono cattolicissimi, si ripete Edgardo. Invasori? “Non ci sono confini per la fede, Dio non li ha creati”, dice a bassa voce. E intanto tira piano le redini del mulo, che procede lento e sicuro, benché la strada sia dissestata. Senza rendersene conto ha già percorso un buon tratto. Non mangia da un giorno e comincia a sentire i morsi della fame. Non pretende molto, non l’ha mai preteso, solo un brodo caldo e un pezzo di pane. Per fortuna in fondo alla strada, solitaria in un campo verde, c’è una locanda: così almeno gli sembra di ricordare. Sì, è una locanda. Il mulo si ferma davanti al recinto, forse ha fame anche lui. Edgardo fa un cenno a un inserviente che risponde allo stesso modo, scende dal carro ed entra. Gli avventori sono pochi e questo un pò gli dispiace. Tra la folla si passa inosservati. Ma, del resto, di cosa dovrebbe avere paura? Al centro della sala c’è una tavola imbandita, le sedie sono occupate solo da due uomini. Uno è un nobile, sicuramente un nobile. Con timidezza pensa che gli spagnoli chiamano i nobili “pezzenti”, ecco questo non lo ha mai capito. Perché gli spagnoli li chiamano così? Fa per ritirarsi sul fondo, ma sente una voce che lo chiama. “Fratello”.

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Non ha parlato il nobile, ma il cavaliere che gli siede accanto, con la bocca piena. Un uomo altero, pensa Edgardo quando incrocia il suo sguardo, ma forse non dello stesso rango dell’altro. “Vogliate gradire la nostra ospitalità, fratello”, stavolta è proprio il nobile a parlare. Lo stupore cresce, Edgardo riesce appena a biascicare. “Perdonatemi, mi fermo solo un attimo. I miei denti non sono adatti a quel pranzo che certo vi si addice”. “Non dite fesserie”, dice il compagno del nobile. “Markus, mai più. Nelle tue insegne non c’è il rispetto, forse, nelle mie sì”, lo redarguisce il nobile, e non c’è traccia di ironia nella sua voce. E poi rivolto al monaco con un largo cenno del braccio: “Accomodatevi”. Edgardo non può che obbedire e si siede nel lato corto del tavolo. L’oste gli porta proprio un brodo di gallina e un tozzo di pane. “Questo volete, giurerei”, dice tranquillamente, ma non fino al punto di nascondere una nota di freddezza. “Sì, grazie”. Poi si china e prende a sorbire il brodo col cucchiaio dopo avere spezzato il pane. Roberto di Gand, questo è il nome del nobile, condivide, ma non è tempo di esporsi, il luteranesimo. Non si sofferma sui principi e mente a se stesso: in realtà ha intuito che può esistere anche una religione che non nasconde la moneta. Anzi, la esalta. Senza ipocrisie. Ha viaggiato a lungo per i suoi commerci: Francia, Spagna, Italia, fino alla Terrasanta. La sua vita si è impregnata di usi e culture di popoli diversi, ma in fondo lui è sempre rimasto cattolico. O almeno non ha mai messo in discussione la sua religione naturale. Non ne aveva bisogno. Roma è stata una delle sue tappe. Non sapeva certo che Lutero, solo pochi anni prima, aveva compiuto lo stesso percorso. E quando è entrato nel cerchio storico della città non ha detto “Salve, Roma santa”. Ha condotto bene i suoi affari. E gli è rimasto del tempo. Una mattina, all’ingresso di una chiesa di cui non avrebbe ricordato il nome, ha udito una voce squillante e subito una folla radunarsi attorno a un uomo basso e grasso. È rimasto affascinato dalla pappagorgia, che sprigionava soddisfazione fisica, tanto più perché in contrasto con le sue parole tonanti: “Udite, udite. Dio e San Pietro vi chiamano. Pensate alle anime vostre e a quelle dei vostri cari defunti. Tu prete, tu nobile, tu mercante” e

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così dicendo puntava il dito su qualcuno della folla, incurante del fatto che il suo aspetto non indicasse niente di monacale, di nobile o di mercantile. Perlopiù era un raduno di popolani. “Entrate nella vostra chiesa, venite alla santissima croce. Pensate che tutti quelli che sono contriti, si sono confessati e hanno fatto il pagamento riceveranno completa remissione dei loro peccati”. “Chi è?”, ha chiesto Roberto senza guardare nessuno. “Johann Tetzel”, ha risposto una voce femminile. “Sono le indulgenze”, le ha fatto eco un’altra donna. Poi l’uomo si è allontanato, subito seguito da una parte della folla. E Roberto ha visto qualcuno estrarre delle monete dalla tasca e contarle intimorito, guardandosi da una parte e dall’altra. Sembrava un rito. Li ha osservati per un po’, affascinato, poi è entrato nella chiesa. Era semplice e affollata, soprattutto nei pressi dell’altare. In una teca, sorvegliata da due monaci di buona statura e muscolatura evidente, brillava un’altra moneta. “Che cos’è?” ha chiesto Roberto, senza guardare direttamente nessuno. Chi gli ha risposto lo ha fatto quasi con disprezzo. Come se fosse impossibile non saperlo e un peccato chiederlo: “Una moneta di Giuda, il prezzo del tradimento”. E un altro, con rispettosa timidezza: “Vale 1400 anni”. “Addio, Roma santa”, ha detto Roberto di Gand qualche giorno dopo, lasciando la città. E una risata spontanea lo ha accompagnato a lungo. “Che grande affare”, ha pensato. “Chi sono io, e quelli come me? Gente che provvede a sé in piccolo. La Chiesa ci dà sempre lezioni di grandezza”. E Roma, ha pensato ancora, è in cima al mondo. Nel campo fruttuoso a cui si riferiva il nobile olandese neppure la Terrasanta, che aveva visitato, poteva contenderle il primato. Era il primo novembre. Molto tempo dopo venne a sapere che in un’altra vigilia di Ognissanti Martin Lutero aveva affisso alla porta del castello di Wittemberg un manifesto con 95 tesi. Roberto ha viaggiato ancora. E i suoi affari, una volta grandi, sono diventati piccoli. Sempre più piccoli. La sua religione è cambiata. Forse non ha neppure una religione, da quando ha raggirato un mercante italiano che ansimava e disperava del suo futuro. Lo ha capito, ma non fatto nulla per aiutarlo. Peggio, ha approfittato della sua debolezza. In breve, è diventato un ladro. Da qualche tempo ha fatto rientro in Olanda. È da un paio di giorni che

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osserva da lontano l’abbazia di Egmond, ha notato che quasi tutti i monaci sono scappati lasciando a custodirla un solo frate. Come mai è rimasto solo lui? L’abbazia nasconde qualcosa di prezioso? Non gli dispiacerebbe mettere le mani su un bel gruzzolo. Quando ha visto il monaco andar via col carretto ha cominciato a seguirlo, e ora è seduto davanti a lui e lo osserva mentre sorbisce un misero brodo. Edgardo è molto parco nel mangiare, ma, come quasi tutti i frati, non sa resistere a un buon bicchiere di vino rosso, meglio se sono due o tre. Basta pochissimo per farlo addormentare e Roberto di Gand può, indisturbato, rovistare nella sua borsa, senza però trovare niente di valore. Esce allora dalla locanda per frugare nel carretto, ma anche in questo caso resta deluso: c’è uno scrigno di cuoio con delle reliquie. Sorride e torna indietro con la memoria. Poi rimane assorto e qualcosa gli dice che è meglio non approfittare di quel regalo. Il fanatismo è il pane del momento. Ci sono anche alcuni candelabri di volgare metallo, e infine libri che hanno tutta l’aria di essere molto antichi. Meglio di niente, pensa Roberto: rivendendoli potrà ricavarci un po’ di soldi. Mette tutto nell’ampia sacca da viaggio, scuote le spalle di Markus, il suo giovane amico che si attarda a bere l’ultimo fondo di vino, ed esce dalla taverna. Montano entrambi a cavallo e si dirigono verso nord, dove il calvinismo ha messo radici e abita la famiglia di Roberto: vive lì da anni benché sia originaria di Gand. Il padre, nobile decaduto, è un tessitore, ma la sua ricchezza è stata ingoiata dalla guerra. È per questo che Roberto vagabonda da dodici mesi. Le sostanze di famiglia non bastano per tre figli e Roberto è il terzo. Procedono al piccolo trotto, guardinghi. Sanno che le strade non sono sicure, ma sono abituati ai rischi. E del resto non hanno alternative. Roberto ha conosciuto Markus durante un viaggio in Germania. A dire il vero hanno rischiato di uccidersi a vicenda in un duello, ma la reciproca garanzia di coraggio li ha fatti diventare amici. Anche se Roberto ha sempre qualcosa da obiettare – e lo fa apertamente – sull’aggressività dell’amico. E sulla sua scarsa diplomazia. Difetti che attribuisce all’età. Anche lui è giovane, ma sente di essere più saggio di Markus. “Certo non ci fa onore comportarci da ladruncoli”, dice a un tratto Markus. Come spesso capita, l’uscita irrita Roberto. “E cos’altro saremmo? Giudichi? Hai voglia di esercitare la morale in quest’epoca?”.

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“I tempi possono essere un pretesto. Si nasce nobili e noi siamo nobili”. “Sbagli. Tessitori, fabbri come te, predatori. Ma non nobili. Non più. Ammesso che queste figure non si assomiglino”. “Mi va di esercitare l’ironia, non la morale, e vedo che mi stai dietro”. “Stringi l’elsa piuttosto”. Cavalcano ora lungo il bordo di un corso d’acqua, sotto gli argini, per non esporsi alla vista. Una successione di mulini li nasconde ulteriormente. Raddoppiano comunque l’attenzione, perché in fondo scorgono volute di fumo. È questo il dettaglio che ha messo in guardia Roberto. Dopo un altro breve tratto, il fiume devia e gli argini si interrompono. Bisogna giocoforza entrare in una radura boscosa. Non fanno in tempo a tornare indietro, come vorrebbero, e assistono a una fucilazione. Sono distanti, il cielo è grigio, distinguono soprattutto le sagome. Un gruppo di soldati con gli zaini, di cui scorgono le spalle, perfettamente allineate come montagnole, con i colori dell’esercito spagnolo, attende l’ordine. L’ufficiale urla e il colpi partono. Le vittime sono parti di una massa scomposta: il centro è una camicia bianca, troppo bianca, pensa Roberto. L’uomo che la porta rimane fermo per lunghi secondi, Roberto ha la sensazione di poter vedere gli occhi persi nella sorpresa e forse nella rabbia. Rimane immobile mentre gli altri cadono prima di lui: ha la forza di guardarsi il petto, dove si allarga una macchia, poi piomba a terra. “Bastardi”, Roberto sente dire a Markus. E la parola lo colpisce. In fondo non c’è nulla di cui sorprendersi. I Paesi Bassi sono da tempo il luogo del massacro. Difficile trovare alberi che non abbiano sostenuto corpi. “La mia famiglia è nobile e antica. I miei genitori sono certi”. La voce arriva dalle loro spalle. Dalla bocca larghissima di un ufficiale spagnolo che parla lentamente guardando il terreno. “Puoi dimostrarmi il contrario sguainando la spada”. Markus è coraggioso, vale la pena ripeterlo, e fa ciò che l’ufficiale ha chiesto. Non ha riservato neanche uno sguardo ai tre soldati che accompagnano l’ufficiale e che circondano Roberto. Il duello non dura molto. Markus non è un soldato, le lezioni di scherma lo hanno sempre visto prevalere, ma Roberto sa che la rabbia non è una virtù nella pratica più spagnola che esista. Markus combatte con la foga, l’ufficiale col sorriso. Dopo pochi incroci la lama penetra nel fianco di Markus e Roberto segue il braccio

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che conficca la spada una seconda volta. Al cuore. Mentre Markus è già piegato sulle ginocchia. Roberto di Gand non ha parole da consegnare al nemico. Incurante degli uomini che lo circondano, si avvicina a Markus, si piega e passa la mano sulla fronte dell’amico che ha già chiuso gli occhi. Naturalmente non è possibile, ma sembra che si raccolga in preghiera. Nessuno ha il coraggio di ostacolarlo. Due soldati si guardano e annuiscono. L’ufficiale lo osserva con la bocca beffardamente socchiusa. Non può immaginare che Roberto di Gand, in un istante, corra a perdifiato su tutte le strade, quelle che ha percorso in una vita per sempre breve. Che sfilino a sinistra i colori della luce e a destra quelli del buio. Che poi arrivi in una piazza dove tutti i colori si confondono e lui non sia più in grado di discernerli. E che l’ufficiale gli appaia in fondo, appoggiato a una statua di Johan Tetzel. Probabilmente non ha imboccato il sentiero principale, anche se è certo che glielo hanno indicato, quando tirava su col naso. Qualcuno, un giorno, dovrà pure innalzare una statua all’ipocrisia, di sé e degli altri. Perché si innalzano solo statue benevole e confortanti? A voler essere giusti, si deve celebrare il bene e il male, e se vogliamo essere ancora più giusti, il male è prevalente. E fruttuoso, quindi benefico. Roberto non capisce perché si raccolga in preghiera nella memoria di Markus. Che era solo un amico di ventura. Eppure non riesce a trattenersi. “Stupido spagnolo”, dice, sempre piegato sul corpo di Markus. Il tono è colloquiale, non ha niente di accusatorio. La bocca dell’ufficiale si distorce ancora di più. “Non puoi giudicarmi, olandese. Se tu avessi reagito avrei dato anche a te una morte onorevole”. “Sei un bastardo”. E l’insulto è come una carezza affettuosa. “Ripeto anche a te che i miei genitori sono certi. Finché mi avevi insultato con la tua sola presenza, ti avrei fatto fucilare. Hai l’aspetto di un nobile e te lo saresti meritato. Ora ti sei guadagnato solo l’impiccagione”. L’ufficiale pungola Roberto con la punta della spada insanguinata e lo spinge verso gli alberi dove è stato fucilato l’uomo con la camicia bianca. Mentre cammina fa segno ai soldati di prendere i cavalli. Fruga nelle sacche e quel che trova lo convince che ha agito per il meglio. “Ladri, non c’è dubbio. E sicuramente hanno rubato ad altri ladri. In questo posto di merda cos’altro potrebbero fare?”.

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Con un gesto di disgusto richiude rudemente le borse e, senza una spiegazione apparente, butta oltre il fossato quella di Markus e stringe con la mano destra quella più pesante di Roberto. A passi lenti si avvicina al corpo di Markus e poi guarda gli alberi oltre la radura. Si aspetta di vedere l’olandese appeso, ma non sente neppure le voci dei suoi uomini. “Andrès”, urla. E Andrès arriva di corsa. “Dove lo avete impiccato?”, chiede. Andrès indica un luogo più avanti, semicoperto dagli alberi. “Perché lì?”. “Perché c’è l’unico albero dove si possa appendere un uomo”. Un gesto secco e il soldato si allontana. “Dove non ci sono alberi per morire e solo nidi per uccelli neppure l’onore trova casa. Ecco perché la dignità è cacca di uccello, in questo Paese”, pensa l’ufficiale. E sente salire un senso di colpa che non gli è abituale. Poi si avvicina al corpo penzolante dell’olandese, dà un ultimo sguardo alla sacca e la deposita con cura sotto i piedi ondeggianti dell’impiccato. Juan Pablo Jimenez non è un ladro e non ruba ai ladri. Ma deve ammettere che l’olandese è morto con dignità. Forse non era olandese. Ecco perché Juan Pablo Jimenez ha depositato la sacca con delicatezza. I soldati se ne sono andati e il corpo di Roberto di Gand è rimasto appeso per giorni. Se qualcuno è passato accanto non lo ha guardato. Nessuno del resto guarda troppo a lungo attorno a sé, in questo Paese e di questi tempi. E nessuno dunque ha pensato di staccarlo dal grosso ramo e dargli sepoltura. È rimasto lì, oltre quella radura ormai sgombra, perché il corpo di Markus, invece, non c’è più e nessuno potrebbe dire come è scomparso. Così Pieter, una mattina inoltrata, osserva Roberto di Gand oscillare regolarmente, quasi fosse un pendolo, agitato dal vento del nord. Trasalisce quando vede spostarsi un lembo del colletto. No. Non è vivo. E non dorme, il bambino ne è sicuro. Pieter non è spaventato. Affascinato, forse. Rapito dalle oscillazioni precise che sembrano rianimare quel corpo privo di vita. Non ci sono domande inquietanti nella mente del bambino, che non si chiede perché quell’uomo sia stato impiccato, o quali siano state le sue colpe. Sembra quasi non afferrare, o non tenerlo in nessuna considerazione, il fatto di trovarsi davanti a un morto ammazzato in

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maniera brutale. Continua a seguire il movimento perfetto dettato dal vento. Per quanto sia piccolo, Pieter ama riflettere. Conosce la morte, ma questa non è quella che dipingeva il padre, morto quando lui aveva cinque anni. Però, quando il tempo trascorrerà e la carne – la polpa, direbbe Pieter – scomparirà, allora anche quell’uomo sarà solo un mucchio di ossa. Anzi, non un mucchio. Sfila nella sua mente, ancora una volta, dopo tante volte, quell’esercito sparso di cadaveri che il padre ha dipinto con tenacia. E con passione, direbbe Pieter, anche se non conosce questa parola. Il padre non voleva che il bambino vedesse il quadro. Né quando lo dipingeva, né quando l’ebbe completato. Lo copriva con un mantello, ordinando al figlio di stare alla larga. Una volta Pieter non resistette e disubbidì. Guardò a lungo, poi sentì la voce del padre che si avvicinava. Fece appena in tempo a nascondersi sotto il mantello, ma capiva che il rigonfiamento l’avrebbe tradito. Invece il padre, indaffarato, afferrò qualcosa e se ne andò. Pieter non poteva uscire subito e così rimase a lungo ad ammirare il quadro. In ogni dettaglio. Li ricorda tutti. In quanti modi la morte può uccidere. Adesso gli sembra che questa radura sia uguale a quella in cui uno scheletro sta per decapitare un uomo. Una scena piccola, lontana, disegnata con tratti sottilissimi, ma è fra quelle che gli sono rimaste più impresse. Come le trombe dell’Apocalisse. Anche quegli scheletri sono perfetti. Sono uomini. E donne. Morti. Che danno la morte. Ma allora cosa vuol dire morire? Chi ha il potere di darla? E quando uno muore così, decapitato da uno scheletro, va all’Inferno? Di certo, pensa Pieter, non va in Paradiso. Chi ammazzerebbe in questo modo un uomo per poi mandarlo in Paradiso? Ed ecco di nuovo ciò che lo terrorizza: il padre, dipingendo quegli scheletri, pensava di andare in Paradiso? Ora sarà in Paradiso, deve essere così. Ma ha paura, una paura folle, che sia andato all’Inferno. Forse lo conosceva già. Forse conosceva l’Inferno più di tutto ciò. E come mai? Il padre gli aveva parlato spesso di un altro pittore, dal nome lungo. Che frugava nella Bibbia come un cane randagio alla caccia di rifiuti, aveva detto una volta un altro membro della famiglia. Ma lui, il parente, non era un artista. Anche quello di cui parlava il padre, che apprezzava profondamente, sembrava sapere tutto. “Ha viaggiato molto”, diceva il padre sorridendo. “E dove è andato?”, chiedeva Pieter.

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“Lontano. Molto lontano. Dove noi non possiamo arrivare”. “Neanche tu?” “Ci provo”. Sta ancora riflettendo su queste cose quando sente il suo nome. È la nutrice. Pieter si volta e la donna è già dietro di lui. “Oddio”, dice. “Vieni via. Subito”. Pieter la segue docilmente. Poi però si volta di colpo e corre verso il corpo penzolante. Si piega e raccoglie la sacca che giace ai piedi del cadavere. La nutrice urla ancora. “No. Lasciala lì, per amor di Dio”. “No”, dice Pieter, e stringe la sacca al corpo, guardando rabbiosamente la nutrice. Che non ha più il coraggio di opporsi. Lo segue da vicino mentre tornano al carro e lo rimprovera debolmente: “Ci siamo spaventati tutti, benedetto bambino. Perché ti sei allontanato? Lo sai che ci aspettano”. Pieter e i suoi parenti sono diretti a un paese vicino. Devono partecipare al matrimonio di una cugina. “Stavate mangiando e io avevo già finito”. Nel carro che viaggia lento, anche se il ritardo si sta accumulando, Pieter guarda la sacca di Roberto di Gand e lascia che la nutrice, incuriosita, frughi dentro. La donna, anziana e irrimediabilmente curiosa, estrae un libro e sbircia dentro. Poi, dopo un tempo che a Pieter sembra sufficientemente lungo, borbotta: “Ma guarda un po”. Legge qualcosa e muove le labbra. Pieter non capisce e si stizzisce. “Alza la voce, per favore”. “Cos’è?”, chiede un altro bambino. “Da dove spunta quello?”, gli fa eco un adulto. E la nutrice non ha il coraggio di rivelare dove ha trovato la sacca. Lancia un’occhiata a Pieter. “Era sul bordo della strada. Lo ha trovato Pieter”, dice con noncuranza. “Non si raccolgono le cose così”, attacca l’altro bambino. “Zitto tu”, lo aggredisce Pieter. “Basta”, urla il più anziano del gruppo. “Sentiamo, cosa c’è scritto?” La nutrice sorride: “Non lo so. È in una lingua strana”. Il vecchio tende la mano e la nutrice gli porge il manoscritto. “È greco”, dice l’uomo dopo un lungo silenzio. “Lo conosci?” chiede timidamente Pieter. “Un po”.

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Anversa, 1575 “...Una voce uggiolante, tremante. Nella domanda non c’è la forza della minaccia. Scatramante fa un passo in avanti: ‘Lo saprai quando dodici leopardi ti morderanno. E ventiquattro leoni si contenderanno le tue povere membra. E quarantotto lupi si porteranno via i tuoi resti. Puoi anche chiedermi, miserabile, come conosco tutto ciò. Ti risponderei: perché io non sono io, se è solo un nome che cerchi. Ne avrò tanti e tutti ti bruceranno la coda al solo pronunciarli. Perché tu sei bestia come me, come i tuoi dei e come quelli che verranno. Una bestia con due corna come quelle di un agnello. Figlia di un’altra bestia che ha invece dieci corna. L’una e l’altra attenderanno pazienti. Mille anni sarà l’attesa, un solo giorno il tuo destino, e i millenni a non finire la vostra sofferenza’…”. “Ma questa non è roba per te”, dice il bibliotecario spagnolo. “Sei ancora troppo piccolo”. “Ancora per poco”, risponde Pieter con aria altezzosa. “E comunque questo lo tengo io”. “Va bene. Tanto so già cosa c’è scritto”. “Questo non è bene”. “I bambini non vanno all’Inferno”. “Chi te lo ha detto?”. “Lo so. Conosco benissimo l’Inferno. Anche più di voi”. “Sei impertinente. Come ti chiami?”. Ma Pieter fa uno sberleffo e scappa nella fredda mattina di Anversa. Anversa, 1609 Sente molto lontani gli insegnamenti di Gillis Van Coninxloo, ma Pieter non lo dirà mai a sua moglie, figlia di maestro Gillis. Il bambino è cresciuto, è diventato giovane, e il giovane anziano. Ha venerato il padre e la sua opera, ma in fondo ha viaggiato all’indietro, tornando a quell’uomo dal nome interminabile che aveva viaggiato ancora di più, fino a terre irraggiungibili. Per provarci, come aveva provato il padre, che è rimasto dentro di lui ben più della memoria. Ha pensato che se Dio non fornisce a tutti lo stesso talento, compensa sempre la sua avarizia. Uno storpio non è mai disperato, anzi sorride, spesso sghignazza, e ci deve essere una ragione. Persino la felicità. Qualcun altro può scrutare il buio e vedere tutto. In alto e in basso. Ecco, quando guarda i dipinti di Hieronymus Bosch, Pieter vede tutto.

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Anche ciò che si nasconde oltre le mura cadenti e le bolle trasparenti, dentro le sacche e i pifferi. Scorge la civetta che guarda impassibile appollaiata sul bordo di una finestra e capisce che deve sporgersi, oltre il becco, oltre il muso, in quell’antro che Bosch ha voluto scuro. Maestro Pieter è sulla soglia e prima ancora di vedere qualsiasi cosa prova un brivido di paura. Quello stesso brivido che avrebbe dovuto provare davanti al corpo oscillante di Roberto di Gand. Non sa cosa c’è, in quell’antro, e sa che non ci saranno nomi per descriverlo. Lo sa anche la civetta, che non si volta quando lui le passa a fianco. Come se sapesse già tutto. Dio è testimone che Pieter vorrebbe addirittura salutarla. Quando è entrato e tutte le porte invisibili si sono chiuse, vede il vuoto e sente il silenzio. In fondo, immobile, si staglia una figura scura. Che, alla vista di un intruso, comincia a camminare come un’ombra spessa che genera terrore. Senza che il suo volto e i suoi arti siano riconoscibili. Un’ombra più nera di un corpo sicuramente nero. Pieter pensa che forse un nome ce l’ha. Sì, è quel nome che compare nel manoscritto sequestrato dal bibliotecario. Non lo ha dimenticato, malgrado gli anni trascorsi, e le molte nozze disegnate. Retrocede lentamente, ma trova solo il muro e il becco della civetta, assurdamente pronunciato. Dunque si è voltata, finalmente? Anche Pieter non può fare a meno di voltarsi e fissare gli occhi dell’uccello che lo fissano a loro volta. Si gira di nuovo e vede l’ombra avanzare e ingigantirsi fino a dominarlo dall’alto, spiegandosi come un drago dalle ali infinite. Nella sua bottega maestro Pieter apre gli occhi e la visione è già scomparsa. Attorno a lui non c’è nessuno, ma annusa l’ultima scia di uno strano fetore. Che prima non c’era. Per Pieter è come un avvertimento. Le stagioni sono finite, i campi brulicano ancora di paesani, ma c’è una Bibbia che sente di non avere sfogliato. Ora comincia il tempo che non è tempo. Guarda fuori dalla bottega e gli sembra di scorgere, in lontananza, un pennacchio di fumo. E, più sotto, una cresta di fuoco. Fiamme che si levano sempre più alte e larghe, fino a invadere il cielo. Non è immaginazione, è certamente un incendio. E forse ora Pieter Brueghel ha capito. Forse ha afferrato la coda di un pensiero che lo segue dall’età di 9 anni. Torna dentro e afferra il pennello. È un vecchio dal fiato puzzolente e insolente. E le sue parole lo sono altrettanto.

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“Potete fare di più, maestro Brueghel”. Ha osservato tutti i quadri della bottega, quelli cominciati e quelli in corso d’opera, quelli da consegnare e quelli abbozzati. Chinandosi su ciascuno per un tempo insopportabilmente lungo. “Sì, certo, Plutone, Dante. Cova il fuoco nel vostro talento, magari si è acceso tardi, ma si è acceso. E comunque non apprezzo la vostra maestria, che non è poi così grande, bensì la vostra immaginazione. Voi, maestro Brueghel, vedete a occhi chiusi. Ma ci sono dei veli e faticate a sollevarli. Ah, cosa potreste scorgere solo faticando un po’ di più”. Il vecchio si avvicina e avvolge col braccio la spalla di Pieter che si piega da un lato per evitare il suo respiro fetente. “La bestia, il falso profeta, il drago: voi potete salire sulla parete più impervia del precipizio. Vedere le fiamme di fuoco del cavallo bianco. E i diademi e le truppe. E persino la spada a doppio taglio. Voi potete penetrare dove a nessuno è possibile. Sì, potete fare di più. Maestro Brueghel, voi potete disegnare la vera Apocalisse.”. Pieter dovrebbe dire qualcosa di diverso da un banale “Forse l’ho già fatto”, ma non ci riesce. Il fiato del vecchio lo paralizza. “ E dov’è allora?”. “L’ho bruciato”. “Giusto, fiamma per fiamma. Avete fatto bene. Molto bene”. Augusta, palazzo dei banchieri Fugger, 1610. “Fate presto, Benedickt, non ho molto tempo, e lo sapete benissimo”. “Sì, signor Fugger. Vorrei solo sapere cosa dobbiamo fare dei libri della donazione greca”. “Non so nulla di questa donazione. So invece che abbiamo molti problemi. E so che non andrò mai più in Spagna”. “Appunto, signore. Si tratta di quei libri donati dagli spagnoli al signor Anton”. “Valgono qualcosa? E soprattutto, servono a qualcosa?”. “Economicamente non mi sembra, signore”. “Li avete letti? Sì, insomma, sapete di cosa trattano?” “Personalmente no, signore, ma ricordo che il signor Anton riteneva che qualche opera fosse discutibile e poco ortodossa. Ora più che mai potrebbe non piacere al Papa”.

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“E allora vi siete dato la risposta da solo. Non mi sembra il caso di tenerli. A Roma sono piuttosto irritati, come pure a Madrid. Mentre noi… e se non sbaglio ora c’è l’Indice. Il che significa che le parole scritte proprio non le sopportano. Qualsiasi parola. Bruciate quei libri, Benedickt”. “Sì, signor Fugger”. Amsterdam, prigione di Rasphuis, settembre 1668. Ultima lettera di Adrian Koerbagh a Baruch Spinoza. “Carissimo e prezioso amico, ieri mi hanno annunciato che sarò trasferito nella Het Willige. Hanno finalmente capito, troppo tardi temo, che tra le mura di questa prigione per me la vita è impossibile. Non mi elevo oltre il destino comune degli altri carcerati, ma d’altronde a ciascuno il suo. Non mi sento nato per gli agi e non ho mai vissuto nello sfarzo, ma devo combattere con una costituzione delicata, debole, messa a dura prova da questa costrizione e ormai incapace di resistere. Non durerò a lungo, lo so, lo sento. Se ancora posso scrivere, è perché l’orgoglio mi sostiene. Anche qualcosa di più forte dell’orgoglio: l’incapacità di capire perché sono qui, rinchiuso in questa cella, nella tollerante Amsterdam. Se c’era, in questa nobile città, un pozzo nero, forse l’unico, ecco, quello è stato scelto per me. E perché? Che cosa abbiamo detto di tanto scandaloso? Come abbiamo offeso la verità? Perdonami, uso il plurale perché so che tu la pensi come me. O forse è più giusto dire che io la penso come te. E non voglia mai Dio, il nostro Dio, che tu segua la mia stessa sorte. Ma morti o vivi, non lotteremo mai abbastanza contro la falsità, l’errore, la superstizione. L’ignoranza. Pensando, giorno dopo giorno, istante dopo istante, ho capito che tutto il mondo degli uomini è un inganno. Fondato sulla mistificazione universale. Tutto ciò che ci dicono sia accaduto è una realtà alterata. E non mi riferisco solo a quanto è vergato nelle Scritture, non solo a ciò che i libri più grandi ci hanno tramandato. Ma a tutto. E tutto per uno scopo che deve necessariamente contrastare la verità, ormai irraggiungibile. Anche i miti, vorrei dirti, amico mio, anche i miti. Pensavo che fossero stati inventati dagli uomini per la gioia di chi partecipava alle feste, alle celebrazioni, ai sacrifici, ai giochi. Ora non la penso più così. Non c’era gioia genuina in chi scriveva o tramandava di bocca in bocca. C’erano comandi, obblighi, interessi. Certo, non nascondo la mia ingenuità, ma

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accettala, perché se non altro è prova di fede. Perché ti dico tutto questo? Forse solo per parlare. Perché ho bisogno di sentire chi amo vicino a me. E anche chi non ho avuto il tempo di amare. Ne ho bisogno. Se la vita mi sfugge, non posso sprecarne una goccia. E se c’è qualche altra goccia che non mi sarebbe mai sembrata vita, la devo raccogliere. Sento questo affanno. Ascolto tutto, mi interesso di tutto, anche delle minime cose, persino di ciò che non ha senso. Devi sapere che nella cella accanto alla mia c’è uno studioso, figlio di un segretario dei Fugger, i banchieri di Augusta. Non è giovane, non è forte e anche lui non durerà molto, ma il suo sguardo è lucido e profondo. Ha una mente che ha bisogno di segreti e di tenerli per sé, forse perché ha paura di quello che sa, ma la durezza di questa prigione sta avendo ragione anche della sua indole solida e persino prepotente. Non è più sicuro che nascondere ciò di cui è a conoscenza sia un bene. Ma non ha la certezza che rivelarlo non sia un male. Io non lo sollecito, non ne avrei comunque la forza, eppure ascoltarlo e aspettare è una scintilla che mi aiuta a tenermi in vita. Anche se, ormai, non potrei giurare sulla sua salute mentale. Mi ha parlato di un libro, incompleto, che nasconde una storia. Una storia importante e famosa, ma diversa da come l’hanno sempre raccontata, e che non possiamo non conoscere. Se tu potessi rispondere, mi chiederesti chi è quest’uomo e qual è il libro. Chi sia l’uomo non so dirtelo con precisione. Non conosco neppure il nome: “Non ha importanza”, mi ha detto. E il carceriere, a cui ho chiesto con dolcezza, non è stato da meno. Ha scosso il capo. Ho capito solo che alcuni suoi antenati hanno vissuto in un castello della Normandia e qualche altro parente, ancora in vita, ha accarezzato il mantello di una setta di cui hai sicuramente sentito parlare, i Rosacroce. No, non adombrarti, caro amico, conosco il tuo disprezzo per le sette, che è anche il mio, ma ti posso dire che lui stesso non ha particolare stima per quei suoi antenati. È uno studioso, ti dicevo, ha cercato e trovato documenti, soprattutto della sua famiglia, avendo ricevuto un’eredità grande e sparpagliata. E tra questi preziosi doni c’era anche il libro di cui mi ha fornito pochi cenni, che racconta dell’infelice città cantata da Omero. Ma non so cosa e come. Però dalle sue labbra screpolate è uscita una frase, come un sussurro: “Hanno inventato”. Poi ha guardato verso il cielo con occhi spiritati. Forse la pazzia lo ha portato a disegnare nella sua mente un grande inganno.

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Parlava di Troia, degli dei pagani e del primo cristianesimo come se fosse un unico paiolo fumante. Anche qui, ha detto con voce appena udibile tanto che dubito di avere compreso bene, hanno inventato. Peggio, hanno copiato. Non so cosa e non so perché. Vorrei scoprire qualcosa di più, ma mi mancano le energie per chiedergli spiegazioni e per farlo raccontare ancora. E comunque ho capito che si è liberato almeno di un fardello. Ha affidato il libro a quel gesuita di cui avrai sentito parlare: Daniel Van Papenbroeck…”. Amsterdam, 1669 Ad Amsterdam c’è una stradina stretta e contorta che gli abitanti chiamano “quartiere”. Il nome è Dirk van Assen-Steeg. Corre parallela al vicolo delle Pasticcerie. Tra le molte insegne spicca quella di una libreria che, nelle stanze più interne, ha la funzione di casa editrice. Per molte ragioni il proprietario è uno degli uomini più potenti d’Europa. Jan Rieuwertsz pubblica tutto, ma soprattutto volumi che altri editori preferiscono evitare. Amsterdam è una città liberale, ha modo di dire in questi anni Baruch Spinoza, nei suoi quartieri convivono in perfetta concordia uomini di tutte le nazionalità e di tutte le religioni. E per affidare i propri beni a qualcuno i cittadini di questo Stato si preoccupano soltanto di sapere se costui sia ricco o povero, o se sia solito agire in buona o mala fede. La religione o la setta cui appartiene non hanno importanza, perché ciò non contribuisce per nulla a far vincere o perdere la causa davanti al giudice. E non vi è alcuna setta così odiata i cui seguaci non siano protetti e tutelati dall’autorità dei pubblici magistrati. Questo è vero quanto è vero che una corda non si spezza finché il carico lo consente. Proprio Spinoza, è pomeriggio inoltrato, entra nella libreria facendo vibrare la campanella. Lo accoglie il sorriso di Jan. I due si conoscono da quindici anni e si stimano. Si abbracciano, ma al libraio non sfugge che Baruch è triste. E Jan sa bene perché, condividendo la stessa sofferenza. Non molti mesi prima è morto in carcere Adrian Koerbagh, un altro carissimo amico del filosofo e dell’editore. I giorni trascorsi hanno accentuato il dolore, e al dolore si è aggiunta qualche riflessione non meno lacerante: forse Amsterdam non è così liberale. Forse è solo questione di limiti. E Spinoza, dopo l’abbraccio, scuote il capo come rispondendo a una domanda che l’amico non fa: “Come stai?”. Spinoza è arrivato da Voorburg, dove abita

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stabilmente, per affidargli qualcosa che rischia di superare quei limiti. Un libro, naturalmente. Che gli porge dopo averlo sfilato da sotto il mantello. Jan sa di cosa si tratta. E ha già studiato la strategia, accennandone a Baruch. Il luogo della pubblicazione sarà Amburgo, almeno così si leggerà, e l’editore sarà, o almeno così si leggerà, Henricus Kunraht, un alchimista rosacrociano. Jan ha sempre abbondato in prudenza, ma ora va oltre. Non a caso Adrian Koerbagh è finito in carcere perché ha commesso l’imprudenza di firmare un suo libro col vero nome. Non riaccadrà, si ripete Jan. Più tardi cenano nell’abitazione dell’editore, nella stessa via, a poca distanza dalla libreria. E dopo cena, mentre la famiglia del padrone di casa si ritira, iniziano a confabulare. La discussione, fitta e sottovoce, dura un paio d’ore. Poi Baruch, che, quando si reca ad Amsterdam, viene sempre ospitato da Jan, si alza e fa per salire al piano di sopra. Si ferma di colpo. “Volevo parlarti anche di un’altra cosa. Niente di molto importante se non un accenno di Adrian nell’ultima lettera che mi ha inviato”. Si interrompe e sembra pensoso: “Davvero curioso che poco prima di morire si sia occupato di queste storie. Non riusciva mai a pensare solo a se stesso”. Poi, rialzando il capo, “cosa sai di un libro, per me sconosciuto, in cui si parla insieme della guerra di Troia e della nascita del cristianesimo? Già la fusione degli argomenti mi lascia perplesso, ma soprattutto non capisco come non se ne sappia nulla. Avranno fatto delle copie”. Jan tace, storce la bocca e si accarezza la fronte: “Forse c’era una copia da qualche parte. Forse per le altre non ne hanno avuto il tempo”. Baruch lo guarda e torna a sedersi. “Chi non ha avuto il tempo?”, chiede. “Non so. Di preciso”. “Ma sai qualcosa, mi pare di capire”. “Leggende, Bento. Dicerie. Frammenti inconsistenti”. Baruch sorride: “Bel linguaggio. Ma non sei davanti al Concistoro”. “Libro anguilla, lo chiamano, se è quello a cui ti riferisci. Davvero, solo minimi accenni, e di figure discutibili. Non amo molto parlarne”. “E infatti non me ne hai mai parlato”. “Tutto quello che so proviene proprio da Kunraht. Quindi puoi immaginare l’atmosfera”. Un gesto vago dopo una pausa. “Adrian sostiene che del manoscritto gli ha parlato uno studioso in carcere.

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Rosacrociano, fra l’altro. Come Kunraht”. “Già”. “Peccato davvero: io avrei potuto leggerlo, tu pubblicarlo”. Jan guarda Baruch con sorpresa: “Adrian non ti ha detto come arrivarci? La lettera…”. “Adrian è morto e di quel manoscritto non so niente”, lo interrompe Spinoza. “Stando a quanto mi ha detto nella lettera, ora è nelle mani di Daniel Van Papenbroeck”. “Oddio, quel gesuita pazzo?” “Quindi sarebbe possibile pubblicarlo.” “Non da me”. “No?”. “No”. “Cosa c’è in quel libro?” “Probabilmente niente, Bento. Ma non mi piace. E c’è un dettaglio che per un tipografo è più importante che per un filosofo: Johann Neumeister. Tu non sai chi è. Io sì. Era della cerchia di Gutenberg. Una vita sfortunata, malgrado il talento. E una morte misteriosa. Si dice che fosse entrato in possesso di quel libro. Idiozie, ho già molti ostacoli. E il mio coraggio, lo sai bene, resta intatto”. “Se ti fosse possibile impadronirti del manoscritto, se Papenbroeck te lo chiedesse, lo pubblicheresti?”. “No, ho paura di quel libro”. Anversa, gennaio 1669 È da più di una settimana che Daniel Van Papenbroeck non si vede in città. Non si è visto in cattedrale, dove generalmente celebra la prima messa del mattino, non si è visto per le strade di Anversa, dove spesso, prima di recarsi in biblioteca, è fermato da cittadini che hanno bisogno di consigli. Qualcuno, preoccupato, ha bussato addirittura alla porta della sua abitazione. Olgah, la governante, ha tranquillizzato tutti: padre Daniel ha solo una leggera influenza provocata probabilmente dalle raffiche di vento che in questi giorni si levano dal mare. Non è vero, è una falsità, e Olgah spera che il Signore la perdoni per averla detta. Il fatto è che da quando è arrivato quel pacco da Amsterdam il suo padrone si è chiuso nello studio e ha dato ordine di non essere disturbato

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per nessun motivo. Esce dalla stanza solo per mangiare e, non sempre, per dormire. Daniel Van Papenbroeck è chino sul manoscritto che ha ricevuto la settimana precedente. Più che leggerlo lo studia. È arrivato con un biglietto di accompagnamento su cui c’era scritto “Da parte di un povero peccatore. Ne faccia buon uso”. Ha chiesto a Olgah chi lo avesse consegnato, la governante ha risposto che lo ha trovato sull’uscio, al ritorno dal mercato. Una stranezza che ha incuriosito il gesuita. Olgah ha aggiunto: “Ma sono quasi sicura che un uomo è rimasto all’angolo della strada fino al momento in cui ho trovato il pacco”. Andare alla ricerca di libri inediti è più che una passione per padre Daniel. Talvolta un tormento meditato. Ha girato il mondo alla ricerca di manoscritti rari che potessero essere utili ai suoi studi. Nelle pellegrinazioni ha sentito parlare una sola volta di questo libro che, secondo un ipotetico studioso della Palestina, era appartenuto ai Templari. Allora aveva pensato all’ennesima leggenda sui cavalieri, qualcosa di meno, ma ugualmente misterioso e dunque fasullo, del mitico tesoro. Ora quel manoscritto, o almeno la storia di cui conosceva solo pochi accenni, è nelle sue mani. Il gesuita si è già domandato come mai sia stato consegnato a lui, e soprattutto da chi. Domande a cui non può dare una risposta. Non respinge il sospetto che si tratti di un inganno. Un falso deliberato. Ma perché? In questo caso le risposte possono essere tante, quanti i nemici che si è già procurato e quelli che potrebbero diventarlo presto. Dunque, è necessario prima di tutto verificare l’autenticità del documento, un impegno che richiede molto tempo. Anche stavolta Van Papenbroeck sente sul collo il soffio dell’Inquisizione, che lo tiene d’occhio per i suoi scritti, giudicati scandalosi, sulla vita e sulle opere dei santi. La saggezza non è al colmo in questa mente coraggiosa, ma il timore sta crescendo. Anversa, maggio 1669 La città, nonostante la stagione favorevole, è avvolta da una nebbia fredda che nasconde i palazzi e i monumenti. Baruch Spinoza è giunto ad Anversa senza avvertire Van Papenbroeck del suo arrivo, ma sa dove trovarlo. Si reca direttamente alla cattedrale di Notre Dame. Padre Daniel si trova in

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chiesa, gli riferisce un sacrista, ma in questo momento è impegnato nelle confessioni. Baruch consegna all’uomo un biglietto di presentazione e si siede in un banco in fondo alla navata. L’attesa non è lunga, il sacrista ritorna con la risposta del gesuita: padre Daniel ne avrà per tutta la giornata, ma sarà ben lieto di incontrare l’ospite dopo il tramonto nel Grote Markt, in una taverna tra le case delle corporazioni. Spinoza annuisce e nasconde un pizzico di stizza ma anche di sorpresa: singolare un incontro in taverna. Tanto più che Anversa non è la liberale Amsterdam, una constatazione – pensa subito dopo – che forse ha perso molto del suo valore. Ha parecchio tempo a disposizione e una parte la dedica alla visita della cattedrale: è immensa, con le sue sette navate e un trionfo di luci che penetra dalle spettacolari vetrate che s’innalzano dai lati. I costruttori, dagli architetti all’ultimo scalpellino, non hanno lasciato niente al caso e il risultato è stupefacente. Per la gloria di Dio?, si domanda Spinoza, o per quella degli uomini? Di alcuni uomini, alti prelati, papi, non certo a gloria del popolo. Poi l’attenzione è catturata dalle tavole di Rubens. La bellezza incute rispetto e, quando è assoluta, timore. Spinoza è riluttante a usare l’espressione “timor di Dio”, ma conosce la forza, il silenzio, la potenza di uno spazio infinito che avvolge la solitudine. Dentro se stessi e in un luogo di culto. I riti incrostano la fede, ma la bellezza di cui sono semplici schiavi rimane intatta. E può anche uccidere di piacere. Esce con rammarico. E si lascia portare dalle strade, dalle piazze, che la nebbia scontorna in maniera irreale. Ha modo di pensare nell’aria lucente, lui che preferisce pensare al lume di una candela, maneggiando le lenti. Rieuwertsz, Neumeister: non avrebbe mai immaginato che il coraggio dell’amico potesse venire meno. Prudenza, certo, ma avrebbe potuto trovare un sistema per aggirare i rischi. E comunque vivere il rischio, come sempre ha fatto finora. Non può credere che un manoscritto qualsiasi, pagine secondarie di una leggenda, parole scritte in libertà, che milioni di inconsapevoli servitori di Dio hanno spensieratamente ingrossato giorno dopo giorno, faccia tremare il migliore editore. Sì, Ian gli ha lasciato intendere che non ne vale la pena, in questo caso, ma la giustificazione sospesa non convince Baruch. E Neumeister? Un mistero. Spinoza sa che non esistono misteri, solo scarsità di informazioni. Cosa è accaduto al tipografo? Vicende sordide? La maledizione del vino o della miseria? Non altro, probabilmente. La sua razionalità non gli permette di credere che

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quel manoscritto sia maledetto. Quasi senza rendersene conto, Spinoza vede la sera arrivare. Più rapida per la nebbia. La piazza del mercato brulica ancora di gente, il filosofo trova subito la taverna e scorge seduto a un tavolo un uomo con la barba corta e fitta. Gli occhi mobilissimi e allucinati. Ma i movimenti sono lenti, calcolati. Spinoza non ha dubbi sulla sua identità e si avvicina. I due uomini si conoscono di fama, ma non si sono mai incontrati. E hanno sempre saputo che quando ciò fosse avvenuto non avrebbero sprecato parole. Dopo le presentazioni consumano un pasto frugale e alla fine Van Papenbroeck fissa gli occhi su quelli di Spinoza. Attende. “Di molte cose potremmo discutere e forse lo faremo”, esordisce Baruch. Che tace per qualche istante, come per raccogliere i pensieri che affollano la sua mente. Non attende una risposta. Che del resto non arriva. “Ma ho chiesto di vederti per un argomento minimo che però mi incuriosisce molto. Vorrei che mi parlassi di un antico manoscritto greco che narra di guerre, di dei e di Dio, il nostro, e che, attraverso un lungo viaggio e numerosi passaggi, è finito nelle tue mani”. Van Papenbroeck continua a tacere. Ma Spinoza coglie l’immobilità improvvisa degli occhi. Non sa che per il gesuita significa addirittura sgomento, gli basta però la certezza della tensione per alzare una mano. E continuare. Racconta ciò che sa, della lettera ricevuta dal suo amico in carcere e di quell’uomo, quanto meno originale, che era il suo vicino di cella. E ovviamente non chiama in causa il suo editore di Amsterdam. “Se non ho capito male, è una versione diversa della guerra di Troia”, dice Baruch con aria leggera, da conversazione in osteria. Van Papenbroeck guarda il tavolo e sorride. Gli occhi si muovono nuovamente in libertà. Spinoza si attende un prologo che porti lontano, in altre nebbie. Si stupisce quando sente il gesuita dire con voce pacatissima: “Anche. E l’aspetto più interessante è che ha molte probabilità di essere vera”. Baruch sa che il gesuita ha fama di assoluta onestà intellettuale, ma ama sorprendere. Ora spetta a lui tacere. “Intendo dire che, per quanto ne sappiamo, può essere autentica come quella tramandata da Omero. In altre parole, è stata effettivamente scritta cinquecento anni prima della nascita di Cristo. Il nome naturalmente potrebbe essere falso”.

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“Se è per questo anche quello di Omero è molto dubbio”. “È vero”, riconosce il gesuita. “Una scoperta preziosa”. Van Papenbroeck scuote il capo: “Non è così semplice. Non so dire fin dove è autentica. Ci sono state sicuramente delle manipolazioni. Vedi, questo è uno dei documenti più stimolanti che mi siano capitati. E nelle mie ricerche me ne sono capitati, credimi. Sembra che questo manoscritto attragga le falsificazioni”. E poi, dopo una pausa calcolata, “e anche i morti”. “Puoi dirmi di più? E di più chiaro?”. “Possiamo dire molte cose, ma quelle certe sono poche. E tu sai che la realtà è ciò che resiste all’interpretazione. Se poi l’interpretazione si fa aiutare dall’immaginazione…”. “Sì, so cosa vuoi dire. E mi fa piacere che tu lo dica….”. “Ho trascorso diverse notti insonni tra queste righe. Per curiosità, per piacere, per timore. Come hai accennato anche tu, il manoscritto è, come dire, accompagnato da… fruscii, li definirei. Un conto è la guerra di Troia, comunque sia finita, un conto il dopo: Eschifilo, o chi per lui, poteva sicuramente inventare una guerra degli dei. Ma fino a che punto? Diffido di menti troppo profetiche”. Spinoza sorride mentalmente e pensa al libro che ha consegnato a Rieuwertsz. “Eschifilo?”. “È il nome dell’autore. Si annuncia personalmente”. “Chiunque potrebbe farlo”. “Naturalmente. Ma supponiamo che questo personaggio sia realmente esistito e abbia scritto questa storia. L’autore in sé è relativamente poco importante, il punto è un altro”. Il gesuita beve un sorso di vino e riprende: “Mi sembra evidente che qualcuno è intervenuto dopo. Sicuramente un pagano. La voce che arriva dal profondo dei secoli accenna a un egiziano, ma anche questa potrebbe essere falsa. Anzi, lo è sicuramente, anche se un egiziano ha avuto un ruolo. In un primo momento ho pensato che in realtà si trattasse di Dionigi l’Areopagita. So quanto era forte il suo desiderio di fondere mondi apparentemente inconciliabili. Ecco, ma quanto è forte il mio desiderio che così sia?”.

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Baruch conviene intimamente che Van Papenbroeck è leale con la verità. “D’altra parte so di un’altra diceria: a suo tempo esisteva una seconda versione del manoscritto andata perduta. Probabilmente in latino. E la stessa voce sussurra che quella versione riportava cose che non c’erano nell’originale greco in mio possesso. O meglio, non c’erano cose che dovevano esserci. E se è vero, chi è intervenuto? Un cristiano? Uno studioso? Un fanatico? E perché la falsificazione? Vedi, un’infinità di discorsi e domande che non portano a niente. Ma mentre le ponevo a me stesso e rileggevo il manoscritto, quasi cercando l’ispirazione, e constatando che queste pagine hanno qualcosa del fuoco, che quasi le ha bruciate, e del sangue, che temo sia sgorgato, ho capito improvvisamente che c’è un problema di numeri”. Ecco l’impulso a sorprendere, pensa Baruch. “No, la fantasia non c’entra”, dice serio Van Papenbroeck intuendo i pensieri di Spinoza. “Troppi numeri e qualcuno troppo strano. Ma qui non dovresti sorprenderti, ebreo portoghese. I greci seguivano, più o meno, il vostro stesso sistema. Numeri, lettere, Cabala”. “Conosco la nostra storia. Me ne sto occupando”. “Sì, mi è giunta anche questa voce. Immagino che sia un nuovo sviluppo dell’herem. Tu sei maledetto, Spinoza, se io fossi ebreo non dovrei avvicinarmi a te più di quattro cubiti”. “Ma tu non sei ebreo. E quanto a nemici, sconfessioni e minacce, diciamo che ci sono tutti i presupposti per una sincera amicizia, se non collaborazione”. “Concordo. Beh, i numeri hanno sollevato un velo. Ma solo sollevato. Abbastanza da poter dire che anche la seconda parte del manoscritto profuma di autenticità. E, pensa un po’, ora dovrei congiungere le mani e pregare, e idealmente lo faccio, credimi, Eschifilo parla dell’Apocalisse. O almeno di quella che dopo verrà chiamata Apocalisse”. Baruch abbassa lo sguardo. Tace a lungo, come immerso nelle riflessioni, e il gesuita rispetta il suo silenzio. “Ne deduco”, dice poi, “che Giovanni ha copiato”. “Forse anche di più”. “Rubato?”. “La mia analisi si ferma qui”. “Non vedo il nesso con i numeri”.

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“Ho detto che mi fermo qui, e lo ripeto da cristiano a ebreo, anche se...”. “Anche se?”. “Non ha importanza. Non potrei dirti altro, anche volendolo. Se c’è qualcosa da estrarre dagli enigmi dei numeri, una parte rimarrà per sempre nascosta. E se qualcosa affiora, grazie alle mie capacità, è bene che resti nascosta ugualmente”. Spinoza capisce che non otterrà altro dal gesuita. “So bene che mi hai già detto molto. E ti sono grato. Conosco le storie della chiesa, so che molto è stato tramandato falsamente, conosco i nomi dei pontefici che hanno tradito la verità. So anche che tutto ciò è avvenuto anche prima che nascesse Cristo. E so che anche Daniel Van Papenbroeck fa parte della schiera che vorrebbe resistere al fascino ambiguo dell’interpretazione e guardare in viso solo la realtà. So perfino che Daniel Van Paperbroeck è disposto a pagare la pena corrispondente. Mi basta. Se può essere un ulteriore ringraziamento, tutto ciò mi è di conforto nella mia opera. Presente e futura”. “Stai bene, Baruch Spinoza”. “Un’ultima cosa. Potrei vedere il manoscritto?”. Daniel Van Paperbroeck sorride: “Hai già molti problemi con i tuoi libri. Perché moltiplicarli con i libri degli altri?”. È notte fonda quando Baruch Spinoza e Daniel Van Papenbroeck lasciano la taverna. Si sono salutati amichevolmente, anche se sanno che ciò che si sono detti è molto meno di ciò che avrebbero voluto raccontarsi. Prevedono che non ci sarà un’altra locanda ad accoglierli entrambi nello stesso momento. Il gesuita si avvia a capo chino e tira un sospiro. È stanco e non è breve il tratto di strada fino alla sua abitazione, dove la Schelda quasi si raggomitola. Mentre costeggia il fiume, sente un rumore di zoccoli che si avvicina rapidamente. Percepisce il pericolo, anche se si dice subito che è illogico. Non è l’unico passante in strada. Eppure sa che quegli zoccoli risuonano per lui. Una carrozza si ferma alla sua altezza e, mentre lui continua a camminare, due uomini scendono, lo affiancano e lo invitano a salire. Si muovono senza fretta e le poche parole che pronunciano non hanno il tono della minaccia. Ma Van Papenbroeck capisce che non avrebbe senso rifiutare.

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Anversa, maggio 1669 Daniel Van Papenbroeck si stringe la testa fra le mani. Si trova finalmente nella sua stanza spoglia, circondato dai libri. È tutto ciò che possiede e che si concede. Libri a ogni parete, ammucchiati davanti al tavolo, incastrati negli angoli, in pile che s’innalzano vertiginosamente e che sembrano dover crollare da un momento all’altro. Eppure il gesuita non deve mai cercare, sa perfettamente dove si trova ciò che gli serve. Le dita premono sulle tempie, come se si sforzasse di ricordare. Ma tutto è fin troppo nitido nella sua mente. L’hanno bloccato mentre usciva dalla taverna. Ora si chiede se e da quando lo stessero seguendo. Domanda inutile. Lo seguono da molto tempo. Da sempre, pensa. L’hanno portato in un palazzo che conosce. Non era la prima volta che varcava quella porta. E spera che non sia l’ultima, per quanto paradossale possa sembrare. Davanti all’Inquisitore non è riuscito a frenare l’indignazione e se ne rammarica mentre ripercorre quello che non potrebbe definire altrimenti che un interrogatorio: “Era necessario trattarmi in questo modo? Bastava convocarmi”. “Diciamo che tendiamo a essere stringenti”, è stata la risposta dell’Inquisitore. Lo sguardo freddo, anche se il tono era tranquillo, quasi amichevole. Van Papenbroeck sapeva di dover mantenere la calma. Doveva muoversi con prudenza. Ma l’indignazione stava diventando rabbia. “Diciamo che non volevate darmi il tempo di riflettere”. “Riflettere su cosa, Daniel Van Papenbroeck?”, era la domanda che si aspettava e non avrebbe dovuto concedere. La percezione dell’errore ha avuto il potere di placarlo. “Posso sapere perché mi trovo qui?”. “Questo dovete dirmelo voi”. “Negli ultimi tempi credo che abbiate trovato, o inventato, diversi motivi per il piacere di incontrarmi”. “Sapete qual è la vera, grande arma del cristianesimo?” “Lo dica chi conosce la risposta”. “L’intuizione. Sì, l’intuizione, Van Papenbroeck. Noi capiamo l’atmosfera e quindi agiamo prima degli altri. Quando dico noi, intendo anche voi. I gesuiti vivono di ragione, ma dell’intuizione non parlano mai. È giusto, non si scoprono le armi. Si nascondono e si usano mentre gli altri non

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capiscono. Ecco, io intuisco che voi avete intuito qualcosa. Cosa? Non lo so. Ma potrei passare giorni interi a farvi il ritratto di Baruch Spinoza. È necessario? È ciò che volete? No, mi pare di capire. E allora questa è la deduzione: il sedicente filosofo Spinoza non incontra uno come voi, o come me, per amabili chiacchierate. Un uomo presuntuoso più che intelligente. Non so se più esibizionista o superficiale. E comunque pericoloso. E una mente tortuosa come quella assai raramente è stuzzicata da una grande, insolita, persino lacerante curiosità. A questo si aggiunga che abbiamo orecchie, se non occhi, anche in carcere”. Nella sua stanza Van Papenbroeck solleva il capo e lascia cadere le braccia lungo la sedia. È stanco, anche se sa di avere grandi riserve di energia. Abbastanza da combattere, se non vincere, le battaglie della verità. Davanti alle ultime parole dell’Inquisitore ha capito che i suoi margini di manovra erano minimi. Ma comunque esistevano. Loro non potevano sapere più di quello che conosceva lui e in fondo anche per lui c’era ancora molto da scoprire. Stava studiando una strategia, in pochi istanti, come spesso gli era capitato, ma l’Inquisitore lo ha sorpreso. “Per ora non vogliamo di più, Van Papenbroeck. Se avete bisogno di riflettere è giusto che riflettiate. Personalmente sarò molto lieto, quando vi farà comodo e sarete pronto, di confrontare le vostre riflessioni con le nostre”. Lo hanno scortato fuori dal palazzo. È rientrato a casa. Ora, nella sua stanza, capisce che anche quei margini si sono assottigliati. Lasciandogli un breve tempo non gli hanno concesso altro. Dopo tutto è semplice: la sua carriera di scopritore di falsi, e falsi di falsi, può dirsi conclusa. La sua attività è stata, si può dire che lo sia ancora, eccitante, così come è eccitante il coraggio, e ha un’intima relazione con la verità, ma Van Papenbroeck è consapevole da tempo che la verità non è parente della realtà, perché la realtà è costruita. È un religioso con la passione della scienza, cane e gatto nello stesso corpo, Dio e Lucifero sopra lo stesso cavallo. Non doveva essere religioso e scienziato allo stesso tempo, l’ibrido lo aveva sempre inquietato, ora coglie tutte le implicanze di uno scherzo della natura. “La natura”, ne avrebbe voluto parlare con Spinoza. Ora è stato rinchiuso in uno spazio angusto, se si piega tocca il bordo

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dove si levano già le fiamme dei roghi, deve decidere in fretta. Forse entro stasera. Ma in pratica non ci sono alternative: rivelare un falso può essere persino benemerito, rivelare un falso di qualcuno può essere pericoloso, rivelare un falso che nuoce alla Chiesa è impensabile. Ciò che sa e in qualunque modo lo riveli è un peccato, politico prima ancora che religioso, con ovvie conseguenze. Non può commetterlo. Ciò significa che quello che ha scoperto – meglio, quello che ha intuito – è bene che non esista. È un uomo onesto e non s’inganna, anche se in una frazione di debolezza si dice che ha già fatto molto per la verità, che si è preso i suoi rischi, che merita la fama. Una deviazione è accettabile, soprattutto se non conduce da nessuna parte. Così Van Papenbroeck gioca la carta che ha sempre gettato tra i rifiuti. Lui, che ha combattuto i falsi di ogni epoca, costruirà un falso. Innocuo, liberatorio, perfetto. Non avrà problemi. Conosce la tecnica, il trucco, l’errore e la possibilità di nasconderlo. Eschifilo, questo meraviglioso sconosciuto, sarà un altro Eschifilo. Ugualmente sconosciuto. Ma più modesto. In fondo si tratta soltanto di cancellare ciò che non si vuole sapere, eliminare i rischi per un mondo che trova comodi gli inganni, e lasciare la sorpresa di una storia che cambia i panni del vincitore. Tutto prima della storia, prima di Cristo, prima dell’unico vero Dio. Anversa, giugno 1669 L’Inquisitore fissa a lungo il gesuita: il suo mutismo, avverte Papenbroeck, è diffidente ma incerto. “Tutto qui?” chiede poi con un sospiro. Van Papenbroeck ha parlato con calma, evitando accuratamente di apparire intimidito. Ha raccontato ciò che ha raccontato allo stesso Spinoza, assicura. Con l’uomo che ora gli sta davanti non ha usato formule di garanzia, sa che solo l’indiscutibile saio dello studioso può convincerlo. E se non convincerlo, almeno insinuargli un dubbio insormontabile. “Vorrei avere una sola certezza, Van Papenbroeck, è qualcosa di più o di meno del vostro assoluto desiderio di cancellare gli antichi miti?”. Il gesuita sorride. “Non di cancellarli. Ho l’unico obiettivo di lasciare alla storia ciò che è autentico”. “Ben poco, a questo punto. E non tutti sono d’accordo con voi. Anzi. E a sentire ancora voi, i nostri monasteri pullulavano, e forse pullulano tuttora,

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di mistificatori di professione”. “Il desiderio di raccontare è insopprimibile. E spesso l’immaginazione è più entusiasmante della realtà. Sono convinto che non esiste un solo racconto che non diverga, di poco o di molto, da ciò che è realmente accaduto. Ammesso che sia accaduto”. “Dunque”, dice l’Inquisitore posando la mano destra sui fogli consegnati dal gesuita, “la storia si conclude con il forte Agamennone che, a capo chino, ordina ai suoi di tornare indietro. E nulla più”. “Una storia falsa, ripeto. Una delle tante”. “Scritta probabilmente in uno dei monasteri di cui parlavamo, sì, questo l’ho capito. Ma supponiamo, per puro diletto, che l’abbia scritta davvero questo Eschifilo. Perché l’avrebbe fatto? Gusto della parodia, divertimento, dispetto, rancore?”. “Non saprei. Ma nel mondo antico su ogni storia nascevano innumerevoli storie. Molti eroi sono morti o sono diventati immortali nello stesso tempo, hanno viaggiato e sono rimasti sempre nello stesso luogo, sono stati in guerra e in pace in un unico momento. Forse ogni terra aveva la sua versione. Noi conosciamo solo quella che è giunta fino a noi”. Per la prima volta Van Papenbroeck coglie un moto di fastidio nell’atteggiamento dell’Inquisitore. “Non fatemi una lezione. Ogni cosa avviene perché così deve essere”. Tace, poi riprende. “Vedete, mi sono sempre chiesto: ma in quale momento sono morti gli dei pagani? Sono certo che vi siete posto anche voi questa domanda”, dice l’Inquisitore piegandosi verso il gesuita. Che non resiste allo sguardo, abbassa il volto, e dice: “Tertulliano, come ben sapete, pensava che i magi…”. “Lasciamo perdere anche questo. Non è per scienza o dottrina che chiedo e mi chiedo. Non sono mai riuscito a farmi un’idea. Cosa fecero gli dei dopo la guerra di Troia? Certo, si occuparono ancora delle faccende degli uomini, ma sempre più stancamente e sempre meno. Fino a sparire nella storia cominciata… Cominciata quando?”. “Non volete un’altra lezione e dunque da me non l’avrete”. “Possiamo concludere insieme che il nostro Signore Gesù Cristo ha scrollato un mondo già sfinito?”. “Ecco…”. “Coraggio, Van Papenbroeck, non vi sto chiedendo di invertire i ruoli.

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Non ho tranelli da tendere. Comunque stiano le cose, sono convinto che il povero non si chieda come sia arrivato il cibo, se lo trova davanti alla porta mentre già pensava di rubarlo ad un altro povero. Sono certo che tutto ciò che esiste di questa storia è in questi fogli che mi avete dato. Il resto è il piacere diffuso dai menestrelli. Vedete, sono anche convinto che Eschifilo, o chi per lui, avesse un disegno più ampio. Forse proprio quello di rispondere, inconsciamente, alla nostra domanda. Dove sono finiti gli dei? Non pensate anche voi che avrebbe potuto aggiungere qualcosa? Che avrebbe potuto continuare il racconto?”. “Dubito che Eschifilo sia esistito, e perdonate se oso ricordarlo”. “Già. E possiamo concludere qui le nostre riflessioni. Non prima di un’ultima confessione”. E a questo punto un brivido attraversa la mente e il cuore di Van Papenbroeck. “Da parte mia, intendo”, aggiunge l’Inquisitore. “Sapete, sono tante le storie che si rincorrono, non soltanto i miti dell’antica Grecia. Storie nate da dicerie. Allevate, corrette, tramandate. Ce n’è una che per un istante ho pensato potesse essere vera. Forse ne avete sentito parlare anche voi. Si racconta di Giovanni e dell’Apocalisse, di un rotolo misterioso, di un pericolo per la chiesa, di numeri e di morti. E in ogni caso di qualcosa che, durante i secoli doveva essere distrutto. O conservato”. “Mi sorprendete”. “Ne sono certo. Depongo la curiosità, a questo punto. Mi sono sbagliato. Soltanto dicerie. Niente di tutto questo ha una base concreta. E niente salterà fuori, un giorno o l’altro”. Van Papenbroeck sa che questo è il passaggio più rischioso di tutto il colloquio. Non contano le parole, ma i toni. Sceglie di sorridere. “Siamo nel campo di ciò che combatto. Ieri un inventore, oggi un falsificatore, domani chissà. Ma abbiamo ormai strumenti infallibili, e lo saranno sempre di più. Non vedo un futuro per gli inganni”. “Dite? Eppure conoscete la regola. Ciò che si vuol credere è più vero di ciò che è vero. Ma almeno non aiutiamo i malfattori. Giusto, Daniel Van Papenbroeck, buono e leale gesuita?”. Londra, 1827. Frammenti del diario dello scultore Frederick Tatham … “Bruciare, distruggere, è necessario. Con rammarico, lo ammetto, con angoscia anzi, ho io il diritto di cancellare opere, anche una sola riga, un

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unico disegno, di quest’uomo geniale e forse, una volta, toccato da Dio? O piuttosto da qualche demone? O da dei che mettono il mondo a ferro e fuoco per tornare? Dio mio, cosa dico… Sì, me lo attribuisco, quel diritto, in nome della chiesa che ho scelto. E dunque dichiaro: io, Frederick Tatham, artista di questa nobilissima terra, scultore d’Albione, se così piacesse definirmi all’uomo che offendo, mi accingo a bruciare le ultime opere del poeta e incisore William Blake. Perché se faccio un torto all’uno rispetto il tutto. Dovrei forse più rispetto a lui che mi ha lasciato i suoi manoscritti pregandomi di averne cura? Sì, rispondo, ma no, se quei manoscritti contraddicono gli ordini non detti che nascono dalla bocca inconosciuta di Dio. Non è vero che il mio amico è morto cantando poesie al suo Creatore, potrei urlarlo. E se così apparve si trattava indiscutibilmente di una finzione… Era una giornata fredda e nuvolosa quella in cui William mi parlò di un manoscritto che non seppe dirmi come fosse giunto nelle sue mani. Ma capii che erano fiamme sulla sua immaginazione già fin troppo fumante. Ed erano parole troppo vicine alla sua mente per discuterne l’autenticità. Gli bastava sapere che qualcuno parlava del libro dei libri. Parlava? Bestemmiava! In un commentario aggiunto da un prete, così mi disse, si spiegava il significato recondito del manoscritto. Si sollevavano orrendi sospetti su Giovanni, si lordava l’Apocalisse. Non volle spiegarmi tutto, né io l’avrei voluto. Mi declamò, con un sorriso che mi fece rabbrividire, la visione di Dio sul suo trono. “E davanti al trono c’era come un mare di vetro, simile al cristallo; e in mezzo al trono e attorno al trono, quattro creature viventi, piene d’occhi davanti e di dietro”. Da tanto tempo navigava in quelle acque, in compagnia dei quattro Zoa che si ribellano nell’uomo, che vogliono imporre il loro dominio. Anch’io conosco la potenza malefica dell’intelletto, dell’emozione, della sensazione e dell’immaginazione, che aggrediscono una dopo l’altra la fragile natura umana, lacerata e arrovellata. E mi piaceva ciò che William proclamava. Il ritorno all’unità, all’eternità dell’uomo che è l’eternità di Dio. Poi cominciò a pensare altro, e la colpa era di quel libro. Sono certo che ha consumato notti su quelle righe, e la sua immaginazione accesa fin da lattante avrebbe voluto consumarne ancora, fino a scambiare il Paradiso per l’Inferno. Voi non sapete cosa c’è nelle carte che mi ha lasciato, e non lo saprete. Bruciandole è come se anch’io non lo abbia mai saputo …

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Numeri, numeri infernali. Sapete dei dodici figli di Albione? In un’altra giornata, ancora più fredda e ancora più buia, me ne parlò e il suo delirio aumentava a ogni sillaba. Gli dissi che dodici è un numero sacro: dodici sono gli apostoli. Lui mi disse che dodici sono anche gli dei dell’Olimpo, non soltanto i dodici figli di Giacobbe. “Certo”, risposi, e dunque? Di nuovo il suo sorriso beffardo. Tenetelo a mente, William Blake non era sano, lo avete già intuito. Il suo era un talento macchiato. I secoli forse lo conserveranno e lo lusingheranno, ma le menti timorate lo cancelleranno. E una mente suprema lo punirà come si conviene. Allora io scossi il capo e lui mi disse ancora che i numeri raccontano il Creatore ma anche una strage, una carestia, una pestilenza. E un delitto. Non capivo, e non volevo capire… Numeri infernali. Me ne parlò ancora e stavolta fui io a sorridere sprezzante. “666, dissi, meravigliosa scoperta. Davvero nuova. Avete altre amenità da...”. Mi fermò con la mano alzata dicendo che quelle erano sciocchezze, idiozie da conventi diroccati. E poi un delirio. Ancora quattro e tre. E sedici e sessantaquattro. E nove e ventisette. E ventotto e naturalmente sette… Basta, conoscete la sua opera, provvedete voi a districarvi in questa maledetta foresta, se qualcuno vi fornirà i codici. Ma sappiate che alcuni alberi sono velenosi, non appoggiatevi ai tronchi… Io l’ho visto lo Spettro. Lo vedo quotidianamente. Satana e solo Satana, non anche Dio, come vorrebbe farvi credere l’uomo di cui mi accingo a bruciare queste carte. Non era Dio quella figura che William cercava forsennatamente di ritrarre in fattezze umane, disperandosi, sudando abbondantemente, trasformando il pavimento in un tappeto di carta stracciata. Perdendo i giorni, giorno dopo giorno, e la notte, che per lui era sempre giorno. Senza sonno e con i sogni sempre aperti. Scatramante, lo chiamava, e mai ho sentito un nome simile se non da lui. Tentava di ritrarlo e quell’orrida creatura gli sfuggiva. Era come se i tratti sulla carta, appena abbozzati, lo sbeffeggiassero con la risata di Lucifero e si dileguassero, confondendosi con i fantasmi di William, e sicuramente nutrendoli. Ed era davvero Lucifero, a cui lui si inchinava e da cui tutto sopportava. Era una sua invenzione, Scatramante? Non credo. Penso che fosse una creatura di quel maledetto manoscritto. Viva, insonne, perfida e incantatrice. Così non voglio più vederlo. E così non voglio più vedere Beulah, la terra dove tutto è peccato, donna, sensualità, fornicazione. E posso risparmiare

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a questo punto ciò che so della vita intima di William, di sua moglie, e di altro… Ecco, si levano le fiamme purificatrici… i fogli diventano cenere, prende fuoco anche qualche ciocco, strano, una lingua lambisce anche la mia mano…”. Spagna, la Clerecia di Salamanca, 1851 Augustin è più che un custode. Le borse sotto gli occhi e sotto il mento, le rughe fitte e parallele, che non nascondono un sorriso sempre accennato, sono strati di memoria. Come un albero nodoso che nasce e cresce per conservare se stesso. Augustin ha coltivato il silenzio, ma non l’indifferenza. Sa tutto ciò che è accaduto alla Clerecia negli ultimi sessanta anni e molto di ciò che è avvenuto prima. Molto di ciò che i libri ufficiali non hanno diffuso, i resoconti non hanno riportato e persino le cronache segrete hanno rifiutato. Ogni giorno, con poche eccezioni, ha lavato, pulito, lustrato e perlustrato quel luogo, quell’edificio costruito dai gesuiti. Che per lui è un tesoro. Persino la polvere ha qualcosa di sacro. E spesso l’ha spazzata via con rammarico. Dagli angoli più esposti a quelli più lontani, apparentemente invisibili. Il suo regno, quel regno, è immenso e Augustin, con una corte fedele e laboriosa, ha sempre programmato il lavoro. Ogni anno un grande piano. Così resta sorpreso, quasi incredulo, quando scopre una fessura tra due lastre di marmo, in uno degli angoli più riservati dell’edificio. Non se n’è mai accorto e, anzi, ritiene che fino a ora non sia stata visibile. Fa scorrere il dito sulla fessura e capisce, dalle briciole che cominciano a volteggiare, che solo adesso si sta svelando il vuoto. Prima c’era una sostanza che tappava completamente la fessura. Un materiale dello stesso colore pallido del marmo. Augustin fa scorrere il dito con più forza e quella sostanza continua a sbriciolarsi. Poi più nulla, come se si fosse improvvisamente volatilizzata. Non tutta la fessura è stata riempita: c’è solo uno strato, come una barriera sottile ma resistente. Che non ha resistito al tempo e alla sua costanza, pensa Augustin. E il sorriso si fa più deciso. Con un panno tenta di completare l’opera, ma inutilmente: la stoffa è bloccata. Rimane perplesso, teme che l’ostacolo sia qualcosa di animato. Ma non sente fruscii, come sarebbe naturale in quel caso. Un insetto? Troppo piccolo. Un topo morto? Sarebbe più molle. Pian piano rimuove

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l’ostacolo spostandolo verso il bordo ormai libero. È costretto ad usare persino un coltello da cucina perché quel qualcosa vorrebbe arretrare verso il fondo delle due lastre che si incastrano nella parete. Alla fine nota uno spigolo che si affaccia. Si china e capisce che è la punta di un triangolo. Pensa che possa essere un libro. E ha ragione: emerge anche il dorso. Ora può prenderlo. “Pesca miracolosa?” La mano di Augustin si blocca. Le parole arrivano dalle sue spalle, il tono è divertito, eppure lo fanno sentire un ladro. Si volta. Padre Suerte Navarro lo guarda sornione. Si avvicina e gli accarezza delicatamente il capo dai capelli radi. Augustin lo guarda dal basso in alto, timidamente, col sorriso che neppure la sorpresa ha cancellato. “Padre, non vi avevo sentito”. “Meno male. Altrimenti potresti pensare che non ho vissuto per decenni nel silenzio. Vedo che questa casa non è un libro aperto per te. Qualche pagina è rimasta chiusa”. “Sì”, annuisce Augustin. “Strano”. “Strano che un palazzo della Chiesa nasconda segreti? Mi stupirei del contrario”. “Strano, padre, che questo buco sia apparso all’improvviso. Abbiamo pulito spesso questa parte, anche se è lontana e la attraversiamo raramente. È come se…”. Suerte Navarro completa la frase sollevando appena la voce: “Come se fosse arrivato il momento”. “Sì, padre. Proprio così”. Patio della Clerecia, due giorni dopo “Dunque Van Papenbroeck ci ha giocati?”. “A furia di spalare falsi tali o presunti ha perso il senso della realtà. Si è creato un mondo falso anch’esso”. “Non era pazzo”. “Forse no. Livoroso, sicuramente”. “Neppure. E contro chi, poi? Contro l’Inquisizione? Ma via. Contro se stesso, forse: certe scoperte fanno male. Van Papenbroeck, a modo suo, è purissimo”. “Un peccato, fratello. L’orgoglio della purezza è il peggiore. E il più

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pericoloso”. “Sono d’accordo”. “E comunque non è questo il punto. Quando copie ha seminato?”. “Non potremo mai saperlo”. “Potrebbero spuntare ovunque. E in qualsiasi luogo”. “A Madrid, In Italia. In Francia. Nelle Americhe. In Turchia”. “Basta. Conosciamo la nostra storia”. “E allora?”. “Niente. Sia fatta la volontà del Signore”. “Così deve essere. Ma non dimenticate un fatto importante: malgrado i tentativi, il segreto è sempre rimasto tale. C’è una schiera invisibile che lo protegge. A tutti i costi, fatemi sussurrare. Dunque, nessun tremore. Chi sa è più forte di chi sospetta”. “Così sia”. Il gruppo si scioglie nella sera già avanzata. Ognuno si allontana in una direzione diversa. Come i raggi di una stella. Penisola anatolica, 1867 È sfiduciato da molto tempo. Da quando le fortune della sua famiglia si sono esaurite, imponendogli di cambiare il fornitore di abiti. Anche la sua cantina ha pagato il conto: larghi vuoti e via le bottiglie eccellenti che ora ammira, con nostalgia, sopra le tavole dei pochi che lo invitano a cena. Sempre meno. E Calvert non ha dimenticato quella sera a Istanbul. Per l’ennesimo ricevimento di Philippe Varlonne. Proprio lui, che lo aveva invitato con untuosa insistenza, a un tratto disse “Ah, che meraviglioso Riesling si beveva alla vostra tavola, caro Frank”. Si “beveva”, disse il bastardo, premendo l’accento sulla parola. Un imperfetto micidiale per l’umore di Frank, che colse un sorriso di finta compassione negli occhi dell’attaché di Singapore, alle spalle di Varlonne. Una trama sulle sue sventure. Una beffa. Tanto più devastante perché nel crocicchio di invitati c’era anche Susan Locke. Ecco cosa non potrà dimenticare: il sorriso radioso che diventava improvvisamente triste. Che si affievoliva nello stesso interminabile tempo che Frank avrebbe impiegato per bere il Riesling, se ancora l’avesse avuto. Come se per lei fosse una rivelazione. Non ha il cervello fino, Susan, ma ha studiato ciò che l’educazione delle donne inglesi impone. E percepisce subito quanto le è utile, anche se

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non è priva di sentimento. Dove sarà ora? Lui, così timido e introverso, mansueto ed elegante, non si era mai fatto avanti, ma aveva capito che avrebbe potuto farlo, e con buone chances. Susan usava spesso questo termine. Come nuances. Di colpo Istanbul divenne lo specchio della sua impotenza. Quella sera mosse appena le labbra, ascoltò e dopo pochi minuti, con una scusa, se ne andò. Sentì un italiano, che si trovava nello stesso gruppo, esclamare “perinde ac cadaver”. Era rivolto a lui? Ormai tutto era possibile. E comunque i bagliori dei lampadari, i riflessi luccicanti sugli arazzi, il tintinnare dei bicchieri erano intollerabili. La perla del suo patrimonio, al momento, è un’intuizione. Quella giusta, ne è convinto, ma non sa che farsene, dal momento che non può sfruttarla. Immateriale. Vale meno dell’etichetta più volgare della sua cantina immiserita. Ha bussato a tutte le porte dell’Impero per ottenere un finanziamento o anche solo un prestito, ma nessuno ha voluto ascoltarlo. Anche il governo turco non ha mostrato alcun interesse per il suo progetto: non ha intenzione di finanziare una campagna di scavi per portare alla luce le rovine di Troia, la città distrutta dai greci, popolo odiatissimo da queste parti. L’arresto del fratello maggiore è stato il corpo mortale. I pochi amici rimasti si sono dileguati, lasciandolo solo con i rimpianti e le speranze. Soprattutto con quell’immensa collina da spalare: Hissarlik. Frank Calvert si è trasferito nei Dardanelli tanto tempo prima, al seguito della famiglia, giunta in Turchia per avviare un’attività di commercio – ha ricordi nebulosi – per conto dell’impero britannico. Non ha avuto un’infanzia felice, colpa del suo carattere introverso, e nemmeno un’istruzione sufficientemente adeguata a una persona del suo rango. Motivi che giustificano il rancore verso i genitori. Com’erano, a proposito? Si rende conto che ne ha cancellato le immagini. Ma questo non gli ha impedito di spenderne i guadagni. Quel che otteneva quando erano vivi, quel che gli è stato lasciato dopo la morte. Il fatto è che Calvert non ama il prossimo. E di conseguenza gli altri non amano lui. Ma forse non ama nemmeno se stesso, se l’ambizione è una valuta dell’autostima. Però conosce bene le lingue, soprattutto quelle antiche, e ha una passione viscerale per l’archeologia. Quando gli affari di famiglia erano floridi ha acquistato dei terreni sul tumulo di Hissarlik, sulla cui cima si notano

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ancora le rovine dell’acropoli di Novum Ilium, una città fondata ai tempi di Augusto. Il giovane Calvert, studiando le carte topografiche della zona, si è convinto che lì sotto ci sia molto più che un paio di colonne sferzate dal vento dell’Egeo: “Sotto quella terra si nasconde Troia, la città di Priamo”, è quello che l’inglese continua a ripetersi fino alla nausea. Ha intrapreso da poco una piccola campagna di scavi che ha rafforzato il suo convincimento. Il sito è certamente ricco e dovrebbe corrispondere a una città che ha attraversato diverse fasi di insediamento. Ora però i soldi sono terminati, lui ha solo un incarico di vice console britannico che non produce reddito e a malincuore deve abbandonare gli scavi: il sogno di gloria si è trasformato in un incubo. Ma se tende l’orecchio alla collina Calvert si rianima, sente ancora il fragore della battaglia, il clangore delle armi, sente nitrire Xanto e Balio, i cavalli immortali di Achille, mentre trascinano nella piana il corpo senza vita di Ettore. Non tutto è ancora perduto. Recentemente è venuto a conoscenza, leggendo un articolo su un giornale, che un archeologo dilettante tedesco, basandosi sui testi omerici, ha avuto più o meno la sua stessa idea. Vero che la collina individuata dal tedesco non è esattamente quella di Hissarlik, ma la zona coincide e, a quanto pare, l’uomo è facoltoso e determinato. Decide di scrivergli: meglio dividere il piacere della scoperta con un altro piuttosto che rinunciare. Ma neppure a quell’uomo Calvert rivelerà come tutto è nato nella sua testa. Università di Rostock, gennaio 1868 Per Heinrich Schliemann oggi è un giorno speciale. Si trova davanti al corpo accademico dell’Università di Rostock per presentare il suo trattato sulla possibile ubicazione dell’antica città di Troia. Gli studiosi però non sembrano attenti. Si lanciano occhiate con ostentazione e sorridono. Qualcuno scuote la testa. I sussurri non arrivano al tavolo del relatore, anche se qualcuno lo vorrebbe. Schliemann conclude: “… per cui sono fermamente convinto, basandomi esclusivamente sulle parole di Omero, che sotto la terra di Hissarlik si nasconda Troia, la città teatro della più grande guerra combattuta nell’antichità”. Le ultime parole si perdono tra i fischi. E malgrado la solennità del luogo si levano volgari risate. Facendo ampi gesti con la

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mano per riportare la calma, si alza e prende la parola il decano degli archeologi dell’università: “Vedete, caro Schliemann, il vostro lavoro è encomiabile. Direi anche ben descritto. Ma il vostro ragionamento, per quanto assolutamente interessante, parte da un presupposto del tutto errato, e cioè che l’Iliade sia un libro di storia. Lasciatevelo dire da chi ha più esperienza di voi, caro Schliemann, l’Iliade non è un libro di storia. È una favola, scritta magistralmente, come solo Omero avrebbe saputo fare, ma è solo una favola. E se quel libro è una favola, una storiella, Troia non esiste. Non è mai esistita. Mi dispiace ”. L’intervento del vecchio archeologo scatena gli applausi, che si attenuano solo quando Schliemann riprende la parola: “Illustri professori, e vedo che non mi riconoscete il ruolo di collega e dunque non mi azzardo ad attribuirmelo, avete ragione: ho sbagliato. Ho commesso l’imperdonabile errore di presentare questo lavoro a un’assemblea tanto dotta quanto ottusa. Dipendesse da voi, il sole girerebbe ancora intorno alla terra. Quella terra su cui io, almeno io, ho faticosamente infilato il naso e le mani, sperando che, se quel giorno non avessi scoperto qualcosa, il giorno dopo sarei stato più fortunato. Esercitando un’azione ormai rarissima fra voi: l’intuizione. Vi ho guardato: avete i ventri sferici. Contate i magri presenti in questa sala: ce n’è solo uno, là in fondo. E ora dorme. Non sta bene, forse non sa neppure di cosa stiamo parlando. Avete le mani curatissime e i cervelli come i ventri: sazi di informazioni, che altri vi hanno fornito e che voi non avete la forza di esaminare. Forse perché impegnati a ruttare, e la volgarità è solo vostra. Prima o poi si mangia del cibo avariato, ma voi non ve ne preoccupate troppo. Se capita, vomitate, la vostra cameriera pulisce e il vostro medico vi fa ingurgitare una pozione. Non è successo nulla, non chiedete se quella carne era gonfia di vermi. Non più. Casomai fate arrestare il macellaio, che forse è innocente. Poi tutto come prima. Una volta la curiosità era vostra amica, almeno di qualcuno. Le carte erano stropicciate e sporche di terra. Non le vostre. Voi siete il consesso che deve difendere le idee acquisite da tutti gli assalti, da quelli dei giovani che scavano e non hanno fondi per comprare la vanga. E da quelli dei vecchi che hanno fatto ammenda per la loro pigrizia e hanno la schiena a pezzi. Dovete violentemente opporvi alla possibilità che qualche carta sia da stracciare. Non sia mai. Siete una biblioteca ammuffita e pagate il guardiano perché non vi avverta che è arrivato un nuovo manoscritto. Troppo pericoloso.

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La vostra scienza, cari signori, potrebbe essere davvero cibo avariato, ma voi non ve ne accorgete. Non volete accorgervene. Avete dimenticato una piccola lezioncina, che pure vi hanno impartito all’inizio dei vostri studi imbalsamati: la soddisfazione è nemica della scienza. Sì, i vostri ventri sono tronfii, e vedo le lingue che leccano le labbra, pregustando un altro banchetto. Forse raffinato, ma inguaribilmente vecchio. Le nuove ricette sono pericolose, sicuramente manipolano cibo avariato, vi dite: evitiamo dunque le novità, andiamo sul sicuro. Ecco l’unico accorgimento di cui siete capaci contro il terrore di vomitare e imbrattare la giacca. Avete mai cucinato da soli? No, certamente. Vi sporchereste le mani. Siete molto puliti, avete meravigliosi favoriti, colletti lindi, panciotti sfavillanti, scarpe abbaglianti e ghette candide. Il fatto è che non sapreste come fare. Lasciate il compito agli altri, ma vi assicurate che non inventino, non provino, non dubitino. Sono sincero: pensate davvero che io sia così fatuo, arrogante e in fondo imbecille da non avere perplessità su ciò che vi ho detto attorno a Troia? No, vi assicuro: mi arrovello giorno e notte. Riflessione dopo riflessione. Talvolta lancio in terra i miei appunti. Talvolta mi viene persino da ridere. Ma poi sento una voce, che mi parla diversamente. Non dovrei ascoltarla? Devo ascoltarla. Nei secoli dei millenni se fossero stati tutti sordi, trascurando le voci che provenivano dall’Olimpo o dall’Ade, o da una semplice capanna di legno, ora avremmo ancora una ruota quadrata. Una sola certezza sarebbe stata la fine del mondo. Con una sola certezza l’uomo non sarebbe mai nato o sarebbe nato morto. E con quell’unica certezza, seppure fosse nato, non avrebbe attraversato la terra, non l’avrebbe trasformata, non avrebbe combattuto. Sapete voi cos’è il contrasto? La forza portentosa di un sì per un no? E nel mezzo la distesa del dubbio? Ma di cosa dubitate voi, egregi non colleghi? Di nulla. Neppure del fatto che siete un branco di coglioni”. E ancora prima dell’ultimo insulto Schliemann si alza e abbandona l’aula che per il frastuono si trasforma in una piazza di mercato. Hissarlik, maggio 1868 Heinrich Schliemann osserva dal basso la collina di Hissarlik. Il sito è costeggiato da un fiumiciattolo che non può essere che l’antico Scamandro: “Si, qui sotto mi aspetta Ilio”. È stato fin troppo semplice levarsi di torno quell’inglese. Si dice che

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Calvert non insegue sogni di gloria, non vuole la fama e la ricchezza, vuole solo portare alla luce Troia per dimostrare che aveva ragione, che la sua intuizione era giusta. “Peggio per lui e meglio per me”, pensa Schliemann, che non ha complessi di colpa e si sofferma raramente sul concetto di cinismo. Ha rubato i terreni di Calvert pagandoli a prezzo di mercato. “Conta il valore delle carte, non ciò che c’è sotto”, si è detto. E sa che Calvert non urlerà al mondo che è stato rapinato. Quel che ha ottenuto, più di quanto chiunque gli avrebbe dato, gli consentirà di sopravvivere. Fino a quando? “Non è un problema mio”. Giusto un soffio di amarezza mentre ricorda la lettera inviatagli da Calvert. Da un diplomatico inglese. Questi sì che si chiamano crediti. Dopo pochi giorni Schliemann lo chiamava “amico mio”. Perché ovviamente era partito subito per l’Anatolia col miraggio – no, non un miraggio – di scavi da cominciare subito. Lui aveva i soldi, Calvert i terreni. Nello stesso arco di tempo, quei pochi giorni che promettevano un meraviglioso sodalizio, gli uomini e le donne ingaggiati per le ricerche avrebbero detto che il tedesco era esuberante, arrogante e vanaglorioso; l’inglese umile, timido e riservato. Sul conto di Schliemann il modesto Calvert, se avesse potuto, avrebbe aggiunto “spregiudicato”. Un diplomatico, e non solo, deve seguire le regole dello stato in cui si ara il terreno. Per Schliemann il mondo è il suo cortile. Ma Calvert non disse nulla. “E non dirà nulla su ciò che è accaduto”, si ripete Schliemann. Non poteva pretendere altro. “La gloria spetta a me”. E con la rete di conoscenze che ha creato in giro per il mondo saprà far fruttare anche la gloria. I tesori fanno nascere i tesori. Gli scavi sono cominciati da qualche settimana e l’archeologo tedesco è costretto a constatare, con una punta di nervosismo, che i risultati sono scarsi. Quasi assenti. Qualche coccio di terracotta e poco altro. Oggi una pioggia torrenziale impedisce agli operai di lavorare. Solo lui, incurante dell’acqua che lo infradicia, risale lentamente il pendio della collina, verso la zona degli scavi. Improvvisamente vede franare una montagnola di terra. Si ferma, irritato. La pioggia che scende furiosa crea un velo di nebbia, e lui tenta di mettere a fuoco un dettaglio. Un frammento. Mentre le gocce creano quasi una rete attorno al cappello capisce che lo smottamento sta scoprendo un muro di pietre squadrate. Incurante del fango, si avvicina e si mette a scavare a mani nude: “Si tratta

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sicuramente del muro perimetrale di un’abitazione dell’acropoli”, pensa. Continuando a scavare riesce a liberare diversi reperti, finché sente sulla pelle un brivido e si immobilizza: sotto i suoi piedi c’è un grande cratere di terracotta perfettamente conservato. Almeno alla prima occhiata. Grande è l’emozione, a Schliemann tremano le mani mentre estrae affannosamente il vaso dalla melma. Ora bisogna scendere e portarlo in laboratorio. Dopo un’accurata pulitura, il cratere si mostra nel suo splendore. È magnifico, finemente decorato, sicuramente il lavoro di un grande artigiano. Il centro della scena è dominato da due figure: a destra un guerriero muscoloso e gigantesco, nudo e di pelle nera come la notte. A Schliemann viene in mente che possa trattarsi di Memnone, il re degli Etiopi, alleato di Troia, ma i caratteri somatici non corrispondono. Memnone era un africano tipico, mentre questo, a parte il colore della pelle, ha le caratteristiche peculiari dei greci. Non possiede armi, ma il suo atteggiamento è minaccioso. E l’altro personaggio? Se possibile, è ancora più enigmatico del primo. Si tratta di un vecchio, o almeno così pare all’archeologo tedesco, con la barba e le vesti candide e le braccia imploranti rivolte verso il cielo. È veramente strano, pensa Schliemann, che nessuno degli eroi dell’Iliade e dell’Odissea assomigli, magari vagamente, a queste due figure. Il disegno è completato da alcuni guerrieri, ai lati dei personaggi principali, che Schliemann non ha difficoltà a riconoscere come soldati degli eserciti greco e troiano. Sotto le decorazioni appare una scritta chiara che Schliemann non ha difficoltà a tradurre: “A eterna gloria della città inviolata”. Che cosa significa? L’archeologo è perplesso. “Non ha senso. Se questa è la storia di Troia, e non può essere altrimenti, non ha senso”. Si accascia e solo dopo un lungo tempo tenta di formulare delle ipotesi. La prima è che il vaso provenga da una qualsiasi città greca, arrivato a Troia attraverso gli scambi commerciali. La seconda, terribile ma più verosimile, è che il cratere provenga direttamente dal sito dove sta scavando. Questo significherebbe che lì sotto non c’è Troia, perché la città è stata conquistata, è stata violata dall’esercito greco. Non ci sono alternative, a meno di pensare che la storia tramandata nei millenni sia un falso. Ma le prove? Il cratere? Lo guarda ancora, lo esamina, fa scorrere le dita sulle decorazioni. “Questo potrebbe essere un falso”. Che qualcuno lo stia ingannando? Che

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sia un complotto per sbeffeggiarlo? Vogliono fare di lui un pagliaccio? E perché no? Senza volerlo, si guarda attorno. Sente crescere il panico. Ma se non fosse così? Se davvero questo vaso travolgesse ciò che è stato raccontato? Non sarebbe allora la vera gloria per chi lo ha riportato alla luce? No. È impossibile. Impossibile. Schliemann rimane immobile. Pensa all’immenso e inutile lavoro svolto, pensa agli archeologi di Rostock che l’hanno deriso e pensa ai sogni di gloria che non si avvereranno, pensa alle sue finanze intaccate e alla fine prende una decisione, l’unica possibile: il cratere deve sparire. È notte. Schliemann non ha deciso. Certo, bisogna eliminare il cratere, che ora è avvolto in un panno scuro, deve farlo, ma per un archeologo – e non importano gli altri possibili attributi – bruciare una scoperta sensazionale è un delitto, il massimo immaginabile. Il suo Dio, dai molti aspetti come Odisseo, non gradirebbe. Però è necessario: vede le infinite lame del suo io tendersi minacciose. Non può fare altro. La tenda è al buio. Preferisce che gli altri siano convinti che dorma, dopo l’ennesima fatica. Anche se è sempre l’ultimo a ritirarsi. Scorge appena i contorni del cratere, posato su un baule. Rabbrividisce quando sente un sussurro. Non è possibile, non c’è nessuno nella tenda. Ma si sbaglia: un fiato insolente e sgradevole gli giunge improvviso alle narici. “Chi è?”. Un leggero movimento. “Non abbiate paura, professore, non sono un ladro. E nemmeno un assassino”. Una voce indefinibile. Nell’oscurità Schliemann scorge solo una folta barba. Sicuramente è un vecchio. “E sono troppo vecchio per le manifestazioni di violenza”. Che strano linguaggio. Burocratico. Che sia inviato dai suoi avversari? Schliemann quasi avrebbe voglia di sorridere, se non fosse per l’alito puzzolente. Non capisce se emani dalla bocca o dall’intero corpo del vecchio. “Oggi faceva troppo caldo. Mi sono rifugiato qui dentro e mi sono addormentato. Perdonatemi. Ora me ne andrò”. Per la sorpresa Schliemann non ha ancora detto niente. Di colpo dà uno sguardo al cratere. È ancora lì, o almeno c’è l’involucro. Sente l’uomo

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sollevarsi con fatica e avvicinarsi alla porta. “Ora farĂ fresco. Le mie ossa non patiranno l’umido. Me le sento antiche. Molto antiche. Come quel vaso nascosto dal panno. A proposito, professore, rompetelo, se posso darvi un suggerimento. E comunque maneggiatelo con cura. Non posso negarlo: ci ho pisciato dentro. Non potevo trattenermi. Sapete, sono molto malato. Malattie contagiose. Addio, professoreâ€?.

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EPILOGO Una città del nuovo mondo, rue Saint Paul 123, 1900 Dentro c’è tutta la storia della città. Un portavivande, un sestante, velieri, reti, foto di marinai. E armi, attrezzi, un ferro da stiro. Se dovesse fare l’inventario, il proprietario dovrebbe chiudere il negozio per mesi, forse anni. Eppure chi lo vede sbucare dal retro, dopo che è squillata la campanella, ha subito la certezza che conosce quegli oggetti uno per uno. Come se non fossero lì per caso, ma si fossero imposti per una qualche forma di nobiltà. Il passo lento, gli occhiali di tartaruga, i solchi profondi sulle gote, i pantaloni con le bretelle, senza giacca: dà la sensazione di essere stato così fin dalla nascita. Magari potrebbe fare l’inventario a voce. E raccontare un numero infinito di storie. La campanella squilla ancora. E il proprietario sbuca dal retro. L’uomo che è entrato sta maneggiando un remo e non si volta. Il proprietario vede le spalle ampie e vorrebbe dire che è implicita la richiesta di non toccare la merce. Perché sempre di un negozio si tratta. L’uomo parla senza voltarsi ancora: “Magnifico negozio. Ci si potrebbe restare per giorni”. Poi si volta tendendo il braccio e sollevando il remo. Che osserva come si osserverebbe la statua di un altare. “Chissà quanti lo hanno imbracciato. Quante onde lo hanno levigato. Semplice ma perfetto. E nessuna crepa. Incredibile”. “E perché mai?”, chiede il proprietario, scrutando il viso dell’uomo, ora che può farlo, puntando poi lo sguardo sul pavimento e scuotendo appena il capo. “Sarà così per altri cento anni. Nessuno è vivo di quelli che lo hanno maneggiato, ma un remo di quella fattura è nato per ammaliare tutti gli esploratori”. “Naturalmente”, si limita a commentare l’uomo, posando lievemente il remo sul giaciglio di paglia. Poi si guarda attorno, come se cercasse qualcosa ma la meraviglia lo frenasse. “Ripeto, potrei stare qui per giorni. E invece è l’ora della chiusura, me ne rendo conto. Perdonatemi”. “Nessun problema”. “Avete anche vecchi volumi?”.

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“Certo. Se guardate alla vostra sinistra, c’è un corridoio. E un altro locale”. Il proprietario fa un gesto con la mano e l’uomo lo precede. Anche la seconda stanza è colma di oggetti, mentre i libri sono sistemati su normali librerie. L’uomo dà uno sguardo d’insieme e poi si dirige con decisione verso una parete. Esamina i libri uno per uno. Dopo un tempo interminabile, vista anche l’ora tarda, il proprietario sorride: “Avete trovato quello che cercavate, Joaquim van Wincklam?”. L’uomo continua a osservare i volumi, piegato da un lato. Non risponde fino a che non estrae un libro. “Direi di sì. Ma mi pare di capire che forse è stata una inutile fatica. Vediamo se ho capito bene. Pronunciando il mio nome avete voluto dirmi che sapete chi sono e perché sono qui. Se la cosa non vi sorprende è perché non la temete. E c’è un solo motivo perché non dobbiate temerla: anche impossessandomi di questo libro non otterrei ciò che voglio. Ce n’è forse un’altra copia?”. “Ma non siete stanchi?”, chiede il proprietario sorridendo di nuovo. “No”. “Allora vi dirò che più in là, in questa stessa strada, c’è un altro negozio. Il proprietario, lo leggerete sull’insegna, si chiama Mathieu Loubek: è lui ad avere l’ultima copia. Ma sfortunatamente per voi è partito, guarda caso pochi giorni fa. È andato al nord e non so quando tornerà. Forse avete solo una vaga idea di cosa sia il nostro nord. Non è il freddo della Scozia, né dell’Olanda, né della Germania. È un freddo nuovo, per voi, troppo particolare, troppo intenso. Non ama le cose vive. Persino gli insetti, per vivere, diventano… diabolici. Quanto a me, per quanto vivo, sono stanco, al contrario di voi”. “Traduzione: non avete paura di morire”. “Già”. Quando esce dal negozio Joaquim van Wincklam non è soddisfatto. Sospira. Pensa a quello strano nome che gli hanno dato, che ha il sapore della Spagna, del Belgio e dell’Olanda, troppo per una sola persona che ha dimenticato il suo vero nome. E pensa che forse è stanco anche lui. Si avvia verso il centro e quando lo raggiunge si immalinconisce ai suoni di un piano. C’è un vecchio, con la barba bianca, curvo sullo strumento.

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PROLOGO FINALE Atene, 363 a.C. “Ti vedo pensoso”. “Troppe domande, maestro. Un numero infinito. Una domanda ne esige subito un’altra. È questa la filosofia?”. “Lo è. Le domande sono le uniche certezze. Le risposte solo dubbi. Può sembrarti paradossale, ma è così. E nessuna domanda è inutile. Nessuna sciocca. Ecco perché i bambini sono ottimi filosofi. In realtà è sciocco solo ciò che viene dato per scontato”. Platone guarda il profilo lontano dell’Accademia. Il silenzio è ammaliante e il canto delle cicale lo esalta. Il filosofo si china a raccogliere una pietra. “È sciocco chiedere perché questa è una pietra? E cosa significa pietra? Se lo chiedi a Menesseno probabilmente ti risponde di sì”. Il giovane lo guarda stupito. “Non so chi sia”. “Una giovane creatura come te, appassionato di Omero. Fin troppo”. “Omero. Allora, maestro, permettimi una domanda da bambino”. “Permesso accordato”. “Moriranno i nostri dei?”. Platone china il mento senza smettere di camminare. “Sì, credo di sì. Non morirebbero se i popoli di tutto il mondo, dalle terre oltre la Persia fino a Thula, adorassero le stesse divinità. Ma non è così, e credo che non possa esserlo. C’è troppa umanità negli dei, e ciò che è umano ha termine. Ma ti precedo: ciò che non morrà mai è ciò che rappresentano”. “Il bene. La virtù”. Platone scuote il capo: “No, non farti ingannare. Il bene si insegue, non si raggiunge. E non guardarmi in quel modo. Conosco ciò che dico e racconto da tempo, ma anche ciò che spero e che penso intimamente. E ciò che intendo ora è che tutti i popoli, prima o poi, si accorgeranno che se c’è una sola divinità per tutti, siano uno o dodici dei, allora quella sarà immortale. E se il mio intuito non mi inganna, quando se ne accorgeranno pretenderanno che sull’Olimpo, o in qualche altro monte, ci sia un dio piuttosto che un altro. E saranno disposti a tutto perché quel dio sia

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riconosciuto universalmente”. “Mi spaventa tutto il potere nelle mani di un solo dio”. “Anche se la sostanza di quel potere è il bene assoluto?”. Il giovane non risponde. Anche Platone tace, poi riprende: “So cosa pensi, mi sono accorto del tuo spirito critico e me ne compiaccio. Il bene assoluto? Una chimera, ritieni. E poiché resti un bambino, deduci che, conoscendo il bene assoluto dobbiamo avere nozione anche del male assoluto. Non hai torto”. “E pensi, maestro, che la conoscenza si accorderà con quel dio?”. Platone sorride. “Sei astuto. Vuoi farmi dire che, come gli eroi del nostro Omero, anche gli dei sono imitazioni, menzogne. Magari utili, ma sempre falsità. Sia pure, e ti sorprenderò ancora: mi interessano le regole di questa terra, della nostra società, dell’uomo. Quelle del cielo assai meno. Siamo noi che dobbiamo servirci degli dei e non loro di noi. Ecco perché è comodo affermare, come affermo, che non ci può essere menzogna nel dio”. “Non mi sorprende davvero, maestro. E così è più facile sbarazzarci dei nostri eroi, che piangono, si disperano, urlano. Insomma, se Omero non fosse esistito…”. “Allora avremmo creato altri miti. Ma così non è stato e non nego la grandezza del nostro poeta. Nego che i giovani debbano seguire i suoi modelli. La forza degli dei deve essere la nostra. E hai ragione quando pensi che anche gli dei debbano essere purificati”. “Non l’ho detto, maestro”. “Ma l’hai pensato. E hai anche pensato che per purificarli bisogna sporcarli. Via il nocciolo, teniamoci la polpa, così farebbe il bambino”. Il giovane sorride. “E allora, maestro, visto che idealmente e benevolmente mi definisci un fanciullo, posso, con il tuo venerabile aiuto, giocare come i bambini, che rompono e ricompongono?”. Platone si ferma e guarda il giovane. Un sorriso strano, come quello che nei momenti più difficili distendeva le gote di Odisseo, gli attraversa il viso. “È una buona idea. Davvero una buona idea. Parliamone, Eschifilo”.

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PERSONAGGI STORICI Platone (428/7-348/7 a.C.): filosofo greco Ippia (443-399/43 a.C.): filosofo, matematico, astronomo greco Omero (ca. IX sec. a.C.): poeta greco, autore dell’Iliade e dell’Odissea Aristofane (450-385 a.C.): commediografo greco Elio Aristide (117-180): scrittore e retore greco Teofilo d’Alessandria (…-412): patriarca d’Alessandria Tolomeo I (367 ca.-283 a.C.): primo re d’Egitto della dinastia tolemaica Teodosio I (347-395): imperatore romano Filippo il Bello (1268-1314): re di Francia Guillaume de Nogaret (1260-1314): cancelliere di Filippo Jacques de Molay (1243- 1314): ultimo Gran maestro dei Templari Aristotele (384/3-322 a.C.): filosofo, scienziato, logico greco Eschilo (525-456 a.C.): tragediografo greco Zenodoto d’Efeso (330-260 a.C.): filologo greco Erodoto (484-425 a.C.): storico greco Tucidide (460-395 a.C.): storico greco Giuliano l’Apostata (330-363): imperatore e filosofo romano Onorio (384-423): primo imperatore romano d’Occidente Arcadio (370-408): imperatore bizantino, fratello di Onorio Sofocle (496-406 a.C.): drammaturgo greco Nettario (…-397): patriarca di Costantinopoli Giovanni Crisostomo (347-407): patriarca di Costantinopoli Eutropio (…-399): politico, scrittore, retore, eunuco alla corte di Arcadio Eudossia (…-404): moglie dell’imperatore Arcadio Origene d’Alessandria (182-254): teologo e filosofo greco Flegonte di Tralles (prima metà II sec.): storico greco dell’impero romano Guillaume de Plaisians (…-1313) avvocato e giudice francese sotto Filippo il Bello Berenger Fredol (1250 ca.-1323): cardinale e vescovo francese Etienne de Suisy (…-1311): cardinale francese Lorenzo Brancacci (XIV sec.): cardinale italiano, inviato del papa

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Clemente V (1264-1314): papa, al secolo Bertrand de Got Damaso I (305 ca.-384): papa Ursino (…-384): papa e in seguito antipapa Atanasio (295 ca.-375): papa della chiesa copta di Alessandria d’Egitto Diofanto d’Alessandria (III-IV sec.): matematico greco Apollonio di Perge (262-190 a.C.): matematico, astronomo greco Ipazia d’Alessandria (355/70-415): matematica, filosofa, astronoma greca Pietro il lettone (IV/V sec.): assassino di Ipazia Oreste (IV/V sec.): prefetto di Alessandria d’Egitto Teone (335 ca.-405 ca.): filosofo e matematico greco, padre di Ipazia Sinesio (370 ca.- 413): filosofo e vescovo di Cirene Simplicio (490 ca–560 ca): filosofo e matematico bizantino Giovanni (10-98/99): apostolo di Gesù, evangelista e presunto autore dell’Apocalisse Cirillo d’Alessandria (370-444): patriarca d’Alessandria Proclo (412-485): filosofo bizantino Nonno di Panopoli ( prima metà V sec.): poeta bizantino Giustiniano (482-565): imperatore bizantino Cosroe (501 ca.-579): re persiano Tertulliano (155-220 ca.): scrittore romano e apologeta cristiano Shenouda (350 ca.-465ca.): monaco copto Nestorio (381-451): patriarca di Costantinopoli Pulcheria (399-453): reggente per Teodosio II dell’impero romano d’oriente Alice di Gerusalemme (1100 ca.-1151): moglie di Boemondo II Boemondo II (1108-1130): principe di Taranto e di Antiochia Alessio I Comneno (1056-1118): imperatore bizantino Costanza d’Antiochia (1127-1163): reggente principato d’Antiochia Folco V d’Angio’ (1091-1143): re di Gerusalemme Rodolfo di Domfront ( XII sec.): patriarca d’Antiochia Robert de Craon (…-1147): Gran maestro dei Templari Hughues de Payns (1070-1136): Gran maestro dei Templari Boemondo di Taranto (1058-1111): principe d’Antiochia Rorgo Fretellus (II metà XII sec.): geografo e cartografo franco in Terrasanta Raimondo di Poitiers (1099-1149): principe d’Antiochia

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Zengi (1087-1146): atabeg d’Aleppo e Mosul Goffredo di Monmouth (1100-1155): storico e scrittore inglese medievale Aimerio (Almerico) di Limoges (…-1193/96): patriarca di Antiochia Malik al-Ashraf (1262-1293): sultano mamelucco d’Egitto Guillaume de Beaujeu (…-1291): Gran maestro dei Templari Thibaud Gaudin (…-1293): Gran maestro dei Templari Pierre de Sevrey (XIII sec.): maresciallo dei Templari Esqieu de Floyrac (XIV sec.): cittadino di Béziers Bonifacio VIII (1235-1303): papa Colonna: antica famiglia patrizia romana Meister Eckart (1260-1328): teologo e religioso tedesco Giovanni Marco Larmenio (XIV sec.): secondo alcune fonti (presumibilmente non veritiere) successore di Jaques de Molay al comando dei Templari Giovanni Boccaccio (1313-1375): scrittore e poeta italiano Francesco Petrarca (1304-1374): scrittore e poeta italiano Pietro Petroni (1311-1361): certosino italiano Leonzio Pilato (1310 ca.-1364): monaco e traduttore italiano Dietrich von Kerpen (1354-1397): abate dell’abbazia di Prum Giovanni V Paleologo (1332-1391): imperatore bizantino Simon di Bosc (…-1418): abate di Jumieges Johann Tetzel (1465-1519): domenicano tedesco Johann Neumeister (1450 ca.-1522 ca.): tipografo tedesco Michel Topiè (xv sec.): stampatore a Lione Ulrich Gering (xv sec.): stampatore a Parigi Johann Gutenberg (1394/9-1468): orafo, inventore e tipografo tedesco Tomas de Torquemada (1420-1498): religioso e primo inquisitore spagnolo M.T. Cicerone (106- 43 a.C.): avvocato, scrittore, politico e oratore romano Dante Alighieri (1265-1321): poeta, scrittore e politico italiano Leonardo Bruni (1370-1444): filosofo, scrittore, umanista italiano Angelo Massarelli (1510-1566): vescovo italiano, segretario al concilio di Trento Giovanni Maria Del Monte (1487-1555): legato pontificio e papa (Giulio III) Martin Lutero (1483-1546): teologo tedesco Pieter Brüegel (1544-1607): pittore fiammingo

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Gills Wan Conixloo (1544-1607): pittore fiammingo Hieronymus Bosch (1453-1516): pittore olandese Fugger: famiglia di banchieri tedeschi Adrian Koerbagh (1633-1669): studioso e scrittore olandese Baruch Spinoza (1632-1677): filosofo olandese di origini ebree Jan Rieuwertsz (1617 ca.-1685): editore olandese Heinricus Khunrath (1560-1605): medico, filosofo, ermetico e alchimista tedesco Daniel Van Papenbroeck (1628-1714): gesuita e storico belga Dionigi l’Areopagita (I sec.): giudice dell’Areopago di Atene Frederick Tatham (1805-1878): artista inglese William Blake (1757-1827): poeta, incisore e pittore inglese Frank Calvert (1828-1908): viceconsole inglese in Anatolia Augusto (63 a.C.-14): primo imperatore romano Heinrich Schliemann (1822-1890): uomo d’affari e archeologo tedesco

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BIOGRAFIE


ROBERTO COSSU

Gli autori di questo libro vivono in Europa. Roberto Cossu è un giornalista (notista politico, responsabile della cultura, inviato) con una carriera (nel significato che si vuole ritenere) su un‘isola del Mediterraneo. Collezionista di libri, sciatore di buona (ma migliorabile) qualità, tennista molto competitivo, sedicente filosofo, aspirante patafisico, viaggiatore (tenta di non essere troppo turista). La sua isola gli piace ma vorrebbe lasciarla e naturalmente non lo farà. Ama i dolci. E, consapevolmente, i gatti. Di tutto il resto si potrebbe dire molto, ma le selezioni sono sempre ingannatrici.

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MARCELLO MAXIA

Cagliaritano, farmacista con la passione del basket, sport che pratica per più di trent’anni, diventando un discreto giocatore. Almeno così sostiene Marcello Maxia. Sulle piste bianche incontra il suo futuro amico Roberto Cossu, riuscendo nell’impresa titanica di trasformarlo nel giro di pochi anni da aratore in sciatore. Da allora sono compagni inseparabili sulle Dolomiti, anche perché se Marcello si allontana, Roberto si perde. Marcello quando non lavora e non scia corre, qualche volta scrive.

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Finito di stampare nel mese di settembre del 2016



AINAS


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