DeVinis n. 83 Settembre-Ottobre 2008

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Anno XV - n. 83 - € 3,50 - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 - n. 46) art. 1, DCB Milano

DEVinis LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE

Settembre / Ottobre 2008

PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - ais@sommeliersonline.it


Editoriale

La cultura dell’ tra la gente

Ais

di Terenzio Medri ieccoci: terminate le ferie l’agenda dell’Associazione italiana sommeliers è tornata ad essere piena di impegni, di iniziative e di manifestazioni. Siamo partiti in settembre con la Giunta esecutiva nazionale, i premi e le borse di studio; si prosegue in ottobre col Congresso nazionale in Sicilia per arrivare poi ai grandi eventi della Worldwide Sommelier Association. Tra le novità c’è la collaborazione con il mensile “A Tavola” che prossimamente vi verrà inviato come supplemento. Avverrà la stessa cosa con il nostro bimestrale “DeVinis” che in edicola accompagnerà la rivista. Sarà una sinergia preziosa e interessante per tutti gli appassionati di enogastronomia. È uno dei modi per avvicinarci alla gente. Un tema che ci sta a cuore perché significa divulgare la cultura del vino e l’educazione al bere consapevole ad un numero sempre maggiore di persone. Sarà il nostro esame di maturità. Belle parole, diranno alcuni di voi. Ma come metterle in pratica? Nelle ultime settimane abbiamo già cominciato a lavorare in questa direzione. Una delle cose da fare sarà coinvolgere il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini per portare i sommeliers nelle aule scolastiche: in questo modo sarà possibile spiegare che degustare vino è equilibrio e riflessione, che si beve (poco) e solo davanti ad un piatto, che gli eccessi sono da evitare così come i beveroni di scarsissima qualità che provocano gli incidenti stradali, che quella dello “sballo” non è cultura ma barbarie. In quest’ottica coinvolgeremo anche un altro esponente dell’esecutivo, il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, per organizzare eventi, rassegne e manifestazioni che mettano in evidenza il nostro grande patrimonio enologico, che fa parte della storia e della cultura del nostro Paese. Sono gli obiettivi che ci siamo prefissati per i prossimi mesi. Non sono campati in aria: si fondano sulla volontà, sulla preparazione e sulla professionalità dei nostri associati. Nessuno può rubarcele. Al massimo tenteranno di copiarle. Ma non sarà la stessa cosa.

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AIS Associazione Italiana Sommeliers Presidente | Terenzio Medri Vicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella Romani Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, Lorenzo Giuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.

La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene. Anno XV settembre-ottobre 2008 Associazione Italiana Sommeliers Editore Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, terenzio.medri@sommeliersonline.it Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, francesca.cantiani@sommeliersonline.it Grafica e impaginazione | Media 95, grafica@sommeliersonline.it Per la pubblicità | Roberto Pizzi pubblicita@sommeliersonline.it tel. 02/72095574 – ICE Srl – Corso Garibaldi, 16 – 20121 Milano Traffico pubblicità | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it - tel. +39 02/2846237 Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - devinis@sommeliersonline.it Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it Hanno collaborato | Fernando Araújo-Coelho, Silvia Baratta, Luisa Barbieri, Roberto Bellini, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Luca Carosi, Alessandro Franceschini, Fabrizio Franchi, Natalia Franchi, Luca Gardini, Salvatore Giannella, Lorenzo Giuliani, Emanuele Lavizzari, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Antonello Maietta, Dino Marchi, Angelo Matteucci, Davide Oltolini, Cesare Pillon, Paolo Pirovano, Camillo Privitera, Alessandra Rotondi, Daniele Urso, Franco Ziliani. Fotografie | Archivio AIS, Alessandro Franceschini, Maurizio Maestrelli, Angelo Matteucci, Urbano Sintoni Foto di copertina di Alfio Garozzo Per “Le Interviste Impossibili” a firma Salvatore Giannella si ringraziano Vanni Dolcini, Leopoldo Veronesi e il Grand Hotel Rimini Per gli articoli “Vendemmia: Italia batte Francia” e “Il lungo viaggio delle anguille” foto di Mauro Icicli. Si ringrazia il Ristorante Lidò – Lido delle Nazioni (FE) Per l’articolo a firma Luigi Caricato foto di Giuseppe Pennino Per l’articolo a firma Angelo Matteucci foto di Giandomenico Pozzi Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001 Associato USPI Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA 20,00 euro ESTERO 35,00 euro Da effettuarsi mediante versamento o bonifico su c/c postale 000058623208 Banco Posta ABI 07601 CAB 01600 CIN K intestato a: Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9, 20125 Milano Tramite Bonifico Bancario: Banca Intesa, Via Costa 1/A, Milano c/c 625008307992 ABI 03069 CAB 09442 CIN H IBAN IT26H0306909442625008307992 - specificando il motivo del versamento. Chiuso in redazione il 29-08-2008 Stampa | Grafiche Parole Nuove Srl - Brugherio Milano Copie di questo numero | 40.000

AIS 2008

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La quota associativa è di 80 euro e comprende l’abbonamento annuo alla rivista ufficiale AIS e la Guida Duemilavini edizione 2009.


Sommario

Settembre/Ottobre 2008

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In Sicilia anche la natura è storia

UN’ISTANTANEA

15 PER

IL GRANDE MAESTRO DEL CINEMA UN VINO BUONO È COME UN BEL FILM

Le parole nel vino

COME

TRA

58 IL

COMUNICARE CON IL LINGUAGGIO DELLA DEGUSTAZIONE

Dop non significa doping UN ANNO DOC E DOCG VERRANNO RIFORMATE: QUALI LE PROSPETTIVE?

Vendemmia: Italia batte Francia

DERBY ENOLOGICO EUROPEO È STATO VINTO DAL NOSTRO

68 84 All’interno

IN

COPERTINA: LA

E L’ETNA

SICILIA

62 72 74 76 78 86 96 98

PAESE

Il gusto di regalare vino

ENOTECA LONGO:

I

CONGRESSO NAZIONALE

Le interviste impossibili: Federico Fellini

29 36

DELLA REGIONE CHE OSPITERÀ IL

LA VETRINA DELLE ECCELLENZE

Ais for Africa

SOMMELIER HANNO ADOTTATO UN VILLAGGIO DI ORFANI NEL

Mappamondo Olio

L’OLIVICOLTURA

IN ARGENTINA

UN VINO PARLA ITALIANO

EROICA PUÒ RILANCIARE IL COMPARTO

Birra UNA SORGENTE NELLE DOLOMITI Distillati IL SAPORE CARIOCA DELLA CACHAÇA Acqua CON LE CARNI DEV’ESSERE LEGGERA Enopassione IL VINO DEL DOCUMENTARISTA Sullo scaffale LE NOVITÀ EDITORIALI Io non ci sto! LA BISCHERATA DEGLI EUROBUROCRATI

CONTINENTE NERO


La terra del Congresso

Sicilia

In anche la natura è

storia di Camillo Privitera

Presidente Ais Sicilia

a Sicilia è da sempre punto di arrivo e di partenza per nuovi luoghi, terra di accoglienza come di emigrazione, un po’ come la storia. E’ quindi ovvio che nella sua cultura, nelle sue architetture, come nelle sue abitudini e tradizioni alimentari vi sia di tutto e di più, compresa quella stanchezza che spesso assale una terra che ne ha viste tante e che continua ad essere luogo d’approdo di molte umane vicissitudini. Dove tutto può essere poco ma anche tanto. Dove si può essere duri, ma anche visceralmente affettuosi e generosi. Dove la natura è fotocopia del carattere siciliano: tumultuosa, focosa, violenta ma anche straordinariamente nobile e dolce. Pur nelle avare descrizioni e testimonianze dell’antichità conosciamo dalla “Tavola di Alesa”, del primo secolo a.C., la frammentazione del territorio in piccoli possedimenti chiusi

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da muriccioli, percorsi da una minuta rete di irrigazione, cosparsa di una miriade di edifici, alberi, arbusti a formare il tipico giardino mediterraneo. Da questo dipende che, ancor oggi, di un fondo coltivato ad agrumi, in Sicilia, si dice comunemente: un giardino di aranci, un giardino di limoni. La Sicilia, “laboratorio” della civiltà umana, dove le lunghe e varie esperienze dell’uomo abitante e organizzatore dello spazio isolano si sono sovrapposte fino ai nostri tempi, il paesaggio e l’ambiente sono derivati dall’azione e dalle influenze dirette e indirette dell’uomo nel tempo. IL TERRITORIO SICILIANO La Sicilia, con le isole circostanti, è la regione più estesa d’Italia con una superficie di 25.707 chilometri quadrati. Essa è uno dei territori più eterogenei del bacino del Mediterraneo con una ricchezza ambientale e bio-


Il panorama mozzafiato di Lipari, Isole Eolie

Pantelleria, vigneti di Zibibbo

Il tramonto su Lipari, Isole Eolie

I crateri fumanti dell'Etna

logica straordinaria, risulta tra i territori a più alta diversità biologica e con una elevata presenza di varietà endemiche. In Sicilia esistono oltre 3.000 specie di piante. Questa varietà è stata determinata dalla posizione geografica dell’isola e dalla conformazione del territorio. I litorali nord-orientali sono di carattere ciottoloso o sabbioso-ciottoloso, quelli del versante nord-occidentale e sud-orientale sono prevalentemente rocciosi spesso alternati a insenature sabbiose, il versante sud-occidentale presenta litorali sabbiosi con formazione di dune con depressioni salmastre verso l’interno. La Sicilia è si montuosa, ma soprattutto collinare. L’Istat classifica il 60% del territorio come collina e il 25% come montagna. La struttura geolitologica delle montagne è diversa: abbiamo i Peloritani con rocce silicee, con gneiss, scisti e graniti; mentre nei Nebrodi si hanno aree scistose e calcaree e sulle Madonie si ha l’alternanza di calca-

ri, dolomie del Mesozoico e argille marnose. Il clima siciliano è mediterraneo ma si presenta abbastanza differenziato. Infatti solo in parte è mite, sugli altipiani e sui rilievi l’influsso mediterraneo si attenua parecchio. Le precipitazioni non mancano e si concentrano in un breve periodo e si distribuiscono irregolarmente nei vari territori. Il paesaggio agrario è formato prevalentemente da colture arboree, da vigneti e da agrumeti. Le aree più interne dell’isola sono caratterizzate da colture erbacee, ed in particolare del grano duro. Il paesaggio delle colture arboree è caratterizzato dalle tipiche colture mediterranee: olivo, mandorlo, nocciolo, pistacchio e carrubo. L’olivo, pianta millenaria, si coltiva in diverse varietà da alcune delle quali si produce olio di eccellenza: Nocellara del Belice, Nocellara Etnea, Tonda Iblea e ancora Santagatese, Ogliarola messinese e Minuta. Il mandorlo è maggiormente presente nelle province di Agrigento e Caltanissetta. La coltura del nocciolo

è presente nelle zone montane dei Nebrodi e dell’Etna nel comune di Sant’Alfio, mentre la coltura del pistacchio, particolarmente rinomata quella del versante sud dell’Etna, è presente anche nelle province di Agrigento e Caltanissetta. Il carrubo, invece, caratterizza fortemente il paesaggio dell’altopiano ibleo, insieme al bianco dei muretti a secco che delimitano i vari possedimenti. Altre colture di importanza marginale sono quella del pero e del melo diffusa nei paesi etnei, il pesco a Leonforte e Bivona, il fico d’india a San Cono e Caltagirone, kaki e nespolo del giappone lungo le zone costiere settentrionali. Lungo la fascia costiera meridionale, ed in particolare nella provincia di Ragusa, il paesaggio è caratterizzato dalla presenza di numerose serre per produzioni ortofloricole e di uva da tavola. Le colture agrumicole sono prevalentemente diffuse nelle pianure in prossimità delle coste, come la Conca d’Oro, la Piana di Catania e nella provincia di Siracusa. 7


La terra del Congresso

LA VITICOLTURA Ricopre un ruolo importante nel settore agricolo dell’isola ed è al primo posto a livello nazionale per estensione del territorio coltivato a vigneto con 158.000 ettari. La Sicilia è stata da sempre una classica terra produttrice di vini, principalmente da taglio, che andavano a rinforzare i vini settentrionali. Già nel 1960 ebbe inizio una larga e vasta riconversione tecnica dei vigneti, puntando sui terreni più freschi e portainnesti vigorosi, su sistemi colturali a più grande espansione con la conseguente contrazione dell’allevamento ad alberello. Negli anni ‘90 con la riduzione della produttività per ettaro, per aumentare il livello qualitativo dei vini ottenuti e favorirne la commercializzazione, grazie all’aumento degli investimenti, provenienti anche da altre parti d’Italia, e alla forza trainante del settore enologico a livello internazionale, c’è stato un’ulteriore passo in avanti ed è proprio in questo periodo che si è cominciato a parlare in Italia e nel mondo dell’enologia siciliana e delle grandi potenzialità dell’isola. Il volto del risorgimento vitivinicolo è di tanti giovani produttori, e fra questi di moltissime donne, che hanno riscoperto il valore della terra, oltre che da accorte politiche sulla viticoltura che hanno visto impegnato l’Istituto Regionale della Vite e del Vino e l’attenzione di alcuni uomini politici, primo fra tutti l’On. Giuseppe Castiglione, oggi Presidente della provincia di Catania, nella sua qualità di assessore regionale all’agricoltura e di eurodeputato. Possiamo quindi parlare di una moderna viticoltura con una grande tradizione alle spalle che oggi conta una produzione di 22 d.o.c. e una d.o.c.g. I vigneti sono posizionati in collina per il 53,74%, il 38,9% in pianura e il 7,4% in montagna, quest’ultima rappresentata quasi totalmente dalla zona etnea, dove la coltivazione della vite giunge fino e oltre i 1000 m di altitudine. Molti i vitigni autoctoni. I vitigni autoctoni più importanti sono, per quanto riguarda quelli a bacca bianca: la famiglia dei Catarratti, il Grillo, 8

l’Inzolia, Grecanico, Damaschino, Carricante, Moscato Bianco, Zibibbo, Malvasia delle Lipari. Per quanto riguarda i vitigni autoctoni a bacca nera sono: Nero d’Avola, Nerello Mascalese, Frappato di Vittoria, Perricone e Alicante. In questi ultimi anni si è assistito all’ introduzione di vitigni internazionali, come Merlot, Cabernet, Syrah e Chardonnay, Viogner, Sauvignon. La produzione dei vini ancora un decennio fa vedeva il 75% di produzione a bacca bianca, oggi scesa al 65%. La Sicilia orientale vede, oggi, una produzione di uve nere al 90%, mentre la zona occidentale vede la produzione

di uva a bacca bianca per il 70%. La forma di allevamento più diffusa è la spalliera con una percentuale dell’80%. E’ in calo l’impianto ad alberello, arrivato in Sicilia con i Greci, che oggi vede ancora grandi estimatori, soprattutto per la coltivazione di vitigni come il nerello mascalese, ma è in diminuzione a causa degli alti costi di esercizio. Ricordiamo, infine, che la Sicilia è la prima regione per ettari destinati alla viticoltura biologica. Per completare il panorama del territorio siciliano, aggiungo che la Sicilia può vantare quattro parchi naturali, circa novanta riserve naturali, che complessivamente sottopongono a tutela e a fruizione controllata circa 250.000 ettari di superficie, corrispondente ad oltre il 10% del suo territorio e infine sono attive sul territorio dodici Strade del vino.


Mete del gusto

Sicilia, di

uno scrigno

sapori e di sorprese di Daniele Urso asfalto scivola via veloce mentre percorriamo l’autostrada che da Palermo conduce al mare. Verso quel tratto di costa che unisce Mazara del Vallo a Trapani. Questa è l’Autostrada del Sale, grande opera costruita dopo il terremoto del Belice nel 1968 e arteria che prende il nome dalle saline sparse sulla costa. Miniere che per secoli hanno prodotto il “bianco oro” di Sicilia. Nei pressi della cittadina di Capaci, dal maggio 1992, questa strada è diventata tristemente famosa per la morte del giudice Falcone in una delle pagine più buie della lotta alla mafia. Ma ora l’Autostrada del Sale si percorre in cerca di serenità, tradizioni, sapori e vino. Perché questa è la terra enoicamente resa famosa dal Marsala, ma non solo. A cavallo delle province di Palermo e Trapani, la Doc Alcamo produce rossi, bianchi e rosati di pregio. Perfino qualche spumante. A Sud c’è la Doc Delia Novelli e poi Salaparuta, Moscato, Menfi ed Erice, dove la brezza marina accarezza le colline ai piedi dell’omonimo monte e scivola tra i vicoli dell’antico borgo medievale. Senza dimenticare che nella lontana Pantelleria si produce un grande Passito. Ricca di vino e uva la Sicilia occidentale. Qui trovano fortuna vitigni autoctoni come l’onnipresente Nero d’Avola, il Perricone (molto amato però anche nelle province di Agrigento e Messina) noto anche come Pignatello, il Moscato di Alessandria, giunto probabilmente con gli Arabi che lo chiamavano Zabib (l’uva passa) e che ora conosciamo come Zibibbo. E poi il Grecanico dorato che per alcuni ricorda il Sauvignon, l’Inzolia, il piu’ antico vitigno siciliano, e il resistente Catarratto che copre la maggiore superficie vitata della provincia trapanese. Infine ci sono quelli nati altrove, ma che in questa terra hanno trovato una seconda casa. Chi arriva da vicino, come il Grillo originario della Puglia, e chi invece è un giramondo, come l’onnipresente Cabernet, il Merlot, lo Shiraz e lo Chardonnay. Tanti vitigni per tanti vini: quelli bianchi, legati alla tradizione vitivinicola siciliana, e quelli rossi, che amano sole, terra e vento.

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L Vigneti a Marsala

Intuizione inglese ma animo siciliano

Ma se vagabondiamo per queste terre, non possiamo dimenticare che l’industria del vino nel Trapanese deve la propria originaria fortuna all’intuizione di un inglese. La leggenda vuole, infatti, che sia stato nel 1773 sir John Woodhouse, commerciante della portuale Liverpool, il padre del Marsala, celeberrimo vino liquoroso prodotto ovunque tranne che nel comune di Alcamo e nelle isole piu’ piccole (Pantelleria, Favignana, Levanzo e Marittimo). Nel loro vagabondare per il Mediterraneo i Britannici cercavano un sostituto del Madera portoghese, vino dell’omonima isola che durante la“Guerra coloniale anglo-francese” e quella dei “Sette Anni” erano diventate difficili da raggiungere. Approdato nel 1770 a Marsala, Woodhouse fece conoscenza con i vini della zona trovandoli simili a quelli spagnoli e portoghesi, di gran voga nella Gran Bretagna di Giorgio III. Nella zona, all’epoca, il vino prodotto con una miscela di uve Grillo, Catarratto, Inzolia e Damaschino veniva fatto 10


L Cannoli siciliani

invecchiare in botti di legno, rabboccando con la nuova vendemmia la vecchia produzione (in perpetuum), così da conservarne le caratteristiche. Per aumentare la gradazione alcolica e conservare il vino durante il ritorno in patria, Woodhouse aggiunse nelle 70 “pippe” (tradizionali botti siciliane da circa 455 litri) dell’acquavite. La prima esportazione dell’antenato del Marsala (1773) fu un tale successo che il commerciante britannico tornò in Sicilia e sulla sua scia giunsero altri connazionali. Nel 1806 Benjamin Ingham applicò per primo il metodo “soleras” (già utilizzato per Porto e Sherry) al Marsala: cinque botti di legni differenti (dieci per il Soleras Stravecchio) una sopra l’altra, con travasi annuali partendo dall’alto fino ad arrivare a quella posta al suolo (“solera”) con il prodotto finito. Chi però fece del Marsala quello che conosciamo oggi fu Vincenzo Florio, ricco imprenditore che nella prima metà dell’800 dall’industria del tonno e delle saline si allargò a quella vitivinicola, portando i propri vini a superare per qualità e produzione quelli dei concorrenti britannici. E il resto, come si suol dire, è storia. Una storia fatta di uve a bacca bianca (Grillo, Inzolia, Catarratto e Damaschino) e più recentemente anche a bacca nera (Pignatello, Nero d'Avola e Nerello Mascalese) per il rubino. Una storia di cottura del mosto in caldaie a rame e di un proliferare di tipologie legate ai metodi di produzione. Tra Ambra, Oro, Rubino, Soleras, Stravecchio, Riserve varie, Secco, Semisecco e Dolce, ci sono etichette e vini per tutti i gusti. Da quelli per una serena meditazione, fino agli abbinamenti più azzardati. Insomma a ognuno il proprio Marsala. La storia nel piatto

L Cassata

Le radici della cassata risalgono alla dominazione araba in Sicilia (IX-XI secolo). Gli arabi avevano introdotto la canna da zucchero, il limone, il cedro, l'arancia amara, il mandarino e la mandorla. Nel periodo normanno, a Palermo presso il convento della Martorana, fu creata la Martorana, un impasto di farina di mandorle e zucchero, che, colorato di verde con estratti di erbe, sostituì la pasta frolla come involucro. Gli spagnoli introdussero in Sicilia il cioccolato e il pan di Spagna. Durante il barocco si aggiungono infine i canditi.

In una zona come questa non poteva esserci che varietà. Il Trapanese ha subito le piu’ svariate influenze in secoli di commercio e occupazioni. Ritroviamo così il “couscous”, cuore della cucina berbera del Maghreb che a Trapani è convolato a giuste nozze con il pesce. La dominazione araba ha portato anche il sapiente utilizzo delle spezie e delle erbe, che fa della cucina di queste zone un sofisticato bouquet di profumi e sapori. Senza scordare che la Cassata, “codificata” durante la dominazione normanna, ha nella sua etimologia la radice araba “qas’at” (bacinella). I dolci della zona sono però soprattutto quelli dei conventi di clausura e delle monache di Erice. I dolci della “Badia” come la frutta martorana, o quelli a base di pasta reale, ricotta, mandorla, cedro e altro ancora. Parole e nomi che racchiudono sapori ma anche sorprese, come quella del Mataroccu, che alcuni chiamano pesto di Favignana. Se chiedete a un trapanese cosa significhi il termine, vi risponderà che in antico dialetto il Mataroccu era una “junta” (aggiunta) di pietanza fatta di zucca ammaccata. Non stupitevi se però nel vostro piatto non ci sarà traccia di zucca, ma un pestato di prezzemolo, aglio, pinoli, sedano, pomodori maturi, basilico, olio, sale e pepe (anche se di varianti ne troverete diverse). Misteri siciliani, misteri trapanesi. 11


Saranno famosi

La tenuta dell'azienda Marabino

Eureka, il vino di

Archimede di Antonello Maietta

L’OMAGGIO

DI

UN’AZIENDA SICILIANA DI

NOTO

AL GENIO

CHE CON LE SUE INVENZIONI ARRICCHÌ IL MONDO DI SCIENZA E SAPERE

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azienda agricola Marabino è una realtà abbastanza recente nel panorama vitivinicolo siciliano, questa struttura produttiva vanta tuttavia una solida esperienza nel settore agricolo. I suoi titolari, imprenditori di successo del gruppo Irservice, operavano infatti nel comparto agricolo già da diversi anni attraverso Natura Iblea, una moderna azienda biologica nata a sua volta dall’incorporazione di una società operativa in questo settore dal 1988. L’assetto operativo di Natura Iblea è stato fin dall’inizio orientato essenzialmente verso la commercializza-

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zione e la produzione ortofrutticola biologica, ma la passione di Mario Saraceno e di Sebastiano Messina porterà in tempi successivi alla produzione di Olio Extra Vergine di Oliva, anch’esso biologico, utilizzando le sole cultivar locali Moresca e Verdese, raccolte da ulivi plurisecolari all’interno della sottozona Val Tellaro della Dop Monti Iblei. Nel 2002 il gruppo sposta le sue attenzioni al settore vitivinicolo con l’acquisizione di una tenuta di circa 30 ettari all’interno di un comprensorio di particolare pregio, posto a cavallo tra le aree di produzione delle


ARCHIMEDE, IL CAPOFILA DEGLI INVENTORI LA BIOGRAFIA DELLO SCIENZIATO CHE HA ISPIRATO I VITICOLTORI SICILIANI Astronomo, matematico, fisico e ingegnere, guida e maestro di tutti gli scienziati. Archimede nasce nel 287 a.C. a pochi chilometri dalle terre del Nero d’Avola, a Siracusa. Secondo le opere conservate e le testimonianze dell’epoca si occupa di tutte le branche delle scienze matematiche a lui contemporanee (aritmetica, geometria piana e solida, meccanica, ottica, idrostatica, astronomia) e di parecchie applicazioni tecnologiche. Nell’immaginario collettivo il ricordo di Archimede è indissolubilmente legato a due aneddoti divenuti leggendari. Vitruvio racconta che avrebbe iniziato a occuparsi di idrostatica perché il sovrano Gerone II gli aveva chiesto, temendo di esser stato ingannato dal suo orafo, di determinare se una corona fosse stata realizzata con oro puro o utilizzando invece all’interno altri metalli. Archimede avrebbe scoperto come risolvere il problema mentre faceva un bagno, notando che immergendosi provocava un innalzamento del livello dell’acqua. Questa osservazione l’avrebbe reso talmente soddisfatto che si sarebbe alzato in piedi esclamando: «Eureka! Ho trovato!». Un altro episodio che ha avuto altrettanta fortuna è connesso al suo interesse per la costruzione di macchine capaci di spostare grandi pesi con piccole forze. Secondo una storia tramandata da Simplicio, lo scienziato, entusiasmatosi per le possibilità offerte dalla nuova meccanica, avrebbe affermato: «Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo». La popolarità di Archimede nell’antichità è legata, più che alle sue opere difficilmente divulgabili, al ricordo dei suoi straordinari ritrovati tecnologici. Parte notevole della sua fama deriva dal contributo alla difesa di Siracusa contro l’assedio romano durante la Seconda Guerra Punica. Gli storici del tempo descrivono macchine belliche di sua invenzione, tra le quali la manus ferrea, un artiglio meccanico in grado di ribaltare le imbarcazioni nemiche, e armi da getto simili a catapulte. Avrebbe usato anche i cosiddetti “specchi ustori”, ovvero lamiere metalliche concave che riflettevano la luce solare concentrandola sui nemici, incendiandone addirittura le navi. Tra i suoi molteplici apparecchi non si può tralasciare quello che riproduce la volta del cielo su una sfera e un altro che predice il moto apparente del sole, della luna e dei pianeti, equivalente a una sorta di moderno planetario. Tra le sue eredità vi sono gli studi sulla misura del cerchio, la quadratura della parabola, le spirali, la sfera e il cilindro e parecchi trattati, tra cui l’opera con cui ha fondato la scienza dell’idrostatica. Archimede è morto a 75 anni, trafitto dal gladio di un soldato romano durante il sacco di Siracusa del 212 a.C. (E. L.)

due Doc Eloro e Moscato di Noto. Da quel momento parte un’intelligente opera di reimpianti che ha privilegiato i vitigni tradizionali della zona, Nero d’Avola, Insolia e Moscato bianco, verso i quali la vocazione aziendale è prevalentemente rivolta, senza trascurare un’adeguata presenza di vitigni internazionali quali Chardonnay, Syrah e Cabernet Franc, ma favorendo contestualmente l’attenta riconversione della superficie vitata preesistente ad una filosofia di maggior rigore qualitativo ed enfatizzando al massimo le peculiarità del territorio. I nuovi impianti sono stati realiz-

zati in maniera tecnologicamente avanzata, sfruttando al meglio l’irraggiamento solare e i venti dominanti della zona. Il fiore all’occhiello della tenuta è costituito dalla “Vigna di Archimede”, una parcella di vigneto di oltre trent’anni, con un’estensione di circa tre ettari, impiantato con Nero d’Avola e allevato ad alberello “pachinese”, con ceppi bassi contorti, tipici della varietà, che producono grappoli molto piccoli ma di una qualità straordinaria. Nel 2002 da queste uve nasce il loro primo vino, dedicato appunto al grande scienziato siracusano, come

tributo ad un territorio ricco di fascino e di storia. Quasi in contemporanea con questo progetto si inserisce il percorso professionale di Pierpaolo Messina, figlio di Sebastiano. Proprio in quel periodo infatti si trasferisce a Siena per frequentare l’Università. Vivere per qualche anno in Toscana, ma soprattutto in un contesto ambientale così fortemente radicato alla tradizione vitivinicola, non poteva non condizionare le sue scelte future. E così Pierpaolo di giorno segue le lezioni del suo corso di laurea in Scienze dell’Amministrazione e alla sera fre13


Saranno famosi quenta il corso dell’Ais, nel 2007 si diploma sommelier e, quando torna a casa, diventa il coordinatore delle attività vitivinicole del gruppo. Attualmente il profilo produttivo dell’azienda prevede una gamma di vini ben variegata e rappresentativa del territorio. La nostra degustazione inizia con Eureka 2006, ulteriore omaggio ad Archimede ed al suo famoso grido appassionato che arricchì il mondo di scienza e sapere. Si tratta di un Igt Sicilia che nasce da uve Chardonnay in purezza. Ha un bellissimo colore paglierino intenso dai luminosi riflessi dorati ed un naso di ammiccante personalità modulato sulle note di gelsomino, foglioline di menta, scorza di pompelmo e miele di tiglio. Di ampio volume poi in bocca, rotondo e vellutato, bilanciato da un adeguato contributo di sapidità. E’ vinificato esclusivamente in acciaio e si abbina perfettamente con grigliate di pescato nobile e crostacei al vapore. Con il Rosa Nera 2007, un Igt Sicilia da uve Nero d’Avola vinificate con una parziale macerazione sulle bucce, siamo alla prima uscita sul mercato. Di colore rosa antico, delicato e trasparente, offre una dotazione olfattiva dai richiami immediati di ciliegia e lampone ed un palato di fresca impronta. La vinificazione è condotta esclusivamente in acciaio e trova il suo adeguato connubio con la tartare di tonno e le verdure ripiene. Don Pasquale 2006 è invece un Nero d’Avola in purezza ottenuto, a differenza del vino precedente, dalla vinificazione tradizionale in rosso. Sfoggia in etichetta il vessillo della Doc Eloro e si offre alla vista con un bel rubino intenso con riflessi viola. All’olfatto ricorda i piccoli frutti rossi maturi con 14

lievi accenni floreali di viola mammola; ha un palato di lunga persistenza, caldo ed avvolgente, con tannini setosi, e si dispone con slancio ad accompagnare piatti di buona struttura come la faraona al forno ed il coniglio farcito. Per trovare un connubio tra vitigni della tradizione e vitigni internazionali, nel nostro caso Nero d’Avola 70% e Syrah 30%, dobbiamo invece passare al Don Paolo 2004, con il suo bel rubino solido e consistente ed un naso molto complesso di confettura di mora, china, rabarbaro e spezie dolci, retaggio dei quattro mesi trascorsi in barrique. L’impianto gustativo è poi disposto su una pronunciata dotazione calorica, ben mitigata da tannini vivi e ben espressi, per dare conforto a piatti importanti come il cinghiale in umido o l’agnello al forno. Ma la tradizione ritorna prepotente con Archimede 2005, vino simbolo dell’azienda. E’ un Eloro Doc che prende vita da uve Nero d’Avola vinificate in purezza in cui il passaggio nei legni piccoli si protrae per circa sei mesi. Nel suo rubino denso ed impenetrabile, con sfumature che virano lente al granato, apre la strada ad un olfatto dai netti riconoscimenti di ribes nero, amarena candita e tabacco Kentucky, con delicati accenni di vaniglia e ad un palato caldo con tannini in piacevole evidenza. Da provare con carni rosse alla brace e formaggi di pecora lungamente stagionati. Il nostro percorso sensoriale chiude alla grande con il Moscato della Torre 2006, si tratta di un Moscato di Noto Doc frutto di una sensibile operazione di recupero di un vino figlio della tradizione, da cui del resto l’azienda non si poteva sottrarre, non fosse

altro che per la responsabilità morale di trovarsi in una contrada che si chiama Buonivini! La torre che campeggia in etichetta e dà origine al nome è l’antica torre medioevale di contrada Marabino, la costruzione più antica del territorio tra Pozzallo ed Ispica, oggi trasformata in un magnifico relais. Il lento appassimento delle uve sui graticci e la successiva vinificazione condotta esclusivamente in acciaio ci consegnano un vino dalla bella veste oro lucente con rapidi riflessi ambra; nella sua ricca complessità olfattiva al tipico varietale dell’uva di provenienza fanno eco piacevoli sentori di arancia candita, caramella d’orzo e miele di acacia. In bocca è dolce, di agile dotazione calorica e lunga persistenza. Insomma, un classico per cannoli alla siciliana e dolci a base di pasta di mandorle. A completare l’ospitalità della cantina, che offre già di per sé un vasto programma di visite guidate e di degustazioni, c’è appunto Torre Marabino, un relais d’eccellenza immerso nella bellezza della campagna iblea ma vicinissimo alle coste dorate della Sicilia. Da antica torre di avvistamento contro le incursioni saracene, divenne in seguito il fulcro delle attività della nobiltà locale in occasione della raccolta del grano. Trasformata in attività ricettiva, offre il massimo confort senza rinunciare a sentirsi parte integrante del territorio agreste in cui è immersa.

Società Agricola Marabino Contrada Buonivini 96017 Noto (Siracusa) Tel. 335.5284101 info@marabino.it


Le interviste impossibili

Un sorso di

vino buono è come

un bel film FEDERICO FELLINI,

INTERVISTATO DA

DEVINIS,

SOSTIENE CHE DURA UN ISTANTE, TI LASCIA IN BOCCA UN SAPORE DI GLORIA ED È NUOVO A OGNI SORSO

di Salvatore Giannella

erragosto 2008. Il cronista entra nel Grand Hotel di Rimini, storico albergo della Riviera adriatica, inaugurato il primo luglio 1908 e ancora in festa per il suo centenario. Sulla facciata dell’albergo progettato dall’estroso architetto sudamericano Paolo Somazzi, vengono proiettate immagini di Federico Fellini e dei suoi principali film. Il grande regista di origine riminese ha dato fama mondiale al tempio delle vacanze di monarchi e principi, artisti e scienziati, attori e statisti, frequentandolo nelle sue incursioni romagnole (la sua stanza era la numero 315, al terzo piano) e immortalandolo in molte delle sue pellicole, a partire da “Amarcord”, in cui il Maestro ne riproduce le atmosfere inimitabili e travolgenti. Nella sala da pranzo tutti i tavoli sono occupati meno uno, quello a destra dell’entrata, con il muro alle spalle e una vista d’insieme sul salone e su parte dei 4 mila metri quadrati di parco. “E’ il tavolo di Fellini”, mi spiega il direttore, Leopoldo Veronesi, il più antico “servitore” dell’albergo (ci lavora dal 1981). “Lui amava avere le spalle coperte e la migliore visuale sull’ingresso, proprio come il mitico John Wayne, che quando entrava nei saloon dei suoi film western si metteva con le spalle al muro e controllava l’ingresso per motivi di sicurezza. Chissà perché, da quando lui è morto,

F

quindici anni fa, nessuno ha mai voluto prendere quel posto. Guardi, non si tratta di superstizione. Direi, per una questione di rispetto...”. “Direttore, credo di non mancare di rispetto a Fellini se scelgo di sedermi a quel tavolo. Lei che lo ha conosciuto bene, che cosa ordinava?”. “Guardi, non era un mangione, bastava poco per saziarlo, preferiva quei pasti che lo riportassero all’infanzia riminese: adorava i primi, i passatelli in brodo, le tagliatelle, gli strozzapreti, i cappelletti con ripieno di Morra romagnola. Di secondo una sogliolina dell’Adriatico o una tagliata di carne o una porzione di cosciotto di maialino in porchetta con duetre patate arrosto. Chiudeva raramente con un dolce (potrà assaporare stasera una mela artusiana così come piaceva a lui) con un sorbetto al limone o al cedro. Tanta acqua, un sorsetto di vino rosso Sangiovese, qualche volta sostituito da un mezzo bicchiere di bianco Trebbiano. Fellini a tavola era un “gourmet con gli occhi”, un francescano che godeva del piacere di veder mangiare gli altri”. Parole che non mi sorprendono. Le avevo più o meno lette in una confessione di Paolo Villaggio, superbo interprete della felliniana “Voce della luna”: “Verso mezzogiorno io e Fellini 15


Le interviste impossibili

L'immagine di Fellini proiettata sulla facciata del Grand Hotel in occasione del centenario di vita del cinque stelle pio è famoso del mondo

andavamo a mangiare da Cesarina, vicino a Via Veneto. E lì faceva il guardone. Certo, il guardone al ristorante. Invecchiando, per via della salute, era diventato controllatissimo sul cibo. Però faceva mangiare gli altri. Ordinava: prendi questo; assaggia questa scheggia di parmigiano con aceto balsamico. Gli dicevo: ma tu non la vuoi? E lui: macché! Magari! Poi, mentre mangiavo, mi contemplava con occhio avido. Era un voyeur del godimento altrui col cibo”. Li ordino anch’io, al Grand Hotel, i sapori della Romagna felliniana, questa terra dove il cibo entra in tutto e condiziona la vita. Una vecchia ballata narra la lite di due innamorati: “La mia morosa mi ha detto gnocco, e io ci ho detto: brutta crescentona”. Do un’occhiata alla guida “La mia Rimini”, dove Fellini ricorda così lo storico albergo: “Il Grand Hotel era la favola della ricchezza, del lusso, dello sfarzo orientale. Quando le descrizioni nei romanzi che leggevo non erano abbastanza stimolanti da suscitare la mia immaginazione, allora ricorrevo al Grand Hotel”. Sto per inforcare il primo cappelletto quando mi appare proprio Lui, Fellini. Si è servito da solo, raccogliendo pochi cappelletti in un piatto dal tavolo centrale.”Posso accomodarmi?”, chiede con gentilezza. GIANNELLA Questo tavolo fu e resta ancora Suo. Prego, sono onorato della Sua compagnia, Maestro. O preferisce che la chiami dottor Fellini?. FELLINI Dottor Fellini è tecnicamente sbagliato. Non sono laureato e quelle volte che mi furono offerte le lauree honoris causa le rifiutai. GIANNELLA Oh, questa è bella. Da chi le vennero offerte? Quando? E perché le rifiutò? FELLINI Fu un’idea dell’allora Rettore Magnifico dell’Università di Bologna, Fabio Roversi Monaco. Eravamo nel 1992 e io, pur capendo il sentimento di generosità che muoveva i professori dell’ateneo più antico del mondo, mandai due righe di rinuncia. “Mi sento come Pinocchio 16

decorato dal Preside e dai Carabinieri per essermi divertito nel Paese dei Balocchi... mi creda, Rettore, sono già premiato dall’aver fatto i miei film perché mi sono divertito a farli”. Roversi Monaco capì e mi concesse la sua silenziosa approvazione. Un’altra volta scontentai il professor Carlo Bo, Rettore a Urbino, che ebbe a rimbrottarmene con affettuosa e intelligente bonomia. GIANNELLA La sua presa di posizione, Maestro, ha anticipato di anni quella di un ministro dell’Università, Fabio Mussi. Che nel 2007 si è opposto alla proliferazione delle lauree honoris causa attraverso un comunicato rivolto ai Rettori delle Università italiane: il ministro non avrebbe più esaminato ulteriori proposte di candidature avanzate dalle Università. A differenza del suo originale prestigio, negli ultimi anni la laurea honoris causa (“titolo accademico conferito come riconoscimento di meriti eccezionali” secondo la definizione del dizionario Devoto-Oli), sarebbe stata, al contrario, troppo spesso assegnata a diverse personalità, anche leggere, dello star-syster nostrano, della politica, dello sport, del cinema, del mondo delle imprese, della letteratura. FELLINI La cosa mi è sfuggita. Sa, non leggo più i giornali come un tempo, quando facevo una scorpacciata di lettura ogni mattina. GIANNELLA Allora le è sfuggita la notizia di qualche ora fa. E’ morta, in una casa di cura vicino a Chicago la donna che recitò nel ruolo di “gigantessa” del “Casanova”. Sandy Allen era la donna più alta del mondo, se la ricorda? Due metri e 32 centimetri. Malata e da diverso tempo costretta su una sedia a rotelle, Sandy, 53 anni, si era rivolta al Guinness dei primati, che ne aveva riconosciuto il record, per chiedere di trovarle un compagno «alla sua altezza». FELLINI Mi dispiace per Sandy, ne conservo un bel ricordo. Guardi, a tutti noi dell’Emilia Romagna, la morte non fa paura. Pensi che a Goro la domenica, ai miei tempi e ritengo che la consuetudine sia ancora oggi rispettata, prendono una seggiola e vanno al cimitero, davanti a una tomba: riferiscono al defunto i fatti della settimana. C’è sempre un legame con quaggiù. A me non fa paura, l’inesorabile falciatrice, a differenza del mio amico Tonino Guerra, che ha scritto anche una poesia sull’argomento: “A me la morte / mi fa morire di paura / perché morendo si lasciano troppe cose / che poi non si vedranno mai più: / gli amici, quelli della famiglia, i fiori / del viale che hanno quell’odore / e tutta la gente che hai incontrato/ anche una volta sola...”.


FEDERICO FELLINI, UNA VITA IN POCHE DATE 1920: Fellini nasce a Rimini il 20 gennaio. La madre Ida fa la casalinga, il padre Urbano è un rappresentante di commercio. Frequenta il liceo classico della città e inizia fin da ragazzino a lavorare come caricaturista per il gestore del cinema Fulgor, che gli commissiona i ritratti degli attori più famosi per appenderli in sala. 1937: fonda insieme al pittore Demos Bonini la bottega 'Febo', dove i due eseguono caricature per i turisti. Nel frattempo, comincia a collaborare come vignettista per alcune riviste e quando, subito dopo il diploma, si trasferisce a Roma, inizia a lavorare per il 'Marc'Aurelio'. In questi anni Fellini frequenta il mondo dell'avanspettacolo e della radio e scrive copioni, collaborando con Aldo Fabrizi, Erminio Macario e Marcello Marchesi. 1943: incontra una giovane attrice, Giulietta Masina, che alla radio interpreta Pallina, personaggio ideato proprio da Federico, nella commedia 'Le

avventure di Cico e Pallina'. I due si sposano a ottobre e restano insieme per tutta la vita. Nel cinema, intanto, Federico collabora alla stesura di molte sceneggiature, lavorando con Rossellini, Germi e Lattuada. 1951: con Lattuada esordisce alla regia con "Luci della città". 1952: presenta al Festival di Venezia il suo primo film, "Lo sceicco bianco", snobbato. Ma il riscatto arriva prestissimo. 1953: al Lido di Venezia, grazie a "I vitelloni", Federico conquista il Leone d'Oro. 1954: con "La strada", con Giulietta Masina nei panni dell'indimenticabile Gelsomina, arriva anche il primo Oscar. 1955: "Il bidone" ripropone in parte le atmosfere de "I Vitelloni", ma in uno scenario diverso: la periferia romana. 1957: conquista il suo secondo Oscar con "Le notti di Cabiria". 1959: con "La dolce vita", Palma d'oro al Festival di Cannes, Fellini realizza il suo capolavoro. Racconta la crisi dei valori nella società moderna.

1963: realizza "8 e mezzo", premio Oscar per il miglior film straniero e per i costumi. Seguono "Giulietta degli spiriti" (1965), "Satyricon" (1969), "I clown" (1970), e "Roma" (1972). 1973: con "Amarcord" vince il quarto premio Oscar e rende omaggio alla sua città, con uno straordinario viaggio nei ricordi e nella provincia riminese degli anni Trenta. 1976: più tetra è l'atmosfera de "Il Casanova", seguito poi da "Prova d'orchestra" (1979) e da "La città delle donne" (1980). 1983: dirige "E la nave va", poi costruisce un'aspra polemica nei confronti della società e in modo particolare del ruolo negativo della Tv, con "Ginger e Fred" (1985). 1990: il suo ultimo film è l'amaro e intenso “La voce della luna” (1990), con Paolo Villaggio e Roberto Benigni. 1993: pochi mesi dopo aver ricevuto a Hollywood il suo quinto Oscar, questa volta alla carriera, il 31 ottobre muore a Roma.

FELLINI Effettivamente questo GIANNELLA Lasciamo quetentativo serio di fare vini sti argomenti tristi, Maestro. romagnoli buoni mi pare che Intanto, le verso un po’ di si possa dire riuscito. Noi non vino buono? E’ Sangiovese, siamo stati terra di grandi il vino da Oscar della vini, però siamo dignitosi, Romagna. Lo ricordano perperché noi il vino siamo capafino nelle canzoni: “Evviva ci di berlo. Si ricordi che c’è la Romagna, evviva il un modo di dire: quando uno Sangiovese” si canta ancoha sete tu romagnolo non gli ra oggi nelle balere della offri un bicchiere d’acqua ma Riviera, al ritmo della celeuno di vino. L’Albana di bre canzone scritta negli Romagna, che si è aggiudianni '70 da Raul Casadei, a L Il Grand Hotel disegnato da Fellini cata l'Oscar 2008 nella catetestimonianza di quanto questo vino faccia parte del quotidiano di ogni romagno- goria vini dolci, all' interno di «Squisito» a San Patrignano, il Pagadebit, il Trebbiano, e soprattutto il Sangiovese. A lo doc. FELLINI L’assaggio volentieri un dito di Sangiovese. Un buon proposito, lo sa perché si chiama così? vino è come un buon film: dura un istante e ti lascia in bocca un sapore di gloria; è nuovo a ogni sorso e, come GIANNELLA Non ho le idee molto chiare. Una volta mi hanno accennato che c’entrino i vigneti piantati su un avviene con i film, nasce e rinasce in ogni assaggiatore. monticello vicino a Rimini... GIANNELLA Pur non essendo un gran bevitore, sarà con- FELLINI Esatto. Le prime notizie storiche sul vitigno, autoctono, risalgono al 1600 e la tradizione vuole che la sua tento dei passi avanti fatti dai vini romagnoli... 17


Le interviste impossibili

denominazione derivi da Monte Giove (l'allora Collis Jovis), la collina su cui sorge Santarcangelo di Romagna: qui i frati cappuccini, che coltivavano la vite, un giorno ospitarono un illustre personaggio che gradì moltissimo la bevanda. Interrogati sul nome, i cappuccini, che fino ad allora non gliene avevano mai dato uno, coniarono prontamente quello di Sanguis Jovis, trasformatosi poi negli anni in Sangue di Giove e in Sangiovese. Quello Doc è un vino rosso da tavola: nasce dai vitigni presenti in diversi comuni delle province romagnole, che concorrono a formare nella nostra terra una squadra di cinque Sangiovese diversi per carattere e personalità: il Cesenate, il Forlivese, il Riminese, il Faentino e l'Imolese. E poi, lo sa che il Sangiovese, sparso da questo colle, dà linfa a molti vini italiani? Anche i più nobili vini toscani sono in gran parte fatti di Sangiovese. La storia dei vini, come vede, riserva tante sorprese. GIANNELLA D’ora in poi quando mi capiterà di andare all’osteria Sangiovesa, guarderò in modo diverso la strada che porta in cima al colle di Santarcangelo. La sento molto preparato sui temi enogastronomici. FELLINI Le confesso che, se avessi potuto cambiare mestiere, avrei fatto il produttore. Non di film, da di olio e di vini. E non lo dico solo perché Lei scrive per “De Vinis”. L’ho messo nero su bianco in una lettera di tanti anni fa all’amico Bernardino Zapponi, il giorno dopo una visita alla proprietaria dell'azienda che produce il Brunello di Montalcino. Volevo mandare una cassa a Bernardino, ma costava troppo, 50mila lire a bottiglia, quello d'annata, e così gliene portai soltanto una bottiglia per festeggiare il nostro incontro. Tutta la sera, quella sera in Toscana, ho ascoltato dei racconti meravigliosi sul vino. Non sapevo che quando bevi un sorso di vino pregiato bevi il frutto di una serie di operazioni basate su conoscenze

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che abbracciano quasi tutto il sapere umano: geologia, meteorologia, astrologia eppoi un'infinità di altre nozioni ed esperienze e riti e metodi tramandati da secoli... Era bellissimo ascoltare questa bella donnona che da sempre sbevazza i suoi tre o quattro litri al giorno per assaggiare, consigliare, controllare, correggere, degustare. Era proprio la moglie di Bacco. Avrei voluto registrare tutto quello che ha raccontato, forse i vari Veronelli, Soldati lo hanno già fatto un libretto con tutte queste storie sul vino, certo che sarebbe stato proprio piacevole proporle a un lettore. Comunque, torniamo a noi e alla mia mitica Casa riminese, gioiello liberty che dal 1994 è stato vincolato dalle Belle Arti e che quest’anno ha compiuto cento anni. Lo vedo come il simbolo di noi romagnoli, intraprendenti, curiosi, ospitali: pensi che risale al XIII secolo la Colonna delle Anella di Bertinoro, simbolo dell’accoglienza del passato, quando i signori del posto facevano a gara per ospitare i forestieri di passaggio. A proposito del Grand Hotel, ha visto come il nuovo proprietario, Antonio Batani, lo sta riportando al suo antico splendore? E spero che presto riesca a coronare il sogno preannunciato ai giornalisti: ricostruire le due cupole in stile orientale che l'edificio aveva sul terrazzo prima dell'incendio del 1920 e che ospitavano due magnifiche suite. GIANNELLA Fu proprio lei a segnalare a uno dei precedenti proprietari, il mitico commendator Pietro Arpesella, le tracce di quelle misteriose cupole. Lei pensa che ce la faranno a ricostruirle? FELLINI Sono molto ottimista sulle capacità dei miei concittadini riminesi. E glielo spiego con un solo dato. Rimini, dopo Cassino, era la città più distrutta alla fine dell’ultima guerra mondiale. Aveva avuto il 99 per cento delle case abbattute. E’ una prova delle nostre capacità positive: mettersi insieme e fare. Per vincere le nuove sfide, bisogna tornare tutti insieme a sognare, tutti insieme a innamorarsi di questa inimitabile Riviera e della sua umanità, quella che Marino Moretti elogiava per il cuore generoso e la luminosa saggezza. Bisogna tornare a guardare la luna seduti su un pedalò in spiaggia senza sentire una voce poco amica che, puntandoti una pila negli occhi, ti dice: è vietato. L’intervista è finita. Il Maestro si alza, saluta e se ne va. Resto solo io a vedere il secondo piatto sul tavolo e nel gesto rituale del cameriere che sparecchia togliendo solo il mio piatto mi accorgo di aver avuto l’esclusivo onore di condividere con il Maestro due cappelletti e un bicchiere di buon vino.


Degustazioni

Zarri, diciotto anni di

brandy di Luca Gardini

milia Romagna, terra di tradizioni, cultura e brandy. La storia del brandy italiano è legata alla famiglia bolognese Zarri ed ha inizio nel 1954, anno in cui Leonida Zarri, acquista una azienda di Murano, la Pilla, che produce ottimi liquori. Nel dopoguerra il magnanimo Leonida Zarri trasferisce la produzione dell’azienda Pilla a Castel Maggiore e rileva l’omonima villa che venne ceduta in uso alla Croce Rossa. Da allora la Villa ha cambiato più volte abito ed oggi i membri della famiglia Zarri portano avanti proprio qui, in una cornice sospesa tra passato e presente l’attività di distillazione di brandy e produzione di liquori di qualità ed indubbia personalità. Ma torniamo alla storia. Fu il giovane Guido Fini Zarri che seguendo il nonno e il padre in questa attività, aveva maturato la certezza che si potesse, anche in Italia, produrre Brandy superiore e da qualche anno impiegava tempo ed energie nel tentativo di “ricostruirne” le fondamenta. Dalla vendemmia 1986 utilizza l’alambicco Charentais per la distillazione di vino Trebbiano, imboccando così per primo la strada della qualità. Spinto dagli ottimi risultati del lavoro condotto sulla qualificazione del vino in Italia, e col desiderio di divul-

E

Guido Fini Zarri

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gare la cultura del Brandy, nel 1987 promuove un convegno specifico di grande successo su “Il Brandy italiano d’origine” Il 1989 è l’anno della nascita di Villa Zarri e nel 1990 Guido Fini Zarri presenta la prima bottiglia di Brandy Villa Zarri, prodotto completamente naturale derivato dalla distillazione con metodo discontinuo di vino


Trebbiano Romagnolo e Toscano, secondo un rigoroso disciplinare di produzione che si ispira a quello francese di Cognac. Il risultato è un brandy che non teme confronti, di qualità superiore e grande stile.

Prima di procedere insieme alla degustazione dei capolavori di casa Zarri, per toccare con mano le sensazioni organolettiche e per divertirci a capire o semplicemente a prendere consapevolezza delle caratteristiche salienti dei prodotti degustati, ci soffermiamo sulla filosofia di Villa Zarri e sull’importanza che il suo disciplinare di produzione ha sia nella distillazione, sia nella fase del successivo affinamento. La filosofia produttiva di Villa Zarri è frutto di un’accurata sperimentazione e di una precisa ricerca scientifica che ha come obiettivo la qualità. Proprio per questo motivo la materia prima deve essere ineccepibile e quindi bisogna partire da un vino “organoletticamente” perfetto. Nello specifico quello scelto è il Trebbiano Romagnolo e Toscano, coltivato secondo le metodologie lavorative di vigna necessarie alla realizzazione di buon vino. Caratteristiche salienti di queste varietà sono la poca aromaticità, la bassa gradazione alcolica e la buona acidità fissa, peculiarità conservate soprattutto se coltivato nell’ umida e fertile campagna emiliana ed evidenziate da una vendemmia leggermente anticipata. Le uve vengono pigiate con un sistema soffice e il mosto ottenuto è

messo a decantare a bassa temperatura, in modo che le parti solide si depositino sul fondo, successivamente travasato nel recipiente di fermentazione ed inoculato con lieviti selezionati, senza aggiunta di conservanti e solforosa. La distillazione avviene nei mesi di settembre – ottobre appena la fermentazione alcolica del vino è compiuta ed il metodo adottato è quello discontinuo tradizionale, realizzato con alambicco Charentais. Da questa attenzione nelle fasi produttive traspare tutto l’impegno che Guido dedica alla realizzazione dei suoi distillati. La scelta dell’alambicco è fondamentale e si tratta di un processo molto lento che necessita di esperienza, tecnica e pazienza. Solo in questo modo è possibile ottenere una elevata concentrazione di quelle meravigliose fragranze e aromi caratteristici del vino ed allo stesso tempo selezionare gli alcoli più puri eliminando le teste e le code del distillato. L’incantevole liquido che scaturisce a questo punto dall’alambicco è incolore, raggiunge un valore alcolico di circa 72° ed è proprio ora che si entra nella fase produttiva che conferisce ai prodotti di Villa Zarri l’unicità che li contraddistingue: l’affinamento. Il primo aspetto che ci preme sot21


Degustazioni

tolineare prima di approfondire la logica produttiva è il clima che caratterizza l’azienda Villa Zarri, la natura che cinge l’azienda ed il suo microclima. Caratterizzato da estati caldo umide ed inverni freddi e nebbiosi, sottopone il Brandy ad un’escursione termica che favorisce la maturazione Anche le scelte del produttore sono fondamentali per realizzare un brandy dalla spiccata personalità e come previsto dal disciplinare di produzione Brandy Villa Zarri il distillato ottenuto è immediatamente trasferito in botti di legno di rovere da 350 litri, provenienti dalle foreste dell’Allier e del Limousin dove resterà per un anno.

Trascorso questo tempo, il distillato, al quale è stata aggiunta gradualmente acqua distillata per raggiungere la gradazione di consumo, viene trasferito per un invecchiamento minimo di 10 anni in botticelle già utilizzate. La tipologia del legno delle barrique è molto importante, si tratta infatti di un legno a grana grossa con una certa porosità e una stagionatura ben specifica (36 mesi), caratteristiche fondamentali per cedere al distillato profumi, colore, tannini e permettere nella seconda fase di affinamento i processi di ossidazione necessari per il raggiungimento del bouquet finale. Durante il periodo di affinamento l’alcool del distillato evapora in una

misura pari al 3.5/4% medio annuo e questa evaporazione, che rappresenta un costo molto alto è indispensabile per il miglioramento qualitativo del Brandy e per il suo ammorbidimento. Solo al termine del processo di affinamento il Brandy di Villa Zarri raggiunge la gradazione di 44 gradi ed evidenzia equilibrio di gusto e profumo in modo del tutto naturale e senza aggiunta di aromatizzanti, additivi e coloranti. La produzione di Villa Zarri non si limita solo ai Brandy ma annovera tra i suoi prodotti anche una Acquavite di Chardonnay, un nocino biologico, lo Sherry brandy ed il liquore brandy e caffè.

DEGUSTAZIONI BRANDY ITALIANO 10 ANNI VILLA ZARRI Oro antico con riflessi topazio tendenti al mogano limpido. Nel bouquet complesso e fine riconosciamo orzo perlato, liquirizia dolce e banana essiccata. Nell’evolversi dell’ossigenazione sensazioni di pinoli tostati e caramella mou con chiusura vanigliata. In bocca l’ingresso è dolce e morbido. Sensazioni gustative che richiamano il miele di corbezzolo; l’arancia candita con finale persistente e pulito. Brandy di estrema finezza.

BRANDY ITALIANO 16 ANNI VILLA ZARRI Colore topazio intenso e luminoso con sfumature caramello; Brandy ricco e complesso. Emergono sensazioni dolci di albicocca confit; spezie come cannella e pepe rosa. Al secondo naso tabacco dolce e lievi tratti di polvere di caffè e cocco. Al gusto pieno e rotondo si aggiunge la grande personalità; in un retrogusto di frutta secca e pasta di mandorle. Finale lungo e fine. Brandy elegante e raffinato.

BRANDY ITALIANO 18 ANNI VILLA ZARRI MILLESIMATO “1987” Mogano chiaro brillante su sfondo luminoso e riflessi nocciola. Al naso esplosivo, aromi ampi e numerosi in cui riconosciamo miele di castagno, marzapane e cumino. Nella seconda fase emerge la complessità, giocando su sentori di cuoio, torrone, fichi secchi, su finale basato su tè affumicato e cioccolato bianco. Il gusto racchiude potenza ed eleganza, il tutto esaltato da una grande morbidezza ed equilibrio di questo raffinato brandy. Nel retrogusto il ritorno di biscotto secco su lungo finale di burro d’arachidi.

BRANDY ITALIANO 20 ANNI MILLESIMATO “1986” “Gold” è il nome di questo brandy di estrema eleganza e raffinatezza ultima novità della distilleria Zarri. Sin dal colore si percepiscono complessità e qualità del prodotto. Mogano scuro di grande profondità, intenso e luminoso con riflessi oro ambrato . L’olfatto offre netti e persistenti profumi di datteri e carruba. L’ossigenazione sprigiona una miriade di profumi che vanno dal tabacco da pipa, cacao, zucchero filato, noce secca e panettone. Finale con nuances candite e ranciò. La bocca rispecchia il naso, complessità e morbidezza in evidenza, suadente il palato, dove le sfumature cremose e rotonde terminano con una chiusura grassa e resinata.

BRANDY ITALIANO 18 ANNI CON SELEZIONE DI TABACCO TOSCANO VILLA ZARRI Oro antico intenso e sfumature ramate luminose. All’olfatto si apre con profumi delicati e persistenti di scorza d’arancio, confetto e alloro lasciando spazio alla raffinata sfumatura di tabacco toscano e miele d’acacia in chiusura balsamica. Fine assaggiandolo denota la sua grande morbidezza e tipicità risaltando la freschezza e le spezie come zenzero e coriandolo. Finale persistente di caffè e incenso.

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Tappi

Chiusure, ambiente ed evoluzione

del

vino di Fernando Araújo-Coelho

“È L’OSSIGENO CHE FA IL VINO, È GRAZIE ALLA SUA INFLUENZA CHE SI AFFINA”

(Louis Pasteur, 1873)

anno scorso, durante un viaggio in Mosella per degustazioni di Riesling, ho osservato che alcuni produttori usavano il tappo a vite come sistema di chiusura per una parte delle denominazioni. Pochi mesi dopo leggo una pagina di opinione dove Jean-Robert Pitte parla delle virtù del tappo di sughero. Così, all’inizio di quest’anno ho deciso di effettuare una prima ricerca per “fare il punto della situazione” riguardo ai sistemi di chiusura. Vi presento qui il risultato di questo “passaggio” preliminare. L’articolo tratterà esclusivamente delle chiusure che vengono applicate alla tradizionale bottiglia di vetro - lasciando per ora da parte i contenitori non-tradizionali (come la bottiglia simil-vetro in PET-polietilene tereftalato).

L’

La chiusura è uno degli elementi del packaging, elemento essenziale nel rapporto con il consumatore. L’apertura è un rituale e costituisce, insieme all’aspetto della confezione stessa, un fattore che influenza in modo importante l’apprezzamento complessivo del prodotto. Per quanto riguarda il packaging tradizionale, anche la capsula ha un ruolo di immagine importante, oltre a quello di assicurare la protezione della chiusura. Il materiale più utilizzato oggi è lo stagno ma si stanno diffondendo anche le capsule in polilaminato (con un film metallico, di solito allumi-

Procedimenti di cura ed estrazione 24

Quercia da sughero


nio, racchiuso tra due strati di polimero). Si usano anche capsule di solo polimero. In alcuni mercati, tra cui quello americano, si trovano confezioni dove la capsula è stata eliminata e sostituita con dischi di cartone o cera applicati sulla sommità della chiusura. L’introduzione di sistemi di chiusura alternativi al tappo di sughero è principalmente dovuta ad un aumento del cosiddetto “difetto di tappo” verificatosi a partire dalla metà degli anni 80, difetto che ha causato una sostanziale tensione nei rapporti tra l’industria del vino e quella del sughero. Sono così diventati disponibili, in particolare, i tappi a vite e quelli sintetici.

Cortecce di sughero

Il numero totale di chiusure usate all’anno è di 20 bilioni, dei quali 16 bilioni (80%) in sughero naturale, 2.5 bilioni (12,5%) i tappi sintetici e 1.5 bilioni quelli a vite (7.5%).

LE

TIPOLOGIE

Nel sec. XVII gli Inglesi inventano la bottiglia di vetro grosso, che inizialmente ha una forma a cipolla e viene tenuta in piedi. Rifornendosi di vino a Porto, hanno l’opportunità di riscoprire il sughero, già usato in Egitto e nell’antica Grecia come sistema di chiusura delle anfore. L’efficacia del tappo permette la conservazione orizzontale della bottiglia e questa evolve verso la forma cilindrica che viene a permettere l’accatastamento. Così, il tappo di sughero ha creato le condizioni per il lento invecchiamento del vino, che ammorbidisce i tannini e può portare allo sviluppo di aromi di straordinaria raffinatezza. Ed è stato il tappo di sughero, nota Pitte, che spiega l’invenzione a Londra dello champagne frizzante. Tappi di sughero naturale

La quercia da sughero (Quercus suber L.) è diffusa in Portogallo, dove viene lavorato ca. il 70% della produzione mondiale. Seguono - in ordine decrescente dell’area forestale a sughera - Spagna, Algeria, Marocco, Francia, Tunisia e Italia. La gestione della quercia da sughero è un’impresa ancora a più lungo termine rispetto a quella dalla vigna: la sughera ha una vita media di 170 anni (può raggiungere i 200 anni) e l’elemento chiave della qualità è la gestione forestale accurata. La prima estrazione avviene ai 25 anni e successivamente ogni 9 anni. Più vecchio è l’albero, maggiore è la produzione. Ogni ettaro di foresta produce in media 230kg di sughero (del quale soltanto il 40% ca. è adatto alla produzione di tappi). Il “difetto di tappo” può essere dovuto a composti organici presenti nel sughero, il più significativo dei quali il 2,4,6-tricloroanisolo (TCA). L’effetto del “difetto di tappo” nel vino si manifesta come tracce di ammuffito, cartone bagnato o cane bagnato, con riduzione dell’elemento fruttato e della persistenza. Basta una presenza insignificante di TCA per causare il difetto, dato che la soglia di percezione nel vino è di ca. 3-4 ng/l. È ormai stabilito che l’origine della manifestazione del “difetto di tappo” può essere motivata anche da altri composti, come il TBA (2,4,6-tribromoanisolo) ed il TeCA (2,3,4,6-tetracloroanisolo), sempre riconducibili all’ambiente circostante, specialmente quello di cantina. Sono state identificate come origini potenziali di contaminazione primaria le strutture in legno e palette di legno trattate chimicamente, pittura ed elementi plastici. Il “difetto di tappo” può così provenire da altre origini oltre che dai tappi (può quindi essere trasmesso al vino attraverso l’eventuale contaminazione secondaria del sughero). Paradossalmente, uno studio recente dell’AWRI ha stabilito che il sughero può a volte assorbire il TCA ed altri cloroanisoli dal vino contaminato. Il maggiore produttore mondiale di tappi di sughero, AMORIM, ha sviluppato un sistema per la rimozione del TCA: un processo di distillazione a vapore controllata, utilizzato dal 2003/2004. l’ENOMAQ di Zaragoza ha nel 25


Tappi

2007 attribuito il premio all’innovazione tecnologica alla versione ulteriormente perfezionata di questo processo (ROSA Evolution). Lo stesso produttore sottopone tutti i lotti prodotti ad analisi chimica attraverso la cromatografia gassosa per rivelare l’eventuale presenza di TCA prima dell’immissione in commercio.

TAPPI

DI SUGHERO

1. TURACCIOLO NATURALE Raccomandato per vini riserva e vini destinati a lungo invecchiamento in bottiglia, è 100% naturale e prodotto per rispondere alle più alte aspettative. Il sughero di miglior qualità è quello che visivamente presenta meno segni. Di solito vengono usati tappi più lunghi per i vini a più lungo potenziale di invecchiamento. La scelta accurata del diametro del tappo rimane l’elemento essenziale della performance di lungo termine: dovrebbe superare di almeno 6mm il diametro interno del collo della bottiglia in modo da non provocare una compressione del tappo superiore al 33%. 2. TAPPI TECNICI DI SUGHERO Offrono l’omogeneità tipica dei prodotti industriali, pur mantenendo inalterati gli attributi del sughero quanto a efficacia ed estraibilità. L Tappi AMORIM di sughero naturale

2.1 Tappo Twin Top Adatto ai vini fruttati, consigliato quando non previsti lunghi periodi di maturazione in bottiglia. Provvisto delle proprietà del turacciolo di sughero naturale, è costituito da un disco di sughero naturale ad entrambe le estremità e da un corpo in agglomerato. 2.2 Tappo Spark Usato per vini effervescenti, tra i quali lo Champagne e gli Spumanti, presenta elevate performance fisiche, chimiche ed enologiche, eccellente comportamento meccanico e facilità in fase d’imbottigliamento. 2.3 Turacciolo T-Cork Turacciolo naturale con svariate capsule in plastica, legno ed altri materiali, concepito per l’imbottigliamento di vini fortificati e altre bevande alcoliche. Permette una tappatura efficace, facile estrazione manuale e successiva riutilizzazione. Di sughero naturale o colmatato. 2.4 Tappi Neutrocork I più recenti tappi tecnici. Grande stabilità strutturale come caratteristica principale, sono consigliati per vini da consumare giovani ma di una certa complessità.

M Tappi sintetici

2.5 Turacciolo Colmatato Turaccioli naturali di maggior porosità, sono oggetto di un’operazione “estetica” che migliora aspetto visivo e performance nell’imbottigliamento. 2.6 Tappo Agglomerato Usato per vini di rapido consumo in cui la relazione prezzo/qualità è il fattore determinante.

LE

ALTERNATIVE

1. SINTETICI I tappi sintetici sono costituiti da polimeri. Nella produzione di NOMACORC viene usato un procedimento di co-estrusione in due fasi: inizialmente le materie prime sono miscelate, fuse ed estruse creando un cilindro di schiuma che costituisce il cuore del tappo; quindi, un secondo processo di estru26


L NORMANCORC

L SUPREMECORQ

L KORKED

sione applica una guaina flessibile termosaldata al cilindro interno. La forma viene raffreddata ad acqua prima del taglio a misura. Usando polietilene a bassa densità, questo produttore immette sul mercato quattro tipi di tappi, dal “Premium”, che permette la conservazione del vino fino a sei anni, fino al “Light”, adatto a vini destinati al consumo entro 12 mesi dall’imbottigliamento. A Settembre del 2007 NOMACORC ha iniziato un progetto con l’Università Davis della California (conclusione prevista Agosto 2009) con l’obiettivo di identificare l’ingresso ottimale di ossigeno per specifici vitigni e stili di winemaking.

L STELVIN

SUPREMECORQ fabbrica tappi ad iniezione con materiali elastomerici termoplastici. Il “SUPREMECORQ Original” è offerto in due dimensioni per vino e in versione “T-Top” per distillati e liquori. Il “SUPREMECORQ X2” (anch’esso in due tipologie) è pubblicizzato come prodotto che offre una barriera anti-ossigeno due volte superiore a quella del modello Original. Secondo il fabbricante garantisce una chiusura efficace “a lungo termine”, senza specifica indicazione. Sia NOMACORC che SUPREMECORQ cercano di riprodurre il sughero naturale nell’aspetto e al tatto. Entrambi i produttori offrono anche tappi in un’ampia varietà di colorazioni. KORKED è ancora un altro tappo sintetico, tecnicamente una chiusura dotata di un canale che, attraverso l’interposizione di una membrana permeabile idrofobica ha l’obiettivo di permettere una micro-selezione quantitativa del passaggio di ossigeno.

L VINO-LOK

2. A VITE Inventato negli Stati Uniti alla fine del sec. XIX, il tappo a vite ha avuto scarsa penetrazione in questo Paese, dove i tappi sintetici sono più popolari, ma è il sistema usato per il 90% della produzione della Nuova Zelanda e per il 50% di quella australiana. Usato prima per i vini di bassa qualità, si sta assistendo ad una certa rivalutazione di questa scelta. Le guarnizioni (liners) possono essere di vari tipi - con diversi gradi di permeabilità all’ossigeno - per soddisfare esigenze applicative diverse. Sono anche disponibili capsule in alluminio che nascondono all’interno una vite in plastica in modo da presentare una superficie esterna liscia, esteticamente più attraente.

In questa categoria i tappi STELVIN, in quattro diverse tipologie, prodotti da ALCAN. KORKED ha introdotto di recente anche dei tappi a vite provvisti di membrana a permeabilità controllata (KORKED SPIN e SPIN+).

L KORKED SPIN

3. IN VETRO E ALLUMINIO Il sistema VINO-LOK prodotto da ALCOA è costituito da un tappo in vetro con guarnizione e da una capsula in alluminio che assicura una protezione meccanica e funge da sigillo. Consente una chiusura riutilizzabile più volte. Il tappo si toglie a mani nude, ruotando semplicemente la capsula in alluminio di 360°, poi con una leggera pressione si toglie il tappo in vetro. 27


Tappi

4. IN POLIETILENE E ALLUMINIO Di origine Australiana, ZORK è una chiusura composta da tre parti: una capsula di polietilene ha la funzione di racchiudere la parte del tappo nel collo della bottiglia; un foglio di alluminio è posizionato all’interno del tappo con la funzione, equivalente a quella di un tappo a vite, di evitare il passaggio di ossigeno all’interno; uno stantuffo di polietilene, parte interna del tappo, è fissato al foglio di alluminio. È quest’ultimo che provoca il “pop” al momento dello stappo e serve per richiudere la bottiglia dopo l’uso.

L ZORK

Negli ultimi anni è andato avanti un dibattito tecnico sulle chiusure, qualche volta molto acceso, dove l’elemento centrale è stato l’OTR (Oxygen Transfer Rate, o Tasso di Permeabilità all’Ossigeno) di ciascuna delle opzioni. A Ottobre dello scorso anno in un dibattito al COPIA a Napa Valley, dove è intervenuto come moderatore George Taber, il Dr. Pascal Chatonnet ha sottolineato il fatto che tutte le chiusure possono presentare specifici problemi: rapida ossigenazione nei tappi sintetici, TCA nel sughero naturale e riduzione nei tappi a vite. Strettamente associato allo sviluppo della conoscenza dell’evoluzione del vino in bottiglia, il dibattito continuerà. Segnala però Paul J. White in un recente articolo nella rivista della Federazione delle Associazioni Enologi spagnola, il focus dell’attenzione si sta spostando verso l’aspetto ambientale: la chiusura verrà associata sempre di più a considerazioni di sostenibilità e l’impronta di carbonio diventerà un’esigenza fondamentale della distribuzione stessa. Il Mediterranean Programme Office, a Roma, è il braccio del WWF per la zona del Mediterraneo. Due anni fa ha divulgato un’analisi dell’impatto ambientale, economico e sociale dell’evoluzione del mercato dei tappi. AMORIM è stato il primo gruppo a certificare tutta la produzione a norma FSC ed alla fine dell’anno scorso ha pubblicato una prima Relazione di Sostenibilità. NOMACORC sta per annunciare la sua impronta di carbonio (per una comparazione del profilo ambientale delle diverse alternative vd. world-aluminium.org). Il Dr. Alan Limmer è un produttore ed enologo neo-zelandese di Hawke’s Bay. Fa vino da 25 anni ed ha delle qualifiche inusuali: è anche uno scienziato, con un PhD in Chimica. Pubblica regolarmente e partecipa a conferenze internazionali. È stato responsabile del programma nazionale di ricerca dell’Associazione Produttori della Nuova Zelanda, ha ricevuto l’Ordine al Merito del governo nel 2004 per servizi all’industria vinicola ed è, dal 2005, Fellow dell’Istituto Neozelandese di Chimica. Ho voluto contattarlo per chiedergli cosa pensa in questo momento sulle chiusure. Ha molto gentilmente risposto con il seguente commento, che Vi lascio come conclusione, in attesa di tornare al tema in una prossima opportunità:

Dr. Alan Limmer, Stonecroft Wines (Nuova Zelanda) 28

“Il tappo a vite ha portato ad una seria revisione del modo in cui tappavamo i vini (…). Ha forzato i produttori di sughero a conoscere meglio il loro prodotto e ha spinto il controllo di qualità ad un livello mai esistito in precedenza. (…) [Riferendosi agli ultimi test che ha effettuato con tappi di sughero naturale, tecnici e a vite, ribadisce:] Penso che l’evoluzione del vino sia in generale migliore con il tappo di sughero, e che sia difficile replicarla in qualsiasi altro modo. Al contrario, i vini sottoposti a basso ingresso di ossigeno [tappo a vite] sembrano soffrire moltissimo di riduzione postimbottigliamento (accumulo di solfuro). Questo ha l’effetto di alterare la struttura del vino al palato, di ridurre la persistenza e di introdurre degli elementi spigolosi invece di indurre una tessitura morbida e rotonda. (…) Sarebbe prematuro in questo momento concludere che le chiusure a basso ingresso di ossigeno possano costituire la soluzione definitiva per l’invecchiamento del vino.”


Didattica

Le parole nel

vino

di Roberto Bellini

IL

LINGUAGGIO

DELLA DEGUSTAZIONE È UN SISTEMA DI SIMBOLI SENSORIALI E DI REGOLE GESTUALI PER COMUNICARE IL PRODOTTO IN MODO DIVERSO A SECONDA

DELL’INDIRIZZO

E DELLA DESTINAZIONE

L David Gleave, relatore al Master di Montecatini

l vino è una bevanda idroalcolica fermentata, ottenuta unicamente dalla fermentazione, totale o parziale, dell’uva, pigiata o non, oppure del mosto d’uva. La sua composizione chimica racchiude tutte quelle sostanze capaci di interessare, ai vari livelli, i degustatori professionisti (tra cui i sommeliers) e i consumatori del quotidiano. Queste sostanze sono intercettate dai nostri organi sensoriali, sono elaborate dal nostro cervello, filtrano attraverso le conoscenze acquisite e sbocciano in descrizioni, in frasi, in racconti più o meno estesi: il tutto rappresenta, a vario titolo, le parole nel vino, che diventeranno le parole del vino nel momento in cui la verbalità prenderà il sopravvento sul pensiero. In quel preciso istante le parole nel vino diventano le parole del vino, essendo le prime intrise nella natura del prodotto e le altre espressione di un racconto, di una rappresentazione, di una visibilità. Le parole del vino, inseguendosi le une con le altre, costruiscono il linguaggio della degustazione, che altro non è che un sistema di simboli sensoriali e di regole gestuali progettualizzate per comunicare il vino in modo diverso, a seconda dell’indirizzo e della destinazione, diversificandosi se mirate a comprendere la potenzialità e il difetto (è il caso del wine-maker); ad interessare il lettore (il wine-writer); a sviluppare una penetrazione nel mercato (è il caso del venditore), a sviluppare la conoscenza e l’apprendimento come i docenti nei corsi di tecnica della degustazione. Per questo motivo ogni parola nel vino e del vino ha un proprio significato, che risulta molto condizionato nel contenuto dalla logica, dalla psicologia, dalla dottrina della comunicazione, dalla sintesi stilistica e ultimo, ma non meno importante, dalla filosofia complessiva del linguag-

I

29


Didattica

Montecatini 30

gio: ovvero frase vocale e testo letterario. Nel vino i linguaggi sono vari; questo è prepotentemente emerso, e in parte lo si sapeva già, nella recente sessione anglofona di approfondimento e di studio sulla degustazione, sul terroir, sui nuovi mercati e sui nuovi gusti del vino, tenutasi a Montecatini Terme il 13 e 14 giugno 2008. L’occasione è stata veramente ghiotta perché ha dato la possibilità ai partecipanti di confrontarsi con un linguaggio ben distante (però non del tutto diverso) da quello ormai internazionale della sommellerie Ais L’interscambio didattico è avvenuto con David Gleave, Master of Wine di lungo corso, ideatore e creatore di Liberty Wine in Londra, azienda leader nell’import e nella comunicazione del vino nel mercato anglosassone. Gleave è un personaggio molto distante dal modo di parlare con sussiego, gradisce il coinvolgimento e il connubio completo, tutti devono assimilarsi nel vino e esprimere le loro considerazioni organolettiche: non sono considerabili come degli errori le conclusioni supportate da un discorso logico. Le giornate, in sintesi, sono trascorse parlando di vino, di descrizioni organolettiche, di terroir, di marketing e di valore economico del prodotto: molto stuzzicante è stata la parte di tradurre in prezzo il valore analitico della degustazione. I passaggi più significativi delle diversità di linguaggio tra il Master of Wine e il Sommelier sono imperniate nei concetti di sinteticità e analiticità, ovvero breve, ma concisa, spremuta organolettica verso una analiticità che genera più o meno poesia, (poetic). Ecco un esempio di degustazione analitico poetica. “Aroma intensamente fruttato, franco nella sua espressione, ci induce a pensare a potenzialità d’affinarsi, di certo i piccoli frutti a bacca rossa (soprattutto la ciliegia che in questo momento sprizza di freschezza), lasceranno la scena a una pregiata speziatura, dolce e concentrata (vaniglia) in questo stadio, però anticipatrice di complessità quando il prodotto maturerà. Impatto gusto olfattivo dilagante in un tannino avvolgente, ma non aggressivo, crea un volume sapido e corroborante, il lungo finale si completa con una minuziosa tempra balsamica” Ora un esempio di sinteticità anglosassone. “Fruttato, pulito: frutti rossi; speziato, tannino equilibrato, acidità bilanciata, ben costruito nella struttura, lungo e pregiato nel finale di gusto”. In tutti e due i casi si descrive lo stesso vino con due linguaggi diversi, essi sembreranno distanti e differenti solo a coloro che ancora non possiedono un metodo di degustazione. Questa sinteticità è ben comprensibile dai sommeliers, che sono riusciti a integrare e acquisire immediatamente, con un’ottima perfettibilità, i concetti di equilibrio anche all’interno delle singole espressioni delle durezze, soprattutto nell’acidità e nel tannino e confrontarle con l’equilibrio dell’alcool. Molto interessante e coinvolgente è stata la parte deduttiva, dove avvalendosi delle esperienze maturate e delle conoscenza acquisite, si cerca di


costruire un ragionamento per individuare il vitigno o il blend e la zona di provenienza; per arrivare infine a una situazione veramente innovativa per la filosofia degustativa dei sommeliers: l’individuazione del prezzo d’acquisto per identificare il prezzo di vendita. Questa è realmente la differenza tra il metodo di degustazione dei sommeliers Ais e quello dei Master of Wine; essi hanno un occhio più focalizzato nel mercato, scevro da condizionamenti di tradizioni territoriali, di affezioni storiche o amicali, quasi a voler significare che in questo mercato globale il valore del vino si consolida in una costante presenza nelle wine-lists della catena Horeca, senza tralasciare le possibilità offerte dalla Grande Distribuzione. Interessanti sono i dati di un’indagine anglosassone in merito al valore medio della vendita del vino (escluso spumanti e vini fortificati): in Germania è di sterline 1,34; in Inghilterra 1,95; negli Usa di sterline 2,68. Altro dato interessante, e da un lato forse preoccupante, è l’analisi di chi acquista il vino in Inghilterra, solo il 2% dei consumatori compra vino al di sopra di 7,5 sterline, mentre l’80% acquista vini con un prezzo tra 3,50 e 4,75. Il confronto tra il sommelier e il Master of wine, in fatto di degustazione, è scandito anche dalla propensione del secondo a ricercare uno sbocco di mercato dei prodotti, accompagnandolo e abbellendolo di quelle peculiarità di marketing e di supporto alla vendita, che includono anche una caratterizzazione delle specificità del profumo e del gusto del vino. La specializzazione potrebbe, in futuro, non consistere nel concentrarsi nella comprensione della qualità di un valore assoluto nel vino, esempio un top wine; sarà forse più vantaggioso sezionare e cogliere le minimalità organolettiche di quei vini qualitativamente lontano dai vertici, ma pericolosamente vicini alle barriere della marginalità del profitto aziendale. Il meeting ha evidenziato queste differenti visioni degli sbocchi degustativi, entrambi hanno la stessa linea di partenza, il traguardo dei sommeliers è però quello di combinare il match tra il cibo e il vino e solo da qualche anno è timidamente approdato sulla sponda della comunicazione del vino. Un aspetto, a detta di tutti i partecipanti, s’è rafforzato, ed è quello di aver constatato che la didattica degustativa dell’Associazione Italiana Sommeliers si situa in una posizione paritaria al confronto con quella dei M.W., a loro può mancare un approfondito esame del mariage con il cibo, alla nostra quella di un più rigoroso controllo del ripetitivo e non concluso esame del rapporto qualità-prezzo. Incontri del genere sono interessanti e proficui, servono per aumentare lo “skill”, quel connubio di abilità e talento che consente al degustatore di vino di immedesimarsi e di appropriarsi delle complessità enologiche, estrapolarne la criticità, comporre una sequenzialità di parole descrittive, fino a produrre quel linguaggio comprensibile ed adatto a quella particolare situazione di comunicazione del vino; o più maliziosamente, come dicono le scuole di degustazione francesi: dare voce al mutismo. 31


Enoturismo

Tra storia e natura un da

territorio scoprire

VENEZIA

HA UN CUORE VITIVINICOLO

CHE PULSA DA PIÙ DI

LISON PRAMAGGIORE

2500

ANNI:

di Silvia Baratta e Dino Marchi el cuore della provincia orientale di Venezia si snoda uno degli itinerari enogastronomici più affascinanti del Veneto: la Strada Vini doc Lison Pramaggiore. A pochi chilometri dalla Serenissima e dalle località balneari di Bibione e Caorle, si trova il territorio noto all'epoca della Repubblica Serenissima come terra dei “Vini dei Dogi”, ancor prima scelto dai Romani per la produzione enologica: il Lison Pramaggiore. Oggi questo comprensorio è attraversato dalla Strada dei Vini Doc, un percorso ricco di sorprese: dagli itinerari alla scoperta delle testimonianze storiche della vite, che risalgono a più di 2500 anni fa, a quelli enogastronomici fino alle escursioni alla ricerca dei paesaggi dove la natura è ancora protagonista assoluta. Un’area tanto affascinante e ricca di storia che, per la prima volta, è divenuta protagonista del progetto che ha visto la collaborazione fra la Soprintendenza ai Beni Archeologici del Veneto, il Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Padova e l’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Conegliano. Frutto di questa collaborazione è il volume “Dalla Vite al Vino”, studio completo sul vino e sulla sua cultura nell’area della Venezia Orientale. Un po’ di storia. Grazie alla sua posizione strategica tra le Alpi e l’Adriatico,

N

32

la presenza dell’uomo in quest’area ha origini antichissime. Già abitata nella preistoria, dopo i Veneti furono i Romani a dare al territorio la notorietà. Proprio i Romani introdussero la coltivazione della vite e le testimonianze sono ancora visibili nei principali scavi archeologici: vasche di pigiatura e follatura, statue che ritraggono fasi della vita in cantina, addirittura i vinaccioli di vite romana… Già Plinio chiamava “helos” il vino prodotto fra Opitergium (la moderna Oderzo) e Julia Concordia (oggi Concordia Sagittaria).

Il vino era per i Romani una delle principali merci di scambio e per questo crearono importanti strade, prima fra tutte la Via Annia, i cui segni sono giunti fino a noi. Oltre alle vie di terra, vi erano le vie d’acqua, i fiumi, primo fra tutti il Lemene. E se in epoca romana il centro principale era Julia Concordia, in quella medievale Aquileia e Sesto al Reghena assunsero un ruolo di primaria importanza. La coltivazione della vite nel territorio fu ulteriormente incrementata verso il 735, quando fu eretto il


monastero di Santa Maria in Silvis a Sesto al Reghena, i cui abati avevano potere sui centri come Cinto, Annone e Gruaro. Risale a questo periodo anche il centro storico di Portogruaro, una delle cittadine più caratteristiche del Veneto, con il suo municipio merlato, i suoi portici, le ruote dei mulini sul Lemene. Nei pressi della cittadina si trova l’importante abbazia benedettina di Summaga, sorta intorno al Mille, attorno alla quale, dopo le invasioni dei barbari, si reintrodusse la coltura della vite. I Veneziani giunsero nel XV secolo e i principali centri si arricchirono di chiese e palazzi. Il territorio divenne quindi la “Terra dei vini dei Dogi”, qualifica ancor oggi usata per identificare il territorio. Pramaggiore in particolare, con il borgo di Belfiore, divenne il “Vigneto della Serenissima” perché vocato alle produzioni di alta qualità. Dopo la crisi della viticoltura dovuta alla caduta della Serenissima, con l'avvento degli Asburgo si catalogarono le varietà di vini e fu l'Istituto Regio della Corte di Vienna ad istituire nel 1823 un 'Catalogo delle Varietà di viti del Regno Veneto' che comprendeva alcune centinaia di varietà di viti presenti sul territorio. Alla fine del XIX secolo gli sforzi dei produttori di Lison Pramaggiore furono orientati a selezionare le varietà più adatte al territorio e verso il 1950 si arrivò all’individuazione delle varietà più idonee, molte delle quali fanno parte ancor oggi del patrimonio viticolo di Lison Pramaggiore. La viticoltura contribuì a risollevare il territorio dopo la Prima Guerra Mondiale e negli anni Trenta una vasta azione di bonifica e di modernizzazione della produzione agricola e vinicola rese l'area di Lison Pramaggiore all’avanguardia nella produzione vitivinicola. L’uomo e la natura: un binomio inscindibile. Se gli abitanti del territorio da un lato domarono la natura per renderla più ospitale per le coltivazioni, essi si impegnarono dall’altro nella tutela dell’ambiente e oggi l’area vanta oggi oasi naturali, dune e corsi d’acqua. Il rispetto per l’ambiente ha portato anche i produttori a introdurre per primi l’agricoltura biologica. Nel 1988 le prime tre aziende avviarono in via sperimentale la coltivazione biologica e questa negli ultimi anni ha avuto un notevole sviluppo. Oggi la coltivazio-

IN GITA TRA IL SENTIERO INCANTATO E IL BOSCO DELLE FATE La Strada dei Vini Doc Lison Pramaggiore è attiva fin dal 1986 ma ha ottenuto il riconoscimento ufficiale grazie alla legge Regionale del Veneto (17/2000) nel 2002. Si snoda idealmente lungo il percorso della romana Via Annia, da Venezia fino al confine con il Friuli. Il simbolo del Leone di S. Marco guida il visitatore nel riconoscere i produttori, le botteghe, gli alberghi e i ristoranti che compongono l'offerta turistica. Non si propone solo come zona di produzione di Vini a denominazione di origine controllata, ma vuole essere anche utile strumento per la valorizzazione dell'area nel suo complesso. Attraverso la Strada dei Vini doc Lison Pramaggiore il turista entra in luoghi di produzione che garantiscono la qualità dell'accoglienza accompagnandolo alla scoperta di un territorio ricco di risorse uniche, di storia e di paesaggi. La vasta area che si trova nella parte più orientale del Veneto, tra i fiumi Livenza e Tagliamento, è stata suddivisa dalla Strada dei Vini in quattro zone e altrettanti itinerari all'insegna dei sensi: il gusto sarà soddisfatto dalla varietà e qualità dei prodotti di questa terra, l’olfatto sarà stupito dal profumo armonico e fruttato del vino, la vista sarà sopraffatta dai colori forti del paesaggio, l’ udito tornerà ad ascoltare i rumori della natura: il canto degli uccelli, il fruscio delle fitte chiome degli alberi, lo sciabordio delle acque... IL SENTIERO INCANTATO Tocca l’area di Lison Pramaggiore, cuore della produzione dei vini Doc. Pramaggiore ospita l’enoteca regionale del Veneto ed è stata insignita del titolo di “Città del Vino”. Spostandosi più a sud, si incontra l’antico borgo di Stagninbecco, attuale città di Belfiore, che ospita il Museo Etnografico “Villa dalla Pasqua” dedicato al pane e al vino. LA STRADA DELLE ANTICHE CITTÀ SOSPESE TRA I VITIGNI Portogruaro, una città gioiello, famosa per il suo centro storico tutto porticato e per i numerosi e pregevoli palazzi di epoca medievale e rinascimentale. Summaga, altro centro importante per la gastronomia e la storia, merita infatti una sosta sia per la produzione di latte e formaggi, sia per la splendida Abbazia Benedettina del XIII sec. ATTRAVERSO IL BOSCO DEGLI ELFI E DELLE FATE San Stino è la cittadina di riferimento per questo itinerario. Ricoperta anticamente da grandi boschi secolari, era attraversata dalla famosa Via Annia che collegava Roma ad Aquileia. Il paesaggio naturalistico è segnato dalla presenza del fiume Livenza quasi interamente navigabile e molto pescoso: tra i prodotti ittici più tipici si segnalano l’anguilla e lo storione. IL RIFUGIO SEGRETO DI BACCO DORMIENTE Qui il riferimento è un’altra Città del Vino, Annone Veneto che prende il nome da "Ad Nonum lapidem", cioè “luogo posto al nono miglio della strada romana”, riferendosi alla via Postumia, l'antica strada consolare romana costruita per congiungere Genova ad Aquileia, attraversando la pianura padano-veneta. Un territorio ricco di risorse, quello di Lison Pramaggiore, dove la cultura del vino è strettamente legata alla storia e all'ambiente. Una zona unica e tutta da scoprire, fra terra e mare... Per informazioni: Strada Vini Doc Lison Pramaggiore Via Cavalieri di Vittorio Veneto 13/B 30020 Pramaggiore (Ve) - Tel. 0421.200731 www.stradavinilisonpramaggiore.it info@stradavini.it

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Enoturismo

ne biologica è divenuta un fenomeno imprenditoriale di tutto rispetto, capace di soddisfare un mercato in continua crescita. Grazie a questo impegno attualmente il territorio Lison Pramaggiore ospita l'isola di viticoltura biologica più grande d'Italia omogenea all'interno di una Doc, che conta circa 400 Ha. Una sfida coraggiosa perché produrre vino biologico significa non utilizzare prodotti chimici e questo comporta un controllo maggiore sul vigneto ed in azienda, con interventi molto frequenti eseguiti esclusivamente a mano o con l’ausilio di mezzi meccanici. Per l’area di Lison Pramaggiore la coltivazione biologica è un plusvalore che rafforza la qualità del prodotto. “Oggi i vini biologici stanno sullo scaffale in vendita alla pari dei vini “convenzionali” spiega il Presidente della Strada dei Vini Doc Lison Pramaggiore Daniele Piccinin e titolare dell’azienda Le Carline. “La differenza sostanziale è che i vini biologici non contengono sostanze chimiche, sono più genuini, caratteristici e rispecchiano di più la differenza varietale. Hanno poi un valore aggiunto: rispettano e salvaguardano l'ambiente ed il consumatore. Contengono infine più sostanze utili per l'organismo umano, come ad esempio il resveratrolo che numerose ricerche scientifiche hanno dimostrato essere un protettivo per il sistema cardiocircolatorio. Il vino biologico oggi deve essere proposto accanto ai grandi vini”. Conclude Daniele Piccinin “bisogna sfatare

l’anacronistico pregiudizio che sia di qualità inferiore. Oggi è un vino di qualità, con un ottimo equilibrio rapporto qualità prezzo e il fatto che sia biologico diventa valore aggiunto.” Questo è già stato capito nei nuovi mercati, dove il consumato-

re è divenuto più esigente e attento alla salute propria e del pianeta come dimostrano i moltissimi premi assegnati ai produttori di vini biologici di Lison Pramaggiore in occasione dei numerosi concorsi enologici internazionali.

LE ZONE DI PRODUZIONE L’area Lison Pramaggiore è per antonomasia la Doc di Venezia. Il territorio di produzione comprende gran parte dei comuni del Veneto Orientale e si estende dai terreni vicini al mare fino ai confini con le province di Treviso e di Pordenone. La Denominazione d'origine controllata viene attribuita oggi alle produzioni di 14 vitigni e ad altri 4 vini prodotti nell'area, che il Consorzio Vini Doc Lison Pramaggiore promuove e tutela. Le uve destinate alla produzione dei vini Lison Pramaggiore devono essere prodotte nella zona comprendente, nelle rispettive province, i territori comunali di:

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Provincia di Venezia: Annone Veneto, Cinto Caomaggiore, Gruaro, Fossalta di Portogruaro, Pramaggiore, Teglio Veneto e parte del territorio dei comuni di Caorle, Concordia Sagittaria, Portogruaro, San Michele al Tagliamento, Santo Stino di Livenza. Provincia di Treviso: Meduna di Livenza e parte del territorio di Motta di Livenza. Provincia di Pordenone: Chions, Cordovado, Pravisdomini e parte dei territori di Azzano Decimo, Morsano al Tagliamento, Sesto al Reghena. Si fregiano della Doc le tipologie: Bianco

Rosso Lison o Tocai Italico (da Tocai friulano) Pinot bianco Chardonnay Pinot grigio Riesling italico Riesling (da Riesling Renano) Sauvignon Verduzzo Merlot Malbech Cabernet Cabernet franc Cabernet sauvignon Refosco dal peduncolo rosso Classico Novello Frizzante Spumante Riserva


Disciplinari

Dop non significa

doping di Cesare Pillon

TRA UN ANNO DOC E DOCG VERRANNO INGLOBATE

DENOMINAZIONI ORIGINE PROTETTA: ALCUNE, COME IL BRUNELLO,

TRA LE DI

SONO CAVALLI VINCENTI

DA CAVALCARE.

A

PATTO PERÒ

DI NON DOPARLI

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na grande opportunità si profila oggi per il vino italiano: il riordino delle norme sulle denominazioni d’origine, che tutti dicono indispensabile ma che nessuno ha cercato finora di affrontare sul serio, viene adesso indirettamente sollecitato dal nuovo corso dell’Unione europea. Dal primo agosto è entrata infatti in applicazione la riforma dell’Ocm, l’Organizzazione comune di mercato. E l’Italia, come tutti i Paesi membri, ha tempo un anno per allineare alle nuove regole la propria normativa sulle indicazioni geografiche: dal primo agosto 2009 tutta la materia finirà sotto l’ala di Bruxelles. Perché allora non rivedere l’intero impianto anziché limitarsi a qualche adeguamento burocratico? I tempi sono stretti, ma l’occasione è allettante. “Oggi siamo avvantaggiati”, è infatti la convinzione del neo-presidente di Federvini, Lamberto Vallarino Gancia. “Sappiamo già che tra un anno ci sarà una rivoluzione nel sistema delle denominazioni. Non dobbiamo fare altro che tenerne conto e agire di conseguenza. Non farlo potrebbe essere troppo tardi”. Ha perfettamente ragione, il mancato rispetto del disciplinare del Brunello di Montalcino, reato per il quale sono indagate dalla magistratura alcune aziende, non è il solo campanello d’allarme che segnala l’urgente necessità di un mutamento di rotta. La prima constatazione da cui è necessario partire è che le Docg e le Doc (che con le nuove norme europee saranno inglobate tra le Dop, Denominazioni d’origine protetta) sono troppe. Bisogna avere coscienza che nell’era della globalizzazione si entra in competizione con le denominazioni varietali usate dai Paesi nuovi produttori, denominazioni che non hanno bisogno d’essere spiegate a nessuno perché i consumatori di tutto il mondo le conoscono: Cabernet sauvignon, Merlot, Chardonnay... Quante possono essere: venti, trenta? Esageriamo pure: cinquanta? Quali possibilità ha l’Italia di sostenere il confronto senza soccombere, complicata com’è da 472 denominazioni geografiche, alcune delle quali del tutto sconosciute perfino agli italiani? E’ vero che le Denominazioni d’origine rappresentano la più importante

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chance per sottrarre la produzione vinicola europea all’omologazione, ma 316 Doc sono un’esagerazione. Che ha però una giustificazione: quando sono nate non avevano una valenza qualitativa, erano semplicemente il censimento dei vini esistenti. Era inevitabile perciò che il loro numero crescesse tumultuosamente all’insegna della casualità. Ma che dire delle 38 Docg, che sono state approvate successivamente, quando si sapeva benissimo che quella “g” aggiunta avrebbe dovuto garantire che si trattava del meglio del meglio? Sono una quantità assurda, una miscela caotica dell’ottimo e del mediocre che è stata gonfiata spensieratamente fino alle inclusioni dell’ultima ora. Nove, di queste 38 Docg, sono state infatti istituite recentemente dall’appena scaduto Comitato vini, cioè dall’ente del Ministero delle Politiche agricole ch’era preposto alla gestione delle denominazioni. Fra le nove Docg appena create c’è per esempio la prima attribuita a un vino del Lazio: il Frascati? Il Marino? no, il Cesanese del Piglio, prodotto in un piccolo territorio di 150 ettari in Ciociaria. Nessuno ne mette in dubbio le potenzialità qualitative, ma come può essere credibile una classificazione che premia con la Docg questo vino che non è mai andato al di là del consumo locale, mentre attribuisce avaramente una Doc a due tra i capolavori enologici italiani più apprezzati nel mondo come il Sassicaia e l’Ornellaia? Bisognerebbe avere perciò il coraggio di usare il machete per sfoltire questa giungla, creata da orgogli campanilistici e dall’interessato attivismo di parlamentari a caccia di voti. Poche Dop al posto di 354 tra Doc e Docg permetterebbero di cogliere due piccioni con una fava: diventerebbe possibile farle conoscere meglio, soprattutto all’estero, mediante una promozione più mirata, senza disperdere inutilmente risorse; e diventerebbero più facili i controlli, che potrebbero finalmente appuntarsi sulla qualità, con funzione preventiva, più che, repressivamente, sul rispetto delle regole. Non bisogna però nascondersi dietro un dito: in Italia bisogna essere dei temerari per tentare di abolire dei diritti acquisiti. Togliere la Doc o la Docg a vini che l’hanno già ottenuta è un’impresa suicida: chi oserebbe prendersi la responsabilità di decidere quale vino va depennato? Un setaccio per separare il grano dal loglio, tuttavia, non dovrebbe essere impossibile trovarlo. 150 anni fa i funzionari di Napoleone III classificarono i crus del Bordolese sulla base di un’unità di misura che nessuno era in grado di contestare: il prezzo che avevano spuntato nel corso degli anni. Non è possibile fare altrettanto? Basterebbe decidere che un vino in commercio da sempre al disotto di una certa cifra non può avere le caratteristiche qualitative per fregiarsi della Dop. Il declassamento a cui esso verrebbe sottoposto, d’altronde, sarebbe di minima entità: i vini scartati come Dop potrebbero essere accolti fra le attuali 118 Igt, che dal primo agosto 2009 diventeranno Igp, Indicazioni geografiche protette. Non è mica un disonore: a Igt, cioè a Indicazione geografica tipica, sono attualmente quasi tutti i SuperTuscans che si sono conquistati il favore dei mercati d’esportazione, compresi due archetipi di straordinario prestigio come Solaia e Tignanello (certo, un riordino serio e radicale dovrebbe spostare questi vini, orgoglio del made in Italy, nella categoria superiore, quella delle Dop). La materia, insomma, è piuttosto scottante: non c’è quindi da farsi soverchie illusioni sulle possibilità che un severo repulisti possa essere attuato per davvero. Anche perché l’attenzione di tutti gli addetti ai lavori, preoccupati dall’intervento della magistratura nei confronti del Brunello di Montalcino, è oggi accentrata sui disciplinari di produzione. In una intervista di fine luglio alla Stampa, Lamberto Vallarino Gancia ha ammesso che “si parla di rivederne qualcuno”, sostenendo però che non si ha questa intenzione “solo perché ci sono stati dei problemi”. Il motivo invece è proprio quello, perché l’unica ipotesi che ha affacciato è quella di prevedere “un minimo di tolleranza dove è previsto il 100% di un vitigno”. I produttori che lui rappresenta, ha spiegato però, “in linea di massima sono d’accordo, ma non vogliono farlo ora perché, dopo il caso del Brunello, sarebbe un cambiamento esercitato sotto la pressione psicologica e mediatica di quel ch’è avvenuto”. Nella sua posizione, Vallarino Gancia non poteva probabilmente dire qualcosa di diverso. Però di fronte alla possibilità di fare addirittura una rivoluzione, offerta dall’applicazione delle nuove norme europee, i prudenti propositi manifestati a nome della Federvini appaiono piuttosto riduttivi. Ben altre bordate ha sparato in luglio l’enologo Vittorio Fiore, uno dei protagonisti del Rinascimento del vino italiano, in un vibrante intervento 37


Disciplinari

sul Corriere Vinicolo, contro i disciplinari delle denominazioni d’origine, accusandoli di aver creato “una specie di museo degli orrori”. Il loro vizio d’origine, sostiene Fiore, è quello inoculato nei loro testi dalla legge n. 930 del 1963, alla quale erano tenuti ad ispirarsi. Tutto nasceva da un “presupposto clamorosamente sbagliato”, e cioè che i vini prodotti in Italia negli anni ‘60 fossero “il massimo del potenziale qualitativo che si potesse raggiungere”, per cui non c’era niente da modificare. Ecco perché, spiega, i disciplinari erano stati inzeppati di “regole, regolette (la maggior parte delle quali assurde e anacronistiche), luoghi comuni, lacci e lacciuoli vari”: lo scopo era di mantenere lo status quo, “come se da quella specifica zona di produzione non si potesse ottenere niente di meglio”. Non c’era stata neanche l’umiltà di andare a vedere che cosa avevano fatto “i nostri cugini d’Oltralpe nei 150 anni che hanno preceduto la nascita delle denominazioni d’origine in Italia”, protesta Fiore, suggerendo la lettura del disciplinare del Bordeaux Superieur, che in un solo articolo detta tutte le norme che servono a produrre qualcosa come 5 milioni di ettolitri di un vino del massimo prestigio. Molto istruttiva, segnala poi, “la semplicità del punto primo dell’allegato, per cui il produttore può scegliere fra ben 17 differenti varietà principali (per cui non se ne escludono nemmeno altre) quella/e che più gli aggrada/no e stabilire liberamente le percentuali di utilizzo”. La conclusione da trarre non può essere che una: i disciplinari delle Doc e Docg italiane dovrebbero essere riscritti da cima a fondo, eliminando le pastoie che legano le mani a produttori e tecnici e cancellando i vincoli che condannano i vini a diventare simili a reperti archeologici. Poche regole, quindi, e massima libertà di sperimentazione. Si tratta però di avere idee precise su quali debbano essere le poche norme, quelle sì, inderogabili. Il modello del Bordeaux Superieur citato da Fiore, per esempio, va benissimo per tutti i vini che nascono da un uvaggio, ma non è adatto al Brunello di Montalcino, che è molto più simile ai vini di Borgogna, i quali sono fatti con un solo vitigno al 100% (Pinot nero per i rossi e Chardonnay per i bianchi). Vittorio Fiore, invece, sostiene che non si può pretendere con intransigenza che il Brunello sia fatto con il 100 per cento di Sangiovese perché esistono tre cause esterne che possono compromettere la vinificazione in assoluta purezza: nel vigneto può essere stata impiantata per errore qualche vite di varietà diversa; durante la vendemmia a Montalcino, dove coesistono quattro denominazioni di vini rossi, non si può escludere che qualche carrello con i grappoli di un altro vitigno finisca inavvertitamente nella linea di lavorazione del Brunello; e infine il profilo antocianidico del vino, assunto dall’Ispettorato controllo qualità come prova inconfutabile del mancato rispetto del disciplinare, può essere stato alterato, a suo parere, dall’uso di cloni di Sangiovese dell’ultima generazione, dalle condizioni fitosanitarie delle uve, dalle tecniche di vinificazione e di affinamento. Troppi elementi di incertezza e di aleatorietà, conclude, per non concedere una soglia di tolleranza a quel 100% di Sangiovese.

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Sono obiezioni di cui è giusto che i magistrati tengano conto: ma è necessario modificare la norma oppure è sufficiente applicarla con buon senso, interpretando le analisi di laboratorio con un ragionevole margine di tolleranza? Il fatto che una delle aziende indagate, la Antinori, sia uscita dall’occhio del ciclone declassando una parte del vino posto sotto sequestro, dimostra che le indagini non sono condotte con cieca inflessibilità. In ogni caso, quelli avanzati da Fiore sono dei dubbi, mentre ciò che sconsiglia di ammorbidire le regole è una certezza: qualunque percentuale di errore fosse riconosciuta ufficialmente nel disciplinare aprirebbe un varco attraverso cui finirebbero per passare abusi sempre più gravi. Non è un problema di percentuali: si tratta di decidere se il Brunello di Montalcino debba restare un vino di monovitigno o diventare un vino di assemblaggio. Il punto è tutto lì. La decisione può essere presa però solo avendo chiare quali conseguenze provocherà: se si rimuovono tutti i vincoli che impediscono al Brunello di rinnovarsi (imponendogli per esempio il tempo in cui deve maturare in botte) gli si permetterà finalmente di evolversi scegliendo senza indebiti condizionamenti le strade che più gli convengono, ma se si cambia la norma che impone di produrlo vinificando il Sangiovese in purezza si cancella la sua originalità, che risiede nella sua natura monovarietale, per farlo diventare come la maggior parte dei vini toscani d’oggi. Nel suo appassionato intervento, Vittorio Fiore rievoca un evento in cui ha avuto lui stesso un ruolo di primo piano: la “nascita dei SuperTuscans, vini nati in Toscana ma divenuti ben presto alfieri di tutta la produzione nazionale, che costituirono un j’accuse dei produttori e dei tecnici più preparati imprenditorialmente e tecnicamente contro le assurde norme adottate nella produzione dei vini a Doc e Docg che, secondo le migliori intenzioni, avrebbero dovuto traghettare il comparto vitivinicolo italiano verso una posizione di primato qualitativo a livello internazionale e che invece costituivano una vera e propria palude normativa, che veniva ripudiata dagli stessi produttori”. In quella circostanza, però, produttori e tecnici non modificarono nascostamente il Chianti Classico per farne un vino moderno: utilizzarono per le loro creazioni le uve che ritenevano più adatte, le vinificarono con tecnologie più evolute, ed affinarono il vino ottenuto in una piccola botte che non avevano mai utilizzato per questo scopo, la barrique. Ma giunto il momento di commercializzare quelli che sarebbero poi stati chiamati SuperTuscans, ebbero l’onestà di porli in vendita come semplici Vini da Tavola, e l’audacia di farli pagare più cari delle Riserve di Chianti Classico Doc. Con il Brunello di Montalcino, se le accuse della Procura di Siena saranno confermate, è successo esattamente il contrario: invece di essere proposto come Igt, il vino tagliato con Merlot è stato spacciato per Brunello autentico, fatto col 100% di Sangiovese. Perché non è stato commercializzato con la sua vera identità? Se era davvero migliore, i consumatori lo avrebbero preferito, così come avevano preferito i SuperTuscans negli anni Ottanta. Ma mentre negli anni Ottanta quella del Chianti era una Doc in crisi profonda, e quindi conveniva restarne fuori, nei nostri anni la Doc del Brunello è quella che può vantare lo sviluppo più entusiasmante: è un cavallo vincente che conviene cavalcare. A patto però di non doparlo.

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Degustazioni

Il poliedrico e multiforme universo del

Soave di Franco Ziliani

on è davvero facile orientarsi, con tutte queste tipologie, denominazioni e sottodenominazioni, Soave Doc, Soave Colli Scaligeri Doc, Soave Classico Doc, Soave Superiore Docg, (cui vanno poi aggiunte la Docg Recioto di Soave e la Doc Soave Spumante), nell’universo del Soave, nel “sistema Soave”, come ama definirlo l’attivissimo Consorzio, che ha splendidamente collaborato (e colgo l’occasione per ringraziarlo) alla realizzazione della mia degustazione. Una sessantina di campioni da cui ho tratto il meglio costituito da 25 vini, anche se avrei potuto selezionarne, restando su livelli di buonissima qualità, almeno altri venti. Eppure se si analizza con un minimo di attenzione questo sistema, basato su una conformazione a piramide, alla base il Soave Doc (3.788 ettari vitati per una produzione 2007 di 398 mila ettolitri), quindi a seguire il Soave Colli Scaligeri (306 ettari e 30 mila ettolitri), poi a salire l’area storica del Soave Classico (1.233 ettari per 121 mila ettolitri), per arrivare infine al Soave Superiore Docg (nemmeno 40 ettari per una produzione di 2.729 ettolitri), si capisce benissimo come la produzione abbia un suo ordinamento logico, che teoricamente porta da produzioni e rese più ampie a produzioni e rese più selettive e ad ambizioni qualitative superiori. Bene, io non credo più di tanto nelle classifiche e nei numeri, però se questa degustazione mi ha insegnato qualcosa, oltre a testimoniare una qualità diffusa ed un livello davvero importante (non so in quante altre denominazioni storiche e non in bianco si possano trovare tanti vini così validi e che invogliano decisamente a bere), è che il meglio non si trova solo – ed è normale – nell’ambito del Soave classico, ovvero la zona che comprende i rilievi collinari dei comuni di Soave e Monteforte d'Alpone, nei quali si trova l’area originaria più antica, detta “zona storica”, che presenta terreni tufacei di origine vulcanica con importanti affioramenti calcarei, e in qualche caso nell’ambito del Soave Superiore, ma anche in quella più vasta, la base della piramide appunto, del semplice Soave Doc. In questo universo che solo gli stupidi o i disinformati possono giudicare monodimensionale, ma che è invece estremamente variegato, sfaccettato, ricchissimo di sfumature, pieno di angoli e scorci emozionanti paesaggisticamente parlando, una vera e propria distesa di cru, terroir, microclimi, situazioni ambientali incredibili, (oggetto di un eccellente lavoro, Il Soave oltre la zonazione. Dalla ricerca ai cru, realizzato dal Consorzio di tutela Soave), agiscono un vastissimo numero di protagonisti.

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La cosa interessante, che dimostra la vitalità e la forza di questa zona e la sua intelligenza nell’aver trovato in una grande uva come la Garganega il proprio ubi consistam, la leva d’appoggio per concepire il progetto di un grande vino bianco veneto e italiano, (Garganega che spesso agisce in solitudine e qualche volta è corroborata da un pizzico di Trebbiano di Soave e solo raramente sostenuta dal contributo, superfluo, dei cosiddetti vitigni migliorativi), è rilevare come nell’areale del Soave coesistano direi pacificamente realtà produttive molto diverse. La mia selezione dei “Soave Top” o molto più semplicemente quelli che all’atto dell’assaggio (fatto rigorosamente alla cieca) mi sono piaciuti di più e hanno maggiormente corrisposto alla mia idea di piacevolezza/tipicità, dimostra ampiamente come accanto a realtà produttive di piccole dimensioni, di recente storia, emergenti o semi-debuttanti, coesistano realtà più importanti, cantine private e cantine cooperative, che propongono ottimi Soave anche in centinaia di migliaia di esemplari, pur non flettendo di una virgola quanto a qualità. Idee e modus operandi diversi, i loro, rispetto all’agire di piccoli vignaioli che enfatizzano e sfruttano al massimo il concetto di cru (e l’area del Soave è decisamente una delle zone vinicole italiane dotate della maggiore variabilità legata a posizione e tipo di terreno, oltre che all’età del vigneto), e realizzano vini di grande personalità e dalle caratteristiche peculiari, ma un agire che comunque, visto dalla parte del consumatore, porta grandi risultati, perché mette a disposizione ottimi vini situati in una fascia di prezzi molto interessanti, anche se sorprendentemente molto bassi, in alcuni casi. Ci sono validi Soave per tutti i gusti e per tutti i portafogli dunque, vini più solari, ampi, caldi, giocati su una certa esplosività e succulenza del frutto, larghi, di grande soddisfazione e ampiezza al gusto, e vini, forse quelli che preferisco e m’intrigano, anche intellettualmente, di più, dove grazie alla particolare natura dei terreni, vulcanici, ma anche calcarei, svetta una sottile, insinuante componente minerale, con un’incisività, una freschezza, un nerbo, e una sorprendente capacità di evolvere nel tempo che non hanno proprio nulla da invidiare ad un Riesling. Ecco perché vale la pena, oggi più che mai, compiere un’esplorazione attenta nell’universo multiforme del Soave, meglio ancora percorrerne le colline, in un alternarsi di scenari, di vigneti anche scoscesi, di paesaggi bellissimi e verdeggianti che gratifica non solo gli occhi, ma il cuore e la mente: l’emozione è assicurata… 41


Degustazioni

Soave Classico Superiore Contrada Salvarenza Vecche Vigne 2005 Gini Colore paglierino-oro brillante, luminoso e splendente, mostra un naso fitto ed elegante, con note di fiori bianchi, mandorla, anice, sambuco, confetto ampie e fragranti e molto nitide con un lieve accenno di miele d’acacia e anice stellato. La bocca è ricca, consistente e ampia, con grande equilibrio, perfetta maturazione del frutto salda struttura e ricchezza con un perfetto bilanciamento tra dolce e sapido. Ancora giovane, con notevole potenziale di evoluzione nel tempo.

Soave Classico Il Roccolo 2007 Le Mandolare Garganega 100% provenienti dalle colline di Brognoligo, nel cuore della zona del Soave Classico, da vigneti coltivati a pergola veronese per questo ottimo Soave la cui fermentazione avviene per il 30% in legno di rovere e il 70% in acciaio, con successiva maturazione sui lieviti fino a primavera. Colore paglierino intenso brillante mostra un naso caldo, ampio e solare, con note di pesca nettarina, mandorla, cedro e miele. In bocca grande ricchezza, gusto pieno e succoso, con polpa, nerbo carattere e complessità e finale sapido con acidità calibrata e pieno di sapore.

Soave Classico 2007 Pieropan E’ “solo” il base, prodotto in qualcosa come 200-250 mila esemplari e non i celebrati cru Calvarino e La Rocca, ma che bontà questo Soave (90% Garganega e un 10% di Trebbiano di Soave) proveniente da vigneti della zona classica posti su terreni di origine vulcanica! Colore paglierino oro intenso brillante, naso solare mediterraneo molto ampio, con aromi fragranti di agrumi, salvia e mandorla in evidenza, pieno, vivace sapido, incisivo e ben articolato in bocca, piuttosto lungo e persistente con un finale salato e fresco.

Soave Doc 2007 Tamellini Azienda di recente storia, solo dieci anni, quella dei fratelli Tamellini e la vocazione a lavorare solo con la Garganega ottenendo vini di stile moderatamente moderno. Lo conferma questo Soave “base”, da vigneti con ottime esposizioni posti su terreni calcarei, che si propone con colore paglierino brillante verdognolo, naso molto sapido, incisivo e minerale con note spiccate di fiori secchi, dalla buona densità e ricchezza succosa al palato, pieno, carnoso eppure di notevole freschezza e sapidità.

Soave Classico Monte Alto 2006 Cà Rugate Garganega in purezza raccolta a surmaturazione, da vigneti diversi posti su terreni di origine vulcanica, ricchi di microelementi a struttura calcarea e in parte argillosa situati nella zona di Monteforte d’Alpone per questo Soave fermentazione in barrique dove il vino rimane ad affinarsi sui suoi lieviti anche fino a 6-8 mesi. Il risultato un colore paglierino oro brillante con riflessi verdolini, bel naso intrigante con una piacevole vena di anice e di speziato, oltre ad agrumi e fiori bianchi, incisivo, nervoso pieno, molto sapido con una spiccata vena minerale e una grande piacevolezza.

Soave Superiore Castellaro 2006 Cantina di Monteforte Accidenti se lavora bene sul Soave questa Cantina Sociale di Monteforte! Svariati i Soave di diverse tipologie prodotte e tutti vini di spiccata personalità come questa selezione di Garganega in purezza, da un vigneto super cru, prodotta purtroppo in un quantitativo inferiore alle diecimila bottiglie. Colore paglierino verdognolo splendente, naso grasso di bella complessità e fittezza, con note di fiori bianchi, fieno, agrumi e un tocco minerale, bocca di grande freschezza con acidità calibrata e finale sapido, lungo, pieno articolato.

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Soave Classico Staforte 2006 Pra Ancora una volta Garganega in purezza, da vigneti con esposizione sud – altitudine posti a 150-200 metri di altezza su suoli vulcanici ed il sistema di allevamento della classica pergola veronese, con vigne di 30-40 anni alla base di un grande vino come questa selezione. Bella intensità di colore, paglierino oro vivo, naso ampio, solare, mediterraneo con note di fiori secchi e cedro candito, attacco sapido e nervoso, bel frutto succoso, ampio, gustoso di buona freschezza e piacevolezza.

Soave Classico Il Vicario 2007 Cantina di Monteforte Inserito nella linea “I Vini del Chiostro”, il Soave Classico “Il Vicario”, in ricordo del governo dei vescovi a Monteforte è diventato ormai un classico con la sua formula che prevede Garganega in purezza da vigneti posti sulle colline di origine vulcanica, pergole con esposizione sud-est. Parte del mosto viene fatto fermentare in barrique per sei mesi. Colore paglierino verdognolo di buona brillantezza, ha naso ampio, effusivo solare, con note di agrumi fiori bianchi mandorla e miele. In bocca é sapido nervoso scattante essenziale di grande nerbo minerale lungo e preciso. Ottimo potenziale d’evoluzione.

Soave Doc 2007 Corte Moschina Azienda familiare posta ai piedi dei Monti Lessini tra Roncà e Terrossa, l’azienda agricola Corte Moschina conta su 15 ettari vitati di una trentina d’anni d’età posti su terreni d'origine vulcanica, con la presenza di varie tipologie di tufi e alcune zone calcaree. Il Soave Doc, da uve Garganega in purezza si propone con un giallo paglierino dorato di bella intensità, con naso pieno, solare, maturo molto sul frutto, con note di ananas pesca e agrumi in evidenza, bocca ricca piena e consistente di buona articolazione e lunghezza e interessante dinamismo.

Soave Classico 2007 Mainente Azienda di recente storia produttiva quella di Ugo Mainente a Soave, eppure un Soave Classico, il loro, di notevole personalità e carattere. Colore paglierino verdognolo brillante luminoso si propone con un naso solare e caldo, con note di agrumi, fiori bianchi, pesca e mandorla a costituire un bouquet ampio. La bocca è ricca, piena, succosa, con gusto lungo e ampio di notevole persistenza ed una buona freschezza e vivacità nel finale.

Soave Classico 2007 Monte Tondo Venticinque ettari di vigneto distribuiti nell’area del Monte Tenda, di Monte Foscarino e Monte Tondo per questa azienda. Il Soave Classico Monte Tondo nasce da vigneti posti nell’omonima zona, posta su terreni calcarei ed è a base di Garganega in purezza. All’esame gustativo si presenta con un paglierino vivace di bella intensità e brillante, con profumi ampi, caldi, maturi e mediterranei, con agrumi, fiori bianchi, nocciola in evidenza. In bocca è pieno, molto strutturato, di buona compattezza e complessità, con un finale lungo e preciso di grande polpa e consistenza.

Soave Doc 2007 Vicentini Quattordici ettari di vigneto per questa azienda familiare ed un vino snello, sapido di notevole vivacità, sintesi di Garganega e Trebbiano di Soave. Colore paglierino dorato di bella intensità e brillantezza, mostra un naso molto elegante, compatto, variegato, dove spiccano note di mandorla, fiori bianchi e agrumi. La bocca è ricca e piena ed il vino si fa notare, e apprezzare, per il bel nerbo salato, l’acidità viva, la notevole lunghezza e persistenza molto articolata e dinamica nel finale.

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Degustazioni

Soave Superiore Classico Castelcerino 2006 Cantina di Soave Oltre cent’anni di storia e dimensioni decisamente rilevanti per questa Cantina sociale e parecchie linee di produzione per tanti Soave per ogni gusto. Nella linea Rocca Sveva spicca il Castelcerino da un vigneto di 50 ettari posti nell’omonimo vigneto posto in ambito collinare a 250-300 metri, dove la Garganega, maggioritaria, è completata da una quota (20 per cento) di Trebbiano di Soave. Il risultato è un vino di stampo classico, color paglierino verdognolo brillante, che mostra una vena citrina precisa e sapida sin dal primo impatto, corredata da sfumature floreali e di agrumi. In bocca il vino é sapido, ben articolato e incisivo, con acidità scattante, nerbo, carattere petroso verticale di lunga persistenza e sapidità.

Soave Classico I Cerceni 2007 Cambrago E’ l’area (molto vocata) di Costeggiola di Soave l’origine di questa selezione Cérceni dell’azienda Cambrago, 14 ettari posti nella zona classica in larga parte su terreni di origine vulcanica. Garganega in purezza, un vigneto di oltre 30 anni coltivato a pergola veronese, una raccolta tardiva effettuata a fine ottobre all’origine di questo vino che si presenta colore paglierino oro di media intensità, intensi aromi di agrumi anice e nocciola, nitido, incisivo, molto elegante e sapido al gusto, con un frutto pulito e succoso di buona persistenza, molto succoso, solare e godibile sul finale lungo.

Soave Classico Terre Monteforte 2007 Cantina di Monteforte Secondo vino selezionato per la Cantina sociale di Monfeforte e livelli qualitativi elevati anche per questo Terre Monteforte Garganega in purezza. Colore paglierino metallico molto brillante con una leggera ramatura, mostra un naso essenziale molto secco essenziale e diretto con note di fiori secchi in evidenza. In bocca buona vivacità e freschezza, sapido, con acidità scattante e nervosa e finale lungo e verticale molto piacevole.

Soave classico 2007 Pra Secondo vino selezionato anche per Pra ed un plauso per la buona qualità ed il prezzo calibrato per il Soave classico base, da uve Garganega in purezza, colore paglierino brillante di buona intensità, naso complesso con striature di anice, fiori bianchi, fieno e mandorla sapido e nervoso dal primo sorso, ben secco, deciso, incisivo, di grande sapore e persistente con personalità e ricchezza da vendere.

Soave Classico Grisela 2007 Tessari Da uve Garganega in purezza, da vigneti (Costalta, Castellaro e Magnavacche) posti sulle colline di Monteforte d'Alpone, su terreni di tipo vulcanico e argilloso con un suolo basaltico, ricchi di sostanze minerali questo Soave Classico. Il risultato è un vino, colore paglierino ramato, dal naso sottile e floreale secco ed incisivo non di grande ampiezza, sapido, nervoso preciso verticale, lineare ma ricco di sale e nerbo con bella lunghezza verticale e grande facilità di beva.

Soave Superiore Monte di Fice 2006 I Stefanini Realtà produttiva molto recente (prima annata commercializzata il 2003) ma da tenere in attenta considerazione, con venti ettari vitati, tutti a Garganega, posti su terreni vulcanici tufacei nell’area collinare del Monte Tenda di Costalunga di Monteforte d'Alpone. Molto buoni il Soave Selese, il Soave classico Monte de Toni, ma il gioiellino è questo Monte di Fice, 90 quintali ettaro da vigne di 25 anni, che si propone con una grande intensità, colore paglierino-dorato, naso intrigante, intensamente minerale, con note dominanti di pietra focaia, cedro, macchia mediterranea, fiori bianchi ed una leggera speziatura. Al gusto è ben strutturato, fresco, succoso, con una vena incisiva, scattante, petrosa molto persistente e sapida, ed una persistenza lunga, verticale precisa, di grande sapore e nerbo.

Soave Classico Monte Fiorentine 2007 Cà Rugate Garganega in purezza, da vigneti posti nell’area del Monte Fiorentine a nord del colle Rugate, a Brognoligo di Monteforte d’Alpone, e una lunga fermentazione in acciaio il “segreto” di questo Soave Classico prodotto in circa 50 mila esemplari. Colore paglierino metallico traslucido, naso molto diretto secco essenziale, con note di mandorla e fiori secchi ed un accenno agrumato, molto sapido al gusto, con una vena di mandorla precisa che caratterizza il finale lungo, nervoso e persistente. Vino ancora giovane, con bella freschezza e acidità e già grande piacevolezza. 44


Soave Classico Monte Carbonare 2007 Suavia Dodici ettari di vigneto di 30-35 anni d’età distribuiti nelle due celebri microzone Fittà e Castellaro, posti a 250 metri d’altezza su terreni vulcanici la “carta d’identità” di Suavia e Garganega in purezza, dal cru Carbonare (microzona Fittà), esposizione a sud est e resa inferiore ai 90 quintali ettaro per il Monte Carbonare. Colore paglierino oro squillante si propone con un naso sapido minerale nervoso essenziale, profumato di mandorla, cedro e fieno, di media consistenza al gusto, ma sapido e nervoso, con una bella acidità che spinge ancora e denuncia la giovinezza ed il potenziale di affinamento nel tempo del vino.

Soave Doc 2007 Corte Farfarini Storia produttiva recente (tutto inizia dal 2004) per questa azienda di 12 ettari vitati situati nel cuore del pregiato cru Castelcerino su terreni vulcanici posti a 350 metri d’altezza. Il risultato è un Soave (90% Garganega, 10% Trebbiano di Soave) di grande equilibrio e piacevolezza, colore paglierino scarico traslucido, naso molto in sé asciutto e un po' rigido, con freschi accenni floreali, una buona consistenza di frutto rotondo e succoso.

Soave Doc Fontana 2007 Tenuta S. Antonio Ben nota e celebrata per i suoi Amarone e Valpolicella Superiore questa bella azienda di oltre 50 ettari vitati di proprietà, ma da prendere in considerazione anche per i bianchi ed i Soave, come questo Fontana, da uve Garganega al 90% più una quota di Trebbiano di Soave e Chardonnay, prodotto in oltre centomila esemplari. Colore paglierino intenso, naso ricco e solare in cui spiccano agrumi e fiori bianchi, sapido, nervoso, di bella pienezza succosa in bocca, largo pieno consistente, solo un po' frenato nel finale dove un pizzico di acidità e freschezza in più non sarebbero state male.

Soave Classico Superiore Le Caselle 2006 Tenuta Solar Solo sei ettari nell’area di Monteforte d’Alpone, su terreni basaltico-vulcanici per questa aziendina in società tra Egidio Bolla e Ennio Santi ed una produzione, suddivisa tra due Soave Classico e un Soave Classico Superiore da tenere in considerazione. Molto riuscito anche se ancora piuttosto giovane il Superiore Le Caselle, colore paglierino verdognolo traslucido, naso floreale preciso con note di pesca noce, mandorla, agrumi, sambuco anice di bella freschezza, molto diretto, asciutto nervoso un po' semplice al gusto ma di grande piacevolezza e beva.

Soave classico 2007 El Vegro Posso dire ben poco di questa piccola cantina di Monteforte d’Alpone se non che sono viticoltori da tempo e conferitori di uve a cantine ben più grandi. Il risultato è un vino molto convincente e piacevole, colore paglierino oro intenso, naso “dolce” caldo ed effusivo con una nota di mela cotogna ben precisa, bocca molto vivace, sapida e articolata con un'acidità scattante e un bel finale largo e persistente.

Soave Superiore La Broia 2005 Roccolo Grassi Tra le aziende protagoniste della Valpolicella Roccolo Grassi, grazie all’azione intelligente del suo giovane artefice, Marco Sartori, esprime vini di buona personalità anche nella zona del Soave. Lo dimostra questo Superiore La Broia, Garganega in purezza. Colore paglierino oro verdolino brillante, naso fitto, complesso, maturo, su note di fieno e fiori secchi e anice, bocca ricca consistente importante, di buona lunghezza e consistenza, carente solo un po' di nerbo e freschezza.

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Musei

Andiam per

musei

di Letizia Magnani

DOPO

AVER PARLATO

DELLE VETRINE DI PANE, PASTA E CIOCCOLATO,

ECCO UNA PANORAMICA DEDICATA AL VINO

tri, vasi, brocche. E’ questo che si vede entrando in un qualunque museo archeologico. Da che mondo è mondo l’uomo ha sempre amato gustare il vino e godere del sapore, del profumo e dell’ebbrezza del succo degli dei, per questo, anche, gli antichi, greci e romani, hanno sempre tentato di conservare il vino e poi, anche, di trasportarlo. A testimonianza delle civiltà ci rimangono vasi e brocche magari naufragate in qualche tempesta, oppure barattate al mercato o, ancora, semplicemente, conservate nella dispensa di qualche villa o tempio. E’ col vino

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che avviene la Comunione. Ecco perché, dopo aver visitato a lungo i musei del cibo, dal pane, alla pasta, passando per la cioccolata, è venuto il momento, ora, di raccontare quei luoghi che in Italia sono sorti per conservare e promuovere la cultura che sta dietro e dentro una bottiglia di vino. I MAGNIFICI VENTI Verrebbe da dire che in Italia il vino è sempre stato primus inter pares. E’ stato il vino, infatti, a dare il “la” nel nostro Paese alla scoperta della ricchezza enogastronomica che abbiamo. La comunicazione del vino è partita almeno un decennio, se non due, prima rispetto alla comunicazione del territorio e dell’agroalimentare in genere. Di qualità del vino si è parlato quando ancora di cultura e di qualità del cibo non parlava. Per questo il vino ha un primato, quello di essere stato il primo. Il primo a dire che dietro e dentro ad una bottiglia c’erano il lavoro e la tradizione di uomini e di donne che dalla terra traevano gusto e cultura, il primo a dimostrare che oltre a quella spremuta di uva c’era molto di più, un ter-

ritorio, per esempio, delle storie, dei sapori, ma anche e soprattutto, dei saperi. Sono proprio questi saperi che vengono raccontati nei musei del vino; ne esistono oltre venti, in Italia. Alcuni, molti, nascono come esposizioni di attrezzi del lavoro agricolo e poi, nel tempo, si specializzano e diventano stanze nelle quali viene raccontata un po’ della immensa varietà di cultivar, uvaggi, modelli produttivi e tecniche cantiniere, di cui possiamo vantarci. Per raccontare la varietà e la diversità di questi musei dovremmo fare un lungo viaggio che ci porterà più o meno in tutte le regioni dello stivale. È il Piemonte, non stupirà, ad avere il primato dei musei del vino. Ne vanta almeno otto, tutti in rete e tutti testimoni di prodotti d’eccellenza e di qualità. A questi musei dedicheremo una puntata speciale del nostro viaggio. Così come agli altri musei importanti che esaltano, con la loro esistenza, le storie di altrettanti luoghi di produzione: penso ai musei che sorgono in Toscana, per esempio, o a quelli veneti. Il viaggio inizia, però col raccontare la realizzazione di un sogno.

OLIO E OLIVO IN MOSTRA Di recente nascita, il Museo dell’Olivo e dell’Olio, si affianca dal 2000 al Museo del Vino. L’impostazione e l’interesse rimangono però analoghi. In mostra si possono vedere pezzi tecnici e meccanici, gioielli archeologici ed artistici, ma anche pannelli didascalici con la storia dei sistemi di coltivazione e lavorazione dell’olivo e le tecniche produttive. Il tutto è raccontato in un percorso di dieci sale che raccolgono pezzi che travolgono per la loro semplice bellezza. E’ il caso della lucerna di marmo greca del VII secolo a.C., ma anche dell’oliera “Suemare” in ebano, avorio, acciaio e cristallo firmata Cristophle anno 1925. In mostra, può stupire, c’è persino un telaio umbro del XX secolo. L’olio, nei suoi molti usi, veniva infatti impiegato, fino a non moltissimi anni fa, per ingrassare le fibre nel processo di lavorazione della lana. La vera particolarità del museo è la sua collocazione: un ex frantoio. Tramite una esperienza sensoriale, che pesca inevitabilmente nella vista e nell’olfatto, si ripercorre la storia

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dell’olio, da sempre impiegato in cucina, ma anche nell’illuminazione, nella cosmesi e in medicina. Del resto la pianta dell’olivo e il prodotto deri- L Nel Museo dell'Olio sono vato dal suo frutto nelconservate preziose tele l’immaginario collettivo che raccontano la storia hanno da sempre dell'olivo in Italia valenze simboliche, propiziatorie e curative, molte delle quali sono ormai largamente confermate dalla scienza. Museo dell’Olivo e dell’Olio Via Garibaldi, 10 - 06089 Torgiano (Perugia) tel: 075/9880300 - fax 075/9880300-985486 e-mail: museoolio@lungarotti.it - www.lungarotti.it


IL SOGNO DI VERONELLI Nel mondo dell’enogastronomia, come negli altri, si può discutere di tutto, ma il silenzio del rispetto cala quando si nomina Luigi Veronelli. E’ al suo nome che si legano battaglie storiche del settore. Grazie al suo lavoro incessante e alla sua passione, grazie alla sua caparbietà e alla sua tenacia, oggi si parla di cibo e di vino come gesti e prodotti cultuali, ma solo trent’anni fa le cose non stavano così. E’ a lui, dunque che dobbiamo lo sdoganamento degli argomenti che tutti noi amiamo. Prima di lui, mi verrebbe da dire, c’erano il succo d’uva e i vignaioli, dopo di lui c’è la cultura del vino e del bere bene per la quale Ais lavora e si batte da anni. E proprio a Luigi Veronelli è dedicato il Museo Nazionale del Vino, che dal 1990 sorge a Caltanissetta, grazie all’intuizione e al lavoro del regista e scrittore Mino Saetta e dei suoi collaboratori. Dentro vi sono raccolte oltre 3.000 bottiglie di vino, donate dai più importanti produttori del mondo del vino italiano. Il museo promuove iniziative ed eventi di turismo enologico, per valorizzare il territorio d’appartenenza e vanta alcune collezioni uniche, come quella delle bottiglie contemporanee e storiche, delle bottiglie d’asta e di quelle provenienti da collezioni private. Tra le curiosità c’è la collezione di Magnum, unica in Italia, e di bottiglie di grappa e liquorosi. Ogni anno il museo, che ha anche un ricco archivio, promuove e inventa eventi dedicati alla cultura enologica. Museo Nazionale del Vino, Luigi Veronelli Via Xiboli, 400/b - 93100 Caltanissetta (CL) Tel: 0934/566407 - 566017 - Fax: 0934/566407 e.mail: info@museodelvinoluigiveronelli.com www.museodelvinoluigiveronelli.com/html08/index.php Aperto tutto l’anno, su prenotazione.

DAL VINO ALL’OLIO: IL MUSEO LUNGAROTTI Da Caltanisetta risaliamo lo stivale fino a Torgiano, in Umbria, dove ha sede uno dei più vecchi musei dedicati interamente al vino, il Museo Lungarotti. Voluto e realizzato da Giorgio Lungarotti con la moglie Maria Grazia, il Museo del Vino è stato aperto al pubblico nel 1974 ed è oggi gestito dalla Fondazione Lungarotti. Attraverso venti stanze si possono scoprire oltre 2.800 manufatti che raccontano con intensità la storia del vino. Reperti archeologici (brocche cicladiche e vasi hittiti, ceramiche greche, etrusche e romane, vetri e bronzi), attrezzi e corredi tecnici per la viticoltura e la vinificazione, contenitori vinari in ceramica di età medioevale, rinascimentale, barocca e contemporanea, incisioni e disegni dal XV al XX secolo, edizioni colte di testi su viticoltura ed enologia, manufatti di arte orafa, tessuti ed altre testimonianze di arti minori documentano infatti l’importanza del vino nell’immaginario collettivo dei popoli che hanno abitato nel corso dei millenni il bacino del Mediterraneo e l’Europa continentale. A partire dal mondo antico, vite, uva e vino, elementi portanti nella economia agricola di quei popoli, hanno alternato a valenze puramente economiche usi e significati religiosi e profani. Dai tempi più remoti fino ad oggi, il loro ricorrere nelle arti e nei mestieri è costante, sia come spunto iconografico, sia a scopo produttivo. Dalla vite al vino, passando per l’uomo, il passo è breve e così il museo Lungarotti ha il pregio di proporre il tema vitivinicolo e bacchico come filo conduttore per la lettura delle vicende storiche. Fra le curiosità spicca la collezione di ceramiche della cultura artistica umbra, come la grande hydria del XIV secolo con

La Fondazione è l’espressione culturale della Cantina Lungarotti e gestisce il Museo del Vino ed il Museo dell’Olivo e dell’Olio centauro leontiforme e sirena e la fiasca da parata urbinate, proveniente dalla bottega di Orazio Fontana, che presenta nell’ornato una esemplare “composizione” di soggetti tratti da Raffaello e Giulio Romano. Il museo presenta anche una sezione interamente dedicata al tema vino-medicina, con vasi da farmacia ed edizioni d’epoca di testi medici. Si tratta di vere rarità. Non mancano poi pezzi moderni, con ceramiche firmate da Joe Tylson e da Nino Caruso, ma anche con altre opere d’arte ispirate al vino. La collezione di incisioni, per esempio, racconta la parte emotiva del vino, come avviene nel Baccanale di Andrea Mantegna (XV secolo), un ciclo allegorico che mostra lo svolgersi del tema dionisiaco. Per chi all’arte preferisce la concretezza degli attrezzi da lavoro, a Torgiano ci sono belle sorprese, è il caso dell’imponente torchio eugubino a trave, della tipologia detta “di Catone”. Museo del Vino Lungarotti C.so Vittorio Emanuele, 31 06089 Torgiano (Perugia) Tel: 075/9880200 - Fax: 075/9880300-985486 e-mail: museovino@lungarotti.it www.lungarotti.it Aperto tutti i giorni dell’anno (chiuso il 25 dicembre) Estate: 9-13;15-19 / inverno: 9-13;15-18 Ingresso a pagamento

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Musei

TAPPA IN TOSCANA, CARMIGNANO Raccontando l’Italia dei musei del vino non si può che fare un passaggio in Toscana, dove sono i filari delle viti ad accogliere, nel paesaggio lunare delle dolci colline senesi e poi fiorentine e pratesi il visitatore. E così, per parlare davvero di vino, dobbiamo ripartire da Adamo ed Eva, anzi, meglio, dagli Etruschi e dalle necropoli di Montalbano, in Toscana. E’ lì che sono stati trovati alcuni dei reperti più antichi per l’Italia, che parlano di vino. E se in vino veritas, la Toscana deve il suo primato enologico al lontano Medioevo, con l’introduzione della mezzadria, che cambia, radicalmente, il paesaggio, ma anche il modo di produrre il succo degli dei. Rimanendo in Toscana, poi, arrivano i Medici, che, col Granduca Cosimo III de’ Medici, nel 1716, si inventano addirittura la denominazione d’origine. A tavola come nella vita, la storia viene sempre da lontano e così per ripescare un po’ di questa storia, tutta da bere, non si può che fare una sosta al museo di Carmignano. DALLA VITE AL VINO Il Museo della Vite e del Vino, oggi in gestione alla Pro Loco, è stato inaugurato nel 1999 da un progetto già avviato nel 1992. Si sviluppa su cinque sale che mettono in scena il cambiamento della produzione della vite e del vino a Carmignano, nel pratese. Sembra quasi che da queste parti la storia si faccia liquida, nel vero senso della parola e così il percorso non può che iniziare con un dipinto, la riproduzione di un filare di una vigna seicentesca ad opera di Bartolomeo Bimbi (l’originale si trova nella villa medicea di Poggio a Caiano), che con quest’opera ha voluto fare una sorta di censimento delle viti. Da quella “fotografia” seicentesca ad oggi molte cose sono cambiate. Alcune di quelle viti, molte, non esistono più, altre invece si sono evolute o incrociate. Nella parte inferiore, alcuni cartigli denominano e numerano i tipi di uve, sarebbero almeno 37 o 38 diversi quelli che si sviluppavano da queste parti. La prima sala, ed altre del museo, occupano gli spazi un tempo appartenenti alle cantine Niccolini. Il visitatore entra così nella stanza dedicata alla produzione vinicola locale, grazie all’esposizione di alcuni pezzi della collezione di Federigo Melis, profondo conoscitore dei vini italiani ed europei, al quale appartengono più di 800 bottiglie conservate nel museo. In esposizione si trova un po’ di tutto, dalle bottiglie, appunto, ai reperti etruschi, bellissimo il cratere per mescere il vino, ma anche contenitori più recenti, come il fiasco che usavano i nostri nonni. La storia è raccontata non solo coi manufatti, ma anche con tecnologiche postazioni Internet, che, con cd e riproduzioni multimediali, spiegano anche ai bambini il mistero e il fascino della produzione vinicola. Il museo di Carmignano non dimentica mai di mettere in evidenza l’importanza dei cambiamenti tecnologici e così si può toccare con mano come e quanto l’introduzione della mezzadria abbia cambiato i profili dei campi e delle colline, ma anche quelli delle teste delle persone e quindi, inevitabilmente della produzione vitivinicola. Non a caso la terza sala è dedicata all’etnologo svizzero Paul Scheuermeier che tra il 1919 e il 1930 raccolse immagini e racconti sulla cultura contadina, sui costumi del luogo e sugli utensili. Oggi nel museo sono esposte le riproduzioni di alcune foto da lui scattate, che ritraggono i cicli di produzione del vino, alcuni disegni realizzati da Paul Bosch e gli attrezzi di comune uso nelle nostre campagne. D’altronde il grande vino toscano non esisterebbe se la campagna non fosse cambiata nel corso del tempo e così, a testimonianza del cambiamento, troviamo le foto scattate, in epoca più recente, da Vittorio Cintolesi tra il 1980 e il 1990, che mostrano il tramonto del mondo mezzadrile. In mezzo c’è un altro pezzo di storia legato al Granduca Cosimo III de’ Medici, che stabilì severe e precise regole sulla produzione del vino che lui tanto apprezzava, anticipando di tre secoli i contenuti delle odierne Doc e Docg, che Carmignano ha conquistato nel 1975 e 1990. Come a dire, che tutto torna e che, tutto, in fondo, rimane, racchiuso nel bicchiere. Museo della Vite e del Vino di Carmignano Piazza Vittorio Emanuele, 2 - 59015 Carmignano (Po) Tel: 055/8712468 - Fax: 055/8711455 www.carmignanodivino.prato.it Sempre aperto, ma con orari diversi durante l’anno. E’ meglio telefonare o visitare il sito prima di andarci.

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L Museo di Carmignano, una vecchia imbottigliatrice


IL MUSEO DI STORIA DELL’ENOLOGIA Può accadere che proprio dal bicchiere a volte escano voci ed esperienze che superano luoghi e tempo diventando marchio, sinonimo di festa e di stile. E’ il caso del Martini, la cui storia viene da lontano ed è raccontata in un museo che merita sicuramente una visita. Si tratta del Museo di Storia dell’Enologia Martini & Rossi, sorto nel lontano 1961 a Pessione di Chieri, fra le Langhe, in una delle aree più suggestive del Piemonte. Dentro non ci trovate George Clooney, se non in foto, ma la visita, sempre possibile e gratuita, vale veramente doppio. Anche perché negli anni, dal Museo di Storia dell’Enologia, che nasce nelle vecchie cantine e che racconta ancora una volta semplicemente la passione per la vinificazione e per il territorio, è nata una seconda ala, si potrebbe dire un secondo museo (il “Mondo Martini”, appunL La sala dei Torchi e l’ingresso to), che raccolaterale del Museo Martini glie il mito Martini, narrato, inevitabilmente, attraverso prodotti, tecniche produttive, ma, anche, pubblicità e campagne di comunicazione. PARTIAMO DALLA STORIA Inaugurato nel 1961 a Pessione, il Museo è nato dalla volontà di Lando Rossi di Montelera di dedicare un museo al vino. Le sedici sale che lo compongono sono state ricavate dalle cantine originali della palazzina settecentesca, sede dei primi stabilimenti della Martini & Rossi. I pezzi esposti sono più di seicento, organizzati secondo un ordine tematico. Antichi oggetti rituali e simbolici, anfore e vasi, grandi torchi in legno, carri per il trasporto di uve e botti, cristalli e argenti preziosi si susseguono lungo le diverse sale della struttura. Il viaggio è una vera avventura che porta a scoprire una storia millenaria, quella della vite, a cui ha fatto seguito una seconda avventura, non meno ricca di passione, quella della vinificazione. Sarà il luogo in cui siamo o l’abitudine, ormai, ad immergerci nell’emozione che deriva da queste storie, ma sembra che qui, davvero non manchino le sorprese. Tutto comincia a Torino, il primo luglio del 1847. Quel giorno, nella vivace capitale del regno sabaudo ormai pronta a guidare il risorgimento italiano, quattro commercianti fondano una “Distilleria nazionale di spirito di vino all’uso di Francia”, nonché “deposito di rhum, absinthe, kirsch, cognac, curaçao” e rivendita di vini di Bordeaux. I loro nomi sono Clemente Michel, Carlo Re, Carlo Agnelli ed Eligio Baudino e dalla loro impresa ha origine la Martini & Rossi. Fanno infatti parte dell’organico di quella prima Società due personaggi che ne cambieranno profondamente le sorti: Teofilo Sola e Alessandro Martini. Nel 1950, dopo varie vicissitudini, la Martini & Rossi si trasforma in Società per Azioni. Si apre un’epoca densa di progetti e iniziative legate all’immagine: durante gli anni Cinquanta e Sessanta vengono create le Terrazze Martini, destinate a diventare miti-

che, a Parigi (1957), Milano (1958) e poi, tra il ’60 e il ’65, Barcellona, Bruxelles, Londra, San Paolo del Brasile e Genova; a Pessione, nel ’61, viene inaugurato il Museo Martini di Storia dell’Enologia, nel 1970 nasce Martini Racing. Qualche anno dopo avverrà l’incontro e quindi il sodalizio con un gruppo multinazionale di matrice americana, la Bacardi Limited, da cui nasce il Gruppo Bacardi-Martini, che unisce due aziende tanto lontane geograficamente quanto vicine per tradizioni famigliari, cultura industriale e sviluppo storico. Le radici di Bacardi, e del suo fondatore don Facundo Bacardi, sono a Santiago di Cuba nel 1862, quelle della Martini & Rossi nella Torino del 1863. Attualmente il Gruppo è il terzo a livello globale nel settore del beverage, una realtà da 800 milioni di bottiglie all’anno e 6000 dipendenti. E’ questa una porzione di cultura che si scopre visitando le sale dei due musei, che però raccontano anche molto altro, come la cultura della vite, dall’epoca antica ai giorni nostri, la prestigiosa agricoltura piemontese, che è sempre stata avanguardia per il resto del Paese e molto altro ancora. Il visitatore viene infatti guidato nelle cantine settecentesche, veramente mirabili, attraverso il Museo Martini di Storia dell’Enologia, che espone in 16 sale più di 2000 anni di testimonianze in campo enologico oltre ad alcune importanti elementi di archeologia industriale dell’azienda stessa, per poi giungere alla galleria permanente di storia aziendale “Mondo Martini”, dove si percorre l’affascinante cammino dalle origini fino ad oggi di uno dei marchi più famosi al mondo. Di sala, in sala e, è il caso di dirlo, di emoL Manifesti pubblicitari storici in zione in emoesposizione al Museo Martini e la zione, il viaggio palazzina storica a Pessione, non può che frazione di Chieri (TO) terminare con il tradizionale aperitivo, nato come rito sociale e ora diventato mito, nella Terrazza Martini, nella quale, calice in mano, tutti si sentono un po’ divi. Visitor Center Martini & Rossi: Mondo Martini e Museo Martini di Storia dell'Enologia Piazza Luigi Rossi 2 10023 Pessione di Chieri (Torino) - Italy Tel. 011/94191 - Fax 011/9419324 e-mail: mondomartini@bacardi.com www.mondomartini@bacardi.com

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Gocce

Un sorso di cultura di Salvatore Giannella

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uando enologia fa rima con poesia: premiato Tonino Guerra “Il vino, in fondo, è poesia in bottiglia”, amava ripetere lo scrittore scozzese Robert Louis Stevenson. Partendo da questa idea il genovese Claudio Pozzani e i collaboratori del circolo Viaggiatori nel Tempo hanno ideato il premio “Poesia in bottiglia” che, nella sua prima edizione, è stato ritirato a Genova da Tonino Guerra, poeta e sceneggiatore di fama internazionale (ha firmato i testi di 125 film, tra i quali il capolavoro felliniano “Amarcord”). “Mi fa piacere ricevere questo premio”, ha detto Tonino Guerra durante la cerimonia, “perché ho un debole per il vino. Solo mi dispiacerebbe restare chiuso in una bottiglia perché ne vorrei uscire spumeggiante come questo nettare prelibato”. “C’è un legame tra vino e poesia”, spiega Pozzani, “un legame fatto di esperienza e creatività, misura e tecnica. Con il premio a Tonino non abbiamo solo voluto conferire un riconoscimento al poeta come autore di versi ma, soprattutto, all’essere umano e al suo approccio creativo e poetico alla vita e all’arte. Anche per questo, non è stato scelto un vino qualsiasi, ma un vino speciale: il Grignolino d’Asti, vino piemontese prezioso e raro, come il suo colore rosso rubino e i suoi profumi intensi”. Per saperne di più su Tonino Guerra e le sue nuove creazioni suggeriamo il sito ufficiale dell’Associazione a lui dedicata: http://www.toninoguerra.org. L’ Europa taglia i vigneti Il consumo di vino in Europa sta diminuendo. In Italia si è passati da 60 a 47 litri annui pro capite. I vitigni invece abbondano. L’ Unione Europea ha dunque deciso di ristabilire l’equilibrio tra domanda e offerta offrendo incentivi a chi estirpa i vigneti. Ma è polemica. (“Notizia in due minuti”, Corriere della Sera, 1° agosto 2008). «La grappa in casa? Un’arte da salvare» Foresto Sparso, quella che era (e forse ancora è) la capitale della grappa bergamasca, è davvero un borgo «sparso» sulla collina dietro il lago d’ Iseo, ai suoi piedi Villongo, alle spalle la Val Cavallina. Alberto Piccioli Cappelli è stato sindaco (leghista) di Villongo per due mandati consecutivi, è ancora nella giunta come assessore alla Cultura: «Concordo con il disegno di legge presentato da due senatori leghisti di legalizzare la grappa fatta in casa, purché in quantità limitata (30 litri all’anno), in un contesto agricolo e in condizioni di sicurezza igienica. Si tratta di riconoscere un patrimonio storico e culturale, quello di saper costruire alambicchi, di saper produrre grappa. Basta che resti un’ attività artigianale, l’ industria non c’entra nulla, si tratta di valorizzare un prodotto del territorio». Al Corriere della Sera racconta di quella volta che «arrivò il parroco nuovo su a Foresto. Nel suo primo giro del paese incontrò uno che aveva una pancia grossa e guardandolo pensò: questo qui non sta bene, guarda come è gonfio. Due giorni dopo incontrò di nuovo il tipo. La pancia era miracolosamente scomparsa, il prete per poco non si fece il segno della croce lì sui due piedi, in pratica era un miracolo. Poi gli dissero che di quei miracoli ne succedevano a centinaia, in paese, dove la grappa la mettevano nelle camere d’aria, quelle delle biciclette, se le avvolgevano intorno alla pancia e andavano nei paesi vicini a venderla». Piccioli Cappelli con la grappa ha visto crescere Villongo e un po’ ci è cresciuto anche

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lui: «Farla è un’arte e come tutte le arti si tramanda. Non è che ci fai i soldi. Da un quintale di vino va bene se ti saltano fuori 10 litri di grappa. Serviva per arrotondare e sbarcare il lunario». Distillare grappa in casa oggi è reato. Il decreto legislativo 504 del 1995 prevede «una pena fino a 3 anni di carcere e multe non inferiori a 15 milioni di lire». L’ agricoltura ha messo il turbo In un’Italia dall’economia ferma, c’è un settore che ha messo il turbo. È l’agricoltura, che nel primo trimestre 2008 è cresciuta del 6,9% rispetto ai tre mesi precedenti, mentre l’ industria ha registrato un aumento dello 0,6% soltanto e i servizi un misero 0,2%. A confermare la performance del settore primario sono arrivati i dati preliminari Istat. Tiene botta solo l’agricoltura, che conferma la crescita del suo valore aggiunto e, dopo anni duri, ha ritrovato la forma. Ma qual è il segreto? «Negli ultimi anni è cambiato l’ imprenditore agricolo, che ha capito di doversi occupare anche di trasformazione e commercializzazione», è il parere di Federico Secchioni. Per il presidente di Confagricoltura, il cambiamento è avvenuto soprattutto nei settori vitivinicolo, lattiero-caseario, e orto-frutta. La «svolta» dell’imprenditore agricolo è stata analizzata anche da una recente indagine del Censis. In Italia, dice il Centro studi investimenti sociali, esiste un nucleo vitale di imprenditori che sta proiettando in avanti l’ agricoltura e che costituisce una «minoranza trainante» portatrice di una cultura moderna del fare azienda. Innovazione, orientamento al mercato e ottimizzazione dei fattori produttivi e dell’organizzazione sono gli ingredienti necessari per essere un agricoltore moderno. Il Censis ha individuato cinque protagonisti di questa nuova fase: tra questi c’ è anche la nota azienda vitivinicola Castello Banfi. Anche Coldiretti ha la sua classifica di agricoltori «top», selezionati dalla sezione giovani. Il concorso si chiama «Oscar Green» e premia le esperienze migliori di innovazione. Tra i vincitori di quest’anno Roberta Creta di Pietravairano (Caserta) è stata premiata per aver creato prodotti innovativi come la gelatina di vino Aglianico. Secondo i dati di Coldiretti, l’agricoltura italiana ha conquistato due leadership europee: del biologico, con quasi 50 mila imprese e oltre un milione di ettari, e dei prodotti tipici con 171 prodotti a denominazione o indicazione di origine protetta riconosciuti dall’ Unione europea. Senza dimenticare il ruolo di primissimo piano in campo enologico, con 487 vini a denominazione di origine controllata (Doc), controllata e garantita (Docg) e a indicazione geografica tipica (Igt). I racconti viaggiano sulla bottiglia di vino Un buon bicchiere e un buon libro. 4.000 battute possono bastare per mostrare la propria abilità di scrittore, come basterà una bottiglia per far circolare in modo insolito, come una comune controetichetta, il breve testo. Si tratta del concorso letterario che vede unite Librerie Feltrinelli e cantine Santa Margherita (proprietà Marzotto) in un progetto divertente che promuove la cultura del leggere e quella del vino. I racconti dovranno essere inviati per posta o via internet per essere giudicati da una giuria di esperti. Tutte le indicazioni su www.lettiinunsorso.it o su www.santamargherita.com nella sezione “Letti in un sorso”.


Degustazioni

Cortona, la sfida del nuovo di Lorenzo Giuliani ortona, incastonata nella parte sud-est della Toscana, è di origine antichissima, tappa obbligata della civiltà etrusca sulla direttrice ChiusiBologna e si può fondatamente ritenere che la coltivazione della vite e la produzione del vino abbiano avuto già a quei tempi un ruolo importante. Da un passo della “Naturalis Historia “ di Plinio il Vecchio (23-79 a.C.) nelle campagne Aretine e Cortonesi sono coltivate numerose varietà di viti di cui tre citate (“Arretio talpona et etesiaca et consemina…”). Notevole importanza , anche come documento di tecnica enologica, rivestono i palmenti romani ritrovati in

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questo territorio “municipia di Cortona” che servivano per la pigiatura (calcatio pedibus) in muratura e monoliti, di maggiore capacità lavorativa i primi, e quindi, presumibilmente destinati ad un impiego a carattere industriale. I due tipi sono stati palmenti per uve bianche e per uve nere. L’origine geologica dei terreni del comprensorio di Cortona è riconducibile a periodi del Miocene inferiore, del Pliocene superiore e del Miocene. Dal punto di vista litologico, il territorio è caratterizzato da arenarie marne e scisti, con presenza di depositi fluvio-lacustri, di argille di detriti di falda.


L Degustazione nel chiostro di Sant'Agostino

L Cortona. Le antiche mura della città si confondono nella fitta vegetazione

Tipicamente idonee alla coltivazione della vite sono le zone degli antichi terrazzi fluviali ed alluvionali nonché quelle di raccordo fra le aree di sommità ed i siti pianeggianti. In tale assieme, i terreni, generalmente poco calcarei, presentano un ottimo equilibrio rispetto alle frazioni granulometriche costituite da argille, limo, sabbie grosse e fini. Per noi sommeliers aretini vivere gli avvenimenti che si sono succeduti in questi ultimi quindici anni nel territorio cortonese ci riempie di gioia e di orgoglio per i risultati raggiunti, dai nostri produttori, nella qualità dei vini con conseguenti riconoscimenti da intenditori e critica; come non ricordare i primi anni Novanta, quando imprenditori illuminati, con consulenza di eminenti personaggi del settore, tentavano le prime sperimentazioni con vitigni alloctoni, sfruttando la presenza di un gran numero di viti di trebbiano innestandoci (per accelerare i tempi esperienziali) vitigni di Gamey o Sirah (Fratelli D’Alessandro dell’allora fattoria di Manzano), oppure a metà degli anni Novanta la caparbietà di alcuni personaggi nel cercare di fare gruppo e progetto tra i vari produttori o aziende (Professor Domenico Petracca preside dell’Istituto Agrario Vegni, sommelier prematuramente scomparso, artefice con altri produttori del disciplinare Doc Cortona). E infine l’arrivo di aziende di grande prestigio nazionale e internazionale sanciscono la vocazione e la potenzialità di questo territorio per generare vini unici nel carattere delle più svariate tipologie, con capacità di enfatizzare le aspettative del più poliedrico gourmet. Oggi come ieri (Vin Santo Occhio di Pernice Avignonesi) la ricerca del nuovo, la sfida del voler andare oltre è rappresentata da numerosi produttori. Tra questi Riccardo Baracchi dopo il successo nell’Hotellerie (Relais Chateau

Il Falconiere) anche produttore di vini, ci parla delle sue sfide sulle tipologie di prodotto tradizionale del territorio e su quello innovativo. “Al di là dei prodotti che stanno dandoci grandi soddisfazioni in Italia e all’estero, parlo del Cortona Doc sangiovese ‘Smeriglio’, del Cortona Doc Merlot ‘Smeriglio’ e dell’Igt Ardito, abbiamo due ‘vezzi’, uno già rodato, Astore, voluto con caparbietà, perché abbiamo sempre pensato che si può fare un grande trebbiano anche qui a Cortona, naturalmente con tanta cura in vigna, un’assistenza continua che prosegue durante la fermentazione macerazione (8-10 gg) fino ad ottenere un vino di grande equilibrio e nerbo. L’altro l’abbiamo assaggiato con molti amici, uno spumante con rifermentazione in bottiglia a base di Sangiovese di un rosato acceso di grande luminosità, profumi freschi, aromi compositi eleganti, sapori marcati, volu- L Riccardo, Silvia minosi. Ne siamo contenti”. e Benedetto Baracchi L’intervista scivola poi su temi cari ai sommeliers, quelli relativi alla divulgazione e al loro ruolo nel mondo enologico. “Dico solo che in famiglia siamo in tre ad aver fatto i corsi: Silvia, mia moglie, Benedetto, mio figlio ed io. Come produttore penso che l’Ais debba interpretare e suggerire le tendenze di gusto, cosa che accade puntualmente da qualche anno a questa parte. Mi piace anche la sfida di questa Ais per la costituzione dell’associazione internazionale (Wsa) dimostrazione di dinamismo e intraprendenza sulla comunicazione di uno stile tutto italiano”.

Consorzio di Tutela dei Vini a Denominazione d'Origine Controllata Cortona Via Guelfa, 40 – 52044 Cortona (AR) Tel. 0575 603793 cortonavini@cortonavini.it 53


Degustazioni

Azienda Baracchi Riccardo Igt Toscana “Ardito” 2005 La cittadina di Cortona si rispecchia nelle vetrate dell’antica limonaia dependance della villa seicentesca, oggi adibita a ristorante, che fanno un tuttuno con i vigneti circostanti. Terreni da sempre vocati per viti e olivi, di natura sabbiosa su un sottostrato di marna arenaria (bisciaio). Le singole uve vengono fermentate e fatte macerare per 24 giorni in barrique esauste senza controllo di temperatura, successivamente assemblate in tino di acciaio e travasate in barriques per una sosta di circa due anni con sosta in bottiglia per altri 12 mesi. Uvaggio: Syrah 50% , Cabernet 50%. Colore rosso rubino con riflessi porpora intenso con una ottima trama. Consistente all’olfatto, è intenso e complesso con sentori fruttati di confettura di mirtillo e mora, seguono note e speziati di tostatura, vaniglia, pepe nero. Si evolve poi in un balsamico con note minerali, grigliate e vegetali, scia finale di incenso. In bocca è pieno e di grande struttura e potenza con tannino di pregevole nobiltà. Nel finale il frutto lascia spazio a vena vegetale-balsamica .

Giannoni Fabbri Doc Cortona Cabernet Sauvignon 2004 A sud di Cortona ad altitudine variabile 280/400 metri sul livello del mare con ottimale luminosità e ventilazione i vigneti a densità di 5500 viti/ha sono posti su terreni prevalentemente sabbiosi con scheletro di rocce arenarie. Colore rosso rubino intenso di buona limpidezza e consistente. All’olfatto è fruttato e floreale con sentori di mora, ribes nero, ciliegia matura, si smorza in uno speziato di vaniglia e pepe con scia vegetale. Al gusto è pieno con una buona struttura, avvolgenza calorica ben smorzata da tannino fine rafforzato da una freschezza acida ben manifesta con finale sapido. Il finale di buona persistenza è però caratterizzato da note sapido amaricanti.

Giannoni Fabbri Doc Cortona Syrah “amato” 2007 Colore rosso rubino con riflessi porpora profondo e impenetrabile con una ottima consistenza. Al profumo ricordi di frutta rossa e nera macerata, su cui si riscontra nota tostata ed eterea. Al gusto è potente con una forza delle componenti morbide non perfettamente contrapposte dalle dure; i tannini seppur esuberanti sono levigati. Il finale è fruttato con bocca disidratata.

Giannoni Fabbri Cortona Vin Santo “Trebbiano Toscano” 2002 Colore giallo ambrato, consistente. Olfattivamente fruttato di noci erbe macerate in alcol, agrumato di buccia d’arancio essiccata, biscotteria caramellata. In bocca manifesta giusta dolcezza, contenuta la vena acetale che compositamente concorre ad un gradevole bilanciamento di componenti. Lunga PAI, finale di dolce e sapido alternato dalla frequenza della nostra suzione.

Faralli Juri Doc Cortona Sangiovese “Novantadieci” 2004 Da Cortona in direzione Montepulciano ad altitudine 300 m.s.l.m su terreno di medio impasto con inclinazione tufacea e microclima regolato dai laghi limitrofi si ottengono uve che vinificano in tini di acciaio inox (fermentazione/macerazione 15 giorni). Affinamento 6 mesi in bottiglia. Uvaggio: Sangiovese 90%, Merlot 10%, Colore rosso granato intenso e consistente. All’olfatto è intenso e nettamente fruttato con sfumature di prugna ciliegia marasca e mora di rovo; leggera spezia di liquirizia e chiodo di garofano e minerale tostate Al gusto è equilibrato con una gradevolezza denotata da componente acido-sapida ben contrapposta alle sostanze morbide con un tannino interessante. Il finale con una buona sapidità e un tannino vivo. 54


Istituto Agrario Vegni Doc Cortona Merlot 2004 L’Istituto, scuola superiore di Agricoltura Istituto Agrario “Vegni” in località Centoia produce i suoi vini da vigneti su terreno prettamente argilloso con viti a cordone speronato, affinamento in grandi botti di rovere e successivo passaggio in barriques. Colore rosso rubino intenso con una buona trama e profondità. Al profumo è fruttato di piccoli frutti di bosco e confettura di ciliegia, spezie dolci con note di vaniglia. Al gusto è morbido con sensazione calorica contrapposta ad un tannino dolce ed evoluto. Il finale è asciutto con note fruttate evolute.

Istituto Agrario Vegni Doc Cortona Sangiovese 2004 Colore rosso granato limpido e buona vivacità . All’olfatto denota una complessità delicata con frutto evidenziato in riconoscimenti di lampone, ribes e susina con sfumatura di violetta e cardamomo. Chiude olfattivamente con una leggera nota speziata di liquirizia. In bocca si mostra pieno con buon equilibrio e un’appagante sapidità. Chiusura con bocca fruttata e asciutta.

Azienda Mezzetti Stefania Doc Cortona merlot “Selvans” 2005 Al confine del comune di Cortona in un ambiente regolato dalle brezze del lago Trasimeno su un terreno alluvionale profondo e fresco, l’alloctono portabandiera del Pomerol da un vino che fermenta in acciaio e affina 18 mesi in barriques. Colore rosso rubino profondo e consistente. All’olfatto è intenso con buona complessità fruttata, floreale e speziato, con una netta franchezza di profumi che ricordano la ciliegia matura e piccoli frutti neri, geranio e spezie dolci; balsamico di mentolato ed eucalipto. Al gusto è pieno di suadente e manifesta morbidezza, equilibrato con buona interazione sapido tannica. Il finale è lungo ed interessante riproponendo le sensazioni olfattive e soporifere.

Avignonesi Doc Cortona Merlot “Desiderio” 2005 Nei pressi di Cortona tra le colline del Chiuso della Valdichiana sorge l’ottocentesca fattoria Le Capezzine nelle cui cantine vinificano e affinano i vini dell’azienda. Questo vino è ottenuto da Merlot 85% e Cabernet Sauvignon 15%, con viti allevate a cordone speronato ed alberello su terreno di medio impasto tendente all’argilloso. Affina per 18 mesi in barriques e nove mesi in bottiglia. Colore rosso rubino intenso con riflessi porpora con una ricca pigmentazione di buona vivezza. Al profumo spicca un bouquet armonioso di pregevole finezza, pourriture di fioriture rosse di campo che ritorna frutti di bosco spezie e nota di rabarbaro, biscotteria e tabacco. Finale piccante di pepe bianco. Al gusto si mostra pieno con una esuberanza calorica ed avvolgenza polialcoli che smorzano un tannino abbondante e di setosità ancora un po’ increspata. Finale di lunga persistenza e di appagante saporosità.

Fattoria Il Castagno Doc Cortona Syrah 2006 Nel circondario di Cortona su un terreno con prevalenza di galestro con viti tenute a cordone speronato con densità di 5000 viti/ha, matura in carati di rovere Allier per 12 mesi e 6 mesi in bottiglia questo vino da Syrah. Colore rosso rubino con riflessi porpora di buona vivacità e fittezza. Al naso è intenso e complesso con riconoscimenti di frutta (piccoli frutti rossi macerati di fragola, lampone, ribes)e spezie e note di tostatura e finale di tabacco giallo. Al gusto è pieno, caldo con prevalenza di note morbide e sensazione acido-tannica ancora non completamente affinata e un finale di buona PAI ingentilito da piacevole fruttuosità.

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Degustazioni

Tenimenti D’Alessandro Doc Cortona Syrah “Il Bosco” 2005 A pochi chilometri da Cortona in località Manzano su terreno argilloso di medio impasto con vigneti a densità di 7000 viti/ha si è trovato un ambiente ideale per un ottimale adattamento dei vitigni del Rodano. Syrah 100%, affinamento 18 mesi in barriques 1° e 2° passaggio e nove mesi in bottiglia. Alla vista appare di colore rosso rubino vivo. Consistente. Al naso si presenta di appagante complessità e di armonioso effluvio di profumi, un bouquet composto da florealità che riporta a cenni di cioccolato tabacco e un finale speziato di cannella, pepe e un elegante balsamico di anice stellato e miele di castagno. In bocca è di eccellente suadenza, equilibrato, con tannini eleganti e saporiti; l’acidità sorregge e ingentilisce la struttura del vino. Vino di una importante persistenza. Il finale è asciutto con ritorno di frutti e balsamicità.

Tenimenti D’Alessandro Doc Cortona Syrah 2006 Colore rosso porpora con una buona intensità. Al naso è intenso con sfumature floreali e fruttate che ricordano fragola lampone e la viola, nota agrumata che ricorda buccia di cedro. Al gusto è di buon corpo con un buon timbro sapido e tannini non esuberanti con freschezza acida ben marcata. Il tutto è reso elegante da gradevole equilibrio.

Billi Edda Doc Cortona Syrah “Il Fitto” “2006 Sui dossi collinari di natura alluvionale miocenici a sud ovest di Cortona in un ambiente ideale per l’uva principe della Cote Rotie si ottiene il seguente vino: Syrah 100%, affinamento 15 mesi in barriques e 6 mesi in bottiglia. Colore rosso rubino con riflessi porpora intenso. All’olfatto è fruttato e floreale con riconoscimenti di lampone e ribes, nota speziata di pepe. Al gusto è pieno e di corpo, buona sapidità e un tannino ben compattato ancora da evolvere. Il finale di bocca è asciutto e piacevolmente fruttato.

Tenuta la Braccesca Cortona Syrah “ Bramasole” 2003 In un terreno di natura alluvionale calcareo-marnoso in località Pietraia con viti a cordone speronato si ottengono delle uve di Syrah che macerano per circa 15 giorni ad una temperatura non superiore a 30° C. Affinamento di circa 14 mesi in barriques nuove (Alliers e Troncais) e un anno di bottiglia. Colore profondo di un rubino che volge al granato, consistente. Al naso frutti di sottobosco su cui spicca riconoscimento di ribes nero, ritorno di spezie forti, macis, pepe nero e pinoli tostati. Palatale morbido, caldo, compatto con tannini eleganti, saporiti, con azione espansione-contrazione del volume di bocca perfettamente polimerizzati e freschi. Lunga la persistenza e finale amaricante.

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Raccolta 2008

Vendemmia:

Italia batte Francia

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l match enologico tra Italia e Francia nel 2008 è stato vinto dal nostro Paese. La raccolta dell’uva, che ha già preso il via in alcune regioni, segnerà uno storico sorpasso: secondo la Coldiretti, i viticoltori transalpini dovranno fare i conti con la vendemmia più povera dal Duemila a questa parte. Rispetto alla media degli ultimi cinque anni i Francesi registrano un calo di produzione del dieci per cento, mentre in Italia l’incremento è del cinque per cento, pari a 47 milioni di ettolitri di vino. Il primato italiano nel settore vitivinicolo si aggiunge a quello di altri prodotti dell’agricoltura come riso, frutta e ortaggi freschi. Quando si parla di quantità a nostro parere occorre tuttavia non dimenticare la qualità. I dati raccolti nelle ultime settimane dall’Osservatorio sul vino dell’Associazione italiana sommeliers parlano chiaro. La vendemmia 2008 viene definita complessivamente ottima: il settanta per cento della produzione sarà infatti etichettata come Docg (Denominazione di origine controllata e garantita), Doc (Denominazione di origine controllata) che dal primo agosto 2009 per una direttiva dell’Unione europea saran-

I

no Dop (Denominazione di origine protetta) e Igt (Indicazione geografica tipica). Secondo la Coldiretti i due terzi della produzione sono targati Veneto, Emilia-Romagna, Puglia e Sicilia, regioni che hanno avuto condizioni climatiche favorevoli. Intanto l’intero comparto continua a sorridere: nel primo quadrimestre di quest’anno il valore delle esportazioni delle eccellenze italiane è aumentato del dieci per cento. Segno positivo, +2,6 per cento, anche nelle vendite dentro i confini della penisola, dove le famiglie italiane continuano

a preferire le Doc e le Docg nostrane alle “agguerrite” produzioni del Nuovo Mondo, non sempre all’altezza dei gusti raffinati degli enonauti. Mentre in alcune zone la raccolta è cominciata a fine agosto, in altre la vendemmia è stata medio-tardiva: è una tendenza che riguarda soprattutto il Nord Italia dove le premesse sono comunque buone. Insomma, se ci concedete la battuta, l’Italia batte la Francia ai calci di rigore. Ma stavolta non c’entrano né Zidane né Materazzi. (T.M.)

Duemila e p iù cchilometri hilometri di di Gusto Gusto Duemila più


Sommelier nel mondo

italiana a New York Un’

di Daniele Urso

“Q

uando ho ricevuto il diploma di sommelier mi sono detta: ‘Adesso posso finalmente partire per New York’. Avevo pianificato il mio trasferimento da tempo, ma dovevo aspettare il famoso ‘pezzo di carta’ per esercitare la professione. In realtà quel diploma è stato molto di più di un lasciapassare per una carriera professionale: è stato il riconoscimento che anni di studio ed approfondimento, a volte maniacale, premiano e che l’investimento fatto nello scegliere il corso Ais, il più completo, lungo ed impegnativo, ha portato frutti”. Parla con entusiasmo Alessandra Rotondi, apprezzata sommelier nella Grande Mela. Un entusiasmo contagioso, che scaturisce dalla sua passione per il vino e la sommellerie, una passione che riesce a trasmettere ai suoi interlocutori. Cosa fa una Sommelier Ais a New York? Innanzitutto si adegua. Il servizio del vino è molto diverso da come viene insegnato in Italia. I ristoranti con Carte dei Vini sono moltissimi e funzionano tutti. Qui si privilegia la ‘praticità’. Una bottiglia di vino, anche nei ristoranti di etichetta, viene aperta in piedi, senza guéridon, spesso muovendola vistosamente. Il tappo viene lasciato quasi sempre al cliente che sennò reclama. Il bicchiere si riempie di più e diventa difficile degustare tecnicamente. Se viene ordinata la seconda bottiglia di uno stesso vino, si cambiano tutti i bicchieri che devono essere ‘fresh’ cioè puliti. Si tende a decantare molto. Un po’ perché la cerimonia affascina, soprattutto se si usa la candela, ma anche perché il cliente medio considera che un vino con più di 5 anni abbia bisogno di aprirsi e respirare come se fosse un grande rosso da collezione. A livello di cultura del vino, qual è la preparazione del cliente newyorkese? In Italia più o meno tutti abbiamo una buona cultura del vino, se non altro perché tutti abbiamo avuto un padre, uno zio, un nonno con un pezzo di vigna che faceva il vino. Qui invece il vino rappresenta per molti 60

Con Fabio e Vittorio, proprietari di Cognac e Decanter

un argomento tutto da scoprire. Siamo in una città moderna e multietnica, molto lontani dalle aree americane vocate alla viticoltura. L’attenzione viene focalizzata più sui punteggi delle riviste come Wine Spectator o dei vari Robert Parker, che sul vino vero e proprio. Se il punteggio è alto, il vino piace. Non necessariamente si deve sapere di più. Guardiamo l’incredibile successo del Pinot Grigio: qualche decennio fa una famosa azienda italiana ebbe la felice intuizione di spiegare in campagna pubblicitaria che ‘questo bianco viene da uve rosate…’, evocando quasi della magia. Naturalmente, molti sono gli esperti, gli appassionati ed i collezionisti, ed allora il discorso cambia. È emozionante la curiosità che i Newyorkesi hanno verso tutto ciò che non conoscono bene. Poiché ‘può sempre essere utile nella vita’, desiderano sempre saperne di più. Ma le tecniche di vinificazione, le temperature controllate, la malolattica o l’uso di barrique, primo o secondo passaggio, sono argomenti che possono essere trattati solo ed esclusivamente durante seminari e convegni ad hoc. In tale contesto, gli iscritti al seminario, anche se non necessariamente coinvolti nel Wine Business, ascoltano interessati per ore tutto lo scibile sul vino, pagando ingressi molto costosi. Ma in ristorante, al sommelier è richiesta meno tecnica e molta


Alessandra Rotondi con Ivana Trump

Con Marta Marzotto e Sirio Maccioni, proprietario di ''Le Cirque'' di New York

Matrimonio Ivana Trump, menu dei vini

più passione. Deve comunque sapere rispondere al cliente esperto che, soprattutto se riconosce l’origine italiana, adora metterlo alla prova. Personalmente come hai usato il Diploma Ais nel lavoro a New York? Sono Sommelier-Consulente Vini per alcuni ristoranti di Manhattan, tra cui 6 locali del mitico marchio italiano Serafina (carta dei vini prevalentemente nazionale); uno giapponese molto glamour, Geisha, con vini francesi ed internazionali: ed una brasserie, Cognac, di recente apertura, la cui carta vini è al 90% d’oltralpe (a New York ‘i cugini’ dettano spesso legge), con anche 102 etichette di cognac in selezione, motivo di attenzione costante da parte dei media. Oltre a creare le Carte, faccio partecipare il ristorante alle competizioni e lo rappresento; curo i rapporti con le aziende distributrici ed assaggio dalla mattina alla sera. Collaboro con le istituzioni italiane e conduco nei loro eventi degustazioni in cui abbino il vino alla cultura italiana in senso lato, letteratura, poesia, musica, moda. Infine, presento i miei personali ‘Wine Seduction Tasting’ nei locali più esclusivi della città, dove propongo il vino come ‘strumento di seduzione’. Ma di questo parliamo un’altra volta. New York è il simbolo del glamour. Che ruolo ha il vino con “tutto quanto fa spettacolo”? Il vino è indissolubile dall’evento glamour. Ogni giorno, in qualche albergo a 5 stelle c’è una degustazione da costi proibitivi che fa il tutto esaurito. Ma il vino non è la bevanda che viene immediatamente richiesta entrando in un locale. La serie Sex and the City ha promosso molto la moda del drink. La vodka e la birra hanno consumi altissimi. Ma durante una cena, fortunatamente, si pasteggia a vino.

Di cosa sei più orgogliosa come sommelier negli States? L’Ais con la sua incessante attività ha sempre offerto incontri con le aziende e con i produttori. Io non ne ho perso uno. Portavo un vistosissimo apparecchio di ortodonzia, che mi causava spesso un ‘sentore di ferro’ in bocca. Ciò nonostante ero sempre lì, a parlare con tutti ed a prendere biglietti da visita che, dopo tanti anni, avrei riutilizzato a New York. In questa città mi muovo bene e conosco molti personaggi famosi. Ivana Trump, la prima moglie del magnate multimiliardario Donald, mi ha nominato sua Wine Consultant in occasione del suo nuovo matrimonio svoltosi a Palm Beach, Florida, nella tenuta da sogno Mar-a-Lago. Ho preteso di portare solo vino italiano e ho puntato al massimo per avere 2 aziende come sponsor. Ho lavorato da New York ininterrottamente per circa 5 giorni con telefono ed e-mails, chiamando personalmente tutte le aziende conosciute in Italia, per avere 1000 bottiglie di bianco e 1000 di rosso da far arrivare in Florida. È stato emozionante: tutti si ricordavano di me. Alcuni devono aver pensato che fossi pazza, ma da parte di tutti ho ricevuto disponibilità ed interesse e, soprattutto, ci sono riuscita: il vino italiano, in sponsor è stato bevuto da tutti quei vip i cui nomi riempiono le riviste patinate. Gli sposi volevano anche uno Champagne. Pur non conoscendo personalmente i titolari delle cantine di Champagne ho chiamato direttamente le Maison ed ho fatto loro la stessa proposta. Alla fine sono riuscita ad avere 1300 bottiglie di champagne a metà prezzo. ‘Gli Italiani il vino ce l’hanno nel sangue’ si dice sempre. Nel mio, c’è sempre stato, viste le mie origini di San Gusmè, Chianti Classico. Ora, cerco di farlo scorrere anche tra i Newyorkesi e, parola di Sommelier Ais, ci sto riuscendo! 61


Mappamondo

Dagli alle

Appennini

Ande di Emanuele Lavizzari

NELLA

PROVINCIA

MENDOZA, ARGENTINA,

DI IN

VIENE PRODOTTO UN

MALBEC

CHE PARLA ITALIANO

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el 1502 una spedizione portoghese, di cui fece parte il “nostro” Amerigo Vespucci, scoprì l’estuario del fiume poi battezzato dai conquistadores lusitani Rio da Prata (Rio de la Plata in spagnolo, cioè il “fiume dell’argento”). Quattordici anni più tardi i sopravvissuti a un naufragio, guidati da Juan Díaz de Solís, furono accolti dalle popolazioni indigene che offrirono agli iberici doni in argento. Insomma, l’origine del nome di questo Paese è chiara: non dal portoghese prata né dallo spagnolo plata, ma dal latino argentum. Anzi, dalla nostra lingua direttamente, perché furono proprio gli italiani a coniare il termine Argentina, come dimostra una mappa geografica veneziana del 1536, su cui per la prima volta compare questa indicazione toponomastica. Dalle prime migrazioni di fine Ottocento fino a quelle del secolo scorso, si calcola che circa tre milioni e mezzo di italiani abbiano attraversato l’Atlantico per cercar fortuna laggiù. E oggi su una popolazione di quaranta milioni di abitanti circa venticinque milioni di argentini hanno almeno un antenato di origine italiana. Usi, costumi, tradizioni e persino influenze nello spagnolo parlato in Argentina derivano proprio dal gruppo etnico più numeroso che ha seguito le rotte esplorate cinque secoli fa dai conquistadores salpati dal nostro continente. Se qualcuno pensa che l’emigrazione dal Bel Paese verso l’Argentina si sia interrotta negli anni Cinquanta, dopo il secondo conflitto

N

mondiale, però si sbaglia. C’è stato ancora qualcuno che ci ha provato. Nel 1995 l’enologo toscano Alberto Antonini e Antonio Morescalchi, giovane e intraprendente imprenditore, partirono per un viaggio nel Sud America. Lo scopo? Conoscere le regioni viticole di quell’angolo del mondo. Furono impressionati dalle caratteristiche e dalla personalità del Malbec di Mendoza, provincia centro-occidentale dell’Argentina, forti della certezza di aver trovato ciò che stavano cercando. Organizzarono quindi un secondo viaggio e acquistarono 216 ettari nel dipartimento di Luján de Cuyo. Successivamente alcuni amici di vecchia data, entusiasti dell’idea, si unirono a loro: Attilio Pagli, enolo-


IL VITIGNO DEI DUE MONDI Il Malbec è un vitigno francese, conosciuto anche con il nome di Cot o Auxerrois, caratteristico della zona di Cahors e impiegato anche a Bordeaux come varietà secondaria. Introdotto in Argentina verso la metà del XIX secolo dall’agronomo francese Michel Pouget, ebbe immediatamente una fantastica diffusione in questa regione, raggiungendo un massimo di 50.000 ettari coltivati. La varietà è particolarmente delicata e ha bisogno di condizioni specifiche per esprimersi pienamente. La singolare situazione ambientale, climatica e del suolo della provincia di Mendoza, unita al sistema di coltivazione tradizionale con irrigazione per inondazione, permisero a questo vitigno di salvarsi dall’attacco della filossera e a diffondersi senza necessità di innesti. Il risultato enologico della varietà in Argentina è ben distinto dal suo omologo francese. La sua caratteristica è un intenso color purpureo tendente al violetto con tannini morbidi, dolci e avvolgenti. I sentori più citati sono di ciliegia maraschino, frutta rossa e anice. Ovviamente si presta a essere conservato, anche se uno straordinario gusto lo caratterizza fin da giovane.

go toscano, già socio in altre attività di Antonini; Marco De Grazia, il più autorevole importatore di vini italiani su larga scala; Alan Scerbanenko, consulente svizzero e coordinatore aziendale; Antonio Terni, produttore italoargentino. Così nasce Altos Las Hormigas.

III L’ATTIVITÀ L’Argentina è il quinto produttore mondiale di vino, superata nel Nuovo Mondo solo dagli Stati Uniti. Ma all’origine di quest’avventura la sua realtà enologica era sconosciuta a molti, perché tradizionalmente orientata al consumo interno ai confini nazionali.. La provincia di Mendoza è la prima del Paese per la produzione di vino. Il capoluogo, che dà il nome all’intera area amministrativa, è situato ai piedi delle Ande, non molto distante dalla vetta più alta della Cordigliera: il mas-

Il Malbec di Mendoza

siccio dell’Aconcagua, che sfiora i 7.000 metri di altitudine e colloca la catena andina al secondo posto sul pianeta dietro solo all’Himalaya. La provincia ha circa un milione e mezzo di abitanti dei quali 700 mila nell’area urbana del capoluogo. La regione è desertica e semidesertica con terreno di origine alluvionale. Già gli aborigeni coltivavano utilizzando l’acqua dei fiumi Mendoza e Tunuyán e furono i coloni europei a sviluppare nel corso degli anni un imponente sistema di irrigazione che permette a quest’area di essere una delle principali dell’America Latina per la coltivazione di frutta e ortaggi oltre naturalmente alla vite. La zona gode di caratteristiche climatiche caratterizzate da temperature diurne calde e notti molto fresche e la presenza di acqua per l’irrigazione proveniente dai disgeli andini. Altos Las Hormigas domina il dipartimento di Luján de Cuyo, su un pendio con un’altitudine media di 800 metri, in una zona semidesertica posta innanzi alla Cordigliera, protetta verso est da un rilievo minore. Si estende su 225 ettari, di cui 40 a vite. L’unica I vigneti di Malbec e sullo sfondo le vette andine 63


Mappamondo I vigneti di Altos Las Hormigas

I colori dell'autunno e sullo sfondo la cantina

varietà che si coltiva è il Malbec, con una densità di oltre 4.000 piante per ettaro. Al centro della tenuta c’è la cantina. Costruita nel 2001, occupa duemila metri quadrati e può ospitare fino a 16.000 ettolitri oltre a un migliaio di ettolitri in botti di rovere francese. La struttura è stata edificata integrandola al paesaggio e rispettando la tradizione architettonica locale. Al suo interno si sono create le condizioni tecniche ottimali di isolamento termico, igiene e qualità del processo produttivo. Sobrietà e funzionalità sono stati i criteri di riferimento per ogni progetto. «La nostra missione – affermano i nostri connazionali – è costruire qualità attraverso un lavoro paziente. A Mendoza abbiamo trovato il posto che cercavamo, un ambiente dove i valori tradizionali del vino possono essere rafforzati con un approccio moderno per giungere a un prodotto singolare e contemporaneo. Crediamo che il nostro compito qui sia di continuare a costruire, mentre questo terroir risponde al nostro lavoro e lo ricompensa con le sue bellezze». “Un lavoro da formica” si dice da queste parti, ma è un’immagine che non

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lascia adito a fraintendimenti, un’idea che esprime un’opera lunga e impegnativa, condotta con dedizione e pazienza. Perciò la formica è diventata il simbolo e l’amuleto portafortuna di questa cantina. «Lavoriamo con grande orgoglio – hanno aggiunto – ma siamo coscienti di dover mantenere una mentalità aperta, quanto basta per restare umili e sempre disposti a imparare nuove lezioni. È il segreto per crescere come persone e come produttori». Altos Las Hormigas rappresenta l’esplorazione di antiche e nuove metodologie per produrre il vino. Si studia la tradizione con la finalità di innovare. Il metodo di lavoro è il continuo sforzo di affiancare attenzione e applicazione dell’artigiano italiano del Seicento alla conoscenza cosmopolita delle tecniche e alle scoperte del progresso tecnologico e scientifico. Tutto questo per ottenere un vino che esprima purezza, intensità, freschezza e autenticità del Malbec di Mendoza. «Pensiamo che il vino sia prodotto in parte dalla ricchezza della natura e dall’altra dal talento dell’uomo. In fondo, il frutto delle nostre fatiche può veramente rappresentare un esempio di armonia tra l’uomo e la natura».


LA VENDEMMIA DELLE MISS In Argentina la Fiesta Nacional de la Vendimia si svolge ogni anno la prima settimana di marzo a Mendoza, capoluogo della Provincia che porta il suo nome. L’evento rappresenta la principale ricorrenza del Paese in onore al vino. È costituita da una serie di manifestazioni congiunte che si tengono in ognuno dei 18 dipartimenti che formano questa provincia durante i mesi di gennaio e febbraio per culminare nella grande festa nazionale di inizio marzo. Ogni dipartimento durante la propria festa elegge una reina, la regina locale che poi competerà per il trono nella finalissima. La sera che precede il primo sabato di marzo ha luogo la Vía Blanca de las Reinas, una sfilata per le strade di Mendoza, in cui ogni dipartimento presenta il proprio carro allegorico decorato con motivi legati alla vendemmia, al paesaggio e alle particolarità della zona. I cortei sono l’occasione per far conoscere la bellezza di tutte le “regine”, aspiranti alla conquista dello scettro nazionale. L’appuntamento centrale del sabato sera si svolge nell’anfiteatro Frank Romero Day e rappresenta la principale attrazione della festa. Ogni anno viene offerta una fantastica esibizione artistica di danze, luci e suoni con centinaia di attori e ballerini. Lo spunto è sempre dato dalla vendemmia e dal vino e nel corso degli eventi si rende omaggio alla Virgen de la Carrodilla, protettrice dei vigneti. Le celebrazioni si chiudono con l’elezione della Reina Nacional de la Vendimia (la Regina Nazionale della Vendemmia), incoronata dalla miss uscente, e con un grande spettacolo pirotecnico a ritmo di musica.

L La ''Reina 2008'', Florencia Moreno Tous del dipartimento di Tupungato

CASA VINICOLA MEROTTO snc via Scandolera, 21 - 31010 Col San Martino (TV) tel. +39 0438 989000 fax +39 0438 989800 e-mail: merotto@merotto.it internet: www.merotto.it


Concorsi L Nicoletta Gargiulo premiata da Franco Ziliani

L I tre finalisti della passata edizione: Cristiano Cini, Nicoletta Gargiulo e Nicola Bonera

itorna anche in questa stagione un appuntamento ormai tradizionale: l’edizione 2008 del Concorso Miglior Sommelier d’Italia al cui vincitore verrà assegnato il Trofeo Guido Berlucchi, accompagnato da un concreto e sostanzioso premio, previsto anche per gli altri due finalisti. Più volte nel corso delle passate edizioni l’Ais e la Berlucchi hanno sottolineato i comuni obiettivi: diffondere e ampliare la cultura e le conoscenze di enologia, migliorando le capacità di chi si dedica professionalmente all’attività di sommelier, perché possa diventare il tramite, sempre più autorevole, tra il mondo della produzione e gli amanti del buon bere. L’azienda franciacortina, che mette a disposizione i propri prodotti durante le prove, con l’assegnazione dei premi ai migliori classificati contribuisce alla loro crescita professionale e dunque all’integrazione tra chi produce il vino, chi lo serve e chi lo consuma. Certo non è facile aggiudicarsi il concorso, perché sono necessari volontà, studio e approfondimento di conoscenze e nozioni inerenti la realtà che appassiona ogni sommelier professionista e che lo vede impegnato quotidianamente. Ma indubbiamente costituisce un’occasione unica per ampliare la propria tecnica e le proprie competenze. La vittoria del titolo deriva da un grande impegno e rappresenta un’affermazione prestigiosa, ma di certo sarà utile e qualificante per la carriera futura del sommelier, oltre a rappresentare una conferma di autorevolezza e autostima e un’indiscussa vetrina con un’enorme visibilità in patria e all’estero. Le prove di selezione hanno definito i migliori sommeliers che daranno spettacolo nell’edizione 2008. La finalissima è prevista per sabato 18 ottobre presso l’auditorium dell’ex Monastero dei Benedettini a Catania, sede del 42.mo Congresso Nazionale Ais. «Il Trofeo Guido Berlucchi - Miglior Sommelier d’Italia è un premio importantissimo che apre al vincitore le porte al successo professionale in Italia e nel mondo» spiega il presidente nazionale, Terenzio Medri. «Un titolo che ha sempre portato fortuna a chi se l’è aggiudicato e che dimostra, rendendoci orgogliosi, l’elevato livello di preparazione di tanti sommeliers che escono dai nostri corsi. A tutti i partecipanti al concorso non posso che indirizzare il mio più caloroso incoraggiamento!».

R Trofeo Guido Berlucchi 2008: tutti ai nastri di partenza

Nicoletta Gargiulo, Miglior Sommelier d'Italia 2007, con il presidente Medri 66


L’enoteca

Il gusto di regalare

vino

di Luisa Barbieri

LA

STORIA DELLA

FAMIGLIA

LONGO

CHE

DA UNA SEMPLICE RIVENDITA HA CREATO UNA VETRINA DI ECCELLENZE DELL’ENOGASTRONOMIA

ITALIANA.

UN’ATTIVITÀ

CHE PRESTO VARCHERÀ I NOSTRI CONFINI L Da sinistra Paola, Osvaldo e Giovanni Longo

apà Longo mai avrebbe immaginato che quella rivendita di vini a San Giorgio su Legnano che aveva aperto 40 anni fa, quando dalla Puglia arrivò in Lombardia, sarebbe stata fonte di una fortuna incalcolabile, quella che i suoi tre figli, Osvaldo, Paola e Giovanni hanno saputo mettere a frutto, intuendo che il futuro risiedeva nel vino di qualità. E così, da un semplice negozietto di vini pugliesi e piemontesi, passo passo, prima con un locale in corso Magenta, a Legnano, inaugurato nel 1983, poi, due anni e mezzo fa, con quello definitivo, in via XXV aprile 3|A, ecco nascere una delle enoteche più prestigiose d’Italia, l’Enoteca Longo, premiata nel 2000 sia con il Premio internazionale del vino

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dell’Associazione Italiana Sommelier, sia col Leccio d’Oro del Consorzio del Brunello di Montancino. Un posto accogliente, due locali per un totale di 100 metri quadri, dove si degusta solo in occasioni particolari, quando qualche produttore chiede di presentare qui le sue chicche. Già, perché l’idea è quella di dedicarsi esclusivamente alla vendita di bottiglie di qualità, italiane e straniere. “Il senso - dice Osvaldo, 49 anni, dei tre figli, quello che si occupa di comunicazione - è di vivere questo locale come negozio, come fu per mio padre, certo con l’eleganza e la sobrietà che un’offerta di livello inevitabilmente regala. Non è una falsa cantina, prosegue, né una gioielleria, ma un luogo dove proporre il meglio, andando incontro al cliente di oggi, quasi sem-

pre molto sicuro riguardo a ciò che vuole”. La gamma va dai 6-7 euro, queste sono le prime bottiglie che si vedono dalla vetrina sulla strada, per arrivare a prezzi vertiginosi che riguardano le bollicine più esclusive. Tutto, volendo, da associare a prodotti gastronomici altrettanto ben selezionati, come paste sopraffine tipo quelle in arrivo dal pastificio pugliese Morelli o da quello di Torre Annunziata, il Separo, l’unico rimasto su quel territorio, caratterizzato da lavorazioni artigianali che puntano su una essiccazione della pasta lentissima. Ed ecco poi specialità alimentari sott’olio, con carciofini e cicoriette selvatiche e pomodorini essiccati. Splendidi gli extra vergine di oliva, in arrivo da Toscana, Umbria, Sicilia e


Lago di Garda, da far assaggiare con un tester, una grossa oliva d’acciaio che porta il prodotto alla temperatura giusta, dotata di un’apertura superiore dove introdurre l’olio e di un beccuccio per versarlo. Da segnalare, fra queste meraviglie, il Pianogrillo e il Chiaramonte Gulfi, nati dagli uliveti della provincia di Ragusa. E poi i mieli, le confetture di Moreno Cedroni e i suoi sughi confezionati: arrabbiate o amatriciane di pesce. Tutti prodotti selezionati da Giovanni; a Paola, la regina del locale, perfetta sommelier, il compito di presentare queste delizie, associando vini meravigliosi. Subito pronti per essere degustati grazie al chiller, l’adattatore di temperatura che in 5 minuti porta spumanti, champagnes, bianchi e rosati alla temperatura giusta. Tra le molte proposte, la sottolineatura va comunque a certe nuove produzioni, sfide su cui la famiglia Longo punta molto. Parliamo del Solus di Pianirossi, in Maremma, o del Sapaio di Bolgheri. Prezzi contenuti, la media è del 10% in meno rispetto al prezzo di listino, diventano possibili grazie agli introiti garantiti dall’azienda di regalistica dei Longo: 5 mila metri quadri, nella zona industriale, con 120 persone

che lavorano su tre turni per produrre confezioni belle esteticamente, fatte con le delizie esposte in enoteca e dotate di vademecum per capire cosa si degusta, imparando. 34 mila circa le spedizioni annue in Italia e nel mondo, con offerte da catalogo che vanno dai 12 euro per tre stecche di torrone, morbido, alla mandorla e siciliano, agli 800 euro del foie gras associato a champagnes e altre magnifiche squisitezze. Un vero successo, nel settore: l’azienda è la prima in Italia, e rappresenta un modello per tutto il mondo. Ed ecco affacciarsi l’ultima ambizione… “Oggi il sogno - dice Osvaldo - è quello realizzare oltreconfine, in Germania, Olanda e Belgio la nostra attività, ispirati da una semplice filosofia: esportare il gusto del regalo, facendo conoscere ovunque l’eccel-

lenza dei prodotti italiani. Presto ci misureremo con questa nuova avventura”. Intanto, tutto quel che fino ad oggi li rappresenta, i fratelli Longo hanno deciso di pubblicizzarlo sul loro sito. Preziosi suggerimenti arrivano anche nella guida che curano personalmente, Fuoricasello, consultabile anche via Internet: 370 locali dove mangiare bene, a 5 minuti dai caselli autostradali. Indicazioni di cui fidarsi ciecamente, raccolte da gente che in quei locali ci lavora o ci ha lavorato. Loro, anche l’idea di dar vita a eventi speciali di gran lustro: splendida la serata, raccontata nel link Album dei Ricordi del sito dell’enoteca, organizzata nel settembre 2006 all’hotel Four Season di Milano dove un migliaio di clienti ha potuto assaporare le delizie di quattro Chef Restaurateur preparate sotto i loro occhi in quattro diversi angoli del ristorante, degustando 200 bottiglie di Franciacorta. E ancora a Roma, tre anni fa: una serata simile, questa volta all’Hilton. Tutto col benestare di papà. A lui si deve l’originaria passione per le bollicine, trasmessa, assimilata ed elaborata. E se i risultati sono questi, speriamo che i fratelli Longo proseguano così, di generazione in generazione… 69


Fumenogastronomia

Dalla terra al bicchiere davanti a un puff di Fabrizio Franchi ubblicazioni, guide, rubriche televisive, corsi e sempre tanto più viene fatto per comunicare un cibo o un vino (che sempre di cibo trattasi), le sue tecniche di preparazione e soprattutto gli abbinamenti possibili. La platea a cui mi rivolgo conosce a pieno questi aspetti ed è sempre più sensibile a questo argomento tanto che “Tecniche di abbinamento cibo-vino” viene proposto come materia del corso di sommelier nel terzo livello; poter fornire all’aspirante sommelier la formazione e la conoscenza per valutare le caratteristiche di ogni alimento e quelle del vino da proporre in abbinamento sono ormai regole indiscutibili. Se alla magica fusione di “eno” e “gastronomia” anteponiamo la parola “fumo” prende origine la “fumenogastronomia”: arte e scienza di preparare i cibi più raffinati ed accompagnarli con il vino più adeguato lasciando il finale ad un sigaro che sia in grado di esaltare il tutto. E’ ovvio che non mi riferisco ad un sigaro qualsiasi, del quale non si conosce bene la composizione del ripieno o filler, ma del sigaro Toscano. Il nostro sigaro è “monocultivar” (solo linea di tabacco Kentucky utilizzata per la produzione, dalla fascia esterna al ripieno), “naturale” (nella composizione del sigaro Toscano non sono presenti elementi diversi dalla materia prima utilizzata) e risponde a tutti i requisiti della tracciabilità. Caratteristiche che fanno di questo sigaro un autentico fuori classe capace di seguire passo dopo passo il per-

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corso del vino, dalla terra al bicchiere. Ecco solo alcuni passaggi che accomunano vino e sigaro Toscano. TERROIR E CLIMA Regioni italiane più vocate alla produzione vinicola che vantano numerose denominazioni di vini di qualità rappresentano i migliori terroir e clima ideale anche per la coltivazione del tabacco Kentucky, la materia prima del sigaro Toscano. A partire dal nord con il Veneto (Recioto di Soave e Amarone sono abbinamenti insostituibili al sigaro Toscano Classico e all’Antico Toscano), al centro con la Toscana (Vin Santo del Chianti Classico, Brunello di Montalcino e Nobile di Montepulciano che adorano il sigaro Toscano Extravecchio) e l’Umbria (dal Muffato della Sala al Torgiano rosso Riserva al bianco Cervaro della Sala davanti al Toscano Antica Riserva) fino a sud col territorio campano (Aglianico e Taburno da non perdere davanti al sigaro Antico Toscano e per i palati più soft davanti ad un sigaro Toscano Garibaldi o Toscano Soldati). SELEZIONE DELLA MATERIA PRIMA Le fasi di evoluzione naturale della pianta, i cosiddetti fattori biologici perché legati alla terra e clima, sono estremamente importanti perché determinano la formazione del carattere di un vino ma anche del sigaro. Per evitare le componenti che possono incidere negativamente nell’analisi gustativa si deve procedere subito all’eliminazione del troppo verde, cioè tutte quelle componenti legnose che rilascerebbero in entrambi i casi un eccessivo amaro in bocca. Così come i raspi vengono tolti dall’uva attraverso la macchina diraspatrice, nel tabacco


I NUOVI SEMINARI E CORSI SUL TOSCANO “Conoscere il sigaro Toscano” è il titolo del nuovo programma di emozionanti appuntamenti proposti dal Club Amici del Toscano su richiesta di ristoranti, enoteche, alberghi, associazioni culturali e tabaccherie per chiarire i mille dubbi che attanagliano gli appassionati del sigaro Toscano Durante gli incontri saranno illustrati i percorsi dalla coltivazione del tabacco alla produzione del sigaro e dalla conservazione alla degustazione con analisi organolettica e sensoriale. Verranno messi a disposizione per la degustazione accendini e tagliasigari oltre a due tipologie di

sigari Toscano per l’abbinamento con i più prestigiosi vini, vini da meditazione e distillati italiani selezionati dal Fumenogastronomo in collaborazione con l’Associazione Italiana Sommelier. Non solo l’abc del sigaro Toscano, quindi, ma anche le basi fondamentali di un’autentica cultura materiale fumenogastronomica. Un’opportunità in più con tante sorprese per i gestori di importanti ristoranti, enoteche, alberghi, tabaccherie ecc. che vogliono mostrare il loro locale al Club Amici del Toscano. Gli incontri saranno guidati dal

viene eseguita un’operazione molto simile con la scostolatura. Il risultato è il lembo fogliare diviso in due, lembo destro e sinistro, che saranno pronti ad entrare nelle mani delle sigaraie e fasciare il sigaro Toscano. LA MIGLIORE ANNATA Settembre e ottobre sono mesi che possono offrire grandi emozioni per chi si trova a passare nelle aree ad alta vocazione tabacchicola e quindi vinicola (vedi sopra). Ancora oggi è possibile vedere trattori con rimorchi carichi di ceste di uva e tabacco. Quindi stessi tempi di raccolta e quel che conta è il momento giusto. Con la raccolta dell’uva ci sono più variabili visto che gli obbiettivi da raggiungere sono diversi. Se si vuol fare un vino rosso, magari più alcolico, si deve vendemmiare in ritardo, lasciando che si accumuli una buona quantità di zuccheri. Con il tabacco Kentucky non si scherza: va raccolto con molta attenzione, evitando rotture perché l’integrità è il primo requisito se vogliamo ricavare da queste foglie una buona fascia. UTILIZZO DEL LEGNO Toscano barricato? Certo! Chi pensa però che il nostro sigaro acquisisca profumi, speziature e bouquet con l’in-

fumenogastronomo Fabrizio Franchi, esperienza quasi ventennale nel settore del tabacco e sommelier professionista che rilascerà attestati di partecipazione personalizzati e spillette tricolori a forma di sigaro Toscano. Per richiedere appuntamenti di degustazione col Fumenogastronomo occorrono minimo 25 partecipanti e & 18,00 di quota di partecipazione. Per ulteriori informazioni contattare numero verde tel. 800.853335 oppure scrivete a info@fumenogastronomo.it.

vecchiamento nell’humidor o magari in barrique, ovviamente si sbaglia. Prima di trasformarsi in sigaro Toscano il tabacco viene “tostato” con legno pregiato e aromatico (faggio, leccio o quercia) per trasmettere quelle caratteristiche uniche di qualità che si riscontrano poi nel colore, nell’aspetto olfattivo, tattile e gustativo del nostro sigaro italiano. L’utilizzo di legno e tostature per il vino è ben noto anche se ultimamente l’utilizzo della barrique sembra essere destinato ormai solo a quei vini di serie A (le produzioni Doc e Docg) perché è stato autorizzato anche nel Vecchio Mondo l’utilizzo dei trucioli di legno “chips” per l’invecchiamento del vino. Davanti alle numerose novità lanciate dalla globalizzazione, come le nuove regole imposte dal Nuovo Mondo (Stati Uniti, Australia e numerosi altri Paesi) per migliorare il gusto attraverso i numeri e il marketing, è giunto il momento di lanciare un appello a tutta l’Associazione Italiana Sommelier che sta operando con la neo nata Worldwide Sommelier Association: far conoscere il sigaro Toscano equivale a valorizzare un prodotto del made in Italy che è capace di esaltare il patrimonio nazionale nel bicchiere, dal vino ai distillati! Per ulteriori informazioni: info@fumenogastronomo.it 71


Oli d’Italia

L’olivicoltura eroica può rilanciare il comparto di Luigi Caricato

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MARCHI ITALIANI DELL’OLIO

SONO ASSAI RICERCATI DA CHI INTENDE FARSI LARGO CON SUCCESSO E DISINVOLTURA SUI GHIOTTI MERCATI ESTERI: MOLTE DELLE NOSTRE

“FIRME”

ORMAI PARLANO SPAGNOLO E A NOI RESTA BEN POCO.

Italia olearia si sta sfaldando. Sta perdendo i suoi pezzi migliori uno alla volta. Ormai è noto a tutti che i grandi marchi storici stanno prendendo altre strade, che conducono verso Paesi più reattivi e dinamici. Anzi, a dire il vero, la strada è una sola, e porta diritti verso la Spagna, una potenza ormai mondiale per quanto concerne l’olio di oliva. Piaccia o meno, è così: la Spagna ha saputo mettere in ombra il nostro Paese. Stiamo arretrando. E non si dica, in forma consolatoria, che i cugini iberici non facciano la qualità: non è così, realizzano sia grandi volumi, sia qualità. La colpa è nostra colpa. Lo sostengo da anni, ma non accade nulla. C’è stata l’ingerenza della politica che ha creato danni enormi. Un abuso e uno spreco di fondi, italiani e comunitari, che ha sottratto importanti risorse destinate all’olivicoltura. Non ci credete? Aspettatevi il peggio, siamo sulla buona strada. Ecco un promemoria. Anno 1994: Romano Prodi ha dismesso brand e strutture del calibro di Bertolli, Cirio e De Rica. E’ la multinazionale anglo-olandese Unilever ad acquisire Bertolli. Nel 2004 la Minerva alimentare cede invece il marchio Sasso al gruppo Sos Cuetara. Nel 2006 è la volta di Carapelli, con il gruppo Sos sempre protagonista della scena. Non finisce qui: anno 2007, sei frantoi tra Puglia e Calabria, oltre a cinquanta aziende olivicole ubicate in alcune aree rinomate del Paese, diventano proprietà di aziende spagnole. L’avanzata non conosce soste. Dopo la cessione di Carapelli e Sasso, anziché riprenderci un brand come Bertolli, che Unilever ha rimesso nel frattempo sul mercato, il gruppo spagnolo Sos Cuetara, della famiglia Salazar, lo acquisisce per 630 milioni di euro. I marchi italiani dell’olio sono d’altra parte molto appetibili da chi intende farsi largo con successo e disinvoltura sui ghiot-

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ti mercati esteri: vince l’Italian style. Volendo fare il punto della situazione, ad oggi i marchi Carapelli, Sasso, Bertolli, Dante e San Giorgio parlano spagnolo. A noi resta ben poco. Si riducono le grandi famiglie dell’olio: restano i Fontana, con i marchi Sagra e Filippo Berio, quindi la famiglia Monini e la fratelli Carli. A seguire, vi è poi tutta una serie di altre aziende, le quali, tuttavia, pur avendo quote di mercato significative, incidono poco nell’economia generale. Per il resto, invece, insistono sul territorio una quantità incredibile di aziende. Resta dunque attiva, almeno finché resiste, un’olivicoltura fatta di piccole e medie aziende agricole, così minuscole da non scalfire però il mercato. A queste si aggiungono circa sei mila frantoi: un numero spropositato. L’Unaprol, la massima associazione di produttori del Paese, riferisce l’esistenza di un milione e 400 mila aziende olivicole! Realtà senz’altro importanti, non tanto per il mercato, quanto per il mantenimento del territorio, in difesa del paesaggio, contro il rischio di erosione dei suoli e a tutto vantaggio del germoplasma olivicolo che ad oggi conta su un patrimonio documentato di 538 cultivar di olivi. In questo quadro entra in scena la cosiddetta “olivicoltura estrema”, nelle aree marginali in cui è improbabile coltivare altre piante da reddito. Esiste pertanto il respiro di una olivicoltura che possiamo definire “eroica”, perché ci vuole un grande coraggio e un’infinita pazienza nel perseverare a produrre in condizioni difficili e impervie. Da qui, per esempio, una zona poco nota rispetto alla grande fama guadagnata negli ultimi anni dalla Sicilia. E’ l’area del Monte Etna, là dove l’olivo si coltiva ad alta quota. Come per esempio a Linguaglossa, dove un’azienda ha pensato bene di denominare il proprio olio “1068”, perché è a tale altezza che ricava le olive da cui estrarre l’olio, pura bontà. Ed è proprio da questo esempio di olivicoltura eroica che si dovrebbe ripartire per risalire la china. Senza dimenticare che occorrono anche i grandi volumi, e soprattutto il rientro dei grandi marchi storici in Italia, prima che l’arretramento del comparto diventi inarrestabile.


GLI ASSAGGI 1068 da olive Brandofino. Nel bicchiere Verde dai riflessi dorati, è limpido alla vista. Al naso ha sentori fruttati puliti e freschi, dalle connotazioni erbacee, con rimandi alla foglia di pomodoro. Al palato ha buona fluidità e armonia, gusto vegetale e punte amare e piccanti progressive e persistenti. In chiusura mandorla e note speziate. L’abbinamento Crema di avena, porri e semi di finocchio; pasta alle zucchine e menta; tagliata di manzo con salsa di capperi. Frantoio Le Valli dell’Etna, via Roma 369, 95015 Linguaglossa (Catania); tel. 095.643004, info@levallidelletna.it

CONSOLI Dop Monte Etna, è un blend di olive Nocellara Etnea (65%), Moresca e Ogliarola Messinese. Nel bicchiere Giallo oro e limpido, al naso ha note fruttate di media intensità, con chiari sentori vegetali di carciofo ed erbe di campo. Al gusto è armonico, con richiami alla mandorla verde, lieve percezione dell’amaro e toni piccanti nella media. In chiusura il ritorno della sensazione piccante, toni erbacei e note di frutta bianca. L’abbinamento Spaghetti al pesto di pistacchio; verdure crude con salsa verde; cozze gratinate al limone e nocciole. Frantoio oleario Pasquale Consoli & Fratelli, c.da Giordano SS 284 Km 28,50, 95031 Adrano (Catania); tel. e fax 095.7601517, info@olioconsoli.it, www.olioconsoli.it

ARCOBIO da agricoltura biologica, è un blend di olive Nocellara Etnea e Moresca. Nel bicchiere Giallo chiaro e limpido, si apre al naso con note fruttate medio-leggere e sentori vegetali di carciofo. Al gusto si percepisce morbido e vellutato, con l’amaro e il piccante lievi, la fluidità nella media, una lieve astringenza e una netta sensazione di carciofo. In chiusura la mela matura e la mandorla. L’abbinamento Sformatini di ricotta con pomodori arrosto; insalata di fagiolini con funghi e groviera; quaglie con miele e uva bianca. Azienda agricola Pietro Arcoria, via S. Giovanni Galerno 6, 95030 Gravina di Catania (Catania); tel. 095.397000, arcobio@tin.it, www.arcobio.it

SCIARA VIVA Dop Monte Etna, da agricoltura biologica, ricavato da olive Nocellara Etnea. Nel bicchiere Giallo oro, è limpido alla vista. Al naso ha profumi vegetali di media intensità con sentori di erba, pomodoro e carciofo. Al gusto un tocco di dolce al primo impatto, salvo poi aprirsi con una punta amara progressiva e un piccante netto ma equilibrato, anche in chiusura, unitamente a delle connotazioni erbacee. L’abbinamento Crema ai porri con salvia; linguine con zucchine, capperi e menta; filetti di maiale al marsala e finocchio. Azienda agricola biologica Mario Nicolosi, c.da Canfarella, via Nicolosi, 95030 Ragalna (Catania); tel. 095.620259, sciaraviva@freemail.it, www.sciaraviva.it

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Birra di qualitĂ

Birra di sorgente

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di Maurizio Maestrelli

L’ORZO COLTIVATO NEL PARCO NAZIONALE DELLE DOLOMITI BELLUNESI DÀ VITA AD UN PRODOTTO CHE PREMIA LA FILOSOFIA DI RECUPERO DEL TERRITORIO E LA VALORIZZAZIONE DELLE ECCELLENZE LOCALI uone notizie nel campo della birra italiana. Vedono protagonista la storica Fabbrica di Pedavena, in provincia di Belluno, ovvero uno degli stabilimenti birrari di maggior prestigio, salvato in tempi recenti da un infausto abbandono. Della storia recente di Pedavena molto si sa: dall’acquisizione degli impianti da parte della friulana Birra Castello, rarissimo caso di incorporazione tutta italiana in questo settore, alla volontà di tutti - imprenditori, dipendenti e autorità locali di rilanciare il marchio e le ottime birre, fino ad arrivare al desiderio di non far finire quel clima di serenità che si respira nel celebre “Biergarten”, quasi sempre affollatissimo di persone di tutte le età e di qualsiasi condizione sociale che rendono il punto vendita tra i primi posti per volume di birra consumata ogni anno. La notizia è apprezzabile anche dal punto di vista “organolettico”: la birra in questione è assai gradevole, ben equilibrata e non priva di una certa personalità. Birra Dolomiti è il risultato di un meritevole sforzo collettivo che premia una filosofia di recupero di un territorio, di valorizzazione delle produzioni locali, di ripristino di una filiera agricola ancorata alla tradizione e alle peculiarità di quell’area che si estende nel Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi. Un territorio dove l’orzo, il cereale base e privilegiato per la produzione brassicola, è sempre stato coltivato ma che, in tempi non lontani, ha dovuto cedere il passo alla più redditizia, almeno in quella fase storica, coltivazione del mais. Tuttavia, visto che la natura non sempre segue le leggi del mercato, il terreno di queste vallate del bellunese è sempre stato poco generoso nei confronti del mais. L’orzo, che è invece uno dei cereali più adattabili alle condizioni geologiche e climatiche, si esprimeva meglio e con maggiore resa. Il nuovo corso della Pedavena, che già impiega per tutte le sue birre l’acqua sorgiva delle Dolomiti, non poteva non accorgersi del potenziale che aveva a due passi. Il progetto, avviato nel 2006, si è concretizzato con la prima birra nel corso 2008. Con la collaborazione della provincia di Belluno, dell’Ente

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Parco nazionale Dolomiti Bellunesi, della Cooperativa agricola La Fiorita e l’appoggio della Regione Veneto, sono stati impiantati circa sessanta ettari a orzo nell’area del Parco e si è ottenuto un raccolto di circa 500 quintali d’orzo avviati alla malteria e, da lì, agli impianti di Pedavena. La Birra Dolomiti (una “doppio malto” da 6,7% vol.) ha terminato il processo produttivo a febbraio 2008, godendo di lunghi tempi di fermentazione e, soprattutto, di maturazione a basse temperature, il doppio rispetto alla maggior parte delle birre industriali. Nel calice si presenta di un bel colore dorato intenso, una notevole intensità olfattiva, quasi insospettabile per una birra pastorizzata, con note fruttate e floreali. In bocca il corpo è pieno, armonioso con un discretamente pronunciato finale piacevolmente amaro. Insomma, una birra proprio godibile da concedersi in abbinamento a taglieri di affettati dal sapore non troppo marcato, formaggi di latte vaccino e di media stagionatura, ma anche carni rosse alla griglia. Ma è anche una birra che si beve bene da sola, sia in compagnia di un buon libro sia davanti alla televisione. Rilancio economico del territorio, italianità quasi totale del prodotto (manca solo il luppolo tricolore per raggiungere lo scopo e non è detto che non arrivi nei prossimi anni), significato culturale, sociologico ed ecocompatibile (nessun fertilizzante chimico viene utilizzato per le coltivazioni di orzo) sono qualità che finiscono nel bicchiere e che contribuiscono ad arricchire un prodotto che a chi scrive è piaciuto parecchio e che rispetto alla sempre eccellente Centenario Pedavena, non pastorizzata acquistabile solo in loco, ha il vantaggio di essere reperibile in tutta Italia, visto che grazie ad un accordo con due catene distributive la Dolomiti è oggi presente in più di 150 punti vendita sparsi nella Penisola. Un primo, buon risultato che contribuisce a dare speranza a un progetto firmato da un gruppo di avveduti quanto intraprendenti imprenditori italiani e portato a compimento da un pugno di piccole aziende agricole locali. 75


Distillati

Il sapore carioca della

Cachaça di Angelo Matteucci ndando alla scoperta di superalcolici particolari che si distinguono per le loro peculiarità e sono conosciuti come prodotti di chiara impronta del Nuovo Mondo, troviamo in Brasile un distillato di autentica origine sudamericana. Ci riferiamo alla cachaça prodotta con la distillazione del succo di canna da zucchero locale. Il Portogallo, come le altre nazioni colonialiste, a partire dalla prima metà del Cinquecento incoraggiò la coltivazione della canna da zucchero in Brasile allora proprio territorio. La necessità di manodopera alimentò uno dei più grandi flagelli mondiali, la tratta degli schiavi, che procurò ai proprietari delle piantagioni lavoratori a bassissimo costo ma a condizioni disumane. In Brasile si produsse una nuova acquavite distillando la “pinga”, una bevanda prodotta con melassa (sottoprodotto della canna da zucchero) miele e succo di lime principalmente bevuta dagli schiavi. Il succo di canna era chiamato dai coloni portoghesi “cachaça” o cagassa. Notiamo ancora che i distillati non invecchiati come grappa, gin, vodka, tequila, rum e cachaça furono utilizzati come sostentamento per i più umili (contadini a giornata, soldati o schiavi) durante la loro difficile e pesante vita. Oggi questi prodotti, sensibilmente migliorati, sono apprezzati anche dai consumatori più esigenti. Nel 1630 la Dutch East India Company, mirando a conquistare il nord est brasiliano vi si stabilì per coltivare la canna, elemento essenziale per la produzione dello zucchero e fonte di guadagno molto importante. Nel 1654 la Compagnia sopraccitata fu espulsa e si trasferì nelle Indie Occidentali dove si sviluppò notevolmente. La via marittima più breve dal Caribe all’Europa rispetto al Brasile fu uno delle ragioni essenziali della “caduta” del mercato dello zucchero brasiliano. Sorsero accanto alle raffinerie delle piccole distillerie operate dagli alambiqueros che si arricchirono alle spalle degli schiavi. Tra il 1647 ed il 1660

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L Cachaça

L Caipirinha

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le autorità di Lisbona cercarono di intralciare lo sviluppo della cachaça che ostacolava l’esportazione in Brasile della bagaceira, l’acquavite di vino portoghese. Nè le leggi promulgate, nè le richieste di tasse sulla produzione ebbero l’effetto voluto dai portoghesi. I distillatori brasiliani, malgrado le avversità, non smisero mai di produrre cachaça che nel 1817 divenne il simbolo del nazionalismo contro l’oppressione della monarchia e del governo portoghese. Dal 1994 è per legge definita “prodotto culturale rappresentativo della cultura e del popolo brasiliano”. Nel 2003 il Governo brasiliano ha presentato al World Trade Organization le specifiche sulla produzione della cahaça per ottenere il suo riconoscimento come bevanda nazionale brasiliana con la relativa denominazione d’origine. Oggi il Brasile è il più grande coltivatore con oltre 290 milioni tonnellate di canna da zucchero. Una buona parte viene distillata per produrre 16 miliardi di litri di alcool utilizzato parzialmente come combustibile unito al petrolio. La cachaça dalle sue origini ha avuto un notevole miglioramento della qualità grazie all’attenzione dei produttori. Molte distillerie si trovano in aree di produzione di selezionata canna da zucchero altamente qualificata per la produzione di alcol di qualità. La raccolta avviene due volte l’anno con l’eliminazione delle foglie così come la parte inferiore, vicina alla terra e la parte superiore vicina al fiore. In pianura la raccolta è svolta con macchine mentre in piccoli appezzamenti o in terreni scoscesi il taglio avviene manualmente con machete. In molti casi prima del taglio si bruciano le foglie delle canne direttamente sul tronco spegnendo immediatamente le fiamme per evitare che il raccolto vada in fumo. La bruciatura conferisce al succo caratteristiche sensoriali molto interessanti. Il tronco, tagliato in pezzi è pressato per l’estrazione del succo con un contenuto zuccherino di circa il 14% . Intervengono quindi i lieviti che possono essere spontanei oppure selezionati in forma liofilizzata o freschi conservati in contenitori asettici a bassa temperatura. La fermentazione varia tra 36 e 72 ore in base al contenuto zuccherino, alla temperatura ed alla quantità e qualità dei lieviti. Frequente è il sistema “sour mash” (infuso acido) con l’utilizzo di parte del prodotto fermentato di fresco per iniziare la fermentazione di una nuova partita di succo di canna. La distillazione avviene principalmente in distillatori a colonna per l’industria con un grado alcolico di circa 85° ed in alambicchi tradizionali in rame a fiamma diretta per le distillerie definite “artigianali” dove si raggiungono 70° alcolici. La maggior parte della cachaça è ridotta a 38/40° mediante aggiunta di acqua demineralizzata ed è bevuta giovane, bianca. Alcune distillerie sperimentano invecchiamenti di piccole quantità di cachaça da uno a tre anni in botti o tini di legno di rovere dalla capacità che varia tra 300 e 30.000 litri. Si utilizzano quercia bianca statunitense oppure alcune qualità di quercia brasiliana quali amendoin, balsamo, amburana e jequitibà. La cachaça gialla, come è chiamato il prodotto invecchiato, è normalmente imbottigliato a 45-48°. La cachaça viene utilizzata in un cocktail famoso in tutto il mondo che ha moltissime versioni, particolarmente piacevoli. Ci riferiamo alla “caipirinha” la bevanda tropicale per eccellenza. Il suo nome deriva da caipira che significa abitante di campo, contadino, uomo semplice. Di fatto il cocktail caipirinha è tra i più semplici da preparare e da apprezzare ed è composto, nella versione classica da cachaça, zucchero e lime. Un’altra bevanda popolare soprattutto in Brasile è la “batida” che significa battitura o anche “Bossa Nova”. La più conosciuta è composta da cachaça, latte di noce di cocco (che può essere sostituito da succo di frutta tropicale) e zucchero di canna. E’ il cocktail fresco, preparato al momento sia da venditori ambulanti sulle spiagge di Rio de Janeiro, sia nel più piccolo bar del più remoto angolo del Brasile. Tra le marche di cachaça che hanno conquistato il mondo citiamo Muller de Bebidas con Pirassununga 51 che ha il 33% del mercato estero. La distilleria è circondata da piantagioni di canna così come Pitù. La distilleria Ypioca fondata nel 1843 utilizzò inizialmente un alambicco in ceramica. La cachaça più venduta in Italia è Nega Fulo con la sua caratteristica bottiglia impagliata. 77


Acqua

Acqua: con le carni dev’essere leggera di Davide Oltolini opo aver trattato, su queste stesse pagine, il tema dell’abbinamento acqua – cibo per quanto riguarda gli antipasti, i primi piatti, nonché i secondi di pesce, continuiamo l’approfondimento di questo affascinante argomento rivolgendo la nostra attenzione ai secondi piatti a base di carne. Come abbiamo più volte ricordato, acque che appaiono piacevoli da bere a tutte le ore del giorno acquistano un particolare interesse se correttamente abbinate: ampliando ed esaltando la piacevolezza che regalano al palato. Fra le molteplici acque attualmente reperibili sul mercato ve ne sono, infatti, alcune in grado di valorizzare al meglio le peculiari caratteristiche organolettiche delle differenti carni presenti, ogni giorno, sulle nostre tavole. Queste ultime possono essere, innanzitutto, distinte in carni rosse ed in carni bianche, per essere poi ulteriormente differenziate a seconda delle modalità con le quali sono state cucinate. Esistono, infatti, cotture relativamente semplici, come quelle alla griglia, ovvero a fuoco diretto, che non prevedono l’impiego di grassi aggiunti, ed altre molto diverse come i bolliti misti e le fritture. Troviamo, poi, le più diffuse carni cotte in padella ed al forno, ma anche quelle sottoposte a cotture più “importanti” come i brasati e gli stufati. Ai fini della ricerca dell’abbinamento ottimale con le acque è necessaria, come accade per l’accostamento al vino, un’attenta disamina delle peculiarità del cibo,

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effettuata attraverso l’esame visivo, olfattivo e, possibilmente, gustativo di quest’ultimo. E’ naturalmente indispensabile, da parte del sommelier, la consapevolezza dei “meccanismi” che consentono un abbinamento equilibrato del cibo non solo con le varie referenze enologiche, ma anche con le differenti tipologie di acque, locali, nazionali o internazionali, disponibili sul mercato. Il sommelier, inoltre, come accade per il vino, dovrebbe avere una certa familiarità con le caratteristiche di queste ultime, ottenuta, almeno, attraverso un’attenta lettura delle etichette che ha a disposizione presso il locale in cui opera, siano esse solamente una o due, oppure in quantità sufficiente alla compilazione di una specifica “Carta delle acque”. Vanno considerati anche gli aspetti organolettici, nonchè quelli “dietetico – terapeutici”, anche molto diversi fra le oltre 300 tipologie di acque attualmente commercializzate nella nostra penisola (“digestive”, “ricostituenti”, “purgative”, “fluorate” etc.). A questi si aggiungono anche le specifiche tecniche di servizio delle acque, che presentano alcune peculiarità proprie, nonché le nozioni inerenti le temperature alle quali vanno proposte in tavola. Tali conoscenze, oltre ad aumentare il proprio bagaglio professionale, permettono un approccio al cliente da parte del sommelier sicu-

ramente più sereno e consapevole. Anche per quanto riguarda i secondi di carne le peculiarità dell’acqua che andremo a valutare, ai fini del corretto accostamento con il cibo, sono la mineralizzazione, cioè la tipologia dei sali in essa disciolti ed il residuo fisso, ovvero la loro quantità, ma anche la percentuale di anidride carbonica presente nella stessa. Per la carne, invece, prenderemo in considerazione, come per gli altri alimenti, gli stimoli meccanici, quali l’untuosità, quelli chimici, spesso dovuti anche alla speziatura ed ovviamente quelli gustativi, cioè i sapori primari: dolce, salato, acido, amaro ed umami, quest’ultimo sempre mag-


giormente considerato nel mondo della degustazione. In linea di massima con le carni potrebbe risultare ottimale l’impiego di una minerale cosiddetta di collina, tipologia che identifichiamo con un’acqua “leggera” dal limitato contenuto di calcio e carbonio. Entrando maggiormente nel merito, ma sempre limitandoci, come è ovvio, all’indicazione di concetti di carattere generale, andremo ad orientare l’abbinamento in funzione della disponibilità di carni bianche

piuttosto che di carni rosse. Per queste ultime potremmo optare per delle acque dal residuo fisso, comunque superiore ai 300 mg/l, leggermente effervescenti o effervescenti, per quanto riguardo il contenuto in anidride carbonica. Ben più ampio lo spettro di possibilità di accostamento in riferimento alle carni bianche che ben si sposano, a seconda delle modalità di esecuzione, con buona parte delle acque oligominerali (o legger mente mineralizzate) e mediominerali e, indicativamente, con quelle che presentano un residuo fisso tra i 200 ed i 1.000 mg/l. A differenza delle carni rosse, inoltre, le carni degli animali da cortile, e comunque galline, capponi, polli, anitre, tacchini, faraone, oche, piccioni e conigli possono essere validamente degustati anche con acque piatte, ovvero senza l’aggiunta di anidride carbonica, né rinforzate con il gas della sorgente. Prendendo in esame i diversi abbinamenti in riferimento alle differenti modalità di cottura, con una bistecca di manzo ai ferri, che presenta un’avvertibile tendenza dolce determinata dal grasso e dal sangue ed una leggera sapidità, potremmo, ad esempio, optare per un’acqua oligominerale leggermente effervescente, dal residuo fisso che non deve, però, essere inferiore

ai 350 mg/l. Per un bollito misto, dal maggiore tenore in grasso e dalla minore sapidità, sceglieremo una mediominerale leggermente effervescente, con un residuo fisso, comunque, vicino al limite inferiore previsto da questa tipologia. Con una cotoletta alla milanese, ricetta regina della cucina ambrosiana che prendiamo in considerazione in qualità di vero e proprio emblema delle fritture di carne, ci orienteremo sempre verso un’acqua mediominerale la quale, in riferimento al contenuto in anidride carbonica, dovrà, però, essere effervescente. Questo per contrastare adeguatamente le caratteristiche organolettiche date dalla panatura e, soprattutto, dalla frittura nel burro, ovvero una rilevante tendenza dolce accompagnata da una notevole quantità di grassi aggiunti. Tali sensazioni potranno, infatti, essere mitigate dal, seppur lievissimo, livello di acidità della bevanda, ma anche dalla pungenza di quest’ultima, da ricondursi, appunto, alla presenza di CO2. Grande variabilità presentano, poi, le cotture di carne in padella ed al forno e, conseguentemente, i relativi accostamenti con le acque che valuteremo di volta in volta, seguendo le regole generali precedentemente espresse. Per i brasati, gli stufati, i piatti a base di selvaggina in genere e le preparazioni che, comunque, richiedono grandi cotture ci orienteremo verso un’acqua effervescente, dal residuo fisso rigorosamente “importante”. 79


A tavola

Il lungo viaggio delle

anguille di Letizia Magnani

NASCONO

NEL

CARAIBICO

SARGASSI,

MAR

DEI

POI

PERCORRONO SEIMILA CHILOMETRI TOCCANDO LE COSTE

DELL’AMERICA,

DELL’AFRICA E INFINE

QUELLE DELL’EUROPA.

i tutti gli alimenti c’è ne è uno solo che si lega indissolubilmente al vino. Questo è l’anguilla. Da Comacchio a Tokyo, infatti, la tradizione vuole che, per uccidere l’anguilla, venga fatta prima fortemente ubriacare (meglio se nella Malvasia, dice qualcuno!). Di tutti i figli (e le figlie) della Terra da mangiare l’anguilla è decisamente la più particolare. Simile ad una biscia, ma dalle carni bianche e prelibate, l’anguilla è l’unico pesce che viene portato a casa ancora vivo. Nelle campagne di quasi tutte le regioni d’Italia, fatta eccezione forse solo per la Liguria, che vanta altre tradizioni culinarie, fino a non pochi anni fa c’era una tinozza nelle cucine che serviva proprio a mantenere in vita l’anguilla, sgusciante, fino a pochi attimi prima di essere immersa nell’alcol, per farla stordire, per poi ucciderla, con un taglio netto del collo. L’anguilla va scuoiata viva. E su questo particolare, su cui è bene soffer-

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marsi almeno qualche riga, si sono disputate diverse discussioni colte, come quella fra Spallicci, Olindo Guerrini, e il padre della cucina italiana, Pellegrino Artusi. Guerrini, nelle lettere all’Artusi, scrive infatti: “i comacchiesi spellano (scorzano dicono loro) le anguille grosse, ma lasciano la buccia alle minori, contentandosi di lavarle e di strofinarle per levarne lo smegma fastidioso che le riveste e così fanno pressoché tutti gli abitanti dei luoghi poverissimi delle valli. Non nego che l’anguilla mezzana o piccola, non spellata, rimane più saporita, ma di quel sapore speciale che ai comacchiesi, abituati, non ripugna. E’ come l’odore di selvatico di cui molti amano anche l’eccesso. Quanto a me, preferisco spellare anche le anguille minori” (Meldini, in G. Pozzetto, L’Anguilla, Panozzo Editore, pag. 130). Ma su questo torneremo. L’altro motivo per cui l’anguilla si lega decisamente al vino è la sua ricchez-


za di grasso. Per questo dopo averla mangiata, cucinata nei più vari modi possibili che la tradizione, soprattutto di valle, ci ha lasciato in dono, servirà bere un bicchiere di vino in grado di ripulire la bocca. E anche in questo caso il territorio aiuta. Partiamo quindi dal territorio. IN VIAGGIO A COMACCHIO, LA PICCOLA VENEZIA Da queste parti, nella bassa, sfocia il Po, ed è qui che, per magia, sono nati vini di terreno, come quelli del Bosco Eliceo doc, che hanno la peculiarità di pulir la bocca dai cibi grossi e grassi di cui questo spicchio di mondo è ricco. Si tratta di pesci di palude dal sapore forte e di anguille, che passano molti anni della loro vita nei fondali melmosi delle valli, ma si tratta anche di uccelli che migrano qui e che qui prendono il sapore di selvatico che li contraddistingue. Siamo a Comacchio, nel ferrarese, dove ha origine il Fortana, un vino rosso, piacevole, grasposo, perfetto con questi cibi, perché, come direbbe il maestro Veronelli, con essi fa un “matrimonio d’amore” ma perfetto, anche e soprattutto, perché sgrassante. Ma potremmo essere tranquillamente anche e Lesina, in Puglia, in Sardegna o perfino in Toscana, ovunque, infatti, l’anguilla si lega a vini acidi di terreno, che sanno, prima ancora che dissetare, pulire. Tutto da queste parti, vino compreso, nasce tra le nebbie, che sono spesse e frequenti, grigie e penetranti. Anche la vita dell’anguilla è legata alla nebbia. La sua storia viene da lontano, nel vero senso della parola. L’anguilla nasce infatti nel caraibico Mar dei Sargassi, dove vive, ancora piccolissima (da pochi millimetri ad alcuni centimetri) per due o tre anni. Poi si dice che senta il “richiamo del mare” e che per questo lo voglia attraversare tutto. Così, inizia il suo viaggio per la maturazione. E tocca le coste dell’America, poi quelle dell’Africa, infine quelle dell’Europa. Ci sono almeno tre ceppi di anguille, ognuna poi prende la sua strada e alcune, molte, raggiungono le nostre coste, dove si annidano dentro alle valli. In Francia, nella Camargue, per esempio, ma anche in Sardegna e in Toscana e poi, naturalmente, nelle valli del Po, nell’area veneta, più a nord, e infine a Comacchio. Qui le anguille vivranno per almeno dieci anni e diventeranno mature, scure, grosse e lunghe come bisce, ma soprattutto mature sessualmente. Da qui, infatti, dopo dieci o quindici anni, tenteranno di scappare, uomo per-

IL LAVORIERO: ECCO COME FUNZIONA Il lavoriero è la struttura fondamentale dell’attività di pesca nelle valli lagunari. Nel lavoriero tradizionale particolari incannicciate (grisole), infisse nel fondo lagunare e sostenute da un’intelaiatura di pali e pertiche, delimitano un perimetro cuneiforme nel quale una serie di bacini triangolari, come punte di freccia, comunicanti fra loro, consentono la cattura differenziata del pesce. Nel corso del tempo dal lavoriero primitivo di canna si è passati a quello moderno in cemento e metallo, più facile e rapido da costruire. In autunno l’acqua del mare viene fatta entrare in valle per mezzo dell’apertura delle chiaviche poste sui canali di comunicazione. L’istinto riproduttivo stimola i pesci sessualmente maturi delle valli a risalire, lungo i canaletti interni detti covole, le correnti di acque marine affluenti, più calde e ossigenate di quelle vallive, per raggiungere il mare. Nella sua migrazione il pesce s’imbatte nei lavorieri allestiti nelle stazioni di pesca e, attraverso le aperture A e B del botteghino (come indicato nell’immagine), passa nel colaùro vero. Il pesce bianco (cefali, orate, spigole) e le anguille s’introducono, attraverso la bocca di cento, nella baldresca. Le anguille, grazie all’assenza delle scaglie, incuneandosi per la coda riescono ad attraversare il fitto cannicciato della baldresca, giungendo nella cogolara e, successivamente, attraverso le aperture C arriva nelle otele: Qui il cannicciato del lavoriero, spesso fino a trenta centimetri, ne impedisce la fuga. La funzione del lavoriero, quindi, non è solo quella di intrappolare i grossi contingenti di pesci in migrazione, ma serve anche a separare il pesce bianco, che si ferma nella baldresca, dalle anguille, raccolte nelle otele. 1 2 3 4 5 6

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BOTTEGHINO COLAÙRO VERO BOCCA DI CENTO BALDRESCA COGOLARA OTELE

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A tavola L Un casone di valle

mettendo, per ritornare al mare. Solo nel Mar dei Sargassi, infatti, a circa 6 mila chilometri dalla piccola Venezia le anguille possono deporre le uova per continuare la specie e poi morire. Si tratta di una storia di avventura e di speranza a cui è legata un’altra storia, quella del ciclo vitale dell’uomo. VITA E MORTE IN VALLE Nella valli veneziane e più giù, nella piccola Venezia, l’intera vita è scandita dai tempi della valle, dai suoi umori, dai suoi colori. I casoni sono ancora là, fermi nel tempo, a testimoniare, oggi che il turismo è arrivato anche da queste parti e che la produzione industriale, anche delle anguille, ha preso il sopravvento su quella naturale, che fino a non molti anni fa erano proprio i tempi della natura a scandire la vita. In mezzo alle valli, infatti, stavano per mesi gli uomini, il cui unico sostentamento era pescare le anguille, impedendo loro il ritorno verso il mare. Sono molti e ingegnosi i marchingegni inventati per impedire a queste “bisce d’acqua” di tornare in mare aperto. Si chiamano lavorieri e sono reticoli e steccati di legno che fanno in modo di imprigionare per sempre in valle le anguille. La valle è quindi, per le anguille e per gli uomini, il luogo della vita, ma anche il luogo della morte. Infiocinate notte tempo, durante “lo scuro” di luna, il momento che precede il novilunio, quando aumenta l’afflusso di acqua marina nel bacino di acqua prevalentemente dolce, le anguille venivano portate nei casoni, dove le donne, a ritmo continuo, le sgozzavano e le infilzavano nei lunghi spiedi di metallo che poi venivano fatti cuocere nei forni, sempre caldi. Poi avveniva la marinatura e la salatura, con alloro e salamoia, altre spezie, poche, e l’aceto o il vino, per la conservazione. Chi rubava veniva punito con la vita. Le teste, anche quelle, venivano mangiate, perché dell’anguilla, come del maiale, si dice da queste parti, non si butta via niente. 82

L Le Valli di Comacchio

LA ZUPPA COI BECCHI D’ASINO E’ per questo che il brodetto (o la zuppa) da queste parti si chiama ancora “coi becchi d’asino”. Perché ai poveretti venivano date solo le teste e loro le facevano bollire a lungo, con aglio e cipolla abbondanti, fino a che non ne usciva un succulento e corposo brodetto, nel quale galleggiavano, con ironica e spesso macabra espressione, le sole teste delle anguille, che sembravano, appunto, tanti “becchi d’asino”. Non era questo il solo modo di cucinare l’anguilla. L’Italia è ricca infatti di ricette della tradizione. La marinatura è sempre molto leggera, per non rovinare la carne, delicata e bianchissima, ma anche ricca di grasso. Più importante è invece la cottura, che viene consigliata a fuoco vivo, sulla brace, al forno, perché queste carni, che hanno in sé qualcosa di diabolico, vengano spurgate completamente. Fra le prelibatezze più grandi, che hanno fatto sognare, addirittura, principi, re e papi (Papa Pio V adorava le anguille e le voleva “ubriache”, uccise cioè nel vino) ci sono l’anguilla con polenta, che trasuda tutta la ricchezza di questo piatto sensuale e corposo e l’anguilla fritta, tagliata a tocchetti, naturalmente con la pelle che “scocchia” sotto i denti. E’ così che a Comacchio viene ancora servita l’anguilla nei ristoranti, ora pieni di turisti, nei quali, però, si riesce ancora a mangiare come insegna la tradizione. A differenza del passato oggi non si friggono più le lische, che i vecchi chioggiotti e comacchiesi definiscono ancora “prelibate”, vere leccornie di tempi in cui era la fame a parlare, così come non si ricoprono più gli zoccoli di legno con la pelle dell’anguilla, anche perché ormai la vita in valle è molto cambiata, come è cambiata quella dell’anguilla. L’industrializzazione infatti è arrivata anche da queste parti e ha violentato i ritmi e i riti di un società che non c’è più. Ma se l’anguilla riesce a crescere in cattività, allevata con mangi-

mi sintetici (anche se questo ne peggiora di molto il sapore, visto che l’alimentazione naturale prevede una dieta a base di piccoli gamberetti di valle e di altri pesci il cui sapore e la cui corposità è il segreto della particolarità delle carni dell’anguilla), nel chiuso degli allevamenti non riesce a riprodursi, perché per farlo, ha bisogno di riattraversare i mari e di andare lontano, lontano, fino a giungere nel Mar dei Sargassi, nelle cui profondità avviene da sempre il miracolo della sua vita e della sua morte. L’ANGUILLA SECONDO GRAZIANO POZZETTO All’anguilla Graziano Pozzetto, un enogastronomo romagnolo, che ha in questi anni descritto e classificato la cultura culinaria della nostra comune dolce e solatia terra natia con decine di opere di grande spessore, ha dedicato un volume intero che raccoglie,

storie e ricette, più di cinquecento, dal titolo forse non molto originale, ma chiaro “L’anguilla (Anguilla anguilla)”, edito da Panozzo Editore. Si tratta di un libro importate e curioso, che racconta la tradizione culinaria, regione per regione, legata all’anguilla e che mette in evidenza come la modernità abbia talvolta grandi responsabilità nel cambio dei gusti, come nel caso dell’anguilla, che, scrive Pozzetto, va assolutamente tutelata, perché bacino del gusto, ma anche della cultura.


Beneficenza L Una visita nell’ambulatorio

L Grazie al contributo dell'AIS è stato assunto un medico locale

L Uno dei piccolissimi orfani

Ais for Africa di Francesca Cantiani 850 chilometri da Dar Es Salaam, in Tanzania, c’è Mtwango, un villaggio immenso nel cuore della savana africana. Qui vivono, ma dire sopravvivono è forse più appropriato, decine di bambini molti dei quali orfani. Malattie e denutrizione sono le principali cause di morte per questi bimbi. Da quattro anni l’Associazione italiana sommeliers, unita al generoso contributo di alcuni privati, porta ai piccoli di Mtwango assistenza medica, medicinali, generi alimentari, giocattoli e un sorriso. In questa regione dell’Africa, infatti, manca l’indispensabile e ogni più piccola esigenza quotidiana rappresenta spesso un problema insormontabile che, senza un aiuto, sarebbe impossibile risolvere. Ecco allora che grazie a “Karibu insieme per crescere O.n.l.u.s.”, associazione di volontariato nata con lo scopo di aiutare questi bambini, è stato costruito un edificio in cui i piccoli orfani vengono vaccinati e visitati ogni giorno da un medico che li cura e con una adeguata prevenzione li strappa a malattie e sofferenze. L’Ais sostiene direttamente questa iniziativa: tutti noi sappiamo infatti quanto sia importante la solidarietà in generale. Lo è ancora di più quella mirata e diretta, dove cioè si può toccare con mano il frutto dell’aiuto offerto dalla collettività. Ciò che per noi occidentali è scontato, nel cuore della savana africana è un L Le conchiglie dell'Oceano qualcosa di sconosciuto: un medicinale, un semplice pallone, una bicicletIndiano diventano articoli da regalo ta, con cui i bambini possono giocare e dimenticare per un attimo i molti problemi che li affliggono. Ma parliamo anche di generi alimentari, di acqua potabile, di un trattore con rimorchio per trasportare i bimbi da un punto all’altro del villaggio. Parliamo della loro istruzione, delle decine di volontari che ogni anno si alternano a Mtwango per aiutare chi è meno fortunato e che una volta tornati in Italia conservano vive le immagini e le emozioni di quegli occhi, di quei sorrisi, dei bambini cui anche un piccolo gesto può salvare la vita o dare la possibilità di affrontare il futuro con speranza e dignità. Un sostegno economico serve a fare sentire questi bimbi meno soli. Per vedere il lavoro fin qui svolto dal progetto di beneficenza, è possibile consultare il sito www.karibu-insieme.com mentre l’indirizzo e-mail è info@karibu-insieme-com. L’Ais non si ferma, ma prosegue su questa strada ed ogni aiuto che si aggiungerà al nostro contributo sarà certamente ben accetto. Grazie! L A Mtwango può capitare che un elefante ti attraversi la strada

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L Il dispensario a lavori ultimati

L Il dispensario è una struttura ''polivalente'' e viene utilizzata anche per celebrare la messa alla domenica

L I piccoli alunni di Mtwango. Molti dei loro genitori sono stati vittime dell'AIDS

L Per giocare a calcio ci si organizza con palloni di fortuna

L I bambini di Mtwango

L L'ingresso dell'ambulatorio

L Nella fase di costruzione del dispensario sono stati coinvolti anche gli uomini del villaggio

L Una casa di paglia e fango

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Vino che passione

L’azienda Sassotondo si estende su un terreno di 72 ettari situato in Toscana fra i comuni di Sorano e Pitigliano

vino

Il del documentarista di Luca Carosi

EDOARDO VENTIMIGLIA E LA MOGLIE CARLA BENINI, AGRONOMA, HANNO DECISO DI CAMBIARE VITA PER TRASFERIRSI IN

TOSCANA,

DOVE HANNO FONDATO UNA CANTINA APPREZZATA ANCHE DAL MERCATO STRANIERO

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a frase è uno dei classici che condiscono una serata fra amici o magari una discussione fra parenti: “Lo sapete che vi dico, va a finire che mollo tutto e me ne vado a far vino in Toscana!”. Carla Benini ed Edoardo Ventimiglia, moglie e marito, forse non l’hanno neanche detto, di sicuro l’hanno fatto… Lui documentarista nella vecchia azienda romana di famiglia (suo nonno era stato il primo cameramen di Alfred Hitchcock), lei agronoma trentina impegnata fra lavori di rappresentanza e di ufficio, nel 1990 sono arrivati nel vasto entroterra di Grosseto ed hanno fondato la loro azienda, “sassotondo”, in un terreno di 72 ettari situato in una zona caratteristica della Toscana, fra i comuni di Sorano e Pitigliano. In quest’area “marginale” della Maremma a dominare tutto è il tufo, materia leggera e particolarissima il cui continuo modellarsi ha creato profili scoscesi, un susseguirsi di terre alte intercalate da autentici strapiombi scavati da corsi d’acqua incostanti. In meno di vent’anni Carla e Edoardo hanno trasformato una tenuta semiabbandonata in un’impresa modello, condotta da subito con i metodi dell’agricoltura biologica, dove alle colture permanenti – vite e olivo – si affiancano i seminativi, i pascoli, il bosco. In particolare i vigneti occupano oggi una superficie complessiva di circa 10 ettari: 8 ettari a bacca rossa (con prevalenza di ciliegiolo, sangiovese e merlot) e due ettari a bacca bianca (trebbiano, greco e sauvignon). Se vogliamo una scelta coraggiosa in una zona, quella di Pitigliano, con una radicata tradizione di bianchi prodotti in cantine cooperative. Nel 1997 la prima vendemmia nella cantina appena ristrutturata, seguita con altrettanta emozione dalla prima bottiglia. Da allora un impegno continuo nello sviluppo e nella commercializzazione, con l’aiuto di pochi e fidati collaboratori, a partire dall’amico ed enologo Attilio Pagli. Assolutamente caratteristica è la cantina sotterranea del sassotondo, completamente scavata nel tufo in una balza dei terreni aziendali. Nell’ultima stanza, a circa 14 metri sotto terra e 30 dall’ingresso, c’è il bottaio che gode così di condizioni di umidità e temperatura ideali. La laurea in agraria e l’esperienza professionale di Carla ha portato da subito, come detto, all’adozione dei metodi di coltivazione biologica. Una scelta che adesso può non stupire più di tanto ma che appena dieci anni fa era addirittura pionieristica. Ovviamente ad essere biologico non è il vino, che

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I VINI DI SASSOTONDO

BIANCO DI PITIGLIANO

CILIEGIOLO

Uvaggio: Trebbiano 70%, Sauvignon 15%,Greco 10%, altre 5%. Le uve vengono dai vigneti di Sovana allevate a cordone e a Guyot su terreni fortemete tufacei. Le uve vengono raccolte e selezionate manualmente e vinificate separatamente. Il pigiato subisce una macerazione a freddo con le bucce di circa 12 ore. Una piccola parte delle uve è fatta fermentare in barriques; le altre fermentano in acciaio a temperatura controllata intorno a 16º. Al termine della fermentazione il vino viene lasciato sui lieviti per circa 1 mese e quindi assemblato. Viene posto in commercio dopo circa due mesi di affinamento in bottiglia.

Uvaggio: Ciliegiolo 90%, Alicante 10%. Le uve vengono dai vigneti di Sovana e di Pitigliano; vigneti in parte vecchi (35 anni) in parte nuovi, allevati a Guyot con sesto di impianto che varia da 3000 a 4500 piante per ettaro. Le uve sono raccolte e selezionate manualmente. La fermentazione avviene senza l’aggiunta di lieviti e dura, compresa la macerazione, tra i 15 e i 20 giorni. Matura per alcuni mesi in acciaio e viene posto in commercio dopo 3 mesi di affinamento in bottiglia.

L Carla Benini ed Edoardo Ventimiglia

SOVANA ROSSO SUPERIORE Uvaggio: Sangiovese 60%, Ciliegiolo 30%, Merlot 10%. Le uve vengono dai vigneti di Sovana e di Pitigliano; vigneti in parte vecchi (35 anni) in parte nuovi, allevati, i vecchi a Guyot doppio con sesto di 2500/3500 piante per ettaro, i nuovi a cordone speronato e alberello con 6000 piante per ettaro. Le uve vengono raccolte e selezionate manualmente ed i diversi vitigni vengono vinificati separatamente. La fermentazione avviene senza l’aggiunta di lieviti e dura, compresa la macerazione, tra i 25 ed i 30 giorni. I vini maturano parte in acciaio e parte, per 8/12 mesi, in barriques. Successivamente assemblato ed imbottigliato, il vino è posto in commercio dopo almeno sei mesi di affinamento in bottiglia.

è il prodotto trasformato, ma l’uva dalla quale lo si ricava. Quest’ultima in sassotondo cresce senza il ricorso a fitofarmaci o altri prodotti di sintesi, come ricorda una piccola ma importante annotazione sulle etichette. Cinquantamila bottiglie: a tanto ammonta la produzione tipo anno per anno, con una destinazione che riflette la vocazione cosmopolita di questa azienda. “Da subito – ci spiega Edoardo Ventimiglia – abbiamo creduto nell’attività all’estero, e dopo oltre un decennio posso dire che abbiamo avuto ragione, anche se la situazione è molto più complessa di quanto non dicano le cifre, a cominciare da quella più indicativa, vale a dire il rapporto fra il venduto dentro e fuori dall’Italia”. Al momento il 40% delle bottiglie prende strade oltre confine, “una proporzione paradossalmente simile a quella che avevamo alla fine degli anni Novanta. Paradossalmente perché il mercato è invece cambiato completamente. Nei primi anni della nostra attività esisteva un vero e proprio clima di euforia intorno al vino italiano ed era persino difficile soddisfare le richieste che giungevano dall’estero. Ad assorbire la produzione c’erano soprattutto il mercato americano e quello tedesco, ricordo che nel Duemila quasi la metà della nostra vendemmia finì coll’uscire dall’Italia”. Poi sono arrivati momenti più difficili, un po’ per le difficoltà dell’economia a livello globale, un po’ per ragioni molto più specifiche. “Negli ultimi anni – racconta Carla Benini - si sono affacciati sul mercato produttori molto agguerriti di altre nazioni, penso a Cile e Sudafrica, ma anche ad Argentina ed 87


Vino che passione

Australia. Un’offerta basata su una qualità a volte discreta e prezzi spesso molto bassi che ha inevitabilmente influito sul mercato, compreso quello di aziende come la nostra”. Il risultato è stato una diversa localizzazione del commercio estero: “La geografia delle nostre esportazioni è cambiata con la costante del mercato statunitense. È invece diminuita di molto l’attività in Germania, dove c’è stata una generale contrazione del consumo di vino italiano. In compenso si sono aperti spazi molto promettenti nell’Est europeo, a cominciare dalla Russia, mentre registriamo un crescente interesse anche in paesi come la Gran Bretagna, la Svizzera e la Danimarca. Voglio però dire – sottolinea Carla – che per restare competitiva un’azienda piccola come sassotondo ha dovuto sempre e comunque battere sul tasto della qualità del prodotto, l’unico biglietto da visita che ti garantisce la presenza sul mercato a prescindere dai momenti e dalle mode”. Per Est non si intende solo quello del nostro continente ma anche il gigantesco Estremo Oriente… “La Cina – dice Edoardo – è indubbiamente un mercato di potenzialità sconfinate anche per il vino, però non intendiamo certo ripetere gli errori che sono stati compiuti negli ultimi anni. Penso alle costose spedizioni propagandistiche senza avere poi delle solide basi sul territorio per la commercializzazione del prodotto, una rete di diffusione necessaria dappertutto ed addirittura indispensabile in una realtà chiusa come quella cinese, dove il bidone è spesso dietro l’angolo. Per quanto ci riguarda seguiamo una politica di piccoli passi, con l’individuazione di uno o più referenti locali totalmente affidabili. Una volta raggiunto questo primo risultato, passare dalle poche bottiglie attuali a volumi molto più elevati diverrà una prospettiva finalmente concreta”.


Ampelografia

Il primo elenco mondiale dei vitigni è targato

Saluzzo di Alessandro Franceschini all’ “Abbadia Bianca”, probabilmente identica alla francese “Ugni Blanc” al ”Zuzzumanello nero” di Brindisi, passando per la “Caccionella” abruzzese o ancora per il “Rossolo”, uva per la quale l’autore dice: “La trovai citata fra le uve di Bergamo e del Comasco. Ma credo di poco merito”. Sono 3666 le varietà di viti conosciute sino al 1877, anno nel quale venne pubblicata la prima catalogazione dei vitigni a livello mondiale a compimento di un lungo e faticoso lavoro di studio nel campo dell’ampelografia da parte di Giuseppe dei Conti di Rovasenda. Un lavoro incredibile, di ricerca e catalogazione, che l’autore svolse con il piglio del collezionista, attraverso viaggi, ma soprattutto sperimentazioni a Verzuolo, a pochi chilometri da Saluzzo nel cuneese, sua terra natia, dove nella proprietà “La Bicocca” coltivò personalmente più di 3600 varietà provenienti da tutto il mondo. Tra queste anche l’Arneis – Cornegliano d’Alba che per la prima volta fa il suo ingresso all’interno dell’ampelografia ufficiale, come ricorda Luciano Bertello, Presidente dell’Enoteca Regionale del Roero. Il risultato fu un saggio dal titolo: “Saggio di una Ampelografia Universale” che oggi, edito dall’Artistica Editrice di Savigliano (Cn), ha rivisto la luce attraverso una ristampa anastatica, che vuole, quindi, essere il più conforme possibile all’originale. L’iniziativa è stata incentivata e fortemente voluta dal Centro per le Rarità Ampelografiche Cuneesi, intitolato proprio all’autore del saggio in questione, nato ad inizio 2007 a Castiglia di Saluzzo, con l’obbiettivo di salva-

D

L Il frontespizio del libro

L Un'illustrazione d'epoca

guardare le biodiversità ampelografiche del territorio saluzzese e cuneese insieme (vedi De Vinis Marzo-Aprile 2007). L’Italia, lo si dice spesso quando si parla di ampelografia, possiede una varietà di uve pressoché sterminata, croce e delizia della nostra vitivinicoltura, in grado, quindi, di mostrare una ricchezza non comune ed al tempo stesso di disorientare appassionati e consumatori dei vini del nostro paese. Come nota lo stesso autore: “tutte le regioni anche ristrette ad un piccolo territorio hanno generalmente uve diverse tra loro”. Doveva essere proprio questa una delle ragioni che spinsero l’autore, a fine ottocento, a cercare di fare ordine e chiarezza all’interno del panorama ampelografico nazionale ed internazionale, per far si che un patrimonio di grande valore non si disperdesse nei tanti, troppi, sinonimi che designavano degli stessi vitigni. A questo proposito, Giuseppe di Rovasenda, all’inizio del proprio saggio, se la prende, in particolare, con quelli che chiama “pepinieristi”, dal francese “pépiniériste”, cioè vivaisti, che avevano, a suo dire: “la mania di impinzare i loro cataloghi di nomi diversi”, probabilmente in male fede così che abusando della fiducia dei compratori mettevano “nomi nuovi a piante vecchie”. L’autore, da sempre considerato un grande ampelografo, non arrivò subito allo studio ed alla ricerca in questo campo: come ricorda nell’introduzione a questa nuova edizione la pronipote Maria Lucrezia Melzi d’Eril, si dedicò prima alla vita pubblica come diplomatico dello Stato Sabaudo tra Vienna, Costantinopoli e Firenze, nonché alla passione per 89


Ampelografia

l’alpinismo e, solo in seguito, si ritirò tra le sue terre saluzzesi proprio per coltivare questa passione, con meticolosità e precisione tali da farlo diventare membro del comitato centrale ampelografico italiano. Non un semplice “Catalogo generale delle uve”, per usare le parole del suo autore, ma uno spaccato degli studi di fine ottocento di grande importanza ancor oggi, sia per gli operatori del settore sia per i semplici appassionati. La sezione del libro denominata “Ragione dell’Elenco” è, infatti, ricca di spunti e considerazioni che, a più di cento anni di distanza, fanno ancora riflettere. Si sottolinea in più punti come lo stato di confusione regni sia in Italia sia all’estero circa la conoscenza dei vitigni coltivati, tanto che “in parecchie regioni italiane ed anche straniere, non solo molti proprietari terrieri ignorano le principali e le migliori uve della propria regione, ma gli stessi vignaiuoli e mezzadri non ne conoscono molte fra quelle che coltivano”. Ecco perché, secondo l’autore, si corre il rischio di dedicare sforzo ed attenzione ad uve di non eccelsa qualità e di tralasciare, magari, quelle

che potrebbero dare i migliori risultati. I viticultori, quindi, non dovrebbero più concentrarsi nell’allevamento di viti “non meritevoli” perché “sappiamo che i vigneti più rinomati per la squisitezza dei vini prodotti, constano tutti di poche qualità di uve”. Questa preoccupazione, più volte ribadita nel libro, viene accentuata anche tenendo in considerazione il flagello che si stava abbattendo in Europa in quel periodo: la famosa e tanto citata su qualsiasi testo di viticultura, filossera. Una ragione in più per evidenziare l’utilità del suo lavoro e dell’ampelografia in generale: “perché, almeno, se viene il naufragio, si sarà arrivati a conoscere quali siano gli oggetti più preziosi che si dovrà cercare di salvare nella fiera burrasca che ci minaccia”. Ecco perché ritiene fondamentale conoscere quali siano, con chiarezza e sgombri da errori di dicitura, i migliori vitigni da coltivare e successivamente innestare sui vitigni americani, poiché “a quanto pare”, sono “la principale tavola di salvamento”. Giuseppe di Rovasenda tralascia, dichiarandolo, da questo primo catalogo dei vitigni mondiale, volutamen-

te, le tantissime varietà americane segnalate ai tempi, nonostante l’utilità per combattere la filossera, poiché “se non ci costringerà il malanno della filossera, dobbiamo sperare che in Europa non avremo mai a fare una estesa pratica conoscenza con queste ceppaie”. Sono infatti certamente molto resistenti e robuste, ma “sono lungi dall’eguagliare le nostre quanto a bontà del prodotto”. Insomma, un plauso va sicuramente rivolto a tutti coloro che hanno fatto sì che non si disperdesse questo corposo ed importantissimo lavoro che può tranquillamente essere considerato come uno dei capisaldi all’interno degli studi ampelografici mondiali. L’opera (206 pagine, prezzo di copertina 35 euro) è divisa in tre parti: la prima è l’elenco generale dei vitigni con le ragioni che lo hanno generato; la seconda fornisce una spiegazione del quadro di classificazione, mentre la terza fornisce uno schema del metodo proposto per la classificazione delle uve. Il volume, inoltre, è stato arricchito con le tavole di 8 vitigni tratte dal volume "Ampélographie. Traité Générale de Viticulture" a cura di Viala-Vermorel.

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Pillole

Il saluto ad un amico Ha abbandonato tutti improvvisamente senza concederci il tempo di salutarlo. A fine luglio Gianni Masciarelli, 52 anni, fondatore dell’azienda vitivinicola abruzzese che porta il suo nome, ci ha lasciato mentre si trovava a Monaco di Baviera per lavoro. Da sempre vicino alla nostra associazione, Gianni ha reso la sua cantina, nata nel 1981, tra le più note e apprezzate d’Italia. Di certo non siamo i soli a considerarlo uno degli emblemi della viticoltura abruzzese: la sua instancabile attività ha infatti portato il nome della regione in ogni angolo del mondo. L’Associazione italiana sommeliers è vicino alla moglie, Marina Cvetić e ai tre figli. Siccome la memoria è l’unico Paradiso da cui è impossibile essere cacciati, lo ricordiamo con le parole della “Guida Duemilavini 2008” che per l’ennesima volta gli ha conferito i “5 Grappoli”.

L Gianni Masciarelli

«Cosa dire ancora di questo vulcanico personaggio, abbonato ormai da anni a un posto in prima fila nel panorama dell’enologia italiana e non solo? A lui va il merito, insieme a una ristretta cerchia di illuminati produttori, di aver saputo promuovere la viticoltura abruzzese a livelli qualitativi prima inimmaginabili, conquistando consensi di pubblico e critica in tutto il mondo. Alla radice di questi successi, una convinzione riassunta nelle sue stesse parole: “Il vino è la linfa della mia vita”. Così, l’amore autentico per la propria terra e per il proprio lavoro, la selezione del giusto connubio vitigno-terroir all’interno di splendide tenute dislocate nelle zone più vocate d’Abruzzo sono stati gli ingredienti alla base della rivincita del Montepulciano e, soprattutto, del Trebbiano nei confronti di altri vitigni più blasonati. Nei vini di Masciarelli troviamo l’esaltazione del territorio perfettamente coniugata a un sapiente uso del legno, in una sintesi dalla grande personalità e longevità, di cui risultano i massimi rappresentanti il Montepulciano Villa Gemma e il Trebbiano Marina Cvetic, annoverati – ancora una volta – nell’Olimpo dell’eccellenza». Gianni, grande amante del Pinot Noir, riposa ora nella sua terra d’Abruzzo, quella stessa terra che l’ha affiancato nella produzione delle eccellenze che tutti conosciamo.

L I vigneti di Masciarelli a San Martino sulla Marrucina, Chieti 91


Pillole

Rinnovato l’accordo tra Pasqua e Riva Yacht Pasqua, fra le principali aziende vinicole veronesi, ha rinnovato anche per il 2008 l’accordo con Riva Yacht, storico cantiere nautico di proprietà del gruppo Ferretti. Grazie all’intesa, Pasqua, quale unico partner merceologico, accompagna e partecipa con i propri vini ai maggiori eventi e agli esclusivi raduni nautici degli Armatori Riva in alcune delle più suggestive località del mondo. I vini Pasqua hanno già partecipato a prestigiosi appuntamenti come il Riva Trophy USA, che si è svolto in febbraio a Miami e il Riva Trophy Europe, che si è tenuto a Palma de Mallorca lo scorso giugno. Nel frattempo, Riva è stato tra gli ospiti d’onore dello spazio Pasqua & Friends durante il Vinitaly, presentando alcuni modellini delle famose imbarcazioni. I vini dell’azienda veronese hanno chiuso in bellezza la stagione dei raduni con l’annuale “Cena degli Armatori” svoltasi lo scorso 6 agosto all’esclusivo Yachting Club di Porto Cervo. Per l’occasione, ai circa 400 invitati sono stati serviti alcuni vini dell’Azienda Agricola Cecilia Beretta, punta di diamante della produzione della Famiglia Pasqua, e il nuovo Le Soraie, rosso veronese prodotto con uve appassite. Pasqua e Riva sembrano due mondi in apparenza lontani. Tuttavia condividono la stessa passione per la bellezza, credono in valori come storia, tradizione e innovazione e nella capacità delle persone di entusiasmarsi ed emozionarsi ancora. L’iniziativa, nata da una vera e propria passione di famiglia per il marchio Riva e le sue eleganti imbarcazioni, conferma la filosofia dell’azienda veronese di voler dare risalto alle scelte di qualità e di eccellenza e di coinvolgere un target prestigioso ed esclusivo.

Ritorna il Gran Premio del Sagrantino Riparte la collaborazione tra Consorzio di Tutela Vini Montefalco e l’Ais. Dopo la grande prova del Sagrantino Day International, lo scorso 21 aprile con 33 degustazioni in 25 città italiane e 8 metropoli straniere in contemporanea, adesso i produttori umbri e i sommeliers lanciano un’altra iniziativa di grande valore. Si tratta della seconda edizione del Gran Premio del Sagrantino, una sfida professionale tra sommeliers per aggiudicarsi le borse di studio che il consorzio ha istituito per sviluppare la conoscenza tecnica dei vini prodotti nell'area di Montefalco: la Docg Sagrantino di Montefalco e la Doc Montefalco Rosso. Come per il 2007 sono stati istituiti tre premi: di 92

duemila, di mille e di cinquecento euro al primo, al secondo e al terzo classificato. Tutti i dettagli sono consultabili sul sito internet www.consorziomontefalco.it. Sono previste due prove, una di degustazione, l'altra scritta, e potranno partecipare tutti i sommeliers che hanno fatto richiesta di iscrizione al concorso per il Miglior Sommelier d'Italia 2008. La giuria del Gran Premio Sagrantino sarà formata dal presidente di Ais Umbria, Gabriele Ricci Alunni, da due membri designati dalla giunta nazionale Ais di Milano, da un membro designato dal Consorzio di Tutela Vini Montefalco e dal presidente del Consorzio stesso, Lodovico Mattoni.


Biologico fa rima con ecologico Fa bene all'ambiente il vino biologico, prodotto da vitigni coltivati con fertilizzanti naturali e lavorati per lo più a mano: l'impatto ambientale per produrlo è esattamente la metà di quello legato alla produzione di vino coi metodi classici. Lo dimostra uno studio di Valentina Niccolucci dell'Università di Siena condotto su due aziende produttrici di Sangiovese in Toscana, una coi metodi standard, l'altra con colture biologiche. L'impronta ecologica del primo è doppia di quella del secondo, hanno calcolato gli esperti in un lavoro pubblicato sulla rivista Agriculture, Ecosystems and Environment e riportato dal magazine scientifico britannico New Scientist. L'impronta ecologica per produrre il Sangiovese biologico è risultata di 7,17 metri quadri contro un'impronta doppia, di 13,99 metri quadri per il Sangiovese classico. L'impronta ecologica è una misura usata per conoscere l'impatto di una certa attività produttiva umana sull'ambiente. Per calcolarla gli esperti senesi hanno misurato tutte le risorse necessarie a produrre i due tipi di Sangiovese. Nel caso del biologico le operazioni sono compiute quasi tutte a mano, la vigna è trattata solo con sostanze naturali; nel caso del Sangiovese classico tutte le operazioni, dal vigneto al consumatore, sono meccanizzate e richiedono quindi più risorse e più terra, con un maggior impatto biologico. Questo è il primo studio che dimostra che un cibo da agricoltura biologica inquina meno e potrebbe aprire la strada al diffondersi di produzioni vinicole amiche dell'ambiente. (Francesca Cantiani)


Pillole

Il Novello sbarca a Verona Dopo una lunga e significativa presenza presso la Fiera di Vicenza, nel 2008 il Salone Nazionale del Vino Novello “passa” a Verona e diventa Anteprima Novello, secondo un nuovo progetto di rilancio del prodotto che prevede: posizionare il Novello su un livello di comunicazione e di mediaticità rivolto agli operatori professionali ed al pubblico degli appassionati; un evento e non un Salone; costruire intorno al prodotto un’atmosfera di vivacità e di appeal ri-creando quel valore aggiunto cancellato quasi totalmente negli anni da una politica produttiva, comunicativa e commerciale “spenta”, non caratterizzata e non caratterizzante; ricreare il “racconto del Novello” attraverso il recupero della sua storia e delle tradizioni ad esso legate; recuperare attenzione e consenso sul prodotto da parte dei media, degli opinion leader, del mondo delle enoteche e della ristorazione. L’evento si svolgerà a Verona dal 4 al 6 novembre presso il Palazzo della Gran Guardia, nella storica e centralissima Piazza Bra. Alla mezzanotte del 4 novembre la tradizionale festa del déblocage, in collegamento audio/video con una piazza romana dove verrà organizzata un’altra festa con testimonial produttori, protagonisti della ristorazione e dell’editoria.


“Qualithos”: nuovo marchio per l’eccellenza del tai rosso Sottoscritto sui Colli Berici, il protocollo di intesa che dà vita al marchio Qualithos. I firmatari sono le aziende agricole Le Pignole di Brendola, Piovene Porto Godi di Villaga e Dal Maso di Montebello, a cui si aggiunge la distilleria Fratelli Brunello in qualità di azienda partner per la produzione della grappa di Qualithos. Giocando sul termine “Lithos”, con cui in greco antico si indica la pietra, Qualithos rimanda alla natura del sottosuolo dei Colli Berici, in cui convivono l’origine vulcanica e la sedimentazione marina, e all’influenza esercitata dalla componente minerale nel terroir dei Colli Berici. L’ammonite fossile diverrà così il marchio comune con il quale i tre principali produttori presenteranno i loro Tai Rosso (nuovo nome per il Tocai Rosso): tre vini che presentano una maggior struttura e una più ricca complessità gusto-olfattiva, rispetto alla versione più scarica e di pronta beva maggiormente diffusa. «Sono il frutto della nostra filosofia produttiva – spiega per tutti Tommaso Piovene – che prevede un’attenta scelta dei terreni, basse rese in vigneto, maturazione ottimale e un attento uso del legno in fase di affinamento». Per promuovere questo approccio al vitigno Tai le tre aziende si danno ora un codice di autodisciplina che fissa i principi agronomici e le pratiche di lavorazione in cantina necessari a pervenire ai risultati conosciuti e apprezzati. Tra i requisiti indicati vi è l’utilizzo dell’affinamento in legno e il periodo minimo di un anno dalla vendemmia prima dell’imbottigliamento. «Il nostro intento – continua Paolo Padrin dell’azienda Le Pignole – è quello di unire le competenze per migliorare ulteriormente i nostri prodotti, che già oggi non temono il confronto con i grandi vini ottenuti da uve Grenache

(di cui il Tai è stretto parente) come gli Châteauneufdu-Pape della Côte du Rhône o i vini del Priorat in Spagna». Le tre aziende si impegnano inoltre a promuovere la conoscenza e la diffusione del Tai Rosso, in Italia e nel mondo. «È un'espressione assolutamente unica del territorio dei Colli Berici – conclude Nicola Dal Maso – che merita di essere valorizzata». A tale scopo organizzeranno un appuntamento annuale di promozione e stanno valutando ulteriori forme di integrazione delle rispettive reti commerciali per favorire la penetrazione sui mercati internazionali. L’intesa è stata sottoscritta anche dalla distilleria Brunello di Montegalda che realizzerà in esclusiva la grappa di Qualithos, mentre i tre soci fondatori si dicono pronti ad accogliere altre aziende vinicole che vorranno unirsi all’iniziativa.

Un piacere “evergreen” “Destagionalizzati per darsi un piacere tutto l’anno”. E’ questa la sentenza del mercato degli spumanti che diventa il leitmotiv del Forum Spumanti 2008, giunto alla sua quarta edizione nella nuova formula (45.ma edizione da quando nacque la Mostra Nazionale degli Spumanti). Molte le novità nell’edizione svoltasi ad inizio settembre in Villa dei Cedri e nelle principali vie e piazze di Valdobbiadene, in provincia di Treviso. Gli obiettivi del direttore Giampietro Comolli sono quelli di spingere l’acceleratore sugli aspetti della cultura del bere e dell’attenzione verso il consumatore: «Un forum sempre più osservatorio di mercato e dei consumi, sempre più impegnato a far conoscere le differenze fra uno spumante Docg e uno Doc , fra un metodo classico e un metodo charmat. Il Forum diventa, inoltre, sempre più istituzione super partes grazie alla collaborazione con il Ministero delle Politiche Agricole – Dipartimento sviluppo informazione e tutela del consumatore. In cantiere ci sono parecchie novità che non mancheranno di stupire e portare nuovi proseliti ad interessarsi del favoloso mondo delle bollicine». Il mercato, intanto, fa registrare una spinta alla destagionalizzazione degli spumanti. Negli ultimi 5 anni le bottiglie spedite sono passate da 230 milioni a 300 milioni (da 16 milioni a 22 milioni quelle a metodo classico) come conseguenza dell’evoluzione della cultura del consumo dello spumante a tutto pasto. 95


Libri

SULLO SCAFFALE Catalogo generale CAPSULE ITALIANE di spumanti e vini frizzanti Quinta edizione

A cura di Renato Procacci in collaborazione con il Club collezionisti capsule Editore: Agra Prezzo: 18,00 euro Autore:

La quinta edizione del Catalogo capsule italiane - compendio sinergico delle nozioni dell’autore, del direttivo del Club collezionisti capsule e dei soci, maggiori competenti in materia - si presenta con una rinnovata ed elegante veste tipografica oltre a 650 nuovi inserimenti. In linea con francesi e spagnoli, il cui numero di appassionati collezionisti sfiora i cinquantamila, anche in Italia la capsula ha conosciuto livelli di notorietà di tutto rispetto (cinquemila i collezionisti nostrani). In undici anni di vita il Club ha ottenuto risultati di rilievo, inclusa la capacità di indurre le Case di Spumante ad aggiornare le capsule e a crearne sempre di nuove. Si stima che nel mondo siano ben duecentomila le persone sedotte dal fascino delle capsule. Gli inizi di questo curioso collezionismo si devono ai francesi e risalgono ai primi anni Ottanta. Grandi bevitori di champagne, i cugini transalpini vennero rapiti dalla comune pratica dei produttori di applicare sui tappi delle bottiglie capsule multicolori, decorate con marchi, stemmi, che ben solleticavano l’innato senso estetico dei più attenti consumatori. Ma come nasce la capsula? I produttori di champagne erano afflitti da un problema: nella bottiglia il prezioso liquido subiva una seconda fermentazione dovuta ai lieviti naturali e allo zucchero di canna aggiunti per ottenere l’effervescenza che ben conosciamo. La pressione (6 atmosfere!) causava l’espulsione del tappo. Dobbiamo ad Adolphe Jacquesson, titolare di una Maison di Champagne apprezzata anche da Napoleone Bonaparte, l’invenzione dell’odierna capsula con gabbietta, rimasta pressoché identica dal 1844 ad oggi. Originale e valida alternativa alle collezioni di farfalle. 96

di Natalia Franchi

CIBI E LUXUS DI ROMA IMPERIALE Sapori, vizi e misteri delle libagioni dei Cesari Autore: Stanislao Liberatore Editore: Edizioni Qualevita Prezzo: 14,50 euro Un gradito ritorno ai banchi di scuola senza l’assillo dei libri di testo, un tuffo nella storia più appetibile e curiosa: l’antica Roma e i fasti dell’Impero raccontati attraverso le abitudini culinarie del tempo. Un excursus molto colto quello propostoci da Stanislao Liberatore, docente di Storia dell’alimentazione nel corso di laurea in dietistica presso l’Università D’Annunzio di Chieti, in questo godibilissimo e pluripremiato volume (Premio Selezione Bancarella della cucina 2007 e Premio Cultura Abruzzo Wine “Città di Pescara”). Primo bisogno da soddisfare per la sopravvivenza, l’importanza del cibo resta invariata nei secoli, lasciando alla sua scelta il potere di distinguere classi e gerarchie sociali. Cibi ricchi e di sostanza caratterizzavano le smodate abitudini culinarie degli imperatori e del loro entourage; opulenza ed eccesso erano l’espressione più efficace del potere. Una dicotomia – quella tra i ricchi che dissipavano e i poveri nullatenenti e malnutriti – il cui tragico stridore l’Italia odierna per fortuna non conosce più. Il volume prende le mosse dal De re coquinaria, unico trattato sulle regole del buon mangiare giunto integro ai nostri giorni, contenente poco meno di 500 ricette, attribuito ad Apicius, esattore dei tributi ed esperto gourmet della cucina patrizia, vissuto durante i regni di Tiberio e Caligola. Amanti degli abbinamenti più azzardati (funghi cotti nel miele e pesce mescolato alle albicocche, solo per fare un paio di esempi), i Romani dei ceti più elevati rendevano manifesta la propria posizione sociale attraverso l’ospitalità del banchetto e il lusso delle portate. In tal modo affermavano e rigettavano i modelli di identità, decretando l’oggettiva bontà di alcuni cibi a scapito di altri. Nella rappresentazione socio-culturale costituita dal banchetto, alcune preparazioni assurgevano a cibo eletto. Un esempio tra tutti, il garum (in fondo al volume troverete alcune ricette tramandate da Apicius, ma non quella del garum, di cui si ignorano le corrette dosi), una specie di salsa – la Cleopatra delle salse – fatta con sangue e interiora di pesce azzurro lasciati per mesi sotto sale, utilizzata per condire e insaporire ogni genere di piatto. Il garum era detto anche liquamen e questo la dice lunga sul sapore che avrà avuto ….. Cibo senza tempo.


EUGÉNIE BRAZIER E LE ALTRE Storie e ricette delle Madri dell’alta cucina Autore: Alessandra Meldolesi Editore: Le Lettere Prezzo: 16,50 euro Curioso destino quello delle donne: devote più o meno volontariamente ai fornelli, ma estranee agli onori gastronomici, appannaggio esclusivo dei maschi. E pensare che cucinare ha rappresentato la seconda causa di morte femminile dopo il parto, almeno fino all’invenzione del forno. Insomma, donne in sala e uomini in cucina. Nelle cucine che contano. Ma esistono luogo e tempo in cui la ribalta culinaria cambia genere: a Lione, negli anni Trenta, un gruppo di autorevoli e spericolate donne abbandona i fornelli di casa per cucinare nei negozi di vino dei mariti, facendone ristoranti stellati Michelin e decretando così la nascita dell’alta gastronomia in Francia. Les mères è l’appellativo con cui venivano chiamate. Un po’ per la familiarità che accordavano al cliente, un po’ per il piglio energico che le connotava. Da loro trassero linfa vitale anche alcuni grandi chef, tra cui il padre della Nouvelle Cuisine Paul Bocuse. Ad Alessandra Meldolesi va dato atto di aver realizzato un affascinante affresco di un angolo importante della gastronomia, supportato da una accurata ricerca storica. Protagonista del manipolo di coraggiose, Eugénie Brazier, divenuta addirittura la “santa dei gastronomi”, che riuscì ad ottenere ben sei stelle Michelin, tre in ciascuno dei suoi due locali lionesi in rue Royale e sul Col de la Luère – dal 1933 al 1939 – chiamati “La mère Brazier”.

ATLANTE DEI VITIGNI DEL PONENTE LIGURE Provincia di Imperia e Valli Ingaune Alessandro Carassale e Alessandro Giacobbe Editore: Atene Edizioni Prezzo: 20,00 euro Autore:

Terra di contrasti, la Liguria: mare, alture, clima variegato e atavica preferenza per la piccola e più sicura proprietà. Nulla si conquista senza combattere e la coltivazione della vite non fa eccezione. Dura lotta anche quella dei vitigni del Ponente ligure. L’imperialismo dell’olivo determina infatti qui, più che altrove, il crollo drastico dello sviluppo viticolo tra Sei e Settecento. A ciò si aggiunga l’effetto involutivo ed emarginante della fillossera, che decretò la rovina improvvisa dei vitigni di queste terre. La rinascita partì da un lento e faticoso percorso di reinnesto delle viti nostrane, che si trascinerà fino ai primi quindici anni del Novecento. Un percorso rievocato con dovizia di particolari dagli autori del volume, in un nostalgico ricordo della realtà ampelografica del Ponente, che in un lontano passato non faceva mai mancare i suoi moscatelli sulle tavole della clientela ricca, nobile ed esigente. Alla riscossa dell’attività orto-floro-frutticola specializzata si assiste nella seconda metà dell’Ottocento, grazie al risanamento del territorio e all’apertura della ferrovia litoranea. L’eccellenza del Pigato si impone nella produzione del settore.

Chiudono il volume alcune ricette delle Mères, ricette di cucina semplice, ben piantate nel territorio. Ricette che l’autrice con ogni probabilità rimpiange, in tempi di cucina molecolare.

La situazione odierna? Nonostante l’impegno di molti produttori verso un’offerta di buon livello, la vitivinicoltura ligure è assolutamente minoritaria rispetto alla realtà italiana. La Liguria si sta ritagliando un proprio spazio all’interno di un ristretto segmento di mercato di qualità, alimentato da estimatori o turisti d’élite. Conosciamoli, allora, questi vini, e facciamo nostre le schede ampelografiche proposte dal volume, perché si sa che la qualità… premia.

Orgoglio femminile.

La seduzione della produzione di nicchia. 97


Io non ci sto

La bischerata degli euroburocrati di Franco Ziliani o so che non è facile, né popolare, in un’Italia che si vanta essere, come la vulgata dominante e politicamente corretta prescrive, europeista, dare prova di euro-scetticismo. Il che non significa unicamente sparare a zero sulla moneta unica rimpiangendo i tempi aurei(!) della nostra povera e svalutata liretta, ma molto più onestamente palesare, quando necessario, perplessità e riserve su determinate misure decise dai solerti e spesso pasticcioni euro-burocrati di Bruxelles. Così, quando il primo agosto mi sono imbattuto nell’edizione on line del Corriere della Sera, nella euronews titolata “Addio Docg, Doc e Igt, così cambieranno le etichette delle bottiglie. Nuove regole europee tra un anno. I produttori: ”C'è il rischio di banalizzare le zone di pregio”, non ho potuto, parafrasando il motto “Perdida Albione” riferito all’Inghilterra coniato durante la Rivoluzione Francese e poi utilizzato dalla propaganda fascista, che esplodere in uno stentoreo “Perfida Europa di Bruxelles”! Ma come, mi sono detto, ci abbiamo messo degli anni e tanta fatica per tentare, non sempre riuscendoci, di creare e fare funzionare un sistema delle Doc che avesse un minimo di senso (e spesso non l’ha avuto, vista la proliferazione di Doc inutili, e la mancata piena applicazione, a oltre tre lustri di distanza, della legge sulla nuova disciplina delle Denominazioni d’origine n° 164 del 1992), abbiamo tentato di spiegarlo agli stranieri, aiutandoli a destreggiarsi tra Doc, Docg e Igt spesso dai nomi astrusi e impronunciabili, e ora, poffarbacco, arriva l’Europa a dirci, alla Bartali, che “l'é tutto sbagliato, l'é tutto da rifare”? Il Corriere della Sera riferiva difatti che “esattamente tra un anno, il primo agosto 2009, perderanno di valore la Denominazione di origine controllata, l'Indicazione geografica tipica e la Denominazione di origine controllata e garantita che contraddistinguono i vini italiani di qualità. Se, fino a oggi, erano gestite a livello nazionale, in futuro sarà Bruxelles a riconoscere ufficialmente le denominazioni. Che saranno uniformate a livello europeo” e quindi la solerte Commissione Europea “organizzerà il sistema sulla falsariga di quanto è previsto per gli altri prodotti alimentari, cioè con i marchi Dop (Denominazione di origine protetta) e Igp (Indicazione geografica protetta)”. Va bene semplificare – in Italia abbiamo persino un ministero per la Semplificazione legislativa… - e dare “una matrice comune a tutti i vini europei”, coordinare centralmente le procedure legate alle denominazioni d’origine, ma si sono chiesti a Bruxelles che razza di proble-

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mi, per le aziende innanzitutto e poi per i consumatori, potrà creare questa misura da loro annunciata? Se le nostre Doc-Docg-Igt verranno di fatto “normalizzate” e sottoposte al regime delle Dop e Igp, che distinzione ci sarà, se ci sarà ancora, tra Doc e Docg e quale salvaguardia ci sarà per gli antichi nomi, Barolo, Valpolicella, Fiano d’Avellino, Frascati, con i quali queste denominazioni si sono fatte conoscere nel mondo? Non c’è il fondato rischio, abbandonando un sistema perfettibile ma collaudato, di banalizzare, di rendere molto difficile la riconoscibilità dei vini, di arrivare ad una massificazione della produzione, resa possibile anche attraverso un’ipotetica Igp Italia, con o senza indicazione di vitigno, di cui potrebbero fare disinvolto uso imbottigliatori non solo fuori zona, ma fuori Italia? E che dire di quell’altra “geniale pensata” che prevede, nel nome del rinnovamento, la possibilità di usare il nome del vitigno da solo, senza più il legame geografico, equiparando di fatto, a livello di etichetta, un vino prodotto con uve coltivate in territori vocati ad un altro vino prodotto con il medesimo tipo di uva, ma coltivata in una zona di scarso pregio? Una solenne “bischerata”, direbbero in Toscana! Insomma di fronte ad una prospettiva del genere ci sarebbe da disperare e da sospettare che a Bruxelles lavorino nell’oggettivo interesse dei produttori di vino del Nuovo Mondo, che su un sistema di denominazioni come il nostro non possono contare, se, come extrema ratio, non pensassimo di poter contare su quella grande, antica, solida risorsa che è la Francia. Com’è possibile, difatti, che nella terra delle molte e gloriose micro Appellations comunali, dei GevreyChambertin, dei Margaux, dei Banyuls e dei PulignyMontrachet, dei Pommard e dei Pouilly-Fuissé, possano accettare di veder annullato, nel nome di una semplificazione legislativa di un allineamento di Aoc, Doc, Do alle Dop e Igp utilizzate (in maniera non certo impeccabile) in campo alimentare, un patrimonio di Appellations che costituisce il vero tesoro, la pietra angolare del sistema vinicolo francese? Impossibile crederlo. Parafrasando Leo Longanesi, che in un celebre pamphlet si chiedeva “Ci salveranno le vecchie zie?”, come non chiedersi pertanto se saranno i Francesi, l’orgogliosa Francia del vino, a salvarci dalle grinfie di Bruxelles? Con questa speranza al mondo del vino italiano, francese, spagnolo, portoghese non resta che pronunciare una ferma risposta ai fumosi progetti presentati dagli euroburocrati. Quattro sole parole, ma dette a muso duro: Io non ci sto!


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