DeVinis n. 85 Gennaio-Febbraio 2009

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Anno XVI - n. 85 - € 3,50 - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 - n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano

DEVinis LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE

Gennaio / Febbraio 2009

PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - ais@sommeliersonline.it


Editoriale

Una battaglia di

civiltà

di Terenzio Medri

egli ultimi mesi uno dei temi che ha avuto più rilevanza mediatica è quello della sicurezza stradale con i riflettori puntati, almeno una volta alla settimana, su casi di guida in stato di ubriachezza con conseguenze mortali. Incidenti che hanno un grande impatto sull’opinione pubblica e che hanno indotto il governo a decidere di varare una nuova normativa che abbassi il tasso alcolemico nel sangue (0,2 per cento contro lo 0,5 precedente) consentito a chi si mette alla guida. Ricordiamo che questa percentuale equivale, come quantità di bevanda assunta, a un normale bicchiere di vino o di birra. Una premessa è obbligatoria: l’Ais, nel corso di questi anni, ha dimostrato di essere in prima linea nella campagna sul bere consapevole. Detto questo, non capiamo l’utilità della decisione: il rispetto della percentuale di tasso alcolemico dello 0,5 per cento permette già una guida sicura. Chi provoca incidenti è infatti di gran lunga al di sopra di quella soglia. Il fenomeno andrebbe combattuto alla radice, con lezioni nelle scuole, spiegando ai giovani che il bere è cultura, piacere, non certo sballo e stordimento. Questo si insegna ai nostri corsi: si beve moderatamente durante un pasto, altrimenti si degusta. Per evitare gli incidenti occorrerebbe non diminuire il tasso alcolemico ma aumentare i controlli sulle strade e promuovere una campagna seria per sensibilizzare giovani e opinione pubblica su questi temi. Noi dell’Ais lo facciamo già e siamo a disposizione per fornire un aiuto in questa battaglia di civiltà.

M

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AIS Associazione Italiana Sommeliers Presidente | Terenzio Medri Vicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella Romani Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, Lorenzo Giuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.

La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene. Anno XVI gennaio-febbraio 2009 Associazione Italiana Sommeliers Editore Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, terenzio.medri@sommeliersonline.it Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, francesca.cantiani@sommeliersonline.it Per la pubblicità | Roberto Pizzi, pubblicita@sommeliersonline.it tel. 02/72095574 – ICE Srl – Corso Garibaldi, 16 – 20121 Milano Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - devinis@sommeliersonline.it Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it Hanno collaborato | Marco Aldegheri, Silvia Baratta, Luisa Barbieri, Carlo Cambi, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Pinuccio Del Menico, Elisa della Barba, Roberto Di Sanzo, Alessandro Franceschini, Natalia Franchi, Salvatore Giannella, Katia Giarrusso, Emanuele Lavizzari, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Antonello Maietta, Angelo Matteucci, Elsa Mazzolini, Davide Oltolini, Paolo Pirovano, Annalisa Raduano, Alessandra Rotondi, Malinda Sassu, Lorenzo Simoncelli, Stefano Tura, Daniele Urso, Franco Ziliani. Fotografie | Archivio AIS, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Alessandro Franceschini, Maurizio Maestrelli, Angelo Matteucci, Urbano Sintoni, Daniele Urso Per l’articolo “Intervista Impossibile” a firma di Salvatore Giannella il ritratto di Federico II con il falco è di Antonio Molino (Collezione Gloria Lillia, sommelier Ais, Milano) – Si ringrazia per la collaborazione Renato Russo (Editrice Rotas, Barletta) e Maria Giovanna Regano Per l’articolo a firma di Marco Aldegheri foto di Sergio Castagna e Maria Grazia Melegari Per l’articolo a firma di Franco Ziliani immagini della Fototeca Trentino S.p.A. – foto di Giorgio Deflorian, Pio Geminiani e Romano Magrone Per l’articolo a firma di Elisa della Barba foto di Sean Rocha La foto di Isabella Sardo, Miglior Sommelier del Lussemburgo, è di Markeasy Sammartano Le foto della presentazione della guida Duemilavini 2009 sono di Stefano Segati per Bibenda Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001 Associato USPI Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA € 20,00 ESTERO € 35,00 Intestare ad “Associazione Italiana Sommeliers – viale Monza, 9 – 20125 Milano” specificando il motivo del versamento da effettuarsi secondo una delle tre seguenti modalità: - pagamento tramite c/c postale 000058623208 - bonifico su Banco Posta, codice IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX) - bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano, IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) Chiuso in redazione il 24-10-2008 Stampa | Grafiche Parole Nuove Srl - Brugherio Milano Copie di questo numero | 40.000 Errata corrige | Nel numero 84 di novembre-dicembre 2008, a pagina 80, nell’articolo intitolato “Il vino del farmacista” sull’azienda Ca’ Nova di Comacchio in provincia di Ferrara, si parla di Fortara. Non si tratta ovviamente di un nuovo prodotto: il vino in questione, è il Fortana. Ci scusiamo con gli interessati e con i lettori.

AIS 2009

Rinnovo quota associativa 2009 E’ possibile rinnovare l’iscrizione nei seguenti modi: Internet basta collegarsi al sito www.sommelier.it, cliccare su “Rinnovi Online” e seguire le istruzioni per effettuare il pagamento tramite Carta di Credito (escluso Diners Card).

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Sommario

Gennaio / Febbraio 2009

10 LA

Le grandi etichette rendono più della Borsa

CRISI DEI MERCATI FINANANZIARI ESALTA GLI INVESTIMENTI NEI VINI DI VALORE

14

Le interviste impossibili: Federico II di Svevia

INCONTRO

20 LA

CON IL SOVRANO GRANDE ESTIMATORE DEI VITIGNI PUGLIESI

Come scelgono i newyorkesi

CREAZIONE DI UNA CARTA DEI VINI NELLA

24 VIAGGIO

26

Sua Maestà il pub! TRA I LOCALI STORICI DELLA TRADIZIONE BRITANNICA

Saranno famosi: tra fiction e realtà

PROVENZA,

30 IL

“GRANDE MELA”

ALLA SCOPERTA DELLA CANTINA CHE HA ISPIRATO UN FILM

Nuove strade verso Oriente

PANORAMA INDIANO È UN MERCATO TUTTO DA SCOPRIRE

36

Vini “Made in USA”

I RIESLING

40

DELLA FREDDA REGIONE DEI

Alla tavola di Romeo e Giulietta

IL DURELLO

46

FINGER LAKES

NASCE TRA I CASTELLI DEI

MONTECCHI

E DEI

CAPULETI

Il protagonista della Valpolicella

L’AMARONE

E I PRODUTTORI CHE LO CELEBRANO


Sommario

Gennaio / Febbraio 2009

52

Un brindisi con le bollicine di montagna

TRENTODOC,

60 LA

Alla ricerca delle identità perdute

RICCHEZZA DEGLI AUTOCTONI PER CONTRASTARE LA GLOBALIZZAZIONE

68 IN

Anche gli animali bevono!

NATURA ESISTONO ALCUNE SPECIE CHE REGGONO L’ALCOL MEGLIO DELL’UOMO

83 ALLA

Degustando per le Langhe SCOPERTA DEL

88

92

E I MUSEI DEDICATI AL VINO

La carta vincente della Penisola Iberica

TURISMO IN

102 ALCOL

VERDUNO PELAVERGA

Bottiglie, etichette e molto di più

IL PIEMONTE

IL

LA FORZA DELLA TRADIZIONE

SPAGNA

TRA STORIA E CULTURA

Il “bere consapevole” contro lo sballo

E VELOCITÀ, PRIME CAUSE DI INCIDENTI SULLE STRADE


All’interno

44 Vinitaly U 58 Ais Trentino I 72 Olio 74 Birra G 76 Distillati C 78 Acqua L 80 Enopassione I 112 Sullo scaffale L 114 Io non ci sto! M

N APPUNTAMENTO DA SEGNARE IN AGENDA

NTERVISTA AL PRESIDENTE

MARIANO FRANCESCONI

NON È COME IL VINO, HA ALTRI TEMPI E APPROCCI

IOVANI BIRRAI CRESCONO ALVADOS, L’ARTE NORMANNA

A SORGENTE DEL SINDACO L VINO DELL’INGEGNERE

E NOVITÀ EDITORIALI

A I VINI DI OGGI SONO DAVVERO MIGLIORI DI QUELLI D’ANTAN?


Vino e finanza

Non chiamateli

fondi di… bottiglia I GRANDI VINI RENDONO PIÙ DELLA BORSA: LA SITUAZIONE DEI MERCATI FINANZIARI ESALTA L’INVESTIMENTO IN VINO CHE GARANTISCE RISCHI MINORI. NEMMENO QUADRI E OROLOGI REGGONO IL CONFRONTO

L Christian Roger, fondatore della società ''Vino e Finanza'' 10


di Lorenzo Simoncelli

rchiviato il 2008 come l’annus horribilis della finanza, il 2009 si apre con tanti interrogativi di difficile soluzione. L’economia mondiale riprenderà la sua corsa? Che effetto avrà il New (New) Deal di Obama? Ma soprattutto i tempi per tornare sui mercati sono maturi? Una cosa è certa, nel nuovo corso della finanza bisognerà tenere in considerazione l’investimento in vino. Appassionati e non dovranno far fronte a un mercato, quello vitivinicolo, in continua espansione, grazie soprattutto all’aumento della domanda da parte dei paesi emergenti. Ma andiamo con ordine. Tracciando una breve cronistoria dell’investimento in vino la pietra miliare risale al 1996, anno di nascita del Liv – ex (London International Vintage Exchange), indice che dovrebbe riflettere i cento migliori vini del pianeta. Dovrebbe, perché il borsino è fortemente sbilanciato sulle produzioni francesi, infatti, più del 90% sono Bordeaux, il resto Champagne e qualche bottiglia italiana. Il 1998 ha poi segnato lo spartiacque per la nascita dei primi fondi di investimento sul vino. Sulla scia di Vino e Finanza, società creata da Christian Roger, si sono create strutture off-shore soprattutto in Gran Bretagna. Ma la vera svolta c’è stata con l’inizio del nuovo millennio, nel 2001, infatti, a Parigi è nato il primo fondo d’investimento comune sui vini e da gennaio 2008 anche la prima SICAV (società d’investimento a capitale variabile). Da circa dieci anni dunque è realizzabile il binomio vino e finanza, un binomio che permette di ottenere profitti con la propria passione, il vino appunto. Nonostante la “maturità” del mercato, si sa ancora poco e male di come funzioni e soprattutto delle sue caratteristiche. Il primo passo, come in una comune forma d’investimento, è individuare il fondo d’interesse, decidere la somma da investire e affidarla a un gestore (dovrebbe essere un intenditore). Al termine di questa operazione avrete un portafoglio con etichette prestigiose, le cosiddette blue chips wine, invece di azioni od obbligazioni. I rendimenti verranno tutti dalla capacità del gestore di vendere e acquistare contemporaneamente le bottiglie giuste al momento opportuno. Una formula, quella dei fondi di vini, decisamente più redditizia rispetto alla vendita tra privati o cantine. Un altro elemento da non sottovalutare è la trasparenza. Derivati e prodotti strutturati insegnano. L’accesso ai fondi è aperto sia agli istituzionali che agli investitori privati qualificati, con la semplice sottoscrizione di una polizza assicurativa che garantisce un ritorno dal fondo stesso. Il vino ogni mese viene valorizzato sulla base di sei liste di prezzi: due provenienti da wine merchant in Europa, due dai wine merchant del Regno Unito e due dalle aste di Christie’s e Sotheby’s. Al termine dell’investimento, è consigliato di medio – lungo termine, è possibile recuperare l’ammontare del riscatto in cash oppure in bottiglie. Detto così sembra tutto facile, ma i pericoli sono dietro l’angolo a cominciare dalla qualità. Affinché una bottiglia possa generare profitti ci devono essere determinati requisiti: durata nel tempo, richie-

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Vino e finanza sta di mercato, rarità e altissima qualità appunto. Ne è dimostrazione Noble Crus, fondo d’investimento della società lussemburghese Elite Advisers, che nel suo portafoglio ha etichette di grande valore: Romanée – Conti 2005, Mouton Rotschild 1945 e molti altri vini pregiati della Borgogna. Ma perché l’investimento in vino sta avendo grande successo? Innanzitutto è decorrelato dai mercati finanziari e dal normale ciclo economico, quindi sente meno le altalene degli indici borsistici. Anche se, dopo periodi di crisi molto forti, come quello dei mesi precedenti, è normale una flessione sia nelle aste che nelle vendite. Secondo punto a favore: è un investimento alternativo, è cioè una diversificazione rispetto alle tradizionali forme d’investimento. Agisce su settori non utilizzati dalla finanza classica. Terzo pro: ha una domanda in continua crescita e un’offerta costante. Non bisogna dimenticare che la produzione vinicola di qualità sarà sempre limitata. Infine è un investimento e un prodotto attrattivo, stimolante sia per gli appassionati, che per coloro che credono nel vino come una possibile forma di guadagno. Detto questo, anche il comparto del vino nel 2008 non è rimasto immune dagli scossoni finanziari. Il Liv Ex, indice di riferimento per l’investimento in vino, a fine novembre registrava un calo del 5% rispetto al mese precedente, e del 12% rispetto all’anno passato. Alcune aste hanno lasciato invenduti diversi lotti, o comunque fatto registra-

re cali nelle quotazioni. E’ il caso di sei bottiglie di Lafite – Rothschild, annate dal 1959 al 1986, che hanno registrato un calo nelle quotazioni del 35%. C’è da dire però che tra il 2006 e il 2007 il popolo delle aste ne aveva raddoppiato i valori. In difficoltà anche i Chateaux della zona di Pomerol, il record negativo è di Chateaux Lafleur che ha perduto il 19,24% dell’investimento, così come lo Chateau l’Evangile cha ha segnato un calo del 14,72%. Da qui a dire, come è stato riportato da stampa estera e nostrana, che il mercato del vino è in crisi ce ne passa. Infatti, sempre più a fare la differenza è la qualità dell’investimento. “C’è stata una lieve flessione sui Bordeaux del 2005, spiega Christian Roger, gestore del fondo Noble Crus, ma i vini di Borgogna e le vecchie annate non sono stati toccati dalla crisi”. “I risultati in generale sono positivi, prosegue Roger, non bisogna dimenticare che ormai anche il mercato del vino è globalizzato e contemporaneamente in uno stesso giorno ci possono essere aste a Londra, New York e Hong Kong, E’ quindi difficile poter partecipare a tutte”. Prendendo come dato di riferimento il Live-ex, dal 2001 ad oggi l’investimento in vino nei mercati occidentali ha ottenuto un ritorno medio del 16%. E’ logico che in uno status di normalità, i guadagni non sono paragonabili a quelli dei mercati azionari o a quelli dei paesi emergenti. Anche i metalli preziosi, oro soprattutto, garantiscono rendite superiori. Ma bisogna vedere il rovescio della medaglia. Se infatti analizziamo l’investimento dal punto di vista del rischio e della vola-

tilità, il nettare di Bacco è quello che garantisce minori rischi. Neanche gli altri investimenti alternativi, arte e orologi, reggono il confronto. L’attuale situazione dei mercati finanziari dunque esalta ancora di più le caratteristiche dell’investimento in vino. Basso rischio e bassa volatilità sembrano le armi più appropriate per far fronte all’incertezza dei mercati. Dal 1998 al 2005 il mercato del vino è stato caratterizzato da una crescita lenta. La crisi asiatica e lo scoppio della bolla delle dot.com sono state le cause principali del ribasso. A questo bisogna aggiungere il declino del dollaro americano che ha contribuito a ridurre la domanda. Dal 2005 però, anche grazie alla maggiore richiesta dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), c’è stata una notevole ripresa del mercato, toccando l’apice nell’estate 2007. A confermare il basso rischio dell’investimento in vino e la sua decorrelazione dai mercati, l’andamento del fondo Noble Crus. Da gennaio 2008, mese di entrata sui mercati, ad oggi, gli investitori hanno guadagnato circa il 19%. Cifre da capogiro se paragonate ai principali listini azionari. Inoltre i prezzi delle bottiglie di pregio sono rimasti abbastanza stabili. Ma perché ha successo l’investimento in vino anche in periodi di crisi come questo? “Innanzitutto è un bene di lusso, spiega Christian Roger, gestore del fondo Noble Crus, che contrariamente a quanto si pensi non è un prodotto di collezionismo, ma di consumo”. “Nonostante sia un bene di pregio, prosegue, Roger, al contrario di macchine o barche, che


pochi possono permettersi, il vino invece è un lusso che molti possono offrirsi”. Analizzando un periodo di investimento di cinque anni, il vino è quello che evidenzia ritorni medi maggiori, anche rispetto alle azioni e all’oro. Questo dimostra come l’investimento in vino sia particolarmente proficuo e adatto per chi non ha necessità immediate di guadagno. L’arma in più è dunque la bassa volatilità, favorita sì da una scarsa liquidità negli asset di investimento, ma soprattutto dalla limitata offerta dei vitigni. Un fondo in vino è come una buona bottiglia, più si invecchia e più rende. Chiudiamo con due aneddoti. Il giorno del crack di Lehman Brothers, uno degli ex dipendenti della ex banca d’affari, ha tirato fuori da sotto la scrivania una bottiglia di Bruno Giacosa Barbaresco Santo Stefano 1997, e ha brindato con i suoi colleghi. Gioia o disperazione ? Una cosa è certa il vino anche in situazioni critiche non va mai in soffitta, al massimo rimane in cantina. E’ passata alla storia anche la risposta che Gianni Agnelli diede a un giornalista che gli chiedeva su cosa consigliava di investire: “Vino – rispose il presidente della Fiat – perché male che vada lo si può sempre bere”. Vino e finanza formano insomma un binomio che nei prossimi anni farà molto parlare di sé.

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Le interviste impossibili

“In Puglia i vini hanno il calore delle parole” di Salvatore Giannella

NELLA

FORESTA DI

SALPI,

MANFREDONIA E BARLETTA, DEVINIS INCONTRA FEDERICO II DI SVEVIA, TRA

GRANDE ESTIMATORE DEI VITIGNI

E DELL’OLIO PUGLIESI

L II ritratto con il falco dal ''De arte venandi cum avibus''

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uglia 1241, alba di una giornata d’autunno. Siamo nel cuore del Tavoliere, la più grande pianura della penisola italica. Federico II di Svevia, una delle figure più affascinanti e prestigiose del Medioevo, è arrivato qui da alcune settimane, reduce da un’estate canicolare trascorsa in una villa di Tivoli in attesa di cogliere il momento propizio per dare il colpo di grazia al suo irriducibile nemico, Gregorio IX, che invece, quasi centenario, gli ha giocato l’estremo tiro, paradossale e grottesco allo stesso tempo. Morendo ha infatti neutralizzato qualsiasi iniziativa dell’imperatore che sa di non poter infierire su una città in lutto per la morte del suo pontefice. Per questo il 47enne sovrano se ne è tornato in Puglia, negli ultimi anni il sempre più sicuro ricovero delle sue giornate amareggiate e stanche. Ha scelto, per un periodo di riposo, la masseria Castello, un gioiello architettonico nella foresta di Salpi, sulla costa adriatica tra Manfredonia e Barletta, ricoperta di selve tra le più fitte del Meridione e impreziosita da antiche saline. In questo luogo di piacere l’imperatore ha affidato a due collaboratori del luogo, Nicola de Calcochuro e Matteo De Rosa, il compito di catturare i falconi nei nidi o con le reti, di allenare e addestrare i falchi alla caccia e di tenere in ordine la masseria. Gli ultimi animali arrivati sono due nuovi girifalchi d’Islanda avuti in dono dal re d’Inghilterra. E’ così soddisfatto del lavoro dei castellani che ha consegnato loro una pergamena con l’annuncio di un premio di produzione: a ognuno affida uno scudiero e due cavalli e la paga sarà aumentata a un’oncia e 15 tarì l’anno. Nelle prime ore del mattino Federico ha fatto un bagno caldo tonificante seguito dall’abile massaggio fatto dal fido cameriere saraceno Abdullah. Ha indossato il mantello color porpora foderato di pelliccia e fatto sellare il suo cavallo preferito, Dragone, il baio purosangue che il gran maestro Giordano Ruffo ha scelto per lui nella scuderia imperiale. Nicola, il primo falconiere, s’avvicina al sovrano per fargli indossare il pesante guanto di cuoio su cui il secondo falconiere, Matteo, poggia rapido il falco imperiale che si avvinghia alla presa con i suoi artigli adunchi e affilati. Un cappuccetto di pelle rossa, finemente ricamato con un labirintico intreccio di fili d’oro, ricopre la testa del rapace. Si parte, seguiti dalla fedele scorta. Destinazione Castel del Monte, edificio maestoso in via di completamento: il sovrano lo ha voluto in cima a una collina della vicina Murgia e l’architetto Riccardo da Lentini lo sta portando a termine con qualche difficoltà. I cavalli avanzano in un mare di vigneti e di grappoli d’uva.

P


CENNI BIOGRAFICI DI FEDERICO II

1194

Il 26 dicembre nasce a Jesi, nelle Marche, da Costanza d’Altavilla e da Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa. Il parto avviene sotto una tenda da campo appositamente eretta nella piazza del mercato mentre l’imperatrice sta raggiungendo il marito a Palermo, incoronato appena il giorno prima, il giorno di Natale, re di Sicilia.

1196

Eletto re dei Romani a Ratisbona.

1198

Incoronato re di Sicilia.

1201

Fino a questo anno vien istruito da frate Guglielmo Francesco, da Gentile di Manopello e da un Imam musulmano rimasto sconosciuto.

1208

Incoronato re a 14 anni.

1224

Fonda a Napoli la prima Università statale e favorisce l’antica e gloriosa scuola medica salernitana.

1227

GIANNELLA - E’ con grande emozione che ho ricevuto il suo messaggio dal suo corriere. Grazie, maestà, per aver accettato di darmi questa intervista e per avermi concesso di vivere una giornata con lei, condividendo questa passeggiata a cavallo e anche il successivo pasto. FEDERICO - Intanto, in quale lingua vuole che si svolga il nostro colloquio? In italiano, in latino, in germanico, in greco, in saraceno o in dialetto pugliese? Sa, la mia passione per ogni luogo amato mi ha portato a conoscere la lingua di ognuna delle terre ove soggiorno. Per la Puglia poi, ho preso una vera e propria cotta. GIANNELLA - Lo so, non a caso le è molto caro l’appellativo di “puer Apuliae” che le è stato affibbiato dalla gente comune fin da quando, ragazzo, attraversò l’Italia per andare in Germania e tentare la conquista di quella terra. FEDERICO - Confesso che a me piace essere considerato non già come l’uomo venuto dalle Marche (essendo nativo di Jesi) e neppure dalla Sicilia (dove passai la mia infanzia) e neanche dalla Germania, come lascia intendere il nome della mia casata (degli Hohenstaufen), ma come figlio di Puglia. E se la Puglia è la regione ch’io ho più cara, c’è una terra in Puglia ch’io prediligo su ogni altra, ed è la Capitanata, la città di Foggia e l’immenso Tavoliere, che sono il punto di riferimento dei miei ritorni autunnali e dei miei ozi creativi. Mi creda, se il Signore avesse conosciuto questa pianura, luce dei miei occhi, si sarebbe fermato a vivere qui.

Pressato da papa Gregorio IX, e sotto la minaccia di una scomunica, parte per la sesta Crociata, ma una pestilenza scoppiata durante il viaggio in mare che falcidiò i suoi crociati lo costrinse a rientrare a Otranto. Il papa interpretò questo dietrofront come una scusa e lo scomunicò.

1231

Emana le Costituzioni Melfitane, codice legislativo del Regno di Sicilia, fondato sul diritto romano e normanno, tra le più grandi opere della storia del diritto.

1250

Il 13 dicembre durante una battuta di caccia, mentre si sposta da Torremaggiore a Lucera, cade vittima di una infezione intestinale (secondo il suo consigliere Guido Bonatti, invece, fu avvelenato) e muore a Castel Fiorentino. La salma viene tumulata nel Duomo di Palermo. Recentemente il sepolcro è stato riaperto: Federico giace sotto le spoglie di una donna sconosciuta.

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Le interviste impossibili L La corona di Federico II

M Il sigillo di Federico II

L Augustale (1231)

GIANNELLA - Sarebbe bello usare per la nostra intervista il dialetto pugliese, che è anche la mia lingua d’origine. Ma per una migliore comprensione dei nostri lettori preferisco l’italiano. FEDERICO - E sia. Però le premetto che questo colloquio dovrà avere principalmente per argomento il “De arte venandi cum avibus”. GIANNELLA - Il suo libro sulla caccia con i falconi? FEDERICO - Sì, proprio quello. Ho impiegato molti anni per scriverlo. Ma lei l’hai letto? GIANNELLA - Certo, maestà. Ho anche favorito la ripubblicazione in un’edizione di lusso. Spero che non se ne abbia se le ho modificato il titolo: L’universo degli uccelli, l’ho chiamato. Sa, l’editore Giorgio Mondadori mi ha assicurato che avrebbe venduto di più. Ed effettivamente così è stato. E’ andato esaurito. Pensi che molte copie sono state richieste anche da naturalisti e bibliofili dalla Germania. FEDERICO - Non mi sorprende, lassù c’è ancora tanta gente che mi vuole bene. Dunque le dicevo che voglio parlare agli italiani di questo libro perché l’ultima volta che ho concesso un’intervista alla Rai italiana mi hanno tagliato proprio su questo tema che mi stava a cuore. Ancora mi rimbomba nelle orecchie il brutale richiamo finale, in dialetto romano, del tecnico radiofonico al giornalista, il pur bravissimo Andrea Camilleri: “Aho, e che famo? Dotto’, io chiudo”. GIANNELLA - Forse lei si stava attardando su aspetti molto specialistici, da addetti ai lavori. FEDERICO - Macché, io volevo sottolineare che quel mio libro non è solo il taccuino illustrato del primo birdwatcher della storia, ma è anche un’opera straordinaria soprattutto considerando l’epoca in cui appare: il Medioevo, un’età piena di superstizioni e di credenze che niente hanno di scientifico. Prima di me, gli ululati dei rapaci notturni erano interpretati come messaggi di morte. Le rane che si trovavano nelle paludi si pensava fossero piovute dal cielo. Gli uccelli migratori non è che migrassero: d’inverno si intanavano nelle rive dei fiumi, o addirittura sottoterra, come in una specie di letargo. E tutto questo veniva tramandato dai “bestiari”, una mescolanza di fatti e fantasie continuamente ricopiata. Tutto ciò non lo sopporto più, mi sono detto. Io ho voluto osservare sul campo, descrivere, talora sperimentare. Ho una curiosità innata per gli animali. GIANNELLA - Non trova contraddizioni nel fatto che poi lei vada a caccia? FEDERICO - Molti cacciatori sostengono di essere veri naturalisti, di amare la natura e di trarre un profondo godimento dal conoscerla. E’ probabile che questa asserzione contenga un fondo di verità. Io credo di aver fatto un passo in avanti: ho dimostrato che si può essere spinti dalla curiosità per la preda ma poi non tendere più a ucciderla e a mangiarla. Il possesso può farsi intellettuale. Comprendere, descrivere. Portare a casa un ricordo, un’immagine. Ecco, questa è la svolta storica impressa dal mio libro.

Un primo tuono interrompe il sovrano. Superati i vigneti, si arriva al bosco dell’Ofantino: Federico zittisce tutti, in un silenzio irreale lascia andare il falco, dopo avergli tolto il cappuccio. L’ucccello, con rapida corsa, ghermisce saldamente sul dorso uno splendido fagiano, trascinandolo a terra con una brusca virata. Un servo raccoglie la preda. Ma un’improvvisa pioggia, seguita da fulmini, induce a modificare il programma di marcia. Si punta al galoppo verso la foce dell’Ofanto e da lì verso il vicino castello di Barletta da dove anni prima Federico era partito per la sesta crociata. Lì ci sarà tempo per una serata ristoratrice, alla presenza di un invitato d’eccezione, lo scrittore-storico del posto, Renato Russo, privilegiato biografo al quale l’imperatore ha riservato il racconto dettagliato della sua vita. L’intervista riprende a tavola, un blocco di granito bruno del Gargano lungo circa quattro metri, sorretto da quattro pilastri tozzi, nella “Sala del Trono” del castello svevo, illuminata dalla intensa luce di cento candelabri. Berardo, il cuoco di fiducia dai tempi della Crociata, ha preparato un menù tipico della cucina federiciana. I piatti vengono serviti da flessuose inservienti orientali in sottovesti colorate di seta appena trasparente, dall’aria maliziosa. FEDERICO - Andremo un’altra volta a Canne, a sentire quel terreno che nella mia mente ancora rimbomba della battaglia vittoriosa di Annibale

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L Ulivi e olive di Puglia

e dei passi dei suoi maestosi elefanti. Il mio gran giustiziere, Riccardo di Montefuscolo, mi ha elencato le cifre impressionanti del massacro dei Romani in quel giorno d’agosto del 216 avanti Cristo: oltre 40 mila morti fra le truppe e 19 mila furono i prigionieri. Tra i Cartaginesi si contarono soltanto 6 mila caduti: un trionfo per Annibale. Non capirò mai perché, pur avendo ormai Roma in pugno a soli 5 giorni di cavalcata, quel condottiero si sia distratto e si sia fermato a Capua, per oziare. Io, queste cose, non le lascio mai a metà. GIANNELLA - Si parla di un innamoramento forte per una donna di Salpi, Iride, che avrebbe attutito l’istinto guerriero di Annibale. Lei, che di donne se ne intende, dovrebbe capire... FEDERICO - (riprende, soddisfatto) Posso capirlo come uomo, ma lo condanno come stratega. Ma passiamo ad argomenti meno cruenti. Come le pare questa zuppa di verdura? Preferisce assaggiare la selvaggina condita con la salsa piccante a base di vino, olio, aglio, mollica di pane, uva acerba e cipolle? O vuole puntare sulla specialità di Berardo, il “pollomangiare”, pollo ripieno di mandorle, latte e spezie varie? Viene servito con l’agliata, una salsa d’aglio diluita con vino e aceto, innaffiato con un corposo rosso di Troia. GIANNELLA - Mi piace l’idea che lei abbia scelto varietà tipiche di questa terra. FEDERICO - Come si fa a trascurare le bontà di quaggiù? Tutta la Puglia, lei lo sa, è un immenso uliveto e l’olio assume la più grande ricchezza di profumi e sapori diversi. Qui la coltura dell’ulivo risale addirittura al Neolitico (5.000 avanti Cristo) e ultimamente si sono fatti avanti dei furbi mercanti veneziani per esportarlo. In quanto al vino, confesso che quando sono in Sicilia faccio mettere a tavola il moscato di Siracusa, uno dei più antichi vini mediterranei. Ma qui, in Puglia, punto sul vino pugliese, anche per una questione di giustizia. GIANNELLA - Giustizia? Non capisco... FEDERICO - Le spiego: il vino pugliese, come l’olio, è stato identificato dai mercanti veneti, friulani e dell’Oltrepò pavese come un vino di serie B, vino soltanto “da taglio”, merce di prezzo vile, capace di arricchire e completare vini più prestigiosi. Eppure molti non sanno che la regione italiana con la maggiore produzione vitivinicola è la Puglia. La ragione di questa scarsa fama dei vini pugliesi è data dal fatto che per lungo tempo il mosto pugliese è stato impiegato per il taglio di vini di altre regioni, e in particolare per arricchire produzioni vinicole aventi un grado alcolico molto basso. Negli ultimi anni la situazione è tuttavia cambiata: alcuni imprenditori locali, certi del valore e della qualità dei loro vitigni, hanno deciso di presentarsi sul mercato da soli. Alla base di questa decisione la volontà di proporre al pubblico prodotti derivanti da vitigni autoctoni, che non si trovano altrove e quindi unici nel loro genere: penso al Negroamaro, al Primitivo (questi ultimi due, abbinati, hanno dato vita al Platone, una delle specialità di un bravo cantore di qui vicino, Cellino San Marco), all’uva di Troia, al Bombino bianco e nero e alla Malvasia nera, agli emergenti e poco conosciuti Ottavianello e Susumaniello. Io mi auguro che presto possano emergere imprenditori capaci di restituire dignità e futuro agli agricoltori e alla gente pugliese, dando dignità e futuro al lavoro e alle merci che producono. A parer mio, viaggiatore costante in terra pugliese, dal garganico Castel Fiorentino fino a Otranto, ci sono almeno 25 vini meritevoli delle cinque stelle. Berardo li ha tutti in cantina. Berardo! (Il sovrano chiama al tavolo il suo cuoco di fiducia). Berardo, dia al cronista di “DeVinis” la lista dei vini nella nostra cantina. (Il cuoco consegna un foglio dei vini in ordine alfabetico. Il cronista legge: Aleatico, Alezio, Brindisi, 17


Le interviste impossibili

L Castel Del Monte domina la campagna pugliese. Costruito nel XIII secolo, è situato su una collina della catena delle Murge occidentali, a 540 metri sul livello del mare. E’ patrimonio dell'umanità dell'UNESCO dal 1996.

Cacc’ è mitte, Castel del Monte, Copertino, Gioia del Colle, Galatina, Gravina, Leverano, Lizzano, Locorotondo, Martina, Matino, Moscato di Trani, Nardò, Ortanova, Ostuni, Primitivo di Manduria, Rosso di Barletta, Rosso di Canosa, Rosso di Cerignola, Salice Salentino, San Severo, Squinzano). FEDERICO - Sono tutti vini che hanno il calore delle parole. E che vanno gustati accostati ai sapori genuini, forti e raffinati, del Sud, dei panzerotti e dei frutti di mare, delle cime di rapa e dei lampascioni. Bene, adesso se vuole passiamo ad altri temi a me cari: la poesia, l’arte, la musica, l’architettura... GIANNELLA - Lo so, lo so che per la sua inestinguibile curiosità intellettuale la chiamano “Stupor Mundi”. Per la verità, io mi aspetterei ora che lei mi parlasse del suo grande progetto strategico: la riunificazione, in un grande Impero, come ai tempi di Carlo Magno, che ricomprendesse il Regno di Germania, il Regno d’Italia e il Regno di Sicilia. Una grande impresa, che solo l’ostinata e irriducibile volontà del Papato non le consente di realizzare. FEDERICO - Guardi, io a tavola non parlo mai di guerra, da sempre ho voluto significare il profondo solco che voglio porre tra l’uno e l’altro momento della mia vita, della mia giornata. Se vuole, ne parliamo domani. Ho un appuntamento a nord, a Castel Fiorentino, presso Lucera. Domani si mangia pesce. Ho ordinato a Riccardo di Pucaro, della Curia di Foggia, di far pervenire a Berardo dei buoni pesci del lago di Lesina e altri dei migliori che si possano trovare affinché egli ne faccia per noi l’aschipescia e la gelatina. GIANNELLA - L’aschipescia? Mai sentita. Di che si tratta? FEDERICO - C’è chi la chiama scapece, si può preparare con due tipi di pesci: la razza e l’anguilla di Lesina trattata con l’aceto e conservata in una gelatina. Beh, se vuole assaggiarla, venga con noi domani. GIANNELLA - Mi spiace dover rifiutare l’invito, ma devo consegnare l’intervista entro mezzogiorno e... FEDERICO - (interrompe innevosito) Sempre così, voi giornalisti. Con i minuti contati. Vabbè, sarà per un’altra occasione. Ora la lascio perché esco a prendere una boccata d’aria. Vuole accompagnarmi? GIANNELLA - Volentieri. Nell’atrio del castello-gioiello della Puglia Imperiale, il sovrano si fa strada tra gli uomini di guardia. Il suo sguardo viene attratto dal cielo stellato che il buio della notte rende ancora più splendente. Il suo occhio viene distratto per un attimo dalla caduta di una stella. FEDERICO - Un segno di cattivo augurio! Forse è meglio che cancelli il viaggio a Castel Fiorentino, GIANNELLA - Ma come, maestà. Questo pensiero non è da Lei, che si batte contro le superstizioni. FEDERICO - (a bassa voce) Sì, non sono superstizioso, ma credo nella sfortuna.

Post scriptum: Castel Fiorentino sarà il luogo dove Federico II, durante una battuta di caccia morirà il 13 dicembre 1250. Cade vittima di una infezione intestinale. Secondo il suo consigliere Guido Bonatti fu invece avvelenato. (7. Continua - Le precedenti Interviste impossibili di Salvatore Giannella sono state dedicate a Garibaldi, Mozart, Leonardo da Vinci, Cavour, Fellini e Caterina Sforza). 18


Sommeliers nel Mondo

Una Carta dei Vini a prova di

New York

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di Alessandra Rotondi remessa: a Manhattan, cioè in uno solo dei quartieri di New York (esclusi quindi gli altri borough, Brooklyn, Queens, Bronx e Staten Island), secondo il portale Menù Pages – una sorta di Pagine Gialle della ristorazione – ci sono circa settemila ristoranti, espressioni di tutte le cucine del mondo. Quelli italiani, considerando anche Brooklyn dove l’immigrazione dal nostro Paese è molto consistente, sono un migliaio. L’offerta di locali dove mangiare o bere è straordinariamente elevata e ciò che non funziona è destinato a uscire dal mercato in tempi molto più rapidi rispetto ai “parametri” italiani. A New York preparare una Carta-Vini richiede innanzitutto una conoscenza non improvvisata di questa città, che non si limiti cioè ai gusti dei newyorkesi in fatto di cibi e bevande. Tecnicamente serve una grande esperienza in sala a contatto con i clienti. È indispensabile poi il “Dietro le quinte”, cioè stabilire con i ristoratori e i rappresentanti delle ditte di importazione e distribuzione vini un eccellente rapporto professionale e di fiducia, facendo con loro molte degustazioni per mantenersi costantemente informati sulle nuove uscite o su offerte promozionali. Vale la pena ricordare che le leggi che regolano la circolazione, acquisto e vendita di alcolici in America sono complicatissime e variano da città in città. Invitare poi personalmente e ospitare frequentemente i wine producer o gli enologi rende più credibile ed efficace il lavoro di wine consultant. La prima domanda al ristoratore per la compilazione o il rinnovo di una Carta-Vini, è se in sala sarà prevista la presenza di uno o più sommeliers. Se nessun sommelier è previsto, anche qualora doves-

P

sero esserci camerieri con grandi cognizioni enologiche, è lampante che non sarà dedicato molto tempo al suggerimento dei vini ai clienti, né a un prolungato servizio degli stessi, considerando che a New York si mangia a ritmo continuo, a tutte le ore e che quindi non ci sono mai tempi morti. Per questa categoria di ristoranti ci si dovrà orientare quindi su quei vini che non richiedano lunghe pratiche di decantazione o avvinamento, e sulle tipologie più conosciute e, nel loro interno, sulle etichette famose perché magari presentate durante programmi televisivi di massima audience o recensite da esperti come Robert Parker, o con punteggi elevati su Wine Spectator, la cosiddetta “bibbia” delle riviste enologiche. Tra le regole da non sottovalutare quindi, anche quella di leggere recensioni, classifiche e informarsi delle mode indicate dai media. La fascia di prezzo che intende applicare il ristorante e il tipo di cucina sono ovviamente ulteriori criteri di ispirazione. Se il ristorante è di livello medio e non prevede verticali in Carta, è bene inserire vini di annate estremamente recenti, maggiormente richiesti dai clienti non esperti. La regionalità della cucina non sempre viene rispettata in Carta-Vini. È fondamentale che venga recepito che per quanto il Made in Italy sia associato dagli americani, e dai newyorchesi in particolare, all’eccellenza sia nel cibo, sia nella moda e sia nei vini ovviamente, ciò non significa che basti che un prodotto sia italiano per essere inserito in carta o per avere successo nei consumi, perché i vini che vendono di più in ristorante sono le tipologie internazionalmente conosciute.

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Sommeliers nel Mondo

Alessandra Rotondi esibisce una sua Carta dei Vini alla “Brasserie Cognac” con i proprietari Fabio Granato e Vittorio Assaf Alessandra Rotondi nelle pagine di Wine Spectator, sezione dei premi annuali 2007 ai ristoranti per le migliori Carte dei Vini

Anche se non dotato di incredibile fama internazionale, lo Zinfandel non può mancare, vinificato in rosé e in rosso, così come il Pinot Grigio che viene considerato sinonimo di italianità. Questi vini devono essere presenti anche al bicchiere. Molto richiesto, “a nice glass of Chianti”, anche Classico naturalmente. La selezione al bicchiere deve essere ampia perché gran parte del consumo avviene così. Nei ristoranti di New York non vale il discorso “Se siete 4 persone, vale la pena che compriate una bottiglia” perché il conto finale viene diviso praticamente sempre, nel senso 4 persone, 4 conti con 4 carte di credito differenti. Ciò rappresenta la regola e tutti i camerieri sono abituati ad andare in cassa con decine di carte di credito, senza fare il minimo problema o confusione. In sostanza, si privilegia la scelta del vino a bicchiere perché se ne berrà solo uno o due al massimo e si pagherà solo per la quantità veramente consumata. Roberto Alessandrini, manager di vendita della Southern Wine and Spirits – una delle più grandi e attive compagnie di importazione e distribuzione di vino ed alcolici operanti su New York e a livello nazionale – conferma che “i ristoratori newyorkesi stanno privilegiando ultimamente i vini di produttori piccoli, possibilmente artigianali, verdi e organici, e quelli di regioni emergenti come il Sud Africa e l’Austria o delle regioni meno comuni dei paesi che però hanno consolidata tradizione vinicola. Funzionano sempre i prodotti creati da enologi famosi. La maggior parte dei ristoranti aggiorna poco per volta le Carte, ma costantemente. Altri fanno cambiamenti più radicali due volte l’anno, a Primavera e in Autunno, rendendo la Carta più stagionale”. Il wine consultant deve anche tener conto della chiusura per

inventario delle compagnie distributrici e quindi l’impossibilità durante quei periodi di effettuare acquisti, solitamente un paio di settimane a gennaio e altre due a luglio. Poi ci sono gli scioperi non prevedibili. Il prezzo dei vini in Carta viene deciso con criteri simili a quelli applicati in Italia. Dalla nostra esperienza personale possiamo dire che i ristoranti di cui chi scrive cura la Carta-Vini applicano un ricarico inferiore a due volte il costo della bottiglia al dettaglio, preferendo stabilire con i clienti un eccellente rapporto di trasparenza e onestà. Della stessa tipologia di vino si comprano almeno 2 casse per volta per poter avere gli sconti dalle case distributrici. Per concludere questa esplorazione, ecco un elenco di ristoranti italiani che nel corso degli ultimi anni hanno ricevuto i massimi riconoscimenti da Wine Spectator per la loro Carta dei Vini per la grandezza e completezza del loro inventario; altri, pur non vincendo analoghi premi o avendo inventari minori, privilegiano la predominanza, se non esclusività, di vini Italiani, insieme ad una cucina eccellente e rappresentativa dell’Italia. Iniziamo da Alto, nel senso iniziamo dal Trentino Alto Adige, regione che ispira la cucina e la carta vini di questo ristorante altoatesino: 2.400 etichette prevalentemente del Nord-Est italiano, con un totale di circa 37.000 bottiglie inventariate. Da Babbo sono 1.300 le tipologie per 40.000 bottiglie in cantina, rappresentative delle 20 regioni italiane. Per evocare un’atmosfera da osteria-vinoteca, il vino viene servito anche in ‘quartino’, moda del tutto atipica a New York. “I vini italiani, come il cibo, sono del tutto accessibili. Per essere buoni i vini non devono essere tremendamente cari”. Questa è la filosofia della famiglia italia-

L Il ristorante Barbetta

L Il ristorante “Del Posto”

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na Bastanich, proprietari di Babbo ma anche di Del Posto e di Felidia, i cui numeri in cantina sono analogamente alti. Felidia ha anche un’eccellente selezione di grappe. La più grande e accurata selezione di vini piemontesi a New York, e forse negli Usa in genere, si trova da Barbetta. Nel 1962, quando l’attuale proprietaria, Laura Maioglio, originaria di Fubine Monferrato, ereditò il ristorante aperto da suo padre Sebastiano nel 1906, solo un Barolo veniva importato in America mentre non c’era alcuna traccia di Barbaresco, Nebbiolo, Gattinara, Ghemme, Barbera o Grignolino. Se questi vini vennero introdotti nel mercato americano lo si deve alla famiglia Maioglio. Serve Manhattan con circa 1.700 etichette e 13.000 bottiglie in cantina. La cosiddetta “Grande Banca” dei vini del Sud si trova al San Pietro, specialmente quelli della Campania, Sicilia, Sardegna e Puglia. L’inventario è minore rispetto ai nomi sopra riportati, ma fa piacere vedere una buona selezione di vini da Piedirosso e Aglianico. Una delle migliori selezioni di vini da Gaglioppo la può vantare Dopoteatro, a causa delle origini calabresi dei proprietari, ma anche molti vini da Perricone e Cannonau sono degustabili. Rimanendo tra gli inventari ridotti, ma con eccellenza di selezione, segnaliamo Amarone che, nel rispetto del nome, offre una delle migliori e più complete Carte di Amaroni della città con costi molto contenuti. Chi pensa che le pizzerie a New York non abbiano una buona selezione di vini, dovrà ricredersi: i sei Serafina, sparsi in tutta Manhattan e riconoscibili dalle loro tendine gialle con scritte blu, hanno una carta completa e in continua evoluzione anche grazie al fatto che, essendo per l’appunto presenti in città con ben sei locali, dispongono dello spazio fisicamente necessario per immagazzinare e mantenere molte casse di vino, permettendosi ricambi altrimenti difficili. Quindi, anche lo spazio a disposizione in magazzino, è un fattore assolutamente decisivo per la compilazione di una buona Carta. Concludendo, la cosa imprescindibile per avere una Carta-Vini funzionante su New York è… saper vivere a New York, osservando tutto con lungimiranza: la preparazione accademica e l’origine italiana a nulla possono servire senza una grande esperienza ed un atteggiamento di disponibilità per capire una città in cui convergono e vivono tutte le culture del mondo, comprese quelle che mettono il ghiaccio nel Brunello!


Costumi

La storia di un Paese scritta sulle pareti dei

pub

E’ L’ABBREVAZIONE DI “PUBLIC HOUSE”: NEL REGNO UNITO CE NE SONO SESSANTAMILA

di Stefano Tura

Corrispondente Rai da Londra

è una tradizione nel Regno Unito, capace di resistere a tendenze, mode, divieti, burrasche finanziarie e crisi delle sterlina: il pub. Non più tardi di un anno e mezzo fa si era detto che l’introduzione del divieto di fumo nei locali pubblici in Gran Bretagna avrebbe svuotato i pub. Al contrario anche senza la coltre di nuvole dense e azzurrognole che per decenni li ha caratterizzati, questi locali hanno resistito. Poi è stato l’aumento del prezzo di birra e alcolici a fare gridare “al lupo, al lupo!” i soliti pessimisti dell’ultima ora. Ma, come prevedibile, la cultura del pub non ne ha risentito. Negli ultimi tempi, infine, esperti e analisti finanziari si sono dati un gran da fare per spiegare come la recessione avrebbe modificato le abitudini dei britannici. A partire dal tempo libero, che avrebbe coinciso – a loro parere –

C’

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con la rinuncia da parte degli inglesi alle ore di svago trascorse nei pub. Previsioni sbagliate. Basta recarsi in uno qualsiasi dei tantissimi locali di questo genere sparsi in tutta Londra per capire come il pub occupi tuttora un posto insostituibile nello stile di vita dei britannici. Vi si recano regolarmente ogni giorno all’ora di pranzo per consumare uno spuntino e sorseggiare un bicchiere di vino o birra e vi si ritrovano con amici e colleghi dopo l’orario di lavoro per smaltire, tra fiumi di birra, le fatiche e lo stress della giornata. A partire da giovedì e per tutto il finesettimana, i pub diventano luoghi di appuntamenti, svago e intrattenimento. Ci sono i locali che organizzano esibizioni musicali dal vivo, quelli che offrono la visione dei maggiori eventi sportivi (calcio, rugby, cricket) e quelli che si distinguono per le specialità gastronomiche (i gastropub). Nel week-

end raggiungere il bancone per ordinare una birra può essere un’impresa ardua. Ma è certo che nei pub troverai sempre qualcuno disposto a fare due chiacchiere, un brindisi o condividere un’esperienza. Per capire il perché nell’isola britannica il pub è così radicato nella società, occorre analizzare la storia di questo locale. Il suo nome è l’abbreviazione di “Public House”. Nel Regno Unito ci sono circa sessantamila pub, praticamente almeno uno in ogni città, paese e villaggio. Durante la dominazione romana, grazie alla creazione delle prime reti stradali, iniziarono a vedersi le prime taverne ma la nascita dei pub, come li intendiamo oggi, va fatta risalire al 965 quando Re Edgar emise un decreto per il quale non poteva esserci più di un locale per villaggio. All’epoca dei Sassoni era diffusa un'usanza secondo la quale il titolare del pub dovesse


L Ye Olde Cheshire Cheese

L L'insegna del celebre George Inn

L Lamb and Flag, uno storico pub in stile XVI secolo

esporre un'insegna verde in cima a un palo per avvertire la gente che la birra era pronta. Le birrerie spesso producevano da sole le bevande che vendevano e ognuna aveva una propria caratteristica. Tuttavia dalla fine del XVII secolo iniziarono ad apparire i primi birrifici indipendenti. Dopo la rivoluzione del 1688 il numero dei pub crebbe a dismisura a causa dell’introduzione del gin, portato in Inghilterra dagli olandesi. Nel 1393 Re Riccardo II obbligò gli osti a erigere insegne al di fuori dei loro edifici. Questa legge fu emanata per rendere più riconoscibili i pub, al passaggio degli ispettori che dovevano giudicare la qualità della birra che veniva somministrata. Le prime insegne spesso non erano dipinte, ma consistevano di strumenti legati al processo produttivo come mazzi di luppolo o attrezzi della produzione che erano sospesi sopra la porta del pub. In alcuni casi erano usati soprannomi locali o simboli naturali e religiosi come "Il Sole", "La Stella", "La Croce" e talvolta elementi di araldica del signore locale a cui apparteneva la terra sulla quale sorgeva il pub. Tradizionalmente in Inghilterra i pub erano luoghi dove si consumavano bevande alcoliche. Il cibo era una fattore di poca importanza. I pochi spuntini consistevano in pietanze tipiche della cucina britannica, come cotenna di maiale, uova sottaceto, patate fritte e arachidi, snack salati per aumentare la sete dei clienti. Ai giorni nostri al contrario quasi tutti i pub servono cibi freschi, sandwiches, piatti tradizionali come il “fish and chips” e una varietà di dolci , a partire dal pudding. Per non parlare dei “gastropub”, dove l’enfasi è posta sulla qualità. Nati a inizio degli anni Novanta rappresentano un’ulteriore

occasione per consumare cibo di ottima cucina in un ambiente rilassato e informale. I gastropub vengono considerati luoghi ideali dove pranzare durante il fine settimana o dove trascorrere una piacevole serata con gli amici. Nella classifica dei pub più antichi di Londra compaiono, nei primi posti lo “Ye Olde Cheshire Cheese” frequentato a suo tempo da Alexander Pope, Mark Twain, Voltaire e Charles Dickens. Venne ricostruito dopo il grande incendio del 1666. Si trova al 145 di Fleet Street. Molto popolare il ristorante al piano di sopra, meta preferita di giornalisti, avvocati e impiegati. E’ una delle poche public houses ad aver conservato un’atmosfera stile XVIII secolo con piccole stanze, caminetti, tavole e panche. Il “Lamb and Flag” è un piccolo pub in stile XVI secolo. E’ il più antico tra quelli della zona di Covent Garden. E’ situato al numero 33 di Rose Street.

Al piano di sopra c’è un ristorante e un secondo bar, ed entrambi, verso il tramonto, tendono a diventare molto affollati. Lo “Spaniards Inn” venne costruito nel 1585. Pare che i poeti Shelley, Keats e Byron venissero qui a bere, e che anche il famigerato brigante Dick Turpin avesse visitato questo pub che si trova a Spaniard Road, un po’ distante dal centro città. Il pub “Angel” la cui storia risale al XV secolo, è famoso a Londra per la spettacolare vista sul Tower Bridge e sul Tamigi. Si trova al 101 di Bermondsey Wall East. Dal 1937 il pub “George Inn” è un monumento nazionale. Viene menzionato nella novella di Dickens, “Little Dorrit”. E’ l’immagine di quella che era Londra al tempo dei Tudors, 50 anni dopo la scoperta della’America. E’ a sud del Tamigi, nella splendida cornice del Borough Market a pochi passi dal teatro Shakespeariano. Molti pub londinesi ospitano anche associazioni culturali e artistiche. “The Dove” di Hammersmith vanta tra i clienti del passato giganti della letteratura del ventesimo secolo come Graham Greene ed Ernest Hemingway. The “French House” a Soho non fu solo il quartier generale non ufficiale della Resistenza Francese durante la Seconda Guerra Mondiale, ma annovera tra i suoi assidui ex clienti Dylan Thomas e Brendan Behan. Nell'area nord di Londra, il “Clissold Arms” ospitò la prima esibizione di Ray Davies e i Kinks. I Rolling Stones infine tennero il loro primo concerto nel febbraio del 1962 al “Crawdaddy Club” dello Station Hotel di Richmond, divenuto oggi il pub “Edwards”. La storia di questo paese, dal tempo dei romani ai nostri giorni, è scritta nelle pareti dei pub. Cancellarla non sarà mai possibile. 25


Saranno famosi

A

Bonnieux

la finzione diventa

realtà

di Antonello Maietta

er la prima volta la nostra rubrica esce dai confini nazionali e si sposta in Francia, per la precisione nel Luberon, piccola, affascinante, selvaggia e incontaminata area della Provenza, per raccontare le storie parallele di un appassionato sommelier e di un film di successo. Il sommelier si chiama Andrea Balzani, attualmente delegato Ais della Versilia, e nella sua vita ha coltivato due grandi passioni: la fotografia e il vino. In effetti il suo percorso professionale inizia proprio come fotografo a Firenze, sua città natale, poi il vino ha avuto in parte il sopravvento quando decise di iscriversi ai corsi dell’Ais nel 1993. Di lì a poco si trasferì in Versilia e iniziò la sua attività nel mondo della ristorazione partendo proprio dalla gavetta come commis di sala ma mettendosi ben presto in luce visto che già nel 1997 fece il suo debutto come sommelier al Bistrot di Forte dei Marmi, per passare l’anno successivo a dirigere nella stessa località il gettonatissimo Bollicine. Negli anni a seguire si sposta a Viareggio, prima all’Oca Bianca del mitico Marco Garfagnini e poi al Giordano Bruno. Una carriera densa di successi culminata nel 2004 con la vittoria al concorso per il Miglior Sommelier della Toscana, con l’attribuzione dell’Oscar del Vino come

P

Un’ottima annata Titolo originale: A Good Year USA - 2006 Regia: Ridley Scott Soggetto: Peter Mayle (romanzo) Sceneggiatura: Marc Klein Produttore: Ridley Scott, Lisa Ellzey, Guy Pechard Interpreti principali: Russell Crowe, Albert Finney, Marion Cotillard, Abbie Cornish, Didier Bourdon Fotografia: Philippe Le Sourd Musiche: Franz Ferdinand, Alizee, Athlete, Marc Streitenfeld 26

miglior sommelier d’Italia nel ristorante e con il riconoscimento al locale dove presta la sua attività del premio Cantina d’attrazione d’Italia. L’esperienza in questo settore termina alla fine del 2007 quando decide di chiudere con la ristorazione per inaugurare nel gennaio 2008 la sua attività di distribuzione, la Balzanì, con l’accento sulla i proprio come la pronunciano i suoi amici fornitori francesi, diventando così un selezionatore e importatore di vini, prevalentemente da Francia e Spagna, concentrandosi particolarmente sul suo primo amore: le bollicine. Il film di cui parliamo è invece quello diretto dal regista Ridley Scott, dall’emblematico titolo di A Good Year, ambientato in un pittoresco paesino chiamato Bonnieux, nel cuore del Parco nazionale del Luberon, tra Avignone ed Aix en Provence. Si tratta di un racconto adattato per il grande schermo dal famoso romanzo con cui Peter Mayle, uno scrittore inglese appassionato della Provenza, ci racconta la storia di un broker della City londinese a cui viene lasciato in eredità dallo zio un piccolo castello, con annessi vigneto e cantina, dove il protagonista aveva trascorso le spensierate estati della sua fanciullezza. Non si tratta sicuramente di un evento cinematografico da premio


L Château La Canorgue, location del film ''Un'ottima annata'' e sede dell'azienda vinicola

L Andrea Balzani presso Château La Canorgue

Oscar e, con tutta sincerità, sia Russell Crowe che la sua splendida partner Marion Cotillard ci avevano abituato a ben altre prestazioni, tuttavia la loro gradevole e simpatica interpretazione rende particolarmente appassionante questa commedia romantica, senza violenza, senza sparatorie, senza morti e feriti. Queste due storie a un certo punto curiosamente si intrecciano grazie alla complicità di un vino. Accadde infatti che quando il film uscì nelle sale cinematografiche italiane, nel dicembre del 2006, col titolo Un’ottima annata, il nostro sommelier non riuscì a vederlo, impegnato com’era nel ristorante. Non se lo lasciò però sfuggire qualche mese dopo quando la storia fece la sua comparsa nelle videoteche. E così una sera mentre le sequenze del film scorrevano sul televisore di casa, facendo

crescere l’emozione per il racconto e per le verdi colline del Vaucluse, maturò la decisione di visitare quel territorio reso così affascinante dalle immagini che avevano appena catturato la sua attenzione. E così, grazie al fermo immagine del lettore dvd, Andrea fissò nella memoria alcuni preziosi elementi di riferimento come i cartelli con le indicazioni stradali e il giorno successivo parte in moto alla volta della Provenza. Dopo due giorni di infruttuosa ricerca lungo le piccole strade del Luberon, ecco che sullo scaffale di una brasserie di paese si materializza qualche bottiglia di Coin Perdu, il vino raccontato nel film. Lo stupore fu grande poiché lo scopo non era tanto quello di trovare un vino, erroeamente ritenuto un frutto della fantasia dell’autore, quanto di scoprire quei luoghi di incomparabile bellezza meticolosamente descritti nella sceneggiatura. Mai più avrebbe infatti immaginato che quel vino, raccontato con tanta enfasi, non corrispondeva a una finzione cinematografica ma era proprio lì davanti e per giunta portava lo stesso nome e vestiva la stessa etichetta che aveva memorizzato qualche sera prima. Le efficaci indicazioni e le intercessioni del gestore del locale si rivelarono quindi utilissime per raggiungere brevemente Château 27


Saranno famosi La Canorgue, la felice location del film, e per conoscere il suo proprietario Jean Pierre Margan, da più di 30 anni alla guida dell’attività di famiglia. L’istrionica toscanità di Andrea e la sua innata capacità di comunicazione hanno fatto poi il resto ed oggi la Balzanì è l’azienda che importa in esclusiva per l’Italia i vini di questa solida realtà produttiva, eretta niente meno che da Papa Benedetto XIV. I vini prodotti provengono tutti da vigne coltivate secondo i principi dell’agricoltura biologica e affrontano il mercato attraverso l’appellation d’origine controllee Côtes du Luberon, coniugata in 5 differenti tipologie. Il nostro percorso di degustazione inizia quindi con La Canorgue Blanc 2007, un uvaggio di Clairette, Bourboulenc, Roussanne e Marsanne in parti uguali, provenienti da vigne con rese bassissime, dell’ordine di 30 ettolitri ad ettaro, sottoposto a una fermentazione di circa 12 giorni con l’utilizzo di soli lieviti indigeni e imbottigliato molto giovane nel Febbraio 2008 senza fare malolattica. Si presenta alla vista di colore giallo paglierino intenso con smaglianti riflessi verde-oro. Il profumo è di grande intensità e persistenza con decisi ricordi di pesca gialla matura, salvia e suadenti accenni minerali. In bocca è secco e caldo, con i toni morbidi in evidenza, ben equilibrati tuttavia da piacevoli note fresche e sapide. La Canorgue Rosé 2007 nasce invece dal contributo di Grenache al 70% e di Syrah per la differenza, le uve pigiate vengono avviate a una fermentazione di 14 giorni, senza malolattica e senza contatto pellicolare, utilizzando solo la pressa pneumatica. Si ottiene un vino dal colore rosa corallo con vivaci riflessi tendenti al cerasuolo. Al naso è fine, con gradevoli sentori disposti su note fruttate in cui spiccano la fragola, il lampone 28

e la susina. All’esame gustativo esprime un piacevole equilibrio, con fragranti sfumature di freschezza e sapidità che rendono particolarmente invitante la beva. La Canorgue Rouge 2006 prevede invece l’utilizzo di Syrah per il 70%, Grenache 20% e Carignan 10%. La fermentazione e il contatto con le bucce dura circa 10 giorni, poi sosta in botte grande per 6 mesi e per i successivi 12 mesi si affina in bottiglia. E’ un rosso dal colore rubino intenso con un naso assai complesso di amarena candita, viola appassita, cuoio e liquirizia Al palato esprime poi una ricca struttura e una coerente matrice tannica. Ma l’espressione massima della filosofia aziendale si ritrova nel Coin Perdu 2006, letteralmente l’Angolo Perduto, il vino reso famoso dal film di Ridley Scott, ottenuto da uve Syrah per il 70%, Carignan di una vigna molto vecchia per il 20% e Grenache per il 10%. Alla vista si copre di un manto rosso rubino denso, impenetrabile e lucente. Offre una dotazione olfattiva dai netti

riconoscimenti di pruno selvatico, ribes nero e vaniglia, con delicati accenni di tabacco e pepe nero. Piacevole poi la componente calorica che avvolge il palato, ben mitigata da tannini vivi e presenti. A completare la gamma ci pensa il Douce Canorgue 2005, una vendemmia tardiva frutto di un assemblaggio di Roussanne e Marsanne con raccolta manuale effettuata nel mese di Novembre. Circa il 10% viene fermentato in barrique e poi unito alla parte restante. Presenta eleganti bagliori ambrati, adagiati su una calda veste dorata e un olfatto dai piacevoli sentori di confettura di albicocca, arancia candita e zenzero. Il palato è di lunga persistenza, dolce, caldo e morbido, tenuto in saldo equilibrio da un’eloquente sapidità. E’ proprio il caso di dire che, grazie al fiuto e alla passione di Andrea Balzani, oggi anche in Italia gli appassionati possono apprezzare i prodotti di una zona di grande fascino ambientale, ancora troppo poco conosciuta dal grande pubblico del vino.

Jean Pierre Margan – Château La Canorgue 84480 Bonnieux (Vaucluse) Provence-Alpes-Côte d'Azur (Francia) Tel. +33 (0) 490758101 Importatore: Balzanì di Andrea Balzani Via Aurelia, 190 55049 Torre del Lago Puccini – Viareggio (LU) Tel. 0584.35.00.76


I viaggi del sommelier

L’autobus per il

Nuovo Mondo di Daniele Urso

IN INDIA

SI CONSUMANO

SOPRATTUTTO BIRRA

E SUPERALCOLICI:

IL MERCATO DEL VINO, FINO ALLO SCORSO ANNO IN FORTE

ESPANSIONE, SECONDO LE PREVISIONI POTREBBE FRENARE PER LA CRISI INTERNAZIONALE E PER IL CALO DI TURISTI DOPO L’ATTENTATO DI

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MUMBAI

India scivola buia fuori dal finestrino aperto dell’autobus notturno tra Jodhpur e Jaisalmer. Chiuso in un alcova sporca insieme ai bagagli, un vetro scorrevole mi separa dalla marea umana che in questo Paese è costante e scontata come l’aria. Un liquido fiume di persone sempre addosso e sottopelle, come gli odori delle città del Rajasthan, del Maharashtra, del Karnataka, o di qualsiasi altro Stato si possa attraversare in questo subcontinente. Tutti diversi, eppure, agli occhi di un occidentale, tutti profondamente indiani. Un Paese dove la paura della violenza non ti accompagnava mai. Almeno fino a quando l’anno scorso il terrorismo, in un 26 novembre di sangue a Mumbai, ha cambiato anche questa realtà. 195 morti, 22 stranieri e oltre 300 feriti sono un conto molto salato da pagare, le cui ripercussioni si sono sentite in ogni aspetto della società indiana, perfino nel neonato mondo del vino. Vedremo come. Dell’India resta però molto altro: le meraviglie storiche, paesaggistiche,

L’

culturali ed enogastronomiche, controbilanciate dai forti contrasti di una modernizzazione squilibrata, dove emerge lo sconvolgente impatto delle megalopoli inquinate: agglomerati di carne umana e animale, dove la maggior parte di uomini, donne e bambini vivono e muoiono in funzione della famiglia e di una religione che sceglie il loro destino quando ancora sono nel grembo della madre. Follie della divisione in caste contro la quale molti lottano. E una profonda religiosità, fin dal primo saluto: namasté, “saluto le qualità divine che sono in te”. Ma quale Dio c’è in uno storpio abbandonato di fronte a una stazione? L’autobus continua a correre. Fuori è buio, anche se il cielo è rischiarato da qualche luce tra le nubi portate dai monsoni. Il deserto del Tar è lontano ancora duecento chilometri e la vegetazione, più scura della notte, delinea il suo profilo di sfumate ombre nere. Qualcuno urla, e di rimando una cacofonia di parole risponde. Il bus si ferma. Solo un momento e riparte. L’aria calda entra dal finestrino aperto.


È asciutta e piena di odori nuovi. O forse solo diversi. Sembra di percepire il profumo della terra che si libera del sole, o del calore. È come il ricordo di un fuoco che si spegne. La mia memoria sensoriale non mi aiutano in alcun modo. Il bouquet è un intenso rebus. Alcuni indiani viaggiano in piedi, sembrano quasi riuscire a dormire. Con le luci spente i loro sguardi non indugiano più sull’insolito viaggiatore. Come fossi un pesce in un acquario, chiuso nel mio sleeping box non più grande dello spazio occupato da qualche cassa di vino. 289 chilometri in sette ore abbondanti, su strade accidentate: di giorno sotto un sole cocente, o una pioggia scrosciante. Se fossi una bottiglia di vino che deve attraversare l’India, mi butterei via senza stapparmi. Eppure qualche bottiglia in India si stappa. Mentre viaggio scopro che anche in un altro mondo, come l’India è, la vite attecchisce. Non solo come pianta dalle robuste radici, ma come modus vivendi. In un Paese con oltre un miliardo di abitanti, dove oltre l’hindi e l’inglese si parlano altre 21 lingue, ci sono investitori che credono nel vino e i primi frutti si vedono.

UN MERCATO IN ESPANSIONE

L’indiano preferisce i super alcolici o la birra. Lo dicono anche i numeri. Secondo le ultime stime a fronte di 800 mila casse di vino, se ne vendono 37 milioni di whisky, 11 di brandy e 9 di rum. La quota del vino tra i consumi di alcool ammontava nel 2005 allo 0,84%, con un consumo procapite di 0,07 litri. Da allora la crescita però è stata tra il 20 e il 25% ogni anno e il mercato potenziale è di 300 milioni di consumatori, in gran parte giovani. Si beve soprattutto nelle grandi città: quattro di esse, Mumbai (Bombai) 39%, Dehli 23%, Bangalore 9% e Goa 9%, contribuiscono addirittura all’80% del totale. Il restante 20 è distribuito su tutto il territorio. L’anno della svolta è stato il 2001: prima l’importazione di vino, con 31


I viaggi del sommelier

qualche rara eccezione, era vietata. In India oggi il vino arriva sia imbottigliato (definito localmente Bio, ovvero bottled in origin) che sfuso da imbottigliare in loco (definito localmente Bii, ovvero bottled in India). Le importazioni sono state la normale risposta dei grandi hotel e ristoranti alle esigenze del turismo straniero, che ha fatto dell’India, una delle sue mete preferite. Le tasse d’importazione sono la prima nota dolente. Il governo indiano supervisiona, ma la situazione cambia da Stato a Stato (l’India è infatti una Repubblica federale) e peggiora in quelli dove esiste una produzione vinicola indiana da “tutelare”. Il dazio per i vini Bio è superiore a quello applicato ai vini Bii. Tutto questo si traduce in una

spesa considerevole per il consumatore finale, che in un ristorante difficilmente può spendere meno di 20 euro per un vino italiano o francese che in Europa costerebbe meno della metà. Uno sproposito, visto il costo bassissimo della vita in India. Per questo, ha senso provare qualche vino indiano e, per certi versi, lasciarsi sorprendere. Il prezzo, pur mantenendosi elevato per la media del Paese, è comunque abbordabile. Il 67% dei vini è compreso tra i 3 e i 11 euro a bottiglia.

NUOVE REALTÀ E UN TRIS D’ASSI

Non saranno ancora profeti in patria, ma i vini indiani incuriosiscono i mer-

L Mumbai, la capitale del Maharashtra Pushkar Il Taj Mahal, una delle principali mete turistiche dell'India M Il mercato a Jodpur

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cati esteri. L’export attuale si aggira, tra alti e bassi, intorno al milione e mezzo di bottiglie, molte delle quali raggiungono anche il mercato europeo. Per ora in Italia sono più unici che rari, ma prima o poi arriveranno. La storia enoica indiana è recente e inizia nel 1980, sebbene l’uva sia coltivata nel subcontinente da cinquemila anni. In India oggi sono 60 mila gli ettari dedicati a uva da tavola, con una produzione totale che nel 2005 (dati Fao) era di 1,6 milioni di tonnellate. La vite dedicata alla produzione del vino, occupa però poco più di un migliaio di ettari, la maggior parte dei quali è concentrata nello Stato del Maharashtra e circa 300 nel Karnataka, nel distretto di Bangalore. La maggior parte delle


vigne è già operativo (circa il 70%), ma ogni anno aumentano gli ettari vitati. L’obiettivo dichiarato è quello di arrivare a produrre con costanza entro il 2010 uva da cui ricavare 25 milioni di litri l’anno (nel 2005 erano 6,214 milioni di litri). Rispetto alle prime analisi del 2005, quando in India erano operative 38 cantine, oggi i produttori sono quasi raddoppiati e sul territorio se ne contano una sessantina. La maggior parte di queste si trova nel Maharashtra dove le prime sono apparse a seguito della riforma della politica del vino del 2001. Un ulteriore sviluppo alla produzione di vino in India si dovrebbe avere nel Karnataka, dove si prevedono oltre 40 nuove aziende vinicole nei prossimi anni.

I VITIGNI

Come spesso accade i primi ad arrivare sono stati i francesi. I vitigni più coltivati sono quelli classici dei mercati del nuovo mondo: Cabernet Sauvignon, Shiraz, Pinot nero e Merlot, ma non mancano alcuni tentativi “curiosi”, come con il Sangiovese e il Montepulciano. Qualche vino rosato viene ricavato dallo Zinfandel. Anche tra i bianchi la fanno da padrone i vitigni internazionali come Chenin Blanc, Sauvignon, Chardonnay, Riesling, Ugni Blanc e Viognier. I vini prodotti sono soprattutto “da tavola” (85%), mentre quelli dedicati all’invecchiamento sono solo una parte minore.

LE ZONE VINICOLE

Lo Stato del Maharashtra è stato quello che si è mosso con maggior efficacia, attirando decine di investitori intorno a Nashik, 200 chilometri a est di Mumbai, già definita la Napa Valley indiana e dove viene prodotto oltre il 30% del vino targato Maharashtra. La zona si è sviluppata grazie alla protezione fiscale dello Stato verso i suoi winemakers, supportata da un piano produttivo per far crescere la viticoltura locale in maniera armonica, realizzando infrastrutture, vivai e laboratori di analisi, studiando i mercati e fornendo agli agricoltori un importante supporto culturale di base. Il successo di Nashik è legato a favorevoli condizioni pedoclimatiche, quali terreni argilloso-calcarei, un clima monsonico con alternanza tra stagione asciutta e umida ed escursioni termiche piuttosto accentuate. Dietro alla zona di Nashik ci sono anche altre interessanti zone, tra cui Sangli, sempre nel Maharashtra, e Bangalore, nel Karnataka.

LE AZIENDE Chateau Indage La prima e più importante è lo Chateau Indage, situato in Narayangaon nell’altavalle di Sahyadri (Maharashtra occidentale). Avviata da Sham Chougule, è stata fondata nel 1984 con la collaborazione tecnica della francese Hedsieck Piper (Champagne). I vigneti si estendono per 2000 ettari che producono 15 milioni di litri di vino a 230 chilometri da Mumbai. Nel 1980 è stata proprio lo Chateau Indage a dare avvio alla rivoluzione vitivinicola indiana. La sua produzione consiste principalmente in 20 varietà di vino (soprattutto, Chardonnay, Cabernet Sauvignon, Ugni Blanc, Pinot Nero, Gamay, Riesling, Semillon, Sauvignon Blanc, Chenin Blanc, lo Zinfandel, il Viognier, lo Shiraz, il Malbec e il Grenache). Gli enologi provengono da Francia e California e la scuola è quella tipicamente transalpina. L’Indage detiene il 75% del mercato indiano riservato al vino fermo e il monopolio dei vini frizzanti. Tra i vini maggiormente apprezzati ci sono uno spumante metodo classico, il

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I viaggi del sommelier

Marquise de Pompadour e soprattutto due Shiraz, il Tiger Hill 2006 che ha ottenuto la medaglia d’argento all’International Wine and Spirit Competition 2008 (Iwsc) e l’Ivy Shiraz 2006, medaglia di bronzo sempre all’Iwsc.

ricana. Il pezzo forte è lo Chenin Blanc, ma ci sono anche un Sauvignon Blanc pensato per il mercato interno e uno spumante, il Sula Brut. I vini di questa azienda sono quelli che più facilmente si possono trovare in Italia.

Grover Vineyards Le vigne di Grove a Dodballapur, 40 Km a nord di Bangalore ai piedi delle colline Nandi (fuori dal Maharastra) e uno degli azionisti è Veuve Cliquot. 410 acri coltivati con la consulenza di un peso massimo della tecnica enologica, quel Michel Rolland che porta il sapere francese in giro per tutto il pianeta. Il Sauvignon Blanc in purezza è uno dei prodotti migliori della cantina, a cui si affianca un rosso prodotto da uve Cabernet e Shiraz che dal il meglio nella sue “riserva”.

IL FUTURO

Sula Vineyards La più recente azienda di primo piano entrata a far parte del mercato vitivinicolo indiano è la Sula. Ha iniziato a operare nel 1998 vicino alla città di Nashik, 200 Km a nord-est di Mumbai, a un’altitudine di 600 metri su terreni prima adibiti alla coltivazione del mango ed è stata fondata da Rajiv Samant, un ingegnere informatico formatosi a Standfort e reduce dai successi della Silicon Valley, USA. I terreni vicino al lago Gangapur hanno alcune affinità con quelli della Napa Valley ame-

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L’attentato di Mumbai e le sue ripercussioni si sono fatte sentire anche sul mondo del vino. Il 2009 si presenta infatti come un anno nero per le vendite in India. La causa maggiore, visto l’impatto ancora trascurabile del mercato interno indiano, risiede nella diminuzione della domanda da parte di hotel e grandi catene alberghiere, che affrontano la crisi del turismo. Il picco delle vendite di vino in India si ha solitamente tra i mesi di ottobre e febbraio, quando turisti da tutto il mondo si riversano nel subcontinente per ammirarne le meraviglie. Il problema sicurezza ha però cambiato le carte in tavola e tra prenotazioni disdette o rimandate, la flessione degli ingressi turistici è stata notevole. E con essa, la diminuzione della domanda di vino da parte degli occidentali. Un problema che l’amministrazione indiana ha cercato di risolvere privilegiando la produzione interna con politiche fortemente protezioniste. L’ultima in ordine di tempo è quella adottata nello Stato del Karnataka, dove ora il governo locale prevede la registrazione delle eti-

chette del vino presso il monopolio statale Karnataka State Beverages Corp. Ltd. L’alternativa è non vendere. Il che farà aumentare i prezzi dei vini importati e, in previsione, farà anche diminuire il consumo di vino in città come Bangalore. Un’altra brutta notizia, visto che anche in un altro grande centro di consumo vinicolo come Mumbai, la crisi dei consumi è già in atto: la Dharti Desai, Ceo di Finewinesnmore e importatore della capitale economica indiana, ha riferito che l’anno scorso il totale delle vendite di vino è stato di circa 1.600 casse al mese, mentre quest’anno le previsioni parlano di 1.100 casse al mese. Una mazzata, se si pensa che appena a settembre 2008 la Associated Chambers of Commerce and Industry of India aveva stimato una previsione di crescita nelle importazioni e nei consumi, quantificandoli in un 25% annuo. Qualche buona notizia si spera arrivi dall’India International Wine Fair (Iiwf), il più importante appuntamento enologico indiano. Un po’ il nostro Vinitaly. Avrebbe già dovuto svolgersi a fine 2008 a Mumbai, ma dopo gli attacchi, l’organizzazione ha rimandato la manifestazione a marzo (dal 16 al 18 marzo). La location resta la stessa, il Grand Hyatt, Mumbai. Resta però l’incertezza di un 2009 politicamente difficile in India. Se il Paese supererà i suoi problemi e continuerà a crescere, del vino indiano torneremo a sentir parlare.


Degustazioni

La piccola perla dell’enologia

americana di Malinda Sassu

DEI

IL RIESLING FINGER LAKES NASCE DA UNA

INTUIZIONE E DALLA PERSEVERANZA

DI UN

KONSTANTIN FRANK, AGRONOMO UCRAINO. E’ LA RISPOSTA DEL NUOVO MONDO AI CUGINI EUROPEI

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America, si sa, è da secoli terra di pionieri e grandi opportunità, sempre pronta ad abbracciare e realizzare i sogni e le idee di coloro che i piú definiscono visionari. Come l’italiano Gianni Zonin concretizzò in Virginia le idee del presidente Jefferson di produrre vino da vitigni europei, così un altro pioniere negli anni Sessanta dimostrò al mondo che si potevano produrre eleganti Riesling anche nella fredda e nevosa regione dei Finger Lakes. Ci troviamo sulla costa Atlantica degli Usa, nello Stato di New York, non così lontano dalle luci della Grande Mela e dove i viticoltori hanno non poco faticato nel far dimenticare il ricordo di vini dolciastri prodotti da varietà locali di Vitis Labrusca (Concord e Niagara) o i famosi ibridi franco-americani come Baco Noir e Seyval Blanc, che tanto aiutarono i nostri cugini d’oltralpe in tempi di fillossera. La regione si è formata dopo la glaciazione, quando i grandi ghiacciai, riti-

L’


L Canandaigua Lake

randosi verso nord, hanno lasciato undici laghi che si estendono da nord a sud in senso quasi parallelo e a forma di dita, da cui il nome di Finger Lakes. Il clima è tiranno con inverni freddi e nevosi, seguiti da estati calde e drammaticamente umide. Ciononostante il paesaggio è caratterizzato da dolci colline e scenari mozzafiato, tali da rendere la zona tra le mete preferite dagli amanti dell’agriturismo. Prendete questi numeri: 35.000 fattorie, al secondo posto nella nazione per la produzione di mele e sciroppo d’acero, terza regione produttrice di vino, mais e prodotti caseari (celebre il Cheddar che contende il suo primato al Vermont). E tutto questo lo sapeva bene l’allora senatore Hillary Clinton che è stata in assoluto la persona che ha voluto dimostrare che New York non fosse solo la regione della Big Apple ma uno stato importante per l’agricoltura sostenibile. Eppure, con un clima cosi ostile, adatto a varietà dalla buccia spessa come quelle da Vitis Labrusca, il visionario ucraino Konstantin Frank, sfruttando l’azione mitigatrice dei profondi laghi della zona, riuscì per primo a coltivare piante dal ciclo vegetativo breve come pinot noir e chardonnay ma, soprattutto, il resistente e tardivo Riesling. Il dottor Frank sbarcó a New York nel 1951 con in tasca ‘’solo’’ un dottorato in viticoltura e il chiodo fisso di produrre vino, 10 anni di esperienza in Georgia e Ucraina e la conoscenza perfetta di 5 lingue, l’inglese (purtroppo per lui) non era tra queste. Dopo aver lavorato come lavapiatti, utilizzò quei pochi soldi risparmiati per trasferirsi a Geneva dove, grazie alla sua determinazione, riuscì a farsi assumere alla prestigiosa Cornell University, sede del famosissimo Centro sperimentale di Agricoltura. Il suo ruolo: tagliare l’erba dei prati e pulire i pavimenti ma almeno si trovava nel posto giusto per lui e le sue idee. Durante una conferenza sul vino avvicinò l’allora enologo della Veuve Cliquot Charles Founier, con il quale diede vita al suo progetto, ottenendo nel 1962 la sua prima vendemmia da Riesling. Da allora, la terra prediletta per il vitigno che viene dal freddo si attesta qui e non nella più celebre e troppo opulenta California. È difficile battere l’eccellenza dei miglio37


Degustazioni

ri rappresentanti della Germania e Alsazia e di certo i Finger Lakes non hanno la pretesa di farlo, ma sicuramente si sono imposti a livello internazionale come la risposta più convincente del Nuovo Mondo ai loro cugini europei. Il loro stile è molto differente da quello tedesco, piú simile forse a quello alsaziano, ma sicuramente accompagnato da un suo preciso carattere, più fruttato e delicatamente minerale, con struttura e complessità accompagnate da alte note di acidità. Il Riesling dei Finger Lakes ha una buona dose di muscoli tale da far dimenticare la propensione di questa varietà per la produzione di semplici vini dolci. Oltre all’azienda “Dr. Konstantin Frank”, la cui sede è ancora lì sulla riva ovest del Lago Keuka e attualmente condotta dal nipote Fred, sono oltre 100 le aziende produttrici, molte di queste innovative ma sempre con uno sguardo alla tradizione. A riprova che i Riesling dei Finger Lakes sono una piccola perla nell’enologia americana, lo dimostra l’azienda Red Tail Ridge, 12 ettari gestiti con metodi biologici da Mike Schnelle e da sua moglie, l’enologa californiana Nancy Irelan. “La nostra attenzione è rivolta al vigneto, al suo terreno e clima” afferma Nancy (ex Vice Presidente di Viticultura ed Enologia in una delle piú grandi corporazioni in California). “Crediamo che la qualità e lo stile del nostro Riesling parta dalla pianta, per questo dedichiamo tutti i nostri sforzi in una piccola produzione affinché si possa preservare e valorizzare i caratteri varietali del vino”. La prossima scommessa di Nancy è il Teroldego, vitigno al quale inizia a dedicare le sue attenzioni e per il quale spera in un aiuto morale da parte dei suoi colleghi italiani. L’azienda si affaccia sul lago di Seneca (che concentra il maggior numero di case produttrici, insieme ai laghi Keuka e Cayuga) ed è sempre qui che troviamo un altro nome storico nella produzione di Riesling, l’azienda Glenora Wine Cellars. Famosa anche per il suo splendido agriturismo sulle rive del lago e per il ristorante condotto da uno dei più grandi chef della zona, Bridget Olisky, e dal sapiente enologo di origini italiane Steve Di Francesco che spiegano il successo del loro Riesling, arrivato dopo 30 anni di duro lavoro e premiato da numerose testate. “Siamo partiti con umili origini e siamo arrivati tutti a una nostra identità senza dimenticare le nostre radici europee e aiutandoci l’uno con l’altro. Non vogliamo confrontarci con i grandi nomi tedeschi o alsaziani ma di certo il nostro Riesling ha un suo carattere che riflette le caratteristiche sabbiose e sedimentarie dei nostri suoli”. Rispetto per la natura e per l’ambiente, modestia e assoluta devozione al lavoro nei campi sono le caratteristiche degli agricoltori della zona; proprio come i primi abitanti dei Finger Lakes, i nativi Irochesi secondo i quali la strana forma della zona sarebbe nata dalla leggenda del Grande Spirito che pose le sue mani in segno di protezione al popolo che tanto gli era devoto. Miracolo o leggenda che fosse, il fascino e la tradizione che si respira tra le campagne dei Finger Lakes è accattivante: lasciarsi conquistare non deve essere stato difficile per un visionario come il dottor Frank, per il quale certe tradizioni europee, alla fine, non erano poi così lontane. 38


Red Tail Ridge Estate Dry Riesling 2007 Seneca Lake vol. 12% Intrigante, giallo paglierino con riflessi dorati, di intensa luminosità. Note olfattive complesse di frutta agrumata ben definita: lime, pompelmo e mandarino che si aggiungono ad accenti minerali ed erbacei. Morbido e caldo, rivela una decisa struttura e un timido ritorno di note minerali. Ottima la freschezza che lascia in bocca una Pai lunga e pulita.

Standing Stone Riesling 2007 Keuka Lake vol. 12% Si presenta con un colore giallo paglierino e di media consistenza. Conquista il naso con note decide di frutta agrumata, insieme a pesca, pera e nocciola verde. Gli stessi ritornano in una lunga Pai che si mostra accompagnata da una fresca sensazione citrina.

Dr Konstantin Frank Dry Riesling 2006 Keuka Lake vol. 12% Prodotto di punta dell’azienda che ha dato i natali alla Vinifera in questa regione. Alla vista si presenta giallo dorato e ricco in consistenza. Il bouquet è vario ed elegante, di mela, limone, nocciola e cenni floreali decisi. Cenni di note minerali. Ottimo spessore in bocca con equilibrio perfetto di acidità e alcoli. La Pai chiude con finali di mandorla.

Tierce Dry Riesling 2006 Seneca Lake vol. 12% Tre vigneti, tre enologi, un solo vino che sta conquistando il mercato, nonostante il suo prezzo non proprio accessibile. Le aziende Fox Run, Anthony Road e Red Newt Cellars hanno dato vita all’espressione della sinergia di tre distinte zone del lago Seneca. Giallo paglierino con forti riflessi dorati e buona consistenza. Affascinante il bouquet di mela granny, albicocca e pesca, uniti a forti cenni minerali. Elegante ed evidente acidità con una lunga Pai che lascia scie di note agrumate.

Glenora Vintner’s Select Dry Riesling 2006 Seneca Lake vol. 12% Accattivante color giallo dorato ed evidente consistenza. Bellissimo profumo netto e deciso, con un attacco fruttato di pesca, albicocca, mandarino e melone. Reminiscenze floreali e di miele, lasciano spazio a cenni di mineralità. In bocca si mostra pieno e con avvolgente morbidezza; perfetto l’equilibrio con la vibrante aciditá che lascia un finale saporito e molto piacevole. Abbinato perfettamente dallo chef del ristorante presente in azienda con prodotti locali, in particolare trota e petto d’anatra.

Heron Hill Old Vines Riesling Reserve 2005 Keuka Lake vol. 12% Elegante giallo dorato e ottima consistenza per questo Riesling i cui ceppi risalgono al 1968. Al naso affascina con note fruttate di mela granny, pera e leggere note agrumate, con un superbo finale di aromi minerali (idrocarburi). Al gusto è deciso e pieno, con buona acidità e ottima Pai, che chiude con finale ammandorlato.

39


Mete del gusto

Il

vino

Romeo e Giulietta di

IL DURELLO

VIENE PRODOTTO

NELLE TERRE DOVE

SHAKESPEARE

HA AMBIENTATO

LA SUA OPERA PIÙ FAMOSA.

IL VINITALY PUÒ L’OCCASIONE

ESSERE

PER FARSI CONQUISTARE DA VALLATE, CASTELLI E VILLE MAESTOSE


L Il castello della Villa, detto “di Romeo”, secondo la tradizione residenza della famiglia Montecchi

di Annalisa Raduano

noi ce l’abbiamo Durello”. Non è lo slogan irriverente che reclamizza l’ultimo afrodisiaco in commercio ma il gioco di parole, condito di orgoglio, dei produttori di vino da uva Durella. Campagna ideata per promuovere con un pizzico di malizia questo spumante a metodo classico, unico per vitigno, dal prezzo conveniente e legato alle tradizioni della terra in cui nasce! Siamo nelle province di Verona e Vicenza in un’area che si estende sino alle falde dei Monti Lessini, dove i vitigni abbracciano vallate suggestive, ricche di storia e tradizioni rurali, di cui la più celebre al mondo è quella che narra dell’amore tra Romeo e Giulietta. La storia di questo spumante, frizzante, ottenuto da uva Durella, è antica quanto le leggende che echeggiano lungo le antiche strade e i percorsi montani che portano alle Prealpi venete. Infatti l’uva Durella è diretta erede della “Durasena”, di cui si trovano testimonianze in documenti datati 1292. Arrivando ai giorni nostri invece, si è costituito un consorzio e un club di nicchia per la promozione del Durello. Il club di nicchia si chiama “Amici del Durello”. Presidente del club è Sebastiano Carron: “E’ uno spumante – afferma – capace di competere a testa alta nel gusto con gli Champagne, proposto anche come spumante metodo Charmat, tranquillo e passito. Peccato che non sia facile trovarlo, a meno che non si vada nelle enoteche meglio fornite o direttamente nella zona di produzione che si stende tra la Valle d’Alpone, in provincia di Verona, e la Valle del Chiampo, in quella di Vicenza, sino alle falde dei Monti Lessini il cui altopiano domina la pianura veronese e la parte occidentale di quella vicentina”. Segni particolari di quest’uva? “La buccia, molto dura che la protegge dalle intemperie e dagli attacchi di molti parassiti (è un vitigno ideale per le zone di collina e bassa montagna alle falde della Lessinia); un elevata acidità naturale (tra le più alte in

“E

L Consorzio di Tutela Lessini Durello

assoluto nelle uve) che la rende preziosa nella preparazione di basi spumanti. E proprio l’alta acidità naturale ne faceva un tempo vino richiesto per la grande durata, mentre come base spumante ha animato per anni le bollicine tedesche, ma anche francesi e italiane”. I produttori di questa Doc, che si sono riuniti 10 anni fa nel Consorzio di tutela, hanno intrapreso la strada della spumantizzazione in proprio, come vino a sè stante, in purezza o con piccoli ritocchi di altri vitigni, a seconda del gusto e della visione di prospettiva delle diverse aziende produttrici. In poco tempo questa Doc ha avuto successo. Un successo che in termini di bottiglie è lievitato dalle circa 70 mila vendute del 1998 alle circa 500 mila di oggi (50 mila di spumante metodo classico, 350 mila di spumante charmat e il resto di vino tranquillo e passito, ultimo ma ottimo arrivato tra le tipologie della Denominazione). 41


Mete del gusto

Vendemmia di uva Durella

Sono aumentati anche i soci del consorzio: dai sei iniziali ai nove attuali. L’ uva Durella è unica nel suo genere, unicità determinata anche da aspetti geologici. Infatti la zona di produzione è costituita, di fatto, dall’antico vulcano spento Calvarina e quindi da lava, tufo e basalto. Passando alla tavola, alla gastronomia, invece, il Durello si sposa con pietanze considerate tradizionalmente difficili. Durante l’ultima prova ufficiale (la tradizionale giornata Durello & Friends, offerta ogni anno dal consorzio produttori ai giornalisti e ai comunicatori per promuovere il territorio e i suoi prodotti), il Durello è stato abbinato ad “alcuni” piatti tradizionali della Lessinia: bigoli al sugo d’anatra, risotto con funghi e tartufi, risotto con radicchio Verona e formaggio Monte Veronese, polenta e “musso” (asino), tagliata di manzo all’erba cipollina, crostini di trote affumicate, bogoni (le “escargots” veronesi) con la polenta, agnello in umido, grigliata, formaggi, salumi, patate di Bolca, crostata, macedonia con frutti di bosco e marmellata, torta. Il Durello è riuscito ad accoppiarsi bene con molte portate non proprio semplici da gustare e... digerire. Il Durello lega armonicamente anche con il baccalà alla vicentina e l’anguilla. Qualche temerario lo ha provato anche con gli insaccati: dai più “saporiti”, come la salama da sugo ferrarese, a quelli tipici della tradizione veneta a partire dalla soppressa. Nella versione passita valorizza i dolci, per questo, insomma, il Durello è ideale per pranzi composti da qualunque pietanza purché non troppo delicata. Per gli amanti dell’enoturismo nell’area tra Verona e Vicenza non mancano itinerari romantici da seguire. San Valentino potrebbe essere la giusta occasione per percorrere la Vicentina, antica strada del Durello. La Via Vicentina, conosciuta come Strada Cavallara, Strada Carezzadora e Gassa è un percorso montano tra i più antichi nelle Prealpi Venete. Collega infatti il Tirolo con il vicentino. Oggi 42

la Via Vicentina è inselvatichita ma sempre immersa nella quiete, nel silenzio. Nel mese di maggio torna al suo splendore antico, rievocato da un’antica usanza religiosa. Un sacro rito che coinvolge le comunità di Durlo e di Campofontana, con una processione che si snoda lungo la via con le statue dei rispettivi santi patroni: Santa Margherita per i vicentini e San Giorgio per i veronesi, con l’offerta annuale di due ceri alla chiesa di Campofontana. Tra uno scorcio di vallata e i ruderi di un castello, tra ville maestose e tradizionali colombare è facile farsi conquistare dalle suggestioni della grande opera di William Shakespeare: Romeo e Giulietta e le lotte tra le due famiglie Montecchi e Capuleti. Da Montecchio Maggiore (dove una tappa è d’obbligo alla maestosa villa veneta di campagna, villa Cordellina, 1735, progettata dal architetto Giorgio Massari, ispirata al Palladio) si arriva facilmente ai Castelli, gli stessi che Luigi Da Porto, scelse per ambientarvi Giulietta e Romeo “Per cui tanto piansero i cuori gentili e i poeti cantarono”: così recita la lapide murata in via Cappello a Verona, indicata come casa di Giulietta. I Castelli di Montecchio risalgono al 1300, voluti dagli Scaligeri, signori di Verona e Vicenza a difesa del territorio. Il Castello della Villa è conosciuto come il Castello di Romeo Montecchi. Grazie a un recupero si possono vedere i muri perimetrali e la parte superiore della grande torre. Ogni estate un teatro all’aperto ospita rappresentazioni in una suggestiva atmosfera illuminata dal tepore della bella stagione. Dista circa trecento metri il Castello della Bella Guardia, che, leggenda vuole, abbia ospitato Giulietta Capuleti. Quest’ultimo in parte è recuperato e nell’interno si trova un ristorante che propone in chiave moderna i piatti delle tradizione. Dalla terrazza si ammira un panorama molto ampio che va dai Lessini ai Berici e, nelle giornate limpide, si vede anche il profilo degli Appennini Modenesi.


Lungo le strade in quest’area le ville venete, tra cui: Villa Freschi, Villa Zonin, Villa Miari, Villa Capra e il cosiddetto Castelletto. Da qui, con un po’ di tempo a disposizione, è facile raggiungere Recoaro Terme, celebre per le sue acque benefiche. Passando alla gastronomia sono molti i ristoranti che propongono i piatti tipici della tradizione contadina mentre è possibile acquistare il Durello nelle migliori aziende per la produzione di Gambellara e Vin Santo. Tra queste l’azienda agricola Cecchin offre un Lessini Durello metodo classico di grande spessore. Da Selva imboccando la strada panoramica e lasciamo la provincia di Vicenza in direzione di Santa Margherita, già territorio veronese, per Roncà, importante centro per la coltivazione del Durello, dove visitare il Museo dei fossili e il percorso naturalistico in Val Nera. A Roncà troviamo due aziende vitivinicole interessanti: L’azienda Fongaro specializzata nella produzione di un Lessini Durello metodo classico e l’azienda agricola Marcato che offre Duello spumante in due versioni, classico a lunga rifermentazione in autoclave e anche un Durello fermo. Per degustare vale la pena una sosta all’enoteca di Roncà, Piazza G. Marconi 7 – Ronca’ (VR) (Tel. 045/6545414). Percorrendo via Durello da Roncà arriviamo in fine a Montecchia di Corsara, rinomato centro per la produzione di vino e di ciliegie. La Cantina sociale di Montecchia di Crosara è una importante realtà del Lessini Durello. Annesso alla cantina si trova anche uno spaccio aziendale dove è possibile acquistare Soave, Valpolicella e vini prodotti con vitigni come lo Chardonnay, il Sauvignon e alcuni rossi di grande spessore.

GLI INDIRIZZI III ALLOGIO TRATTORIA “GROBBERIO” Via Mezza Villa, 69 37030 MALCESINE DI SAN MARTINO B. A. (VR) Tel. 045/8740096 III ABBAZIA MONTEFORTE D’ALPONE Via G. Garibaldi, 24/b 37032 MONTEFORTE D’ALPONE (VR) Tel. 045/6130014 III TRATTORIA “AL POZZO” Via XX Settembre 37032 MONTEFORTE D’ALPONE (VR) Tel. 045/7613648 III AGRITURISMO “AL BOSCO” Loc. Bosco, 2 COLOGNOLA AI COLLI (VR) Tel. 045/7651635I


Vinitaly

Il torna a casa DOPO

IL TOUR

MONDIALE,

LA PIÙ IMPORTANTE FIERA DEL VINO SI SPOSTA NELLA SUA CITTÀ

DI ORIGINE:

APPUNTAMENTO DAL

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2

VERONA 6 APRILE

A AL

l Salone Internazionale del Vino torna puntuale all’inizio della primavera e chiama a raduno tutti gli enoappassionati dal 2 al 6 aprile nella città di Romeo e Giulietta. Anche quest’edizione promette numeri importanti dopo i successi del 2008: 89 mila metri quadrati di superficie, 4.200 espositori di cui 150 stranieri, 157 mila visitatori con 43 mila presenze dall’estero e oltre duemila giornalisti. Ecco i dati che riassumono il Vinitaly dell’anno scorso. Aspetto da non sottovalutare è il costante trend di crescita delle visite, che nella passata stagione hanno fatto registrare un incremento del 16% rispetto al 2007. La fiera del vino più grande (e più importante) del mondo consolida così la sua leadership internazionale festeggiando anche i 10 anni di Vinitaly World Tour, un vero e proprio giro del pianeta organizzato da Veronafiere per esportare i prodotti d’eccellenza della tradizione enologica della nostra penisola. È partito dall’India nel mese di gennaio il primo appuntamento promocommerciale del 2008. Prima tappa a Mumbay, considerata la porta del Paese e il cuore economico indiano, ma anche il centro dove prendono piede le nuove tendenze trainate dall’industria cinematografica di Bollywood, e quindi a New Delhi, la capitale politica e amministrativa. I numeri dell’enologia italiana in India parlano da soli: il vino è la prima voce dell’ex-

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port agroalimentare, un biglietto da visita in grado di evocare uno stile di vita fatto di qualità, raffinatezza e buongusto e capace di spalancare le porte a molti altri prodotti del Made in Italy. Da quando nel 2001 l’India ha aperto i suoi confini all’importazione di vino, l’Italia ha visto aumentare il suo export a ritmi elevatissimi, culminati nel +75% del 2006. Anche il 2007 ha confermato il trend, con un rialzo che nei primi 9 mesi dell’anno è stato del 23% in valore e del 21,5% in quantità, pari a 1,1 milioni di euro e oltre 202 mila litri. Grandi premesse per un mercato sempre più occidentalizzato, con 3 milioni di famiglie che entro il 2010 raggiungeranno lo status di upper class, con un consumo di vino che nei prossimi 2 anni è destinato a raddoppiare e con le maggiori catene internazionali di distribuzione pronte a investire in India con propri punti vendita all’ingrosso. A febbraio Vinitaly si è spostato oltreoceano, alla conquista della Florida. Una scelta non casuale, quella di raggiungere lo Stato che rappresenta il secondo mercato di consumo di vini d’importazione negli Usa. L’evento è partito da Miami, moderna metropoli dal clima tropicale, famosa per il suo mare e le fantastiche spiagge, location di molte serie tv, una meta turistica tra le più ricercate, ma anche centro economico e finanziario di importanza mondiale. Per questo la città, che conta 5 milioni di abitanti, è ricca di strutture alberghiere di lusso e di ristoranti di alto livello per clienti con elevata capacità di spesa. Successivamente Vinitaly Tour ha fatto tappa all’International Polo Club di Palm Beach, altra ricca città della Florida, scelta dal turismo d’élite, con le sue strutture di lusso e un’offerta gastronomica internazionale. È stata poi volta della Russia nel mese di giugno, con eventi organizzati a Mosca e a San Pietroburgo. Il mercato russo rappresenta infatti un’area in cui consolidare la presenza del vino italiano e dell’enogastronomia di qualità. Già da tempo i nostri spumanti riscuotono un grande successo nelle terre degli zar, detenendo addirittura un terzo del mercato russo delle bollicine davanti agli eterni rivali della Francia. L’attività di Veronafiere ha proseguito in autunno giungendo nel Paese del Sol Levante, occasione per affermare ulteriormente il bere italiano in un mercato, quello giapponese, che offre ancora notevoli margini di sviluppo per la nostra produzione. Il Giappone rappresenta un’area emergente per il vino e le previsioni per i prossimi anni sono assolutamente incoraggianti. Dopo Tokyo Vinitaly è sbarcato in Cina per l’evento internazionale che ormai da dieci stagioni oltrepassa la Grande Muraglia, raggiungendo Pechino, Shangai e Macao. Sono queste tre le città in cui si concentra il più alto tasso di crescita del consumo del vino nel mondo e nella capitale è aumentato addirittura del 50% solo nel 2007. Le prospettive sono molto positive perché l’import dall’Italia continua a crescere e per questo motivo è stata aggiunta da quest’edizione anche la tappa di Macao, città da sempre considerata la Las Vegas dell’Estremo Oriente, che attira da tutto il mondo turisti con un’elevata disponibilità economica. Il giro del mondo del Vinitaly nell’anno che si è appena concluso è terminato a fine ottobre con la seconda trasferta statunitense dopo quella in Florida. Chigago, New York e Washington D.C. hanno visto la mobilitazione di ben 1.500 operatori di settore tra importatori, buyer e giornalisti, consolidando il primato dell’enologia italiana che la difficile congiuntura economica non è riuscita a ridimensionare. La crisi dei mercati internazionali si fa sentire, ma l’appuntamento americano dimostra che l’export vinicolo italiano sta ben reggendo l’urto. Mai come in questo momento per non perdere quote di mercato risulta perciò fondamentale il sostegno dell’immagine dei nostri produttori e una mirata attività di promozione. Proprio in quest’ottica Vinitaly World Tour ha già in programma alcune novità per il 2009, tra cui una nuova tappa a San Paolo in Brasile prevista per il giugno prossimo. Senza dimenticare che l’appuntamento clou è quello di inizio aprile a Verona a cui non potete di certo mancare! (E. L.) 45


Degustazioni

La beata gioventĂš

Amarone

dell’

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di Marco Aldegheri vini italiani più blasonati che vengono da lunga storia hanno attraversato un percorso evolutivo con il quale ogni produttore, gioco forza, si è dovuto confrontare per affermare un proprio stile personale. E’ la storia comune di alcuni grandi rossi italiani e dei loro interpreti più ispirati. In Valpolicella con l’Amarone questo confronto è meno evidente poiché questo vino nasce come fenomeno di mercato soltanto a cavallo degli anni Ottanta. Più che di evoluzione di uno stile quindi potremo parlare di vera

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e propria creazione e consolidamento di un modo di fare vino, dove la personalità dell’interprete in mancanza di un tessuto storico di spessore con cui misurarsi, diventa ancora più determinante. Per capire Amarone fino in fondo occorre per questo calarsi nel particolare momento storico della sua genesi, quella che lo ha catapultato prepotentemente fuori dal localismo veneto, in quel periodo a cui oggi possiamo guardare con il giusto distacco. Sono anni per certi versi rivoluzio-

nari, sostenuti da un benessere in via di consolidamento e dalla voglia del nuovo a tutti costi, con una evoluzione del gusto e della sensibilità a volte drastici, anche eccessivi, che dovranno necessariamente aggiustare il tiro nel decennio successivo per rimediare a qualche slancio di troppo, nel design, nella moda, nell’architettura e non ultimo anche nel vino. Da un consumo ancora di tipo “sociale” degli anni Settanta si passa con una progressione sorprendente a un modo di bere completamente diverso, all’insegna di una parola: degustare. In questa trasformazione quasi epocale del consumo di vino, l’Amarone nei primissimi anni Ottanta non è ancora protagonista, ma è solo questione di tempo. Il pubblico sta imparando a usare il naso e i vini più profumati, più immediati, fanno facilmente breccia. Niente di più facile per l’Amarone che sa anche essere muscolare e che sa soprattutto interpretare più di altri vini la percezione di morbidezza, salvo diventarne prigioniero negli anni successivi e subirne in qualche caso gli effetti collaterali. Il fenomeno Amarone, non ultimo, è anche un fatto generazionale. Dopo il blackout del metanolo (è il 1986) ci si chiede se continuare a fare vino e a quali condizioni. Nasce proprio qui una nuova generazione di vignaioli, che ha le motivazioni giuste per emergere, che comincia a parlare altre lingue e a confrontarsi anche con esperienze oltre confine. E’ la generazione che comincerà ad approfondire con raziocinio l’uso dell’appassimento, sul quale si creeranno nuove esperienze, nuove interpretazioni e le prime sperimentazioni. Franco Allegrini, Tommaso Bussola, Giampaolo Speri e Claudio Viviani sono un piccolo grande segno del tempo che è appena passato e di uno stile personale che è maturato nel corso di questi anni. Li abbiamo avuti a un tavolo per la prima volta assieme a raccontarsi e a punzecchiarsi tra di loro, con due annate della loro produzione storica, due tappe della loro personale evoluzione. 47


Degustazioni L Tommaso Bussola, Franco Allegrini, Claudio Viviani e Giampaolo Speri

III DOVE SI CHIUDE IL CERCHIO Guardando le foto che Maria Grazia Melegari e Sergio Castagna ci hanno girato all’indomani della degustazione, siamo rimasti colpiti, come se fossero delle vecchie foto scattate molti anni fa, foto di un momento importante, quelle che tiri fuori con gli amici per ricordare i bei tempi. Il fatto è che le foto avevano meno di 18 ore, così chi scrive ha creduto di essere ancora un po’ stanco della serata appena conclusa oppure di aver bevuto un po’ troppo Amarone. Abbiamo cominciato così a ricomporre immagini e idee per ritrovare il filo di una bella serata tra pochi fortunati a chiacchierare dei come e dei perché del vino oggi più famoso

della Valpolicella, e di come una persona e il suo stile vadano spesso oltre le singole percezioni. Franco Allegrini, Tommaso Bussola, Giampaolo Speri e Claudio Viviani arrivano all’eccezionalità dei loro prodotti da diverse strade, diversi modi di concepire l’allevamento della vite, di pensare l’appassimento, di concepire la stessa comunicazione aziendale e la commercializzazione. In comune hanno la provenienza dalla zona classica, per quanto da microaree non proprio uguali, il fatto di lavorare con densità di impianto non particolarmente spinte e una considerevole reputazione come produttori di Recioto oltre che di Amarone che ne testimonia la particolare

sensibilità. Ne hanno dato prova con una degustazione di Recioto a margine della serata a dir poco sorprendente. Molto diversi invece gli uomini, molto diversi i loro vini, al punto di ricavare esaltazione dalle reciproche differenze: questo forse il più bel filo conduttore della degustazione, dove è stata proprio la differenza a fare squadra. Ed è stata la differenza a esaltare il territorio. Il cerchio insomma si è chiuso andando oltre lo stile, per condurci di nuovo al punto di partenza: quelle colline, quel clima, quelle uve originarie e quei muri a secco che finalmente qualcuno comincia a salvaguardare. Non sono mancate battute critiche, ad esempio rispetto ai grandi numeri della produzione dell’Amarone, rispetto ai quali il messaggio dei quattro è stato molto chiaro: occorre tornare al rispetto e alla valorizzazione delle aree più vocate, magari con la preparazione e la sensibilità di chi ha alle spalle non l’improvvisazione dell’ultima ora, ma un cammino di studio che viene da un minimo di storia aziendale. La preoccupante congiuntura economica potrebbe essere lo stimolo giusto per rimettere i valori al loro posto, anche in Valpolicella. Perché come recita un antico adagio, non tutto il male vien per nuocere. I quattro produttori durante la degustazione

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III DEGUSTAZIONE DI AMARONE FRANCO ALLEGRINI

Amarone della Valpolicella Classico

Franco Allegrini è stato il primo in zona a credere nella valorizzazione delle corvine e uno dei primi a gestire con attenzione l’uso dei legni e del fruttaio, anche se non ama sentirselo ricordare, insofferente alle etichettature che spesso si appiccicano ai personaggi carismatici come lui. Non gli è mai mancato il carattere, pronto ad andare avanti per la propria strada, convinto delle proprie scelte. In questa degustazione ha presentato un Amarone 1995 e un 2001 come tappe di un percorso che parte da ben più lontano, in cui la ricerca dell’equilibrio è una parola d’ordine, nel vigneto, nella gestione della maturazione e nell’appassimento, prima ancora che nei vini. Più ricco il naso del ‘95 da annata più calda, dove l’estratto si fa sentire senza però mai stravolgere l’impostazione, dove le spezie e il goudron, la liquirizia e le chine pennellano il frutto, mai in secondo piano nei suoi vini. Fresco e lungo in chiusura. Il 2001 è invece un rubino dal naso integro, perfetta sintesi tra spezia e frutto, chiuso su un finale secco di viola e rosa canina. Sapido e diretto in bocca, dal tannino ancora vispo, per una annata interessante, troppo spesso e ingiustamente all’ombra del 2000. Nonostante la più giovane età in questo 2001 appare chiara la propensione alla ricerca della finezza del naso. Per Allegrini è un Amarone di collina, senza bisogno alcuno di andare a selezionare un area, lui che paradossalmente è stato il primo a valorizzare l’idea del Cru in Valpolicella, con La Grola, La Poja, il Palazzo della Torre, per giunta affrancandosi dall’appassimento. Ma è qui nell’Amarone che la sua perfezione stilistica prende forma, in un vino dove la tecnica incide pesantemente e dove l’esperienza personale, piaccia o no, fa la differenza: metodo Allegrini.

1995 2001

TOMMASO BUSSOLA

Amarone della Valpolicella Classico

Vigneto Alto TB

Di Tommaso Bussola in zona si raccontano ancora le parate mirabolanti di quando giocava a calcio. Del portiere gli è rimasto il fisico e quell’estro che è riuscito a trasferire nei suoi vini. Anche lui è un viticoltore che si fatto le ossa da solo, diventando probabilmente il più integralista nella conduzione, quasi nell’esasperazione, dell’appassimento. Questa sua personale ricerca sull’appassimento gli ha consentito di tagliare traguardi non comuni, rischiando magari qualcosa più di altri rispetto alla variabilità delle stagioni. Sono tuttavia i risultati a dargli ragione, quelli della critica mondiale e quelli dei due vini che ci ha presentato, due audaci annate del suo cru, il Vigneto Alto. Il 1999 è un vino granato, ricco al naso di sottospirito e di confettura, di nespola, di tabacco verde, molto etereo. Struttura da centrocampista più che da portiere, di sorprendente morbidezza. L’altro vino invece è il 1990, annata di esordio per questa sua “etichetta nera” e quindi una vera pietra miliare dell’azienda. Qui l’impostazione dei profumi si fa estrema, è un concentrato di sottospirito nella sua evoluzione più complessa, di ciliegie selvatiche e di marasche, il tutto accompagnato da note di gomme e di catrame, di incenso, che ne fanno un vino davvero impegnativo. In bocca niente fronzoli, è essenziale nel livello di morbidezza, quasi asciutto, con dei tannini setosi a giocare con i polialcoli. Lungo il finale che lo accompagna, dall’alto dei suoi oltre 50 gr. di estratto. Difficile immaginare che Tommaso metterà la testa a posto, neanche dopo quasi 30 anni di Amarone. Il vino per lui continuerà a rimanere un gioco pericoloso, che regala ogni tanto dei capolavori come questi. Vale la pena rischiare.

1990 1999

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Degustazioni

GIAMPAOLO SPERI

Sant’Urbano

Giampaolo Speri rappresenta l’ultima generazione di una azienda di cui è difficile non mettere in evidenza la compattezza del nucleo familiare, un vero e proprio “clan”. Nonno Sante, ci racconta Giampaolo, porta a casa la pelle dalla Prima Guerra Mondiale ed è lui, unico maschio di quattro figli, a salvare la continuità dell’azienda. Il destino darà lui quanto tolto al padre restituendogli le braccia di ben quattro maschi con la forza delle quali partirà lo sviluppo dell’azienda nel secondo dopo guerra. Lì nasce il primo nucleo del clan Speri e lì nasce uno spirito di gruppo che è fatto anche di discussioni domestiche, di un lento percorso di condivisione delle scelte, che diventa sobrietà assoluta dello stile. Difficile per questo in tanti anni trovare una scelta avventata o un tentativo di sperimentazione che devi dalla strada della tradizione. Tutte le etichette sono rigorosamente legate al disciplinare e sono accomunate dal marchio di fabbrica che le contraddistingue: l’uso irrinunciabile della pergola, una gestione molto sobria dei legni, e la stessa unica attenzione per tutte le bottiglie che escono con l’etichetta Amarone, a partire dal loro primo “1958”. Giampaolo ha presentato un eccellente Sant’Urbano 2003, maturo di ciliegia e mora di rovo, di viole appassite, liquirizia, caramelle d’orzo, dal tratto appena vegetale di foglia di geranio. Nessuna concessione a una annata che non è stata delle più facili. Gli Speri nonostante il caldo sono riusciti a permettersi un vino elegante nei sottospirito, fresco e sapido. Più etereo l’impatto dell’annata ’97, che conferma l’idea di un percorso che comincia a concretizzarsi proprio a fine secolo. Appare chiara la ricerca di una via di bevibilità e di agilità della struttura che conservi i tratti di grande sobrietà che ha sempre contraddistinto lo stile di questa azienda.

CLAUDIO VIVIANI

Casa dei Bepi

Claudio Viviani è fondamentalmente un uomo soddisfatto che non ha grilli per la testa. Ha una modestia che mette invidia, non ama l'ostentazione e nemmeno apparire in pubblico. “Ho quanto basta per togliermi le mie soddisfazioni” ci dice. C’è una serenità nelle sue parole che va oltre, un’umanità e un calore che sembrano quasi di altri tempi, sicuramente lontani dai ritmi moderni, e dal moderno far vino. Ma è anche uno che legge molto e da vignaiolo uno che scruta in continuazione l’evoluzione del nostro tempo. Con questa tensione ha cercato negli anni di “leggere” il suo vigneto che si trova in una delle contrade più alte della vallata di Negrar. E’ riuscito così a recare lustro alla famiglia, quei “Bepi”, come sono soprannominati a Mazzano, che hanno dato poi il nome al suo Cru. Il Casa dei Bepi 2000 che ci ha presentato è forse una delle sue annate più indovinate capace probabilmente per il nerbo della struttura di andare oltre anche al ‘98 che è stato comunque significativo e rappresentativo nel naso, ricco di more e piccoli frutti, di sottobosco, di mineralità sopita. Le sue interpretazioni rimangono fondamentalmente legate a una sapidità essenziale che dà carattere e a una pulita interpretazione dei profumi, senza perdere per strada quelle sfumature di carruba e di nespola che sembrano ahimè piacere solo ai veronesi. Il suo sogno nel cassetto, ci confessa, è l’affermazione anche come produttore libero dall’appassimento. Appena Amarone gli darà fiato aspettiamoci quindi un Valpolicella Superiore di rango: il suo Campo Morar è già sulla strada buona.

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Amarone della Valpolicella Classico

1997 2003

Amarone della Valpolicella Classico

1998 2000


Degustazioni

Le nobili

bollicine del

Trentino di Franco Ziliani

DELLE

VENTI MILIONI

DI BOTTIGLIE PRODOTTE OGNI ANNO NELLE ZONE SPUMANTISTICHE ITALIANE OTTO SONO TARGATE

TRENTODOC

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rima denominazione italiana riservata alla particolare tipologia di quello che sino a qualche tempo fa veniva tranquillamente chiamato “méthode champenoise” e oggi è stato ribattezzato, autarchicamente, metodo classico, il TrentoDoc è un protagonista importante non solo del panorama vitivinicolo trentino, ma italiano. Delle circa venti milioni di bottiglie di “bollicine nobili” prodotte ogni anno in Italia nelle diverse zone spumantistiche, sono targate TrentoDoc qualcosa come otto milioni. Una produzione progredita e arrivata a questi livelli, negli ultimi anni, perché fino al 2005 la produzione era rimasta sotto i sei milioni di pezzi. Il Trentino negli ultimi due anni ha perso la leadership di principale zona spumantistica metodo italiana e anche se, secondo le previsioni, a fine 2008 il TrentoDoc raggiungerà la quota record di 8,1 milioni di bottiglie (con un incremento rispetto al 2007 dell’4,2%, crescita inferiore rispetto a quella dell’8,7% registrata nel 2007 rispetto al 2006), rimarrà al secondo posto secondo la Franciacorta, agli 8.337.000 pezzi venduti a fine 2007 (e ai dieci milioni circa previsti per fine 2008). La crescita del TrentoDoc vede anche aumentare il numero dei protagonisti: sono 27 le aziende che aderiscono al marchio TRENTODOC; per lo più sono piccole cantine, che propongono i loro metodo classico in piccoli numeri, anche se il 97% circa della produzione è appannaggio di sole quattro grandi case spumantistiche note anche al di fuori del Trentino. A proposito del TrentoDoc va segnalato il progetto di una grande manifestazione dedicata al metodo classico italiano, alle "bollicine nobili" prodotte in Trentino e nelle altre zone spumantistiche italiane, che si svolgerà nella notissima località turistica di Madonna di Campiglio, presso il nuovo Centro congressi, il 21 e 22 marzo 2009 con la regia dell’Ais del Trentino. Sarà una due giorni che nella prima parte prevederà un Seminario di approfondimento tecnico sui metodo classico rivolto ai sommeliers italiani, dove si tratterà anche

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Il marchio evidenzia una delle caratteristiche principali del metodo classico, il rémouage, l’operazione manuale di rotazione della bottiglia che viene fatta pazientemente dai produttori. Così le due “O” evocano tale movimento rotatorio.

di analisi sensoriale e della tecnica di abbinamento cibi-metodo classico, oltre a degustazioni a tema (anche verticali) riservate agli appassionati. Sempre nell'ambito della prima giornata si svolgeranno le selezioni e le fasi finali di un nuovo concorso promosso dall'Ais riservato a sommeliers professionisti e degustatori ufficiali, riservato al metodo classico, che premierà il miglior sommelier esperto e conoscitore di questa particolare tipologia di vini. Questa manifestazione si completerà poi con un banco d'assaggio dei metodo classico di tutte le aziende trentine produttrici di TrentoDoc e, nella seconda giornata, con un Convegno sul metodo classico, con particolare attenzione alle tematiche dell'innovazione, della commercializzazione, del mercato. Tornando alla nostra degustazione, quali sono le caratteristiche dei migliori TrentoDoc? Come dicono chiaramente le note d’assaggio si riassumono in un mix ben calibrato di freschezza, sapidità e mineralità, presente nei migliori vini, abbinato a una notevole complessità aromatica e a una buona struttura, ma mai a scapito della piacevolezza. I risultati non convincenti si hanno invece quando, soprattutto nel caso dei millesimati e di quelli lasciati più a lungo sui lieviti, si cerca un’importanza, una larghezza, una corposità (anche ricorrendo all’affinamento in legno di parte dei vini base) che finisce invece con il penalizzare, tristemente, la beva e rendere i vini pesanti, fiacchi, eccessivi, privi di nerbo. Quando si capirà questa evidenza e si doseranno con intelligenza affinamenti, dosage, liqueur, senza cercare inutili effetti speciali, allora il numero dei TrentoDoc d’eccellenza potrà essere ancora superiore e questa denominazione potrà competere alla pari, come accade ad esempio con i migliori esempi tipo il Giulio Ferrari, con la concorrente denominazione Franciacorta Docg. 53


Degustazioni

TRENTODOC: LA DEGUSTAZIONE TrentoDoc Brut Giulio Ferrari Riserva del Fondatore 1999 Ferrari Costoso ma sempre grande questo classico del metodo classico trentino, proposto in qualcosa come venticinquemila esemplari che lo rendono un vino tutt’altro che “virtuale”. Colore di bellissima vivacità e brillantezza, un paglierino vivo e traslucido con sfumature verdognole, mostra un naso sottile elegante e nervoso, con sfumature di alloro e cioccolato bianco, in evidenza una bella componente minerale (pietra focaia), nervosa e viva a impreziosire un corredo aromatico caratterizzato da note di fiori secchi, miele, canditi, agrumi, di grande finezza e fragranza. La bocca è viva, salata, di grande dinamismo ed energia e bellissima freschezza, con un’acidità perfettamente calibrata, gusto lungo, pieno, sapido, nervoso, di grande piacevolezza e nerbo. Ha tutto quello che ci si attende da un grande millesimato, la complessità, la finezza, l'equilibrio sottile in tutte le componenti e poi il “sale”, la vivacità da vino di grande carattere.

TrentoDoc Brut Riserva del Fondatore 976 1998 Letrari Peccato che le bottiglie disponibili siano solo 3000 (vendute a meno di 25 euro, grande rapporto qualità prezzo!). Questo millesimato 1998 di Letrari (Chardonnay con una piccola quota di Pinot nero) è davvero uno dei migliori metodo classico mai prodotti in Trentino. Bellissima la vivacità e la brillantezza del colore un paglierino verdognolo, naso inizialmente un po' trattenuto e in sé, con un predominio delle note agrumate, floreali, minerali (pietra focaia) su quelle fruttate, ma poi si apre in una cornice di notevole equilibrio e bella freschezza con sfumature di alloro, rosmarino, cioccolato bianco e un leggero accenno di miele millefiori. La bocca è sorprendentemente piena, strutturata, di grande stoffa, e il vino si sviluppa con ricchezza, espansione, carattere saldo, grande energia, con notevole dinamismo, un'acidità viva ma perfettamente calibrata, una persistenza lunga e una piacevolezza e freschezza davvero notevoli.

TrentoDoc Brut millesimato 2005 Letrari Quindicimila bottiglie e una prevalenza di Pinot nero sullo Chardonnay per questo millesimato. Bella vivacità di colore paglierino oro brillante multi riflesso, naso vivo, molto fresco, fragrante, diretto e appealing con bella complessità e sapidità e una nitida componente minerale, con bouquet incisivo, molto pulito con note di fiori bianchi, agrumi, una leggera nota tra l'alloro e il cacao in evidenza su un fruttato ben espresso. Al gusto è “croccante” molto diretto ed elegante l'attacco, fresco, vivo, articolato, sapido, pieno di energia, con ottimo equilibrio, bell'allungo, vivacità e articolazione, acidità viva, nervosa ma ben calibrata, lunga persistenza, ricco di sapore, con grande piacevolezza.

TrentoDoc Perlé Brut millesimato 2003 Ferrari Mezzo milione le bottiglie di questo classico del panorama spumantistico trentino, da uve Chardonnay in purezza. Colore paglierino oro di bella intensità e vivacità si propone con un naso fitto, cremoso, compatto, con sfumature di caffé, cioccolato bianco, spezie, leggera tostatura, che prevalgono su un frutto ben maturo e su una componente agrumata (pompelmo e cedro) molto evidente. Al gusto molto ampio, caldo, strutturato, pieno, con un frutto succoso, una bella consistenza, acidità ben calibrata, piacevole e molto persistente. Vino di interessante impegno e complessità ancora fresco e vivo con buon potenziale d'evoluzione.

TrentoDoc Brut millesimato 2005 Pisoni 90% Chardonnay con un dieci per cento di Pinot nero da vigneti posti su terreni calcarei per questo sorprendente TrentoDoc. Colore paglierino oro intenso brillante, perlage sottile, mostra un naso molto intrigante complesso e strutturato con una componente sapida minerale che innerva una materia ricca e piena. Ottima la fragranza con fiori bianchi, agrumi, spezie, crosta di pane, frutta esotica e accenni di pietra focaia in evidenza. La bocca è piena asciutta, nervosa, incisiva di bella personalità e freschezza, ottima la componente fruttata, succosa, viva, bella l'acidità ben calibrata, per un gusto lungo, pieno, di notevole soddisfazione e dinamismo, con un finale di notevole persistenza e pulizia. 54


TrentoDoc Brut riserva 2004 Cantina d’Isera Chardonnay in purezza la formula di quest’ottimo TrentoDoc proposto dalla Cantina sociale d’Isera, più nota per il suo Marzemino. Colore paglierino verdognolo scarico, buon perlage sottile e continuo, si propone con un naso sottile, incisivo, elegante con prevalenza di toni floreali, minerali, agrumati di notevole fragranza e finezza, sfumature di alloro accenni di pietra focaia di grande freschezza e pulizia. In bocca attacco diretto, pulito, incisivo, di grande nerbo e finezza, molto diretto, asciutto, ben secco senza ruffianerie, ha notevole dinamismo, energia, slancio, è molto lungo e salato, con un'acidità viva perfettamente calibrata grande la piacevolezza e la freschezza, molto vivo e gustoso.

TrentoDoc Brut Balter s.a. Venticinquemila bottiglie e uve Chardonnay in purezza per questo Brut di Balter. Colore paglierino dorato di bella intensità e brillantezza multi riflesso, perlage continuo e sottile, naso molto appealing e maturo con note di fiori bianchi, fieno secco e bella componente agrumata e una certa mineralità salata e appuntita in evidenza, ampio, fragrante, elegante con una certa consistenza di frutto quasi cremosa. La bocca è asciutta, di bella compattezza, ricca, con dinamismo, slancio, bella articolazione, notevole la sapidità e molto bilanciata e viva la componente acida, piuttosto lungo, persistente, con ottimo equilibrio e buona piacevolezza finale, vivo e incisivo.

TrentoDoc Brut millesimato 2004 Azienda vinicola del Revì Una bella sorpresa le novemila bottiglie (a base di Chardonnay e una quota di Pinot nero) di questa piccola azienda con una ventina d’anni di storia. Colore paglierino oro brillante luminoso splendente multi riflesso, mostra un naso molto compatto, fitto, complesso, secco, strutturato di buona profondità, con note di fiori secchi e fieno, di spezie orientali, mela, agrumi, accenno di liquirizia, cioccolato bianco, caffé, in evidenza a formare un insieme sapido e nervoso. La bocca è asciutta, ricca, ben strutturata, con slancio, energia, bella sapidità, acidità ben calibrata, rotondo e persistente nello sviluppo, con un buon equilibrio in tutte le componenti, nervoso con una persistenza piuttosto lunga e bella pienezza.

TrentoDoc Brut Cantina Aldeno s.a. Nota soprattutto per i suoi Merlot e Cabernet la Cantina di Aldeno propone un TrentoDoc di buon livello. Perlage abbastanza sottile e persistente, colore paglierino di buona intensità e brillantezza, naso complesso compatto di buona intensità e fragranza, elegante, ampio ben strutturato con note di mela, pompelmo, agrumi e fiori secchi, una bella venatura minerale a formare un insieme aperto e molto piacevole. In bocca attacco asciutto diretto incisivo ben strutturato di buona persistenza, con nerbo, carattere saldo, acidità ben bilanciata, ampio e vinoso.

TrentoDoc Madame Martis Brut riserva 1999 Maso Martis Un prodotto virtuale, con sole 500 bottiglie e un prezzo d’affezione sui 50 euro per questa selezione particolare che vede un 70% di Pinot nero completato da un 25% di Chardonnay (affinato in legno) e da un 5% di Pinot Meunier e un affinamento di otto anni sui lieviti. Colore paglierino oro intenso con notevole viscosità nel bicchiere mostra un naso compatto, grasso, cremoso di grande ampiezza, calibrata dolcezza e una buona complessità con note di alloro, cioccolato bianco, spezie, una leggerissima tostatura (caffè), caramella d'orzo, caramello, miele a impreziosire il corredo aromatico. La bocca non conferma la freschezza, l'energia dei profumi e tende a denunciare una certa maturità e stanchezza ma il vino, dotato di una notevole cremosità, di una vinosità accentuata, si dispone caldo, ampio, ricco, con una bella struttura e persistenza in bocca regalando una notevole persistenza e un'indubbia piacevolezza.

TrentoDoc Pedrotti Brut Pedrotti spumanti s.a. La consueta formula novanta per cento Chardonnay e una quota residua di Pinot nero per questo Brut di una delle aziende trentine che da più tempo si dedica alla produzione di metodo classico. Colore paglierino oro di buona intensità, naso molto fitto compatto maturo con note di fiori secchi, agrumi, mela, crosta di pane tostato in evidenza, un accenno di miele, alloro e cioccolato bianco e una leggera speziatura. La bocca è ricca, piena, strutturata, buono lo sviluppo, con carattere, nerbo, bella personalità, acidità ben bilanciata, sapidità, notevole lunghezza e persistenza, con equilibrio e ottima piacevolezza di beva. 55


Degustazioni

TrentoDoc Brut riserva 2003 Letrari Terzo vino questo Brut millesimato (Pinot nero a prevalere sullo Chardonnay) a segnare l’ottima prestazione dei TrentoDoc Letrari nella nostra degustazione. Colore paglierino intenso brillante molto luminoso, si fa apprezzare subito per l’impatto aromatico molto bello fitto solare mediterraneo aperto, con grande sviluppo di frutta esotica, agrumi, leggera speziatura, accenni di miele e pietra focaia, alloro e cioccolato bianco. Al gusto bella densità e cremosità, struttura ricca, vinosità piena e succosa, manca un po' di slancio e finezza, ma la pienezza, il carattere, la consistenza, che non penalizzano mai la piacevolezza, sono davvero notevoli.

TrentoDoc Altemasi Brut Riserva Graal 2001 Cavit Settanta per cento di Chardonnay e un trenta per cento di Pinot nero provenienti da zone particolarmente vocate per questo Brut riserva Cavit affinato sui lieviti 48 mesi. Colore paglierino verdognolo vivace di bella brillantezza e luminosità, si propone con un naso vivo floreal-vegetale incisivo e sottile ancora con una bella freschezza e vivacità, con accenni di fieno secco, fiori bianchi, miele d'acacia, una bella componente agrumata viva e nervosa a comporre un insieme articolato. La bocca è sapida, nervosa, ancora con acidità mordente, un buon dinamismo, una notevole freschezza ed energia e un finale solo leggermente amaro di buona piacevolezza che richiama la mandorla.

TrentoDoc Academia Brut riserva 2003 Accademia del Vino Cadelaghet Uve Chardonnay in purezza per questa riserva 2003. Bellissima vivacità e profondità di colore paglierino oro splendente, naso molto caratteristico, compatto, asciutto dalla solarità mediterranea, con note di agrumi, scorza di cedro, arancia candita, una leggera speziatura e accenni di caffé ben dosati in evidenza. La bocca è ampia strutturata di bell'impegno, il gusto largo, pieno, lungo e persistente, con acidità presente e viva ma ben bilanciata, lunga persistenza uno spiccato carattere vinoso. Il risultato un vino complesso, ricco, di notevole stoffa, ma con una bella componente minerale molto nervosa e viva.

TrentoDoc Brut Tridentum 2004 Cesarini Sforza Ottanta per cento Chardonnay e un venti per cento di Pinot nero provenienti da altitudini diverse (350-600 metri) della zona di Pressano e della Valle di Cembra, e un affinamento sui lieviti variante dai 36 ai 48 mesi. Colore paglierino verdognolo di media intensità spicca per il naso fitto, compatto, ben strutturato, di buona fragranza e freschezza e una componente minerale ben sottolineata. La bocca è ricca, piena, di buona complessità, il gusto equilibrato, sapido, leggermente dolce, con una componente fruttata molto evidente e una buona lunghezza e persistenza. Spumante ben fatto e di buona piacevolezza, difetta solo di un pizzico di complessità.

TrentoDoc Casata Monfort Brut Cantine Monfort s.a. Anche un cinque per cento di Pinot bianco, oltre ad un 15% di Chardonnay e ad un 80% di Chardonnay provenienti dalle colline di Lavis e Meano (con fermentazione in legno di una piccola parte di mosto) per questo Brut. Colore paglierino brillante di media intensità, naso con prevalenza di toni verdi floreali e vegetali e solo una piccola componente fruttata (mela e pompelmo) in secondo piano. In bocca è ricco, ben strutturato, ampio, più largo e corposo di quanto apparisse a naso, buona la sapidità e il nerbo e la persistenza con finale salato lungo e appuntito.

TrentoDoc Perlé Rosé Brut millesimato 2003 Ferrari Il miglior TrentoDoc rosé questo Perlé targato Ferrari, duecentomila bottiglie a base di Pinot nero (60%) e Chardonnay (40%). La versione 2003 si propone con bella intensità di colore cerasuolo scarico sangue di piccione-buccia di cipolla, naso abbastanza vivo e succoso giocato su note di ribes e lampone, una buona freschezza sapida e asciutta. La bocca è essenziale, viva, nervosa, con una buona dolcezza di frutto succoso e polposo e una buona persistenza lunga.

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TrentoDoc Brut riserva Aquila Reale 2001 Cesarini Sforza Un Blanc de Blancs questa riserva 2001 di una delle più note aziende spumantistiche trentine. Colore paglierino-oro intenso, naso compatto, complesso, fitto, ma piuttosto evoluto e su note leggermente ossidative, con una notevole presenza di legno, tostatura, vaniglia spezie orientali, che tende a coprire le sfumature di pan brioche e gli accenni di crème caramel. Buona struttura, piena e consistente al gusto, ma il risultato complessivo è penalizzato da una carenza di energia e di freschezza, che condiziona la piacevolezza, con qualche accenno di stanchezza.

TrentoDoc Perlé Nero Extra Brut millesimato 2002 Ferrari Nuovo ambizioso prodotto per la Ferrari, un inedito Blanc de Noir, da uve Pinot nero in purezza, provenienti dalle zone più alte delle aziende agricole di Villa Margon, Maso Orsi e Maso Valli, affinato quasi sei anni sui lieviti. Un vino impegnativo, condizionato nel giudizio, in questo momento, dalla sua giovane età. Colore molto intenso paglierino oro, naso dove sono evidenti (troppo) note di tostatura di legno, caffé, cioccolato bianco, spezie, con un alcol leggermente in eccesso e pungente e accenni ossidativi, agrumi e miele a comporre un insieme fitto ma statico e poco fragrante. La bocca è ricca, piena, con una buona persistenza, ma la vinosità, l'alcol, la struttura corposa prevalgono sulla freschezza e la piacevolezza. Un vino che richiede assolutamente l'abbinamento ai cibi per essere apprezzato.

TrentoDoc Altemasi Brut millesimato 2002 Cavit 100% uve Chardonnay provenienti da Sorni e della colline di Trento e Valle dei Laghi e una permanenza sui lieviti per 36-48 mesi, con un minimo dosaggio di "liqueur d'expedition" alla sboccatura per questo millesimato di Cavit. Colore paglierino oro di media intensità e brillante mostra un naso compatto, complesso, con note di frutta esotica, agrumi, mela verde, accenno di miele e leggera speziatura orientale, con netta componente vinosa. La bocca è agile, non di grande impegno, con acidità importante non perfettamente bilanciata da una sufficiente materia, ma il vino ha comunque un certo equilibrio, sapidità, una buona piacevolezza.

TrentoDoc Antares Brut millesimato 2002 Cantina di Toblino Solo uve Chardonnay provenienti da vigneti alto collinari della Valle dei Laghi e 36 mesi di affinamento per il millesimato di questa cantina più nota per la sua Nosiola e il Vino Santo. Colore paglierino verdognolo brillante, naso molto diretto, vivo fragrante, sapido, elegante con una nitida nota agrumata, di fiori bianchi e fieno secco, una leggera nota di pietra focaia a dare nerbo e vivacità, bella finezza ed eleganza. La bocca è asciutta, nervosa, viva, di bel dinamismo ma il vino difetta leggermente di slancio e tende a finire leggermente corto con poca articolazione e allungo.

TrentoDoc Academia Brut Riserva Millennium 2002 Accademia del Vino Solo una piccolissima quota (5%) di Pinot nero a impreziosire la componente Chardonnay dominante. Colore paglierino oro intenso brillante, mostra un naso ricco, complesso, strutturato, con frutta matura, ananas, pompelmo, mela cotta in evidenza e una leggera nota evolutiva ossidativa. La bocca è piena strutturata, con vinosità accentuata, il gusto ampio e caldo di buona consistenza e persistenza ma il vino difetta leggermente di freschezza e di dinamismo e chiude un po’ statico e monocorde.

TrentoDoc Tridentum Brut Rosé s.a. Cesarini Sforza Pinot nero in purezza per questo Rosé non millesimato. Bella intensità di colore, sangue di piccione buccia di cipolla cerasuolo scarico con brillantezza e varietà di riflessi, naso abbastanza espressivo e succoso con una bella presenza di frutto (lampone e ribes), accenni di salvia e una leggera nota speziata. La bocca è piuttosto semplice ed essenziale inizialmente, poi il vino esprime una buona componente fruttata abbastanza carnosa, un buon equilibrio, una certa piacevolezza, con un finale abbastanza persistente e sapido. Gradevole ma è lecito attendersi qualcosa di più…

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Regioni

Il

perlage protagonista

a

Madonna di Campiglio

di Francesca Cantiani n Trentino la vite coltivata nelle vallate fa tutt’uno con il paesaggio. Ma oltre alle bellezze della natura questa regione offre moltissimo anche dal punto di vista enogastronomico e gli appassionati hanno imparato a conoscerla grazie al turismo che si declina sempre di più con le tradizioni culinarie ed enologiche. In questa terra di grandi vini da sempre apprezzati nel mese di marzo, a Madonna di Campiglio, l’Ais ha in programma un importante evento, organizzato dal presidente di Ais Trentino Mariano Francesconi.

I

zione rivolta allo sviluppo dell’aspetto viticolo e commerciale, all’innovazione e al mercato nel prossimo futuro. Questa iniziativa è nata assieme al primo Concorso riservato ai sommelier professionisti e degustatori ufficiali italiani sul metodo classico, come già esiste quello del Sangiovese o del Sagrantino. Il concorso premierà il miglior sommelier esperto e conoscitore di questa particolare tipologia di vini che è rappresentata al meglio proprio dalla nostra regione”.

Dal primo agosto 2009 è prevista l’entrata in vigore del sistema di classificazione dei vini dettata Di cosa si tratta? dalla Commissione Europea che “La manifestazione dal titolo ‘Perlage. L Mariano Francesconi prevede la scomparsa delle 470 L’eccellenza del Metodo Classico a Madonna di Campiglio’ è dedicata non solo al nostro ter- denominazioni fra Docg, Doc e Igt ridotte a 182 sudritorio ma all’eccellenza del metodo classico di qualità. divise in sole Dop e Igp. Cosa cambia per il Trentino? Prende in considerazione quindi non solo le bollicine pro- “Dovrebbero cambiare molte cose. Le denominazioni che dotte in Trentino e nelle zone spumantistiche italiane ma abbiamo attualmente riguardano il riferimento territoanche in quelle extranazionali. L’evento, che si svolgerà riale, che può rimanere, ma entrano nello specifico delle nel nuovo Centro congressi il 21 e 22 marzo, è in parte varietà e questo sicuramente non può essere mantenudedicato all’Ais. Nelle due giornate è previsto un semina- to. Si dovrà fare un riferimento al territorio ma non entranrio di aggiornamento per i sommeliers, un approfondi- do nella classificazione di tutte le tipologie che attualmento tecnico della storia delle metodologie produttive mente esistono. Qualche cambiamento deve essere fatto, del metodo classico, un’analisi sensoriale e la tecnica di soprattutto per valorizzare alcuni prodotti importanti, abbinamento ‘cibo-metodo classico’. Si terranno inoltre come ad esempio il Vino Santo prodotto nella Valle dei degustazioni di alto livello a tema, anche verticali, per un Laghi che meritano di essere ricordati e valorizzati”. numero ristretto di appassionati. Nella giornata di apertura ampio spazio verrà riservato al convegno sempre Parliamo dell’Ais Trentino. Quanti sono gli iscritti? dedicato al metodo classico, con una particolare atten- “Al momento 650. Si è registrato un incremento impor58


tante quest’anno con l’ingresso di nuovi soci. Siamo in attesa di vedere che cosa succederà nel 2009”.

tore. Il sommelier è una figura rispettata, considerata con grande attenzione oggi”.

Che cosa chiedono gli associati? “È una bella domanda. I trentini sono molto particolari, è difficile capire che cosa vogliono e soprattutto se sono contenti di quello che viene loro proposto. In questi due anni, da quando sono presidente, abbiamo cercato di lavorare puntando molto sulla qualità e sulla conoscenza dei prodotti. Abbiamo organizzato incontri, degustazioni anche molto importanti e ad ampio raggio. Sto testando diverse strade per capire che cosa li soddisfa e vale la pena di fare”.

Quali sono le difficoltà e le soddisfazioni per il presidente dell’Ais Trentino? “La maggiore difficoltà è quella di affrontare la mentalità tipica della gente di montagna, piuttosto restia a farsi coinvolgere, a lasciarsi trascinare nelle novità. Questo è l’aspetto più difficile che ho incontrato. Adesso però sono soddisfatto quando vedo che gli associati sono contenti delle possibilità che vengono offerte e mostrano un certo orgoglio di far parte dell’Ais. Ma ciò che mi fa più piacere è riscontrare la disponibilità di alcuni associati che mettono a disposizione i propri ristoranti e locali perché ci credono e questa è una cosa molto bella”.

Come vanno i corsi? “Ho fatto una scelta diversa rispetto al passato: ho deciso di portare avanti il discorso formativo su tutto il territorio, non incentrandolo esclusivamente su Trento, come avveniva prima, con rari corsi in altre zone. Abbiamo concluso otto corsi, anche se con numeri limitati, in località lontane, nelle vallate. Una scelta che richiede un impegno dal punto di vista organizzativo non indifferente ma che va a coinvolgere persone che altrimenti non si sposterebbero e quindi non farebbero mai parte dell’Associazione. Abbiamo recuperato in questo modo molti nuovi associati, lavorando sui territori dove l’Ais prima non era mai stato presente. È chiaro che i risultati hanno bisogno di tempo per una giusta valutazione”. Come è cambiata in questi ultimi anni la figura del sommelier? “Da parte degli enti, delle cantine, delle aziende c’è una grande considerazione nei confronti dell’Associazione e della professionalità degli associati che operano nel set-

Qual è il suo sogno da presidente dell’Ais Trentino? “Sicuramente quello di creare un’associazione con un grande gruppo di persone che hanno voglia di conoscere, di crescere personalmente. Ho dedicato molto del mio tempo libero girando nelle diverse zone viticole per assaggiare il più possibile, perché lo ritengo fondamentale per la crescita professionale. Vorrei che questa necessità coinvolgesse un po’ tutto il territorio e dall’altra desidero di crescere anche a livello numerico, di passare avanti a qualche altra realtà territoriale italiana. Naturalmente sono sogni che richiedono un grande lavoro alla base. Un sogno a più breve scadenza è che la manifestazione di Madonna di Campiglio, partita dal Trentino con il supporto dell’Ais nazionale e realizzata in stretta collaborazione con l’azienda del turismo di Madonna di Campiglio e con la famiglia Lunelli, proprietaria della Ferrari di Trento, possa diventare un appuntamento di riferimento non solo a livello nazionale”. 59


Vino e territorio

Per ritrovare l’appeal perduto il vino s’affida a Indiana Jones


I

TERRITORI ITALIANI AFFERMANO L’IDENTITÀ DEI LORO VINI

PER CONTRASTARE LA GLOBALIZZAZIONE.

E’

LA MIGLIORE RISPOSTA

A CHI VUOLE SMONTARE I DISCIPLINARI E IMPRIGIONARE NEL CARTONE I GRANDI VINI PORTANDO L’INDUSTRIALISMO IN CANTINA

di Carlo Cambi

icordate le infinite dispute tra chi difendeva gli autoctoni e chi inneggiava ai vitigni omnibus, i cosiddetti internazionali? E la “guerra” barrique sì barrique no? E i tanti revirement dei critici che prima hanno esaltato i vini da profumeria e da falegnameria e poi si sono convertiti ai vini cosiddetti “autentici”? All’orizzonte si profila una nuova disputa, ma stavolta la posta in gioco è assai più alta delle semplici “opinioni dei clown” che spesso pontificano alle e sulle spalle di chi la vigna la suda. C’è in gioco l’autenticità, l’identità, la credibilità stessa del vino italiano. I due partiti che si fronteggiano sono quelli di chi difende l’autenticità e la cultura del vino italiano e dall’altra parte di chi cerca d’imporre l’idea industrialista del vino, quella dei grandi imbottigliatori (grandi ovviamente solo per dimensioni) che hanno in odio le regole, che plaudono ai taroccamenti, alla morte dei disciplinari, che vogliono le Doc nel cartone e ripetono nei convegni che la globalizzazione e la competizione mondiale richiedono che si possa lottare ad armi pari con i concorrenti del Nuovo Mondo che possono fare di tutto. Ivi compresi vini omologatissimi. Non comprendono costoro che il vero valore del vino italiano sta nella sua unicità e nella valorizzazione del rapporto tra territorio e vitigno, nell’affermazione della assoluta non replicabilità dei nostri vini. E’ singolare che mentre alcuni importanti terroir sono alle prese con crisi d’identità derivanti dai taroccamenti dei disciplinari, la

R

nuova via, quella dell’affermazione dell’assoluta peculiarità degli autoctoni, viene aperta da territori di enormi potenzialità qualitative e di ridotte dimensioni. Sono questi territori quelli che per primi si sono affidati ad Indiana Jones per andare alla ricerca delle identità perdute dei vitigni. Il primo anni fa a imboccare questa strada fu Marco Caprai che ha finanziato una ricerca, su consiglio del professore Leonardo Valenti, per trovare la prima origine del Sagrantino, un vitigno che anche dopo le analisi del Dna, dopo infinite ricerche, ha ancora le radici avvolte nel mistero mentre è probabile che vi sarà una seconda campagna di studio nella regione degli Urali per cercare ancora il papà e la mamma del vitigno di Montefalco. E la storia si ripete e continua. Certo non ha la figura di Harrison Ford, né veste la sahariana dell’archeologo-mito del cinema, ma i panni di Indiana Jones gli stanno benissimo e come l’eroe di celluloide Attilio Scienza è innamorato delle sfide, ha una infinita curiosità scientifica ed è portato da una grande passione. E’ lui a guidare idealmente il partito dei “cultori delle origini”. “Il progetto Sagrantino è stata una lodevole intuizione e oggi che siamo progrediti negli studi sul DNA cercare l’origine dei vitigni è fondamentale per ridare identità alla produzione vinicola italiana. Personalmente ho una collezione di vitigni georgiani (fu quella una delle regione di origine della vitis vinifera e di domesticazione delle viti selvatiche ndr.) e comincio a pensare che

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Vino e territorio

buona parte dei vitigni di presunta origine greca in realtà sono venuti dalla regione armeno-georgiana. Anche in antico si taroccava la verità per costruirsi una fama. E dire che le proprie viti arrivavano dalla Grecia faceva più fine che non farle immaginare nomadi da regioni poco conosciute come quelle caucasiche”. A seguito di questa rilettura per così dire ampelografica della storia Attilio Scienza – uno dei massimi cultori al mondo di scienza viticola, ordinario all’università di Milano – si è messo alla testa di due progetti scientifici che tendono a scoprire la remota identità di due vitigni per rafforzare l’autenticità dei vini che da questi vengono prodotti. Il primo progetto nasce dalla volontà di un territorio di difendere le proprie viti come patrimonio storico, culturale e di affermare che il vino è un prodotto della terra e della fatica dei vignaioli. E’ il progetto Isera che ormai da otto anni ha messo al centro della promozione e valorizzazione del Marzemino non solo il vino in quanto tale, ma prima di tutto la vigna e la capacità di coltivarla. Anche quest’anno infatti è stato assegnato a Isera il premio per la “vigna eccellente” di Marzemino che tende a valorizzare il lavoro dei coltivatori. Significativo che a vincerlo sia stata una donna – Rosanna Balter: ai posti d’onore Mario Frapporti e Matteo Mittempergher – a indicare che questa viticoltura è ancora patrimonio di civiltà rurale, ha dimensione “familiare” e si perpetua come eredità di affetti e d’impegno. Proprio per preservare e incoraggiare questa viticoltura il Comune d’Isera, la Provincia di Trento, hanno finanziato un progetto per la ricerca delle origini del Marzemino nelle regioni armeno-georgiane. Da questo progetto nascerà un film che racconta il viaggio della vite nello spazio e nel tempo. “E’ – afferma Scienza – un nuovo modo di restituire valore al vino: cercando e raccontando la sua origine si creano suggestioni che diventano nel consumatore consapevolezza e nel vignaiolo patrimonio di conoscenza che lo spinge a preservare e perpetuare quella specie viticola, quella viticoltura e in ultimo quel vino”. La sensibilità della città di Isera per questo tipo di promozione del vino è testimoniata da questo premio (di cui sono anima Paolo Zaniboni, un segretario comunale sui generis, e Mario Tonini un assessore cultore di Bacco )

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e dalla Casa del Vino che è una sorta di tempio della gastronomia e della viticoltura della Valle Lagarina, sorta dalla volontà di 30 cantine che si sono associate e che è stata valorizzata dal presidente Carlo Guerrieri Gonzaga. Il risultato è che grazie a questa pervicace ricerca dell’autenticità del Marzemino il vino si è apprezzato, i coltivatori si sono fatti di nuovo protagonisti della qualità e sono tornate a crescere le imprese viticole incoraggiate da una domanda in ascesa e da un turismo del vino


anch’esso in crescita. Consapevolezza, orgoglio, conoscenza e affermazione dell’identità sono dunque le nuove “armi” per l’affermazione del grande vino italiano. Da questa consapevolezza è partita una straordinaria iniziativa della cantina Feudi di San Gregorio che ha finanziato una ricerca (presentata a Roma alla Pontificia Università Gregoriana) per scoprire le origini dell’Aglianico. A questo progetto sono interessate l’università di Napoli e quella di Milano. Il

professor Scienza anche in questo caso è l’Indiana Jones che si muove tra Taurasi, Vulture e Taburno per carpire i segreti di questo vitigno. “E’ uno studio affascinante che conduciamo con i colleghi di Napoli. Ma già abbiamo intuito che l’Aglianico è una vite bizzarra: è forse finita qui nel meridione portata dagli Etruschi perché ha tratti di DNA che sono simili a quelli delle labrusche, delle viti selvatiche che questo popolo era uso coltivare nelle alberate”. Sfatato dunque il luogo comune secondo il quale l’Aglianico era vitigno greco e che anzi il nome fosse in origine Ellenico poi mutato in Aglianico. “Niente di più fantasioso – dice Scienza – e niente di più emblematico di quell’antico vezzo di taroccare le origini per dare nobiltà ai vitigni. Aglianco probabilmente significa vite delle pianure da un’antica radice italica “glia” che appunto voleva dire pianura”. Ma l’applicazione pratica di questo studio quale sarà? “Enorme – risponde Scienza - potremo finalmente sapere perché l’Aglianico nella zona di Taurasi si comporta in un certo modo che è del tutto diverso da quanto accade nel Vulture e nel Taburno, potremo scoprire come la composizione dei terreni interagisce con la piante e come ne modifica le caratteristiche. Potremo infine dare all’Aglianico quella patente di appartenenza assoluta all’areale italico che è un formidabile strumento di marketing quando si passa dai vini internazionali ai vini che devono essere riconoscibili e avere un’anima”. Certo è da considerare che la Feudi di San Gregorio con questa operazione applica il criterio dell’innovazione e della ricerca anche alla viticoltura. E non a proprio esclusivo vantaggio. Perché se è vero che questa cantina ha vigne nella zona del Taurasi e nella zona del Vulture, è anche vero che i risultati scientifici saranno a disposizione di tutti i produttori e porteranno a un miglioramento complessivo della qualità, ma soprattutto all’affermazione dell’autenticità e unicità dell’Aglianico. Per scoprire che nei nostri vitigni, al riparo di disciplinari troppo laschi, di taroccamenti vari, di mere operazioni di marketing, si nasconde un vero tesoro: quello della storia, dell’identità, dell’unicità dei nostri vini. Un tesoro che gli Indiana Jones delle vigne vanno cercando come Harrison Ford inseguiva “l’Arca Perduta”.

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Associazioni

Bere fa rima con

consapevole E’

IL MESSAGGIO LANCIATO AI COETANEI DAI GIOVANI IMPRENDITORI DEL VINO:

LA LORO ASSOCIAZIONE FESTEGGIA IL VENTESIMO COMPLEANNO Italia del vino è giovane! Non solo perché, come dimostrano molte statistiche, cresce il consumo qualificato tra gli under 40, ma anche perchè oggi sono proprio i giovani a guidare alcune delle più importanti aziende italiane. Lo dimostra Agivi, Associazione Giovani Imprenditori Vinicoli Italiani, il primo progetto creato dai giovani e rivolto agli “uomini del vino” under 40, nato 20 anni fa. Nel 1989 un gruppo di giovani delle aziende appartenenti a Unione Italiana Vini decise di unirsi e realizzare il proprio sogno. Il primo Presidente fu Lamberto Vallarino Gancia, attuale Presidente del Ceev. Oggi quel progetto riunisce più di 130 soci, dall’Alto Adige alla Sicilia. Alla guida è Enrico Drei Donà, 35 anni, titolare di Drei Donà – Tenuta La Palazza, situata nel cuore della Romagna. Alla sua fondazione, l’obiettivo principale di Agivi era apportare nuove idee nel mondo del vino, promuovere lo sviluppo di una mentalità più aperta e rafforzare la collaborazione fra i produttori. La coesione da un lato e una migliore preparazione dall’altro sono infatti i due elementi fondamentali per affrontare un mercato in continua evoluzione. Il primo passo era creare più unitarietà e dialogo fra le aziende, cosa che non sempre i padri sono riusciti a fare, per costruire una “squadra” dell’enologia nazionale. Se sul mercato ognuno fa la sua strategia, si possono creare rapporti di amici-

L’

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zia e collaborazione. Agivi ci è riuscita. E’ facile vedere i soci scherzare e sorridere durante i tasting, organizzare eventi tra il ludico e il professionale e, addirittura, viaggi studio all’estero per incontrare colleghi, giovani produttori come loro. L’ultimo di questi è stata la visita in Borgogna, cui hanno partecipato circa quaranta produttori da tutte le regioni d’Italia. Oggi Agivi ha sviluppato questa attività, affiancandovi la formazione attraverso seminari, corsi e forum su temi come il

marketing e la gestione aziendale. Nel tempo, però, alcune esigenze sono cambiate. Oggi la priorità per Agivi è diventata la diffusione della cultura del bere consapevole fra i coetanei. Un tema di grande attualità che sta diventando vera e propria emergenza: settimanalmente i giornali riportano un vero e proprio bollettino di guerra sulle cosiddette “stragi del sabato sera”. Secondo Agivi è necessaria da parte del settore una risposta consapevole, che non sdrammatizzi il problema ma

Enrico Drei Donà, presidente dell'Agivi L


cerchi di fare chiarezza e di educare i giovani al consumo responsabile e consapevole. E poiché Agivi è composta da produttori tra i 18 e i 40 anni, ovvero coetanei dei destinatari del messaggio, diffondere la cultura del bere consapevole con un approccio alla pari, informale e amichevole, è oggi la priorità dell’associazione. Agivi, già prima che i fatti di cronaca rendessero l’educazione un’ emergenza, aveva creato il Wine Bar del Beregiovane, incontro tra giovani

produttori e consumatori divenuto un appuntamento itinerante in tutta Italia. Si è iniziato così a interpretare le esigenze dei giovani, da quelli meno esperti agli intenditori, adottando codici e linguaggi adatti a loro e il messaggio “Bevi poco ma bevi bene.” III Un passo avanti verso la cultura del bere consapevole Il successo del Wine Bar del Beregiovane ha portato Agivi a interrogarsi su cosa, quando e quanto

bevono i giovani. E’ nata così “operazione etilometro”: in tutte le degustazioni ufficiali Agivi, i partecipanti ricevono un etilometro tascabile personalizzato Agivi e possono dire la loro attraverso la compilazione di un questionario. Si tratta di un segnale di responsabilità da parte dei produttori, sebbene simbolico, e un invito a bere consapevolmente. Sono piccoli gesti che consentono però, degustazione dopo degustazione, di posare dei mattoni che sappiano creare una vera protezione,

IL VINO

UN VIAGGIO TRA STORIA, PRODOTTI E CULTURA Che consiglio daresti ai giovani per avvicinarsi in modo corretto al mondo del vino? Ci vuole un approccio curioso e consapevole. È dimostrato che chi apprezza il vino e lo conosce non abusa. Bisogna avvicinarsi al vino con il cervello acceso – afferma Enrico Drei Donà – con l'idea di fare un viaggio tra storia, prodotti e cultura. Non è un mezzo per fare una fuga dai propri problemi. In molti casi i vostri padri sono anche grandissimi produttori, nomi che hanno fatto la storia del vino italiano. Com’è il rapporto fra vecchie e nuove generazioni? Molto buono, oggi c'è la nuova generazione fatta di persone in gamba che sapranno rimpiazzare degnamente i padri. Come sempre, trattandosi di un lavoro che è anche una grande passione, i nostri genitori rimangono comunque in azienda, perché il vino ti rimane sempre dentro. Anche se la gestione è in mano ai figli, essi sono comunque coinvolti emotivamente. Anche noi probabilmente faremo lo stesso. Come vedi il futuro del vino italiano? Positivo nonostante tutto. È un settore che, dopo gli anni del boom, si sta assestando, cosa non necessariamente negativa. Per chi fa il vino con passione, ma per mestiere, il futuro è buono. Il nostro patrimonio vitivinicolo ci dà possibilità ottime anche nei confronti del mercato globale. Ci sono comunque ancora molte cose che potrebbero essere ben migliorate.

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Associazioni quasi un muro, per frenare presto questo problema. E così, se da un lato l’operazione etilometro promuove l’autocontrollo, dall’altro consente di raccogliere dati interessanti. Ecco cosa ne è emerso… Poco più di trent’anni, livello di istruzione medio alto, principalmente imprenditore o libero professionista. E’ questo l’identikit del consumatore under 40. Il primo approccio al vino è avvenuto attorno ai 12/13 anni nel contesto rassicurante della famiglia e il vino non è mai visto come il prodotto della trasgressione ma un elemento del loro essere italiani. Per questo, dopo la prima esperienza in famiglia, il vino viene “snobbato” fino almeno ai 20 anni a favore di super alcolici e alcol pops, i veri protagonisti del consumo in locali serali e discoteche. Per trasgredire, e a volte sballare, il vino non è infatti il prodotto giusto: immagine troppo seria, costo troppo elevato, concentrazione di alcol troppo bassa. Dopo i 20 anni inizia invece la riscoperta. Il consumo diventa regolare, in un contesto legato alla socialità, all’amicizia, alla convivialità. Ciò è confermato dalla risposta al questionario, quando si chiede quali valori associ al vino. Ben l’80% rispon66

de “Amicizia e piacere di stare assieme”, al secondo posto, “relax”, mentre “evasione, trasgressione e divertimento” guadagnano solo tra l’1 e il 3%. Il vino è un piacere quotidiano: il 66% degli intervistati lo consuma da ogni giorno (26%) a un giorno si e uno no (40%). Non vi è quindi il picco di consumi nel week end che invece caratterizza i superalcolici. I dati raccolti sono ancora molti ma non è questa la sede per approfondirli. L’ultimo, davvero significativo, è l’opinione per la maggioranza che le stragi del sabato sera non siano imputabili al vino ma ad altri prodotti e all’uso di sostanze stupefacenti. La dimostrazione è la risposta alla domanda “ritiene utile l’inserimento di icone e slogan deterrenti sulla bottiglia di vino”, che nel 72% dei casi considera queste azioni inutili. III Una nuova iniziativa per festeggiare i vent’anni di attività Il 5 febbraio Agivi festeggerà i 20 anni con un evento a Milano presso il locale serale Lotvs in viale Montegrappa 10. Sarà la prima presentazione ufficiale dell’associazione e la serata si aprirà con la conferenza stampa. Qui interverranno,

oltre a Enrico Drei Donà, attuale presidente dell'associazione, tutti i past-president, da Lamberto Vallarino Gancia primo presidente, ad Andrea Sartori, attuale presidente di UIV . Alla presentazione seguirà una verticale molto speciale, che vedrà in degustazione una selezione di vini dei soci, delle annate dal 1989 in poi. E a partire dalle 23.00 si aprirà la serata dedicata al Bere Consapevole, rivolta ai clienti del locale e ai giovani che vorranno partecipare. Tutti avranno così modo di incontrare alcune storiche aziende italiane rappresentate dai soci Agivi e, soprattutto, potranno “dire la loro” compilando un semplice questionario sul rapporto con il vino. Anche in questa occasione ogni partecipante riceverà un etilometro tascabile personalizzato Agivi. Un'idea, quella della serata del Bere Consapevole, condivisa anche dal Lotvs, tanto da diventare partner attivo di Agivi in questa occasione, con la volontà di estendere l'iniziativa nel tempo. Grazie alla disponibilità del locale di Via Monte Grappa, le serate del “Bere Consapevole” proseguiranno quindi per un intero mese: per 4 settimane, ogni mercoledì, il Lotvs ospiterà i vini dei soci Agivi.


Curiosità

Sbronze

bestiali

di Francesca Cantiani DAL TOPINO CHE SI SCOLA NOVE BIRRE A NOTTE AGLI ELEFANTI

“PER DIMENTICARE”

CHE BEVONO

n piccolo roditore tropicale, simile allo scoiattolo, tracanna ogni notte l’equivalente di nove bicchieri di birra senza effetti collaterali. Un pettirosso dopo aver mangiato uva fermentata barcolla e cade ubriaco dall’albero. I babbuini si nutrono di un frutto che fermenta e produce un senso di ebbrezza. Persino i bufali e i cavalli non disdegnano cibi alcolici. Stiamo parlando di animali a rischio alcolismo. A condurre lo studio è stato un gruppo di ricercatori dell’Università tedesca di Bayreuth, che ha seguito per un certo periodo le abitudini alimentari di alcune specie. Hanno scoperto che ad avere il primato di chi alza di più il gomito è un animaletto tropicale che pesa appena quarantasette grammi, lo Ptilocercus, meglio noto

U

Eugeissona Tristis L’Eugeissonia Tristis è una palma il cui nettare, molto simile alla birra, fa impazzire la tupaia

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come “tupaia dalla coda piumata”. È un piccolo roditore, con una coda lunga quindici centimetri, che abita nelle foreste della Malaysia occidentale. Qui tra la fitta vegetazione di Sumatra e del Borneo abbonda il suo cibo preferito, il nettare di una palma, la Eugeissona Tristis, molto simile alla birra. Ogni notte la bestiola si scola l’equivalente di nove bicchieri di birra, con un aplomb che farebbe impallidire un alcolizzato. Non solo, ma riesce a rimanere lucida e in equilibrio e a non cadere dai rami. Le tupaie sono definite dagli scienziati dei bevitori cronici. Il loro consumo di alcool potrebbe uccidere altri mammiferi, esseri umani compresi. «Lo Ptilocercus consuma frequentemente dosi di alcool tali da far ubriacare un uomo» commentano i ricercatori. «Abbiamo analizzato anche altri animali che bevono il nettare alcolico della palma ma le tupaie sono in assoluto quelli che bevono di più. Questo potrebbe suggerire che traggono benefici dal consumo di alcool nella dieta». «La palma» spiega Frank Wiens, uno degli studiosi, «ha lo stesso odore di una birreria». Il nettare, infatti, che ha

Marula La Marula è il frutto di un albero africano di cui i babbuini sono assai golosi. Ingerito, fermenta rapidamente nello stomaco e provoca vere e proprie sbronze

un’elevata quantità di zucchero, viene fermentato dai lieviti presenti nel fiore, arrivando a un contenuto alcolico del 38 per cento. Le tupaie ogni giorno succhiano il nettare per due ore e mezza, contribuendo all’impollinazione. In questo modo superano il limite di intossicazione per l’uomo e assumono dosi di alcol che stenderebbero un cavallo! Il gruppo di studiosi tedeschi ha ipotizzato che questi roditori riescono ad evitare i danni della “sbornia” perché il loro metabolismo dell’alcool è accelerato. L’analisi delle loro abitudini alimentari, per quanto strane, sono decisamente importanti. La capacità di metabolizzare l’alcool, che si credeva essere tipica dei primati, è invece posseduta da questi piccoli mammiferi da milioni di anni e sembra essere superiore a quella umana, dato che gli animali non mostrano alcun segno di ebbrezza. Da questa scoperta, secondo gli scienziati, si potranno avere indicazioni sull’uso e sull’abuso di alcool negli uomini. Ma lo Ptilocercus non è l’unico amante del bere. Anche i ricci adorano il vino. I contadini di certe regioni del

Papaveri Alcuni animali, come i bufali, sfruttano gli effetti dei papaveri per attenuare il dolore e alleviare la stanchezza


mondo, quando li vogliono attirare nell’orto perché divorino gli insetti dannosi, seminano in giro ciotoline piene di vino. I ricci si ubriacano e continuano per lungo tempo a frequentare i posti dove possono dimenticare “i propri guai”. I babbuini invece preferiscono sapori più forti, tipo il whisky. In particolare sono golosi dei frutti di un albero africano, chiamato Marula, che una volta ingeriti fermentano velocemente nello stomaco causando una vera e propria sbronza. Quanto a capacità di bere alcol non sono secondi a nessuno nemmeno gli elefanti. Con la proboscide bevono i liquidi che derivano dalla frutta fermentata e non smettono finché non sono completamente ubriachi. Allora, poiché la temperatura sale, per favorire la dispersione termica, cominciano ad agitare le grosse orecchie e a scuotere il testone. Se non sono completamente ebbri lasciano il branco per starsene da soli, sbuffando e lanciando forti barriti, altrimenti stramazzano al suolo con un tonfo da decine di quintali. Insomma, non si contano le specie di animali che presentano abitudini alimentari piuttosto bizzarre. I cavalli e il bestiame della regione centrale degli Stati Uniti mangiano l’Astragalus, un legume che altera le percezioni. In Asia le mandrie di bufali, durante la transumanza, si cibano di papaveri indiani in una quantità minima ma sufficiente ad attenuare il dolore e ad alleviare la stanchezza. I pettirossi barcollano e cadono dal ramo quando mangiano l’uva che ha fermentato sulla vite, per poi riprendersi dopo la sbronza mentre altri uccelli muoiono sotto le piante a causa della cirrosi. Un’agenzia russa on line ha riferito addirittura di alci ubriache entrate in autostrada e travolte dalle auto. A causare lo stato di ebbrezza i frutti caduti dagli alberi e fermentati sul terreno di cui gli animali si erano nutriti. Ma perché si ubriacano? La spiegazione è semplice. In natura numerose sono le piante ricche di sostanze stupefacenti o allucinogene di cui gli animali si cibano, subendone gli effetti collaterali. L’hashish è contenuto nelle foglie della canapa indiana, la cocaina in quelle della coca, l’oppio si ricava dai frutti del papavero, la mescalina, un allucinogeno, è presente in una pianta grassa messicana, l’etanolo si forma spontaneamente con la fermentazione di frutti ricchi di zucchero. Gli etologi preferiscono riallacciarsi a motivi comportamentali. Gli elefanti, ad esempio, assumerebbero il liquido zuccherino per lo stress causato da una forte concentrazione di indi-

Il babbuino si nutre di un frutto che fermenta, producendo un senso di ebbrezza I bufali in Asia durante gli spostamenti si cibano di papaveri per attenuare il dolore e alleviare la stanchezza I cavalli nelle regioni centrali degli Stati Uniti mangiano un legume che altera le percezioni Gli elefanti con la loro proboscide bevono succhi derivati dalla frutta fermentata e non è raro che si ubriachino Lo Ptilocercus, anche noto come “tupaia dalla coda piumata”, è un piccolo mammifero considerato dagli scienziati un “bevitore cronico” Il riccio è un gran beone!

vidui, per dimenticare e isolarsi. Nel mondo vegetale persino le piante hanno adottato “sistemi” che inducono alla sbornia. Da una recente ricerca il professor Gianluigi Gessa, docente di Neuro-psicofarmacologia all’Università di Cagliari, ha scoperto che alcune specie producono fiori contenenti un nettare fermentato, alcolico. I vegetali fabbricano sostanze psico-attive per incoraggiare o respingere gli animali. Si è dimostrato che, grazie a questo nettare fermentato, gli insetti e i piccoli roditori non solo si sbronzano ma riescono a trarre sostanze nutritive ed

elementi da utilizzare come ansiolitici. Studiando i topolini per generazioni si è scoperto che scelgono i fiori che contengono il nettare fermentato piuttosto che altri, infilando il musetto nei petali per cercare i succhi. Infine un’ulteriore spiegazione potrebbe essere legata a un gruppo di amminoacidi. I ricercatori hanno messo in evidenza che chi beve sarebbe carente nel proprio cervello di una sostanza formata da 36 amminoacidi. Topi privi dalla nascita di questo elemento sarebbero dei beoni inveterati, mentre altri che lo producono in grandi quantità si mostrerebbero astemi. 69


Fiere

Il debutto di

Divino Lounge DAL 14 AL 17 FEBBRAIO ALLA MOSTRA INTERNAZIONALE

DELL’ALIMENTAZIONE DI

RIMINI

È IN

PROGRAMMA IL NUOVO EVENTO DEDICATO A VINI E SPUMANTI

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l vino torna da protagonista a Rimini e lo fa dedicandosi un intero padiglione all’interno della 39.ma Mostra internazionale dell’alimentazione, una tra le più accreditate fiere di settore, frequentata annualmente da circa ottantamila addetti ai lavori. Si chiamerà Divino Lounge lo spazio occupato da alcune selezionate aziende, scelte tra le più rappresentative e prestigiose in Italia. E a garantire la credibilità dell’evento, anche l’Ais ha deciso di occupare la scena, allestendo – di comune accordo con RiminiFiera – uno spazio importante nel quale si alterneranno incontri, degustazioni, seminari nonché una sessione di assaggio dei vini che hanno ottenuto i 5 grappoli da Bibenda, la Guida ai Vini 2009 curata dai sommeliers italiani. Ma in un periodo di minore consumo del vino, dovuto sia alla crisi economica sia alla campagna anti-alcol che il nostro stesso Stato sta attuando con grande rigore (ma senza troppa distinzione tra alcol da sballo e alcol contenuto in un prodotto che è parte integrante della cultura italiana), diventa fondamentale ado-

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perarsi ancora di più perché questo nostro patrimonio straordinario non diventi il capro espiatorio di politiche economico-sociali palesemente discriminanti. Perché colpevolizzare genericamente e penalizzare con misure solo punitive il mondo del vino e non, guarda caso, quello potente dell’auto (troppe auto, troppe patenti facili, troppe strade insicure) o dell’industria dello sballo (troppi locali non controllati, troppa droga facile, troppi superalcolici a go go, orari di accesso alle discoteche troppo “notturni” o, peggio, “mattutini”)? Il vino paga prezzi non suoi, soprattutto la mancanza di una coscienza collettiva che insegni l’amore e il rispetto per questo grande prodotto di civiltà e di benessere inteso in senso lato. Dunque, nell’ambito di un “salotto buono” che identifichi il prodotto con una buona qualità della vita, Divino Lounge intende manifestare un nuovo e rinnovato slancio nei confronti del vino, per sostenere un trend positivo e confermarne la buona immagine. Cuochi eccellenti, stelle Michelin di regioni diverse, si produrranno per


legare il vino ai prodotti più sani e autentici delle migliori tradizioni: ci sarà a disposizione del pubblico professionale un ristorante gourmet creato dall’architetto Scacchetti, dove poter degustare la pasta con una carta dei vini, a scelta, curata dall’Enoteca dell’Emilia Romagna; in programma un pasta party tutti i giorni creato dai prestigiosi “Cuochi di Marca”; saranno inoltre allestiti spazi di degustazione dei vini abbinati a straordinari prodotti di nicchia presso alcuni tra i produttori presenti... e molte, straordinarie bollicine! L’appuntamento, dal 14 al 17 febbraio, è da non perdere, pertanto il padiglione A1/Divino Lounge della Mostra internazionale dell’alimentazione di Rimini è un riferimento da segnarsi in agenda per vivere il vino in un contesto… Divino! (Elsa Mazzolini)

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Oli d’Italia

L’olio non è il vino,

ha altri tempi e approcci

L'immagine simbolo dell'evento ''Lo vOLIO extravergine'', organizzato dal Movimento del Turismo del Vino di Puglia

di Luigi Caricato uò sembrare un’affermazione banale e scontata, ma in molti ci cascano ed è bene perciò fare chiarezza, una volta per tutte. L’olio extra vergine di oliva è un prodotto che si estrae da un frutto: l’oliva, appunto. Si tratta di un’operazione molto semplice: una spremuta, e nulla più. Raccolta con ogni cura per non ferirne la buccia, l’oliva viene subito franta per estrarre quanto contenuto nelle cellule oleifere. Il vino – al contrario – è un prodotto più complesso, non si estrae tal quale dall’uva, ma lo si ottiene attraverso un laborioso processo di trasformazione. Mentre l’olio è un prodotto a rischio, dalla vita breve, il vino può essere “lavorato” e reso fruibile nel tempo attraverso l’ingegno e l’operato dell’uomo. L’olio è un prodotto superbo, ma ha i mesi contati: il genio dell’uomo può ben poco, nel vano tentativo di fronteggiare la brevità del suo ciclo vitale. Il vino ha vita più lunga e può essere messo nelle condizioni di invecchiare bene. La differenza parte proprio da qui: dalla natura del prodotto e dal tempo di conservazione che ne deriva. Chi non considera tali caratteristiche distintive è destinato a commettere molti errori, a grave danno sia per l’immagine, sia per la stessa fruibilità dell’olio extra vergine di oliva. I tempi di un prodotto sono d’altra

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parte quanto mai fondamentali, non possono essere alterati. Eppure c’è chi si ostina a far di testa propria, senza considerare le conseguenze. Penso per esempio alle guide agli oli di qualità, quelle a cadenza annuale. A mio avviso non è opportuno presentarle sul finire dell’anno, quando gli oli selezionati non sono più in commercio, ma è altrettanto fuori luogo presentarle comunque ogni a anno in forma di volume, con uscite primaverili, seppure recensendo le produzioni nuove. L’inopportunità sta nel fatto che l’olio, non conservandosi per lungo tempo, non può giustificare una pubblicazione a cadenza annuale, visti anche i lunghi tempi di lavoro tecnici e redazionali. Meglio sarebbe una guida quinquennale, in cui poter registrare le evoluzioni delle aziende, riportando i profili sensoriali degli extra vergini segnalati. Il caso delle guide agli oli di qualità è solo uno dei tanti errori di chi, accostando gli oli ai vini, va a forzare una logica della comunicazione di per sé precaria. Ma non è solo su questo fronte l’anomalia che si va registran-

do. C’è per esempio un’insensata moda che viene cavalcata strumentalmente da qualche tempo a questa parte: quella dell’olio novello. Sugli scaffali della grande distribuzione questa assurda mistificazione si ripete con puntualità ogni anno, tra novembre e dicembre, quando è in corso l’olivagione. Il cartellino con la scritta “olio novello” apposto sul collo delle bottiglie è un’offesa all’intelligenza, un prendere in giro il consumatore. Quasi mai tale indicazione corrisponde a verità. D’altronde, un conto è degustare, per pura curiosità, l’olio appena franto nel luogo di produzione, altro invece è pensare di proporlo in vendita già confezionato. L’olio non è ancora pronto, deve sedimentare e raggiungere il proprio equilibrio. Ma la spregiudicatezza nell’affrettare i tempi rovina il senso delle cose. Bene ha fatto Vittoria Cisonno, che a partire dal 2009, con il Movimento del turismo del vino e dell’olio di Puglia, ha creduto bene di organizzare, l’ultima domenica di gennaio, una manifestazione in cui presentare l’olio nuovo nei tempi giusti, quando appunto gli extra vergini sono pronti per essere apprezzati. Sono fermamente convinto che in tempi in cui le attenzioni sull’olio si vanno moltiplicando, sia bene non commettere errori e grossolanità che si ripercuotano poi negativamente sul prodotto.


GLI ASSAGGI “Rubesto” 2008 è un blend da olive Lazzero, Lastrino, Frantoio, Leccino, Moraiolo e Maurino. Nel bicchiere. Giallo dalle sfumature verdi, è limpido alla vista. Ha profumi fruttati di media intensità, puliti e freschi, con sentori vegetali di carciofo e sedano. Al palato è armonico, con note amare e piccanti in equilibrio e una sensazione di morbidezza e buona fluidità, con gusto avvolgente. In chiusura note di erbe di campo e frutta bianca. L’abbinamento. Zuppa di pane e cavolo nero, formaggio con rapanelli, involtini di merluzzo ed erba cipollina. Azienda agricola Sada-Fattoria Carpoli, 56040 Casale Marittimo (Pisa), tel. 0586.650180, olio@sada.cc “Castello del Trebbio” è un blend da olive Frantoio (85%), Moraiolo (10%) e Leccino (5%). Nel bicchiere. Giallo oro dai riflessi verdi, alla vista è limpido. Al naso ha note fruttate di media intensità, dalle marcate connotazioni erbacee e dai netti richiami al cardo e al carciofo. Al gusto è sapido e avvolgente, con note di amaro e piccante evidenti ma ben dosate. In chiusura, mandorla verde e ortaggi freschi, nonché una punta piccante. L’abbinamento. Crema di porri con champignon, insalata di puntarelle e pecorino in salsa di noci, medaglioni di vitello ai capperi. Castello del Trebbio di Baj-Macario, via Santa Brigida 9, 50060 S. Brigida, Pontassieve (Firenze), tel. 055.8304900, info@castellodeltrebbio.com, www.castellodeltrebbio.com “Il Tratturello” 2008 è un blend da olive Gentile di Larino, Moraiolo, Frantoio e Leccino. Nel bicchiere. Verde dai toni giallo oro, alla vista è appena velato. Al naso si apre con profumi di media intensità dalle nette connotazioni erbacee e con rimandi alla mandorla. Al palato è morbido, con note sapide di carciofo e punte amare e piccanti marcate ma in ottimo equilibrio. In bocca una sensazione vellutata e di lieve e gradevole astringenza. In chiusura le erbe di campo e una punta di piccante. L’abbinamento. Farfalle con fave fresche e mazzancolle, broccoletti a crudo in tegame, cefali all’arancia. Azienda agricola Parco dei Buoi, c.da Piane di Larino 71, 86035 Larino (Campobasso), tel. 0875.603293, info@parcodeibuoi.com, www.parcodeibuoi.com Cannensi da olive Coratina in purezza. Nel bicchiere. Giallo oro dai riflessi verdolini, è limpido alla vista. Al naso ha profumi fruttati di media intensità e sentori vegetali dai freschi toni mandorlati. Al palato una sensazione di pulizia, di buona fluidità e armonia, con l’amaro e il piccante netti e in equilibrio. Al gusto, i toni di carciofo ed erbe di campo. In chiusura, la mandorla amara e una morbida punta di piccante. L’abbinamento. Purè di fave con cicoria, cavolfiore alle olive, costine di maiale alla diavola Cannensi di Raffele Del Curatolo, via Togliatti 90, 70051 Barletta (Bari), cell. 339.5649551, info@cannensi.it , www.cannensi.it

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Birra di qualità

Gioventù…

“luppolata” di Maurizio Maestrelli

GIOVANI

BIRRAI CRESCONO.

ECCO

LA STORIA DI

MICHELE MONTANI,

VENTENNE

MANTOVANO, CHE CON LA SUA PASSIONE PER LE BIRRE HA SAPUTO CONQUISTARE

PRIMA LA FAMIGLIA, POI I CONSUMATORI E INFINE I RICONOSCIMENTI DELLA CRITICA a birra artigianale italiana ha trovato il suo Valentino Rossi. Se il fuoriclasse marchigiano aveva infatti iniziato a vincere gran premi prima ancora di ottenere la patente, Michele Montani ha scoperto l’arte brassicola e l’ha messa in pratica due anni prima di ottenere il diritto al voto. D’altro canto, se uno ha talento e passione perché li dovrebbe tenere chiusi nel cassetto fino al raggiungimento di una certa età? Così, invece di dedicarsi ad altre attività, Montani mette impegno e tempo nei primi

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preparati da kit, che costituiscono sempre il primo gradino del birraio casalingo ma, in tempi rapidi, frequenta un gruppo di appassionati della sua città, il Circolo del Luppolo, partecipa a un corso per homebrewers guidato dall’autorevolezza di Fabiano Toffoli, deus ex machina del birrificio veneto 32 Via dei Birrai e passa poi all’all grain che, per i profani, significa fare birra partendo dalle materie prime vere ovvero orzo, luppolo, acqua e lievito, imparando a destreggiarsi sempre meglio tra temperature di fermentazione e altre amenità chimiche e fisiche che sottostanno al processo di fabbricazione della birra. Insomma, quello che forse era partito come un gioco per stupire gli amici e i parenti, stava diventando qualcosa di più: quasi una professione. Nel frattempo Michele trova, e anche questa è una bella cosa, la solidarietà e l’appoggio della famiglia. Soprattutto del padre Massimo che non esita un minuto a sobbarcarsi anche lunghe trasferte per poter essere presenti a fiere e manifestazioni del settore, ma anche la madre e la sorella non si sono mai tirate indietro. È in questa atmosfera e con questa determinazione che si arriva alla data spartiacque nella vita del giovane Montani. Il 14 agosto 2007 nasce ufficialmente, in

bottiglia completa di etichetta, la sua prima birra: Fenicia, una blanche di scuola belga ma personalizzata con un tocco di zenzero, oltre alla buccia d’arancia amara e al coriandolo. «Quella è stata la mia prima birra per un motivo contingente», spiega oggi Michele Montani, «era agosto e mi sembrava il caso di imbottigliare una birra adatta alla stagione, particolarmente fresca e dissetante. Poi è chiaro che guardavo alla scuola belga e allo stile blanche in particolare, che a me piace molto». Insomma, ci troviamo di fronte all’ennesimo birraio ispirato dai grandi del Belgio (non che ci sia niente di male in questo, anzi)? «Non proprio», ribatte Montani, «o meglio, le birre belghe mi sono sempre piaciute, però io cerco di fare le birre che piacciono a me. Mi lascio guidare di più dalla scelta delle materie prime considerando più la loro qualità e quello che possono dare alla mia birra più che alla loro provenienza geografica. Il tocco di zenzero nella Fenicia era solo dovuto a un aroma specifico che arricchiva il risultato finale…». Risultato finale davvero pregevole, peraltro, visto che la Fenicia è birra profumata e gradevole, intrigante per la sua sottile personalità che la fanno ben abbinare ai crudi di pesce, dai carpacci all’onnipresente sushi fino a una catalana di crostacei. Tuttavia non è con la Fenicia che


L Michele Montani al lavoro

Michele Montani ha ottenuto l’alloro del riconoscimento. La sua rapidità nel bruciare le tappe di una carriera, quella del birraio artigianale che di solito comporta anni di sperimentazioni nelle cucine e nelle cantine di casa, aveva destato qualche perplessità. Che tuttavia venivano cancellate dalla sua assoluta mancanza di qualsiasi forma di presunzione. Poi però ci si sono messi anche i risultati colti in degustazioni alla cieca e da giurie “di peso”. Prima le Tre Stelle sulla recente Guida alle Birre d’Italia, poi la medaglia di bronzo al Premio Birra dell’Anno; entrambi i risultati raccolti dalla sua Strabionda, una Belgian Ale di alta fermentazione e dal colore ambrato, appena velato, profumi floreali e agrumati e in bocca una piacevole speziatura con un lungo finale. Dicevamo, risultati e consensi in crescita che tuttavia non sembrano aver montato la testa al protagonista. «Ho molta voglia di sperimentare, ma so anche che devo apprendere ancora molto e perfezionare le tecniche produttive. In questo mi è molto d’aiuto il confronto con i birrai più esperti di me e i loro consigli. In questo senso, l’atmosfera del movimento birrario artigianale italiano è molto positiva, non ci sono particolari invidie e gli aiuti,

L Michele Montani insieme al padre e alla sorella

ma anche le critiche costruttive, non mancano mai». Con questo spirito invidiabile, Michele Montani continua a lavorare indefessamente. Nel suo impianto pilota elabora e perfeziona le ricette, poi si trasferisce a centinaia di chilometri di distanza per produrre presso impianti più grandi. È un po’ la tecnica che adottano alcuni produttori belgi perché l’acquisto di un impianto, sebbene artigianale, richiede un grosso investimento. Intanto il birraio più giovane d’Italia ha messo a punto la sua terza etichetta, la Sassone, una Dunkel Bock che rivela come Montani sappia destreggiarsi anche nelle basse fermentazioni. Il suo Birrificio Freccia (www.birrificiofreccia.it; Tel.

339.8586779) è un’emergente realtà che sta riscuotendo molto interesse. Il primo anno la produzione in bottiglie da 0,75 si è aggirata sulle 10 mila unità. Plus da considerare, tenendo presente che il target distributivo è focalizzato principalmente sui ristoranti, enoteche e beershop, le bottiglie hanno un’immagine impattante, frutto di un’etichetta dai colori vivaci e in stile, benché non possiamo definirci degli esperti in questo campo, un po’ “pop art”. In concreto, fanno la loro bella figura sulla tavola. Una tavola imbandita con un classico mantovano come grana e mostarda, coppa o pasta condita con speck e carciofi, se pensiamo alla Strabionda; oppure carni rosse alla griglia, stracotto e, perché non azzardare, dolci a base di cacao per la Sassone. Considerata l’età del birraio, affermare che il Birrificio Freccia abbia ancora molta strada da percorrere appare scontato. Quello che stupisce semmai è il tratto già compiuto, l’originalità delle produzioni, il livello qualitativo complessivo e il desiderio di migliorare sempre. Certamente si può iniziare a bere le birre Freccia perché il birraio è un ragazzo di vent’anni, poi però ci si accorge che si continua a berle semplicemente perché sono delle buone birre. 75


Distillati

Calvados, l’arte normanna di Angelo Matteucci

a Normandia si differisce dal resto della Francia per ragioni climatiche, di terroir, di ambiente. In Normandia, per esempio, non viene più coltivata la vite dopo un periodo di freddo intenso del diciassettesimo secolo. E’ una regione particolarmente ricca che fornisce la vicina Parigi di prodotti locali: latticini, carne, pesce, frutti di mare, verdura, frutta, comprese mele oltre a sidro e calvados. Da tempi immemorabili si coltiva una vasta quantità di mele, alcune particolarmente adatte alla produzione di sidro, la bevanda locale. La protezione delle coltivazioni di questo frutto, con severe punizioni per chi tagliava i meli, fu opera di Carlo Magno nel secolo VIII. Non si conoscono le origini della produzione di sidro che nasce dalla fermentazione del succo di mele. Si hanno tuttavia notizie che risalgono al XIII secolo relative al succus pomis bevuto dai contadini. Le prime nozioni di distillazioni in Normandia sono riferite nel diario di Gilles Picor, produttore di sidro che acquisì l’arte della distillazione nel 1554. Picor indica con precisione le varie parti dell’alambicco che fece costruire per potersi cimentare in questa nuova arte presumibilmente distillando sidro. Nel 1606 comunque esisteva già l’Ordine dei “Distillateurs d’Eau de Vie de Cidre de Normandie”. Due ordinanze del 1681 e 1687 imposero tasse e attenti controlli proibendo la produzione di acquavite di sidro in tutto il territorio francese escluse Normandia, Bretagna e Manche. La legge, in vigore fino alla Rivoluzione francese del 1789, permise soprattutto al cognac di ottenere una maggiore distribuzione rispetto all’acquavite di sidro rimasta relegata nel suo territorio. Fu negli anni della rivoluzione francese che il territorio centrale della Normandia prese ufficialmente il nome di Calvados. Il distillato locale era anch’esso conosciuto come “calvados” anche se occorre attendere il 1942 prima di ottenere il riconoscimento di tale nome nel disciplinare. Fu a causa della fillossera che colpì le vigne europee a iniziare dalla Francia che, per mancanza di acquavite di vino, il calvados usufruì una specifica e imponente richiesta soprattutto a Parigi durante il periodo de “La Belle Époque”. I due conflitti mondiali influenzarono il mercato del calvados. Durante la prima guerra molte distillerie dovettero produrre alcol per il Ministero della Guerra che ne fece largo uso per motivi bellici. Nel secondo conflitto vi fu prima l’invasione germanica in Francia in generale e in Normandia in particolare mentre nel 1944 gli alleati sbarcarono sulle spiagge normanne con

L

Meli a coltivazione tradizionale

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Un distillatore armagnacais per la distillazione continua

Un alambicco discontinuo

l’ Operation Overlord del D-day. Giunsero così sul suolo francese truppe statunitensi, inglesi e canadesi. I riconoscenti francesi dissotterrarono diverse bottiglie di calvados lungamente invecchiato nascosto ai tedeschi. Nel periodo post bellico le cose cambiarono. Molte piccole distillerie furono assorbite dall’industria che vendeva oltre il 50% della propria produzione di alcol al Governo francese. La qualità dell’alcol non era, in quel periodo, particolarmente curata e questa fase durò fino al 1956 quando la vendita al Governo terminò. Iniziò quindi la recessione senza peraltro il particolare interesse da parte di buona parte della Produzione di cercare la qualità nel proprio prodotto. Gli anni ottanta videro comunque una vera e propria rinascita da parte di un pugno di produttori che decisero di valorizzare il Calvados seguendo una severa filiera per ottenere un distillato degno della migliore tradizione. I frutteti erano allora con meli ad alto fusto con una densità tra 70 e 180 alberi per ettaro, in ampi prati dove pascolano le mucche concimando così gli alberi, una visione sempre più rara oggi. Con questo sistema gli alberi impiegano 16 anni prima di produrre mele in quantità ottimali. Il raccolto non eccede le 20 tonnellate per ettaro. Fu proprio in quel periodo che fu deciso di utilizzare piantagioni moderne, più intense, con alberi a basso fusto e con una densità che varia tra 400 e 740 alberi per ettaro. La produzione, che diventa ottimale a partire dall’ottavo anno delle piante varia tra 25 e 40 tonnellate per ettaro. Inoltre con quest’ultimo sistema la raccolta avviene meccanicamente. Le varietà di mele utilizzate per la produzione di sidro atto a essere distillato sono oltre cento (ogni produttore ne utilizza una quarantina tra le quattro varietà) che si dividono in: AMARA Ricca di tannini dona al sidro una buona struttura; DOLCE-AMARA Equilibrio tra dolcezza e tannini, la base della struttura; ACIDULA Dona freschezza e supporta la conservazione; DOLCE Dona dolcezza e una buona gradazione alcolica. La produzione di sidro da bersi come tale generalmente contiene una parte degli zuccheri residui che rendono la bevanda tendente al dolce. Il sidro si divide in tre categorie: dolce con una gradazione alcolica tra 1.5 e 3° medio con oltre 3° fino a 4° e dry fino a 7°. Ha una seconda fermentazione, come la birra, per acquisire perlage e schiuma. Nel caso invece di sidro destinato alla distillazione i lieviti intervengono fino alla eliminazione degli zuccheri ottenendo così un sidro secco. Il disciplinare del 1942 ha subito alcune modifiche sia restringendo l’area di produzione sia apportando regole più rigide. Ecco le categorie che possono fregiarsi della Appelation d’origine controllée, la nostra Doc. Calvados Pays d’Auge – Duplice distillazione discontinua in alambicco di sidro ottenuto da mele coltivate nell’area Pays d’Auge. Calvados – Distillazione continua a colonna. Operano anche alcuni distillatori ambulanti che distillano a domicilio. Aire partiellement Calvados – Distillazione continua a colonna. Trattasi di aree meno vocate alla produzione di calvados. Calvados Domfrontais – Distillazione continua a colonna. Quest’area ha ricevuto l’Aoc nel 1997. Si produce con sidro di mele e almeno il 30% di sidro di pere. L’invecchiamento minimo in tini, botti o barili è di 2 anni con l’eccezione del Calvados Domfrontais (3 anni). Naturalmente i migliori calvados in commercio superano ampiamente tale periodo. Non è raro avere il piacere di degustare un calvados di oltre sei anni di invecchiamento in legno e in alcuni casi si trovano vere e proprie delizie con oltre 10 anni di barile.

Definizione del Calvados Aoc invecchiamento in legno Fine – *** oppure tre mele – Originel Vieux – Réserve – Domfrontais giovane Vo – Vieille Réserve – Vsop Extra – Xo – Napoléon – Hors d’Age – Age Inconnu – Millesimes

2 anni 3 anni oltre 4 anni da 6 a 20 anni ed oltre

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Acqua

Quant’è buona l’

acqua del sindaco di Davide Oltolini econdo le più recenti rilevazioni l’Italia risulta il quinto maggior consumatore mondiale di acqua in bottiglia, mentre, se ci si riferisce al consumo pro capite, il nostro paese occupa il terzo posto assoluto a livello internazionale di tale classifica, superato unicamente da Emirati Arabi e Messico. Analizzando questi dati molti pensano che andrebbe maggiormente incentivato l’impiego dell’acqua proveniente dai diversi acquedotti cittadini a discapito di quella minerale in bottiglia. Quest’uso, oltre a evidenti vantaggi economici per il consumatore, dovuti a una minore spesa per l’approvvigionamento, comporterebbe anche una notevole riduzione del negativo impatto ambientale, conseguente all’impiego dell’acqua in bottiglia. In Italia l’acqua erogata ad oggi dai rubinetti di case e palazzi risulta regolarmente sottoposta a controlli e trattamenti che ne rendono sicuro il consumo. Gli acquedotti, infatti, trasportano prevalentemente acqua proveniente da falde che viene trattata a scopo unicamente precauzionale. Per quella “di superficie” si utilizzano invece trattamenti di potabilizzazione completi. Tra i precursori, a livello internazionale, della promozione della cosiddetta “acqua del sindaco” è stato il primo cittadino di New York Michael Bloomberg, l’imprenditore e politico statunitense fra gli uomini più ricchi del mondo, al quale si è, successivamente, accodato l’allora Lord Mayor della capitale britannica Ken Livingstone. In Italia il filosofo Massimo Cacciari, primo cittadino di Venezia, ha deciso di prestare la propria immagine in qualità di testimonial della campagna Acqua Veritas dal significativo slogan “Anch’io bevo l’acqua del sindaco”. La municipalità dell’antica capitale della Serenissima ha, inoltre, deciso la distribuzione di un particolare kit ai turisti giunti nel territorio comunale durante l’estate. Questo era composto da una mappa completa delle fontanelle posizionate in centro città, accompagnata da una bottiglietta vuota da riempirsi, ovviamente, con l’acqua che da queste ultime sgorga abbondante nei calli cittadini. In Lombardia in diverse municipalità si è provveduto alla realizzazione di “Case dell’acqua”, ovvero punti di erogazione di acqua gasata o di acqua “piatta” (ovvero priva di effervescenza) aperti al pubblico. Le prime di queste costruzioni hanno visto la luce nell’immediato hinterland di Milano e, in particolare, nei Comuni di San Donato Milanese, Pieve Emanuele e Buccinasco. Esternamente queste case si presentano come chioschi e prevedono una superficie di circa trenta metri quadrati. La struttura è, solitamente, composta da un locale chiuso che contiene le necessarie apparecchiature ed una sorta di patio di accoglienza, ovvero una zona coperta di libero accesso, ove sono ubicati tre erogatori. Tali zone sono rivestite con tesserine di mosaico vetrificato, mentre le restanti pareti hanno un

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L Massimo Cacciari, sindaco di Venezia

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M Una “Casa dell'acqua” nell'hinterland milanese

rivestimento in mattoni a vista o sono solo semplicemente intonacate. Dal primo erogatore sgorga acqua proveniente dall’acquedotto ulteriormente filtrata, dal secondo acqua fredda, per via di un refrigeratore posizionato all’interno della costruzione e dal terzo acqua fredda gasata, grazie all’intervento, oltre che del refrigeratore, di un apposito carbonatore. Il dosaggio dell’erogazione è volumetrico e attivato da uno speciale sensore. A Torino, infine, il consiglio comunale ha votato una mozione che promuove il servizio idrico pubblico. Esistono, però, anche “voci” dissonanti rispetto al crescente apprezzamento manifestato da più parti per l’impiego dell’acqua del sindaco. Secondo un recente studio della seconda Università di Napoli tale acqua, pur risultando ottimale da un punto di vista batterico, non lo sarebbe per quanto riguarda l’aspetto dei derivati della disinfezione. Un maggior contenuto batterico comporta, infatti, l’impiego di una maggiore quantità di cloro con il conseguente aumento dei propri derivati che, assunti giorno dopo giorno potrebbero, a lungo andare, risultare cancerogeni. A essere sottoposte a rischio sarebbero, soprattutto, la prostata, il retto e la vescica. I venticinque differenti campioni, prelevati dai ricercatori dell’Università in cinque città italiane, hanno evidenziato composti organo-alogenati, definiti Dbp (Disinfection by products) come tetracloroetilene e tricloroetilene, ma anche trialometani, bromoformio e cloroformio, a volte presenti in una concentrazione superiore a quella che sarebbe consentita dalla legislazione e, in particolare, dal relativo decreto legge 31/2001, che fissa i limiti di concentrazione nelle acque delle sostanze inquinanti. Tali conclusioni dello studio partenopeo sono state, però, duramente contestate da alcuni dei Comuni interessati che hanno ribadito l’effettuazione di attenti controlli giornalieri effettuati sia da laboratori interni, nonché dall’Arpa, ovvero la rete di laboratori regionali per la tutela dell’ambiente. Ma quali sono le caratteristiche che deve presentare l’acqua fornita dall’acquedotto che, tra l’altro, sempre più spesso, molti locali e ristoranti servono, dopo filtrazione e, a volte carbonazione, in alternativa alla minerale? Innanzitutto la potabilità, cioè l’assenza di microrganismi, larve di parassiti, batteri e sostanze in decomposizione. L’acqua deve, cioè, presentarsi batteriologicamente pura, ma anche priva di sostanze chimiche che possano arrecare danno all’organismo per accumulo in seguito a somministrazione prolungata, nonché priva di sostanze che la sporchino, la colorino o le provochino odori e sapori particolari. Deve, infine, contenere una quota di sali tra 0,30 e 1,5 g/l che rappresentano gli importantissimi, peculiari, micro-elementi caratterizzanti dell’acqua stessa. 79


Vino che passione!

vino

Il dell’ingegnere di Pinuccio Del Menico

IL

TITOLARE

DELLA CANTINA

CASALONE

PROGETTA STRADE E FERROVIE

IN TUTTO IL MONDO, MA NEL SUO

DNA

C’È LA PASSIONE

PER LE VIGNE E I RICORDI DI QUANDO ERA BAMBINO LO LEGANO ALLA VENDEMMIA NEL

MONFERRATO

l Basso Monferrato si trova a nord, l’Alto a sud. Stranezze di una regione triangolare con agli angoli le città di Casale, Alessandria e Asti, posta nel bel mezzo di un altro triangolo, quello industriale, che fa capo a Milano, Torino e Genova. Il confine è la via delimitata dal percorso compiuto dal marchese Aleramo galoppando a cavallo per tre giorni e tre notti, guadagnando così le terre toccate e ponendo fine a una storia di battaglie e d’amore con la bella Alasia, figlia dell’ Imperatore Ottone I. Al centro un paese di poco più di 1.200 anime: Lu Monferrato. Lu? La storia lo suggerisce come abbreviazione di “lucus” o forse che il nome derivi da una lapide millenaria che si trovava presso la strada romana della Valle del Grana. La leggenda, anche divertente, parla invece di un accampamento della cinquantacinquesima legione romana. LV, appunto, che si cominciò ben presto a leggere LU. Che c’azzecca la storia con l’ingegnere? Tutto, visto che proprio la passione per il suo paese, l’amore per le sue terre, la dedizione per il buon vino di casa e la dolcezza dei ricordi di gioventù lo hanno spinto alla provvisoria rinuncia ai frutti della sua laurea con lode guadagnata al Politecnico di Torino. E così l’ingegner Pierangelo Casalone ha detto basta a strade e ferrovie. Si torna a casa, nella vigna e in cantina. “Quando mi chiedono perché dieci anni fa ho interrotto la mia attività di libero professionista per dedicarmi ai lavori di ristrutturazione e ampliamento della azienda di famiglia, credo che la risposta sia questa: le radici che mi legano a questa terra, ai miei ricordi di bambino quando pestavo l’uva nella bigoncia con mio padre, quando con le mie sorelle e mio fratello andavo in cantina ad assaggiare il dolce mosto filtrato che si avviava a diventare quel vino che a fine pasto, di domenica, accompagnava i dolci preparati da mia madre o quelli che ci portava mio zio, ai ricordi delle antiche vendemmie fatte ancora con il trasporto manuale delle uve con la famosa ‘brenta’, un grande cesto che si metteva sulle spalle e che era il tormento di tutte le persone addette a questo compito. Peraltro anch’io, nei miei primi vent’anni, ho sperimentato quella che era una vera e propria prova di maturità per un monferrino”.

I

Che cosa è successo dieci anni fa? “Abbiamo deciso di compiere un deciso salto di qualità. Con mio padre Ernesto, mia madre Maria Luisa, proprietari dell’azienda, e mio fratello Paolo conduttore dell’attività agricola, abbiamo intrapreso lavori di amplia80


L Alcune vedute della campagna e dei vigneti di Lu Monferrato

mento e ristrutturazione della cantina. E’ stata completamente ristrutturata la parte storica con sabbiatura delle pareti e dei soffitti a botte in muratura, pavimentazione per la messa a dimora delle botti in legno per l’ affinamento dei nostri vini migliori. Abbiamo inoltre realizzato un aumento della superficie lavorabile della cantina con la realizzazione di una struttura per la lavorazione delle uve e la vinificazione delle stesse con l’aiuto di vasche termo-controllate. Adesso nella nostra cantina sono presenti tutte le attrezzature moderne per la realizzazione del processo di vinificazione e stoccaggio dei vini, nonché etichettatura delle bottiglie e una sala di degustazione dove sono possibili assaggi e abbinamenti con i prodotti tipici del Monferrato. Credo che la nostra attività sia una delle poche che prevede tutti gli stadi per la realizzazione di un prodotto: dalla coltivazione delle vigne, alla raccolta e vinificazione delle uve, fino ad arrivare al confezionamento e alla commercializzazione delle bottiglie. Un impegno davvero notevole che nella nostra azienda, rimasta a conduzione familiare, impegna tutti in modo totale”. Tuo fratello Paolo si occupa dell’attività agricola, tu hai scelto quella commerciale. Come siete arrivati a questa suddivisione di compiti? “E’ stato abbastanza naturale. Grazie alla mia laurea in ingegneria e al lavoro svolto prevalentemente all’estero, ho avuto modo di studiare ed imparare alcune lingue straniere e questo mi aiuta molto nella commercializzazione dei nostri vini all’estero. Siamo presenti in quasi tutti i mercati europei, ma il nostro sforzo principale è diretto verso gli Stati Uniti dove siamo presenti, e con sempre maggiori soddisfazioni, da una decina di anni”.

L Da sinistra: Maria Luisa, la madre, Paolo, il fratello, Ernesto, il padre, e l'Ing. Pierangelo Casanone

Lu Monferrato, terra di Barbera, Grignolino, Freisa e Cortese. Ma non solo… “E’ vero. Nelle nostre vigne abbiamo reintrodotto la Malvasia Greca, un raro e particolarissimo vitigno a bacca bianca importato dai mercanti veneziani nel XIII secolo da una piccola cittadina greca del Peloponneso, Monemvasia, dalla quale ha preso nome il nostro vino. O meglio, i nostri vini, visto che ne produciamo di due tipi. Una versione di base, secca, con pressatura soffice, sfecciatura del mosto e fermentazione a temperatura controllata. L’affinamento prevede alcuni mesi in serbatoi d’acciaio e una conservazione a temperatura che non supera mai i 15 gradi. Ottimo per accompagnare antipasti elaborati, pesci e primi piatti”. 81


Vino che passione!

E la versione passita? “L’uva è sempre la Malvasia Greca vinificata in purezza. Viene vendemmiata a fine settembre in stato di surmaturazione. L’appassimento dura tre mesi su stuoie a umidità controllata, poi la pressatura, la decantazione del mosto a freddo e la fermentazione lentissima in barriques con un affinamento di 15 mesi. Un vino ideale con pasticceria secca, torte di frutta e formaggi erborinati”. In una scelta davvero completa di Barbera, Grignolino, Freisa, ovvero vitigni tradizionali del territorio, spicca la decisione di coltivare anche Merlot e Pinot Nero. “Un vitigno internazionale di altissima qualità che è quasi una rarità nel Monferrato e con il quale produciamo due vini. Uno è il ‘Fandamat’ con un lieve affinamento in legno, l’altro è la ‘Riserva Arnest’ in versione magnum che è una selezione di Pinot Nero con 15 mesi di barriques. Il nome Fandamat lo abbiamo scelto perché il Pinot Nero è un vitigno di difficile vinificazione e il nome Fandamat, nel vecchio dialetto monferrino, significa bambino discolo, enfant terribile, che si addice molto bene a questa tipologia di vino. Sempre con il Pinot Nero produciamo poi ‘La Rosella’, un chiaretto frutto di una pigiadiraspatura molto delicata con una macerazione di alcune ore fino a ottenere la tonalità di colore desiderata. Un vino fresco con delicati aromi di rosa, lamponi e fragoline di bosco”. Adesso non rimane che ripartire per l’Algeria, alla caccia di nuovi clienti. “In effetti in Algeria sto passando molto del mio tempo, credo anche nel futuro prossimo. Ma non certo a caccia di clienti per i vini della mia famiglia. Il mercato è inesistente e credo che tale rimarrà ancora per un po’ di tempo. La realtà è che dopo una pausa ho ripreso la mia professione di ingegnere e siamo impegnati nella costruzione di una importante ferrovia proprio in Algeria. Ma il pensiero rimane sempre a Lu Monferrato, alla nostra azienda familiare e alle novità in arrivo. Tra pochissimo uscirà la prima versione di uno spumante ‘metodo classico’ ottenuto da uve Malvasia Greca. Poi stiamo lavorando alla produzione di un aceto ‘naturale’ che si annuncia davvero originale. Infine cercheremo di coniugare sempre più la nostra attività vitivinicola con quella di mio cognato impegnato nella ricerca dei più particolari formaggi di qualità da immettere sul mercato. Prodotti di nicchia che ben si adattano ai nostri vini”. Progetti, progetti, progetti. E chi potrebbe svilupparli se non un ingegnere?

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Degustazioni

Il piccolo principe

delle Langhe di Alessandro Franceschini

VERSATILE NEGLI ABBINAMENTI

IL

VERDUNO PELAVERGA

È UN VINO DA TUTTO PASTO, SNELLO E DI BELLA FRESCHEZZA

L Novello

onvigliero, San Lorenzo, Riva, Massara, Breri e Pisapolla: nomi che profumano di nebbiolo, quello di Verduno, sottile, elegante, ma anche potente, espressivo, che necessita di tempo e pazienza per esprimersi al meglio, come nel caso del Monvigliero. Nomi di vigneti, di crus, che disegnano il territorio vitato di uno dei comuni più silenziosi, se vogliamo isolato,

M

appartato, meno strillato e da copertina e per questo non meno fascinoso e insieme umile e semplice dell’intera langa. Una piccola strada, lastricata di piccolo pavé si inerpica prima dolcemente e poi con curve più ripide sino in cima a un colle dove ammirare uno dei panorami più suggestivi dell’intera Langa. Questa è Verduno: piccola, raccolta, timida. E forse non è un caso che proprio qui abbia dimora una delle tante piccole chicche della viticoltura nostrana: il pelaverga piccolo. Non lontanissimo da qui, a Novello, sempre patria del nebbiolo da Barolo, c’è stata la bella rivalutazione di un altro piccolo vitigno, a bacca bianca, la nascetta, con una cantina soprattutto, quella di Elvio Cogno, che ha saputo recuperare, valorizzare e proporre un bianco langarolo di personalità. A Verduno, invece, uno dei fiori all’occhiello, è invece quest’uva a bacca rossa, da non confondere né con il pelvarga nero delle colline saluzzesi, né con quello canavesano o peilavert. 83


Degustazioni E questa differenza di cultivar, scoperta da una studentessa della Facoltà di Agraria di Torino che ne studiò caratteristiche e peculiarità, mandò un po’ in crisi i produttori di Verduno che videro arrestarsi l’iter burocratico per ottenere la denominazione di origine, poiché improvvisamente di fronte a un vitigno, di fatto, non classificato fino a quel momento e quindi non autorizzato, anche se da sempre coltivato da queste parti, insieme a piccole parcelle di Roddi d’Alba e La Morra. Il problema fu risolto classificandolo appunto con il nome di “pelaverga piccolo”, proprio perché caratterizzato da acini più piccoli rispetto alla varietà saluzzese e nel 1995 ottenne la Doc. Benché già negli anni Settanta alcuni produttori di Verduno avessero iniziato a vinificarlo in purezza (il disciplinare oggi consente ancora l’utilizzo di un 15% di altre uve autorizzate, ma la maggior parte dichiara di utilizzarlo in purezza), avendo preso coscienza dell’originalità del pelaverga, si deve al Seminario Permanente di Luigi Veronelli il grande impulso allo studio di questo vitigno, e quindi il merito di aver predisposto un vigneto con una trentina di cloni che consentì la conoscenza della vocazionalità dell’area di Verduno per questa unica cultivar e le selezione dei

cloni migliori. Il Comune di Verduno mise a disposizione il terreno, di sua proprietà, per fare sperimentazione e così si misero le basi per un recupero che oggi è realtà: oltre al seminario Veronelli, che coordinò il progetto, presero parte a questa operazione anche alcuni ricercatori dell’istituto di Coltivazioni Arboree delle Università di Milano e Torino con l’aiuto dell’Istituto Sperimentale per la viticoltura di Asti. Dalle 35mile bottiglie di Verduno pelaverga del 2001 siamo oggi passati a circa 135mila per un totale di 18 ettari vitati, con piccole produzioni di 2000/3000 campioni sino alle più grandi che si attestano intorno alle 25mila. Questa limitata produzione non ne ha comunque frenato la diffusione, persino oltreoceano: anzi, alcuni vendono tutto in Nord America e magari hanno serie difficoltà a farlo conoscere e apprezzare nella più vicina Milano. Ma non c’è in fondo da stupirsi se aree senza una radicata storia di viticoltura alle spalle siano comunque più curiose e vogliose di sperimentare novità, mentre altre preferiscono non rischiare, tuffandosi in ciò che la moda ha già certificato come una carta sicura e vincente. Eppure basterebbe assaggiarne qualche campione e non si avrebbero molti dubbi nel constatare che ci si trova di fron-

te un vino singolare, dotato di profumi non banali e omologati, che spaziano dai delicati frutti di bosco a quelle note di spezie, di pepe in particolare, che rendono unico un profilo aromatico di bella finezza, se non eleganza in alcuni casi. Versatile negli abbinamenti, dai primi con condimenti magari non troppo potenti a carni bianche, passando per preparazioni a base di pesce o formaggi non molto stagionati. Insomma, mai come in questo caso si può realmente parlare di un vino da tutto pasto, snello, di bella freschezza e con un prezzo medio in cantina, che si attesta tra i 7 e gli 8 euro. Un piccolo gioiello di langa. Il Pelaverga di Verduno ama terreni leggeri o comunque non pesanti come quelli dei comuni confinanti: ha bisogno di una seria selezione in vigna altrimenti tenderebbe all’abbondanza e alla produzione di acini troppo grossi e trova il suo habitat naturale proprio tra queste colline ricche di sabbia, limo, argilla, ma anche calcare e carbonato di calcio. Non deve essere mortificato con esasperate vinificazioni o affinamenti scriteriati, altrimenti perde il suo fascino e la sua indiscussa tipicità. Fortunatamente, le degustazioni condotte sui millesimi dell’ultima annata, il 2007, hanno mostrato un quadro generale molto promettente.

Verduno

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La Degustazione Un’annata potente il 2007, di bella maturità del frutto ed espressività, ma senza gli eccessi che hanno connotato un’estate torrida come quella del 2003: vini pronti, ma di buona freschezza gustativa e con un’esplosività aromatica in alcuni casi di grande fascino e femminilità. Dagli 11 campioni del 2007 testati, più uno del 2006, che rappresentano quasi la totalità della produzione di Pelaverga di Verduno (13 in totale), è emersa la volontà da parte di tutti i produttori di mantenersi ben legati a vitigno e terroir: fa piacere vedere come una certa moda che ha investito la rivalutazione dei piccoli vitigni autoctoni nostrani non abbia fatto sì che i produttori locali fossero tentati dal desiderio di stravolgere questa piccola produzione in nome di colori e profumi che non gli appartengono. La degustazione, avvenuta alla cieca grazie all’aiuto di un bravo sommelier locale, è stata espressamente organizzata per noi (e per l’amico e collega Roberto Giuliani di lavinium.com) dai produttori locali presso la Cantina Comunale di Verduno.

San Biagio – Verduno Pelaverga 2007, 13,5% Rosso rubino di bella trasparenza, al naso gioca su un bel mix di bacche di ginepro, pepe e piccoli frutti rossi di bosco di bella maturità e dolcezza. In bocca è sottile, con la trama tannica viva, ma non preponderante e una freschezza che rende succosa la beva. Buona la persistenza con una corrispondenza che richiama ancora i sentori speziati.

Antonio Brero – Verduno Pelaverga 2007, 13% Piccola la produzione di Antonio Brero, “ribelle” come ama definirsi, ma di assoluta qualità: fitto il colore, rubino con sfumature violacee, intenso e particolarmente avvincente nella sua veste di ciliegie mature, pepe e note di geranio. La speziatura ritorna dopo l’assaggio in modo più preponderante, con tannini misurati ed un ottima freschezza gustativa che invita alla beva.

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Degustazioni

Cadia - Verduno Pelaverga 2007, 13,5% L’azienda ha sede a Roddi lungo la strada che congiunge il piccolo comune a Verduno. Ciliegie, pepe, qualche lieve sfumatura agrumata, di tabacco e caffè. In bocca la componente alcolica tende a essere lievemente prevalente, ma nel complesso i sottili tannini e la generosa trama acido-sapida rendono la beva snella e di buona fattura.

Poderi Roset – Verduno Pelaverga 2007, 13% Forse il campione dal colore più fitto e concentrato, sempre su tonalità rubine, con un’intensità aromatica decisa, potente. Note di ciliegia in confettura, di tabacco e una florealità di violette completano un bouquet ricco, meno elegante, ma di grande impatto. Ottima la persistenza così come la freschezza, tannini più presenti e un finale con ricordi lievemente vegetali. Un vino di struttura, che si discosta leggermente dalla tipologia, ma di buona fattura.

Bel Colle – Verduno Pelaverga 2007, 14,5% Ci spostiamo nella frazione Castagni, proprio al confine con il comune di La Morra, dove l’azienda produce due versioni di pelaverga ed è anche proprietaria di qualche parcella del cru più importante di Verduno, vale a dire il monvigliero. Potente, ma con equilibrio. Color rubino fitto e quasi impenetrabile, piacevoli sfumature floreali di viola e geranio e la solita speziatura che ricorda il pepe. In bocca esplode, se confrontato agli altri per potenza, trama tannica più avvertibile con la componente alcolica non sempre in equilibrio. Finale con note di erbe officinali.

Comm. G.B. Burlotto – Verduno Pelaverga 2007, 14% Classe, stile, eleganza, stoffa e maturità. Un piccolo gioiello che con questo millesimo raggiunge forse l’apice qualitativo rispetto alla precedenti annate, sempre di bella fattura. Riesce a coniugare insieme una complessità aromatica composta da lamponi, ribes, pepe, viola, geranio e qualche nota di pesca. Bocca di grande impatto e allo stesso tempo di gran bell’equilibrio, con una struttura complessiva che riesce ad avvolgere perfettamente la generosa componente alcolica. Lunga e corrispondente al naso la persistenza.

Castello di Verduno – Verduno Pelaverga 2007 Basadone, 13,5% E’ uno dei produttori di riferimento qui a Verduno, con il suo Barolo Monvigliero in particolare, sempre spiazzante per originalità e capacità di durare nel tempo. Questo pelaverga si presenta rubino con belle trasparenze, meno potente ed espressivo di altri, gioca sui piccoli frutti di bosco, i lamponi e le componenti pepate e di ciliegia. Bocca sottile, forse più nervosa di altre, ancora in fase di assestamento.

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Cascina Massara – Verduno Pelaverga 2007, 14% Rubino dalla trama colorante intensa, gioca più sulle note erbacee e poi di erbe officinali, con la china e il rabarbaro in bell’evidenza, più che sulla componente fruttata. Le tipiche note di pepe riemergono retrolfattivamente dopo l’assaggio, che mostra una trama tannica viva, una discreta freschezza e una persistenza più che sufficiente.

F.lli Alessandria – Verduno Pelaverga 2007, 13,5% Vittore, cugino di Fabio Alessandria, giovane conduttore dell’azienda Burlotto, è stato il vero artefice di questo nostro incontro ravvicinato con il pelaverga di Verduno. Spiccate note pepate, poi di geranio e delle sfumature che ricordano il chinotto e una frutta densa, quasi dolce, come la prugna, che con il passare dei minuti diventano sempre più intense e preponderanti. Ottima la morbidezza che connota una trama gustativa meno dritta e fresca rispetto ad altri campioni, ma sempre di bella fattura e buon equilibrio.

I Bré – Verduno Pelaverga 2007 Corona Teresina, 13% Di buona tipicità, con le solite note di pepe e un frutto molto dolce, quasi caramelloso. Sfumature di liquirizia, che poi riemergono decise anche dopo l’assaggio connotano un campione di discreta persistenza, con un finale lievemente amarognolo.

Terre di Barolo – Verduno Pelaverga 2007, 14% Questa importante cooperativa di Castiglione Falletto, con più di 400 soci conferitori e un totale di ben 650 ettari, ha presentato un campione frutto dell’unione di uve pelaverga provenienti da differenti comuni: Roddi, La Morra e naturalmente Verduno. Di color rubino con sfumature porpora, speziato e con le note di ciliegia matura dominanti sia al naso che in bocca e un finale lievemente amarognolo. Tannini leggeri e misurati e persistenza nella norma.

La Cantina – Verduno Pelaverga 2006, 13,5% Unico campione del 2006 (al momento dell’assaggio il 2007 era stato appena imbottigliato) in degustazione, la cantina di Aldo La Torre produce circa 20.000 bottiglie nelle diverse tipologie. Anche in questo caso emerge bene il vitigno, con le sue componenti fruttate, che in questo caso virano più verso le visciole e le ciliegie ben mature e il pepe. Il finale è forse un po’ troppo amarognolo, ma è comunque di discreta fattura la trama tannico-acida e la persistenza.

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Musei del vino

La storia in una bottiglia IL PIEMONTE

È LA REGIONE ITALIANA COL PIÙ ALTO NUMERO DI MUSEI

DEDICATI AL VINO: NE ABBIAMO VISITATI ALCUNI

di Letizia Magnani hi l’ha detto che tutto quello che c’è da sapere su di un vino finisce nella bottiglia? A volte viene raccontato anche sulla bottiglia, nelle etichette, nei tappi o attorno alla bottiglia, nei luoghi, prima di tutto, nel suo modo di conservarla e, poi, anche di berla. E’ questo quanto può nascondere, come uno scrigno colmo di tesori, un museo dedicato al vino, ed è per questo che prosegue il nostro viaggio per i musei italiani che esplorano riti e miti del succo degli dei.

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PIEMONTE: TERRA DEI MUSEI DEL VINO Questa volta ci fermeremo, però, in Piemonte, regione ricca di storie, di sapori e di saperi legati al cibo e al vino, ma soprattutto regione che vanta il maggior numero di musei di settore, otto addirittura. Sarà il clima, sarà il carattere, fatto sta che da queste parti, non me ne vogliano le altre regioni italiane, di cui abbondantemente abbiamo scritto e continueremo a scrivere, il vino è una cosa seria. Saranno forse anche i nomi, nebbiolo, barolo, dolcetto, barbera, pelaverga… e allora, partiamo proprio dal barolo e dal nebbiolo, perché a questo vino e a questo vitigno presto il comune di Barolo dedicherà un intero museo, che, nell’intenzione dei progettisti, sarà a tutti gli effetti un museo del vino e per il vino. Sorgerà nei prossimi mesi all’interno dello splendido castello. D’altra parte i gioielli architettonici e del palato da queste parti non mancano davvero. Nel Castello di Grinzane Cavour, per esempio, già sorge il Museo delle Langhe, che, assieme all’Enoteca Regionale, testimonia come il buono e il bello possano, complici anche i dolci declivi e le nebbie, finire nel bicchiere. 88


IL MUSEO DI CAVOUR Nel bel mezzo delle Langhe, alle porte di Alba, si trova il comune di Grinzane, che, per ben 17 anni, dal 1832 al 1849, fu amministrato da Camillo Benso conte di Cavour. Cavour visse a lungo nel castello di Grinzane, ora sede del Museo delle Langhe a lui dedicato e dell’Enoteca Regionale, istituita nel 1967. All’interno del castello si trovano una ricca collezione di bottiglie di vini locali, oltre a numerosi strumenti da lavoro, come torchi antichi, che testimoniano le diverse culture nella tecnica della pigiatura dell’uva, ma anche otri, botti e altri recipienti per la conservazione del vino. Fra le particolarità di questo museo, c’è la ricostruzione delle botteL Il Castello di Grinzane Cavour, ghe del bottaio, coi materiali, l’odore e l’atmosfera di una volta, ma anche sede del Museo delle Langhe molti degli oggetti che furono di Cavour. E proprio a lui si devono alcune delle innovazioni ancora in uso nella moderna enologia. Inevitabilmente, visto il luogo, al vino si lega anche il tartufo bianco di Alba, e così, nello storico maniero, ha sede anche l’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini d’Alba, che, nel salone delle Maschere, celebra i propri “capitoli”. Sempre qui si possono degustare vini, formaggi e tartufi, ma anche assaggiare vere e proprie prelibatezze nel ristorante e nell’elegante caffetteria del castello. Museo delle Langhe - Castello di Grinzane Cavour www.castellogrinzane.com - info@castellogrinzane.com - tel. 0173 262159 Orari di apertura: 9.30 – 19.00 da aprile a ottobre / 9.30 – 18.00 da novembre a marzo Chiusura: Martedì (sempre aperto dal 1 sett. al 15 nov.) e nel mese di gennaio.

L L'Enoteca Regionale piemontese all'interno del museo

L Il Museo delle Langhe nel Castello di Grinzane Cavour 89


Musei del vino

DAL CASTELLO… ALL’ABBAZIA RATTI Nel 1971 nasce un altro dei musei del vino più longevi del mondo, si tratta del Museo Ratti, che raccoglie bottiglie, ma anche carte e studi. A Renato Ratti, enologo che ha lavorato a lungo in Brasile, producendo i vermouth e gli spumanti della Cinzano di San Paolo, si deve lo studio e l’organizzazione dell’enologia delle Langhe. Nel museo sono infatti conservate alcune delle sue carte, che identificano i prodotti con i luoghi, cosa che oggi appare ormai scontata, ma che oltre trent’anni fa non lo era affatto. A Ratti si deve la sistematizzazione dei “Cru del Barolo”, ma non solo, anche “Delle annate del Barolo” e dei “Vitigni piemontesi”, con il disegno dei grappoli del nebbiolo, del barbera e del dolcetto. Il Museo nasce nell’Abbazia dell’Annunziata, la cui storia è molto remota. Dal secondo secolo dopo Cristo, infatti, questo luogo è destinato alla produzione del vino. Saranno i monaci, in particolare, attorno all’anno mille, a lavorare proprio sulla produzione del vino, la cui tradizione passa inalterata nei secoli, incontra Reato Ratti, che dal 1965 produce qui L Renato Ratti i suoi vini, e arriva fino ai giorni nostri. ha dato vita Il museo è una rassegna viva di tradizioni e di immagini sistemata a fianco della cantina di all'omonimo museo produzione. Fra le antiche mura dell’Abbazia dell’Annunziata è stata completata la racall'interno dell'Abbazia colta di oggetti e documenti attraverso i quali la vigna e il vino raccontano la loro lunga dell'Annunziata storia. Antichi contenitori, serie di bottiglie, calcaturaccioli, strumenti di misura, aratri in legno, torchi con vite e madrevite in legno sono solo alcuni degli oggetti che si possono vedere e toccare con mano. Il museo conserva anche, per gli appassionati e gli studiosi, una serie veramente interessante di documenti, come statuti comunali, bandi campestri di vendemmia, regolamenti per la circolazione e la vendita del vino e ordinanze, ma anche, come abbiamo detto, le informazioni storiche e tecniche delle varie zone d’origine dei vini albesi. L’idea che dentro la bottiglie ci sia la storia e la cultura di una terra fra le mura dell’Abbazia e poi anche nella cantina adiacente è molto forte. Museo Renato Ratti Abbazia dell’Annunziata 0173 50185 info@renatoratti.com http://www.renatoratti.com/ Orari di apertura Sempre, su prenotazione, visite organizzate, guidate e gratuite

L La Morra, località dove ha sede il Museo Ratti

GLI ALTRI MUSEI PIEMONTESI Il Piemonte è la regione a più alto tasso di musei dedicati al vino. Qui, per esempio sorge il Museo Bersano di contadinerie e stampe antiche sul vino, a Nizza Monferrato (si trova in Piazza Dante, tel. 0141 721273). Qui sono raccolti attrezzi agricoli e oggetti di uso quotidiano delle popolazioni del Monferrato e delle Langhe. Nella sezione riservata alle stampe sono custodite etichette storiche, vecchi menù e dipinti di carattere enologico. Da marzo a ottobre si può fare un salto al museo ogni giorno, ad ingresso gratuito. Qui viene ospitata la Confraternita della Bagna Cauda. A pochi chilometri da Nizza, a Canelli, sorgono il Museo Bocchino e le cantine Contratto (in via G. B. Giuliani, Tel. 0141 8801). Dentro le sale del museo, visitabile tutti i giorni ad ingresso gratuito, è possibile vedere reperti storici della distillazione, conservati nelle cantine della ditta Bocchino. Subito fuori dal museo si entra nelle cantine Contratto, dove si scopre un percorso fatto di chilometri di cunicoli che conservano migliaia di bottiglie. In Piemonte ha sede anche la Casa dell’Asti. Il Palazzo Gastaldi, in Piazza Roma (Tel. 0141 594215) è una vera scoperta: custodisce infatti oggetti legati ai metodi di spumantizzazione del Moscato, ma anche stampe, fotografie e manifesti pubblicitari d’epoca. Alla pubblicità ha dedicato una bellissima sezione anche il Musei Martini di storia dell’enologia, di cui abbiamo scritto in precedenza, proprio perché da almeno un secolo il vino si lega alla pubblicità e alla comunicazione, come sa bene Campari, che ha da poco rilevato la Cinzano & Cia e il relativo museo, che presto sarà nuovamente visitabile. Per chi è appassionato di enologia e di arti e mestieri di un tempo, poi, si possono visitare il Museo Enologico, a Castenuovo Calceo e il Museo delle arti e dei mestieri di un tempo, a Cisterna d’Asti (Tel. 0141 979118). Qui sono state ricostruite le botteghe degli artigiani che lavoravano attorno alla produzione del vino, come il bottaio, il fornaio, il sarto, l’arrotino e il torronaio.

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…DAL VINO AL CAVATAPPI Una visita particolare, poi, la consiglio, al Museo dei cavatappi. L’unico, davvero, del suo genere. Stappare una bottiglia di vino è un rituale che ha in sé qualcosa di magico: gli occhi dei presenti sono concentrati su chi svolge l’operazione. Viene rimosso il sigillo di stagnola e posizionata la punta del cavatappi al centro del turacciolo. La vite affonda nel sughero fino a perforarlo e infine con lo sforzo di trazione necessario il tappo fuoriesce dal collo della bottiglia con un leggero schiocco. Il turacciolo viene estratto e annusato per verificare se presenta odore. Il nettare degli dei ora è pronto da servire e degustare. E’ normale usare il cavatappi e il gesto dell’aprire la bottiglia per tutti noi diventa rito, prima di assaggiare il vino. A questo atto che prelude al piacere vero e proprio della degustazione Paolo Annoni, un farmacista nato a Torino e trasferitosi nelle Langhe, ha dedicato un intero museo, dove sono visibili 500 cavatappi raccolti nel tempo. I cavatappi sono conservati in una splendida cantina, dai soffitti con volte a botte in mattone, e raccontano nelle forme diverse il cambiamento subito dalla vita quotidiana dal XVII secolo in poi. Si parte dai “cavatappi sospesi”, passando per quelli a “T”, in legno, ferro, alluminio, ottone, osso, corno, ebano, madreperla, bronzo, avorio, argento, tartaruga e si arriva a quelli più moderni, tascabili, pubblicitari, a tema (con figure di animali, persone, a sfondo erotico o ironico). Tecnologia e creatività sono stati impiegati nella costruzione di questi oggetti di uso comune, che nelle 19 sezioni del museo sono indagati, spiegati, descritti. Una sezione a parte è dedicata alle cartoline d’epoca con il cavatappi come soggetto. Il tutto, inevitabilmente, è legato al territorio, le Langhe, e al buon vino, Barolo in testa. Come a dire che, gli oggetti, i luoghi, perfino la cultura, tutto, insomma, affonda in ultima analisi nel gusto di un buon bicchiere, che è prima di tutto piacere. Museo dei Cavatappi Piazza Castello, 4 – 12060 Barolo Tel. 0173 560539, info@museodeicavatappi.it www.museodeicavatappi.it Orari di apertura Tutti i giorni, tranne il giovedì: 10.00 -13.00 / 14.00 -18.30 Aperture straordinarie e visite guidate su prenotazione. Il biglietto va da 3 a 4 euro.

L Il Museo dei Cavatappi 91


Viaggi

Turismo, l’escalation della

Spagna

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LA CARTA VINCENTE DI QUESTO PAESE È LA CAPACITÀ DI VALORIZZARE LA SUA STORIA E DI CONIUGARLA CON UN PRESENTE CHE HA ATTIRATO NEGLI ULTIMI ANNI MILIONI DI TURISTI

di Elisa della Barba

el quartiere arabo di Albaicín a Granada, Federico García Lorca (1898-1936), il grande poeta e autore teatrale di cui questa città è sinonimo, amava intrattenersi a parlare con i gitani - a loro dedicherà “Primer romancero gitano” (“Gypsy Ballads”, 1928). Amica e nemica, Granada ha giocato una parte fondamentale nella sua vita: nato e cresciuto qui, qui è sempre tornato, e qui è stato fucilato per mano del gruppo fascista della Falange nei primi anni della guerra civile spagnola. La Huerta de San Vicente, dove ha vissuto i suoi ultimi dieci anni, è oggi casa-museo aperta al pubblico. Il giorno del suo trentunesimo compleanno, García Lorca dirà ai suoi amici: “Se per grazia di Dio diventerò famoso, metà della mia fama apparterrà a Granada, che mi ha reso quello che sono: un poeta dalla nascita, volente o nolente”. Granada è una meta più che mai attuale: da sempre crocevia di razze e di culture, a lei dovremmo guardare come esempio ora che questa Europa Unita è sempre più internazionale, plasmata e arricchita da immigrati di ogni paese che portano con sé le loro storie. “Credo che essere di Granada - disse Lorca - mi permetta di provare empatia per tutti coloro che sono perseguitati. Per il gitano, il nero, l’ebreo, il moro… che tutti noi nati qui ci portiamo dentro.” Ecco che allora una visita “virtuale” in Andalusia può servire ad aprire la mente e anche a capire meglio perché la Spagna è riuscita ad attrarre negli ultimi anni milioni di turisti (la Spagna è al quindicesimo posto nell’indice di competitività turistica, mentre l’Italia si trova solo al trentatreesimo). Granada, situata alle falde della Sierra Nevada lungo il fiume Darro, fa parte della comunità autonoma Andalusa ed è capoluogo dell’omonima provincia. Un tempo colonia romana con il nome di Elvira, anche se conosciuta fin dal V secolo a.C. con il nome di Elibirge, in seguito alla conquista da parte dei musulmani - nel 711 i Mori invadono l’Andalusia - Granada vivrà un lungo periodo di splendore che terminerà con la riconquista dei Re Cattolici nel 1492 e l’esilio della popolazione araba dai territori. È la dinastia dei Nazaries, nel XIII secolo (apice del periodo musulmano granadino), a volere la costruzione

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L Granada, scorcio del quartiere Albaicín dall'Alhambra Federico García Lorca. I suoi versi mirabili hanno celebrato l'Andalusia e lo spirito di questa terra

dell’Alhambra e del Generalife e a incoraggiare il fermento intellettuale della città. L’Alhambra non è “solo” uno dei monumenti più stupefacenti al mondo, è la testimonianza dei diversi periodi storici che hanno attraversato e modificato la città. Completata al termine del dominio Musulmano, è stata rifugio di artisti e intellettuali mentre la Spagna Cristiana combatteva – guadagnando terreno – su quella musulmana. Il complesso, progettato dai Mori a scopo militare, fu costruito sui resti di una roccaforte chiamata Alcázaba e sembra che il nome originale “Al-Qal aal-Hmbra” (“fortezza rossa”) derivi dal colore dell’argilla rossa presente nei dintorni, materiale con cui sono state costruite le mura esterne. Durante il regno di Yusuf I nel XIV secolo l’Alhambra fu trasformata in palazzo reale, con giardini, dimore e fontane. Due le zone principali: quella militare o Alcázaba, la costruzione più antica dell’Alhambra, territorio della guardia reale, e la Medina con i Palazzi Reali Nazariti. Il palazzo di Carlo V, del 1527, sorge all’interno della struttura, simbolo della superiorità cristiana sui musulmani sconfitti. Un tempo collegato all’Alhambra, il Generalife fu costruito durante il regno di Muhammad III (1302-1309) per la residenza estiva dei sultani arabi. È uno dei più antichi giardini Mori esistenti. Parte dell’Alhambra è anche la Cattedrale di Granada, fortemente voluta da Carlo V. Inizialmente in stile gotico, fu poi modificata in epoca rinascimentale. All’interno, la Cappella Reale, costruita nel 1506 per custodire i sepolcri dei Re Cattolici Isabella di Castiglia e Fernando di Aragona. Un luogo imperdibile di Granada è il quartiere dell’Albaicín, di fronte all’Alhambra, in posizione ideale per ammirare 93


Viaggi L Una ''calle'' nel centro di Siviglia

il complesso in tutta la sua maestosità. Stradine strettissime (di origine araba) che sanno di gelsomino e case fatte di luce grazie all’intonaco bianco fanno da cornice a questa zona che oggi è diventata residenziale. Di fianco, il quartiere Sacromonte, che nel XIX secolo divenne famoso per la predominanza del popolo gitano. Caratterizzato da grotte utilizzate come abitazioni, questa zona è il fulcro del flamenco e della cultura gitana. Il suo nome deriva dalla vicina Abbazia di Sacromonte, fondata nel 1600 e costruita su catacombe. Ogni prima domenica di Febbraio, qui si celebra il patrono di Granada, primo vescovo della città, San Cecilio. Sulla strada che costeggia il fiume Darro, si trova il Baño de Nogal (Hamman al Yauzá) o Bañuelo, bagni arabi risalenti all’XI secolo. Di origine Romana, sono fra i pochi conservatisi ancora intatti: otto le colonne con capitelli originali in stile romanico e visigoto. Anche la Granada contemporanea offre uno scorcio del mondo arabo davvero unico qui in Europa: le teterias. Aggirandosi nel quartiere di Albaicín, prendendo Calle Calderería Nueva, sono molte le opzioni per rifugiarsi in questi luoghi che sembrano già Marocco, con il pomeriggio che passa veloce fra un tè alla menta e una canzone araba dietro l’altra a cullarti verso la sera. Diego Velásquez (1599-1660) è diventato pittore immortale grazie alla rappresentazione magistrale della luce. Sarebbe stato lo stesso se non fosse nato a Siviglia? La casa dove nacque e visse, in Calle del Padre Luis María Llop, inondata ogni giorno dalla stessa luce che ha ispirato il maestro, è stata acquistata dai fashion designer Victorio&Lucchino per l’esposizione delle loro collezioni. Capitale dell’Andalusia, Siviglia sorge sulle rive del Guadalquivir, unico porto fluviale della Spagna. Un tempo provincia Romana (Giulio Cesare nel 45 a.C. la battezzò “Julia Romula Hispalis”), in seguito alla caduta dell’Impero venne conquistata dai Vandali e dai Visigoti, e presa infine dai Mori nel 712. Nel 1147 con la dinastia degli Almohadi al potere, Siviglia venne scelta come capitale del regno di Taifa e chiamata Isbiliya. Nel 1248 Ferdinando III di Castiglia conquistò Siviglia 94

L I giardini dell'Alcázar de los Reyes Cristianos a Córdoba

annettendola al mondo cristiano. I musulmani vennero costretti ad abbandonare la città e le moschee vennero convertite in chiese cristiane. Fernando III decise di spostare la corte del Regno di Castiglia nell’Alcázar, la fortezza araba, che divenne così la prima Casa Reale spagnola. Il re visse a Siviglia fino alla sua morte avvenuta nel 1252 e da allora venne considerato come il patrono protettore della città. Molte le testimonianze dell’antica presenza araba e cristiana. La Giralda (o Banderuola) è il monumento simbolo di Siviglia: rappresenta un antico minareto del XII secolo, un tempo annesso alla Grande Moschea costruita durante la dinastia degli Almohadi e demolita nel XV secolo per far spazio alla Cattedrale. La Cattedrale, costruita alla fine del XIV secolo, è la più grande della Spagna e la terza del mondo cristiano dopo San Pietro a Roma e San Paolo a Londra. I Reales Alcázares (Palazzi Reali) sono un insieme architettonico di edifici storici che va dal primo Alcázar arabo (al-Qasr) alle successive modifiche di cortili e palazzi costruiti dai monarchi successivi. Per questo presentano uno stile molto eclettico, il mudejar, uno stile cristiano tipico della Penisola iberica che incorpora elementi di ispirazione araba. La Torre de Oro, altro monumento simbolo di Siviglia, è un’antica torre di controllo sulle sponde del Guadalquivir costruita dagli Almohadi nei primi anni del XIII secolo. Il suo nome deriva probabilmente dal fatto che un tempo fosse ricoperta di maioliche dorate. Dopo la scoperta dell’America, Siviglia raggiunse il suo apice grazie al monopolio dei rapporti mercantili con le colonie americane, diventando il Porto delle Indie. Inizialmente progettato per ospitare la Borsa dei Commercianti e poi utilizzato da Carlo III nel 1785 per raccogliere i documenti legati alle proprietà spagnole d’oltremare, l’Archivio delle Indie rappresenta oggi uno degli archivi più importanti del mondo. Passeggiando per il centro storico ci si imbatte nel Barrio di Santa Cruz, uno dei quartieri più pittoreschi e famo-


L Gli interni della Mezquita di Córdoba

si di Siviglia. Si trova in pieno centro ed è la zona della città che più di tutte ha mantenuto la sua struttura moresca. Sviluppato sull’area che un tempo gli ebrei occuparono in seguito all’espulsione degli arabi, è caratterizzata da piccole strade e piazzette. La Plaza San Francisco, con il palazzo dell’Ayutamiento (il Municipio) di facciata rinascimentale, rappresenta uno degli esempi del plateresco spagnolo. Tra gli eventi più importanti, la Settimana Santa Sivigliana, tra il 15 marzo e il 30 aprile, festa religiosa che celebra la Vergine della Macarena (la cui statua, del ‘600, è custodita nell’omonima Basilica), la Feria de Abril, nel mese di aprile (la data esatta dipende dalla Settimana Santa) e la Biennale del Flamenco, quest’anno svoltasi tra Settembre e Ottobre, gara di flamenco e di altre espressioni artistiche a esso correlato come i canti gitani. Uno dei punti forti della Spagna sta sicuramente nel coniugare il passato ricco di storia a un presente costellato da nuove mode e da un’attenzione particolare al design. Ne è la prova il modernissimo cinque stelle “Eme Fusion Hotel” (Calle Alemanes 27), con terrazza con vista mozzafiato sulla Cattedrale e camere dal design minimalista. Altra meta culturale dell’Andalusia è Córdoba, situata a nord ovest del Guadalquivir e capoluogo dell’omonima provincia. Già attivo centro commerciale all’epoca dei Fenici, i Romani la occuparono intorno al 200 a.C. Sotto Augusto divenne “Corduba”, la stessa che diede i natali ai celebri poeti Seneca e Lucano. Il periodo di splendore ebbe inizio con la conquista della città da parte dei musulmani nel 716. Di Califfato in Califfato, la città crebbe culturalmente e architettonicamente grazie alla costruzione di università, moschee, ospedali, biblioteche e bagni pubblici. Nel XII secolo figure importantissime come l’ebreo Maimonide e l’arabo Averroè contribuirono con le loro opere di teologia, matematica, filosofia, medicina a segnare le radici di una cultura che resterà per sempre parte di questa città. Anche qui è sconvolgente la presenza di opere imponenti che testimoniano il dominio arabo, come la Mezquita, la cui torre adiacente conserva ancora all’in-

terno il minareto della Mezquita originale, e il Patio degli Aranci, spazio aperto con giardini e fontane, luogo prediletto dei fedeli dove pregare, insegnare, e incontrarsi. Simbolo di culture miste, la Mezquita è un crogiolo di stili andati ad arricchirsi e completarsi negli anni: rinascimentali, gotici, barocchi. All’interno della Mezquita, circa 850 colonne di marmo e granito, e la qibla, il muro orientato verso la Mecca dove pregano i fedeli. All’interno della Moschea, la Cattedrale realizzata nel XVI secolo. L’Alcázar de los Reyes Cristianos – la fortezza dei Re Cristiani – fu eretto nel 1327 da Alfonso XI. Fu abitato dai Re Cattolici che arrivavano a Córdoba, ma ebbe diversi funzioni a seconda delle epoche: da sede dell’Inquisizione, a prigione, a museo. La Medina Azahara si trova a circa 10 Km da Córdoba ed è risalente al X secolo: oggi restano solo spoglie di un passato grandissimo, il fantasma delle residenze di principi musulmani. La struttura era a tre livelli: il primo ospitava la moschea, il secondo gli uffici di rappresentanza e il terzo il palazzo del califfo. La Juderia infine è il quartiere ebraico creatosi dopo le persecuzioni del XII secolo. Oggi possiamo ammirare questo quartiere grazie ai restauri attuati nel ‘700. All’interno, la Sinagoga (XIV secolo). I bagni arabi (o Hammam) sono il modo migliore per immergersi nella realtà Andalusa di oggi e di ieri. In Calle Corregidor Luis de la Cerda 51, al Medina Califal di Córdoba, l’esperienza è a 360 gradi, con terme, massaggi, aroma terapia e tè alla menta. Granada, Siviglia e Córdoba sono rappresentanti di culture millenarie, testimonianze di popoli la cui storia è rimasta impressa nelle mura di queste città che chiamano ogni anno milioni di turisti. La carta vincente del Sud della Spagna, così come quella di Madrid e di Barcellona, sta nella capacità di valorizzare la sua storia e di coniugarla con un presente ricco di stimoli che lascino il segno, dando modo ai “contemporanei” di trovare il loro ruolo all’interno di un così ingombrante seppur orgoglioso passato. 95


A tavola

Piccoli ma buoni! di Riccardo Castaldi

SONO I MANFRIGOLI. PELLEGRINO ARTUSI SUGGERISCE DI PREPARARLI PIUTTOSTO FINI:

“NON

IMITATE

COLORO CHE LI LASCIANO GROSSI COME IL BECCO DEI PASSEROTTI SE NON VOLETE CHE VI RIESCANO DI DIFFICILE DIGESTIONE”

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onsiderata la loro estrema semplicità, è logico ritenere che i manfrigoli o manfettini siano una delle più antiche paste romagnole; a differenza di tutte le altre paste infatti, la loro preparazione non prevede che dall’impasto sia “tirata” la sfoglia, rendendo quindi superfluo il mattarello, né tanto meno l’ottenimento di forme particolari. Il nome stesso, che in dialetto romagnolo diventa manfrìgul, verosimilmente deriva da manus e frico e richiama esplicitamente l’antico modo di prepararli tramite lo sfregamento dell’impasto tra le mani fino a ridurlo a piccoli frammenti, secondo una tecnica da tempo in disuso in Romagna che rimanda a quella utilizzata per la preparazione del couscous delle popolazioni nordafricane.

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III COLTELLO O MEZZALUNA L’impasto viene attualmente preparato esclusivamente con uova e farina di frumento mentre in passato, in periodi di maggiore ristrettezza economica, tra gli ingredienti poteva rientrare anche il pan grattato, eventualmente arricchito con una spolveratina di formaggio, se non addirittura farine di legumi, che potevano essere impastate semplicemente con acqua salata. Ottenuto un impasto piuttosto asciutto e allungato, con un diametro approssimativo di circa dieci centimetri, vengono tagliate delle fette dello spessore di circa mezzo centimetro, le quali sono lasciate ad asciugare sul tagliere leggermente infarinato. Con un grosso coltello oppure con la mezzaluna, si procede poi a sminuzzare le fette fino ad ottenere dei piccoli frammenti, il più possibile omogenei. Man mano che si taglia, passando lievemente la mano sul cumulo dei manfrigoli, si separano quelli più grossi, da sottoporre a un


ulteriore sminuzzamento, da quelli più fini, che tendono ad accumularsi verso il basso; per questa operazione si può ricorrere a un piccolo vaglio. A proposito delle dimensioni dei manfrigoli, Pellegrino Artusi, nel volume “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, suggerisce di farli piuttosto fini: “Non imitate coloro che li lasciano grossi come il becco dei passerotti se non volete che vi riescano di difficile digestione”. III IL SEME DELLA VITA Nella tradizione romagnola, come riportato da Michele Placucci in “Usi e pregiudizi de’ contadini della Romagna” pubblicato nel 1818, i manfrigoli in brodo di carne erano la minestra che consumavano i congiunti del defunto durante la veglia funebre e al ritorno dalle esequie. Il pranzo o la cena a base di manfrigoli e del lesso del brodo di cottura venivano consumati su di una tavola che l’usanza voleva priva di tovaglia e tovaglioli in segno di lutto. Ciascun commensale ne prendeva un solo piatto o una sola scodella, guardandosi bene dal prenderne una seconda volta perché così facendo avrebbe dimostrato uno scarso dispiacere per la scomparsa della persona cara, meritandosi il biasimo degli altri. Secondo quanto riportato da Eraldo Baldini ne’ “La sacra tavola”, i manfrigoli sarebbero divenuti la pasta legata ai riti funebri non a caso, bensì in virtù del fatto che la loro forma e dimensione li rende assimilabili a piccoli semi, che in questo contesto particolare assumerebbero il significato simbolico di perpetuazione della vita. A ciò va comunque aggiunto che si tratta indubbiamente di una minestra in grado di essere sorbita con la discrezione richiesta dalla situazione, senza la necessità di doversi impe97


A tavola

gnare in inopportune masticazioni e senza sporcare la bocca con eventuale sugo. Nelle campagne che circondano Lugo di Romagna, il pranzo a base di manfrigoli veniva consumato anche in concomitanza della gramolatura della canapa, uno dei trattamenti a cui era sottoposto il fusto della pianta per estrarne le fibre. I più anziani raccontano inoltre come i manfrigoli venissero talvolta preparati con brodo matto, ottenuto con acqua e ragù, e imbottigliati, costituendo così il pranzo che talvolta si portavano appresso gli scariolanti, i braccianti impegnati nelle opere di bonifica delle zone paludose ravennati, che li bevevano direttamente dalla bottiglia. III ABBINAMENTI La tradizione vuole che siano cotti e serviti in un brodo di manzo e gallina; più facili da trovare nelle case che non nei ristoranti, i manfrigoli sono una pasta molto gradevole, semplice e soprattutto sincera, in quanto in grado di esaltare un buon brodo, ma sicuramente non in grado di mascherare i difetti di un brodo scadente. I manfrigoli in brodo, scegliendo tra i vini prodotti nel territorio romagnolo, possono essere abbinati al Trebbiano, i cui sentori olfattivi floreali delicati si amalgamano armonicamente con quelli espressi dal piatto, la cui grassosità è perfettamente controbilanciata dalla freschezza che questo vino in genere presenta. Nel caso in cui il brodo sia particolarmente profumato si può optare anche per un Bianco dei Colli di Faenza, ottenuto dai vitigni Chardonnay e Pignoletto, in grado di esprimere un’adeguata intensità olfattiva. Per i manfrigoli serviti in brodo di vongole, piatto sfizioso proposto da alcuni ristoranti della costa, considerata sia l’intensità gustativa che olfattiva, ci si deve orientare verso bianchi dotati di buona struttura e profumati, come ad esempio uno Chardonnay affinato in barrique oppure un Sauvignon del Bosco Eliceo. Nel caso della pasta e fagioli con manfrigoli, tenendo conto della succulenza del piatto, si può scegliere un rosato o un rosso leggero, come ad esempio una Fortana del Bosco Eliceo. Se serviti con il brodo ottenuto dalle ossa di maiale, si rende necessario un vino rosso, non troppo corposo ma comunque dotato di buona freschezza e tannicità, vista sia la grassosità che la succulenza della preparazione. Qualora nella preparazione del piatto siano contemplati asparagi o piselli, è bene orientarsi verso vini bianchi morbidi e rotondi, che non presentino possibilmente note erbacee, come ad esempio il Pagadebit, mentre se sono conditi con funghi oltre alla morbidezza deve essere presente anche un’elevata intensità olfattiva, come ad esempio quella che si ritrova generalmente nell’Albana. 98


Gocce

Un sorso di

cultura

di Salvatore Giannella

UN PRIMATO Prima tra tutte le aziende operanti nel settore vinicolo italiano, la cantina trentina Cavit lancia le versioni in lingua russa e cinese del proprio sito internet www.cavit.it, già in passato pluripremiato dalla critica per la completezza dell’informazione, per l’originalità delle sezioni e per l’approfondimento tecnico. Tra le prime aziende della classifica di Mediobanca 2008, l’unica ad avere più di tre lingue (prevalentemente italiano, inglese e tedesco) è proprio l’azienda Cavit che conta nel suo sito, riprogettato dalla società Netech di Longarone (Belluno), ben sei lingue a conferma della sua vocazione internazionale e delle importanti attività all’estero: per il quinto anno consecutivo, riferisce il quotidiano la Repubblica, è il vino più venduto nella ristorazione americana con il Pinot Grigio. UNA CURIOSITA’ Per chi non ha ancora chiaro da dove abbia origine la parola sommelier: una delle ipotesi è che questa parola sia nata dall'abitudine dei soldati dell'esercito di Napoleone di legare (“lier”) le botti del generale su di un mulo da soma (“somme”). UN PROGETTO “Per la prima volta al mondo una vera e propria cantina viene costruita nella residenza di un ambasciatore degli Stati Uniti”, e se lo dice lui, Ronald P. Spogli, numero uno della diplomazia americana a Roma, c’è da credergli. Nei progetti dell’ambasciatore, la cantina, a firma dell’architetto Agnese Mazzei, in pochi mesi sorgerà nella sua residenza cinquecentesca di Villa Taverna (di proprietà del governo statunitense dal 1948). Sarà destinata non solo ad accogliere circa 5 mila etichette, ma anche a ospitare (nel piano seminterrato dell’edificio in ristrutturazione vicino alla piscina) incontri conviviali con diplomatici e personaggi di politica ed economia. A chi gli chiede come Washington abbia accolto la notizia della sua nuova “creazione”, l’ambasciatore Spogli chiarisce: “La cantina è anche un momento importante dal punto di vista diploma-

tico. Pensate solo a quanti imprenditori americani hanno investito nel vino italiano e quanti italiani hanno fatto all’opposto. Il vino invita a stringere ancor di più i legami tra i nostri Paesi”. UN COMPLEANNO Patrizio, 80 anni, e Alice, 23, si sono conosciuti sui banchi del Politecnico di Milano, durante il corso organizzato per creare una campagna promozionale per l’Università delle tre età e della terza età. Lui, da quando è in pensione, insegna all’Unitre Milano, lei studia design. Insieme sono diventati le anime del corso “Culture in fermento” che ha visto venti studenti giovani e meno giovani tirar fuori un mare di progetti. Il corso (info: www.cultureinfermento.net) è maturato nel tempo, come il vino, mettendo le sue idee in botti simboliche, poi versandole in sei bottiglie doc, una per ogni settore d’insegnamento. “L’apertura delle iscrizioni coincide con la vendemmia, per cui volevamo associare vini pregiati alla ricchezza dei corsi di Unitre”, ha spiegato Patrizia al “Giornale”, stappando una buona bottiglia e brindando al 20mo compleanno di Unitre. Partita nel 1988, l’università retta dal filosofo Silvio Bolognini, conta oggi 300 sedi in tutt’Italia, 500 docenti e 1.000 cattedre: i princìpi di base sono il volontariato e l’indipendenza politica, economica e ideologica. Sì, c’è proprio un lodevole fermento in questa accademia di umanità. UNA CITAZIONE “Ciascun vino parla un linguaggio e ha un suo preciso temperamento, proprio come noi... Io in un vino posso riconoscere l’odore di barrique, un altro può sentirci l’odore dell’armadio della nonna. Il mio compito è avvicinare la gente al vino tenendo conto di alcuni punti fermi. Ad esempio le donne hanno solitamente l’olfatto più sviluppato, quindi amano i vini molto profumati. Per le ragazzine meglio un vino amabile come il Carignano del Sulcis. Per l’intellettuale il Teroldego, ricco di sfumature intuibili solo a un esame attento” (Carlo Cambi, autore della guida Il Gambero Rozzo).

99


Concorsi

Isabella Sardo spopola in Lussemburgo L’ITALIANA

ELETTA REGINA DEI SOMMELIERS DEL

di Emanuele Lavizzari

a stampa lussemburghese ha titolato: «L’invitée-surprise», che tradotto suona come «L’invitata-sorpresa». Lei, l’ospite, è Isabella Sardo, italiana: si è aggiudicata il titolo di “Miglior Sommelier del Lussemburgo”. In effetti, nel Granducato è stata una sorpresa che uno straniero, per giunta una dame, abbia superato i messieurs sommeliers di casa. Non si stupisce invece l’Ais del valore della nostra rappresentante e assiste con grande soddisfazione a un altro importante successo di uno dei nostri ambasciatori. Vittoria di particolare rilievo perché contribuisce a diffondere oltre i confini l’immagine sempre più brillante dell’enologia italiana. Isabella ha concluso i corsi nel 2005 ed è stata tra i primi diplomati della delegazione di Bruxelles. Nata a Catania, è corrispondente di un giornale siciliano per il quale scrive di economia e per questo si sposta tra il Lussemburgo e la capitale belga, dove hanno sede rispettivamente gli uffici amministrativi e le commissioni parlamentari dell’Unione Europea. Si è avvicinata alla sommellerie per interesse e probabilmente, come ci ha rivelato, anche per amore, seguendo la passione del marito. Fin dall’inizio dei corsi aveva intuito che le si sarebbero potute aprire nuove prospettive professionali. E così, oltre a scrivere, ora lavora nel ristorante Dal Notaro, dove segue in particolare la cantina, e gestisce l’Enoteca Italiana situata

L

100

GRANDUCATO


nel quartiere Grund della capitale lussemburghese, attività, tra l’altro, avviata recentemente. Dopo aver superato con successo le semifinali, Isabella ha sbaragliato gli altri due concorrenti finalisti. Una prova di abbinamento sulla base di un menu scelto dalla commissione giudicante, una degustazione alla cieca con descrizione e riconoscimento di tre vini e per concludere una serie di domande sulla sommellerie e sull’enologia. La giuria è stata fortemente impressionata dalla scioltezza di esposizione e dalla poesia immaginativa dei suoi commenti. Senza tralasciare lo charme del suo accento italiano. Sì, perché non bisogna dimenticare che la lingua impiegata era il francese, idioma ufficiale del Lussemburgo insieme al tedesco. E così come è affascinate per noi la cadenza francese, lo è per i francofoni l’accento italiano. Strano ma vero. «Per la preparazione specifica del concorso – ci ha raccontato – ho avuto un maestro francese che mi ha iniziato alla tecnica di degustazione transalpina e mi ha fatto approfondire la loro enologia. Un produttore di questi parti mi ha poi aiutato per gli approfondimenti sui vini lussemburghesi». Isabella Sardo è già molto soddisfatta della sua carriera così com’è. La sua speranza è quella di poter proseguire con questa attività, magari di scrivere anche articoli di enogastronomia e non solo di ambito economico. «La figura del sommelier

oggi è molto elastica, – ha aggiunto – non per forza legata al contesto della ristorazione. Io, per esempio, che non ho mai fatto servizio in sala, mi sento una specie di animatrice culturale». Proprio per questo le piacerebbe prima o poi far conoscere i vini stranieri in Italia, magari aprire un’enoteca internazionale nella sua Catania. «Ma la prospettiva è così

remota – ha ammesso – che non ci penso mai seriamente. Sono troppo legata a contesti internazionali e probabilmente lo resterò fino alla pensione». Noi allora non possiamo che farle un grande in bocca al lupo per le sue attività di giornalista, di sommelier e di mamma di una bimba di tre anni. Di certo Isabella non avrà di che annoiarsi! 101


Sicurezza stradale

Il cocktail

killer UNA

RICERCA DELL’ACI CONFERMA

CHE ALCOL E VELOCITÀ SONO LE PRINCIPALI CAUSE

DI INCIDENTI, SPESSO MORTALI: SI MOLTIPLICANO LE INIZIATIVE PER SENSIBILIZZARE I GIOVANI SUL TEMA DEL

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“BERE

CONSAPEVOLE”


di Roberto Di Sanzo

dati continuano a essere allarmanti. D’altronde, non ci vuole certo uno scienziato per capire quali effetti devastanti possa avere l’eccessiva assunzione di alcol da parte di persone che, poi, devono utilizzare un’automobile. Basta leggere quotidianamente i giornali, vedere la televisione, sentire i notiziari alla radio. Ormai le cosiddette “stragi del sabato sera”, con incidenti stradali mortali dovuti all’eccesiva velocità e all’alcol, si stanno spalmando lungo l’intera settimana, senza soluzione di continuità. Si beve tanto e troppo, in barba alle più semplici regole di convivenza civile e di sicurezza. E l’età di chi alza il gomito, purtroppo, si abbassa sempre di più. L’ultima ricerca – in ordine di tempo – che conferma questo trend maledetto è stata promossa dall’Automobile club d’Italia, insieme al Centro studi Promotor. L’indagine, condotta attraverso 440 interviste a ragazzi tra i 16 e i 24 anni, non rivela nulla di nuovo: l’assunzione di alcol (per il 39% dei giovani) e la velocità (33%) sono considerati i principali pericoli al volante. I numeri, nella loro apparente freddezza, spesso raccontano senza bisogno di ulteriori commenti. Come questi: il 27% degli interpellati ammette di non rispettare i limiti di velocità sia sulle due che sulle quattro ruote, il 19% ha dichiarato di non allacciare le cinture di sicurezza e il 17% del campione ha ammesso inoltre di utilizzare i telefoni cellulari alla guida, mentre il 13% non rispetta la segnaletica stradale. Solo il 3% confessa di guidare spesso dopo aver bevuto e appena l’1% dopo aver assunto sostanze stupefacenti. Non solo dati negativi, comunque. Dalla ricerca dell’Aci emerge che l’84% degli intervistati si sottoporrebbe volontariamente all’alcol test all’uscita di un locale. L’86% si dice disposto a offrirsi come “guidatore designato”. Il 94% del campione è stato fermato almeno una volta dalle forze dell’ordine mentre guidava e il 19% è rimasto coinvolto in un incidente nell’ultimo anno. Insomma, da più parti si chiedono maggiori controlli, come ha sottolineato anche Mario Valducci, presidente della

I

Commissione Trasporti alla Camera: “Siamo certi che già il secondo bicchiere di vino può mettere in seria difficoltà il guidatore, per questo ci sarà una stretta sui tassi alcolemici”. “I controlli delle forze dell’ordine sulle strade – ha aggiunto Valducci - quest’anno sono triplicati: se nel 2007 erano stati circa 500 mila, nel 2008 si è arrivati a un milione e mezzo. Eppure non sono ancora sufficienti”. Il paragone con il resto d’Europa è piuttosto eloquente: secondo il deputato, infatti, se in Italia ci fossero i controlli che vengono effettuati in altri paesi del vecchio continente, 4 milioni di cittadini non avrebbero più la patente. Inoltre, una parte dei proventi delle multe (circa 1,5-2 miliardi di euro all’anno), “dovrebbe essere utilizzato per migliorare la segnaletica stradale, soprattutto nei punti caldi della rete. Altro punto importante è la certezza delle sanzioni: l’applicazione delle norme deve essere rigida”. Se un giovane su quattro supera sistematicamente i limiti di velocità e uno su cinque non allaccia le cinture di sicurezza, forse, allora, è a monte che bisognerebbe intervenire. Occore una decisa e corretta campagna di sensibilizzazione, da iniziare già ai primi anni del percorso scolastico obbligatorio. La ricerca Aci-Promotor evidenzia una nuova sensibilità dei ragazzi verso il tema della sicurezza stradale. Il 51% degli intervistati si rammarica di non aver mai potuto frequentare corsi di educazione stradale a scuola. Il 91% di chi ha avuto questa opportunità, inoltre, giudica la formazione ricevuta molto utile. Sei ragazzi su 10 sono favorevoli al foglio rosa a 16 anni e all’introduzione della prova pratica obbligatoria per il conseguimento del patentino. Il 55% dei neopatentati giudicherebbe opportuna l’introduzione di corsi di guida sicura obbligatori entro tre anni dalla patente. “Formazione, guida accompagnata, prova pratica per il patentino e corsi obbligatori di guida sicura – ha sottolineato Enrico Gelpi, presidente dell’Automobile Club d’Italia – sono proposte che Aci avanza da tempo, alcune delle quali sono già legge. I dati dimostrano che il nostro per-

103


Sicurezza stradale

corso è condiviso con i giovani”. Giovani che dimostrano grande interesse verso i corsi promossi dall’Ais, portavoce del “bere consapevole” e contraria agli intrugli ad alto contenuto alcolico che poi provocano le stragi sulle strade. Fin qui quello che succede in Italia. Ma com’è la situazione in Europa? L’analisi delle cause che determinano gli incidenti stradali mostra che, a livello europeo, un incidente su quattro è attribuibile all’alcol, e che negli incidenti causati da guida in stato di ubriachezza la stragrande maggioranza delle persone coinvolte (96%) è rappresentata da individui di sesso maschile, di cui il 33% giovani o giovani adulti di età compresa tra i 15 e i 34 anni. “Le quantità consumate di alcol - ha spiegato il professor Emanuele Scafato, membro dell’Istituto superiore della sanità e direttore del centro collaboratore dell’Organizzazione mondiale della sanità per la ricerca sull’alcol - e i livelli di alcol nel sangue giocano un ruolo determinante sulle condizioni di idoneità psicofisica alla guida, e quindi sul livello di rischio cui ci si espone mettendosi al volante dopo aver ingerito quantità anche moderate di alcol”. Assolutamente vero: il rapporto diretto tra alcol e incidenti stradali è particolarmente significativo anche quando l’assunzione di alcol non è in una quantità così elevata da determinare modificazioni evidenti del comportamento. A dosi piccole di alcol, infatti, il guidatore è in ogni caso in grado di guidare bene, ma si

riduce in lui la percezione di rischio, perché diminuisce la capacità di giudizio e di critica. La rapidità di riflessi è compromessa a causa dell’allungamento del tempo di reazione in percentuali stimate del 38% per i segnali sonori, del 30% per quelli luminosi e del 50% per la visione periferica. Spesso gli incidenti sono causati dall'associazione di alcol e farmaci, specialmente psicofarmaci, che sviluppa un potenziamento dell’effetto depressivo sul sistema nervoso centrale, anche in presenza di una alcolemia normale. Sono molte e continue, fortunatamente, le iniziative messe in atto per cercare di limitare il più possibile le stragi stradali. A tal proposito, proprio durante il periodo natalizio, il Network europeo delle Polizie stradali “Tispol” ha dato vita alla campagna europea congiunta denominata “Alcool and Drug”, “Alcool e Droga”. Tispol è una rete di coope-

razione tra le Polizie stradali, nata nel 1996 sotto l’egida dell’Unione Europea, alla quale aderiscono 29 Paesi europei. L’Italia è rappresentata dal servizio Polizia stradale del Ministero dell’Interno. L’organizzazione intende sviluppare una cooperazione operativa tra le Polizie stradali europee per ridurre il numero di vittime della strada e degli incidenti stradali, attraverso operazioni internazionali congiunte di contrasto delle violazioni e la promozione di campagne “tematiche” in tutta Europa all’interno di specifiche aree strategiche. L’iniziativa congiunta denominata “Alcool and Drug” ha permesso di effettuare in Europa almeno un milione di controlli per l’accertamento della guida in stato di ebbrezza o sotto l’influenza di sostanze stupefacenti. Il Servizio Polizia stradale ha predisposto sull’intero territorio nazionale l’effettuazione, per tutto il periodo festivo, sulle ventiquattrore, di mirati controlli con precursori ed etilometri, con particolare attenzione anche ai conducenti di veicoli pesanti e commerciali, con l’effettuazione di posti di controllo transfrontalieri congiunti con le Polizie stradali di Francia, Svizzera, Austria e Slovenia.

UNO SPOT ANTI-STRAGI Fanno più morti le strade delle guerre. Ogni fine settimana sui giornali e in televisione scorrono le notizie delle vittime di incidenti stradali. Nella maggior parte dei casi, i responsabili hanno alzato il gomito. L’Associazione Italiana Sommeliers da sempre molto vicina alla tematica del bere consapevole e dell’educazione al bere, nel corso di una serata di gala all’Hotel Cavalieri Hilton di Roma, ha realizzato uno spot, presentato ai soci del Club Amici dell’Ais, per sensibilizzare l’opinione pubblica sul rischio alcol al volante. All’evento erano presenti il presidente nazionale dell’Ais Terenzio Medri, il presidente di Ais Lazio Franco Maria Ricci, numerosi sommelier onorari e molti personaggi del mondo giornalistico, televisivo e dello spettacolo. Nello spot si sottolinea che il vino è equilibrio e riflessione, il contrario dei beveroni che molti locali col culto dello sballo propinano ai giovani. Gli stessi giovani che poi vanno a schiantarsi e a morire a bordo delle loro automobili, che incrementano il numero delle stragi del sabato sera. Lo spot evidenzia la contrapposizione tra due situazioni: un uomo che degusta tranquillamente un calice di vino lontano anni luce dal frastuono e dal rumore assordante della musica, dall’impatto tra due auto dopo una brusca frenata, dalla sirena dell’ambulanza che squarcia il silenzio della notte. E' la differenza tra due mondi diversi. Il primo è uno stile di vita, l’altro un modo per morire. (P.P.) 104


Eventi

L Albano Carrisi e Franco Ricci

La

L La degustazione

bussola del vino

PRESENTATA

A

ROMA

LA

DECIMA EDIZIONE DI

DUEMILAVINI

CHE ANCHE QUEST’ANNO PARTECIPA AL PROGETTO

“WINE

FOR LIFE” PER LA LOTTA CONTRO L’AIDS IN

AFRICA

uemilavini compie dieci anni: dall’inizio del Terzo Millennio è cresciuta fino a diventare un costante punto di riferimento per gli enoappassionati. La pubblicazione (la più venduta del settore) è un prodotto articolato. Il fulcro è rappresentato dalla presentazione delle aziende e dei loro vini. Poi, regione per regione, vengono indicate le Doc e le Docg, i prodotti Dop e Igp, oltre alle fiere e alle sagre locali a carattere enogastronomico. A corredo, per una chiara comprensione dei termini e del metodo utilizzato, una sezione è riservata alla spiegazione della tecnica della degustazione e dell’abbinamento cibo-vino. Nelle 1.792 pagine vengono recensite 1.592 aziende. Oltre ventimila i vini degustati, circa 900 i finalisti e 319 quelli premiati con i 5 Grappoli, il punteggio dell’eccellenza, per 279 aziende. Oltre alla descrizione di tutti i vini degustati, per i vini premiati con

D

L Franco Ricci durante la presentazione

i 5 Grappoli è prevista anche la pubblicazione dell’etichetta. A ogni azienda viene dedicata una pagina intera, completata da quelle informazioni ritenute utili, necessarie e interessanti. Quindi, dall’indirizzo a come arrivarci, dal nome del proprietario a quello di “chi fa il vino”, dagli ettari vitati al numero di bottiglie, oltre alle descrizioni dell’azienda stessa e dei vini degustati, con le relative informazioni tecniche e gli abbinamenti. Infine, l’elenco di tutti i vini prodotti. Per ogni vino descritto vengono fornite numerose informazioni: tipologia, uve, gradazione alcolica, prezzo, numero di bottiglie prodotte, note sulla vendemmia, sulla vinificazione, sul potenziale di conservazione in cantina e sull’abbinamento specifico. I campioni vengono descritti utilizzando il metodo di degustazione di scuola Ais e valutati in Grappoli, corrispondenti fasce di punteggio da 2 a 5: I 2 Grappoli = da 74 a 79 centesimi = Vini di medio livello e piacevole fattura I 3 Grappoli = da 80 a 84 centesimi = Vini di buon livello e particolare finezza I 4 Grappoli = da 85 a 90 centesimi = Vini di grande livello e spiccato pregio I 5 Grappoli = da 91 a 100 centesimi = Vini eccellenti La soglia dell’eccellenza si colloca a

91 centesimi. Ed è per questo che anche i vini valutati 4 Grappoli rappresentano, nella loro fascia da 85 a 90 centesimi, una grandissima qualità. I vini premiati per aver raggiunto il traguardo dei 5 Grappoli sono facilmente individuabili nell’opera: le loro prestigiose etichette vengono pubblicate nella pagina dedicata a ciascuna azienda. Direttore della pubblicazione è Franco M. Ricci, presidente dell’Associazione italiana sommelier Roma e direttore di Bibenda, la patinata rivista di cultura del vino. La realizzazione di Duemilavini è curata da Paola Simonetti, con una squadra composta da 40 collaboratori, tutti sommelier. Anche l’edizione 2009 partecipa al progetto “Wine for life” della Comunità di Sant’Egidio per la lotta contro l’Aids in Africa. E come avviene per le bottiglie di vino che aderiscono all’iniziativa, anche in Duemilavini c’è il bollino “Wine for life”. Quella che negli ultimi due anni è stata una sezione nuova si è rivelata un’idea vincente. I ristoranti selezionati da Bibenda, luoghi in cui si celebra al meglio il rito del matrimonio cibo-vino, hanno meritato una pubblicazione esclusiva e le Edizioni Bibenda si sono così arricchite con “I Ristoranti di Bibenda 2009 – Libro guida ai migliori ristoranti d’Italia”. (Francesca Cantiani)

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La guida

Viniplus premia le eccellenze lombarde di Luisa Barbieri

L Un momento della presentazione

acconta le migliori etichette lombarde: è Viniplus, guida ragionata alle produzioni vitivinicole di qualità della Lombardia, ideata e pubblicata dall’Associazione italiana sommeliers lombarda, punto di partenza di un progetto che Ais sta portando avanti con grande determinazione per promuovere e premiare l’enologia di qualità, rispettosa dell’etica produttiva, all’insegna del vino sano, buono ed equo. Un unicum nel panorama delle guide, essendo l’unica pubblicazione dedicata esclusivamente ai vini lombardi. Al suo interno, un quadro generale della produzione vitivinicola regionale suddivisa nelle varie zone a denominazione Docg, Doc e Igt, in base a degustazioni effettuate esclusivamente da sommeliers professionisti. L’edizione 2009, la quarta, è stata presentata al Circolo della Stampa di Milano in occasione dell’appuntamento annuale con il Wine Day, giornata dei vini di Lombardia, organizzata da Ais Lombardia e da Ascovilo, l’Associazione Consorzi Vini Lombardi. “La responsabilità etica assegnata da Viniplus al consueto lavoro viticolo ed enologico di ogni azienda - ha precisato Livio Cagnoni, presidente di

R

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L I sommeliers in servizio

Ascovilo - è un valore aggiunto per l’impegno di numerosi bravi professionisti del vigneto, che consente di aggiungere alla piacevolezza altri pregi che ne esaltano l’eccellenza, quali la fiducia e la garanzia verso ogni singolo vignaiolo”. “Una pubblicazione - ha tenuto a sottolineare Luca Daniel Ferrazzi, Assessore all’Agricoltura della Regione Lombardia - che si presenta come uno strumento utile e prezioso per conoscere le numerose eccellenze dei nostri distretti vinicoli. Oltre alle bollicine di Franciacorta e Oltrepò e ai grandi rossi di Valtellina si stanno sempre più facendo spazio i prodotti della Valcalepio, di San Colombano, del Garda e di realtà emergenti come il Mantovano e le province di Como e Varese, alle quali, attraverso due nuove Igt è finalmente riconosciuta la crescita qualitativa”. Ed ecco, dunque Viniplus: diecimila copie in elegante formato da 360 pagine l’una, con 167 cantine segnalate e 553 vini recensiti. Risultato della selezione operata da 70 degustatori Ais, coinvolti in panel da 7, che hanno assaggiato e analizzato spumanti, bianchi, rosati e vini rossi da dessert,

divisi per tipologia e in rigorosa forma anonima, classificandoli secondo il metodo Ais di analisi sensoriale e attribuendo loro un punteggio espresso da una a quattro rose camune, simbolo della Regione Lombardia. Un lavoro accurato testimoniato da un video che documenta le degustazioni, visionabile sul sito dell’Ais www.aislombardia.it.


49 i vini a cui sono state attribuite le 4 rose camune e la classificazione di eccellente, 83 quelli ottimi, identificati dalle 3 rose. Ecco la classificazione di quelli che hanno ottenuto il massimo punteggio:

“Questi vini, espressione dell’eccellenza enologica lombarda – afferma Luca Bandirali, presidente di Ais Lombardia - parteciperanno al concorso che porterà all’attribuzione degli ambiti tastevin, e quest’anno, novità assoluta per Viniplus, vengono degustati e giudicati anche da una commissione internazionale che vanta nomi di autorevoli professionisti dello scenario enologico mondiale come Michele Shah, Jane Hunt, Thomas Ilkjaer, Timo Jokinen”. Viniplus culminerà con l’assegnazione dei tastevin d’oro, d’argento e di bronzo ai tre migliori vini della Lombardia e del premio speciale “Sano” attribuito alla cantina che meglio riassume la filosofia della qualità complessiva, sposandola con l’etica produttiva aziendale. La cerimonia di consegna dei riconoscimenti si svolgerà a Roma, all’Hotel Cavalieri Hilton il 24 marzo. Obiettivo: diffondere la conoscenza dei vini di qualità di Lombardia anche fuori dai confini regionali, con degustazioni itineranti che verranno effettuate ad esempio nei ristoranti aderenti alla rassegna “ Gusto Sia – Tradizione Culinaria e Vini di Lombardia” con l’esclusiva guida del lombardo Ivano Antonini, recentemente eletto Miglior Sommelier Professionista d’Italia.

BERGAMO Moscato di Scanzo 2005 BIAVA Valcalepio Moscato Passito TENUTA DEGLI ANGELI BRESCIA Lugana Villa Bragagna 2006 AVANZI Lugana Superiore 2004 CA’ LOJERA Lugana Riserva del Lupo 2005 CA’ LOJERA Franciacorta Non dosato 2000 MIRABELLA Lugana Superiore Selezione Fabio Contato 2006 PROVENZA Garda classico Rosso Negresco 2006 PROVENZA Lugana Riserva Sergio Zenato 2006 ZENATO PAVIA Oltrepò Pavese Pinot Nero M.C. Nature Ecru 2003 ANTEO Oltrepò Pavese Pinot Nero Nero Pinot 2006 CA’ DI FRARA Oltrepò Pavese Pinot Nero Giorgio Odero 2005 FRECCIAROSSA Oltrepò Pavese Riesling 2007 CABANON Oltrepò Pavese Pinot Nero Pernice 2005 CONTE VISTARINO Oltrepò Pavese Riesling Vigna Martina 2007 ISIMBARDA Oltrepò Pavese Riesling Landò 2007 LE FRACCE Oltrepò Pavese Pinot Nero Noir 2005 MAZZOLINO Oltrepò Pavese Chardonnay Blanc 2006 MAZZOLINO Oltrepò Pavese Rosso Riserva Profondo di San Michele 2001 SAN MICHELE AI PIANONI Oltrepò Pavese Pinot Nero Poggio della Buttinera 2003 TRAVAGLINO SONDRIO Valtellina Superiore Sassella Riserva Vigna Regina 1999 AR.PE.PE. Valtellina Superiore Sassella Ultimi Raggi 2002 AR.PE.PE. Sforzato di Valtellina Messere 2003 CAVEN Valtellina Superiore Inferno Al Carmine 2003 CAVEN Valtellina Superiore Sassella La Priora 2003 CAVEN Sforzato di Valtellina Feudo dei Conti 2004 CONTI SERTOLI SALIS Valtellina Superiore Riserva Corte della Meridiana 2004 CONTI SERTOLI SALIS Sfursat di Valtellina 2004 F.LLI BETTINI Valtellina Superiore Sassella Reale 2005 F.LLI BETTINI Valtellina Superiore Vagella Carteria 2005 SANDRO FAY Valtellina Superiore Sassella 2004 FONDAZIONE FOJANINI Sforzato di Valtellina 2002 FONDAZIONE FOJANINI Sforzato di Valtellina 2004 MARSETTI Sfursat di Valtellina 5 Stelle 2005 NINO NEGRI Valtellina Superiore Riserva 2002 NINO NEGRI Sforzato di Valtellina 2003 NERA Valtellina Superiore Riserva Signorie 2002 NERA Valtellina Superiore Sassella 2005 NOBILI Terrazze Retiche di Sondrio Rosso Numero Uno 2004 PLOZZA Sforzato di Valtellina Vin da Cà Sfursat 2004 PLOZZA Valtellina Superiore Sassella Riserva La Scala 2004 PLOZZA Sforzato di Valtellina Albareda 2006 PREVOSTINI MAMETE Valtellina Superiore Corte di Cama 2006 PREVOSTINI MAMETE Valtellina Superiore Sassella Sommarovina 2006 PREVOSTINI MAMETE Sfursat di Valtellina Fruttaio Cà Rizzieri 2004 RAINOLDI Sfursat di Valtellina 2004 RAINOLDI Valtellina Superiore Sassella Riserva 2004 RAINOLDI Valtellina Superiore Inferno Riserva 2004 RAINOLDI Sforzato di Valtellina Millesassi 2005 TRIACCA PIETRO 107


Pillole

Un Master in… rosa L’aretina Simona Bizzarri si aggiudica il Trofeo del Consorzio Vini di Romagna Zinzani, presidente del Nella prestigiosa sede Consorzio Vini di Romagna, dell’Enoteca Regionale Gian Alfonso Roda, presidendell’Emilia Romagna sono te dell’Enoteca regionale stati proclamati i vincitori delEmilia Romagna, Gian Carlo l’edizione 2008 del Trofeo Mondini, Presidente di AisConsorzio Vini di Romagna – Romagna, Hiarusca Master del Sangiovese, uno Martellato, Vice Presidente dei concorsi enologici più Sezione Romagna importanti e qualificati a Assoenologi, Ivano Antonini, livello nazionale che vede vincitore dell’edizione 2007 come protagonista assoluto il del Master e Miglior sommeSangiovese, vino e vitigno lier d’Italia 2008 e dal giornaprincipe della viticoltura italista Franco Ziliani. liana e mondiale. Simona Bizzarri si accostò Organizzato dal Consorzio all’attività di sommelier graVini di Romagna e zie al suo “maestro di bevudall’Associazione Italiana te” come lei stessa lo definiSommeliers, in collaborazione sce, ovvero suo marito con l’Enoteca Regionale Cristiano; è proprio grazie a Emilia Romagna e il Comune lui che cominciò ad apprezdi Dozza, il prestigioso titolo zare il fascino e la ricchezza di vincitore è andato alla L Simona Bizzarri, vincitrice del Master che possono essere racchiusommelier Simona Bizzarri di del Sangiovese 2008 si in una bottiglia di vino. Arezzo in una serie di impeOra Simona, che è sommelier gnative prove (scritte, orali e del Ristorante La Nuova Tagliatella di Arezzo, accopratiche di servizio e degustazione) si è imposta sul glie con grande soddisfazione l’importante riconoromagnolo Davide Staffa di Cotignola, secondo scimento ricevuto come conferma delle sue altissiclassificato per il secondo anno consecutivo e su me qualità professionali, ma conta di proseguire Luca Martini. nel settore enogastronomico a livello di consulenze A valutare e giudicare i partecipanti al concorso è e degustazioni. Da sottolineare che in otto edizioni stata una giuria di esperti composta da Giordano del concorso Simona Bizzarri è la seconda donna ad aggiudicarsi il Master, dando così prova di grande carattere, voglia di apprendere, approfondire le tematiche del mondo del vino e, perché no, di sorprendere!

(Katia Giarrusso)

Simona Bizzarri premiata da Giordano Zinzani, Presidente del Conzorzio Vini di Romagna

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Il vino che combatte la fame nel mondo Viene dall’Italia e, in particolare, dal Friuli Venezia Giulia il primo vino inserito nel programma di Iimsam, l’associazione intergovernativa dell’Onu, impegnata nel combattere la fame nel mondo attraverso progetti per finanziare la ricerca e la produzione dell’Alga Spirulina. E’ il vino Grave Doc Celebrate Life Merlot, prodotto dall’azienda Fantinel di Tauriano di Spilimbergo. Marco Fantinel, infatti, a fine dello scorso anno è divenuto ambasciatore dell’associazione delle Nazioni Unite per l’Italia. Il suo ruolo è fare conoscere come l’associazione combatte la malnutrizione nel mondo, promuovendo la raccolta di fondi per produrre l’Alga Spirulina, oggi uno dei più potenti integratori naturali, ricca di vitamine, proteine e minerali, capace di contrastare i danni della malnutrizione, soprattutto infantile, nel terzo

L Remigio Maradona e Marco Fantinel

mondo. L’associazione è impegnata nella produzione di questo prezioso micronutriente nei luoghi più poveri dei Paesi, dando lavoro alla gente e costruendo pozzi di acqua, utili anche per molte altre attività. Ma per la ricerca, si sa, i fondi sono l’elemento limitante e per questo Iimsam promuove lo sviluppo di progetti solidali capaci di finanziare il programma.

Celebrate Life Merlot è quindi il primo vino che fa bene non solo alla salute ma anche allo spirito. Questo vino sarà presente nei cinque continenti e, per ogni bottiglia acquistata in tutto il mondo, un dollaro verrà devoluto da Fantinel proprio al progetto Alga Spirulina. Oltre a essere il primo e unico vino inserito nel programma Iimsam, Celebrate Life Merlot contribuirà a far crescere l’immagine del Friuli Venezia Giulia nel mondo. La famiglia Fantinel, da sempre radicata al territorio regionale, non ha scelto un vino generico “merlot” ma un Doc Grave, portando alta quindi la bandiera dei vini italiani di qualità. Vista l’importanza del progetto, la presentazione ufficiale è avvenuta nella sede dell’Onu, il celebre Palazzo di Vetro di New York. All’evento hanno preso parte un centinaio di persone, tra cui il Console Generale d’Italia a New York, l’ex governatore dello stato di New York, il Direttore Generale Iimsam Remigio Maradona, cugino del famoso calciatore. Meno di un anno fa Celebrate Life Merlot era solo un’idea, oggi è una realtà e Iimsam tiene particolarmente a questo progetto, come dimostra la recente visita degli Ambasciatori in Friuli Venezia Giulia, dove hanno partecipato alla simbolica vendemmia del Merlot destinato a diventare Celebrate Life. “Celebrate Life è l’unico vino che si può bere pensando che fa bene a chi più ne ha bisogno” - afferma Remigio Maradona. “Si tratta davvero di una celebrazione di vita. Ogni bottiglia contribuisce alla produzione e allo sviluppo dell’Alga Spirulina, non solo portandola nei paesi più colpiti dalla malnutrizione, ma anche promuovendo, proprio in queste aree, la cultura del lavoro e dell’autonomia introducendone la produzione”.

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Pillole

Un bicchiere al giorno toglie il medico di torno Il vino possiede alcune proprietà in grado di mantenere il cuore sano e protetto da attacchi improvvisi I nostri nonni dicevano “vino fa buon sangue” e avevano ragione! La conferma arriva dall’Università Cattolica di Campobasso che con i centri europei del progetto Immidiet ha condotto un’indagine su un campione di 1.604 persone provenienti da tre diverse aree geografiche: sud-est di Londra, in Gran Bretagna, Limburgo in Belgio e Abruzzo in Italia.

I partecipanti sono stati sottoposti a una visita medica generale e a un prelievo di sangue; successivamente è stato presentato loro un questionario incentrato sugli stili di vita e le abitudini alimentari, al quale rispondere. Ciò che emerge da questi studi condotti dall’équipe guidata dalla dottoressa Romina di Giuseppe è che un importante beneficio del vino è quello di aumentare la quantità di Omega 3 nel sangue con conseguenti benefici all’apparato cardiocircolatorio. Sembra infatti che il consumo moderato di alcol (un bicchiere per le donne e due per gli uomini) incrementi il livello di acidi grassi polinsaturi, comunemente presenti nel pesce e notoriamente considerati protettivi per le malattie cardiovascolari e le morti improvvise. Ma un aspetto ancora più importante è emerso da queste analisi. I ricercatori della Cattolica di Campobasso e dell’Università di Grenoble, in Francia, hanno infatti focalizzato l’attenzione sulle diverse bevande alcoliche per vedere se gli alti livelli di Omega 3 riscontrati potessero essere imputabili all’alcol oppure ad altre sostanze. Ebbene il vino ne è uscito vincitore in quanto è risultato un esempio significativo. Questo ci fa pensare che alcune sostanze presenti nel vino, come ad esempio i polifenoli, possano essere associate con l’aumento delle concentrazioni di acidi grassi Omega 3. I polifenoli appartengono alla classe degli antiossidanti, contenuti in un’ampia varietà di cibi e bevande, tra cui il vino. Questi composti naturali, ritenuti capaci di ridurre i processi ossidativi causati dai radicali liberi, non erano stati ancora associati ai livelli di acidi grassi Omega 3 nel sangue mai prima d’ora. Se i precedenti studi dimostravano che ci fosse un’associazione significativa tra consumo di alcol e aumento delle concentrazioni di Omega 3 è solo a seguito di questa sperimentazione che si è stati in grado di separare gli effetti del vino da quelli della birra o di altri liquori. I risultati della ricerca sono sul numero di gennaio 2009 della rivista American Journal of Clinical Nutrition, organo ufficiale della Società americana della nutrizione, ma sono anche già disponibili in rete all’indirizzo www.ajcn.org. (Katia Giarrusso)

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Sangiovese si sposa con l’arte Sangiovese non significa solo Toscana! Il 22 e 23 febbraio, al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza, l’Altro Sangiovese, il Sangiovese di Romagna, mostrerà una realtà tutta da scoprire. L’evento, aperto la domenica anche al pubblico e il lunedì solo agli operatori, terrà a battesimo l’anteprima della nuova annata di questo straordinario vino, che nulla ha da invidiare ai più noti cugini toscani. Protagonisti saranno gli otto soci fondatori del Convito di Romagna, Tre Monti, Stefano Ferrucci, Fattoria Zerbina, Poderi Morini, Calonga, Drei Donà - La Palazza, San Patrignano e San Valentino, organizzatore dell’evento. Ospiti saranno poi una selezione di venti aziende del territorio e una rappresentanza di piccole maison di Champagne. Durante la due giorni di “Vini ad Arte” si potrà degustare l’intera produzione, incontrando le aziende. Sarà anche un’occasione per conoscere il territorio goloso e ospitale della Romagna e le sue bellezze artistiche. Nel pieno rispetto del nome “Vini ad Arte”, infatti, tutti i visitatori avranno la possibilità di visitare il

Museo Internazionale della Ceramica, una delle eccellenze del territorio. “Vini ad Arte” dimostrerà che, grazie anche al lavoro del Convito di Romagna, consorzio volontario composto dalle otto aziende di riferimento del territorio, oggi il Sangiovese di Romagna ha tutte le carte in regola per stare allo stesso tavolo delle grandi denominazioni. Alta qualità, regole rigide e un pizzico di umiltà sono le carte vincenti dell’area, che punta sempre più su questo vitigno tanto che, presto, il disciplinare di produzione ridurrà dal 15 al 5 % la quantità di altre uve nell’uvaggio delle riserve più importanti. La Romagna è capace di esprimere molti cru e non si tratta di una lotta con la vicina Toscana. In Romagna il Sangiovese affonda le proprie radici nelle argille calcaree che gli permettono di esprime un carattere elegante ed austero, abbinato a una nota fruttata immediata grazie all’esposizione ampia delle proprie colline, che partono dall’entroterra imolese per approfondirsi alle pendici più alte dell’Appennino Faentino e Forlivese fino a degradare verso l’area più marittima dei Colli riminesi. 111


Libri

SULLO SCAFFALE ARKEVINO: Guida alle strade del vino e dei sapori Autore: Iole Piscolla Editore: Ci.Vin Società Editrice dell’Associazione Nazionale Città del Vino Prezzo: 14,00 euro Il volume può vantare il non comune privilegio di un tributo scritto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Un saluto accorato che riconosce all’Associazione Nazionale Città del Vino l’impegno profuso nella valorizzazione della cultura enogastronomica, del territorio e della storia del nostro Paese, i nuovi e più potenti fattori di sviluppo economico, occupazionale e sociale. Il turista viaggiatore dai “sensi sviluppati”, dall’intelletto curioso e vivace, desideroso di conoscere nuove realtà olfattive e gustative, apprezzerà lo spirito dell’opera, dedicata a quanti vedono nei sensi le porte dell’intelletto. Il sentire sta in noi, ma non dipende da noi. Le strade, i sentieri, il “camminare” in generale acuiscono i nostri sensi, consegnandoci un patrimonio prezioso composto da mille sapori, aromi e colori, che affina e arricchisce il nostro spirito. Come il vino, anche le sue strade fungono da elemento conduttore di incontri, di scambi e servono in vario modo alla lettura e all’interpretazione del paesaggio. Soprattutto dei paesaggi del passato, espressione dell’influenza dell’attività umana. Le strade del vino rappresentano, insomma, un bene culturale comodo e sintetico. Dal Piemonte alla Puglia, dalle Marche al Molise, addentriamoci con entusiasmo tra le pagine di questa opera: un valido strumento per far crescere il comparto del vino parallelamente a quello della ricettività, della ristorazione, dei servizi volti alla corretta fruizione del territorio. Per un turismo rispettoso del territorio.

di Natalia Franchi

I VINI DI VERONELLI 2009 A cura di: Gigi Brozzoni, Daniel Thomases. (Per il Canton Ticino, Rocco Lettieri) Editore: Veronelli Prezzo: 31,00 euro La prima novità gradita di questa nuova edizione de “I vini di Veronelli 2009” è il volumetto - in omaggio per i lettori - “I vini di Veronelli per spendere bene”. Un agile opusculo, utile contributo agli oggettivi problemi economici che tutte le famiglie italiane si trovano a dover affrontare nei tempi più recenti. Spendere bene è un elenco degli oltre 12.000 vini, tra Italia e Canton Ticino che quest’anno hanno avuto il punteggio in centesimi da uno dei tre curatori della guida, ordinati per fasce di prezzo, dalla più economica fascia A alla più dispendiosa fascia H. Un reale contributo al consumatore, nella sua ricerca della maggior qualità al prezzo più vantaggioso. L’edizione 2009 della “bibbia” di Veronelli apre con una riflessione sull’affaire Brunello, che ha funestato la primavera 2008, lungi dall’essere ancora concluso: una nota dolente per quanti, tra i produttori, hanno inteso compiacere i gusti del consumatore americano, ingentilendo il carattere del Brunello con un po’ di cabernet, o merlot o syrah, in abbinata al richiesto in esclusiva sangiovese. Un’iniziativa arbitraria dalla quale i curatori del volume si dissociano, restando fautori delle attuali regole. Giunta alla ventunesima edizione, la guida presenta una struttura rodata . Anche per quest’anno, dunque, il volume è diviso in regioni, ordinate geograficamente da nord a sud e poi verso le isole maggiori; all’interno di ogni regione, i comuni sono ordinati alfabeticamente, come pure sono ordinate le aziende all’interno dello stesso volume. Per ogni azienda nessun dettaglio è tralasciato: oltre all’indirizzo completo, naturalmente, sono indicati il nome del proprietario, dell’enologo e dell’agronomo; l’elenco dei migliori vini prodotti (con segnalazione dei cru, dell’elevazione, delle annate consigliate, del numero di bottiglie prodotte); l’indicazione, suddivisa per fasce, dei relativi prezzi; la segnalazione di eventuali servizi aggiuntivi (vendita diretta, pernottamento, apertura nei week-end). Fanno il loro ingresso nella guida anche alcune aziende prive dei dati riferiti per le altre. Solitamente scoperte nelle ultime fasi della preparazione del libro o in degustazioni occasionali, meritano comunque di apparire nella guida, con la promessa di proporne il dettaglio nella prossima edizione. Vino al di là della crisi.

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RANE E RANOCCHI Memoria e cucina Autore: Graziano Pozzetto Editore: Panozzo Prezzo: 14,00 euro Strano destino, quello delle rane: stimolando poca simpatia e sospetto, nel corso dei secoli sono state viste come creature identificabili alla stregoneria, se non addirittura diaboliche. Ricordiamo che furono la seconda delle sette piaghe d’Egitto, spedite da Dio contro il Faraone, a nugoli e mucchi nelle case degli Egizi. Non la pensa così Graziano Pozzetto, che alle rane, alla loro simpatia, utilità e prelibatezza sulle tavole ha dedicato un affettuoso volume, tributo all’anfibio come risorsa comune in risposta a tante omologazioni e a tanto cibo banale. Provvidenziale risorsa alimentare, la rana era cibo identitario dell’appartenenza paesana e della condizione sociale di mondine, scariolanti, manovalanza bracciantile, privi di pollame e conigli, che nella rana (e nei suoi ossicini) trovavano il mezzo per contrastare la pellagra dovuta al monocibo polenta. Dal Quattrocento al Duemila, da Ferrara, Mantova, Bologna, fino a Pavia e Novara, all’autore non sono mancati riferimenti scolpiti nella tradizione alimentare e gastronomica, che hanno permeato le vite di generazioni. Una “passioncella”, quella per le rane, che di recente è tornata a sedurre i palati contemporanei, che non si sono arresi alla scomparsa – circa 20 anni fa – delle rane nostrane a causa di inquinamento e massicci trattamenti chimici e hanno ritrovato nei ranocchi di importazione un valido motivo di ritorno. Tutto, quando si parla di rane, resta controverso: dal loro gracidare, che appariva a Dante Alighieri come un dannato lamento, al loro pregio e giovamento nel nutrirsene, e persino i modi in cui le si preparano. Chi fritte, chi in brodo, chi nel riso e chi in pasticcio. Al lettore non resterà dunque che l’imbarazzo della scelta, in coscienza, tra le oltre 240 ricette riportate nel volume. Il fascino di un cibo antico.

LA VERITÀ SUL VINO Come, quando, perché il vino fa bene Autore: Attilio Giocosa e Mariangela Rondanelli Editore: Vino e Salute Prezzo: 12,00 euro

Mai come ora gli alcolici - e tra essi il vino - sono assurti agli onori della cronaca. E non parlo di cronaca rosa, ma di quella che faremmo volentieri a meno di conoscere. La cronaca degli incidenti, delle morti e dei danni provocati da un eccessivo uso di alcol. Gli autori di questo volume, forti della loro esperienza di medici, sono ben decisi a ristabilire la verità su una bevanda che oltre a contenere alcol è prima di tutto la spremuta di un frutto, del quale conserva gran parte dei principi attivi utili alla salute e presenti nell’uva. Occorre necessariamente distinguere tra abuso e corretto consumo. E ciò vale per moltissimi cibi. A nessuno verrebbe in mente di decretare “questo cibo è nocivo per la salute” in merito a burro e salumi per il fatto che sono ricchi in colesterolo e acidi grassi saturi. Bisogna partire dal “paradosso francese” per comprendere come il vino abbia oggettive capacità curative a livello cardiocircolatorio e neurologico. Alla fine degli anni ’70 apparvero su Lancet una delle più importanti riviste scientifiche internazionali) gli esiti di una ricerca sul campo durata anni in cui il popolo francese risultava essere assai meno esposto a decessi per malattie cardiovascolari di tipo ischemico rispetto agli altri europei. Ciò nonostante l’abituale consumo di cibi grassi, quali burro e formaggi. Analoghe evidenze caratterizzavano la popolazione italiana. Immaginate lo scalpore con cui il mondo scientifico apprese di questa innegabile virtù ascrivibile al consumo di vino rosso. Il pregio del volume è di avvicinare chiunque alle ancora poco note virtù del vino, chiarendo le caratteristiche di polifenoli, antociani, tannini e resveratrolo. Leggiamolo, dunque, perché non sia il luogo comune a guidare le nostre scelte. Il vino è uno dei migliori segni di civiltà nel mondo. Ernest Hemingway 113


Io non ci sto

Ma i vini di oggi sono davvero migliori di quelli d’antan? IL

MARGINE DI DUBBIO SI RIASSUME IN DUE PAROLE: PROSPETTIVA E AUTENTICITÀ

di Franco Ziliani on contate su di me nel coro trionfante di quelli che sostengono che non si sono mai prodotti vini buoni come oggi, che la tecnica, in vigna e in cantina, consente di ottenere vini la cui qualità è intrinsecamente superiore alla qualità dei vini prodotti venti, trenta, anche quaranta anni fa. E’ sicuramente vero che oggi è difficile trovare vini che presentino quei difetti, di carattere enologico, che era ancora possibile trovare negli anni Settanta, e che la tecnica ha contribuito a migliorare sensibilmente la qualità media delle produzioni vitivinicole di casa nostra. Selezioni clonali, gestioni attente della chioma, riduzione delle rese per ettaro, fermentazioni effettuate con il controllo della temperatura, automatizzazione delle procedure di cantina, utilizzo di legni più nuovi in luogo di botti esauste il cui unico valore era quello… affettivo, una procedura di lavoro che prevede normalmente la collaborazione dell’enologo e dell’agronomo, e poi analisi dei terreni, studi di zonazione, delle precipitazioni atmosferiche, delle curve di maturazione delle uve, della maturazione fenologica in particolare, sono un patrimonio tecnico acquisito, che ha indubbiamente contribuito in questi anni al miglioramento qualitativo di larga parte dei vini italiani. Eppure… Eppure c’è qualcosa che non torna, che non mi convince interamente in molti di questi vini e che non mi fa pensare, come molti invece sono propensi a credere, che siano in senso assoluto migliori, o possano essere migliori, domani, dei vini prodotti in epoche, gli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, quando larga parte di queste acquisizioni e conoscenze tecniche erano ancora lontane. Questo qualcosa, questo margine di dubbio, si riassume in due parole, prospettiva e autenticità. Tecnicamente ineccepibili dal punto di vista della pura tecnica enologica e agronomica ma vini, in

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tantissimi casi, talmente pensati e progettati per un’immediata fruibilità, per essere piacevoli (e un po’ “ruffiani”) già da giovani (anche se si tratta di “vin de garde”, vini da invecchiamento come Barolo, Barbaresco, Brunello di Montalcino), da finire con l’essere privi di prospettive, condannati a offrire il loro meglio, quando questo “meglio” è effettivamente presente e oggettivamente percepibile, da giovani. Questa loro trasformazione, un po’ innaturale, da fondisti in scattisti, in centometristi dalle fasce muscolari imponenti, non ha potuto non tradursi in una perdita di autenticità, perché per quanto le nuove caratteristiche acquisite possano essere giudicate interessanti e valide (quantomeno alla luce del fatto che c’è o c’è stato un pubblico, soprattutto internazionale, che ha cominciato ad apprezzarli proprio quando sono diventati così), sempre di caratteristiche sostanzialmente lontane da quelle originarie si tratta. E tali da indurre più di un osservatore a essere scettico sul tipo di evoluzione che anche queste produzioni enologiche italiane che dovrebbero essere i nostri fiori all’occhiello, i segni distintivi di una diversità enologica italiana, hanno conosciuto. So bene pertanto che bisogna essere ottimisti e pensare che questo novello stile finirà col perdere i suoi caratteri deteriori, una volta abbandonati estremismi e forzature per arrivare ad una naturalezza d’espressione che spesso manca e che occorre avere fiducia, perché è nella logica delle cose che mediante un vigneto migliore e più specializzato, uve migliori, una tecnica di cantina superiore si arrivino ad avere vini indiscutibilmente migliori. Ma poi, a “tradimento”, quando cerco di convincermi di queste evidenze, e di fugare i miei scetticismi, mi basta imbatterti in un vino d’antan, in un vino passato indenne attraverso le forche caudine di 20-30-40 anni e più trascorsi dall’epoca della vendemmia,

e di una lunga permanenza in cantina (con piccoli tappi che reggono bene le insidie del tempo) per vedere le mie perplessità riprendere vigore. E non beninteso, dei grandissimi vini da lunga gittata, un Monfortino riserva o un Barolo Monprivato, un Brunello di Montalcino di Biondi Santi o di Soldera, bensì vini che non ti saresti mai aspettato che potessero reggere così a lungo (e così bene) nel tempo, un incredibile Chianti di San Gimignano 1971, e magari, a più riprese, Chianti Rufina 1971, 1967 o ancora più vecchi dove accanto a quel Sangiovese al quale secondo taluni a Montalcino occorre andare oltre, per affiancarlo alle solite uve franciose, trovi nientemeno che una quota di uve a bacca bianca e di Canaiolo, oppure, vedi uno splendente Poggio Reale Conti Spalletti del 1981, oppure una Selezione Etichetta rossa nientemeno che del 1995, persino una quota di Malvasia Nera e di Colorino. E le botti usate sono le vecchie botti grandi di rovere di Slavonia e magari qualcuna anche di castagno (lo stesso castagno usato per l’invecchiamento di splendenti Sassella e Grumello tra fine anni Quaranta e anni Sessanta dell’antica casa Pelizzatti e poi, dal 1984, per i Valtellina Superiore targati Arpepe) non le costose, ma terribilmente livellatrici del gusto, barrique di rovere francese. Vini non solo splendidamente invecchiati e culturalmente interessanti, ma vini dotati ancora di una vivacità, di un’eleganza, di una piacevolezza, di una complessità, in altre parole di una “verità” da lasciare senza fiato. Vini figli di una viticoltura e di un’enologia empiriche, ma vini che vincono la sfida del tempo e riescono ancora oggi a emozionarci. Allora datemi pure del reazionario, del retrogrado, del passatista se a coloro che affermano con sicurezza che i vini di oggi sono, e saranno sempre più, superiori a quelli del passato senza esitazioni rispondo che “io non ci sto”!


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