DeVinis n. 86 Marzo-Aprile 2009

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Anno XVI - n. 86 - € 3,50 - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 - n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano

DEVinis LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE

Marzo / Aprile 2009

PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - ais@sommeliersonline.it


Editoriale

Un’occasione da non perdere di Terenzio Medri el 2015 Milano ospiterà l’esposizione universale incentrata sul tema: “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. L’evento sarà di grandissima portata. Secondo le stime verranno investiti 20 miliardi di euro in infrastrutture, e nei prossimi sei anni verranno creati settantamila nuovi posti di lavoro. Saranno 120 i Paesi presenti come espositori con settemila eventi organizzati e si calcolano trenta milioni di turisti in arrivo nel nostro Paese durante l’Expo. Per concludere il capitolo grandi numeri, le previsioni parlano di un aumento di fatturato pari a 44 miliardi di euro per gli imprenditori milanesi. Insomma, l’evento è unico e proprio per questa sua caratteristica richiede scelte e decisioni importanti. Diciamo subito che l’Ais ha già cominciato a lavorare: l’Expo ci tocca in prima persona, a cominciare dal titolo, “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. Si tratterà il tema dell’alimentazione in tutti i suoi aspetti: le tecnologie alimentari, l’educazione al cibo, la valorizzazione culturale, l’alimentazione come ricerca di qualità, salute, sicurezza e genuinità. Sono tutti temi che ci stanno da sempre a cuore e lo testimoniano le iniziative e i numerosi articoli pubblicati nel corso dei mesi su questa rivista. In ambito Expo i sommeliers saranno chiamati a comunicare ed esaltare eccellenza, qualità e valore dei prodotti enogastronomici e agroalimentari. Tutto questo avverrà non solo in ambito lombardo, ma in tutto il territorio nazionale. I turisti arriveranno a Milano per visitare l’Expo, ma poi si distribuiranno nelle altre regioni attratti dall’arte, dal paesaggio, dal mare, dai monti, dalle isole, dalla cucina e dal vino. Il sindaco di Milano e Commissario Expo Letizia Moratti sta firmando accordi di programma con numerosi comuni di tutta Italia; Maria Vittoria Brambilla, titolare del Dipartimento del Turismo, sta varando pacchetti turistici personalizzati e soprattutto integrati che offriranno anche la possibilità di scoprire le zone meno conosciute d’Italia. L’intento è quello di sviluppare le potenzialità e l'immagine dell'intero “sistema Italia”; nei programmi ci sono anche lo sviluppo dell'offerta di ospitalità turistica, come ad esempio gli alberghi, e il coordinamento per manifestazioni che promuovono l'agroalimentare, l’enogastronomia e la tutela del marchio Italia. Ciò significa che gli alberghi dovranno essere strutture funzionali anche dopo l’Expo e non cattedrali nel deserto da abbandonare una volta calato il sipario sulla grande kermesse, che treni ed aerei dovranno funzionare a meraviglia per rendere agevoli i trasferimenti in tutta la Penisola e nelle Isole, che la rete stradale e autostradale dovrà essere adatta a sostenere il grande impatto con milioni di autoveicoli. Noi sommeliers diremo la nostra nelle manifestazioni e nei convegni a cui verremo invitati, ma anche e soprattutto nelle strutture alberghiere e nei ristoranti. Sarà insomma un’occasione da non perdere.

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AIS Associazione Italiana Sommeliers Presidente | Terenzio Medri Vicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella Romani Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, Lorenzo Giuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.

La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene. Anno XVI marzo-aprile 2009 Associazione Italiana Sommeliers Editore Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, terenzio.medri@sommeliersonline.it Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, francesca.cantiani@sommeliersonline.it Per la pubblicità | Roberto Pizzi, pubblicita@sommeliersonline.it tel. 02/72095574 – ICE Srl – Corso Garibaldi, 16 – 20121 Milano Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - devinis@sommeliersonline.it Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it Hanno collaborato | Silvia Baratta, Luisa Barbieri, Roberto Bellini, Carla Bruni, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Elisa della Barba, Roberto Di Sanzo, Alessandro Franceschini, Natalia Franchi, Salvatore Giannella, Katia Giarrusso, Maddalena Giuffrida, Emanuele Lavizzari, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Antonello Maietta, Angelo Matteucci, Davide Oltolini, Morello Pecchioli, Roberto Piccinelli, Cesare Pillon, Valentina Pillot, Paolo Pirovano, Barbara Ronchi Della Rocca, Alessandra Rotondi, Lorenzo Simoncelli, Stefano Tura, Franco Ziliani. Fotografie | Archivio Ais, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Alessandro Franceschini, Maurizio Maestrelli, Angelo Matteucci, Morello Pecchioli Per l’articolo a firma di Salvatore Giannella il ritratto di Umberto Veronesi e l’illustrazione “Mondi e idee in un bicchiere” sono di Ro Marcenaro Per l’articolo a firma di Roberto Piccinelli foto di Francesca Sandoli Per l’articolo a firma di Elisa della Barba foto della stessa autrice Per gli articoli a firma di Alessandra Rotondi foto di Walter Karling e della stessa autrice Si ringrazia Urbano Sintoni per il ritratto fotografico al presidente Terenzio Medri (editoriale) Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001 Associato USPI Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA € 20,00 ESTERO € 35,00 Intestare ad “Associazione Italiana Sommeliers – viale Monza, 9 – 20125 Milano” specificando il motivo del versamento da effettuarsi secondo una delle tre seguenti modalità: - pagamento tramite c/c postale 000058623208 - bonifico su Banco Posta, codice IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX) - bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano, IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) Chiuso in redazione il 2-3-2009 Stampa | Grafiche Parole Nuove Srl - Brugherio Milano Copie di questo numero | 40.000

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Sommario

Marzo / Aprile 2009

10 LA

“Le Parole Maestre”: Umberto Veronesi

RICETTA DEL GRANDE ONCOLOGO MILANESE PER VIVERE A LUNGO

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L’universo giovane e il vino

ESPERIENZE “IN & OUT”

20 NEL

Facebook clicca sul “bere responsabile” FAMOSO SOCIAL NETWORK DI INTERNET LE VOCI FAVOREVOLI ALLA CULTURA DEL VINO

24 IL

Troppi inglesi alzano il gomito

GOVERNO BRITANNICO CORRE AI RIPARI CONTRO L’ABUSO DI ALCOL

26

Finalmente Vinitaly!

APPUNTAMENTO

36 IN

NEI LOCALI PIÙ ALLA MODA

VERONA

DAL

2

AL

6

APRILE

Che ne sarà delle denominazioni?

ARRIVO IN

40 ALLA

A

EUROPA

LA RIFORMA DELL’ORGANIZZAZIONE COMUNE DI MERCATO

I nostri vini sulla via della seta CONQUISTA DEI MERCATI PERCORSI DA

44

Italia-Francia, la sfida continua…

TURISMO:

52 MACCHÉ

MARCO POLO

LE DUE ETERNE RIVALI A CONFRONTO

Il bon ton nasce a casa nostra FRANCESE, IL GALATEO A TAVOLA PARLA ITALIANO!


Sommario

Marzo / Aprile 2009

56 LA

Vivace, brioso e deciso!

DEGUSTAZIONE DEL

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Alla conquista della Germania

ENOTRIA VINO,

84

32 60 72 74 76 78 80 112 114

ENOTECA ITALIANA IN TERRA TEUTONICA

Il castello dei gourmet

RISTORANTE ESCLUSIVO TRA LE MURA DI UNA FORTEZZA

94

All’interno

SCANSANO

ALLA SCOPERTA DELLE PRELIBATEZZE EMILIANE

68

IL

DI

I musei dei sapori di Parma

VIAGGIO

UN

MORELLINO

Alla tavola di Mosé

VINO E LA CUCINA NELLA TRADIZIONE EBRAICA

Cucina Fiere Olio

LA CHAMPIONS LEAGUE

ALLA MIA

DI

RIMINI

L’OLIVOTECA D’ITALIA,

Birra

ARTIGIANI

Distillati Acqua

SOTTO LA

IN OLANDA

IL

Sullo scaffale Io non ci sto!

IL DEBUTTO DI

DIVINO LOUNGE

UN’IDEA VINCENTE

LANTERNA

SI CURAVANO CON IL GIN

NANOTECNOLOGIE

Enopassione

DEGLI CHEF

E DEPURAZIONE

VINO DEL PITTORE

LE

È

NOVITÀ EDITORIALI

DEL PRODUTTOR (DI VINO) ANCORA IL FIN LA MERAVIGLIA?


Le parole maestre

MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE ECCO

LA RICETTA PER VIVERE A LUNGO:

A CONSIGLIARLA È IL PROFESSOR

UMBERTO VERONESI,

IL MEDICO IMPEGNATO DA OLTRE MEZZO SECOLO NELLA LOTTA CONTRO IL CANCRO

bicchiere di vino,

Un

poca carne e molta verdura di Salvatore Giannella

nni fa, quando portai a iscrivere mio figlio agli scout, fui sorpreso da quanto mi disse il capogruppo a proposito di una delle iniziative in programma. Si chiamava “Le Parole Maestre”, erano le frasi caratteristiche pronunciate dai personaggi chiave del Libro della Giungla, richiamate durante le attività per trasmettere ai bambini un particolare insegnamento. Queste frasi, mi fu spiegato, hanno un’importanza molto rilevante: dal momento che vengono proposte direttamente dai personaggi amati dai bambini, questi ultimi ne sono particolarmente attratti e affascinati, e (di conseguenza) le ricordano meglio. A quel lontano ricordo si ispira il titolo di questa nuova serie di interviste (questa volta “possibili”, dopo quelle “impossibili” a personaggi immaginari della storia che vi hanno accompagnato negli ultimi sette numeri). Sono dedicate ai pionieri e ai protagonisti della cultura, delle scienze, dello spettacolo, del giornalismo. Uomini e donne faro ai quali, in questi momenti di tempestoso cambiamento, occorre guardare con fiducia, per la saggia esperienza accumulata: mondi e idee in un bicchiere, come sintetizzato felicemente nel logo disegnato da Ro Marcenaro. Il primo dei nostri dialoghi è con il professor Umberto Veronesi, “medico di famiglia” di milioni di italiani (la sua rubrica su Oggi, dal 2001, è da sempre la più letta su quel settimanale), impegnato da oltre mezzo secolo nella sfida al cancro ma anche disposto a calarsi con umiltà d’animo e semplicità di parole nei piccoli malanni della nostra vita quotidiana.

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UMBERTO VERONESI, MEDICO, MINISTRO E SCRITTORE Umberto Veronesi, nato a Milano nel 1925 da una famiglia contadina, laureato in medicina nel 1952, sposato con una pediatra, sette figli, è chirurgo e ricercatore, ex ministro della Sanità e attualmente senatore Pd, uomo di scienza e di cultura, noto nel mondo per aver introdotto la chirurgia conservativa nel tumore al seno che risparmia alla donna l’asportazione totale della mammella. ■ Creatore del movimento Europa contro il cancro, ha dato grande impulso mondiale alla ricerca: è stato direttore scientifico dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano e, alla scadenza del mandato, ha fondato l’Istituto europeo di oncologia. ■ La sua sfida al cancro è raccontata nei libri Un male curabile, Colloqui con un medico, Da bambino avevo un sogno (Mondadori), L’ombra e la luce (Einaudi), e, da Sperling & Kupfer, Una carezza per guarire e Le donne vogliono sapere. Da segnalare anche Essere laico (Bompiani). ■ E’ vegetariano per motivi etici, ama la poesia, le moto e il cioccolato.

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Le parole maestre

MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE

GIANNELLA - “Il vino fa buon sangue”, dicevano i nostri nonni. O anche: "Un bicchiere al giorno toglie il medico di torno". Professor Veronesi, le ricerche degli scienziati con strumenti sofisticati nei laboratori moderni stanno dando loro ragione? VERONESI - “Sì, perché rispetto alle altre bevande alcoliche, il vino sembra avere un effetto protettivo contro i tumori. Questo effetto pare sia dovuto al resveratrolo, una molecola presente in dosi significative nel vino rosso, un po’ meno nei vini bianchi. Questa molecola, in studi di laboratorio, ha dimostrato la capacità di inibire i processi tumorali. Al momento comunque i dati scientifici sono stati ottenuti soltanto su modelli animali e non c’è evidenza diretta e conclusiva di un effetto protettivo sull’uomo. La ricerca, inoltre, sta verificando recenti dati sperimentali che dimostrerebbero questo: bere alcool in dosi moderate (corrispondenti a uno o al massimo due bicchieri di vino al giorno) riduce i rischi di infarto accrescendo la quantità di colesterolo buono (Hdl, sigla che indica High Density Lipoproteins, lipoproteine ad alta densità), ma non toccando, però, i livelli del colesterolo totale. Non si deve comunque dimenticare che, viceversa, un eccesso di consumo di alcool, che sia o meno sotto forma di vino rosso, è nefasta sia per quanto riguarda il rischio di malattie cardiovascolari che per lo sviluppo del cancro, senza contare che quest’abitudine provoca una serie di problemi sociali gravi”. GIANNELLA - A proposito di resveratrolo: ho sentito parlare di tanto propagandate pillole della lunga vita a base di questa molecola antiossidante contenuta nei semi dell’uva. A parte il fatto che io preferirei mangiare un bel grappolo a fine pasto, una curiosità: quanto valgono effettivamente queste “pillole di vino”? VERONESI - “Finora le pillole di resveratrolo non hanno prodotto gli effetti desiderati”. GIANNELLA - Ormai ci stiamo abituando alle stragi del sabato sera, sono cronaca quotidiana gli incidenti stradali causati dal cocktail assassino “alta velocità + livello alto di tasso alcolico”. E nella stragrande maggioranza a perdere la vita dopo una notte spensierata in discoteca sono giovani, maschi tra i 25 e i 29 anni. C’è chi fa ricorso alle droghe, ma molti bevono troppo, e l’età di chi alza il gomito si abbassa sempre di più. E non attecchisce da noi il trucco salvavita del mondo nordeuropeo dell’autista astemio o astemio solo per quella sera. Lei, come medico e come padre, che cosa direbbe a questi giovani per condurli a un “bere consapevole”? VERONESI - “Io credo che famiglia e società dovrebbero concentrare la loro attenzione e i loro sforzi sul perché i giovani non bevono per convivialità o per avere uno stimolo piacevole all’allegria, ma per perdere il contatto con la realtà. Poco importa, a loro giovani, se cadranno in futuro in una dipendenza. L’importante è fuggire da tutto, adesso e il più in fretta possibile. È chiaro che una legge più restrittiva sul consumo di alcool non può sanare questo disagio profondo. Per questo contro le dipendenze ci vogliono politiche educative (e quindi la scuola) centrate sullo sviluppo della cultura dello sport, del teatro, del cinema, dell’arte e di tutte quelle attività che creano nei ragazzi le condizioni naturali per una motivazione alla vita e alla creatività che contrastino l’uso di sostanze alcoliche e stupefacenti”. GIANNELLA - Lei da sempre raccomanda che la prevenzione e l’informazione sono le armi più potenti che abbiamo nelle nostre mani. Il suo idea-

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MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE

le è un cittadino “bene informato”, consapevole non solo del proprio diritto alla salute, ma anche del proprio ruolo di soggetto attivo nel “fare salute”, assumendo un’attenzione quotidiana sui fronti a rischio, specie quello alimentare. Se dovesse sintetizzare in poche righe il messaggio ai cittadini, quali parole o cifre userebbe? VERONESI - “La prevenzione e la tutela della salute è oggi più che mai responsabilità di ciascuno di noi, perché dipende proprio da gesti quotidiani, come alimentarsi. E la prima prevenzione per molte malattie avviene a tavola, perché l’alimentazione è il più grande determinante della salute, il caposaldo della prevenzione del cancro e delle malattie più gravi del mondo occidentale. Se poi consideriamo che il 30 per cento dei casi di cancro è legato all’alimentazione, mentre l’aria inquinata incide solo nel 3 per cento dei casi e i fattori ereditari nel 5 per cento, mangiare con buon senso non è affatto secondario. Dobbiamo recuperare quella coscienza che per millenni è stata alla base della medicina tradizionale e che oggi è andata perduta: la coscienza del valore terapeutico dell’alimentazione”. GIANNELLA - Un recupero molto difficile per chi, nelle metropoli, è costretto ogni giorno a rifocillarsi con un piatto veloce. E allora, che cosa mettere nel piatto? Elenchiamo i principali tra i cibi dannosi e, dall’altra parte, quelli virtuosi e protettivi. VERONESI - “Occorre moderare il consumo di carne (in particolare carni rosse bovine, ovine e suine e salumi) ed evitare gli alimenti ricchi di grassi di origine animale (burro, lardo, strutto, margarine, ecc.). Il grasso animale, infatti, veicola facilmente i residui di pesticidi, erbicidi, fungicidi che si usano in agricoltura, il fall-out radioattivo, il benzopirene che emana dalle città inquinate. Inoltre anche il modo di trattare la carne può essere importante: per esempio, se sottoposta a elevatissime temperature, può denaturarsi e produrre idrocarburi cancerogeni. Occorre poi, oltre a moderare il consumo di alcool, evitare i cibi molto salati, affumicati o in salamoia. Ma soprattutto occorre mangiare poco: quando ingeriamo una quantità eccessiva di calorie, sotto forma di proteine, grassi e zuccheri, queste vengono convertite in molecole di trigliceridi e accumulate nel tessuto adiposo come depositi di riserva. Ed è proprio nel grasso corporeo che più facilmente si accumulano le sostanze dannose presenti nell’ambiente. Da queste ci proteggono invece frutta e verdura: questi alimenti, poverissimi di grassi e ricchi di fibre, agevolando il transito del cibo ingerito riducono il tempo di contatto con la parete intestinale degli eventuali agenti tossici presenti nella dieta quotidiana. Inoltre frutta e verdura, meglio se di stagione, sono scrigni di preziose sostanze che consentono di neutralizzare gli agenti cancerogeni, di “diluirne” la formazione e di ridurre la proliferazione delle cellule malate. Faccio qualche esempio: una sostanza presente in una classe di vegetali, le crucifere (cioè cavolfiori, broccoli, cavoli, verze e cavolini di Bruxelles, ma anche rape, rapanelli e rucola) ha dimostrato un’evidente funzione protettiva anti-cancro. Alcuni vegetali, come la soia, sono ricchi di fitoestrogeni (sostanze simili agli ormoni femminili) e per questo possono svolgere un ruolo di regolazione di eventuali influenze ormonali sullo sviluppo dei tumori. Il licopene, che è il pigmento responsabile del colore rosso del pomodoro, svolge un’azione protettiva nei confronti del tumore della prostata. Le componenti principali degli agrumi, i polifenoli e i terpeni, sono stati identificati come molecole dotate della capacità di interferire con i processi responsabili dello svilup-

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Le parole maestre

MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE

po del cancro e di incrementare il potenziale antitumorale di altre sostanze fitochimiche presenti negli alimenti”. GIANNELLA - Insomma, meno mangio più vivo... VERONESI - “Non ci sono dubbi che un’alimentazione povera di carne e ricca di vegetali sia più adatta a mantenerci in salute. Frutta e verdura, oltre a contaminarci molto meno degli altri alimenti, contengono princìpi attivi (flavonoidi e polifenoli) che, combinati assieme, agiscono come potenti antiossidanti e proteggono l’organismo dai radicali liberi, aiutandolo a difendersi da processi infiammatori, allergici, virali e tumorali. Ripeto anche che la miglior difesa è comunque l’abitudine a mangiare poco. Noi mangiamo per conservare la vita e il nostro organismo preleva calorie dai depositi di grasso, che vengono prudentemente immagazzinati quando ci si nutre. La salute sta nel mantenere in equilibrio questo processo di entrate e uscite. Basta per esempio alzarsi da tavola sempre con un po’ di appetito”. GIANNELLA - Albert Einstein era vegetariano, e così tanti altri nomi illustri. Anche lei è un convinto assertore della bontà di un’alimentazione vegetariana e, nel suo ruolo di senatore, intende promuovere la cultura vegetariana in Italia. Su quali basi poggia questa sua solida convinzione? VERONESI - “Il mio intento è quello di promuovere la cultura vegetariana come una libera scelta ispirata dal rispetto per la vita e dalla solidarietà verso gli esseri viventi. Abbiamo raggiunto un livello di benessere per cui i nostri stili di vita vanno oltre la tutela della salute individuale, per avere un’influenza anche sull’inquinamento ambientale, sul rispetto degli animali e della loro sofferenza, sulla fame e le epidemie di alcune popolazioni, sulla scarsità di acqua e di energia. Per contrastare lo squilibrio assurdo per il quale decine di migliaia di esseri umani poveri muoiono ogni giorno per mancanza di cibo e allo stesso tempo quasi altrettanti muoiono per eccesso di cibo, bisogna agire non solo a livello politico ed economico mondiale, ma anche sul comportamento alimentare dei singoli e delle famiglie, per arrivare a condividere, oltre che una scienza, un’etica della nutrizione. Oggi abbiamo sufficienti dati per confermare che ridurre il consumo di carne nel mondo occidentale può contribuire a ridurre la scarsità di cibo e di acqua nei Paesi più poveri. Perché in realtà i prodotti agricoli sarebbero sufficienti a sfamare tutti se non fossero in gran parte utilizzati per alimentare gli animali da allevamento, perché i terreni destinati al pascolo potrebbero essere coltivati e dare più alimenti, perché per produrre un chilo di carne occorrono 20.000 litri d’acqua. Un graduale aumento della cultura del ‘mangiare vegetale’ appare quindi la condizione necessaria per porre fine a questa tragedia, oltre a essere un’ottima soluzione per mantenere in salute e ridurre i rischi di chi ha il problema opposto: un eccesso di cibo che può far ammalare fino a uccidere”. GIANNELLA - Lei, professor Veronesi, a 83 anni è l’immagine di una buona salute. A quali allenamenti sottopone il suo corpo e la sua mente? E’ vero che un suo grande sostegno è il cioccolato? Quando e quanto ne prende? E il caffè, con la sua teobromina, lo consiglia o no? VERONESI - “A causa dei ritmi del mio lavoro, ho sviluppato l’abitudine a saltare il pranzo: durante la giornata prendo un paio di caffè, che aiutano la concentrazione e attenuano la stanchezza, e alla sera mi concedo

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MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE

un pasto gradevole in compagnia. Questo regime mi permette di restare lucido e non appesantito fino a sera. È vero, sono golosissimo di cioccolato, anzi, direi che sono un vero e proprio estimatore, senza contare che il cioccolato fondente contiene quantità importanti di polifenoli in grado di prevenire le malattie croniche come il cancro e i disturbi cardiocircolatori. Mi impegno a tenere sempre in esercizio la mente con progetti, idee, ricerche, studi e anche, più banalmente, con i giochi di intelligenza. Inoltre cerco sempre di coltivare una grande curiosità, che anima le passioni intellettuali e spinge a non smettere mai di cercare nuovi stimoli. Per questo amo la lettura, la musica, il cinema, il teatro e l’arte. Il mio obiettivo è quello di mantenere nella quotidianità un equilibrio fra entusiasmo del cuore e scetticismo della ragione, senza mai cadere nel pessimismo”. GIANNELLA - Sta avanzando una scienza dal nome difficile, nutrigenomica. Di che si occupa? E che cosa cambierà? VERONESI - “La nutrigenomica è una nuova disciplina, nata dalla rivoluzione del Dna, che si occupa della relazione fra cibo e geni individuali, cioè di comprendere come ciascuno di noi reagisce agli alimenti che consumiamo e come questi influenzano la comparsa di determinate malattie. Si tratta in fondo di spiegare perché certi alimenti sono più dannosi per un individuo e innocui per altri, e viceversa perché altri proteggono la salute di qualcuno ma sono inefficaci per altri. Sappiamo che la risposta è nei geni, meglio, nella loro interazione con le sostanze che introduciamo nel nostro organismo. Negli ultimi anni abbiamo scoperto, per esempio, che alcuni geni coinvolti nella regolazione di processi vitali della cellula si attivano o si disattivano al variare delle calorie che assumiamo o alla presenza o meno di determinate sostanze nella nostra dieta. L’alimentazione sarebbe dunque uno dei fattori in grado di regolare “l’espressione del genoma”, cioè di influire su come alcuni fra i circa 35.000 geni che si trovano nel nostro Dna vengono attivati per fare in modo che la cellula esegua le funzioni vitali. L’obiettivo di questo complesso studio è arrivare a consigliare una dieta personalizzata per prevenire il tumore, ma anche utilizzare diete arricchite in determinate sostanze come nuovo approccio terapeutico”. GIANNELLA - La mortalità per cancro diminuisce dal ’94. Ma quando crede che quella malattia sarà definitivamente sradicata? VERONESI - “Questa è la domanda che più di frequente mi viene posta. Non è possibile naturalmente fornire un tempo preciso, una scadenza esatta, perché la ricerca scientifica, in biomedicina, così come nelle altre discipline, vive in primo luogo di metodo e di princìpi, ma anche di intuizioni, di casualità, di fughe in avanti e di battute d’arresto. Possiamo però offrire alla gente delle prospettive e degli orizzonti, sulla base dell’esperienza e della conoscenza disponibile, possiamo dare delle speranze o al contrario sfatare certe forme di illusione e possiamo aiutare a capire il percorso della ricerca scientifica. Detto questo, sì, penso che sconfiggeremo il cancro. È ragionevole pensare che fra una decina d’anni, forse meno, e con l’aiuto delle conoscenze sul Dna umano e le nuove tecnologie in grado di studiarlo, riusciremo ad avere un controllo più esteso della malattia tumorale. Al tempo stesso, però, possiamo fin d’ora iniziare ad adoperare le conoscenze che progressivamente acquisiamo per fini pratici: sulla base di conoscenze parziali, anche se approfondite, si può già ridurre il peso della malattia. Il cancro oggi sempre più spesso non è più ritenuto, come fino a pochi decenni fa, un ‘male oscuro’, una maledizione che colpisce alla cieca e che non si può nemmeno nominare, ma piuttosto una malattia su cui la ricerca sta ottenendo risultati sempre più importanti, una malattia che in molti casi si può curare e soprattutto si può prevenire. Ricordiamoci che il futuro della lotta al cancro è in mano non solo alla ricerca, ma anche alla politica di sanità pubblica e soprattutto ai cittadini, perché nella prevenzione conta soprattutto la responsabilità individuale”.

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In & Out

C’è chi dice AL

BERE DISSENNATO, AL VINO TRASCURATO

E ALLA QUALITÀ SOTTO I TACCHI.

STORIE DI TUTTI I GIORNI, ATTRAVERSO L’UNIVERSO ESEMPI POSITIVI E NEGATIVI, DA STUDIARE

no

GIOVANE.

di Roberto Piccinelli olgorato sulla via di Damasco. Non può che iniziare così la storia di Luca Olivan, attuale titolare delle Osterie Moderne di Campodarsego (Pd). Ex discotecaro nell’anima, ex proprietario di un negozio di abbigliamento trendy-dance in quel di Vicenza ed ex patron di una trasmissione Tv (Crazy Dance), totalmente votata al settore. Dopo i primi, movimentati anni di vita, ha improvvisamente svoltato. Ha ricominciato a studiare, per finire l’università. Ha dato vita ad un locale tutto suo. Ha iniziato ad appassionarsi di vini, spumanti e Champagne, fino a diventarne un paladino. Al punto di farsi promotore di eventi quali “I love Amarone”, “Opus One sfida Sassicaia, Ornellaia, Tignanello” e “L’Esprit du Champagne. The Party!“, cena a buffet e degustazione di 50 etichette. Certo, l’amore per la musica è rimasto e nel suo grande ed allegro risto-disco con giardino, musica mixata e live non mancano mai. Ma questo è un bene, perché riuscire a proporre divertimento, food & beverage di qualità, a prezzi calmierati è senz’altro da considerare un pregio non da poco. Per di più, in un momento in cui impazzano gli “show-window”, locali-vetrina dove non è tanto importante ciò che si mangia o beve, ma l’atmosfera che si respira. Forse non ci crederete, eppure tante, troppe volte abbiamo notato clienti andar via contenti da luoghi à la page, pur avendo mangiato male, poco e, perfino, essendo stati serviti peggio. Veder sborsare con il sorriso sulle labbra fino a 100 Euro, per cene che non varrebbero nemmeno la metà, permette però di prendere coscienza di un nuovo fenomeno in atto, la “vetrinizzazione della società”. La vetrina, al cui interno si collocano gli attori della rappresentazione, merci o persone che siano, ha spinto fino all’estrema conseguenza la sua funzione comunicativa di rappresentazione spettacolare, diventando peraltro protagonista di un fenomeno che affonda le sue radici addirittura a cavallo fra la prima e la seconda Rivoluzione Industriale. E, acquisendo un valore crescente mano a mano che andavano in porto i passaggi epocali dalle botteghe ai negozi, dalle gallerie commerciali ai grandi magazzini. Ora, tre secoli dopo, la vetrina deve essere interpreta-

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ta come messa in scena del prodotto, ma anche come il punto di partenza per un’estensione della sua area di competenza ad altre tipologie di luoghi, i locali pubblici. Basti pensare, oltretutto, a quante strutture hanno deciso di rendere totalmente trasparenti le pareti esterne, puntando a farsi ammirare da chi passa per la strada. Certo, il giochino funziona solo per chi è effettivamente capace di riempire gli spazi interni… Ma questa è tutta un’altra storia, di cui non tutti gli imprenditori paiono tener conto. In ogni caso, il fine della frequentazione di questi locali non è il solo guardare, ma anche e soprattutto l’essere visti. Eh sì, perché essere scorti da uno o più amici, pronti a testimoniare urbi et orbi, che si era al posto giusto nel momento giusto vale più di qualsiasi altra cosa al mondo. Perché giova alla propria immagine, termine sacro della società odierna. Per fortuna, ci sono discoteche à la page come La Cabala (Roma), Marina Club (Jesolo-Ve) e Le Mirage (Monte San Savino-Ar), che si sforzano di equilibrare gli elementi. Con un ristorante sottostante, supervisionato da Gualtiero Marchesi, la prima, con una sommelier ben


▲ Gli interni e il cortile del ''Maison & Jardin''

preparata, la seconda e con una carta dei vini molto basica, ma intrigante, la terza. Anche se ciò che ci fa davvero ben sperare in un vero sviluppo qualitativo sono le nuove tipologie del loisir. Tipo il Maison et Jardin di Monticello Brianza (Lc), deliziosa villa dell’Ottocento trasformata da una donna di gran gusto, Yasmina Bonaiti, in un magico conceptstore di matrice arredamentale, avente a cuore tanto il giardino quanto gli interni. Entrambi virati sul fascinoso tout court, ma soprattutto debitamente affiancati da un bar, Spoleto Cafè, ovviamente votato alle bontà umbre. E’ Mattia, figlio di Jasmine, ad occuparsene ed a puntare forte sul ciauscolo, per un verso e sui vini dell’Azienda Agricola Perticaia, per un altro. Ed è bello trovare un ragazzo giovane che crede in prodotti ben precisi, senza lasciarsi andare alla classica filosofia dello “spara nel mucchio, per non sbagliare”… I Sagrantino, Passito e Rosso targati Montefalco, ma anche l’Umbria Rosso ed il Trebbiano Spoletino assaggiati in occasione dell’ultimo aperitivo qualitativo con i fiori, etichettato “Fleurs du Charme”, sono risultati piacevoli al palato. Ed esaltati da un’atmosfera che ha strizzato l’occhio alla famosa raccolta poetica di Charles Baudelaire, per predicare l’esatto contrario... Quasi a volersi avvicinare all’“Innamoramento e Amore” di Francesco Alberoni, condito di un sano realismo. A proposito di giovani e di proposte decise, ci fa piacere elogiare anche Mirko Di Paoloantonio che, al ristorante Don Beta di Volterra (Pi), non solo fa scalpore con

carni di canguro, zebra, cammello e antilope, ma anche con la proposta dei vini locali, fino ad ora molto poco considerati. Ci sono voluti due professionisti come Carmen Vieytes e Gottfried E. Schmitt per lanciare prodotti by Tenuta Monte Rosola, quali “Corpo Notte”, “Canto della Civetta” e “Crescendo”… ■■■ RACCONTI DI VITA VISSUTA Di sorpresa in sorpresa, passiamo all’Etablì di Roma, wine bar di stampo piacevolmente salottiero, a due passi da piazza Navona, in grado di barcamenarsi fra sprazzi vintage e gusto provenzale, sgabelli ferrosi e soffitti a rastrelliera lignea, pavimenti listellati e lampadari simil-candelabri, spazi sfalsati e pubblico à la page, sedute anticate e bancone squadrato. Locale assolutamente gradevole, quindi. Eppure, colto in fallo. Passi il fatto che il Sirah ordinato all’ora dell’aperitivo sia stato servito in un bicchiere non idoneo ad un vino rosso e sponsorizzato in maniera non pertinente. Passi, perfino, che per 6 euro di spesa (decisamente troppo per l’etichetta servita e per il fatto che ci si sia accomodati al bancone, senza chiedere un tavolo) non sia prevista nemmeno una bruschetta, ma non è possibile che il barman mi piazzi accanto una ciotola di noccioline stile Anni Settanta. Avessi chiesto un “Americano”, almeno… Sulla stessa scia, incredibile a dirsi (deve essere un’epidemia!), anche il bar del Four Seasons Hotel di Milano. Dove qualità, atmosfera e relax sono al top. Senza 17


In & Out orde di cavallette all’assalto di buffet stomachevoli ed anti-igienici, ma anche bevande di scarsa qualità, tanto nei cocktail quanto nei vini. Ovvio, che io lo frequenti spesso, quindi. Ultimamente, ci sono stato con l’amica Veronica Maya, conduttrice di RaiUno, che non vedevo da un po’. E con la quale avevo piacere di chiacchierare del più e del meno, in santa pace. Ore 20.00: lei ordina una cioccolata (8,50 Euro) e, giustamente, le portano alcuni pasticcini di contorno. Io ordino una flute di Champagne Philipponnat Brut Royale Reserve, che reca seco un prezzo un tantino esagerato, 23,00 Euro. Basterà dire che il costo di un’intera bottiglia, in enoteca, oscilla fra i 33,00 ed i 50,00 euro, per capire l’antifona. Ma il punto non è questo, perché la cifra è correttamente riportata sulla carta, pur se non corredata dell’annata. Il fatto è che al sottoscritto hanno portato solo il classico ed anonimo trittico di noccioline, mandorle ed affini, senza il consueto marchio di fabbrica della casa, foglie di alloro ed olive ascolane fritte. Ideali, per accompagnare una cuvèe dotata, al palato, di un buon crescendo aromatico. Diamo per scontato che la colpevole dimenticanza sia stata cagionata dalla vista dei magnifici occhi chiari di Veronica, che devono senz’altro avere stregato il cameriere. Resta il fatto che io ho dovuto fare buon viso a cattiva sorte e bere a stomaco totalmente vuoto. Perché le noccioline, come già scritto, le lascio volentieri agli appassionati dell’“Americano”. In compenso, avviandoci verso l’uscita, il bravo pianista ha azzeccato, come per incanto, la canzone preferita dalla mia splendida amica, “As Time Goes By”, hit del film Casablanca… Sì, suonala ancora Sam, ma non far più portare le noccioline con lo Champagne. E se proprio non puoi, fai in modo che non si dimentichino del resto. Grazie. ■■■ IMPORTAZIONI SCONSIGLIATE Dalle situazioni da migliorare alle usanze da non copiare il passo è lungo e doloroso. Purtroppo. Perché il fatto che gruppi di studenti italiani abbiano importato dalla Spagna l’esecrabile Botellon, fino al punto di organizzarne un tour attraverso le città universitarie, è davvero una bestialità. Da combattere e condannare per la loro salute. Tanto per essere chiari, il cosiddetto “movimento del botellón” è originariamente rappresentato da gruppi di ragazzini che si aggirano per le strade, di notte, scolando fiumi di birra, acquistata a poco prezzo nei supermercati e miscelata in un grande contenitore

▲ Il Calimocho, vino rosso di livello scadente e cola. Da evitare!

di vetro con tutto quanto di liquido capiti a tiro. Gin, vodka, rhum, tequila e quant’altro vi venga in mente, ma sempre di qualità infima. L’alternativa alla birra è un beverone altrettanto micidiale chiamato, a seconda dei casi, calimocho (vino rosso di livello scadente e cola), kalitxurri (con vino bianco) o kaligorri (con rosé). In seguito, vista l’internazionalizzazione del fenomeno, è nata una terza via, definita “free for all”, in cui si mischia praticamente di tutto. Ebbene, io ho assaggiato queste misture malefiche per ben tre volte, a Madrid, Malta e Venezia: vi posso assicurare che solo ingurgitare un ditale di quella roba fa scattare l’impulso di vomitare. E non sto scherzando: pensate all’incrocio fra il vino al metanolo ed una grappa adulterata, per averne un’idea… La scelta di chi partecipa al botellon è quella di bere tanto, al punto di ubriacarsi in compagnia. Una delle forme di trasgressione del Nuovo Millennio. Ma se a molti di noi, nella vita, è capitato di dover smaltire una sbornia, che gusto c’è a “bere schifoso”? Più volte, mi sono fermato a parlare con quei ragazzi, che ripetevano “ il nostro è un divertimento a basso costo e un tentativo di conoscere tanta gente, all’aria aperta, senza costrizioni”. Più volte, ho suggerito loro un mare di altri modi di raggiungere quei traguardi, senza mettere a repentaglio la salute con quegli intrugli. Più volte, ho regalato loro una bottiglia di quello buono, stando attento che non la mischiassero con alcunché. Fatelo anche voi, ve ne prego, perché il problema è serio e dobbiamo tentarle tutte per fare in modo che non si propaghi ancor di più…

Gli indirizzi Don Beta Etablì Four Seasons La Cabala Le Mirage Maison et Jardin Marina Club Osterie Moderne

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Via Matteotti 39, Volterra (PI). Tel. 0588/86730 Vicolo delle Vacche 9, Roma . Tel. 06/6871499; 06/97616694 Via Gesù 6/8, Milano. Tel. 02/77088 Via dei Soldati 25/c, Roma. Tel. 06/68301192 Loc. Ponte Esse-Verteghe, Monte San Savino (AR). Tel. 0575/810215 Via Cadorna 18, Loc. Torrevilla, Monticello Brianza (LC) Tel. 039/9275106 Via Roma Destra 120/b, Lido di Jesolo (VE). Tel. 0421/370645 Via Bassa II 18, loc. S. Andrea, Campodarsego (PD). Tel. 049/5565236


Bere consapevole

La battaglia corre su di Carla Bruni

E’

DA

QUELLA VINTA

ALBERTO DEFILIPPI

CONTRO LA PROPOSTA DI ABBASSARE IL TASSO ALCOLEMICO CONSENTITO NEL SANGUE

DEGLI AUTOMOBILISTI:

DUECENTOMILA VOCI HANNO CONDOTTO UNA PROTESTA CIVILE IN NOME DELLA CULTURA E DEL BERE RESPONSABILE

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volte basta poco per farsi notare. Metti la tastiera di un computer, lo schermo acceso sulla pagina web di Facebook (il più famoso social network di internet), l’idea giusta e un argomento che da sempre divide l’opinione pubblica: l’abuso di alcool e il codice della strada. Così è bastato veramente poco ad Alberto Defilippi per diventare popolare tra i navigatori della rete e per farsi ascoltare dalla politica (bloccando addirittura l’iter di un disegno di legge ed una vera e propria ingiustizia). Il giovane, nato e cresciuto sulle colline dell’Oltrepò Pavese, ha creato un gruppo di discussione on-line (No al ritiro patente con tasso alcolico a 0,2%) capace di far ascoltare alle istituzioni la voce di 200.860 iscritti. Una voce che fin da subito si è detta contraria al disegno di legge che la Commissione Trasporti della Camera dei Deputati voleva inserire all’interno della finanziaria, ossia abbassare ulteriormente il tasso alcolico massimo consentito per chi si mette al volante. Quando si parla di giovani e alcool spesso si pensa ai terribili incidenti stradali. Il pensiero corre alla superficialità di questi ragazzi che,

A

annebbiati dal troppo bere e a volte dal micidiale mix di droghe con superalcolici, si comporta in maniera così irresponsabile da essere un pericolo per se stessi e per gli altri. Ed è stato proprio Defilippi che con grande forza ed abilità è riuscito in poco tempo a creare una vera e propria protesta di popolo, costruttiva e di grande impatto mediatico. L’obbiettivo? Difendere uno dei vanti del nostro Paese: il settore vitivinicolo. “Questa iniziativa - spiega Alberto Defilippi - è nata il 15 dicembre 2008, giorno in cui il Presidente della Commissione Trasporti della Camera dei Deputati, Mario Valducci, ha annunciato la proposta di legge, condivisa da Pd e Pdl, per abbassare il tasso alcolico massimo consentito nel sangue degli automobilisti a 0.2%, contro lo 0,5% attuale”. Alberto Defilippi, iscritto alla facoltà di Giurisprudenza con un diploma di perito agrario e una passione per la vite e il vino coltivata fin da bambino anche grazie al nonno che è imprenditore vitivinicolo, ha voluto unire con i suoi studi due passioni, quella per la politica e quella dell’amore per i vitigni, decidendo così di rimanere nel mondo agricolo col-


▲ Alberto Defilippi, promotore dell'iniziativa

laborando con alcune aziende della sua zona. “Da amante della cultura del buon ‘bicchiere’ - dice Defilippi - ho trovato assurda e non produttiva questa proposta di legge. Ho deciso di muovermi tempestivamente, visto che vengo da una zona che vanta un importante fatturato economico grazie proprio alla produzione di vinicola. Credo molto nella sicurezza stradale, ma non trovo giusto punire chi ha bevuto due bicchieri di vino o una birra ed è in perfette condizioni per guidare. Sono convinto continua il ragazzo - come dicono alcuni esperti che bisognerebbe fare un test di riflessi più che di tasso alcolico”. Citiamo l’intervista alla Stampa, ripresa anche dal gruppo “No al ritiro patente con tasso alcolico a 0.2%”, del dottore Augusto Consoli: “Ogni organismo ha la sua risposta all’assunzione dell’alcool. Dipende dal metabolismo di ciascuno, oltre che dal tempo che passa

dall’assunzione al controllo della polizia. In teoria basta un residuo di vino in bocca, quello dell’ultimo sorso prima di salutare gli amici al ristorante, per portare l’etilometro oltre il limite concesso prima del ritiro della patente. Un esame di riflessi, invece, fornirebbe un’analisi più completa e complessa: alcool, oppiacei ed altro”. Sempre secondo Alberto Defilippi: “Il ‘proibizionismo’ può portare a un pericoloso effetto boomerang, molti giovani potrebbero essere quasi legittimati a esagerare, questo è il modo per non responsabilizzare i ragazzi, ma per fare pura repressione. Bisognerebbe educarli al ‘bere responsabile’ più che punirli e basta, spesso sono quei miscugli nei cocktail che non fanno bene, meglio insegnare a sorseggiare del ‘buon vino’, che oltre ad avere effetti positivi sulla salute bevuto in piccole quantità, è uno dei valori aggiunti della nostra cultura enogastronomia, che con le sue tipicità è il fiore all’occhiello dell’Italia”. E poi ancora: “Pensiamo se entrasse in vigore una legge di questo tipo, quali problemi potrebbe creare a categorie come i ristoranti, le cantine o ai sommeliers, che a causa del loro lavoro potrebbero essere i principali bersagli al ritiro della patente. E’ per questa mia passione che va dal vino alla politica, alla società che ho pensato di usare uno strumento così giovane e di massa come internet, in particolare Facebook, per creare questo gruppo di discussione”. In pochissimi giorni sono stati raggiunti i 60.000 membri e quindi “abbiamo iniziato a farci notare anche dal mondo ‘irraggiungibile’ della politica nazionale”. “Grazie a questa mobilitazione ‘di massa’ - continua Defilippi - e all’aiuto di alcuni sindacati e del deputato della Lega Nord Matteo Salvini, che fin da subito ha appoggiato la nostra causa interessandosene direttamente come componente della Commissione Trasporti della Camera dei Deputati, è stato possibile un mio incontro con l’onorevole Valducci. Fortunatamente ha compreso i riflessi negativi che una simile norma proibizionista avrebbe avuto su zone che vivono di vitivinicoltura. Questo era il mio obiettivo, sensibilizzare 21


Bere consapevole

l’opinione pubblica e allontanare i pericoli del bieco proibizionismo”. Ma non è tutto. La battaglia contro lo 0,2% (così è stata ribattezzata dai 200 mila iscritti di Facebook) è stata vinta da un giovane che evidentemente ama “bere responsabilmente”. Continua Defilippi: “Ammetto che per me è stata una grande soddisfazione personale, in pochissimo tempo dall’anonimato totale, politici e carta stampata hanno iniziato a contattarmi, ancora adesso faccio fatica a crederci. Nel mio gruppo di discussione abbiamo aperto vari forum gestiti da giovani spesso di età intorno ai 30, in cui si discute in maniera propositiva dell’argomento. Qualcuno scrive che lo Stato sta diventando intollerante, ma non serve, i controlli andrebbero fatti soprattutto per chi frequenta luoghi come le discoteche; c’è chi propone anche il ritiro del libretto di lavoro agli ‘ubriachi’, chi pensa che alla fine chi ci va di mezzo è solo ‘lo sfortunato di turno’ uscito con gli amici e non colui che a fine serata travolge innocenti sulle strade. Molti componenti del gruppo si lamentano dalla scarsa informazione e dei servizi che vanno in onda nei nostri Tg, considerati da molti strumenta22

lizzati sia dalla politica sia da molte associazioni”. Mille idee messe in rete. Ognuno lancia proposte per risolvere il problema dello “stato di ebbrezza” alla guida: interessante è quella di organizzare una rete di trasporti pubblici notturni che aiutino i ragazzi che “bevono” a tornare a casa sani e salvi. C’è chi vorrebbe l’aumento dei taxi di notte e soprattutto tariffe più basse come in tanti Paesi del mondo. Ad esempio Riccardo scrive: “In Italia, i taxi sono pochi e si fanno pagare come un Eurostar, forse era meglio liberalizzarli”. Opinioni vengono anche da italiani all’estero che raccontano l’esperienza di Paesi dove hanno provato il proibizionismo e poi, inevitabilmente, sono tornati sui loro passi e al vecchio limite di 0.5%. Un forum interessante che, tra commenti in bacheca e idee lanciate in chat, mette in evidenza un mondo di giovani per nulla superficiali: oltre a tenere alla propria vita e a quella degli altri si dimostrano interessati alle problematiche sociali. “Per il futuro - dice Defilippi - penso sia importante mantenere un ‘coordinamento’ attraverso il mio gruppo, per prevenire e cercare di met-


tere un freno a spinte proibizioniste che potrebbero ripresentarsi nei prossimi anni. Gente di età, cultura, professionalità e sensibilità diverse hanno capito l’importanza di questa ‘battaglia’ ed è un fatto nuovo nel nostro Paese. Bisognerebbe promuovere campagne per bere ‘bene’ e di qualità, non come metodo per ‘sballarsi’ il sabato sera, ma come fatto di cultura, di promozione di prodotti che rendono il nostro Paese unico e inimitabile”. Come dire che bisogna trasmettere alle nuove generazioni l’importanza di questi valori, per evitare la dispersione del tradizionale patrimonio enogastronomico, cercando di evitare di dilapidare una cultura che ci appartiene senza che nessuno “gridi allo scandalo”. Conclude Defilippi: “Grazie anche a questa nostra iniziativa, la Commissione ha deciso di non abbassare il tasso alcolico allo 0.2%. Tranne che per i giovanissimi neopatentati che dai 18 ai 21 anni non potranno guidare dopo aver bevuto: per loro il tasso alcolico massimo consentito nel sangue deve essere zero. Insomma mi aspetta un’altra lotta!”. Naturalmente on-line.


Alcol e giovani

Gran Bretagna

La

corre ai ripari

di Stefano Tura *

NEL

OGNI ANNO REGNO UNITO

PIÙ DI DIECIMILA ADOLESCENTI VENGONO RICOVERATI IN OSPEDALE

PER ABUSO DI ALCOOL: IL GOVERNO

BROWN

STA CERCANDO DI PORRE UN FRENO AL FENOMENO CHE HA COSTI SOCIALI ELEVATISSIMI

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a Gran Bretagna ha un problema serio. Beve troppo e, come tutti coloro che abusano di alcool, non lo vuole ammettere. Chiunque abbia trascorso una serata a Londra o in un’altra città del Regno Unito, si sarà reso conto dell’enorme quantità di bevande alcoliche consumate dagli inglesi. Nei pub, nei club o semplicemente per strada. Il fattore preoccupante è che la maggior parte di essi è costituita da giovani e addirittura adolescenti. Secondo le stime più recenti, in Gran Bretagna i giovanissimi ricoverati in ospedale ogni anno per problemi legati all’abuso di alcool sono più di diecimila. Gli ultimi dati ci dicono che il 20% degli undicenni ha già sperimentato l’alcool, percentuale che sale al 54% per i tredicenni e all’81% per ragazzi di quindici anni. In totale sono più di un milione e mezzo i teenager britannici che bevono e la dose di alcool assunta pro-capite è aumentata, negli ultimi 17 anni, di più del 60%. Se chiedete ad un ragazzo inglese di 15 anni il motivo per il quale beve tanto alcool, vi risponderà che la considera una cosa normale, una fatto naturale. Per questo non c’è da meravigliarsi se in alcune zone dell’isola britannica, in particolare nelle Midlands, il limite di età tra coloro che consumano alcool è sceso fino ai 10 anni scatenando una situazione di emergenza sociale. E’ una questione di mancanza di cultura, di ignoranza sociale e di declino istituzionale. Per troppo tempo diversi governi hanno ignorato il problema. Hanno cercato di mantenere buoni rapporti con le grandi compagnie del settore, le

L


▲ Gordon Brown. Il Primo Ministro britannico sta attuando una politica per ridurre l'abuso di alcool

distillerie e i pub, offrendo loro una regolamentazione leggera. In cambio, si richiedeva un impegno per un minimo di auto-regolamentazione e responsabilità. Che non è mai arrivato. Oggi il governo Brown sembra aver capito. Il Ministero della Salute ha calcolato i costi economici del fenomeno alcool ed i suoi abusi: fra i 17 ed i 25 miliardi di sterline all'anno. Un'enormità. Ecco quindi che l’esecutivo ha cambiato strategia ed ha iniziato ad urlare a gran voce che “l'alcool (che in molti posti viene pubblicizzato e venduto in maniera irresponsabile) arreca un danno alla salute dei cittadini molto maggiore di quanto si possa pensare". Di recente il governo britannico ha lanciato delle linee guida dirette ai genitori, agli educatori e ai ragazzi per tentare di porre un freno ad un fenomeno che spesso ha dei risvolti tragici. L’intento è quello di far capire ai cittadini che un’infanzia senza alcool è la scelta più sana per un bambino e responsabilizzare le famiglie affinché neghino l’accesso all’alcool ai minori. Cinque i punti fondamentali della nuova strategia governativa: ■ impedire ai giovani l’accesso all’alcool in famiglia, almeno fino all’età di 15 anni. ■ permettere l’assunzione di alcool dai 15 ai 17 anni solo dietro stretto controllo dei genitori o degli educatori e limitarne l’uso solo ad eventi speciali come feste o compleanni. ■ mettere tutti a conoscenza degli effetti negativi dell’alcool sull’organismo dell’individuo sottolineando come, in età precoce, possa pregiudicare il corretto sviluppo di organi fondamentali come cervello e fegato. ■ istruire famiglie e genitori sulle risposte da dare alle eventuale richieste di alcool da parte dei figli. ■ favorire il ruolo di mediazione della famiglia tra istituzioni e giovani nella comprensione dei principi della cultura britannica riguardo al consumo di alcolici, mettendone in risalto i pro e i contro. Ciò che però risulta difficile modificare è il concetto britannico del “drinking”. Se nel resto d’Europa chi si ubriaca regolarmente viene guardato con diffidenza e commiserazione, in Gran Bretagna la sbronza, a qualunque età, è vista come qualcosa di “cool”. Nascite, matrimoni, funerali, venerdì e sabato sera, domenica pomeriggio. Qualunque occasione e qualunque scusa sono buone per andare oltre il limite. La cronaca è piena di esempi negativi. Il 39% dei reati commessi in Gran Bretagna da giovani di età tra gli 11 e i 17 anni, è da ascrivere ad individui che abusano di alcool. Per correre ai ripari il ministero dell’interno ha varato da meno di un anno una serie di norme che vanno dall’ introduzione di un codice obbligatorio per i commercianti, riguardante la vendita di alcool agli under 18, a quella di un nuovo reato sempre per gli under 18 trovati ripetutamente in possesso di alcool in un posto pubblico, all’aumento della pena pecuniaria per un adolescente che consumi bevande alcoliche in un luogo vietato (come la metropolitana), fino alla confisca delle bevande alcoliche possedute dai teenager, insieme al dovere della polizia di riaccompagnare a casa il ragazzo nel caso in cui questo sia al di sotto dei 16 anni. Resta inoltre vietato vendere bevande alcoliche ai ragazzi al di sotto dei 18 anni ma secondo la nuova legge la sanzione pecuniaria fino a 10.000 sterline, scatterà per il negoziante dopo la seconda volta consecutiva in cui è provata la vendita. E se il reato viene reiterato c’è la sospensione della licenza per tre mesi. i costi economici e sociali del problema sono ormai sotto gli occhi di tutti. Il governo Brown sembra aver finalmente capito che la Gran Bretagna deve ri-bilanciare la propria relazione speciale con l’alcool. Sapere bere prodotti di qualità e nella giusta misura è un dovere che i sudditi di Sua Maestà devono imparare. * Corrispondente Rai da Londra 25


Vinitaly

Vinitaly, tutto il mondo che amiamo APPUNTAMENTO

A

VERONA,

DAL

2

AL

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APRILE,

CON IL SALONE DEL VINO E DEI DISTILLATI

26


AIS Associazione Italiana Sommeliers

L’

AIS Associazione Italiana Sommeliers

Vi aspetta al

PADIGLIONE 7 – STAND 10

di Roberto Di Sanzo l mondo che amiamo”. E’ questo il titolo della quarantatreesima edizione di “Vinitaly”, il salone internazionale del vino e dei distillati in programma a Verona, dal 2 al 6 aprile. E’ ormai tutto pronto per la rassegna veneta, punto di riferimento internazionale per buyers, produttori, enologi, ma anche semplici appassionati e amanti – appunto – del mondo che ruota attorno al vino e non solo. “Il vino prima di tutto – come è sottolineato nel sito ufficiale della manifestazione (www.vinitaly.com) – ma anche la qualità, il territorio, l’ambiente e la sua tutela, gli uomini e le loro sfide, i borghi e la loro storia…”. Una manifestazione a 360 gradi, dunque, dove le occasioni di business si moltiplicano anno dopo anno anche grazie alla lievitazione del numero degli espositori e delle aziende estere che decidono di partecipare alla fiera. Bastano i numeri per comprendere meglio la portata dell’evento: nel 2008 sono stati oltre 57 mila gli ope-

“I

ratori, il 42% dei quali stranieri. Oltre 20 mila i buyers presenti, su 43 mila presenze estere totali da 110 Paesi (con un incremento del 25% degli operatori stranieri). Arrivi massicci dai cinque continenti, insomma, con una partecipazione boom di cinesi e in generale di asiatici. Russia e nazioni dell’Est europeo in primo piano, ma anche dagli Stati Uniti, nonostante la riflessione del mercato americano, sono aumentati i visitatori. Un’edizione, quella del 2008, davvero positiva, che si è chiusa “con oltre 150 mila operatori complessivi – come ha sottolineato Luigi Castelletti, presidente di Veronafiere - dei quali più di 45.000 esteri, che rappresentano il 30% circa del totale, in aumento di quasi il 15% rispetto all’edizione del 2007”. Si prospetta, quindi, una rassegna ancora più importante e sempre più internazionale per il 2009. E proprio per andare incontro alle richieste degli espositori, quest’anno gli spazi sono stati ottimizzati e ulterior27


Vinitaly mente ampliati, grazie anche al completo rifacimento del padiglione 1, dotato di 2.000 metri quadrati di pannelli solari, che sarà inaugurato proprio in occasione dell’apertura della rassegna. Ad ogni edizione, Vinitaly potenzia poi la sinergia con Sol, Agrifood, il Grappa Tasting ed Enolitech, che allargano la prospettiva del settore proponendo vino e olio extravergine di oliva abbinati a prodotti di qualità della gastronomia, distillati di alta gamma. Gli strumenti a disposizione di Vintaly sono innumerevoli, a cominciare dalla rete di delegati di Veronafiere

nei più importanti Paesi del mondo. Altro fiore all’occhiello, il “Vinitaly World Tour”, da dieci anni attivo, percorso che sta fortemente aiutando l’internazionalizzazione delle aziende e del sistema agroalimentare Made in Italy. La prima tappa di un tour che toccherà anche la Russia, la Cina ed il Giappone è stata in Florida, negli Stati Uniti. A febbraio le aziende e i buyers italiani hanno presentato i loro prodotti prima a Miami e poi a Palm Beach. Appuntamento davvero importante e molto riuscito, con oltre mille presenze complessive tra operatori del settore e wine lovers al full day del 9 al Bitlmore

“Il Vinitaly è la risposta alla crisi” Ecco il parere di Elena Amadini, Brand Manager di Vinitaly, con cui abbiamo scambiato alcune battute

▲ Elena Amadini

La crisi che sta toccando tutti i settori dell’economia sembra, almeno per il momento, risparmiare il mondo del vino. Come si presenta l’edizione di quest’anno del Vinitaly? Malgrado la crisi economica stia toccando da vicino tutti i settori dell’economia italiana, le aziende vitivinicole hanno risposto in maniera molto positiva e attualmente abbiamo una lista d’attesa che non riusciremo a soddisfare. Penso che ciò dipenda dal fatto che la reale difficoltà del mercato abbia imposto alle aziende di selezionare ulteriormente gli appuntamenti cui partecipare e Vinitaly, essendo diventata ormai fiera di riferimento nel panorama mondiale, ha avuto sicuramente una posizione privilegiata: non è un caso che molti espositori ad esempio, dovendo scegliere tra ProWein e Vinitaly abbiano optato per quest’ultima. D’altra parte anche l’altro parametro di valutazione del successo della nostra fiera ci rende molto orgogliosi: l’accredito degli operatori esteri quest’anno ha avuto un incremento del 20%. Qualcosa di particolare da segnalare? Molte le novità di quest’anno a partire dal quartiere: la razionalizzazione degli spazi espositivi ha prodotto una maggiore evidenza

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delle regionalità nei singoli padiglioni e la riorganizzazione di gallerie e viali ha permesso di realizzare un layout bello e funzionale. Inoltre la costruzione del nuovo Padiglione 1, ospitante la Regione Emilia Romagna ha portato a un ulteriore ammodernamento del quartiere, in un ottica di ottimizzazione dei consumi energetici attraverso un sistema di pannelli solari. Alle novità strutturali si affianca un significativo potenziamento di tutte le iniziative commerciali, a partire dal Buyers Club, atte a favorire il più possibile i nostri espositori. Come valutare il successo di Vinitaly World Tour 2008 in vista dell’evento di Verona? Il successo raccolto in tutte le tappe dal Vinitaly World Tour ci conferma la validità dell’azione di supporto alle piccole-medie aziende che vogliano approcciare i mercati esteri, diversi da nazione a nazione. Il recente successo della tappa americana conferma che dobbiamo continuare a essere presenti per proseguire nell’opera di formazione, educazione al consumo, promozione culturale e di business, in modo da dare il nostro contributo al consolidamento e all’incremento della quota di mercato dei vini italiani. (E.L.)


Hotel, ai due eventi enogastronomici del 10 presso il ristorante “Gaia” con lo chef pluristellato Gaetano Ascione e l’11 a Palm Beach. Un programma ricco e che ha consolidato ancora di più il legame tra Italia e Stati Uniti in questo settore strategico: numerosi sono stati i workshop per mettere in contatto le aziende con i principali importatori, esportatori e distributori del territorio (oltre 1.500 a Miami), retailer e ristoratori locali. Davvero apprezzate le degustazioni guidate e i seminari dedicati agli operatori sul “ruolo del vino italiano nell’industria della ristorazione in Florida” e su “come scegliere le strategie giuste in tempo di crisi”. Un successo probabilmente previsto dagli organizzatori, visto che la Florida rappresenta l’8% dell’intero mercato vinicolo targato Usa, subito dopo – in un’ipotetica classifica – la California, con un tasso di crescita delle vendite vertiginoso, addirittura del 60% in dieci anni. A Verona continueranno le iniziative che negli anni passati hanno riscosso il consenso del pubblico. Come “Taste Italy”, proposta per la prima volta nel 2007, rivolta agli operatori stranieri con degustazione assistita. La conoscenza dei vini e la scheda aziendale permette ai buyers di contattare direttamente i produttori presso i loro stand nei giorni della manifestazione. E poi ecco “Tasting Ex...Press”, una carrellata sulle migliori produzioni mondiali presentate dalle più autorevoli testate internazionali di settore. Sono invece i produttori a presentarsi direttamente ai giornalisti in “Taste and Dream”, dedicato alle verticali d’eccellenza. Ma non è finita qui: con “Trendy Oggi, Big domain”, spazio completamente riservato ai vini e alle aziende emergenti, una scelta ragionata in base al miglior rapporto tra qualità e prezzo. Festeggiamenti previsti il 4 aprile, quando sono in programma le celebrazioni per i 150 anni dell’impegno vinicolo di Gaja, una lunga e prestigiosa tradizione iniziata con la nascita della cantina nel 1859, a Barbaresco. “Non c’è modo migliore per festeggiare questa ricorrenza che a Vinitaly”, sottolinea Angelo Gaja. Ed ecco quindi la degustazione guidata da Jancis Robinson, nota wine writer britannica. Il ricavato della partecipazione all’evento con la Robinson, che si annuncia eccezionale, sarà devoluto in beneficenza. Tra le manifestazioni collaterali particolarmente attese dagli appassionati non professionisti, “Vinitaly for you” è quella più importante, con un suo spazio ben definito all’interno di Vinitaly, ma “fuori” dalla mani-

festazione (dedicata agli operatori specializzati), in quanto si svolge nel palazzo della Gran Guardia, nel centro storico di Verona. Seminari, dibattiti e momenti di approfondimento saranno dedicati per analizzare le numerose ricerche che verranno presentate proprio nel corso della manifestazione. Un esempio? Le ultime tendenze del turismo enogastronomico in Italia, pubblicate nel Rapporto annuale “Osservatorio sul turismo del vino” delle Città del Vino, realizzato dal Censis Servizi Spa e presentato a Bit 2009, la Borsa Internazionale del Turismo. Tra i dati, emerge un elemento: la crescita del numero degli eno-appassionati – dai 4,5 ai 6 milioni – in giro per l’Italia, che scelgono di impiegare il tempo libero per viaggiare il più possibile, alla ricerca di emozioni nuove e slegate dal tradizionale tour verso il mare o la montagna, ma finalizzato all’insegna del cosiddetto “wine&food”. Un trend che naturalmente fa felici gli operatori del settore, con un volume di affari che si attesta sui 2,5 miliardi di euro.

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Vinitaly

DEGUSTAZIONI VINITALY 2009 L’Ais organizza una serie di degustazioni guidate che si svolgeranno durante la prossima edizione di Vinitaly. Gli eventi si terranno nella Sala D – 1° piano, padiglione 9. La quota di partecipazione è di ! 18 da versare presso lo Stand Ais – D10 Padiglione 7. Le prenotazioni saranno accettate fino a disponibilità dei posti. Ricordiamo che lunedì 6 aprile i soci Ais in regola con la quota associativa 2009 entreranno gratuitamente in fiera dalla Porta San Zeno fino alle 12.30 (presentare la tessera associativa).

■■■ Giovedì 2 aprile

Per informazioni ed iscrizioni samuele@sommeliersonline.it

■■■ Sabato 4 aprile

Dieci vini che hanno cambiato la storia presentati dai campioni dell’Ais Ore 14 – Sala Argento – Seminterrato Palaexpo I vini bianchi del Friuli Venezia Giulia, innovativi ed estremi, interpretati dai piccoli grandi vignerons Ore 15 – Sala D – 1° piano padiglione 9

■■■ Venerdì 3 aprile I Supertuscans. Il rilancio della Toscana nella vitivinicoltura nazionale e internazionale Ore 12 – Sala D – 1° piano padiglione 9 I vini passiti delle Isole: dolci, sensuali, morbidi e dal carattere minerale Ore 15 – Sala D – 1° piano padiglione 9

Il fascino e la personalità delle bollicine italiane, Franciacorta, Trento e Oltrepò Pavese Ore 11 – Sala D – 1° piano padiglione 9 Presentazione del Premio Internazionale “Innovazione nella Professione” Con l’occasione si degusterà Cartizze Vigna “La Rivetta” abbinato a Culatello di Zibello Ore 12 – Padiglione 6 Stand Villa Sandi E4 Amarone della Valpolicella: vino dal nerbo solido, ricco di estratto, alcolico, rotondo e da lunga evoluzione. Un gran cru per eccellenza Ore 14 – Sala D – 1° piano padiglione 9

■■■ Domenica 5 Aprile Lo Champagne: un vino dalle mille sfaccettature, intrigante, esuberante, maestoso, complice, mai tranquillo! Ore 11 – Sala D – 1° piano padiglione 9 Il Bordolese: vini eleganti ricchi di storia, uno stile inconfondibile nel mondo Ore 14 – Sala D – 1° piano padiglione 9 Piemonte, regione di grandi rossi, dove il vitigno Nebbiolo nei diversificati terroirs esprime potenza, eleganza e longevità Ore 17 – Sala D – 1° piano padiglione 9

■■■ Lunedì 6 aprile Esordi: nuovi vini all’orizzonte Dalle ore 11 in Sala Argento – Seminterrato Palaexpo

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La rassegna veronese è anche interattività e high technology. “L’Italia del Vinitaly” è lo spazio che Vinitaly dedica su web alle Regioni, per poter presentare con largo anticipo tutti gli eventi in programma e per tutto il periodo successivo anche alla fiera i propri territori e le produzioni oleicole e vitivinicole ad essi legati, le attività promozionali e anche le iniziative che si svolgono all’interno dei singoli stand durante Vinitaly. Si tratta di una finestra privilegiata che apre una panoramica sulle molteplici ricchezze che valorizzano e rendono davvero uniche al mondo le realtà regionali del Bel Paese. E come dimenticare i tanti concorsi internazionali che da sempre rappresentano un valore aggiunto per la manifestazione scaligera? Innanzitutto, una menzione particolare merita il “Concorso Enologico Internazionale (www.vinitaly.com/concorsoenologico), il più selettivo al mondo con solo il 3% di riconoscimenti assegnati sul totale di 3.500 vini in media presenti. Il “Concorso Internazionale di Packaging” (www .vinitaly.com/concorsoenologico) si pone come obiettivo quello di premiare la capacità delle aziende di dare un’immagine vincente ai propri prodotti tramite bottiglie, etichette, tappi e chiusure; infine, ecco il “Premio internazionale Vinitaly” che premia ogni anno l’imprenditore o l’operatore del settore (media, sommelier, winemaker etc.) che si è particolarmente distinto nel corso della propria

attività per valorizzare e promuovere il settore. Chiusura con “Vino e gastronomia”, ideale punto di incontro tra vino, cibo e olio extra vergine di oliva. Vinitaly, Sol e Agrifood club organizzano, in collaborazione con i più noti chef al mondo, laboratori gastronomici e degustazioni di piatti realizzati con gli ingredienti della migliore tradizione culinaria italiana, in abbinamento a una selezione di vini esposti. I Grandi Ristoranti di Vinitaly (Ristorante d’Autore, dei Signori, Sol Goloso e Cittadella della Gastronomia) completano il menu della rassegna per soddisfare i palati, anche quelli più esigenti, di tutti i visitatori.


Manifestazioni

La

Champions League degli

chef

di Morello Pecchioli orbert Niederklofer è uno che sa leccarsi le dita. Lo ha detto Shakespeare: “Per la madonna, signore, cattivo cuoco è colui che non sa leccarsi le dita” (Romeo e Giulietta, atto IV, scena II). Ora, siccome tutto quello che Shakespeare dice è vangelo e dato che Norbert Niederkofler è un grandissimo chef, due più due fa quattro. Grazie al cuoco bis-stellato del St. Hubertus di San Cassiano, le dita, alla Chef’s Cup tenuta in Alta Badia dal 18 al 20 gennaio scorso, se le sono leccate anche i gourmet giunti da ogni parte d’Italia. Norbert si è mosso da perfetto padrone di casa: ha creato, cucinato, insegnato, abbinato e sparso a piene mani sapere gastronomico e simpatia umana, ad un popolo di adoranti ghiottoni. E’ stato lui a inventare, per beneficenza, la Chef’s Cup qualche anno fa. In poco tempo la manifestazione è talmente cresciuta da diventare la Champions League dei grandi cuochi. Vi partecipano i Kakà, i Beckham, gli Ibrahimovic, i Del Piero dei fornelli: i campioni stellari della cucina italiana e di quella internazionale. Quest’anno è scesa in campo una squadra di lusso, dodici cuochi tra i miglio-

N

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▲ Marica Bonomo e lo chef Norbert Niederkofler

ri d’Italia più uno, grandissimo, francese. Li citiamo in ordine sparso precisando che i primi sette hanno una stella Michelin (piaccia o no, la stella di Bibendum è l’unità di misura alla Chef’s Cup) e i secondi sei ne vantano due: 19 stelle brillanti nel piccolo firmamento pieno di neve e di bontà che era la Val Badia a gennaio. Ecco i “galacticos” scesi in campo nei

vari appuntamenti gastronomici delle tre giornate: Claudio Melis (La Siriola, San Cassiano), Arturo Spicocchi (Stüa de Michil, Corvara), Maura Gosio (La Piazzetta di Ferno, Varese), Giuseppe Guida (Osteria della Nonna, Vico Equense), Giancarlo Morelli (Osteria del Pomiroeu, Seregno), Antonio Guida (Il Pellicano, Porto Ercole, Grosseto), Luciano Zazzeri (Bibbona Marina, La


LA RICETTA

Polipo brasato all’amarone su purè di fagioli Risina e fegato grasso affumicato Ingredienti per 4 persone

■■■ Per il polipo - 1 polipo piccolo - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - 2 spicchi di aglio - 1 foglia di alloro - 1 gambo di sedano - 1 carota - 1 cipolla - ½ bottiglia di Amarone ■■■ Per il purè di fagioli Risina - 200 gr di fagioli Risina - una foglia di alloro - uno spicchio di aglio - una noce di burro - ½ gambo di sedano - ½ carota - 1 cipolla bianca piccola - 1lt circa di brodo

▲ Polipo brasato all'amarone, ricetta di N. Niederkofler

■■■ Per il fegato grasso affumicato 80gr circa di fegato grasso d’oca affumicato ■■■ Il polipo In una pentola con il fondo spesso ed abbastanza grande da contenere il polipo intero, scaldare bene l’olio e rosolarvi il polipo. Quando questo inizia a rilasciare il suo liquido aggiungere l’aglio, l’alloro, le verdure tagliate a pezzi e l’Amarone. Coprire e cuocere fino a che il polipo sará morbido (aggiungere un po’ di acqua se necessario). Passare poi la salsa passando al chinois anche le verdure (schiacciandole bene con l’aiuto di un mestolo) e ridurla a giusta consistenza. Prendere il polipo, eliminare l’”occhio” e le ventose piú grandi, tagliarlo a pezzi non troppo piccoli. ■■■ Il purè di fagioli Risina Mettere a bagno i fagioli Risina in acqua fredda per 12 ore. Soffriggere velocemente le verdure, le erbe e l´aglio, aggiungere i fagioli sgocciolati e coprire con il brodo. Portare ad ebollizione e continuare a cuocere lentamente fino a cottura ultimata (circa 40 minuti) aggiungendo brodo se necessario. Frullarne ¾ e conservare il resto intero da aggiugere al purè all’ultimo momento. Adagiare sul fondo del piatto il purè di Risina e posarvi i pezzi di polipo intiepiditi nella loro salsa all’Amarone. Terminare con una fettina di fegato grasso affumicato.

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Manifestazioni Pineta, Livorno); Gennaro Esposito (Il Saracino, Vico Equense), Valeria Piccini, (Da Caino, Montemerano, Grosseto), Giovanni D’Amato (Il Rigoletto, Reggiolo), Andrea Berton (Trussardi alla Scala, Milano), Jean-Andrè Charial (L’Oustau de Baumaniere, Baux de Provence, Francia). E Norbert Niederkofler, ovviamente. Grandissimi piatti, vini superbi: altoatesini alla cena di benvenuto, veronesi dell’azienda agricola Monte del Fra di Sommacampagna, abbinati ai piatti del Pasta Party al parterre della gara di sci, maremmani al rifugio Piz La Ila la seconda sera, champagne Paillard al brunch del martedì e internazionali al Gala Dinner che ha chiuso le manifestazioni. Evento nell’evento è stato l’appuntamento con l’Amarone 2005 Lena di Mezzo dell’azienda Monte del Fra. Una presentazione due volte straordinaria: per il vino in se stesso, presentato in assoluta anteprima (l’Amarone annata 2005 viene commercializzato quest’anno) e per i due piatti abbinati da Norbert Niederkofler al vino della famiglia Bonomo: “Polipo brasato all’Amarone Lena di Mezzo 2005 con fegato grasso affumicato e crema di fagioli Risina” e “Risotto di mele cotogne con filetto di lepre selvatica, tartufo nero e un pizzico di lime”. E’ stata un’esperienza indimenticabile. Il trionfo del gusto: cultura, creatività e sapienza di abbinamento coniugati con la massima semplicità. L’Amarone Lena di Mezzo 2005 rappresenta una nuova concezione di Amarone: rispettoso del territorio, la Valpolicella, e dei suoi magici vigneti di Corvina, Corvinone e Rondinella, ma comprensibile ed elegante. E, pure, grande protagonista in pentola. Che fosse un grande attore, in cucina, si sapeva. Un re è sempre un re, sul trono o tra i fornelli. La tradizionale cucina veronese lo dimostra: è protagonista assoluto nel risotto all’Amarone- il duetto che recita col vialone nano veronese igp è da applausi scroscianti- e comprimario di lusso 34

nello stracotto d’asino (“stracoto de musso”, lo chiamano i veronesi che adorano mangiarlo con la polenta). Si ha, però, l’impressione che i grandissimi chef non abbiano, almeno finora, avuto il coraggio o la fantasia di usarlo nella preparazione di piatti superbi. L’Amarone in pentola, insomma, non ha ancora avuto la possibilità di recitare al meglio la sua parte di vino shakesperiano, pronto a dominare la scena. Ci voleva l’altoatesino Niederklofer per regalarci l’indimenticabile emozione di assistere alla creazione di un nuovo incredibile piatto: “Polipo brasato all’Amarone Lena di Mezzo 2005 con fegato grasso affumicato e crema di fagioli Risina”, appunto. In sala aleggiava lo spirito di Jean Anthelme BrillatSavarin, il fondatore della moderna gastronomia: “La scoperta di un nuovo piatto dà più gioia all’umanità che la scoperta di una nuova stella”. Piatto e vino superbi. “Musica”, ha sintetizzato Terenzio Medri, presidente nazionale dell’Associazione italiana sommelier, riverito ospite della manifestazione. “Un abbinamento da Champions League: piatti di grande innovazione e vino eccezionale, da oscar dell’eleganza. Sono stato il fortunato spettatore di un matrimonio davvero unico”. “E’ un vino che unisce splendidamente innovazione a tradizione”, ha aggiunto Davide Di Corato, direttore del mensile enogastronomico Horeca, “finalmente un amarone non stucchevole, non lezioso. E’ un Amarone non impegnativo, ma puoi decidere se farlo diventare impegnativo. Rappresenta un’evoluzione del gusto, come si evolve la cucina è giusto che si evolva il vino”. L’Amarone Lena di Mezzo di Monte del Fra nasce in piena Valpolicella classica, nel comune di Fumane. Le vigne di Corvina, Corvinone, Rondinella, salgono dai 150 ai 300 metri della piccola vallata del torrente Lena che garantisce una eccezionale ventilazione naturale, con sbalzi termici che irrobustiscono le uve che al mattino si svegliano asciut-

te. Praticamente il marciume dovuto a una eccessiva umidità, qui non lo conoscono. La ventilazione naturale fa crescere le uve sane e, successivamente, le fa appassire naturalmente nel fruttaio. I terreni fino ai 200 metri portano in dono al vino la struttura medio-alta. I terreni rossi, calcarei, sui 300 metri gli regalano la complessità aromatica. “Puntiamo molto sulla freschezza e sulla tavolozza aromatica naturale”, spiega Claudio Introini, l’enologo che, con Eligio e Claudio Bonomo, “firma” l’Amarone Lena di Mezzo. “Un altro aspetto che privilegiamo sono i lieviti autoctoni. Quando si hanno in mano uve così, è nostro dovere assecondarle. L’attenzione enologica è altissima: pigiatura soffice, macerazione a freddo, fermentazione spontanea. E poi? Poi il 25 per cento viene messo in legno piccolo, rovere francese, il resto nelle botti da 35 ettolitri, sempre di rovere francese”. Risultato un grande vino. Profumi, corpo, rotondità ed eleganza esaltati ed esaltanti. Introini, del resto, è abituato a evidenziare i caratteri più identificativi delle uve. Come fa con il nebbiolo della sua Valtellina: i suoi Sforzat sono la sua fotografia di enologo preparatissimo, di grande umanità e modestia: vini in assoluto equilibrio tra struttura ed eleganza. “Ma l’Amarone”, dice, “ha qualcosa che va oltre. Ha possanza, è un vino più immediato, che affascina nelle degustazioni anche se, talvolta, si privilegiano troppo i muscoli a scapito dell’eleganza. Con il Lena di Mezzo puntiamo su un Amarone elegante, che in termini di macerazione non si spinga oltre i tempi in cui emergono tannini e polifenoli che finirebbero per prevalere sull’eleganza”. Insomma si gioca sugli zuccheri: residui che in Valtellina porterebbero lo Sforzat a una disarmonia, ma che nella piccola vallata sopra Fumane rendono questo Lena di Mezzo un Amarone di nuova generazione, più affascinante in bocca e indelebile nel cuore. Una cartolina dalla Valpolicella, con l’anima del territorio.


Riforma Ocm

La parola d’ordine di Cesare Pillon

TRA

QUALCHE MESE LA RIFORMA

DELL’ORGANIZZAZIONE COMUNE DI MERCATO SARÀ OPERATIVA:

È GIÀ COMINCIATA LA CORSA CONTRO IL TEMPO PER REGOLAMENTARE

DOC DIVERRANNO DOP

LA FORESTA DELLE CHE

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partire dal primo agosto, la gestione delle 472 (attuali) denominazioni d’origine del vino italiano sarà affidata a Bruxelles e ogni variazione diventerà quindi di più difficile e complessa attuazione. Prima che questa disordinata foresta di nomi venga pietrificata dall’euroburocrazia sarebbe opportuno mettervi un po’ d’ordine, ma purtroppo non è possibile: la commissione presieduta da Giuseppe Martelli, cui il Ministro delle Politiche Agricole, Luca Zaia, ha dato il compito di traghettare il vino italiano dalle Doc alle Dop, per attuare la riforma dell’Ocm (Organizzazione comune di mercato), ha troppe gatte da pelare, nei pochi mesi che rimangono, perché

A

trovi anche il tempo per razionalizzare le denominazioni. Eppure Dio sa quanto ce ne sarebbe bisogno. La questione più seria a cui bisognerebbe porre rimedio è un problema di comunicazione: le denominazioni controllate sono garanzie ufficiali fornite in etichetta, e l’etichetta è lo strumento più immediato che consente a chi produce vino di parlare a chi lo beve. Il problema però è questo: non si può pretendere che un normale consumatore, anche se amante del vino, anche se appassionato, memorizzi i nomi di 316 Doc, 38 Docg e 118 Igt (ed è possibile che queste cifre aumentino, prima di agosto). Se è già difficile, per un bevitore occasionale italiano, orientarsi in


è razionalizzare una tale sovrabbondanza di opzioni, è facile immaginare la confusione che essa genera all’estero. Ma perché i nomi da ricordare sono così tanti? Per varie ragioni. La più evidente è che sono espressione di entità assurdamente diverse tra loro, ufficializzate alla rinfusa senza un disegno logico e coerente: che cos’ha in comune la Docg Chianti, che coprendo buona parte di una regione come la Toscana riguarda centinaia di produttori e milioni di bottiglie, con la Doc Loazzolo, che nasce in un villaggio astigiano di 354 abitanti, e con la Doc Bolgheri Sassicaia, rappresentata da un solo produttore? Spesso lo si dimentica, ma lo scopo di fondo delle Doc dovrebbe essere quello di guidare i consumatori di tutto il mondo verso vini che essi siano in grado di identificare e di cui possano avere fiducia. I loro nomi dovrebbero perciò soddisfare due esigenze primarie: essere rassicuranti e permettere di individuare con facilità il territorio in cui nasce il vino da

essi designato. E buona parte delle Doc italiane risponde effettivamente a queste caratteristiche, anche se i loro territori sono di diversa estensione e di differente importanza (Roero, Oltrepò Pavese, Soave, Colli di Parma, Cortona). Non tutte, però, possiedono entrambi i requisiti richiesti. Il Bosco Eliceo, per esempio, ha un nome molto suggestivo, ma quanti italiani sanno dov’è situato? Quanti, leggendo Pergola, non pensano affatto a un comune marchigiano ma piuttosto al modo in cui sono allevate le viti? E quanta fiducia può riporre un consumatore nel vino di Cisterna? Ma questi sono peccati veniali. Il fatto più preoccupante è un altro: non tutte le Doc sono denominazioni d’origine pure e semplici. Molte, trop-

pe, al nome della località geografica accoppiano quello di un vitigno (Grignolino d’Asti, Vernaccia di San Gimignano, Verdicchio dei Castelli di Jesi, Aglianico del Vulture). E questa aggiunta, che sposta il baricentro del nome sulla varietà dell’uva, ha immediatamente messo in moto un meccanismo perverso che ha stimolato la proliferazione delle Doc: ogni altra zona in cui si vinificano in purezza le stesse uve si è infatti sentita in dovere di pretendere un’altra denominazione in concorrenza: Grignolino del Monferrato casalese, Vernaccia di Serrapetrona, Verdicchio di Matelica, Aglianico del Taburno. Il record appartiene al Piemonte, che di Dolcetto è stato costretto a riconoscerne addirittura sette: d’Acqui, d’Alba, d’Asti, delle Langhe monregalesi, di Diano d’Alba, di Dogliani, di Ovada.

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Riforma Ocm C’è da ringraziare il cielo che non si sia propagata anche la gara a creare nuove denominazioni di Vin Santo, dopo che in Toscana l’hanno chiesta e ottenuta tre zone: il Chianti, il Chianti Classico e Montepulciano. Più ragionevolmente, tutti gli altri territori dove si produce questa tipologia, hanno deciso di classificarla semplicemente come variante all’interno di una Doc già esistente: Trentino Vino Santo, per esempio, o, nella stessa Toscana, a Montalcino, Sant’Antimo Vin Santo. Questa scelta ha evitato che le Doc dei Vin Santo diventassero ancor più numerose di quelle dei Dolcetto e si diffondessero in varie regioni. Ma c’è anche il rovescio della medaglia, che non va sottovalutato: la coesistenza dei Vin Santo inglobati nella Doc del territorio e dei Vin Santo con una Doc autonoma è una contraddizione che dà una netta impressione di sciatteria e fa pensare che i vini italiani vadano in giro per il mondo scomposti e approssimativi come un’armata Brancaleone, ognuno per sé e Dio per tutti. E il grave è che le cose stanno proprio così. Il nome del vitigno abbinato a quello del territorio, anche se quasi sempre è imposto dalla tradizione, rappresenta sicuramente un errore, in un paese come l’Italia che ha scelto le denominazioni d’origine geografica per tutti i suoi prodotti agroalimentari. Il vitigno si può infatti piantare dovunque: nessuno sfrutta questa possibilità se la sua diffusione è limitata, ma quando il vino che se ne trae ha successo, può far gola a molti imitarlo altrove e sfruttarne la fama saltando sul carro vincente. E sono subito guai. La prima grana provocata da un caso

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del genere scoppiò qualche anno fa per il Brunello di Montalcino, quando si scoprì che la sua denominazione era abusivamente utilizzata da qualche disinvolto produttore del nuovo mondo, che aveva impiantato viti di sangiovese del clone chiamato Brunello. Legalmente si poteva vietare al plagiatore soltanto l’uso della parola Montalcino: è un toponimo che si può attribuire esclusivamente ai prodotti che scaturiscono dal territorio di quel comune. Ma il termine Brunello non gli si poteva impedire di utilizzarlo. Per riuscirci fu necessario cancellare quel nome dal registro dei cloni omologati di sangiovese e brevettare la denominazione Brunello di Montalcino come marchio depositato. Attualmente è il Prosecco, premiato da una clamorosa affermazione all’export, che bisogna salvare dalle imitazioni straniere, e si spera di riuscirci in tempo utile, cioè prima di agosto, grazie a un piano suggerito da Gianni Zonin e attuato dalla Regione Veneto. Di che cosa si tratta? La riuscita di questo spumante che nasce tra Conegliano e Valdobbiadene (oltre 57 milioni di bottiglie per un valore di 370 milioni di euro) fa gola anche fuori dei confini italiani: nell’Est europeo, soprattutto in Romania, sono stati impiantati enormi vigneti pronti a inondare il mondo con fiumi di Prosecco. Come impedirlo? Prosecco è il nome di un vitigno e può essere usato ovunque da chiunque. Ma se il vino avesse una denominazione geografica gli stranieri non potrebbero utilizzarla. E allora? Allora si è scoperto che probabilmente questa varietà ha preso nome dalla località Prosecco presso Trieste (dove si coltiva con il nome

di Glera). Basta perciò estendere la Doc a tutte le zone del Veneto e del Friuli in cui è autorizzata la sua coltivazione facendo esplicito riferimento a quella località e si otterrà la tutela internazionale. Geniale, no? Nell’oltretomba Niccolò Machiavelli si dev’essere sentito fischiare le orecchie. E’ confortante che gli italiani trovino sempre modo di cavarsela grazie alla loro fantasia, ma non si può andare avanti solo a colpi di furbate. Bisognerebbe avere idee geniali sul modo migliore di razionalizzare la situazione, non sulle tattiche da seguire per rattopparne le falle. Qual è il difetto di fondo delle denominazioni d’origine all’italiana? Che non sono state pianificate (come in Francia) con una struttura a piramide: denominazione d'un territorio molto vasto (per esempio, Bordeaux), all'interno del quale far emergere zone più piccole particolarmente privilegiate (Pauillac, Margaux, Graves), ed enucleare i loro vertici nei vigneti più vocati (Château Latour piuttosto che Château Haut-Brion). L’esigenza di arrivare anche in Italia a un sistema altrettanto semplice e comprensibile non è avvertita solo adesso, se ne discute da molto tempo: la proposta più interessante fu avanzata, a un dibattito svoltosi durante il Vinitaly del 1989, da un giornalista americano che vive in Italia, Burton Anderson, e che conosce i problemi del vino italiano più di molti giornalisti italiani. “Non ci sono soluzioni semplici per la classificazione”, sostenne, “ma come giornalista che ha di fronte lo scoraggiante compito di spiegare il vino italiano ai lettori stranieri, proporrei un concetto che sembrerebbe fornire la


chiarezza e la logica che ora mancano. Il sistema dovrebbe riconoscere ogni regione come una Doc primaria, il cui nome dovrebbe essere in etichetta per tutti i vini che raggiungono o superano un dato standard di qualità”. Il progetto, spiegò Anderson, avrebbe il massimo effetto all'estero se per prime fossero valorizzate le più importanti regioni e i loro vini. “Più della metà di tutto il vino a Doc” fece notare, “oggi è prodotto in tre sole di esse: il Veneto, la Toscana e il Piemonte. Gli stranieri spesso hanno qualche problema nell'indicarle su di una carta geografica, figuriamoci poi nel sapere quale produca l'Amarone, il Brunello o il Barolo. Ma se ciascun vino di qualità indicasse il nome della regione, i consumatori comincerebbero a orizzontarsi, proprio come hanno fatto da tanto tempo per lo Champagne, il Borgogna e il Bordeaux” . Delle tre regioni a cui Anderson aveva indirizzato con maggior calore il suo sug-

gerimento, l’unica che nei 20 anni trascorsi da allora ha utilizzato il proprio nome per istituire una Doc è stata il Piemonte. Ma lo ha fatto per un motivo molto particolare: perché nel proprio ambito ha voluto orgogliosamente riconoscere soltanto Docg e Doc, e si è rifiutata di istituire anche solo un’Igt (Indicazione geografica tipica), categoria che Veneto e Toscana hanno ritenuto viceversa più adatta per la denominazione regionale. Il lato più sconfortante dell’iniziativa è che invece di unificare le troppe denominazioni esistenti, la Doc Piemonte è servita al contrario a moltiplicarle. Come mai? E’ molto semplice: poiché, assurdamente, la denominazione Piemonte non è stata attribuita all’intero territorio regionale, ma soltanto ai territori viniferi delle province di Alessandria, Asti e Cuneo, tutte le zone produttive minori delle altre province, che avrebbero potuto esservi felicemente inglo-

bate, sono state costrette invece a istituire nuove Doc. E non sono poche, sono almeno sette: Canavese, Collina torinese, Colline novaresi, Colline saluzzesi, Coste della Sesia, Pinerolese, Valsusa. Dunque, per quanto lavori, e lavori bene, la commissione presieduta da Giuseppe Martelli consegnerà fatalmente alla gestione di Bruxelles una mappa di denominazioni bisognosa di radicale ristrutturazione. Che non potrà essere attuata con la rapidità che sarebbe auspicabile. L’unica speranza è che si ripeta il miracolo di 30 anni fa, quando per reazione alle assurde imposizioni della normativa sulle Doc, nacquero quei vini che oggi si chiamano SuperTuscan. A pensarci bene è l’unica classificazione semplice e comprensibile che agevola la diffusione dei vini italiani su scala internazionale. Anche se non ha alcun valore legale (o forse proprio per questo, chissà).

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Vino e finanza

crisi il bicchiere

Dopo la

sarà mezzo pieno LA

CRESCENTE RICHIESTA DALL’ASIA RISOLLEVERÀ LE ESPORTAZIONI ITALIANE

ED EUROPEE: MA PER CONQUISTARE I NUOVI MERCATI OCCORRE RINNOVARSI

E STUDIARE STRATEGIE ADEGUATE.

A

COMINCIARE DAI PREZZI

di Lorenzo Simoncelli opo aver illustrato nel numero precedente le opportunità e le modalità di investimento in fondi vinicoli, questa volta, spinti dalle congiunture economicointernazionali e dall’esigenza di un ritorno all’economia reale, anche nel vino, ci concentriamo su una serie di dati che fanno riflettere. Se, infatti, come abbiamo visto nei mesi scorsi il comparto di investimenti vitivinicoli sembra non aver accusato il colpo della crisi finanziaria, la produzione di vino in Europa invece nel 2009 subirà un calo. Secondo dati della Copa–Cogeca (organizzazione degli agricoltori e delle loro cooperative nell’Unione Europea) la produzione europea di vino scenderà dai 172,98 milioni di ettolitri dello scorso anno a 169,77 ettolitri. Una flessione dell’ 1,85%. Numeri che, nonostante il segno meno, rappresentano un miraggio per gli altri settori industriali, auto su tutti, che

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hanno registrato perdite di cinquanta volte superiori. Se però si vanno a prendere le medie di produzione degli ultimi cinque anni, la flessione aumenta. Come ha infatti osservato Alejandro Garcia Gasco, vicepresidente del Comitato consultivo Vino dell’Ue, «la produzione stimata per quest’anno prevede una riduzione del 7%». A confermare le dinamiche tutt’altro che scontate, in questa particolare fase economica, la caduta dei prezzi delle uve nella maggior parte dei paesi europei, nonostante la diminuzione della produzione. E’ vero che il prodotto vino non va inteso in senso quantitativo, ma qualitativo, e quindi differisce in parte dalle logiche di mercato e di produzione, ma è anche vero che una riduzione così drastica (- 37% in Spagna) del prezzo delle uve non era previsto, né in qualche modo ravvisabile. Ma non tutti i mali vengono per nuocere. In ottica nazionalistica, infatti, c’è da sorridere. Le dinamiche economiche e le condizioni atmosferiche che hanno colpito i vigneti francesi la scorsa estate, hanno fatto sì che nel 2009 la produzione italiana molto probabilmente supererà quella dei nostri cugini d’oltralpe. Saranno, infatti, circa 45 milioni gli ettolitri prodotti da noi, contro i 42 della Francia, che ha così perso il podio, almeno per quest’anno, di primo paese produttore al mondo. Accantonata la chiave patriottica, ciò che lascia riflettere è il calo notevole di produzione registrato da alcune delle più nobili etichette: - 5% rispetto all’annata 2007 - 2008. Nella speciale classifica della produzione annua di uva al terzo posto si classifica la Spagna con circa 40 milioni di ettolitri prodotti. Ma il paese di re Juan Carlos, non promette alcunché di buono per i prossimi mesi. Stime aggiornate prevedono che sarà uno dei Paesi europei che si rialzerà più lentamente dalla situazione attuale di stallo. E il settore vitivinicolo di certo non gli darà una mano. Infatti, la produzione è diminuita tra l’8% e il 12% rispetto all’anno precedente e i prezzi delle uve e delle bottiglie sono pressoché bloccati. Dura la critica di Alejandro Garcia Gasco, vicepresidente del Comitato consultivo Vino dell’UE,

▲ Hong Kong, nuovo epicentro del commercio vinicolo asiatico

che contesta l’Ocm (Organizzazione comune del Mercato) per non aver stilato un disegno chiaro e comune per uscire dalla crisi. Nonostante ormai la parola “comune”, quando si parla dell’Europa a ventisette, viene proposta come fosse prezzemolo, non tutti i Paesi europei produttori di vino hanno avuto lo stesso destino negativo. E così a uscire dal coro dei “segni meno” tocca inaspettatamente alla Germania, che con i suoi 10 milioni di ettolitri prodotti, pari a un quarto di quelli italiani, farà registrare un aumento del 10-15% sempre nel 2009. A chiudere questo panorama europeo fatto di sorprese e sorpassi c’è il Portogallo. Un Paese in grande difficoltà, il cui rating (per quello che vale) sarà declassato, e la cui produzione vinicola farà segnare una riduzione del 30% sulla media degli ultimi cinque anni. A questo si aggiungerà anche una flessione dei prezzi, Porto compreso, intorno al 2%. La situazione generale vitivinicola non è dunque delle più rosee, colpa, anche e soprattutto, della contrazione del credito al consumo, che inevitabilmente produce una riduzione di acquisti primari e accessori, tra cui il vino. Premesso questo, c’è chi come Alejandro Garcia Gasco, vicepresidente del Comitato consultivo Vino dell’UE, ritiene responsabile di questa situazione l’Ocm. Sia per aver eliminato alcune regolamentazioni, sia per aver ridotto gli aiuti alla produzione.

Fatto sta che oggi la riduzione degli ettolitri e la caduta dei prezzi delle etichette fa sì che molte cantine non riescano, o riescano appena, a coprire i costi di gestione. Detto questo non bisogna perdere l’entusiasmo che contraddistingue un buon produttore di vino e per farci tornare un po’ di buon umore basta mettere il naso fuori dal nostro vecchio e amato continente. Più precisamente in Asia. Infatti, il mercato asiatico sarà il protagonista del settore vinicolo nel 2009. Dopo anni di previsioni dubbiose e futuri incerti è arrivato il momento delle certezze. Il consumo di vino in Asia è aumentato notevolmente e la tendenza continuerà. Nei prossimi cinque anni si registrerà un ulteriore incremento della domanda tra il 10% e il 20%, a margine di una crescita media mondiale che sfiorerà l’1%. A guidare la riscossa asiatica la Cina e in particolare la città di Hong Kong, nuovo epicentro del commercio vinicolo. Si aspettava solo la decisione governativa di abolire la tassa del 40% sul vino (solo ad Hong Kong) per far esplodere un mercato che già da tempo covava enormi sorprese e attese. Basti pensare che il 23% dei lotti vinicoli delle principali aste internazionali sono venduti ad acquirenti di Hong Kong. Per sfruttare i benefit fiscali le principali case d’asta internazionali hanno trasformato la città cinese nella porta d’ingresso d’oriente ai grandi vini europei. Il 2009 sarà dun41


Vino e finanza

que l’anno delle conferme, con un record da battere: superare gli 8,2 milioni di dollari di vini battuti in un sol giorno dalla casa d’asta statunitense Acker Merrall. Non tutti però sono concordi sul ritenere che Hong Kong diventerà la porta d’ingresso del mercato continentale. Tra gli scettici, Don St Pierre, padre fondatore dell’Asc, il maggiore importatore di bottiglie del paese asiatico: «Con tutta la burocrazia che c’è in Cina mi sembra molto difficile che il mercato del vino si possa espandere così senza grossi vincoli. C’è qualcosa che non mi quadra». Parole forse, mosse dal fatto, che le autorità cinesi in seguito a una normale ispezione su un carico importato, hanno arrestato suo figlio, rilasciato poi un mese dopo. Le leggi locali, tra l’altro, autorizzano i funzionari di controllo a prendere tre bottiglie di vino dal carico per “analizzarlo”. Ora bisognerebbe capire cosa si intende per analizzarlo, anche perché su una partita di 200 bottiglie di una normale etichetta è poco grave, ma su un carico di sei bottiglie di Lafite ’96, il controllo sarebbe alquanto costoso. La scommessa giocata dagli esportatori europei sulla diffusione del vino di qualità è stata ampiamente vinta. Ora per rendere il vino globale nei Paesi emergenti, c’è da giocare la partita più difficile, e cioè coinvolgere un largo strato di consumatori, magnati esclusi. La sfida da vincere è educare il consumatore al vino, perché come abbiamo più volte ripetuto e non ci stancheremo mai di farlo, il vino, prima che business e piacere, è cultura. In Paesi (quasi tutti gli emergenti), dove la diffusione media di enofili non è neanche lontanamen-

Hong Kong (⾹港 Pinyin Xiānggǎng

– Porto Profumato)

è una regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese. Formata da una piccola penisola della costa meridionale cinese e da 236 isole nel Mar Cinese Meridionale, fra cui l'isola di Hong Kong, seconda per estensione all'isola di Lantau. Con la politica di "un paese, due sistemi" Hong Kong gode di autonomia amministrativa e di una propria valuta, il dollaro di Hong Kong. Importantissimo centro commerciale e finanziario, turistico e aeroportuale. Area totale: Popolazione: Densità: PIL (2008):

42

1.104 km² 6.985.200 6.327 ab./km² 293.400 milioni di $


te paragonabile a quella europea, la prossima sfida sarà puntare sulla quantità. La previsione, quasi la certezza, è che la crisi economica in corso non permetterà grosse spese almeno fino al 2010, e in questo senso aiuterà a incrementare ulteriormente la domanda di etichette low cost. Anche perché non è ragionevole pensare che in paesi dove fino a pochi anni fa alla voce bevande si leggeva birra e sakè, ora si trovi una prestigiosa e costosa etichetta d’annata. Tempo al tempo. E’ certo però che in una fase economica di profonda ristrutturazione anche l’industria vitivinicola dovrà rinnovarsi e scovare nuove opportunità. Questo dovrà essere lo scenario per una diffusione globale del nettare di bacco nel nuovo e nel vecchio mondo. E come sempre un ruolo fondamentale sarà svolto da quelli che sono i “padri fondatori” del vino: la Francia, l’Italia e la Spagna. In particolare sarà proprio il Paese transalpino a dover modificare maggiormente le sue abitudini nella produzione. Non solo vino di alta qualità, ma anche vino a prezzi più accessibili per i mercati esteri e per non rimanere un mercato di nicchia. Tirando le somme, dopo questa lunga analisi, tutti coloro che lavorano nell’industria-vino possono ritenersi fortunati e tirare un lungo sospiro di sollievo. Perché l’uragano ormai è passato, e nonostante qualche danno, circoscritto e inevitabile, la maggior parte dei produttori è salva. A loro un consiglio per il futuro. Non più solo bottiglie di qualità, ma una gamma completa, perché la domanda è in aumento, ma non a tutti i costi. E’ la dura legge del mercato. Dura lex, sed lex.


Turismo

▼ Le Cinque Terre

Gridiamo al mondo LA FRANCIA

È IL

PAESE

PREFERITO DAI TURISTI STRANIERI: LO

STIVALE

È

SOLO QUINTO. IL PROBLEMA RISIEDE NELLA COMUNICAZIONE, MA ANCHE NELLA MANCANZA DI INFRASTRUTTURE E DI COLLEGAMENTI FERROVIARI ADEGUATI

di Elisa della Barba ori Imperiali, Roma. Tiepida giornata di ottobre, cielo terso e sole autunnale. Con in testa l’ennesima statistica pubblicata che proclama la Francia come il Paese più visitato al mondo (per numero di turisti stranieri) e Parigi come città, ci si chiede come sia possibile che i nostri monumenti, il nostro clima, la nostra gastronomia possano essere solo al quinto posto dietro a Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina (Statistica World Tourism Organization 2008). Anche la rivista Americana International Living ci dà il massimo dei punti per quanto riguarda la categoria della cultura e del tempo libero ma poi ci lascia settimi nel Quality of Life Index del 2008 (classifica generale). La vincitrice? Neanche a dirlo, la Francia. Nove le categorie considerate per la valutazione finale: il costo della vita, la cultura e il tempo libero, l'economia, l'ambiente, la libertà, la salute, le

F

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▼ Costa Azzurra, Cannes

quant’è bella

l’Italia

infrastrutture, la sicurezza e il clima. Dal profilo tracciato, la Francia (tolta Parigi) appare meno cara dell’Italia. E al contrario del Bel Paese offre infrastrutture che sono fra le migliori del mondo e una presenza numerosa di imprese private che la rende molto competitiva. Con quasi 82 milioni di arrivi (di cui 45 milioni con 4 o più notti di pernottamento) tra Europa, America, Asia, Africa e Medio Oriente, la Francia è campionessa mondiale per quanto riguarda il turismo. I principali visitatori stranieri: l’Inghilterra, la Germania, il Belgio e l’Italia. Nel 2007 i turisti stranieri hanno speso in Francia 39,6 miliardi di euro, con un 7,2 % di crescita rispetto al 2006, mentre i francesi hanno speso all’estero 26,8 miliardi di euro, con un 7,8% di crescita, per un saldo riguardante il turismo pari a 12,8 miliardi di euro cioè un 6% in più rispetto al 2006. Con 25.707 hotel, 13.172 strutture ospitanti alternative e 112.221 ristoranti (al 2007), la Francia genera ogni anno una media di 894.000 posti di lavoro direttamente connessi al turismo. Il World Tourism Organization per il 2007 annuncia risultati soddisfacenti anche per l’Italia: + 7% di turisti. Nonostante questo, le strutture alberghiere sono in ribasso. Bilanci negativi infatti per l’Associazione Italiana Catene Alberghiere (AICA), che danno un tasso di occupazione delle camere al -1,4% totali per il 2007 rispetto al 2006, presentando in special modo un forte calo al Sud. L’incongruenza fra aumento dei turisti e diminuzione delle prenotazioni alberghiere è presto spiegato: più crociere in Italia rispetto al passato – nessun bisogno di camera 45


Turismo ▲ Parigi, dai Jardin des Tuileries con il Louvre alle spalle si gode un magnifico colpo d’occhio che abbraccia gli Champs Élysées, l’Arc de Triomphe e i palazzi della “Défense”

▲ L’EDF Tower nel modernissino quartiere della “Défense”

▲ Il TGV, il famoso treno francese ad alta velocità

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d’albergo quindi – e un 10% in più di visite nelle città d’arte che però molto spesso si riducono a un paio di giorni. Va detto poi che molto spesso le statistiche – come quella del Wto – includono negli arrivi anche i semplici transiti negli aereoporti, che quindi non vogliono necessariamente dire anche pernottamento. Resta il fatto che il turismo italiano nel 2007 ha registrato i risultati migliori degli ultimi cinque anni, con un record di 31.079 milioni di euro per consumi dei turisti stranieri superando di 3.457 milioni i ricavi del 2003. Comunque siamo ben lontani dai numeri presentati dalla Francia. Infatti i dati del World Economic Forum 2008 confermano le variazioni negative: si evince che la competitività dell’Italia è in grave declino, al 28esimo posto nella “capacità di attrazione”. È specialmente preoccupante verificare che non potevamo permetterci di peggiorare in un settore che da noi porta il 10% del Pil e posti di lavoro per due milioni di persone all’anno. Questi dati parlano da soli e fanno pensare: visto che l’avvocato Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia e dell’Associazione Italiana Amici dei Grandi Alberghi, dichiara che “in Italia l’asset del turismo è di 33.000 alberghi, 16.000 agriturismi e un patrimonio culturale, artistico, storicomonumentale e museale che tutto il mondo ci invidia (80.000 fra chiese e castelli)”, cos’è che fa davvero la differenza, per ritrovarci al quinto posto della classifica degli arrivi internazionali nel mondo quando per attrattive e risorse turistico-culturali meriteremmo almeno uno spareggio? La differenza la fa il coraggio della Francia di investire responsabilmente in un futuro da affiancare a un grandissimo passato. Dai trasporti all’organizzazione alberghiera, dall’architettura alla gastronomia, la Francia ha dimostrato di saper guardare avanti coniugando tradizioni e passato con futuro e modernità, anche grazie a fondi decisamente più sostanziosi dell’Italia. Con un sistema ferroviario all’avanguardia, la Francia vanta la rete più veloce e più estesa dell'alta velocità in Europa con circa 1300 chilometri di nuove linee. I collegamenti ferroviari coprono un’estensione totale di 30.880 chilometri e percorrono praticamente tutto il paese. Questo la rende di conseguenza uno dei Paesi più facili in cui viaggiare (nonostante i treni italiani, seppur a volte fatiscenti, siano molto più economici) e quindi meta molto più appetibile. Anche per quanto riguarda la situazione alberghiera, la Francia mette a disposizione dei turisti infrastrutture con standard qualitativi che soddisfano l’ampio target di chi non vuole spendere troppo ma nemmeno stare in camerata in ostello, un “terreno di mezzo” che manca all’Italia, dove soluzioni alternative all’hotel come i Bed & Breakfast e gli agriturismi rimangono comunque piuttosto care. L’architettura non è da meno, anche se va segnalato che la maggior parte degli interventi contemporanei sono stati concentrati su Parigi: la Torre EDF nel quartiere della Défense dell’architetto Ieoh Ming Pei (2001), la stazione della metropolitana Saint Lazare a cura di Arte Charpentier nell’8º arrondissement (2003), la Passerelle Simone de Beauvoir di Feichtinger Architetti sulla Senna (2006), La Cité de l’Architecture et du Patrimoine, con mostre permanenti e temporanee dedicate all'architettura (2007). È vero: noi abbiamo Renzo Piano con il Grande Bigo a Genova (1992) o l’Auditorium di Roma (2002), Fuksas per la Fiera di Milano (2005), Zara Hadid per il MAXXI a Roma (in teoria la sospirata inaugurazione dovrebbe avvenire quest’anno). Ma le tempistiche per i due Paesi sono spesso molto diverse: i progetti francesi vengono portati a termine nei tempi prestabiliti, prerogativa indispensabile per la buona riuscita dell’impresa (ma spesso miraggio in Italia), il che comporta anche un rientro dei costi più rapido. E se è vero che investire nell’architettura contemporanea a volte può portare a delle mostruosità di cui non ci si può liberare, è innegabile che la propensione ad affiancare a monumenti storici nuove creazioni abbia contribuito ampiamente a rinnovare l’interesse – e l’immagine – per mete francesi che altrimenti avrebbero avuto bilanci ben diversi. Argomento scottante per questi due Paesi è la gastronomia. Ultimamente


▲ La piramide del Louvre E’ una piramide di vetro commissionata dall'ex presidente francese François Mitterrand e disegnata da Leoh Ming Pei. Si è trattato della prima parte del progetto di rinnovamento chiamato “Grand Louvre”. Nonostante sia stata un’opera controversa è uno dei luoghi più visitati e fotografiati di Parigi.

▲ La capitale francese vista da Montmartre

il conflitto si sta inasprendo ulteriormente, visto che la Francia ha intenzione di presentare quest’anno una proposta formale all’Unesco, più precisamente alla Delegazione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Intangibile nata nel 2003, per far dichiarare la gastronomia francese patrimonio mondiale, nel tentativo di capitalizzare – in tempo di crisi – quello che è da anni fonte di orgoglio nazionale, supportato anche da una petizione firmata da più di 300 chef francesi, tra cui Guy Savoy, Paul Bocuse, Alain Ducasse, Pierre Troisgros e Michel Guérard. Questo è quanto è stato comunicato con un annuncio estemporaneo dal Presidente Nicolas Sarkozy nel febbraio 2008 alla Fiera annuale francese dell’Agricultura. Molti i Paesi che si sono sentiti “sfidati”, compresa l’Italia: la Coldiretti ha infatti argomentato come il patrimonio gastronomico italiano sia già superiore a quello francese, visto che l’Unione Europea riconosce 166 specialità gastronomiche all’Italia, mentre solo 156 alla Francia. Non è comunque facile parlare di numeri né provare a comprendere le dinamiche turistico-economiche di due Paesi in fondo così diversi, specialmente in un anno come il 2009. La recessione è ovunque. E se si può dire che l’Italia non è il Paese nella situazione peggiore in questo scoraggiante panorama europeo, è semplicemente perchè il Paese cresce a rilento in epoche economicamente stabili e di conseguenza ora risente meno degli sbalzi della crisi, pur con una previsione per il 2008 di un rapporto deficit/Pil del 2,6%. Anche per la Francia c’è poco da stare allegri, con un deficit commerciale record nel 2008: secondo le previsioni del Ministero del Bilancio francese annunciate il 20 gennaio dal ministro Eric Woerthal, il rapporto deficit/Pil ammonterebbe al 3,2%, che dovrebbe poi attestarsi al 4,4% nel 2009. Quello che si può dire però tornando alla situazione turistica è che la Francia è forte di eventi storici che l’hanno resa da sempre economicamente avvantaggiata rispetto all’Italia e che ha saputo utilizzare le risorse del Paese per valorizzarsi al meglio. Si parla tanto di come venga percepita dal cliente (dal turista) l’immagine del prodotto (della Nazione): in questo la Francia batte chiunque, abilissima nel comunicare un’immagine vincente del suo territorio, dal piccolissimo paesello sperduto al sud alla nominatissima Parigi. Insomma, grazie alle risorse economiche e a un Ministero del Turismo che funziona, la Francia si promuove da sola. E l’Italia? L’Italia non ha ancora trovato il modo di comunicarsi efficacemente, perché non riesce a comunicare internamente. Infatti quello che rende il nostro Paese magnifico è allo stesso modo incredibilmente deleterio: la regionalità. Che certo, appartiene anche alla Francia, ma passa in 47


Turismo ▲ Nizza, Costa Azzurra, centro storico

▲ Uno scorcio della Riviera Ligure di Levante

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▲ Nizza, la Promenade

secondo piano rispetto all’identità nazionale che viene ribadita in ogni campagna per il turismo. L’Italia è perennemente, adorabilmente divisa, orgogliosa e disorganizzata. Per nostra fortuna in qualsiasi altro paese del mondo questo atteggiamento viene tradotto e interpretato – ironia dell’ironia – come “charme” italiano: la disinvoltura di fare le cose sbagliate, e/o in ritardo, ma con classe. Ecco perché siamo comunque amati, ecco perché oltre i monumenti e le ricette e i profumi e i dialetti rimangono soprattutto gli italiani e le loro anime imperfette e bellissime, a ricordare a chi viene a vedere se ci siamo ancora che sì, magari siamo un po’ più in bilico degli altri ma resistiamo e a testa alta. Certo, è vero, di Mastroianni e di Fellini e di Calvino non ce ne sono più, ma è il fatto che siano figli di questa terra e che siano ricordati ancora oggi nel mondo che fa scommettere ancora sul nostro Paese, perché chi è arrivato tanto in alto ci può arrivare ancora: di soldi ne abbiamo più di allora, manca solo un po’ di iniziativa. Basterebbe capire, per esempio, che l’uso di Internet non è solo un’altra inutile costosa distrazione per quindicenni (e anche se così fosse, occupiamocene lo stesso, visto che il futuro del turismo italiano è in mano al nuovo target degli under 18, che costituisce il 24% di tutti i viaggiatori internazionali). Al contrario Internet viene utilizzato sempre di più dagli adulti, per l’organizzazione di viaggi individuali: le prenotazioni via Internet in Italia sono al 24%, dieci punti sotto la media europea. Basterebbe insistere molto di più sul fatto che il nostro è un Paese che non deve contare solo sulla stagionalità perché ha tutto, sempre. Sia per territorio che per clima. Perché sembriamo dimenticarci – o ancora una volta, forse non lo comunichiamo bene – che siamo un Paese mediterraneo, latino nel sole e nell’anima. Un esempio per tutti: per guadagni e infrastrutture, sulla carta vincerà anche la Costa Azzurra nell’eterno conflitto con la Liguria, ma sulle emozioni stravinciamo noi: la Costa Azzurra è davvero più pulita e ordinata, è più di lusso e più chic – e quando si passa la frontiera in treno Mentone te lo urla in faccia, con un paesaggio che neanche nella giungla e ville che neanche a Hollywood – ma di sicuro non ha un porto intriso di storia e di gloria e di odore di mare come Genova, non ha le acciughe che fanno il pallone, non ha l’intonaco colorato che fa tanta allegria anche se scrostato, non ha i “carrugi”, non ha il vociare confuso di ricordi portoghesi e soprattutto non ha De Andrè. E così via, per tutte le altre Regioni, per tutto il nostro Paese, che è comunque ancora – e ufficialmente, statistiche alla mano – uno dei più visitati nel mondo. Allora l’immagine di un Paese speciale passa lo stesso! Allora forse basterebbe solo crederci di più e urlare un po’ più forte. Allora c’è da chiedersi una cosa sola: non sarà che questa partita (a proposito di competitività!) la perdiamo solo a causa della troppa umiltà?


Gocce

Un sorso di

cultura

di Valentina Pillot

■■■ UNA CURIOSITA’ GENETICA I coreani e i malesi hanno un vantaggio di origine genetica, informa il mensile OK Salute: possiedono una particolare variante dell’Adh, un enzima che li aiuta a frenare gli effetti tossici dell’alcol. A pari quantità di vino bevuto, insomma, un italiano si ubriaca mentre un abitante di Seoul resta sobrio. ■■■ UN LIBRO SOMMERSO “Il pane di ieri” è l’ultimo, bellissimo volume di Enzo Bianchi, biblista rigoroso, priore dei monaci di Bose, in Piemonte. Ripescando un avvertimento di San Tommaso d’Aquino (“l’ora più buia della notte è quella che precede l’alba di un nuovo giorno”), Bianchi riflette sui valori e le verità di cose essenziali, il pane, il vino, l’orto, la tavola (“il luogo privilegiato per imparare, per ascoltare, per umanizzarsi; d’altronde un’unica radice accomuna saperi e sapore”), il silenzio e il suono delle campane, i proverbi contadini del Monferrato, la sua terra d’origine, e la sapienza della Bibbia che può aiutare in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo. (Einaudi editore, 117 pagine, 16,50 euro). ■■■ UNA MAPPA VISIONARIA L’ultimo studio dell’Assirm (l’Associazione che rappresenta 47 tra i maggiori istituti italiani di ricerche di mercato, sondaggi d’opinione, ricerca sociale) disegna la mappa dei falsi miti del Made in Italy, ricostruisce i luoghi comuni sui prodotti tipici e svela la discordanza tra la percezione degli italiani e il paese reale. Per dire: il marmo per 7 italiani su 10 è indissolubilmente legato alla Toscana, distretto di Carrara, solo l’1,1 per cento lo associa invece alla Sicilia dove si trova il principale centro di produzione mondiale, per l’esattezza nel distretto di Custonaci, nel Trapanese. E nel campo del vino: il 23,3 per cento lo associa di nuovo alla Toscana, e poi al Piemonte, al Veneto, alla Sicilia. Tutto sbagliato, secondo i dati Istat 2007, che dicono come le regioni di maggior produzione sono nell’ordine Veneto, Emilia Romagna e Puglia. Effetto e magia della pubblicità che è alla base di questa frattura tra vero e immaginato. Una disparità che converrebbe armonizzare: “E’ necessario comunicare e organizzare i beni, i valori e le eccellenze: l’Italia deve formarsi una cultura dell’informazione efficace e matura”, teorizza Silvestro Bertolini, presidente Assirm. Per saperne di più: www.assirm.it. 50

■■■ UN APPELLO “Salviamo la cultura del vino” è l’appello lanciato dalla redazione del quotidiano l’Unità domenica 18 gennaio. Vi si legge, tra l’altro: “Non abituare i giovani a bere vino (con moderazione, s’intende) porta al consumo smodato di superalcolici, con le nefaste conseguenze che sono oggetto di cronache quotidiane. Educare al gusto del succo d’uva fermentato significa far conoscere i frutti di un territorio che, anche morfologicamente, è caratterizzato dai vigneti così che sembra quasi impossibile immaginare un paesaggio toscano che non abbia le vigne e gli olivi. Occorrerebbe, quindi, uno sforzo da parte di tutti: prezzi fermi da parte dei produttori, pagamenti certi e ricarichi equilibrati dei ristoratori, un servizio al bicchiere intelligente dei titolari di wine bar e allora giovani e non giovani, invece di ingurgitare improbabili bevande dolci, ricominceranno ad assaporare il sapore di un vino genuino”. ■■■ UN ADDIO Giorgio Mondadori, l’ultimo editore che profumava di carta, se n’è andato per sempre 91 anni dopo aver visto la luce a Ostiglia (Mantova). Fu il primo presidente della società Mondadori - Caracciolo che diede vita al quotidiano La Repubblica. Nel 1968 fu il successore del padre Arnoldo alla presidenza della Mondadori. La lasciò nel 1976 dopo i dissidi con le due sorelle Cristina e Laura detta Mimma. Creò l’Editoriale Giorgio Mondadori e fu un successo: da Airone, la prima rivista dedicata alla natura e alle civiltà diventata tra i maggiori successi editoriali del dopoguerra, all’edizione italiana di Architectural Digest, a Bell’Italia e Bell’Europa, Gardenia, Arte, Antiquariato, Millelibri, Am. Un’avventura che continuò fino al ’99, quando passò il timone alla Cairo Communication. La sua più lunga amicizia? Con Ernest Hemingway: tra i suoi ricordi c’erano parecchi Capodanni a Cortina d’Ampezzo con lo scrittore americano che si divertiva a riempire di vino dei palloncini per poi centrare le bocche degli ospiti. ■■■ UNA CITAZIONE “Il vino? Mi piace berlo e farlo. Con mia figlia Alexandra nel nostro agriturismo vicino Arezzo produciamo il Chianti. Ho disegnato l’etichetta con un grande occhio. E’ buono, sa?” (Ilaria Occhini, attrice, sposa di lungo corso con lo scrittore Raffaele La Capria, al settimanale Vanity Fair).


Le buone maniere

Galateo, lo scippo della

Francia di Barbara Ronchi Della Rocca

UN

ESEMPIO: NEL

1533

LA FORCHETTA APPRODA SULLE TAVOLE FRANCESI GRAZIE AL MATRIMONIO

CATERINA DE’ MEDICI CON ENRICO D’ORLÉANS. IN ITALIA SI UTILIZZAVA

DI

GIÀ DA QUALCHE SECOLO

52

nche nella nostra epoca che sembra non credere più a niente, ci sono miti che non tramontano. Tra questi, uno dei più duri a morire è un certo qual complesso di inferiorità nei confronti della Francia, considerata come la culla delle buone maniere e della buona tavola. Il che è falsissimo: perché fino alla metà del XVII secolo in tutta Europa il galateo e lo stile hanno parlato italiano, e tutte le corti guardavano all’Italia come modello di raffinatezza ed eleganza. Anche perchè nelle città italiane la forchetta era usata abbastanza normalmente fin dal 1300, mentre nel resto d’Europa alle tavole reali tutti mangiavano con le mani e si pulivano la bocca con l'ampio giro delle maniche. Infatti, nel suo trattato di “Saper vivere” pubblicato nel 1530 l’umanista Erasmo da Rotterdam così insegna a apparecchiare la tavola: “A destra si mette il bicchiere e il coltello ben pulito, a sinistra il pane”. Il cucchiaio per la minestra era in comune tra tutti i commensali: da usare, asciugare nella tovaglia e passare al vicino perché lo adoperasse a sua volta; chi non voleva aspettare il suo turno portava direttamente la zuppiera alla bocca… La forchetta, vero strumento di rivoluzione della tavola, era nata sul finire del Medio Evo come posata di portata a due denti, ma poi divenne anche di uso individuale. Accadde nell’XI secolo, quando il Doge

A


▲ Caterina de’ Medici

Orseolo prese in sposa la figlia dell’Imperatore d’Oriente, che toccava il cibo solo con una forchetta d’oro. Dapprima quest’abitudine venne bocciata come un eccesso di raffinatezza, tanto che la dogaressa fu rimproverata pubblicamente dal clero e quando morì di peste, si disse che era stata giustamente castigata da Dio per la sua mancanza di umiltà. Ma la nuova posata era ormai diventata un ambito status symbol, e si diffuse in tutte le città italiane, anche perché, snobismo a parte, era lo strumento indispensabile per mangiare la pasta, difficile da prendere con le mani, scivolosa e bollente com’era. È nel 1533 che, grazie al matrimonio di Caterina de’ Medici con Enrico d’Orléans, uno dei figli del re di Francia, la forchetta (che ormai ha tre rebbi) approda in Francia e di lì si diffonderà lentamente nel resto d'Europa. Ma questa sposina quattordicenne porta con sé molto di più della “terza posata”: l’intera civiltà rinascimentale. Il primo settembre 1533 prima di imbarcarsi per la Francia invita le dame fiorentine a un pranzo d’addio (primo caso di addio al nubilato della storia!), in vista del quale alla corte dei Medici viene bandita una gara dei cuochi, vinta dal pollivendolo Ruggeri con un “ghiaccio all’acqua inzuccherata e profumata”, cioè un sorbetto. Quando parte per la Francia, si porta al seguito damigelle, cavalieri, musici, poeti, sarti, profumieri, ricamatrici e guantai capaci di cucire guanti di pelle conciata con essenze profumate, così sottili da poter essere arrotolati dentro un guscio di noce. Ma l’accompagnano anche cuochi, scalchi, maestri pasticceri, ben forniti di ricette e alimenti che rivoluzioneranno il gusto e la cucina d’Oltralpe, introducendo, tra l’altro, l’uso dei prodotti dell’orto e delle erbe odorose. Come Bernardo Buontalenti, grazie al quale il gelato compare 53


Le buone maniere

sulla tavola reale francese. Il 12 ottobre il corteo nuziale sbarca a Marsiglia, dopo una traversata terribile sul mare in burrasca. I profumieri fiorentini dichiarano di non voler più proseguire il viaggio via terra fino a Parigi, e dopo una specie di ammutinamento si stabiliscono… a Grasse! Così, quella che viene unanimemente considerata la culla della profumeria francese è in realtà una “colonia” italiana in terra di Francia! Giunto finalmente a Parigi, il gruppo dei fiorentini dà il meglio di sé il 27 ottobre 1533, per il banchetto ufficiale, nel corso del quale fanno conoscere ai francesi il meglio della cultura gastronomica italiana – tra cui la cottura mediante frittura. Per il re Francesco I preparano crocchette di cervella e di fegato in agrodolce; per il figlio Enrico, lo sposo, le lumache, che entrano trionfalmente nel repertorio della gastronomia francese come piatto afrodisisaco; per i palati raffinati delle signore, le faraone, farcite di marroni e tartufi, irrorate con panna e succo delle arance che provengono dalle serre Medicee. È probabile che l’anatra all’arancia sia un piatto venuto da Firenze, come la carabaccia, antenata fiorentina della zuppa di cipolle (che allora veniva preparata con l’aggiunta di mandorle pestate, zucchero, aceto, cannella). I piatti preferiti di Caterina, grande mangiatrice, sono i carciofi (che gli orticultori italiani hanno ottenuto con operazioni di innesto da un cardo selvatico importato dalla Spagna) e le frattaglie di pollo, di cui fa addirittura indigestione. Anche i dolci di provenienza italiana sono una novità assoluta, perché non sono più a base di miele, ma contengono lo zucchero, che proviene dall’Oriente, dalla Sicilia e dall’Andalusia, e in Francia è raro, costoso e non ancora usato in cucina. Dopo le nozze, Caterina farà venire a corte un cuoco specialissimo: il grande Nostradamus, medico, astrologo, profeta e mago, cui insegna a usare zucchero e miele per conservare la frutta e per preparare scorze e frutti canditi e mandorle ricoperte di zucchero, aromatizzati con muschio e ambra. Ma torniamo al banchetto nuziale, rivoluzionario anche dal punto di vista del costume, perché il re Francesco I in omaggio al costume italiano costringe le donne della famiglia reale a sedere a tavola con gli uomini, annullando la tradizione secondo cui le dame non mangiavano in pubblico per non nuocere alla bellezza dei lineamenti con l’atto “volgare” della masticazione! In onore alla presenza delle signore, vengono posti in tavola dei bicchieri fabbricati a Venezia (città che aveva il monopolio assoluto nella fabbricazione di vetri di alta qualità) in sostituzione di quelli usuali sulle tavole francesi di allora, detti “cul sec”, (o “bois tout”), una sorta di flûte senza base, che si era obbligati a vuotare in un sorso solo.

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Non solo, si introduce in Francia anche il gusto italiano (e spagnolo) di bere vino ghiacciato, usando il salnitro oppure servendolo nella cantimplora, specie di caraffa con in mezzo un buco da riempire di ghiaccio o neve. Un ultimo aneddoto: le posate portate in dote da Caterina avevano ben in evidenza sull’impugnatura lo stemma della famiglia Medici, e allora la regina suocera – ostile alla nuora come nelle migliori tradizioni! – ordinò che alla corte si apparecchiasse con le posate rovesciate, cioè ponendo in tavola il cucchiaio con la parte convessa verso l’alto e la forchetta con i rebbi sulla tovaglia, così da mostrare il retro del manico, dove successivamente fece incidere lo stemma reale francese. Uno squallido dispetto, di cui dovrebbero prendere nota i molti snob che credono sia più elegante apparecchiare “alla francese”, ponendo le posate al contrario rispetto a tutte le altre Corti europee! Nonostante questa codificazione di apparecchiatura, la nuova posata “italiana” fu ancora per molti anni poco usata e assai contestata dai francesi che la vedevano come simbolo di eccessiva raffinatezza, e collegata con la sodomia. E certo non giovò alla reputazione del “diabolico” strumento il fatto che l’unico membro di casa reale di Francia che sembrava apprezzarlo fosse Enrico III, noto effeminato… Ancora 110 anni dopo il famoso banchetto nuziale di Caterina, il re Sole, Luigi XIV, considerava “troppo affettati” i cortigiani che usavano la forchetta e, nonostante tutte le proprie pretese di eleganza, continuava a mangiare con le mani, tanto che sulla sua tavola figurava come unica posata solo il coltello! Eppure fu proprio durante il suo regno che la Francia assurse al ruolo di faro delle buone maniere e della diplomazia, e Parigi divenne la capitale della moda. Ma questa è un’altra storia…

▲ Luigi XIV

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Degustazioni

Quel brigante del

Morellino

di Roberto Bellini

l 24 ottobre 1896, nel podere le Forane, a Capalbio, in piena Maremma finì l’epopea di radice contadina, del brigante “Domenichino”, all’anagrafe Domenico Tiburzi. Sul tavolo della cucina, poco distante dal camino ampio e fuligginoso, un bicchiere di vetro spesso, di forma tozza e bassa, leggermente svasato, conteneva l’imbevuto di un vino rosso, scuro nella tinta, opulento nel fruttato, robusto in alcool, malandrino nel tannino, dal finale succoso e saporito: un vino da veglia, che fosse stato un Morellino? La terra del vino Morellino fu una terra amara. “Tutti mi dicon Maremma, Maremma … Chi va in Maremma e lassa la montagna, perde la donna ed altro non guadagna”, così recita una canzone rurale, intrisa di miseria, di vita e di speranza. Tra le righe di questa rima si nasconde una ruralità difficile e un’indole agricola incostante e insalubre, giù nella piana malarica. Scansano sta, e stava, in collina, 500 metri s/l/m. È un comune con un’aureola etrusca, d’antico spirito cristiano,

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rifinito infine dai Medici e dai Lorena. Qui che si sagomò, tra il 1969 e il 1970, l’idea di un vino da compiersi con l’uso di sole uve “nere”; seguendo una tradizione enologica, consolidatasi fin dal 1875, che prevedeva la lavorazione delle uve rosse, separate da quelle bianche, con impiego di tini aperti, in cui si lasciava il mosto una volta pestate. Il Sangiovese fu, e ancora lo è, il Re della miscela del Morellino di Scansano; calato dai monti del Chianti e dall’entroterra, ha dismesso i nobili abiti (il pugno di ferro in guanto di velluto del Montalcinese e i fasti gigliati del contado Fiorentino) ed è diventato un brigante del gusto, in costante ricerca di una abbronzatura tirrenica che smussi l’impeto di un tannino altezzoso per fonderlo nelle morbide coperte di un alcool corroborante. Il Sangiovese del Morellino è diversamente vino, è tale perché nacque, nel 1978, con una Doc differente: non volle abbinare le uve bianche a quel 15 per cento di altro che previde il disciplinare. Così facendo si presen-


tò sempre briosamente fruttato e floreale, impreziosito dagli intensi profumi dell’Alicante e del Mammolo; accentuato nella tinta dal Colorino e reso elegante dal raro “Francese nero”. All’inizio sembrò avere un certo timore reverenziale verso gli altri rossi di Toscana, eppure la scelta del nome Morellino, da ricondursi all’usanza di chiamare Morellino il miglior puledro (di manto nero) allevato nel branco, era da intendersi per un vino da competizione, voglioso di affermarsi in Toscana a non solo. Il successo si è così consolidato che nel 2006 è diventato Docg. Il disciplinare è divenuto più restrittivo in termini di produzione in vigna, la gradazione alcolica minima s’è innalzata, creando di fatto i presupposti per un vino con una potenzialità di struttura gustativa maggiore. Troviamo quindi un Morellino con una tempra decisa nelle peculiarità fruttate e floreali, tanta ciliegia e viola mammola rendono seducenti i profumi, finissimi sentori di lavanda e di erbe aromatiche di macchia mediterranea ne allungano la raffinatezza, che spesso si completa con note di spezie dolci e legno nuovo tostato in quei vini che hanno sostato in barrique. Il gusto esibisce un tannino potente, ma non aggressivo, la succosità del frutto resta integra e insaporisce il finale, che chiude spesso con un retrogusto elegantemente amaricante. Nel Morellino di Scansano in versione Docg il potenziale d’affinamento in bottiglia s’è allungato, si presume che il base sarà ottimale per il consumo entro i 5/6 anni dalla vendemmia; la Riserva, se particolarmente curata, arriverà fino a 10 anni. La temperatura di servizio non dovrà superare i 18°C, mentre in presenza di un Morellino non Riserva si potrebbe scendere a 16°C, per esaltare al meglio la parte fresco-sapida del suo fruttato. L’abbinamento spazia dai primi piatti al sugo di carne, strepitoso è l’abbinamento con il maccheroni maremmani, a base di interiore e fegatini di pollo e coniglio; è particolarmente indicati con ricette a base di oche, folaghe e anatre. Quando il Morellino viene prodotto con uve raccolte in vigneti dai declivi ben esposti, da

ceppi di oltre venti anni, macerate a lungo e con pazienza in tini di legno a perfetta temperatura controllata, esso diventa nero al colore, imponente al profumo, si carica di un’avvolgenza odorosa che non ha eguali, tira fuori quelle caratteristiche odorose, quasi syrah-style, tanto da poter usare i vezzeggiativi “vin de forêt” e “vin de chasse”: vino di foresta o vino da caccia. Ed è appunto nell’abbinamento con la cacciagione e la selvaggina, un’attività, la caccia, cara ai briganti prima e ai bracconieri poi, che si esalta la versione Riserva del Morellino di Scansano, al punto tale da diventare cacciatore dei sapori dei fagiani e dei tordi, dei cinghiali e delle lepri e celebrarsi nelle sue gesta gusto olfattive, briganteggiando nei palati dei gourmets di tutto il mondo.

UNA DOCG MOLTO GIOVANE Il Morellino di Scansano è Docg dalla vendemmia 2007 Le uve impiegate sono: minimo 85% Sangiovese, localmente chiamato Morellino; possono concorrere, per un massimo del 15%, anche altre uve a bacca scura, purchè idonee alla coltivazione nella regione Toscana. La zona di produzione è racchiusa nella provincia di Grosseto e più precisamente nella fascia collinare tra i fiumi Ombrone e Albegna. La resa di uva per ettaro è fissata in 90 q.li, quella per ceppo in 3 kg. La gradazione alcolica minima è di 12,5% vol., 13% nella versione Riserva. Quest’ultima si appresta a diventare il nuovo biglietto da visita della denominazione, prevedendo l’allevamento in legno (senza escludere la barrique) per almeno un anno dei due previsti dal disciplinare. Due i tipi di bicchieri da usare per il servizio: per la Riserva un ballon dal bevante abbastanza ampio; per la versione base un bicchiere dal bevante più affusolato e bocca medio ampia. 57


Degustazioni

LA DEGUSTAZIONE: MORELLINO DI SCANSANO MORELLINO DI SCANSANO DOCG POGGIO TREVVALLE F.lli Umberto e Bernardo Valle – Campagnatico – 2007 – 14,5° Rosso rubino di media intensità, tinta vivace, briosamente riflessa di vermiglio. Il profumo impatta al naso con una nota di frutta a bacca rossa (ciliegia), di petalo di rosa rossa appassita, di spezie e termina con un cenno di vegetale secco. Al gusto il tannino crea una sensazione un po’ verde, mentre l’acidità s’impone con un fruttato al sapore di ciliegia. La persistenza gusto olfattiva è media e le sensazioni finali ripresentano un fruttato a bacca rossa.

MORELLINO DI SCANSANO DOCG SAN FELO Fattoria San Felo – Magliano in Toscana – 2007 – 13,5° Rubino alquanto concentrato con riflessi color buccia di ciliegia scura. La parte odorosa della frutta a bacca rossa e scura, matura (mora di gelso), domina il profumo; non mancano note di speziato, come la cannella, il chiodo di garofano e il legno tostato. Tannico e caldo, compone e ricompone un dualismo di alcool e tannico. Il gusto ha il sapore della marasca, il suo tannino ha l’asprezza della gioventù, mentre il finale è marcato da un fondo di oaky. Pai buona.

MORELLINO DI SCANSANO DOCG 2007 Fattoria Le Pupille – Piaggie del Maiano – 2007 – 13,5° Rubino intenso con unghia violacea. Offre un fruttato a bacca nera, espressioni floreali di viola e di rosa, leggero sottofondo olfattivo al fondo di caffè. Il tannino è deciso e fermo con finale di nocciolo di ciliegia e corredato da sapidità. Buona è la corrispondenza gusto olfattiva anche se il tannino sembra un po’ esuberante. Ha la naturale spigolosità del Sangiovese in gioventù, il finale di gusto è lungo e chiude asciugando perfettamente il palato.

MORELLINO DI SCANSANO DOCG 2007 MARTETO Azienda Bruni – Fonteblanda – 2007 – 13,5° Rubino mediamente intenso, buona la vivacità e l’effetto consistenza. Prugna rossa matura al profumo (si ritroverà anche al gusto), la ciliegia del vitigno si alterna a un fondo floreale di viola e iris. E’ un Sangiovese classico, pulito nel gusto, il tannino è ben espresso, arrotondato nell’asperità, e quel che conta è corredato da un fruttato succoso. La persistenza aromatica intensa disegna una corrispondenza gusto olfattiva coerente e crea un lungo ricordo.

MORELLINO DI SCANSANO DOCG LORENZOLO Az. Bioagricola Poggiopaoli – Pomonte, Scansano – 2007 – 14° Un Sangiovese espresso dalla netta tonalità rubino, senza cessioni a riflessi e nuances. Mediamente complesso al profumo, marcato da una ciliegia marinata al limone e da un mix di piccoli frutti rossi, anche un po’ selvatici. Ha una leggera chiusura vegetale, di gambo di viola. Al gusto il tannino impatta con irruenza serrando le papille gustative e trascina con sé un effetto dal finale amaricante. La lunghezza gusto olfattiva non trova un completo allungamento.

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MORELLINO DI SCANSANO PROVVEDITORE Az. Agr. Provveditore – Solaiolo Di Scansano – 2007 – 14,5° L’azienda dichiara un Sangiovese 100%. Rubino con riflessi vivacemente porpora, gioioso nella tinta. È floreale e fruttato, simpatico è il ricordo di chicco del melograno che ritorna poi anche al gusto. Originale è l’odore che ricorda la siepe secca mediterranea. Il sostrato finale è sciroppato, al gusto di ciliegia. La struttura gusto olfattiva è equilibrata, la sapidità inizia a insaporire un tannino “dolce”. Il finale di gusto è lungo, al pâté di frutta e di frutta grigliata.

MORELLINO DI SCANSANO DOCG 2007 Az. Moris Farm – Grosseto – 2007 – 14° Netto il colore rubino intenso. Pienamente espressivo del Sangiovese nei profumi di viola, di rosa rossa, di piccoli frutti rossi e neri. Il tannino saporito, senza cessioni all’asprezza e all’amaro, combina a pieno una morbidezza ben corroborata dalla componente alcolica, il tutto insaporito da un’acidità delicata ed elegante. Il finale di gusto esprime un’ottima persistenza e chiude con un sapore finale di ciliegia.

MORELLINO DI SCANSANO DOCG Cantine Leonardo – Vinci – 2007 – 13° Al colore è rubino alquanto intenso e vivace. Il profumo è pulito, franco, di fragola di bosco, di viola mammola, di ciliegia matura. Il sapore è decisamente fresco, il tannino è mediamente espressivo tanto che la struttura del vino raggiunge già un equilibrio gustativo, con una sensazione di calore alcolico finemente gradevole. La persistenza aromatica è abbastanza lunga e la sensazione finale del gusto è siglata da un ricordo di mandorla grigliata.

MORELLINO DI SCANSANO DOCG POGGIO BARBONE Az. Agr. Poggio Amorelli – Magliano In Toscana – 2007 – 13° Colore rosso rubino mediamente concentrato. Ha una graziosa punta di vinosità, il suo floreale si caratterizza per la viola. Non mancano i profumi dei piccoli frutti selvatici come il lampone. Curiose sono le sensazioni di tamarindo, karkadè e tea inglese natalizio. Gusto in equilibrio tra tannino, acidità e morbidezza, Buona la sapidità, il finale è mediamente persistente. Se la corrispondenza gusto olfattiva si fosse completata con più armonia ci saremmo trovati di fronte a un grande sorpresa.

MORELLINO DI SCANSANO DOCG MARIANNA Az. Agr. Cantine Marianna – Magliano – 2007 – 13° Rubino nella tinta accompagnato da un’esile unghia porpora. Floreale e fruttato, ha il fondo di nocciola di ciliegia. Al palato l’alcool si espande e tende a dominare l’equilibrio, il tannino e l’acidità tendono a nascondersi nelle morbidezze; si crea quindi un finale condito da un fruttato marmellatoso e da una chiusura amaricante.

Si ringrazia per la performance di degustazione la Compagnia del Morellino composta da: Carlo Barni, Gianluca Bianucci, Luca D’Antraccoli, Maurizio Giovannini, Antonio Papini, Giovanni Tresca Carducci e Giulio Ulivieri. 59


Fiere

Il grande debutto di

DiVino Lounge

di Emanuele Lavizzari

ALLA MOSTRA INTERNAZIONALE DELL’ALIMENTAZIONE DI RIMINI VINI E SPUMANTI RECITANO UN RUOLO DA PROTAGONISTI otevole soddisfazione delle aziende e degli operatori del settore food & beverage per la quattro giorni espositiva dedicata all’alimentazione extradomestica alla Fiera di Rimini. E non poteva essere altrimenti. Cinque manifestazioni in contemporanea hanno offerto un panorama unico e specializzato del mercato alimentare con la 39.ma Mostra Internazionale dell’Alimentazione (con le sezioni Catering, Specialità Regionali, Sandwiches & Snacks, Biocatering, Gluten Free, Logistics, Frigus), l’undicesimo Pianeta Birra Beverage & Co. (esposizione internazionale di birre, bevande, snacks, attrezzature e arredamenti per pub e pizzerie), l’ottavo MSE Seafood&Processing (salone internazionale delle tecnologie e dei prodotti della pesca), il quinto Oro Giallo (salone internazionale dell’olio extravergine di oliva) e, dulcis in fundo, il primo appuntamento con DiVino Lounge – wine, food and more, dedicato a vini, spumanti e champagne. Complessivamente quasi 1.500 aziende hanno occupato qualcosa come 100mila mq del quartiere fieristico riminese. I visitatori professionali inter-

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venuti sono stati 82.977 dei quali 2.832 dall’estero. Da sottolineare la grande visibilità mediatica dell’evento. Grazie all’autorevolezza raggiunta dall’appuntamento, si sono accreditati 675 giornalisti (570 alla precedente edizione) tra italiani e stranieri. Nelle quattro giornate inviati della stampa specializzata italiana e internazionale, della grande stampa nazionale, regionale e locale, hanno affollato i padiglioni fieristici e principali tg e gr nazionali hanno seguito le varie attività proposte con servizi e approfondimenti. In evidenza il DiVino Lounge, organizzato da La Madia Travelfood con la partecipazione dell’Associazione Italiana Sommeliers e della Worldwide Sommelier Association. La nuova sezione rivolta al nettare di Bacco ha debuttato con un’importante risposta da parte di grossisti, distributori, importatori, ma anche di gestori di locali serali e di esercizi pubblici. Dedicato a tutto ciò che ruota intorno al mondo di vini, spumanti e champagne, il DiVino ha raccolto i consensi di aziende molto prestigiose anche per il format particolarmente innovativo. Si proponevano infatti tre aree: wine, con degustazioni guidate in collaborazione con l’Ais; food,


COL SAN MARTINO

▲ Una degustazione Ais animata da Roberto Gardini

con carta dei vini a cura dell’Enoteca Regionale dell’Emilia Romagna e delle acque in abbinamento a cibi gourmet; business, con una welcome area per meeting con buyers esteri e italiani. DiVino Lounge ha così rappresentato per le aziende produttrici il punto d’incontro privilegiato con sommeliers, ristoratori e chefs. L’Ais ha proposto degustazioni per i numerosi appassionati accorsi nel padiglione A1. C’è stato solo l’imbarazzo della scelta: i vini di Sicilia, champagne e spumanti, i grandi rossi d’Italia, le migliori bottiglie di Aglianico e diverse etichette premiate con in 5 grappoli dalla guida Duemilavini 2009. Il bilancio dell’evento riminese è sicuramente positivo. Nel suo percorso di crescita la Mostra Internazionale dell’Alimentazione ha puntato risorse notevoli per aumentare il tasso di internazionalizzazione. Le giornate della 39.ma edizione della MIA hanno infatti proposto la Borsa di Cooperazione Internazionale con circa ottanta buyers provenienti da Australia, Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Israele, Marocco, Montenegro, Polonia, Repubblica Ceca, Serbia, Spagna, Svizzera e Ungheria. In collaborazione con l’ICE, l’Istituto Nazionale per il Commercio Estero, sono arrivate in visita a Rimini anche delegazioni provenienti da Canada, India, Danimarca, Finlandia, Polonia, Svezia, Russia, Estonia, Lituania, Lettonia e Norvegia. Il prossimo appuntamento con la MIA nel febbraio 2010 si preannuncia perciò sempre più cosmopolita.

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Musei del vino

Parma

A la tavola è storia, sapori e cultura VIAGGIO

TRA I SAPORI DEL TERRITORIO EMILIANO,

ALLA SCOPERTA DELLE ECCELLENZE FAMOSE NEL MONDO

di Letizia Magnani è chi dice che noi siamo i letti nei quali siamo stati. Di certo un territorio è i cibi e i vini che su di esso sono cresciuti e che tramite la storia sono giunti fino a noi, per deliziare le nostre tavole e talvolta anche i nostri letti. Tra tutti i luoghi italiani ce n’è uno che sicuramente più di altri si può dire vocato: il Parmense. È ai piedi del Po, nel bel mezzo della pianura Padana, tra Lombardia e Emilia, in piena Val Padana, che sono nati alcuni dei salumi più mirabili che si conoscano, come il Prosciutto di Parma, naturalmente, ma anche come il Culatello di Zibello, la Coppa di Parma e il Salame Felino. Questa terra è stata particolarmente generosa, perché, oltre all’arte della salumeria, ha insegnato agli uomini, dagli etruschi ai giorni nostri, anche altre arti, come quella della trasformazione del latte in Parmigiano Reggiano, il formaggio più noto al mondo, anche uno dei più buoni. Dalla trasformazione alla conservazione il passo è breve. È per questo che, sempre in queste campagne, è stata inventata, a inizio Novecento, la Stazione Sperimentale delle Conserve, che ancora esiste e che ha esaltato le caratteristiche dell’oro rosso, ovvero del pomodoro. Da queste parti naturalmente non ci si fa mancare niente, e così, ecco che la terra dona agli uomini anche i vini dei Colli di Parma e altre prelibatezze, come il Porcino di Valtaro. Se si mangia e si beve bene, allora si pensa anche bene: è per questo che Parma è stata scelta come sede dell’Efsa, l’Authority Europea per la Sicurezza Alimentare, ma è anche per questo che nella “Food Valley”, come ormai è stata ribattezzata questa area ad alto contenuto di golosità, sorgono i Musei del Cibo.

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▲ Una locandina d'epoca per la ditta Gino Tanzi di Sala Baganza La vetrina di una tipica salumeria di Parma

■■■ PARMA, LA CAPITALE DEL GUSTO Cuscinetto fra i domini pontifici e la Lombardia, Parma è stata per secoli, e ancora è oggi, punto di transito privilegiato attraverso l’Appennino per i collegamenti tra Nord e Sud dell’Italia e dell’Europa. Da qui passava la via Francigena, che già nel Mille, conduceva i pellegrini a Roma. In questo crocevia naturale hanno regnato i Farnese, di stirpe romana, i Borbone di Spagna e di Francia, l’austriaca Maria Luigia. Alla Corte di Parma sono stati creati i migliori piatti delle cucine europee, sapientemente rivisitati grazie al gusto e ai prodotti locali, dando vita a un ricco e raffinato repertorio di prelibatezze. Ora questa cultura dei sapori è raccolta e raccontata nei Musei del Cibo, che sono stati pensati, ci verrebbe da dire, col metodo Ais. Qui infatti, oltre a mettere in scena la storia del prodotto e del territorio (perché tramite il prodotto si scopre il territorio e viceversa, in un rapporto nuziale inscindibile) si fa anche educazione al gusto. L’idea è quella di prendere per mano i visitatori e di condurli a conoscere i buoni prodotti della tradizione, per saperli riconoscere e scegliere consapevolmente. ▲ Battitura e analisi della forma di Parmigiano

▲ Norcini della ditta Archimede Rossi di Collecchio, 1920

■■■ I MUSEI DEL CIBO DI PARMA È questo che raccontano Giancarlo Gonizzi e Gianpaolo Mura, rispettivamente coordinatore e presidente dei musei. Al momento il territorio parmense ospita tre Musei del cibo: quello del Parmigiano Reggiano, a Soragna, quello del Prosciutto e dei Salumi parmigiani, a Langhirano, e quello del Salame, a Felino. Presto però verrà inaugurato anche il quarto museo del cibo, dedicato interamente al Pomodoro. Che cosa c’entra il pomodoro con Parma? Tutto e niente. È qui, che, grazie alla generosità della terra, per la prima volta, ci si deve ingegnare sul tema della trasformazione e della conservazione (in breve, dal latte al Parmigiano Reggiano, ma anche dal suino ai prelibati salumi di queste zone). E sono queste due parole, trasformazione e conservazione, che legano fra loro tutti i prodotti, dal prosciutto al salame, dal parmigiano al pomodoro. Come conservare e trasformare questi particolari materiali di cui si dispone? La genialità e 63


Musei del vino ▲ L'apertura della forma di Parmigiano

▲ Una sala del museo dedicato al Parmigiano Reggiano

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praticabilità della soluzione ha determinato le straordinarie filiere dei prodotti tipici. La storia del pomodoro è legata alla creatività di Carlo Rognoni, agronomo che capì l’importanza di questo prodotto e lo propagandò come coltivazione sperimentale. Altri, come lui, si appassionarono al pomodoro, da Bizzozero a Solari, e le Casse di Risparmio, nate da poco, sostennero la sperimentazione. Ma non basta coltivare una nuova pianta, occorre che il mercato compri il prodotto che ne deriva. L’intuizione vera fu quindi la conservazione; si affacciano così alla storia i pionieri dell’industria nascente: Mutti, Pagani, Rodolfi, Pezziol e altri ancora, che daranno vita a delle vere e proprie dinastie di imprenditori. Il sistema del pomodoro decolla però solo nel 1922 quando vede la luce a Parma la Stazione Sperimentale delle Conserve. Da qui nascono la pasta al pomodoro, l’industria del pomodoro, ma anche la Mostra delle Conserve (antesignana dell’odierno CIBUS). Presto questa affascinante storia sarà raccontata in un museo dedicato all’oro rosso. ■■■ UNA CASA PER IL “RE DEI FORMAGGI” Conservazione e racconto sono fondamentali anche per andare alla scoperta del Parmigiano Reggiano, il “Re dei formaggi”, la cui storia si può ripercorrere nel museo che si trova nel Casello Meli-Lupi, a Soragna, nel complesso “Castellazzi”. L’antico caseificio, dalla struttura circolare, è stato adibito a moderno museo, dove sono raccolti oggetti e materiali provenienti dall’intero territorio di produzione del Parmigiano Reggiano. Il percorso è storico: nel corpo più antico del fabbricato ci sono gli oggetti necessari alla trasformazione, mentre nella parte più moderna sono state allestite le sezioni non collegate con la trasformazione. In un salatoio interrato si possono ripercorrere le fasi della salatura, ma anche il racconto del prodotto, dalle sue origini, alla sua storia, passando per il suo impiego gastrono-


mico. Proseguendo il viaggio, si entra nella camera del latte sopraelevata, dove si trovano le sezioni dedicate alla stagionatura, alla commercializzazione e al Consorzio di Tutela della Denominazione d’Origine. Ampio spazio è dato al tema della pubblicità e della comunicazione, grazie alle quali questo prodotto, unico al mondo, è stato conosciuto (e copiato) ovunque nei cinque continenti. Nonostante le tante copie, però, nel museo si capisce perché ogni pezzo di Parmigiano Reggiano sia un’opera d’arte: solo l’aria, l’umidità e la passione di questa terra, infatti, possono dare ogni anno forme buone e perfette. ▲ Marchio del Consorzio del Prosciutto di Parma

■■■ DOLCE COME IL PROSCIUTTO DI PARMA La comunicazione (e la dolcezza) ha reso famoso nel mondo anche il Prosciutto di Parma, unico per sapore e forma. La differenza la fa, ancora una volta l’aria, ma anche, non va mai dimenticato, il suino. E’ proprio al maiale che sono dedicati gli altri due musei del cibo, ed è in quello del Prosciutto e dei salumi di Parma che si scoprono vita, morte e miracoli di un maiale che non si può certo dire comune. Spostandosi da Soragna a Langhirano si entra nel regno vero e proprio del gusto. È solo qui, nel Foro Boario, ora divenuto museo, che si intuisce quanto ingegno e quanta cultura ci siano in una fetta di prosciutto. Il museo è organizzato in otto sezioni e, non stupirà, il percorso di visita inizia dal territorio, con la descrizione dell’agricoltura parmense dall’antichità all’Ottocento. Nella seconda sezione, dedicata alle razze suine, si ripercorre la storia del maiale. Ma per un ottimo prosciutto non basta la carne, servono anche l’aria, il tempo e il sale. Al principale strumento di conservazione dei cibi è dedicata una intera sala. Il sapore inconfondibile del Prosciutto di Parma è dato da un sale particolare, di terra, che veniva (e viene ancora) ricavato sfruttando i pozzi di Salsomaggiore Terme. Nelle altre sale vengono raccontate l’arte della norcineria e quella degli altri salumi di Parma, i loro impieghi in cucina, l’evoluzione delle tecniche di lavorazione del prosciutto e le certificazioni. La scelta dell’ex Foro Boario di Langhirano come sede del Museo ha consentito il recupero funzionale di una struttura legata alla vita economica di questa terra e, nel contempo, la sua trasformazione in uno strumento di lettura e comprensione dell’attività alimentare odierna. ■■■ TU CHIAMALO, SE VUOI, SALAME FELINO Cosa sarebbe la tavola senza il salame? Anche gli egizi lo sapevano, è per questo che nella tomba di Ramses III vengono raffigurati dei salami appesi, a testimonianza del fatto che al gusto nessuno può rinunciare. Ed è proprio al gusto che si ispira il Museo del Salame Felino, a Felino, testimone del rapporto privilegiato instaurato nel tempo tra questo capolavoro culinario e il suo territorio d’origine. Felino rende così omaggio al suo figlio più amato, la cui storia ha trovato casa negli splendidi locali settecenteschi delle cantine del castello.

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Musei del vino ▲ Il Museo del Salame Felino e l'ingresso del castello

▲ Lavorazione del Salame Felino, 1930

Il Museo è l’occasione per apprezzare non solo l’essenza di quello che è stato definito il principe dei salami, ma il territorio e la comunità di cui è espressione, a partire dalla qualità delle materie prime, fino alla sapienza delle mani che continuano a lavorarlo. Organizzato in cinque sezioni, il percorso di visita inizia con le testimonianze storiche del rapporto tra Felino, il salame e il maiale nero parmigiano. Si prosegue parlando di gastronomia, nelle affascinanti cucine del castello, ripercorrendo ricette, miti e riti dei contadini, ma anche dei Gesuiti che da queste parti erano abili salumieri. Nella sala grande si trova invece la sezione relativa alla norcineria e alla produzione casalinga dell’insaccato. Nel museo si possono vedere molti attrezzi, oggetti e foto d’epoca, che fanno intendere che cosa sia davvero la cultura materiale, dal macello in poi, fino ad arrivare alla tavola. La trasformazione e la produzione dei prodotti qui seguono ancora i ritmi della natura. Fra le curiosità da non perdere ci sono il mantello del norcino e una grande macchina insaccatrice da salami. Una sezione è riservata alla commercializzazione e presenta la documentazione relativa alla vendita del salame di Felino a partire dal Settecento. Infine non mancano le cose insolite, come la storia del Du Tillot, primo ministro del Duca di Parma e marchese di Felino.

GLI INDIRIZZI Musei del Cibo: www.museidelcibo.it Museo del Parmigiano Reggiano C/o Corte Castellazzi - Via Volta, 5 - Soragna (PR) Info: 0524 596129, prenotazioni.parmigiano@museidelcibo.it; Aperto dal primo marzo all’8 dicembre Visita con degustazione: 5 euro Museo del Prosciutto e dei salumi di Parma C/o Ex Foro Boario - Via Bocchialini, 7 - Langhirano ( PR) Info: 0521 864324, prenotazioni.prosciutto@museidelcibo.it Aperto dal primo marzo all’8 dicembre Visita: 3 euro Assaggio di Prosciutto di Parma: 3 euro Museo del Salame di Felino C/o Castello di Felino Strada al Castello, 1 - 43035 Felino ( PR) Info: 0521 831809, prenotazioni.salame@museidelcibo.it Visita con degustazione: 5 euro

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Sommelier nel mondo

L’ENOTECA “ENOTRIA VINO” GESTITA DA

DOMENICO DI PAOLO È UNA DELLE MIGLIORI DELLA

GERMANIA:

TRA I SUOI CLIENTI GRANDI ALBERGHI E RISTORANTI STELLATI

italiano

L’

che ha stregato

i

tedeschi

di Luisa Barbieri he ci provasse gusto a deliziare la Germania con le bontà del made in Italy, lo dicono i suoi trascorsi da giovane e brillante intermediario della Regione Molise, impegnato, a soli 22 anni, a esportare, proprio lì, prodotti rigorosamente italiani: pasta, caffè, olio e vino. Vino, sì, quello che poi, per lui, sarebbe diventato il must, ben interpretando e soddisfacendo la realtà tedesca da esperto conoscitore quale era stato in grado di diventare. Certo,

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grazie anche a prodotti di primissima qualità e ad una professionalità ben consolidata nel tempo. Ed ecco Domenico Di Paolo, imprenditore cinquantenne, insignito come Cavaliere della Stella della Solidarietà Italiana nel 2008 dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, lanciarsi, due anni dopo quegli esordi, in questa avventura, come la definisce il cavalier Domenico. E aprire nel 1986, ad Hagen, in Nord Reno Vestfalia, la sua “Enotria Vino”,

un’enoteca con vendita al dettaglio e all’ingrosso, una delle 400 migliori di tutta la Germania. Il bilancio, a 22 anni di distanza, è favoloso, con un’offerta di prodotti internazionali ma che non poteva non puntare su vitigni autoctoni italiani. Il programma enologico è infatti completo e spazia su tutte le regioni dello stivale, isole comprese. Unica in questo senso, l’enoteca si avvale della professionalità di ben sei sommeliers Ais. Grazie a loro, qui i


▲ Domenico Di Paolo

▲ Cristian Fabrizi e Daniela Bianco, sommeliers dell'Enoteca Enotria

privati trovano una vasta scelta di vini, un consulto professionale, la possibilità di degustare e di scegliere il prodotto che cercano, sicuri di andare ad acquistare quello giusto. E qui si riforniscono anche i ristoranti della regione, ai quali viene offerto un servizio che non si ferma alla consegna della merce. Il cliente viene accompagnato nella scelta delle bottiglie per le quali viene anche creata appositamente l’etichetta. Da non dimenticare il servizio garantito alle grandi catene alberghiere come il Rocco Forte e il Gruppo Althoff, con ristoranti da tre stelle Michelin. Clienti che hanno reso questa azienda un nome in tutta la Germania, grazie a una distribuzione che parte da Hagen per arrivare ad Amburgo, a Monaco, a Berlino e ad Aquisgrana. Formatosi ai corsi Ais, oggi il cavalier Domenico, per primo, si avvale proprio di quella professionalità riconosciuta dallo Stato e che ha risonanza in tutto il mondo. Fatta di una serietà, dice Domenico, che la contraddistingue da molte altre associazioni. “Il nostro, dice, è stato il primo corso bilingue tenuto all’estero ma gestito direttamente dall’Italia, e ha visto la nascita di 24 sommeliers. E’ importante istruire i ristoratori italiani all’estero, perché sono loro che ogni giorno devono confrontarsi con i clienti tedeschi e sono ambasciatori in prima linea del made in Italy”. Il suo successo, dunque, lo porta oggi a credere nella necessità di diffondere più professionalità anche tra i privati, invitandoli a prendere parte

ai corsi Ais con seminari, 30 all’anno fuori casa e 10 in casa, che lui stesso organizza regolarmente. Un modo, racconta Domenico, per consolidare così la diffusione della cultura del vino italiano. A partire dalla sua esperienza personale, quella da maestro degustatore, vera espressione del fascino che il mondo del vino ha sempre esercitato su di lui. “Da ragazzo, racconta, quando ancora vivevo in Abruzzo, partecipavo già con interesse alle vendemmie. In seguito al conseguimento del diploma all’istituto commerciale, ho preso parte a vari corsi istituiti dall’Accademia del Maestro Degustatore”. L’incontro con questa associazione avvenne per lui negli anni Ottanta, durante il Vinitaly, a Verona. Da inesperto, Domenico voleva dare una base teorica a quella passione. Ne nacque un’esperienza più che positiva. Una formazione poi proseguita e che ha dato ottimi frutti: un’azienda in grado di offrire una panoramica completa del vino italiano, con un programma standard al quale di affiancano le novità, rappresentate dai vitigni autoctoni non diffusi, non conosciuti oppure riscoperti. Per incuriosire la clientela e avvicinarla al mondo del vino italiano, ecco la trovata: puntare su arte, musica e moda... Da qui l’idea di organizzare degustazioni e seminari, abbinando vino e cibo, vernissage con artisti sia italiani, tra cui in passato, l’artista piemontese Carlo Crosso, sia tedeschi come Horst Becking, sfilate di moda come Miss Italia nel Mondo e ricevimenti consolari.

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Sommelier nel mondo ▲ I sommeliers della delegazione della Germania settentrionale

▲ Domenico Di Paolo e Daniela Bianco

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E i tedeschi gradiscono, eccome: la clientela è cosmopolita, molto aperta a livello internazionale, predilige il vino italiano e quello francese. Preparata, insomma. E affascinata dall’Italia e dalla sua cultura, amante dei viaggi, con un occhio di riguardo a Piemonte, Veneto e Toscana, regioni trainanti della produzione vitivinicola italiana. Solo ultimamente hanno iniziato ad interessarsi al sud e alle isole e questo ha portato ad una conseguente richiesta di vini di quelle zone, grazie anche all’ottimo rapporto Qualità-Prezzo offerto. E se i tedeschi rispondono magnificamente, gli italiani non sono da meno. Soprattutto gli imprenditori, a maggior ragione quelli impegnati nella ristorazione, mentre i privati sono rimasti, per la maggior parte dei casi, molto legati alle loro radici e tradizioni e al motto “La roba fatta in casa è sempre la migliore...”. Chi ha attività ha cercato di evolversi nel tempo, per competere con la gastronomia internazionale. Si è avvicinato al mondo del vino e ne ha capito

l’importanza, al punto che oggi, nei ristoranti italiani si trovano carte con 80-200 vini. Un dato molto significativo, che sottolinea l’apprezzamento dei prodotti di casa nostra. Soddisfazioni per il cavalier Domenico insomma, come le innumerevoli citazioni che gli sono state dedicate da parte della stampa nazionale e locale e da riviste specializzate come il “Feinschmecker” e il “Wein Gourmet”. Oltre al fatto che proprio a lui sia stata assegnata l’organizzazione di uno dei più importanti eventi che celebrano l’Italia. “Ho avuto l’onore di organizzare per ben tre anni la “Festa Italiana” ad Hagen, nel 1990, 1992, 1994, con il patrocinio dell’ambasciata italiana e dell’Ice, Istituto di commercio estero. Una manifestazione centrata sul made in Italy, della durata di 5 giorni, che ha visto la partecipazione di circa 400 mila persone per strada, con grande risonanza di stampa, “Die Zeit”, “Die Welt”, e il riconoscimento, da parte della città, del titolo di manifestazione di maggior successo dal dopoguerra ad oggi”.


Oli d’Italia

olivoteca d’Italia,

L’

un’idea vincente di Luigi Caricato i sono idee che vanno coltivate. Per esempio quella maturata da Pasquale Di Lena, fondatore dell’associazione delle Città dell’olio. La sua proposta di realizzare una “olivoteca d’Italia” ha avuto sin da subito i primi favorevoli riscontri. L’idea è stata lanciata sul settimanale “Teatro Naturale”, agli inizi di dicembre 2008, ed è stata prontamente ripresa dall’agenzia di stampa Ansa e successivamente da altri media. Un riscontro iniziale avvenuto sotto i migliori auspici, visto che già si muovono in diversi, a livello istituzionale e non. In diversi, dunque, si dichiarano pronti in questa fase iniziale di lancio ad accogliere lo spirito che anima la proposta e ad aderire al progetto. L’Italia d’altra parte vanta un patrimonio varietale piuttosto esteso. Un decreto ministeriale del novembre 1993 riporta l’elenco delle cultivar d’olivo ufficialmente iscritte nello schedario oleicolo nazionale. Elenco che è ripartito secondo un numero progressivo da 1 a 395, e che offre una essenziale descrizione con relativo codice di appartenenza. Un lavoro prezioso, che ci fa capire quanto sia effettivamente importante il germoplasma olivicolo, vero punto di forza, più di altri, della nostra olivicoltura. E oggi l’Ivalsa, l’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree di Sesto Fiorentino, riferendosi alla risorse genetiche presenti nei nostri oliveti, ne mette in elenco addirittura 538. E’ dunque il caso non solo di valorizzare, ma di fare, di questo esteso e ricco patrimonio di varietà, una risorsa da rendere ancora più felicemente operativa del solito. Intanto, il primo a scendere in campo, dopo la proposta di Di Lena, è stato il presidente della Cia Giuseppe Politi, quindi, a seguire, l’Associazione nazionale delle Città dell’Olio, l’Assitol, e altri riferimenti istituzionali come la Regione Campania, la Provincia di Campobasso, e molti altri ancora che ad oggi hanno manifestato un vivo interesse. C’è da fidarsi, così almeno sembra. E pare infatti che il progetto possa prendere davvero corpo, nella speranza che non resti tuttavia solo sulla carta. L’idea di approntare una sorta di oliveto speciale, che raccolga tutte le identità, è d’altra parte strategicamente fattibile. “Non solo perché

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raccoglie, presenta e promuove il ricco patrimonio di biodiversità dell’olivicoltura italiana – come opportunamente ci tiene a precisare Pasquale Di Lena – ma anche perché, a conti fatti, disporre di una olivoteca ben strutturata consente oggi di creare una attrazione e un punto di incontro per studiosi e cultori dell’olivo e dell’olio, fino a diventare anche una meta per turisti, scuole, università e appassionati consumatori. Pasquale Di Lena già pensa al futuro: “L’Olivoteca d’Italia – dice – dovrà diventare la maglia centrale di una rete di strutture similari a carattere pubblico e di livello regionale”. E, con l’intenzione di precisare meglio l’idea del progetto, insiste: “Noi siamo partiti da pochi dati, sufficienti per avere il quadro della realtà dell’olivicoltura italiana, all’interno di quella mondiale, e abbiamo visto che, sui 12 miliardi di alberi che esprimono ambienti e paesaggi spettacolari del nostro Paese, sono ben 224 milioni e più gli alberi di olivo, i quali per l’esattezza ricoprono 1,1 milione di ettari di superficie coltivata a oliveto”. Un numero ragguardevole di piante, non c’è che dire; un numero su cui peraltro non si è ancora puntato a sufficienza, fino ad oggi. E lo si vede peraltro da come viene trascurata la nostra olivicoltura a livello di Istituzioni centrali. Ci pensate? E’ come assistere alla costruzione di tante nuove città senza alcun piano regolatore. Voi mi direte, ma è quello che accade comunemente. Già, ma con l’olivicoltura è ancora peggio. Accade proprio di tutto. C’è pure chi – pensate un po’ – cerca di spacciare cultivar spagnole – proprio così: spagnole – nel tentativo di importarle in Italia al fine di promuovere e favorire una spagnolizzazione dei nostri impianti olivetati. Ora, sia detto per inciso: io sono aperto a qualsiasi forma di sperimentazione, ma non accetto forme di colonizzazione. Non per una chiusura mentale, ma perché è da idioti, di fronte a un vasto patrimonio varietale come il nostro, importare cultivar spagnole. Sorge dunque il dubbio che ci sia, da parte di qualcuno, un po’ di malafede. Da qui, l’idea di allestire una Olivoteca d’Italia, oltre che una bella idea in sé, rappresenta anche un baluardo a difesa del nostro germoplasma olivicolo.


GLI ASSAGGI Nel bicchiere. Verde dai riflessi dorati, è limpido alla vista. Al naso ha profumi fruttati di media intensità, puliti e freschi, dalle connotazioni erbacee, con rimandi netti al frutto. Al gusto è vegetale, con richiami al carciofo e alla mandorla. Al palato è armonico e vellutato, ha buona fluidità e note amare e piccanti ben dosate. In chiusura una lieve punta di piccante e toni mandorlati. L’abbinamento. Insalata di carciofi con patate e valeriana; gnocchetti di segale con cipolle al cartoccio e fagioli; arrosto di maiale al finocchio.

ITALIA

“Poggio del Fiore” è un 100% italiano, frutto di un blend di diverse tra le più rappresentative cultivar nostrane.

“Dagla” è un blend, in produzione limitata, da olive Frantoio (80%), Leccino e Pendolino. Nel bicchiere. Giallo oro dai riflessi verdolini, si apre al naso con profumi fruttati di media intensità, fini ed eleganti, con toni erbacei e di frutta bianca. Al palato ha buona fluidità ed è morbido e avvolgente, armonico, equilibrato nelle note amare e piccanti, con gusto vegetale di carciofo e lattuga. In chiusura note floreali, sentori di mandorla e lieve tocco piccante. L’abbinamento. Pasta di farro alla salvia; insalatina di sedano, mela, montasio e noci; involtini di pesce spada al cartoccio con pomodorini. Boris Pangerc, Dolina 116, 34018 San Dorligo della Valle (Trieste), tel. 040.228541, boris.dolina@libero.it

FRIULI VENEZIA GIULIA

Olitalia Gourmet, via Meucci 22/a, 47100 Forlì, tel. 0543.794811, www.olitalia.com

Nel bicchiere. Verde dalle sfumature dorate, è limpido alla vista. Al naso ha profumi fruttati di media intensità, freschi e vegetali. Al palato è morbido e suadente, di buona fluidità, con note amare e piccanti evidenti e nette, persistenti, ma in buon equilibrio. In chiusura note di erbe di campo e punta piccante. L’abbinamento. Crema di carote; gnocchi di ricotta e spinaci; tonno fresco scottato con carpaccio di carciofi.

LAZIO

“Tor de’ Sassi” è un blend da olive Frantoio (40%), Moraiolo (30) e Leccino (30).

Azienda agricola Francesca Barberini-Tenuta Porta Medaglia, via Porta Medaglia 152, 00134 Roma, tel. 06.7136018, aziendaagricola@francescabarberini.net

Nel bicchiere. Verde dagli intensi riflessi oro, è limpido alla vista. All’olfatto ha profumi che rimandano netti al frutto fresco e verde, con marcati sentori erbacei e richiami a frutta bianca. Ha buona fluidità e armonia al palato, con gusto vegetale di carciofo ed erba di campo, amaro e piccante netti ma ben dosati. In chiusura i toni mandorlati e la persistenza del piccante. L’abbinamento. Riso rosso in insalata con salsina alla rucola; macedonia di pomodori con fagioli cannellini e pecorino; polipo con pomodorini, patate e capperi.

LAZIO

“Cetrone” fruttato intenso 2008, da olive Itrana in purezza.

Azienda agricola Gina Cetrone, via Cornarolo 4, Sonnino (Latina), tel. 0773.949008, info@cetrone.it, www.cetrone.it

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Birra di qualità

birra

Una sotto la Lanterna di Maurizio Maestrelli

DUE

COLLEGHI

CHE PRIMA LAVORAVANO ALLA

DEL

LATTE

CENTRALE DI GENOVA

DECIDONO DI SEGUIRE LA LORO PASSIONE E DI APRIRE UN BIRRIFICIO ARTIGIANALE

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a data della prima cotta, ovvero della prima produzione ufficiale, è quella del 5 giugno 2008. Nemmeno un anno fa. Eppure il birrificio Maltus Faber di Genova ha ottenuto il massimo riconoscimento, al pari di soli altri ventuno produttori, sulla Guida alle Birre d’Italia 2009. Ce l’ha fatta con la sua Ambrata, ma quello che stupisce è la rapidità felina con cui si è insediato ai vertici qualitativi nazionali. Una rapidità, per l’appunto, che potrebbe quasi destare dei “sospetti” se non si conoscesse la storia dei due titolari del birrificio stesso: Massimo Versaci e Fausto Marenco. Cominciamo allora a spiegare che i due si conoscono dal 1992, lavorano insieme alla Centrale del Latte di Genova, un’azienda nell’orbita del gruppo Parmalat. Marenco è impegnato nel controllo qualità del prodotto, Versaci nell’ufficio marketing. Più tecnico il primo, orientato al commerciale e alla comunicazione il secondo. E già queste, verrebbe da dire, sono delle buone premesse. Ma i due condividono anche una feroce passione per la birra: collezionista, organizzatore di corsi e di viaggi birrari Massimo Versaci, eccellente homebrewer Fausto Marenco. Quest’ultimo passa in breve dalle cotte casalinghe a quelle, più impegnative, per una nota associazione di Pasturana, nel basso Piemonte, ed è probabilmente in queste occasioni che affina la tecnica e il talento. Fino al giorno in cui, con Versaci, decidono di mettersi a “giocare” sul serio, producendo birra in proprio e nella propria città: Genova. Tutto quello che segue ha in effetti un’accelerazione insolita: viene trovato lo spazio per l’impianto in via Fegino 3, all’interno di uno stabile del centro storico che ospitava dal 1907 la fabbrica di birra Cervisia, un vero e proprio punto di riferimento per i genovesi. Sembra un segno del destino e forse lo è. Il passo successivo è l’impianto di produzione, un passaggio importante per tutti gli artigiani della birra. “Avremmo potuto acquistarlo semplicemente”, spiega oggi Versaci, “ma volevamo qualcosa su misura e che avesse le caratteristiche tecniche che noi riteniamo irrinunciabili. Vede, molti impianti pronti si scontrano poi con le necessità del lavoro quotidiano tra cui quella, fondamentale, della sanificazione dell’impianto stesso. Non ho detto

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▲ Massimo Versaci e Fausto Marenco

lavaggio, ho detto sanificazione perché su questo siamo proprio intransigenti. Lo consideriamo un requisito sine qua non”. La pulizia dell’impianto è in effetti una regola sulla quale non si può discutere, perché è una delle basi sulle quali si costruisce la qualità delle birre. Sarà un aspetto poco creativo, ma è sicuramente un atteggiamento professionale. Fatto l’impianto ad hoc su un progetto di proprietà con un’azienda specializzata ecco che si parte con la prima birra, quella appunto del 5 giugno 2008. Si chiama In Primis, è a tiratura numerata e se si è fortunati forse la si può ancora trovare. Noi l’abbiamo assaggiata e l’abbiamo trovata molto corretta, anche elegante, con una bella schiuma fine, i profumi fruttati e un netto finale amaro al palato. Per essere una cotta di prova, non c’è che dire. “La nostra filosofia produttiva”, continua a raccontare Versaci, “non fa ricorso in nessun modo alle spezie. Non è che non condividiamo chi lo fa, solo preferiamo attenerci agli ingredienti base. Lavoriamo sulla miscelazione dei malti, sull’utilizzo dei luppoli e sul lievito. Produciamo alcune birre che vanno bevute “fresche” di produzione, anche se tutte hanno un periodo di maturazione in bottiglia prima della vendita, ma anche delle birre che migliorano con il tempo”. Il birrificio Maltus Faber (Tel. 340.1230069; www.maltusfaber.com; info@maltusfaber.com) lavora adesso su tre linee: ci sono le birre cosiddette “base” ovvero la In Primis, la Blonde e l’Ambrata; le birre speciali o stagionali come la Brune, la Triple Blonde e la Birra di Natale; e le birre da meditazione ossia la Extra Brune e l’Imperial. “Ammetto che non abbiamo dimostrato una grande fantasia nella scelta dei nomi”, scherza Versaci, “ma siamo riusciti a comporre una gamma abbastanza ampia e articolata per la nostra clientela. Sono tutte birre di alta fermentazione, non pastorizzate e non filtrate, in bottiglia da 0,75”. Una gamma che già si può trovare in giro, a Genova ma non solo. Il successo di un’iniziativa, oltre che dai commenti favorevoli, si misura anche con i risultati concreti. La distribuzione delle birre di Maltus Faber è affidata in esclusiva per la Liguria a un grossista, altri accordi sono stati già raggiunti o stanno per essere conclusi in altre zone d’Italia. I più interessati sembrano essere, come spesso accade, ristoranti ed enoteche che di anno in anno sembrano farsi maggiormente affascinare dal gusto e dai profumi delle birre artigianali italiane. “Ma, e la cosa ha preso in contropiede anche noi”, conclude Versaci, “riscontriamo notevoli consensi nelle pizzerie. Ci sono locali di questo tipo che stanno imparando come la pizza con la birra artigianale possa costituire un matrimonio ideale e che ogni pizza può avere la sua birra in abbinamento perfetto. Qualche tempo fa, ad esempio, abbiamo organizzato una serata a base di focaccia di Recco e le nostre birre, ed è stato un successo oltre le nostre migliori previsioni”. Già, perché se Marenco è il deus ex machina della produzione, la mente sempre rivolta alle ricette e ai fermentatori, Versaci non si è dimenticato la sua competenza nel marketing. La conoscenza e la diffusione delle birre artigianali passa necessariamente attraverso il passaparola, le piccole ma appassionanti iniziative rivolte alla degustazione e ai possibili abbinamenti. Una sorta di “torrente carsico” della comunicazione che non compare sulle pubblicità dei giornali ma che, lentamente, sta facendo capire al grande pubblico come le birre non sono solo i grandi marchi. I piccoli artigiani, in definitiva, sono alla riscossa, conquistandosi un loro mercato. Di nicchia, indubbiamente, ma non per questo meno importante, forse anche più interessante, di quello governato dalla legge dei grandi numeri. 75


Distillati

In

Olanda

si curavano con il

gin

di Angelo Matteucci

mmaginate una giornata faticosa, apparentemente interminabile: difficoltà e contrattempi ci fanno desiderare con impazienza la sua fine per assaporare la libertà della sera che finalmente arriva con uno splendido tramonto da contemplare in allegria e distensione con le persone più care, seduti al bar preferito con terrazzo a picco sul mare. Sul tavolo davanti a noi vi è un bicchiere alto, appannato da goccioline formate dalla diversa temperatura tra il contenuto ghiacciato e la tiepida temperatura serale. Il ghiaccio nel bicchiere si scioglie lentamente e le bollicine a scatti si staccano dal fondo per esplodere in superficie. Il drink è un perfetto gin & tonic preparato con maestria dal barman amico ed è lo splendido compagno rilassante di quel felice momento. A differenza di altri distillati il gin, nell’immagine del consumatore, è un prodotto metropolitano legato soprattutto al capoluogo britannico per la denominazione London Dry gin. Contrariamente a quanto si crede, non nacque in Inghilterra ma vide la luce in Olanda probabilmente nella seconda parte del XVI secolo a scopo medicinale contro la cattiva digestione per volere di Sylvius e Franciscus de la Boe, entrambi medici e professori dell’università di Leida. A purissimo alcol varie volte distillato furono aggiunti in infusione alcuni elementi botanici comprese bacche di ginepro per distillare l’infuso ancora una volta. Ben presto il genever, come è chiamato in Olanda, varcò l’uscio dell’alchimista per essere considerato un ottimo medicinale per vari disturbi ed anche una piacevole bevanda con aromi derivanti da bacche di ginepro, semi di coriandolo, liquirizia, angelica e altro. Il distillato ha una storia particolare con alterne fortune dato che nella sua lunga esistenza fu ed è talvolta prodotto e presentato in modo incorretto pur avendo nobili origini. Fu largamente utilizzato anche dalle truppe olandesi prima delle battaglie per dare coraggio ai soldati. Gli alleati inglesi di stanza nei Paesi Bassi durante la guerra dei trent’anni (1618-1648) impararono a farne largo uso decidendo di portare il genever in patria al loro ritorno. In Inghilterra in quel periodo la nobiltà e l’alto clero bevevano vino e cognac importati dal territorio francese mentre il popolo consumava esclusiva-

I

IL

GENEVER VENIVA BEVUTO A SCOPO

MEDICINALE CONTRO LA CATTIVA DIGESTIONE

E ALTRI DISTURBI:

GLI ALLEATI INGLESI LO CONOBBERO NELLA TERRA DEI TULIPANI

GUERRA TRENT’ANNI

DURANTE LA DEI

E DECISERO DI PORTARLO

OLTREMANICA

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▲ Un ''Gin Toddy'', preparato con gin, acqua, limone, zucchero e cannella

▲ Bacche di ginepro, semi di coriandolo, liquirizia e angelica, ingredienti botanici del gin

▲ Il Plymouth, l'unico gin con denominazione geografica, e lo storico Gordon's Gin

mente birra locale. I produttori di birra inglesi colsero al balzo l’opportunità di iniziare anch’essi l’attività di distillatori utilizzando cereale e bacche di ginepro senza peraltro aggiungere elementi botanici particolari. Nel 1638 fu fondata a Londra la Company of Distillers che stabilì regole atte a premiare la purezza dei distillati con più passaggi in alambicco. L’ascesa al trono d’Inghilterra di William III d’Orange nel 1689 favorì l’importazione del distillato dall’Olanda, boicottando così vini e distillati della nemica Francia. Il successo del genever olandese in territorio inglese ed il distillato locale (denominato geneva ed in seguito gin) uniti divennero la bevanda nazionale politicamente legata all’Inghilterra protestante, mentre il francese cognac era visto come simbolo cattolico. La produzione di gin esplose in quegli anni raggiungendo consumi da capogiro nel vero senso della parola! Nel 1730 solamente nel territorio metropolitano londinese vi erano settemila vendite di liquori. La produzione fu lasciata anche nelle mani di locandieri, spesso senza scrupoli, che distillavano con metodi rudimentali e con risultati catastrofici per la salute dei cittadini. La vendita di pessimo gin corretto con miele per renderlo dolce e meno sgradevole, raggiunse nel 1743 ben settanta milioni di litri con una popolazione inglese di sei milioni. Si può facilmente comprendere che il basso costo del gin alla portata di tutti indusse larghi strati della popolazione meno abbiente allo stato di alcolismo cronico, piaga particolarmente nociva per le donne, soprattutto madri che traevano il loro sostentamento esclusivamente dal gin. In quel periodo il tasso di mortalità a Londra superava quello delle nascite con picchi altissimi per i bambini. Il parlamento britannico prese vari provvedimenti e solamente nel 1751 riuscì a porre un freno a questa epidemia. La tassa alcol aumentò sensibilmente rendendo il gin notevolmente più costoso. Un maggior controllo da parte delle autorità ridusse la possibilità di bere smodatamente e la qualità del gin migliorò raggiungendo e probabilmente superando il livello originale. Vi furono grandissime proteste e tafferugli in tutto il Paese che si spensero nel tempo. A Londra, tuttavia alcuni distillatori di grande capacità e serietà professionale producevano gin di qualità. I nomi che sono giunti ai nostri giorni sono i fratelli londinesi Robert e Daniel Booth che iniziarono la distillazione nel 1742 e lo scozzese Alexander Gordon che aprì la sua distilleria a Londra nel 1769 ed altri ancora che, sempre nel capoluogo inglese, produssero un eccellente gin secco, pulito che chiamarono London Dry Gin. In seguito si unirono ai nomi citati altri che produssero i gin Tanqueray, Bombay e Beefeater’s. Nel 1793 nacque nella città di Plymouth sulla Manica la distilleria omonima che opera ancora nel luogo originale ricavato da un antico monastero benedettino. E’ l’unico gin con denominazione geografica (Plymouth gin) mentre il non protetto London Dry Gin può essere prodotto ovunque. Nel frattempo altre bevande, un tempo riservate alla nobiltà, furono introdotte sul mercato a prezzi abbordabili. Ci riferiamo al caffè, alla cioccolata e soprattutto al tè importato dai domini britannici che divenne la bevanda per tutti gli strati sociali. Nel XIX secolo il gin inglese iniziò la distribuzione in bottiglia che diede maggior impulso alla sua distribuzione mondiale. Divenne la bevanda della Reale Marina e seguì i britannici nel Commonwealth. In India fu particolarmente apprezzato miscelato con acqua al chinino (dolcificata e gassata), Indian tonic water che rese il gin & tonic la bevanda alcolica di fama mondiale. Sempre nel XIX secolo furono preparate le prime miscele coadiuvate da ghiaccio che presero nome di cocktail resi famosi negli anni venti e tristemente famosi durante il proibizionismo statunitense (1919-1933) quando in molti casi il gin usato era di pessima qualità. Ancora oggi si producono alcune qualità di gin economici di scarso valore che vengono serviti in certi bar non qualificati e soprattutto nel mondo della notte. Sua maestà il gin, il più versatile tra i distillati, è comunque vincente grazie all’ottima produzione in generale e per il fatto che nella preparazione di una bevanda a base di gin viene spesso richiesta la marca favorita dal consumatore esigente che sa apprezzare le cose buone della vita.

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Acqua

Le nanotecnologie nuotano nell’

acqua

di Davide Oltolini

ome appare evidente non tutte le acque sono adatte ad essere consumate dall’essere umano. Per essere tali, cioè per non arrecare danno all’organismo se non, addirittura, causare la morte di chi le beve, devono, infatti, rispondere al requisito della potabilità. Un tempo sul territorio italiano era possibile commercializzare e consumare unicamente due tipi di acque. Con l’attuale disciplina di derivazione europea, che si esplicita nel decreto legge n. 339 del 1998 e n. 31 del 2001, ai fini dell’immissione in vendita, non è più rilevante l’origine dell’acqua, ma unicamente la sua corrispondenza alle caratteristiche di potabilità previste dalla normativa vigente. Di conseguenza nella nostra penisola sono commercializzate essenzialmente due diverse macrotipologie di acque: le acque cosiddette “non trattate”, che si identificano nelle acque “di sorgente” e nelle acque “minerali”, e le acque “trattate”, come l’acqua “dell’acquedotto” (ovvero l’acqua di rubinetto, detta anche acqua “del Sindaco”) e l’acqua “purificata”. Quest’ultima, dopo esser stata depurata, viene demineralizzata ed equilibrata, prima di essere immessa al consumo. Questo prodotto ha riscosso già da tempo un

C

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▲ Un “Water Cooler”, da noi spesso indicato come “boccione” d'acqua

grande successo, soprattutto negli Stati Uniti, dove è tra l’altro spesso presente, come ormai anche in Italia, nei cosiddetti “boccioni”, ovvero i “water coolers” che, secondo la nostra legislazione, possono contenere anche acque “di sorgente”, mentre risulta vietato, in questi particolari contenitori, l’impiego di acque riconosciute, da parte del Ministero

della Sanità, come minerali. Tra le novità in tema di depurazione riveste, indubbiamente, grande rilievo, quella dell’impiego di tecnologie hi tech ed, in particolare, di nanotecnologie. Queste ultime sono, infatti, sempre maggiormente presenti in ambito gastronomico dove, da tempo, si parla ormai di nanofoods. Ma cosa sono le nanotecnologie? Si tratta di un insieme di procedimenti che consentono la manipolazione della materia a livello molecolare ed atomico sulla scala di un miliardesimo di metro. E’ indubbiamente la novità scientifica più rilevante del nostro secolo e le sue applicazioni pratiche risultano essere infinite. In realtà già incontriamo tali tecniche di manipolazione della materia nella nostra vita quotidiana, pur senza rendercene conto: in alcuni farmaci, nelle marmitte catalitiche, in diverse creme antirughe, che utilizzano l’ossido di titanio, in vari dentifrici, ma anche in pellicole alimentari e nella produzione di padelle, come accade, ad esempio, in Veneto dove un’azienda impiega carbonanotubes, ovvero molecole di carbonio legate tra di loro in modo da formare nanotubi più resistenti dell’acciaio. Si parla addirittura di approntare,


nel giro di non molti anni, come sostiene lo statunitense Ray Kurzweil, esperto di intelligenze artificiali, dei nanorobot che, per mezzo del nostro sistema circolatorio potrebbero arrivare al cervello e lì operare in sinergia con lui. Per quanto riguarda i nanofoods si possono, invece citare diversi cioccolati, maionese, chewingum ed altri ancora. Lo scorso anno il giro d’affari nel mondo per i materiali nanotech ammontava a 50 miliardi di dollari e, prima della recente crisi economica, il tasso di crescita annuo delle aziende che vi si dedicano era, addirittura, del 28%. Il vero problema è, però, quello di riuscire a capire se le particelle impiegate dalle nanotecnologie, soprattutto (ma non unicamente) quelle utilizzate in ambito gastronomico, siano, o meno, pericolose per la salute dell’essere umano. A tal proposito lo scorso anno la Commissione Ue ha, infatti, incaricato l’Efsa (European Food Safety Authority), cioè l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, che si occupa della valutazione dei rischi relativi all’alimentazione umana e animale fornendo consulenza scientifica indipendente, di approfondire adeguatamente l’argomento. In ogni caso, a livello medico, non si conoscono ancora, almeno con precisione, gli effetti che tali tecnologie hanno o possono avere sul corpo umano. Si tratta di un aspetto estremamente rilevante, anche perché le nanoparticelle sono in grado di penetrare all’interno delle cellule, risultando, quindi, assolutamente indispensabile che siano biodegradabili, al fine di scongiurare anche gli effetti negativi di un’introduzione nell’organismo che potrebbe essere prolungata nel tempo. Ma, in particolare, come avviene l’applicazione della nanotecnologia nel campo della depurazione delle acque? Si

tratta di un processo ideato da Peter Majewski e Chiu Ping Chan, dell’Università del Sud Australia, che consente un rilevante abbattimento dei costi di purificazione di queste ultime, con conseguenti enormi vantaggi economici. Minuscole particel-

le di silice rivestite da uno strato nanometrico di un idrocarburo, che funge, così, da sostanza attiva, possono essere impiegate al fine della depurazione dell’acqua da virus, batteri e sostanze chimiche tossiche per l’uomo. La silice (SiO2), solido cristallino di colore bianco, è un composto del silicio. La natura di semiconduttore di quest’ultimo ne suggerisce l'impiego nel settore dell'ingegneria elettronica, come, ad esempio, nella fabbricazione di circuiti integrati e di vari ulteriori componenti elettronici. Nel processo di depurazione la polvere di silice si mescola all’acqua dove rimane ad agire per circa una sessantina di minuti. Successivamente il liquido mischiato con tale polvere nanotecnologica viene sottoposto a filtrazione e risulterà, così, alla fine del processo, del tutto privo di agenti patogeni. Questi ultimi, infatti, rimangono inevitabilmente intrappolati sulla superficie delle particelle a causa dell’attrazione elettrostatica (l’elettrostatica è, infatti, quella branca della fisica che studia le forze esercitate da un campo elettrico stazionario, ovvero che non muta col tempo, su corpi carichi). Concludiamo questo nostro piccolo “viaggio” nel mondo della più recenti tecnologie regalando ai lettori di De Vinis una curiosa anticipazione: un tempo quelli che erano considerati i prodotti dell’alta tecnologia venivano misurati in “Milli” prefisso 0,001 (ovvero in millimetri), poi è arrivata la cosiddetta microtecnologia che si evidenzia in “Mikro” prefisso 0,000001 ed ora siamo alfine giunti, come illustrato, alla nanotecnologia: “Nano” prefisso 0,000000001. Qual è, quindi, il termine che potrebbe, un giorno, contraddistinguere la tecnologia del futuro, se continuerà tale incredibile evoluzione? Si tratta di picotecnologia da “Piko” prefisso 0,000000000001. Avremo visto giusto? Conservate questo articolo e ne riparleremo tra una cinquantina d’anni. Prosit.

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Vino che passione!

Il del 80

vino pittore


▲ Angelo Accadia nella sua vigna

▲ La campagna a Serra San Quirico

di Francesca Cantiani a pittura e il vino si sono incontrati molte volte, perché il vino non è esclusivamente materia e colore ma è anche luminosità e metamorfosi. I pittori da sempre sono legati al vino, musa ispiratrice e fuoco vitale ma d’altro canto anche il vignaiolo, come il pittore, possiede una sua tavolozza dove dosa e trasforma, mescola e crea, giocando con le leggi naturali che presiedono alla fermentazione e all’evoluzione del vino. Insomma il vino e la pittura sono due modi diversi di interpretare la vita. Non c’è da stupirsi dunque se il passaggio da artista a vignaiolo, per Angelo Accadia, sia avvenuto in maniera naturale, come la semplice conseguenza di pensieri, passioni e scelte. Ed è stata proprio la decisione di stabilirsi nel cuore delle Marche, sulle dolci colline a sinistra del fiume Esino, tra la frazione Sasso e Castellaro di Serra San Quirico, in provincia di Ancona, e il desiderio di vivere in una casa colonica con annesso piccolo vigneto a spingere il pittore Accadia, dotato di una spiccata vena artistica, a mettere in un angolo tavolozza e pennelli e a dedicarsi totalmente al vino. «L’artista nasce prima del vino» spiega Angelo. «La mia vita era incentrata prevalentemente sull’arte, la pittura e la scultura e il vino era un piacere che apprezzavo ma che non condizionava la mia vita. Oggi natural-

L

mente accade il contrario, però se devo essere sincero, non so se quella per il vino sia una passione che è sempre stata dentro di me oppure sia nata con il tempo per l’energia e l’attenzione che richiede il lavoro di chi produce vino. Comunque continuo a dipingere, a scolpire ed espongo le mie opere in giro per il mondo». E infatti appena si entra in azienda la prima cosa che colpisce l’attenzione sono i quadri dai colori vivi e le sculture che campeggiano solitarie come divinità silenziose. ■■■ Ma perché un pittore diventa vignaiolo? «Mia moglie ed io abbiamo comprato questa casa nel 1979 e ci siamo trasferiti per un certo periodo. Vivendo qui ce ne siamo innamorati a tal punto da decidere di stabilirci definitivamente. Oltre alla casa colonica abbiamo acquistato il piccolo appezzamento di terra in parte vitato, detto vigneto storico, dove veniva coltivata una molteplicità di uve che servivano sia per le esigenze di chi viveva qui prima di noi sia per farne vino. Inizialmente il poco vino prodotto era esclusivamente destinato alla nostra tavola e agli amici. Sono stati proprio loro a spingerci “ad allargare la cerchia”, a farlo assaggiare anche ad altri. Abbiamo deciso quindi di piantare nuove viti. L’azienda vera e propria è nata

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Vino che passione!

nel 1983 e può contare su cinque ettari, posti a 370 metri di altezza, messi a dimora nel 1991, e dove grazie ad un attento lavoro di selezione di porta-innesti e di cloni dell’impianto siamo riusciti a realizzare vini di forte personalità». ■■■ Si è avvalso della collaborazione di un esperto? «Effettivamente è dalla conoscenza di un agronomo che è nata l’idea di impiantare un vigneto di uve bianche Verdicchio per ottenere il vino Verdicchio dei Castelli di Jesi nella tipologia Classico e Superiore e di mettere a dimora un vigneto di uve nere Montepulciano, Sangiovese e Lacrima per ottenere il vino Rosso Piceno. La collaborazione ha portato di conseguenza alla necessità di organizzare in modo ottimale il vigneto e la cantina e alla scelta delle attrezzature più idonee per la gestione del vigneto, per la spremitura e la conservazione del vino. Inoltre la tipologia del nostro vino è determinata dalla scelta degli appezzamenti, sempre a basso impatto ambientale, sulla base delle caratteristiche morfologiche del terreno». ■■■ Si può dire che è un lavoro partito in silenzio, quasi in sordina, ma che ha portato ad ottimi risultati? «Esatto. Pensi che all’inizio vendevamo il vino sfuso. Abbiamo cominciato ad imbottigliarlo nel 1985 e da quel momento è stato un crescendo, con un aumento inaspettato della produzione. Oggi produciamo trentacinquemila bottiglie, che non solo distribuiamo su tutto il territorio nazionale ma esportiamo anche all’estero: Danimarca, Germania, Stati Uniti, Canada, Giappone. La nostra soddisfazione maggiore è che i nostri vini sono apprezzati in molte parti del mondo». ■■■ Quali sono i vini che producete? «Il nostro prodotto di punta è Cantorì, Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Doc. Viene ottenuto dalla selezione di uve Verdicchio in campo, in appez-

zamenti di vigneto con esposizione climatica e caratteristiche morfologiche particolari. L’uva viene vendemmiata surmatura a mano in piccole casse e in più passaggi e viene messa integra nella pressa pneumatica per prenderne soltanto il mosto migliore. Infine la fermentazione avviene a temperatura controllata e in vasche di acciaio inox. Il Conscio, Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Doc, è ottenuto da appezzamenti ben esposti al sole. Anche in questo caso la raccolta è fatta a mano in piccole casse e la vinificazione è in bianco con spremitura soffice e con fermentazione in vasche di acciaio inox. Il Consono, Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Doc, è dato da uve Verdicchio con una resa per ettaro inferiore a quella prevista dal disciplinare di produzione e comunque adeguata all’andamento stagionale. Si tratta di un vino che esprime tutta la tipologia classica del Verdicchio. E infine il Riverbero Rosso Piceno Doc, ottenuto da uve Montepulciano, Sangiovese e Lacrima. Ha un lungo affinamento, dieci mesi in barrique e tonneaux, dieci mesi in vasche di acciaio e quattro in bottiglia». ■■■ Un particolare interessante di questi vini riguarda le etichette. «Le etichette sono estratte dai miei quadri e poi elaborate graficamente. Ad esempio sull’etichetta del Cantorì c’è l’immagine dei cantori e per un errore tipografico è stato messo l’accento. Anche il Riverbero riprende il tema della musica con i suonatori. Il Conscio rappresenta invece dei catamarani e dei pescatori e ricorda che solo se si beve un bicchiere di vino si resta consci, consapevoli». ■■■ Il vino è arte? «Fare vino è un’arte perché bisogna capire la pianta, sapere come lavora il mosto, anche se alla fine il vino deve rimanere una cosa semplice perché non è altro che una spremuta di uva».

SERRA SAN QUIRICO

UN PAESE DA SCOPRIRE L’azienda Accadia si trova a pochi chilometri da una vera e propria perla delle Marche: Serra San Quirico. È un paese di pietra adagiato su costa rocciosa e con le sembianze di una nave con la prua sulla valle dell’Esino. I monti sovrastano l’antica fortezza, testimoni di un passato che i secoli non hanno cancellato. Il centro storico conserva intatto l’impianto medievale, con una particolarità: le “Copertelle”, passaggi coperti che corrono lungo le mura. Di vero interesse la torre principale di difesa detta il “Cassero” e la chiesa di Santa Lucia, uno degli esempi più interessanti ed integri di barocco delle Marche. A pochi chilometri non si può non visitare l’Abbazia di Sant’Elena, un esempio di romanico marchigiano. Ovunque regna il verde delle pinete e delle montagne che offrono spunti per passeggiate e dolci atmosfere di pace. Da non dimenticare le Grotte di Frasassi, uno dei più spettacolari complessi carsici del mondo, che destano l’emozione di un universo nascosto e bellissimo dove il silenzio è rotto solo dallo stillicidio delle gocce d’acqua.

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▲ Una ''copertella''


Sommelier

Nel castello

officina del gusto

c’è l’

di Antonello Maietta

A BRESCIA UN BALUARDO NATO PER DIFENDERE

I POSSEDIMENTI, NEGLI ANNI

NOVANTA

È STATO TRASFORMATO IN UNO DEI PIÙ ESCLUSIVI E CONOSCIUTI RISTORANTI DEL TERRITORIO GESTITO DAL SOMMELIER

DARIO DATTOLI

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embrerebbe quasi impossibile, lasciando il frenetico e rumoroso traffico dell’autostrada Milano-Venezia, poter trovare a pochi chilometri dal centro di Brescia, dopo qualche dolce tornante, un’oasi incontaminata e selvaggia immersa nel silenzio e nel verde. Trentamila metri quadrati di parco faunistico con cerbiatti, pavoni e anatre selvatiche, circondano infatti l’aristocratico edificio che ospita uno dei più esclusivi ristoranti del territorio. Sulla sommità del Colle San Francesco, alla fine del Cinquecento, la nobile e potente famiglia dei Malvezzi edificò il suo castello, un baluardo nato con l’intento di difendere, spesso in modo cruento, i possedimenti circostanti. Alla fine del Seicento accanto al castello venne poi innalzato un altro edificio: un oratorio a pianta ottagonale dalla cupola in cotto, destinato ad accogliere la cappella di famiglia. Solo in epoca successiva la dimora conobbe maggiore tranquillità, quando venne destinata ad elegante “casina” di caccia e… di piacere! Qui per secoli si sono ritrovati i nobili della città e dei dintorni per cacciare lepri e fagiani ma talvolta anche per sistemare, con duelli a colpi di spada, insanabili questioni d’onore.

S


▲ Alessandro Cappotto, Chef Directeur de Cuisine

A partire dal 1960 un paziente e delicato intervento di restauro ha restituito all’edificio il suo altissimo valore storico ed oggi la costruzione è più facilmente identificabile in una villa fortificata, avendo perso l’antica cinta difensiva che caratterizzava il fabbricato originario. Nel 1977 l’intera struttura viene trasformata da Dario Dattoli, un appassionato gourmet, in un ristorante di charme con il nome di Castello Malvezzi. L’edificio principale, che segue il tipico schema delle ville palladiane con quattro salette minori disposte a coppia in modo simmetrico ed impreziosito dal grande salone delle feste, viene destinato ad accogliere il ristorante, mentre la piccola cappella gentilizia, sconsacrata da tempo, viene trasformata in una suggestiva cantina per ospitare negli anni il frutto del paziente lavoro e dell’encomiabile passione del suo anfitrione nella ricerca di vini di alto lignaggio. L’ordine regna sovrano e le pregiate etichette che ammiccano dagli scaffali identificano il carattere di una cantina dal respiro internazionale. Qui, al riparo di ampie volte, tuttora riposano e si affinano le nobili bottiglie che compongono una carta di grande spessore: duemila blasonate referenze suddivise per regione e per tipologia di vitigno o di uvaggio, raccolte in un volume di 180 pagine, rilegato in brossura. La ricerca degli appassionati si può sbizzarrire tra bottiglie rare come lo Champagne Grand Cru Blanc de Blancs Brut 1985 di Lilbert, il Meursault 1992 di Coche Dury, il Montrachet 1995 di Amiot o il Pauillac Château Mouton-Rothschild 1973 oppure ancora il Gewürztraminer Quintessence 1989 di Clos des Capucins. Chi decidesse invece di restare al di qua delle Alpi potrà trovare l’annata 1988 del Chianti Classico Vigneto San Lorenzo del Castello di Ama oppure il Brunello di Montalcino Case Basse 1986 di Gianfranco Soldera, tutti accomunati dall’encomiabile filosofia di ricarichi molto contenuti. Il vino più economico presente in carta è un vero tributo al territorio e si identifica nel Ronco di Mompiano 2006 prodotto a poche centinaia di metri dall’azienda agricola di Mario Pasolini. Si tratta di un sapiente uvaggio di Marzemino e Merlot di elegante complessità che, per nulla incurante della sudditanza psicologica di essere proposto in carta a 15 euro, si trova perfettamente a suo agio tra il meglio della produzione vinicola del pianeta. Tra i vini più costosi troviamo invece Pétrus 1990 e Romanée Conti 1997, posizionati al loro rango grazie anche ai rispettivi prezzi di 3.000 e 4.500 euro. La passione di Dario Dattoli per i vitigni nobili, con una particolare predilezione per il Pinot Nero, ha lasciato una traccia indelebile nelle molte bottiglie dei grandi millesimi di Borgogna che ancora oggi, a distanza di parecchi anni dalla sua prematura scomparsa, sublimano la loro massima espressione in una serie di pietanze, oltre che in un ricco carrello dei formaggi di ricercata composizione. Attualmente l’intera struttura è gestita da un affiatato tandem che si concretizza nelle sapienti capacità comunicative di Enrica Bortolazzi eccellente manager dell’accoglienza e del buon gusto e nelle felici intuizioni di Alessandro Cappotto, regista a tutto campo di tutto ciò che è cibo e vino. 85


Sommelier

Fin dal suo debutto qui al Castello Malvezzi, avvenuto nel 1992, Alessandro ha conferito alla cucina una sua particolarissima impronta, frutto dell’ammirevole legittimazione del suo variegato percorso professionale che lo ha portato dal Cavalieri Hilton di Roma al Royal Garden di Hong Kong, passando per gli Intercontinental di Londra, Francoforte e Ginevra, giusto per citare solo qualche tappa, senza trascurare stage di approfondimento da Alain Ducasse a Monaco e Jacques Maximen a Lione. Sarebbe stato tuttavia molto difficile lavorare per molti anni fianco a fianco di un patron dalla personalità indiscutibile come quella di Dario, senza assorbire una parte importante della sua inclinazione e così Alessandro ha frequentato anche i corsi Ais, acquisendo la qualifica di sommelier professionista. Alessandro accompagna oggi gli ospiti del ristorante in un percorso dei sensi mirabilmente sintetizzato nei semplici concetti della sua filosofia di chef: “Amo pensare alla mia cucina come un officina del gusto, dove i profumi provenienti dai vapori delle pentole e gli aromi delle verdure e delle spezie, ti riempiono di emozioni tali da essere già loro sufficienti a giustificare i sacrifici da affrontare per ottenere quei risultati che fanno grande un ristorante”. Si ritiene quindi estremamente gratificato dall’idea di poter trovare delle semplici armonie mediante l’accostamento di sapori primari con nuove presentazioni ricche di colore e di gusto estetico. Ed in effetti, dopo la tendenza all’eccesso che ha dominato in molti settori negli ultimi anni, la sua è una cucina tendenzialmente caratterizzata da sapori originali ma non troppo marcati, da piatti non grassi, poco speziati, sapidi, sviluppati con cotture rapide nell’intento di mantenere il più possibile inalterato il gusto e il valore nutritivo degli ingredienti di origine. Una cucina del mercato sostanzialmente, trasformando solo ciò che di meglio offre quest’ultimo, con il categorico rifiuto delle inutili complicazioni, nella riscoperta della bellezza e della semplicità. Ma anche una cucina di territorio con i suoi prodotti più tipici, senza tuttavia alienare la curiosità di introdurre nuovi ingredienti e sperimentare nuovi accostamenti, esplorando di pari passo le tecniche d’avanguardia e le cucine straniere. E’ difficile e riduttivo a questo punto continuare a pensare al “Malvezzi”, com’è familiarmente chiamato dalla sua clientela più abitudinaria, semplicemente come un ristorante, il luogo viene identificato da oltre 30 anni come sede ideale di incontri di lavoro o come meta tranquilla per raffinati gourmet, grazie all’amorevole compendio di riservatezza, di ospitalità e di proposte enogastronomiche di assoluta credibilità. L’organizzazione del

Info: Ristorante Castello Malvezzi Via Colle San Giuseppe, 1 25133 Brescia Tel. 030 2004224 E-mail: info@castellomalvezzi.it

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locale è peraltro in grado di allestire catering esterni ambientati nei luoghi più ameni. Saltuariamente vengono inoltre organizzate serate di degustazione a tema che si trasformano in occasioni pressoché uniche per condividere l’apertura di bottiglie veramente rare, difficilmente reperibili altrove. Mentre nelle calde serate estive la “Cantina” viene aperta al pubblico con la stuzzicante offerta di un centinaio di etichette proposte al bicchiere, da accompagnare in modo informale a taglieri di salumi e formaggi, carne e pesce alla griglia, comodamente seduti ai tavoli antistanti il prezioso edificio. Ma l’arrivo della bella stagione è scandito anche dal rapido susseguirsi di affascinanti eventi, accade allora che, per offrire a queste iniziative uno spazio adeguato, ai margini del parco viene allestita la Khaima, una tenda estiva arredata in stile etnico dove vengono sovente organizzati spettacoli musicali di vario genere, dai ritmi caldi e suadenti del jazz ai toni garbati della musica da camera, alternati di tanto in tanto a sfilate di moda, rassegne d’arte, mostre fotografiche ed eventi culturali di grande spessore. Insomma tutto quanto contribuisce a determinare uno stile impeccabile che corre il rischio di farci dimenticare la vista mozzafiato che da qui si gode sulla città.


A tavola

Le mille risorse del

mosto

di Riccardo Castaldi

DAL

MOSTO D’UVA IN

ROMAGNA

SI RICAVANO PREPARAZIONI CHE OGGI SONO CONSIDERATE GOLOSITÀ MA UN TEMPO SERVIVANO PER CONSERVARE PARTE DELLA RICCHEZZA DELLA VENDEMMIA NEL POVERO PERIODO INVERNALE

aba, sugal e savôr sono prodotti derivati dal mosto di uva che fanno parte della tradizione alimentare rurale della Romagna e traggono origine dalla necessità di trasferire parte dell’abbondanza dell’ultimo raccolto autunnale, la vendemmia, al più parco periodo invernale. Mentre oggi sono considerati fonte di piacere per il palato, in passato, quando le possibilità di conservare il cibo erano limitate, queste preparazioni costituivano un’importante riserva di calorie, sfruttata per soddisfare le esigenze alimentari di coloro ai quali il vino era proibito, ovvero i bambini, oltre che per variare ed arricchire la dieta. Saba, sugal e savôr si conservano a seguito del processo di cottura a cui viene sottoposto il mosto, a differenza del vino che invece si conserva grazie al grado alcolico, all’acidità e all’anidride solforosa aggiunta. La lunga cottura, eseguita a fuoco diretto, esplica

S

la sua azione uccidendo la maggior parte dei microrganismi presenti, in virtù delle elevate temperature raggiunte; si deve considerare inoltre che la cottura determina un significativo aumento della concentrazione zuccherina, e quindi del potenziale osmotico, che si oppone alla proliferazione delle cellule microbiche provocandone la disidratazione. ■■■ LA SABA E I SABADÒ La saba viene ottenuta dalla cottura di mosto di uva a bacca bianca, Trebbiano romagnolo principalmente, ma anche da vitigni a bacca nera. Le sue origini sono sicuramente molto antiche, tanto da essere già conosciuta al tempo dei Romani; in particolare Apicio nel De Re Coquinaria annovera il “sapum”, ovvero l’odierna saba, tra i differenti mosti cotti preparati al suo tempo. Pellegrino Artusi rende invece omaggio alla saba inserendola in “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” – ricetta 731 – sottolineando che “può servire in cucina a diversi usi poiché ha un gusto speciale che si addice in alcuni piatti”. La cottura del mosto avviene a fuoco diretto, utilizzando un paiolo di rame, e deve procedere molto lentamente. Il mosto può essere filtrato preventivamente con un canovaccio – come consiglia Pellegrino Artusi – oppure ripulito dai vinaccioli e dai frammenti di buccia con un colabrodo; spesso però la pulizia avviene esclusivamente ad inizio cottura, togliendo a più riprese la schiuma che affiora con l’ausi-

I Sabadò, dolci tipici della tradizione contadina romagnola 88


▲ La cottura del mosto

lio della ramina prima che il mosto inizi a bollire, operazione che da sola è in grado di garantire l’eliminazione della maggior parte delle particelle in sospensione. La cottura, che può richiedere da dieci a quindici ore e oltre, termina solo quando il mosto si sarà ridotto a circa 1/3 – 1/4 del volume iniziale; siccome la cottura determina la perdita di acqua e la caramellizzazione degli zuccheri, la saba assume una colorazione molto scura e una consistenza oleosa. Dopo la cottura la saba viene lasciata raffreddare e decantare per diverse ore, al fine di poter eliminare le particelle solide rimaste, quindi viene messa in bottiglia, dove si conserva senza problemi per anni, migliorando le proprie caratteristiche organolettiche. La saba veniva utilizzata come condimento per legumi lessati quali fagioli, lupini e ceci, abbinata al formaggio oppure impiegata per insaporire i dolci natalizi e di carnevale, come riportato da Graziano Pozzetto in “Cucina di Romagna”. Le nonne ricordano ancora come un tempo, la saba venisse versata sulla neve raccolta in un bicchiere, per preparare una sorta di granita casalinga molto apprezzata dai bambini. Il suo impiego principale è però quello di ingrediente per la preparazione dei sabadò, uno dei dolci tipici della tradizione contadina romagnola. Si

tratta di tortelli ripieni, ottenuti a partire da una sfoglia tirata piuttosto spessa, dalla quale si ricavano quadrati di 7-8 centimetri di lato; per il ripieno, a conferma delle umili origini, si utilizzano fagioli e castagne secche lessati, i quali vengono schiacciati, aromatizzati con scorza di limone e amalgamati con la saba. Dopo essere stati chiusi con cura, i sabadò vengono cotti, in acqua oppure in graticola, ed infine riposti in un tegame dove sono inzuppati abbondantemente con la saba. Per la “Saba dell’Emilia-Romagna” è stata richiesta l’Indicazione geografica protetta, proponendo un disciplinare di produzione che prevede che sia ottenuta a partire da uva prodotta all’interno della regione e proveniente da vigneti iscritti all’albo dei vigneti Doc e Docg o all’elenco dei vigneti IGT. Il disciplinare proposto prevede inoltre che i vigneti siano a produzione integrata o biologica, che le uve presentino una gradazione minima pari al 17,5% di zuccheri in peso e che il mosto, prima che inizi la cottura, sia conservato tra -1 e 4°C per evitare l’avvio della fermentazione alcolica. Il mosto deve cuocere a fuoco diretto per almeno sedici ore, fino a ridursi di oltre 2/3, e deve maturare per almeno sei mesi prima di essere imbottigliato. Non è superfluo ricordare che la saba è in definitiva anche il prodotto di par89


A tavola

tenza utilizzato per l’ottenimento del pregiato Aceto Balsamico Tradizionale di Modena e Reggio Emilia. ■■■ I SUGAL Si tratta di un dolce tradizionale estremamente semplice, ottenuto anch’esso con ingredienti poveri, ancora piuttosto diffuso nelle campagne romagnole, dove non è troppo difficile reperire il mosto necessario per la sua preparazione. Per la loro preparazione il mosto di uva, eventualmente filtrato, viene messo a cuocere a fuoco diretto fino a ridursi a circa 1/2 del volume iniziale; anche in questo caso si deve prestare attenzione all’eliminazione della schiuma. Terminata la cottura il mosto viene lasciato raffreddare e travasato in un altro recipiente, in modo da eliminare le particelle decantate, poi vi si aggiungono con gra-

▲ I Sugal

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dualità e mescolando diversi ingredienti, tra i quali rientrano il pane grattugiato, la farina di mais, la farina di frumento e i semi di anice; talune ricette prevedono anche l’aggiunta di buccia di limone e di qualche fettina di mela cotogna. Il mosto viene rimesso sul fuoco e riportato in ebollizione, mescolando con un cucchiaio di legno per assicurarsi che non si formino grumi, dopo di che lo si versa in piatti fondi, dove raffreddandosi si rapprende e diviene solido. All’interno dei piatti, mantenuti in ambiente fresco, i sugal venivano conservati in passato per qualche mese; durante la conservazione poteva formarsi sulla loro superficie una leggera muffa biancastra, che veniva semplicemente rimossa prima del consumo. I sugal vengono attualmente con-

sumati per lo più a fine pasto come dolce, mentre in passato si consumavano anche a colazione e a merenda, sempre col pane, tagliando spesse fette dal piatto col coltello o con i rebbi della forchetta. Si presentano di colore bruno, con differente intensità in funzione del grado di cottura ed hanno un sapore ricco, leggermente acidulo e per nulla stucchevole, che li rende particolarmente piacevoli. Nel corso degli anni la loro preparazione è rimasta prettamente casalinga, per cui è difficile trovarli nei ristoranti; talvolta li si può incontrare in alcune delle sagre paesane cha a fine vendemmia animano la campagna romagnola. ■■■ IL SAVÔR Anche per la preparazione del savôr, il mosto viene cotto fino a ridurlo della metà e ripulito dalla schiuma, dopo di che vi si aggiungono una serie di frutti fino a ritornare al volume iniziale. Tra i frutti utilizzati rientrano noci, pinoli e mandorle, pere, mele e mele cotogne tagliate a fette, le piccole pere volpine intere, fichi secchi, zucca tagliata a cubetti, oltre a scorze di agrumi e bucce di melone tagliate a sottili strisce e poste ad essiccare al sole durante i mesi estivi, come indicato da Gianni Quandomatteo in “Mangiari di Romagna”. Dopo l’aggiunta si riporta in ebollizione il tutto, mescolando lentamente con un cucchiaio di legno, fino a ridurre il volume a 1/3 della massa iniziale, ottenendo così una composta di colore scuro, con pezzi di frutta che devono rimanere perfettamente intatti; terminata la cottura veniva versato in recipienti di terracotta, dove si conservava fino alla primavera successiva e anche oltre, mentre attualmente si conserva in vasi di vetro a chiusura ermetica. Ricco di zuccheri, sali minerali, fibra e vitamine, il savôr veniva utilizzato per l’alimentazione di bambini, anziani e donne in gravidanza. Sotto il profilo gustativo si presenta delicato, morbido, con leggera e piacevole nota asprigna, dolce ma non stucchevole e lo si può consumare semplicemente con pane comune, che ne esalta i sapori, o con la piadina romagnola, oppure lo si può abbinare a formaggi, sia freschi sia stagionati; perfetto l’abbinamento con le sensazioni piccanti del formaggio di fossa di Sogliano sul Rubicone (FC). Annualmente a Montegelli, sulle colline di Cesena, questa prelibatezza viene celebrata nell’ambito della sagra degli Antichi Sapori.


Eventi

New York

assaggia l’Italia

LA GRANDE MELA HA OSPITATO UNA MANIFESTAZIONE CON LE GRANDI FIRME DEL NOSTRO VINO CHE HANNO PRESENTATO LE LORO ECCELLENZE A GIORNALISTI, IMPORTATORI, DISTRIBUTORI E ADDETTI AI LAVORI IN UN COCKTAIL DI ARTE, MUSICA, DESIGN E MODA di Alessandra Rotondi i è tenuta a New York, presso il Marriot Marquis Hotel di Manhattan la 24.ma edizione del Gala Italia, evento vitivinicolo e prestigiosa presentazione del “Made in Italy”: la migliore enogastronomia nazionale abbinata all’arte, musica, design e moda. Alla manifestazione, organizzata come ogni anno da Lucio Caputo, presidente dell’Italian Wine and Food Institute - insignito dal presidente Terenzio Medri di un’onorificenza durate la visita della delegazione Ais a New York nel 2007 - hanno partecipato i più qualificati produttori vinicoli nazionali, presentando ad un pubblico di addetti ai lavori, giornalisti, importatori e distributori, ristoratori, ma anche ad una vastissima platea di consumatori “a stelle e strisce”, alcuni delle etichette italiane più famose. Il gala si è aperto con il seminario-degustazione “The taste of Italy”, letteralmente “Un assaggio dell’Italia”, in cui 30 grandi produttori hanno presentato vini di notevole livello a 300 selezionatissimi giornalisti del settore. Il seminario, condotto da Lucio Caputo, ha appassionato tutti per oltre 3 ore durante le quali non si è

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mai avvertito un abbassamento di attenzione, nemmeno durante il contemporaneo servizio del pranzo predisposto dal ristorante Le Cirque. Tre i segmenti del seminario: “From Sicily with Love: The Nero d'Avola”; “Chianti, SuperTuscan or Brunello”; e “My Best Wine from 2000 to Today”, cioè i grandi vini italiani. Al termine si è sorteggiato un viaggio in Sicilia offerto dall’Istituto Vite e Vino di Palermo, vinto da una giornalista locale. Al seminario ha fatto seguito l’eccezionale “Wine and Food Tasting”: 282 vini di 70 case produttrici italiane; 5.900 bottiglie aperte; oltre 2.500 tra operatori, giornalisti e Vip presenti; oltre 1.400 importatori, grossisti e dettaglianti provenienti dagli Stati dell’est degli Usa; 480 ristoratori e 450 giornalisti, nonché 550 operatori e 350 giornalisti del settore moda e numerose reti televisive; oltre 36.000 i bicchieri usati; 58 vini premiati da una giuria americana con la “Gold Medal”; sorteggio di cinque viaggi, in Toscana, Sardegna e Sicilia, e di una Vespa Piaggio. Il Food Tasting, ha visto la partecipazione di 20 tra i nomi più famosi della ristorazione italiana di New York,


Lucio Caputo, presidente dell’Italian Wine and Food Institute, con Alessandra Rotondi

▲ Simona Ventura, Lucio Caputo e Jo Squillo

▲ La sala del Marriot Marquis Hotel di Manhattan, sede della manifestazione

tra cui Serafina con i suoi 6 locali su Manhattan, sinonimo di “pizza, pasta e cucina italiana”; Salumeria Rosi con l’amatissimo Chef Cesare Casella; l”Osteria del Circo, versione toscana dello storico Le Cirque di Sirio Maccioni; Sandro, la porchetta più buona addirittura di quella dei Castelli Romani, e molti altri. Parallelamente si è avuta la mostra dei dipinti del Guercino organizzata in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura. È stata quindi la volta della parte più spettacolare del “Gala Italia”, con la performance musicale di Jo Squillo e delle presentazioni di moda delle collezioni primavera-estate di “Star Chic”, di Simona Ventura e Federica de Pompeis e “Curiel Couture” di Raffaella e Gigliola Curiel. Il pubblico presente ha gradito particolarmente la presenza radiosa di Simona Ventura, che generosamente si è intrattenuta con tutti dimostrando una grande affabilità nei confronti dei suoi fan d’oltre oceano. Presente anche Giovanni Bozzetti, presidente del Comitato “Lombardia per la Moda”, che è stato la forza motrice dietro la grande partecipazione della Lombardia all’evento. La “Cena di Gala”, ad inviti, preparata dallo chef

▲ Alcuni tra i partecipanti: la salumeria Rosi di Cesare Casella

Giancarlo Morelli, appositamente venuto dall’Italia per predisporre un tipico menù milanese con selezione di grandi vini lombardi, ha concluso l’intensa giornata, allietata da una performance del tenore Leonardo Cortellazzi e del pianista Vincenzo Scalera dell'Accademia del Teatro alla Scala di Milano. Al Gala hanno partecipato autorità e Vip, tra cui l’ambasciatore italiano a Washington, Giovanni Castellaneta, l’ambasciatore d’Italia presso le Nazioni Unite, Giulio Terzi di Santagata, il console generale Francesco Talò. È stata una iniziativa di grandissimo spessore e di altissimo livello, oltre la tradizionale e notevole rilevanza commerciale che va avanti con successo da oltre 20 anni. Uno dei pochissimi eventi che viene segnato in agenda un anno prima come “qualcosa da non perdere”. Appuntamento a New York il 25 Febbraio 2010, contando ancora sull'Alto Patronato dell'Ambasciata italiana a Washington, la collaborazione dell'Istituto del Commercio Estero, il patrocinio dell'Istituto Italiano di Cultura, dell'ufficio di New York dell’Ente italiano del turismo e del Vinitaly. 93


Enogastronomia e culto

Il vino:

un veicolo di dialogo tra religioni diverse di Maddalena Giuffrida* er conoscersi non c’è niente di meglio che sedersi a tavola insieme. L’atto di mangiare non ha solo a che fare con il nutrimento fisico, ma riveste una importanza squisitamente culturale: l’etimologia stessa della parola convivio (cum-vivere) associa il concetto del vivere insieme con il mangiare insieme.1 La tavola è il luogo destinato alla condivisione e alla scambio: a tutti i livelli la partecipazione alla mensa è il primo segnale di appartenenza a una famiglia, a un gruppo, a una comunità. Parlare di cibo significa, dunque, fare riferimento ad una cultura, a delle abitudini, ad una religione. Ogni Paese ha infatti il suo modo di alimentarsi, di usare certi prodotti piuttosto che altri. Anzi, attraverso il cibo noi possiamo scoprire la storia di un paese, le abitudini, le tradizioni, la religione e l’identità di una persona. Il cibo si presenta, dunque, come un importante paradigma di identità culturale e allo stesso tempo segno di scambio tra culture, oltre ad essere uno strumento per riconoscere e trasmettere la propria appartenenza religiosa.2 Nel panorama delle tre grandi religioni monoteistiche nate nel “mosaico” del Mediterraneo, l’Islam e l’Ebraismo marcano profondamente l’appartenenza alla loro forma di vita attraverso una stretta osservanza delle norme alimentari. Il cristianesimo si presenta invece come sistema “più libero” in campo gastronomico, caratterizzato da consumatori di gusti molto diversi. Un denominatore accomuna, tuttavia, l’ebreo, il musulmano e il cristiano: il concetto di cibo come dono divino. Al di là di questo aspetto unificante, profonde differenze caratterizzano il rapporto con il cibo all’interno dell’ebraismo, islamismo e cristianesimo. Conoscere queste diversità aiuterà, ad esempio, a non presentare a tavola cibi in contraddizione con le rispettive normative alimentari a degli ospiti musulmani o ebrei. I nostri figli a scuola non si stupiranno se uno o più compagni di classe di diversa appartenenza religiosa consumeranno cibi diversi, perché attraverso quel cibo arriverà loro un messaggio diretto e preciso sul senso di appartenenza culturale e religiosa.

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▲ La Torah (‫ )הרות‬è il documento primario dell'ebraismo ed è la sorgente delle 613 mitzvot (613 precetti) e della maggior parte della sua struttura etica-amena in cui sono scritte. Secondo la tradizione furono rivelate a Mosé da Dio sul Monte Sinai.

NOTE

1. Cfr. Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Laterza, 2004 2. Cfr. Oscar Marchisio (a cura di), Religione come cibo e cibo come religione, Franco Angeli, 2004 94


LE REGOLE ALIMENTARI EBRAICHE

▲ Nella religione ebraica è vietato mescolare il latte con la carne nella preparazione dei piatti

Le regole alimentari ebraiche, che costituiscono uno dei pilastri della loro pratica religiosa, trovano il fondamento teologico ed ideologico nella Torah, ovvero nella legge dettata da Dio all’uomo. Non solo il Pentateuco, ma anche l’insieme di norme rabbiniche della legge orale formano il più importante codice legislativo ebraico chiamato curiosamente “shulkhan aruch”, ovvero tavola apparecchiata. I commenti e le glosse seguono lo stesso immaginario gastronomico, chiamandosi tovaglia, utensili, posate, ecc. È degno di nota il fatto che uno dei primi precetti impartiti agli esseri umani concernesse il cibo, con la proibizione ad Adamo ed Eva di mangiare i frutti dell’Albero della Vita. Regolando l’alimentazione, la Legge ebraica, impone una via per la sacralizzazione degli atti più semplici e comuni della vita dell’ebreo. Per ogni tipo di alimento esiste, infatti, una benedizione appropriata che va pronunciata prima di consumarlo. Il termine “kashèr” significa valido, adatto, buono. Un cibo è kashèr quando è adatto ad essere consumato e quando è stato preparato nel rispetto delle norme alimentari ebraiche. La “kashèrut” è l’insieme delle numerose norme che regolano l’alimentazione ebraica. Schematicamente le regole principali possono essere così riassunte: 1. Suddivisione delle specie animali permesse e proibite Gli ebrei suddividono gli animali in quattro gruppi principali: quadrupedi, animali acquatici, volatili e insetti. All’interno di questi gruppi le specie animali vengono permesse e proibite, definendo l’animale permesso “puro” e quello proibito “impuro”. Ad esempio, tra i quadrupedi sono permessi quelli con lo zoccolo diviso in due e ruminanti, quindi sono puri la mucca, la pecora, mentre sono impuri quelli che non corrispondono a questi criteri, come il cammello, il maiale, etc. Tra gli acquatici sono permessi solo i pesci che hanno pinne e squame. Tra i volatili vengono considerati puri il pollame e specie simili. Sono proibiti tutti gli animali striscianti.

▲ Carne bovina kasher

2. La macellazione La kashèrut di un animale dipende anche dalla macellazione, dalle condizioni di salute dell’animale e dalla preparazione della carne prima del consumo. Un animale che non è stato macellato seguendo le regole della macellazione (Shechità) non può essere considerato permesso. E’ proibito bere il sangue degli animali e mangiare alcune loro parti. 3. Divieto di mescolare carne e latte E’ proibito cucinare, mangiare e trarre qualsiasi giovamento dalla mescolanza di carne e latte. La separazione fra carne e latte si applica non solo al cibo stesso, ma anche a tutti gli utensili impiegati per la sua conservazione, preparazione e consumazione. 4. Vegetali Tra le norme che regolano il mondo vegetale, ricordiamo il divieto di produrre e mangiare alcuni tipi di frutti provenienti da innesto in Israele oltre a quello di consumare i vegetali senza un accurato controllo sull’assenza di uova di insetto.

▲ Frutta kasher

5. Rendere kashèr gli utensili da cucina Alcuni tipi di utensili da cucina che vengono a diretto contatto con il cibo devono essere sottoposti ad una speciale “immersione” prima di essere usati. Quelle che abbiamo elencato sono le principali norme alimentari che debbono seguire gli ebrei che abbiano raggiunto la maggiore età (13 anni i maschi, 12 le femmine), anche se in realtà esiste una vasta gamma di prescrizioni che per brevità qui non abbiamo riportato. Mentre le prescrizioni di cui sopra sono sempre valide, in certi periodi dell’anno vigono prescrizioni ulteriori. In particolare, durante la festa di Pasqua in memoria dell’affannosa uscita degli Ebrei dall’Egitto, si deve escludere qualsiasi alimento lievitato o fermentato, ad esclusione del vino. 95


Enogastronomia e culto

UN BICCHIERE DI VINO KASHER

▲ Preparazione di pane kasher

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Il vino è oggetto di una particolare attenzione per il ruolo simbolico attribuito nel rito ebraico: il vino è, infatti, considerato una bevanda “speciale”. La normativa ebraica classifica il vino come una speciale bevanda di uva fermentata che merita una benedizione particolare: a differenza di tutte le altre bevande sulle quali viene recitata una benedizione generale, sul vino già fermentato viene recitata addirittura una benedizione speciale “borè peri ha gafen” (che ha creato il frutto della vite). Numerosi sono i riferimenti biblici a dimostrazione della grande importanza che il vino riveste: nel libro del Genesi Noè è ricordato come fondatore della viticoltura ed anche come colui che per primo sperimentò gli effetti inebrianti del vino. Durante l’incontro tra Melchisedek, re di Salem, e Abramo, capostipite del popolo ebraico, che torna vittorioso da una certa battaglia fatta per liberare suo nipote Lot, Melchisedek “sacerdote del Dio altissimo” gli si fa incontro per offrirgli “pane e vino” e benedirlo: per l’autore della Genesi l’offerta del pane e del vino presentata ad Abramo era segno di sacra ospitalità: accoglienza, sicurezza, permesso di transito. Assaporare il vino nella Bibbia è simbolo di ogni piacere, di ogni delizia e gioia della vita (Salmi 104, 15), “Bevi il tuo vino con cuore lieto” attesta il libro dell’Ecclesiaste (9, 7). Un uso eccessivo, smodato, del vino è tuttavia deplorato nella Bibbia: l’autore del libro dei Proverbi rimprovera la stoltezza di colui che “si lascia sopraffare dal vino” (20, 1). Ma al di là di questa condanna dell’eccesso e dell’ubriachezza, il vino, nel suo significato traslato, è non soltanto simbolo di vita e di salvezza, ma anche d’amore. Nel Cantico dei Cantici, uno dei testi poetici più alti della Sacra Scrittura, il vino diviene infatti il suggello dell’unione d’amore tra l’amato e l’amata. Non è un caso, credo, che la prima parola del Cantico dei Cantici sia proprio quella che descrive un bacio inebriante, accompagnato da “tenerezze più dolci del vino”. La specificità del vino nel mondo ebraico si evidenzia inoltre nel suo consumo in occasioni particolari legate al calendario delle festività (a cui gli Ebrei accordano una grande importanza) e nelle rigide norme che regolano la sua produzione. La presenza del vino è obbligatoria, ad esempio, durante il rituale della circoncisione o durante la cerimonia nuziale. Durante la festa di Pasqua è obbligatorio bere quattro bicchieri di vino, mentre è proibito bere vino


▲ I principali simboli dell’ebraismo: La stella di David, la Torah, la Menorah (candelabro a sette bracci), la Kippah (il copricapo indossato dagli osservanti maschi)

nei giorni di lutto nazionale e personale. Ma qual è il vino che un ebreo può bere? L’unico vino permesso dalla normativa alimentare ebraica è il vino kashèr, prodotto secondo le regole della kashèrut. “Affinchè sia considerato kashèr, il vino deve essere prodotto da ebrei osservanti del Sabato e profondi conoscitori delle norme alimentari – afferma il Rabbino dottor Umberto Piperno, già docente del Collegio Rabbinico Italiano, ora attivo presso la Yeshiva University di New York. Il controllo della produzione - continua il Rabbino Piperno - inizia dalla spremitura dell’uva fino all’imbottigliamento. La kashèrizzazione delle vasche inizia nei giorni precedenti alla spremitura per poter riempire ogni cisterna d’acqua e svuotarla dopo 24 ore per tre volte consecutive. Occorre preparare tutti i macchinari, smontarli accuratamente e verificare che tutto sia pulito. Ogni intervento deve essere compiuto da ebrei, così come ogni altro ingrediente o coadiuvante deve essere autorizzato dal Rabbino sulla base di un certificato valido per l’anno in corso. Saccaromiceti, bentonite, perlite per la chiarifica devono avere un certificato valido. Per quanto riguarda l’imbottigliamento, la norma ebraica richiede che vi siano tre segni di riconoscimento della specificità del prodotto: etichetta, eventuale retroetichetta o in alternativa capsula termica, tappo con segno di riconoscimento, con segno di riconoscimento o marchio del Rabbinato. Nell’etichetta - conclude il Rabbino Piperno - dovrà apparire inoltre il nome del Rabbino che ha eseguito il controllo e rilascia il certificato. La produzione annuale sarà accompagnata da un certificato originale registrato presso il Rabbinato Centrale d’Israele”. La certificazione non si limita naturalmente al vino, ma investe tutti i prodotti alimentari trasformati. Sono più di 6.000 nel mondo le aziende che vantano la certificazione kashèr, con oltre 110.000 prodotti certificati tra vini, liquori, formaggi, pasta, ecc. Negli Stati Uniti il cibo è diventato sinonimo di sicurezza alimentare, al pari dei prodotti “bio” e non solo per gli ebrei, ma anche per vegetariani, per chi soffre di intolleranze alimentari o chi è semplicemente attento a ciò che viene riportato in etichetta in tempi di mucca pazza, suini alla diossina e aviaria. Anche in Italia grandi aziende, ristoranti e negozi hanno iniziato a muoversi nell’ottica della certificazione kashèr, a sottolineare l’importanza di un rigido controllo alimentare. Esistono diversi siti informativi che forniscono indicazioni sull’universo kashèr, dai negozi ai ristoranti, dalle liste dei prodotti alle sinagoghe, monitorando le principali città italiane, mentre per informazioni sulla produzione è possibile interpellare lo stesso Rav Piperno (ravpiperno@hotmail.com).

CONSIDERAZIONI FINALI “In vino veritas” non è solo un noto proverbio latino - spiega il Rav Piperno - bensì l’insegnamento di una massima talmudica (T.B. Meghillà) che propone, attraverso il comune valore numerico di settanta, un legame strutturale tra il vino (iain) ed il mistero (sod), ovvero la capacità del vino di permettere la comunicazione tra persone di settanta lingue diverse, laddove il settanta nella numerologia ebraica indica tutti i popoli esistenti”. Il vino, con la sua forte carica culturale ed economica, potrebbe divenire a buon diritto un potente veicolo di dialogo tra religioni e culture diverse, tenendo presenti, ovviamente, le specifiche prescrizioni religiose dei diversi popoli che ne proibiscono l’uso. Queste ultime potrebbero anche diventare un momento formativo importante per tutti coloro che, per professione, mettono la “buona tavola” al centro della loro attività lavorativa (ristoratori, sommeliers, ecc.), aprendo interessanti opportunità di espansione su mercati ancora poco esplorati. Oggi abbiamo posto al centro della nostra tavola un bicchiere di vino kashèr. *Con la collaborazione del Rabbino Umberto Piperno 97


Identità Golose

La creatività come antidoto alla

crisi

di Alessandro Franceschini on è semplice parlare di alta ristorazione o “Cucina d’Autore” in un periodo dove la parola crisi è all’ordine del giorno: eppure, anche quest’anno, i cuochi chiamati a congresso a Milano, durante la quinta edizione di Identità Golose, lo hanno fatto senza alcun timore o incertezza. “Non è possibile gettare al vento molti anni di creatività”, questo il messaggio che durante la seconda giornata del congresso ha lanciato uno dei personaggi più attesi: Ferran Adrià. Lo chef spagnolo, che per sei mesi gira il mondo, partecipa a congressi come quello italiano, ma, soprattutto, sperimenta nuove invenzioni, mentre nella seconda metà dell’anno (quest’anno dal 16 giugno al 21 dicembre) le mette in scena nel suo ristorante/laboratorio El Bulli, non ha dubbi: l’antidoto per superare questo periodo di recessione mondiale è guardare al futuro con ottimismo, pensando a quanta strada è stata fatta sino ad ora dalla cosiddetta alta cucina, magari di avanguardia e sperimentazione, di cui lui è il più alto ed indiscusso protagonista. Stimoli, voglia di sperimentazione, come l’introduzione della liofilizzazione delle verdure, che quest’anno il cuoco spagnolo ha presentato alla stampa ed ai colleghi. “Apro il mio ristorante se ho stimoli, altri-

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menti non ha senso” afferma Adrià e chissà quanti vorrebbero permettersi di poter ragione in questo modo, con liste di attesa lunghissime per sedersi al suo ristorante, come nel suo caso. Ma la voglia di stupirsi, più che di stupire e quindi di mettersi sempre in discussione, sembra uno dei leit motiv di questa edizione. “Bisogna avere la capacità di stupirsi e per far questo bisogna pensare come un bambino. Quando non senti più questo, cambia lavoro”. E’ il pensiero di un altro grande chef spagnolo, basco per la precisione, Juan Mari Arzak, grande amico del genio di El Bulli, che con la figlia Elena conduce il suo ristorante tristellato a San Sebastian. L’essenza del suo lavoro è racchiusa proprio nello sguardo fanciullesco che un cuoco deve avere per saper cogliere dal mondo che ci circonda “anche da un bar o una semplice taverna” idee che poi si tramutano in piatti, nonché spunti per andare avanti ogni giorno con rinnovata fiducia. Ecco quindi il bonito parterre, ispirato dalla visione di un giardino o il dessert “Pietra di Luna”, ispirato al film 2001, Odissea nello Spazio di Kubrick, con delle palline di arancia in azoto liquido, olio di oliva, salsa al vino rosso e Xantana che appoggiati su polvere di sesamo e zucchero disegnano un paesaggio extraterrestre.

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Identità Golose ▲ Carmine Calò

▲ Ferran Adrià

Anche Massimo Bottura, chef dell’Osteria Francescana di Modena, gioca con il quotidiano e con i ricordi di una vacanza a New York: lo skyline della Grande Mela osservato dal grande verde di Central Park si trasforma in una rivisitazione del bollito misto, dove i sette tagli classici si trasformano in rettangoli, o meglio, piccoli grattacieli, cotti sotto vuoto con una spuma di salsa verde ai piedi. “Vivere il quotidiano, ma non perdersi nel quotidiano”, questo il motto del vulcanico cuoco modenese, perennemente in movimento, quasi frenetico nel presentare i nuovi sviluppi della sua cucina, anzi, della sua arte, fatta di contaminazione con il jazz di Thelonius Monk, come nel caso del merluzzo infuso nel suo sugo con tonno essiccato insieme a degli spaghetti di radici, carote e cipollotto al nero di seppia ed ancora zenzero e pelle del merluzzo. Un piatto di pura improvvisazione, da assaporare al buio, per concentrarsi solo sui sapori. Le stelle non sono mancate, come nelle passate edizioni, praticamente per tutti e quattro i giorni del congresso, che quest’anno si sono alternate nella nuova, e più funzionale, sede del Mic (Milano convention centre) a pochi metri dal vecchio velodromo Vigorelli: se in passato bisognava guardare lo schermo, per vedere le brigate cucinare ed impiattare in ambienti separati, quest’anno un’unica sala accoglieva cucina e relatori, circondati, come di consueto, dagli stand degli sponsor. La formula, oramai ampiamente sperimentata negli anni, è una macchina veloce che procede senza intoppi e riesce a portare sul palco settanta chef provenienti non solo dall’Italia, ma dal mondo intero. Dai diciotto della prima edizione, il passo in avanti è stato inarrestabile, così come i temi che hanno ispirato tutti gli appuntamenti: quest’anno le verdure sono state il filo conduttore, non per motivi quaresimali o salutistici, come ha sottolineato l’ideatore di Identità Golose, il giornalista Paolo Marchi, aprendo i lavori, ma: “quale nuova cuccagna e rivoluzionario riscatto da contorno a epicentro, capaci, emancipandosi, di aprire una fase nuova”. Le verdure, quindi, ingredienti semplici, se vogliamo, al centro di molte delle creazioni di cuochi stellati o aspiranti tali, non solo di Pietro Leemann, che del Joia a Milano ha fatto uno dei punti di riferimento per gli amanti della raffinata cucina vegetariana. E le verdure le abbiamo trovate abbondantemente anche tra le ricette degli chef che rappresentavano quest’anno la regione ospite: le Marche. Un’invasione di ortaggi ed erbe, con tanto di lezione sui fondamenti dell’analisi sensoriale, ha caratterizzato le proposte di Michele Biagiola, dell’Enoteca Le Case di Macerata, attinte dall’orto posto a due passi dal ristorante. Tagliatelle cotte nell’acqua delle biete con coste e scorza di limone o ancora l’incredibile quadro cromatico e 100

▲ Massimo Bottura

di sensazioni composto da una passata di finocchi e spinaci con origano, acetosella, mela selvatica e ancora pimpinella e caccialepre ed un mix di fiori assortiti. Semplicità, sia nella ricerca delle materie prime sia nell’esecuzione, che però non fa rima con banalità, anzi. Questo il comun denominatore di molti dei giovani ristoratori marchigiani che si sono avvicendati sul palco: a partire da Carmine Calò, del Caffè Meletti di Ascoli Piceno, con la sua dichiarazione di amore nei confronti delle vere olive ascolane, rivisitate ed alleggerite con un ripieno di solo coniglio ed avvolte con una sottile crosta di pane, prima di essere fritte in extravergine di oliva. Riccardo Agostini del Piastrino di Pennabilli (Pesaro Urbino) che valorizza quaglia e capriolo oppure un flemmatico ma coinvolgente Aurelio Damiani che in quel di Porto San Giorgio ha fatto delle patate, uno dei suoi cavalli di battaglia: possono essere rosse provenienti da Visso, oppure bianche, le “fiocco di neve” di Montemonaco o ancora di altura perché provenienti dai Colli Sibillini, e lui le abbina con le cozze in una millefoglie piuttosto che con il tartufo, il siero di latte ed il rosso d’uovo. “Due chicchi di sale, delle eccelse patate lesse ed un buon olio, sono già un grande piatto, una vera goduria”: questa la sua filosofia in cucina, che odia “le standardizzazioni del sottovuoto e delle grammature” ed adora “la cucina spontanea, senza menù prestabilito, facendo la spesa con la stagione, con il territorio e con il mercato ogni mattina”. Questo è il bello della cucina: dal pesto che si gelatinizza per creare dei ravioli senza pasta di Ferran Adrià al minimalismo di Aurelio Damiani, passando da Moreno Cedroni, che da Senigallia colora di blu le seppie utilizzando l’acqua di cottura del cavolo nero. Forse, come dice l’ex direttore del Gambero Rosso, Stefano Bonilli, dalle pagine del suo seguitissimo blog “Papero Giallo” (http://blog.paperogiallo.net/), è mancato un confronto, una tavola rotonda, per parlare di crisi e di come uscirne, anche nella ristorazione, oppure ha ragione lo stesso Paolo Marchi, quando dalla sua newsletter gli risponde: “per quanto sappia bene quanto è duro il momento, non mi è mai sfiorata l’idea di allineare degli esperti in fallimenti o delle cassandre o dei ragionieri dietro a un tavolo. Sono cose che spettano a enti e associazioni di categoria tipo la Fipe”. Aspettando che qualcuno, siano gli attori principali o le categorie di settore, ne parli, ci piacerebbe poter dire, estendendo l’affermazione a tutto il comparto enogastronomico, “Nel nostro universo non c’è crisi”, prendendo in prestito le parole con le quali ha esordito Frédéric Bau, direttore dell’ Ècole du Grand Chocolat Valrhona. Peccato si riferisse solo alle dolcezze del cioccolato, altro protagonista, insieme alla cucina francese, di questa quinta edizione del congresso Identità Golose.


Pillole

Il mercato premia il Franciacorta Il Franciacorta non conosce crisi. Nel 2008 le bottiglie vendute hanno oltrepassato i 9,6 milioni, il 16% in più rispetto all'anno precedente: un bilancio che conferma il valore straordinario delle bollicine Docg coltivate nel territorio che comprende diciannove Comuni della provincia di Brescia. Il trend in crescita è stato confermato dal Consorzio per la tutela del Franciacorta, i cui vini metodo classico hanno anche ottenuto diversi riconoscimenti da parte delle guide enologiche 2009: in particolare, secondo quanto riferisce il Consorzio in una nota, «sono stati 33, su un totale di 53 bottiglie (il 62% del totale), i Franciacorta premiati con i massimi riconoscimenti dalle diverse guide del settore». A crescere, oltre alla dimensione commerciale firmata Franciacorta, è anche la superficie vitata sul territorio della denominazione, salito a 2.215 ettari (+5% rispetto ai 2.115 del 2007). «Risultati soddisfacenti» li ha definiti Ezio Maiolini, presidente del Consorzio per la tutela del Franciacorta. «Il mercato – ha dichiarato – sta riconoscendo ai produttori la giusta notorietà del Franciacorta, nato da un disciplinare di produzione unico, che ne è prerogativa fondamentale». In effetti, per raggiungere un prodotto sinonimo di qualità superiore e contemporaneamente emblema di uno straordinario territorio, i viticultori di Franciacorta hanno puntato sul nuovo disciplinare di produzione. Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale a metà 2008 è in assoluto il più rigido al mondo a parità di metodo produttivo.

Per le aziende si tratta di uno straordinario impegno che ha richiesto importanti investimenti economici. Ma gli sforzi profusi sono stati riconosciuti anche dalla critica. Le guide dei vini 2009 hanno confermato la leadership qualitativa del Franciacorta fra i “metodo classico” (simbolo per antonomasia dei brindisi di fine anno, ma ormai apprezzati anche come piacevole accompagnamento a tutto pasto): oltre alle già citate 33 etichette su un totale di 53, incrociando i punteggi di tutte le guide, fra le migliori 9 bottiglie in assoluto, ben 6 sono Franciacorta. «Il 2009 è partito bene – precisa Maiolini – ma la situazione economica attuale è tutt’altro che rassicurante. Intendiamo comunque continuare a investire nella comunicazione, potenziando altresì la presenza del Franciacorta a eventi nazionali e internazionali». Se l’eccellenza qualitativa si profila infatti come un assunto imprescindibile, sul versante della comunicazione c’è ancora un certo margine di azione. Tra gli obiettivi del Consorzio per il nuovo anno spicca la volontà di consolidare la riconoscibilità del marchio franciacortino all’estero, in particolare in Germania (il Paese dove oggi si concentra il 30% dell’esportazione). Senza tralasciare il mercato di casa nostra, come conferma la folta presenza di aziende di Franciacorta al Vinitaly 2009 con 49 produttori (l’anno scorso erano 42) che occuperanno 1.063 metri quadrati di esposizione. Uno spazio in cui di certo non mancheranno visitatori alla ricerca di «un’esperienza di assoluto prestigio – sottolinea Maiolini – sinonimo di qualità superiore, cultura e tendenza».

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Pillole ▲ Aniello Musella, direttore dell'Ice

▲ L’inaugurazione al Warldorf Astoria

Per il vino italiano un tour a stelle e strisce Il vino italiano è stato protagonista di una “tournée” al di là dell’Oceano: l’Ice, in collaborazione con le regioni Abruzzo, Calabria, Lombardia, Toscana e Veneto, ha lanciato la prima edizione della “Settimana del Vino italiano negli Usa”, a Boston, New York e Miami. A New York ha collaborato anche il Consorzio del Brunello di Montalcino, guidato dal Presidente Patrizio Cencioni. “Era giusto in questo momento di difficile congiuntura economica aiutare le nostre imprese a ribadire la priorità del mercato americano come principale sbocco dei nostri vini. Abbiamo ricevuto segnali di grande attenzione da parte di importatori e distributori locali ed una vera e propria rincorsa tra i più importanti nomi del settore a guadagnarsi il ruolo di ‘speaker’ o ‘panelist’ negli eventi previsti. Oltre alle regioni menzionate, hanno partecipato circa 270 produttori – molti ancora non presenti negli Usa – tutti rappresentanti della vasta gamma di stili delle aree geografiche italiane” ha commentato Aniello Musella, direttore esecutivo dell’Ice negli Usa. Gli eventi americani celebrano un successo: secondo le anticipazioni sui dati della Commissione Europea – riportati dal bollettino Vini&Vini dell’Ice di New York – l’Italia ha riconquistato la vetta della classifica dei produttori mondiali, superando la Francia. Alla fine del 2008, la produzione italiana è cresciuta dell’8%, avvicinandosi a 47 milioni di ettolitri di vino, contro i 44,4 milioni della Francia, in calo del 5%. Boston ha dato avvio a “Vino 2009”, con un omaggio al Montepulciano d’Abruzzo. A New York, il programma è iniziato con un ricevimento presso il Warldorf Astoria. Nei giorni successivi, degustazioni e seminari riguardanti tutte le realtà coinvolte, con enfasi particolare sul Brunello di Montalcino, il cui Consorzio ha presentato un’anteprima della vendemmia 2004. Infine a Miami, attenzione particolare alle diverse “meraviglie microclimatiche”. 102

New York ha rappresentato senza dubbio il clou del tour. Le regioni hanno organizzato cene-degustazioni nei più esclusivi ristoranti di Manhattan per presentare i patrimoni enogastronomici e le peculiarità di ognuna, con guide speciali: Valentino Sciotti per l’Abruzzo; Paolo Librandi per la Calabria; Riccardo Ricci Curbastro per la Lombardia; Lamberto Frescobaldi per la Toscana e Marilisa Allegrini per il Veneto. Infine, presso la Rainbow Room di Cipriani, sono stati assegnati, i “Distinguished Service Awards”, i premi ai rappresentanti dell’industria vinicola maggiormente impegnati nella promuovere i vini italiani negli Usa, tra cui: Leonardo Lo Cascio, presidente/fondatore di Winebow; John Mariani Jr., presidente emerito di Banfi Vintners e Castello Banfi; Hubert Opici, presidente di Opici Wine Group; Piero Selvaggio, proprietario del ristorante Valentino a Santa Monica e Anthony Terlato, presidente della Terlato Wine Group. (Alessandra Rotondi)

▲ I banchi d’assaggio


I “top 40” sbarcano a Londra I migliori vini italiani hanno percorso le acque del Tamigi per raggiungere la city londinese e conquistare la corte della Regina Elisabetta. Detto così sembra quasi un’impresa, ma in realtà è stato tutto decisamente più semplice. È noto che i gusti dei britannici sono molto distanti dai nostri, ma è altrettanto vero che le eccellenze vitivinicole del Bel Paese mettono d’accordo anche i palati più differenti. Così è stato lo scorso 2 marzo, quando la Worldwide sommelier association e l’Associazione italiana sommeliers hanno portato oltremanica una selezione di etichette premiate con i 5 Grappoli dalla guida Duemilavini 2009, il “meglio del meglio”, potremmo dire. Non a caso la degustazione è stata intitolata“I like the best” per conferire quel tocco di esclusività all’evento. I banchi d’assaggio sono stati allestiti grazie al prezioso contributo di Andrea Rinaldi, delegato Ais e portavoce della Wsa nella capitale bri-

tannica, presso lo storico Commonwealth Club, prestigioso ritrovo della Regina d’Inghilterra. Situato nel cuore di Londra, a pochi minuti da Trafalgar Square, il Club ha rappresentato la cornice ideale per ospitare alcune tra le bottiglie che hanno più emozionato la commissione della Duemilavini. Fondato nel 1868 come un luogo di incontro internazionale per lo scambio di idee e la conversazione, l’ambiente unico del locale continua la sua missione in un modo estremamente moderno a dispetto della sua tradizionale facciata. Celebra la diversità e promuove l’istruzione e il multiculturalismo. La Wsa e l’Ais l’hanno perciò scelto proprio per esaltare lo spirito cosmopolita di quest’iniziativa. La degustazione è stata aperta al pubblico per tutto il pomeriggio in presenza di importanti personaggi del panorama vitivinicolo nazionale e internazionale, grandi esperti della ristorazione londinese, i principali mass media e diversi vip.

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Quando il gusto diventa un’occasione! L’appuntamento con “Squisito!” è a San Patrignano nei primi quattro giorni di Maggio

In diverse occasioni della vita capita di sottolineare come la cucina sia cultura e passione, e non una semplice attività per soddisfare il bisogno primario di nutrimento. In Italia, e soprattutto a San Patrignano, questo punto di vista è un imperativo categorico. Dal Primo maggio fino al 4 torna infatti l’appuntamento con Squisito, l’unica manifestazione enogastronomica interamente organizzata all’interno di una Comunità di recupero, che giunge quest’anno alla sua sesta edizione. In quest’occasione, i 1500 ragazzi di Sanpa seguiranno personalmente l’organizzazione dell’evento, dando prova di come l’arte culinaria possa trasformarsi in un importante momento di integrazione sociale. La Comunità di San Patrignano fu fondata nel 1978 da Vincenzo Muccioli con lo scopo di fornire assistenza gratuita a tossicodipendenti ed emarginati. In breve tempo l’associazione ricevette un sempre maggior numero di richieste d’aiuto e ad oggi risulta essere la più grande comunità terapeutica d’Europa. La sua ricchezza risiede nell’unicità del progetto: a San Patrignano i ragazzi non vengono considerati dei malati bensì giovani con grandi potenzialità, a cui fornire un ausilio per riscoprire le proprie capacità e svilupparle al meglio. Squisito rappresenta una delle tappe di questa forma mentis, un’occasione per ricercare e riassaporare il gusto della vita in senso lato! Anche quest’anno sono in programma iniziative con chef affermati che delizieranno i palati con prelibate ricette; accanto a loro ci saranno giovani aspiranti cuochi che cercheranno, come si suol dire, di “rubare il mestiere”. Ecco quindi che “la Giostra dei cuochi”, uno degli appuntamenti più seguiti di Squisito, vedrà a fianco di Davide Paolini, suo “inventore”, gli chef di Jre (Jeunes Restaurateurs d’Europe), in una formula del tutto innovativa che suscita grande curiosità. Ogni giorno i ragazzi proporranno le loro ricette ad un pubblico di spettatori che avrà così la possibilità di interagire con la loro cucina, per conoscerne i segreti e i trucchi. I “Giovani ristoratori” hanno da poco cambiato guida: Marco Bistarelli che per tre anni e mezzo è stato presidente dell’associazione, in occasione della manifestazione milanese “Identità Golose” ha passato il testimone all’amico e collega Emanuele Scarello; proprio in quest’occasione Bistarelli ha ricordato le grandi emozioni che l’associazione gli ha regalato e ha voluto sottolineare che i momenti che resteranno indelebili nella sua memoria sono in maggior parte legati a San Patrignano e a ciò che i ragazzi sono stati capaci di creare. Altra tappa importante del programma è rappresentata da “Identità Squisite”, appuntamento ideato da Paolo Marchi, giornalista e pioniere delle già citate Identità Golose, un palcoscenico culinario utilizzato da 104


▲ Degustazioni a Squisito

diversi astri nascenti, che quest’anno a Milano ha visto il debutto di Fabio Rossi, chef del ristorante della comunità di Sanpa, insieme alla sua brigata di cucina. Grazie al successo riscosso, prosegue anche l’appuntamento con “Vigneti in Bottiglia”, il tradizionale incontro con degustazioni e seminari organizzato dall’Associazione italiana sommeliers e dalla rivista Bibenda, che ripeterà la formula doppia introdotta lo scorso anno: l’area 100 etichette, raccolta esclusiva delle migliori produzioni italiane e l’area delle verticali, degustazioni guidate dai migliori sommeliers. In un momento difficile come quello attuale, in cui i giovani si trovano a dover affrontare una situazione di grande precariato e sempre meno punti di riferimento, Squisito diviene ancora di più un esempio di ciò che dovrebbe avvenire all’interno di ogni società che si rispetti, dove i giovani vengono considerati delle vere e proprie risorse, con cui è dunque possibile intavolare riflessioni sull’offerta formativa disponibile per il settore e le concrete opportunità di inserimento. Il programma procede con l’immancabile Paolo Massobrio e il suo club del Papillon che, come d’abitudine, ci presenteranno “Experimenta”, il laboratorio che insegna ad utilizzare inusuali combinazioni di gusti ma anche a riconoscere i prodotti freschi e di qualità. Per soddisfare i gusti dei più patriottici non mancherà anche quest’anno “Il Villaggio degli Artigiani”, produzioni 100 per cento made in Italy, che vede come novità la presenza di degustazioni durante le quali sarà possibile scoprire i segreti delle creazioni ponendo domande e curiosità ai protagonisti. Molte quindi le aspettative anche per questa edizione: verranno certamente soddisfatte grazie all’impegno e alla costanza ai quali ci hanno abituati, nel corso degli anni, i ragazzi della Comunità.

(Katia Giarrusso)

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I primi quarant’anni del Prosecco Verranno festeggiati con una rinascita a “Vino in villa”, il festival in programma dal 16 al 18 maggio

A pensarlo oggi sembra quasi impossibile. E’ infatti divenuto il vino “moderno per eccellenza”, con la sua nota fruttata e la moderata alcolicità, che lo rendono abbinamento perfetto anche con la cucina light o esotica che oggi vanno tanto di moda. Eppure era il 1969 quando Conegliano Valdobbiadene otteneva la Denominazione di origine controllata. A quarant’anni dal riconoscimento, il Prosecco di Conegliano Valdobbiadene rinnova la propria identità presentandola in anteprima a Vino in Villa, Festival internazionale che si svolgerà dal 16 al 18 maggio nello splendido Castello di San Salvatore a Susegana, in provincia di Treviso. La novità più importante? La richiesta della Docg a partire dalla prossima vendemmia e la modifica del disciplinare, che porterà in primo piano il territorio. “La richiesta della Docg è un’esigenza nella prospettiva del cambiamento del mondo Prosecco grazie alla Riserva del Nome”, afferma il presidente Franco Adami. “Se fino ad oggi il nostro vino era conosciuto nel mondo come Prosecco Doc, dal momento che l’ottenimento della Denominazione di origine controllata è avvenuto nel 1969, tra le prime doc d’Italia, e fino ad oggi si è mantenuta l’unica Doc del Prosecco con Montello e Colli Asolani, oggi non basta più. Con la nuova normativa verrà creata una nuova grande Doc base Prosecco, estesa su ben otto province. Per l’area storica, quindi, il nome Prosecco diventa stretto… Cambiare è una scelta coraggiosa ma i tempi sono maturi per farlo”. Dopo il riconoscimento a primo Distretto spumantistico d’Italia, l’area intraprenderà una nuova sfida: ottenere il riconoscimento a Patrimonio Unesco, dal momento che, in Italia, oggi non esistono territori che abbiamo ricevuto la preziosa qualifica grazie alla viticoltura. A “Vino in villa” si parlerà quindi di un “territorio in fermento”. L’evento, giunto alla dodicesima edizione, sarà aperto al pubblico sabato e domenica, mentre lunedì l’ingresso sarà riservato agli operatori e ai soci Ais. Nelle sale del Castello di San Salvatore, le aziende non saranno disposte in ordine alfabetico ma per territori, cru e vigneti. Calice alla mano, si partirà da Conegliano per arrivare, comune per comune, a Valdobbiadene per scoprire il cru Cartizze. Un modo originale, questo, per incontrare i produttori, uno ad uno, e per conoscere attraverso la degustazione dei vini le differenze dei singoli suoli e microclimi. Durante le giornate, poi, saranno organizzate visite al territorio per conoscere gli scorci più belli che diverranno base di valutazione Unesco. Si potrà anche prendere parte alle singole iniziative che i produttori dell’area offriranno in cantina. Sabato sarà il giorno dedicato alla cultura, la mattina con il convegno di presentazione del progetto Unesco e delle molte novità 2009, nel pomeriggio con i Simposi di Vino in Villa, appuntamento culturale in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, quest’anno dedicato a L’Abbondanza.

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Food and beverage: primo master in Bocconi In gennaio è cominciato il “Master in Fine Food & Beverage”, il primo master internazionale in general management dedicato al mondo del food and beverage, organizzato dalla Sda Bocconi, la Scuola di direzione aziendale dell’Università Bocconi di Milano. Diretto dai professori Massimiliano Bruni e Giorgio Lazzaro, il corso ha l’obiettivo di formare manager in grado di sviluppare la competitività delle realtà imprenditoriali italiane in un contesto di crescenti opportunità e di pressioni internazionali. Il master è un programma full-time, della durata di un anno, tenuto in lingua inglese, dedicato alla gestione delle imprese che a vario titolo operano nei settori del food and beverage di fascia alta, nella tradizione della cultura e dell’imprenditoria italiana. L’Mffb è pensato per formare giovani laureati provenienti da tutto il mondo che abbiano sviluppato una prima esperienza di lavoro e che intendano proseguire la propria carriera professionale in questi affascinanti settori, in cui sempre più è richiesta la capacità di coniugare una superiorità di prodotto e di servizio, tipica delle aziende che operano in questi ambiti, con logiche e strumenti manageriali avanzati, capaci di assicurare percorsi di crescita nazionali ed internazionali. Coerentemente con questo obiettivo, il Master coniuga il rigore e la profondità di contenuti che caratterizzano da sempre le iniziative della Sda Bocconi, il cui prestigio internazionale è stato recentemente ribadito dalle classifiche del Financial Times e del Wall Street Journal Europe, con interessanti momenti d’esperienza, in cui i partecipanti entrano in contatto diretto con le imprese, le tradizioni e le culture internazionali del food and beverage, attraverso degustazioni, visite in azienda e permanenze in regioni italiane riconosciute a livello mondiale per i loro prodotti. Proprio in quest’ottica trova spazio la collaborazione con l’Ais, che, con il contributo scientifico e didattico di Rossella Romani e di Michele Garbuio, coinvolgerà i 23 Partecipanti Mffb (di cui 19 italiani) nel corso per sommeliers negli spazi della Sda Bocconi. L’intenzione è quella di promuovere una cultura manageriale di valore nel settore del food and beverage e di sviluppare una specifica sensibilità verso l’importanza del ruolo assunto dalla professione del sommelier nelle diverse realtà che a vario titolo operano nel settore.

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Alla Brambilla il titolo di Sommelier onorario Da giovane imprenditrice a giornalista per Mediaset, da responsabile numero uno degli imprenditori under 40 della Confcommercio a Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al Turismo. Michela Vittoria Brambilla è senza ombra di dubbio una donna di successo. E il suo lavoro per quel settore tanto caro all’Ais le è valso il titolo di “Sommelier Onorario”, conferitole dal presidente nazionale Terenzio Medri. La Brambilla ha ricevuto il riconoscimento con grande emozione e ha voluto ribadire subito il suo impegno per tutto il comparto turistico: «Ringrazio di cuore l’Associazione italiana sommeliers e spero al più presto di poter ricambiare la fiducia con provvedimenti concreti a vantaggio di questo settore tanto rilevante per l’economia del nostro Paese». Così come annunciato dal presidente del Consiglio

Silvio Berlusconi, nel corso del 2009 arriverà un nuovo Ministero delle Politiche Turistiche e la Brambilla sarà a capo di questo dicastero. All’origine della decisione di reintrodurre la figura del ministro del Turismo, dopo l’abrogazione tramite referendum nel 1993 e il passaggio di competenza alle Regioni con la modifica del titolo V della Costituzione, c’è la presa d’atto della centralità di questa attività per lo sviluppo dell’economia nazionale. Da ciò la necessità di avere nel governo un referente autorevole per una materia così importante. «Non è pensabile – ha aggiunto la Brambilla – che in un momento di crisi come questo in cui c’è bisogno di aiutare le imprese, il turismo non possa contare sulla massima operatività e sostegno da parte delle istituzioni locali e nazionali». L’Ais è quindi pronta a brindare con entusiasmo all’insediamento del nuovo ministro.

▲ Il presidente dell'Ais Terenzio Medri e Michela Vittoria Brambilla 108


▲ Paola Aldegheri e Giovanni Rana

▲ Luciano Padovani, autore dell’opera da cui è stata realizzata l'etichetta

Quando il vino è solidarietà L’Amarone della Valpolicella Classico Doc Riserva Speciale 1995 rappresenta il fiore all’occhiello della produzione dell’azienda Aldegheri. A questo nettare unico è stata riservata un’occasione speciale che permettesse di dargli un valore aggiunto. L’Amarone Riserva 1995 è stato infatti il protagonista di un’iniziativa benefica, scelta per sottolineare l’evento e il profondo rapporto che lega il vino al territorio. Sono stati realizzati trenta jeroboam da cinque litri, il cui ricavato è andato in beneficenza all’Associazione Arcobaleno di San Pietro in Cariano. L’ente da anni si occupa di disabili, di emarginati e del sostegno sanitario, economico e legale delle persone affette da problemi psichici. L’associazione, inoltre, ha appoggiato un progetto in un ospedale in Uganda per il sostentamento di bambini orfani e ammalati di Aids. Per conferire un ulteriore significato questo speciale Amarone è stato proposto con un inedito packaging d’autore, realizzato da Luciano Padovani. L’artista, veronese di nascita e residente a Sant’Ambrogio nel cuore della Valpolicella, è profondamente legato alla realtà del territorio. Nella piena maturità del suo percorso artistico ha affrontato la tematica del vino e per questo Amarone unico ha realizzato il quadro riprodotto poi sull’etichetta. “Un abito” di alta classe per un vino dallo stile difficilmente eguagliabile e che segna un connubio perfetto tra arte, territorio e solidarietà. L’eccezionale annata 1995 ha permesso all’azienda Aldegheri di ottenere un Amarone speciale, prodotto in un numero limitato di bottiglie, frutto di un attento lavoro. Dopo un accurato appassimento, infatti, nei primi giorni di febbraio, le uve vengono diraspate e pigiate in modo soffice. Il mosto e le vinacce sono fatte poi fermentare per lungo tempo e quindi, dopo alcuni travasi, il vino viene trasferito in apposite grandi botti di rovere per il lungo invecchiamento. Dopo l’imbottigliamento l’Amarone viene ancora affinato un anno in bottiglia per poter esprimere, al momento dell’apertura, le sue caratteristiche migliori. E proprio il particolare tipo di invecchiamento lo rende ancora più robusto, pieno e caldo, con profumi di confettura di prugna e di liquirizia e una sensazione di equilibrio e di morbidezza al palato. Caratteristiche che ne fanno un ottimo accompagnamento per arrosti, piatti a base di selvaggina, agnello al forno, filetto di maiale fino ai formaggi a pasta dura e come vino da conversazione. (F. C.) 109


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L’Ais premiata con l’Eurhodip Award Con questa prestigiosa onorificenza viene riconosciuto il ruolo dei sommeliers nello sviluppo del turismo Un riconoscimento per la sua instancabile attività nel settore alberghiero e della ristorazione. Il presidente dell’Ais, Terenzio Medri, ha ricevuto l’Eurhodip Award, un premio conferito dall’omonima associazione con sede a Bruxelles, che raduna le più importanti scuole alberghiere e di ristorazione europee e non solo. Eurhodip ha recentemente ricordato i suoi vent’anni di attività in occasione dell’annuale conferenza, svoltasi in Marocco a Casablanca, oltrepassando i confini continentali sulle coste mediterranee del Nord Africa. «Siamo lieti di consegnare questa onorificenza al presidente Medri. Con i sommeliers dell’Ais contribuisce all’evoluzione del nostro settore in tutto il mondo. Il turismo e i valori dell’ospitalità sono una ricchezza che ogni Paese possiede e che devono essere valorizzati non solo perché fanno da traino dell’economia interna, ma soprattutto perché diffondono la cultura e le peculiarità di ogni singolo territorio», ha dichiarato Alain Sebban, presidente di Eurhodip.

La cerimonia di consegna dei riconoscimenti, che ha visto protagonisti anche alcuni tra i migliori istituti alberghieri europei, si è tenuta all’Hotel Golden Tulip Farah di Casablanca per sottolineare che il Mediterraneo è risorsa comune tra il nostro continente e quello africano. «Sono onorato di ricevere insieme a questo premio tutta la stima di Eurhodip. È la dimostrazione che il lavoro che l’Ais porta avanti da anni per la formazione di molti sommeliers ha raggiunto un valore internazionalmente riconosciuto. Un ringraziamento va a tutti coloro che giorno per giorno si impegnano e portano avanti le nostre attività in Italia e oltre i confini nazionali con la Worldwide sommelier association», queste le parole che il presidente Medri ha tenuto a sottolineare. «Rivolgo inoltre la mia riconoscenza a Eurhodip: come noi dell’Ais, favorisce la formazione alberghiera a partire dai più giovani ed è innegabile che il futuro del nostro settore non può che essere affidato nelle mani delle nuove generazioni».

CONVOCAZIONE DI ASSEMBLEA PER L’APPROVAZIONE DEL BILANCIO CHIUSO AL 31 DICEMBRE 2008 È convocata l’Assemblea dell’Associazione italiana sommeliers prevista dall’articolo 11 dello Statuto vigente presso la sede dell’Ais, Viale Monza 9, Milano per mercoledì 22 aprile 2009 alle ore 6.00 in prima convocazione e per GIOVEDÌ 23 APRILE 2009 ALLE ORE 10.30 in seconda convocazione per discutere e deliberare sul seguente ORDINE DEL GIORNO 1 – Lettura della relazione sull’attività gestionale 2 – Lettura della relazione del Collegio Revisori dei Conti 3 – Discussione e approvazione del Bilancio al 31 dicembre 2008 4 – Discussione e approvazione del Bilancio Preventivo 2009

Il Presidente Terenzio Medri


Libri

SULLO SCAFFALE GUIDA AL PIACERE E AL DIVERTIMENTO 2009 Tutti gli indirizzi più nuovi e alla moda d’Italia Autore: Roberto Piccinelli Editore: Outline Prezzo: 15,00 euro 2008, anno bisestile, anno funesto: così recita un celebre motto esclusivo delle culture di base romana. Se nei primi giorni dell’anno vi siete affrettati a leggere le previsioni astrologiche per questo 2009 agli esordi, foriero, sembrerebbe, di fortune e riscatti in barba all’inesorabile crisi economica e di valori che ci attanaglia, allora non fatevi mancare l’edizione 2009 dell’ormai consueta Guida al Piacere e al Divertimento di Roberto Piccinelli. Un prezioso concentrato di consigli e suggerimenti sui locali dove trascorrere le nostre serate, abbandonando per un momento la difficile resa dei conti con mutui e disoccupazione incipiente. Usciamo e divertiamoci: ce lo meritiamo, senza con ciò dover necessariamente contribuire alla invocata ripresa dei consumi. A guidarci nella ricca offerta del mondo del loisir, Roberto Piccinelli, giornalista, scrittore e creatore di neologismi ormai entrati nel parlato comune (in pochi ormai ignorano cosa sia un dream hotel). Giunta alla sua dodicesima edizione, la guida e la sua periodicità annuale si spiegano per due ordini di motivi, indicati dallo stesso autore: la frenetica successione dei locali meritevoli di segnalazione e la continua individuazione di nuove tipologie strutturali. Immobilismo e preconcetto sono aggettivi che Piccinelli aborrisce, convinto che la realtà odierna, sempre più propositiva e instabile, non possa essere approcciata passivamente, ma prevista in anticipo. Delle oltre 2.500 strutture personalmente censite dall’autore sono fornite indicazioni essenziali quali nominativo, indirizzo, telefono, giorni e orari di apertura, periodo di chiusura annuale, oltre a descrizioni curate di taglio giornalistico. Imperdibile, in chiusura del volume, la sezione “I protagonisti del Bien Vivre”, dove troviamo elencate le persone giuste i cui nomi non possono essere ignorati da chi va alla ricerca del meglio della vita: politici (Santanché, ma anche Veltroni e Gelmini), attori (Scamarcio, Mastelloni), manager e imprenditori, architetti, giovani rampanti.

di Natalia Franchi

TRAPANI Le terre del gusto Autore:

Editore:

Camera di commercio Industria Artigianato Agricoltura di Trapani PS Advert Edizioni

Terra dalle mille promesse, la Sicilia esprime nella provincia di Trapani un affascinante incrocio di sole, terra e mare. Una terra che andrebbe inserita nelle guide turistiche più popolari, per far conoscere al turismo mondiale una delle mete meno scontate e più preziose della nostra penisola. La parte introduttiva del volume si sviluppa con l’illustrazione dei tre principali percorsi enogastronomici del sale, del vino e dell’olio, nei quali il lavoro dell’uomo si intreccia spesso con leggende antichissime. E con luoghi dal fascino secolare mai tramontato: Marsala e Selinute, per citare solo i più noti siti di interesse del trapanese. La straordinaria offerta enogastronomica fa infatti da contraltare alle vestigia e alle tradizioni frutto di quasi tremila anni di storia, che dalle prime colonie greche arrivano ai giorni nostri, in una straordinaria miscellanea di culture e civiltà nel centro del Mediterraneo. Scopo dell’apprezzabile volume, curato dalla Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Trapani, dunque, far conoscere le bellezze e i prodotti di eccellenza del territorio trapanese. L’opera si propone come una guida agile e coinvolgente per scoprire la ricchezza e la varietà sia dei prodotti della terra sia dei piatti più caratteristici. I modi di preparazione dei cibi variano spesso da una città all’altra, dando così vita a un avvincente affresco di sapori. Ecco quindi un’attenta elencazione e descrizione di ricette suddivise nelle seguenti sezioni: gli antipasti, preparati con ingredienti semplici ma dal sapore deciso; il pane e le pizze; le insalate, in cui vengono realizzati accostamenti sorprendenti; le minestre e le zuppe, piatti semplici della cucina popolare in cui si mischiano verdure, legumi, ortaggi e pesce; i primi piatti; il pesce; la carne, in particolare maiale, agnello, capretto e coniglio; la pasticceria, in cui accanto ai dolci tipici come cassate e cannoli troviamo molte prelibatezze preparate con le mandorle, i semifreddi, i torroni e le torte a base di ricotta.

Non fatevi mancare nulla. Vedi Trapani e poi muori. 112


VINI DI LIGURIA VinidAmare Autore: Antonello Maietta Editore: Corigraf Genova

Chi scrive conosce ed apprezza da anni le dolcezze, gli spigoli e il fascino unico della località di Camogli. L’odore, l’atmosfera e il significato di un posto dove il solo osservare la fierezza del faro che si erge semplice e maestoso tra le acque del suo piccolo porto, basta a dimenticare la banalità di lunghi giorni trascorsi in una grigia metropoli. Un porto che è espressione della sostanza e della chiara lealtà della gente che vi abita. Al di là della focaccia e dei luoghi comuni che attirano i sempre più numerosi milanesi. Il volume arriva dopo cinque anni di indubbio successo della rassegna di vini liguri “VinidAmare”, ospitata appunto dalla cittadina di Camogli (il prossimo appuntamento è previsto nel mese di maggio). Una iniziativa che vanta il patrocinio della Regione Liguria e delle Province di Genova, La Spezia, Savona e Imperia, a rispondere alle esigenze di quanti, produttori, giornalisti o appassionati della cultura del vino, apprezzano la tradizione vinicola ligure e desiderano approfondire la conoscenza di ogni suo aspetto. Occorre superare il luogo comune della Liguria come sito condizionato unicamente dal suo stretto rapporto con il mare, per cogliere la varietà del patrimonio regionale in cui rientra a pieno titolo la produzione di vini con suoi vigneti costruiti sui pendii delle riviere. Otto le zone della Liguria, caratterizzate da altrettante Doc – Denominazione di origine controllata – presentate nel volume, in un percorso da Ponente a Levante che analizza i diversi disciplinari di produzione, opportunamente privati del freddo e poco comprensibile linguaggio burocratico. All’autore, Antonello Maietta – vice presidente nazionale Ais – va il merito di aver reso l’opera un affresco non solo del territorio ligure, ma altresì un ritratto delle ultime generazioni di uomini che hanno trasformato le sorti di un’economia fino ad oggi devastata dal dissesto idrogeologico e dal declino paesaggistico. Giovani che hanno rivitato le superfici, creando nicchie di autentica qualità, capaci di reinterpretare, modernizzandolo, il tradizionale individualismo di queste terre. Una terra da amare.

ACETI FAI DA TE Paolo Giudici, Carlo Zambonelli, Luigi Grazia Editore: Ed. Agricole Il Sole 24 Ore Business Media Prezzo: 16,00 euro Autore:

A torto lo si considera il più umile e il più facile da produrre tra gli alimenti fermentati. Fama immeritata, quella dell’aceto, che a buon diritto è tra i condimenti maggiormente consumati in tutto il mondo e il più sicuro sotto l’aspetto igienico sanitario. Tanto da essere il “conservante” per eccellenza di altri alimenti. Ancora, l’umiltà che gli si attribuisce non considera l’enorme varietà di materie prime da cui l’aceto può derivare. Ogni materia prima suscettibile di fermentazione rappresenta una fonte per la sua realizzazione. A differenza degli altri membri della famiglia degli alimenti fermentati (vino, birra, bevande alcoliche, formaggi, pane), l’aceto è il solo a derivare dall’attività di più microrganismi che lavorano in successione; la cosiddetta fermentazione acetica è sempre l’ultima e non è mai così scontata. Nelle intenzioni degli autori – che hanno personalmente sperimentato le tecnologie proposte nel volume – consentire ai curiosi di cimentarsi nella produzione di aceti comuni, esotici, non convenzionali. E proprio nella descrizione degli aceti non convenzionali risiede l’elemento curioso che fa del volume una chicca per chi non intende fermarsi al solito aceto di vino. Accanto al più noto aceto di mele (di sidro), troviamo illustrate procedure per la realizzazione di aceti da numerosi frutti – fichi, banane, agrumi e frutti di bosco – dal miele, dalla birra, dal riso e dall’orzo. Esaustiva e doverosa la lettura del capitolo dedicato al mai abbastanza conosciuto aceto balsamico. Chiude il volume un omaggio agli aceti “strani”, le cui materie prime, oltre che insolite, potrebbero essere di difficile reperimento, come la palma, le radici e i tuberi.

A ognuno il suo aceto. 113


Io non ci sto

E’ del produttor (di vino) ancora il fin la meraviglia? di Franco Ziliani isognerà scriverla, prima o poi, a bocce ferme, la storia del mondo del vino di questi ultimi vent’anni, che accanto ad una innegabile crescita, qualitativa, d’immagine e di prestigio presenta pagine molto meno esaltanti. Bisognerà parlare dei molti errori compiuti, delle ingenuità, della tendenza diffusa a compiacere e talora cavalcare le mode, della grande difficoltà a delineare con lungimiranza e senza continue correzioni di rotta, precise strategie. Per molti produttori italiani questi sono stati e sono ancora anni all’insegna del marinismo. Non fraintendetemi, non mi riferisco alla bionda e giunonica Valeria, attrice, showgirl e ora anche stilista, anche se l’opulenza di certi vini farebbe pensare ad una sorta di ispirazione alla “burrosa” soubrette. Il marinismo cui penso è proprio quello che prende nome da Giovan Battista Marino, massimo rappresentante della poesia barocca italiana, il cui motto più celebre, tramandato da tutte le storie della letteratura, dice che “È del poeta il fin la maraviglia”. Cosa sono state, cosa sono difatti molte libere interpretazioni enologiche, tutte ghirigori, trovate ben calcolate, specchietti per allodole, se non libere variazioni e applicazioni al tema vino di quell’invito, lanciato secoli fa da Marino, a sorprendere, con tutti gli effetti speciali dati ieri dalla retorica e oggi da una tecnica sempre più agguerrita, il lettore e, oggi, mutatis mutandis, il consumatore ed il degustatore professionale? Cos’erano difatti se non effetti speciali, espedienti per farsi notare, più con elementi collaterali che con la verità e la bontà del prodotto finale, il ricorso ad inutili e costose bottiglie super pesanti o di foggia particolare create appositamente, il vorticoso turn over delle etichette, ogni volta affidate al grafico o al designer (verrebbe voglia di dire lo stilista…) più in voga, e poi

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l’adozione di nomi che più fantasiosi, stravaganti, privi di ogni legame con il territorio, scelti per battezzare i vini più ambiziosi e costosi? Vi sembra esagerato quello che dico e viziato da un tradizionalismo che mi spinge a diffidare della “creatività” e del nuovo? Bene, allora voglio citare quanto ha scritto recentemente, parlando della proliferazione delle cosiddette super cuvées, uno dei più autorevoli wine writer britannici, Andrew Jefford, sulle colonne di Decanter. Ha scritto: “Non v’è dubbio che la scelta di produrre vini da singoli vigneti (parla di un fenomeno che dalla Borgogna si è esteso anche ad altre zone vinicole francesi) otterrà il plauso dei puristi e non v’è dubbio che rappresenti la migliore soluzione se il luogo in questione ‘consente la creazione di un vino che presenta una qualità e uno stile unici e ben percepibili dovute al particolare ambientamento di quelle uve in quel posto’. Ma anche in Borgogna questa unicità non è se non raramente distinguibile”. La conclusione è che “la scelta della super cuvée, della selezione speciale, è una sorta di mostro generato dall’ascesa e dall’imporsi di una critica del vino basata sui punteggi”. E queste selezioni speciali, “innegabilmente impressionanti”, lo sono “più per l’accumulazione delle qualità, facile da tradurre in un punteggio, che per la definizione di queste stesse qualità”, che è più difficile da percepire e richiede che ai vini venga concesso il giusto tempo per maturare e poterle esprimere. Come si è tradotto questo discorso relativo alla situazione francese nel panorama vinicolo italiano? Si è tradotto, lo spettacolo, se così si può dire, è sotto gli occhi di tutti, in un’assurda, incontrollata, disordinata frammentazione della produzione in cru, sotto cru, super cuvées, selezioni particolari, vini di nicchia, che hanno ridotto la massa critica ed il potenziale

appeal commerciale di molti vini, perché un conto, soprattutto per un importatore, è contare su 50,100 mila bottiglie di un determinato vino, un conto è sapere di avere a che fare con un “vin de garage” da tremila pezzi, ma hanno funzionato, finché hanno funzionato, maravigliosamente come rilucenti attrazioni in grado di catturare l’attenzione di una stampa e di una critica alla ricerca del nuovo. Perché un conto, nel loro ragionare, è parlare del vino già noto e affermato, un conto è raccontare al lettore dell’ennesima novità, della sperimentazione in corso, della stranezza e particolarità provata “per vedere come si ambientava quell’uva in quel determinato terroir”, o perché, insomma non provare a produrre un Merlot, un Pinot Nero, un Viognier in zone dove da secoli si lavorava solo sul Sangiovese, o sul Nebbiolo, è un po’ da “provinciali”... Pensiamo, ad esempio, alla sola Toscana, al Chianti Classico, oppure ad altre zone come Montalcino dove in ossequio alla parola d’ordine dei Super Tuscan, accanto ai classici vini a denominazione sono fioriti, espressione, ci è stato detto, delle uve migliori, tutta una serie di vini “innovativi” prodotti con incroci e commistioni di varietà autoctone e alloctone o totalmente internazionali nella loro composizione e nello spirito. A cosa sono serviti? A nulla, solo a far parlare, ad attirare l’attenzione, a dimostrare che era davvero il marinismo ad ispirare larga parte di un mondo produttivo intento solo a dimostrare che é “del produttore il fin la meraviglia”. Innovazione l’hanno chiamata, capacità di rinnovarsi, di offrire nuovi stimoli al consumatore. Sarà anche vero, ma se questo è il mondo del vino e se queste sono le “ricette” per affrontare i mercati in tempi di crisi, non posso che dire, a costo di apparire ripetitivo, scusate, ma io non ci sto…


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