Anno XVI - n. 87 - € 3,50 - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 - n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
DEVinis LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE
Maggio / Giugno 2009
PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - ais@sommeliersonline.it
Editoriale
Ripartire per tornare più
forti di Terenzio Medri
a spallata che ha steso l’Abruzzo ha anche colpito tutti noi, travolti emotivamente dal terremoto che ha devastato e ucciso. È stata una tragedia a cui il Paese ha risposto con la tempestività delle istituzioni e la generosità degli Italiani. So che in queste settimane molti delegati dell’Ais hanno organizzato o stanno organizzando iniziative per aiutare i cittadini abruzzesi che hanno subito danni dal sisma. Li ringrazio perché questa è la conferma che l’Ais è come una grande famiglia, sempre solidale nei confronti di chi è in difficoltà. Il terremoto ha anche danneggiato il comparto agricolo: secondo una stima del ministro delle Politiche agricole Luca Zaia, i danni ammontano a oltre cento milioni di euro. Il settore primario abruzzese, che vale il 15 per cento del Pil regionale e supera il miliardo di euro in valore assoluto, conta 60 mila aziende, di cui 47 mila in zona montana. Per aiutare il settore a superare il difficile momento, il ministero ha preparato un pacchetto di misure. Una volta passata l'emergenza sarà però indispensabile che l'agricoltura e le economie rurali delle zone terremotate siano rimesse in condizione di tornare a operare efficacemente perché costituiscono delle voci importanti di reddito per queste comunità: si tratta di settori con notevoli e ben note punte qualitative che si traducono in numerose produzioni di eccellenza come Doc, Igt, Igp e Dop. In questi mesi bisognerà evitare di cadere nella spirale dei meccanismi perversi di sfiducia che potrebbero provocare l'abbandono di attività agricole in aree già di per sé molto "sensibili", come quelle montane abruzzesi, con pesanti ripercussioni in termini di gestione del territorio e perdita irreversibile di antiche tradizioni e sapori locali. Per questo occorre ripartire in fretta per tornare a essere ancora più competitivi.
L
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AIS Associazione Italiana Sommeliers Presidente | Terenzio Medri Vicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella Romani Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, Lorenzo Giuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.
La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene. Anno XVI maggio-giugno 2009 Associazione Italiana Sommeliers Editore Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, terenzio.medri@sommeliersonline.it Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, francesca.cantiani@sommeliersonline.it Per la pubblicità | Roberto Pizzi, pubblicita@sommeliersonline.it tel. 02/72095574 – ICE Srl – Corso Garibaldi, 16 – 20121 Milano Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - devinis@sommeliersonline.it Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it Hanno collaborato | Luisa Barbieri, Carla Bruni, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Alessia Cipolla, Elisa della Barba, Massimo Di Cintio, Roberto Di Sanzo, Alessandro Franceschini, Fabrizio Franchi, Natalia Franchi, Salvatore Giannella, Maddalena Giuffrida, Emanuele Lavizzari, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Antonello Maietta, Angelo Matteucci, Maria Grazia Melegari, Davide Oltolini, Morello Pecchioli, Roberto Piccinelli, Cesare Pillon, Valentina Pillot, Paolo Pirovano, Monica Piscitelli, Fabio Poli, Lorenzo Simoncelli, Stefano Tura, Laura Tuveri, Daniele Urso, Franco Ziliani. Fotografie | Archivio Ais Per l’articolo a firma di Cesare Pillon foto di Giorgio Melis Per l’articolo a firma di Salvatore Giannella il ritratto di “Camilleri e Montalbano” e il logo “Mondi e idee in un bicchiere” sono di Ro Marcenaro Per l’articolo a firma di Franco Ziliani foto dello stesso autore e dell’archivio Cantina Terlano Per l’articolo a firma di Elisa della Barba le foto delle Isole Cicladi sono di Antonella Lama Per l’articolo a firma di Alessandro Franceschini foto dello stesso autore e di Federico Struzziero Per l’articolo a firma di Maurizio Maestrelli la foto di Teo Musso è di Alessio Franzoso Per l’articolo a firma di Luisa Barbieri foto del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese Per l’articolo a firma di Massimo Di Cintio si ringrazia Laura Lupone di Virgola Comunicazione Srl per la concessione delle foto di Flavia Florindi, Giacomo Sinibaldi e Franco Soldani. Per le foto dell’articolo a firma di Antonello Maietta si ringrazia Filippo Ronco di Tigulliovino.it Per l’articolo a firma di Carla Bruni foto di Alessandro Franceschini Le foto della premiazione del Ministro Giorgia Meloni sono di Gabriele Fasanaro, Archivio Ais Sicilia Per l’articolo a firma Laura Tuveri foto di Loris Vettoretto Si ringrazia Urbano Sintoni per il ritratto fotografico al presidente Terenzio Medri (editoriale) Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001 Associato USPI Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA € 20,00 ESTERO € 35,00 Intestare ad “Associazione Italiana Sommeliers – viale Monza, 9 – 20125 Milano” specificando il motivo del versamento da effettuarsi secondo una delle tre seguenti modalità: - pagamento tramite c/c postale 000058623208 - bonifico su Banco Posta, codice IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX) - bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano, IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) Chiuso in redazione il 28-04-2009 Stampa | Grafiche Parole Nuove Srl - Brugherio Milano Copie di questo numero | 40.000
AIS 2009
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Sommario
Maggio / Giugno 2009
Dieci vini che hanno cambiato la storia
10 UNA
DEGUSTAZIONE SENZA PRECEDENTI CON I CAMPIONI DELL’AIS
Il brindisi che batte ogni record!
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A VERONA
TRADIZIONE ISLAMICA A TAVOLA
A pranzo con Montalbano
28
“LE PAROLE MAESTRE”
ALLA
SCOPERTA DI LOCALI ORIGINALI E PARTY INNOVATIVI
40 IL PINOT
46
Grandi bianchi che sfidano il tempo BIANCO
CANTINA TERLANO
Il Vulture accoglie i sommelier OSPITERÀ IL
43.MO CONGRESSO NAZIONALE AIS
Le cantine sfidano le Borse
VINO COME NUOVA FORMA DI INVESTIMENTO
62 LA
DELLA
E LA SUA OFFERTA TURISTICA
LA BASILICATA
56
VORBERG
Tra mito e realtà
LA GRECIA
51
E I SAPORI DEL COMMISSARIO PIÙ FAMOSO D’ITALIA
Al passo con le nuove tendenze
36
IL
43.MO VINITALY
La cucina secondo il Corano
20 LA
SUCCESSO DI PUBBLICO PER IL
Il profumo dell’Irpinia
DEGUSTAZIONE DI
TAURASI
NELLO STORICO BORGO
Sommario
Marzo / Aprile 2009
80 Dalla City londinese al gelato nostrano STORIA
84 A
LA
IL
MONFERRATO
Architettura innovativa in cantina
DESIGN MODERNO TRA ARTE E FUNZIONALITÀ
99 LA
L’aurora dell’Albarossa
RISCOPERTA DI UN VITIGNO NELL’ALTO
96
68 72 74 76 78 87 104 112 114
L’Abruzzo dopo la scossa
RISCHIO IL PATRIMONIO ENOGASTRONOMICO DELLA REGIONE
90
All’interno
DI UN ITALIANO CHE HA SCELTO PISTACCHIO E NOCCIOLA
L’Oltrepò Pavese e le sue eccellenze
VOCE DEL DIRETTORE DEL
CONSORZIO
DI
TUTELA
Musei LE ERBE E I RIMEDI NATURALI Olio FARE SISTEMA, LO SLOGAN PIÙ AMATO DAGLI ITALIANI Birra IL LATO “DOLCE” DEL LUPPOLO Distillati IL SEGRETO DEL BUON GIN Acqua ALLA SCOPERTA DELLA MINERALE Saranno Famosi UNA LIGURIA DA BERE Fumenogastronomia VINO E SIGARI: UN BINOMIO INDISSOLUBILE Sullo scaffale LE NOVITÀ EDITORIALI Io non ci sto! CAMBIAMENTI DI DISCIPLINARE, ALTRIMENTI DECIDE L’EUROPA
Eventi
Quando i scrivono la
vini
storia
di Cesare Pillon
AL VINITALY L’AIS HA RIVISITATO IL RISORGIMENTO ENOLOGICO CON UNA DEGUSTAZIONE, PER CERTI VERSI RIVOLUZIONARIA, CHE NON HA PRECEDENTI
è sempre una prima volta. Però la degustazione che l’Associazione italiana sommelier ha organizzato al Vinitaly, giovedì 4 aprile 2009, non è stata soltanto una prima volta, ma un avvenimento memorabile. Il titolo dell’iniziativa, “Dieci vini che hanno cambiato la storia presentati dai campioni dell’Ais”, già preannunciava che si sarebbe volato alto, nel cielo dell’enologia italiana. Ma si è capito che quella non sarebbe stata una degustazione come le altre quando il presidente nazionale Terenzio Medri, per presentarla agli intervenuti, si è riferito a una coincidenza densa di significati: l’Ais è nata 44 anni fa, e proprio
C’
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in quel periodo il vino italiano muoveva i primi passi del suo Risorgimento, un Risorgimento a cui la crescita culturale dei sommelier ha fornito un contribuito di primaria importanza. Senza quei dieci vini l’Ais non sarebbe ciò ch’è oggi, senza l’Ais quei vini non avrebbero avuto lo stesso impatto sulla realtà. L’eccezionalità dell’evento, prima ancora che esso cominciasse, era già stata percepita dal pubblico, affluito numeroso e puntuale in un orario piuttosto scomodo, alle due del pomeriggio, subito dopo la cerimonia d’inaugurazione: i presenti erano 198 semplicemente perché la sala Argento del Palaexpo, a VeronaFiere, non ne può ospitare di più, con dieci bicchieri allineati davanti a ciascuno. Tanto più che accanto ai dieci bicchieri c’erano anche due piattini con dieci appetizer. Come mai? Il motivo lo ha chiarito il giornalista Cesare Pillon (che è anche l’autore di questo articolo. E’ imbarazzante scrivere di se stessi in terza persona: finora lo aveva fatto soltanto un altro, che però si chiamava Giulio Cesare, per narrare nel De bello gallico le proprie imprese; ma chiamarsi Cesare come lui non basta per ottenere gli stessi risultati).
L’Ais, ha spiegato Pillon, ha voluto proporre la sua degustazione in una versione nella quale si esprimesse la sua più intima essenza, la sua stessa cultura. E poiché il compito più alto a cui sono chiamati i sommelier che essa rappresenta è di individuare qual è l’abbinamento più felice del vino con il cibo, si è scelto di organizzare una degustazione di vini importanti sì, ma abbinati a quei cibi con cui essi hanno un rapporto che Luigi Veronelli definiva poeticamente matrimonio d’amore. “Mi preme far notare”, è stata la premessa di Pillon,
“che il titolo della manifestazione è privo dell’articolo: non sono ‘i’ dieci vini che hanno cambiato la storia dell’enologia italiana. Se lo fossero non potrebbe mancare, per esempio, il Sassicaia. Ma il Sassicaia, come i Barolo, i Barbaresco, i Brunello di Montalcino, erano già venuti al mondo prima della creazione dell’Ais, mentre le bottiglie in degustazione sono tutte nate durante gli ultimi 44 anni, cioè da quando opera questa associazione, e ciascuna di esse ha segnato una svolta, una tappa, un momento importante”.
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Eventi
”DIECI VINI CHE HANNO CAMBIATO LA STORIA PRESENTATI DAI CAMPIONI DELL’AIS” VINI 1.
RELATORI
Giulio Ferrari Riserva
PRODUTTORI
Mauro Lunelli
Ferrari
Maurizio Zanella
Ca' del Bosco
del Fondatore 2.
Franciacorta Cuvée Annamaria Clementi
3.
Vintage Tunina
Silvio Jermann
Silvio Jermann
4.
Gaia & Rey
Gaia Gaja
Gaja
5.
Bricco dell'uccellone
Raffaella Bologna
Braida - Giacomo Bologna
6.
Tignanello
Albiera Antinori
Marchesi Antinori
7.
Montevetrano
Silvia Imparato
Silvia Imparato
8.
Masseto
Leonardo Raspini
Tenuta dell'Ornellaia
9.
Amarone Vaio Armaron
Raffaele Boscaini
Agricola Masi
Fausto Maculan
Maculan
Serego Alighieri 10. Torcolato
Dieci vini che hanno fatto storia, dunque, che però non sono stati degustati in sequenza storica, scaglionati cioè secondo l’anno di nascita. Per coerenza con l’impostazione dell’evento, sono stati serviti come accompagnassero un pasto: spumante all’antipasto, bianco con primo piatto e pesce, rosso con carni e formaggio, dolce con il dessert. Tutti e dieci accompagnati da uno stuzzichino studiato appositamente per esaltarne il sapore da altrettanti sommelier. Ma non dieci sommelier normali: dieci autentici campioni, cioè sommelier qualificatisi in questi anni come i migliori d’Italia o addirittura del mondo Per realizzare questo schema originale e innovativo era stata studiata una brillante soluzione pratica: su ogni appetizer era fissata una bandierina con il nome del vino a cui era abbinato e di chi lo aveva suggerito. Ma quali erano questi dieci vini così significativi? Chi erano i dieci campioni dell’Ais mobilitati per l’impresa? E quali abbinamenti avevano proposto? 12
■■■ Spumante Giulio Ferrari Riserva del Fondatore 1999 Primo in degustazione uno spumante trentino, il Giulio Ferrari Riserva del Fondatore 1999, chardonnay in purezza maturato sui lieviti addirittura per dieci anni. Quando comparve per la prima volta nel 1980, era frutto della vendemmia 1972. La sua maturazione era quindi più breve, allora, otto anni, ma destò ugualmente grande sorpresa perché fino allora raramente gli spumanti avevano soggiornato sui lieviti più di un anno e mezzo. Furono colti di sorpresa perfino Gino e Franco Lunelli, titolari dell’azienda insieme al fratello Mauro: quest’ultimo, enologo della casa, ha infatti raccontato di aver preparato quella straordinaria riserva di nascosto da tutti. Singolare la vicenda, e singolare l’abbinamento elaborato da Federico Graziani, miglior sommelier d’Italia del 1998, in servizio a Milano nel ristorante Il luogo di Aimo e Nadia, due stelle Michelin. Per spiegare quanto fosse felice l’unione della testina di maialetto di cinta senese croccante alle erbe aromatiche con
CAMPIONI AIS Federico Graziani Campione d’Italia 1998 Michele Garbuio Campione d’Italia 2006 Piero Sattanino Campione del Mondo 1971 Bruno Casetta Vicecampione del Mondo 1986 Ivano Antonini Campione d’Italia 2008 Luca Gardini Campione d’Italia 2004 Agostino Buillas Campione d’Italia 1995 Gianfranco Bolognesi Campione d’Italia 1974 Antonello Maietta Campione d’Italia 1990 Eddy Furlan Campione d’Italia 1980
il Giulio Ferrari non ha avuto bisogno però di molte parole: l’assaggio aveva già convinto tutti. ■■■ Franciacorta Cuvée Annamaria Clementi 1997 Il Franciacorta Docg assaggiato subito dopo era preparato con uve di chardonnay, pinot bianco e pinot nero della vendemmia 1997, cioè di 12 anni prima. Straordinario era che il degorgement, la sboccatura, fosse stata praticata nel novembre del 2003, cioè quasi sei anni fa: dopo la sboccatura, gli spumanti cominciano a decadere, mentre la Cuvée Annamaria Clementi 1997 era fresca come una rosa, con una lunga vita dinanzi a sé. Al suo esordio (vendemmia 1979 si chiamava semplicemente Millesimato di Ca’ del Bosco, e questo è stato il suo nome fino a quando il suo autore, Maurizio Zanella, come ha raccontato lui stesso, non ha deciso di dedicarla alla mamma, Annamaria Clementi. Da un quarto di secolo, ormai, questa cuvée rappresenta il vertice a cui è arrivata la qualità in
Franciacorta. La sua elegante pienezza è stata esaltata da una gustosa tartare di mazzancolla marinata agli agrumi con patate violette, proposta da Michele Garbuio, il sommelier campione d’Italia del 2006 che presta la sua opera nel ristorante Acanto dell’hotel Principe di Savoia a Milano. ■■■ Vintage Tunina 2006 Il bizzarro destino del Vintage Tunina, terzo vino in programma, è che volendo essere diverso da tutti gli altri bianchi friulani ne è diventato il simbolo. Il millesimo degustato al Vinitaly era il 2006, 31 anni dopo quello d’esordio: la prima vendemmia posta in commercio fu infatti il 1975, ha ricordato il produttore, Silvio Jermann, dopo due anni di sperimentazioni. Per stupire, allora, non gli mancava nulla: scaturiva da un uvaggio di grappoli surmaturi in una regione di vini di monovitigno fatti con uve raccolte precocemente, la sua vinificazione era innescata da lieviti naturali invece che selezionati, e aveva fatto la fermentazione malolattica, evitata da tutti gli altri. Eppure si è dimostrato molto longevo, pur non soggiornando neanche un giorno nel legno. Profumato, sensuale ed elegante vino del nordest, è stato felicemente accoppiato al brandacujun, preparazione del nord-ovest ligure a base di stoccafisso, per scelta di Piero Sattanino, il sommelier medaglia d’oro di campione del mondo nel 1971 ch’è oggi titolare dell’hotel Parigi a Bordighera. ■■■ Gaia e Rey 2002 Le Langhe sono da sempre terra di grandi rossi. Dal 1983, prima vendemmia del Gaia e Rey, sono diventate anche terra di grandi bianchi. E lo chardonnay, con le cui uve è fatto, è stato adottato in misura superiore ai vitigni autoctoni. Il lato più curioso di questo vino è però un altro: il suo autore, Angelo Gaja, lo ha declinato al femminile chiamandolo con il nome della figlia maggiore, Gaia (con la i normale, non con la J) e con il cognome della nonna materna, Clotilde Rey, una donna che ha avuto grande importanza nella storia dell’azienda. Azienda che sta festeggiando 150 anni di vita. Simbolicamente, quindi, le donne come passato e futuro della casa. Difatti a presentare il vino è stata proprio Gaia Gaja, coprotagonista dell’etichetta. E l’abbinamento? Lo ha scelto Bruno Casetta, medaglia d’argento 1986 al campionato per il miglior sommelier del mondo, attualmente direttore dei ristoranti di Piero Chiambretti a Torino. Azzeccatissimo: tocchetti di fegato grasso d'anatra in crosta di nocciole con salsa allo scalogno e aceto balsamico. 13
Eventi ■■■ Bricco dell’Uccellone 2006 Vino rosso rivoluzionario, il Bricco dell’Uccellone: battezzandolo con un nome irridente e malizioso, Giacomo Bologna ottenne 24 anni fa che fosse riconosciuta l’aristocratica nobiltà di un vino considerato fino allora irrimediabilmente plebeo: la Barbera come la chiamava lui, da buon piemontese. Come riuscì a farle fare questo salto vertiginoso di status? Facendola soggiornare nella piccola botte chiamata barrique. E’ questa la chiave per capire: storicamente la barrique, originariamente usata per il trasporto e quindi facilissima da spostare, era la più adatta per erigere le barricate, che proprio da essa hanno preso il nome. Ed è con le barricate che si fanno le rivoluzioni. Compresa quella del Bricco dell’Uccellone, raccontata da Raffaella Bologna con la stessa capacità di suscitare simpatia che caratterizzava suo padre. Di grande effetto anche l’abbinamento con il carpaccio di filetto leggermente affumicato suggerito da Ivano Antonini, il sommelier campione d’Italia Ais del 2008 che opera nel ristorante Il Sole di Ranco, una stella Michelin. ■■■ Tignanello 2001 Il Tignanello è il padre dei SuperTuscans che sposano il più importante vitigno autoctono della loro regione, il sangiovese, con quelli internazionali. Ma non nacque con queste caratteristiche: il primo Tignanello, della vendemmia 1971, era un Chianti senza le uve bianche, maturato in barrique. Fece sensazione perché era un Vino da Tavola più caro delle Riserve di Chianti Classico. Con l'attuale assemblaggio, sangiovese 85%, il resto cabernet sauvignon e franc, ha ricordato Albera Antinori, illustrandone la storia, si presentò alla seconda uscita, quattro anni dopo, con la vendemmia 1975. E allora sì, fu davvero innovativo: con esso il papà di Albiera, Piero Antinori, aveva creato una nuova tipologia di vino. E l’etichetta che vi appose, progettata dall'architetto Silvio Coppola, ha innescato anch'essa una rivoluzione. Affidato a Luca Gardini, il sommelier del ristorante Cracco di Milano che ha conquistato il titolo di campione d’Italia nel 2004, il Tignanello 2001 è stato abbinato in passionale abbraccio a una terrina di capriolo con mosaico di frutta secca. ■■■ Montevetrano 2004 Un filo segreto collega il Montevetrano, primo vino innovativo della Campania, al Tignanello: il collegamento più evidente è che ha lo stesso schema, cioè miscela uve di varietà internazionali, cabernet sauvignon e merlot, con una autoctona, l’aglianico. Ma c’è di più: per vinificare la prima annata, il 1993, la sua produttrice, Silvia Imparato, si assicurò la collaborazione d’un amico enologo, e questo amico era Renzo Cotarella, direttore tecnico della Marchesi Antinori. Oggi l’enologo che cura l’elaborazione del Montevetrano è il fratello, Riccardo Cotarella, ma la vera autrice è lei, Silvia Imparato, fotografa di grande sensibilità, che ha presentato alla degustazione il suo vino, intrigante e ricco di fascino, trasmettendo a tutti l'intensità della sua passione. A proporre il sorprendente ma indovinato abbinamento di questo rosso salernitano con un cubotto di tonno
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affumicato in crosta di nocciole con salsa di peperone di Montevetrano è stato un valdostano: Agostino Buillas, sommelier campione d’Italia del 1995, titolare del Cafe Quinson di Morgex. ■■■ Masseto 2004 Il Masseto, Merlot di Bolgheri in purezza, primo e unico vino non francese trattato sulla Place de Bordeaux, ha segnato una svolta nella storia del vino italiano, e non solo: difatti l’annuncio che da ottobre cinque négociants bordolesi ne commercializzeranno 6 mila bottiglie, il 20% delle 30 mila prodotte dalla Tenuta dell’Ornellaia, è stato dato nella sede di Mediobanca, il sancta sanctorum della finanza italiana. L’evento è enorme sul piano simbolico. Nato con la vendemmia 1986, il Masseto è arrivato in vent’anni a un traguardo che nessun altro vino al mondo aveva finora osato proporsi. Come c’è riuscito? L’ha raccontato il direttore della Tenuta dell’Ornellaia, Leonardo Raspini: salendo ogni anno più in alto sulla scala della qualità assoluta, curando fino all’esasperazione ogni minimo dettaglio, è giunto a ottenere il voto di 100/100 da Wine Spectator per il millesimo 2001. Gianfranco Bolognesi, patron del ristorante La Frasca a Cervia, campione d’Italia dei sommelier Ais nel 1974, ha suggerito l’abbinamento del Masseto 2004 con una terrina di cacciagione. ■■■ Amarone Vaio Armaron 2003 L’Amarone forse è sempre esistito, ma ha questo nome
Fausto Maculan elaborò con i grappoli della vendemmia 1970: un Torcolato chiaro anziché marrone, dai profumi fragranti di miele e fiori anziché di marmellata, un sapore dolce e pieno ma che lasciava la bocca pulita E’ stato lo stesso Maculan a raccontarne l’evoluzione successiva: l’adozione della barrique che ne ha accresciuto la consistenza e gli ha conferito profumi di vaniglia e legni nobili, assicurandogli un successo che si è propagato a tutta la zona e a tutti i suoi vini. Dolcemente classico l’abbinamento proposto da Eddy Furlan, campione d’Italia Ais del 1980, titolare del ristorante La Panoramica di Nervesa della Battaglia: con dei biscotti, gli zaleti al Torcolato.
da mezzo secolo e conosce il successo solo dagli anni 80. Il Vaio Armaron, prodotto dai Serego Alighieri per l’Agricola Masi, lo rappresenta bene per due motivi: perché è nato con la vendemmia 1979 in un vigneto che appartiene ai discendenti del poeta Dante e che forse ha ispirato il suo nome; e poi perché la Masi ha il merito di aver messo in luce che l’Amarone è frutto della natura ma anche dell’uomo, che lo trae da uve fatte preventivamente passire, e ha valorizzato questo metodo produttivo sia affermandone nel mondo l’originale unicità sia sottoponendolo agli studi di un Gruppo Tecnico di eccezionale livello scientifico. Ed è stato Raffaele Boscaini, coordinatore del Gruppo Tecnico Masi, a illustrarne le caratteristiche agli intervenuti. I quali hanno gustato il Vaio Armaron 2003 insieme a uno straordinario parmigiano reggiano stagionato 70 mesi, il Malandrone 1477, scovato da Antonello Maietta, sommelier campione d’Italia Ais nel 1990, che attualmente opera nell’enoteca A Posàa di Portovenere. ■■■ Torcolato 2006 Anche il Torcolato, come l’Amarone, non è nato negli ultimi decenni. Però la fama di questo vino dolce, ricavato da uve di vespaiola tenute ad appassire fino a dicembre sospese a un cordino attorcigliato (da cui il nome), non era mai andata molto al di là dei confini di Breganze, provincia di Vicenza. A promuoverlo tra i grandi bianchi da dessert fu la versione moderna che
La degustazione organizzata dall’Ais al Vinitaly non ha affatto nascosto di avere un significato meditatamente polemico. Ponendo come modello il vino bevuto durante il pasto, e quindi elemento importante della dieta mediterranea, ha riaffermato il valore della tradizione dei Paesi latini, in contrasto con la moda anglosassone di considerare il vino come una bevanda da bere per se sola. Il vino, per la nostra millenaria civiltà, non è soltanto un drink; questo modo riduttivo di percepirlo si è però inevitabilmente fatto strada anche nel vecchio continente, soprattutto fra le giovani generazioni, negli ultimi anni, cioè da quando la competizione commerciale si è allargata al mercato globale. E alcuni tra i problemi più gravi che esso è costretto oggi ad affrontare derivano proprio da questo mutato rapporto. Infatti, da quando si è cominciato a considerare il vino come un drink si è scatenata un’assurda gara per ottenerlo sempre più concentrato, sempre più muscolare e palestrato, quindi troppo simile a tanti altri, ma soprattutto (ed è pericoloso) di tenore alcolico sempre più elevato. Al fondo di questo percorso, soprattutto per i giovani, può esserci la sbronza, lo sballo, la strage del sabato sera. Traendo le conclusione dell’evento, il presidente Terenzio Medri ha quindi affermato che la degustazione indetta al Vinitaly si inserisce perfettamente nella campagna che l’Ais sta conducendo per diffondere tra le nuove generazioni l’educazione al bere consapevole. Essa però ha avuto anche un significato di più vasta portata. Il vino bevuto come drink è indubbiamente un raffinato piacere edonistico, ma è per forza di cose una moda, e le mode sono effimere, passano. Il vino che esalta i sapori di una pietanza e ne viene a sua volta esaltato dà un piacere fors’anche maggiore, ma soprattutto non è una moda, fa parte di un costume di vita, è frutto di una cultura, risponde a una tradizione, è espressione della civiltà della tavola. E’ questo il significato che il presidente Medri ha inteso sottolineare quando ha ringraziato l’equipe di sommelier che assicurando il servizio di mescita in cronometrica sintonia con l’alternarsi dei produttori al microfono ha vinto la sfida di una degustazione di tipo inedito e complesso, testimoniando una formazione capace di superare anche le prove più difficili, che ha consentito, grazie anche al rigoroso rispetto dei tempi assegnati per ogni intervento, di concludere la degustazione nella durata di due ore, come da programma.
15
Fiere
Un’edizione da
record
SONO
STATI OLTRE
150
AVUTO UNA SIGNIFICATIVA PRESENZA DI OLTRE CENTO
43.MO VINITALY, CHE HA OPERATORI ESTERI, PROVENIENTI DA
MILA I VISITATORI DEL
PAESI
di Morello Pecchioli ai visto un Vinitaly così. Alla faccia della crisi. O, forse, proprio per la crisi che ha stretto a corte produttori, espositori, aziende, consorzi, operatori esteri, sommelier e professionisti del vino. “Sono proprio i momenti difficili che mettono alla prova le nostre convinzioni e i nostri valori”, ha così fotografato il Vinitaly 2009 Vittorio Moretti, patron di Bellavista, Contadi Castaldi e Petra, “dobbiamo avere l’audacia di andare avanti credendo nel progresso e nella crescita del settore vitivinicolo”. I numeri della 43.ma rassegna veronese del vino danno ragione agli espositori che hanno definito Vinitaly 2009 “Il più sorprendente e importante di sempre. Il migliore della sua storia”. Vinitaly ha chiuso i battenti con il record di oltre 150 mila visitatori. Un primato sottolineato dalla significativa presenza degli operatori esteri: 45 mila da 110 Paesi del mondo. Mai visti tanti
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così nel quasi mezzo secolo di storia della manifestazione veronese: l’anno scorso furono 43 mila. Gli espositori sono stati più di 4.200 da una trentina di Paesi; 2.400 i giornalisti da 50 Paesi, 91 mila i metri quadrati di esposizione. Moltiplicati, quest’anno, anche i parcheggi. Il che ha fatto sentire meno pesante (anche se c’è ancora tanto da fare) l’accesso alla Fiera di Verona. “Sorprendente”, “sorpreso”, “stupito”, “incredibile” sono stati gli avverbi e gli aggettivi più usati nei commenti post rassegna: alla vigilia, con lo spettro della crisi che si agitava nei pensieri e nelle parole dei più, pochi credevano al successone del Vinitaly. Il bilancio finale ha la faccia contenta e il sorriso del presidente di Veronafiere, Luigi Castelletti, che ha chiuso in gloria il suo mandato (è già al suo posto il successore Ettore Riello) e dei grandi nomi presenti tra gli stand. Sentiamoli. Il veronese Sandro Boscaini, presidente di
▲ Giancarlo Moretti Polegato, Terenzio Medri, Mario Moretti Polegato e Dino Marchi 16
Flavio Tosi, sindaco di Verona, Luca Zaia, ministro delle Politiche Agricole, Luigi Castelletti, ex presidente di Veronafiere, e Giancarlo Galan, presidente della Regione Veneto, all’apertura ufficiale del Vinitaly 2009
Masi: “Vinitaly è andato bene per l'entusiasmo e la voglia di superare la crisi, che va monitorata ma di cui, oggi, conosciamo il perimetro. La situazione non è drammatica e non dobbiamo spaventarci. Il nostro settore ne esce bene. L'entusiasmo di questo Vinitaly è un segnale che si può uscire bene dalla crisi”. Piero Antinori, presidente della Marchesi Antinori e dell'Istituto vino italiano di qualità Grandi Marchi, gli fa eco: “Si può sicuramente affermare che abbiamo respirato un'atmosfera che si è rivelata migliore del previsto. La sensazione è che Vinitaly 2009 potrebbe rappresentare davvero un mutamento di rotta della situazione attuale”. “In un momento di crisi economica”, ha sintetizzato Pia Donata Berlucchi della Fratelli Berlucchi, “vedere una tale affluenza e importanza di importatori e rivenditori italiani ed esteri, di professionisti del settore enologico, era fuori da ogni previsione. Ancora più sorprendente il colloquio con queste persone, improntato a progetti, innovazioni, speranze ed ottimismo verso un futuro immediato”. “Con la situazione attuale”, è il commento finale di Antonio Virando, export manager di Tasca d'Almerita, “era naturale aspettarsi un Vinitaly sotto tono. Invece si è confermata una fiera di business. Ho visto molti operatori esteri interessati a continuare ad investire per essere pronti a ripartire nel momento della ripresa economica. Per quanto ci riguarda è stato il miglior Vinitaly di sempre”. Per Emilio Pedron del Gruppo italiano vini, il successo del Vinitaly dimostra che la crisi che tocca il vino è più da imputare a un bisogno di riordino interno del settore piuttosto che alla situazione internazionale. Il consuntivo di Michele Bernetti dell'Umani Ronchi è entusiasta per l’affluenza molto buona di operatori esteri, in particolare da Sud America, Australia, Canada, Taiwan, Hong Kong, Seul e Giappone. E’ lo stesso giudizio positivo di Enrico Viglierchio di Castello Banfi (“Ottima affluenza di operatori sia nazionali sia esteri”) e dell’altro grande toscano Jacopo Biondi Santi che non nasconde di aver chiuso più contratti del 2008 grazie ai tantissimi operatori esteri presenti. “Vinitaly”, secondo Gianni Zonin, “si sta sempre più
affermando come punto di incontro mondiale per il vino. Sono molto soddisfatto di questa edizione del salone, ma è altrettanto importante il ruolo che Vinitaly World Tour svolge sia per l’internazionalizzazione della rassegna sia per far incontrare ai vitivinicoltori italiani nuove nicchie di mercato”. Anna Abbona della Marchesi di Barolo evidenzia i contatti importanti, qualificati e seri avuti in particolare con Paesi scandinavi e Cina: “Abbiamo visto tanto entusiasmo, ma il bello è che nessuno ha chiesto di abbassare prezzi e praticare sconti: segno di un mercato sano”. “Vinitaly non cancella la crisi generale”, è il parere di Fausto Peratoner, amministratore delegato della cantina La Vis, “nonostante questo c'è un forte segnale positivo per il futuro del vino: dagli Usa al Nord Europa, ai Paesi dell'Est, all'Asia; i buyer di questi Paesi li abbiamo incontrati in Fiera a Verona”. Antonio Motteran, direttore generale di Carpenè Malvolti: “Abbiamo avuto incontri con i nostri importatori e distributori ed è emersa una situazione generale incoraggiante. Certo, c’è cautela, ma i programmi commerciali di lavoro del 2009 risultano in linea con il 2008”. Gianluca Bisol, direttore generale dell'omonima azienda trevigiana, ha elogiato la “perfetta macchina organizzativa di Vinitaly”. “E’ riuscita a stupirci un'altra volta: mai avremmo pensato quest'anno di incontrare un pubblico professionale così numeroso, con grande interesse dall'estero sia da parte dei mercati storici, quali Usa, Europa e Sud America, ma soprattutto da Cina, Russia e Corea del Sud». Soddisfazione è stata espressa da Bruno Trentini, direttore generale della Cantina di Soave: «I segnali sono piuttosto buoni e mi sento di affermare che il settore del vino non risente della crisi. L'edizione 2009 di Vinitaly ha confermato come in un momento non certo facile, il vino, ma vorrei dire l'intero settore dell'agroalimentare Made in Italy mantenga salde le sue posizioni”. Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere, ha sottolineato come il Vinitaly abbia registrato fra le associazioni dei produttori - Uiv, Federvini e Fedagri, grazie anche all’importante ruolo di Buonitalia e del 17
Fiere
Le bellezze di Miss Italia hanno scelto il loro sommelier!
Ministero per le politiche agricole - “una progressiva solida convergenza sul progetto di realizzare un sistema di promozione del vino italiano nel mondo. In tale contesto Vinitaly World Tour si mette a disposizione di tutto il sistema di promozione per un’ulteriore fase di sviluppo che integri anche il lavoro prezioso delle Regioni, dell’Ice e del Ministero per il commercio con l’estero”. Dal canto suo il ministro per le Politiche agricole, Luca Zaia, ha manifestato l’intenzione di premiare chi sceglie di dedicare la propria vita appassionata alla modernizzazione e alla promozione dell’agricoltura della propria terra, valorizzando straordinari prodotti la cui forza economica e culturale rappresenta perfettamente il made in Italy. In questo panorama di entusiasmo, di pacche sulle spalle e di successo va sottolineato il ruolo dei sommelier Ais. L’Associazione Italiana Sommelier ha organizzato una degustazione-evento celebrata da tutti i giornalisti, i produttori e gli operatori presenti: "Dieci vini che hanno cambiato la storia presentati dai campioni dell'Ais". Indovinatissima e originale la formula della degustazione condotta da Terenzio Medri, presidente nazionale Ais, e dal giornalista Cesare Pillon. I dieci vini scelti hanno segnato una svolta importante nella storia enoica d'Italia, storia che coincideva con quella dell’Ais. I cui campioni sono stati chiamati, dopo la pre-
▲ Una degustazione di grandi rossi bordolesi 18
sentazione del produttore del vino storico, a presentare il vino selezionato e l’appetizer preparato da un grande chef abbinato ad esso per esaltarne la personalità. Ecco i vini, i produttori e i campioni Ais dell’evento: Ferrari, Giulio Ferrari Riserva del Fondatore presentato da Federico Graziani; Ca' del Bosco, Franciacorta Cuvée Annamaria Clementi da Michele Garbuio; Silvio Jermann, Vintage Tunina da Piero Sattanino; Gaja, Gaia & Rey da Bruno Casetta; Braida di Giacomo Bologna, Bricco dell'Uccellone da Ivano Antonini; Marchesi Antinori, Tignanello da Luca Gardini; Silvia Imparato, Montevetrano da Agostino Buillas; Tenuta dell'Ornellaia, Masseto da Gianfranco Bolognesi; Agricola Masi, Amarone Vaio Amaron - Serego Alighieri da Antonello Maietta; Maculan, Torcolato da Eddy Furlan. A dimostrazione che non c’è crisi senza sfoggio di lusso sfrenato, nel padiglione Enolitech è stato presentato l'oggetto più caro di tutto il Vinitaly: Wice, il secchiello per vino di Paperon de’ Paperoni. Wice sta per Wine e Ice, vino più ghiaccio. Se siete sceicchi o avete un reddito da milionari arabi ve lo potete permettere: costa 80 mila euro. Lo fa la Improject di Altavilla in provincia di Vicenza, patria delle aziende legate all’oro e ai preziosi. A quanto pare l'idea è nata da ristoratori vicentini. Secondo Alberto Ferrari, l’amministratore delegato d'Improject Wice, dovrebbe sostituire il classico secchiello per il ghiaccio perché oro e diamanti permettono di godere il vino e le sue caratteristiche organolettiche nel loro massimo splendore. Perché Ferrari non lo dimostra organizzando una degustazione con i maestri e i campioni dell’Associazione italiana sommelier? Con il timbro dell’Ais, Wice avrebbe in tasca il passaporto per i ricchi clienti mondiali.
Enogastronomia e culto
Islam
L’
a tavola
di Maddalena Giuffrida e coste del Mediterraneo sono state, nei secoli, scenario di incroci, scambi e anche di forti contrapposizioni. In una delle pagine più belle del “breviario” mediterraneo di Predrag Matvejevicˇ, l'autore dipinge le contraddizioni che hanno scandito la storia del Mediterraneo in una mirabile ed efficace sintesi: da un lato pone “i libri sacri della pace e dell'amore” e dall'altro “le guerre dei crociati e le Jihad anticristiane”, da una parte “Atene” e dall'altra “Sparta” e poi “l'Impero d' Oriente e quello d' Occidente”.1 Le incongruenze che hanno contrassegnato le diverse civiltà del Mediterraneo sono immense e si sono esplicate in una sintesi difficilmente componibile. In questo scenario dinamico e fluttuante si inserisce anche la storia della cosiddetta “cucina mediterranea”: dalle abitudini enogastronomiche della Provenza a quelle della Libia, passando per la Spagna e la Turchia, sono multiformi e varie le “cucine” del Mediterraneo. Esse sono il frutto di una complessa evoluzione storica, dove si intrecciano fili variegati e difformi. Durante i secoli le “doc” mediterranee del grano, olio e vino si sono incrociate con la cultura della carne, del burro e della birra delle popolazioni del Nord Europa; con gli spinaci, la canna da zucchero, il riso degli arabi,
L
mentre, con la scoperta dell'America altri prodotti, come le patate, il mais, il cacao e il pomodoro sono sbarcati sulle coste del Mare Nostrum. In questo quadro multiforme e composito un ruolo importante e fondamentale ha svolto la cultura islamica: un altro scrittore, questa volta arabo, Salah Jamal Aboali, in un libro2 sospeso tra il trattato di cucina e il libro di viaggio, trasforma il suo tour gastronomico nelle ricette della tradizione araba in un viaggio più ampio, sottolineando il ruolo centrale del cibo, come importante mezzo di comunicazione, e della cucina, come atto culturale sensibile agli influssi di civiltà anche molto lontane ed esotiche. Non si può parlare di cucina araba senza prendere come punto di riferimento il rapporto della religione islamica con il cibo: per il musulmano l'atto del prendere il cibo trascende il mero nutrimento fisico, rivestendo in primo luogo un senso sacro. Per cogliere il valore simbolico del cibo all'interno dell'Islam, occorre innanzitutto sottolineare l'importanza del Corano, il testo sacro islamico. Il Corano non è un libro scaturito da una mente umana: esso è la Parola di Dio, Allah, trasmessa all'uomo dal suo profeta Muhammad e compito del musulmano è vivere secondo gli insegnamenti in esso contenuti. Il Corano disciplina ogni aspetto della vita del muslim e quindi anche il rapporto che il credente instaura con il cibo. Le norme alimentari islamiche sono contenute non solo nel Corano, pura parola di Dio, ma anche nei precetti del profeta Muhammad, nei costumi e tradizioni, a dimostrazione della grande importanza attribuita al cibo nella cultura islamica. Per il musulmano l'atto del mangiare e del bere riveste una polisemia di significati, non solamente sacri, ma anche di natura sociale e igienica. A tavola, ad esempio, non bisogna sorvegliare né dedicare troppa attenzione al comportamento degli altri, per non metterli in imbarazzo, o criticare il cibo di qualcuno. Un accento particolare è posto inoltre all'uso moderato del cibo: il Corano esorta a non abbuffarsi e a mangiare con riverenza pro La sura aprente nella prima edizione veneziana del Corano del 1537
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nunciando il nome di Dio sopra ogni boccone. Anche gli aspetti igienici non vanno trascurati: prima di prendere il cibo è necessario lavarsi le mani, così come dopo aver consumato il pasto bisogna pulirsi i denti. L'Islam regola in maniera molto precisa il consumo di cibi e bevande, distinguendo tra cibi leciti “halal” e proibiti, “haràm”. Nel termine “haràm” è presente un duplice significato, d’interdizione da una parte e di santità e di purezza dall'altra. E' proibita la carne di maiale, ma non solo. E' vietato cibarsi di sangue e di un numero molto limitato di altri animali, tra i quali gli uccelli predatori e gli animali velenosi. La carne degli animali permessi è commestibile solo a condizione che essi siano stati macellati secondo il rituale e che sia stato invocato il nome di Allah prima del consumo. Alle proibizioni che investono alcuni cibi solidi, si aggiungono quelle che investono le bevande alcoliche, che non sono permesse. C'è da dire che il Corano ammette deroghe a quanto sopra, solo in caso di necessità improrogabili. “All'interno della visione islamica ogni atto esprime un principio metafisico, ovvero per un musulmano l'imitazione di Muhammad rappresenta la riproduzione terrena di un simbolo per arrivare al principio che quel simbolo indica. – afferma il dottor Sergio Ujcich, portavoce del Centro culturale islamico di Trieste - Il fatto, ad esempio, che un musulmano debba prendere il cibo solo con la mano destra, non è una mera regola di comportamento fine a se stessa. La mano destra rappresenta la misericordia,
la generosità; è la mano con cui si fa l'elemosina. L'atto del mangiare e del bere diventa, quindi, un atto sacro che esprime un principio metafisico, cioè il manifestarsi di un aspetto della Misericordia divina.” “Allo stesso modo – continua il dottor Ujcich - quando si parla del vino e della vite è importante comprendere le relazioni metaforiche tra il simbolo e ciò che esso rappresenta. In un primo tempo nell'Islam il vino non era proibito, ma alla sua proibizione si è arrivati gradualmente.” Inizialmente il Corano considera che nel vino ci siano vantaggi e svantaggi, ma che gli svantaggi siano superiori: al tempo di Muhammad (570-632 d.C), a Ta'if, una città non lontana da La Mecca, si produceva e si esportava, difatti, ottimo vino. Successivamente nel Corano vengono condannati gli effetti dell'assunzione del vino: il vino, infatti, quando supera una certa soglia, altera l'autocontrollo e la capacità di comprensione e quindi vanifica la possibilità di elevare a Dio la preghiera. Al musulmano che invoca Dio è richiesta l'integrità non solo spirituale, ma anche corporale: ecco perché tutto ciò che è dannoso per l'uomo viene proibito, quindi anche il consumo di vino e di sostanze alcoliche. “O voi che credete! Non accostatevi all'orazione se siete ebbri , finché non siate in grado di capire quello che dite” (Sura 4:43) La condanna definitiva del consumo del vino, associata sempre al gioco d'azzardo, viene sancita nella Sura 5:90-91 “In verità col vino e il gioco d'azzardo, Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi e allontanarvi dal Ricordo di Allah e dall'orazione. Ve ne asterrete?” 21
Enogastronomia e culto
L' Ayran, una bevanda preparata con acqua, ghiaccio, yogurt, menta, aglio e sale
Il vino, dunque, diventa un vero e proprio strumento demoniaco, poiché l'alcol, abbassando la soglia dell'autocontrollo, facilita la manifestazione di odio e violenza. Nel Corano il vino è, invece, la bevanda che verrà consumata liberamente in un’ altra dimensione, ovvero in Paradiso: qui scorreranno quattro fiumi, di latte, miele, acqua e, naturalmente, vino. (Sura 47:15 ). Latte, miele e acqua rivestono un importante ruolo simbolico all'interno della tradizione musulmana: il miele ha poteri di guarigione dell'anima, il latte rappresenta la sapienza e l'acqua è dispensatrice di vita, la sostanza con cui Allah ha creato l'uomo. Se nel Corano l'uso delle sostanze alcoliche è condannato ed il suo consumo viene rimandato ad una dimensione paradisiaca, altra e diversa da quella limitata e terrena, nella poesia iniziatica islamica il vino diventa addirittura simbolo dell'amore e della conoscenza divina. Uno dei più importanti mistici musulmani, Omar Ibn Al Farid, vissuto tra il 1181 e il 1235, dedica al vino un vero e proprio poema: “L'elogio del vino”. “In questo poema – commenta il dottor Ujcich - il vino diventa simbolo di ebbrezza estatica che porta a trascendere i limiti della ragione, immergendo il contemplante nella luce di verità, che altrimenti verrebbero nascoste.” Parlare del mondo islamico significa, tuttavia, riferirsi ad una realtà molto variegata e con comportamenti non
L'Araq, un distillato a base di riso e anice
univoci, anche nell'atteggiamento nei confronti del vino. L'Algeria è famosa per il suo patrimonio vitivinicolo e per la massiccia produzione ed esportazione vinicola in tutto il mondo, nonostante le proibizioni coraniche. La Turchia è, dopo la California, il maggiore produttore mondiale di uva da tavola, sebbene meno del 3% dell'uva venga trasformata in vino. La regione vinicola intorno ad Istanbul produce il 40% dei vini del Paese. In Libano, dove si coltiva la vite dai tempi dei greci e dei romani, si produce ed esporta soprattutto vino rosso. Anche nella medicina araba il vino trova vari impieghi, anche se a scopo terapeutico: basti pensare al famoso “Canone della Medicina” di Avicenna (XI sec. d.C), dove l'uso del vino in quantità moderate viene consigliato per i suoi positivi effetti. Ma quali bevande sono concesse ai musulmani? E' ancora lo scrittore Salah Jamal Aboali a condurci attraverso il suo già citato volume, ricco di aneddoti e spunti curiosi, in un appassionante viaggio nell'universo delle bevande arabe. Per i musulmani non esiste nulla di più prezioso dell'acqua, che non manca mai sulla loro tavola. E' consuetudine bere un bicchiere d'acqua alla fine del pasto, perché questa ha poteri digestivi e diuretici ed evita l'alito pesante. Un'altra preziosa bibita, tipica dei beduini La Mecca è una città dell'Arabia Saudita occidentale, situata nella regione del Hijàz che ospita il santuario preislamico della Ka ‘ba o Kaaba. All'interno, normalmente accessibile solo agli inservienti e alle personalità più illustri che ne hanno la custodia (attualmente la famiglia reale saudita), la Ka ‘ba ospita un pozzo, ormai asciutto, chiamato al-Akhshaf.
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Abbiamo bevuto alla memoria del Benamato un vino che ci ha inebriato prima della creazione della vigna. Il nostro bicchiere era la luna piena. Lui, Lui è un sole; un crescente lunare lo fa circolare. Quante stelle risplendono!, quando è versato. Senza il suo profumo non avrei trovato la via delle Sue taverne. Senza il Suo splendore l’immaginazione non potrebbe concepirLo
Se tu t’inebri di questo vino, foss’anche per un’ora sola, il tempo sarà il tuo docile schiavo e tu sarai nella potenza. Qua giù, non è vissuto chi senza ebbrezza è vissuto, e chi non è morto per la sua ebbrezza non ha ragioni. Che pianga su se stesso colui che ha perso la sua vita senza prender la sua parte. (tratto da: “L'Elogio del vino” di Omar Ibn Al Farid)
dell'Asia minore, è l'ayran, una bevanda a base di acqua, ghiaccio, yogurt, menta, aglio e sale: è la prima cosa che viene offerta ad un ospite, soprattutto d'estate, perché molto dissetante. Molto diffuse sono le bibite aromatizzate a base di liquirizia, arancia, uva passa, tamarindo ed altre piante mediorientali, offerte sempre agli ospiti come bevande rinfrescanti. Una nota a parte merita l'araq, un distillato a base di riso e anice. Nonostante la proibizione coranica di assumere bevande alcoliche, l'araq è molto diffusa in Libano e Turchia, ma anche questa è una delle contraddizioni della varietà del mondo musulmano. Largamente impiegati sono anche il tè e il caffè: per quanto riguarda il caffè, esistono addirittura decine di modi di prepararlo. Dopo la siesta al termine del pasto, al risveglio, è consuetudine prendere un dolce e, per concludere, tè o caffè. Rifiutare un caffè in casa di un arabo, viene considerato un affronto per il padrone di casa. Prendere un caffè con un amico è considerato un segno di riappacificazione, mentre non accettarlo significa continuare nell’inimicizia. Profondamente connesso al mangiare è anche il suo opposto, ovvero l'astenersi dal cibo. La teologia islamica prevede, oltre alle proibizioni alimentari che abbiamo visto, anche periodi di digiuno: in modo particolare il mese di Ramadan, che non è, tuttavia, l'unico periodo dedicato al digiuno. Il digiuno durante il mese di Ramadan è uno dei pilastri, ovvero dei doveri fondamentali dell'insegnamento religioso dell'Islam, insieme al monoteismo, la preghie-
ra quotidiana cinque volte al giorno, il pellegrinaggio una volta nella vita ai luoghi santi della Mecca e l'elemosina obbligatoria. Ramadan è il nome del nono mese del calendario musulmano e in questo mese tutti i musulmani sono tenuti al rifiuto dei cibi e delle bevande dall'alba fino al tramonto. Il mese di Ramadan si chiude con la grande festa di id al-fitr, ovvero la “festa della rottura del digiuno”, la festa più popolare nel mondo islamico, che segna il ritorno ad un’alimentazione possibile in tutta la giornata. Attraverso il digiuno e le prescrizioni alimentari, l'uomo deve riuscire ad avere un rapporto corretto con il cibo, deve dimostrare, cioè, di essere capace di rinunciarvi per un certo periodo, o addirittura astenervisi sempre come, ad esempio, dalla carne di maiale o dalle bevande alcoliche, controllando la sua istintività. La condotta esteriore per il musulmano è profondamente legata ad una precisa condotta interiore, spirituale: conoscere la normativa alimentare islamica e i significati profondi che ne stanno alla base significa, dunque, cercare di comprendere il rapporto che lega il musulmano al suo Dio, Allah3.
------------------------------------------1 Predrag Matvejevic ˇ, Mediterraneo. Un nuovo breviario, V edizione, Garzanti, 2002, p.21 2 Salah Jamal Aboali, Sapori arabi. Ricette e racconti del Vicino Oriente, Guido Tommasi Editore, 2005 3 Massimo Salani, A tavola con le religioni, EDB, 2007 23
Gastronomia
Il
cuoco
ambasciatore del
territorio di Daniele Urso l futuro della gastronomia italiana passa da una tavola rotonda. Magari imbandita con i piatti della tradizione nostrana. Seduti attorno al desco il ministro per i Beni e le Attività culturali Sandro Bondi e il suo nuovo consulente, lo chef Matteo Scibilia. Un progetto, quello del rilancio della ristorazione nostrana, nato durante le cene del politico all’Osteria della buona condotta, indirizzo lombardo goloso per chi vuole riscoprire sapori da tempo dimenticati. Scibilia non è un uomo facile. Parla chiaro e non si nasconde dietro a un dito. Sa che ci vuole pazienza e lavoro per diventare come i cugini d’Oltralpe, che della sinergia politica – turismo enogastonomico hanno fatto una scienza. E tutto deve partire dai protagonisti, cuochi e ristoratori. Anche se unire una categoria piena di stelle sarà difficile. Come un compito doveroso, ma necessario, è «tentare di raccontare che cos’è il cibo alla gente. Che è anche un bellissimo lavoro, ma che non tutti svolgono», spiega tranquillo il cuoco nato in Puglia: «C’è una nuova generazione di chef che è presa soprattutto dai metodi di scopiazzatura internazionali di cucina. Ma se un grande ristoratore non sa fare un risotto, poi non è in grado di fare una spuma di risotto». E così si perde quel patrimonio immenso e incalcolabile che si chiama tradizione. Che un ministro e un cuoco non vogliono lasciar svanire dalla memoria.
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▲ Il Ministro per i Beni e le attività culturali Sandro Bondi
▲ Matteo Scibilia
▲ L’Osteria della Buona Condotta
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Tradizione alla base del rilancio della cucina italiana? «Come accade anche in Spagna: nasce tutto dalla tradizione, che poi si evolve, per esempio, nella cucina creativa. Se non sai come reagisce il riso durante la cottura di un risotto, la cucina molecolare diventa una schifezza. Oggi c’è una crisi molto evidente. La gente non cucina più a casa. Alle mie clienti dico sempre, cucinate un paio di volte al mese un piatto della tradizione, in modo che possa diventare per i vostri figli un ricordo di quella particolare giornata. Solo così possiamo salvare la nostra cucina. Se no la gente continuerà a mangiare le verdure congelate e i quattro salti in padella». Se c’è bisogno che il governo intervenga in difesa della cultura enogastronomica italiana, vuol dire che la situazione non è rosea… «Sì, certo». Per quale motivo ? «In questo momento la gente non sa mangiare. Lo dico con grande schiettezza, partendo dalla mia esperienza giornaliera di cuoco e ristoratore». Come si disimpara a mangiare? «In parte è responsabile la globalizzazione, termine abusato, ma che rende l’idea. Siamo circondati da mille influenze straniere. Ma è soprattutto un problema di qualità.
L’altro giorno mi ha chiamato il Corriere della Sera e un giornalista mi ha accusato: “lei è contro il kebab”. In realtà non sono contro il kebab, ma contro chi cucina male. Contro chi usa carne ammuffita, scongelata e ricongelata». Lei mangia “straniero”? «Non sono contro la cucina etnica, per esempio amo quella indiana e molti ristoranti che si possono trovare nelle grandi città sono decisamente superiori al classico stereotipo, quello del “ristorante cinese a 10 euro tutto compreso”. Magari ci vogliono 40 o 50 euro per mangiare indiano bene, però è un’esperienza. Che poi è quello che davvero conta». Ovvero? «La gente non ha più desiderio di fare esperienze gastronomiche: si lamenta solo del prezzo e quasi mai della qualità. Eppure, se uno compra una polo da 10 euro, sa che reggerà solo qualche lavaggio». Siamo poco preparati? «Faccio un esempio: c’è chi ordina il pesce in un ristorante e si lamenta del conto. Bisognerebbe però sapere che il pesce d’allevamento costa sei euro e quello pescato all’amo, quando è possibile trovarlo, trenta. E anche tra quelli di allevamento c’è differenza. Dal mio fornitore compro branzini da due o tre chili. Ci vuole qualche anno perché raggiungano questa dimensione. È un pro-
dotto che costa a noi ristoratori 25/30 euro al chilo. Quando però si serve un filetto di spigola o branzino, il cliente ti guarda perplesso e commenta “ma nel ristorante “taldei-tali” mi hanno dato un intero pesce”. Sì, pesci giovani, meno saporiti e mono porzione da sei etti». Abbiamo perso il senso del gusto? «Quello l’abbiamo perso già da un po’ di tempo. Le faccio un altro esempio. L’Osteria della buona condotta è tra quei ristoranti che la stampa di settore definisce di medio-alto livello. Dalla mattina alla sera siamo alla ricerca di materie prime e ricette tradizionali. Il mio fruttivendolo ha trovato un po’ di bruscandoli, conosciuti in Lombardia anche come lovertiss. Sono i fiori del luppolo, con i quali si fanno risotti e frittate fantastiche. Qualcuno li conosce erroneamente come asparagi selvatici. Ne ho 4 o 5 chili e ho proposto per qualche giorno il risotto. Quando ne parlo, però, con i clienti, molti mi dicono “ma no, fammi un risotto alla milanese. Chi se frega”. La gente non ricerca più la memoria del gusto». Come il ricordo della cucina della nonna? «Sono originario di Bari, ma vivo a Milano da oltre 40 anni. Ricordo ancora quando da giovane tornavo a casa da scuola per pranzo e mia nonna cucinava. Faceva le orecchiette alle cime di rapa, con il soffritto di cipolla, aglio e il vino bianco. Ecco,
quando riesco a ricreare quel mix di profumi che si espande nel mio ristorante è come se una lampadina si accendesse. Mi ricordo mia nonna e la mia Bari». E come s’insegna di nuovo alla gente a mangiare? «Tento di raccontare ai clienti cosa stanno mangiando. Nella prima pagina del mio menù presento i fornitori e illustro la cucina del territorio e la tradizione da cui deriva. Cucino piatti come i paccheri con il ragù tradizionale, dove metto le tre carni, vitello, maiale e cavallo, e la cottura è lunga. Così la gente li assaggia e dice: “ma è il ragù di mia nonna!”. E quando se ne ricordano, sono felice, perché ho raggiunto il mio obiettivo». Ha conquistato così il ministro Sandro Bondi? «È nostro cliente da molti anni e gli ho fatto spesso questi discorsi. E un giorno mi ha chiesto di fargli qualche proposta. Credo di averlo preso per disperazione». Ed è diventato consulente del ministro. Concretamente cosa ha proposto di fare? «Ho fatto capire al ministro che era giunto il momento di fare qualcosa per la nostra cucina. Perché in Francia ogni anno uno chef viene premiato con la Legion d’onore, la massima onorificenza? Perché la prima voce nella bilancia commerciale d’Oltralpe non sono Renault o 25
Gastronomia Citroen, ma è l’enogastronomia. E la politica lo sa. Da noi, invece, ancora oggi, l’attenzione del governo al settore enogastronomico è insufficiente. Si comincia a muovere qualcosa solo ora, grazie all’attenzione del ministro per i Beni e le Attività culturali Sandro Bondi, a quella del ministro delle Politiche agricole Luca Zaia e al sottosegretario con delega al Turismo Michela Brambilla. Generalmente, però, si vive nell’illusione di essere ancora il Paese della buona cucina e si pensa che questo basti. Dicono che i ristoranti sono ancora pieni, anche se non è vero. È poco diffusa l’opinione che cibo e vino siano valori che possono portare a un territorio più benefici di un paio di scarpe». Come si riempie questa lacuna? «Creando innanzitutto un premio, una sorta di cavalierato agli esponenti più meritevoli della nostra categoria, sulla falsa riga della Legion D’Onore. Il gabinetto del ministro Bondi sta cercando una formula adatta. Poi unendo il nostro settore. Ci sono 120mila ristoranti in Italia con 800mila dipendenti. Senza contare i bar. In totale raggruppiamo 2 milioni di lavoratori. Ma siamo troppo parcellizzati e non diamo al Paese quanto potremmo. Provate a pensare quanti comuni diventano famosi laddove c’è un ristorante conosciuto o un’eccellenza enogastronomica… Così si finisce sulle guide. E anche i comuni dovrebbero rendersene conto e dare una mano, invece di mandare i vigili a dare le multe nei parcheggi davanti ai ristoranti quando scade il disco orario». Qualcuno però si è già mosso in questo senso… «Le iniziative sono quasi sempre indi-
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viduali. Sto cercando di creare un consorzio di cuochi, partendo dai 5mila ristoranti inclusi nelle guide più importanti. Da un punto di vista elettorale facciamo poco testo, ma la capacità d’impatto sul made in Italy è fortissima. Anche se ci vogliono le sinergie giuste. Per esempio, tra un mese vado a Bucarest a cucinare pasta. La ristorazione è un biglietto da visita. Se l’azienda di pasta intelligente segue un cuoco, ecco che ha creato un mercato nuovo. Un altro esempio? Portare con sé delle belle pentole di un’azienda italiana… Basta poco perché diventino un cult. Uno chef è come un sommelier, un ambasciatore del prodotto Italia». Qualche idea anche dal punto di vista legislativo? «Innanzitutto questa categoria non vuole fare più parte di quella dei commercianti. Dateci un nuovo status. Siamo più simili ad artigiani. In fondo prendiamo un chilo di farina e lo trasformo in uno di pasta. Prendo delle materie prime e le trasformo in altro». E… «E’ molto difficile lavorare con la tassazione alla quale siamo sottoposti. Tenga presente che nel mondo della ristorazione si lavora 220 giorni l’anno e si pagano 16 mensilità ai dipendenti. Colpa di tante ore sindacali retribuite che non vengono mai fatte. Spese che si traducono in costo sul cliente. Un taglio delle tasse però in questo momento di crisi generalizzata è folle. Dando per scontato che i costi rimarranno invariati, diamo un altro valore a questo settore. Non potendo attaccare l’aspetto fiscale, cerchiamo altre soluzioni. Abbiamo per esempio il problema degli stagisti.
Per noi è difficile prenderne. Non si sa se sono apprendisti e non si riescono a contrattualizzare. Bisognerebbe dialogare con il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, per trovare una forma di stage con le scuole senza esagerati limiti sindacali». L’idea del cuoco ambasciatore del territorio è affascinante… «Siamo già rappresentanti del territorio. Io faccio fuori due chili di missoltini (pesci, ndr) alla settimana presi nei laghi della mia regione e so che qualche piccolo pescatore è un po’ più sereno. Noi ristoratori abbiamo la possibilità di permettere al piccolo produttore di formaggi o frutta di vivere meglio perché siamo attenti alla peculiarità gastronomiche della nostra zona. Diventiamo la vetrina di pasticceri, agricoltori, macellai etc.». Quanto è difficile mettere tutti d’accordo? «In questo settore c’è molto individualismo e c’è chi si sente più bravo degli altri. E così avviene anche nel mondo del vino. Certo, bisogna coinvolgere i più famosi: le “stelle” non vanno demonizzate, anche perché sono mediatiche. Per ora abbiamo provato a creare un forum della categoria, ma con scarsissimi risultati: troppe gelosie. Eppure tutti si lamentano e dicono “nessuno fa niente per noi”. C’è una specie di solitudine imprenditoriale che bisogna superare, con un po’ di diplomazia. Le categorie vanno contattate tutte, ma per gruppi “omogenei”. Non si può mettere accanto al ristorante stellato l’osteria di paese. Basta pensare al recente tentativo di Raffaele Alaimo di riunire i cuochi. È partito dagli stellati e quando gli altri hanno capito che non valevano
altrettanto, non lo hanno seguito. Così ci ritroviamo daccapo e Raffaele Alaimo non vuole parlare con il cuoco dell’albergo, perché dice che non è un ristoratore, ma un dipendente. Serve però la capacità di parlare a nome di tutti». Conviene mettersi d’accordo, gli stranieri vengono in Italia spesso per il cibo… «Sono più preparati di noi in particolare i tedeschi. Soprattutto sul vino. Lo straniero arriva con idee precise su ciò che vuole mangiare e bere. E si interessano alle tradizioni. Si stupisce per un buon piatto di spaghetti al pomodoro. Fatti come Dio comanda: con gli spaghetti artigianali, l’olio che arriva dalla Puglia, i pomodori di Foggia, che tutti insieme creano una piccola opera d’arte. Sembrano un piatto normale, ma non è così. Se sono fatti bene, il pomodoro avvolge lo spaghetto e si sente il profumo di pomodoro, basilico e dell’olio tiepido messo prima di servire in tavola. La nostra fortuna è quella di avere delle materie prime di assoluto valore che gli altri Paesi non hanno. Da Aosta a Catania ogni provincia ha la sua ricchezza. Dobbiamo tentare tutti assieme di rivalutare questo patrimonio». Cosa consiglia ai giovani che vogliono diventare dei grandi chef? «Devi essere bravo ancor prima di metterti ai fornelli. Ai ragazzi in cucina cerco di far capire che il cuoco non è solo un manipolatore di materie prime, ma uno scienziato dell’alimentazione. Sulle materie prime ci deve passare le notti. Il cuoco non è solo uno che mette insieme gli ingredienti, quello lo sanno fare in tanti».
Le parole maestre
MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE INDAGINE
GUSTOSA SUI SAPORI
E PIACERI DEL COMMISSARIO PIÙ AMATO D’ITALIA
E DEL SUO POPOLARE CREATORE
A tavola con (e con Andrea Camilleri)
Montalbano di Salvatore Giannella
e volete conoscere i segreti della tavola del commissario Montalbano, l’investigatore televisivo più amato dagli italiani, non chiedetelo al suo creatore, Andrea Camilleri, detentore del record delle copie di libri venduti (oltre 21 milioni di esemplari: e pensare che il primo libro, “Il corso delle cose”, 1978, lo pubblicò a proprie spese). Per lo scrittore di origine siciliana (nato nel 1925 a Porto Empedocle, Agrigento, ma vive da mezzo secolo a Roma) affrontare questo tema è “come fare penitenza, aspra e dolorosa per chi, come me, a lungo ha gustato i piaceri della buona tavola e ora non può più per l’età e per ferreo diktat medico. Ho preferito continuare a patire nel ricordo di certi sapori, nella memoria di certi odori”. E allora bisogna imboccare un’altra strada, quella che porta a una giovane architetto che per un anno ha indagato l’universo gastronomico di Camilleri. L’inchiesta si è svolta su una tavola imbandita ricostruita attraverso i gusti del più illustre personaggio creato da Camilleri: Salvo Montalbano, il commissario di Vigàta reso popolarissimo dalla fiction a puntate su RaiUno e interpretato magistralmente da Luca Zingaretti, che incarna l’uomo mediterraneo schivo, solitario, con un forte senso morale, dal carattere spigoloso ma anche un goloso affetto da uno smisurato “pititto” (appetito), per dirlo con il suo colorito dialetto siciliano. Ne viene fuori un’antologia gustosa come una tavolata ben imbandita, con rievocazioni di alimenti e pietanze tratte dai ricordi dell’infanzia di Camilleri in Sicilia. Il cibo diventa protagonista trasversale di tutte le storie, acquista una valenza affettiva molto forte, la passione che ha verso di esso il commissario è così prepotente da prevaricare anche la passione amorosa. Per lui, il cibo è l’oggetto del desiderio, più importante degli altri piaceri e deve essere conquistato a tutti i costi ma i segreti delle gustose pietanze sono custoditi da altri, la “cammarera” Adelina; Calogero, pro-
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▲ Andrea Camilleri
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prietario della trattoria omonima (“un diavolo in cucina, mi costringe a peccare”: da Il ladro delle merendine) e il suo successore, l’oste Enzo. Gusti e ricette sono svelati in un libro presentato a Eataly Torino, il più grande mercato enogastronomico del mondo: “I segreti alla tavola di Montalbano”, Il Leone Verde Edizioni, Torino, 10 euro, scritto da Stefania Campo, 33 anni, architetto specializzata in fotografia e cinema digitale, che vive tra Ragusa e Milano dove affianca alla libera professione e all’insegnamento la passione per la sua terra. La Campo studia e promuove, con l’Associazione Sicilia movietour (www.siciliamovietour.it) itinerari culturali ed enogastronomici ispirati alla letteratura e al cinema. Le gustose pagine del suo libro sono da leggere, certo, ma anche da assaggiare, da gustare in silenzio e solitudine, con animo lieto e mente sgombra, una per volta, come quando Montalbano si siede a degustare i suoi piatti preferiti. GIANNELLA - Architetto Campo, una curiosità pratica: le trattorie citate nei libri e nei film esistono davvero in Sicilia? CAMPO - Alcune sì, altre sono inventate. Ma inventate non del tutto, perché per Camilleri nulla è veramente inventato. Lui dice di ispirarsi alla realtà, anche se storpia i nomi, tutti nomi di fantasia che alludono a località reali: Montelusa è Agrigento, un piccolo furto a Pirandello che l’autore dichiara apertamente. Vigàta invece è una sua invenzione. Fela è Gela, Fiacca è Sciacca, ecc. Camilleri in modo divertente ne ha modificato i nomi. Lui ha confessato: “Mi capita questa cosa, che io le storie non me le so inventare di sana pianta; ho bisogno di una spinta di verità”.
▲ Stefania Campo, autrice del libro “A tavola con Montalbano”
GIANNELLA - I cibi, invece, sono tutti reali. CAMPO - Sì, io riporto 60 ricette, quelle che si ripetono in più occasioni nei suoi 19 romanzi dedicati alla saga del commissario di Vigàta. 29
Le parole maestre
MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE
Polipetti alla napoletana
▲ Arancini
Riproducono i profumi, i sapori, l'atmosfera e i segreti della cucina della casa di campagna vicina a Porto Empedocle dove comandava nonna Elvira, la generalessa della cucina. Ogni squisitezza del ricettario di nonna Elvira ha la sua storia, anche i mitici arancini di Montalbano o i polipetti alla napoletana o gli involtini di tonno arrostito, arrivano da lì. Svelare i misteri dei piatti della cuoca-generalessa Elvira significa ritornare all'infanzia dello scrittore, quando lui era un “picciliddro” che aveva sì e no sette anni, e alla prima conoscenza della sua indimenticabile Sicilia. Prendiamo gli arancini, Camilleri ha rievocato: “Mia nonna diceva che prepararli era lungariusu, ci voleva tanto tempo. Perché bisognava preparare la carne, tanto di maiale e tanto di vitello, spezzettandola col tagghiaturi, la mezzaluna. Si aggiungevano i piselli, un po' di caciocavallo ragusano e qualche pezzettino di salame, si impastava tutto in un pugno di riso e si passava l'arancino nell'uovo, nella farina e nel pangrattato, per l’impanatura. Ma non si friggevano subito. No, bisognava aspettare una notte, lasciarli riposare in pace. E il giorno dopo, a tavola, si vedeva com’erano venuti. Perché il problema dell’arancino era il dosaggio, che non era mai lo stesso, e dunque ogni volta mia nonna passava un esame. “Comu vinniru stavota?”, domandava. "Un tanticchia asciutti. L'autra vota erano meglio”, rispondeva mio nonno. Un giorno li fece in un modo davvero sublime, e io stavo per dirglielo. Mio zio Massimo mi diede un cavuciu sotto la tavola. “Boniceddu”, mi sussurrò. Ma perché?, gli domandai. “Perché lei deve sempre superare se stessa: se tu le dai soddisfazione, è finita”. Ogni volta che rifaccio un piatto tipico di mia nonna assaporo il piacere di tornare indietro nel tempo. Ho provato anche a ripetere altre cose meravigliose della mia infanzia. Come prendere il pane caldo, andare dalla capra e mungere il latte direttamente sulla fetta. Non ci sono mai riuscito. La verità è che i sapori del passato sono irripetibili. Una volta, bevendo l'uovo appena fatto, ti accorgevi subito se la gallina aveva sconfinato nel campo di trigonella, la pianta conosciuta anche come fieno greco. Oggi... lasciamo stare”. GIANNELLA - Che rapporto ha Montalbano con il vino? CAMPO - Per gustare il cibo della sua amata terra come dio comanda ha bisogno di accompagnarlo sempre con un bel bicchiere di vino. Quelli che di solito mangia erano piatti che chiamavano vino, e la chiamata non ristò senza risposta (da: Le ali della sfinge). Eppure Camilleri il discorso “vino” lo tocca sempre con moderazione, come a volersi dare una certa parsimonia non solo nel berlo ma anche nell’immaginazione di questa scena. In un racconto alla fine ci dice che quel bianco era “tradimentoso”. GIANNELLA - Forse la spiegazione è in un particolare autobiografico da lui rivelato tempo fa a Repubblica: la sua ultima sbornia avvenne il giorno della strage di Portella della Ginestra: “Era il primo maggio 1947. Al mattino mi sbronzai. Poi mi dissero della strage di compagni, la prima strage politica, ordita per impedire al Pci di governare. Vomitai fiele per il resto del pomeriggio. Da allora non ho più toccato un goccio di vino”. CAMPO - In realtà per il commissario Montalbano il vino è una bevanda normale che deve stare sulla tavola ed è fondamentale per completare un eccellente pasto. In ogni frammento gastronomico dei racconti il vino viene citato, soprattutto il vino rosso di paese che preparava il padre di Camilleri, il nero d’Avola, il Cerasuolo di Vittoria, il Marsala, il Passito di Pantelleria. E fa bere, ovviamente, vino siciliano, a chilometro zero, anche se per le altre bevande preferisce l’estero: il whisky o il caffé che fa arrivare appositamente da Portorico. GIANNELLA - La Sicilia è la terra del vino per antonomasia, i suoi vini hanno una gradazione piuttosto forte perchè il sole concentra molti zuccheri nell’uva che poi, trasformandosi in alcol, lo lasciano al vino. Non troviamo con facilità vini con gradazione al di sotto dei 13,5%. Di questo Camilleri
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MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE
è cosciente e cerca di non far esagerare il suo commissario, altrimenti potrebbe perdere la lucidità utile per le sue indagini. Al suo investigatore Camilleri fa bere poco, fa bere bene. CAMPO - Di scelte da fare Montalbano ne avrebbe tante: ad esempio il Nero d’Avola rosso siciliano per eccellenza, o tra i bianchi l’Inzolia o il Grillo, il Catarratto, fino ad arrivare all’indimenticabile Passito di Pantelleria realizzato con le uve Moscato di Alessandria altrimenti dette Zibibbo. Per i piatti di pesce che Montalbano ama mangiare nella marinara Vigàta, i vini bianchi di accompagnamento potrebbero proprio essere questi. Scrive Camilleri: “Partendo da Palermo verso Agrigento, ho percorso i territori siciliani dal mare alle pianure, lago e colline, incontrando nel mio viaggio coltivazioni di vigne variegate con profumi immaginari che mi hanno invaso l’olfatto aspettando impaziente le degustazioni”. Ne La gita a Tindari, quando il commissario mangia nella sua trattoria abituale, Camilleri si lascia scappare un’informazione: quando il ristoratore si avvicina per l’ordinazione scopriamo che Montalbano è solito bere un certo vino bianco. “Per lei commissario, la solita minerale e il solito Corvo bianco. E per lei, signorina?”. “Lo stesso”. (p. 87). Il Corvo Bianco è un prodotto tipico di Casteldaccia, in provincia di Palermo, ne esistono due tipi: uno di colore giallo paglierino dorato che ha un profumo intenso e un sapore secco e vellutato; l’altro di color bianco carta con un sapore più fresco. GIANNELLA - In Sicilia, grazie alla fantasia letteraria di Camilleri, è nata una notevole iniziativa imprenditoriale che ha riscosso successo proprio per la bontà dei suoi vini. CAMPO - La trovata commerciale che dà un nuovo slancio al vino siciliano in Italia e all'estero, è dei fratelli Scordato, che presentano le loro bottiglie con il nome “Vigàta” come marchio. Vigàta è un nome che salta subito all'occhio ed è ormai celebre. Non è un caso che sul marchio sia stampata anche una rappresentazione dell'isola Ferdinandea, apparsa e scom-
UN SUCCESSO SULLO SCHERMO CHE DURA DA DIECI ANNI La Rai dal 1998 ha prodotto e trasmesso i riadattamenti televisivi di gran parte dei racconti che vedono protagonista Montalbano. Lo stesso Camilleri è stato un celebre sceneggiatore televisivo (ha curato alcune serie del commissario Maigret e del tenente Sheridan), e non ha mai negato che i suoi romanzi avessero una struttura ottima per la trasposizione sul piccolo schermo. Ogni puntata della fiction riprende la trama delle opere, in alcuni casi unendo più racconti brevi; la regia è stata curata in tutta la serie da Alberto Sironi, che ha effettuato le riprese in gran parte della provincia di Ragusa; le trasmissioni sono avvenute sul canale Rai Uno, e adesso sono visibili integralmente e gratuitamente sul sito di Rai Click e sul sito ufficiale di Palomar Sulle tracce di Montalbano.
▲ Luca Zingaretti, il volto del commissario Montalbano nella fiction Rai
Il protagonista, Luca Zingaretti, ha dovuto adeguare la sua parlata al dialetto siciliano essendo di origine romana. L'attore era stato alunno dello stesso Camilleri al tempo della Accademia di arte drammatica. Diciotto gli episodi finora trasmessi. Eccoli: 1. Il ladro di merendine; 2. La voce del violino; 3. La forma dell'acqua; 4. Il cane di terracotta; 5. Gli arancini di Montalbano; 6. La gita a Tindari; 7. L’odore della notte; 8. Il giro di boa; 9. La pazienza del ragno; 10. La vampa d'agosto; 11. Le ali della sfinge; 12. La pista di sabbia; 13. La luna di carta (tutti tratti dagli omonimi romanzi); 14 e 15. Tocco d'artista e Par condicio (tratti dagli omonimi racconti in Un mese con Montalbano). 16, 17 e 18. Il senso del tatto, Il gatto e il cardellino e Il gioco delle tre carte (da racconti tratti da Gli arancini di Montalbano). 31
Le parole maestre
LE RICETTE DI MONTALBANO Scrigni segreti di casa Montalbano sono il forno e il frigo, da cui si possono tirare fuori i tesori che l’affezionata cameriera Adelina gli ha preparato. Dal libro in uscita di Stefania Campo, abbiamo ricostruito un menù.
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■■■ ANTIPASTO Caponata di melanzane Ingredienti: 1 tazza di salsa di pomodoro 200 gr. di olive bianche 1 mazzetto di sedano 50 gr. di capperi 12 melanzane 3 cucchiai di aceto 3 cucchiai di zucchero 100 gr. mandorle tostate
Tagliate le melanzane a dadi e friggetele dopo averle tenute per più di un’ora in acqua e sale. A parte fate rosolare in un tegame con poco olio le olive snocciolate, i capperi ed il sedano, che avrete tagliuzzato e già bollito in acqua per una decina di minuti per intenerirlo. Aggiungete la salsa di pomodoro e condite con l’aceto e lo zucchero. Versate nel tegame anche le melanzane e lasciatele insaporire per qualche minuto nel sugo a fuoco bassissimo, scuotendo di tanto in tanto il tegame per non farle attaccare la fondo. Passate la caponata nel piatto di portata e copritela con le mandorle tritate. Servite perfettamente fredda, anche il giorno dopo.
■■■ PRIMO PIATTO: Pasta ‘ncasciata Una delle pietanze più preziose, quella capace di procurare a Montalbano il massimo godimento è la famosa pasta ‘ncasciata di Adelina che Camilleri cita spesso in più racconti. La pasta ‘ncasciata è una variante della pasta al forno e rappresenta uno dei piatti forti della cameriera Adelina. Ingredienti: (per 6 persone) 600 gr. di magliette di maccheroncino 200 gr. di tuma o caciocavallo fresco 200 gr. di carne tritata 50 gr. di mortadella o salame 2 uova sode 4 melanzane 100 gr. di pecorino grattugiato salsa di pomodoro ½ bicchiere di vino bianco basilico olio, sale e pepe
Tagliate le melanzane a fette e friggetele dopo averle tenute per un’ora in acqua e sale. Soffriggete intanto il tritato in un tegame, con olio abbondante, sfumate col vino e completate la cottura aggiungendo qualche cucchiaio di salsa di pomodoro. Lessate la pasta, scolatela al dente e condite in una zuppiera con la salsa di pomodoro. Prendete una teglia ben unta e spolverata di pangrattato e versatevi le magliette alternandole a strati con la carne tritata, le melanzane fritte, il formaggio grattugiato il basilico, le uova sode, la tuma e il salame tagliati a fette. Chiudete l’ultimo strato di pasta con melanzane, salsa e molto pecorino. Passate al forno caldo per circa 20 minuti. Il formaggio, sciogliendosi forma una leggera crosta dorata (da cui il nome ‘ncasciata, da cacio).
■■■ SECONDO PIATTO: Triglie fritte Ingredienti: (per 4 persone) 1 kg. di triglie 2-3 limoni di media grandezza ciuffetti di prezzemolo farina olio e sale
Pulite le triglie, sciacquate in acqua corrente, infarinatele leggermente e friggetele in abbondante olio caldo in una padella. Appena saranno dorate lasciatele sgocciolare su carta da cucina, salatele e servitele ancora calde in un piatto che decorerete con mezzi limoni e ciuffetti di prezzemolo.
■■■ DOLCE: Mostazzoli di vino cotto Ingredienti: 1 lt. di vino cotto 150 gr. di mandorle farina cannella
Fate bollire il vino cotto e aggiungete a poco a poco la farina finché non si ottiene una pasta consistente. Quindi formate tanti listarelli, sistemateli in una teglia imburrata e infornateli per circa 15 minuti. Infine tagliate i mostazzoli, bagnateli nel vino cotto e passateli nello zucchero e nelle mandorle.
MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE
parsa in un "vidiri e svidiri", il 5 luglio 1831, al largo di Sciacca, "tra tuoni, fulmini, saette, dal mare ribollente", e poi sommersa dai flutti solo 5 mesi dopo. E' proprio lì, a metà tra realtà e fantasia, è possibile bere una bottiglia di “Vigàta”, abbinata alle prelibatezze siciliane. Così si può sorseggiare l'Inzolia con i "purpi alla carrettiera", il Nero d'Avola con la "caponatina" e il "RossoSalvo" con i famosi "arancini" di Montalbano. O bere un vino di compagnia come il Syrah che Montalbano sicuramente berrebbe con la sua compagna genovese Livia.
▲ Gelato al caffè
GIANNELLA - La passione di Montalbano per il cibo talvolta da spirituale si materializza e diventa carnale… CAMPO - Ascolti questo brano: “E arrivarono i pirciati. Sciauravano di paradiso terrestre. Il baffuto si mise appuiato allo stipite della porta assistimandosi come per uno spettacolo. Montalbano decise di farsi trasire il sciauro fino in fondo ai polmoni. Mentre aspirava ingordamente, l’altro parlò. “La vuole una bottiglia di vino a portata di mano prima di principiare a mangiare?”. Il commissario fece ’nzinga di sì con la testa, non aveva gana di parlare. Gli venne messo davanti un boccale, una litrata di vino rosso densissimo. Montalbano se ne inchì un bicchiere e si mise in bocca la prima forchettata. Assufficò, tossì, gli vennero le lagrime agli occhi. “Ci vada chiano chiano e leggero”, lo consigliò il cammareri proprietario. “Ma che c’è?”, spiò Montalbano ancora mezzo assufficato. “Oglio, mezza cipuddra, dù spicchi d’agliu, dù angiovi salati, un cucchiarinu di chiapparina, aulive nivure, pummadoro, vasalicò, mezzo pipiruncinu piccanti, sali, caciu picurrnu e pipi niuna”, elencò il baffuto con una nota di sadismo nella voce. “Gesù” disse Montalbano. Intercalando le forchettate con sorsate di vino e gemiti ora di estrema agonia ora di insostenibile piacere “esiste un piatto estremo come il sesso estremo?”, gli venne di spiarsi a un certo punto, Montalbano ebbe macari il coraggio di mangiarsi col pane il condimento rimasto sul fondo del piatto, asciucandosi di tanto in tanto il sudore che gli spuntava in fronte. “Che vuole per secondo, signore?”. Il commissario capi che con quel «signore» il padrone gli stava rendendo l’onore delle armi. “Niente”. “E fa bene. Il danno dei pirciati ch’abhruscianu è che uno ripiglia i sapori il giorno appresso”. (da: L’odore della notte). Per Montalbano il cibo è quindi anche passione carnale, ma se è vero questo, per la logica fantastica dei sillogismi, è anche vero il contrario e cioè non solo un far l’amore con il cibo, ma farlo attraverso il cibo. GIANNELLA - Parliamo d’altro. Del gelato, per esempio. CAMPO - A Porto Empedocle il gelato aveva il suo tempio nel Caffè Castiglione, che aveva un segreto per i pezzi duri. Meravigliosi. Il giorno che Mussolini passò da lì (fermandosi in tutto 15 minuti) gli offrirono proprio il gelato del Caffè Castiglione. Dopo un po' di tempo telefonarono da Roma alla Capitaneria di porto avvertendo che stava ammarando un idrovolante per caricare un pozzo di gelato per il duce. Il gelato del Caffè Castiglione. Da quella volta, ogni sabato si ripeteva l'operazione. Sentiamo ancora Camilleri: “Così, quando Mussolini inaugurò la prima autostrada italiana, da Roma a Ostia, mio zio Riccardo che era antifascista disse a mio padre, fascistissimo: “Pippi’, lo sai picchì Mussolini fici ‘sta strata? Picchì si scantava ca i gelati c'arrivavunu squagliati”. GIANNELLA - Carne o pesce? CAMPO - Rigorosamente privilegia il pesce, abbinato al vino bianco, quando mangia in casa, servito dalla “cammarera” Adelina o dall’oste Calogero,
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MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE
proprietario della trattoria omonima a Vigàta o, quando chiude Calogero, dal successore Enzo. Se si avventura in trasferta, verso i piccolissimi paisi dell’interno, “dove i pesci non erano mai stati di casa”, allora Montalbano non ha esitazione: “Carne, carne”, da abbinare a vino rosso. Come quando va a trovare la signora Fazio che, per la visita di Montalbano, “s’assuperò: la pasta ’ncasciata fece leccare le dita, il brusciuluni (un rollè con dentro ovo sodo, salame e pecorino a pezzetti) si volatilizzò, e dire che sarebbe stato bastevole a una ventina di persone. Il commissario aveva portato una cassetta con 12 bottiglie di vino bono, quello che faceva suo padre. Finita la cena e finite macari le 12 bottiglie, dato ch’era una bellissima serata di principio maggio decisero di fare una lunga passiata sul molo, fino a sotto il faro, per alleggerire tanticchia il carrico che ognuno di loro portava a bordo. (da "Un mese con Montalbano", Mondadori). GIANNELLA - Peccato che non sia stato organizzato un tour gastronomico per mettersi a tavola con Montalbano… CAMPO - Il desiderio di mangiare alla Montalbano è diventata ormai una moda diffusa. In una delle città più raffinate d’Europa, Parigi, è possibile mangiare a Casa Vigàta, un ristorante in rue Léon-Frot dove uno chef prepara menù con le pietanze citate nei libri di Camilleri. Per immergersi a pieno in questa esperienza sensoriale, però, bisogna arrivare in Sicilia in cerca delle splendide location, mossi dalla voglia di ritrovare la trattoria La Rusticana, cioè l’Osteria di Don Calogero, ritrovo di Salvo e Mimì, dove si può ordinare il menù dal titolo “A pranzo con Montalbano”, o il ristorante di Enzo; di provare i cannoli e i biscotti regina del Bar Albanese o il gelato duro del Caffè Castiglione e vivere gli stessi sconfinati piaceri del palato. Marinella è Punta Secca, una località balneare in provincia di Ragusa. È lì che Salvo vive, in quella bella casa con terrazza che dà direttamente sulla spiaggia e sul mare e che quando non è usata come set funziona da Bed & Breakfast. Anche la nostra associazione Sicilia Movietour ha già lavorato per incrementare questa forma di turismo culturale. Nel novembre scorso, al caffè letterario Malavoglia in piazzetta Speciale a Palermo, i romanzi di Camilleri hanno incontrato le lingue del mondo e la cucina sicula in un ciclo di aperitivi "Los livres of Camilleri for einen schiticchio" ovvero "Il rituale della tavola. A manciata". Il locale era stato diviso in quattro aree, dove i presenti hanno discusso in altrettante lingue. Le conversazioni si basavano sulla lettura di libri di avventure di Montalbano. Insegnanti madrelingua traducevano il testo dal siciliano in francese, tedesco, inglese e spagnolo. Contemporaneamente venivano serviti piatti della cucina sicula, come la bruschetta con i pomodori o la caponata di melanzane. Ripeteremo questa esperienza in autunno. Chi vuole si prenoti via mail all'indirizzo info@siciliamovietour.it.
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Nuove proposte
tendenze provocazioni
Tra e DAI
PARTY CHE TOLGONO LE RUGHE ALLE FESTE CON PSICOLOGO
VOTATO ALLA SOCIALIZZAZIONE, PASSANDO PER GLI APPETIZERS
“MANGIA&BEVI”
E UNA SECONDA TIPOLOGIA DI SOMMELIER…
di Roberto Piccinelli
una vita che il sottoscritto, da bravo “sociologo del piacere”, sforna nuove tendenze, svelando modi, mode ed evoluzioni di un mondo del loisir analizzato con pazienza certosina, “all over the world”. Da qualche tempo, ho però deciso di ricominciare a proporre i trend in prima persona, per dimostrarne l’effettivo impatto ludico. E per dare la possibilità alle varie tipologie di locali di capire quale format sia effettivamente in sintonia con le proprie caratteristiche e quali siano esattamente le modalità di sviluppo. Nel 1999 introdussi l’Oxy Bar, prima a Milano (Shu), poi a Roma (Riparte Cafè), che però non riuscì a cementarsi a dovere, perché mal gestito da chi decise di adottarne la formula… Ma come si fa a decidere di far pagare 10 Euro per qualche sniffata di ossigeno aromatizzato? Proprio quel ricordo, ha fatto sì che nell’ultimo anno io abbia personalmente proposto ben tre schemi ludici. Uno, assolutamente trash, provocatorio e votato al divertissement puro e semplice, il primo Campionato italiano di Porno-Karaoke (al Let’s Go di Desenzano); gli altri due fortemente ed indissolubilmente legati all’odierna società dell’immagine, il Collagen-Party e lo Psycho-Cafè, peraltro già interpretato nella duplice versione di Psycho-Pizza e PsychoDinner. Ebbene, proprio di questi ultimi vi voglio parlare con dovizia di particolari. Inizio con il chiedervi ufficialmente “che ne dite di partecipare alla prima festa che, oltre a divertire, sfamare e dissetare, toglie le rughe e gli anni? C’è pure la Vasca della Giovinezza…” In poche parole, nell’occasione vengono proposti piatti e bevande anti-aging, a base di collagene, proteina notoriamente utilizzata per rendere giovane ed elastica la pelle. Tutto nasce dal Giappone, dove ho perso-
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nalmente visto frotte di ragazze, fortissimamente legate alla cura del viso, affollare ristoranti che propongono improbabili zuppe con pinne di pescecane, vertebre di maiale, alghe e cartilagine di pollo, stufati nel brodo. Ma dalle nostre parti, quei piatti non sono assolutamente proponibili, ragion per cui, dopo aver verificato che medici e farmacisti non ravvisano nessuna differenza fra il collagene spalmato sul corpo e quello ingerito, ho pensato bene di sviluppare una versione opportunamente modificata e corretta del trend, coinvolgendo nella fase successiva Cesare Marretti, talentuoso chef de La Prova del Cuoco-RaiUno. Insieme al quale ho dato vita al progetto Collagen Food&Drink, fatto apposta per far ringiovanire, mangiando e bevendo con gusto. Due gli eventi andati in scena finora: il primo al Jet Set di Roma (con tanti vip e filmati a disposizione degli increduli, sul mio sito. Tipo, www.piacereedivertimento.com/tv_performance/costume_societa.ht;
▲ La pizza più chic!
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▲ Cesare Marretti e Roberto Piccinelli assaggiano un aperitivo a base di collagene di pescecane
Barcelona Cafè Via Matteotti 10 - Crema (CR) - Tel. 0373/81625 Jet Set Piazza Umberto Elia Terracini - Roma. Tel. 06/5913743; 393/7517510
Let’s Go Via Mantova 137 - Desenzano (BS) SS Desenzano-Castiglione delle Stiviere - Tel. 339/2080000 Riparte Cafè Via degli Orti di Trastevere 7 - Roma - Tel. 06/58611 Shu Via Molino delle Armi, ang. Via della Chiusa - Milano Tel. 02/58315720 Soho Via al Ponte Calvi 20r - Genova Tel. 010/8692548; 338/9133943 Tonino Via Cairoli 16 - Bologna - Tel. 051/5882700
www.piacereedivertimento.com/tv_performance/cult.htm; www.piacereedivertimen-to.com/tv_performance/ festa_italiana.htm), l’altro recentissimo, all’Astragalo di Castiglioncello, ma tanti ne seguiranno. Perchè il piacere di offrire ai propri ospiti un drastico taglio alle rughe con conseguente pelle liscia e vellutata, nonché un immediato ribasso dell’età apparente è una libidine non da poco, vieppiù nell’età fortemente votata all’immagine, che stiamo vivendo. C’è la vasca della giovinezza, piena di un’inebriante bevanda a base di collagene di pescecane, con la quale si brinda inizialmente, salvo poi lasciarsi andare a cannelloni, involtini, cotoletta e lecca lecca al collagene, ma anche ad un antipasto classico, debitamente rivisitato, prosciutto e melone con collagene siringato! Del resto, che la cura del corpo e la necessità di apparire sempre in gran spolvero risultino straordinariamente importanti nella società odierna traspare in modo evidente dalla mia catalogazione, risalente a ben 4 anni fa, del fenomeno Social Beauty (luogo vota-
▲ La Lampara, il ristorante e il privé
to tanto al benessere fisico quanto al disimpegno psichico, con massaggi, musica, terapie salutari e momenti conviviali chiamati a miscelarsi alla perfezione) che, da allora, considero la tipologia ludica con maggiori possibilità di crescita e successo, qualora ben assemblata, ovvio. Vieppiù, in un momento come questo, in cui la spietata legge dell’immagine è affiancata da un innegabile stato di crisi. Il cui livello di guardia viene, guarda caso, misurato dal Financial Times, notando l’aumento delle vendite di fondotinta tanto in Gran Bretagna quanto negli Usa. Più il momento è duro, più si fa uso di prodotti atti a rendere luminoso, uniforme e solare il viso. Più la situazione è difficile, più occorre apparire in gran forma. Più sale lo stress e la pelle soffre, più va messa una pezza all’imbruttimento. Più il Dow Jones scende, più aumentano le vendite di fondotinta. E ciò non vale solo per le donne, perché il nostro Presidente del Consiglio non può non essere considerato un antesignano nell’uso del prodotto: che sia un trendsetter?
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Nuove proposte In questo caso, non mancherà di partecipare ad un collagen party: hai visto mai che dopo l’ambasciatore del Belize Nunzio Alfredo D’Angeri, il giornalista del TG1 Attilio Romita ed il principe Carlo Giovannelli, spianiamo le rughe anche a Silvio Berlusconi? Sicuramente, ce ne renderebbe merito… Ne parleremo con la sua curatrice d’immagine, l’amica Miti Simonetto. ■■■ SOCIALIZZAZIONE E RELAX, AMMINISTRATI Rimaniamo in tema di società dell’immagine per parlare del secondo format, lo Psycho Cafè, che ho sviluppato in versione Psycho-Pizza, da Tonino, a Bologna e sotto forma di Psycho-Dinner presso il risto-disco Lampara Club di Trani. In questo caso, tutto nasce dall’incomunicabilità di massa, che attanaglia giovani e vecchie generazioni. La spietata legge per la quale una brutta figura o un due di picche in pubblico rappresentano uno smacco insostenibile fa sì che sempre più spesso si esca con la propria compagnia di amici, senza arrischiarsi a fare altre conoscenze. Ecco, quindi, che l’intervento dello psicologo, con licenza di mettere in contatto le persone, per di più in base a ben precise affinità, può aiutare, eccome. Ed il tavolo sociale diventa la risposta concreta alla finzione internettiana targata Facebook! Trattasi di nuovo format tematico, a sfondo conoscitivo, socializzante e gastro-allettante. “Ordina la tua cena... Ti dirò chi sei e chi sono i tuoi nuovi amici!” potrebbe essere lo slogan di una serata che punta a svelare il vero io di ciascun commensale, creare nuove amicizie e suggerire compatibilità caratteriali, attraverso la risultanza di scelte gastronomiche, coinvolgimenti sensoriali e domande esperienziali. Garantite dalla verve comunicativa del sottoscritto e dalla professionalità della psicologa e psicoterapeuta Lucia Chiarioni. 8 coperti, caratteristiche di alta riconoscibilità ed eleganza, apparecchiatura, sedute ed accessori over the top, inizialmente lasciato vuoto, al centro del locale, il tavolo sociale punta a creare nuovi amici e protagonisti assoluti. Chiamati alla ribalta ed assortiti al meglio, grazie all’opzione Grazing: niente suddivisioni fra antipasto, primo, secondo, frutta e dolce, ma 10 piatti fra cui scegliere il proprio, personalissimo menù, nell’ordine preferito. Con altrettanti vini al bicchiere, di stampo differenziato, parimenti chiamati a fungere da evidenziatori caratteriali. Ciò per quanto attiene al ristorante, perché in pizzeria abbiamo aggiunto la birra e optato per la libera scelta fra 30 ingredienti, da miscelare a piacimento, per un massimo di 6. Il risultato finale è una cena in cui i commensali diventano parte integrante della rappresentazione, mettono a nudo i rispettivi caratteri e socializzano alla grande, grazie a test rivelatori, chiacchiere in libertà controllata e scelte eno-gastronomiche di stampo chiarificatore. A chiusura del paragrafo, va ricordato che sono anche stato il primo a segnalare l’avvento dei Knit Cafè, il cui primo prototipo vidi a New York, post apertura datata dicembre 2003 by Miriam Maltagliati, ma le cui versioni italiane sono state come al solito mal riportate ed interpretate: vogliamo scommettere che, a breve, anche nel nostro Paese, sarà proposta la versione corretta, quella che spacca, magari
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con qualche variante ad hoc, particolarmente efficace? Pare ormai assodato che lavorare a maglia possa essere considerato una nuova forma di yoga, un veicolo privilegiato di relax, ma le modalità di abbinamento con il mondo del loisir, qua da noi, sono state totalmente fuorviate. La tipologia non nasce per essere appannaggio della sola casalinga di Voghera, ma per fare in modo che lei stessa, al pari di molti altri, possa entrare in contatto con aficionados del fenomeno quali Cameron Diaz, Julia Roberts e Sarah Jessica Parker… E poi, chi l’ha detto che nel contesto si debba bere solo e soltanto the? ■■■ SCOPERTE, IDEE E NUOVE PROPOSTE Girando (e tanto!) per individuare le novità pro mia Guida al Piacere e al Divertimento, si scoprono news che nemmeno i partner tecnici ti dicono. Sarà perché io ho sempre tenuto distinti sponsor e critica, fatto sta che solo arrivando al nuovo Soho di Genova (ristopescheria di matrice hi-tech), ho scoperto che Drappier, unico champagne in carta, è storicamente lo champagne dei ricevimenti ufficiali del governo francese, amato dal generale De Gaulle ed in grado di vantare un’etichetta non contenente solfiti! Curioso, davvero. Come pure la gestazione del DrinkEat, griffato Marco Pistone by Barcelona Cafè di Crema. Essendo capitato in loco ed avendo parlato con il boss, mi è venuta spontaneo incentivare la sua idea di dar vita ad una nuova versione di appetizers, nati con l’idea di far mangiare e bere allo stesso tempo. Parlandone assieme, è scaturita una sorta di aperitivo omnicomprensivo, che ho visto crescere, modificato ad hoc, etichettato in maniera appropriata e voluto al mio fianco nella lotta contro l’Happy Hour sguaiato di questi tempi. Ovvio, quindi che i nomi dei due primi esempi pratici sposino, frammentandolo, un mio marchio, Dr. Pleasure & Mr. Fun, sinonimo di Blog, Tv, Cd, T -Shirt ed altro ancora. Dr. Pleasure si presenta sotto forma di semisfera di cioccolato Tribago al 64%, gelatina di spicchi d’arancia e zucchero di canna pestati insieme, liquore di lamponi, liquore di arancia, rum S. Teresa riserva, ripieno di gorgonzola, caprino, crema di latte, nocciole tostate e cannella. Mr. Fun vanta al suo attivo polenta, gelatina di saké, zenzero e melone, burro in poma-
ta, succo di scorza di mandarino, gamberetti e uova di lompo. La segnalazione va letta anche come un mio personalissimo elogio per l’iniziativa benefica pro SLA, Sclerosi Laterale Amiotrofica, voluta da Marco stesso, addì 28 maggio 2009, Teatro San Domenico di Crema, con il sax di Francesco Cafiso on stage. Per chi non lo sapesse, Francesco, accompagnato nell’occasione dall’altrettanto bravo Dino Rubino, va considerato una giovanissima star del jazz contemporaneo. Basti pensare che, il 19 gennaio scorso, è stato chiamato a suonare a Washington, nell’ambito dei festeggiamenti pro Barak Obama for president. Basta la parola. Dulcis in fundo, una richiesta vera e propria. Una necessità verificata, un desiderio insopprimibile. Visto e considerato che molti locali vivono attualmente d’immagine, come più volte ripetuto, perché non pensare ad una tipologia di sommelier più easy, meno manieristici, meno formali e meno paludati, da aggiungere a quelli, giustamente sussiegosi e scenografici, che lavorano con profitto nei vari ristoranti stellati? Anche i locali “à la page”, perfino quelli dove si mangia davvero male, devono avere qualcuno che consigli cosa bere. Anche a prezzo calmierato. Sarà più complicato, ma la ricerca ad hoc è richiesta. Perché l’educazione vinicola è fondamentale, a tutti i livelli. Vieppiù, quando c’è di mezzo un pubblico giova-
ne. Che va educato, a dovere. Perché non è possibile che accada ciò che è successo a me in un risto-disco modaiolo: nell’ambito di una cena a menù prestabilito ed a prezzo fisso, c’era un solo vino a disposizione, peraltro assolutamente “out of order”. Costava poco (era compreso in una cena da 25 Euro) e teneva conto della crisi, va bene, ma era davvero imbevibile (se ne sarebbero potuti proporre 1.000 altri, migliori…). Incredibile, ma vero, nella cantina del locale non c’era nessun’altra etichetta! Non ho avuto altra strada se non quella di optare per uno Champagne, per non essere costretto a bere solo acqua… Certo, in questo tipo di locali, il sommelier non deve essere di maniera, bensì di forma, non rigoroso, ma conviviale, non asettico, ma coinvolgente, non didascalico, ma esplicativo. Ed il suo look deve essere in sintonia con il luogo. Del resto, non è il vestito a dover fare la differenza, bensì la professionalità e la competenza. In ogni caso, pregasi astenersi, caricature simil Antonio Albanese, por favor. Perché esistono, li vedo, anche se preferirei non vederli. Per finire, anticipo fin d’ora che dopo la Top 7 Barman inserita sulla mia Guida al Piacere e al Divertimento 2009 (www.piacereedivertimento.com/oscar_piacere/ bien_vivre.htm), nella versione 2010 della mia stessa Guida ci saranno anche I Magnifici 7 Sommelier. Letti nella mia ottica, ovvio: se ne parlerà e molto!
Degustazioni
I bianchi
che sfidano
il 40
tempo
di Franco Ziliani on oltre un secolo di storia (è stata infatti fondata nel 1893), la Cantina Produttori (o Kellereigenossenschaft, come si dice in tedesco) di Terlano (località a mezza via tra Bolzano e Merano, celebrata anche per i suoi asparagi bianchi) non è solo una delle più antiche cantine sociali altoatesine, e indiscutibilmente una delle migliori (come l’ha definita anche la prestigiosa rivista britannica Decanter in un recente articolo) Cantine sociali italiane, ma negli anni si è sempre più qualificata come l’area d’elezione da cui provengono alcuni dei più importanti vini bianchi italiani. Capaci di reggere e di evolvere nel tempo, rimanendo vivi e piacevolissimi, anche dopo diversi decenni. Roba che solo i grandi Riesling tedeschi sanno fare. I “bianchi di Terlano”, in larga parte ottenuti da quel grandissimo vitigno, troppo sottovalutato rispetto alle varietà aromatiche molto più “di moda” e appealing, che è il Pinot bianco o Weissburgunder, sono diventati il sinonimo del bianco italiano che anche senza adottare lo stile francese che prevede l’affinamento in barrique può splendidamente maturare e acquisire, anche dopo molti anni, una complessità straordinaria. Merito innanzitutto di un terroir straordinario, quello dell’enclave di Terlano, dalla natura ideale per assicurare longevità, freschezza e vitalità ai vini, grazie all’elevato contenuto di porfido dei terreni, che immagazzinano calore, e alla porosa pietra arenaria presente, che permette all’acqua di defluire nella terra, mantenendo asciutto il terreno a contatto con le radici, al particolare microclima, alla posizione dei vigneti, che possono salire quasi a 900 metri d’altezza, ma anche merito di un personaggio che, per primo, ha saputo cogliere la vocazione di Terlano a produrre grandi vini bianchi e ha posto le basi per far entrare la Cantina Produttori nel ristretto rango dei migliori produttori di bianchi italiani. Sto parlando di Sebastian Stocker, che per oltre quarant’anni è stato il Kellermeister (cantiniere ovviamente, ma anche direttore commerciale, responsabile dei rapporti con i soci viticoltori) della Cantina. Una storia che, come mi ha raccontato, inizia nel 1955, quando “il modo di lavorare era diverso, si vendeva tutto in fusti da 50, 100, 150 litri, e poche damigiane, poi il doppio litro. “Le bottiglie da sette decimi abbiamo cominciato a farle, 31.000, tutte per un cliente di Milano, nel 1956. Ho imparato a fare vino con una grande gioia, affiancando il vecchio cantiniere di Terlano che veniva da Termeno: insieme si discuteva, ci si confrontava, e quando mi diceva che avevo un grande palato io tremavo dall’emozione. Ho fatto poca scuola e tanta pratica. Io ero sempre in cantina, il primo ad arrivare e l’ultimo a chiudere, con molta semplicità. Ho sempre pensato che con le uve ed i terreni di Terlano si potessero fare grandi vini e assaggiando ho sempre cercato di mettere da parte una piccola scorta in fusti più piccoli, perché conoscevo la zona e le sue caratteristiche, mettevo da parte i vini che arrivavano dai diversi vigneti, il Winkl, il Kreutz, il Vorberg, ecc. Già dai primi travasi mi accorgevo che un mosto aveva profumi più fini, che uno era più aspro, l’altro più acido. Facevo le mie riflessioni prendendo molti appunti e osservazioni minute che conservo ancora, chiedevo ai contadini se le vigne erano vecchie, assaggiavo le uve, invitavo tutti a selezionare le uve migliori e ad eliminare gli acini ed i grappoli non sani, e così andava via l’8-10%, e si aspettavano la giusta maturazione, le gradazioni ideali. Le vigne prima di 15-20 anni non fanno mai un vino buono, e io cercavo i vigneti con gli innesti giusti di cui mi aveva parlato mio padre, che è stato il mio primo maestro”. Perché i vini bianchi di Terlano siano “speciali” è presto spiegato per Stocker: “Sono più complessi, hanno un maggiore equilibrio dato dal terreno, dal contenuto di porfido che fa durare nel tempo i vini bianchi”. Quanto alla forma di allevamento, anche se oggi larga parte dei vigneti della Cantina di Terlano sono passati alla più moderna forma del guyot, Stocker non ha dubbi: “Di recente ho assaggiato un 1961, fantastico, che mi ha convinto che per i profumi la pergola va meglio, dà più finezza. Il grappolo mi sembra più libero e ha bisogno di non essere completamen-
C
▲ I vigneti di Terlano
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Degustazioni ▲ L’antica vinoteca
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te esposto al sole e di avere un po’ di ombra, altrimenti i profumi vengono bruciati. I vini vecchi da vigneti a pergola hanno più fascino, maggiore equilibrio. Non si può dire che la pergola sia da buttare. 100-200 anni fa c’era il guyot e poi si è passati alla pergola e ci sarà pure stato un motivo!”. Quanto alla scelta di affinare i vini in legno Stocker ricorda di aver “sempre lavorato su grandi fusti da 50-100 ettolitri, facendo fermentazione e affinamento in legno. Nei primi anni Novanta anche noi abbiamo provato le barrique sui rossi, ma i risultati non mi sono assolutamente piaciuti. Con la lavorazione in botte o in acciaio riesci a rispettare meglio le caratteristiche dell’uva e ad esaltare le differenze da zona a zona”. Circa il ruolo dell’acidità nei vini di Terlano, Stocker, che ha iniziato ad utilizzare il Sauvignon nel 1956, per primo in Alto Adige, poi usando anche Pinot bianco e Riesling italico e Welschriesling, che “oggi non c’è quasi più nei nostri vigneti, ed è un peccato”, pensate che “l’acidità, intorno al 5,8-6 è perfetta, con grappoli leggeri di vigne vecchie non troppo cariche, grande selezione in vendemmia in fase diverse. C’erano grandi uve in passato, migliori di oggi. Io i miei bianchi li ho fatti senza Guyot, senza tagliare grappoli, facendo una selezione molto severa e basta! Ho lavorato soprattutto cercando di rispettare l’uva e la terra, con fusti di 25 quintali di rovere di Slavonia, lasciando il tartaro, pulendo bene e solforando, ho sempre imbottigliato con 25-30 di anidride solforosa libera, il vino doveva essere a posto e mantenere i suoi profumi”. Cosa sia per lui un grande vino è semplice, “un vino dal colore vivo, dal profumo pieno e di grande equilibrio e grande pienezza, con note di maturità che accennino al miele, ma non troppo. A Terlano quando i contadini dovevano piantare venivano da me ed io indicavo loro dove piantare le giuste varietà nei posti migliori. Io guardavo al tipo di terreno, alla mia documentazione, mi basavo sulla mia esperienza, anche per il Vorberg, che noi non etichettavamo come cru a parte, ma solo per dei clienti svizzeri. Un grande vino è sempre un vino elegante, deve farsi bere bene, non deve esagerare con la concentrazione e con i muscoli”. Introdotto lo “spirito” dei vini, la loro storia, passiamo alla degustazione della serie di grandi annate proposte da Klaus Gasser, direttore vendite della Cantina, (che oggi si avvale della collaborazione tecnica, come enologo, di Rudi Kofler) durante la mia recente visita, non senza aver ricordato che il Pinot bianco della selezione di vigneto Vorberg è stato commercializzato con questo nome per la prima volta nel 1995 e viene prodotto in circa 50 mila esemplari, che il Pinot bianco è la superficie più importante, con i suoi 30 ettari su 140 complessivi nei vigneti dei 105 soci conferitori di Terlano (una piccola parte arriva anche dai colli della frazione Silberleiten), seguito da altrettanti 30 ettari di Sauvignon, varietà che si adatta molto bene al terroir di Terlano, che il Vorberg normalmente fa malolattica (nel 2003 malolattica parziale), che tutto il Pinot bianco finisce in bottiglia da sette decimi, che la produzione della Cantina di Terlano è per il 70 per cento (in passato era il 55%) ad uve bianche. Merita di essere poi ricordato che tra le “Rarità” ancora presenti in cantina e commercializzate in piccole quantità, figurano il 1996 Pinot bianco commercializzato come riserva, lo Chardonnay 1990, 1994, 1995, 1997,
▲ I vini degustati
il Sauvignon 1995, il Terlaner 1991, il Pinot bianco 1988 e 1983. E che in cantina vengono tuttora conservate, in serbatoi d’acciaio, piccole quantità dei vini delle annate più vecchie, ad esempio il 1979. Del Pinot bianco Vorberg sono disponibili in cantina le annate 2001 – 2002 – 2003 – 2004 – e ancora poche bottiglie del fantastico 1999. Cominciamo la nostra verticale procedendo a ritroso nel tempo, dall’annata più vecchia a quella più giovane. 1959 - Primo vino nientemeno che un bianco di cinquant’anni, annata 1959, che Stocker ricorda come un’annata strepitosa, dove “c’era molto lavoro dietro, bisognava assaggiare tutti i giorni, evitare che arrivasse un gusto di crudo, intervenire subito quando necessario, travasare anche di domenica, seguire i vini come dei figli”. Di questo vino possiamo dire che ha fatto fermentazione in legno, sur lie, in botti da 25 ettolitri di rovere di Slavonia e tedesco, fino al marzo successivo con imbottigliamento in aprile-maggio. Le note analitiche dicono che inizialmente il ph era più basso rispetto all’acidità e questo ha assicurato una grande stabilità in bottiglia. Il vino è stato ritappato nel 1995. Colore di stupefacente stabilità e brillantezza oro antico brillante luminosissimo splendente multi riflesso, mostra un naso fitto, compatto, integro di assoluta complessità, con note di fieno secco, camomilla, agrumi, erbe e fiori di montagna, con una vena minerale pietrosa precisa che lo innerva, accenni di albicocca secca, cioccolato bianco, segale e senape ed in evoluzione zafferano e sambuco. La bocca è di stupefacente freschezza, sapidità e nerbo, con attacco vivo, asciutto, nervoso, grande dinamismo e complessità. In evoluzione tira fuori un carattere etereo da Amontillado, dove la componente iodata salina quasi marina è straordinariamente evidente. L’alcol è ben bilanciato, il vino di una magnifica essenzialità e asciuttezza ancora morden-
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Degustazioni
te e nervoso con un retrogusto che richiama il cioccolato bianco. Aristocratico, misterioso, essenziale, dotato di una forza e di un fascino materico incredibile, ti lascia una bocca pulitissima nervosa e integra, senza alcun segno di stanchezza. 1979 - L’etichetta riporta la dizione Terlaner Weissburgunder, la bottiglia riprende una forma storica locale ed è la prima rarità imbottigliata da Stocker, dopo essere rimasta in serbatoi d’acciaio fino al 1991. Colore paglierino oro di stupefacente miracolosa vivacità e brillantezza. Naso fittissimo suadente cremoso avvolgente ancora con una succulenza di frutta incredibile, note di crème caramel; sviluppa un naso petroso, con fiori bianchi, gelsomino e fiori d’arancio in evidenza, note di pan brioche, miele e accenni eterei, crème brulée, panna cotta e leggero richiamo di caramello. Bocca larghissima, ampia carnosa succulenta, con una vivacità ed un nerbo quasi tagliente nella sua integrità, salatissimo, nervoso, scattante pieno di energia, ma elegante, avvolgente largo e profondo. Grandissima armonia e soddisfazione al palato, avvolgente caldo pieno ricco, ma freschissimo, di assoluta eleganza ha la stoffa il velluto, la pienezza, la larghezza ed il carattere di un grande rosso di stampo borgognone: più resta nel bicchiere e più si mostra vivo, elegante e complesso vino di classe aristocratica, di assoluto fascino. In evoluzione emerge nitida una nota di pietra colpita dal sole, di grafite e di porfido: lunghissimo e verticale, cresce incredibilmente lungo e preciso con una pulizia finale stupefacente. 1987 - 21 anni in bottiglia per questo Terlaner Weissburgunder klassicher, come si legge in etichetta. Color oro paglierino con sfumature verdognole, mostra un naso essenziale e nervoso con la componente minerale petrosa protagonista, note di agrumi, fiori bianchi, crosta di pane, erbe secche di montagna in evidenza. La bocca ha un attacco asciutto aggressivo estremamente nervoso, con l’acidità a spingere, verticalizzare e innervare il vino con notevole lunghezza e persistenza. Un vino dal carattere quasi “carsico”, che in evoluzione sviluppa sorprendenti note di mandorla e con-
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fetto e conserva una bocca viva scabrosa, di misteriosa essenzialità e nerbo. Al gusto è meno ricco e completo del 1979 ma mostra una purezza, un’incisività, una mineralità esemplare. Grandissima beva e piacevolezza. 1999 - Un Pinot bianco da uve provenienti dal vigneto Vorberg di dieci anni, ma sembra nato ieri. Espressione di un’annata classica, piuttosto fresca, paragonabile al 2008, caratterizzata da acidità elevata (ma meno del 1995), mostra un colore di splendida vivacità e intensità paglierino verdognolo brillante e un naso che sorprende al confronto degli altri per la sua straordinaria gioventù, con un frutto più evidente che richiama la mela e poi, in sequenza, note di fiori bianchi, gelsomino, fior d’arancio di notevole integrità e freschezza. La bocca è succosa e piena, rotonda ma sviluppa il nerbo tipico del vino, con magnifica sapidità, acidità che spinge, vivo nervoso di grande energia e “sale”. Giovanissimo, fa capire di poter reggere un lunghissimo affinamento in bottiglia, dov’è ormai dal giugno 2001. Una parte di questo vino, destinato alle riserve, è ancora in acciaio nelle cantine aziendali. 2002 - Annata problematica il 2002 in diverse zone vinicole italiane, ma non a Terlano, e un’annata che secondo Gasser è sinora la più interessante tra quelle del nuovo secolo. In degustazione un Pinot bianco Vorberg riserva, nato in un regime di leggera sovramaturazione delle uve, simile al 1979, con bassa pressione in Austria, vento caldo (phon) con temperature elevate e disidratazione delle uve nell’ordine del 7-8% e leggero attacco di muffa nobile. Il naso è molto fitto, caldo, elegante, con note di camomilla e fiori secchi, accenni leggeri di cioccolato bianco, arancia, frutta secca, sambuco e spezie. Al gusto è molto largo e ricco, pieno e succoso, con acidità più bassa e grande avvolgenza aromatica. Al gusto mostra notevole struttura e pienezza, bellissima intensità, complessità e ampia tessitura, con timbro asciutto di magnifica freschezza, acidità scattante e nervosa e potenziale di evoluzione importante. Considerando l’annata sorprende per l’elegante fragranza, l’acidità nervosa, l’integrità e la bellissima personalità. 2003 - Pinot bianco Vorberg riserva Colore paglierino intenso luminoso, vivo e splendente, mostra un naso di sorprendente presenza, fittezza ed eleganza, più sul frutto delle altre annate, ma sempre nello stile del Vorberg, incredibilmente fresco vivo e sapido, con sfumature di albicocca, agrumi, mela candita molto delicate. Al gusto è molto equilibrato succoso e piacevole, ma con una freschezza, un sale e un nerbo che non ci si aspetterebbe da un 2003. Molto largo, pieno, di grande soddisfazione e lunga persistenza. Carattere solare e mediterraneo molto particolare con una sorprendente componente tannica ben pronunciata. 2006 - Pinot bianco riserva Vorberg. In bottiglia da 10 mesi, in commercio da ottobre: un vino ancora “bambino” che è assurdo pensare di inquadrare e giudicare nel solco delle annate che l’hanno preceduto e che è meglio non bere ora. Colore paglierino verdognolo e un naso che oltre a note di agrumi canditi sorprendentemente tira fuori note di ortica e sambuco che richiamano il Sauvignon con uno spiccato carattere aromatico. Un vino integro, nervoso, quasi scontroso, di bella spalla nerbo e acidità ben pronunciata ancora con qualche spigolosità che denuncia la giovinezza del vino e la necessità di ammorbidirsi, di aprirsi e di acquisire complessità. Un vero peccato, considerata la capacità di evoluzione del Vorberg, berlo ora. Molto meglio acquistarlo e metterlo in cantina.
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Turismo
Grecia
La punta sulla competitivitĂ
Lo spettacolare paesaggio di Mykonos
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IL PAESE STA AMPLIANDO L’OFFERTA
PER ACCONTENTARE UNA DOMANDA
PIÙ INTERNAZIONALE, OFFRENDO SOLUZIONI DI TURISMO ALTERNATIVO
di Elisa della Barba
Acropoli di Atene fa quasi paura. La guardi e ti piovono addosso millenni di storia, stai lì con il naso all’insù e non capisci più niente, di fronte a questo enorme e bellissimo testimone del tempo che ti ricorda silenzioso quanto sei piccolo. Dal Greco akros, sommo, supremo, alto e polis, città, la “città alta” di Atene, elevata di 156 metri sul livello del mare sopra la città, mantiene oggi lo stesso aspetto invincibile cercato e pianificato millenni fa alla sua costruzione. Il Partenone, iniziato nel 447 a.C. sotto Pericle e completato nel 438 a.C., è il monumento che domina l’Acropoli, simbolo del glorioso passato greco. Con una storia che quasi non ha rivali in quanto a tracce lasciate e
L’
Santorini
▲ Un insolito scorcio estivo dell'isola di Mykonos
preservate dall’umanità, ci si aspetta che la Grecia sia fra i primi Paesi visitati al mondo, anche solo per la curiosità di andare a toccare con mano quello che i libri studiati per anni hanno raccontato a milioni di persone. La troviamo invece solo sedicesima, con circa sedici milioni di arrivi internazionali, dopo Austria (12.mo posto), Russia (13.mo posto), Canada
(14.mo posto) e Hong Kong (15.mo posto). Le statistiche si riferiscono al 2006. Piuttosto scioccante, se si pensa all’importanza fondamentale che il turismo riveste per il Paese: così il ministero greco nel 2007 ha investito 40 milioni di euro per promuovere l’immagine della Grecia all’estero. Nonostante un clima temperato costante quasi tutto l’anno, la Grecia lamenta un incremento del turismo limitato principalmente alla stagione estiva, con dei turn-over nei ristoranti e negli hotel che riportano un indice molto alto nel trimestre luglio/agosto/settembre (165,8 nel 2007) e basso fuori stagione. Ma temperature miti 365 giorni all’anno non bastano per chiamare a sé abbastanza turisti. L’Italia ha dalla sua un ampio vantaggio: una varietà di paesaggio strabiliante, se si pensa alla grandezza del Paese. L’Italia ha rilevato nel 2007 volumi economici che ammontano per il turismo balneare a 15,5 miliardi di euro, per il turismo culturale a 14,8 miliardi di euro, per il turismo montano a 7,7 miliardi di euro, per il turi47
Turismo smo lacustre a 3,7 miliardi di euro, per il turismo termale a 2,9 miliardi di euro, per il turismo verde a 2,3 miliardi di euro. Rispetto alla Grecia, piuttosto uniforme nei suoi profili brulli e rocciosi, l’Italia è infatti caratterizzata da variazioni di quota e di clima tali da permettere una rotazione turistica perenne (il fatto che poi non sfrutti al massimo la sua ricchezza ambientale è un altro discorso). La Grecia da parte sua sta ampliando l’offerta per accontentare una domanda più internazionale, offrendo soluzioni di turismo alternativo (sostenibile, week-end lungo, sportivo) che attirino la clientela anche in bassa stagione. Possiamo anche affermare con certezza che il sistema sta funzionando: gli arrivi nel 2007 sono saliti a diciassette milioni e mezzo. I turisti provengono da Inghilterra, Germania, Albania e Italia. E se per gli arrivi internazionali il Paese è in svantaggio rispetto all’Italia, alla Grecia si può e si deve guardare per quanto riguarda le strutture di accoglienza turistica. Inferiori numericamente rispetto all’Italia (ricordiamo l’avvocato Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia e dell’Associazione Italiana Amici dei Grandi Alberghi, che ha dichiarato che “in Italia l’asset del turismo è di 33.000 alberghi, 16.000 agriturismi”), le strutture alberghiere greche offrono però un ventaglio più ampio di scelta. Con 9.207 hotels (2007), la Grecia riesce a soddisfare le esigenze più diverse: la maggioranza è a due stelle con 4.403 stabilimenti, ma i rimanenti si distribuiscono quasi equamente da una stella a cinque stelle, accontentando un po’ tutti, dai ragazzini in vacanza dopo-maturità che viaggiano al risparmio al manager che cerca la comodità e la pace in alberghi extralusso. La Grecia è attrezzatissima anche per quanto riguarda il metodo più economico di viaggiare: i campeggi. Sono 324 i campeggi organizzati con una capacità totale di circa 30.500 piazzole e 950 bungalows, classificati in quattro categorie (A, B, C, D), con un costo medio al giorno che va dai 4 ai 6 euro per un adulto, e dai 4 agli 8 euro per tenda grande. 48
Una tipica chiesetta greca spicca nel porto di Antiparos
In Puglia e in Sardegna si va dai 9 ai 16 euro ad adulto! Questo significa possibilità di accontentare quasi tutte le esigenze con prezzi adeguati alle diverse categorie: il potere di scelta unito a prezzi contenuti è il punto di forza che fa la differenza quando si tratta di scegliere una meta turistica. Guardiamo a un plus che è comune sia all’Italia sia alla Grecia: il mare. Spettacolare alle Cicladi, però la Sardegna o il Sud Italia non hanno nulla da invidiare! Perché quindi “scappare” in Grecia invece di nuotare in dolci acque italiane? Ben 972.000 italiani l’hanno scelta come meta turistica nel 2008, terza
in classifica dopo Francia e Spagna, i nostri maggiori competitori. Tra Italia e Grecia, come abbiamo visto, la differenza di prezzi è rilevante e considerando che entrambe sono caratterizzate da un turismo estivo e da caratteristiche storiche e mediterranee molto simili, la competizione sui prezzi diventa indispensabile per vincere una fetta in più o in meno di entrate. L’Italia dovrebbe aspirare ad una sostenibilità economica data da una politica dei prezzi al ribasso e da costi fissi stabili, ma bisogna tenere conto del fatto che sostiene un carico di spese per i consumi energetici decisamente più elevato degli altri competitors.
Atene, il Partenone
Il costo medio mensile per il consumo di energia (elettricità, gas, ecc.), per le riparazioni e per le manutenzioni periodiche degli alberghi italiani, per esempio, è di circa 89 euro per ogni camera, contro i 73 euro dei francesi ed i 72 degli spagnoli. Il prezzo unitario per kwh dell'elettricità è pari a circa 5,3 euro ogni 100 kwh consumati dagli hotel francesi contro gli 8,7 euro pagati dagli italiani ed i 7,9 euro degli spagnoli (dati Isnart). Difficile quindi stare al passo con gli altri Paesi. Come ovviare alla disparità costo/guadagno senza gravare troppo sul cliente e “obbligarlo” ad andare altrove? Il turismo italiano dovrebbe aggredi-
re i mercati internazionali attraverso l’intermediazione da parte di Tour operator mondiali che aiuterebbero a vendere di più, vista l’attuale discrepanza fra la domanda (l’Italia è la prima destinazione richiesta per l’88,7% dei Tour operator) e la vendita dei nostri prodotti turistici (solo il 35,6 del venduto mondiale), divario che porta alle imprese ricettive italiane solo il 9% della clientela presente. Anche la Grecia ha i suoi crucci: la Commissione Ue ha aperto la procedura di deficit eccessivo per i sei paesi dell'Unione nei quali il rapporto deficit/pil risulta superiore al 3% “non in maniera temporanea”, e cioè “destinato a protrarsi e, in alcuni
casi, ad aumentare nei prossimi anni a causa della recessione”. I sei paesi sono Irlanda (deficit/pil 2008 al 6,3%), Grecia (deficit/pil 2008 al 3,7%), Spagna (deficit/pil 2008 3,4%), Francia (deficit/pil 2008 3,2%), Lettonia (deficit/pil 2008 3,5%), Malta (deficit/pil 2008 3,3%). L’Italia quindi è fuori dalla “lista nera”, con un rapporto deficit/Pil del 2,6%. Il Pil della Grecia mostra però segni positivi, con una previsione di crescita di 2,5 nel 2009 (Pil 2008: $326.4 miliardi - 2007 est.) contro lo 0,0 di casa nostra. Anche per quanto riguarda i trasporti la Grecia pare funzionare discretamente, con una rete ferroviaria piccola ma efficiente: 2.571 Km contro i 19.394 km dell’Italia. Organizzata anche la rete dei bus, il mezzo di trasporto più usato dai locali. Le Olimpiadi del 2004 hanno dato uno slancio economico al Paese e una modernissima rete sotterranea ad Atene, dotata anche di un grande aeroporto collegato con il centro città da trasporti ad alta velocità ed a costi irrisori. Contro ogni previsione, inoltre, l’economia post-Olimpiadi ha continuato a crescere notevolmente nel 2005 e 2006. Per quanto riguarda le preferenze dei turisti sui trasporti, la maggior parte dei visitatori arriva in Grecia in aereo, con 12.001.222 arrivi; a seguire l’automobile, con 4.354.879 arrivi; via mare, con 1.066.359 e infine via treno, con 95.331 arrivi. Gli arrivi via crociera, che vengono calcolati a parte in quanto la permanenza potrebbe essere inferiore alle 24 ore, sono di 1.235.802. In un confronto costruttivo fra l’Italia e la Grecia, Paesi che sicuramente negli ultimi decenni hanno sofferto un ristagno economico ma rimangono comunque tra i più belli del mondo, è impossibile non menzionare gastronomia e cultura. La cucina greca è forte ancora una volta del costo decisamente sostenibile del vitto rispetto a quello italiano, ma è indiscutibilmente meno varia. Pur essendo Paese con una tradizione culinaria plurisecolare, infatti, non ha sviluppato la regionalità gastronomica che caratterizza l’Italia, 49
Turismo ▲ L’insalata greca choriatiki
▲ I souvlaki
aiutata – come dicevamo – anche dalla grandissima varietà di clima, paesaggio e vegetazione. I piatti tipici sono spesso di ottima qualità, ma la varietà lascia a desiderare. Mancando di un primo piatto, la cucina locale offre i mezedes, antipasti a base di olive nere, sottaceti, acciughe, salami, involtini di riso o di carne tritata (dolmades), taramosalata (salsa a base di uova di pesce), melitzanosalata (salsa a base di melanzane lavorate), tzatziki (yogurt lavorato con cetriolo, aglio e olio). Tra i piatti di carne sono comunissimi quelli allo spiedo: agnello, maialino da latte, carne bovina o suina cotta ai ferri e poi infilzata in uno spiedino di metallo (piatto detto souvlaki). Il piatto forse più conosciuto è il moussaka al forno: strati di larghe fette di melanzane e di patate condite con ragù e ricoperti di besciamella. Nelle isole e lungo le coste greche
▲ La moussaka
si approfitta dell’attività ittica, con un’offerta di pesci di ogni tipo (specialmente dentice e pesce spada) cucinati al forno, fritti, o conditi con salse. Famosa l’insalata greca choriatiki (paesana) a base di pomodoro crudo e condita con olio, olive, peperoni, cipolle fresche a fette, pezzetti di formaggio feta. È questo il formaggio nazionale, bianco e molto saporito, ma vi è un’ampia scelta di produzione locale come il ladotiri nelle Isole Cicladi e Lesbo o il manouri di Creta. Tutti dovrebbero gustare almeno una volta lo yaourti (yogurt), liscio oppure con il miele (buonissimo quello di Cefalonia) e noci. I dolci sono forse la categoria più varia, con pasticcini alla crema, crostate, ma soprattutto dolci tipici come il galaktomboùreko (fatto con sfoglia a base di crema) e il baklavas (strati di sfoglia alternati con mandorle tritate e miele). Nonostante l’offerta enologica non eguagli neppure lontanamente quelSantorini
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la italiana, vanno poi menzionati il retsina, vino sciolto bianco e secco resinato, e l’Ouzo (dal gusto di anice). Ecco quindi un motivo in più per visitare l’Italia: l’offerta gastronomica, ricca di specialità locali, anzi, molto locali. In Italia si trovano prodotti alimentari diversissimi tra loro da paesino a paesino, all’interno della stessa regione. Va detto che queste diverse caratteristiche gastronomiche sono sì correlate alla diversa fisionomia dei Paesi, ma soprattutto a una differenza storica fondamentale: la Grecia non ha avuto il Rinascimento, epoca che ha fatto fiorire le corti e di conseguenza le arti, anche quelle culinarie, con una gastronomia ricchissima. Per lo stesso motivo, la Grecia è sì testimone fondamentale di secoli di storia e di arte, che rappresentano però “solamente” quello che riguarda gli avvenimenti riguardanti la Grecia antica. Questa condizione è forse la più grave, in quanto non modificabile: un grande numero di turisti preferisce alla Grecia mete che offrano un più ampio respiro storico-artistico. Ecco quindi spiegato il sedicesimo posto, rispetto a competitors come Francia, Spagna e ovviamente Italia, nonostante monumenti e reperti inestimabili. Ogni traccia del passato è importante per ricostruire il percorso che l’umanità ha compiuto fino a qui: luoghi come il Palazzo di Cnosso a Creta, Micene, Olimpia, Delfi varrebbero anche da soli un viaggio in Grecia. Ma non bisogna dimenticarsi che, se è vero che Graecia capta ferum victorem cepit (la Grecia conquistata conquistò il rozzo vincitore), la civiltà romana nei secoli ha guadagnato terreno e, ad oggi, taglia sicuramente il traguardo per prima.
Congresso nazionale
Basilicata, ritorno alle origini di Roberto Di Sanzo
erra aspra e rigogliosa, fatta di montagne e dolci vallate, di luoghi del silenzio e dall’allegria contagiosa della sua gente. La Basilicata, lembo di terra incastonata tra Puglia, Campania e Calabria, trova ricchezza dalle sue contraddizioni che la rendono unica, affascinante e ancora tutta da scoprire. Lontana dai classici itinerari turistici, è però terra dal sapore unico, incontro di tradizioni antiche, ormai perse nel tempo, e una modernità che a fatica ma inesorabilmente sta cambiando il volto del territorio. E sarà proprio questo luogo dai profumi inconfondibili che, dal 30 settembre al 4 ottobre 2009, ospiterà il quarantatreesimo congresso nazionale dell’Associazione italiana sommelier. L’importante rassegna enologica si terrà, per la precisione, a Rionero in Vulture, centro nevralgico di un territorio – appunto il Vulture – affacciato sulle propaggini settentrionali della regione, in provincia di Potenza, ad un tiro di schioppo dal Foggiano. Un angolo unico di Basilicata, ricco di colline, gioielli naturalistici di importanza nazionale e condizioni ideali per la produzione di vini di prestigio, come l’Aglianico. Tra sali e scendi, vegetazione rigogliosa e vigneti ci si imbatte spesso in castelli, centri storici antichi e cattedrali di notevole valore artistico e culturale. A farla da padrona, comunque, è sempre e solo la natura, con paesaggi intatti, e l’occhio che si perde tra campi di grano, uliveti e coltivazioni di ortaggi. E proprio queste zona era stata scelta da Federico II di Svevia come riserva di caccia, giorni interi passati a scovare, con il falco, volpi, lupi e conigli. Alle pendici del Monte Vulture, ecco sorgere Rionero, attivo centro economico, importante per la produzione e l’imbottigliamento delle ottime acque oligominerali provenienti dai Laghi di Monticchio, e la presenza di storiche e raffinate cantine del pregiato vino Aglianico. Oggi annoverato tra i migliori nettari d’Italia, l’Aglianico è prodotto in tutta la zona vulturina,
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Congresso nazionale ▲ Il castello di Lagopesole, costruito da Federico II di Svevia
▲ I Sassi di Matera
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▲ Il Duomo di Santa Maria Assunta a Melfi
invecchiato in botti di rovere, conservate in grotte scavate nel tufo lungo la costa montuosa, una volta abitate, oggi utilizzate come cantine. Una tradizione che si tramanda di generazione in generazione, di padre in figlio anche in piccoli borghi limitrofi come Barile, Maschito e Ginestra. Tra gli edifici religiosi più interessanti della città, da segnalare la Chiesa Madre, dedicata a San Marco Evangelista, che fin dalla sua nascita nel 1695, fu di proprietà dell’antica università di “Rionigro”. La struttura venne costruita dalle famiglie più ricche, a ciascuna delle quali l’Università assegnò l’edificazione di un altare con sepoltura privata. L’impianto iniziale era a navata unica e transetto, con l’ingresso dall’attuale Cappella del Cuore di Gesù. Rifatta nel 1763, con facciata in stile barocco, è stata ulteriormente rinnovata nel 1930. Fu ampliata nel 1700 in funzione di un notevole aumento della popolazione, a tre navate con pianta a croce latina. L’edificio conserva l’antico campanile a pianta quadrata che termina ad ottagono con cuspide piramidale ed è affiancato dalla torre dell’orologio. L’interno custodisce intagli lignei del XVIII secolo e tre altari in marmi policromi e un organo intagliato e dorato con cantoria del 1751. In pieno centro del paese, poi, merita una visita il Palazzo Fortunato, espressamente voluto nel 1728 da Carmelio, capostipite della famiglia Fortunato proveniente da Giffoni, un paese in provincia di Salerno. Composto da una cinquantina di stanze, con tanto di cortile e giardino rigoglioso, nel palazzo soggiornarono personaggi come Giuseppe Bonaparte nel 1807, Ferdinando II nel 1846 e Giuseppe Zanardelli agli inizi del ‘900. Dal 1975, poi, l’edificio è sede della Biblioteca comunale con i suoi circa 11.000 volumi del Fondo antico appartenuto alla famiglia Fortunato. Pochi chilometri di tragitto ed eccoci alle pendici di Monticchio, antico vulcano con due laghi craterici, a 600 metri sul livello del mare, protetti da una cortina verdissima di faggi, castagni, frassini, acèri e tigli. Le acque sono ricchissime di tinche, carpe, anguille. Tante anche le costruzioni storiche da visitare, immerse nel verde, a cominciare dall’Abbazia di San Michele, fondata prima del 1000 dai frati Benedettini intorno ad una grotta basiliana del secolo XI. Proprio tra i due laghi, poi, ecco i ruderi del monastero e la chiesa di Sant’Ippolito, risalenti ai secoli XI e XII, fondati dai monaci Benedettini. Dove invece si respira ancora l’aria dell’antichità e della tradizionale cultura latina è a Venosa, splendida cittadina, affascinante per la sua lunga vicenda storica che dalla preistoria passa attraverso i Sanniti, i
▲ I Sassi di Matera
▲ Uno dei laghi di Monticchio e sullo sfondo l'Abbazia di San Michele
▲ Il castello di Melfi
Romani, i Normanni, gli Svevi. Nell’Ottocento, inoltre, la città aderì all’insurrezione filoborbonica, appoggiando e accogliendo le bande del brigante Carmine Crocco. Ma soprattutto Venosa è famosa per aver dato i natali, nel 65 a.C., al famoso poeta latino Quinto Orazio Flacco, figlio di un esattore di vendite all’asta. Proprio in quel periodo Venosa divenne un centro ricco e potente: una fortuna proveniente in larga parte dalla sua posizione geografica. Per molto tempo, infatti, la cittadina fu una delle principali stazioni della Via Appia, forse la più importante arteria di comunicazione dell’antichità, strada che congiungeva Roma con Brindisi, passaggio obbligato degli scambi tra il Mondo Occidentale e quello Orientale. Le tracce di una storia così antica e prestigiosa sono testimoniate anche dal castello che domina la città. Fu Pirro del Balzo a finanziare la sua costruzione nel 1460, con l’innalzamento di parte delle torri cilindriche che segnano gli angoli della pianta quadrangolare e la murazione, mentre al 1553, ai tempi del dominio del vicereame spagnolo, risalgono l’escavo del fossato, l’erezione dei bastioni e la loggia interna su pilastrini. Dall’androne si accede al camminamento, una galleria seminterrata munita di feritoie e garitte. Il castello è anche sede dello splendido Museo Archeologico Nazionale venosino, con reperti che vanno dalla fase preromana ai Normanni. Passeggiando per la città, infine, la curiosità spinge a visitare la presunta Casa di Orazio. Uno dei centri più importanti del Vulture è sicuramente Melfi. La città si adagia ai piedi di un poderoso castello normanno-svevo, anche questo ampliato e ristrutturato da Federico II, Imperatore di Svevia. Proprio nel castello il monarca promulgò nel 1231 le “Constitutiones Augustales” o Costituzioni Melfitane, volte a regolare il diritto feudale: si tratta del primo testo organico di leggi scritte nell’età medievale di contenuto penale e civile. Al giorno d’oggi nel castello si trova il Museo Archeologico Nazionale del Melfese, dove è conservato, oltre a numerosi reperti archeologici della zona, il famoso sarcofago di Rapolla, monumento funerario risalente alla seconda metà del II secolo dopo Cristo. Melfi fu anche importante sede vescovile, come dimostrano il Palazzo Vescovile e il Duomo di Santa Maria Assunta, che conserva il campanile originario del 1153; inoltre ospitò vari concili, tra cui il Concilio convocato dal Papa Urbano II nel 1089, durante il quale il pontefice bandì la prima crociata in Terra Santa contro gli infedeli, istituendo inoltre l’obbligo di celibato ai religiosi. Borgi antichi e medioevali. Come Lagopesole, con il suo castello federiciano, a dominare la Valle di Vitalba. Realizzato tra il 1242 e il 1250, secondo gli storici è stata una delle ultime residenze di Federico II. E’ considerato uno dei più classici esempi di architettura fortificata: di sicuro fascino la cappella palatina, caso davvero raro e singolare per una costruzione voluta dallo “Stupor Mundi”. Nella sua forma odierna il castello si presenta come un massiccio blocco rettangolare i cui ambienti, articolati su due piani, si distribuiscono intorno a due cortili, uno maggiore, sul 53
Congresso nazionale ▲ Rionero in Vulture
INDIRIZZI UTILI www.basilicatanet.it APT BASILICATA Ufficio informazioni: Via del Gallitello, 89 85100 Potenza Tel. 0971 507622 potenza@aptbasilicata.it www.aptbasilicata.it
COMUNE DI RIONERO IN VULTURE Via Amedeo di Savoia Tel. 0972/729111 www.comune.rioneroinvulture.pz
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quale si affacciano i saloni, le stanze di rappresentanza, adornate con splendidi capitelli raffiguranti la flora e la fauna del territorio circostante, e la chiesa. Quello più piccolo, invece, nel mezzo accoglie il “donjon”, che in antichità era destinato ad attività di servizio. L’aspetto attuale è frutto di numerosi rifacimenti e accrescimenti. Gli architetti svevi aggiunsero all’edificio di età normanna nell’ala nord una sala per ascoltare la musica e alcuni camini, mentre iniziarono ex novo l’edificazione del donjon, ultimo baluardo di difesa, nel cortile minore, utilizzando come materiale le pietre estratte da una cava realizzata nello stesso cortile. Il castello, oggi proprietà demaniale e sede del Corpo Forestale dello Stato, ospita numerose attività culturali e dal 2000 accoglie l’Antiquarium, realizzato con i materiali medioevali rinvenuti durante le campagne di scavo effettuate nel cortile minore alla fine degli anni Novanta. Ma Vulture, come già spiegato, è anche – e soprattutto – sinonimo di vino. Qui, ad un’altitudine variabile tra i 200 e i 500 metri sul livello del mare, ha trovato il suo habitat naturale il vitigno Aglianico. Le uve maturano tardivamente, presentano grappoli medi con buccia spessa e di colore violetto intenso. I vitigni sono allevati verticalmente e i filari sono disposti di solito ad un metro l’uno dall’altro. La coltivazione della vite in Basilicata ha una storia antica risalente addirittura all’VIII secolo avanti Cristo, come testimoniano i vari ritrovamenti archeologici che raccontano della produzione di vino. Ad introdurre il vitigno Aglianico - termine deformato nel tempo, della denominazione originaria “Ellenico” - furono i coloni greci all’epoca della fondazione di Cuma, antico abitato nell’area vulcanica dei Campi Flegrei, a Napoli. La produzione media per ettaro si aggira sui 50 quintali e varia da zona a zona a seconda della morfologia del terreno e delle condizioni climatiche. L’Aglianico del Vulture, che ha ottenuto la Denominazione di Origine Controllata nel 1971, ha colore rosso più o meno intenso o granato vivace che acquista riflessi arancione con l’invecchiamento. Ha un sapore asciutto, sapido e armonioso che tende al vellutato con il passare degli anni. La sua gradazione alcolica non può essere inferiore agli 11,5 gradi. E’ perfetto per accompagnare gli arrosti e in genere tutta la selvaggina. All’Aglianico, invecchiato almeno tre anni in botti di rovere, si aggiunge la qualifica di “Vecchio”, mentre l’etichetta di “Riserva” è limitata al vino invecchiato per non meno di cinque anni. Dalle uve del vitigno sono prodotti due spumanti: Aglianico spumante rosso e Aglianico spumante bianco.
IL PROGRAMMA
43° Congresso Ais Rionero in Vulture (PZ) 30 settembre – 4 ottobre 2009
■■■ Mercoledì 30/09/09 Arrivo della Giunta Esecutiva Nazionale ■ Sistemazione presso il Grand Hotel Garden – Barile ■ In serata cena con i vertici dell’Ais Basilicata Degustazione dei vini del Consorzio Tutela dell’Aglianico del Vulture presso il Ristorante Enoteca Il Cantinone – Rionero in Vulture ■■■ Giovedì 01/10/09 Arrivo dei Consiglieri Nazionali Ais ■ Sistemazione e pranzo presso il Grand Hotel Garden – Barile ■ Ore 10.30 Riunione della Giunta Esecutiva Nazionale presso il Palazzo Giustino Fortunato – Rionero in Vulture ■ Ore 13.00 Lunch break e degustazione dei vini del Consorzio Tutela dell’Aglianico del Vulture presso ristorante in Rionero in Vulture ■ Ore 14.30 Riunione del Consiglio Nazionale presso il Palazzo Giustino Fortunato – Rionero in Vulture ■ Ore 19.30 Trasferimento in pullman presso Località Monticchio Laghi con visita guidata all'Abbazia di San Michele e ai laghi ■ Ore 20.30 CENA DI GALA con le Autorità regionali in Rionero in Vulture ■■■ Venerdì 02/10/09 Arrivo dei congressisti da tutta Italia Sistemazione in Hotel o nei B&B del Vulture ■ Ore 11.00 Cerimonia di apertura del 43° Congresso Nazionale Ais presso il Palazzo Giustino Fortunato – Rionero in Vulture ■ Ore 12.45 Trasferimento in pullman a Melfi ■ Ore 13.30 Pranzo con degustazione di prodotti e vini lucani in collaborazione con il Consorzio di Tutela dell’Aglianico del Vulture Doc e con il Consorzio di Promozione dell’Aglianico del Vulture Doc presso ristorante in Melfi ■ Ore 15.30 Assemblea Nazionale Ais presso il Castello di Melfi – Sala del Trono ■ Ore 17.30 Incontro della Presidenza Ais con i Delegati di tutta Italia presso il Castello di Melfi ■ Ore 17.30 Selezione Miglior Sommelier d'Italia presso ristorante in Melfi
Itinerario 1 – dalle 16.00 alle 18.00 Visite guidate al Museo Archeologico Nazionale di Melfi e al Castello Federiciano di Lagopesole Itinerario 2 – dalle 16.00 alle 18.00 Visita guidata alle Cantine del Vulture dalle 18.00 alle 19.00 Navette per i vari hotel ■ Ore 20.30 Cena presso ristorante in Melfi Premiazione dei vincitori del Master Bonaventura Maschio “La ricerca dell’eccellenza”
■■■ Sabato 03/10/09 ■ Ore 08.30 Trasferimento dei congressisti verso Matera dalle 10.30 alle 14.00 Visita alla città di Matera e ai Sassi con percorsi di degustazione enogastronomici organizzati dal Consorzio di Tutela Matera Doc alle 14.00 Trasferimento dei congressisti verso Venosa ■ Ore 15.00 Finali Miglior Sommelier d’Italia 2009 – Premio GUIDO BERLUCCHI presso il Castello Pirro del Balzo – Venosa, con la partecipazione di ospiti del mondo dello spettacolo e della cultura. Visite guidate: Città di Venosa, Castello, casa di Orazio - SS Trinità ■ Ore 18.30 Proclamazione del Miglior Sommelier d'Italia 2009 (Venosa, Castello Pirro del Balzo, Sala del Trono) dalle 18.30 alle 19.00 Rientro in hotel ■ Ore 20.30 Cena e spettacolo presso Cantina a cura del Consorzio di Promozione dell’Aglianico del Vulture Doc ■■■ Domenica 04/10/09 Itinerario 1 ■ Ore 09.00 Trasferimento verso Castelmezzano e Pietrapertosa Volo dell’Angelo ■ Ore 13.00 Pranzo presso ristoranti di Castelmezzano e di Pietrapertosa Itinerario 2 ■ Ore 09.00 Visita alle Cantine del Vulture ■ Ore 13.00 Pranzo a buffet presso ristoranti di Rionero in Vulture ■ Ore 15.00 Rientro presso le proprie sedi
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Vino e finanza
Terra e cantine
rendono più delle
Borse di Lorenzo Simoncelli
I
MERCATI NON SEMBRANO
RIPRENDERSI,
L’IMMOBILIARE TRADIZIONALE
È IN FRENATA.
PER
GLI AMANTI
DEL VINO C’È UNA NUOVA
OPPORTUNITÀ: IL WINE REAL ESTATE
rrivati ormai alla metà di un 2009 complesso per l’economia mondiale, sono maturi i tempi per fare un bilancio sulle opportunità d’investimento per i risparmiatori italiani. Gli attesi segnali di ripresa tardano ad arrivare e se l’estate 2009, a detta degli eminenti economisti, doveva essere il primo spiraglio di luce dopo la tempesta, tutto lascia presupporre che la previsione sia stata l’ennesima bufala. Per chi ha deciso di mettere al sicuro i propri risparmi, se non è arrivato troppo tardi, i possibili asset d’investimento sono limitati e poco redditizi. Mettendo da parte l’azionario e l’obbligazionario, rischiosi e ancora molto volatili, nella variegata finanza rimangono fondi e titoli di Stato. Ma se i primi dopo un’attenta analisi dell’offerta prodotti, magari coadiuvata da una buona competenza in materia, possono ancora regalare profitti interessanti; i secondi, gli strumenti finanziari rifugio per eccellenza, hanno toccato il nuovo minimo storico di rendimento (Bot a 3 mesi 1,053%). Che fare dunque con i tesoretti accumulati dopo anni di fatiche? Le risposte potrebbero essere molteplici e non è detto che la via dell’investimento sia la migliore. In fin dei conti si vive una volta sola, e quindi anche dar adito alle proprie passioni non sarebbe poi così sbagliato. Sempre rimanendo nel lecito naturalmente.
A
■■■ IL VINO IN CASA Se invece avete liquidità e la strada dell’investimento non la volete proprio accantonare, ecco che torna di moda l’immobiliare. Nonostante la contrazione delle vendite rimane il bene rifugio per eccellenza. Per noi amanti del vino poi l’offerta è ancora più ghiotta, infatti, da qualche anno sta riprendendo piede l’investimento immobiliare legato al vino. Si chiama wine real estate, per dirla all’inglese. Consiste nell’acquistare tenute, che hanno nelle vicinanze un numero più o meno rilevante di ettari di vigneti. Dal Piemonte alla Sicilia, passando per la Toscana e l’Umbria 56
▲ Martino de Rosa, Presidente di Wiish Group
▲ Edoardo Narduzzi, presidente di Synchronya, leader nell’advisory per il settore vitivinicolo
▲ Lucia Barzani, Il Mosnel
l’offerta in questo particolare asset immobiliare è variegata, ma non sempre di prima scelta. Qualità dei vigneti e moderne strumentazioni per la lavorazione del vino sono le caratteristiche più importanti per un corretto investimento nel wine real estate. A guardare i prezzi raggiunti dai migliori vitigni italiani, il settore non sembra essere in difficoltà. «Nel terroir del Barolo», spiega Edoardo Narduzzi, presidente Synchronya, leader nell’advisory per il settore vitivinicolo, «si può raggiungere il mezzo milione di euro per ettaro». Ci sono anche vitigni a prezzi più accessibili? «Sempre in Piemonte», prosegue Narduzzi, «c’è il Barbaresco, dove si va dai 35 ai 75 mila euro all’ettaro. Si può acquistare più facilmente, anche, nella zona del Roero: prezzi tra 35 e 50 mila euro all’ettaro. Questo perché il territorio è un po’ più selvaggio e ricco di boschi, per cui meno ambito». Nelle altre regioni italiane le quotazioni sono le stesse? «In Toscana nella zona di Montalcino», afferma il presidente di Synchronya, «il prezzo medio oscilla tra i 250 e i 300 mila euro ad ettaro; mentre nei terreni di Bolgheri, resi famosi dai Supertuscan, negli ultimi anni le quotazioni per ettaro possono essere anche superiori». ■■■ LA RIVALUTAZIONE DI TERRA E VIGNETI Detto questo considerando il periodo 2001 – 2008 la rivalutazione media dei terreni è stata molto superiore a qualsiasi indice borsistico italiano e non. E questo è accaduto sia prima sia dopo la crisi dei sub prime. Secondo stime Inea (Istituto nazionale economia agraria) più 70% per i vigneti di Montalcino, più 72% tra i vigneti Doc delle colline umbre di Orvieto. Ma a sorpresa i terreni che si sono rivalutati maggiormente in Italia negli ultimi dieci anni sono quelli meno affermati. A partire dai vigneti Doc dei Castelli Romani (+ 160%), la zona del Vermentino di Gallura (+125%), fino ad arrivare alle uve specializzate della collina bresciana, Franciacorta in primis, dove l’attuale valutazione di un buon ettaro vitato si aggira sui 250 mila euro. Parlare di corsa all’investimento in vino, come negli anni Novanta, sarebbe sbagliato, ma data la contingenza economica internazionale ci si può accontentare. Dopo il 2004 il fenomeno si è raffreddato, soprattutto a seguito di un massiccio abbandono di chi era entrato nel settore vinicolo con grande entusiasmo, ma con scarsa professionalità. La crisi dei nostri giorni non ha certo aiutato il compar57
Vino e finanza
to, ma ha almeno aumentato l’offerta, visto che molti sono stati costretti a cedere alcuni gioielli di famiglia. A salvare il vino è la sua decorrelazione dai mercati finanziari; voglio solo far notare che per l’ennesimo mese Noble Crus, uno dei principali fondi di investimento europei sul vino, ha fatto registrare segno più. ■■■ DOVE INVESTIRE? Dopo aver dato un po’ di cifre è giunta l’ora di rivolgersi agli esperti del settore, e cioè a chi ha deciso di investire sul wine real estate. La prima cosa da capire è, a prescindere dai propri gusti personali, su quale regione puntare. Quando, infatti, si decide di scommettere su un asset così complesso non basta essere attratti dall’appeal della location, bensì bisogna compiere un’analisi accurata per capire se gli elementi vincenti per questo tipo d’investimento sussistono. Uno di questi è la qualità della terra. «Per chi si affaccia per la prima volta a questo tipo di mercato», spiega Martino de Rosa, presidente Wiish Group, holding di investimento immobiliare che ha realizzato il progetto “Tenuta La Badiola” in Maremma, «è meglio scegliere terre meno rinomate per evitare di infrangersi su una barriera d’ingresso troppo alta». Ogni regione ha le sue peculiarità, ma riuscire a combinare il binomio qualità vino – attrazione turistica rappresenta la perfezione in termini di investimento. «La Maremma è una di quelle terre italiane su cui puntare», afferma de Rosa, «ha sia il mare sia la campagna, oltre ad essere fortemente attrattiva da un punto di vista vinicolo e turistico». L’Alto Adige (unica regione dove le viti si misurano al metro quadro) è un’altra di quelle, soprattutto dopo il grande sviluppo del Valdobbiadene. Per il prossimo futuro il Sud rappresenta la grande scommessa, soprattutto se infrastrutture, trasporti e tecnologia vinicola continueranno il processo di rafforzamento avviato in questi anni. Il Vulture in Basilicata, le parti pregiate della Sicilia, Taurasi, la zona dell'Aglianico e del Greco in Irpinia, sono secondo Narduzzi, presidente Synchronya, zone su cui investire in futuro. Anche il posizionamento del terreno è importante. Tra i 150 e i 500 metri sul livello del mare, esposto a sud e con una pendenza collinare che va dal 5% al 15%. ■■■ QUALITÀ, QUANTITÀ E TECNOLOGIE Ma la qualità della terra non è tutto. Sono da tenere in considerazione anche la dimensione dei vigneti e le strumentazioni presenti per la lavorazione vinicola. Non esiste un budget di ettari di partenza. Ogni singolo investitore può decidere (molto dipende dalle disponibilità del portafoglio) quanti ettari acquistare. Facendo una piccola analisi del panorama delle aziende vinicole italiane è però difficile trovarne una con meno di 20 – 30 ettari (un ettaro corrisponde a 10 mila metri quadri). Una quantità di vigneti inferiore rappresenterebbe un profilo di rischio/rendimento troppo alto. Infatti, è tra questi investitori che negli anni scorsi si è verificato il più alto numero di abbandoni nel settore. Da non sottovalutare poi l’aspetto tecnologico. Si va sempre più verso una meccanicizzazione del processo di vendemmia e 58
quindi risulta fondamentale attrezzare la tenuta con strumenti all’avanguardia ed adatti alla necessità di quella zona specifica. Irrigazione a goccia, nelle regioni più aride; serbatoi in acciaio inossidabile e vendemmiatrici meccaniche possono essere le carte vincenti per una competizione sempre più complessa. ■■■ INVESTIRE CON SUCCESSO: DUE ESEMPI Prima di illustrarvi due case history da cui trarre spunto, è importante evidenziare quali possono essere i margini di profitto per un investimento di questo tipo. Il wine real estate non è finanza, di conseguenza non si possono pretendere ritorni cospicui e immediati. I tempi di patrimonializzazione si aggirano intorno ai dieci anni, a patto che ci sia stata una buona gestione d’impresa. «Se ben gestita», conferma Edoardo Narduzzi, presidente Synchronya, «il ritorno sul capitale investito può superare il 10%. Se poi l'azienda è specializzata da molti anni nel commercializzare una produzione di qualità limitata, il valore si avvicina a quello tipico dei monopolisti 30-35%». «A questo ritorno va aggiunta», prosegue Narduzzi, «la rivalutazione del terreno posseduto che varia nel tempo, ma che oltre a coprire ampiamente l'inflazione annua, offre sempre un ulteriore rendimento reale di qualche punto percentuale annuo». Sono moltissimi gli esempi di aziende vinicole italiane che hanno raggiunto altissimi livelli in Italia, due su tutte. La prima è “Tenuta La Badiola”, uno splendido complesso di 500 ettari che si estende sulle colline toscane di Castiglione della Pescaia nel mezzo della Maremma. E’ stata acquistata nel 2000 da Wiish Group, holding di investimento attiva in vari settori dell’immobiliare, per realizzare un progetto su più fronti. Ecco il motivo per cui l’ho selezionata. La sua multifunzionalità. 25 ettari di vigneti, 17 di rosso e 8 di bianco. Due le etichette prodotte ad oggi: l’Acquadoro, un vermentino bianco, e l’Acquagiusta, un rosso composto da un mix di otto uvaggi. Una produzione che a regime dovrebbe raggiungere le 250 mila bottiglie. Ma, il progetto non riguarda solo il vino. Si produce olio, e soprattutto è stato creato un relais di grande charme: l’Andana. L’altro esempio di successo ha gli stessi fini, ma una base di partenza diversa: la tradizione familiare. Una realtà molto radicata in Italia, soprattutto tra le imprese agro alimentari. “Il Mosnel” azienda vinicola nel cuore della Franciacorta sotto il nome della famiglia Barboglio lavora il vino dal 1836. Nell’ultimo anno Lucia Barzanò e suo fratello, che dal 2007 dirigono l’azienda, hanno prodotto 250 mila bottiglie. Rispetto dell'ambiente, alta densità di viti per ettaro e bassa resa d’uva per pianta sono i criteri che regolano la coltivazione dei 40 ettari di vigneto (35 ettari a Docg Franciacorta e 5 ettari a Doc), al fine di ottenere la massima qualità dell’uva. Per concludere abbiamo chiesto a Lucia Barzanò, titolare dell’azienda vinicola “Il Mosnel”, oltre che giovane imprenditrice di successo, un consiglio per chi volesse intraprendere questa strada. «Bisogna provarci con umiltà ed imparare ad amare questo lavoro che è molto duro, ma dà grandissime soddisfazioni in termini di qualità di vita ed apprezzamento da parte degli estimatori. Se si tratta di una tradizione di famiglia ne vale ancora di più la pena. L’importante è non avere troppa fretta ed essere consapevoli che si ragiona su un arco temporale molto lungo». 59
A tavola
Il marito ideale della
piadina
di Riccardo Castaldi
IN ROMAGNA
LO SQUACQUERONE SERVITO CON LA PIADINA DÀ VITA
A UNO DEI MATRIMONI GASTRONOMICI PIÙ RIUSCITI E APPREZZATI olti di coloro che si avvicinano alle peculiarità gastronomiche della Romagna rimangono stregati da un formaggio dal nome strano e simpatico, ovvero lo squacquerone, squaquaron in dialetto romagnolo. Immancabile presenza nelle osterie e nelle trattorie degne di tale nome, lo squacquerone viene servito con affettati e piadina, con la quale forma, per gusto e semplicità, uno dei matrimoni gastronomici più riusciti di questa terra. Si tratta di un formaggio prodotto con latte vaccino a pasta molle che si presenta cremoso e deliquescente, privo di crosta e di colore bianco madreperlaceo uniforme e che viene consumato fresco. Come descritto nella relazione tecnica redatta per l’ottenimento della
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DOP, il suo sapore è gradevole, dolce e dotato di una punta acidula, salato ma non in maniera marcata; l’aroma è delicato, tipicamente di latte, con una leggera nota erbacea. Lo squacquerone affonda le proprie radici nella tradizione rurale della Romagna, dove in passato veniva prodotto per lo più col latte dei bovini destinati al lavoro dei campi, rappresentando un’importante fonte di sostentamento per la famiglia contadina. Le sue caratteristiche garbate e lievi lo rendono idoneo ad un consumo frequente – se non quotidiano - per cui è da sempre il formaggio dei romagnoli per eccellenza. Consumato in tutto il centro – nord Italia, lo squacquerone vanta estimatori anche all’estero tra coloro che d’estate frequentano la riviera romagnola.
■■■ UN PO’ DI STORIA Secondo quanto riportato da Antonio Mattioli nel vocabolario Romagnolo – Italiano stampato nel 1879, lo scrittore Petronio Arbitro, vissuto nel I secolo d.C. e autore del Satyricon, chiamò “caseum molleum” quello che con ogni probabilità potrebbe identificarsi oggi con lo squacquerone; Mattioli definisce lo squacquerone “un formaggio tenero, burroso e squaccherato o squacquerato, cioè quasi liquido”, racchiudendo in poche parole le sue caratteristiche essenziali. Nonostante le umili origini, lo squacquerone, legato da sempre all’alimentazione di tutti i giorni, è stato apprezzato anche da personaggi illustri, tra i quali spicca il cardinale Carlo Bellisomi, vescovo di Cesena, che tenne una corrispondenza col vicario generale delle diocesi cesenati Casali, avente come soggetto per l’appunto questo cremoso formaggio. Il cardinale Bellisomi, nel corso del lungo soggiorno a Venezia per partecipare al conclave che elesse al soglio papale il cardinale cesenate Chiaromonti col nome di Pio VII, in una lettera datata 15 febbraio 1800 chiede notizia degli squacqueroni richiesti e non ancora giunti alla sua mensa. Le parole usate dal cardinale Bellisomi sono le seguenti: “Fin’ora nulla so de Squacquaroni, ma in questa mattina se ne farà diligenza da Franciscone. Ed intanto Ella ringrazi il Bazzocchi da mia parte”. In una lettera datata 1 marzo 1800, è invece premura di don Luigi Vittori, segretario del Cardinale, confermare finalmente l’arrivo dei formaggi, usando testuali parole: “Sono giunti nel Lunedì di Carnevale i Squacquaroni in ottimo stato. Sono stati graditissimi dal nostro Emo (Eminentissimo), ed io prego la di Lei bontà ringraziare il Signor D. Domenico Bazzocchi a cui per mancanza di tempo non posso scrivere”. La prolungata permanenza a Venezia iniziava probabilmente a stancare il Cardinale, sempre più desideroso di far ritorno in Romagna. Non essendo ovviamente possibile abbandonare il conclave, aveva quindi pensato di alleviare le proprie giornate continuando a gustare i cibi ai quali era da lungo tempo abituato e legato, facendosi inviare degli squacqueroni che potessero farlo sentire in Romagna. ■■■ COME SI PRODUCEVA La produzione dello squacquerone avveniva in passato per lo più nel periodo compreso tra novembre e marzo quando, in assenza di frigorifero, le basse temperature consentivano di prolungarne la conservazione di qualche giorno. L’azdòra - termine romagnolo che identifica la reggitrice, colei che presiedeva al governo della casa – utilizzando il paiolo di rame scaldava nel camino il latte appena munto, dopodiché vi aggiungeva il caglio, ricavato dallo stomaco essiccato di agnelli e vitelli oppure anche dal cardo, quest’ultimo in grado di caratterizzare il formaggio conferendogli una tipica nota amarognola. Mantenendo il paiolo vicino al fuoco, la cagliata forma-
tasi veniva rotta con l’ausilio della ramina, non in maniera casuale ma bensì sollevandone strati orizzontali, che venivano posti nello scolapasta o in piccoli cestelli di vimini atti a favorire lo spurgo del siero; l’economia domestica della famiglia patriarcale prevedeva che il siero fosse recuperato ed utilizzato per cuocere il riso. Dopo essersi spurgato, il formaggio veniva rovesciato su foglie di cavolo o di fico dove, per la propria caratteristica consistenza cremosa, si allargava “squacquarandosi”. Salato con sale fino, lo squacquerone era immediatamente messo in vendita o consumato nel giro di pochi giorni. Considerato il breve periodo di conservazione, la produzione dello squacquerone destinato alla vendita veniva programmata in modo che fosse pronto il giorno in cui si svolgevano i mercati dei paesi e delle città che si intendeva raggiungere. Come ricordato da Luigi Pasquini, poliedrico artista nonché testimone della cultura romagnola, una volta che il formaggio era tolto dal “suo giaciglio verde” e posto nel piatto per essere consumato, era tradizione concedere la foglia di cavolo ai bambini che ripulivano avidamente tutti gli incavi della lamina nei quali si era annidata “la virtù del formaggio squacquerone”. ■■■ ALL’INSEGUIMENTO DELLA DOP Dieci tra i principali produttori di questo formaggio hanno costituito l’associazione “Squacquerone di Romagna Dop”, che ha tra i principali obiettivi l’ottenimento della denominazione d’origine protetta, fondamentale per tutelare l’origine e la tipicità del prodotto e per garantire al contempo un elevato standard qualitativo. Dopo alcuni anni di stasi, pare essersi messo nuovamente in moto l’iter burocratico che dovrebbe portare al riconoscimento della DOP, grazie proprio alla caparbietà e alla spinta dei membri dell’associazione. Il disciplinare proposto prevede che per la produzione dello squacquerone si parta da latte vaccino intero proveniente dall’area tipica di produzione del formaggio, comprendente esclusivamente le provincie di Forlì – Cesena, Rimini, Ravenna e Bologna; le razze di riferimento per la produzione del latte sono la Frisona, la Bruna e ovviamente la Romagnola. Dopo la pastorizzazione, mantenendo una temperatura di 35 – 40°C, vengono inoculati fermenti lattici autoctoni e aggiunto il caglio di vitello, in modo da ottenere la coagulazione in 15 – 30’. Si procede poi alla rottura della cagliata, a cui segue un periodo di riposo; si esegue quindi un’agitazione della cagliata, fondamentale per favorire lo spurgo del siero e per ottenere la consistenza cremosa tipica. Successivamente la cagliata viene messa negli appositi stampi forati, che sono rivoltati almeno una volta nel corso delle 24 ore al fine di favorire un’ulteriore eliminazione del siero. Si procede con la salatura, qualora non sia stato aggiunto cloruro di sodio al latte prima della cagliatura, che avviene in salamoia, a cui segue un breve periodo di maturazione, compreso tra 1 e 4 giorni, durante il quale gli squacqueroni sono stoccati ad una temperatura compresa tra 3 e 6°C. 61
Degustazioni
Taurasi 2005, il fascino di un’annata controversa
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di Alessandro Franceschini
apita che la natura sia imprevedibile. Anzi, solitamente, il più delle volte, è francamente impossibile lanciarsi in previsioni a lungo termine, specie in viticultura. Fa quindi sorridere scorrere i giornali o vedere servizi televisivi specie quando, puntualmente, già verso la fine di luglio, viene dedicato ampio spazio all’annata che verrà, quasi sempre in termini entusiastici ed ottimisti, con sereno sfoggio di certezze quanto a qualità e quantità. Nel 2002, annata nefasta quanto a regolarità, ma soprattutto ricca di pioggia, se non grandine in alcuni areali, si dovette ammettere che le uve, un po’ lungo tutto lo stivale, non erano maturate a dovere, tranne poi fare dietrofront quando ci si accostava con più precisione all’analisi di determinate zone, constatando come ci si trovasse, in alcuni casi, di fronte, addirittura, ad annate del secolo. Da un estremo all’altro quindi: un classico della comunicazione. Così fu il caso della Valtellina, baciata da un’annata eccezionale, che comincia a far intravedere proprio in questo momento quella maturità ed eleganza insieme, che si preconizzava nell’autunno di sette anni fa. Il 2005 non ha raggiunto quei picchi negativi come il 2002, ma certamente non fu un’annata semplice da interpretare e decifrare in molte zone di produzione italiane: bel tempo fino a poco prima della vendemmia e poi l’arrivo delle piogge. Nella zona del Barbaresco, per esempio, fu decisiva l’intuizione da una parte, e la fortuna dall’altra, di aver vendemmiato poco prima o poco dopo l’arrivo delle perturbazioni. Simile la situazione in Irpinia, se non ancora più travagliata, con un colpo d’ala finale, proprio nel momento in cui tutto sembrava non andare proprio per il verso giusto.
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LE BIZZE DI UN’ANNATA “SINOSUIDALE” In Irpinia, nella zona di produzione del Taurasi in particolare, è successo un po’ di tutto. Un inverno rigido come non si vedeva da tempo, con nevicate, pioggia e freddo, che si è protratto sino all’inizio della primavera, facendo sì che la ripresa vegetativa dell’aglianico ritardasse lievemente. Un maggio caldo ed asciutto che consentì un recupero della maturazione ed al contempo una barriera naturale contro le classiche malattie della vite, peronospora in particolare. Poca pioggia e tanto sole ancora sino alla fine di agosto, aspetto che lasciava supporre, quasi con certezza, di trovarsi di fronte ad un’annata potente, calda, dall’ottima produttività. Ed invece il repentino cambiamento di scena: dalla fine di agosto sino a primi giorni di ottobre, periodo decisivo nel caso dell’aglianico taurasino, piogge e temporali sembrano compromettere definitivamente un’annata che appariva ai più come segnata dal sole.
Dalla grande euforia ad un pessimismo diffuso e quasi definitivo. E, in effetti, molti vigneti hanno patito problemi sanitari: in molti casi i grappoli si gonfiarono ed arricchirono di troppa acqua, con i problemi che questo comporta, tra i quali l’assottigliamento della buccia se non, in alcuni casi, la sua rottura precoce. In questi casi è prassi dire che chi lavora veramente bene in vigna, riesce non solo a salvare un’annata, ma addirittura ad emergere: e più che mai nel 2005 in Irpinia, questa frase fatta, che oramai fa parte del linguaggio enoico, ha una sua verità da svelare. Non solo perché ha esaltato, in effetti, la capacità di conduzione della vigna durante i momenti avversi settembrini, ma perché ha poi premiato chi ha saputo condurre con esperienza la vigna con uno sviluppo quasi insperato, tra ottobre e novembre. Notti tiepide con salutari escursioni termiche, sole ed uno sviluppo aromatico che ha saputo regalare aderenza al varietale di partenza e quella eleganza tipica delle annate più austere. Ci ritroviamo quindi a contare quasi un milione e trecentomila bottiglie di Taurasi 2005 a fronte di una superficie vitata denunciata di 262,46 ettari: un’annata scarsa quantitativamente specie se rapportata a quella più esuberante dell’anno precedente. Raffaele del Franco, che insieme a Paolo de Cristofaro (ci piace ricordare anche Diana Cataldo ed Adele Chiagano) hanno organizzato anche quest’anno, in modo praticamente ineccepibile, l’anteprima dedicata alla stampa ed agli operatori di settore nelle sale del Castello Marchionale di Taurasi, parla giustamente di “annata sinusoidale”. Eterogeneità, quindi, la parola d’ordine. 4 STELLE DA VERIFICARE Pochi giorni prima della citata presentazione, una commissione, volutamente tecnica, composta dai migliori enologi operanti nella provincia di Avellino e presie-
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Degustazioni ▲ Il castello di Taurasi
duta dal Prof. Luigi Moio (Sebastiano Fortunato, Vincenzo Mercurio, Massimo di Renzo, Roberto di Meo, Pierplaolo Sirch, Lucio Mastroberardino e Raffaele Inglese) assegna le fatidiche stelle all’annata: 4 su 5. La curiosità, quindi, durante il tasting alla cieca di domenica 8 Marzo, non mancava: solitamente, in annate così eterogenee ed incerte, è facile imbattersi in alti e bassi qualitativi, alla ricerca di un equilibrio difficile da raggiungere. A Taurasi, le sottodenominazioni poste ad altitudini più elevate, hanno beneficiato di maggior ventilazione e quindi limitato i danni delle piogge usufruendo del successivo periodo soleggiato con maggior incisività. D’altronde la diversità del clima tra i singoli appezzamenti della denominazione irpina sono sempre da annotare, considerando le diverse altimetrie dei vigneti, che variano dai 150 metri sino ai 600, disseminate tra 17 comuni con terreni diversi nonché tempi di maturazione differenti, in alcuni casi quantificabili anche in un mese. I maggiori dubbi riguardavano i tannini: verdi, duri se non “gessosi”? Non sono mancati campioni che in questa prima fase, in effetti, hanno mostrato caratteristiche di questo tipo, ma in altrettante espressioni, alla normale ruvidezza giovanile, non è mancata una tessitura ed una grana di piacevole slancio già in questa fase. Non così tante, quindi, come invece ci si aspettava, quelle note verdi e vegetali che si pensava potessero marcare con più forza sia l’aspetto olfattivo che quello gustativo. Aderenza al varietale, con note floreali e minerali ed una definizione della componente fruttata più “timida”: questi forse gli aspetti più evidenti dopo la degustazione di 27 campioni (9 dei quali non ancora imbottigliati). Un ulteriore comun denominatore è rappresentato poi dall’acidità: ben presente nella stragrande maggioranza dei millesimi, non solo ha reso piacevolmente scorrevole la beva durante l’esame gustativo, ma
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ha lasciato la sensazione che quest’annata potrà probabilmente dare il meglio di sé con il tempo. E d’altronde il giudizio di quattro stelle, come più volte sottolineato degli organizzatori, non vuole essere definitivo, ma “un primo punto di vista”. Vini, quindi, nel complesso, nervosi, con punte di eccellenza di valore assoluto all’interno di un panorama composto anche da vini rustici. Discreta l’estrazione, vivace e varietale l’aromaticità olfattiva. VENDERE TAURASI: DIFFICILE QUANTO PRODURLO Si è parlato anche di questo, non senza una certa concitazione da parte del pubblico che affollava le sale dove il giornalista Luciano Pignataro moderava il dibattito tra enologi, produttori e giornalisti. Il Taurasi non è un vino semplice da vendere: spesso scontroso in gioventù, si colloca sul mercato a prezzi simili a quello di denominazioni che negli anni sono riuscite a costruirsi un appealing di maggior fascino. Tolti subito dal campo eventuali tentazioni di modifica della base ampelografica locale, che si poggia, come è giusto che sia, sull’aglianico, molti hanno sottolineato l’importanza della comunicazione nella valorizzazione, non solo del vino irpino, quanto dell’intero comparto agroalimentare locale e campano nel suo insieme. Si tratta, però, di decidere come comunicare, ed una volta trovata la formula giusta, di essere in grado di fornire strutture ricettive che possano accogliere i turisti nel cuore del paesaggio taurasino, ancora vergine e dal fascino rurale. I mezzi non sembrano mancare, se, come ha poi espresso il sindaco di Taurasi, di ritorno dagli Stati generali del vino di Avellino, in svolgimento proprio nei giorni antecedenti l’anteprima, verranno stanziati dalla Regione Campania, importanti fondi. Si tratta ora di avere progetti seri, da realizzare nel minor tempo possibile.
MASTER AGLIANICO: VINCE STAFFA Il suggestivo borgo di Taurasi, in provincia di Avellino, ha ospitato, a inizio primavera, lo svolgimento del primo master sull’Aglianico promosso dall’Associazione nazionale in collaborazione con la sezione campana e con il Consorzio di Tutela dei Vini dell’Irpinia. Il concorso, riservato a sommelier professionisti e non professionisti di tutta Italia, ha visto trionfare, a margine di due giorni di gara serrata e avvin▲ La commissione cente, Davide Staffa. Il sommelier emiliano, classe ‘67, ha strappato per un soffio la vittoria ad Angelo Di Costanzo, il campione regionale campano, che si è piazzato a pari merito con il collega Salvatore Correale. Palcoscenico della gara è stato il Castello Marchionale, imponente fortezza di origine longobarda attorno alla quale è raccolto l’abitato del piccolo irpino, patria dell’omonima Docg e sede dell’Enoteca regionale campana. Ad accompagnare l’intero week end, culminato con la proclamazione del vincitore, è stata un’atmosfera di grande partecipazione e festa. “Ho ricevuto una accoglienza davvero calorosa“ ha raccontato Davide Staffa. “Al mio ritorno – ha continuato - ho scritto ai colleghi campani per congratularmi con loro per la perfetta organizzazione del concorso. Tutto è stato curato nei minimi particolari con grande professionalità”. Articolata e impegnativa, la scaletta delle prove scritte, orali e di servizio sulle quali si sono confrontati i quindici concorrenti partecipanti a questa prima edizione, di fronte alla commissione composta da Roberto Gardini, Vincenzo Ricciardi, Nicoletta Gargiulo e Pino Savoia. Chiari nel disegno dei promotori del Master, gli obiettivi dell’iniziativa: offrire un momento di approfondimento agli associati sui vini a base Aglianico e sui territori di riferimento. Due sopra tutti: la Campania, regione nella quale questo vitigno è il più coltivato tra quelli a bacca rossa; e la Basilicata. Irpinia e Vulture, dunque, terroir che, pur nelle loro specificità, sono unanimemente riconosciuti come i più vocati per la coltivazione dell’Aglianico che ivi si esprime con grande finezza, potenza ed eleganza. “L’idea – ricorda Antonio Del Franco, presidente dell’Ais campana – è nata un paio d’anni fa. Il progetto ha preso corpo pian piano. L’entusiasmo con cui lo ha accolto il Responsabile nazionale ai concorsi, Gardini, ci ha dato ulteriore stimolo a perfezionarlo e a farne un’importante occasione di promozione di un territorio, quello irpino, che offre un’opportunità irripetibile di conoscenza di
esaminatrice
▲ Davide Staffa, vincitore del primo Master Aglianico
questo vitigno, in quanto è l’unico a disporre di un archivio di documenti e bottiglie che risale ai primi anni Ottanta. Questo materiale è indispensabile per studiare per una gara cosi’ impegnativa”. Con il concorso dell’Ais, l’Aglianico, che già sul fronte della produzione è inserito tra le perle dell’enologia nazionale grazie ad un gran numero di aziende che si esprimono a livelli d’eccellenza, entra a far parte di un circuito permanente di approfondimento e studio per i sommelier italiani. Un destino che l’Aglianico condivide con Sangiovese, Sagrantino, Nebbiolo. Sono questi, infatti, gli unici vitigni ai quali, finora, l’Associazione ha deciso di dedicare un concorso monotematico. Felice si è rivelata, poi, l’intrecciarsi della prima edizione del concorso con “Anteprima Taurasi 2005”. Mentre Staffa veniva proclamato vincitore, centinaia di winelover e di addetti al settore accorrevano al castello di Taurasi per l’annuale appuntamento con il re dei vini irpini e del Sud a base Aglianico, quest’anno classificato con un “ottimo” da parte della commissione di enologi che lo ha valutato a fine febbraio. Nato in Romagna il 12 gennaio 1967, Davide Staffa ha iniziato a frequentare i primi corsi Ais nel 1996 ed è diventato sommelier professionista nel 2000. Dopo aver maturato diverse esperienze come sommelier in diversi ristoranti della provincia di Ravenna - tra i quali La Scottona, Elfo delle Rose, Caffè della Rotonda, Vista mare – oggi presta attività di consulenza nel campo del vino. Il Davide pensiero: “Amo i piccoli produttori che lavorano per passione, per bisogno, con fatica. Quelli dalle mani screpolate dal freddo, macchiate dai mosti, che girano fra le vigne, che si sporcano i piedi, che sudano e soprattutto che finiscono i vini perchè ne fanno poco. Non ugualmente le grosse aziende del business del vino in grande scala”.
(Monica Piscitelli)
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Degustazioni
LA DEGUSTAZIONE
Vi riportiamo le note di degustazione di alcuni dei campioni 2005 di Taurasi, già imbottigliati, che ci sono sembrati più convincenti e degni di nota, omettendo, volontariamente, quelle relative ai campioni da botte. Non che non siano emerse indicazioni interessanti, anzi, ma non comunque sufficienti, come è giusto che sia, per stilare un giudizio più compiuto. La degustazione, ospitata presso le sale del Castello Marchionale di Taurasi, ha messo a disposizione agli oltre 50 giornalisti italiani ed esteri, anche una interessante batteria di aglianico più giovani, soprattutto delle annate 2007 e 2006, che ricadono nel cappello delle denominazioni Irpinia, Campi Taurasini e Campania, nonché una breve retrospettiva di Taurasi delle annate precedenti.
Cantine Lonardo Contrade di Taurasi – Taurasi 2005 – Taurasi (Av) Campione di razza, tra i più convincenti dell’annata in questo momento. Piccola l’azienda, a conduzione familiare con 5 ettari di proprietà e vigneti su terreni vulcanici, ma grande la ricerca e la sperimentazione, con l’obbiettivo di raggiungere espressività di terroir. Note terrose ed orientaleggianti con sfumature sottili di frutti al naso. Bocca di grande tensione, fresca, minerale, con un rientro sapido e di grande lunghezza. Vino deciso, pulito, di grande eleganza olfattiva.
Di Prisco – Taurasi 2005 – Fontanarosa (Av) Pasqualino Di Prisco conduce praticamente da solo una produzione che raggiunge punte di eccellenza, nonché di rapporto qualità/prezzo, anche tra i bianchi, in particolar modo con il Greco di Tufo, minerale e di grande apertura aromatica, in grado di invecchiare con risultati sorprendenti. Il Taurasi presentato all’anteprima colpisce con il suo attacco floreale di bella finezza, cenni di sottobosco ed un frutto delicato. Bocca nervosa, fresca, con qualche nota verde da verificare nella sua integrazione futura, ma nel complesso più che buon equilibrio.
Molettieri – Taurasi Vigna 5 Querce 2005 – Montemarano (Av) Nata nel 1995, l’azienda condotta da Salvatore e Giovanni Molettieri possiede circa 11 ettari, tra i quali anche il vigneto “Cinque Quercie”, posto a circa 600 metri di altitudine, con esposizione sud-est e su terreni argillosi-calcarei. La precisione stilistica, sia al naso, sia in bocca, è oramai una delle cifre di questo aglianico, a metà strada tra modernità e tradizione: anche in questa annata si presenta con note fruttate ben mature, integrate con il balsamico del rovere ed un quadro dolce e pronto già in questa fase. Fresco e snello, riesce a coniugare con armonia prontezza di beva, corpo e pienezza estrattiva.
Tenuta Cavalier Pepe – Taurasi Opera Mia 2005 – Sant’Angelo all’Esca (Av) New entry e subito un buon risultato. Condotta da Angelo Pepe e sua figlia Milena, l’azienda possiede 35 ettari quasi completamente occupati dalla vite, tra i comuni di Luogosano, S. Angelo all’Esca e Taurasi, tra i 350 ed i 500 metri con esposizione a sud, sud-est. 18 i mesi in barrique, 12 quelli in bottiglia. Tanto succoso, con tannini di bella trama ed ottima freschezza in bocca, quanto floreale e delicato nella sua componente fruttata al naso. Un ingresso che si fa notare, da seguire con attenzione.
Tecce – Taurasi Poliphemo 2005 – Paternopoli (Av) Altra novità: il Taurasi di Luigi Tecce, prodotto in 2500 esemplari, affinato per 12 mesi in carati e barrique, sia nuovi sia di secondo e terzo passaggio. Attacco dolce, di buona maturità, con un frutto che ricorda la ciliegia, ben fuso con le sfumature balsamiche e dei piacevoli cenni mentolati. Discreto l’allungo finale con una buona freschezza fa da contraltare ad un tannino potente, da assestarsi ancora, ed un retrogusto lievemente amarognolo.
Il Cancelliere – Taurasi Nero Né 2005 – Montemarano (Av) Non chiarificato, né filtrato, fermentato senza l’ausilio del controllo della temperatura, torchiato a mano ed affinato in grandi botti di rovere per 24 mesi. Questi i dati di uno dei Taurasi più originali presentati durante l’anteprima. Terroso, con note di incenso, canfora ed un frutto di espressività quasi timida, di bella freschezza e pulizia. Fine la trama tannica, ottima la freschezza.
Mastroberardino – Taurasi Radici 2005 – Atripalda (Av) Storica azienda irpina, non ha certo bisogno di presentazioni. Tre i vini presentati in questa anteprima (oltre al Radici 05, anche il Campania Aglianico 07, il Taurasi Naturalis Historia 05 ed un Taurasi Riserva Radici 03). Attacco decisamente speziato, con note di zenzero e chiodi di garofano. Bocca di discreto slancio, ben sorretta da un centro bocca di buona avvolgenza ed un tannino di grana fine . 66
Musei del vino
Dal
vino alle erbe,
tutto il meglio della natura
L’ABOCA MUSEUM DI SANSEPOLCRO, IN PROVINCIA DI AREZZO, È DEDICATO RIMEDI NATURALI: SI POSSONO TROVARE OLTRE MILLE TESTI DI BOTANICA E
AI
UNA COLLEZIONE DI BILANCE DA FARMACIA
di Letizia Magnani ici vino e pensi ovviamente alla bevanda per eccellenza. Ma nella storia il vino ha assunto numerose forme, prima di diventare essenza in grado di avvicinare gli uomini alle divinità del cielo: il vino è stato cibo, energizzante e vitale, per chi doveva fare fatica, in mare o nei campi, e poi anche medicamento e cura. C’è un filo sottile che lega il vino alle erbe e alle spezie, ed è per questo che, nel nostro viaggio per i musei del cibo e dei vino, ci fermeremo questa volta in centro
D
Italia, a San Sepolcro, dove viene custodito un sapere che è molto simile a quello del vino e dove sorge l’Aboca Museum, dedicato interamente alle erbe. NON SI VERSI “ALLA TRADITORA” In molte parti d’Italia si dice ancora di non versare “alla traditora”, ovvero di non fare il gesto innaturale di versare il vino ruotando la mano da sinistra verso destra. Era questo infatti il modo col quale veniva versato il veleno dagli anelli ai bicchieri. Da qui, molti dicono, nasce anche un altro gesto, poi divenuto rito, nell’arte del degustare il vino, ovvero quello del cin cin. I bicchieri che si incontrano in aria e che sbattono fra loro per il brindisi nascono, non in segno di amicizia, ma, al contrario, in segno di cattiva fiducia per il proprio commensale. Facendo sbattere i bicchieri fra di loro in aria si riesce a soppesare la quantità del vino nella
▲ La stanza delle erbe 68
▲ La sala dei mortai
coppa, che è tanto più leggera, quanto meno veleno c’è dentro al bicchiere. Sono queste alcune delle antiche storie che racconta il Museo delle Erbe di San Sepolcro, dove è custodita, non a caso, una sala dei veleni. PARTIAMO DAI VELENI Le erbe, come il vino, vengono usate per lunghi anni come medicamento e solo lo speziale sa come tramutare un’erba velenosa in un toccasana. Per questo una delle sale più interessanti dell’Aboca Museum è proprio quella dei veleni. Veleni che, nei secoli, sono finiti più di una volta in una coppa di vino. La potente famiglia Borgia aveva fama di usare il veleno come arma negli intrighi politici. Lo facevano bere, disciolto nel nettare degli dei, agli avversari politici. Anche Shakespeare si serviva dei veleni per creare atmosfere di forte drammaticità: il padre di Amleto viene ucciso con del succo
▲ Un’altra veduta della sala dei mortai
di giusquiamo versato nell’orecchio; Romeo si procura da uno speziale una “droga micidiale” per uccidersi sulla tomba di Giulietta. La conservazione dei veleni richiede il massimo delle cautele. Ma la conservazione e la scelta in generale delle erbe richiede cura, proprio come avviene nella scelta delle uve e nella conservazione dei vini. Per questo le spezie vengono riposte in recipienti particolari, di ceramica, di preziosi metalli o di vetro. Sia le erbe, sia i vini, devono, infatti, anche alla conservazione, una parte del loro valore. IL VALORE È NELLA SCELTA E NELLA CONSERVAZIONE E’ questo che si scopre entrando nelle sale dedicate ai recipienti. I vasa medicinalia si sono via, via nel tempo adeguati alle esigenze di conservare erbe preziose, senza che queste perdessero le loro caratteristiche curative. Si tratta di ceramiche, soprattutto, ma anche di vetri.
▲ La sala della storia 69
Musei del vino ▲ Il bookshop
▲ L’antica farmacia dell’Ottocento
I vasi in maiolica hanno subito nel corso della storia una progressiva fase di miglioramento tecnico, per la necessità di disporre di un materiale sempre più impermeabile, necessario ad evitare la fermentazione e l’irrancidimento dei componenti delle preparazioni medicamentose e migliorare così la loro conservazione. I vasi tuttavia non avevano solo la necessità di essere funzionali, bensì anche quella di essere belli. Per questo, sulle ceramiche, soprattutto dal XII secolo in poi, si ritrovano decorazioni di interesse artistico. Nel tempo, poi, i vasa medicinalia hanno subito anche un’evoluzione costruttiva, per la ricerca di forme sempre più adatte alla conservazione dei medicamenti e all’uso da parte dello speziale. Spicca fra tutte la forma dell’albarello, il più tipico vaso da farmacia dalla particolare forma che richiama una canna di bambù, utilizzato per contenere sostanze pastose ed unguenti. A San Sepolcro sono custodite maioliche davvero belle, fra le quali un albarello del XV secolo dal decoro detto “a occhio di penna di pavone”. Questa rara decorazione è tipica del Rinascimento e conferisce ai vasi una raffinatezza unica. DALLE CERAMICHE AI VETRI Il percorso prosegue nella sala dei vetri. Le erbe vengono conservate nel vetro già in epoca egizia. Si tratta dei vasetti da balsamo, risalenti al II millennio a.C. A quello stesso periodo, non a caso, si datano anche i primi contenitori per il vino. Il vetro è un materiale facilmente modellabile al fuoco e per questo si è ottimamente prestato agli usi in farmacia, compresi i numerosi strumenti per il laboratorio. Con la tecnica del vetro soffiato, dopo il II secolo a.C., iniziò la produzione di oggetti di forme diverse, a seconda dell’uso e del gusto degli artigiani. “I maestri vetrai – racconta la direttrice del museo, Anna Zita Di Carlo - usavano anche smaltare e decorare il vetro, in particolare nel XVII e XVIII secolo, con cartigli ricchi di simbologie alchemiche, motivi floreali, scene mitologiche, religiose o di altro genere”. Per questo, nella sala sono esposte differenti tipologie di vetri, che, a seconda del medicamento da conservare, variano nelle forme e nelle trasparenze: bocce, fiale, vasi, brocche, ma anche strumenti da laboratorio. Fra le curiosità da vedere ci sono i vetri del Settecento con cartigli e scritte apotecarie decorati a mano, ma anche le piccole coppette da salasso. Dal piccolo, si passa al grande. Al museo sono conservati, infatti, anche vetri di grande formato, tra i quali oggetti particolarissimi, come i tiralatte e un raro mortaio in vetro verde. Con l’invenzione del vetro soffiato, prima, e con quella del cristallo, poi (grazie all’aggiunta di calce e gesso in Boemia), i vetri per la farmacia sono diventati sempre più raffinati e rari. L’Italia e Venezia in particolare vantano la leadership per quanto riguarda la produzione della vetreria farmaceutica. 70
▲ L’officina erboristica
LA SALA DELLE ERBE Questo museo è sorprendente, non solo per la quantità e la qualità degli oggetti che conserva, ma anche per l’esperienza sensoriale che si può fare attraversandolo. Oltre ai 1200 testi antichi di botanica e alchimia che costituiscono la biblioteca storica e alla collezione di bilance da farmacia di tutte le epoche, infatti, si può anche entrare in una sala molto particolare, quella delle Erbe. La suggestione deriva dalle fragranze. Le erbe, di diversa specie e natura, sono infatti raccolte in mazzi appesi al soffitto, che fanno un tetto colorato e insolito, ma che, soprattutto, spandono per la stanza un bouquet di profumi di grande impatto emotivo e sensoriale. E’ qui dentro, proprio come in una cantina, che si può fare un tuffo nella memoria, magari chiudendo gli occhi e affidandosi solo al ricordo. Stando sempre al ricordo, allora non sfuggirà come i tempi del vivere quotidiano siano cambiati. Se solo fino a mezzo secolo fa erano i ritmi della natura ad imporsi all’uomo, oggi non è più così. La scienza e la tecnologia, gli strumenti e i mezzi ci hanno reso più autonomi dalla natura, ma è vero quello che si legge sui muri dell’officina alchemica: “Le erbe medicinali sono una forza della natura creata per tutti i viventi” e, di conseguenza, “L’Homo sapiens potrà, se vorrà, trovare in natura i rimedi per tutti i suoi mali”. I RIMEDI SI TROVANO IN NATURA In altri termini, i rimedi si trovano in Natura, ma occorre rimettersi in ascolto. D’altra parte, la raccolta delle erbe iniziava con l’ascolto e con l’osservazione giornaliera del modo di crescere delle piante. L’intento era quello di selezionare quelle più perfette, perché era opinione corrente che queste possedessero le migliori qualità medicinali. Soprattutto si osservava il giusto tempo balsamico, ovvero lo stadio ottimale in cui la pianta raggiunge il massimo contenuto in sostanze attive. Dopo la raccolta si passa alla conservazione, la cui tecnica migliore rimane l’essiccazione, procedimento che elimina l’acqua della pianta senza farle perdere le proprietà curative. Appese in ambienti asciutti ed arieggiati, al riparo dalla luce diretta del sole, le erbe subivano lentamente quei cambiamenti che le preparavano ad essere ridotte in salutari prodotti medicinali. Dopo quest’ultima fase, le erbe venivano conservate in appositi contenitori come cesti di vimini e preziose scatole in legno, decorate con cartigli riportanti il nome della pianta. Nell’Aboca Museum sono conservati numerosi esemplari originali, risalenti a vari secoli. Ma la Natura dava, non solo prodotti, bensì anche indicazioni su come usarli, da qui sono nati alcuni miti e riti, come gesti verbali propiziatori: dalle preghiere, alle invocazioni, passando per i riti gestuali propri della religiosità popolare.
▲ Il laboratorio fitochimico
L’ANTICA SPEZIERIA E L’ARTE DELLA DISTILLAZIONE ALCOLICA Il segreto di tutto, quindi, sta nell’equilibrio fra uomo e natura. Se ne può essere certi assaporando un buon vino, ma anche visitando questo museo, la cui sala forse più interessante è proprio l’officina alchemica. Officina, nel significato originario, vuol dire laboratorio e questo spiega perché qui è ricostruito un ambiente di lavorazione delle erbe del ’600. L’officina è il centro di riferimento dell’antica medicina: vi gravitavano i raccoglitori di erbe, il pestatore, lo speziale, il medico, gli ammalati, ma soprattutto l’addetto all’estrazione della quinta essenza. Ecco perché ovunque è un fiorire di alambicchi, distillatori, forni, fornelli a carbone, grossi mortai, contenitori in vetro per gli estratti, presse, oltre naturalmente alle erbe raccolte in loco ed alle spezie di importazione. In questa sala una nicchia un po’ nascosta, ma molto suggestiva costituisce il luogo dove venivano conservate le “res pretiosae”, cioè i prodotti più costosi e di difficile reperibilità. Tra questi c’erano l’oro, che in passato era considerato un vero e proprio medicamento, ma anche il grasso di vipera, la canfora, lo zucchero, la noce moscata ed altre spezie provenienti da paesi lontani. Qui si conservavano però anche acqua, latte, vino, aceto, grassi vegetali ed animali. E proprio in uno spazio come questo, fra le cose più preziose, è stata sperimentata la prima volta la distillazione alcolica, intorno al X secolo d.C., grazie alla quale si è potuto trasformare le erbe in derivati sempre più complessi ed evoluti. Natura, scienza, tecnica, storia, aromi, tutto si mischia in queste stanze, di grande impatto e, passando dall’una all’altra, si scopre come la ricerca della quinta essenza e della pietra filosofale abbiano fatto parte del sapere e del sapore di questa terra, così come erbe, vino e altre “res pretiosae”, un tempo, come oggi.
Aboca Museum Palazzo Bourbon del Monte Via Niccolò Aggiunti, 75 52037 Sansepolcro (Ar) 0575.733589 www.abocamuseum.it
Oli d’Italia
Fare sistema, lo slogan più amato dagli italiani di Luigi Caricato i è mai capitato di partecipare a un convegno in cui il tema di riferimento fosse il mercato? Nel mondo dell’olio, come evidentemente anche in quello del vino, tali appuntamenti sono piuttosto frequenti, spesso organizzati da associazioni di categoria, enti pubblici, o comunque da realtà paraistituzionali. Ebbene, in tutti questi incontri, il cervello dei partecipanti al tavolo della discussione sembra come esprimere un pensiero unico e condiviso, giacché tutti annuiscono soddisfatti. E infatti questi cervelli fumanti di sapere sembrano dare il meglio di sé, come fossero tanti cervelli di geni riuniti in un conclave, pronti a dare luogo alle migliori performance sulla piazza internazionale. Ed io – credetemi in tutta sincerità – resto basito quando noto che tutti dicono, all’unisono, che: “occorre fare sistema”. Già, da qualche anno a questa parte, ma forse da sempre, lo slogan più amato dagli italiani è: “fare sistema”. Al che, io, per non deludere le aspettative generali, e per lasciare insomma un po’ di speranza in chi ascolta, alle volte me ne sto zitto e faccio finta di nulla, altre volte, invece, quando il fatidico “fare sistema” viene ripetuto più volte, fino all’inverosimile, per ristabilire gli equilibri ricorro all’ironia: “Oddio, non ci avevo pensato”, dico. “Occorre fare sistema! – aggiungo, mentre simulo l’espressione sofferta, che fa sempre effetto. “Accidenti!” – trovo il tempo di dire, che già tutti mi manifestano la propria solidarietà, gonfi di soddisfazione perché loro, i grandi pensatori e strateghi, l’acqua calda l’hanno già scoperta, molto prima di me. E’ suf-
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ficiente che dicano “occorre fare sistema”, e la storia prende un’altra piega. Così almeno credono, costoro. Ma io che non amo le frasi fatte, sono qui pronto a farvi alcuni esempi, di come appunto le parole si rivelino spesso e volentieri flatus voci. Si parla, si parla, ma poi non resta alcun segno concreto, tant’è che l’espressione “fare sistema” sembra che stia sempre e solo sulla bocca degli stolti. Veniamo a noi, dunque. Chi conosce il mio lavoro e la mia dedizione sul fronte del mondo dell’olio, sa bene che ho fatto qualcosa di molto concreto, già solo fermandomi ai molti libri che ho pubblicato, senza dover andare oltre. Ma tra i miei impegni posso con orgoglio ricordare il tentativo di risollevare le sorti di un settore in forte crisi di identità e dal futuro molto incerto, nonostante la grande visibilità che il mondo dell’olio ha guadagnato nel corso degli ultimi anni. Il mio impegno l’ho manifestato anche attraverso l’organizzazione di un tavolo di concertazione tra i vari attori della filiera, che avevo denominato “il Risorgimento dell’olio italiano”, includendo, per la prima volta nella storia, anche figure esterne al mondo della produzione, del commercio e dell’industria. Avevo infatti inserito il mondo della ricerca, dei media, degli agronomi e di altre figure professionali, nonché la stessa Unione nazionale consumatori, in prospettiva di una successiva apertura al mondo della ristorazione, ma niente. Obiettivo mancato, seppure quasi raggiunto. Il fatto è che l’Unaprol e l’Aifo – in rappresentanza rispettivamente dei produttori e dei frantoiani – hanno deciso di sganciarsi e non firmare il docu-
mento programmatico predisposto per l’occasione. Tutto, insomma, è andato a finire in una bolla di sapone, nonostante i miei sforzi nel riuscire a mettere insieme Federolio e Assitol, in rappresentanza quest’ultimi di commercio e industria. Nulla di fatto. L’Unaprol, regista del mancato accordo, si è tirata indietro; ma poi accade che la stessa organizzazione abbia poi presentato al Sol di Verona il progetto “IOO”, acronimo di Italian olive oil, ricalcando in buona parte lo spirito del “Risorgimento dell’olio italiano” da me proposto. Insomma, l’organizzazione più potente dell’olio ha saputo distruggere alla nascita qualcosa che era stato costruito per bene e che aveva un forte senso di coralità, per costruire invece qualcosa di nuovo, mettendo insieme i propri amici (quelli che dicono sempre di sì a tutto, ubbidienti), pronti a puntare sul rilancio del made in Italy e sull’alta qualità. Qualcosa di grosso, insomma; puntando a un progetto che si spera non sia fallimentare come l’esperienza della macro organizzazione commerciale “Oliveti d’Italia”, di cui sono stati artefici di un nulla di fatto. L’assurdo – e qui, credetemi, si tocca proprio il fondo – è che da un lato l’Unaprol ha presentato a Verona il proprio progetto denominato “IOO”; dall’altro lato, il Cno, altra grande storica unione di olivicoltori, ha presentato – sempre a Verona, e sempre lo stesso giorno – un progetto analogo e alternativo a Unaprol. Insomma, come si suole dire, gli olivicoltori italiani dimostrano di essere maestri davvero ineguagliabili nel “fare sistema”. Onore al merito, dunque.
GLI ASSAGGI Nel bicchiere. Verde dai riflessi dorati, è limpido alla vista. Al naso ha profumi vegetali dalle intense connotazioni erbacee. Al palato ha buona fluidità, corpo e struttura, con amaro e piccante che si aprono progressivi e armonici. Sapido, ha un alto potere condente e note di noce e cardo. In chiusura la persistenza del piccante e note mandorlate. L’abbinamento. Gnocchi di patate al timo; insalata di cetrioli freschi; tagliata di vitello alla rucola.
TOSCANA
“Tenuta di Ghizzano” Igp Toscano, è un blend di olive Frantoio e Razzo prodotto da Ginevra Venerosi Pesciolini.
Tenuta di Ghizzano, via della Chiesa 19 56030 Ghizzano di Peccioli (Pisa)- tel. 0587.630096 info@tenutadighizzano.com, www.tenutadighizzano.com
Nel bicchiere. Giallo oro dai riflessi verdolini, è limpido. Al naso ha profumi vegetali mediamente intensi, di sedano e carciofo, con connotazioni erbacee pulite e fresche. Al palato è morbido e avvolgente, di grande personalità, con gradevole ed equilibrata nota amara persistente. In chiusura una lieve punta piccante ed eleganti toni mandorlati. L’abbinamento. Minestra d’orzo e porri; insalata di pesce spada; asparagi fritti in pastella.
MOLISE
“L’olio di Flora” da olive Gentile di Larino in purezza.
Azienda agricola La Casa del Vento c.da Monte, 86035 Larino (Campobasso) cell. 335.8169881, p.di.lena@alice.it
Nel bicchiere. Verde dai riflessi dorati, è limpido. Al naso ha sentori vegetali che rimandano netti al carciofo. Al palato ha buona fluidità e armonia delle note amare e piccanti, gusto sapido e fine, con sentori mandorlati che si percepiscono anche in chiusura, con una punta piccante e sentori di erbe aromatiche. L’abbinamento. Passato di carciofi al naturale; schiacciata di ceci; salmone alle mandorle.
LAZIO
“Sole Sabino” Dop Sabina, è un blend di olive Frantoio, Carboncella e Leccino.
Azienda agricola Sole Sabino di Francesca Pingi, vicolo Mercato Vecchio, 02031 Castelnuovo di Farfa (Rieti) tel. 0765.36385, f.pingi@tiscali.it
Nel bicchiere. Giallo oro dagli intensi riflessi verdi, è limpido. Al naso ha profumi vegetali puliti e freschi piuttosto marcati, che rimandano al carciofo e alle erbe di campo. Al gusto ha corpo e carattere, con note speziate e sensazioni di amaro e di piccante armonici e in forte evidenza. In chiusura le note di mandorla e noce, assieme con una elegante punta di piccante. L’abbinamento. Funghi al pomodoro e basilico; fagioli all’uccelletto; arista di maiale ai semi di finocchio e noci.
UMBRIA
“Lirys” da olive Moraiolo in purezza.
Luigi Tega-Molino Il Fattore, loc. Vescia via dei Frantoi 53, 06034 Foligno (Perugia) tel. 0742.660015, tegalink@libero.it, www.luigitega.it
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Birra di qualità
“dolce” della birra
Il lato
di Maurizio Maestrelli
SPESSO
I BIRRAI
RICORRONO AL MIELE PER DARE UN TOCCO DI PERSONALITÀ ALLE LORO CREAZIONI. IN
BELGIO
MA ANCHE IN ITALIA LA
PRODUZIONE ARTIGIANALE OFFRE DEI PICCOLI CAPOLAVORI
▲ Teo Musso di “Le Baladin”
▲ Beppe Vento del Bi-Du 74
el mondo della birra artigianale oggi si fa tanto parlare delle cosiddette birre “estreme” ovvero di quelle che, per i neofiti, sembrano quasi delle forzature, ma che in realtà, o perlomeno più spesso, rivestono molto più semplicemente l’aspetto maggiormente creativo che ogni bravo birraio custodisce dentro di sé. Luppolature prolungate, affinamenti in barrique, utilizzo di ingredienti a dir poco inconsueti. Stati Uniti, Belgio ma anche Italia offrono un numero assai ampio di queste tipologie. Alcune hanno talmente incontrato il gusto del pubblico da diventare dei nuovi “classici” dell’arte brassicola internazionale. Tuttavia non tutte le birre considerate, a prima vista, “estreme” sono da ritenersi tali. L’errore è facile e scusabile e si spiega con il luogo comune che per fare la birra, qualunque tipo di birra, basti avere dell’acqua, del malto d’orzo, del luppolo e del lievito. Chi segue queste pagine su DeVinis sa che si tratta, appunto, di un luogo comune perché non di solo orzo “vive” la birra, ma anche di frumento, avena, segale o farro, non di solo luppolo, perché di luppoli ne esistono molti e, soprattutto, non dei soli ingredienti “base”. La grande tradizione belga è infatti un ricco tesoro di “addizioni” indovinate: dalle spezie come cardamomo e anice stellato, a frutta come ciliegie e lamponi. Addizioni che potrebbero sembrare, anche qui a prima vista, il frutto di costumi più o meno recenti, stili venuti alla luce grazie all’alta concentrazione di talenti birrari che il Belgio possiede e che ha poi trasmesso al resto del mondo. Una straordinaria eccezione alla regola, ma in verità un’eccezione che ha sempre giocato il suo ruolo nella lunga storia della birra. Quando infatti i primi agricoltori sumeri compresero l’effetto che la fermentazione casuale degli zuccheri all’interno dei cereali produceva, dando vita così alla birra primitiva, iniziarono presto anche a sperimentare ingredienti che potessero, da un lato, migliorare la “magica” fermentazione e, dall’altro, arricchire il sapore stesso della bevanda. Bastò loro guardarsi intorno per trovare gli ingredienti più utili. Frutti comuni come i datteri, ad esempio, oppure il miele. Il miele è stato con tutta probabilità il primo dolcificante della storia e come tutte le cose dolci deve aver attratto subito l’uomo, esattamente come molti altri animali, ma il miele aveva dalla sua anche la capacità di essere altamente fermentabile. Doppiamente utile dunque. Pertanto, quelle che oggi conosciamo come, appunto, le “birre al miele” non sono tentativi di rompere con la tradizione e inventarsi una birra nuova, semmai il desiderio di annodare un virtuale fil rouge tra i birrai dell’antichità e quelli di oggi. Le birre al miele erano senz’altro conosciute e apprezzate da egiziani e da celti, prodotte prima ancora che ci si rendesse conto del formidabile apporto dato dal luppolo, insomma uno stile che ha coinvolto per secoli popoli di cultura e latitudine completamente diverse. E la tradizione è continuata infatti fino ai nostri tempi: in Belgio soprattutto dove non sono poche le etichette che prevedono l’impiego del miele nella ricetta. Alcuni
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marchi sono tra l’altro molto conosciuti anche nel mercato italiano, pensiamo alle belghe Bière des Ours e Barbãr, altri un po’ meno, come la britannica Waggle Dance, ma l’aspetto per noi più interessante è che anche molti birrai artigianali italiani si sono lasciati conquistare dal miele. E con risultati, molto spesso, nettamente migliori di quelli raggiunti, ad esempio, dalle etichette summenzionate. Senza avere la pretesa di essere esaustivi, ma per chi volesse cogliere una buona visione del lato “mieloso” della birra italiana, raccomandiamo alcuni “campioni” che, a nostro avviso, sono irrinunciabili. Iniziamo allora con la Erika del notissimo Le Baladin di Piozzo (www.baladin.it), una delle ultime creature di Teo Musso, che l’ha realizzata con melata di abete e miele di erica, utilizzando i prodotti di quel mago dei mieli che risponde al nome di Andrea Paternoster, ovvero Mieli Thun (www.mielithun.it). Stessa scelta, ossia quella dei Mieli Thun, anche per Beppe Vento del Bi-Du (www.bi-du.it) che per la sua Ley Line ha scelto il raro e costoso miele di corbezzolo. Vanno inoltre segnalate l’ottima Marruca, con miele omonimo, del birrificio toscano Amiata (www.birra-amiata.it), la Zagara, con miele di fiori d’arancio, del sardo birrificio Barley (www.barley.it) e la Melissa, con miele Millefiori, del piemontese Grado Plato (www.gradoplato.it). E, infine, la Nectar, al miele di castagno, frutto delle passeggiate sul Monte Grappa di Fabiano Toffoli, mente creativa del veneto 32 Via dei Birrai (www.32viadeibirrai.com), e della sua amicizia con degli apicoltori della zona. “Quella del miele è una mia vera passione”, ci spiega Toffoli, “tanto che ho praticamente la casa invasa da decine di barattoli diversi. Assaggiandolo mi sono reso conto che ogni miele ha le sue peculiarità e che non tutti erano adatti alla birra che intendevo realizzare. Ho scelto il miele di castagno perché amo fare birre caratterizzate, quasi aggressive, ma sempre particolari. Il miele di castagno si avverte subito al naso, è quasi impossibile sbagliare. La Nectar non vuole essere una birra equilibrata, dove si possono cogliere diversi profumi: ha la sua impronta decisa e solo chi è davvero attento riesce a cogliere sfumature diverse che, peraltro, ci sono”. Insomma, volendo banalizzare, una birra al miele che sa di miele. Di produzione limitata, ma straordinaria, come carattere e come sensazioni. Da provare con dei formaggi, caprini stagionati ed erborinati “decisi”, oppure da lasciar scorrere in gola da sola. Ha il grande pregio, raro nelle birre al miele di matrice belga ma invece assai condiviso tra gli esempi italiani, di non stancare mai. E “segnare un punto” ai maestri belgi in campo birrario non è certo cosa di tutti i giorni.
SCHEDE DI DEGUSTAZIONE Imperiale Carpe Diem
Torbata
Ruby Red
Produttore: Tenute Collesi - Apecchio (Pu) Distributore: D&C (www.dec.it)
Produttore: Almond ’22 - Pescara (www.birraalmond.com)
Produttore: De Koninck – Anversa (Belgio) Distributore: Beer Concept (www.beerconcept.it)
Cogliete anche voi l’attimo con questa birra elegante e profumata, di chiara ispirazione belga. Immediati sono al naso i toni fruttati, di albicocca, una vaga dolcezza che ricorda il miele. Tutto però senza eccessi, con apprezzabile misura. Al palato la frizzantezza è davvero piacevole e il gusto si mantiene equilibrato, il che permette di berne con prolungata soddisfazione. Con primi piatti e sughi di verdure.
Una birra importante questa dell’abruzzese Jurij Ferri, non solo per l’alcolicità notevole, 8,7% vol, ma per le sensazioni avvolgenti che sa donare. Come si intuisce dal nome nella ricetta sono utilizzati malti torbati, ma al di là della nota “fumosa” c’è di più: caramello, miele di castagno, frutta secca… Da fine serata, da meditazione, ma ci si può mettere vicino del cioccolato fondente o, perché no, un buon sigaro.
Produzione mirata alla ristorazione, questa birra firmata da una ben nota birreria delle Fiandre. Colore ambrato molto carico, schiuma fine e compatta, si offre al naso ricca di note di frutta rossa (ribes) e di agrumi. Al palato un inizio dolce, una bella sensazione di miele, poi grande equilibrio, a dispetto di un tenore alcolico di 8% vol, e un finale pulito. Da provare con formaggi morbidi e freschi o con carni bianche. 75
Distillati
Il segreto del buon
gin
DISTILLATO
PURO ED ECCELLENTI INGREDIENTI BOTANICI: ECCO LA FORMULA
PER IL PROTAGONISTA PRINCIPALE DI COCKTAIL E LONG DRINK
di Angelo Matteucci l gin è sicuramente il più diffuso superalcolico al mondo per la sua versatilità ed è prodotto in moltissimi Paesi, spesso per consumi locali. Sono di fatto relativamente pochi i gin di fama internazionale. Il gin in generale è la base di cocktail e long drink che deliziano il palato di molti consumatori. Alcuni scrittori lo hanno scelto come vero e proprio protagonista nei loro libri. Si trova, ad esempio, citato più volte nei racconti di Ernest Hemingway come Di là del fiume e tra gli alberi dove il Gordon’s è il fondamentale ingrediente dei numerosi “Martini” very very very dry (oggi conosciuto come “Alla Hemingway”) bevuti a Venezia dal Colonnello e dalla sua giovane compagna all’Harry’s Bar di Arrigo Cipriani. Il Gordon’s (prodotto dal 1769) è da lungo tempo il gin internazionale più venduto al mondo, presentato in bottiglia di vetro verde ed etichetta bianca per il mercato britannico e con vetro chiaro ed etichetta giallo/rosso/oro per l’esportazione. Negli ultimi anni ha modificato l’etichetta “estera” per evitare le molteplici imitazioni da ogni parte del globo terrestre. Il gin o meglio il genever o jenever nacque in Olanda presumibilmente alla fine del XVI secolo e si diffuse lungo le vie delle spezie nord europee. Dobbiamo ricordare che le spezie erano particolarmente richieste per la con-
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servazione dei generi alimentari prima dell’era della refrigerazione. In passato le merci viaggiavano prevalentemente via mare e la tradizione del gin è quindi legata all’utilizzo di ingredienti stagionati. Nacquero distillerie nelle città portuali di Olanda, Inghilterra Francia e Germania. A Londra ebbe il maggior sviluppo dove prese il nome di Geneva o gin e diventò in seguito London Dry Gin. Nella città di Plymouth, sulla Manica, nacque nel 1793 la distilleria omonima quando l’Ammiragliato britannico iniziò a fornire la Reale Marina di agrumi per prevenire lo scorbuto. Il Plymouth gin fece parte delle provviste di bordo della Reale Marina Britannica a partire dalla prima metà dell’800 e divenne ben presto famoso in molti Paesi del dominio britannico. Recentemente Plymouth è
Ernest Hemingway cita più volte il gin nel suo romanzo “Di là dal fiume e tra gli alberi”
stato introdotto nuovamente anche alla gradazione alcolica di 57° definita Navy strength. I gin classici sono prodotti con alcol di finissima qualità da cereali, barbabietola da zucchero o melassa al quale sono aggiunti gli ingredienti botanici per un’ultima distillazione in alambicco discontinuo con conseguente estrazione degli aromi. Bombay Sapphire, prodotto in Gran Bretagna, ha un sistema differente di distillazione con l’estrazione degli aromi nella parte finale dell’operazione tramite il vapore alcolico. La composizione degli ingredienti per la produzione del gin varia secondo la scelta del produttore. La base per tutti è composta dalle bacche di ginepro con una speciale richiesta per le italiane o della ex Jugoslavia. Si aggiungono altri elementi tra i quali citiamo le scorze degli agrumi, quali limone, arancia amara, arancia dolce, lime, mandarino, clementina, pompelmo provenienti dai Paesi del Mediterraneo, Messico ed i Caraibi. Semi di cardamomo dall’Estremo Oriente, radici di angelica dai Paesi Bassi, rizoma di giaggiolo dalla Toscana, semi di coriandolo dalla Russia, cassia dall’India, mandorle dalla Turchia ed altri. Gli ingredienti, vengono selezionati e stagionati nei magazzini delle distillerie fino a 18 mesi per un maggior controllo sulla qualità. Nel 2000 dall’Inghilterra è stata introdotta sul mercato la nuova qualità Tanqueray 10, creata in base ad un diverso criterio; oggi la frutta anche tropicale viaggia con mezzi più veloci giungendo a destino pochi giorni dopo il raccolto. Fu deciso pertanto di unire a purissimo alcol agrumi freschi come arancia, pompelmo e lime, tagliati a spicchi oltre a particolari elementi botanici anch’essi freschi. L’infuso è quindi distillato nel piccolo alambicco tradizionale numero 10 utilizzato per quasi mezzo secolo per sperimentare partite limitate. Il risultato è un nuovo tipo di gin, più fragrante e fresco rispetto alla qualità tradizionale. Simile scelta è stata fatta alla distilleria spagnola Larios cui oltre alla qualità tradizionale creata nel 1866 si è recentemente aggiunto Larios 12 che comprende dodici ingredienti tra i quali risaltano per freschezza ed aromi citrici ben sei qualità di agrumi. In Francia segnaliamo Cidatelle Gin prodotto dal 1771 a Dunkurque sulla Manica da distillato di frumento e, unico al mondo, con ben 19 ingredienti botanici che lo rendono complesso ed equilibrato. Negli Stati Uniti abbiamo principalmente due tipologie differenti di
produzione: tipo London Dry Gin definito Hard Gin e American Dry Gin (soft). Seagram’s è il più conosciuto in Nord America con il classico Extra Dry e la qualità Reserve coadiuvati da una serie di gin aromatizzati. Gli italiani sono buoni consumatori di gin: molti scelgono la marca favorita tra le più conosciute. Una richiesta generica lascia al barman la libertà di scelta che potrebbe essere negativa essendo il mercato del gin composto anche da prodotti anonimi di qualità scadente. Anche nel nostro Paese domina il Gordon’s Dry gin seguito a distanza da Bosford, Larios, Bombay Sapphire, Tanqueray, Beefeaters e Gilbeys. Un capitolo a parte è dedicato ai prodotti consumati lisci secondo la più antica tradizione del Benelux e del Nord Europa. In Olanda si trovano produzioni di Jenever con un numero limitato di ingredienti. I maggiori produttori sono Bols e De Kuyper. Quest’ultimo fondò la sua distilleria nel 1695 e già nel 1827 esportava la maggior parte dei suoi prodotti alla famosa Azienda Mathew Clark di Londra che provvedeva a distribuirli non solo in Inghilterra ma in tutte le colonie britanniche. Le qualità più vendute sono due Jonge e Oude ed hanno un tenore più basso di alcol (37,5°) rispetto al gin in generale. Alcune sono ancora imbottigliate in recipienti di terracotta. Bols ne commercializza una chiamata Corenwyn. La differenza tra le tre tipologie è dovuta alla quantità di distillato di cereale prodotto in alambicco discontinuo (moutwjn) almeno il 2% per la qualità Jonge, oltre il 15% per Oude ed oltre il 50% per Corenwyn. Il rimanente alcol proviene da distillazione continua. Infine si trova sul mercato la specialissima qualità Schiedam Moutwjngenever in purezza (100% distillato in alambicco). In Belgio si trovano le Graanjenever di Hoorebeke, fondata nel 1740, Peket DeHouyen e Smeets. Infine in Germania sul Mare del Nord troviamo la produzione di Dornkaat, un distillato particolarmente delicato.
Il Martini Dry faceva parte delle 6 ricette fondamentali del “The Fine Art of Mixing Drinks” di David A. Embury, del 1948. La ricetta proposta da Embury era la seguente: 7 parti di gin inglese 1 parte di vermouth (dry)
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Acqua
Si fa presto a dire di Davide Oltolini bbiamo già parlato su queste pagine della corretta definizione di acqua minerale e delle caratteristiche che la differenziano dalle altre tipologie di acque, non trattate, di sorgente, e quelle trattate, quelle degli acquedotti (le cosiddette “acque del sindaco”) e le acque purificate. A nostro avviso appare, però, utile, per il sommelier, un particolare approfondimento sulle molteplici peculiarità che contraddistinguono e differenziano le acque definite, appunto, minerali rispetto a quelle delle restanti tipologie. Ricordiamo che queste ultime, per essere considerate tali, devono ottenere il riconoscimento da parte del Ministero della Salute e vengono identificate, come recita il decreto legge 399 del 4 agosto 1999 con quelle acque che “avendo origine da una falda o giacimento sotterraneo, provengono da una o più sorgenti naturali o perforate e che hanno caratteristiche igieniche particolari e, eventualmente, proprietà favorevoli alla salute”. Per quanto riguarda tale riconoscimento il relativo decreto prevede, in riferimento alla parte chimica, quattro analisi consecutive stagionali il cui risultato deve necessariamente confermare che la composizione delle suddette acque è, assolutamente, conforme a quanto previsto dalla normativa. L’origine profonda delle acque minerali è garanzia di purezza e di sicurezza sotto il profilo igienico. La particolare configurazione delle fonti dovrebbe, inoltre, garantire in qualsiasi periodo dell’anno le medesime caratteristiche chimico – fisiche, nonché le medesime caratteristiche e sensoriali. La composizione di un'acqua minerale è definita da ben 48 parametri la cui tipologia è indicata dal Decreto n. 542/92, modificato con il più recente D.M. 31 maggio 2001 ed, ulteriormente aggiornato con il D.M. del 29 dicembre 2003, che stabiliscono la ricerca e la determinazione sia dei principali componenti delle acque, sia dei possibili contaminanti delle stesse, oltre ai limiti massimi di concentrazione di alcune sostanze. L’etichetta, secondo il D.Lgs 105/92, deve almeno riportare come informazioni e diciture: 1) "Acqua minerale naturale", con l'eventuale aggiunta di indicazioni riguar-
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danti il livello di gasatura, 2) la denominazione dell'acqua e il nome della località d'origine, 3) i risultati dell'analisi chimica e fisico-chimica, che vanno aggiornati almeno ogni 5 anni, 4) la data in cui sono state eseguite tali analisi chimiche ed il laboratorio che ha eseguito le stesse 5) il contenuto nominale del recipiente (che in Italia non può, comunque, essere superiore a 2 litri) 6) il titolare del provvedimento di autorizzazione all'utilizzazione 7) il termine minimo di conservazione e 9) la dicitura di identificazione del lotto di produzione. La Circolare n. 19 del 12 maggio 1993 del Ministero della Sanità riferisce, invece, i parametri chimici e chimico-fisici che devono essere obbligatoriamente indicati in etichetta come gli elementi caratterizzanti l'acqua minerale espressi in mg/l, compresi gli elementi contaminanti o indesiderabili eventualmente presenti, la conduttività (cioè la conducibilità elettronica, la quale dipende dalla quantità di sostanze con carica elettrica, ovvero gli ioni, disciolte in essa), il residuo fisso (la quantità, solitamente indicata in milligrammi, di sali minerali presenti in un litro d’acqua fatta completamente evaporare alla temperatura di 180°), il ph e la CO2 libera alla sorgente (fatta eccezione per le acque minerali sottoposte a trattamenti consentiti, che comportano la variazione di tali parametri). La circolare n. 19 non specifica, però, con esattezza cosa si intenda per elemento caratterizzante, il che può consentire la commercializzazione di acque con etichette in cui non vengono indicati alcuni elementi, comunque rilevanti, quali, ad esempio, il sodio ed i nitrati. Il D.M. 11 settembre 2003 prevede, invece, che in etichetta vengano riportate indicazioni riguardanti il contenuto di fluoro e l’eventuale trattamento con aria arricchita di ozono. In particolare le acque minerali naturali la cui concentrazione di fluoro è superiore a 1,5 mg/l, devono riportare in etichetta “Contiene più di 1,5 mg/l di fluoro: non ne è opportuno il consumo regolare da parte dei lattanti e dei bambini di età inferiore a sette anni”. Tale dicitura deve figurare nell’ immediata prossimità della denominazione dell’acqua, in caratteri nettamente visibili. Le acque minerali naturali sottoposte a trattamen-
acqua… to con aria arricchita di ozono devono menzionare in etichetta, in prossimità dell’indicazione della composizione analitica, la dicitura: “Acqua sottoposta ad una tecnica di ossidazione all’aria arricchita di ozono”. Ma quali sono le operazioni ammesse su di un’acqua minerale? La captazione, la canalizzazione, l’elevazione meccanica, l’approvvigionamento in vasche o serbatoi, la separazione dagli elementi considerati instabili come i composti del ferro e dello zolfo. Tali trattamenti vengono effettuati tramite decantazione, termine caro a noi sommelier (ovvero tramite sedimentazione per gravità) o per filtrazione. Il termine captazione, che deriva, evidentemente, dal termine captare, identifica il prelievo di acque dall'ambiente. Tale prelievo può essere effettuato in superficie, ad esempio da fiumi e corsi d'acqua, magari attraverso una derivazione, o in profondità da falde raggiungibili tramite appositi pozzi. Tra le operazioni ammesse vi è, inoltre, l’eliminazione parziale o totale dell'anidride carbonica libera, nonché l’incorporazione o la reincorporazione dell’anidride carbonica stessa. Il tutto va, ovviamente, effettuato mediante procedimenti ben precisi. I trattamenti non ammessi sono, invece, quelli di potabilizzazione, quelli che comportano l’impiego di sostanze battericide o batteriostatiche e qualsiasi altro trattamento suscettibile di modificare il microbismo dell'acqua minerale naturale. Per potabilizzazione si intende l’insieme dei trattamenti a cui viene sottoposta l’acqua, prelevata da un pozzo o da un invaso superficiale, quale un lago, un fiume o un torrente, per essere resa conforme a quelli che sono i parametri, ovvero le caratteristiche chimiche e fisiche perché possa essere consumata senza danno per la salute, determinati dalle normative vigente. Per ciò che concerne la confezione delle acque minerali un tempo questa era unicamente in vetro. Attualmente nel nostro paese ne esistono di tre differenti tipologie. Oltre al vetro vi è, infatti, anche la plastica, ovvero il PVC, cioè il cloruro di polivinile, polimero plastico formato da una catena di molteplici unità di cloruro di vinile monomero, costituite dall'unione di etilene e cloro
ottenuti, rispettivamente, dal petrolio e dal sale marino. Sempre afferenti alla tipologia comunemente definita plastica abbiamo le confezioni in Pet, cioè il polietilene tereftalato o polietilentereftalato, resina termoplastica adatta al contatto alimentare (come da Direttiva 2002/72/CE della Commissione Europea e successive modifiche 2004/19/CE). Si tratta di un materiale particolarmente apprezzato per il confezionamento, sia dal punto di vista estetico rispetto ad altri materiali plastici, sia per il suo grado di resistenza meccanica (la capacità di resistere a “forze” esterne senza subire rotture o modifiche di forma e la dimensione) che per quello di permeabilità ai gas. Il Pet, diffusosi a partire dagli anni Ottanta è, attualmente, impiegato in Italia per i tre quarti del totale delle bottiglie di minerale. Una tendenza comune a molti Paesi, tranne che in Germania dove, grazie all’uso ancora particolarmente radicato del vuoto a rendere, il vetro mantiene ancora una supremazia anche dal punto di vista quantitativo. Oltre che nei confronti delle altre materie plastiche il Pet deve il suo successo proprio ai vantaggi che gli vengono attribuiti nei confronti dell’impiego del vetro, ovvero il peso inferiore, l’infrangibilità, i minori costi di produzione ed i considerevoli risparmi in fase di stoccaggio e di distribuzione. A tal proposito basti pensare che un autotreno di medie dimensioni è in grado di trasportare circa 19.000 litri di acque in vetro o, in alternativa, ben 26.500 litri di acque in plastica. I formati delle bottiglie sono da litri 2, da litri 1.5 , da litri 1 e da litri 0.5, oltre ai formati da litri 0.33 e da litri 0.25 creati nell’ottica di sostituire il consumo dell’acqua “al bicchiere” ovvero “sfusa”. E’ necessario ricordare che i water coolers, ovvero i cosiddetti “boccioni”, possono contenere sia acque trattate, cioè acque di acquedotto ed acque purificate, sia acque di sorgente, ma, per legge, non possono contenere acque minerali. La terza tipologia di confezione, oltre al vetro ed alla plastica, che ha, comunque una diffusione di gran lunga inferiore rispetto alle precedenti, è quella in cartone politenato, maggiormente conosciuto al grande pubblico con il termine di “brick”. 79
Italiani nel mondo
Londra il gelato parla italiano
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BUSINESSMAN
CHRISTIAN ODDONO
HA APERTO UNA GELATERIA
E I LONDINESI FANNO LA FILA PER GUSTARE LE SUE SPECIALITÀ ARTIGIANALI
di Stefano Tura* agli austeri palazzi del potere finanziario della City agli allegri vicoli di South Kensington per deliziare i sudditi di Sua Maestà con succulente coppe di gelato. La storia di Christian Oddono, esperto di “corporate finance” diventato il gelataio più premiato e osannato di Londra, è tutta da raccontare. Mentre la crisi finanziaria devasta la City e i mercati crollano, gli inglesi fanno la fila per comprare il cono al pistacchio siciliano o alla nocciola piemontese. E il merito è tutto suo e della sua infallibile lungimiranza. Dopo una laurea alla Bocconi, Christian sbarca nella capitale britannica e grazie al suo talento ottiene un impiego di prestigio nella City come direttore per la ricerca sull’attività azionaria di una famosa società finanziaria. Il lavoro va a gonfie vele. Sono gli anni del boom economico e Christian è avviato verso una luminosa carriera nel mondo della finanza. Ma dentro di sé continua a coltivare un sogno che insegue da oltre dieci
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anni: diventare imprenditore, aprendo una società legata al mondo del cibo e degli alimenti di qualità. Così, mettendo a frutto la sua esperienza nelle ricerche di mercato, Christian capisce che a Londra, capitale europea dove si può trovare veramente di tutto, ciò che manca è una gelateria artigianale di qualità. Si toglie la giacca e la cravatta, si rimbocca le maniche, trova un partner, Marco Petracchini, ex manager delle caffetterie “Starbucks” e il gioco è fatto. Nel 2004 a South Kensigton, nel cuore della Londra più esclusiva, nasce la gelateria “Oddono’s” che oggi è divenuta una catena con quattro punti vendita e la prospettiva di trasformarsi in franchising. Abbiamo incontrato Christian nella sua gelateria alle spalle del “Victoria and Albert Museum” in un pomeriggio assolato di fine aprile per farci raccontare, tra un cono e una vaschetta di vaniglia, fragola e cioccolato, i motivi di questa scelta e il segreto del suo successo.
Perché proprio il gelato? “Il gelato è una passione che ho sin da bambino, da quando mia nonna faceva il gelato alla vaniglia sul fornello. Sono cresciuto con questo odore penetrante in cucina…” E a Londra c’era lo spazio per una gelateria italiana? “Sì, mi sono accorto subito che non c’era il buon gelato artigianale italiano e ho capito che si poteva sfruttare questa opportunità”. ▲ Marco Petracchini e Christian Oddono sono stati premiati al Great Taste Awards 2008
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Quest’idea come è cresciuta, come si è sviluppata? “L’idea è stata quella di cercare di col-
mare un vuoto d’offerta. All’inizio era poco più di un hobby, poi ho conosciuto Marco, manager di Starbucks, e insieme abbiamo aperto questa gelateria. In poco tempo da hobby si è trasformato in un vero e proprio business in costante crescita”. Ma passare dal mondo della finanza a quello della gelateria è un salto piuttosto azzardato. Non crede? “Diciamo che io mi sono sempre considerato un imprenditore prestato alla finanza. In realtà durante il mio lavoro precedente di corporate financing e di head of research ho approfondito il settore marketing e mi sono
▲ Marco Petracchini e Christian Oddono
certamente serviti gli studi e l’attività precedente per creare e sviluppare quest’azienda del gelato”. Le è risultato difficile aprire quest’impresa? “No, anzi è stato molto facile perché la Gran Bretagna e Londra in particolare sono il luogo ideale per iniziare questo tipo di attività. Tanto per darle un’idea, la società a cui ho dato vita è una Limited Company, l’equivalente di una Srl. L’ho creata su Internet spendendo 50 sterline con una sterlina di capitale e in tre giorni mi sono arrivati tutti i documenti. In più il governo britannico, che ha avviato un piano per sostenere la giovani imprese, mi ha offerto un contabile o un consulente legale, del tutto gratuitamente. E’ una situazione un po’ diversa dall’Italia…”.
re un prodotto di qualità come veniva fatto una volta, con ingredienti freschi e selezionati. Noi siamo molto attenti a fare un gelato di qualità, per esempio usando il pistacchio di Bronte, le bacche di vaniglia del Madagascar o la nocciola Piemonte. Non usiamo coloranti perchè secondo noi sono inutili e spesso dannosi”.
espandere il business. Io vedo potenzialità di crescere anche all’estero perché manca secondo me una catena di gelaterie artigianali di qualità a livello internazionale. Abbiamo avuto già richieste dal Medio Oriente e dall'Asia. Tra due o tre anni poi potremmo quotare la società sull'Aim londinese, la Borsa delle piccole aziende”.
La gelateria ha un laboratorio a vista con una grande finestra che permette ai clienti di vedere come viene fatto il gelato. Galen Weston, il miliardario proprietario dei magazzini “Selfridges” ha assaggiato il gelato di Oddono's e gli è piaciuto al punto che ha voluto aprire un punto vendita all'interno del grande centro di Oxford Street. Da allora il numero di gelaterie è cresciuto.
Mentre negozi e ristoranti chiudono a causa della recessione, la crisi economica sembra far aumentare gli affari per le gelaterie Oddono’s. Perché, secondo lei? “Il gelato è un confort food, un prodotto che uno mangia quando ha delle preoccupazioni un po’ come il cioccolato. E quindi chi si trova in cattive acque non va al ristorante, non va in vacanza ma si concede tranquillamente un buon gelato”.
Oddono ha fin dall'inizio deciso di fare solo gelati e sorbetti artigianali, senza usare conservanti o coloranti, neanche quelli naturali, e senza ricorrere all'utilizzo di semilavorati pronti , come il 95% delle gelaterie italiane.
Chi sono i suoi clienti? “Ci sono molti italiani, molti francesi, ma anche americani e numerosi mediorientali che apprezzano molto il pistacchio, perché è un frutto che nasce dalle loro parti. Poi naturalmente i bambini. Qui intorno è pieno di scuole”.
Lei ha voluto puntare solo su prodotti naturali, senza pensare ai costi. E’ forse questo il segreto del successo della gelateria? “L’innovazione è stata quella di crea-
Dal piccolo negozio del quartiere la sua impresa si sta allargando. “Sì, il progetto iniziale non era quello di fare una gelateria e basta, il mio intento era di creare un format per
Non c’è il rischio che il gelato prima o poi si sciolga? “Beh, speriamo di no, o forse speriamo di sì perché se si scioglie significa che fa molto caldo. Quindi ci auguriamo che finalmente il caldo arrivi anche a Londra e che la gente abbia sempre più voglia di cibi freschi e di qualità”.
* Corrispondente Rai da Londra
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Gocce
Un sorso di
cultura
di Valentina Pillot ■■■ UN PRETESTO DI VINO Stava acquistando una bottiglia di vino, gesto che per il mondo occidentale fa parte della più innocua quotidianità, quando è stata arrestata dalla polizia iraniana. È successo alla trentenne giornalista americana Roxana Saperi. Fermata con un pretesto (quello, appunto, dell’acquisto di alcol in un paese musulmano, per di più compiuto da una donna) la reporter è stata successivamente incriminata per presunto spionaggio dalle autorità di Teheran. ■■■ UNA SPESA GENIALE All’origine del primo cannocchiale creato da Galileo Galilei, c’è una lista della spesa. Una ricerca stabilisce infatti il valore di un documento manoscritto di Galileo conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze e finora sottovalutato, il quale segna l'avvio della costruzione dello strumento. È una lista della spesa, appunto, scritta dallo scienziato alla fine del novembre 1609 sulla parte bianca di una lettera ricevuta da Ottavio Brenzoni. Galileo si recava a Venezia per fare spese e, insieme a ciò che serviva per la vita quotidiana, annotò alcuni materiali con i quali realizzerà il telescopio protagonista delle sue rivoluzionarie scoperte. Con il vino, lo zucchero e il cappello per il figlio ci sono, infatti, la canna d'organo di stagno, i vetri spianati e le palle d'artiglieria per lavorare le lenti. ■■■ UNA FIGURA EMERGENTE Al lusso non c’è limite. Soprattutto se si parla di pezzi unici e altamente personalizzati. E a questa legge del mercato non sfugge un bene trasversale come il vino. Quando infatti possedere la bottiglia
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pregiata non basta più, il passaggio successivo per i vip (soprattutto americani) porta direttamente nelle vigne toscane dove, da qualche anno, sta dilagando sempre di più un nuovo servizio “su misura” per il cliente disposto a non badare a spese. Cliente cioè capace di fare avanti e indietro dagli Stati Uniti per una decina di volte con il solo obiettivo di creare, grazie alla figura superspecializzata del “wine consultant” (un assistente enologico che le migliori cantine gli mettono a disposizione) il bouquet che più si avvicina al proprio gusto personale. ■■■ UN’ANALISI IMPERIALE Federico II è stato un cultore dei piaceri della tavola e aveva trovato, in Puglia, terreno fertile per sviluppare ricette tra le più raffinate dell’epoca. Alcune delle quali arrivate fino ai giorni nostri sotto forma di piatti tipici locali (i cavatelli, per esempio) e addirittura internazionali (le crespelle, erroneamente attribuite alla cultura culinaria francese). È proprio lo Svevo (protagonista di una delle nostre interviste immaginarie, vedi “De Vinis” n. 85) a essere considerato l'antesignano della gastronomia meridionale e pugliese. Lo ha sottolineato, analizzando il Liber de coquina e il Meridionale, due famosi ricettari del periodo, Anna Martellotti, docente di Storia della lingua tedesca all'Università di Bari, nel suo lavoro "I ricettari di Federico II”. «La cucina del Mezzogiorno di Federico è la migliore di tutta l'Europa, eccelle anche su quella francese ancora arretrata», è la teoria della docente. Per avere un’idea di quanto tenesse in grande considerazione l’aspetto del gusto, basti ricordare i preparativi del Colloquium di Foggia dell'8
aprile 1240. Per l'occasione (l'assemblea di tutti i funzionari, giustizieri e dignitari regi) Federico ordinò 200 prosciutti dall'Abruzzo, 100 barili di vino siciliano, 500 montoni calabresi e 600 forme di cacio siciliano. Una curiosità: anche durante gli spostamenti in Italia settentrionale, Federico si faceva mandare gli approvvigionamenti dal Sud perché sulla sua tavola, ovunque egli fosse, non potevano mancare vino, prosciutto, pasta e olio, rigorosamente Doc. ■■■ UNA LAUREA POCO SOBRIA Alla prestigiosissima università di Cambridge, in Inghilterra, il rito di iniziazione delle matricole è tutto tranne che contenuto. Lo ha rivelato il giornale degli studenti dell’ateneo, Varsity, e tra i riti troneggia uno smodato consumo di alcol. Un paio di esempi? Bere quattro pinte di birra e ingurgitare il naso di un maiale (il tutto in tre minuti), o ingerire sette portate di cibo intervallate da una bottiglia di vino ciascuna.
Terremoto
Abruzzo,
ecco cosa rischiamo di perdere di Massimo Di Cintio e si dovesse scegliere soltanto una tra le tante considerazioni che sono state fatte in relazione alla tragica vicenda del terremoto in Abruzzo, non v’è dubbio che quella maggiormente evidente sia stata la dignità espressa dagli abruzzesi. E’ una caratteristica peculiare di questo popolo fiero che nella sua storia ha saputo sempre reagire, agli oppressori come alle calamità, senza per questo essere mai arrogante e provocatore. Dunque non è un caso che l’Abruzzo sia definito “forte e gentile”: forte nel rimanere aggrappato alla sua terra e alle sue tradizioni, gentile nell’accogliere i visitatori e nell’offrire quello di cui dispone. E non è un caso che questa sia considerata tra le regioni che meglio abbia saputo conservare tanto il proprio territorio – con oltre il 30% del quale è protetto da tre parchi nazionali, da una dozzina di riserve nazionali e regionali e da numerose oasi è definita la “Regione Verde d’Europa” – quanto le proprie abitudini alimentari, fatte di prodotti e di preparazioni tradizionali (144 sono le voci attualmente inserite nell’Atlante pubblicato dalla Regione Abruzzo) che non sono state influenzati dal volgere dei secoli, ma che anzi in alcuni casi si sono rivelati anticipatrici di tendenze. E’ vero nella gastronomia, visto che la scuola alberghiera di Villa S. Maria è ritenuta la prosecuzione di quel cenacolo culinario che la famiglia Caracciolo avviò nel XVI secolo: oggi questo borgo non è soltanto il luogo dove è nato il patrono dei cuochi italiani San Francesco Caracciolo (al quale il 13 ottobre di ogni anno è dedicata una grande festa culinaria), ma anche il punto di partenza di decine di “munzù” destinati al servizio nelle case nobili e nelle più importanti cucine di tutto il mondo. Ed è ancor più vero in campo enologico: nonostante negli anni ’90 in molte zone d’Italia fu grande la spinta all’inserimento cosiddetti vitigni
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“migliorativi” – intesi per tali i vitigni internazionali più diffusi – la piattaforma ampelografica dell’Abruzzo è rimasta pressoché intatta, basata per il 90% sui due vitigni storicamente più importanti, il Montepulciano e il Trebbiano che danno origine alle due Doc principali, ed è andata via via riscoprendo e rilanciando alcuni vitigni autoctoni diffusamente presenti in molte aree del territorio, come il Pecorino, la Passerina, la Cococciola e il Moscato di Castiglione a Casauria. Oggi il vigneto Abruzzo conta circa 33 mila ettari, concentrati sulla collina litoranea, ma con alcune microzone anche nelle aree interne, nelle piane e nelle zone pedemontane: in particolare, oltre il 75% dei vigneti è coltivato nella provincia di Chieti, seguita da Pescara e da Teramo con circa il 10% ognuna e infine da L’Aquila con meno del 4%. Una provincia, quest’ultima, che è stata la culla del vitigno montepulciano (qui in gran parte coltivato dalla metà del 1700 ai primi del 1900, per poi svilupparsi quasi per intero sulle colline litoranee) e che in conseguenza del terremoto ha registrato solo qualche danno in alcune strutture di cantina, fortunatamente non così grave da impedire la prosecuzione delle attività. Si evince come la conformazione dell’Abruzzo abbia reso buona parte del territorio naturalmente predisposto alla vitivinicoltura, con i vigneti ubicati tra il mare e le montagne più alte dell’Appennino, collocazione che garantisce infatti buone escursioni termiche tra giorno e notte che, associate ad una buona ventilazione, donano alla vite un microclima ideale per vegetare e produrre uve di straordinaria qualità. Nella grande maggioranza dei casi i terreni hanno una struttura sabbioso-argillosa, generalmente sciolti o di medio impasto, con spessore variabile in relazione alla pendenza e alla esposizione e con bassa ritenzione idrica. Il panorama produttivo vede oggi impegnate circa 170 tra aziende private e cooperative (40 delle quali aderenti al Movimento Turismo del Vino) che nell’ultimo decennio si sono dimostrate capaci di conquistare consensi di critica e di mercato con circa 110 milioni di bottiglie: se da un lato i vini abruzzesi crescono costantemente nel numero di riconoscimenti assegnati sia dai concorsi – da tre anni il Montepulciano d’Abruzzo è la Doc più premiata al Vinitaly e il Cerasuolo da dodici anni conquista almeno due delle tre medaglie a disposizione nella categoria “Rosati doc” – sia dalle guide e dalle riviste nazionali ed internazionali, dall’altro continuamente hanno ampliato il proprio raggio d’azione sul mercato italiano (dove è uno dei vini più venduti negli iper e nei supermercati) e soprattutto all’estero, dove finisce il 50% della produzione. I dati (fonte Ice) dicono che l’Abruzzo ha aumentato il valore delle sue esportazioni da 51 a 78 milioni di euro nel periodo tra il 2003 e il 2008, con una crescita superiore alla media italiana, sintomo evidente di un maggiore riconoscimento del loro valore dei vini: se la metà delle esportazioni sono assorbite in parti quasi uguali da Usa e Germania, l’appeal dei vini abruzzesi è crescente negli altri Paesi del centro (Inghilterra) e del nord Europa, e nei nuovi mercati di 85
Terremoto
Giappone, Brasile, Cina e Russia. Si tratta di risultati che si spiegano prevalentemente con lo straordinario rapporto qualità/prezzo dei suoi vini a denominazione di origine. Se al Montepulciano d’Abruzzo “Colline Teramane” Docg (8 mila hl.) si assegna il ruolo di punta avanzata, la parte del leone la fa il Montepulciano d’Abruzzo Doc (che nel 2008 ha compiuto 40 anni) con circa 800 mila ettolitri nelle due versioni rosso e Cerasuolo, seguito dal Trebbiano d’Abruzzo Doc con 200 mila hl. e dal Controguerra Doc (3 mila), mentre l’ultima arrivata Tullum o Colline Tollesi ha fatto il suo esordio con la vendemmia 2008. Da questi numeri risulta evidente come il vino in Abruzzo, con un volume di affari annuo di 350 milioni di euro (il 28% della produzione lorda vendibile agricola) rappresenti una voce importante nell’economia e un supporto determinante per contribuire ad innescare il meccanismo virtuoso della rinascita dopo il terremoto. Si tratta di un patrimonio produttivo vivace e dinamico che si trova ad affrontare i prossimi anni con tante novità con l’obiettivo di esaltare le singole zone di produzione, per certi versi inesplorate o non adeguatamente valorizzate nelle loro peculiarità. Si tratta di un processo avviato con la vendemmia 2006 con l’aggiornamento del disciplinare della Doc Montepulciano d’Abruzzo il quale oggi prevede la versione “Riserva” e due nuove denominazioni aggiuntive per i vini prodotti nelle sottozone Terre dei Vestini” e “Casauria o Terre di Casauria” (anche per loro c’è la versione “base”, commercializzabile dal 1 novembre 2008 con l’annata 2006, sia la Riserva), rispettivamente nei territori del nord-ovest fin sotto il Gran Sasso, e del sud-ovest fino al confine con la provincia di L’Aquila. Proprio i produttori aquilani non si sono fatti sfuggire l’occasione di esaltare le produzioni di montagna e hanno inoltrato la richiesta di trasformazione delle attuali Igt Alto Tirino e Valle Peligna in sottozone del Montepulciano d’Abruzzo Doc, e la istituzione della nuova Igt “Terre Aquilane o di L’Aquila”; in provincia di Chieti, oltre all’uscita dell’annata 2008 dei vini più giovani targati Doc “Tullum o Colline Tollesi” (che prevede dieci tipologie), si avvierà alla conclusione della procedura per la nuova Sottozona “Teate” per il Montepulciano d’Abruzzo. Sempre nei prossimi mesi il Comitato nazionale vini vaglierà l’istanza per un disciplinare autonomo destinato al Cerasuolo d’Abruzzo (oggi è una tipologia della Doc Montepulciano d’Abruzzo) e per la modifica del Trebbiano d’Abruzzo, che comprende le nuove versioni Superiore e Riserva con almeno 18 mesi di invecchiamento. In itinere, infine, anche la nuova Doc Abruzzo che ricomprenderebbe varie tipologie e la tutela di vini da monovitigno Montonico, Passerina, Pecorino, Cococciola e Malvasia. 86
Eventi
Liguria da bere
Una
di Antonello Maietta
TRE
APPUNTAMENTI
DI GRANDE FASCINO DA SCRIVERE IN AGENDA ARRICCHISCONO LA PRIMAVERA DI SOMMELIER ED ENONAUTI
ai come in questi ultimi anni nel panorama enologico internazionale si dibatte in maniera approfondita sul concetto di cultura del vino. Musica per le orecchie di chi, come noi, fa parte di una fantastica associazione che nei suoi quasi 45 anni di vita ha sempre compiuto il proprio dovere al fianco del vino di qualità, individuando nella formazione e nell’educazione al bere il filo conduttore di gran parte della sua attività. Di esempi messi in campo per far crescere la conoscenza in questo settore se ne possano fare moltissimi: mi permetto allora di analizzare il contributo che l’Ais ha dato alla cultura enologica del nostro paese, prendendo in prestito alcuni modelli di riferi-
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▲ Elisabetta Caviglia, vicesindaco di Camogli, con Pierfranco Schiaffino, delegato agli eventi Ais Liguria
mento con cui ho una certa familiarità perché avvengono nella regione in cui vivo, ma che trovano sicuramente parecchi elementi in comune con quanto avviene in molte altre regioni d’Italia. In Liguria gli appuntamenti della primavera si arricchiscono infatti di tutta una serie di eventi di grande fascino legati al mondo del vino. E’ ben noto che stiamo parlando di una terra in cui l’accoglienza verso questo tipo di manifestazioni è sempre stata piuttosto tiepida. La maggior parte di queste, solo dopo poche edizioni, ha gettato la spugna oppure si è ridimensionata verso traguardi meno ambiziosi ed orientati prevalentemente in un ristretto ambito locale. Sono poche infatti quelle rassegne che hanno radicato la loro presenza in un calendario consolidato. Una di queste è sicuramente VinidAmare, giunta quest’anno alla sua sesta edizione, che si svolgerà a Camogli il 18 maggio. La nostra complicità in questo caso è molto evidente in quanto l’Associazione italiana sommelier ne è stata la promotrice nel 2004 e tuttora figura tra gli enti organizzatori, col comune di Camogli e col Sistema turistico locale delle terre di Portofino. Stiamo parlando di una manifestazione in cui il contesto ambientale della passeggiata a mare del piccolo borgo, dove il rumore discreto dei tappi estratti dalle bottiglie e il fluire lento nei bicchieri di prodotti di grande pregio, degustati sullo sfondo del Mar Ligure, costituisce già di per se un ottimo punto 87
Eventi
▼ Il logo di ''TigullioVino.it''
di partenza. La possibilità poi di degustare i vini delle aziende più rappresentative della regione, sotto lo sguardo soddisfatto dei produttori e con la competente assistenza dei sommelier dell’Ais conferisce un ulteriore valore aggiunto all’evento. C’è stato pertanto negli anni un crescendo di partecipazione ed oggi, grazie alla presenza di circa 80 cantine, VinidAmare si caratterizza praticamente come l’unica rassegna in Liguria che prevede la partecipazione pressoché totale delle aziende di qualità. Probabilmente grazie ad una formula molto snella che per un intero pomeriggio consente tanto agli esperti di vino, quanto ai semplici appassionati, di scambiarsi reciprocamente i commenti sulle caratteristiche di ciascuna tipologia degustata. Quest’anno la manifestazione diventerà ancora più appetibile grazie ad un piccolo preambolo che nelle giornate di sabato 16 e di domenica 17 vedrà protagonista l’entroterra con alcune visite guidate sul territorio che culmineranno alle ore 19.00 con una degustazione di vini liguri rispettivamente presso il Borgo dei Fieschi, nei pressi di Lavagna, ed il Cenobio dei Dogi a Camogli. Inoltre nel corso della manifestazione verrà assegnato il prestigioso Premio VinidAmare Ais Liguria e Comune di Camogli, conferito quest’anno al noto giornalista Franco Ziliani. Faremo appena in tempo ad assimilare le nostre nuove conoscenze che già ci attenderà un altro irrinunciabile evento, dal taglio un po’ più enciclopedico, che spazia dunque su tutta l’Italia del vino, con rapide divagazioni anche all’estero. Lunedì 15 Giugno il Palazzo Ducale di Genova e le splendide sale che nel 2001 hanno ospitato il G8, accoglieranno Terroir Vino, orgoglio di TigullioVino.it e del suo giovanissimo patron Filippo
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Ronco, geniale, competente e poliedrico personaggio del vino con una laurea in giurisprudenza e un diploma di sommelier Ais nel cassetto. La storia di questo evento che Filippo ama definire, con la tipica prudenza dei liguri, “un percorso graduale fatto sempre con i piedi ben saldi per terra”, iniziò praticamente nel 2000, quando la commissione degustatrice di TigullioVino.it, il sito web da lui creato, incominciò a recensire centinaia di campioni di vini inviati dalle aziende italiane. Nel 2002 poi nella pluripremiata trattoria La Brinca, condotta con grande competenza dal sommelier professionista Sergio Circella a Ne, nell’entroterra di Chiavari, prese forma un premio a cadenza annuale, destinato ai migliori vini degustati, occasione tra l’altro di incontro tra la commissione, gli appassionati, la stampa ed i produttori dei vini segnalati. L’eco di un lavoro così serio e capillare impiegò pochissimo tempo a varcare i confini della Liguria cosicché la crescita di dimensioni e di notorietà che negli ultimi anni aveva visto protagonista TigullioVino.it sulla rete, indusse a pensare ad un momento di incontro un po’ più grande rispetto a quello che era stato inizialmente concepito, trasformandolo in un vero e proprio evento sul vino a carattere nazionale. La prima edizione del TigullioVino.it Meeting debutterà quindi nel 2005 tra le mura amiche della trattoria La Brinca e manterrà questo nome fino alla terza edizione, con il consueto obiettivo di portare avanti l’annuale premio e di presentare al pubblico ed agli operatori la selezione delle aziende effettuata dalla propria commissione degustatrice. Il tutto sarebbe servito anche a dare vita ad un momento con maggior fisicità di confronto e di dialettica, in considerazione del fatto che durante tutto l’arco dell’anno i contatti più frequenti tra gli attori della filiera avvenivano
sul web. Nei due anni successivi la manifestazione si spostò per ragioni di spazio e di logistica a Rapallo, presso l’Excelsior Palace Hotel, passando dalle iniziali 30 adesioni della Brinca alle circa 90 della terza edizione. Ma il grande salto avverrà nel 2008, con il trasferimento della manifestazione a Genova nella prestigiosa sede di Palazzo Ducale con poco più di 130 espositori selezionati. Cambia il luogo e cambia anche il nome, passando a quello attuale di Terroir Vino con l’obiettivo di enfatizzare, anche nel nome, l’intimo legame che deve risiedere tra un prodotto e l’ambiente da cui prende vita. Inoltre, lo spirito e la promessa della manifestazione, ossia l’incontro tra il vino, le persone e il web, intendo-
▲ Terroir Vino ospitato nel Palazzo Ducale di Genova
no sottolineare la costante necessità di confronto tra i produttori, gli addetti ai lavori, il pubblico degli appassionati e gli operatori dell’informazione e della comunicazione. Il successo della rassegna, oltre che dalle capacità organizzative di un team collaudato ed affiatato, è garantito anche dal rigoroso criterio di selezione delle aziende partecipanti, operato attraverso il lavoro delle com-
missioni di degustazione. In particolare, tra tutti i vini degustati, vengono messi in evidenza i produttori ed i vini che, oltre all’elevato livello qualitativo ed all’eccellente rapporto tra la qualità ed il prezzo, siano anche riusciti a trasmettere le emozioni più forti, coniugate con il rispetto del vitigno e del territorio di provenienza. Al di là delle mode o del blasone, vengono quindi segnalati prodotti che meritano attenzione per la loro qualità, originalità ed anche fruibilità. L’Ais non è coinvolta direttamente in questo evento, è sufficiente tuttavia scorrere l’elenco dei componenti delle commissioni di assaggio per percepire l’entità del contributo professionale di molti nostri associati. Insomma per un’intera giornata Palazzo Ducale metterà da parte centinaia di anni di storia, vissuti come luogo di potere della Repubblica di Genova e di residenza dei suoi Dogi, per dare spazio ad una serie interminabile di piacevoli e nuove esperienze di degustazione che culmineranno con la consegna di tre premi speciali ad altrettanti produttori intervenuti. Ci sarà infatti un riconoscimento per il “miglior vino in assoluto”, conferito ad un’azienda che nell’ultimo anno di degustazioni si sia distinta per l’elevatissima qualità dei propri vini, per la costanza dimostrata su tutta la linea produttiva, per il rispetto del territorio e per l'utilizzo di vitigni in particolare sintonia con il Terroir della zona di produzione; un altro premio, destinato al “miglior vino per rapporto
qualità/prezzo”, sarà assegnato al prodotto caratterizzato dall’eccellente rapporto tra questi due parametri, senza tuttavia trascurare la tipologia, la zona di produzione ed il numero di bottiglie disponibili; per chiudere poi con il premio “una vita per il vino” destinato ad una persona che abbia dedicato gran parte della propria vita al vino ed al vigneto, con particolare riferimento all’impegno dedicato alla salvaguardia di un Terroir. La continuità con VinidAmare sarà assicurata da uno spazio in cui verrà presentato il libro Vini di Liguria VinidAmare nato dalla filosofia della rassegna di Camogli. Si chiude infine con Liguria da Bere, l’evento organizzato da Regione Liguria ed Unioncamere a La Spezia dal 26 al 28 Giugno. Quest’ultima manifestazione si rivolge ad un pubblico molto eterogeneo e, in tutt’onestà, non ha ancora trovato una sua dimensione appropriata. Da quest’anno è stata richiesta la collaborazione dell’Ais per dare impulso e vitalità alla rassegna attraverso una serie di degustazioni mirate di grande spessore. Sarà quindi molto interessante verificare al termine della manifestazione se anche in questo caso l’impronta dell’Associazione italiana sommelier avrà determinato la differenza. Una serie di date da segnare rigorosamente in agenda quindi, sia per gli operatori del settore sia per il grande pubblico del pianeta vino, per accedere al magico universo dei prodotti che gravitano nel suo firma-
Per informazioni più dettagliate sulle varie manifestazioni: VinidAmare su www.vinidamare.com Terroir Vino su www.terroirvino.it Liguria da Bere su www.speziafiere.it
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Vitigni
E dall’incrocio magico nacque
Albarossa
l’
di Emanuele Lavizzari
NEL 1938 GIOVANNI DALMASSO DA NEBBIOLO E BARBERA FUSE IN UN'UNICA VARIETÀ LE CARATTERISTICHE E LE QUALITÀ DEI DUE VITIGNI PIEMONTESI
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uando si intraprende un percorso enologico in Piemonte è bene tenere sempre alla mano una mappa dettagliata. Perché da queste parti nella miriade di denominazioni e fra le decine e decine di vitigni coltivati non è sempre così agevole orientarsi. E per il momento non ci sono ancora navigatori satellitari che possano venirci incontro per districarci tra le innumerevoli zone e sottozone di produzione. Tra le Langhe cuneesi e astigiane, la pianura alessandrina e la confinante Liguria ecco l’Alto Monferrato e in
▲ Il delegato Ais di Alessandria - Acqui, Giuseppina Raineri, con un gruppo di produttori di Albarossa 90
particolare l’area di Acqui Terme. Qui, a cavallo tra le province di Asti e Alessandria, fanno da padroni Moscato, Brachetto, Barbera e Dolcetto. Ma da qualche anno si sta ritagliando uno spazio importante un vitigno che per troppo tempo era stato lasciato in disparte: l’Albarossa. La sua storia inizia nel 1938 quando il professor Giovanni Dalmasso, uno tra i più autorevoli ampelografi italiani, a quell’epoca direttore della Stazione Sperimentale di Viticoltura e di Enologia di Conegliano, lavora con passione e competenza al miglioramento genetico delle uve da tavola e da vino allo scopo di ottenere vitigni che si adattino alle condizioni climatiche delle regioni settentrionali del nostro Paese. Tra i numerosi incroci effettuati figura anche l’Albarossa, uva a bacca nera con origine genetica Barbera per Nebbiolo che, nelle intenzioni del ricercatore, unisce alle pregevoli qualità organolettiche delle uve Nebbiolo le positive caratteristiche di colore e fertilità del Barbera. Gli studi di Dalmasso, risalenti ormai a più di settant’anni fa e rimasti chiusi per decenni in un cassetto, sono stati ripresi in tempi recenti. Innanzi tutto le ultime analisi del Dna hanno definito l’esatta identità dell’Albarossa: è un incrocio del Nebbiolo di Dronero, genitore paterno, con il Barbera, genitore materno. Nel 1999 la Regione Piemonte ha autorizzato il progetto di sperimentazione del vitigno presentato
Il fascino di Acqui Terme
▲ L'Enoteca Regionale di Acqui Terme
dal Comune di Bistagno sotto la direzione scientifica del professor Franco Mannini del Centro di Miglioramento Genetico della Vite Cnr di Torino. Alla ricerca ha fatto seguito la scelta di alcune aziende dell’area dell’Acquese di impiantare diverse vigne. Da qui la nascita del consorzio “Le Grange di San Quintino”, che si è impegnato a raccogliere il testimone di un lavoro scientifico di selezione per rispondere a criteri di qualità. Una scelta per proporre un prodotto nuovo e originale, ma pur sempre profondamente legato attraverso il Barbera alla tradizione locale. IL VITIGNO E IL VINO Il vitigno Albarossa è di media vigoria con produzione costante e abbondante, buona resistenza alle avversità atmosferiche e media resistenza agli agenti parassitari. Il germogliamento tardivo rende necessario riservargli i vigneti di collina con buone esposizioni. Fioritura media così come l’invaiatura e maturazione tardiva. Il grappolo si presenta medio, corto, piramidale, alato con numero di acini medio e peduncolo corto. L’acino è piuttosto piccolo, corto, ellittico, con la sezione trasversale circolare, di colore blu-nero per l’elevata quantità di pruina. La foglia adulta è di grande dimensione, pentagonale e pentalobata, con la pagina superiore verde scuro e quella inferiore di colore più chiaro. Le viti, decisamente produttive in
L’Alto Monferrato, contrariamente a quanto sembra suggerire il termine, si estende a sud del Basso Monferrato a partire dalla valle della Bormida sino a lambire le pendici dell'Appennino Ligure. Viene delimitato a ovest dalla valle della Bormida di Spigno e a est dalla porzione occidentale della media valle Scrivia. Acqui Terme ne è considerata la “capitale” e deve la sua notorietà ai celebri Dolcetto e Brachetto che la riportano nella denominazione. Il richiamo turistico della città non si ferma però alle sole ricchezze enologiche. Le sorgenti termali e diversi monumenti di rilevanza storica, tra cui i resti di un acquedotto romano, sono motivo di interesse per numerosi visitatori.
Il consorzio dei produttori: “LE GRANGE DI SAN QUINTINO” Il consorzio dei produttori di Albarossa prende il nome dall’Abbazia di San Quintino nelle vicinanze di Spigno Monferrato, non distante da Acqui, e dal termine con cui si indicava un fabbricato rurale adibito a granaio: la “grangia”, per l’appunto. Consorzio “Le Grange di San Quintino” C/o Comune di Bistagno Via Saracco 31 - 15012 Bistagno (Al) Tel. 0144 79106 – 329 47692 somsbistagno@libero.it Per degustare i vini Albarossa potete rivolgervi presso l’Enoteca Regionale di Acqui Terme Piazza Levi, 7 15011 Acqui Terme (Al) Tel. 0144 770273
uva, sono caratterizzate da notevole vegetazione e richiedono un deciso diradamento a beneficio della qualità. Il vino, particolarmente ricco di antociani e polifenoli, si presenta di colore rosso rubino con riflessi e sfumature violacee. Un intenso profumo fruttato si conferma alla degustazione con note di prugna e frutti di bosco. Sapore ampio, acidità medioalta e struttura sostenuta da una buona dotazione tannica che ne determina una notevole persistenza al palato. La sensazione generale è
quella di un vino che possiede grandi potenzialità di invecchiamento. Altra caratteristica significativa, come ci tengono a sottolineare i produttori, è l’elevato contenuto di resveratrolo, una molecola antiossidante, che numerose ricerche scientifiche hanno dimostrato essere un elemento protettivo per il sistema cardiocircolatorio e che al tempo stesso conferisce al prodotto grande longevità. Un giusto abbinamento di questo vino è quello con carni rosse, selvaggina di piume, formaggi stagionati e salumi. 91
Anteprima
La scommessa del
Bardolino
E’
UN VINO PIACEVOLMENTE BEVIBILE, QUOTIDIANO,
CHE GIOCA SULLA SUA FRESCHEZZA
di Maria Grazia Melegari e Fabio Poli a “prima Anteprima” per Bardolino - non è un gioco di parole - è per l’annata 2008 e si è celebrata l'8 marzo scorso nella bella sede della Dogana Veneta nel porticciolo di Lazise. I dati diffusi dal Consorzio fanno riflettere e inducono a pensare che questo possa essere l'anno della svolta per questa realtà vinicola: nel 2007 si è registrato un incremento del tre per cento nella vendita di Bardolino con una vera e propria esplosione del fenomeno Chiaretto (+40% in due anni) contro una riduzione della produzione del quattro per cento. Siamo di fronte a un'inversione di tendenza? La recessione porta all’acquisto di vini meno costosi oppure sono mutati i gusti del pubblico? L’annata 2008 sarà in grado di confermare questo fenomeno? Questi i temi centrali di Anteprima Bardolino 2008. Soltanto alcuni metri separano le aree di produzione del Bardolino dalla Valpolicella, come due fratelli vissuti sotto lo stesso tetto, ai quali la fortuna ha guardato in maniera diversa. Stiamo parlando, della zona veneta maggiormente apprezzata a livello internazionale, il Valpolicella, e di quella che raccoglie nelle sue versioni la prima Docg Veneta, il Bardolino Superiore. La concorrenza tra i muri di casa e la voglia di emergere hanno probabilmente indotto Bardolino a fare di più e a rincorrere il traguardo della Docg raggiungendolo nel 2001. “L’annata del secolo” per l’Amarone era già stata ven-
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demmiata e di lì a poco sarebbe stata commercializzata. Il mercato voleva vini coloriti e muscolosi. Iniziò con fatica la risposta del Bardolino: evolvere conservando originalità, più fiori che frutta, più freschezza che corpo generoso. Ne uscirono vini difficili, non immediati e un po’ scomposti in durezza, ma affascinanti, che poco valgono per i freddi numeri del mercato, ma che hanno fatto parlare le guide: Corte Gardoni Sup. 2006, Munus Sup. 2006 di Guerrieri Rizzardi e Le Fraghe 2007, due etichette che hanno riscosso ottime critiche. Era sicuramente la strada giusta, ma difficile da percorrere, perché forse il mercato non era ancora pronto. Gli anni seguenti non hanno certo incoraggiato questo processo. Il prezzo delle uve più basso ha alimentato la tentazione di inseguire i gusti del pubblico rischiando di perdere una propria riconoscibilità. Ecco arrivare allora qualche incursione di Cabernet che ha confuso non pochi addetti ai lavori, pur trovando qualche favore del pubblico. Ora gli scenari sembrano invece cambiare e premiare proprio chi ha saputo restare più fedele a se stesso. Il Bardolino ritorna ad essere un vino piacevolmente bevibile, un vino “quotidiano” che scommette sulla sua freschezza, sulle sue note variamente fruttate e speziate, senza ricercare un inutile sovrappeso. Per far questo investe con nuovo slancio sul suo profondo legame con il territorio, quello lacustre, con il quale s’intreccia
la sua storia: i pescatori del Garda bevono da sempre Bardolino con il pesce di lago. L’Anteprima alla Dogana di Lazise dimostra che la strada è quella giusta, anche col successo dei numeri: quasi tutte le aziende produttrici presenti e oltre 2000 visitatori. COLOR BARDOLINO Alcuni elementi caratterizzano fortemente questa tipologia di vino e tra questi il colore. Per la versione in rosso il colore “rubino” per molti campioni è brillante e trasparente, quasi mai cupo, per i rosati il tono è il classico chiaretto, dallo scarlatto nelle sue innumerevoli sfumature alle pennellate di cipolla di Tropea, semplicemente color Bardolino. Al gusto tutti i vini sono risultati molto discreti nel corpo e quasi mai eccessivi nel tenore alcolico, di buona freschezza e sapidità, insomma, di ottima bevibilità. Una tendenza che si sta allargando anche alla vicina Valpolicella, ma che il Bardolino, per sua natura, non fatica a esprimere al meglio. Ne fa dei vini da poter godere in spensieratezza, anche per il prezzo (da 3 a 6 euro in cantina). Viene naturale il parallelismo con la Borgogna e, vorremmo aggiungere, non solo per il corpo più snello, ma anche per quelle eleganti sensazioni olfattive di fragola e rosa appassita e vagamente “earthy”, che ci pare di trovare già abbozzate in qualche buon prodotto. Differenti poi gli stili e le interpretazioni che s’innestano sulle caratteristiche delle Unità Vocazionali ben descritte nel Manuale della Zonazione: toni spiccati di spezie, lampone e fragola più a nord, note fruttate di ciliegia verso sud, freschezza più o meno intensa, ma sempre invitante al palato. I VINI DEGUSTATI Il 2008 è un’annata buona per un esordio in anteprima. Le piogge settembrine hanno influenzato in modo evidente il carattere dei vini e in particolare dei rosati: in genere chi ha raccolto prima ha avuto maggiore freschezza, mentre chi ha raccolto più tardi ha ottenuto maggiore morbidezza. Naturalmente meno pronti i vini rossi. Tra i molti vini, circa 150, per ben 64 aziende, alcuni sono più introversi e vagamente "earthy "al naso, ne è un esempio Le Fraghe, (il suo 2007 aiuta a capire dove si vuole arrivare) mai eccessivo nel corpo e di straordinaria beva. Stessa strada per Ronca pur con meno vendemmie alle spalle: un carattere che può anche non piacere ma che distingue e caratterizza l’Azienda. Struttura da vendere ma mai pesante per Giovanna Tantini: colore rubino, naso di ciliegia e viola e nuances borgognone; il 2007 è apparso ancor più elegante e consiglia l’attesa per il 2008. Alla bella e dinamica Giovanna vanno anche i meriti di aver bucato lo schermo e di aver fatto parlare di Bardolino in un momento difficile. Ancora in vasca anche Le Vigne di S.Pietro, rosso rubino abbastanza intenso e di bella struttura. Piacevolmente morbido Il Gorgo: ottimo da aperitivo oppure con piatti che lo consentono. Chiude appena più in freschezza Tre Colline con struttura meno evidente di qualche precedente, ma che proprio nulla toglie alla piacevolezza di beva. Per Raval ecco un rosso rubino scarico, profumo di rosa, tannini dolci e tanta sapidità; in due parole: terribilmente bevibile. Tra le Cantine
Sociali e non solo emerge il Classico Ca’ Vegar: naso che esce in freschezza e ampiezza di profumi, in bocca piacevolmente di medio corpo e ben equilibrato fra sensazioni dure e morbide. Tra i meno equilibrati ma meglio orientati all’abbinamento col piatto, forti anche di una buona lunghezza in bocca, ecco Cavalchina, dal naso elegante e Monte Oliveto fragrante di frutta e spezie. Bene anche Guerrieri Rizzardi (quasi tannico il cru Tacchetto). Da provare anche Monte Saline, che va ricordata come una delle poche aziende che ha creduto nel Chiaretto Spumante Metodo Classico. Le Cantine Sociali da sole coprono il 60% dell’intera produzione di Bardolino. La maggiore freschezza la troviamo nel Chiaretto di Cantina Caorsa; è più equilibrato quello di Cantina di Castelnuovo del Garda e più morbido quello di Cantina di Custoza: tutti comunque offrono ottima sapidità e piacevole bevibilità. Bella sapidità per il rosato di Villanella, morbido e piacevolmente elegante di corpo, con profumo di ciliegia candita e ciclamino quello di Zeni. Fresco, con un tocco di durezza in più, Monte del Fra. Tra i chiaretti più carichi ricordiamo Lenotti dal naso complesso, con note di fragola, appena erbaceo in bocca, pieno e fresco e Costadoro, di color porpora, con tocco di rosa appassita al naso, sapido e piacevolmente leggero. 93
Ais T rentino
Il vicepresidente Ais Antonello Maietta e il presidente Terenzio Medri
Marcello Lunelli, Terenzio Medri, Luca Gardini e Matteo Lunelli
Perlage, quando le bollicine diventano protagoniste di Francesca Cantiani on tutte quelle, tutte quelle bollicine” cantava Vasco Rossi in una sua famosa canzone e il ritornello si addice perfettamente alla prima edizione di “Perlage”, manifestazione interamente dedicata al metodo classico. L’evento di Madonna di Campiglio ha richiamato esperti, appassionati e produttori delle maggiori case spumantische d’oltralpe e di casa nostra, coinvolgendo in modo particolare i sommelier che hanno avuto la possibilità di misurarsi nell’appuntamento clou della manifestazione: il Premio Ferrari per decretare il primo ambasciatore del metodo classico italiano nel mondo. Dodici i concorrenti, tra sommelier professionisti e degustatori ufficiali, tutti molto preparati, motivati e fortemente intenzionati ad aggiudicarsi questo primo concorso Ais dedicato all’universo delle bollicine nobili, metodo classico. Dalla semifinale, che prevedeva un questionario, una degustazione scritta e una prova di abbinamento cibo-vino sia pratica che scritta, sono emersi tre sommelier: Luca Gardini, Nicola Bonera e Gabriele Del Carlo, tutti giovanissimi, dal curriculum professionale importante e ricco di esperienze maturate in locali rinomati. Gardini è
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impiegato nel celebre ristorante Cracco di Milano. Il bresciano Bonera è wine consultant e docente, mentre il lucchese Del Carlo è sommelier presso la famosa enoteca fiorentina Pinchiorri. Nella finale i tre concorrenti si sono misurati in una degustazione di tre metodo classico, nell’accoglienza e presa della comanda, anche in lingua, e nella stappatura e servizio di un metodo classico. Oltre a queste prove, si sono dimostrati essenziali per le valutazioni l’abbinamento di diversi metodo classico, italiani ed esteri, con un menù prestabilito e la correzione di una carta vini metodo classico. La giuria, coordinata dal presidente Ais Terenzio Medri, ha decretato vincitore di questa prima edizione del premio e dunque ambasciatore del metodo classico italiano Luca Gardini. Il sommelier romagnolo ha superato gli altri concorrenti per la grinta, segnale di una buona preparazione e di una tecnica sicura e
anche per quel pizzico di fantasia, emersa soprattutto nelle proposte di abbinamento, che hanno sicuramente incuriosito positivamente la giuria. Il secondo posto è andato a Nicola Bonera e il terzo a Gabriele Del Carlo, che comunque hanno saputo dimostrare una grande professionalità e una forte passione per il vino. «Per me è un grande piacere», ha dichiarato il presidente Medri, «vedere giovani così preparati e innamorati di questo mestiere. Il concorso è un segnale positivo per l’Associazione italiana sommelier, che ancora una volta ha saputo dimostrare la capacità di preparare e di motivare giovani di talento». Insomma la manifestazione di Madonna di Campiglio si è rivelata un vero successo e la presenza di esperti di livello internazionale ha mostrato come la kermesse, fin da questa prima edizione, può considerarsi un punto di incontro irrinunciabile per gli amanti delle bollicine. A farla da padrone, infatti, sono state le degustazioni delle eccellenze, dei fuoriclasse del Classico italiano e delle bollicine straniere più prestigiose, per un totale di venticinque grandissime etichette: dall’Annamaria Clementi 2001 di Ca' del Bosco, al Grand Cuvée Pas Operé Tradizione Bellavista fino al Cabochon Monterossa (in totale
otto etichette nostrane), fino ai più noti Champagne d’Oltralpe, come il Cuvè Sir Winston Churchill 1998 di Pol Roger, e alle bottiglie più rinomate provenienti direttamente dall’Australia, dalla Spagna, dall’Austria e dal Sudafrica. Più di trecento cultori del metodo classico, appassionati ed esperti si sono lasciati trasportare nell’ineguagliabile universo frizzante, guidati da sommelier del calibro di Roberto Gardini, Roberto Bellini, Nicola Bonera e Mariano Francesconi. E poi le tre incredibili verticali, in cui è stato possibile assaporare il meglio delle tradizioni uniche e dei grandi territori viticoli: la verticale di quattro annate Gavi Soldati La Scolca Brut D'Antan - La Scolca guidata da Corrado Cavallo; la verticale di sei annate Champagne Ambonnay Grand Cru – André Beaufort con Jacques Beaufort e infine la verticale di sei annate Trento Doc Giulio Ferrari - Riserva del Fondatore - Cantine Ferrari con Marcello Lunelli. Accanto alle degustazioni ampio spazio è stato riservato all’approfondimento delle tematiche più attuali legate al settore dei grandi classici. Figure di spicco dei vari settori di produzione, tra cui Emanuele Rabotti, Matteo Lunelli e Oscar Farinetti hanno illustrato le diverse prospettive di sviluppo legate all’innovazione delle metodologie produttive, i recenti orientamenti delle scelte viticole e la diversificazione del mercato e dei consumi. Decisamente soddisfatto per il successo ottenuto da “Perlage” il presidente dell’Ais del Trentino, Mariano Francesconi. «Il metodo classico italiano è sempre più autorevole ed esistono enormi possibilità di crescita e di promozione anche all’estero» ha dichiarato. «Il grande riscontro che abbiamo ottenuto dimostra che siamo sulla giusta strada e che la sfida con cui ci dovremo confrontare in futuro è quella di far capire sempre di più le potenzialità delle bollicine, di promuoverne il consumo dall’aperitivo ai pasti e di far affermare all’estero le più nobili tra le bollicine, un altro simbolo dell’eccellenza e dello stile di vita italiano».
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Architetture per il vino
cantina
La è arte, storia e funzionalità di Alessia Cipolla immagine e l'uso del vino sono profondamente cambiati. I mercati ed i consumi si stanno aprendo, allargando, qualificando. Nuove sono anche le motivazioni che spingono il consumatore ad acquistare, degustare, regalare, vendere vino. Oggi quando si esporta e si presenta un prodotto, si esporta anche una cultura, un territorio e un nostro modo di essere: il paesaggio, nella gran parte del territorio italiano, si costituisce come un mosaico di immagini locali, in cui l'agricoltura è storicamente inscindibile dalla forma del suolo, dal clima e dalle produzioni tipiche; esso diventa la rappresentazione di un rapporto equilibrato tra “prodotto” e “contesto di produzione”. Il turismo italiano possiede grandi possibilità non ancora utilizzate: l' enoturismo sembra essere una delle espressioni più efficaci di turismo sostenibile, in quanto l'interesse per il vino e per il territorio vengono trasformati in cultura del prodotto e dell'ambiente. Siamo abituati a vivere il vino dalla parte del fruitore, ma la vera conoscenza del prodotto parte dai suoi luoghi di produzione.
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Risulta quindi sempre più urgente sviluppare e intensificare una cultura dell'accoglienza in cantina e nei luoghi della ricettività, attrezzare le aziende vitivinicole con un maggior numero di posti letto, portare turisti nazionali e internazionali, operatori e giornalisti a conoscere sul posto i luoghi di produzione del vino, i prodotti enogastronomici, la cultura e le tradizioni tessendo una fitta rete di nuovi luoghi d'interesse. Il processo di cambiamento nel mondo del vino è ormai decollato: le strategie di marketing più evolute sono seguite dalle aziende maggiori, ma risulta fondamentale che anche i piccoli e medi produttori vi si dedichino. Negli ultimi dieci anni il tema del progetto architettonico di nuove cantine ha assunto un’ importanza sempre più rilevante: è già stato ampliamente dimostrato che l’investimento nel mondo del vino e nella sua comunicazione o immagine, regala ottimi risultati ed è prevedibile che saranno sempre maggiori le risorse che gli imprenditori riverseranno in questo settore, risorse delle quali beneficerà soprattutto la qualità del prodotto, ma anche l’immagine dell’azienda, per permettere, nel pros-
L’area di fermentazione della Cantina Tenuta Manicor
simo futuro, di rimanere competitivi a livello mondiale. Il progetto di una nuova cantina o di un ampliamento della esistente, magari un oggetto architettonico di grande interesse realizzato da valenti professionisti, può risultare essere il cardine delle strategie di marketing dell’azienda, ma anche il fulcro di una progettualità più amplia che investe il suo territorio e indirizza l’economia dell’area verso nuove e interessanti possibilità. Le nuove cantine devono quindi inserirsi all’interno dello stretto rapporto tra terra e prodotto finale, non compromettendo la bellezza e l’unicità del paesaggio italiano, ma anzi re-interpretando e agevolando lo sviluppo del patrimonio vitivinicolo nazionale. I nuovi progetti non rappresentano solo dei semplici luoghi di lavorazione delle uve necessari ai produttori di vino, ma diventano l’identità del prodotto, un modo nuovo per occuparsi della propria terra dimostrando la cura e la passione per le proprie radici. Una cantina contemporanea non implica l’abbandono della tradizione: le recenti architetture del vino si confrontano con esigenze funzionali moderne e antichissime, memorie tecnico-scientifiche del paese e delle sue identità culturali e materiali, come anche con esigenze tecnologicamente innovative, rispettose dell’ambiente interno e esterno che l’enologia richiede.
Parte con questo numero un percorso conoscitivo delle nuove cantine italiane realizzate tra il 2001 e il 2009 in tutte le regioni d’Italia con il comune denominatore della qualità progettuale e architettonica oltre che del rispetto e della valorizzazione del paesaggio circostante. ■■■ Cantina Tenuta Manicor - Caldaro (Bz) Il conte Michael Goess-Enzenberg rilevò l’azienda di famiglia nel 1991 che allora conferiva l’uva dei propri vigneti alle Cooperative di Caldano e Terlano; in quasi vent’anni di costante lavoro e passione sia in vigna sia in cantina ha raggiunto la grande qualità dei vini Manicor. Attualmente l’azienda comprende 48 ettari di vigneti, frutteti e alcune splendide dimore: è la più grande tenuta dell’Alto Adige che vinifica uve proprie, ancora a conduzione familiare. Il progetto della nuova cantina, un attiguo ampliamento delle antiche cantine Manicor, nacque per volontà del proprietario nel 2001 e si realizzò con l’inaugurazione avvenuta nel 2004 dove l’idea globale della tenuta Manicor, partendo dalla storia familiare e dalla tradizione, trova nella ricerca di una coerenza tra terra, vite, architettura, produzione e vino, il progetto identificativo di un determinato territorio, riconducibile ad un unico e chiaro punto di riferimento.
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Architetture per il vino ▲ Il foyer
▲ La sala degustazione
▲ La Cantina Tenuta Manicor
▲ Il locale vendita
Come i grandi maestri di un tempo ormai lontano, l’architetto incaricato del progetto Walter Aragonese ( assieme a Rainer Koeberl e Silvia Boday) chiuse il suo studio di Bolzano nel 2001 trasferendosi a Manicor, per “sentire” il genius loci, per percepire quindi e comprendere le caratteristiche proprie di un luogo e la sua più profonda identità. È così iniziata l’avventura della costruzione della cantina seguita con passione e grande cura per 3 anni, anni di grandi sforzi e pazienza, sia per il committente come per il professionista incaricato, riuscendo così nel vedere nascere e crescere giorno dopo giorno il progetto del nuovo edificio: una sintonia di intenti che accade solo tra un professionista e un committente illuminato. L’edificio è un progetto ipogeo, una costruzione quindi sotterranea, realizzato scavando per molti metri il terreno adiacente all’antica dimora di Manicor, costruendo il manufatto di 3 piani e successivamente ricoprendo l’edificio con uno strato di terra dove è stato piantato un vigneto.
verso i livelli inferiori della produzione. All’interno l’organizzazione degli spazi corrisponde alla successione dei sistemi di produzione, dove le uve vengono immesse nel processo di vinificazione dal livello più alto e subiscono tutte le lavorazioni necessarie nei piani inferiori. Dopo aver superato il raffinato piccolo locale dedicato alla vendita dei prodotti della tenuta, attraverso una rampa, si entra al piano +1 dove si trovano la zona amministrazione, alcuni locali privati, l’ufficio dell’enologo, la zona degustazione con una magnifica terrazza panoramica sulle vigne e l’area per il conferimento delle uve. Al piano inferiore, il livello 0, troviamo la cantina di fermentazione, la barricaia, il magazzino di stoccaggio, l’imbottigliamento, e il collegamento diretto con le antiche cantine dell’azienda. Al piano -1 troviamo il deposito di macchine agricole con l’accesso dei trattori e la zona pressa e serbatoi. Attorno al manufatto, è stato inserito un corridoio tecnico di ventilazione, un’intercapedine tra la terra e l’edificio, per il controllo della stabilità della temperatura stagionale e del sistema igrometrico di tutto il complesso reso possibile anche grazie ad un avanzato sistema tecnologico. Il vino è un processo di trasformazioni: i materiali utilizzati nel progetto come l’acciaio e il cemento delle strutture sono lasciati liberi di trasformarsi attaccati da microrganismi necessari per la creazione di un microclima adeguato ad una ottima conservazione e rispetto del prodotto. Nuova costruzione non vuol dire eliminare il sapore e il fascino della tradizione.
La nuova cantina è un progetto quindi inserito dentro il paesaggio, nel massimo rispetto per il territorio circostante, un oggetto architettonico che non si espone immediatamente e direttamente al visitatore, ma vuole essere scoperto seguendo un percorso conoscitivo cercato. Gli unici elementi che emergono dalla collina sono i vari ingressi, la sala da degustazione con terrazza e un locale vendita inserito tra la vecchia dimora e l’accesso al nuovo luogo di produzione. Una rampa di scale permette la discesa dal vitigno soprastante l’edificio 98
Terroir
Le grandi eccellenze
Oltrepò
dell’ IL
DIRETTORE DEL
CONSORZIO
ILLUSTRA PROGETTI E AMBIZIONI
DI UN TERRITORIO DA SEMPRE CONOSCIUTO PER I SUOI GRANDI VINI
di Luisa Barbieri arlo Alberto Panont, dal 2004 direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, sul lavoro di soddisfazioni ne può certamente vantare. Ma non nasconde un sogno: creare il terzo pilastro spumantistico italiano legato al Metodo classico a denominazione di origine e che permetta alle produzioni di altre quattro zone disciplinari di casa nostra di primeggiare insieme al Prosecco e all’Asti. Le bollicine sono quelle che nascono a Trento, in Franciacorta, in Oltrepò, dal 1912 la prima zona spumantistica d’Italia, e ad Alta Langa; obiettivo, ampliarne la produzione per portare le attuali 20 milioni di bottiglie l’anno vendute a 70-90 milioni. Un po’ come già successo in Francia dove il Cremant d’Alsazia costituisce una validissima alternativa allo Champagne grazie a una produzione passata da 15 a 60 milioni di bottiglie l’anno. Una bella sfida per il numero uno dell’Oltrepò che della cura di questa magnifica terra ha fatto una delle ragioni della sua crescita professionale. La zona, per sentito dire, la conoscono tutti.
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▲ Carlo Alberto Panont, direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò
Non tutti sanno però che su questa grande fetta di territorio compreso tra Piemonte, Lombardia ed Emilia, con 42 comuni collinari, in estensione a sud del Po, non ci sono altro che splendidi vitigni. Tredicimila ettari di coltivazioni esclusive e di grandissima qualità, da secoli. Dove tutta l’economia rurale si fonda sulla coltivazione del vigneto. 600 le aziende operative, 340 quelle con marchio commerciale; 4.500 le famiglie che vivono grazie a un impiego nel settore. E alla produzione di due ottimi vini: la Croatina, il nome è dell’omonimo vitigno, il più coltivato qui, e il Bonarda. Già il Bonarda: il più venduto in Lombardia, 18 milioni di bottiglie l’anno; il quarto più venduto in tutta Italia. Ma quando si dice Oltrepò non si può non correre col pensiero al Pinot nero, a cui, però, occorre dedicare un discorso a parte. Perché? Intanto perché in Oltrepò, alla coltivazione dei vitigni che producono questo vino viene riservata una superficie che, fra quelle vitivinicole, è la più estesa in tutta Italia: tremila ettari sui
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Terroir ▼ Pinot Nero
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quattromila complessivi. E poi perché vive una fase di massima esportazione negli Stati Uniti, pari a 12/14milioni di bottiglie l’anno, soprattutto dopo l’effetto di Sideways, il famoso film che inneggia a questo splendido vino. Recentemente gli è stata dedicata anche una guida, la più completa mai scritta in tema: è la “Guida all’utilizzo della Denominazione di origine Pinot nero in Oltrepò Pavese”, 200 pagine di informazioni, dedicate soprattutto agli esperti del settore o agli amanti di questa delizia. Il testo permette di scoprire come il Pinot nero sia presente in Oltrepò fin dalla metà del XIX secolo avendo trovato il suo habitat naturale in Rocca dè Giorgi nell’alta valle Scuropasso, ad opera del Conte Giorgi di Vistarino. “Questa guida – spiega Carlo Alberto Panont – è un prezioso strumento di lavoro che racconta una vocazione dalla vigna alla bottiglia, cresciuta sul territorio dopo anni di impegno”. Al Pinot nero viene garantito il marchio Docg, un riconoscimento che,
precisa Panont, si era perso negli anni Ottanta quando le regole commerciali vincevano sui grandi obiettivi di denominazione e che invece restituisce tutta l’importanza di questa produzione. A questo vino viene poi riconosciuto il merito di originare anche uno splendido rosé metodo classico, il Cruasé. E per il quale Panont si dice pronto a dare battaglia alla recente ordinanza comunitaria che ne consentirebbe una produzione, diciamo così, da laboratorio, ottenuta miscelando vini bianchi e rossi anziché da uve o mosti specifici. “Guai – dice Panont – se venisse attuata. Perderemmo la nostra storia di Rosé in tutta Italia”. “Ne discuteremo a Roma – prosegue Panont – pronti a fare, di qui a fine agosto, quando il provvedimento potrebbe diventare esecutivo, tutto ciò che è nelle nostre facoltà per fermarlo”. L’elenco delle eccellenze dell’Oltrepò, dunque, vanta Croatina, Bonarda, Pinot nero e Cruasé. Ma il panorama non si chiude qui: Oltrepò Pavese Riesling, Oltrepò Pavese Pinot Nero vinificato in Bianco, Oltrepò Pavese Rosso, Oltepò Pavese Rosso Riserva, Oltrepò Pavese Barbera, Oltrepò Pavese Pinot nero vinificato in Rosso, Oltrepò Pvase Buttafuoco, Oltrepò Pavese Sangue di Giuda, Oltrepò Pavese Pinot Grigio, Oltrepò Pavese Moscato, Oltrepò Pavese Moscato Passito, Oltrepò Pavese Malvasia, Oltrepò Pavese Bianco, Oltrepò Pavese Cortese, Oltrepò Pavese Chardonnay, Oltrepò Pavese Sauvignon, Oltrepò Pavese Rosato, Oltrepò Pavese Pinot Nero Vinificato Rosato. Una produzione insomma di cui il Consorzio va fiero. E mentre quotidianamente conferma di prestare tutta l’attenzione del caso alla cura dei suoi doveri istituzionali, ufficializzati dal Ministro delle Politiche Agricole, con la certi-
ficazione della filiera produttiva grazie a fascette apposte alle bottiglie, ad alta tracciabilità, per l’ente ecco profilarsi nuovi orizzonti da seguire: in primis, l’estensione dell’area su cui si coltivano i vitigni che producono Pinot Nero a 4mila ettari dai 3mila di oggi, raggiunti negli anni da Panont che al suo ingresso in consorzio, nel 2004, ne trovò 1870. E poi la realizzazione dell’Università del Vino nel Podere Riccagioia di proprietà della Regione Lombardia. Aprirà nel 2010; qui verrà trasferito il corso di tre anni di specializzazio-
ne in viticoltura ora a Milano. Un’eccellenza, insomma che potrà vivere grazie alla collaborazione tra Pubblico e Privato in partnership con le due università di Milano e Pavia. Nei progetti, poi, una volta tutelata da eventuali scivoloni legislativi, per la prima bollicina italiana che nasce da uva rossa, il Cruasé, è prevista una vera campagna di lancio. E 1.500 nuovi ettari da dedicare al Riesling nei dintorni di Oliva Gessi, vecchia zona di produzione dei vini bianchi in Oltrepò, per garantirne la riscoperta.
Vino e marketing
vino “cade” nella Anche il
di Natalia Franchi he Millennials: per i maggiori esperti è il nuovo target su cui affinare le leve del marketing e soprattutto la comunicazione del vino. Giovani americani (dai 15 ai 32 anni) che stanno facendo del vino un elemento indispensabile della loro dieta quotidiana accanto ai cibi. Curioso ma prevedibile che questo guardare “con occhi nuovi” il significato e le potenzialità del vino “ben comunicato” arrivi dagli Stati Uniti. Prevedibile, se pensiamo che l’export del vino italiano - in sofferenza solo nel 2008 dopo un 2007 con il 21 per cento di quota, prima di Francia e Spagna - ha negli Usa uno dei principali Paesi di sbocco. La leadership mondiale del vino italiano è sicuramente mantenuta grazie a un’attenzione al marketing che ha pochi rivali in altri settori del “Made in Italy” e a un oggettivo valore che al vino viene attribuito, anche grazie a una tradizione – anche religiosa – che affonda le sue radici nei secoli. Da elemento simbolico, carico di significato religioso condiviso dalle più diffuse dottrine monoteiste, il vino ha infatti attraversato diversi mutamenti socio-culturali fino a divenire un fenomeno di costume. Quale altra bevanda, a eccezione del pane, può vantare una valenza simile? Elemento simbolico, liturgico e sacrale, il vino ha da sempre assunto, nell’area del bacino del Mediterraneo, una forte valenza culturale e il suo simbolismo è duplice. Il primo attinge proprio all’Antico Testamento ed è comune con la tradizione ebraica. Qui il vino, simbolo per eccellenza di gioia e di festa, è molto importante. Il vino consacra e in ogni occasione lieta si raccomanda di bere vino. In un passo della Bibbia, Dio definisce il popolo eletto (l’ebraico) come i tralci di una vite. Anche il mondo cristiano eredita questa visione, ma l’arricchisce poi con il simbolo del calice eucaristico. “Cristo - ha affermato monsignor Ravasi - affida attraverso il vino la rappresentazione del suo sangue. Il vino e il pane sono dunque i due grandi segni cristiani del Cristo stesso ed è importante notare come siano due elementi propri della quotidianità. Il vino dunque, per la passione
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con cui è fatto, per la storia, ma anche per la semplicità, può essere visto come segno per eccellenza di convivialità e di fratellanza”. Un fenomeno quindi che ha progressivamente modificato la sensibilità alimentare del consumatore consapevole, ora sempre più impegnato nella ricerca della qualità nel bere. Come si è arrivati a tale risultato? Quali sono stati gli strumenti adottati per il suo raggiungimento? Qual è lo strumento intentato o poco sfruttato volto a rendere ancora più efficace la comunicazione del vino? Si è ricorsi in gran parte a mezzi extramediali come le fiere enogastronomiche, le degustazioni e le visite nelle cantine. Poi al mezzo tradizionale della stampa (in particolare specializzata). Raramente alla televisione, mai al cinema. Il grande assente o quasi? Internet e le sue enormi potenzialità di diffusore di stili e consumi, grazie a blog, forum e commercio elettronico. A ciò si aggiunga che le più recenti evidenze decretano una inesorabile crisi della carta stampata: vendite in caduta verticale, riduzioni nette della fogliazione, latitanza degli inserzionisti pubblicitari. Una crisi cui alcuni Paesi europei, come la Francia, cercano di rispondere con finanziamenti statali di tutto rilievo che difficilmente riusciranno però ad invertire la tendenza. La pervasività e gratuità del mezzo Internet rispondono infatti con massima aderenza alle più comuni esigenze dell’utente: raggiungere l’obiettivo rapidamente, da casa e pressoché gratis. La punta di diamante dell’agroalimentare in Italia non può sottrarsi a quella che appare una realtà ormai di tutta evidenza: il media Internet rappresenta il mezzo su cui puntare affinché il vino raggiunga le vette di visibilità e notorietà che il prodotto merita. E come affrontare la nota dolente del consumo eccessivo di vino (e, in generale, delle bevande alcoliche?). Quello che gli antichi riassumevano nella formula in vino veritas e che in tempi più recenti possiamo assimilare alla perdita di coscienza che molti danni provoca al vivere civile e alla collettività?
Rete Anche in questo caso una corretta comunicazione può fare molto. Una ipotesi è che anche il packaging del vino possa contribuire ad arginare il fenomeno. Pare infatti che l'ultima tendenza in fatto di packaging del vino risponda a regole sempre più aderenti al marketing di un prodotto d'élite, per consumatori dai gusti raffinati - certi vini sembrano flaconi di pregiato profumo - implicando in tal modo un consumo moderato e adulto del vino. E’ intorno a questo tema e alla crescente domanda di professionalità che è stato creato, presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Verona e con il sostegno della Fondazione Giorgio Zanotto, il corso di perfezionamento su “Packaging e comunicazione del vino”. Direttore del corso, il professor Diego Begalli che con il professor Davide Gaeta tiene con innegabile passione lezioni per laureati e diplomati determinati a scoprire cosa si nasconde dietro una bottiglia. Il corso si articola in tre moduli didattici: Mercato del vino e Politiche di marca; Politica e Legislazione – come muoversi nel labirinto del sistema normativo; Tecnologie
e Comunicazione. Nell’edizione della primavera di quest’anno, le ore d’aula sono state integrate con interventi di giornalisti, autori di guide, pubblicitari: tutti professionisti che, dai rispettivi punti di vista, hanno contribuito a offrire un quadro completo del rapporto tra il vino e la comunicazione moderna, dal quale poi deriva per linea diretta il rapporto tra il vino e i consumatori. Il percorso formativo risponde a una intuizione non banale, in tempi di oggettiva recessione, laddove ogni tentativo di allineare le proposte formative universitarie alle oggettive e reali esigenze dello studente, non può che essere salutato con apprezzamento. L’annoso scollamento tra mondo accademico e mondo del lavoro, almeno per certe discipline, trova in questa iniziativa un encomiabile esempio di coerenza tra il sapere e il “qui ed ora” delle comprensibili ragioni di ognuno.
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Fumenogastronomia
Vino e sigari italiani: secoli di storia a confronto di Fabrizio Franchi
ino e sigaro? Per maggiore chiarezza è giunto il momento di far capire il perché si prende spesso in considerazione la Toscana con i suoi vini ed i suoi sigari e dunque l’abbinamento sigaro vino, sempre più di moda nel pubblico dei fumenoappassionati. Proprio il sigaro italiano e il vino rappresentano da sempre un binomio indissolubile, fatto di tradizione, di cultura, di secoli di storia. La Toscana è stata capace di offrire a questi due intramontabili compagni il terroir e il clima ideale per esprimere, seppur in contesti diversi, le qualità migliori e una fama internazionale. Oggi è impossibile tracciare una data precisa dei primi incontri/scontri tra vino e sigari naturali e quali etichette venivano prese in considerazione, ma l’abbinamento sigaro vino per antonomasia è rappresentato da sempre da quei grandi vini rossi toscani ottenuti da “Sangiovese” e da quei bitorzoluti sigari toscani ottenuti da “Kentucky”. Possiamo affermare che i “due” oltre a rappresentare nel mondo una eccellente “bandiera di toscanità” sono anche in grado di coniugare una forte tipicità: sigaro TOSCANO® è monocultivar perché prodotto con 100% tabacco Kentucky e da uve Sangiovese in purezza, quindi monovitigno, si ottengono vini di fama internazionale come il Brunello di Montalcino, il Chianti Classico, il Nobile di Montepulciano, il Morellino di Scansano e tanti altri. In Italia si inizia a parlare di Kentucky verso la metà del 1500 quando il fiorentino Niccolò Tornabuoni, ambasciatore del Granduca di Toscana a Parigi, inviò allo zio Alfonso Tornabuoni, vescovo di Sansepolcro, semi di questa varietà di tabacco per usi medicamentosi. Più tardi, alla fine del 1500, arrivano anche le prime indicazioni specifiche sulla tipicità territoriale del Sangiovese sempre grazie ad un gentiluomo fiorentino, Gioanvettorio Soderini, che riportò le prime attestazioni di questo vitigno nel Trattato sulla Coltivazione delle Viti. Ferdinando III e il Barone Bettino
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▲ Le sigaraie di Firenze negli anni Trenta
▲ Ricasoli e Toscano®, un connubio da sperimentare!
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LA SCHEDA
Ricasoli gettarono poi le basi del successo e della storia contemporanea del sigaro TOSCANO® e del vino Chianti proponendo una selezione di varietà di Sangiovese: San Gioveto, Canaiolo e Malvasia bianca. Si era ormai nella seconda metà dell’Ottocento quando si realizzò l’espansione di una forte immagine, sostenuta anche da caratteristiche organolettiche che andavano a formare un sigaro e un vino perfetto dal carattere toscano. Possiamo dunque attribuire al grande ruolo del monocultivar Kentucky e del monovitigno Sangiovese l’enorme successo che ancora oggi sta riscuotendo il sigaro italiano e i blasonati rossi toscani che sono considerati tra i migliori vini al mondo. Alla celebrità dei sigari e dei vini toscani si unisce oggi la diffusione dell’immagine del territorio, della cultura, dell’arte, dell’artigianato, della gastronomia. Oggi sono frequenti gli appuntamenti che permettono ai nuovi fumenogastronomi di avvicinarsi all’abbinamento tra sigaro italiano e vino arrivando a scoprire nuove emozioni come è successo all’ultima kermesse veronese del Vinitaly, in occasione della quale il Fumenogastronomo® ha guidato un abbinamento nel segno della tradizione mettendo a confronto il più equilibrato dei monocultivar, il sigaro TOSCANO® EXTRAVECCHIO, con il più rappresentativo e storico Sangiovese toscano, il Chianti Classico Docg Castello di Brolio di Ricasoli e dulcis in fundo il Vin Santo Castello di Brolio. Per ulteriori informazioni: info@fumenogastronomo.it 105
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Le eccellenze lombarde premiate a Roma
▲ Il Presidente Ais Lombardia Luca Bandirali
Dominare Roma per una sera, abbracciare l’urbe dalla fantastica posizione dell'Hotel Cavalieri Hilton. Quale location più adatta per premiare i migliori vini lombardi? Per la quarta edizione della prestigiosa guida enologica Viniplus 2009, promossa da Ais Lombardia, si è deciso di varcare i confini regionali scegliendo come palco d’eccezione la capitale. L’obiettivo? Diffondere la conoscenza dei vini di qualità della Lombardia e promuovere un territorio che ha fatto della cultura della vite e del vino una sua importante risorsa (il comparto vitivinicolo lombardo, oggi, è uno dei fiori all’occhiello dell’economia nazionale). Così a Roma i 49 vini migliori della guida Viniplus 2009, che hanno ottenuto le 4 rose camune e la classificazione di “eccellente”, sono stati applauditi da 900 appassionati e giudicati da una commissione internazionale che ha assegnato i tradizionali Tastevin d'Oro, d'Argento e di Bronzo e un premio speciale “Il Sano” attribuito all'azienda che, a giudizio della commissione, riassume in maniera esemplare la filoso-
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fia della qualità complessiva. Ma facciamo un passo indietro: come viene preparata la famosa guida Viniplus 2009? Hanno partecipato 167 cantine con 553 bottiglie campione da degustare. 70 sommelier in 4 giornate, hanno compilato oltre 4000 schede e classificato le 49 eccellenze e gli 83 ottimi. Il risultato è una guida di 360 pagine. Torniamo all’appuntamento finale del progetto Viniplus 2009 svoltosi a Roma. Quest’anno per la prima volta i vini sono stati degustati e giudicati da autorevoli professionisti dello scenario enologico mondiale. Tra loro Michèle Shah, Jane Hunt, Thomas llkiaer e Timo Jokinen. Il Tastevin d'Oro lo ha vinto il Valtellina Superiore Sassella Riserva Vigna Regina 1999- AR.PE.PE. Seconda posizione, premiato con il Tastevin d'Argento, occupata dal Lugana Superiore 2004 Ca’ Lojera. Il Tastevin di Bronzo, invece, è andato all’Oltrepò Pavese Pinot Nero Giorgio Odero 2005Frecciarossa. Il premio speciale “Il Sano” è andato alla Casa vinicola Nino Negri; oltre 26 le menzioni speciali ad altrettanti vini scelti dai sommelier come i più rappresentativi della produzione lombarda. Durante la premiazione, Franco Maria Ricci, Presidente Ais Lazio e padrone di casa, ha sottolineato come “l'Ais ancora non abbia mostrato tutte le proprie potenzialità sul versante della diffusione della conoscenza del vino, troppi ancora gli italiani che mancano della cultura del bere bene e consapevole”. Luca Bandirali, Presidente Ais Lombardia, oltre ad aver condiviso l'appello di Ricci a moltiplicare l'impegno di tutte le componenti Ais a crescere insieme, ha ricordato che la premiazione era l'ultimo tassello, forse il più suggestivo di un importante lavoro iniziato in estate per creare Viniplus 2009. Sempre Luca Bandirali: “Il nostro principale obiettivo di partenza era quello di valorizzare e premiare i produttori più sensibili ad un richiamo etico oltre che qualitativo. Con la premiazione delle migliori aziende inserite nella Guida vogliamo ribadire la nostra intenzione di dare un nuovo senso alla parola qualità; un concetto che tiene conto degli sforzi profusi dai produttori in tutte le dinamiche che intervengono nel cammino di produzione di un vino”.
(Carla Bruni)
Il presidente Ais Sicilia Camillo Privitera brinda con il Ministro Giorgia Meloni
A Giorgia Meloni la sommellerie onoraria Il riconoscimento è stato consegnato al ministro della Gioventù dal presidente di Ais Sicilia Camillo Privitera A soli 29 anni è diventata vicepresidente della Camera dei Deputati e due anni più tardi è stata nominata a capo di un dicastero. Giorgia Meloni è il più giovane ministro della storia della Repubblica Italiana e a 32 anni il suo curriculum può fare invidia ai parlamentari più navigati. La Meloni ha recentemente incontrato l’Associazione italiana sommelier a Taormina in occasione di un importante evento istituzionale. Il presidente Ais Sicilia, Camillo Privitera, le ha consegnato l’attestato di Sommelier onorario, riconoscimento da lui stesso richiesto e deliberato dalla Giunta nazionale, per sottolineare l’impegno della politica a favore della formazione professionale dei giovani per un più agevole e rapido inserimento nel mondo del lavoro in Italia e all’estero. Privitera ha ricordato al ministro della Gioventù che l’Ais organizza da oltre 40 anni corsi di formazione che hanno dato lustro a una categoria professionale, fondamentale per l’immagine del nostro paese, in particolare per la valenza turistica che la caratterizza. Il Presidente Privitera ha ringraziato la Meloni per il lavoro svolto e ha auspicato un’attività sempre più intensa rivolta ai giovani e al mercato del lavoro. La cerimonia di consegna dell’attestato si è svolta nella terrazza dell’Hotel Timeo con uno splendido tramonto sul golfo di Taormina a fare da sfondo ed è stata seguita da un brindisi con ottimo spumante, rigorosamente siciliano, a cura dei sommelier Ais.
Camillo Privitera consegna il diploma al Ministro Giorgia Meloni
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Meditate gente, meditate A Perugia torna Excellentia, la più importante manifestazione sui passiti: il vino incontra l’arte nel cuore verde d’Italia
L’Associazione italiana sommelier Umbria organizza dal 12 al 14 giugno la settima edizione di “Excellentia” un evento suggestivo dedicato ai vini da meditazione di tutto il mondo. Il titolo della kermesse vuole sottolineare l’importanza che a livello internazionale certi vini hanno acquisito nel corso della storia e che trovano in Umbria importanti riscontri: le Muffe Nobili di Orvieto, i Sagrantino Passiti, i Vin Santi e le Vendemmie Tardive. La manifestazione è il connubio tra vini e luoghi d’arte e da meditazione, ed è meta di migliaia di eno-turisti in un periodo dell’anno in cui il turismo è protagonista nelle città d’arte e di cultura. L’evento, nato nel 1991, viene organizzato con cadenza biennale e si sposta nelle varie edizioni nei luoghi più suggestivi della regione. La scelta per l’edizione 2009 è stata quella di accentrare l’iniziativa nel capoluogo di regione: l’affascinante Perugia. La manifestazione ha registrato una continua crescita perché nel corso degli anni ha premiato la ricerca della qualità propria dei grandi vini da meditazione: Vendemmie Tardive, Picolit, Passiti, Muffati, Marsala e grandi vini invecchiati oltre a vini blasonati del panorama internazionale come Tokaj Ungherese, Sauternes, Porto e Sherry, che popolano le enoteche di tutto il mondo. Excellentia 2009 nasce sotto buoni auspici non solo perché il pubblico è maturato ma soprattutto perché, in questa nuova edizione, unirà la competenza e la rilevanza di associazioni che da anni operano per valorizzare e promuovere la cultura del vino. La manifestazione costituisce un’occasione importante per tutti coloro che vogliono allargare le proprie conoscenze anche a questo settore enologico, che fino ad ora ha avuto difficoltà a trovare un palcoscenico ideale in cui esprimere le proprie caratteristiche secondo un approccio meditativo e specifico, che le grandi kermesse come Vinexpo o Vinitaly non consentono.
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Oggi, questo vuoto può essere occupato con autorevolezza dall’Umbria che fu la prima ad intuire l’importanza dei vini da meditazione. Excellentia 2009 si realizzerà a Perugia, una delle città più belle d’Italia che, per la sua storia, la sua cultura e le bellezze artistiche, merita ancora una volta, come fu in origine, di essere palcoscenico di questo grande evento. L’anno 2009 prevede un’anticipazione della manifestazione attraverso un’anteprima che si terrà a Perugia, giovedì 11 giugno, in una sede d’eccezione: l’orto medievale dell'antico complesso benedettino di San Pietro che oggi è anche sede della Facoltà di Agraria dell'Università degli Studi di Perugia. L’orto medievale presenta una interessante lettura in chiave simbolica del giardino di un tempo e in special modo in un complesso benedettino in cui vigeva la regola della presenza ininterrotta di acqua. Gli appuntamenti di Excellentia 2009 verranno ambientati in diverse sedi del Complesso Monumentale di San Pietro, sede della Facoltà di Agraria dell’Università di Perugia: i chiostri di San Pietro, l’aula magna della Facoltà di Agraria, i giardini e l’orto medioevale. La manifestazione ruoterà attorno a quattro momenti. L’enoteca permanente. All’interno del Chiostro di San Domenico, nel centro storico di Montefalco, le aziende presenteranno i propri prodotti. Saranno esposti più di 450 vini dolci provenienti da tutto il mondo che potranno essere degustati da tutti coloro che vogliono addentrarsi nel meraviglioso mondo del vino da meditazione. Dolce Friuli. Il Friuli Venezia Giulia sarà ospite speciale in questa prossima edizione. Verranno svelati i segreti dei nettari Friulani (Picolit, Ramandolo, Verduzzo, ecc.) attraverso degustazioni guidate dai vari produttori o esperti del territorio. Inoltre, i vini provenienti dai vitigni più rappresentativi del territorio verranno abbinate, durante una cena a tema, ai prodotti tipici di questa regione, in cui la terra e il sole esprimono tutto il loro carattere. Parliamone. Un calendario di approfondimenti in cui esperti di ogni settore discuteranno su diverse tematiche che avranno
come filo conduttore la storia, la cultura e la tradizione dei vini da meditazione. L’arena delle Degustazioni. Il pubblico, guidato da esperti sommelier AIS in compagnia di produttori ed esperti provenienti da tutta Italia, potrà conoscere e apprezzare le diverse tipologie di vini da meditazione. Le degustazioni saranno denominate in diverso modo in base alla provenienza del vino. Lampi di Genio: momento dedicato a vini provenienti da territori resi unici dall’intervento e dalla genialità dell’uomo; Vini d’ Autore: degustazioni di nettari enologici raccontati ed illustrati dal loro produttore-autore. Compagni di Viaggio: degustazioni tematiche in abbinamento a sapori che ne esaltano le caratteristiche come sigari, eccellenze agro-alimentari, cioccolato, fegato d’oca o pasticceria artigianale. Le Piramidi del vino: momento dedicato alla scoperta e degustazione di vini prodotti con il metodo Soleras. Il Grande Vecchio: degustazioni alla scoperta della longevità dei più grandi vini rossi del patrimonio enologico mondiale.
Gli Indimenticabili: incontro con i vini che hanno fatto la storia del vino da meditazione e considerati introvabili per la loro rarità. Vini che faranno esclamare al degustatore “C’ero anch’io.” Muffa Nobile… un nemico pentito: degustazioni alla scoperta dei più grandi muffati del mondo… Sauternes, Tokaji, Acini Nobili, Muffe di Orvieto… Umbria Cuore Dolce d’Italia: degustazione e presentazione delle dolci eccellenze umbre come Sagrantino Passito, Muffe Nobili di Orvieto, Vin Santi del Trasimeno, Vendemmie Tardive di Orvieto. Cielo… Si è fatto tardi: degustazione e presentazione delle vendemmie tardive più importanti del patrimonio enologico nazionale. In religioso Silenzio: erroneamente tutti i vini dolci sono considerati “vini da Messa”. Finalmente una vera degustazione alla scoperta dei vini autorizzati dal Codice di Diritto Canonico.
Per informazioni: 075 5056053 info@aisumbria.it www.aisumbria.it www.excellentiawinefestival.it
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Pillole ▲ (Da sinistra) Giovanni Gambino, Fabio Sannasardo, Rosario Farina, Benedetto Renda e Caterina Tumbarello Renda, Francesca Tamburello, Giovanni Ruisi, Loredana Tamburello, Luisa Melia, Renato Di Franco
L’Ais Palermo va in rete A tutti gli eno-appassionati che cercano vino anche nel web segnaliamo che la delegazione di Palermo ha attivato da alcuni mesi un proprio sito: www.aispalermo.net. Lo spazio on-line riporta le degustazioni, gli eventi in programma, foto, curiosità e naturalmente le date dei prossimi corsi e i recapiti di riferimento per prendere contatto con il delegato Francesca Tamburello. Recentemente è partito un primo livello a Palermo e si sta per concludere un terzo corso ospitato a Marsala dalle Cantine Pellegrino di Caterina Tumbarello Renda e Benedetto Renda. Invitiamo tutti i “sommelier-internauti” ad aggiungere il sito tra i propri “preferiti”!
▲ Francesca Tamburello e Terenzio Medri
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foto di Loris Vettoretto
I vincitori del premio
Carta dei vini, premiata la Locanda San Lorenzo Secondo i sommelier veneti è la Locanda San Lorenzo di Puos D’Alpago a esibire la migliore carta dei vini, aggiudicandosi il primo posto del premio “Carta dei Vini della Ristorazione del Veneto”. Circa 150 i locali veneti fra ristoranti, osterie, pubblici esercizi ed enoteche, segnalati dalla sommellerie, ma anche dagli agenti Santa Margherita, main sponsor del progetto, per questo premio ideato dall’Ais Veneto per far emergere quei locali che propongono alla propria clientela la migliore offerta dei vini e distillati attraverso la carta dei vini. Gestita da Renzo Dal Farra e dalla moglie Mara Zanon, sommelier professionista, la carta dei vini del ristorante bellunese ha quasi 800 etichette. Non necessariamente vini di tendenza, quelli più importanti ci sono tutti, naturalmente, ma molte sono anche le chicche scoperte conoscendo, in giro per l’Italia, piccoli produttori. Renzo e Mara puntano naturalmente sui vini italiani, ma vogliono valorizzare anche le etichette francesi. Il secondo premio è stato assegnato al ristorante San Martino di Michela Berto, nell’omonima località a Scorzè (Ve), mentre sul terzo gradino del podio è salito Luca Grezzani, titolare, in quel di Noventa Vicentina, del ristorante Alla Busa. La cerimonia di premiazione, a cui ha presenziato il presidente nazionale dell’Ais Terenzio Medri, si è svolta al Vinitaly, nello stand della Regione Veneto che ha patrocinato l’iniziativa. Obiettivo del premio anche ribadire che una carta dei vini correttamente impostata, di facile lettura e completa nell’offerta, dà valore aggiunto al locale. Immagine; impatto emozionale; leggibilità; chiarezza nell’identificazione dei vini; trasparenza nell’indicazione dei prezzi; originalità; professionalità; coerenza e armonia con il locale e le sue proposte culinarie, i criteri con cui sono state valutate le carte dei vini. I primi tre classificati hanno ricevuto una targa del maestro orafo, il veneziano Alberto Zucchetta, personaggio di spicco anche nel mondo enogastonomico.
Gli altri dodici ristoranti finalisti hanno ricevuto una vetrofania da applicare all’esterno del locale con la segnalazione della partecipazione al concorso. Sono: ristorante Da Gigetto, Miane (Tv); ristorante Instabile Scorzè (Ve); ristorante Ilva, Sanguinetto (Vr); ristorante Le Calandre, Sarmeola di Rubano (Pd); ristorante Lavit, Sarmeola di Rubano (Pd); ristorante La Peca, Lonigo (Vi); ristorante Al Borgo, Belluno (Bl); ristorante Sarti, Sorgà (Vr); Locanda Aurilia, Loreggia (Pd); ristorante Bacco D’Oro, Mezzane di Sotto (Vr); trattoria Dal Contadino, Vo’ Euganeo (Pd); ristorante La Marescialla, Montebello Vicentino (Vi). La giuria era formata dal presidente dell’Ais Veneto, Dino Marchi, dal delegato Ais della provincia di Treviso, Arno Galeazzi, da Luigi Francescon (Regione Veneto), da Lorenzo Biscontin (Santa Margherita), da Lino Strambi (Bonaventura Maschio), da Luca Toaldo (Luigi Bormioli spa) e dal giornalista Luca Pinzi. Gli altri partner di questa avventura sono stati Dersut Caffè, Luigi Bormioli SpA e Distilleria Bonaventura Maschio. (Laura Tuveri)
▲ Dino Marchi con i vincitori, Mara Zanon e Renzo Dal Farra 111
Libri
SULLO SCAFFALE PANE, VINO… E ACQUA Autore: Editore:
Don Mario Dalla Via Le Pignole – Colli Iberici
Pane, vino e acqua, i tre elementi essenziali della tavola, sono i protagonisti di questo volume scritto da Don Mario Dalla Via e pubblicato dall'Azienda Agricola Le Pignole di Brendola, in provincia di Vicenza. Storico, archivista e appassionato archeologo, don Mario, ha pubblicato vari volumi di storia locale e sacra. Con Pane, vino...e acqua ci propone un'analisi simbologica dei tre elementi essenziali della tavola. Partendo dalle civiltà della Mesopotamia, il suo studio ripercorre la storia soffermandosi in particolare sulle Sacre Scritture e giungendo fino alla tradizione contadina veneta e ai giorni nostri. Si riscopre così, nel corso dei secoli e tra le righe dei testi sacri, il valore degli elementi che costituirono il nutrimento essenziale per generazioni e che ancora oggi rappresentano un significato profondo per la cultura del territorio. Il libro è stato pubblicato dall'Azienda Agricola Le Pignole mantenendo fede ad un impegno preso il giorno dell'inaugurazione della cantina, nel dicembre del 2006. In quella occasione il sacerdote, chiamato a benedire la nuova costruzione, fece precedere alla formula di rito una riflessione sulla simbologia degli alimenti della tavola. I titolari dell'azienda riuscirono allora a strappargli la promessa di mettere per iscritto quegli studi, prendendo l'impegno di dare alle stampe il libro che ne sarebbe risultato per raccogliere fondi a favore di una causa benefica. La ricerca di don Mario è così proseguita con la raccolta di nuove fonti documentali per arrivare ora alla pubblicazione di un saggio di circa 170 pagine, corredato da immagini e cartografie, a cui si aggiunge una corposa appendice dedicata alle Concordanze pastorali della Bibbia. In tempi di ardenti polemiche su sacro e profano, Stato e Chiesa, politica e religione, un bell’esempio di analisi rigorosa sugli elementi principi delle nostre tavole. Pane quotidiano e… molto altro.
di Natalia Franchi
IL VINO LESSONA Storie di coraggio, passione e orgoglio Autore: Editore: Prezzo:
Alberto Pattono Lineadaria Editore 15,00 euro
Si deve ad Alberto Pattono, sommelier e degustatore Ais questo godibile volume che chiude, idealmente, il percorso di una “trilogia enologica”, dopo Bramaterra ed Erbaluce, del panorama della viticoltura biellese. La trilogia si chiude dunque con un affettuoso tributo al Lessona, il vino Doc biellese più legato al nome e all’identità del luogo d’origine. Deriva dal Nebbiolo, il “principe dei vitigni”, padre di stupendi e meravigliosi figli, capace di assumere sfumature incredibili e diverse a seconda della terra che lo ospita. Un vino che esiste da sempre e che, oltre ad essere espressione del territorio, può diventare strumento di conoscenza e di diffusione di una civiltà, frutto di storia, tradizione e cultura secolari. E’ intorno a numerose interviste, che danno anima al vino, che si snoda la passione di Pattono per il Lessona. Un vino che risale al periodo romano. Una attribuzione temporale comprovata da due prove indirette: la scoperta in Lessona della lapide, detta del sagario, a testimonianza dell’utilizzo da parte di contadini di rozze tuniche in canapa, tessute in loco; e l’esistenza della via Lexonasca, importante strada che collegava Lessona con Mottalciata. Dalla Roma antica, al Medioevo, all’Ottocento, si fa strada l’apprezzamento per questo vino dalle caratteristiche uniche. Un apprezzamento che non risparmiò neppure Camillo Benso Camillo di Cavour, uno dei più importanti personaggi della viticoltura piemontese, che rivoluzionò i processi di vinificazione delle uve Nebbiolo, dal Barolo al Gemme. E che, in qualità di Ministro dell’Agricoltura, del Commercio e della Marina (1850), incentivò attraverso una serie di accordi commerciali con l’Austria (1851) e con la Francia (1852) l’esportazione dei vini piemontesi in questi paesi. Eccoci arrivare al Novecento, nel periodo tra le due guerre mondiali, inframmezzate dal proibizionismo fascista e dalla Fillossera, che rimase nel biellese sino agli anni Venti. Un periodo negativo per la viticoltura lessonese, che ebbe però un autentico fautore nel Monsignore Delfino Maggia, parroco di Lessona dal 1922. Un precursore del Disciplinare di produzione della Denominazione di Origine che vide nella coltivazione del vitigno di questo vino una reale fonte di ricchezza per la nazione. L’analisi storica di Pattono continua ad arricchire le nostre menti e ad alimentare un orgoglio di cui ogni italiano, non solo biellese, dovrebbe farsi portatore. La forza della tradizione, il senso di un paesaggio.
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NOSTRA ECCELLENZA Autore: Editore: Prezzo:
Massimo Cirri e Filippo Solibello Chiarelettere 12,00 euro
UNA VIGNA CHIAMATA SANNIO Autore: Editore: Prezzo:
Manuela Piancastelli Kat 20,00 euro
Non perdetevi questo esilarante volumetto colmo di esempi di “buon vivere” e di una ilarità mai scontata e tarata sul vissuto quotidiano di ognuno. Il merito è di due autori, noti ai più per l’apprezzata trasmissione radiofonica che conducono su Radio 2 Rai, Caterpillar. Profondi conoscitori delle nevrosi e delle manie dei radioascoltatori italiani, Cirri e Solibello ci propongono una imperdibile carrellata di situazioni estreme nella loro paradossalità, ma di ineluttabile quotidianità, ed esempi virtuosi e curiosi di soluzioni degli stessi, adottate da comunità e persone ancora capaci di ribellarsi alla arresa imperante. Parlando della sempre attuale mobilità urbana, che dire dell’idea messa in pratica dal comune di Scandiano, ventitremila abitanti a 10 chilometri da Reggio Emilia, dove i vigili fanno le multe al contrario? Premiando con bigliettini di ringraziamento chi rispetta il codice della strada? Un’azione che apre nuovi orizzonti di interazione sociale, in cui alla repressione si oppone la persuasione, l’incentivo, la carota al posto del mal tollerato bastone. “Luke Skywalker che sconfigge Darth Fener. L’evoluzione della specie”. Passando al tema energia, in tempi di fotovoltaico e biomasse, scopriamo che i vegetali potrebbero sostituire il petrolio. Chi, da piccolo, ha rifiutato con sdegno di mangiare spinaci, carciofi e finocchi, guardi con occhio nuovo e speranzoso l’intuizione del cremonese Professor Fogher; il tabacco, sì, proprio il malvagio tabacco delle sigarette, ha un seme che contiene il 40% di olio, un olio combustibile che si può bruciare per produrre energia al posto del carbone o del gasolio delle nostre caldaie. Un risultato strabiliante che lo stesso ex ministro Sirchia saluterebbe con stupore, dall’irrisorio impatto ambientale, esempio perfetto di riconversione virtuosa di una delle massime fonti del vizio. Al professore e a tutti i protagonisti delle commoventi soluzioni contemplate nel libro, fieri oppositori delle lobbies mondiali va l’accorato suggerimento degli autori: cambiare spesso i tragitti e non dormire più di due notti nello stesso letto!
Storia curiosa quella del Sannio beneventano, la terra più vocata della regione Campania e, ciononostante, totalmente assente dalla storia del vino italiano. A tracciare il profilo di quest’area misconosciuta ed elencare gli oggettivi motivi di tale fenomeno, Manuela Piancastelli, scrittrice e vignaiola, per vent’anni giornalista de “Il Mattino”. A lei il merito di aver compiuto un’operazione culturale di conservazione della memoria. Sì, perché con undicimila ettari vitati, un milione di ettolitri di vino prodotto e oltre 40 aziende vitivinicole, il Sannio è l’unica reale strada del vino della Campania. Eppure i pochi vini citati in qualche testo antico (Pannarano e Cerreto) sono di fatto scomparsi dall’attuale panorama vinicolo. Benché la produzione di uva sia sempre stata una voce importante dell’economia di quest’area, non c’è traccia di vini beneventani nei grandi “cataloghi” del passato. Causa di ciò, la miseria estrema in cui versavano queste terre, che solo da pochi decenni si sono riscattate dalla povertà. L’onerosità della coltivazione della vite impedì infatti vere iniziative imprenditoriali su larga scala, con terreni esclusivamente dedicati alla vigna, laddove invece l’obiettivo dei contadini non poteva essere la qualità ma solo la quantità. Il mutato scenario socio-economico consente ora al sistema del vino beneventano di contare su numerosi punti di forza. In primo luogo la ricchezza del vigneto per estensione e composizione varietale. Poi, la prossimità di infrastrutture di ricerca importanti. In ultimo, le numerose manifestazioni di notevole presa sul pubblico e sul sistema dei media. Ai moderni punti di forza fanno però da contraltare alcune debolezze, da neutralizzare, come auspica l’autrice: l’assenza di aziende leader e quindi l’insufficiente notorietà dei valori vitivinicoli del Beneventano presso il grande pubblico. La fragilità del sistema distributivo e la scarsa coesione della filiera.
C’è chi ci prova.
La riscossa del Sannio.
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Io non ci sto
Cambiamenti di disciplinare a passo di carica, altrimenti decide l’Europa di Franco Ziliani uccedono cose stranissime in questo avvio di primavera che segue quella grande fiera (anche delle vanità) che è il Vinitaly. Il mondo del vino italiano, come preso dal morso di una tarantola, va di fretta, corre, si affanna. Quale la causa di tanta agitazione? La voglia di affrontare e se possibile vincere la crisi, di provare a reagire “aggredendo” i mercati con proposte valide e convincenti dal punto di vista della qualità e del prezzo? Anche, ma ad impegnare soprattutto i produttori italiani, in una sorta di rincorsa affannosa, è la consapevolezza, che diventa quasi affannosa, che dal prossimo primo agosto, in seguito alla riforma Ocm vino, che vedrà le nostre attuali Doc, Docg e Igt trasformarsi, pur mantenendo i nomi con cui siamo abituati a conoscere e chiamare le nostre attuali denominazioni, in Dop e Igp, le competenze in materia di assegnazione di nuove denominazioni, oggi arrivate all’astronomica quota di 470 complessive, passeranno da Roma, dal Comitato nazionale vini, a Bruxelles. Un passaggio di competenze che dovrebbe por fine ad un’epoca che ha portato a una proliferazione incontrollata ed inutile di Doc e Igt dalla portata e dalla diffusione municipale, spesso ignote a soli 50-100 chilometri di distanza (alla faccia del mercato globale), spesso del tutto prive di rispondenza sul mercato. Cosa accade in questi ultimi mesi che ci separano dalla data “fatidica” del primo agosto? Accade che secondo una logica allucinante, un po’ da “ultimi giorni di Pompei” o da “assalto alla diligenza” prima che arrivi lo sceriffo, si continui a chiedere il riconoscimento di nuove denominazioni. Denominazioni la cui “urgenza” e necessità apparivano già dubbie con l’antico regime, ma che diventa ancora più difficile giustificare pensando alla scadenza di agosto… In alternativa, sempre in zona Cesarini, si prova (e talvolta viene concesso, anche a vini la cui notorietà e importanza è tutta da dimostrare) il passaggio dalla Doc alla Docg oppure, nel nome del restyling, del rinnovamento si chiedono, e spesso vengono approvate, modifiche ai disciplinari di produzione. Aggiornamenti sensati, in alcuni casi, ma in altri, a leggere le “spiegazioni”, se così le si può definire, si tratta di ammodernamenti la cui utilità è tutta da dimostrare o che avvengono con procedimenti e sistemi non certo immuni da critiche. Voglio citare solo due casi, tra le svariate variazioni di disciplinare approvate o alle viste, quelle relative al Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene e al Primitivo di Manduria. Con incredibile tempestività al grido di “Salviamo il Prosecco dalle imitazioni!” ci è stato annunciato che a partire dal primo agosto 2009 tutto il Prosecco sarà protetto a livello comunitario ed internazionale come Denominazione di Origine Protetta o Dop.
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Verrà creata un’apposita nuova Doc Prosecco, mentre le storiche Doc Conegliano Valdobbiadene e Colli Asolani diventeranno Docg. Per arrivare a questo risultato, che prevede tra l’altro che il nome dell’uva da cui si ottiene il Prosecco (vino), ovvero l’uva Prosecco venga sostituita da un cosiddetto sinonimo, Glera, così designato da un decreto d’urgenza del Comitato Ministeriale varietà viti, si è deciso di trasformare una Doc sostanzialmente regionale in una Doc interregionale che comprenderà tutte le Province del Friuli Venezia Giulia nonché quelle venete di Belluno, Treviso, Venezia, Vicenza, Padova. Una Doc che prenderà dunque il nome dalla località e non dal vitigno, avendo come capitale non più la Marca Trevigiana da cui il Prosecco (vino) è partito costruendo il suo successo, bensì la località di Prosecco (in sloveno Prosek), frazione di Trieste situata sul Carso a pochi passi dal confine con la Slovenia. Con questo escamotage, che riprende il meccanismo utilizzato dagli ungheresi con la loro storica zona del Tokaji per costringere i produttori friulani a non chiamare più Tocai friulano i loro vini base Tocai, rivendicando il primato della denominazione sul vitigno e la tutela a livello di Comunità Europea della denominazione geografica come marchio, diventerà impossibile produrre, come oggi avviene, vini a base di uva Prosecco in Romania, Brasile, Argentina e chissà dove. Tutto bello, peccato però che nella capitale di questa nascente ampia denominazione, la località triestina di Prosecco, non si sia mai prodotto vino Prosecco con uve Prosecco, realizzando se non un “falso storico” una forzatura nello spirito che guida il concetto di denominazione… E con il Primitivo di Manduria, spostandoci a sud, cosa sta succedendo? Accade che mentre il mondo e soprattutto i consumatori stanno scoprendo e valorizzando i vitigni autoctoni, quelli dotati di un gusto peculiare e inimitabile, stanchi dei soliti vini standardizzati a suon di Cabernet e Merlot, nel cuore della Puglia, nella terra di quello storico grande vino (anche da taglio) che è il Primitivo e nella sua storica capitale, che è Manduria, decidano (ma che pensata “originale”!) di cambiare la base ampelografica ammettendo nel vino sino ad un 15% di altre uve raccomandate e autorizzate in provincia di Taranto e Brindisi. Aglianico e Negroamaro, dicono, ma alla prova dei fatti saranno invece le solite uve bordolesi. Modifiche, viene detto, “per mettere il disciplinare del Primitivo al passo con i tempi”, per consentire “maggiore sperimentazione da parte delle aziende”. Sarà la logica del mercato, dicono, ad imporre questi cambiamenti a passo di carica, ma di fronte a questi “mala tempora” come posso non ripetere che io (e non penso di essere il solo) non ci sto?