Anno XVI - n. 88 - € 3,50 - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 - n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
DEVinis LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE
Luglio / Agosto 2009
PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - ais@sommeliersonline.it
Editoriale
Un disegno poco chiaro di Terenzio Medri
fine maggio cinque senatori hanno presentato il disegno di legge numero 720 che “regola la disciplina della professione di sommelier e prevede la delega al governo per la regolamentazione della materia”. Partendo dall’importanza del nostro Paese in ambito turistico, ristorativo ed enogastronomico e dal fatto che numerosi giovani si affacciano ogni anno in questo settore, il disegno di legge vuole intervenire per dettare “gli elementi e le indicazioni principali per la regolamentazione organica della materia” che, come si legge nel testo trasmesso alla presidenza del Senato il 30 maggio, sono rimasti fino ad oggi affidati ad “associazioni di carattere privatistico, la cui proliferazione incontrollata non giova alla uniformità e alla omogeneità qualitativa della figura del sommelier”. Fa ovviamente piacere che alcuni rappresentanti del Senato della Repubblica italiana si occupino di un tema che ci sta a cuore, ma saremmo altrettanto soddisfatti se lo facessero con cognizione di causa e, soprattutto, con una legge migliorativa. Il disegno di legge che abbiamo letto non aggiunge nulla di nuovo a ciò che c’è già: i nostri corsi vengono copiati in tutto il pianeta, la figura del sommelier è stata riconosciuta anche a livello contrattuale, il titolo di sommelier viene rilasciato dopo la frequenza dei corsi e un esame molto selettivo. Due le associazioni riconosciute: una è l’Ais, con 35 mila iscritti, diecimila sommelier professionisti, 45 anni di storia trascorsi a parlare di vino e a formare sommelier preparati (con una didattica e libri di testo che ci vengono richiesti da tutto il mondo), persone che
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promuovono le eccellenze e i territori italiani. Non vediamo quindi tutto questo proliferare di associazioni di cui si fa cenno nel disegno di legge, molto vago e poco specifico, redatto senza consultare neanche una delle due associazioni che operano in questo ambito. E si vede. Se qualcuno ci avesse chiesto un parere, gli avremmo detto che da anni l’Ais promuove la cultura del bere consapevole, combatte le stragi del sabato sera perché nei nostri corsi si insegna che il vino è equilibrio e riflessione, il contrario dello sballo e dei beveroni che si servono nei disco-bar e nelle discoteche. Se quel qualcuno ci avesse interpellato, gli avremmo anche spiegato che il sommelier è una figura eclettica e poliedrica: c’è il sommelier manager, c’è il sommelier di sala, c’è il sommelier comunicatore che divulga la cultura del vino, c’è il sommelier della grande distribuzione, c’è il sommelier proprietario di wine-bar, ristoranti ed enoteche. E ci sono soprattutto decine di migliaia di appassionati che hanno seguito i nostri corsi nel tempo libero. Sono impiegati, operai, medici, ingegneri, avvocati, pubblicitari, commercianti, che vogliono scoprire che cosa c’è dentro la bottiglia di vino: la vite, la terra, il lavoro dell’uomo, la vendemmia, i disciplinari di produzione, la legislazione, il marketing, il commercio. E poi vogliono conoscere i criteri dell’abbinamento cibo-vino, i distillati, la birra, l’olio. Passione, studio, aggiornamento, lavoro: il sommelier è tutto questo. Farne solo una questione di albo professionale sarebbe riduttivo e poco edificante.
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AIS Associazione Italiana Sommeliers Presidente | Terenzio Medri Vicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella Romani Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, Lorenzo Giuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.
La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene. Anno XVI luglio-agosto 2009 Associazione Italiana Sommeliers Editore Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, terenzio.medri@sommeliersonline.it Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, francesca.cantiani@sommeliersonline.it Per la pubblicità | Roberto Pizzi, pubblicita@sommeliersonline.it tel. 02/72095574 – ICE Srl – Corso Garibaldi, 16 – 20121 Milano Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - devinis@sommeliersonline.it Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it Hanno collaborato | Fernando Araújo-Coelho, Ennio Baccianella, Silvia Baratta, Luisa Barbieri, Carla Bruni, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Alessia Cipolla, Iranna De Meo, Elisa della Barba, Alessandro Franceschini, Natalia Franchi, Salvatore Giannella, Katia Giarrusso, Emanuele Lavizzari, Michela Lugli, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Angelo Matteucci, Mariaclara Menenti, Davide Oltolini, Laura Pacchioni, Cesare Pillon, Valentina Pillot, Paolo Pirovano, Alessandra Rotondi, Isabella Sardo, Lorenzo Simoncelli, Laura Tuveri, Daniele Urso, Franco Ziliani. Fotografie | Archivio Ais, Ais Caribe, Ais Umbria, Ais Veneto, Urbano Sintoni Per l’articolo a firma di Salvatore Giannella il ritratto di Nicola Dioguardi e il logo “Mondi e idee in un bicchiere” sono di Ro Marcenaro Per l’articolo a firma di Alessandro Franceschini foto dello stesso autore Per l’articolo a firma di Alessandra Rotondi foto della stessa autrice e di Stefano Spadoni Per l'articolo a firma di Alessia Cipolla si ringrazia Michel Denancé - Paris per la gentile concessione delle foto Per l’articolo a firma di Laura Pacchioni foto della stessa autrice Per l’articolo a firma di Isabella Sardo si ringrazia l'Institut Vitivinicole de la Moselle Luxembourgeoise per la gentile concessione delle foto Per l’articolo a firma di Michela Lugli foto della stessa autrice Per l’articolo a firma di Iranna De Meo foto di Daniele Scapicchio Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001 Associato USPI Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA € 20,00 ESTERO € 35,00 Intestare ad “Associazione Italiana Sommeliers – viale Monza, 9 – 20125 Milano” specificando il motivo del versamento da effettuarsi secondo una delle tre seguenti modalità: - pagamento tramite c/c postale 000058623208 - bonifico su Banco Posta, codice IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX) - bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano, IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) Chiuso in redazione il 29-06-2009 Stampa | Grafiche Parole Nuove Srl - Brugherio Milano Copie di questo numero | 40.000
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Sommario
Luglio / Agosto 2009
10 IN
Ocm, molti difetti e pochi pregi
ATTESA DELLA RIFORMA DELL’ORGANIZZAZIONE COMUNE DI MERCATO
16 LA
Per non perdere la speranza
RIPRESA DELL’ABRUZZO PUNTA SUL SETTORE ENOLOGICO
20 UNA
Barolo 2005, l’imbarazzo della scelta GRANDE ANNATA DA NON DIMENTICARE
28
“Le Parole Maestre” di Nicola Dioguardi
“MENO
36 LE
E MEGLIO”: LA RICETTA PER VIVERE A LUNGO
Vini di culto di domani
GRANDI ETICHETTE DELLA
40 UNO
Nelle profondità del mare SPUMANTE CHE NASCE DAGLI ABISSI
44
Non solo Hollywood
GLI OSCAR
52 A
DELL’ENOGASTRONOMIA
“MADE
IN
USA”
“Ecco il nostro Congresso Nazionale!”
COLLOQUIO CON
58 A
COSTA TOSCANA
VITO GIUSEPPE D’ANGELO,
PRESIDENTE
AIS BASILICATA
Futurismo in cucina
TAVOLA CON L’AVANGUARDIA DI
FILIPPO TOMMASO MARINETTI
62 Turchia, fra Oriente e Occidente STORIA,
CULTURA, PAESAGGIO E UN TURISMO EMERGENTE
Sommario
Luglio / Agosto 2009
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Ciak, si beve!
QUANDO
80 ANCHE
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IL VINO DIVENTA ATTORE
La scultura entra in sala da pranzo UN RISTORANTE PUÒ DIVENTARE MUSEO
Città e vini da meditazione
L’UMBRIA
88 LA
All’interno
48 70 72 74 78 92 96 112 114
“EXCELLENTIA 2009”
Terra, vite, lavoro e passione
VIGNA E I SUOI SEGRETI
94 LE
RACCOGLIE IL SUCCESSO DI
Un brindisi nel Granducato
ECCELLENZE DELLA
MOSELLA
Architettura e vino
LUSSEMBURGHESE
CONTINUA
IL VIAGGIO NELLE CANTINE INNOVATIVE
Olio CHI FA LA DIFFERENZA? LA SCELTA DELLE VARIETÀ Birra L’ULTIMA “FOLLIA” DI TEO MUSSO Marchi storici
ALLA
SCOPERTA DELLA
GUINNESS
Distillati LA PUREZZA E AUTENTICITÀ DELLA VODKA Curiosità SU MARTE POSSONO CRESCERE GLI ASPARAGI? Enopassione IL VINO DEL PUBBLICITARIO Sullo scaffale LE NOVITÀ EDITORIALI Io non ci sto! NÉ PROVINCIALE NÉ SCIOVINISTA: COSÌ SOGNO L’ITALIA DEL VINO
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I molti difetti di una con qualche pregio
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di Cesare Pillon
veva visto giusto l’Aei (Associazione enologi italiani) suggerendo di procrastinare al 2010 l’entrata in vigore della nuova Ocm (Organizzazione comune di mercato) per il vino? Per il primo agosto, data in cui la riforma diventerà operativa, Pino Khail, direttore di Civiltà del Bere, ha sostenuto in un editoriale del suo periodico che il direttore generale dell’Aei aveva tutte le ragioni di ritenere «assurdo volere a tutti i costi tener fede a un calendario che potrebbe portare all’Italia altri risultati negativi, dovuti all’impossibilità di valutare bene le diverse sfaccettature operative che la nuova riforma, una volta in vigore, ci obbligherà a osservare». «Santissime parole», ha sostenuto Khail. Infatti, non essendo stata concessa la proroga, «arriveremo ad agosto con molte cose incompiute e con altrettante cose compiute male. Difficilmente saremo comunque in grado di gestire le sfaccettature operative della nuova riforma cui si riferivano gli enologi». Come dargli torto? La commissione nazionale vini, presieduta da Giuseppe Martelli, cioè proprio dal direttore generale dell’Associazione enologi che aveva chiesto il rinvio d’un anno per affrontare meglio i problemi, ha dovuto invece lottare affannosamente contro il tempo per risolvere tutte le questioni pendenti relative alle denominazioni d’origine, ma non aveva l’incarico né il tempo necessario per inquadrarle in un disegno più razionale. Ha potuto darsi da fare solo in due direzioni: eliminare qualche stortura e proteggere le denominazioni maggiormente esposte al rischio del plagio. In quest’ultima direzione la Commissione ha dato però brillanti prove di creatività. Come non essere colpiti, per esempio, dal machiavellismo escogitato per neutralizzare i rischi della denominazione varietale Prosecco? Questa poteva essere copiata dovunque da chiunque, mentre se si fosse potuto trasformarla in denominazione geografica sarebbe stata tutelata su scala internazionale. E questo prodigio è stato ottenuto. In che modo? Mediante un geniale espediente (vedi “La parola d’ordine è razionalizzare”, DeVinis marzo/aprile 2009, pag.36): l’inclusione nella zona d’origine di un paesino friulano di nome Prosecco da cui (forse) il vitigno ha preso nome. C’è stato però anche un altro intervento della Commissione, di cui non molti si sono accorti, per certi versi analogo, ma forse ancora più sensazionale, addirittura ai limiti del paradosso: la decisione di includere, nel territorio di produzione dell’Asti spumante, anche Asti e i suoi vigneti, che ne erano esclusi. C’è da restare allibiti, a ripensarci: quale credibilità poteva avere un vino a denominazione d’origine che non si poteva produrre proprio nella località indicata dalla denominazione? Eppure quell’assurda esclusione era in vigore non soltanto dal 1993, quando l’Asti spuman-
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L Marianne Fischer Boel, Commissario Europeo all'Agricoltura
te era entrato fra le Docg, ma addirittura da 42 anni, da quando cioè aveva ottenuto la Doc. Basterebbe questo episodio per dimostrare che è giustissimo paventare i contraccolpi della riforma dell’Ocm-vino, ma soprattutto perché la sua entrata in funzione può far esplodere le mille contraddizioni delle denominazioni d’origine all’italiana. Si stanno al contrario dimostrando infondati alcuni timori che le nuove norme avevano suscitato in quanto tali. Lo stesso ministro delle politiche agricole, Luca Zaia, che nel settembre dell’anno scorso le aveva definite “un disastro programmato soprattutto sul fronte delle denominazioni”, ha più serenamente ammesso che la nuova Ocm «consentirà la protezione di tutti i nostri vini Docg, Doc e Igt, che transiteranno automaticamente nel nuovo registro comunitario delle Dop e delle Igp a partire dal 1° agosto 2009. Questo ha consentito, in parte, di rasserenare i nostri produttori, giustamente preoccupati che un settore importante come quello del vino perdesse tutele e strumenti per competere su un mercato sempre più difficile». C’è indubbiamente del vero in ciò che ha scritto Pino Khail nel suo editoriale su Civiltà del Bere: “La Comunità, da quando è stata allargata a 27 membri, difficilmente ritorna sulle proprie decisioni. Se c’è una contestazione concede al massimo un agreement e nel campo del vino le incomprensioni e le superficialità sono molte ma, nel momento deliberativo, domina l’aritmetica che a Bruxelles ci è nemica perché ormai lo schieramento è ben delineato: 5 sono i Paesi fortemente vitivinicoli e 22 quelli che definiremmo... astemi”. Che questo, però, non sia sempre vero lo ha dimostrato la vicenda del rosé: effettivamente la commissaria all’Agricoltura, Marianne Fischer Boel, ha affrontato le proteste italiane (ma anche francesi) contro l’autorizzazione a miscelare vino rosso e vino bianco per ottenere il rosato proponendo un agreement, ma in seguito la Commissione ha giudicato fondate le contestazioni e ha fatto marcia indietro, rinunciando all’iniziativa. Certo, non c’è da farsi illusioni: a qualche compromesso sarà necessario arrivare, e i compromessi, inutile negarlo, lasciano sempre un po’ di amaro in bocca, però non giustificano il piangersi addosso per un’Ocm che sarebbe “fatta da e per i Paesi che non producono vino”, come sostengono molti. In realtà non c’è alcun bisogno che Bruxelles prenda improvvide iniziative: sappiamo farci male da soli. E’ successo per la Doc Sicilia, fortemente voluta dall’amministrazione regionale perché “sarebbe un valore aggiunto per le produzioni dell’isola”. Nessuno si aspettava un’opposizione così dura e tenace come quella che la denominazione regionale ha incontrato: opposizione non da parte degli euroburocrati ma di alcuni imbottiglia11
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tori delle altre regioni italiane e degli alleati che questi hanno trovato nell’isola, in quelle cantine sociali a cui assicurano una magra sopravvivenza comprando a basso prezzo il loro vino sfuso. In realtà la denominazione Sicilia farebbe comodo anche a chi la osteggia: ma a patto che il disciplinare non vieti tassativamente d’imbottigliare il vino fuori della zona d’origine. E invece senza quella norma la Doc Sicilia non sarebbe credibile. Sono questi problemi interni che hanno impedito finora di guardare senza preconcetti alla riforma dell’Ocm e di accorgersi che, pur essendo nata tra mille patteggiamenti, offre parecchie opportunità. Certo, prevede misure che possono risultare sgradite, ma per valutare se sono inevitabili o ingiustificate è sufficiente leggere le prime righe del suo testo: «Il consumo di vino nella Comunità è in calo costante e dal 1996 le esportazioni di vino della Comunità crescono, in volume, ad un ritmo molto più lento delle importazioni. Ciò ha comportato un deterioramento dell’equilibrio tra domanda e offerta che, a sua volta, si ripercuote negativamente sui prezzi e sui redditi del produttori». In parole povere: produciamo troppo vino, quindi troppa uva; conseguenza del fatto che coltiviamo troppe viti. C’è da stupirsi, allora, se l’Unione Europea ha incoraggiato l’estirpazione volontaria di 175 mila ettari di vigneto, stanziando 1.074 milioni di euro in tre anni (fino alla campagna 2010/2011) per gli incentivi necessari? L’Italia, che è il Paese più vitato del Vecchio Continente, potrà (dovrà) estirpare 58.435 ettari, cioè l’8 per cento della superficie totale coltivata a vite, che è la soglia massima, oltre la quale non si può andare. Ma questa volta, e non era mai successo prima, Bruxelles si è preoccupata di escludere dall’incentivazione l’espianto dei vigneti difficili da coltivare e poco redditizi ma di grande qualità oppure di importanza strategica per la difesa dell’ambiente: i vigneti di montagna e delle isole più impervie, dalla Val d’Aosta all’Alto Adige, dalle Cinque Terre alla Calabria, da Pantelleria alle Eolie. I lati positivi non mancano, insomma. In effetti, più che ai provvedimenti immediati bisognerebbe guardare al programma di lungo fiato. Il proposito base della nuova Ocm sembra essere infatti quello di liquidare le anomalie provocate dalle politiche del passato, basate su aiuti e incentivi, per indirizzare la vitivinicoltura europea al mercato e al rigoroso rispetto delle sue regole. I diritti di impianto, per esempio, che oggi vincolano la possibilità dei produttori di espandere i vigneti e gravano, con il loro costo, sui nuovi impianti, verranno aboliti, ma solo a partire dal 2016 (con la possibilità degli Stati membri di prorogarne l’eliminazione in ambito 12
nazionale fino al 2018). L’obiettivo, insomma, è la completa liberalizzazione del settore ma è il modo in cui ci si arriverà che lascia perplessi: troppi sono i compromessi che ne limitano la portata ed eccessivamente lunghi i tempi programmati per arrivarci. Il proposito iniziale della Fischer Boel, per esempio, era l’eliminazione totale del cosiddetto arricchimento, cioè delle pratiche con cui si consente nelle annate difficili di aumentare il tenore alcolico dei vini: mediante aggiunta di mosto concentrato o di mosto concentrato rettificato in Italia, con aggiunta di saccarosio in Francia e in Germania. La resistenza opposta da questi due ultimi Paesi non ha reso possibile arrivare a una misura tanto drastica: l’arricchimento infatti non è stato vietato. È facile prevedere però che sarà praticato solo mediante aggiunta di saccarosio, perché utilizzare mosto concentrato diventerà praticamente impossibile. Esso infatti costa più caro dello zucchero: diventa conveniente solo se l’Unione Europea si accolla la differenza di prezzo, come ha fatto per 25 anni e come continuerà a fare ma fino al 2012. Inutile usare giri di parole: l’Italia ha perso la partita, Francia e Germania l’hanno avuta vinta. Ma forse è successo perché l’Italia non aveva tutte le ragioni. D’accordo, in un’Europa che sta facendo i salti mortali per eliminare il vino in eccedenza, è un controsenso autorizzare per l’arricchimento l’uso dello zucchero, che è tratto dalle barbabietole e fa aumentare la quantità di vino che si produce. Ma ancora più assurdo sarebbe insistere a finanziare la produzione di mosto rettificato. È vero che essendo ottenuto dall’uva, esso dovrebbe ridurne la sovrapproduzione, ma solo in teoria: l’esperienza di un quarto di secolo dimostra al contrario che il business del mosto rettificato, alimentato dagli incentivi dell’Unione Europea, stimola la produzione di uva scadente, garantendole un sicuro sbocco di vendita ed evitandole così di confrontarsi con il mercato vero. La soluzione adottata dall’Unione Europea impone però all’Italia di ripensare al proprio atteggiamento nei confronti dell’arricchimento e di fare al più presto una scelta di fondo: continuare oppure no a proibire l’uso del saccarosio? Se si insistesse a imporre unicamente il mosto concentrato o rettificato, i produttori italiani avrebbero tutto il diritto di sentirsi penalizzati, perché costretti a pagare cifre sensibilmente più alte per realizzare con il mosto rettificato lo stesso risultato che i concorrenti europei ottengono con il saccarosio spendendo meno. Ma autorizzare anche in Italia l’uso del saccarosio per l’arricchimento del vino significherebbe abbandonare i mosti concentrati al loro destino, riconoscendo che non sono quelli i prodotti migliori per valorizzare la vitivinicoltura del Sud e ammet13
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tendo che per decenni si era difesa con le unghie e con i denti una soluzione sbagliata. Insomma, non sarà una scelta facile. Il finanziamento con il denaro pubblico dello zuccheraggio non è il solo aiuto controproducente che si sperava l’Unione Europea abolisse già da quest’anno: ci si augurava anche che smettesse di finanziare la distillazione dei vini in eccedenza, una misura che ha dimostrato da tempo d’essere non solo inefficace ma di stimolare la sovrapproduzione. L’abolizione è stata effettivamente decisa ma anch’essa avrà luogo soltanto il 31 luglio 2012: nel frattempo, il sostegno alle distillazioni volontarie e obbligatorie, di crisi e di soccorso, verrà concesso, sia pure in misura gradualmente decrescente, fino a scomparire del tutto. Questo periodo transitorio, così come quelli istituiti per arrivare all’abolizione dei diritti di impianto e alla soppressione degli aiuti ai mosti concentrati, ha una valenza doppiamente negativa: allontana nel tempo la liberalizzazione del settore e ritarda il finanziamento dei piani di sviluppo nazionali. Solo a partire dal 2012, infatti, quando si finirà di incentivare gli espianti, di finanziare le distillazioni e di agevolare la produzione di mosti concentrati, l’Italia potrà finalmente disporre, per i suoi programmi di sostegno e di promozione, di una cifra annuale realmente consistente: 337 milioni di euro. La promozione nei Paesi terzi, resa possibile da questo flusso di denaro, è una carta da giocare con intelligenza, un’opportunità da sfruttare con decisione. Il futuro del vino italiano si gioca infatti sull’esportazione e in questo periodo di tumultuosa transizione dell’economia mondiale i prodotti agroalimentari made in Italy sono in pole position perché godono di un’immagine privilegiata, che si è tradotta nel 2008 con l’incremento in valore delle esportazioni più alto tra i Paesi europei. E anche nel momento più acuto della crisi, nei mesi scorsi, i consumi alimentari interni sono quelli che complessivamente hanno patito meno per le ridotte disponibilità economiche delle famiglie. Ma il fatto più sensazionale messo in evidenza dalle difficoltà che il mondo intero sta attraversando è la ridotta dimensione delle aziende vitivinicole italiane che sembrava il loro punto debole e si è dimostrata invece la loro forza. Più agili nell’adattarsi alle mutate condizioni generali, hanno saputo reggere meglio alla bufera, mentre colossi multinazionali come Constellation Brands hanno vissuto momenti allarmanti e sono stati perfino costretti a ridurre il personale. Se gli aiuti dell’Unione Europea serviranno alle piccole ma intraprendenti aziende italiane a superare l’handicap più grave di cui soffrono a causa della loro dimensione, cioè la capacità di promuoversi nei Paesi che si avvicinano al vino, si dimostrerà che con tutti i suoi difetti questa nuova Ocm è migliore di come la si dipinge. 14
Terremoto
vino
Puntare sul per non perdere la speranza L’ABRUZZO
PROVA A RIPARTIRE DALLA TENACIA DEI SUOI ABITANTI,
DAL SETTORE ENOLOGICO E DAL SUO INDOTTO.
ECCO
COME
di Lorenzo Simoncelli er gli addetti ai lavori del vino, la notte del 6 aprile 2009 doveva essere il momento dei conteggi, delle analisi e del meritato riposo dopo quattro giorni di intenso lavoro al Vinitaly. Per alcuni produttori vinicoli abruzzesi, invece, oltre alla fatica, si aggiungevano le soddisfazioni di un’edizione vincente come non mai, che ha portato sui podi delle diverse categorie ben dieci cantine. Quel 6 aprile, però, quando ormai l’alba si avvicinava e le prime pagine dei giornali locali erano pronte a celebrare il ritorno in patria dei loro eroi, la regione intera e in particolare L’Aquila, sprofondava tra le crepe di un sisma di magnitudo 5,8 della scala Richter. Per chi crede nel destino degli eventi, non può non rimanere scosso da un avvicendarsi di situazioni così diverse, ma così legate, con un unico protagonista: la terra d’Abruzzo. Dall’euforia alla disperazione, dalle medaglie alla distruzione. Quasi il fato volesse già indicare agli abruzzesi, quale sarebbe stata la strada giusta per rialzarsi da una tragedia ormai imminente. Una visione forse
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Terremoto
surreale, ma supportata da numeri reali e tangibili, che dimostrano come il vino e tutto ciò che gli ruota attorno, possa funzionare da volano alla ripresa economica della regione. L’Abruzzo e il vino Ammonta a 350 milioni di euro, infatti, il fatturato del comparto vitivinicolo in Abruzzo nel 2009, per un totale di 36 mila ettari di vigneti (5% territorio nazionale) e una produzione che si aggira sui 3,3 milioni di ettolitri/anno, di cui 1,2 milioni Doc. Numeri che gli permettono di posizionarsi al quarto posto nella classifica delle regioni italiane a maggiore produzione vinicola. Circa 170 le aziende agricole, tra privati e cooperative, situate (per fortuna) soprattutto nella provincia di Chieti, che ricopre da sola il 75% della produzione regionale. Di questi 3,3 milioni di ettolitri il 50% viene distribuito sul territorio locale e nazionale; il restante 50% invece è destinato ai mercati esteri, in particolare Stati Uniti e Germania. Dati Ice (Istituto Nazionale per il Commercio Estero) dicono che l’Abruzzo ha aumentato il valore delle sue esportazioni da 51 a 78 milioni di euro nel periodo 2003 –2008, grazie soprattutto alla spinta dei paesi emergenti. Una crescita, quella degli ultimi cinque anni, superiore alla media italiana, ma ancora ridotta rispetto alle regioni leader nell’export (la Toscana fattura 800 milioni di euro). Il vero ostacolo per i vini abruzzesi rimane la promozione e la scarsa capacità di commercializzazione diretta. Nonostante il rally degli ultimi anni, la strada da percorrere per le etichette abruzzesi è ancora lunga, ma paradossalmente il sisma potrebbe aprire scenari nuovi di mercato soprattutto in ambito internazionale.
L Danni all’Azienda Pietrantonj
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I danni del terremoto al settore vitivinicolo A tre mesi dal sisma si è detto e scritto di tutto, ma in concreto come e quanto sono state danneggiate le aziende agricole dell’aquilano non è del tutto chiaro. De Vinis, è andato sul territorio per cercare di capire quali e di che entità sono i problemi principali che hanno colpito i maggiori produttori della zona. L’area interessata dal sisma contribuisce solo per il 4% alla produzione vinicola regionale. Spiccano però ottime etichette soprattutto in base al rapporto qualità prezzo. Due le principali aziende agricole della zona: la Italo Pietrantonj e la Cataldi Madonna. La prima è la più antica della provincia dell’Aquila. Ha iniziato la sua attività vitivinicola alla fine del Settecento nelle tenute situate nel cuore della Valle Peligna. 50 ettari di proprietà, tutti iscritti all’albo dei vigneti a denominazione di origine controllata, soprattutto Montepulciano d’Abruzzo, Trebbiano e un vitigno locale denominato Campolese. Tra i fiori all’occhiello della produzione, che hanno contribuito a valorizzare la Pietrantonj negli ultimi anni, la linea Tenuta del Cerano, da cui nasce il Montepulciano d’Abruzzo Doc Cerano. La Pietrantonj è una delle aziende più danneggiate, anche se la discreta lontananza dall’epicentro del sisma, ha permesso alla storica cantina aquilana di resistere meglio alle scosse. “I maggiori danni si sono verificati alle cantine e alle strutture sovrastanti”, ci spiega Roberta Pietrantonj, una delle figlie del titolare. “Le botti si sono spostate di 10 centimetri e alcune si sono rotte causando la perdita di vino. I problemi maggiori si sono verificati nel Museo del Vino, dove i palazzi sono crepati e inagibili per pericolo di crollo, per questo abbiamo dovuto abolire la manifestazione di fine maggio Cantine aperte”. Si può già ipotizzare una stima delle perdite legate al terremoto? “Prima che riparta il commercio interno, soprattutto con L’Aquila, ci vorrà molto tempo”, prosegue Roberta Pietrantonj. “Rispetto al 2008 stimiamo una perdita di incassi pari a 300 mila euro. Oltre alla mancata rendita, infatti, bisogna aggiungere la perdita dei crediti. Ci sono molte famiglie che non hanno più niente”. Anche la Cataldi Madonna, a Ofena, è stata colpita duramente dal terremoto. L’azienda, produttrice di sette tipologie di etichette, per un ammontare complessivo di 250 mila bottiglie all’anno, ha fatto sapere che molto probabilmente perderà il 40 per cento del suo fatturato standard. Molte
Fonte: elaborazione ARSSA su dati CCIAA
delle cisterne sono state infatti danneggiate e si è persa una discreta quantità di vino: la prima stima approssimativa parla di 200 mila euro circa di danni. Vista la paralisi delle vendite nell’aquilano, l’azienda sta puntando tutto sull’export, dove già oggi è destinato il 10 per cento della sua produzione. Ecco il piano degli interventi Da tre mesi a questa parte si è attivata la macchina della solidarietà italiana, la più efficiente del mondo nelle situazioni d’emergenza. Istituzioni, banche, fondazioni, enti e privati stanno operando ormai da settimane per cercare di raccogliere il più possibile da destinare alla Protezione Civile, che farà poi da tramite per i vari progetti di ricostruzione. Scuole, residenze per anziani, ospedali sono sicuramente le priorità, ma poi come si è più volte detto è molto importante far ripartire le attività quotidiane e quindi il commercio, i beni culturali e quant’altro. Proprio nel commercio una parte importante è svolta dal vino, basti pensare alle numerosissime attività di ristorazione della zona. E allora in concreto come si stanno comportando le istituzioni per aiutare chi il vino lo produce? Da subito il Ministero delle Politiche agricole e forestali (Mipaf) è venuto incontro agli agricoltori abruzzesi riuscendo a far inserire alcune importanti misure nel pacchetto di aiuti straordinari varati dal Governo. Tra queste la sospensione del versamento dei contributi consortili di bonifica e del pagamento delle rate dei mutui, l’utilizzo del Corpo Forestale dello Stato finché l’emergenza non sarà terminata, infine la corresponsione di un’indennità agli imprenditori agricoli. In aggiunta, al grido “l’agricoltura aiuti l’agricoltura”, si è deciso alla Conferenza Stato-regioni di destinare una parte del Psr (Programma di sviluppo rurale), pari a 712 milioni di euro, all’Abruzzo. La somma, intorno ai 100 milioni di euro, dovrebbe servire almeno per riparare i danni più ingenti. Cifra che si va ad aggiungere alla dotazione finanziaria complessiva prevista dal Psr per l’Abruzzo che è di circa 167 milioni di euro. Un ruolo significativo è stato svolto anche dalla Commissione Europea, da sempre molto attenta nel campo delle politiche agricole comuni (Pac). Quali misure sono state concordate? “Si è deciso di prorogare la rimodulazione del Piano di Sviluppo Rurale di due mesi, dal 30 aprile al 30 giugno”, ha spiegato Mauro Febbo, “inoltre anche la presentazione della relativa rendicontazione verrà posticipata”. L’unione fa la forza In Abruzzo, come in molte altre regioni italiane, la Confcooperative oltre a tutelare le cooperative che vi aderiscono ha una vera e propria scuola di pensiero. L’associazione sul territorio regionale conta oltre 400 cooperative, con circa 30 mila soci per un fatturato complessivo di 600 milio-
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Terremoto
ni di euro. Fanno parte della cooperazione agricola importanti imprese regionali, tra cui il consorzio vitivinicolo Citra. Confcooperative si articola sul territorio attraverso le Unioni provinciali che operano nei diversi settori della cooperative tramite le rispettive Federazioni, Fedagri per il vino. Già prima del terremoto, durante il primo meeting della cooperazione agricola, c’erano state lamentele da parte delle associazioni di categoria riguardo ai tassi d’interesse imposti dagli istituti di credito. Il 94 per cento delle cooperative agricole denuncia infatti problemi di liquidità, ma soprattutto è emersa l’esigenza di una maggiore commercializzazione dei prodotti per attaccare meglio i mercati internazionali. “La promozione dei prodotti è fondamentale”, spiega Giuseppe D’Alessandro, direttore Confcooperative Abruzzo. “Noi la stiamo facendo sia per il mercato nazionale, tramite l’esposizione dei prodotti nei supermercati Crai, sia sul mercato internazionale, con l’apertura di punti distributivi nei paesi emergenti come India e Cina. Prima di agire, però, è fondamentale studiare il mercato di riferimento”. A uno scenario internazionale già complicato si sono aggiunte per le aziende agricole anche le difficoltà post terremoto, quali sono secondo voi le strategie vincenti che si devono mettere in atto? “Nella realtà di oggi”, spiega D’Alessandro, “non ci sono più vie di mezzo, per questo noi sosteniamo le aggregazioni stimolando le fusioni. La struttura consortile, anche se necessaria, non è più sufficiente”. Il futuro è nelle vostre mani Le iniziative di supporto non sono mancate anche dal mondo del vino stesso, l’ultima in ordine temporale è stata Cantine aperte, che anche quest’anno ha fatto registrare un inaspettato boom di visitatori, soprattutto nelle zone terremotate. 40 mila presenze in pochi giorni nelle 39 aziende agricole abruzzesi che hanno aderito all’evento. Gesti di solidarietà non sono mancati, anche tra i produttori stessi. C’è, infatti, chi ha deciso di esporre nelle proprie cantine le etichette delle aziende danneggiate, che non hanno potuto prender parte alla manifestazione a causa dei danni del sisma. “Il vino è una voce fondamentale nell’economia abruzzese”, commenta Massimo Di Cintio, presidente regionale del Movimento Turismo del Vino, “purché si agganci al substrato territoriale, cosa che manca in questo momento”. In questi giorni i grandi del mondo faranno visita all’Abruzzo per il G8, quale occasione migliore per far conoscere i prodotti tipici, vino in primis. Ci sono dei treni che passano una sola volta nella vita e proprio ora che l’Abruzzo ha i fari puntati addosso non deve perderlo. Vi lasciamo con delle frasi di Benedetto Croce, un abruzzese doc, che siano di incoraggiamento al popolo abruzzese e alle aziende vitivinicole: “Quando c’è bisogno non solo di intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e di resistenza io mi sono detto a voce alta: tu sei abruzzese!”.
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Degustazioni
Barolo 2005: un’annata
classica
da ricordare di Franco Ziliani
n grandissimo imbarazzo della scelta nel dover segnalare solo 35-40 vini per questa selezione del “meglio del meglio” degli oltre 150 Barolo della sorprendente annata 2005 degustati nel corso della manifestazione Alba Wines Exhibition. Noterete degli assenti molto noti: nomi celebratissimi (anche dalle varie guide) che sembrerebbe impossibile non comprendere in questa proposta dedicata alla “crème de la crème” barolesca degustata ad Alba. Assenze dovute non alla qualità dei loro vini, bensì al fatto che svariate aziende blasonate (presenze costanti, appunto, su baedeker enologici e in articoli dedicati ai vini albesi), hanno deciso, per motivazioni varie, di non sottoporre i loro vini alla “prova verità” della degustazione alla cieca, nel corso della quale i loro Barolo 2005 avrebbero figurato accanto ai vini di aziende magari meno mediatiche. E avrebbero magari rischiato di non apparire tanto migliori, oppure meno espressivi, e meno piacevoli, di Barolo che magari costano decisamente meno… Assenti (che come dice il proverbio, hanno sempre torto) a parte, le presenze, unite al valore dell’annata, un millesimo cui non fanno difetto né i tannini né le acidità, e che regalerà vini che magari non hanno la piacevolezza succosa, la rotondità naturale, l’appeal e la grazie dei 2004, ma seppure ancora un po’ scontrosi in questo momento, con un tannino nervoso e qualche spigolosità, sono sicuramente di stampo classico,
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L Barolo, il castello
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L La Morra Vini storici
designando il 2005 come una di quelle annate da ricordare, come il 1996, il 1999, il 2001. Vini da acquistare, cui non fare fretta e lasciar maturare in cantina, sicuri di ricavare grandi soddisfazioni. Vale la pena sottolineare che in questa selezione di Barolo 2005 compaiono sia vini di stampo tradizionale, frutto di macerazioni abbastanza lunghe e di affinamento in botte grande, sia vini di impronta più moderna, che prevedono vinificazioni meno prolungate e passaggio in fusti di rovere francese. La lieta novella, che emerge da questo assaggio lungo, meditato ed esaltante, di un largo campione di Barolo 2005 è che salvo qualche “ultimo dei mohicani”, i vini redolenti di legno, di tostatura, di aromi di vaniglia, caffè, insomma con l’impronta più dei boschi del Massiccio Centrale francese e dei terroir di Langa, stanno progressivamente scomparendo (soprattutto perché i consumatori hanno chiaramente detto di non apprezzarli più), facendo finalmente emergere la verità splendente del Nebbiolo, la sua eleganza e l’ampio spettro di aromi e sfumature aromatiche che differenziano un Barolo di Serralunga d’Alba da uno di Castiglione Falletto, un vino di Barolo da uno di La Morra, per tacere poi delle ulteriori nuance e caratterizzazioni conferite dai singoli cru. Di fronte a questo autentico “ritorno del figliol prodigo”, del vero Barolo, non dobbiamo forse esultare e stappare grandi bottiglie e correre a sacrificare il vitello grasso?
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Degustazioni
LA DEGUSTAZIONE BAROLO DI LA MORRA Barolo Brunate Azienda M. Marengo Naso molto caldo, largo voluminoso, di grande ampiezza, con bella freschezza, fragranza e sapidità e note floreali e selvatiche in evidenza. Al gusto frutto “croccante” di bella articolazione, struttura salda e materia ricca, con spiccato carattere terroso, grande intensità e soddisfazione con bella lunghezza gustativa e finale lungo.
Barolo La Serra Azienda Marcarini Profumi piuttosto dolci e caldi, quasi “ciliegiosi”, e accenni terrosi, di rosa, lampone e leggera speziatura, di notevole fragranza ed eleganza. Bocca di buona freschezza e sapidità, con acidità ben calibrata e un buon allungo dinamico nervoso e vivo, non di grande ampiezza ma lungo preciso persistente con un finale piuttosto salato
Barolo Brunate Azienda Andrea Oberto Colore rubino intenso, naso di notevole spessore e profondità, giocato su note selvatico animali, di spezie e sottobosco, a comporre un insieme piuttosto variegato. Bocca di ampia sostanza, larga, piena, calda, con saldo corredo tannico abbastanza morbido e finale persistente con stoffa.
Barolo Cerequio Azienda Michele Chiarlo Rubino di bella intensità e brillantezza, naso fitto, caldo e compatto con bella tessitura aromatica e notevole eleganza con sfumature di rose, sottobosco e accenni minerali e selvatici. La bocca è ricca, piena, di grande nerbo. Il vino si apre largo in bocca con grande ampiezza e stoffa, bellissimo corredo tannico, lunga persistenza e ottimo bilanciamento tra tutte le componenti.
Barolo Gattera Azienda Monfalletto Cordero di Montezemolo Rubino luminoso di bellissima brillantezza e vivacità, naso di bell'impatto e immediatezza, fitto, fresco, con profondità e bella tessitura, giocato su note fruttate (netta la prugna) e floreali con accenni minerali e selvatici. La bocca è fresca, viva, succosa, con polpa dolce e rotonda, tannini ben presenti ma non aggressivi, notevole equilibrio e persistenza.
Barolo La Serra Azienda Eugenio Bocchino Rubino intenso, mostra un naso ampio, con impatto dolce cremoso e accenni maturi evolutivi che richiamano il cacao e le spezie, il mazzetto odoroso e la china (accenni quasi di Barolo chinato). La bocca è di buona dolcezza, con tannino ben presente ma non aggressivo. Il vino ha ampiezza, stoffa, ricchezza di sapore e lunga persistenza.
Barolo Rocche dell’Annunziata Azienda Rocche Costamagna Rubino vivo profondo con unghia solo leggermente aranciata, naso con bella tessitura ricca, ampio e caldo, con note di frutta leggermente matura che richiama la prugna e il ribes, accenni di cannella e cuoio e leggere sfumature cacao a comporre un insieme variegato. Bocca di buona dolcezza, bel corredo tannico non aggressivo su note terrose soffici, buona la persistenza e l'ampiezza in bocca, vino di stampo classico cui manca solo un po' di scatto ma molto piacevole.
Barolo Brunate Azienda Francesco Rinaldi Bellissima vivacità di colore, naso elegante, fresco, vivace di nerbo sapido e fragranza floreale, con accenni di liquirizia e spezie, sfumature terrose minerali. In bocca ha struttura tannica ben rilevata ma soffice, grande stoffa e velluto. Un Barolo ampio largo e succoso che riempie bene la bocca regalando una sensazione di grande pienezza e piacevolezza, equilibrato, di grande carattere e persistenza lunga. 22
BAROLO DI BAROLO Barolo Azienda Bric Cenciurio Colore rubino violaceo intenso, naso molto vivo, fresco, floreale con bella componente fruttata che richiama la prugna e accenni selvatici, di spezie e rosmarino. In bocca attacco di notevole freschezza e vivacità, bocca viva scattante, sapida, nervosa di conseguente freschezza, saldo corredo tannico e acidità calibrata, lungo persistente e di notevole slancio.
Barolo Sarmassa Azienda Bergadano Colore di bellissima vivacità e brillantezza, naso molto compatto, maturo, cremoso, con bella componente floreale e selvatica e note di viola e tabacco e sottobosco in evidenza. Bocca di notevole impegno e struttura, con saldo corredo tannico non aggressivo ma nervoso, grande freschezza, con allungo deciso grande ricchezza di sapore e finale vivo e nervoso. Molto giovane ma promettente.
Barolo Sarmassa Azienda Brezza Naso vivo, elegante, caldo e suadente, con carattere floreale in evidenza. Bocca piena, ricca con saldo corredo tannico, vino largo, pieno, terroso, ancora molto giovane con margini di evoluzione importanti.
Barolo Cannubi San Lorenzo Azienda Rinaldi Giuseppe Rubino di bella vivacità e brillantezza, mostra un naso fresco, vivo, floreale con note di rosa e lampone in evidenza di grande freschezza e sapidità. La bocca è viva, nervosa, di grande eleganza e sapidità, con sostegno tannico non aggressivo, finale lungo e nervoso, pieno di sale. Ancora giovane e scalpitante.
Barolo Brunate Le Coste Azienda Rinaldi Giuseppe Rubino vivace, mostra un naso di grande consistenza terrosa, con note selvatiche e di sottobosco e fragranti accenni floreali. Al gusto è molto ricco e pieno, con un bellissimo corredo tannico non aggressivo, il vino si allarga ampio e terroso con grande eleganza e dolcezza d'espressione e con un finale ampio e persistente che riempie bene la bocca.
Barolo Azienda Bartolo Mascarello Colore intenso e profondo, naso ancora molto in sé, quasi scontroso. Al gusto mostra il suo meglio, con una buona struttura ricca, saldo corredo tannico, grande energia e profondità, ancora molto giovane.
BAROLO DI NOVELLO Barolo Ravera Azienda Elvio Cogno Naso fitto maturo cremoso, caldo, con alcol piuttosto accentuato e frutta decisamente matura. Bocca ricca, piena, molto strutturata, con bel corredo tannico e grande componente terrosa non aggressiva, si dispone largo e voluminoso con notevole impegno e persistenza.
Barolo Sotto Castello di Novello Azienda Grimaldi Giacomo Colore rubino di media intensità, mostra un naso ricco e denso di bella complessità già su note terziarie che richiamano prugna, liquirizia, spezie, humus, rosa passita a formare un bouquet etereo e avvolgente. La bocca è molto fresca, con una nota di menta evidente, un saldo corredo tannico una lunga avvolgenza e persistenza, chiude vivo, nervoso. Giovane e con ottimo potenziale d’evoluzione
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Degustazioni
BAROLO DI CASTIGLIONE FALLETTO Barolo Villero Azienda Livia Fontana Rubino di media intensità, mostra un naso dalla notevole eleganza floreale, ma già maturo e caldo. Buona suadenza vellutata in bocca, con freschezza, sapidità e nerbo sottile, tannino non aggressivo che richiama la polvere di cacao e la liquirizia, finale lungo appuntito nervoso con una leggera speziatura e grande nerbo sapido.
Barolo Villero Azienda Giacomo Fenocchio Colore rubino, bella intensità e luminosa brillantezza, naso fitto vivo compatto ad ampia tessitura con alcol ben bilanciato e frutta che richiama la prugna, con accenni di sottobosco, cuoio e leggera speziatura. Bocca fresca viva, succosa con bella polpa, un tannino delicato, non aggressivo frutto “croccante”, grande nerbo sapido, finale lungo e vivo.
Barolo Pugnane Azienda Cascina Sciulun Franco Conterno Colore rubino brillante luminoso di bella intensità, naso fresco vivo accattivante di grande profondità densità e pulizia, con note di frutta carnosa, accenni floreali e speziati. Bocca fresca viva succosa di notevole equilibrio e sapidità, con acidità ben bilanciata, tannino presente ma non aggressivo, bell'allungo. Un Barolo con stoffa, persistenza e carattere.
Barolo Azienda Livia Fontana Rubino vivo brillante luminoso, profumi ampi, carnosi, bella consistenza di frutto succoso e giustamente maturo, note di cacao, sottobosco e spezie, accenni di rosa e rosmarino. Al gusto bella polpa carnosa e succosa di grande soddisfazione, saldo corredo tannico non aggressivo, il vino si allarga bene sul palato con grande ricchezza di sapore, finale vivo e salato con accenni minerali.
Barolo Azienda Monchiero Rubino intenso e concentrato, mostra un naso salmastro, “animale e cuoioso”, con accenni affumicati, petrosi, di bella vivacità e nerbo. Al gusto saldo corredo tannico, grande freschezza e nerbo, bell'allungo con dinamismo e articolazione, si apre molto bene, persistente lungo e preciso
Barolo Rocche Azienda Vietti Rubino di bella intensità, naso fitto, compatto, caldo e maturo, con leggere sfumature selvatiche speziate. In bocca attacco di buona dolcezza e freschezza, si allarga ampio, ricco e ben strutturato, con saldo corredo tannico, ricchezza di sapore, sapidità e nerbo e finale lungo e persistente.
BAROLO DI MONFORTE D’ALBA Barolo Azienda Monti Rubino molto intenso ma vivo di bella profondità e brillantezza, naso compatto ampio, denso, giocato su eleganza e dolcezza d'espressione, con note di rosa, liquirizia, spezie e accenni di tabacco. Bocca di grande dolcezza, con tannini vellutati di grande finezza, suadente caldo largo e avvolgente, vellutato con finale pieno di sapore. Vino di grande stoffa e calore con lunghissima persistenza.
Barolo Campo dei Buoi Azienda Costa di Bussia Rubino concentrato, naso molto fitto, su note selvatiche di sottobosco, con accenni minerali e di liquirizia, bouquet variegato e di bella definizione. La bocca è molto ampia carnosa, di grande volume e persistenza con una struttura monumentale, tannini imponenti e una grande materia fitta. Giovanissimo con potenziale d'evoluzione molto importante.
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Barolo Bussia Azienda Silvano Bolmida Naso fresco, vivo variegato, di bella dolcezza d'espressione con accenni floreali ben evidenziati, sfumature di sottobosco, leggera speziatura, prugna e liquirizia a comporre un insieme fresco e vivo. Bocca con attacco nervoso e pieno d'energia, si allarga bene ampio in bocca con salda struttura e carattere, corredo tannico ben sottolineato, persistenza molto lunga .
Barolo San Giovanni Azienda Gianfranco Alessandria Rubino di bella intensità e profondità, naso largo, fitto, ben definito, di notevole ampiezza e fragranza, con frutta rossa matura, liquirizia, leggera speziatura e accenni terrosi in evidenza. La bocca è piena, molto succosa con bel frutto polputo e croccante che apre su un corredo tannico saldo, ben sostenuto e nervoso, con acidità viva e presente ma ben bilanciata, lunga persistenza. Ottimo potenziale di evoluzione
Barolo Colonnello Poderi Aldo Conterno Rubino brillante e molto luminoso, naso denso, fitto, di grande profondità e compostezza, con note di prugna, ciliegia, terrose e accenni selvatici di grande freschezza ed eleganza. La bocca è molto viva e succosa, con notevole densità e rotondità, ottimo corredo tannico ben fuso con il frutto, acidità bilanciata ottima persistenza con potenziale evoluzione importante.
Barolo Corsini Azienda Ruggeri Corsini Rubino concentrato e profondo, propone un naso di notevole spessore e densità, caldo maturo selvatico, con note di erbe aromatiche e spezie accenni minerali e selvatici. La bocca è di notevole impegno, con struttura larga e piena, frutto carnoso, saldo corredo tannico ben fuso con il frutto, acidità scattante che regala nerbo e una lunga persistenza al vino.
Barolo Gavarini Vigna Chiniera Azienda Elio Grasso Rubino brillante molto luminoso, naso ricco e carnoso, con frutta ben matura e viva, accenni di erbe aromatiche, leggera speziatura che richiama la cannella, rosa passita e china. Bocca di grande vivacità e nerbo, con una salda struttura tannica che deve ancora attenuare qualche asperità di troppo, materia importante e ricca e vino ancora molto giovane ma molto promettente.
BAROLO DI SERRALUNGA D’ALBA Barolo Prapò Azienda Ettore Germano Rubino di splendente vivacità e profondità, naso fittissimo e pimpante di immediato impatto, con prugna ben matura, liquirizia, rosa, accenni speziati e animali, note di cuoio e tabacco con una bella venatura fresca minerale. La bocca è larga, viva, carnosa di bella definizione e salda tessitura, il vino si dispone ampio, con grande polpa, tannini ben sottolineati ma levigati, finale lungo avvolgente di grande eleganza e dolcezza.
Barolo Prapò Azienda Schiavenza Rubino brillante luminoso, naso fresco, vivace compatto, di grande smalto con bellissima fragranza floreale, netto, incisivo, nervoso - precisi la liquirizia, la terra e le erbe aromatiche. Attacco fresco in bocca, vivo, succoso, di grande incisività e nerbo, bellissimo il corredo tannico, caldo ampio avvolgente su toni terrosi ben levigati, succoso il frutto. Grande freschezza e finale pieno di energia, con acidità che spinge.
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Degustazioni Barolo Sorì Gabutti Azienda Sordo Giovanni Rubino granato di nitida definizione, naso molto fresco, fragrante e floreale, con prevalenza di note che richiamano la rosa, i piccoli frutti rossi, il cacao, la liquirizia e una leggera speziatura. Bocca di grande dolcezza, eleganza e sapidità, con tannini ben levigati e terrosi, bell'allungo e dinamismo, largo in bocca, vellutato caldo e avvolgente, con una grande eleganza e finezza di espressione e finale salato e goloso di grande personalità.
Barolo Serralunga Azienda Paolo Manzone Naso molto vivo, nervoso, terroso e selvatico, con bella freschezza e plastica incisività, con note di prugna e liquirizia, accenni selvatici minerali e definizione netta e precisa. Al gusto è molto sapido, con un tannino ben levigato soffice e vellutato, una pienezza larga che invade bene la bocca, grande sviluppo e dinamismo una notevole vivacità, con acidità ben calibrata e finale lungo e preciso di grande dolcezza d'espressione.
Barolo Arione Azienda Gigi Rosso Naso dolce e maturo, con note di prugna, spezie e liquirizia e leggeri accenni selvatici a comporre un insieme variegato caldo e suadente di stampo classico. Bocca molto ricca, piena succosa, con una bella pienezza del frutto, saldo corredo tannico nervoso, bella acidità fresca e viva, gusto molto pieno, di saldo carattere e personalità.
Barolo Badarina Vigna Regnola Azienda Grimaldi Bruna Naso ampio, caldo e maturo di bella compostezza e complessità, con frutta ben matura, terra, accenni di liquirizia e spezie in evidenza. Bocca di grande impegno e volume, largo pieno e carnoso il frutto ancora vivo e ben polputo, imponente la struttura tannica non aggressiva ma ben presente e salda, con lunga persistenza e ricchezza di sapore e potenziale evolutivo importante.
Barolo Parafada Azienda Massolino Rubino vivo brillante luminoso, naso molto sapido, con accenni minerali, netti il bastoncino di liquirizia e gli accenni di rosa passita e spezie, con leggeri accenni di cuoio. La bocca è fresca, viva, nervosa, con un bel corredo tannico terroso, polveroso, molto fine, grande freschezza e sapidità e finale lungo, caldo, vellutato, pieno di sapore e stoffa.
Barolo Cà Mia (Brea) Azienda Brovia Rubino molto intenso, vivo e profondo, naso estrattivo, maturo, succoso di bella dolcezza e polpa con striature di viola e sottobosco in evidenza. Attacco in bocca molto voluminoso e potente con salda struttura tannica che deve ancora ammorbidire gli spigoli e imponente lunga persistenza.
Barolo Serralunga Azienda Rosso Giovanni Colore rubino leggermente granato, naso caldo, fitto, vivo, vellutato, già abbastanza evoluto con note di prugna sotto spirito e spezie. Bocca piena, ricca, con tannino ben presente, ma ancora con qualche spigolosità, molto largo, voluminoso, pieno, con finale molto persistente su note terrose.
Barolo Lazzairasco Azienda Guido Porro Rubino fitto e profondo, naso ampio, carnoso e denso, molto Serralunga style, con prugna molto netta, note selvatiche e animali accenni di cuoio e liquirizia in evidenza. La bocca è di grande dolcezza e pienezza, ampia e succosa, con tannini ben levigati. Vino molto elegante, con grande nerbo e ricchezza di sapore e finale lungo e vivo, con acidità che spinge. Ottimo potenziale d’evoluzione.
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Le parole maestre
MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE
UNA VITA IN UNDICI TAPPE 1921: Nicola Dioguardi nasce a Bari. Qui studia tranne una breve parentesi di due anni al liceo classico di Molfetta dove viene fortemente impressionato dalle lezioni di Tommaso Fiore. 1947: si laurea in medicina e chirurgia all’Università di Bologna con pieni volti, la lode e la dignità di stampa della tesi dal titolo “La questione del morbo di Banti”. 1949: il professor Luigi Villa, illustre clinico medico dell’Università di Milano, lo chiama nel capoluogo lombardo dopo aver letto alcuni suoi lavori di clinica biologica. 1964-1970: va a dirigere prima l’istituto di Patologia medica e poi Semeiotica medica presso l’Università di Cagliari. 1970-1972: è direttore dell’istituto di Patologia medica dell’Università di Milano. 1972-1983: a Milano, dirige l’istituto di Clinica medica terza. 1984: dirige l’istituto di Medicina interna. Crea la scuola di specializzazione in gastroenterologia, ematologia e gerontologia. 1992: diventa direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas. 1993: vede la luce una delle sue 400 pubblicazioni, “Fegato a più dimensioni” (Etas). 1996: produce il videotape “Computer liver: studio computer assistito dell’epatone e dell’epatonesso”. 2001: fonda e dirige il laboratorio per lo studio delle misure metriche nella Scienza della salute. Il Centro è sponsorizzato dalla Fondazione “Michele Rodriguez”, di cui Dioguardi è direttore scientifico.
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giusta misura, ricetta per longevità e salute La
di Salvatore Giannella
ECCO
I CONSIGLI
“MAIGRET DEL FEGATO”, NICOLA DIOGUARDI, DEL
DIRETTORE
DELL’ISTITUTO
HUMANITAS, CHE SVELA
I SUOI SEGRETI PER UNO STILE DI VITA
E
EQUILIBRATO. A PROPOSITO DEL VINO RACCOMANDA
“MENO
E MEGLIO”
ell’ufficio del direttore scientifico dell’istituto clinico Humanitas di Rozzano, alle porte di Milano, c’è un giovane ricercatore ultraottuagenario che mostra a tutti con orgoglio l’ultimo ritrovato tecnologico da lui messo a punto e battezzato con il suo nome: il Dioguardi Histological Metrizer (in gergo DHM), una macchina che aiuta il tradizionale lavoro del medico con la scienza informatica. La macchina elabora le informazioni fornite dalle immagini microscopiche affioranti dai preparati istologici, sottili sezioni dei tessuti prelevati con biopsia dal fegato dei pazienti e, in tempi brevissimi, offre al medico il referto scritto su carta, con la diagnosi della malattia epatica presa in esame. Le ricerche hanno portato Nicola Dioguardi ad applicare alla epatologia la teoria generale dei sistemi e i concetti di frattale, di auto organizzazione, di non linearità, di caos deterministico. Concetti complicati ma dal risultato pratico e semplice: ora la strumentazione di cui Dioguardi dispone, e che gli consente analisi quantitative del tessuto epatico con giudizi di qualità, lo porta ad emettere “diagnosi automatiche delle sezioni istologiche” esplorate e a identificare l’epatone, ovvero la più piccola componente della struttura epatica che contiene la più piccola frazione di attività complessiva del fegato, la voluminosa ghiandola dal peso di un chilo e mezzo circa che svolge alcune funzioni fondamentali dell’organismo. Si tratta di un grande passo avanti nella ricerca scientifica che non deve far dimenticare un’antica realtà: che malato non è il fegato ma la persona cui quel fegato appartiene. Davanti al computer, in medicina, ci deve essere sempre Ippocrate. «Per ora il DHM si occupa dei tessuti del fegato, prossimamente mi occuperò del rene» mi sorprende Nicola Dioguardi, che in sessant’anni di docenza e di studio ha combinato con eccellenza medicina e ricerca, affermandosi come un’autorità mondiale nella lotta alle malattie epatiche o, come preferisce lui, come specialista in medicina generale, disciplina che considera maestra di tutte le altre.
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Le parole maestre
MONDI E IDEE IN UN BICCHIERE
GIANNELLA – Professor Dioguardi, mi fa piacere sentirla parlare di progetti futuri come se avesse davanti a lei ancora tanti anni di ricerca attiva. DIOGUARDI – Guardi, ho appena 88 anni, mi sento in forma, mia figlia Laura, che è anche il mio fidatissimo medico personale e mi tiene sotto controllo, mi assicura che tutti i neuroni sono a posto. L’altro mio figlio Francesco, un campione della medicina dell’alimentazione, sorveglia il carburante che immetto nella mia macchina vitale. Perché dovrei abbandonare i progetti che ho ancora nel cassetto? Il mio fisico di ex atleta mi aiuta. Come peraltro aiuta il mio coetaneo e antico compagno di gare Ottavio Missoni.
L Ottavio Missoni taglia il traguardo per primo sui 400 metri all’Arena di Milano, 1939
M Il fegato di Piacenza o fegato etrusco
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GIANNELLA – Lei ex atleta? DIOGUARDI – Certo. Da giovane sono stato un pescatore subacqueo e, soprattutto, ero nella squadra di fioretto a Parigi, capitanata da Edoardo Mangiarotti, quando abbiamo vinto i campionati del mondo. Nella stessa circostanza Missoni correva i 400 metri. Al rientro in albergo, dopo le competizioni, incontrai nel metrò una signora che aveva assistito alle gare. Mi riconobbe e mi disse: “Voi schermidori italiani avete vinto tanto, però io ho ammirato monsieur Missoni vincere la sua gara: scendeva nell’ultima parte dei 400 metri che sembrava un angelo”. Un angelo conquistatore, di cuori e di successi sportivi e imprenditoriali. GIANNELLA – Missoni, come lei, continua a tenere il fisico atletico e scattante da aver vinto nell’ultimo anno il titolo mondiale di lancio del peso in Austria e la medaglia d’oro nel lancio del giavellotto ai campionati europei ad Ancona, categoria “under 90”. Ci sveli il segreto della vecchiaia attiva? DIOGUARDI – Avere il senso della misura. Guardi, l’evoluzione dei miei studi va tutta in direzione della misura. Dopo aver studiato per una vita quell’organo immensamente forte che è il fegato, ho cominciato a misurare le componenti degli organi per trarre conclusioni più esatte. Per questo ho fondato e dirigo il laboratorio per lo studio delle misure metriche
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nella scienza della salute dell’Istituto Clinico Humanitas. Lo stesso metodo applico al mio stile di vita. Che è sintetizzabile in una massima: far tutto senza esagerare in niente. GIANNELLA – Questa vale anche per il fegato, immagino. DIOGUARDI – Certo, ho cominciato con questo organo. GIANNELLA – Quanti sono gli italiani che hanno il fegato a pezzi? DIOGUARDI – Ignoro il numero esatto ma devono essere molti visto che le malattie epatiche sono la terza causa di morte degli italiani dopo i tumori e gli infarti.
L La scienza ha confermato la verità del mito di Prometeo
GIANNELLA – Mi parli dei rapporti tra fegato e vino. DIOGUARDI – Intanto sono rapporti demonizzati. Chiariamo: il vino è come l’acqua. Se lei beve troppa acqua, affoga. Se lei beve troppo vino, finisce con il diventare cirrotico e, prima, alcol dipendente. E qui torniamo alla parola chiave: misura. Qualunque cosa lei prende in eccesso, fa male. Tutto quello che invece prende su misura, secondo criteri non tanto basati sul buonsenso ma da approcci di misurazione seri, direi farmacologici, allora si è sulla buona strada. GIANNELLA – Nel caso del vino, qual è la dose che il “Maigret del fegato” consiglia? DIOGUARDI – Intanto che il vino sia di qualità, di non alta gradazione. Fino a due bicchieri per pasto possono andar bene. GIANNELLA – Invece che cosa capita a eccedere oltre la misura? DIOGUARDI – Capita che il vino intossichi il fegato, che piano piano va in atrofia, poi in cirrosi, con il tessuto nobile sostituito da cicatrici. Come per qualsiasi tossico, la prima conseguenza che provoca è che uccide cellule epatiche in quantità maggiore della proverbiale capacità del fegato di rimpiazzarle. GIANNELLA - Tanto proverbiale che è finita immortalata nel mito di Prometeo: nonostante l’aquila gli mangiasse il fegato, l’organo tornava sempre nella dimensione originaria. DIOGUARDI – C’è della verità scientifica in quel mito. Oggi sappiamo che il fegato ha una resistenza formidabile. Riceve ogni giorno insulti di tutti i tipi e riesce a rimanere nel suo stato normale rigenerando ogni volta le sue piccole e grandi strutture, come accade a una pianta che rinnova di continuo i suoi fiori. E sappiamo anche che puoi portare via mezzo fegato, addirittura fino al 60 per cento, e lui si rigenera. GIANNELLA – Torniamo ai nemici del fegato: l’abuso di alcol, diceva, e l’alimentazione scorretta. DIOGUARDI – Sì, ma per piacere misura ed equilibrio, e non affrontare la questione in termini superficiali. Con questo non voglio dire che l’alimentazione scorretta faccia bene. Ma prendiamo uno degli alimenti “maledetti”, il fritto per esempio. Il fritto non è che viene metabolizzato dal fegato, viene metabolizzato dallo stomaco e ridotto agli elementi essenziali semplici, che costituiscono la base di tutti gli alimenti comunque cotti. Torno all’immagine che mi è cara: se uno beve tanta acqua, non si disseta ma muore affogato. GIANNELLA – Per dirla con uno slogan reso popolare dalla Rai, invece che “di tutto di più”, il medico saggio consiglia: “meno e meglio”. DIOGUARDI – Questa gliela rubo. GIANNELLA – Professore, la sua passione per le misure può essere frutto di un’eredità genetica? DIOGUARDI – È molto probabile. Mio padre, Saverio, era un architetto
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molto affermato. A Bari c’è un viale largo e lungo che lo ricorda. Anche mia madre, friulana di origine, ha studiato architettura, e certamente ha influenzato noi quattro figli: insieme a me, Gianfranco, che è un teorico a livello mondiale di economia aziendale e di sistemi organizzativi (in Francia gli hanno dato la Legione d’onore); Giuseppe, avvocato, allievo prediletto del grande Carnelutti, purtroppo prematuramente scomparso; ed Eugenio, il fratello volato a costruire case in Venezuela. Ma credo sia merito anche del mio primo, grande mentore: mio suocero, Armando Businco che fu professore di anatomia patologica dell’Università di Bologna dove mi sono laureato. Mi ha trasmesso il rigore formale non solo nella medicina, i princìpi dei meccanismi della “ricognizione” dell’osservato, insieme alle teorie della discriminazione e della classificazione. È stata una grande fortuna per me incontrarlo. GIANNELLA – Anche perché ha conosciuto Magda, la compagna della sua vita. DIOGUARDI – Ho sposato Magda sessant’anni anni fa, nel 1949, l’anno in cui partii da Bologna e arrivai per la prima volta a Milano. GIANNELLA – Il suo curriculum prova che lei è un cittadino del mondo ma è proprio Milano la città in cui è incorniciata la maggior parte della sua vita operosa. Come clinico e come abitante, come giudica questa città che la accolse più di mezzo secolo fa? DIOGUARDI – Guardi, io ho un amore infinito per questa città che ha un pregio straordinario: chiunque abbia attitudine, conoscenza e operosità viene utilizzato. A chi arriva appare in genere scialba, poi cominci a girare per le sue vie e cominci a entrare, magari per sbaglio, in uno dei cortili del quadrilatero del centro, e resti allibito dalla bellezza. Milano è una città che ha qualità da scoprire lentamente, non è la città che ti aggredisce come Venezia o come Roma, no, no… Milano ti consente di scoprirla, e quando la scopri veramente te ne innamori. Come è capitato a me e a tanti altri della mia generazione. Peccato che… GIANNELLA – Peccato che? DIOGUARDI - Se c’è una diagnosi che mi verrebbe da fare, è che l’organismo di Milano difetta di due vitamine importanti: la cortesia e il sorriso. Una delle cose che mi strabiliarono quando arrivai qui era l’affabilità dei vigili urbani, i mitici ghisa. Ricordo ancora come fosse ieri la paletta alzata di fronte a me che avanzavo tentennante in auto in piazza Cordusio. Mi fermò, avrebbe potuto farmi la contravvenzione, invece capì che ero in difficoltà, mi tolse dai pasticci con un consiglio utile e un modo di fare che allora era proverbiale in Europa. E i tassisti? Ogni volta che prendevo un’auto gialla ne uscivo che ne sapevo di più sui politici più importanti, ti raccontavano vita e miracoli di quello e quell’altro, verso quale orientare il voto, il tutto sempre con un sorriso e un senso dell’umorismo, mai di sarcasmo. Ecco, oggi non mi capita più di vedere sorridere qualcuno andando in giro per Milano. Hanno tutti le mascelle tese. E soprattutto, a differenza di ieri, non interessa a nessuno quello che fai, sono tutti immersi nel palazzo dei propri pensieri, che possono anche non essere preoccupazioni. GIANNELLA - Com’è fatta la sua giornata? DIOGUARDI - Cominciamo dalla sera. Al massimo alle 10 dormo. L’andare a letto prestissimo è un’eredità della scherma, perché quando ero in allenamento mi dicevano di andare a letto alle 8, io andavo a letto alle 9, già mi sembrava una trasgressione.
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L L'Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (MI)
GIANNELLA – Quindi niente teatro, né cinema, né televisione. DIOGUARDI - Il cinema mi scoccia, l’ultimo film che ho visto credo sia Il padrino, sono abbastanza impegnato io per voler andare a vedere il cinema impegnato. Il teatro mi piace moltissimo, piace anche a mia moglie, però quando arrivo a casa la sera ho voglia solo di andare a letto. La Tv mi serve per assopirmi, in sostituzione del sonnifero. Mi sveglio intorno alle tre e mezzo, alle quattro sono in cucina, già operativo: è una fortuna avere la cucina a completa disposizione, senza che nessuno mi controlli. Mi preparo la colazione, una tazza di caffè e un litro di the e poi comincio a lavorare, facendo calcolo e scrivendo. Doccia alle 7,30, poi salgo sulla mia auto e via verso l’Humanitas. GIANNELLA - Guida ancora lei? DIOGUARDI - Certo. E grazie a Dio non ho avuto mai incidenti. GIANNELLA - Fuma? DIOGUARDI - No, ho fumato la mia prima e ultima mezza sigaretta quando, a 15 anni, a Roma facevo una gara ai Ludi Juveniles. Era la mia prima gara di fioretto (per la cronaca, arrivai terzo, vinse Edoardo Mangiarotti). In quell’occasione mi si avvicinò un signore, mi porse la sigaretta e mi disse: “Prova”. Dopo tre boccate, vomitai. Fu subito chiaro che il fumo non era cosa per me. GIANNELLA - Qualcosa di simile è capitata anche a me. Ma proseguiamo con l’agenda della giornata tipo. DIOGUARDI – Torno a casa all’una, pranzo leggero, sono ghiotto di pesce ma mi piace anche la carne, finisco di pranzare alle due, dormo inesorabilmente un’ora, tutti i giorni, poi di nuovo qui in Humanitas fino a sera. GIANNELLA - Perché quell’oretta inesorabile di pennichella? DIOGUARDI - Perché, come si suol dire, mi rompe la giornata. Mi risveglia e mi rigenera. GIANNELLA - Alcol? DIOGUARDI - Due dita di whisky prima di addormentarmi. Assolutamente in modo sistematico. Mi piace moltissimo. E non toglietemi un bicchiere di buon vino a pranzo e a cena. GIANNELLA - Vacanze ne fa? Al mare o in montagna? DIOGUARDI - Io non faccio di solito né ferie né weekend. Giudico negativamente questa nuova generazione di giovani e non giovani come “uomini e donne del weekend”. Io nel weekend lavoro di più perché sono a 33
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casa indisturbato. Vado avanti con questo tran tran fino al 13 luglio, data in cui compio gli anni, e allora per evitare che mi facciano gli auguri che per me portano male, il 12 sera parto in vacanza per quattro settimane a Entrèves, sobborgo di Courmayeur. Ecco, con questa agenda sono riuscito a tenere lontano da me le malattie, tranne due emergenze: due interventi al cuore, l’ultimo vent’anni fa. GIANNELLA – Lei ha a che fare con una variegata umanità. Quali sono le persone che non può digerire? DIOGUARDI – Gli uomini falsi, sleali e furbastri. Preferisco parlare con un delinquente che so benissimo quello che è, non con un soggetto che passa per una persona per bene ma che invece è disonesto, sleale.
L Entrèves, sobborgo di Courmayeur, dove Dioguardi trascorre le sue vacanze
GIANNELLA – Nella sua ricca biografia, oltre ai due maestri di medicina (Businco e Villa) trovo citati due nomi: di un uomo, Peppino Strippoli, e di una donna, Angela Migliavacca. Che cosa le ricordano? DIOGUARDI – Il primo mi evoca la capacità di dare dignità all’alimentazione pugliese e al vino della mia terra d’origine. Con i suoi “trani”, le osterie semplici e genuine che Peppino aveva aperto negli anni Sessanta a Milano, aveva dato dignità ai sapori e anche alla gente che produceva quelle specialità e quei vini fino ad allora ingiustamente ritenuti di serie B, da taglio. La seconda era un’angela, di nome e di fatto. Quando arrivai a Milano, avevo in cura un emofiliaco che stava morendo: sopravviveva grazie al sangue donato dagli operai dell’impresa del padre. Doveva essere operato, non sapevo come fare, avevo bisogno di alcuni medicamenti che erano appena usciti e si trovavano solo a Londra, medicine molto costose. Un giorno la signora Angela venne a trovarmi e fondò il centro “Antonio e Angela Maria Migliavacca”. Così facemmo venire da Londra i medicinali antiemofilici, operai il malato e quel giovane di allora oggi vive ancora. GIANNELLA – Ha più incontrato mecenati come la Migliavacca? DIOGUARDI – L’ultimo si chiama Rodriguez, un imprenditore pubblicitario di Trieste che ha creato una fondazione che porta il suo nome. È stato lui, otto anni fa, a finanziare la costruzione della macchina che porta il mio nome. GIANNELLA – Sulla lavagna del suo studio vedo riportate alcune massime e detti. Che cosa significano per lei? DIOGUARDI – Una massima di solito ha il compito di esprimere in poche parole molti concetti, senza sotterfugi. E chiede solo di essere presa in considerazione nella pratica quotidiana. Credo di fare un bel regalo ai lettori di DeVinis affidandole sette delle mie massime preferite. 1) Alla morte bisogna arrivare vivi. 2) Essere seri non vuol dire prendersi sul serio. 3) Per essere felici è necessario non saperlo. 4) Chi pianta datteri non li mangerà, mangia solo quelli che qualcun altro ha piantato. 5) Più in alto si va, più piccoli si appare a chi non sa volare. 6) Lo stato di buona salute non promette mai niente di buono. 7) L’unica cosa che dà l’idea dell’infinito è l’imbecillità umana.
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Degustazioni
Grandi vini studiano per diventare
“cult” di Alessandro Franceschini
ini di territorio o vini per il mercato? Espressione di una vocazionalità unica, diversa, altra, soprattutto nei confronti delle storiche denominazioni dell’entroterra toscano, dove il sangiovese storicamente regna, più o meno, sovrano, o figli della moda, del trend, scaturito dall’incredibile successo, soprattutto internazionale, di nomi come Sassicaia, Ornellaia e Masseto? Spesso se n’è parlato e d’altronde non è semplice, né giusto generalizzare: il territorio è vasto, con similarità e al tempo stesso diversità che connotano un quadro variegato, anche nella composizione varietale dei vitigni che nel tempo sono stati allevati e sperimentati. Sicuramente c’è stato, soprattutto negli ultimi dieci anni, un fer-
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mento e un’esplosione, sia in termini quantitativi che qualitativi, che è difficile riscontrare altrove in Italia. L’Associazione Grandi Cru della costa toscana, presieduta dalla produttrice Ginevra Venerosi Pesciolini, organizzatrice dell’anteprima dedicata alla stampa e, quest’anno, aperta anche al pubblico nelle sale del Real Collegio di Lucca, già nel nome, “grandi cru”, palesa un’aspirazione fortemente ambiziosa: quella di far conoscere e valorizzare la presenza di “grandi vigne” in territori unici, per collocazione dei terreni e lavoro dei viticultori. La presidentessa parla apertamente di diffusione e difesa del lavoro: “del viticoltore e non dell’industriale, del vino vero da quello creato soltanto in cantina. 35
Degustazioni
I cipressi di Bolgheri
L Lucca, il Talk Show
Del vino che parli dei nostri luoghi e non del legno che lo ospita”. Parole chiare, tanto più in considerazione del fatto che molta critica del nostro paese ha spesso accusato i vini provenienti da questi territori proprio degli aspetti dai quali, invece, è evidente la presa di distanza. Cabernet sauvignon e franc, nonché merlot, petit verdot e syrah, perché il mercato, specie d’oltreoceano, li esige o reale elezione di terroir costieri per l’allevamento di vitigni francesi? Voglia di inseguire il mito di alcuni vini che sono entrati nei listini dei più importanti marchand del mondo insieme ai secolari vini di Borgogna e Bordeaux o reale esigenza territoriale? Il professor Attilio Scienza, della facoltà di Agraria dell’Università di Milano, condusse qualche anno fa un importante lavoro di zonazione proprio nell’area più gettonata della costa, Bolgheri, alla ricerca delle sfaccettature in grado di esaltare le peculiarità dei singoli areali di produzione in funzione di vitigni già di successo da tempo. Non semplice, ad oggi, la sua compiuta applicazione, a dimostrazione di come non sia così scontato valorizzare il concetto di territorio quando la sua analisi arriva dopo il successo commerciale. Un’escalation, quella sui mercati internazionali, che rappresenta bene la cifra di vini che oggi si attestano intorno ai 7 milioni e mezzo di bottiglie prodotte tra le province di Grosseto, Livorno, Pisa, Lucca e Massa Carrara. III VINI CULT O TREND? Qualcuno potrebbe inorridire di fronte a un titolo del genere e insorgere con un’esclamazione di morettia36
na memoria: “Ma come parla?!”. Ma anche traducendoli in culto e moda, la sostanza non cambia. I vini della Costa possono ambire a entrare in modo ancor più sostanzioso, rispetto al presente, nell’ambita lista dei vini considerati di culto dalla critica mondiale e dagli operatori di settore? Questo un po’ il succo del dibattito svoltosi a Lucca, durante le sessioni di degustazione, dal titolo: “Quali saranno i vini di culto di domani?”. Presenti Luca Gardini, sommelier, Luca Bracali, ristoratore, Christian Roger, esperto in fondi di investimento relativi al vino, Giuseppe Mongiardino, importatore e distributore, specie di vini francesi in Italia, e Stefania Vismara, giornalista. Al di là dell’opinabile tema, soprattutto in considerazione dell’attuale momento di incertezza dovuto alla crisi mondiale dei mercati, compresi quelli relativi ai vini d’élite (Michele Satta, viticoltore a Bolgheri, è infatti spesso intervenuto cercando di spostare l’attenzione del pubblico anche su altre problematiche), sono emersi spunti di dibattito che hanno finalmente messo un po’ d’ordine all’interno di questa piccola categoria.
Il castello di Bolgheri
L La chiesetta e i vigneti di Bolgheri
Forse proprio da un esperto del settore come Christian Roger, sono emersi gli spunti più significativi: ”nei fondi di investimento del vino, quello italiano pesa solo il 7/8%”. Perché? Semplice: un vino, per poter realmente diventare di culto, deve avere caratteristiche ben precise. Prima di tutto una storia di grandi annate consecutive alle spalle, longeve, in grado di durare almeno venti, trent’anni e più. “Il vino culto non si fa dall’oggi al domani. Il vino di culto è quello di ieri”. Fondamentale, poi, che la domanda superi l’offerta: l’industria, quindi, è inevitabilmente tagliata fuori da questo settore. E il legno? “Non si deve sentire”, continua Roger: “Si deve ritornare all’eleganza, che non significa esilità. Se un vino di Borgogna o Bordeaux sapesse di legno, anche minimamente, sarebbe negativo”. Ecco quindi che l’identikit dei vini che possono ambire a diventare leggendari e con quotazioni sempre alte nel tempo, prende una sua connotazione abbastanza chiara. Se una determinata schiera di vini costruiti, diventati trend, possono ambire a un successo estemporaneo, ma non duraturo, quelli di culto concedono ben poco alle mode.
Sembra, quindi, troppo prematuro pensare di poter rispondere alla domanda che ha mosso l’intero dibattito: i vini della costa sono ancora troppo giovani per poter anche solo pensare di scommettere su qualche altro campione oltre ai tre che si sono affermati in questa categoria negli anni. Ma soprattutto, come ha ben sottolineato Michele Satta nel suo intervento, ciò che si deve diffondere con maggior impulso è “una cultura di base della qualità del vino e del cibo che è ancora poco sviluppata nel nostro Paese”. Successivamente si potrà affrontare il discorso dei vini di culto”. Il vino è parte della nostra civiltà millenaria: la consapevolezza diffusa di questo aspetto sta alla base di ogni altro discorso, vini di culto compresi, specie in un periodo proibizionista come questo, dove il vino è considerato oramai tale e quale al veleno (vedi le leggi sulla tolleranza zero in fatto di assunzione di alcol).
I VINI Due manifestazioni consecutive ci hanno permesso di prendere un primo contatto con le nuove annate che andranno in commercio quest’anno. Prima a Bolgheri, presso la sala teatro del centro di San Guido, per approfondire più da vicino tutti i vini di quella che rimane la denominazione di riferimento della costa, poi a Lucca, dove l’Associazione Grandi Cru di Toscana, con l’aiuto dei sommelier Ais, ha presentato sia vini prelevati da botte che quelli a breve in commercio, sui quali abbiamo prestato la nostra atten37
Degustazioni zione durante le degustazioni alla cieca dei 60 produttori delle cinque province che rappresenta. III BOLGHERI Il nuovo disciplinare è in dirittura di arrivo e l’obbiettivo del Consorzio è quello di poterlo applicare già a partire dalla vendemmia 2009. La base ampelografica verrà modificata e privilegerà vitigni come il cabernet franc, il cabernet sauvignon e il merlot (sangiovese e syrah potranno essere presenti fino ad un massimo del 50%) che potranno essere vinificati in purezza. Di fatto il disciplinare farà sua una situazione da sempre presente tra i cipressi e gli ulivi di questo lembo di costa toscana e che fotograferà con maggior coerenza ciò che costituisce la matrice del suo successo. Lo stesso censimento delle superfici vitate a Bolgheri, giunta al suo termine nell’ottobre del 2008, ha mostrato come siano proprio i vitigni francesi a dominare completamente la scena: il cabernet sauvignon rappresenta il 45,17%, il merlot il 24,10%, il cabernet franc il 7,77%, il petit verdot il 7,47% (anche se, dati i risultati poco omogenei delle ultime sperimentazioni, verrà notevolmente ridotto nei prossimi anni) e infine il syrah con il 7,18%. In netta minoranza il sangiovese (poco più di 11 gli ettari allevati) che rappresenta solo l’1,33% della superficie totale, sostenuto da un piccolissimo numero di produttori locali che lo vinificano in uvaggio o in purezza sotto il cappello della IGT. Sono stati 76 i campioni in degustazione, tra bianchi, rosati e soprattutto i Bolgheri rosso (2008, 2007 e 2006) e i Bolgheri Superiore (2006 e 2005). Presenti anche 15 campioni tra gli Igt del 2007 e 2006. Maggiore la consapevolezza nell’uso del legno, così come la volontà di lavorare quasi “in sottrazione” rispetto al passato. Un andamento che oramai si riscontra d’altronde in tutto lo stivale, figlio della consapevolezza di voler privilegiare la scorrevolezza della beva, anche in zone, come quella bolgherese, che certo non ha lesinato nel recente passato nella produzione di vini tutto potenza, frutto e rovere, che oggi risultano quasi estranei rispetto al contesto generale, specie degustazioni alla cieca. Ottima la prestazione dei vini di Serni Fulvio Luigi, sia con il Tegoleto 2007, fresco, scorrevole e di buona definizione aromatica che soprattutto con l’Acciderba 2006, con un tannino sottile e di bella grana, freschezza e un naso giocato su sfumature floreali, di ciliegia e di piccoli frutti di bosco. Convincono pienamente anche i campioni presentati da Collemassari Grattamacco: il Bolgheri rosso 2007, giovane e senza le pretese dei fratelli maggiori, ma corretto e nitido al naso; il Bolgheri superiore Alberello 2006 di gran bella eleganza olfattiva, coniuga bene macchia mediterranea e ciliegia, balsamicità e tocchi di menta; infine il Grattamacco rosso Bolgheri superiore sempre 2006, dove a ribes e lamponi si unisce una bellissima, complessa e fine definizione speziata che non abbiamo riscontrato in molti altri campioni. Sassicaia e Ornellaia 2006 non hanno deluso, ma, come spesso accade per questi due vini,
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è difficile che esprimano già in questa fase, complessità, apertura e completa piacevolezza. Fresco lo slancio finale del campione della Tenuta San Guido con una buona definizione del frutto, dolce e di bella intensità. Più sottile e meno esuberante in questo momento Ornellaia, alla lenta ricerca di una compiutezza tra note vegetali e fruttate. Convincente il Greppi Cupi 2007 dell’omonima azienda, succoso, snello e con il rovere perfettamente calibrato così come i vini di Giovanni Chiappini, autentico vigneron della zona che presenta dei vini schietti, a tratti scontrosi in gioventù, ma che solitamente donano belle soddisfazioni con il tempo. Piacevole il Bolgheri rosso 2007 di Michele Satta, che però paga in questo momento la gioventù e un quadro aromatico non ancora amalgamato tra le parti vegetali apportate da cabernet sauvignon e merlot e quelle più fruttate del sangiovese. Tra gli IGT, avvolgente, tecnicamente ineccepibile il Paleo 2006 di Le Macchiole così come lo Scrio 2006. Una menzione al Lagone 2007 di Aia Vecchia: 120.000 bottiglie a 3,38 euro franco cantina. Semplice, corretto, ben definito aromaticamente, ben dosato il legno per vino dal prezzo in assoluto più basso dell’intera denominazione, bianchi e rosati inclusi. III GROSSETO All’interno della denominazione Montecucco buona la prova del Poggio d’Oro 2006, un sangiovese in purezza carnoso, terroso nella sua trama tannica e dal bel frutto cremoso prodotto dell’azienda Le Calle a conduzione biologica situata a metà strada tra il monte Amiata e la Maremma toscana. Tra le file del Morellino di Scansano, convincenti per aderenza al
varietale, grana dei tannini e un frutto fresco il Morellino di Scansano 2006 Larcille dell’azienda Poggio Trevvalle e il Tempo di Terre di Talamo sempre 2006. Polpa, ottimo centro bocca, note di prugna matura e un apporto del legno ben fatto, anche se ancora da assorbire per il Morellino Capatosta 2006 di Poggio Argentiera. III LIVORNO Di Bolgheri si è già detto. All’interno di questa provincia citiamo anche il Val di Cornia Suvereto Merlot I’Rennero 2006 dell’azienda a conduzione famigliare Gualdo del Re: un vino tecnicamente ben fatto, moderno con sostanza, levigato nel tannino e fresco nella chiusura finale. Spostandoci sull’isola d’Elba ben impressiona l’IGT Oglasa 2005 dell’azienda Cecilia, un syrah in purezza dove la tipica componente speziata del vitigno lascia in questo caso spazio a un frutto molto dolce e intenso e a note di macchia mediterranea. III COLLINE LUCCHESI E MONTECARLO Buona la prestazione complessiva dei vini di questi due piccoli comprensori. Tra le colline lucchesi ritroviamo con forza il sangiovese negli blend con i vitigni francesi: Tenuta di Valgiano 2006 colpisce come sempre per la purezza e freschezza del frutto, mentre il Brania di Colleverde 2007 gioca sulla bella definizione di mirtilli e ribes, cenni floreali e un’integrazione del legno di salda fattura. Tra gli IGT il Melograno 2007 di Podere Concori coniuga bene florealità e pepe con una vena sapida e fresca insieme che fanno di questo syrah un vino di grande bevibilità. Lo storico vitigno del Rodano è protagonista anche nella piccola denominazione di Montecarlo, dove è di casa da secoli: citiamo qui il Fortino 2006 della Fattoria del Buonamico, floreale, con piccoli frutti di bosco e un ottimo centro bocca. III PISA Nella denominazione Montescudaio discreta la prova del Rosso delle Miniere 2006 della Fattoria Sorbaiano, con piacevoli note di rosmarino, timo e frutto di grande estrazione. Buona anche la prova dell’IGT Moro di Pava 2005, un sangiovese in purezza dell’azienda Pieve de’ Pitti che coniuga mineralità e piccoli frutti rossi di buona finezza. Di buona freschezza il Veneroso 2006 di Tenuta di Ghizzano, anche se ancora slegato al naso, bisognoso di tempo per coniugare toni vegetali e frutto. Buona polpa complessiva, ma anche in questo caso, alla ricerca di equilibrio e definizione i campioni di due aziende di Riparbella: Duemani 2006 dell’omonima azienda e il Caiarossa 2005.
Enologia
Lo
spumante
degli
abissi di Daniele Urso
n fondo al mare, raccontano le leggende, si nascondono sempre tesori perduti. Galeoni spagnoli traboccanti d’oro, antiche galee romane cariche di bottino e casse… di spumante. Tranquilli, nessun carico del prediletto di Dioniso è stato perso in mare sulla via dei nuovi mercati. Si tratta, invece, di un progetto fortemente voluto. E per certi versi sognato. Perché un viticoltore è per metà pratico lavoratore della terra e per metà Peter Pan. Sul fondo del Golfo del Tigullio, nella riserva marina di Cala
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degli Inglesi nello specchio d’acqua davanti all’esclusiva Portofino (Genova), riposano 6500 bottiglie ricche di bollicine (pari a circa 5000 litri di spumante). A 60 metri di profondità Piero Lugano, patron delle Cantine Bisson di Chiavari, ha calato “Abissi – Riserva Marina di Portofino”: annata 2008 di uno spumante metodo champenoise che si affinerà in un ambiente molto particolare. La cantina per la presa di spuma sarà, infatti, quella marina. L’uvaggio alla base
C’È CHI LO FA SOTT’ACQUA E CHI SOTTO TERRA Il tentativo di Piero Lugano arriva alla fine di una stagione enoica di sperimentazioni. Al di là della diatriba sui vini biodinamici, in molti hanno cercato vie diverse per creare prodotti unici. Il precursore di questa categoria di pionieri è il goriziano Josko Gravner (che ha subito recentemente un grave lutto: la perdita di suo figlio Miha). Alcuni anni fa, il vignaiolo di Oslavia è tornato alle origini, riproponendo le anfore nel processo di vinificazione. E non anfore qualsiasi ma, almeno agli inizi, quelle georgiane costruite ai piedi del monte Kazebek, nel Caucaso, dove si producono allo stesso modo da migliaia di anni. Un esempio del suo lavoro: «L’annata 2004» dichiarava in una vecchia intervista Gravner «ha due elementi che l’hanno caratterizzata: il primo è che una parte delle uve venne attaccata dalla botrite nobile, cosa che ha conferito al vino grande eleganza; il secondo sta nel periodo di permanenza nelle anfore. Infatti dopo la fermentazione il vino è rimasto a contatto con le bucce per 7 mesi e dopo la svinatura e torchiatura è ritornato nelle anfore per altri 4 mesi, per passare poi nelle botti grandi per 3 anni». A questo procedimento che di canonico ha poco, si affianca l’attento studio delle fasi lunari. Per il goriziano, infatti, si legge sul suo sito, la luna piena «è sfavorevole per lavorare la terra e lavorare in cantina». Mentre la luna calante è «ottima per i travasi, l’imbottigliamento e tutti i lavori in cantina. Anche effettuare le potature in questo periodo è importante». La luna nuova invece è sconsigliata per lavorare, perché «tutta la natura è in movimento». Infine la luna crescente è «importante per i lavori in vigna, quando però le influenze dei pianeti lo permettono». Molti elementi insoliti che però il mercato, forse ancor più degli addetti ai lavori, ha premiato.
è Bianchetta dei vigneti di Verici di Sestri Levante e Riva Trigono con l’aggiunta di piccole percentuali di Vermentino. Le bottiglie sono sott’acqua da questo inverno e dopo sei mesi è arrivato il momento di fare il punto con l’ideatore di questa nuova “tecnica”.
tato che si trovassero anche giare con il vino. Si è scoperto che negli ambienti sommersi la conservazione è ottimale. In numerosi relitti romani i vini hanno mantenuto alcune delle loro caratteristiche organolettiche anche a distanza di secoli. È una questione di temperatura e luce».
Signor Lugano, come mai a un viticoltore viene in mente di “buttare” delle casse del suo vino in mare? «L’idea mi è venuta una decina di anni fa. Sono un ex insegnante di materie artistiche e ho sempre avuto la passione per la storia, il mare, i relitti e i loro ritrovamenti. All’interno di antichi vascelli è capi-
E così… «Quando mi sono dedicato alla produzione di vino, volevo fare anche uno spumante. Così ho pensato che il mare potesse sostituire le grotte che qui non abbiamo» Quando si potrà assaggiare? «Le prime bottiglie verranno messe in commercio per Natale del 2010.
Riemergeranno il prossimo autunno, poi si procederà a sboccatura e tappatura. Si affinano in acqua per diciotto mesi». Non teme qualche contrattempo? «I contenitori sono in materiale inossidabile e molto robusti: le bottiglie sono riposte in gabbie in acciaio. Non ci dovrebbero essere problemi. Inoltre le casse sono nell’area protetta di Portofino a oltre 60 metri di profondità: ci vogliono dei professionisti per immergersi. Non basta il semplice ossigeno, servono delle bombole speciali (caricate con miscele gassose come l’Enriched Air Nitrox, o il Trimix, che permettono il raggiungimento di profondità più elevate e per un periodo più lungo), 41
Enologia
ferrea. Basti pensare a chi ha scelto di interrare anfore piene di vino, come in antichità». Anche Josko Gravner (vedi box), primo in Italia a riutilizzare le anfore, ha diviso il mondo del vino con le sue idee. Non sempre “nuovo” è sinonimo di “migliore”… «Gravner a volte è estremo: fa ricerche su macerazioni molto prolungate. Però le anfore non cedono legno modificando il vino, anche se presentano condizioni simili, sebbene non identiche, alle botti».
L Piero Lugano poco prima dell'immersione del suo spumante
sarebbe molto difficile farci qualche “scherzo”». Cosa c’è a 60 metri di profondità che non sia possibile trovare in una cantina? «La temperatura sempre costante, circa 15 gradi, la quasi totale penombra che evita l’ossidazione dovuta alla luce e la corrente». La corrente? «Le casse sono in un ambiente particolare, il mare aperto. In quella zona il libeccio è pauroso. E c’è anche corrente. Riteniamo che questi due elementi possano creare una sorta di movimento, simile a quello di una culla, che agisca sulle fecce nobili, responsabili dei profumi e della complessità del vino». Quando ha lanciato questa trovata sono anche piovute le inevitabili critiche. In molti hanno pensato che la sua fosse una boutade. Si tratta solo di una trovata pubblicitaria? «No. Vogliamo proporre una tecnologia che sostituisca alcune condizioni difficili da ricreare. Credo, inoltre, che in enologia serva innovare. Anche se spesso quello che noi reputiamo nuovo, in realtà è solo un ritorno al passato. In questo frangente, mi hanno ispirato degli incidenti in corso d’opera (i naufragi di navi cariche di vino). Le idee nascono anche da disguidi o da eventi che interrompono una logica che fino a quel momento sembra
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Fino ad ora considera riuscito l’esperimento di “Abissi”? «Visto l’entusiasmo della gente e i riscontri positivi da parte del mondo dei media, posso per ora considerarlo un esperimento molto riuscito. Enologicamente parlando, le prime verifiche sul prodotto sono positive. Il vino sta rispondendo molto bene. Vedremo come andranno anche i prossimi controlli. Considero questo progetto un punto di partenza». Qual è il sogno impossibile di un viticoltore che fa affinare lo spumante sott’acqua? «Lo prenda come uno scherzo o come una follia irrealizzabile. Una delle tragedie peggiori per noi coltivatori sono la grandine e le avverse condizioni climatiche. È più facile scacciare una gelata o far scappare i nostri amati grappoli?» Scacciare una gelata, l’altra mi sembra impossibile. «Dipende. Basterebbe recuperare una bella portaerei in disuso e crearci sopra un vigneto. In questo modo potremmo orientarla e portarla dove ci interessa e le condizioni sono migliori». Agli integralisti del terroir verrebbe un colpo… «Forse», ride. Come si diventa un viticoltore sognatore? «La mia passione per il vino è nata da piccolo, pur non essendo figlio di viticoltori. Sgorga sull’onda del fascino per gli strumenti e i luoghi di produzione del vino, come le botti e cantine».
no a partecipare alla prima vendemmia della mia vita. Uno spettacolo. E per riconoscenza i genitori di questo ragazzo mi regalarono un cesto d’uva. Prima di tornare a casa assistetti alla pigiatura e mi spiegarono come dai grappoli si arrivasse al vino. Appena arrivato a casa, misi l’uva in un grande recipiente e la nascosi in un ripostiglio. Nei giorni successivi mi interessai delle operazioni di vinificazione, come spingere le vinacce verso il basso. E la sera a casa, di nascosto, ripetevo le stesse operazioni. Quando la fermentazione si esaurì, con uno scolapasta separai il mosto dalle bucce e lo travasai in alcune bottiglie». L Portofino
Merito di amici con la vigna? «Più o meno. All’età di cinque anni, quando iniziai a frequentare le elementari, conobbi un compagno di scuola figlio di persone che avevano un po’ di vite. Loro mi invitaro-
Com’era venuto? «È immaginabile. Non resistetti però alla tentazione di assaggiarlo. Mia mamma si accorse che avevo le labbra blu e mi mise alle strette. Confessai e me la cavai solo con un castigo. Quello fu il mio primo vino».
Eventi
Notte Oscar a New York La degli
di Alessandra Rotondi a James Beard Foundation (Jbf) è un’organizzazione non a scopo di lucro, volta a preservare e a promuovere l’identità culinaria americana per diffonderne la conoscenza e l’apprezzamento nel mondo. È attiva sull’intero territorio degli Usa e ha sede a New York, nell’affascinante Greenwich Village. La Jbf, affidata alla presidenza dell’affascinante Susan Ungaro, venne creata nel 1986 in memoria del personaggio da cui prende il nome, esperto gastronomico, autore di libri di ricette, educatore alimentare televisivo, vero mentore del settore e punto di riferimento per molti. L’organizzazione mette a disposizione borse di studio per aspiranti professionisti della cucina. Dal 2001 ad oggi ha concesso aiuti scolastici per 1,7 milioni di dollari. Allestisce circa venti cene mensili e organizza seminari di lavoro aperti ai membri, offrendo la possibilità,
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praticamente quotidiana, per apprendisti chef di mettere in pratica quanto appreso con chef blasonati che, in qualità di ospiti d’onore, visitano la sede. Aiuta organizzazioni benefiche, tra cui “Spoons across America” (Cucchiai in tutta l’America), che provvede cibo a bambini, famiglie bisognose e garantisce la diffusione di programmi e di informazioni nutrizionali. Presenta in venti città il Festival del Cibo “Taste America”, letteralmente “Assaggia l’America”, in cui i più importanti cuochi si esibiscono in spazi pubblici, come centri commerciali, con un biglietto d’ingresso per ogni tasca. Ma soprattutto assegna i James Beard Awards, premi che la prestigiosa rivista Time ha definito “The Oscars of the Food World”. L’America è per antonomasia il Paese degli Oscar cinematografici. Una volta sperimentato il successo a Hollywood, la stessa formula è stata praticamente applicata in ogni settore
L Lidia Bastianich, Shelly Burger e lo staff, vincitori dell'Oscar con il Tv Show “Lidia’s Italy Sweet Napoli”
L Lo chef Daniel Boulud e lo staff di Daniel, Oscar al Servizio Eccezionale
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dell’entertainment, arrivando anche all’enogastronomia. Le candidature e i vincitori vengono selezionati annualmente dagli addetti ai lavori, coinvolgendo oltre seicento professionisti del settore per le operazioni di voto. L’evento si è svolto come sempre a New York. Durante la prima giornata, presso il Millenium Broadway Hotel di Times Square, sono stati assegnati i “Media Awards” cioè i riconoscimenti ai media enogastronomici. Ma il clou si è avuto presso l’Avery Fisher Hall del Lincoln Center, il celebre e immenso complesso architettonico dell’Upper West Side di Manhattan, dotato di auditorium, teatri, musei, sale conferenze, per eventi di alto contenuto artistico. Durante la serata sono state assegnate le onorificenze più alte ai professionisti enogastronomici negli USA, dagli chef ai ristoratori; dai professionisti con almeno dieci anni di carriera, agli astri nascenti; dagli autori di manuali di ricette ai designer e architetti di ristoranti.
L Martha Stewart, conduttrice televisiva americana, e Alessandra Rotondi
Eventi
L Lo chef Eric Ripert e Aldo Sohm, Oscar Eccezionale Servizio Vino
L Lo chef Bobby Flay, Susan Ungaro, Presidente della Jbf, e Samantha Kim Cattrall, attrice di “Sex&The City”
L Alessandra Rotondi con lo chef Mario Batali
Dopo l’assegnazione degli Oscar, i ristoranti nominati hanno offerto abbondanti assaggi dei loro piatti, accompagnando il tutto con vini e drink di aziende sponsor. Di tutto rispetto il costo del biglietto: per quello d’ingresso 450 dollari per la cerimonia di premiazione e 1000 dollari per accedere alla cena seduti. E ovviamente c’è stato il tutto esaurito. “Women in Food” era il titolo del galà ma, nonostante il chiaro riferimento alle donne, le nomination e i premi non hanno fatto distinzione di sessi. L’idea di onorare le donne è nata dalla constatazione da parte della Jbf del ruolo fondamentale femminile in ambito enogastronomico, essendo state consegnate, nei diciannove anni di storia degli Award, 350 medaglie a donne. Gli Award sono stati creati dalla Jbf nel 1990, prima come premio a “Who’s Who of Food and Beverage in America” cioè a chi conta in ambito gastronomico. Nel 1991 sono stati inclusi i ristoratori e gli chef; nel 1992 i giornalisti del settore; nel 1993 gli altri media; infine, nel 1995 sono stati presentati per la prima volta i riconoscimenti per designer, grafici e architetti dei ristoranti. La cerimonia di assegnazione è stata presentata da tre celebrità: “Iron” Chef Cat Cora, (ospite fissa del seguitissimo Show televisivo “Iron Chef America” trasmesso dal canale Food Network, in cui due prestigiosi cuochi affrontano una gara culinaria ispirata da un ingredien-
te segreto svelato all’ultimo minuto); Emeril Lagasse, chef e personaggio televisivo di grande simpatia, e dall’attore italo americano Stanly Tucci, il quale a fine serata si è esibito in una sui generis “infilzata di hamburger con spada”, come un vero moschettiere, coinvolgendo il ristorante “D’Artagnan”, famoso proprio per le sue “svizzere”. L’abbinamento dei tre presentatori dimostra che in America, la notorietà, il red carpet e i paparazzi non coinvolgono solo gli attori o i cantanti, ma anche gli chef e i sommelier che vengono considerati da tutti vere e proprie star, artisti ai quali chiedere l’autografo e affidare programmi di intrattenimento; icone da invitare come ospiti d’onore agli eventi. Nel parterre dei Jbf, c’erano infatti chef come Eric Ripert, Daniel Boulud, Tom Colicchio o la “Regina delle Case”, Martha Stewart e anche Richard Gere e consorte nella loro nuova veste di ristoratori, avendo aperto da poco un cottage alle porte di New York, il tutto a testimoniare che in America – Paese che molti considerano quasi sinonimo di “mangiare male”, pensando erroneamente che offra solo fast food e abuso di grassi e precotti – l’enogastronomia è sinonimo di successo e tutti ma proprio tutti la seguono attraverso i media e soprattutto attraverso le recensioni via internet su ricette e ristoranti che decidono mode e gusti. I premi consistono in una semplice medaglia d’oro con
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l’effigie del fondatore. In realtà sono una garanzia di fama e di successo per coloro che la ricevono. Nelle precedenti edizioni, la categoria più importante, Outstanding Restaurateur in Usa – Eccellente Ristoratore in tutta l’America – ci ha riguardato da vicino molte volte, essendo italiani o italoamericani i vincitori, tra cui la friulana Lidia Bastianich, suo figlio Joe Bastianich e Mario Batali, lo chef “Pel di Carota” dalle inseparabili scarpe dello stesso colore dei capelli. Tutti, onorando le proprie origini, propongono nei loro ristoranti “Felidia”, “Lidia’s”, “Del Posto”, “Babbo” cucina e tradizione italiana in abbinamento a vini anch’essi rigorosamente italiani. Lidia Bastianich quest’anno ha ricevuto l’Oscar per il Miglior Show Televisivo Nazionale, dal titolo “Lidia’s Italy: Sweet Napoli”, realizzato con la collaborazione di Shelly Burgess Nicotra. Il ristorante “Babbo” e l’Italia sono ritornati sul podio anche quest’anno grazie al riconoscimento massimo alla pasticcera Gina De Palma. Queste le più importanti categorie premiate per il 2009, cioè gli altri “Oustanding-Eccezionale”. RISTORATORE: Drew Nieporent, Myriad Restaurant Group (tra cui Nobu e Tribeca Grill), New York CHEF: Dan Barber, Blue Hill, New York RISTORANTE: Jean Georges, New York, CHEF-PROPRIETARIO: Jean-Georges Vongerichten; CO-PROPRIETARIO: Phil Suarez SERVIZIO DEL VINO: Aldo Sohm, direttore del servizio vino de “Le Bernardin” di Eric Ripert, New York PROFESSIONALITÀ NEL VINO E ALCOL: Dale DeGroff, Dale DeGroff Co., New York SERVIZIO: Daniel, New York CHEF-PROPRIETARIO: Daniel Boulud; CO-PROPRIETARIO: Joel Smilow CHEF STELLA NASCENTE: Nate Appleman, A16, San Francisco MIGLIOR NUOVO RISTORANTE: Momofuku Ko, CHEF-PROPRIETARIO: David Chang, New York MIGLIOR CHEF A NEW YORK: Gabriel Kreuther, The Modern (dentro il Museo Moma)
È utile sottolineare ancora una volta che gli Oscar vengono assegnati tra una rosa di candidati che provengono da tutti gli Stati e città americane. Ciò nonostante, sei dei titoli più ambiti, tra cui i massimi riconoscimenti, ristorante, ristoratore e chef, sono rimasti a New York. Chi ancora crede che un italiano a New York possa aver nostalgia dei buoni sapori di casa dovrà ricredersi: in questa città si mangia e si beve spesso italiano e comunque sempre benissimo, anzi… da Oscar !
Architetture per il vino
La
cantina
e lo stile unico del produttore
di Alessia Cipolla enogastronomia italiana, con la sua infinita ricchezza di vini e di specialità a denominazione d’origine controllata, è uno degli asset economici più importanti del nostro Paese. Il turismo enogastronomico è in costante crescita e con i suoi cinque milioni di turisti e un fatturato di 2,5 miliardi di euro, oltre ad esprimere una forma di turismo sostenibile, rappresenta una specifica e importante componente dell’offerta turistica italiana. La rinomata bellezza del nostro paesaggio e delle città d’arte, il numero enorme di varietà e di tradizioni culinarie attirano sempre più appassionati nazionali e internazionali. Incrementando nuovi investimenti nella logistica e nella comunicazione da parte delle associazioni di settore e dei singoli viticoltori, si potrebbe ottenere una futura e auspicata destagionalizzazione e attrarre milioni di turisti anche nei periodi di bassa stagione. L’enoturismo rappresenta la possibilità di creare nuovi rapporti che con il tempo si possono trasformare in risorse nuove e vincenti. I produttori devono quindi maggiormente investire in immagine e accoglienza, oltre che sul
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prodotto, in modo da regalare all’enoturista un importante momento di formazione e di cultura del vino e del suo territorio. Lo stile unico dei produttori vitivinicoli è espresso non solo nei loro vini ma anche nelle loro cantine. La relazione tra territorio, vino e architettura è molto stretta: il progetto dello spazio di produzione si intreccia con la cultura del luogo e con il rapporto che la moderna industria del vino intrattiene con la terra, il clima, la natura e le tradizioni in cui opera. “L’architettura deve rendersi complice, deve essere partecipe dei caratteri del luogo, del territorio. Bisogna saper ascoltare, perché ogni luogo racconta la sua storia.” (Renzo Piano, La responsabilità dell’architetto.) La cantina è uno stabilimento di produzione e la bellezza dell’edificio, magari progettato da valenti professionisti, non influenza la produzione del vino ma sicuramente influisce sulla comunicazione del prodotto e dell’azienda, migliorando la visibilità e le possibilità di accoglienza in cantina. La qualità del vino oggi è anche qualità delle suggestioni e degli elementi simbolici e di
comunicazione che al vino e al suo territorio vengono associati e che un’azienda deve promuovere strategicamente. Continua il percorso di conoscenza verso le nuove cantine italiane realizzate tra il 2001 e il 2009 in tutte le regioni d’Italia scelte secondo la qualità architettonica e funzionale realizzata oltre che al rispetto anche alla valorizzazione del paesaggio circostante. Cantina Rocca di Frassinello - Gavorrano (Gr) Uno dei più grandi architetti al mondo e un grande editore, due personaggi legati da lunga amicizia, uniti nell’avventura della costruzione di questa cantina piena di poesia e di fascino: Renzo Piano e Paolo Panerai con socio il francese Domaines Barons De Rothschild . “Prendere la collina, scavarci dentro la Barriquerie, costruirci sopra una piattaforma, una grande terrazza, tappeto volante, dal quale godere lo spetta-
Architetture per il vino colo straordinario, che esisteva già, prima del progetto di Rocca di Frassinello. A Rocca lo sguardo gira in tondo, non si ferma mai. La terra è disegnata dalle colline e, adesso ancora di più, dalla vigna”. (Renzo Piano) La cantina, 7.500 metri quadrati, è immersa in un paesaggio magnifico protetto da boschi di querce e dalla macchia mediterranea, in piena Maremma toscana, dove, come dice Renzo Piano: “La vigna è la coltivazione di grandissima sapienza, con i suoi filari disegna il terreno, delinea il paesaggio, meglio di ogni altra pianta”. La fase progettuale della cantina è durata dal 2001 al 2004 mentre la fase di cantiere dal 2003 fino al 2007: un grande progetto implica grande dedizione e tempo. L’edificio non si svela subito all’enoturista: da lontano, poggiati sulle colline si intravedono due forme architettoniche di colore rosso, il colore della Maremma, un rettangolo stretto e lungo con sopra una torre del medesimo colore, due elementi compositivi perfettamente integrati nel paesaggio, una sorta di fortezza contemporanea a difesa del processo di trasformazione di un prodotto nobile come il vino che avviene negli ambienti interni, scavati nella roccia, spazi segreti e pieni di fascino. La torre ha la funzione di rilevatore del controllo della temperatura, dell’umidità, delle piogge e del soleggiamento. Accanto alla torre c’è un banner verticale progettato anch’esso dall’architetto, con la funzione di pubblicizzare i prodotti della cantina o gli eventi che ospita, un antico sistema di comunicazione e di richiamo visibile anche da lontano. Il percorso conoscitivo dei vini della Rocca di Frassinello inizia dall’alto: gli enoturisti vengono accolti in un grande padiglione di circa 400 metri quadrati con immense vetrate che permettono il contatto visivo con il magnifico territorio circostante. È qui che si organizzano eventi di vario genere inerenti e non al vino oltre alla vendita diretta dei prodotti della tenuta. L’uso del verde acceso, che caratterizza alcuni elementi costruttivi del progetto assieme all’uso di altri colori primari, è presente anche nel packeging delle bottiglie, scatole impilate e ben visibili sotto i banchi di assaggio. Intorno al padiglione è stata realizzata un’immensa terrazza di oltre 5.000 metri quadrati, un punto di osservazione privilegiato, una vedetta, un affaccio che si apre
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a 360 gradi sul paesaggio dei vigneti e delle colline circostanti, inondato dal sole, uno spazio puro, vuoto, rivestito in mattoni, tipicamente toscano. Non più un antico baluardo ma uno spazio per la meditazione, per la contemplazione, un sagrato, come lo chiama Renzo Piano. Durante la vendemmia, la terrazza è un’area viva e animata dove vengono convogliate tutte le uve, diraspate, che, dopo una cernita fatta manualmente, cadono attraverso dei chiusini, per gravità, nel sottostante livello, la zona servizi, che segue il perimetro più esterno della soprastante terrazza, dove sono stati posizionati l’impianto di fermentazione, il magazzino e l’impianto di imbottigliamento. Al piano inferiore vi è l’attrezzatissima sala da degustazione con un tavolo appositamente disegnato dall’architetto, con luce centrale adeguata per la degustazione del vino e dei cassetti dove eliminare il vino durante la degustazione. Attraverso una possente porta in acciaio si accede al cuore della cantina, la Barricaia, un ambiente di 40x40 metri scavato nella roccia per 50 metri di profondità, in modo da mantenere costante temperatura e umidità. La porta si apre su una sorta di intimo teatro: si accede dagli spalti superiori e di fronte, poste sulle gradinate, le 2500 barriques, una a fianco all’altra come gli spettatori di un evento poetico, dove il profumo del legno e del vino, il silenzio, l’eco dei propri passi, la temperatura e la semioscurità accompagnano il visitatore in un percorso emozionale fino alla zona inferiore e centrale del locale dove la luce naturale penetra dall’alto attraverso un foro nel solaio. I bracci automatizzati, anch’essi una sorta di macchine sceniche, aiutano nella pulizia, nel mantenimento e nello spostamento delle barriques. Dalla zona inferiore della Barricaia vi è un funzionale accesso diretto alla zona servizi. Il materiale del rivestimento delle pareti scelto per avvolgere la Barricaia e le aree di vinificazione è il cemento faccia a vista, liscio in superficie, come fosse velluto, grazie all’effetto di casseri in legno di betulla finlandese, che gli imprimono una grana particolarmente ricca e sottile. Uno splendido progetto pieno di emozionanti suggestioni che canta il mistero della trasformazione di un nobile prodotto.
Congresso nazionale
Basilicata, terra di storia e di forti promesse di Emanuele Lavizzari
rte, cultura, storia: il patrimonio dell’Italia è talmente esteso che non finiamo mai di scoprirlo. E di sorprenderci. Terre e città che sembrano lontane, che non abbiamo mai pensato di raggiungere e che invece sono lì a portata di mano. Come la Basilicata, una tra le regioni più incontaminate e affascinanti della nostra penisola, ma non così in vista e conosciuta come meriterebbe. Anche per questo l’Ais ha deciso di organizzare il 43.mo Congresso nazionale (30 Settembre- 4 Ottobre) proprio da queste parti, a Rionero in Vulture: per svelare tesori e ricchezze di quella terra tra Campania, Puglia e Calabria, bagnata dal Tirreno e dallo Jonio. E per avvicinarci a questo territorio e ai suoi segreti abbiamo incontrato Vito Giuseppe D’Angelo, presidente regionale dell’Ais Basilicata.
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accordataci e onorare al meglio questo appuntamento. La macchina organizzativa è partita da tempo, coinvolgendo gli associati, i produttori e le istituzioni, perché un appuntamento così importante per la nostra regione ha bisogno di essere condiviso e vissuto attivamente da tutti i soggetti protagonisti del territorio».
La Basilicata è per molti una regione da scoprire. Da dove ci consiglierebbe di partire? «La regione nel suo insieme rappresenta una piacevole sorpresa per chi non la conosce, un territorio da percorrere e da scoprire, uno scrigno di valori e di qualità che parte dal suo patrimonio storico e naturale fino a L Vito Giuseppe D'Angelo, presidente Ais Basilicata percorrere quello culturale. Vista questa abbondanza è difficile individuare un punto di partenza. Noi per opportunità logistiche inizieremo dal Vulture, una delle aree più interesPer la prima volta la Basilicata ospita il Congresso santi dal punto di vista storico, architettonico e natuNazionale dell’Ais. Un onore ma anche un grande impe- ralistico dell’intero meridione d’Italia, che rappresenta un po’ la porta d’ingresso della Basilicata». gno. Come vi state preparando per questo evento? «Ringrazio il presidente Terenzio Medri e la Giunta nazionale per averci dato la possibilità di centrare un obiet- Quali sono le bellezze artistiche e storiche degne tivo fino a qualche anno fa insperato per l’Ais Basilicata. di nota? Quali quelle gastronomiche? Ci impegneremo al massimo per ricambiare la fiducia «Ce n’è per tutti i gusti: dai castelli federiciani di 52
PREMIO GUIDO BERLUCCHI
“Miglior Sommelier d’Italia 2009” Anche in questa edizione del Congresso nazionale non mancheranno i migliori sommelier italiani che si sfideranno per aggiudicarsi il Premio Guido Berlucchi, ovvero il titolo di “numero uno” in Italia. Si partirà con le semifinali, che vedranno tra i protagonisti i vincitori delle selezioni nazionali e i campioni regionali in carica, giudicati a porte chiuse da una commissione di esperti. Da questa prova usciranno tre sommelier, i cui nomi verranno annunciati solo il giorno della finale. Saranno loro ad animare uno dei momenti più coinvolgenti del congresso e a stupire il pubblico con incredibili degustazioni alla cieca, prove di servizio, correzioni di una carta dei vini e molto altro ancora. Il prestigioso trofeo sarà consegnato dalla famiglia Ziliani della Guido Berlucchi & C. al termine della finale che saprà tenere con il fiato sospeso gli spettatori.
L Ivano Antonini, Miglior Sommelier d'Italia 2008, con Cristina Ziliani della Berlucchi e Terenzio Medri
Castelmezzano, uno dei borghi più affascinanti d'Italia
Lagopesole e Melfi, adibito quest’ultimo a museo nazionale archeologico del Vulture-Melfese, fino all’abbazia di San Michele, immersa nella folta vegetazione di cerri e di lecci, che si affaccia sui laghi di origine vulcanica di Monticchio. Poi Venosa, città del sommo poeta latino Orazio e del madrigalista per eccellenza, Gesualdo; Rionero in Vulture, con la casa natale, oggi adibita a importante biblioteca storica, del padre della questione meridionale, il senatore Giustino Fortunato, e luogo natio anche del generalissimo brigante Carmine Donatelli Crocco, esponente di spicco del brigantaggio post-unitario; Pietrapertosa e Castelmezzano, annoverati tra i borghi più belli d’Italia, situati nello scenario mozzafiato delle Dolomiti Lucane, dove è possibile fare un emozionante viaggio appesi ad un cavo d’acciaio, il “volo dell’angelo”. Da non perdere le bellezze di Maratea, perla della costa tirrenica, e le spiagge dorate di Metaponto, già colonia greca sullo Jonio. E poi Matera, la città dei Sassi, inseriti tra i patrimoni dell’umanità dell’Unesco, con lo spettacolo delle gravine e delle chiese rupestri. Mi fermo qui per non dilungarmi ma potrei elencare
ancora moltissime attrazioni tra cattedrali, chiostri e siti che meriterebbero di essere visitati per il fascino che trasmettono. Le bontà gastronomiche, legate ad una cultura agropastorale, sono variegate: dai peperoni di Senise ai fagioli di Sarconi, dalla melanzana rossa di Rotonda al marroncino di Melfi, dalle salsicce e soppressate al pecorino di Filiano, ai caciocavalli podolici, per non dimenticare la grande qualità dei nostri oli, frutto della cultivar autoctona Ogliarola del Vulture. Ma certamente c’è tanto ancora da scoprire e da gustare e ne ve ne accorgerete quando sarete in Basilicata». Quali vini stupiranno i sommelier che parteciperanno al congresso? «Partendo dall’Aglianico del Vulture Doc, vino principe della Basilicata ormai affermato a livello internazionale per le sue qualità, si arriva alla Doc Terre Alta Val D’Agri per finire con il Matera Doc e il Grottino di Roccanova, che ha chiuso recentemente l’iter per il riconoscimento della Doc». Il Vulture è sorgente d’acqua e “fonte” di vino. Sono questi i prodotti più rappresentativi su cui puntare? «Sicuramente sì. Oltre alla produzione di vino, infatti, la zona del Vulture è ricca di sorgenti di acque minerali ed esistono diversi stabilimenti per l’imbottigliamento. Sono due prodotti di alta qualità che rendono questo territorio, se mi è consentita una battuta, particolarmente “effervescente”». 53
Congresso nazionale L Il castello di Melfi
L Un suggestivo scorcio di Pietrapertosa
Il turismo nel Vulture è prettamente naturalistico. Possiamo pensare che l’enogastronomia sia un elemento importante per invogliare più turisti a visitare queste zone? «L’enogastronomia è certamente uno degli elementi su cui puntare per attrarre sempre più visitatori. Qui è ancora possibile assaporare piatti tradizionali preparati con ingredienti genuini del territorio. Tipicità, tradizione e alta qualità sono le caratteristiche distintive dei nostri prodotti, che abbinati a realtà ambientali di particolare attrattiva possono raggiungere standard ottimali di promozione turistica».
C’è altro che l’Ais possa fare per richiamare i giovani e i meno giovani in Basilicata a frequentare i corsi per diventare sommelier? «Facciamo leva sulla promozione della cultura del bere consapevole da contrapporre al consumo sregolato di cocktail e superalcolici, quindi su uno stile di vita attento all’equilibrio psicofisico. L’invito è quello di promuovere una maggiore attenzione alla qualità che passa attraverso la conoscenza dei prodotti».
Cosa si sentirebbe di proporre per rilanciare il turismo nell’intera regione? «Le caratteristiche su cui puntare sono quelle di un territorio fortemente legato alle sue tradizioni ma con un approccio dinamico e innovativo: la naturalezza e la genuinità oltre all’aspetto della qualità della vita». Secondo la sua esperienza come si comportano i lucani nei confronti del vino? «L’interesse è sempre più in crescita. C’è voglia di sapere cosa c’è dietro un’etichetta, di scoprire la storia del produttore, dell’azienda, del territorio di provenienza. Questi sono segnali incoraggianti perché ci aiutano a promuovere la cultura del vino». Da presidente dell’Ais Basilicata come giudica il movimento associativo nella sua regione? «In questi ultimi due anni siamo cresciuti in numero e in qualità e da pochi appassionati ora siamo un bel gruppo. La frequenza sempre maggiore di persone che si avvicinano a questo mondo, seguendo i nostri corsi da sommelier, è la testimonianza dell’importanza e del ruolo che ci siamo ritagliati nel panorama del vino lucano. Un’immagine di competenza e di professionalità, che ci viene riconosciuta anche dagli operatori del settore con i quali stiamo interagendo in modo molto positivo». 54
Quali soddisfazioni ha ottenuto come presidente dell’Ais Basilicata? Quali progetti ha in mente per il futuro? «La prima e la più importante è di essere riuscito a fare squadra. Questo lavoro sinergico di tutta l’Ais Basilicata ci ha dato la possibilità di centrare in pochissimo tempo due importanti obiettivi: la finale “Miglior Sommelier Junior” e l’organizzazione del 43° Congresso nazionale. Per il futuro non ci manca la capacità di programmazione, abbiamo delle idee in cantiere ma per scaramanzia al momento è meglio non parlarne e poi la politica di una cosa per volta paga sempre». Un suo augurio personale per il 43° Congresso nazionale. «Il nostro obiettivo è di coinvolgere i congressisti nella scoperta di un territorio e delle sue caratteristiche per far vivere una straordinaria esperienza dei sensi. Abbiamo inteso questo congresso come un vero e proprio “viaggio”, un cammino alla scoperta di una terra e di un panorama vitivinicolo d’eccellenza, un percorso mirato a sottolineare l’importanza sempre maggiore del binomio prodotto-territorio. Ma ci teniamo a far sì che sia anche un viaggio emozionale, oltre il tempo, in un’area ricca di storia, arte, cultura. La speranza è quella di dimostrare ai congressisti questi nostri intenti perché rimanga indelebile il ricordo di una regione che trasmette un senso di autenticità e di personalità».
PROGRAMMA
43.mo Congresso Ais Rionero in Vulture (PZ) 30 settembre – 4 ottobre 2009 III MERCOLEDI 30/09/2009 In mattinata arrivo della Giunta Esecutiva Nazionale Sistemazione presso l’Hotel Garden, Barile (PZ) 16.00 Trasferimento in pullman presso l’Abbazia di Monticchio; visita guidata alla struttura e ai laghi 16.30 Riunione della Giunta Esecutiva Nazionale In serata cena con i vertici dell’Ais Regionale e i produttori dell’Aglianico del Vulture con degustazione di vini Aglianico del Vulture DOC presso il Ristorante Novecento, Melfi (PZ)
III GIOVEDI 01/10/2009 In mattinata arrivo dei Consiglieri; presso l’Hotel Garden, Barile (PZ) 10:30 Visita alle aziende vitivinicole del Vulture 13.00 Colazione lucana e degustazione dei vini Aglianico del Vulture DOC, Grottino di Roccanova DOC, Terre dell’Alta Val D’Agri DOC presso il Ristorante La Pergola, Rionero in Vulture 15:00 Riunione del Consiglio Nazionale presso il Palazzo Giustino Fortunato di Rionero in Vulture 18:30 Trasferimento in pullman presso Venosa: visita alla città (Castello Pirro del Balzo di Venosa, Casa di Orazio, SS Trinità) 20.30 Cena “Vini di Versi” con Menu dei Poeti presso Castello Pirro del Balzo di Venosa, con la partecipazione delle Autorità regionali, in collaborazione con l’Associazione Cuochi Lucani Cerimonia di consegna sommelier onorario
III VENERDI 02/10/2009 In mattinata arrivo dei congressisti da tutta Italia. Sistemazione in Hotel nel Vulture (Hotel San Marco, Hotel La Pergola, Hotel La Fattoria, Hotel Novecento) 11:00 Cerimonia di apertura 43.mo Congresso Nazionale Ais presso il Palazzo Giustino Fortunato di Rionero in Vulture, con intervento delle autorità locali (Presidente della Regione Basilicata, Assessore all’Agricoltura della Regione Basilicata, Presidente della Provincia di Potenza, Sindaco di Rionero in Vulture) 12:30 Trasferimento in pullman a Melfi 13.30 Colazione lucana con degustazione di Aglianico del Vulture DOC, Terre dell’Alta Val D’Agri DOC, Grottino di Roccanova DOC, in abbinamento ai prodotti tipici lucani come Pecorino di Filiano DOP, Caciocavallo Silano DOP, Fagioli di Sarconi IGP, Peperoni di Senise, Marroncino del Vulture, Arancia Staccia di Tursi presso Ristorante la Fattoria Melfi 15.30 Assemblea Nazionale Ais presso il Castello di Melfi, Sala del Trono
16.30 Convegno “Sinergia territorio e prodotti tipici, leve efficaci di promozione e marketing”, con la partecipazione di Angelo Gaja 17.30 Incontro della Presidenza Ais con i Delegati di tutta Italia presso il Castello di Melfi 17.30 Selezioni Miglior Sommelier d’Italia presso Ristorante La Fattoria Melfi 16.00 - 18.00 Visita guidata al Museo Archeologico Nazionale di Melfi e al Castello Federiciano di Lagopesole. 16.00 - 18.00 Visite guidate alle Cantine del Vulture. 18.00 -19.00 Navette per i vari Hotel 20.30 Cena presso la Cantina nel Vulture in collaborazione con Associazione Cuochi Lucani; premiazione dei vincitori delle borse di studio del master “La ricerca dell'eccellenza" messe a disposizione dalla Bonaventura Maschio A seguire spettacolo di cabaret
III SABATO 03/10/2009 9.00 Trasferimento dei congressisti verso Matera 10.00 - 12.30 Visita alla città di Matera e passeggiata nello splendido scenario dei Sassi, patrimonio dell'umanità dell’UNESCO 12.30 Visita all’Enoteca Provinciale con degustazione di Matera DOC a cura del Consorzio di tutela Matera DOC 13.30 Pranzo “Fedda Rossa” con degustazione delle tipicità della Provincia di Matera (Pane, burrate, ricotte, caprini, caciocavallo, pecorino, legumi, cavatelli) presso la struttura Le Monacelle 15.00 Finale MIGLIOR SOMMELIER D’ITALIA 2009, TROFEO GUIDO BERLUCCHI presso l’Auditorium teatro Duni, con la partecipazione di ospiti del mondo dello spettacolo e della cultura Visite guidate alla Città dei Sassi e Chiese Rupestri. Passeggiata gastronomica: la lavorazione del pane di Matera. 18.30 Trasferimento nei vari Alberghi di Matera (Hotel Hilton, Hotel San Domenico, Hotel Gattini) 20.30 Cena “ Il senso della Meraviglia“ presso Palazzo Venusio Proclamazione del Miglior Sommelier d’Italia 2009 22.30 Passeggiata notturna nella città dei Sassi.
III DOMENICA 04/10/2009 Itinerario 1 9.30 Trasferimento verso Castelmezzano e Pietrapertosa per l’ebbrezza unica in Italia: “Il Volo Dell’Angelo”. 13.00 Pranzo presso Ristoranti a Castelmezzano e Pietrapertosa Itinerario 2 9.30 Visita alle Cantine del Vulture 13.00 Pranzo presso Ristoranti Rionero in Vulture 16.00 Chiusura del 43.mo Congresso Nazionale, Rionero in Vulture
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Basilicata
Vino unico e acque Doc di Letizia Magnani
l vino è il nettare degli dei. Ma gli dei dovevano amare molto anche l’acqua. È per questo che l’area del Vulture Alto Bradano, in provincia di Potenza, in Basilicata, da anni tramanda due tradizioni che si intrecciano e che dialogano fra loro, come in una danza dai significati antichi. Si tratta del rito dell’acqua e di quello del vino. In questa terra ricca di bellezze naturalistiche e architettoniche, dove la mano dell’uomo, nel tempo, ha saputo lasciare le proprie tracce senza però intaccare l’eleganza della natura, convivono infatti ricchi e importanti bacini idrominerari e un vino dalle origini antiche, l’Aglianico.
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III LE ANTICHE SORGENTI ACQUIFERE Nel Vulture l’acqua scorre da sempre. Quest’area, ferma nel tempo, è infatti ricchissima di sorgenti che da millenni rappresentano un immenso bacino idrominerario. Le sorgenti abbondano in tutta la montagna e si possono incontrare già attorno ai 400 metri di altitudine, anche se le acque più pure e fredde si trovano ad altitudini maggiori, fino a 1.049 metri. I materiali vulcanici forniscono alle acque sorgive una naturale effervescenza. Le acque, dal sapore lievemente acidulo, sono limpide e incolori. La forza della natura e la sapienza della terra vengono da anni raccolte nelle acque artigianali che sono prodotte proprio nell’area del Vulture. Le acque, incontaminate e pregiate, vengono infatti imbottigliate dalle industrie locali e commercializzate in tutta Europa. III DOC COME IL VINO, MA È ACQUA! D’altra parte da queste parti l’acqua del rubinetto è Doc. Più di 266 mila residenti in Basilicata aprendo il proprio rubinetto di casa bevono e usano tutti i giorni acqua certificata. Gli utenti dell’acquedotto regio-
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L Il fiume Basento
nale hanno infatti ricevuto un’etichetta per l’acqua del proprio rubinetto. Da poche settimane sul sito www.acquedottolucano.it è inoltre possibile conoscere le caratteristiche chimiche e microbiologiche dell’acqua lucana. È il primo e unico caso al mondo di acqua certificata, il che la dice lunga sulle qualità idriche di queste terre. III CINQUE FIUMI Qualità talvolta fa rima con quantità. La Basilicata vanta cinque fiumi: Bradano, Basento, Gavone, Agri e Sinni. Sfociano tutti nello Jonio a sud-est della regione, dopo aver seguito percorsi lunghi e tortuosi. Il loro alveo è sproporzionato rispetto alla quantità media di acqua portata ma nelle rare piene sono capaci di riempirlo per intero. A nord l’Ofanto segna il confine con le regioni vicine e si getta nell’Adriatico, mentre a sudovest il Noce affluisce nel Tirreno. Ma l’intera regione
DATI TECNICI
AGLIANICO Strutture di produzione: Numero ettari iscritti: Quantità max producibile: Quantità prodotte: Strutture associative: SPECIFICHE DOC Vitigni: Zona di produzione:
1.192 produttori. 1.437 100.590 hl. 7.785 hl. Consorzio Viticoltori Associati del Vulture (Tel. 0972 770386).
Aglianico. il territorio del Vulture in provincia di Potenza. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti ubicati su terreni collinari di origine prevalentemente vulcanica e comunque di buona costituzione, situati a un’altitudine tra i 200 ed i 700 metri sul livello del mare.
Per ulteriori informazioni: www.aptbasilicata.it e www.basilicatanet.it
è anche ricca di laghi naturali e artificiali. I più suggestivi sono senza dubbio i laghi di Monticchio, proprio sul monte Vulture. Laghi e fiumi in alcuni tratti si mantengono ancora incontaminati, il che sarà una carta da giocare per sviluppare un turismo rispettoso dell’ambiente.
colline e vigneti, nelle grotte di roccia arenaria, c’è un rosso, un rosato e un bianco, lungo il medio corso dell’Agri: il Grottino di Roccanova, il più giovane dei vini Doc di Basilicata. Quella della Basilicata è un’enologia dal gusto nuovo ma che affonda le proprie radici in un glorioso passato.
III L’AGLIANICO, DOC DAL 1971 L’altro prodotto principe dell’area è l’Aglianico. Attorno all’antico vulcano spento, nasce infatti questo vitigno dal gusto particolare. L’origine vulcanica del terreno conferisce anche al vino, oltre che all’acqua, aromi di gusto del tutto particolari e un carattere assolutamente apprezzabile. Annoverato tra i migliori vini d’Italia e d’Europa, l’Aglianico del Vulture è un vino Doc dal 1971. Introdotto nel Vulture in epoca antichissima, l’Aglianico è un vino dal colore rosso rubino o granato vivace e con l’invecchiamento presenta riflessi che tendono all’arancione. Ha un odore vinoso gradevole, un sapore asciutto e armonioso, giustamente tannico che tende al vellutato con l’invecchiamento. Ha una gradazione in genere mai inferiore ai 12 gradi. Viene denominato vecchio dopo i tre anni e riserva dopo i cinque di invecchiamento. A questo vitigno, a frutto rosso, pare introdotto in Basilicata dalla Magna Grecia e certamente coltivato in epoca romana, come testimoniano i poeti classici, sono dedicate feste e sagre. Una di queste è l’Aglianica, che si svolge per tutta la durata dell’estate, fino a settembre, e che assicura cantine aperte, convegni, laboratori e degustazioni da non perdere. Per il poeta latino Orazio l’Aglianico era il vino più buono del mondo. Anche se, ad onor del vero, oltre all’Aglianico, la Basilicata si fregia anche del Matera Doc, un vino da tavola dal sapore intenso nella qualità Primitivo, esuberante e piacevole se scelto come spumante. Più a est, lungo le vie del gusto, si serve il Doc Terre dell’Alta Val d’Agri. Fra
III APPUNTI GOLOSI Passato ricco di gusti e sapori, poveri ma intensi. È il caso del peperoncino, usato per insaporire e dei lampascioni, cipollotti selvatici. Carni e verdure, spesso servite per prime, sono piatti della tradizione di terra della Basilicata, che vanta, oltre ai vini e alle acque, anche altri primati. Per esempio la pasta, probabilmente nata proprio qui, come dimostrano i formati di quella fatta in casa: fusilli, lagane, maccaroni, capunti, cavatelli, calzoni, scorze di mandorla, orecchiette, strascinati, solo per citarne alcuni. Anche il pane è tradizionale. Se ne producono molte varietà, tutte a base di farina di grano duro, lievito, sale e acqua, che vengono cotte nei forni a legna, lasciando le pagnotte dorate e fragranti. L’olio si usa per condire, il burro, mantecato, come formaggio. E proprio formaggi e salumi sono particolarmente prelibati. È il caso dei formaggi di pecora e di capra ma anche dei salumi tipici, come la salsiccia, in molti luoghi d’Italia denominata “lucanica” o “luganega”, le soppressate, salsicce di carne di maiale tagliata con la punta del coltello, seccate e poi conservate sotto olio extra vergine di oliva, la “pezzenta”, ricavata dai ritagli del maiale o la salsiccia sotto sugna. I dolci sono un po’ arditi e nascono da accostamenti strani, come i “catoncelli”, ripieni di crema di ceci miscelata con cacao amaro e zucchero, e il sanguinaccio, preparato con sangue di maiale, mosto cotto, cioccolato fondente, uva passa, buccia di limone, cannella e zucchero.
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Arte in cucina
La cucina
“disumana” di Marinetti di Mariaclara Menenti
“Vi annuncio il prossimo lanciamento della cucina futurista per il rinnovamento totale del sistema alimentare italiano […] La cucina futurista sarà liberata dalla vecchia ossessione del volume e del peso e avrà, per uno dei suoi principi, l’abolizione della pastasciutta”. uesto brano è tratto dal discorso pronunciato dall’“aeropoeta futurista” Marinetti dopo un pranzo presso il Ristorante “Penna d’Oca” di Milano nell’inverno del 1930. Discorso, proclama d’intento formulato secondo il dualismo programmatico teorizzato nei Manifesti degli Anni Dieci e Venti. Ancora una parola-incursione che, a trent’anni dal primo colpo sparato dal “Figaro”, il 20 febbraio 1909, apre un nuovo fronte d’avanguardia, facendo saltare altri modelli e abitudini passatiste - quelle della tradizione culinaria italiana - attraverso le sfide lanciate durante gli aerobanchetti “suggestivi e determinanti”. E sarà poi una dichiarazione di poetica disseminata di artefizi smisurati e insieme di intesa amicale, quella che Marinetti, il 28 dicembre 1930, farà pubblicare sulla
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L Filippo Tommaso Marinetti impartisce ordini a una cameriera
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“Gazzetta del Popolo” di Torino: il “Manifesto della cucina futurista”. Due anni più tardi, in collaborazione con l’aeropittore Fillìa, Marinetti presenta “La cucina futurista”, un testo che utilizzando con spregiudicatezza, fino al punto di parodiarli e rovesciarli, i codici e i riferimenti della “trama alimentare”, riporta il significativo sottotitolo “Un pranzo che evitò un suicidio”. Il libro si apre con un “tragicomico poetico antefatto”, infarcito di intrepidezza e gastrosessualità. È il salvataggio di un amico in pericolo e il ritorno di questo al gusto “carnale”, in un abbandono dei sensi alla ricerca “dell’eterno femminino fuggente imprigionato nello stomaco”. Nel racconto è il 1° Maggio del 1930: Marinetti parte per il Lago Trasimeno, dopo l’annuncio di suicidio da parte del suo amico
L Il 20 febbraio 1909 ''Le Figaro'', lo storico quotidiano francese, apre la prima pagina con il manifesto-proclama del Futurismo Manifesto della Taverna Futurista del Santopalato
Giulio Onesti, in seguito alla perdita della donna amata e all’arrivo di “quella che le rassomiglia troppo ma non abbastanza”. Insieme a Marinetti, per la risoluzione di questo delicato e gravissimo caso, ecco Enrico Prampolini e Fillìa, “geniali aeropittori”. Evitare un suicidio si può improvvisando arte in cucina, fucina di idee e ideazioni anche a tavola. La cucina come luogo dell’improvvisazione e della sorpresa, irriverenza verso la tradizione. Il rifiuto dell’elaborato-ricetta, dell’indicazione di pesi e quantità si esprime nella manipolazione di cibo e di materiali, nell’accettazione di “sorprese organolettiche”, nella determinazione di momenti “stimogastrici” in cui il cibo si mastica con la vista e si digerisce con l’olfatto. Così apparirà “Lei”, il “misterioso soave tremendo comples-
so plastico di lei. Mangiabile”: sogno di una femminilità finalmente afferrabile nelle geometriche forme e lasciva a zuccherine carezze. Forme sinuose, colori abbaglianti, massa dinamica di zucchero filato che si fonde con la pasta frolla ancora morbida e friabile. Ed è un fluttuare di mani ispirate e di sensi eccitati; e poi nel forno “La passione delle bionde” si colora di sole e dà risalto a bocca e ventre. E ancora, una “snella velocità”, lunga fune di pasta frolla anch’essa; e la “Leggerezza di volo”, con 29 caviglie di donna modellate con pasta lievitata . L’inquietudine e il turbamento scombinano a un certo punto “la serenità futurista” dei cervelli al lavoro: rumore assordante e brusco risveglio quando un complesso plastico di cioccolata e torrone rovina sul pavimento
“inzaccherando tutto di liquide tenebre vischiose”. Ma al tramonto è schioccare di lingue, fremiti di narici, connessioni nervose. Il capolavoro è davanti agli occhi degli aeropittori, con le sue curve molli e i nascosti segreti zuccherosi. Scultura plastica meccanica. Perfetta. A mezzanotte si attende il padrone di casa per il primo succulento assaggio dei “22 complessi plastici mangiabili”. Ma l’arrivo di lei “quella che le rassomiglia troppo ma non abbastanza”, accende i desideri e moltiplica la passione selvaggia dei tre aeroscultori, che commentano e spiegano le loro opere come frutto dell’amore che gli uomini nutrono per la donna, ma troppo spesso “torturati con mille baci golosi nell’ansia di mangiarne una”. L’arte mangiabile suscita respiri densi di sentimenti erotici. Nelle pagine successive Marinetti darà vita alla sua battaglia contro la cucina passatista e l’amidacea pastasciutta, che “illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti”. Rinnega, d’altra parte, la tradizionale riproducibilità delle preparazioni in favore della creazione simultanea, evocando fusioni fra orizzonti sensoriali antitetici, creando rumori “nutrienti” e “disprofumi” digestivi. È una nuova rivoluzione estetica e sensoriale, per una nuova cucina antipopolare. Antipopolarità nei pranzi 59
Arte in cucina L Filippo Tommaso Marinetti Enrico Prampolini, La sezione d'oro
di nozze, che creano “lungo gelo nei commensali”, praticata attraverso equilibrismi squilibrati di “funghi allarmanti e pernici dinamiche”; pranzi notturni d’amore con la luna a picco e “latte cagliato sulla tovaglia”; pranzi eroici invernali fra rulli di tamburo e suoni di tromba che accompagnano “pesce coloniale e carne cruda squarciata”. Sbalordire per irridere la cultura borghese. E se l’uomo è ciò che mangia, la cucina futurista vuole creare un uomo nuovo, meccanizzato, pioniere di inesplorati territori organolettici e domini gastrico-sensuali. Un uomo illogorabile, che tende all’eternità sfidando le leggi della fisica, turbinando su “velivoli fino ad incendiarli come zolfanelli per la violenza dell’attrito sull’aria”; schiaffeggiando pianure e montagne su “un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia”. La “chimica gastrica” auspica la creazione di “bocconi simultanei”, che riassumono una intera porzione di vita, di piatti “sinottico-singustativi”, in cui tutti e cinque i sensi siano coinvolti in violente spirali di piacere e di gusto, in equilibrate disarmonie fra forme e colori, rumori e poesia. Nel primo pranzo aerofuturista, tenuto a Chiavari presso l’Hotel Negrino il 22 novembre del 1931, oltre trecento persone partecipano a “una specie di orgia carneplastica” in cui sperimentano gli intingoli del celebre cuoco futurista Bulgheroni. Banchetto per
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ardimentosi nuovi competitori di gusti, per sprezzanti derisori di passate prelibatezze, che attraverso il “Decollapalato” brodo dall’essenza “assai bizzarra”, sperimentano sugo di carne inebriato da un mare di champagne e liquori, seguito dal “Bue in carlinga”, che nasconde in passatiste polpettine su aeroplani di mollica il sogno futurista dell’indecifrabilità dell’essenza. Il cibo dinamico rafforza l’eloquenza mirabile dell’incommestibilità, esasperando il rapporto fra alimento e percezione sensoriale, che nelle “Elettricità atmosfe-
riche candite” dalla forma di saponette di finto marmo, azzardano contenuti gusto-tattili indefinibili e fazioni di barbabietole e fette d’arancio fra ondate di olio, aceto e sale. Il finale è un “Ammaraggio digestivo” che “in una poltiglia di marroni lessati in acqua zuccherata”, libera in un azzurro cielo di gelato aerei di pastafrolla inclinati sul piano. È un rapimento di stomachevole voluttà, scortato dalle parole di Marinetti che, nell’inebrian-
te “contattilità” del momento, pronuncia una requisitoria contro la disonorevole pastasciutta e “l’obbrobrio dei ravioli”. La pastasciutta boicotta la crescita di una nuova razza di fieri ed eroici combattenti; é nutritivamente inferiore a carne o pesce; “lega con i suoi grovigli gli italiani di oggi ai lenti telai di Penelope e ai sonnolenti velieri”. Inoltre, la sua abolizione libererà il Paese dall’importazione del “costoso grano straniero” favorendo invece l’industria italica del riso. Semmai, il ricorso alla chimica deve trovare attraverso pillole o polveri l’opportunità di dare al nostro corpo le calorie necessarie, permetterebbe anche di abbassare il costo della vita e i salari, nonché le ore effettive di lavoro. Tutto deve essere rinnovato, distrutto per essere ricostruito, in un’azione totalizzante che investe anche il galateo a tavola. Così, si abolisce l’uso di coltello e di forchetta nei banchetti e si propongono piatti plastici colorati e profumati che conducano verso esperienze “tattili prelabiali”. Si aboliscono l’eloquenza e la politica a tavola, sostituite dalla musica e dalla poesia per “accendere con la loro intensità sensuale i sapori di una data vivanda”. Vengono chiamati a raccolta gli artisti della rinnovata generazione e nasce a Torino “La Taverna del Santopalato”, decorata dall’architetto Diulgheroff. Un ambiente in cui il dominio del metallo riporterà a sensazioni di lumi-
nosità accecante, di bagliore primigenio, di leggerezza e di velocità. Dal “Santopalato” Fìllia e Marinetti lanciano il loro programma tecnico per “rinnovare il gusto e le abitudini degli italiani”, sconvolgendo quello che fino a ieri era ritenuto organoletticamente assodato. Lo scontro agro-dolce, tattile-labiale sarà una sublime provocazione dei sensi, un “futurare” completo e ossessivo. Solo il vino evita la scure dei novatori, poiché è sì antica bevanda, ma che “si rinnova annualmente, si modernizza col progresso multimorfe”. Guizzanti “Reticolati del cielo”, che come ideali composizioni allungano cilindri di pasta sfoglia e meringa su ali di caramella al mandarino; misteriosi “Antipasti intuitivi”, con canestrini profumati d’arancio ricchi di sorprese di salame, burro, sottaceti e acciughe, per vivere pericolosamente; audace “Porcoeccitato” struttura fallica di insaccato in un mare di caffè espresso ed acqua di Colonia, per animose imprese. Pranzi immangiabili, assoluti come proposte d’arte, come spesse pennellate di gusto, tra-
sversali e filamentose, impudente guazzabuglio di colori e negazione di forme. Pranzi come dilatazione dello spazio attraverso elementi che evidenziano le tensioni dinamiche fra il soggetto e l’ambiente circostante. Disrumore e sprazzi di cielo nei “Pranzi aeropoetici futuristi”, allestiti nella carlinga di “un trimotore volante a 300 metri in un cielo bipartito”, in cui l’ebbrezza del volo si abbina a “frenetiche anguille”, boccheggianti in un mare nero trafitto di “nichel lunare”. Intorno, solo il tintinnare di “vetro legno e campanelli”, mentre la bocca è folgorata da una pallottola di miele. E di nuovo un tintinnare ma del contagiri dell’aereo, che racconta i “20.000 giri divorati” e i “200 chilometri digeriti”. Così si va. Con leggerezza. Si spezza con i denti l’infinito, piombando dentro sé stessi in un complesso brontolio di intestini. E ancora, il “Pranzo desiderio bianco”, delirio di luce non-luce, di bianco positivo e nero negativo, che raduna “10 negri” attorno a una tavola coperta di un massiccio vetro scuro. Sala in penombra. Il silenzio è squar-
ciato dal profumo di acacia che fuoriesce da uova fresche bucate ai due lati e lo sguardo è trafitto dal latte bianchissimo e fresco, adagiato in una zuppiera, in cui galleggiano cubi di “mozzarella e acini di uva moscato”. Cibi bianchi e candidi che straniano i commensali allontanandoli da loro stessi, dal buio assordante della loro pelle, appagandoli con “un globo che scende dal soffitto, incandescente di vetro lattiginoso”, mentre il naso è allettato dal profumo del gelsomino. Le ispirazioni tattili guidano pranzi al buio fra commensali “sensibilizzati” in pigiami di diversi materiali: “[…] spugna, sughero, lastra di alluminio..”, fra vivande complementari accompagnate da tocchi raffinatissimi sugli indumenti altrui: la mano sinistra tattilmente operante sul piatto, si contrappone alla destra che “afferra sfere misteriose contenute all’interno”. Arcano di una sensualità in cui la materia si fonde e si confonde in “sfere di zucchero bruciato”, ripiene di carne cruda o passato di banane ed aglio, cioccolata o pepe. “Pranzo oltranzista” in una sera d’Agosto. “Undici convitati (5 donne, 5 uomini e un neutro)”, ognuno dotato di un piccolo ventilatore con cui poter respingere i disprofumi goduti entrando nella sala. Declamazione di poesie e proposte di interviste a poeti futuristi. Sulla tavola compaiono e scompaiono complessi plastici con vaporizzatori che emanano effluvi di “risotto alla milanese battuto da un mare di spinaci crestati di crema”, seguiti da profumi di un “lago di cioccolata che stringe un isolotto di peperoni imbottiti di marmellata di datteri”, accompagnati da fragorosi scampanellii. Silenzi, gracidii di rane, odori di erbe marcite e giunchi “venati di ammoniaca e acido fenico”. E poi profumi di miele, ananas, uva moscata, carrube. Il cibo per i futuristi è pura arte; e l’arte è disumana (ce ne avvertiva Ortega Y Gasset). Il vile nutrimento si trasforma in “altro”; e così trasformato, può piacere o no. Ma sempre al di là da sé. Al di là dell’umanogastrico; della società gastrico-passatista e sonnolenta. E al di là del tempo, forma proiettata nel futuro: “Mangiare nel futuro… cosa più futurista di così?”
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Turismo
Turchia in corsa verso la pole position
di Elisa della Barba
IN
RAPIDA CRESCITA NEGLI ULTIMI
VENT’ANNI, SI È DA TEMPO ATTREZZATA PER SODDISFARE IL TURISMO CON UNA RETE DI SERVIZI E DI INIZIATIVE DIVERSIFICATE PER TUTTE LE ESIGENZE E LE TASCHE
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ired of Italy? Travel to Turkey” (Stanco dell’Italia? Visita la Turchia). Così recita l’articolo di un sito internet che promuove l’incoming in Italia, ma anche mete turistiche facilmente raggiungibili dal nostro Paese (www.italylogue.com). A quanto pare sono in molti a seguire il consiglio: se l’Italia si posiziona al quinto posto nella classifica dei cinquanta Paesi più visitati nel mondo nel 2007, la Turchia si rivela nona (dopo, rispettivamente, Francia Spagna, Stati Uniti, Cina, Italia, Inghilterra, Germania ed Ucraina) e decima per quanto riguarda gli incassi inerenti al turismo, che ammontano a 18,5 miliardi di dollari. Con un turismo in crescita che registra un incremento di arrivi dall’estero passati da poco più di 21 milioni del 2005 a oltre 23 milioni del 2007, la Turchia si aggiudica la medaglia come una delle principali mete turistiche mondiali. Questo salto in avanti si deve soprattutto al Ministero della Cultura e del Turismo turco che ha investito economicamente nell’immagine del Paese, presentandolo come luogo di vacanza sicuro e godibile.
“T
Istanbul, la Basilica di Santa Sofia L'Agorà̈ di Smirne
Numerose le attività artistiche e culturali organizzate nel cuore pulsante della Turchia, Instanbul, come il Rock’n Coke Music Festival, l’Electronic Music Festival e la Biennale di Instanbul 2009 alla sua 11° edizione (12 Settembre – 8 Novembre 2009), ma anche il Festival Internazionale della Musica (Giugno-Luglio) e il Festival Internazionale del Jazz (Luglio); positivo anche il clamore che suscita periodicamente l’appuntamento con il Gran Premio di Formula 1 della Turchia. La programmazione prosegue con altre iniziative dislocate in tutto il Paese: sulla costa ad Alanya (Antalya) con il Festival Internazionale Del Turismo e della Musica a Settembre; a Çanakkale con il Festival interculturale e artistico di Troia ad Agosto; a Izmir, con la Fiera internazionale del Turismo mediterraneo Meturex a Ottobre. Un modo intelligente per richiamare i turisti dai Paesi vicini come l’Italia durante tutto l’anno e incentivare un turismo che non sia solo balneare. Degli oltre 23 milioni di arrivi stranieri totali del 2007, quasi la metà esatta appartiene all’Unione Europea, che rappresenta quindi una risorsa importante per il Paese. La Germania è in testa, con 4.149.805 arrivi, segue la Gran Bretagna con 1.916.130, i Paesi Bassi con 1.053.675, la Francia con 768.167, l’Italia con soli 514.803. Per quanto riguarda gli arrivi extra-europei, è da notare la presenza di turisti russi, con 2.465.336 di arrivi nel 2007. Interessante poi osservare che la Turchia conta ben 120 aeroporti (2004): una svolta all’economia dei trasporti turchi è stata data nel 2007 con la creazione di nuove linee aeree interne turche, come Onur Air, Atlas Jet, Pegasus e Sunexpress che hanno generato competitività e offerto di conseguenza prezzi più appetibili su tratte nazionali e internazionali, in particolare – non a caso – per i collegamenti con Germania e Paesi Bassi. Sabiha Gökçen, il nuovo aeroporto costruito nel 2004 a Istanbul ha contribuito ulteriormente ad alimentare la concorrenza, visto le basse tariffe offerte in confronto a quelle delle linee servite dall’aereoporto Atatürk (nome che inevitabilmente richiama una parte importante della storia di questo Paese: Mustafa Kemal Atatürk fu il fondatore e il primo presidente della Repubblica Turca, nel 1923). I trasporti sono uno dei settori forti del Paese, che dispone di un’ampia e crescente industria meccanica con impianti per costruzioni ferroviarie (10.991 chilometri totali di ferrovie) e montaggio di aeroplani nonché di autoveicoli. Nel 2006 la Turchia ha prodotto ben 1.024.987 veicoli a motore, classificandosi come la sesta produttrice di motori in Europa dell’anno, rispetti63
Turismo L Alanya, antico insediamento degli Ittiti, famosa oggi per le sue bellezze naturali e i suoi monumenti storici
L Il Bosforo
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vamente dietro a Germania (5.819.614), Francia (3.174.260), Spagna (2.770.435), Inghilterra (1.648.388) e Italia (1.211.594). Leader anche per quanto riguarda le costruzioni nautiche – la cantieristica navale si concentra a Izmir (Smirne) e a Istanbul – nel 2007 si è aggiudicata la quarta posizione mondiale (dopo Cina, Sud Corea e Giappone) per numero di navi commissionate e la quarta nel mondo (dopo Italia, Stati Uniti e Canada) per numero di mega yacht commissionati. Ma proprio come la sua posizione geografica la rende in bilico fra Europa e Asia, la Turchia è altrettanto divisa per quanto riguarda la natura dell’economia, che presenta un quadro fra progresso e tradizione: da una parte l’industria siderurgica e metalmeccanica, dall’altra una forte impronta agricola. In rapida crescita negli ultimi vent’anni, l’industria del turismo ha portato al Paese un notevole beneficio economico. È infatti seconda solo all’industria tessile, con lanifici e cotonifici diffusi su tutto il territorio, mentre la tessitura della seta e la fabbricazione dei tappeti raggiungono un elevatissimo livello qualitativo, in grado di competere con i prodotti orientali più rinominati. Non c’è da stupirsi dunque se la carta del turismo ha funzionato: con una popolazione di 70.586.256 nel 2007 e un’area di 780.580 chilometri quadrati, equivalente a una superficie maggiore di Francia e Inghilterra messe insieme e a due volte e mezzo il territorio italiano, la Turchia vanta una posizione strategica per quanto riguarda le attrattive turistiche. Controlla infatti gli stretti di passaggio (Bosforo e Dardanelli) che collegano il Mar Nero – con acque trasparenti e bellissime – all’Egeo, che la unisce così alle isole greche. Il terreno è principalmente montagnoso: il punto più basso lo segna il Mar Mediterraneo mentre quello più alto è il monte Ararat, 5.166 metri, dove secondo la Bibbia approdò l’arca di Noé alla fine del diluvio. Solo un esempio, questo, per sottolineare come siano anche la storia millenaria e la varietà a rendere questo Paese tanto appetibile ai turisti di tutto il mondo. Se sulle coste si presenta con un paesaggio familiare ed europeo e un mare che l’Italia e la Grecia potrebbero invidiare, all’interno la Turchia svela il suo lato storico più vero. Gli Ittiti, i Frigi, i Traci, i Lidii, gli Armeni e gli Elleni (Greci), l’Impero Bizantino (330-1453 d.C. ) e quello Ottomano (XIV-XVIII secolo) si alternano nelle numerose testimonianze storiche, impronte sparse in ognuna delle ottantuno province: Istanbul, la Cappadocia, gli oltre 7000 chilometri di costa
L Il mercato di Istanbul
L Kebab
Egea (Smirne – città natale di Omero – Troia, Bergama-Pergamo) e di Costa Mediterranea (le antiche Fethiye e Olympos e la moderna Antalya), l’Anatolia (una delle zone più selvagge della Turchia). Giustissimo sia per l’Italia sia per la Turchia utilizzare la cultura storica di cui dispongono per richiamare i turisti, specialmente se si pensa che entrambi i Paesi possono vantare testimonianze “recenti” – fino a mezzo secolo fa – al contrario della Grecia, per esempio, che vive della gloria di un passato lontanissimo. Ma è per il turismo balneare, quello dei turisti all’interno e all’esterno del Paese che cercano sole e mare – possibilmente cristallino – a buon prezzo e niente di più, per cui la cultura non è nei loro programmi e non vogliono saperne di monumenti e di storia, che il nostro Paese dovrebbe ispirarsi alla Turchia. Grazie anche alla recente privatizzazione di imprese pubbliche, si è da tempo attrezzata per soddisfare il turismo sulle coste, con una rete di alloggi diversificata per tutte le esigenze e le tasche: Luxury Hotels, Star Hotels, Resorts, Budget Hotels, Cheap Hotels. Al contrario, in Italia Rimini e Riccione hanno un’immagine forte: spiagge, divertimento, stabilimenti e hotel all’avanguardia. Certamente ammirevole la buona volontà. Ma tra i costi – anche se contenuti – e un mare non sempre cristallino, le scelte degli italiani e degli stranieri cadono spesso altrove. Perché se è vero che Sardegna e Sicilia hanno mari da sogno, le strutture attrezzate restano scarse, i luoghi più belli e selvaggi sconosciuti ai più e quelli che anche vengono pubblicizzati sono inavvicinabili economicamente. Negli ultimi anni invece in Turchia sono stati fatti passi da gigante anche per migliorare il customer service, a partire dalla messa in atto di diversi sistemi di vendita dei pacchetti viaggio (in particolar modo rateale) che agevolano i turisti meno abbienti, in questo modo invogliati a viaggiare di più e più a lungo. Si è affiancato anche uno sviluppo mirato delle agenzie di viaggio verso l’utilizzo di internet, così da fornire ai clienti più servizi e un’organizzazione più agevole del viaggio, prenotazioni on-line incluse. Punto forte è stato anche l’incremento delle relazioni con hotel, agenzie di viaggio e compagnie aeree straniere che hanno generato prezzi competitivi. Nel 2007 inoltre il Ministero della Cultura e del Turismo ha reso pubblica una strategia di cambiamento che guarda al 2023. Per festeggiare il centenario della fondazione della Repubblica Turca, che ricorrerà appunto nel 2023, si è ideato un piano strategico per migliorare l’offerta turistica 65
Turismo L Uchisar, città della Cappadocia
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in qualità ed efficienza attraverso numerosi cambiamenti. Il training di personale specializzato per l’accoglienza turisti, un nuovo studio di marketing e promozione dell’immagine del Paese, l’adozione del turismo sostenibile e una misurazione standardizzata della qualità renderanno il Paese all’avanguardia. La voglia di programmare e di migliorarsi secondo un progetto coerente e sistematico (presentato in un rapporto di 75 pagine) indica volontà e determinazione da parte di un Paese che fino a poco tempo fa poteva considerarsi in gravi difficoltà di sviluppo economico. Infatti si registra una crescita del Prodotto Interno Lordo dal 2002 al 2007 con una media del 7,4 per cento che ha fatto della Turchia una delle economie mondiali maggiormente in crescita durante tale periodo e le alte percentuali del PIL testimoniano una Turchia sempre più industrializzata nelle grandi città, soprattutto nelle province occidentali, con una percentuale del 59,3 per cento da accreditare al settore dei servizi, con un 30,8 per cento da ricondursi al settore industriale e solo l’8,9 per cento all’agricoltura. Segnali positivi. Restano però in gran parte insolute le problematiche riguardanti la disoccupazione, con un tasso pari al 10,4 per cento a Marzo 2007 ma che in realtà nel 2008 è balzato al 15 per cento (si pensi che l’Italia presentava un tasso del 6,1 per cento nel 2007) e l’economia in bilico, con un rapporto deficit/PIL che potrebbe salire ad oltre il 4 per cento nel biennio 2009-2010 (contro il 2,9 per cento dell’Italia nel 2008). È triste constatare come le potenzialità per un’economia in fermento e un turismo fiorente ci siano tutte, ma purtroppo non vengano sfruttate appieno. Situazione molto simile all’Italia, dove più infrastrutture e una maggiore cura della comunicazione sul Paese farebbero sicuramente migliorare le statistiche turistiche. Si può però affermare senza ombra di dubbio che un Paese come la Turchia, questo grande rettangolo stretto fra Medio Oriente e Occidente, tra povertà e progresso, fra laicismo e religiosità (ufficialmente la Turchia è uno Stato laico e il 98 per cento della popolazione è composto da musulmani, il 68 per cento dei quali è di rito sunnita e il 30 per cento è di rito sciita), è terra di aspri contrasti, duri da affrontare e difficili da paragonare alla realtà dell’Italia. Il nostro Paese si trova in posizione di netto vantaggio in molti settori: se i prezzi elevati possono far perdere parecchi clienti, la nostra enogastronomia e la nostra solarità ne guadagnano altrettanti, meritatamente. Ma che non stia troppo a guardare dall’alto, la nostra Italia, seduta sugli allori da tempo: il cammino della Turchia verso un benessere generale è ancora lungo, ma la ricchezza storica e ambientale ci sono e la voglia di cambiare anche. Le probabilità che ci si ritrovi a contendersi i primi posti, in futuro, non sono poi così scarse.
Vino e cinema
Il
vino,
la nuova star del
cinema di Silvia Baratta
l vino e il grande schermo: un binomio sempre più spesso scelto da registi di tutto il mondo. Le formule con cui esso entra sul grande schermo sono varie. Talvolta è protagonista di documentari, come in “Mondovino”. In altri casi diviene oggetto principale della trama, come in “Sideways”, infine può essere tema di sfondo di storie romantiche, come in “Un’Ottima Annata”. Il vino, infatti, non rappresenta solo un prodotto evocativo, conosciuto in tutto il mondo, ma racconta anche storie di uomini, di territori. D’altro canto, esso è passione e, anche per questo, grandi registi non sono rimasti indifferenti nemmeno al fascino di “fare vino”. Un esempio fra tutti è Francis Ford Coppola, proprietario dell’azienda Rubicon Estate in Napa Valley, che conquista con i suoi vini, ogni anno, premi dalla critica e ospita nelle sue cantine migliaia di turisti, grazie a un interessante esempio di enoturismo bene organizzato. Ogni persona che arriva in cantina viene accolta con un vero e proprio “passaporto”, consegnato simbolicamente all’inizio di questo viaggio. E se Ford Coppola si è messo dall’altra parte, nella maggioranza dei casi i registi usano il vino come protagonista del set per dipingere caratteri, intrecciare storie di amori e gelosie, amicizie e litigi. È il caso di “Sideways” che dimostra come le vie del vino siano infinite ma anche profumate, gustose, limpide come il cristallo di un balloon. Il film è un road movie, dove l’amicizia fra due uomini di mezza età è la dolceamara riflessione sul continuare a essere dei “novelli” giovani o apprezzare i piaceri della maturità, dell’invecchiamento. Jack è un attore di soap opera in procinto di sposarsi. Il suo migliore amico,
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L Il regista italo-belga Maxime Alexandre al lavoro dietro la macchina da presa
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Vino e cinema L Riprese in vigna
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Miles, bruttino, dolorosamente divorziato e scrittore non proprio di successo, decide di fargli un regalo speciale: una settimana sulle strade del vino della California, per un piacevole e intenso addio al celibato fra calici di nettare e campi da golf, alla ricerca del Pinot Nero perfetto. Incontreranno anche l’amore. Le donne, per i due protagonisti, vanno di pari passo con il vino. Per lo scrittore devono essere rare e uniche, da apprezzare e da sorseggiare nella loro maturità; per il belloccio, divo da soap opera, devono avere l’immediata esplosività di un vino frizzante, non necessariamente di alta qualità. Il film di Alexander Payne, delinea i personaggi, le loro forze, le debolezze, e li mette in parallelo al vino, alle modalità dell’invecchiamento, di conservazione, di degustazione. Nella trama vengono espresse in modo chiaro le posizioni enologiche dei protagonisti, quasi ci fossero vitigni buoni e virtuosi, come il Pinot Nero, e vitigni invece che godono di un successo quasi immeritato. Emblematica è la battuta di Miles: «Non è una forza come il Cabernet che riesce a crescere ovunque e fiorisce anche quando è trascurato. Al Pinot Nero servono cure e attenzioni. Infatti cresce soltanto in certi piccolissimi angoli nascosti del mondo. E solo il più paziente e amorevole dei coltivatori può farcela. Solo chi si prende davvero il tempo di comprendere il potenziale del Pinot sa farlo rendere al massimo della sua espressione». In altri casi il vino fa solo da sfondo alla trama. È il caso di “Un’Ottima Annata”, film di Ridley Scott, uscito nel 2006. Racconta la storia del cinico Max Skinner, abile banchiere specializzato in transazioni finanziarie. La morte improvvisa del vecchio zio Henry lo distrae dai guadagni e lo conduce in Provenza, nei luoghi della sua infanzia. Tra le vigne della tenuta Max ritrova i sapori del passato, gli amici della fanciullezza e il fedele vigneron di zio Henry e scopre quelli del futuro, la deliziosa locandiera, Fanny Chenal. Max finisce per cedere alla ragione del cuore e abbandona la finanza per l’amore. Nel film, le scene in vigneto sono state girate a Château La Canorgue nell’area di Luberon, in Provenza. In questa pellicola, sebbene il vino rimanga un elemento di sfondo, non mancano i passaggi in cui diviene simbolo di uno stile di vita. «Questo posto non si adatta alla mia vita» afferma Skinner. «È la tua vita che non si adatta a questo posto», risponde Fanny Chenal. Il prodotto della vite fa da sfondo a una storia d’amore anche ne “Il Profumo del Mosto Selvatico”, film di Alfonso Arau, uscito nel 1995. In questo caso è la ritualità della vendemmia a fare da complice all’innamoramento dei protagonisti. La cornice è rappresentata dai vigneti e dai tramonti in controluce della California del Sud. Il vino diviene invece soggetto principale in “Mondovino”, film documentario del regista Jonathan Nossiter, presentato nel 2004 a Cannes. Il lungometraggio fa il punto sull’effetto della globalizzazione sul vino. Davanti alla telecamera si alternano produttori grandi e piccoli, outsider e colossi intervistati nel corso di un originale viaggio nei terroir più vocati, dall’Italia alla Francia fino ad arrivare agli Stati Uniti. Il regista prende con chiarezza una posizione in difesa di importanti elementi della cultura enologica della viticoltura europea. Fra questi, la tutela del patrimonio vinicolo di ogni regione, la diversità del gusto, il concetto di terroir. Una frase del film è in questo senso emblematica. “I vini vanigliati sono peggiori della chirurgia plastica, perché questa ti lascia l’anima intatta: con gli aromi al contrario il vino perde l’anima”. “Sideways”, “Un’Ottima Annata” o “Mondovino” sono film che hanno fatto parlare di sé forse anche perché prodotti in anni in cui il vino è divenuto un fenomeno di opinione. Molto tempo prima, però, è stato girato “Il segreto di Santa Vittoria”, con un cast di tutto rispetto composto da Anthony Quinn, Anna Magnani, Giancarlo Giannini. Sotto la regia di
L La preparazione di un'auto per le riprese in movimento
Stanley Kramer, il film narra una storia realmente accaduta durante l’occupazione tedesca a Santa Vittoria d’Alba, rinomata per la qualità del proprio vino. I tedeschi cercano di impossessarsi di tutte le bottiglie, custodite nella cantina sociale. Il sindaco Bombolini, interpretato da Anthony Quinn, grazie alla sua caparbietà impedisce che l’unica ricchezza del paese finisca nelle mani dei nazisti. È questo finora il solo esempio in cui protagonista è il vino italiano mentre per i film più recenti, nonostante l’enologia nazionale sia riconosciuta ai vertici qualitativi, per i soggetti dei film sono Francia e California a farla da padroni. A riscattare il nostro Paese sarà “Holy Money”, in uscita in autunno. Girato dal regista italo belga Maxime Alexandre, il film presenta un cast di tutto rispetto con Luca Angeletti, Valeria Solarino, Aaron Standford e Ben Gazzara. È un thriller ricco di colpi di scena, che ruota attorno alla storia di due amici e un vigneto, situato nella splendida località di Sant’Angelo, nome inventato, che nella realtà corrisponde a Civita di Bagnoregio. Sin dalla sequenza iniziale, il vino è protagonista, grazie alla splendida scena del rituale del riempimento del calice, la roteazione e poi, a sorpresa, un proiettile che frantuma il bicchiere e il vino che si sparge. Nel film, il regista dà all’enogastronomia italiana un ruolo di primo piano e, nel panorama enologico, rifugge dalle scelte scontate, puntando la telecamera sul Sagrantino di Montefalco. «Amo l’Italia per la sua ricchezza di luoghi e prodotti straordinari» afferma Maxime Alexandre. «Per questo ho deciso di puntare su Civita di Bagnoregio, luogo splendido ma poco noto al pubblico internazionale, così come il Sagrantino di Montefalco è un vino che, a livello internazionale, è meno conosciuto di produzioni come Barolo, Brunello di Montalcino, Amarone. Holy Money uscirà nelle sale cinematografiche dei cinque continenti: spero così di dare un piccolo contributo per fare conoscere le tante risorse dell’Italia nel mondo». Ma quale sarà il futuro del binomio vino cinema? Si aprono anche nuove frontiere, grazie al product placement, ovvero all’inserimento di un prodotto e di una marca nella sceneggiatura di un film. Una presenza che al pubblico risulta naturale ma che invece non lascia nulla al caso. Basti pensare al legame fra l’agente 007 e il Dom Pérignon in “Dalla Russia con amore” e in “La Spia che mi amava”. In Italia, tuttavia, finora non se ne era parlato. Con il product placement il cinema, oltre che un modo per comunicare il vino come portatore di valori e stile di vita, diviene anche un modo per promuovere i brand. È questo il messaggio presentato in questi mesi dalla società europea Chicane (www.chicane.tv), che ha sede a Roma e a Bruxelles. Con questa attività, Chicane darà alle aziende italiane l’opportunità di avvicinarsi alla Settima Arte. Secondo i dati Aegis Media, nel 2004 si contavano trenta aziende che hanno investito nel product placement per 10 film, con una cifra totale annua di 800 mila euro, mentre nel 2007 i numeri vedevano 86 aziende, 26 film e una somma annua di 6 milioni e 300 mila euro. La prima occasione per accedere a questa promozione sarà “Christopher Roth”, thriller mozzafiato girato in Lazio e in Umbria. Protagonista è un romanziere di gialli di grande successo che, innamorato dell’Italia e della sua enogastronomia, si trasferisce nel nostro Paese. Il suo soggiorno viene turbato da alcuni episodi che trasformeranno la sua vita in un thriller. Un ruolo importante sarà affidato ai prodotti enogastronomici italiani, che creeranno l’ambientazione e la suggestione dell’Italia. Il vino, ovviamente, avrà un ruolo centrale. Dopo anni in cui il cinema ha parlato molto dei cugini d’Oltralpe, oggi il vino italiano si prende una vera e propria rivincita. Non resta che aspettare l’uscita dei due film, ai quali ci auguriamo seguiranno molti altri. 69
Oli d’Italia
Chi fa la differenza?
La scelta delle varietà di Luigi Caricato nizio subito con un errata corrige. Una svista che mi sembra giusto segnalare, in quanto concerne la composizione varietale di un extra vergine da me recensito nel numero 86 di “De Vinis”. L’olio in questione è il “Dagla”, prodotto da Boris Pangerc: un blend in produzione limitata ricavato da olive Bianchera (per l’80%) e da olive Leccino e Pendolino; non invece, come erroneamente indicato, da olive Frantoio al posto dell’autoctona Bianchera. Non è questione di poco conto, giacché la Bianchera, detta anche Belica, è una cultivar che ha fatto la fortuna dell’area triestina ed è tuttora protagonista incontrastata anche nei Paesi vicini Slovenia e Croazia. E’ chiaro che le olive Frantoio, presenti ovunque, in Italia come altrove, diano luogo a extra vergini di grande pregio, ma il profilo sensoriale che se ne ricava è comunque diverso da altre cultivar, come appunto la Bianchera. Questa precisazione mi offre l’occasione per affrontare un tema su cui è bene chiarire alcune questioni di fondo. L’Italia vanta un grande patrimonio varietale, davvero invidiabile, visto che altri Paesi produttori non hanno la concreta possibilità di eguagliare il nostro primato. L’Ivalsa del Cnr, l’Istituto per la valorizzazione delle specie legnose di Sesto Fiorentino, ne ha addirittura censite 538. Un germoplasma olivicolo che è insieme una risorsa ma anche un problema. Infatti resta da capire come valorizzare al meglio tali cultivar e, soprattutto, si tratta di capire ancor di più come si debba infine intervenire nell’individuare le varietà più indicate nell’avviare un nuovo impianto olivetato. Non è questione di poco conto. La qualità si gioca soprattutto sulla scelta varietale e sull’adattabilità delle piante al territorio. I programmi per la salvaguardia e la valorizzazione del germoplasma locale, si sa, sono stati attivati solo da qualche anno a questa parte. Tale risorsa genetica va dunque seguita passo passo. Il fatto che il nostro Paese copra, con le sue varietà, circa il 42 per cento del patrimonio mondiale, ci deve investire di maggior senso di responsabilità. Il fatto che siano state però indivi-
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duate 538 cultivar non significa che queste in quanto tali dominino di fatto lo scenario produttivo. I numeri possono riempirci d’orgoglio, ma va anche detto che l’olivicoltura italiana si basa solo su poche decine di cultivar, circa cinquanta. La voglia e la necessità di differenziare le produzioni, spinge oggi il produttore a puntare a ottenere un extra vergine che sia unico ed estremamente peculiare. Per questo, l’essere in grado di realizzare degli ottimi blend di oli varietali fa in molti casi la differenza sul piano qualitativo. L’interesse crescente verso le cultivar autoctone d’olivo è un segnale evidente della rinata necessità di differenziarsi sul mercato, anche attraverso le proposte monovarietali. Claudio Cantini, che dell’Istituto Ivalsa del Cnr è il responsabile dell’azienda agricola sperimentale Santa Paolina di Follonica, ci apre lo sguardo su come già nell’antichità avevano capito il fondamentale ruolo delle cultivar. Nel terzo-secondo secolo avanti Cristo Catone indicava già la strada da seguire nella scelta delle varietà da piantare, muovendosi in base al suolo e alla località. Ma la scelta va fatta anche secondo ragioni propriamente strutturali (legate a dimensione, pendenza del suolo e presenza di personale), economiche (capacità di investimento e liquidità) e legislative (secondo quanto indicato per esempio dai disciplinari di produzione). Il percorso non è facile. Per questo occorre capire che quanto ci si ritrova in bottiglia non può essere il frutto del caso, ma di una ben precisa strategia produttiva. La scelta delle cultivar da utilizzare va legata alle tendenze di gusto del mercato di riferimento e del periodo storico in cui si produce, senza però mai trascurare la qualità di prodotto che si vuole ottenere. Le cultivar sono una carta vincente per le aziende che vogliano emergere, e ai consumatori si chiede soltanto lo sforzo di cogliere il vantaggio di poter disporre di differenti peculiarità espressive anche all’interno dello stesso territorio. Per questo, va detto a chiare lettere, che il riferimento a una cultivar piuttosto che a un’altra fa sempre la differenza.
GLI ASSAGGI OLEIFICIO COOPERATIVO MOLFETTA
Nel bicchiere. E’ verde chiaro dai riflessi giallo dorati. All’olfatto ha toni fruttati di media intensità, con profumi netti che rimandano all’oliva fresca e sentori vegetali di carciofo altrettanto marcati. Al palato ha buona fluidità, morbidezza e sensazione vellutata. L’amaro e il piccante non disturbano, giacché in ottimo equilibrio. In chiusura, richiamo alla mandorla e lieve piccante.
PUGLIA
“Goccia di Sole”, Dop Terra di Bari-Bitonto, da olive Ogliarola Barese e Coratina; ricavato con il metodo Sinolea, per sgocciolamento.
L’abbinamento. Spaghetti al pomodoro, insalata di fagiolini con funghi e pecorino, tagliata di manzo con salsa di capperi e acciughe. Oleificio cooperativo Molfetta, via Lago Tammone, 70056 Molfetta (Bari), tel. 080.3381280, info@gocciadisole.com, www.gocciadisole.com
“Il Roccolo”, da olive in gran parte Casaliva, quindi Leccino, Pendolino e un po’ di Moraiolo. Nel bicchiere. Giallo oro dalle sfumature verdi, al naso ha sentori di erba aromatica e mandorla, con un fruttato leggero fine ed elegante. Al palato ha buona fluidità e gusto vegetale, morbidezza e rotondità, con una nota amara e piccante in buon equilibrio. In chiusura la mandorla. L’abbinamento. Risotto con pomodoro e basilico, insalata di radicchio e grana, involtini di fesa di tacchino con cremolata di verdure.
LOMBARDIA
ANDREA BERTAZZI
Azienda agricola Il Roccolo di Andrea Bertazzi, via Zanardelli, 25080 Polpenazze del Garda (Brescia), tel. 0365.674163, roccolo.bertazzi@libero.it MASSERIA DON VINCENZO
Nel bicchiere. Giallo dai riflessi verdi, limpido. Al naso ha note fruttate di media intensità, vegetali, con richiami netti al carciofo e sentori di erbe di campo. Al gusto si percepisce una sensazione dolce, con toni di lattuga e altri ortaggi, amaro e piccante presenti e ben dosati. In chiusura una spiccata nota mandorlata. L’abbinamento. Passato
ABRUZZO
Masseria Don Vincenzo “Tradizionale” è un blend di oli da olive Leccino, Moraiolo, Ascolana e Pendolino.
Tenuta Zimarino Masseria Don Vincenzo, c.da Zimarino, via Torre Sinello 46, 66054 Vasto (Chieti), tel. 0873.310027, info@tenutazimarino.com, www.tenutazimarino.com TENUTA IL CICALINO
Nel bicchiere. Giallo oro dalle sfumature verdi intense, al naso si apre con profumi fruttati dalle chiare connotazioni erbacee. Al gusto è sapido e vegetale, avvolgente, con richiami netti al carciofo e alla mandorla. L’amaro e il piccante sono nella media e ben equilibrati, la fluidità è buona e lascia la bocca pulita. In chiusura una punta piccante e la mandorla.
TOSCANA
“Tenuta Il Cicalino”, Igp Toscano, da un blend di oli da olive Frantoio, Leccino e Pendolino.
L’abbinamento. Minestre di verdure e legumi, frittelle di patata e zucca, maiale saltato con funghi e cipollotti. Tenuta Il Cicalino, loc. Il Cicalino, 58024 Massa Marittima (Grosseto), tel. 0566.902031, info@ilcicalino.it, www.ilcicalino.it 71
Birra di qualità
L’ultima SI
CHIAMA
OPEN
“follia”
ED È MOLTE COSE INSIEME:
UNA BIRRA ARTIGIANALE PENSATA PER LA SPINA E PER I PUB, UNA RICETTA
“APERTA” ALL’INTERVENTO DEGLI HOMEBREWERS, UN CONCEPT DI LOCALE INNOVATIVO. LA FIRMA È QUELLA DEL BIRRAIO LANGAROLO
di Maurizio Maestrelli
l titolo volutamente riecheggia un celebre film di Mel Brooks ed è stato scelto perché ci sono dei momenti in cui la creatività sembra diventare quasi un po’, per dirla in termini psichiatrici, “borderline”. Ovvero sconfinare nella follia, per quanto di quelle benefiche. I birrai italiani sembrano essere particolarmente affetti da questa sorta di raptus creativi, tanto che si fa parecchia fatica a star loro dietro: assaggi la loro ultima birra e mentre lo fai ti dicono che in realtà è la penultima, un giorno leggi che sono al ristorante X per discutere di abbinamenti birro-gastronomici e la sera dopo sono nell’enoteca Y per presentare le loro birre. Gli anni dei circoli ristretti e delle degustazioni tra amici sembrano essere lontani anni luce. Tra i più “ammalati”, quasi ormai a livello cronico, c’è sicuramente Teo Musso. Su di lui si sono spese talmente tante parole che, francamente, ci viene un po’ a noia tornare a descriverlo e a raccontarlo. Andiamo direttamente al sodo ovvero all’ultima o penultima, non si sa mai, idea che gli è apparsa in testa e che, in quattro e quattr’otto, ha realizzato. Questa volta non si tratta di una birra, o meglio non semplicemente di una birra ma di un progetto molto articolato che, a nostro avviso, segna un punto di svolta di quelli epocali nel giovane mondo della birra artigianale. Il progetto si chiama Open (www.openbaladin.com), una semplice parolina che nella mente di Teo ha diversi significati. La birra, in prima battuta, che per la prima volta Teo ha realizzato pensando volutamente a una specialità da pub, quindi da consumare alla spina e con un procedimento tecnico, tra cui fondamentale è la fase di sterilizzazione, che gli permette di viaggiare al di fuori della catena del freddo. Una ricetta, in seconda battuta, che è open source ossia aperta al contributo di birrai casalinghi che già nei primi giorni di luglio, a Piozzo, nel cuneese, sede del “Le Baladin”, si daranno battaglia in un concorso tutto dedicato alla Open Baladin e finalizzato, magari chissà, al miglioramento della stessa Open originale. La distribuzione, in terza battuta, che Teo ha deciso di affidare a un’azienda storica e già molto affermata nel campo delle birre di qualità, la padova-
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na Interbrau (www.interbrau.it) con la quale questa birra ha ottime chance di ottenere una diffusione che, per quanto e volutamente non massiccia, le assicurerà una certa visibilità sul mercato per la gioia dei produttori, del distributore e dei consumatori. Ma l’aspetto più interessante del progetto Open è costituito infine dall’apertura di una catena di locali omonimi. Il primo, una sorta di numero zero, ha già aperto i battenti a Santa Vittoria d’Alba, in provincia di Cuneo a due passi dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, ma l’annuncio è per un’inaugurazione a metà settembre nel centro di Roma e una, entro l’anno, niente meno che a New York. Detta così sembrerebbe il sogno di grandezza di Alessandro Magno o un’autentica follia ma vista da vicino e sentita raccontare dallo stesso Teo, la cosa assume contorni davvero molto più credibili. Anche perché il locale Open ha dalla sua una filosofia tutta improntata alla valorizzazione delle
LA DEGUSTAZIONE AMBER SHOCK Birrificio Italiano Lurago Marinone (CO) www.birrificio.it Una delle prime e più riuscite creature di Agostino Arioli è quest’ambrata da 7% vol. prodotta per infusione con malti e luppoli diversi. Il colore è ambrato carico con schiuma compatta e persistente, al naso i toni caldi del caramello sono inizialmente dominanti ma poi escono gradevoli note agrumate e floreali. In bocca è rotonda e piena, certamente una birra con carattere e personalità, ma molto “saggia”, equilibrata, che non si dimentica facilmente.
di
Teo Musso
birre artigianali italiane, e solo quelle, e ormai il patrimonio tricolore di ottime birre non pastorizzate si è davvero fatto consistente. Consistente tuttavia tra i conoscitori, quelli cioè in grado di fare chilometri per partecipare a questa o quella rassegna, quelli che possono battere palmo a palmo i beershop per cercare la bottiglia giusta, ma purtroppo ancora pressoché latitante per la gran parte del pubblico, quelli cioè che sì, le birre artigianali sanno anche cosa sono, ma al massimo conoscono in realtà quelle del loro territorio. In un locale Open invece si trovano a disposizione un centinaio circa di birre artigianali italiane. Da tutta la penisola. In quello di Santa Vittoria d’Alba si possono certamente trovare e provare le birre del Citabiunda di Bricco di Neive, nel cuneese, o del Birrificio Montegioco, di Alessandria, ma anche quelle del triestino Cittavecchia, del parmense Torrechiara, del senese L’Olmaia, del laziale Birra del Borgo, del casertano Karma, del leccese B94. E ovviamente non le abbiamo citate tutte. Insomma un locale vetrina che permette, possibilmente non in una volta sola, di farsi una panoramica molto ampia del livello qualitativo, e creativo, della birra artigianale italiana nel suo complesso. Artefici del progetto, va detto, sono insieme a Teo un altro birraio celebre come Leonardo Di Vincenzo, mente del laziale Birra del Borgo, e uno dei più bravi e appassionati gestori di pub d’Italia, ovvero
Manuele Colonna del trasteverino. I tre, a nostro modo di vedere, hanno tentato di dare una risposta alla crescente domanda di buone birre artigianali che si sta verificando in Italia. Gli ultimi dati affermano infatti che il segmento artigianale è quello che sta dando più soddisfazioni nel comparto birra in generale, garantendo giusta visibilità anche a birrifici che, per questioni organizzative o per “gioventù”, fanno fatica a trovare una distribuzione adeguata. La formula dell’Open non è un franchising e questo dovrebbe voler garantire maggiormente una qualità assicurata sia in termini di prodotti sia di loro mantenimento e vendita, in più non pensiamo possa essere una proposta ripetibile all’infinito. Tuttavia già una decina di Open in Italia, nelle principali città, potrebbe far crescere il volume d’affari dei birrifici coinvolti e, di conseguenza, abbattere i costi di produzione che sono oggi spesso alla base dei prezzi abbastanza elevati delle birre artigianali italiane. Di certo, come abbiamo detto, è una vera e propria svolta, di quelle che lasceranno il segno nella tuttora breve storia del movimento artigianale tricolore. La cui crescita così impetuosa negli ultimi anni non poteva in effetti sortire un qualche risultato del genere. Un po’ folle magari ma della stessa follia di cui sono stati accusati molti imprenditori di talento. Ovviamente prima che raggiungessero il successo.
SUMMER LIGHTNING Hop Back Brewery Salisbury (Regno Unito) Distributore: Ales & Co. www.alesandco.it
SELLA DEL DIAVOLO Birrificio Barley Maracalagonis (CA) www.barley.it
Birra pluripremiata dal Camra, associazione che difende il tradizionale patrimonio birrario britannico, la Summer Lightning è ben nota anche agli estimatori italiani. Colore dorato brillante, solo 5% vol, è birra da bere con piacere in qualsiasi momento della giornata. I profumi sono freschi e dominati dal luppolo East Kent Golding, al palato è più rotonda con un finale secco che invoglia il secondo assaggio. Da aperitivo, ma da provare anche con formaggi freschi.
Nicola Perra è, a mio avviso, uno dei più bravi birrai italiani in attività e le sue birre stanno giustamente ottenendo consensi sempre maggiori. La Sella del Diavolo non è probabilmente la sua “firma” più nota, ma l’ultimo assaggio fatto ci ha regalato una complessità aromatica deliziosa, tra note fruttate di prugne e quelle più fresche del luppolo. Ottimamente bilanciata ed elegante retrogusto, si accompagna bene a carni rosse come un filetto appena scottato. 73
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Birra
Guinness: l’oro nero d’Irlanda compie 250 anni Arthur Guinness, il fondatore
di Laura Pacchioni
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uando si pensa all’Irlanda, i nostri occhi immaginano subito distese verdi, alte scogliere dove l’oceano si infrange rumoroso, una pecora che attraversa la strada, scritte incomprensibili in gaelico, un pub con un’insegna colorata e una bella pinta di birra scura! James Joyce la chiamava “la scura sublime”, altri più semplicemente “the black stuff”, la roba nera. Tutto cominciò ben 250 anni fa… Arthur Guinness apparteneva alla media borghesia dublinese. Dopo un periodo in un piccolo birrificio di provincia, che poi lasciò al fratello minore, nel 1759 firma un contratto d’affitto per un birrificio in disuso a Dublino, pattuendo l’affitto a 45 sterline l’anno per 9.000 anni. Detto così sembra esagerato ma andò proprio in questo modo, e visti i numeri di oggi forse, chissà, la cara vecchia scura sopravvivrà veramente nei millenni! Oggi, ogni anno, vengono tostati quindici milioni di chili di orzo e ogni giorno dieci milioni di pinte sono vendute nel mondo. Per gli estimatori dell’oro nero irlandese, presso il birrificio Guinness di Dublino, nel 2000, è stata aperta la Guinness Storehouse. L’edificio è stato edificato tra il 1902 e il 1904 per essere usato come stabilimento per la fermentazione. È stato il primo nelle isole britanniche ad essere costruito in struttura d’acciaio secondo lo stile di Chicago. L’edificio fu convertito in impianto sterile negli Anni Cinquanta, quando i tini di legno di quercia o di pino per la birra in fermentazione furono sostituiti da quelli in alluminio. Negli Anni ’80 l’impianto aveva già oltre trent’anni e non era più adatto ai moderni procedimenti di birrificazione e quindi venne trasferito in uno nuovo. Dopo dieci anni di meditazioni e quattro di lavori, in questo spazio è stata inaugurata la Guinness Storehouse, un centro per visitatori che è come un
viaggio che si snoda su sette piani attraverso le fasi di produzione, i momenti storici più importanti con interessanti filmati, oggettistica varia, documenti, vecchie botti, laboratori di degustazione e prove pratiche per spillare la pinta perfetta. La visita culmina all’ultimo piano, a circa cinquanta metri di altezza, dove l’ascensore si apre sul Gravity Bar, spazio senza muri, solo vetrate, con splendida vista a 360 gradi su Dublino. Ogni visitatore maggiorenne viene omaggiato con una meritata pinta. Gli ingredienti della Guinness sono rimasti invariati nei secoli e senza aggiunta di coloranti o aromi artificiali: acqua dalle vicine colline, orzo trasformato in malto e tostato, luppolo e lievito. La fama e la fortuna della scura d’Irlanda non tarda a oltrepassare i confini e già nel 1769 vi è la prima esportazione di sei fusti per l’Inghilterra. Nel 1801 per riuscire a preservare la Guinness al suo meglio anche nei lunghi viaggi in mare verso i nuovi Paesi d’esportazione, si inizia a produrre la West India Porter aggiungendo maggiori quantità di luppolo, visto che è anche un conservante naturale. Nasce così la varietà antesignana dell’odierna Guinness Foreign Extra Stout. A quei tempi, la birra veniva commercializzata in fusti di legno: poi un’azienda imbottigliatrice o i gestori stessi dei pub provvedevano al trasferimento nelle bottiglie. Così però ogni imbottigliatore apponeva la propria etichetta. Bisogna arrivare al 1862 per vedere per la prima volta l’etichetta ovale giallo scuro presente ancora oggi: è un primo passo verso il controllo della qualità e la famiglia Guinness sceglie come proprio simbolo l’arpa irlandese, strumento di origini medie75
Birra vali ricavato da un unico ceppo di legno, il nome della famiglia, Guinness, e la firma di colui che iniziò, Arthur Guinness. Nel 1876 l’arpa viene registrata come marchio di fabbrica. Una curiosità: anche il retro delle monetine di euro irlandesi hanno un’arpa, strumento simbolo dell’isola ma l’immagine è come se fosse allo specchio! Nel 1886 Guinness diventò il primo birrificio a essere registrato come società per azioni alla Borsa di Londra. In quel momento si trattava del più grande birrificio al mondo con una produzione annuale di 1,2 milioni di barili. Il resto è storia. La famiglia Guinness considerava la propria ricchezza un dono divino da mettere a disposizione dell’umanità: oltre alle numerose e consistenti donazioni alla cattedrale di San Patrizio, furono responsabili di opere edilizie quali mercati coperti, zone per la ricreazione e l’istruzione dei bambini, risanamento del parco della città, restauro della biblioteca Marsch. Regalarono terreni, ville, donarono somme astronomiche agli ospedali dublinesi, al Trinity College. È stata una famiglia che ha dato lustro e ha cambiato il volto di Dublino per sempre. Anche i lavoratori del birrificio avevano un trattamento al di sopra dei canoni dei tempi: sono stati tra i primi lavoratori in Europa ad avere l’assicurazione sanitaria, se venivano impiegati bambini erano addetti a mansioni leggere, e gli adulti avevano sempre la loro pinta di birra alla fine della giornata lavorativa. Nel 1935 ha inizio una delle campagne pubblicitarie più lunghe della storia: compare un tucano che porta sul becco sette pinte di Guinness in equilibrio, con il motto: “Una Guinness al giorno!”. L’ideatore si chiama John Gilroy (1898-1985), famoso appunto per le sue campagne pubblicitarie ma anche per i suoi paesaggi e ritratti di reali e celebrità. L’idea gli venne andando allo zoo e vedendo un’esibizione di equilibrio di un leone marino: Gilroy inizia a sfornare divertenti disegni di tucani, leoni marini, canguri, pellicani, coccodrilli, tartarughe, struzzi nelle situazioni più strampalate e sempre alle prese con varie pinte di scura. L’esasperato guardiano dello zoo che non riesce a tenere a bada gli animali è una caricatura di Gilroy stesso.
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Il libro del Guinness dei primati Il libro dei Guinness dei primati fu pubblicato per la prima volta nel 1955 ed è il libro coperto da copyright più venduto di tutti i tempi. L’idea venne a sir Hugh Beaver, amministratore delegato della Guinness negli Anni ‘50. Durante una battuta di caccia, un piviere dorato gli volò sopra la testa, lui puntò e mancò la mira. La sera si accese la discussione su quale fosse la specie di selvaggina alata a volare più velocemente. Questa conversazione diede l’idea a sir Hugh di stilare un libro di eventi che fungesse da riferimento ufficiale in grado di appianare qualsiasi discussione in atto negli 81.400 pub britannici e irlandesi. Degustazione Gli ingredienti della Guinness sono orzo, per lo più maltato, solo un 10 per cento viene lasciato crudo, acqua, luppolo, lievito, che viene immesso a una temperatura di 18 gradi. Seguono tre giorni di fermentazione a 20 gradi da cui si ricava la “birra verde”. Per avere il prodotto finito, bisogna aspettare un’altra settimana dove la birra verde riposa in contenitori appositi per la maturazione. La Guinness più diffusa è la draught, cioè quella che troviamo alla spina: lanciata nel 1959, rivoluzionaria per l’aggiunta di azoto che crea la “testa” cremosa. Per spillare in modo corretto una pinta di Guinness, si apre completamente la spina tirandola a sé e si riempie il bicchiere fino a due centimetri dal bordo, tenendolo inclinato di 45 gradi. In questo modo si spilla sia birra sia azoto; se la riempissimo completamente, la birra risulterebbe troppo amara, essendo anche l’azoto, oltre al luppolo, di sapore amaro. Aspettiamo che sedimenti (hanno calcolato in media 119,5 secondi con il bicchiere appropriato) e completiamo la pinta tirando la leva della spina nel senso opposto: in questo modo esce solo birra. Attendiamo ancora che il tutto depositi prima di degustare. Il pittoresco effetto è dovuto all’azione sinergica dell’azoto che sale e dell’anidride carbonica che scende, dando l’effetto cascata. Quando la pinta è pronta, a un esame visivo chiunque direbbe: colore nero. In realtà, se posizioniamo
il bicchiere al di sotto di una fonte luminosa, notiamo che il colore è rosso rubino, colore dato dall’orzo tostato. Al naso è delicata, fresca, con sentori tostati e di caramello che poi ritroviamo alla degustazione, insieme al caffè, al malto e al luppolo. Nel 1988 sono riusciti attraverso un piccolo dispositivo chiamato “widget” a creare anche la draught in lattina: quando viene aperta, questo dispositivo inietta azoto creando così la ricca schiuma. Dal 1999 è disponibile lo stesso prodotto anche in bottiglia. Questo è il tipo di Guinness diffuso maggiormente ma ci sono anche due tipologie in bottiglia, spesso dimenticate, che hanno ampio successo in Irlanda ma soprattutto in Africa, in Asia e ai Caraibi. La più datata è la Foreign Extra Stout, proprio quella del 1801, che si distingue per l’alto contenuto di luppolo, che conferisce un gran carattere. Al naso è intensa, il caramello e i sentori tostati profumano anche l’aria intorno. Al gusto è calda, con il suo titolo alcolometrico di 7.5, ricca, un gusto speciale, una forte personalità. L’altra Guinness in bottiglia è la Extra Stout, 4.2 il titolo alcolometrico, in commercio dal 1821: decisamente più delicata della Foreign, tornano tutti i sentori tipici di caffè e di caramello ma con meno cremosità. Solo alla Guinness Storehouse si può trovare la Guinness Mid Strength: è alla spina e ha le stesse caratteristiche della Draught ma con un titolo alcolometrico di 2.8, proprio come dice il nome stesso, “mezza forza”. Il limite per chi si mette alla guida in Irlanda è 0.1 e forse questa potrebbe essere una possibile soluzione per chi vuole bere una pinta in compagnia anche se poi dovesse mettersi al volante. Oltre a essere piacevole e dissetante, la Guinness può vantare di avere solo 198 calorie in una pinta, di contenere vitamine, fosforo, ferro, tanto che pare sia veramente un toccasana. Nel 1815 la leggenda narra che la forza data dalla scura consentì il recupero di un ufficiale di cavalleria ferito durante la battaglia di Waterloo. Nel 1893 Robert Louis Stevenson portò con sé dei rifornimenti di Guinness nelle isole Samoa e scrisse di aver bevuto la birra per riprendersi dall’influenza. Ne viene consigliata una pinta quotidiana alle donne incinta e, per motivi di salute, agli invalidi di guerra ospitati un tempo nella loro casa di riposo dublinese, venivano concesse ben due pinte. Curativa o no, la famosa scura festeggia quest’anno un compleanno veramente importante. Verrà ampiamente festeggiato con eventi speciali sia alla Guinness Storehouse sia a Dublino, dove le pinte di scura regnano sovrane. Le strade di Dublino sono fredde, soprattutto in inverno, e non c’è niente di meglio che entrare in un pub accogliente, riscaldato dal caminetto, fare due chiacchiere con il vicino di bancone (gli irlandesi sono dei curiosi e dei gran chiacchieroni), assaporare una gustosa pinta e lasciarsi cullare dall’atmosfera, meglio se allietata da buona musica tradizionale. Slainte!
Distillati
La purezza e autenticità della
vodka
di Angelo Matteucci
a distillazione, conosciuta da tempi remoti, fu applicata in Europa in modo continuo a partire dal XII secolo grazie all’incontro di due culture, la cristiana e la musulmana. Fu in quel periodo che i frati benedettini, al seguito delle crociate in Terra Santa, carpirono il segreto dal popolo arabo che aveva perfezionato l’arte della distillazione. I monaci europei, forti di questa nuova scoperta, cercarono invano di produrre l’elisir di lunga vita per l’uomo ma riuscirono comunque a ottenere distillati che, con vari cambiamenti, sono giunti fino ai nostri giorni, ovvero l’elisir di lunga vita dei distillati stessi. I primi secoli di produzione sono avvolti nel mistero poiché poche informazioni sono arrivate a noi. Sappiamo comunque che furono i genovesi, alla fine del XIV secolo a introdurre i distillati alla corte Russa. E’ probabile che si trattasse di acquavite di vino che fu apprezzata al punto da essere menzionata in un documento ufficiale. I distillati hanno avuto (e stanno avendo) un andamento movimentato, ricco di cambiamenti di tendenza, di importanza strategica, politica e perfino religiosa. Prendiamo il caso della vodka, ad esempio, nata in Russia o in Polonia (i due Paesi ne dichiarano la paternità) che sta conoscendo una nuova e importante giovinezza in tutto il mondo tanto che nel nostro Paese sono state introdotte decine e decine di nuove qualità nel solo 2008. L’immagine della vodka è stata per tantissimo tempo legata al mondo contadino, in seguito anche operaio ed in generale alla povertà soprattutto nei Paesi europei dell’Est. Naturalmente aveva e ha, nei luoghi d’origine sopra citati, un largo consumo e un’interessante esportazione sia in Europa sia negli altri continenti. La vodka è prodotta in tutto il mondo principalmente da cereali quali segale, frumento e orzo oltre a patate e più recentemente barbabietola, melassa ed addirittura uva.
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In sostanza può essere realizzata con qualsiasi materia prima atta a produrre alcol commestibile. Salvo alcune eccezioni, la vodka è semplicemente alcol puro. Nei Paesi dell’Est europeo è ancora principalmente bevuta liscia in grandi quantità, a volte di pessima qualità, distillata di contrabbando e venduta illegalmente soprattutto di notte per le strade delle città. Tuttavia, per gli altri mercati mondiali la vodka è considerata il distillato ideale per essere miscelato a succhi, frutta o altri ingredienti botanici. Fino agli anni Ottanta i migliori barman preparavano direttamente alcune “miscele” di vodka con frutta fresca in infusione (melone, pesca, pera, arancia) che utilizzavano come base di long drink offerti alla loro sofisticata clientela. Questo diede un magnifico spunto a molte aziende produttrici che ampliarono la loro gamma con l’inserimento di vodka aromatizzata e in alcuni casi colorata per facilitare il lavoro di misce-
lazione. Purtroppo per questa qualità non sempre si utilizza vodka di altissima qualità, pura e autentica, rigorosamente necessaria per ottenere il meglio. La suddivisione della vodka (oltre che pura o aromatizzata) fino al passato recente si poteva definire in tre aree di produzione distinte. La prima è sicuramente la zona di origine della vodka stessa vale a dire la Russia, la Polonia e gli altri Paesi dell’Est. La seconda è legata alla Scandinavia e alla Finlandia, mentre la terza comprende l’Europa occidentale e l’America del nord. Oggi si è aggiunta un’ulteriore distinzione, non più territoriale bensì di qualità. E’ nata di fatto la vodka ultra super premium, distillata e filtrata varie volte che si è inserita inizialmente sul mercato statunitense prima e nel mondo cosmopolita in seguito. Nacque nel 1997 a Cognac la vodka Grey Goose con frumento invernale francese, distillata cinque volte. La novità ha attirato un nuovo interesse sulla fresca tipologia di vodka particolarmente curata, dove oltre a ricercare la purezza si richiedono caratteristiche di tipicità derivanti dagli aromi primari del cereale, spesso grano d’inverno, dell’acqua di ghiacciai o di laghi di montagna e così via. Il territorio di produzione ha la sua importanza e quindi troviamo sul mercato di nicchia, oltre alla citata vodka dell’area di Cognac, qualità prodotte in Nuova Zelanda con Below 42, Islanda con Black Death, Russia con Stolichnaia Elite, Smirnoff Black No.55, Kauffman, Imperia, Polonia con Wyborowa Exquisite, Snow Leopard, Croazia con Akvinta, Scozia con Valt prodotta da orzo maltato, Borgogna con la distillazione di uve chardonnay e pinot noir e Ciroc con uve Mauzac Blanc e Ugni Blanc nella regione di Gaillac ed altre ancora. Per giungere al miglior risultato la distillazione (quasi sempre continua) si svolge in più fasi. Il filtraggio è anch’esso di vitale importanza con l’utilizzo di vari materiali, dal carbone attivo, alla sabbia diamantifera, alla polvere di
marmo e addirittura alla polvere d’argento e d’oro. “La vodka, così presentata, sta sostituendo in molti casi il gin in cocktail famosi come il Martini” ci dice Fabio Bacchi Capo Barman di fama internazionale, vice campione mondiale uscente che svolge mansioni di consulente ad altissimo livello in Italia e in molte altre parti del mondo “l’Europa è la culla della tradizione ed è qui che nascono idee e tendenze ma è negli Stati Uniti che queste idee prendono corpo per poi essere rimbalzate nei luoghi “in” del vecchio continente. La nuova vodka per la sua purezza e soprattutto freschezza è il distillato più versatile, adatto a essere miscelato a 360 gradi. Appartiene a questa categoria anche la vodka aromatizzata, purché non colorata, di altissima qualità.” Attualmente Fabio sta attivamente collaborando alla grande operazione di “Absolut Talent Show” in otto città italiane per selezionare e premiare il primo “mixologist” italiano in assoluto. Absolut è la vodka nata nel 1879 nel villaggio di Athus nella Svezia meridionale. Dobbiamo attendere fino al 1979 per vedere il lancio di Absolut prima negli Stati Uniti e in seguito in altri 125 Paesi raggiungendo in molte aree l’immagine di leader della categoria. Prodotta ancora nella distilleria di Athus utilizza esclusivamente finissimo grano invernale e la medesima acqua di sorgente. Absolut enfatizza il concetto di purezza e autenticità della Svezia, terra ricca di laghi e fiumi con ampie aree incontaminate. La sua gamma comprende anche eccellenti tipi di vodka aromatizzata perfettamente trasparente da bersi sia liscia sia in cocktail. Nella stessa zona citiamo la vodka Finlandia, prodotta nel Paese omonimo. Anche in questo caso si valorizzano gli elementi della nazione ricca di acqua purissima e di ottimo cereale. Ancora una volta i prodotti vincenti del momento sottolineano la loro origine e autenticità. 79
Eventi
Eun-Sun Park e Nicola Loi, coordinatore della mostra
tavola con l’arte
A
di Emanuele Lavizzari
FINO
AL
30
SETTEMBRE
IL RISTORANTE
“QUATTRO MORI”, BOTTEGA STORICA DI
MILANO,
OSPITA UNA
RASSEGNA DELLE OPERE DI
EUN-SUN PARK,
INTERESSANTE SINERGIA TRA SCULTURA E CUCINA
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a buona tavola e il vino di qualità, espressioni di una tradizione che diventa arte. I piatti prendono forma, il vino viene affinato, così come il marmo è plasmato dai colpi dello scalpello. Se questo accostamento vi pare strano, siamo pronti a smentirvi. Nel centro di Milano, a pochi passi dal Castello Sforzesco, l’enogastronomia con la “E” maiuscola incontra la scultura. Nell’edificio sede del Teatro Dal Verme da più di mezzo secolo il ristorante “Quattro Mori” è luogo di incontro privilegiato di artisti, uomini d’affari, politici, firme del giornalismo e volti dello spettacolo. Nel prestigioso locale meneghino Alberto Cortesi e Domenico Renzo, i padroni di casa, hanno promosso un’iniziativa culturale del tutto originale per un ristorante: “Connessioni e Simmetrie”, un’esposizione di sculture di Eun-Sun Park, artista coreano emergente, da più di quindici anni attivo in Italia. Giunto nel nostro Paese nel 1993 per approfondire gli studi dopo la laurea in scultura presso il Dipartimento di Belle Arti dell'Università di KyungHee a Seoul, Eun-Sun Park si stabilisce a Pietrasanta, in provincia di
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UNA BOTTEGA STORICA MILANESE DIVENTA MUSEO PER L’ESTATE Il ristorante Quattro Mori nasce nel 1952. Inizialmente si stabilisce in via Dante 9, a pochi passi dalla collocazione attuale in Largo Maria Callas, dove si sposterà nel 1969. L’edificio che oggi ospita il locale, costruito nel 1870 e ristrutturato negli anni scorsi, è, come già ricordato, la sede del Teatro dal Verme, crocevia dell'attività musicale milanese, sede di concerti, spettacoli, convegni e dibattiti. Oltre che per la luminosità degli interni e l’eleganza del giardino, il ristorante si caratterizza per la qualità di una
cucina di alto livello, per la genuinità dei prodotti e lo stile della preparazione secondo le più antiche tradizioni. La carta propone molte specialità della tradizione toscana ma non ignora le buone vecchie usanze meneghine. L’accuratezza nelle presentazioni e l’originalità delle ricette fanno il resto. Nel 2006 il ristorante diventa “bottega storica”, il prestigioso riconoscimento che il Comune di Milano riserva a quelle attività commerciali e artigianali che si sono mantenute tali per oltre 50 anni e che impreziosi-
scono la città con la conservazione nel tempo di elementi originali di arredo urbano. In questa cornice l’esposizione di Eun-Sun Park, realizzata dallo Studio Copernico, coordinata da Nicola Loi e curata da Luigi Marsiglia, resterà aperta al pubblico fino al 30 settembre secondo il seguente orario: 10.00-16.00 / 18.00-24.00 Per informazioni: ristorante “Quattro Mori”, Largo Maria Callas 1, Milano – tel. 02 87.84.83
Lucca, dove la materia prima per gli artisti come lui è di casa. Il nome della cittadina versiliese richiama infatti la vocazione storica primaria di questo centro, patria del marmo e fucina di scultori in cerca di ispirazione. Il viaggio dalla Corea alla Toscana è spinto dalla curiosità suscitata in lui dai racconti di altri artisti, che gli mostrano riproduzioni di statue italiane e immagini del marmo bianchissimo delle Apuane. E così un giorno Park decide di partire alla volta della Versilia e la passione per l’Italia lo porta anche a conseguire il diploma presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara. Nelle sue opere è proprio la pietra a svolgere il ruolo da protagonista per dar vita a strutture geometriche costituite da cubi, sfere, cilindri e anelli tubolari assemblati. Il marmo assume la forma di colonna o di elementi architettonici sprovvisti di una funzionalità e privi di un loro essere che esuli dall’aspetto prettamente filosofico o estetico. Lo stesso artista sottolinea come tali colonne rappresentino un'allegoria della nascita e della primavera che dà vita alla natura. In questa concezione metamorfica di tipo orientale ogni struttura è abbinata al silenzio e al sistema spaziale che ruota intorno a questo asse virtuale. Questa scelta delle forme avvicina lo scultore al Minimalismo, da cui però si distingue per il privilegio del marmo come materiale convenzionale dei suoi lavori. La realizzazione di strutture semplici, rese nobi81
Eventi
li dal decorativismo e dall’eleganza delle preziose pietre, infatti, non si arresta all’eliminazione dell’umanità degli oggetti impersonali come nell’Arte Minimalista. Resta particolare quel vuoto che l’artista lascia sempre tra le forme che ha disegnato, quasi a indicare un movimento e una tensione tra la compattezza del marmo e un impulso esplosivo che proviene dalla natura. Questi elementi lineari e modulari non assumono perciò una funzione puramente decorativa, ma tendono a costruire una città invisibile, sfericamente universale e silenziosa, in cui la stessa assenza umana conferma la presenza metafisica dell’uomo. III SCULTURA E ARCHITETTURA L’attività di Park è indubbiamente stata influenzata dall’arte del nostro Paese. L’architettura romanica, in particolare, può essere considerata un importante riferimento per l’artista. Ordine, equilibrio e perfezione nel romanico sono ottenuti con l’utilizzo e la ripetizione di semplici forme, come quelle impiegate dallo scultore coreano. La riproposizione di motivi geometrici evoca infatti un senso di armonia ed essenzialità, senza tralasciare però una rigorosa attenzione al decorativismo. Una fondamentale caratteristica di Park, peculiare in tutte le sue opere, è il suo sofisticato metodo di combinare strati di marmo di differenti colori. Non esiste però il rischio di cadere nel mero abbellimento estetico di motivi ripetuti perché le forme e le figure si evolvono come intersezioni di elementi diversi tra loro e sagome esplosive in divenire. Le incrinature che vanno a creare vuoti e crepe all’interno delle forme sembrano suggerire la trasformazione della regolarità in irregolarità, proiettando quasi un desiderio di oltrepassare la perfezione e conferendo all’opera il senso dello scorrere del tempo. Il lavoro di Park potrebbe essere percepito come un processo di superamento dei rigidi criteri che portano alla realizzazione di forme perfette. La bellezza può anche nascere dalle crepe che generano luce e spazio. I vuoti lasciati nelle sue sculture creano una dimensione in cui lo spettatore ha la possibilità di collocare la propria immaginazione e restano aperte nuove possibilità di analisi. Una forma chiusa e perfetta può diventare limitante, quasi soffocante, mentre le imprecisioni, le fenditure e le fratture nella pietra invitano ad avvicinarsi all’opera e a interrogarsi sul suo significato. In un certo senso, mostrano il fascino e la bellezza del passare del tempo e coinvolgono continuamente lo spettatore in una stimolante attività interpretativa. 82
Eventi
Excellentia, un “dolce successo” di Ennio Baccianella
IL MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE OFFRE IL SUO PATROCINIO ALLA MANIFESTAZIONE CHE PRESENTA LE CHICCHE PIÙ PREGIATE DELLA PRODUZIONE DI VINI DA MEDITAZIONE ITALIANA ED ESTERA AGLI APPASSIONATI
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i è tenuta a Perugia “Excellentia 2009 – Città e Vini da meditazione”, una manifestazione organizzata e condotta dalla delegazione Ais dell’Umbria (www.aisumbria.it), in collaborazione con la Facoltà di Agraria dell’Università di Perugia che quest’anno, presso la propria struttura, ha ospitato l’evento. “Excellentia” ha aperto i battenti con una serata di anteprima animata dai “Riesling … d’Autore” delle aziende dell’Oltrepò Pavese che si sono confrontati con i cugini tedeschi della Mosella, accompagnati da una dolce musica che ha arricchito l’appuntamento per le oltre cinquanta persone presenti nel magnifico scenario dell’Orto Medievale della Facoltà di Agraria. Le luci soffuse e la splendida voce della vocalist sono state solo l’introduzione alla manifestazione vera e propria che ha preso il via con l’apertura degli stand dove produttori provenienti da diverse regioni italiane hanno posto in degustazione i loro prodotti. Nel suggestivo chiostro adiacente all’ingresso dell’Orto Medioevale è stato allestito il “Salotto della meditazione” composto da aree degustative e di incontro, dove è stato possibile scegliere da una carta di vini da meditazione una selezione di Top Wine abbinati a formaggi erborinati, cioccolata e pasticceria nobile. Durante le degustazioni si sono potute ammirare le opere di Mario Mancinelli che, con “Pennellate Eccellenti”, ha proposto una mostra di pittura della sua migliore produzione artistica. Numerose le degustazioni programmate durante i tre giorni di “Excellentia”. Dalle “Dolcezze del Sud” di Sicilia e Calabria a “Lampi di Genio” di Willi Opiz, continuando con “Muffa Nobile un nemico pentito”, la prima degustazione organizzata con tutte le muffe nobili di Orvieto e con la presenza di tutti i produttori e con “Compagni di viaggio: Banyuls Vial Magneret” dell’omonimo Château, in abbinamento a fine cioccolato dell’azienda Passion Cocoa. Nella seconda giornata è stata la volta di “Dolcemente Friuli Venezia Giulia”, degustazione di ben nove etichette di Picolit, Verduzzo e vendemmie tardive, raccontate da Renzo Zorzi, referente didattico Ais del Friuli Venezia Giulia. La regione è stata protagonista anche con il meglio della cucina e dei vini friulani, a cura dell’enoteca regionale “La Serenissima” coordinata da Renato Paglia e dallo chef Alessandro Pareschi. Spazio anche alla Vernaccia di Oristano dell’Azienda Contini e alle grappe invecchiate in fusti particolari di Jacopo Poli. L’ultimo appuntamento è stato con l’Albana raccontata dal Presidente Ais della Romagna, Giancarlo Mondini, per proseguire con i “Vini Parlanti”,
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L Il Salotto della Meditazione
L Le degustazioni guidate
L (Da sinistra) Il vincitore del concorso Luca Martini, il presidente Ais Umbria Gabriele Ricci Alunni e Davide Staffa
progetto di comunicazione e di promozione del vino italiano da vitigni autoctoni, che hanno impresso sulla bottiglia una innovativa retro etichetta multi pagina. Al varo anche la prima edizione del “Grand Prix di Excellentia”, master internazionale dei vini passiti e da meditazione, alla quale hanno partecipato i migliori sommelier professionisti provenienti da tutta la penisola, che si sono sfidati nella finale nazionale per sommelier, per aggiudicarsi il titolo nazionale come “Migliore esperto di vini passiti”. Ha vinto Luca Martini di Arezzo, il secondo posto è andato a Davide Staffa di Lugo di Romagna, terzi ex aequo Simona Bizzarri e Cristiano Cini. Finale di “Excellentia”, come tradizione vuole da alcuni anni, con un “Viaggio nel Tempo” accompagnati da Chateau Rieussec, l’unico Sauternes che in più di un’occasione è riuscito a prevalere sullo Chateau d’Yquem. Durante l’incontro sono state degustate varie annate di questo vino che con la sua struttura e una eleganza disarmante si posiziona tra i migliori prodotti di Francia. In totale “Excellentia 2009” ha visto la presenza di circa diecimila visitatori, circa 350 etichette nella carta dei vini suddivise tra carta gold per i grandissimi prodotti e silver per grandi prodotti, oltre tremila bottiglie stappate per un totale di trentamila assaggi. «Un’esperienza da ripetere» ha detto il presidente Ais dell’Umbria Gabriele Ricci Alunni al termine della manifestazione. «Sarebbe auspicabile organizzare la manifestazione con cadenza annuale, anziché biennale, come è stato fatto fino a ora, per dare agli appassionati la possibilità di degustare sempre le ultime novità, offrendo a rotazione le chicche più pregiate della produzione di vini da meditazione italiana ed estera ai tanti appassionati che apprezzano e acquistano questa tipologia di vini. Credo che anche la sede della manifestazione sia quella giusta», ha proseguito Ricci Alunni, «tornare alla città di origine di “Excellentia” è stato un fattore determinante per la riuscita della manifestazione e ringrazio tutti: dalla Facoltà di Agraria dell’Università di Perugia, che ci ha ospitato, alle istituzioni, dagli sponsor ai produttori che hanno aderito all’evento e a tutti i sommelier che con professionalità e disponibilità hanno collaborato alla riuscita di questa edizione».
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Gocce
Un sorso di
cultura
di Valentina Pillot
III UN NETTARE DI BELLEZZA A BOLOGNA Per gustare il buon vino al cento per cento si può anche optare per un’esperienza sensoriale a 360 gradi e dedicare una serata al nettare degli dei da bere, certo, ma anche da utilizzare come balsamo per massaggi profumati all’essenza dello stesso bouquet. Ad avere l’idea è stata la Tauleto, azienda vinicola bolognese che dal suo Sangiovese è riuscita a creare una vera e propria linea di bellezza. Prima nata nell’ordine, la Tauleto wine fragrance, ovvero il primo profumo nato partendo dall’essenza di vino. L’idea è di Giuliana Cesari, che ha deciso poi di declinare dalla stessa essenza creme di bellezza e candele profumate. III UNA LITE PER LO SPUMANTE IN PIEMONTE La governatrice del Piemonte, Mercedes Bresso, ha messo la propria faccia per promuovere lo spumante secco Doc Alta Langa e questa operazione promozionale, assolutamente gratuita, non ha mancato di scatenare polemiche nella regione sabauda. «Secondo me Alta Langa è più buono» è lo slogan della campagna stampa che è comparsa sulle pagine locali di Repubblica a pochi giorni dalle elezioni europee scorse. E le reazioni del centrodestra non si sono fatte attendere. Due le accuse lanciate in particolare da Enzo Ghigo, coordinatore regionale del Pdl: aver privilegiato un ristretto numero di produttori, a svantaggio di altri (sono infatti solo 9 le aziende che fanno parte del consorzio che produce quello spumante) e aver violato la par condicio. «L’ho fatto perché credo sia utile per il Piemonte» ha replicato Bresso. «Abbiamo ottimi vini di ogni tipo ma tra gli spumanti siamo surclassati da Franciacorta e Trentino. Penso che l’Alta Langa sia migliore e quindi, quando i produttori me lo hanno chiesto, ho accettato di promuoverlo. Come avrei fatto e faccio con qualsiasi altro prodotto piemontese: dal tartufo, al cioccolato, all’Asti, dal Barolo, alle auto, al tessile. Quel consorzio poi è aperto a chiunque accetti di rispettare i criteri rigorosi di qualità che sono stati stabiliti».
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III UN PROGRAMMA IN TV DI VINO E CHITARRE Vino e chitarre. La cultura della terra e il rock. La tradizione e la rottura delle regole. Mondi lontani per i quali è difficile trovare un denominatore comune. A cercarlo è «Gamberock», nuovo programma di RaiSat (Sky, Canale 410), in onda tutti i martedì e i venerdì alle 22.30. «L’idea di fondo è quella di un viaggio fra i sapori e i profumi dell’Italia, la memoria e le radici della cultura. “Gambero” perché è la rete che ci ospita, “Rock” perché, oltre alla musica che è sempre presente, lo abbiamo girato on the road con due furgoni come quelli che si usano in tour» ha spiegato al Corriere della Sera Omar Pedrini, leader della rockband Timoria negli anni Novanta, cantautore in proprio adesso, cultore della tradizione enogastronomica e contadino nel tempo libero (ha una tenuta in Toscana, in provincia di Siena, dove produce «solo per amici» olio e vino), che condurrà gli spettatori in questo gustoso viaggio. «Non sono un uomo di televisione, qui parlo di me stesso coinvolgendo “vecchi giovani” come Ermanno Olmi e Giuseppe Bertolucci, “giovani vecchi” come il deejay Federico Russo e la scrittrice Arianna Bonazzi, colleghi come Enrico Ruggeri, Tre Allegri Ragazzi Morti e Paolo Fresu. Tutto con la supervisione dei miei personali numi tutelari: Gigi Veronelli, Mario Soldati e Gianni Brera». III UNA PROVOCAZIONE DI DEPARDIEU «Il cinema? Me ne frego». Parola di Gerard Depardieu che, invitato al Forum des Images alle Halles di Parigi a tenere una Master Class, di lezioni di cinema non ha voluto sentir parlare. Irriverente come sempre, il Gegè nazionale che a Cannes aveva snobbato il Festival dove era in concorso un film da lui interpretato, dedicandosi invece alla presentazione del suo nuovo vino sulla Croisette, ha lasciato a bocca asciutta i cinefili e messo in imbarazzo il suo entourage. Un bilancio del passato? «Non capivo nulla di quel che giravo e non solo quando le riprese erano in inglese». Per lui, «mangiare bene, bere bene, la conoscenza di un territorio e di una cultura sono importanti quanto il cinema».
Viticoltura
Passione e scienza per ottenere uve migliori
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di Riccardo Castaldi
egli ultimi anni anche nel nostro Paese si è iniziato a dare il giusto rilievo agli aspetti viticoli, per lungo tempo relegati in secondo piano rispetto a quelli più prettamente enologici, tanto che sempre più spesso, di fronte a un vino di livello qualitativo elevato, ci si sente dire che il produttore “ha lavorato bene in vigna”. La maggior attenzione nei confronti dell’operato dell’agronomo, che nei Paesi produttori del Nuovo Mondo gode talvolta di maggiore considerazione dell’enologo, è da ricercare nella vivida curiosità della nuova leva di appassionati, preparati, informati e sempre più avidi di conoscere i “come” e i “perché” che si celano dietro alla bottiglia. Tutti gli interventi agronomici hanno come obiettivo il conseguimento dell’equilibrio tra attività vegetativa – produzione di foglie e di germogli – e attività produttiva – produzione di grappoli e, nelle condizioni ideali di coltivazione, si limitano a poche essenziali operazioni. Tale equilibrio, fondamentale per la maturazione fenolica dell’uva, si raggiunge quando il carico produttivo è proporzionato alle potenzialità della pianta, variabili a seconda del vitigno, del portinnesto, della forma di allevamento e delle condizioni pedoclimatiche. In generale si considera che per garantire la perfetta maturazione sia necessario almeno un metro quadrato di superficie fogliare fotosintetizzante per ogni chilogrammo di uva presente sulla pianta. Siccome nella realtà pratica le variabili che influiscono sull’equilibrio vegeto – produttivo della vite sono molteplici e non sempre controllabili, come ad esempio l’andamento climatico, gli interventi agronomici rappresentano un insostituibile strumento per indirizzare la produzione verso gli standard qualitativi e quantitativi desiderati.
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III L’IMPIANTO DEL VIGNETO Il primo fondamentale passo per l’ottenimento di un vino di elevato profilo qualitativo è l’impianto del vigneto, in quanto in questa fase vengono effettuate delle scelte che influenzeranno in maniera determinante i risultati raggiungibili. Il parametro della sommatoria termica, variabile in funzione delle temperature dell’ambiente, viene preso in considerazione al momento della scelta del vitigno; ciascun vitigno per portare a maturazione l’uva necessita di una specifica sommatoria termica, ovviamente più bassa nei vitigni precoci rispetto a quelli più tardivi.
In funzione delle caratteristiche del suolo, in particolare della fertilità, della disponibilità idrica e del contenuto di calcare, viene invece scelto il portinnesto, la cui importanza è fondamentale nel determinare lo sviluppo vegetativo dell’impianto. La scelta del sistema di allevamento viene eseguita tenendo conto sia delle caratteristiche del vitigno, vigoria e fertilità delle gemme basali, sia di quelle del clima e del suolo; queste ultime sono quelle che determinano la scelta del sesto di impianto, ovvero della distanza delle piante sulla fila e tra le file. Anche la scelta del sesto di impianto deve mirare all’equilibrio vegeto – produttivo per cui nei terreni più poveri, dove lo sviluppo delle piante è contenuto, ci si può spingere verso le densità di impianto maggiori. Un impianto molto fitto su un terreno tendenzialmente fertile comporta in genere che le piante non arrestino il loro sviluppo a partire dall’invaiatura, come invece deve avvenire in condizioni di equilibrio, determinando una negativa competizione tra i germogli in accrescimento e i grappoli in fase di maturazione. Superando la densità di impianto ottimale per il contesto pedoclimatico in cui si opera, la qualità conseguibile non solo non aumenta ma, oltre certi limiti, inizia a diminuire. Al momento dell’impianto è necessario ponderare attentamente anche i materiali da impiegare nella realizzazione della struttura che devono rispondere a requisiti di resistenza alle sollecitazioni e di durata nel tempo; nel caso dei pali a questi requisiti possono aggiungersi quelli prettamente estetici, dato che il loro aspetto è diverso a seconda che siano di metallo, cemento precompresso, plastica, resina o legno. 89
Viticoltura III LA GESTIONE DEL SUOLO Le tendenze più moderne sono quelle di mantenere il suolo inerbito tra le file e lavorato o diserbato lungo la fila anziché di lavorarlo integralmente. Tra i diversi aspetti positivi del cotico erboso tra le file si considera innanzi tutto la competizione che esercita nei confronti delle viti nell’assorbimento degli elementi nutritivi, azoto in particolare, determinando in generale la crescita di piante più equilibrate e meno vigorose. L’inerbimento arricchisce inoltre il terreno di sostanza organica, positiva per lo sviluppo di tutte le piante, mantiene il terreno più soffice e areato, facilita l’assorbimento degli elementi minerali e consente l’ingresso nel vigneto con macchine operatrici anche quando il terreno è molto bagnato, aspetto importante per poter eseguire i trattamenti fitoiatrici con tempestività. Nei terreni declivi il cotico erboso assume un’importanza fondamentale nel limitare i fenomeni di erosione e le frane superficiali. Non ultimo deve essere considerato che la presenza dell’inerbimento nel vigneto risponde ai requisiti di “naturalità” e di minor impatto ambientale, sempre maggiormente richiesti dal consumatore e dal marketing. Ovviamente si deve considerare che l’inerbimento comporta inevitabilmente un consumo di elementi minerali e soprattutto di acqua, per cui nella maggioranza dei casi, è proponibile solo se associato alla possibilità di irrigare. Nei contesti più aridi e siccitosi si preferisce in genere lavorare il suolo integralmente, sia per evitare il consumo di acqua che comporterebbe la presenza del cotico erboso, sia per limitare la risalita capillare e la successiva evaporazione dell’acqua presente nel terreno a livello delle radici. III L’IRRIGAZIONE L’irrigazione del vigneto è stata per lungo tempo considerata negativamente in quanto ritenuta una pratica di forzatura atta esclusivamente ad aumentare le rese a scapito delle caratteristiche qualitative dell’uva. Negli ultimi decenni, grazie ai numerosi studi compiuti a livello mondiale, l’apporto idrico ha iniziato a essere visto sotto una luce nettamente differente, dal momento che sono stati evidenziati gli effetti dannosi di stress idrici prolungati sulla fisiologia della vite e sulla qualità dell’uva, soprattutto se concomitanti con determinate fase fenologiche. La pratica irrigua nel vigneto si è diffusa anche a seguito dei prolungati periodi di siccità che hanno caratterizzato il periodo primaverile – estivo di alcune delle ultime annate che, associati a elevate temperature, hanno in taluni ambienti determinato una maturazione troppo rapida, con scarsa evoluzione delle sostanze fenoliche e l’ottenimento di un mosto caratterizzato da un eccessivo tenore zuccherino e da un’acidità troppo bassa, soprattutto per i vini bianchi. L’irrigazione viene definita “ordinaria”, ovvero quella praticata regolarmente negli ambienti di coltivazione contraddistinti da siccità durante il periodo primaverile – estivo, mentre viene definita “straordinaria” o “di soccorso” quando vi si ricorre per far fronte a caren-
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ze occasionali nelle zone caratterizzate da precipitazioni irregolari durante la stagione vegetativa. Per determinare con precisione il momento di intervento e i volumi irrigui da apportare l’agronomo ha a disposizione una serie di strumenti che gli consentono di conoscere il contenuto di acqua nel terreno e il contenuto di acqua nei tessuti della pianta, oltre ovviamente all’osservazione dello stato della vegetazione. In generale l’apporto idrico deve essere commisurato alle reali esigenze del vigneto e dovrebbe cessare in corrispondenza dell’invaiatura ovvero quando gli acini iniziano ad assumere la colorazione che presenteranno a maturazione; un’eccessiva disponibilità idrica dopo
asportazioni ovvero uva e legno di potatura, nonché delle caratteristiche del terreno. L’apporto di elementi minerali, che deve garantire lo svolgimento di tutte le funzioni fisiologiche della pianta, deve possibilmente evitare di stimolare eccessivamente il rigoglio vegetativo della pianta, che contrasta con la buona maturazione dell’uva e, creando una chioma eccessivamente folta, può favorire lo sviluppo di malattie fungine. Per razionalizzare questa importante pratica agronomica si eseguono le analisi del terreno periodicamente, in modo da evitare sia le carenze sia gli eccessi, altrettanto pericolosi.
l’invaiatura tende a stimolare l’attività vegetativa della pianta, determinando una competizione tra accrescimento del germoglio e maturazione del grappolo, con riflessi negativi sul livello qualitativo conseguibile. Il metodo di irrigazione più diffuso per il vigneto è quello a microportata di erogazione o microirrigazione, secondo il sistema a goccia, nonché quello per subirrigazione, con ali gocciolanti interrate. III LA CONCIMAZIONE La concimazione della vite negli ultimi anni si è evoluta e affinata, in modo particolare dopo che la ricerca scientifica ha messo in correlazione lo stato nutritivo delle viti con i risultati enologici conseguibili. L’apporto di elementi minerali viene anch’esso inteso come uno degli strumenti che consentono al viticoltore di indirizzare la pianta verso l’equilibrio vegeto – produttivo e quindi verso la qualità della produzione. Gli elementi minerali, in funzione del quantitativo assorbito vengono suddivisi in macroelementi, tra i quali rientrano azoto (N), fosforo (P), potassio (K), e microelementi, che invece comprendono magnesio (Mg), Zolfo (S), calcio (Ca), mentre i microelementi sono rappresentati da ferro (Fe), boro (B), manganese (Mn), zinco (Zn), rame (Cu) e molibdeno (Mo). L’apporto degli elementi nutritivi può avvenire distribuendo i concimi sul terreno, tramite l’irrigazione secondo la pratica della fertirrigazione o tramite la concimazione fogliare, che prevede l’irrorazione di concimi liquidi direttamente sulle foglie. I quantitativi da apportare devono tenere conto delle
III POTATURA VERDE Per potatura verde si intende una serie di interventi che vengono eseguiti a carico della chioma, da poco dopo il germogliamento fino a ridosso della vendemmia. Questi interventi, solo in parte meccanizzabili, hanno la possibilità di indirizzare o di mantenere la pianta in equilibrio vegeto – produttivo e di influire pesantemente sui risultati qualitativi conseguibili; tanto più un vigneto sarà in equilibrio, tanto meno sarà il ricorso alla potatura verde. Il primo intervento di potatura verde è la scacchiatura, ovvero l’eliminazione dei germogli sterili o soprannumerari; viene eseguita manualmente e consente l’ottenimento di una chioma non troppo fitta, favorevole all’entrata di aria e di luce. La palizzatura, eseguita nelle controspalliere, siano esse allevate a guyot o a cordone speronato, consiste nel posizionare i germogli verticalmente, i quali rimangono in posizione grazie a una struttura di fili, fissi o mobili. Una pratica molto diffusa è la cimatura, che viene eseguita con barre falcianti e ha lo scopo di contenere lo sviluppo dei germogli. Per garantire la maturazione è necessario che la cimatura non sia troppo drastica e che lasci possibilmente 10 – 12 foglie dopo il grappolo. È necessario che la cimatura non sia eseguita troppo tardivamente, dato che stimola l’attività vegetativa e interferisce di conseguenza con il processo di maturazione. La sfogliatura è una pratica, eseguita sia manualmente sia a macchina, che prevede l’eliminazione delle foglie basali del germoglio al fine di garantire l’instaurarsi a livello del grappolo di condizioni microclimatiche ottimali sia per la maturazione sia per la prevenzione delle malattie fungine; deve essere eseguita con perizia per evitare scottature ai grappoli, le quali sono in grado di comprometterne la qualità. Il diradamento dei grappoli, eseguito manualmente all’inizio dell’invaiatura, ha lo scopo di proporzionare il numero di grappoli alle effettive potenzialità della pianta. Il diradamento prevede che, qualora siano presenti più grappoli sul medesimo germoglio, siano eliminati quelli distali, ovvero quelli più vicini all’apice. Il costo del diradamento è piuttosto elevato ma negli impianti in equilibrio il diradamento spesso non è necessario. 91
Curiosità
Marte
Su possono crescere gli ?
asparagi
di Davide Oltolini opo un viaggio nello spazio durato dieci mesi il 25 Maggio 2008 la sonda automatica Phoenix Mars Lander è atterrata su Marte, terminando la propria missione a Novembre dello stesso anno. La sonda Phoenix è un programma sviluppato congiuntamente dal Lunar and Planetary Laboratory e dall’Università dell’Arizona, sotto la direzione del Jet Propulsion Laboratory (Nasa). Dopo l’atterraggio nei pressi della calotta polare settentrionale del pianeta, regione ricca di ghiaccio, ha prelevato tramite un braccio robot un campione di terreno. Le prime analisi chimiche condotte sul terriccio marziano hanno rivelato la presenza dei nutrienti minerali di cui le piante hanno bisogno per vivere: su Marte esistono le condizioni per la vita. La missione scientifica ha accertato la presenza di acqua sul pianeta rosso, nonché la similarità fra il terreno marziano e alcuni suoli terrestri. «Non c’è nulla che precluda la vita», spiegava lo scorso giugno lo scienziato Samuel Kounaves, commentando i risultati dell’analisi del campione di terra marziana prelevato dalla Phoenix. «Le analisi chimiche sul terreno non vi hanno riscontrato niente che possa, in definitiva, renderlo inabitabile, benché debbano essere ancora identificate alcune sostanze nutritive necessarie. Il suolo di Marte è alcalino e contiene una gran varietà di sostanze minerali: non è dunque molto diverso da alcuni tipi di suoli terrestri. Vi potrebbero crescere ortaggi che amano i terreni alcalini, come l’asparago, naturalmente a patto che vi siano le opportune condizioni ambientali, meteorologiche, atmosferiche e simili». I risultati hanno, quindi, provato la possibilità, per ora solo a livello teorico, di far prosperare su Marte le piante basofile, amanti cioè dei terreni alcalini. A questi vegetali, fra cui appunto gli asparagi, la ricerca spaziale guarda con interesse, nell’ambito degli attua-
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L Davide Oltolini e Barry Goldstein, responsabile del progetto Phoenix della NASA
li progetti per lo sbarco dell’uomo sul Pianeta Rosso, previsto per il 2030. I risultati della straordinaria missione sono stati illustrati in Italia proprio a Bassano del Grappa, la terra dell’asparago per eccellenza, da Barry Goldstein, responsabile del progetto Phoenix della NASA in una conferenza tenutasi alle “Bolle di Nardini”, opera dell’architetto Massimiliano Fuksas, l’avveniristico auditorium vitreo voluto dalla storica, omonima, distilleria. Goldstein prima di dirigere il progetto Phoenix ha prestato servizio per il Mars Exploration Rover (Mer) con la qualifica di vicedirettore del Sistema di Volo e nel 2004 è stato insignito dalla Nasa di una medaglia per le eccezionali doti di leadership. La visita si è svolta in un’annata colma di ricorrenze di notevole importanza: il 2009 è, infatti, l’Anno Internazionale dell’Astronomia, si celebrano il 400esimo anniversario delle prime osservazioni astronomiche di Galileo, il 40mo anniversario dello sbarco dell’uomo sulla Luna
e il centenario del conferimento del Nobel a Marconi. L’occasione è stata quella della ventinovesima edizione della rassegna enogastronomica “A tavola con l’Asparago Bianco di Bassano – Asparagi e Vespaiolo” organizzata dal Gruppo Ristoratori Bassanesi. Il Vespaiolo è un vino bianco fresco e caratteristico, esclusivo della zona di produzione a Denominazione di Origine Controllata di Breganze, di cui la sponda destra del Brenta costituisce proprio il confine orientale. È prodotto con uve Vespaiola, vitigno tipico del vicentino settentrionale. Pare che il suo nome derivi dalla predilezione delle vespe per la ricchezza in zuccheri delle sue uve. Tra i sinonimi con i quali è conosciuto vi sono: Bresparola Bianco, Vespaia, Vesparola, Uva vespera, Bespaia e Vespera. Il Vespaiolo, che secondo il disciplinare si presenta con colore da paglierino a dorato, piuttosto carico, profumo intenso, fruttato e caratteristico, sapore pieno e fresco, deve presentare un titolo alcolometrico volumico totale minimo dell’11,00 per cento e del 12,00 per cento se della tipologia superiore. Trattandosi di un vino dall’invidiabile freschezza, caratterizzato da una naturale, spiccata acidità, risulta essere, senza alcun dubbio, il compagno ideale per gli asparagi bianchi. L’Asparago Bianco, che trova nell’area di Bassano la zona ottimale per la coltivazione, ha ottenuto, già da tempo, il riconoscimento della Dop (Denominazione di origine protetta). Il turione (cioè il germoglio, ovvero la porzione commestibile) prima verile, per la tutela del quale è nato il Consorzio del l'Asparago di Bassano che ha sede nell’omonima cittadina, risulta croccante e dal caratteristico gusto dolceamaro. È ottimo sia come piatto di portata proposto “alla bassanese”, cioè scottato nell’acqua bollente e accompagnato alle uova sode, o impiegato per preparare risotti impareggiabili ma risulta particolarmente gradevole anche fritto ai ferri. Il successo è tale che i ristoranti di L Asparagi di Bassano Bassano, tradizionalmente, assorbono quasi tutta la produzione di Asparagi Dop. Il giorno di San Giuseppe è considerato come il “fischio d’inizio” della stagione degli Asparagi Bianchi, buoni secondo la tradizione, “da San Giuseppe a Sant’Antonio” (13 giugno). L’asparago dalla Mesopotamia si sarebbe via via diffuso, in epoche remote, nelle regioni temperate. Alcuni reperti comproverebbero che fosse già conosciuto nell’antico Egitto da dove si sarebbe diffuso nel bacino del Mediterraneo. Sembra certo che all’epoca del Basso Impero rappresentasse uno dei piatti più ricercati, tant’è vero che i Romani ne promuovevano la coltivazione nelle nuove terre conquistate. Si narra che la scoperta dell’asparago bianco sia stata del tutto casua-
le e dovuta a una violentissima grandinata abbattutasi nella zona di Bassano intorno al 1500. Tale grandinata avrebbe distrutto la parte epigea dell’ortaggio costringendo così un colono a coglierne la parte interrata, ovvero la parte bianca. Questi si accorse, così, con stupore, che tale parte, oltre a essere commestibile, era anche saporita e di gusto gradevole e iniziò, pertanto, a cogliere l’asparago prima che spuntasse da terra. Tuttavia tra le genti del bassanese è diffusa un’altra leggenda che attribuisce a Sant’Antonio di Padova, di ritorno dalle missioni africane, l’aver portato con sé alcune sementi dell’asparago delle quali si sarebbe servito per ammansire il feroce Ezzelino III da Romano, emissario dell’imperatore Federico II contro i liberi Comuni che, a quel tempo, spadroneggiava nei territori delle Venezie. Sant’Antonio, infatti, percorrendo il tratto di strada che va da Bassano a Rosà, avrebbe seminato tra le siepi le sementi dell’asparago, le quali avrebbero poi rigogliosamente allignato in una terra che tutt’oggi è fra le più feconde per la coltura del turione. Questo viene, infatti, coltivato nelle asparagiaie disseminate lungo il medio corso del Brenta, là dove la ghiaia della Valsugana drena un terreno sciolto e leggero, ricco d’acqua e d’ossigeno ma assolutamente privo di ristagni. Di certo si sa che la coltivazione dell’asparago nel territorio di Bassano è antichissima: esaminando le note spese dei banchetti della Repubblica veneta del XV e XVI secolo si trovano notizie certe sull’esistenza dell’ortaggio. Persino durante il Concilio di Trento (1545-1563) alcuni padri conciliari, passando per la cittadina con il loro seguito, ebbero modo di gustare tra i vari prodotti locali gli “sparasi”, così, tra discussioni teologiche e “magnade de sparasi” i padri promossero, forse, per primi il lancio commerciale dell’asparago di Bassano, mettendone in risalto soprattutto le virtù diuretiche. La sonda spaziale, lo scorso anno, su Marte è andata alla ricerca dei tre mattoni necessari a sostenere la vita in quello che è il quarto pianeta di tipo terrestre del sistema solare: acqua, composti del carbonio ed energia. Probabilmente oggi i tempi per la coltivazione degli asparagi sul Pianeta Rosso non sono ancora maturi: le condizioni ambientali sono estreme, con una temperatura gelida e inospitale e un vento solare sferzante tale da danneggiare le cellule. Non sembra, tuttavia, essere fantascienza, quale premessa alla permanenza dell’uomo sul pianeta, la possibilità di costruire serre sigillate, in cui far “lavorare” i vegetali per estrarre dalla copiosa anidride carbonica presente nell’atmosfera marziana, almeno una parte dell’ossigeno necessario alla respirazione dei futuri visitatori umani previsti, appunto, per il 2030. Nel frattempo, anche quando fosse definitivamente appurato che il suolo di Marte presenta le giuste caratteristiche per la coltivazione dei bianchi turioni, magari addirittura migliorandone le caratteristiche organolettiche, ci chiediamo: chi si sveglierà ogni giorno per andare a raccoglierli? 93
Mappamondo
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tesori sconosciuti del
Granducato di Isabella Sardo er gli amanti dei vini della Mosella, vini nordici, eleganti, puliti, morbidi, l’unico punto di riferimento è generalmente l’area tedesca, quell’alta Mosella che costeggia le celebri vallate di Saar e Ruwer. Qui, in questo letto di fiume si può godere di passeggiate mozzafiato: alle spalle la Foresta Nera, di fronte un breve degradare di vigneti che crescono in un suolo evoluto su scisti di lavagna e più in là il luccicare del lento scorrere del fiume. Qui nascono alcuni tra i migliori bianchi del mondo. Ma sull’altra sponda dello stesso fiume, in un paesaggio forse meno suggestivo, dove il suolo, principalmente calcareo, non si tinge più del nero seppia dei terreni dirimpettai, si affacciano vigneti che da anni offrono vini di altissima qualità sostanzialmente ignorati in Italia. Si trovano nel territorio del Granducato di Lussemburgo, il secondo stato più piccolo dell’Unione Europea dopo Malta. Sfruttando al massimo gli esigui 1.350 ettari a disposizione che si dipanano su una lunghezza di 42 chilometri (che corrisponde al tortuoso percorso affrontato dalla Mosella nel suo avanzare da Wasserbillig a Schengen, i due comuni agli estremi del vigneto del Granducato), i viticoltori lussemburghesi devono confrontarsi con un clima non certo clemente, mitigato solo da una ideale insolazione sudest, sud-ovest, e dall’azione benefica esercitata dal fiume che oltre ad addolcire le temperature riflette la luce indiretta del sole sulle piante. Ci troviamo in una delle aree più settentrionali della vitivinicoltura in Europa e nel mondo. Nessuno stupore nel trovare, a fare gli onori di casa, il re dei re dei vitigni nordici: il Riesling. I terreni più vocati per questa esigentissima uva sono stati selezionati nel cantone di Grevenmacher dove il suolo calcareo è risultante da depositi alluvionali e dove orizzonti assai permeabili si alternano ad altri di modesta permeabilità. I
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Riesling lussemburghesi, nelle loro migliori espressioni, mostrano tutta l’eleganza sublime a cui può dar luogo l’uva che dà loro i natali. Una pulizia oceanica caratterizza il bouquet essenzialmente minerale, dove possono però insinuarsi improvvise e sorprendenti note fruttate. Come i Riesling della Mosella tedesca, inoltre, anche quelli lussemburghesi mostrano la stoffa per un lunghissimo, strabiliante affinamento in bottiglia, che ne smussa il carattere talvolta scontroso regalando equilibri e complessità incredibili. Avendo a disposizione tutte le condizioni ideali per vinificazioni estreme, i produttori locali hanno recentemente scoperto la vocazione lussemburghese nella produzione di vins de glace, di vins de paille, di muffati e di vendage tardive, a base Riesling o Gewürztraminer, principalmente. I risultati ottenuti lasciano spesso senza parole. Ma il Granducato non è solo terra di Riesling, anzi, è pronto a rivelare le sue sorprese più originali con altri vitigni. Primo fra tutti il Pinot Gris, sicuramente tra i migliori al mondo. Morbido, suadente, dorato, fragrante, il Pinot Gris lussemburghese si rivela non soltanto un vino delizioso, ma anche estremamente eclettico, perfetto compagno della cucina fusion, asiatica o speziata in generale. A lungo i vitigni autoctoni sono stati disprezzati, e la produzione di Elbling, Rivaner e Auxerrois veniva spedita in Germania per tagliare i vini tedeschi o servita al bicchiere per ‘dissetare’ nelle rustiche brasserie locali. Quanto meno per quanto riguarda l’Auxerrois, invece, la produzione più recente sta delineando orizzonti assolutamente incoraggianti. Alcuni produttori più audaci (uno fra tutti: Legill) hanno sfidato cliché secolari e sono stati capaci di trarre da questa uva umile e secondaria (o solo apparentemente tale) dei risultati
assolutamente convincenti, di grandissima piacevolezza. Si tratta di un vino bianco secco, con una interessante punta di freschezza dal carattere discreto ma aggraziato, profumi fragranti di susine mirabelle e fiori bianchi. Ma il vero vanto dell’enologia lussemburghese è sicuramente il suo Crémant: un metodo classico spesso a base Chardonnay in uvaggio (udite udite!) con il Riesling (come la splendida versione offerta dalla storica cantina Alice Hartmann), o alternativamente con uno dei tre pinot. Da disciplinare deve sostare sui lieviti per almeno nove mesi, anche se i produttori più esigenti aumentano fino a triplicare la durata di questa permanenza. Peraltro, le uniche versioni veramente convincenti di vinificazione del Pinot noir (uva che – unica rossa tra le tante bianche – generalmente qui dà luogo a vini piuttosto scialbi) sono appunto alcune bellissime spumantizzazioni espresse in qualche Crémant rosé. Nelle sue espressioni migliori il crémant della Mosella si rivela un vino assolutamente superlativo. Il migliore dei Crémant lussemburghesi non può certo ancora competere con il migliore degli Champagne in quanto a intensità olfattiva, ma di contro non teme confronto per quanto riguarda eleganza, freschezza, e, non ultimo, convenienza del prezzo d’acquisto. Forse il tempo gli darà ragione su tutti i fronti, chissà. Nel frattempo il Crémant contribuisce fortemente a fare aumentare di anno in anno la batteria di vini lussemburghesi esportati all’estero, in Belgio e Germania principalmente, ma anche in Olanda e, sorprendentemente e sempre di più, in Francia. Una strategia di marketing riuscita, l’impeccabile qualità garantita di anno in anno, l’alta caratterizzazione che si è riusciti a dare ai prodotti proposti e la competitività imbattuta nel rapporto qualità-prezzo, si vanno dimostrando sempre di più le armi vincenti dell’export dei vini lussemburghesi. Il cui unico ma purtroppo insormontabile ostacolo resta l’esiguità della produzione (con una media di 140.000 ettolitri annui negli ultimi dieci anni).
LE NOBILTÀ DELLA MOSELLA Domaine Alice Hartmann (Wormeldange) http://www.alice-hartmann.lu/ Cantina storica, che offre una bella scelta di prodotti sempre impeccabili e sensazionali: dai Crémant alle Fines, passando per splendidi esemplari di Riesling. Clos du Notaire (Ehen) Altra cantina di grande prestigio e di lunga storia. Indimenticabili i suoi vini moelleux (dolci). Spettacolari Gewürtztraminer. Madame Aby Duhr (Ahn) http://www.alyduhr.lu/ Piccola ma considerevole cantina, che confeziona con rigore bellissimi vini. Ottimi i Pinot gris. Poll Fabaire (Wormeldange) http://www.vinsmoselle.lu/ Grande realtà vitivinicola legata alla importante cooperativa Vinsmoselle. Riesce a coniugare bene i grandi numeri con la buona qualità. Krière Frères (Remich) http://www.krierfreres.lu/ Buoni in particolare i suoi Crémant, soprattutto i rosé a base Pinot noir. Maison Viticole Schmit-Fohl (Ahn) Sigilla quello che è probabilmente il migliore tra i Riesling della Mosella Lussemburghese, confermandosi produttore di grandissima classe. Caves Legill (Schengen) Il giovane produttore, Paul Legill, si è cimentato anche su vitigni poco considerati dalla tradizione, ottenendo ottimi risultati. Il tutto su vasta scala e con prezzi accessibili a tutti.
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Vino che passione!
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vino di Francesca Cantiani è chi trova la vita moderna un po’ troppo stressante ed è logorato dalla società urbana. Traffico, smog, caos ci inghiottono senza pietà. E allora non resta che sognare luoghi ameni e tranquilli ove fuggire, fantasticando una vita immersi nella natura, circondati da frutteti, uliveti e vigneti. Ma per qualcuno il sogno non è rimasto chiuso in un cassetto. È stato così per l’architetto milanese Marco Meroni, pubblicitario di professione. Forse per lui la scelta è stata più facile, abituato com’è da sempre a decidere di slancio, spinto dal cuore, e a trasformare i sogni dei più famosi marchi italiani e internazionali in realtà. Meroni, stanco del cielo inquinato e della nevrosi cittadina, ha deciso di cercare un posto in campagna, un luogo che sapesse anche regalare emozioni. La scelta è caduta su Strevi, nel cuore della regione Carpeneta, che si stende attorno ad Acqui Terme, nel punto in cui l’Alto
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L Marco Meroni 96
Monferrato si fonde con le Langhe. Una zona suggestiva, densa di storia e di tradizioni millenarie ma non troppo lontana dalla capitale meneghina. E così che è nata l’Azienda Agricola Cascina Carpeneta? «Cercavo un luogo in campagna per fuggire dalla città e ho trovato questo posto incantevole. L’occhio si perde su dolci colline piantate a vigna che si estendono a sud verso l’Appennino. Sono situate a circa duecento metri sul livello del mare e favorite da un clima temperato, che le mette al riparo dal pericolo di gelate. Inoltre la disposizione del terreno permette alla maggior parte dei vigneti di rimanere esposti a mezzogiorno. Ma a parte la natura, a conquistarmi è stata la storia di Strevi, da sempre vocata al vino, come ricorda la famosa leggenda dei dieci fratelli, riportata da Frà Jacopo nella sua ‘Chronica imaginis mundi’. I tre sobri si diressero verso oriente men-
del pubblicitario tre i sette briosi verso occidente dove fondarono Septem brium, ovvero Strevi. Naturalmente è una leggenda ma dimostra che questa zona da sempre è considerata un centro di produzione di vino». Dunque il legame con il vino appartiene alla storia stessa di Strevi. Lei però non ha abbandonato la sua vasta attività in campo pubblicitario. Come è riuscito a conciliare il suo lavoro con quello di vignaiolo? «Lavorando in pubblicità si impara a essere molto flessibili. La mattina, per esempio, ci si occupa di computer, il pomeriggio si è impegnati a promuovere un prodotto alimentare, il giorno dopo è solo moda. Occuparmi di vino e seguire il suo processo fino in fondo non è stato altro che dedicarmi a ciò che sono abituato a fare con i miei clienti. L’importante è lavorare cercando di arrivare sempre a una sorta di eccellenza». Quali sono le peculiarità della sua azienda? «Le caratteristiche della Carpeneta sono quelle date dal terreno, che deri-
L La cantina scavata nel tufo
va da un deposito alluvionale miocenico. Il suolo in alcuni punti è tufaceo bianco, calcareo o marnoso, in altri predomina l’arenaria. Il risultato è un terreno tipo quello della Champagne, dove, se le viti vengono coltivate esposte a mezzogiorno, si ottiene un prodotto ricco di zucchero e di profumo. L’uva che proviene dai terreni bianchi e aridi ha caratteristiche organolettiche particolari
ed è decisamente più apprezzata di quella che si ottiene dai terreni rossi. Per il resto non facciamo altro che assecondare quello che decide la natura. I vigneti sono piantati con il metodo tradizionale dei fossi e la potatura segue la tecnica Guyot. I nuovi impianti sono messi a dimora, con barbatelle autoctone, sostituendo una per una le viti che di volta in volta esauriscono il loro ciclo vitale. Il risultato è un vigneto con grappoli di tutte le età. Inoltre è un mio punto di orgoglio che alla Carpeneta non sono utilizzati diserbanti di nessun tipo. Mi piace dire che l’unico che ammettiamo sono le braccia forti e pazienti che tagliano e strappano le erbacce, liberando la vite. È una condizione indispensabile per avere un prodotto biologicamente ed eticamente corretto che rispetti gli indirizzi imposti dalla Comunità Europea per la coltura biologica». Per lavoro vi siete serviti della collaborazione di esperti per ottenere il massimo dalla terra? «Naturalmente ci si avvale della consulenza di tecnici perché il terreno, la coltura e il prodotto in tutte le sue 97
Vino che passione!
fasi deve essere monitorato e ciò avviene in primis attraverso analisi chimiche di laboratorio e in un secondo tempo con i consigli di enologi specializzati». È vero che la Carpeneta nasconde un piccolo segreto? «Immagino si riferisca alla “crôta”. È una grotta scavata nel tufo più di due secoli fa. Nel Seicento era la cantina originaria, che poi venne abbandonata. Noi vi abbiamo costruito la cantina vera e propria. È il posto ideale per l’affinamento delle bottiglie e conserva in maniera impeccabile i vini delle annate migliori. Gli esperti e i cultori raffinati sanno che cosa significhi per una bottiglia di vino stare al buio, al silenzio, sotto terra e a temperatura costante. E la grotta permette di ottenere tutte e tre queste condizioni». Quali i vini che producete? «Il Dolcetto D’Acqui Theory Doc. È rosso rubino e, con l’invecchiamento, acquista sfumature ambrate. Il profumo è leggermente fruttato e il sapore è asciutto, morbido, un po’amarognolo, contrariamente a quanto può far pensare il nome. Il “giovane” della Carpeneta è il Dolcetto D’Acqui Doublè Doc, pronto dopo un anno di cantina dove matura in vasche di acciaio. È dedicato agli appassionati. Il Barbera D’Asti Oh Doc, viene affinato in barriques di rovere e riposa quattro anni in grotta, al buio. Il nostro Barbera, superiore, ha un colore rosso rubi-
no acceso che con il tempo vira al granata ed esprime tutta la forza e l’intensità di un grande vino. E infine il Moscato D’Asti Chorégraphie Docg, che viene fatto con il metodo tradizionale antico del “filtrato dolce” di Strevi. Il mosto viene cioè filtrato ogni volta che inizia a fermentare: questo fa sì che solo una parte degli zuccheri si trasformi in alcol, conservando la dolcezza equilibrata e fragrante della sua uva. Insomma più lenta è la lavorazione, più fine sarà il suo perlage». Le etichette sono decisamente particolari. Non c’è da stupirsi, visto il suo lavoro. Da quale idea nascono? «Le etichette del Dolcetto sono ispirate alla “Casa del Peso” di Hogart del Settecento inglese. Abbiamo tro-
vato una sua pagina che rappresenta gli stati psicologici, dall’assoluta gravità (l’uomo appare con la testa nel terreno) fino alla lievitazione, passando per l’eccentricità. Per il Moscato Chorégraphie o l’Arte di Scrivere la Danza, la sua armonia ha fatto pensare alla sensibilità, allo studio e alla dedizione di chi si dedica a questa disciplina. Ciascuna etichetta descrive un passo di danza». Carpeneta è anche il nome del ristorante. Può essere un modo più semplice per veicolare e far conoscere il vostro vino? «Certo è un’opportunità che si è presentata e che abbiamo deciso di cogliere. Ma la vedo anche come un’operazione che potrebbe duplicarsi in una sorta di franchising».
UNA LOCANDA TUTTA DA SCOPRIRE Giovane, intima, minimal chic, come una piccola perla racchiusa nella storica bottega di un corniciaio. Ma la Locanda Carpeneta di via Lecco a Milano è qualcosa di più. Il locale è il risultato del lavoro attento dell’architetto Fabrizio Foletti, che ha cercato di valorizzare gli elementi esistenti, recuperando archi e pareti in mattoni a vista cui sono state contrapposte le linee essenziali degli arredi. Ma è la cucina la vera scoperta. Il piatto di punta è il filetto, che viene proposto in ben venti varianti e le tipologie offerte vanno da quello con uovo e asparagi a quello coi carciofi, ai più normali con senape o pancetta. La carne viene tutta dalle Alpi francesi. Il ristorante propone anche le antiche ricette della cucina milanese e piemontese, frutto della sapiente abilità dello chef Eddy Gervaso. Tutto ciò senza dimenticare l’abbinamento con il vino della casa, Barbera, Dolcetto e Moscato, con un’ offerta di annate dal 1990 al 2005, che proviene dall’omonima azienda di Strevi. 98
Fabrizio Folletti e Veronica Meroni all'interno della Locanda Carpeneta
Novità
Un libro per sapere che pesci prendere di Fernando Araújo-Coelho
ancava un volume completo di riferimento sui pesci commercializzati sul mercato italiano. Valentina Tepedino e Paolo Manzoni, medici veterinari e specialisti nel settore della pesca, autori di numerose pubblicazioni nel settore ittico, hanno provveduto a colmare la lacuna, dandoci la possibilità di avere sotto mano un punto di riferimento esauriente. La “Grande Enciclopedia Illustrata dei Pesci” è un’opera di target ampio (università e istituti di ricerca, ministeri di competenza, autorità di controllo, aziende del settore, associazioni dei consumatori, organi addetti alla stampa, consumatori e appassionati al settore della pesca) ma non per questo di difficile consultazione. Concepita per un pubblico eterogeneo, riesce a presentare in modo molto chiaro, grazie a una grafica, a schede descrittive e a una miriade di foto a colori (circa 2.000), tutte le informazioni di rilievo attinenti a più di seicento specie marine appartenenti a 160 famiglie. Le specie considerate sono quelle presenti nelle acque interne e nelle acque marine europee che vengono commercializzate sui mercati di tutto il continente, nonché alcune specie originarie delle acque di altri continenti che compaiono più o meno frequentemente sui mercati europei. Per i pesci e ciascuna loro famiglia sono fornite informazioni su morfologia, diffusione, biologia, modalità di pesca professionale, valore commerciale, aspetti ispettivi e valore sensoriale e nutrizionale delle carni. Informazioni essenziali, tenendo anche presenti considerazioni di sicurezza alimentare e la possibilità di frodi di sostituzione, soprattutto quando vengono commercializzati filetti. Come riferisce, nella prefazione, Lahsen Ababouch, dirigente del Dipartimento delle industrie della pesca della Fao, il pesce venduto in Europa proviene da più di 120 Paesi di tutto il mondo. È ormai normale che un pesce sia pescato in un Paese, lavorato in un altro e consumato in un altro ancora. Una realtà che il declino degli stock nelle acque europee ha naturalmente favorito. I benefici del pesce in fatto di salute sono conosciuti e il consumo globale pro capite è raddoppiato negli ultimi quarant’anni. A differenza di altri prodotti alimentari, pesce e frutti di mare comprendono una gamma davvero molto ampia di specie. Sono più di 1.200 quelle sfruttate commercialmente e dunque
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Volume unico di circa 600 pagine. Prezzo 99,00 euro. Si può acquistare presso le principali librerie o direttamente sul sito www.eurofishmarket.it Riferimenti dell’editore: Eurofishmarket S.r.l. Via Lame, 248 - Fraz. Trebbo di Reno 40013 Castel Maggiore (Bo) e-mail: libri@eurofishmarket.it
molto grande la diversità in aspetto, presentazione alla vendita, sicurezza e qualità. Il pesce viene spesso considerato una risorsa infinita, che basterebbe semplicemente pescare o allevare. Non è così: la situazione degli stock di molte specie, tra le quali alcune delle più pregiate, è ormai preoccupante e diverse sono quelle addirittura a rischio di estinzione. Informarsi e saper scegliere è importante per ostacolare la perdita della biodiversità marina e “La grande enciclopedia illustrata dei pesci” è sicuramente uno strumento di grande valore anche a tale scopo.
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Umorismo e vino
Vino,
vignette e…
fiori
GIÀ NELL’ANTICA GRECIA, AD ATENE, VINO E UMORISMO VENIVANO CELEBRATI INSIEME. DURANTE LE LENEE, FESTE LITURGICHE IN ONORE DI DIONISO, I GRECI ERANO INVITATI A GAREGGIARE IN AGONI COMICI. UN’ABITUDINE CHE CONTINUA ANCHE OGGI IN LIGURIA
di Katia Giarrusso Bordighera si è svolta la IV edizione di “Vino, Vignette e…fiori”, un appuntamento divenuto ormai immancabile per la promozione dei prodotti agroalimentari del Ponente ligure. Ideato e organizzato dalla Confcommercio di Imperia, in collaborazione con il Comune di Bordighera, l’evento quest’anno ha dato spazio alla creatività e all’arte a 360 gradi. Oltre alle degustazioni enogastronomiche si sono tenute anche sezioni di musica e sulla tradizione culturale di Bordighera, che da anni è considerata “patria dell’umorismo” e meta di autori internazionali. Anche quest’anno il fiore all’occhiello dell’evento è stato il concorso per fumettisti patrocinato da “Silver”, Guido Silvestri, il papà di Lupo Alberto e Cattivik (l’alter ego comico e volgare di Diabolik), una vera celebrità del Comics insieme a Rò Marcenaro, cartoonist di personaggi come la Cookarina e Vanessa, ed
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Enrico Macchiavello, disegnatore e illustratore dell’indimenticabile spot della birra Ceres. Proprio firmata da quest’ultimo è stata la mostra monografica che si è tenuta all’interno della chiesa anglicana della città, con un’esposizione
integrale di cento illustrazioni originali della prima serie delle cards di “Skifidol”, un appuntamento che ha registrato un grande successo. Più di quaranta talenti, provenienti dalle migliori scuole d’arte, si sono messi all’opera nei luoghi adibiti
L Enrico Macchiavello, celebre autore delle animazioni pubblicitarie della Birra Ceres e delle figurine Skifidol, tanto amate dai bambini
all’evento e nei locali pubblici della città, dando prova delle proprie doti artistiche. E non potevano essere che il vino, l’umorismo e i fiori il tema di questa edizione, poiché sono tre aspetti che più caratterizzano la città di Bordighera e la Liguria di Ponente e allo stesso tempo sono tre realtà che insieme legano bene poiché tutte portatrici di buon umore. È stato importante quindi riuscire a far coesistere momenti di degustazione, organizzati dall’Ais Liguria, con sprazzi di creazione artistica ironica assieme al “mondo del verde”, della natura. «Bordighera è una città che vive di floricoltura ma anche di piante tipiche locali come le palme e le piante
L Andrea Rinaldi, vincitore del concorso per fumettisti
grasse» hanno spiegato gli organizzatori dell’evento. «Per questo motivo abbiamo scelto di introdurre una sezione dedicata alle piante. Un’area è stata lasciata ad aziende considerate tra le migliori in Italia e all’estero dal punto di vista del florovivaismo e questa è un’occasione irripetibile per gemellare i prodotti delle nostre terre». Circa una ventina di produttori specializzati solo in piante grasse e succulente, nella piazza della stazione, nei tre giorni di kermesse, sono riusciti a promuovere i loro prodotti unici, approfittando dell’interesse. È stato anche un appuntamento con la musica dal vivo di Mamafunk, Marisa Fagnani e Gianni Martini, Compagni di Viaggio, The lost in blues, Love&Hate, i Pat&Già ed infine, direttamente dal Talent Show di Raidue “X Factor”, Emanuele Dabbono, tutti degni accompagnatori di questo festival del Made in Liguria. In questa occasione è stato anche affrontato un argomento attuale nel mondo della grafica come quello dell’utilizzo della tecnica del digitale. Silver ha dichiarato: «Il mio punto di partenza è la carta e intingo ancora la penna nel calamaio per disegnare. Utilizzo il digitale solo per gli effetti e perché toglie la paura di sbagliare». Il celebre illustratore si è poi lasciato andare a osservazioni più critiche nei confronti del panorama attuale
dei fumettisti che, a suo avviso, dedicano più attenzione alla tecnica a scapito degli scritti e della grammatica. Silver ha consigliato ai ragazzi di abbandonare quei personaggi supereroici, muscolosi o fatine magiche, per mettere di più l’accento sui contenuti, sui valori e su temi sentimentali della vita quotidiana che sembrano non sfiorare troppo le nuove generazioni. Ad Andrea Rinaldi, giovanissimo artista proveniente dalla scuola internazionale Comics di Firenze, è stato consegnato il primo premio per la sua “Annaffiati”, un’opera premiata dalla giuria “per la maturità grafica che non compromette la freschezza e la spontaneità nell’interpretazione del tema”. Un vero e proprio trionfo per la scuola fiorentina che è riuscita a piazzare sul podio tre dei suoi fumettisti: il secondo posto è andato ad Enrico Bertelli con “la Ribellione delle Grasse”e il terzo ad Andrea Barattin con “Piante-grane”. In un momento così gioioso si è trovato anche il momento per una commemorazione significativa: quella del grande autore Gualtiero Schiaffino, scomparso circa due anni fa, un amico e un sostenitore di questa manifestazione, che è stato ricordato con una retrospettiva di venti opere, tra le più importanti da lui realizzate nell’ambito delle sue collaborazioni con l’Enoteca Italiana. 101
Eventi
I sommelier dell’Ais protagonisti a Squisito di Carla Bruni al 2004 la comunità fondata da Vincenzo Muccioli organizza ogni anno, a San Patrignano, “Squisito”, una manifestazione del gusto e per il gusto. L’edizione 2009 è stata ancora una volta un contenitore poliedrico che ha
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riunito cultori del buon gusto, da chef a gourmet, da giornalisti a semplici amanti della cultura enogastronomica. Il tutto condito da workshop mirati, esperienze sensoriali particolari, gustosi assaggi e degustazioni di prodotti eccellenti.
L Il tè verde del Myanmar
L Lo zafferano dell'Afghanistan
Andrea Muccioli alla presentazione di Squisito 2009 102
Nella sesta edizione i ragazzi di “Sampa” (come vengono chiamati) hanno preparato una kermesse particolarmente ghiotta e stimolante, un itinerario nel “Buon Paese” che ha coinvolto i pesi massimi della cucina italiana e internazionale accompagnati dagli esordienti più promettenti, ha attirato le cantine blasonate e le etichette innovative e ha impegnato gli artigiani del cibo e i custodi degli antichi sapori. Ma non solo: intorno allo squisito mondo di San Patrignano si sono alternate le grandi firme del giornalismo di settore e, soprattutto, la grande tradizione culinaria nazionale nelle sue migliori espressioni. Un appuntamento importante e unico nel suo genere, che oltre alla qualità dei prodotti e dei protagonisti, consente agli enonauti la possibilità di scoprire il lato sociale del cibo e il suo straordinario valore come strumento di riscatto dell’uomo dall’esclusione, dall’emarginazione e dalla tossicodipendenza. Infatti la manifestazione apre le porte dell’universo di San Patrignano, la più grande comunità d’Europa fondata nel 1978, dimostrando che impegno e dignità sono alcuni degli ingredienti principali per liberarsi dalla droga e riappropriarsi della propria vita. Quest’anno per dare maggiore visibilità all’inestimabile patrimonio nazionale enogastronomico si è deciso di creare diverse sezioni per gli espositori, all’interno delle quali ogni produttore ha potuto trovare la propria collocazione.
Nel Villaggio degli artigiani, la moderna edizione del tradizionale mercato, in cui è possibile acquistare direttamente dai produttori, sono state ospitate le migliori produzioni enogastronomiche del Bel Paese. Quest’anno il villaggio degli artigiani ha offerto una novità con alcuni appuntamenti di degustazioni, in collaborazione con Blog Caffè, e di incontro con gli espositori, per assaggiare i prodotti e conoscerne i segreti di tanta eccellenza. La seconda sezione è stata la Strada del cibo da strada, un’area dedicata ai cibi della tradizione locale, dedicata a chi vuole deliziare palato e memoria, passeggiando per i viali di San Patriganano, con cibi e sapori capaci di resistere alle evoluzioni e alle mode alimentari. Il viaggio nel gusto del Bel Paese si è concluso nei Presidi, l’interessante percorso alla scoperta di piccole produzioni e coltivazioni di nicchia da sostenere (mais biancoperla, riso di Grumolo della Abbadesse, la melanzana rossa di Rotonda) e di mestieri del cibo da recuperare e tramandare. Tra i principali laboratori di Squisito 2009 non poteva mancare la giostra dei cuochi, uno degli appuntamenti più attesi e che si è presentato con una nuova formula. Al veterano Davide Paolini si è unito il neonato Consorzio alta cucina italiana, un’abbinata d’eccezione per far vivere ai palati più fini un’ora e mezza di puro piacere culinario. Dopo la formula del “pacco” a sorpresa dello scorso anno, in questa edizione i giovani chef hanno dedicato ai partecipanti di questo esclusivo appuntamento una dimostrazione in prima persona della loro abilità, preparando in presa diretta alcuni tra i più significativi piatti dei loro menù. Non una semplice lezione di cucina, ma un vero e proprio faccia a faccia con lo chef, nel corso del quale il pubblico ha potuto interagire con il protagonista ai fornelli, chiedendo informazioni, consigli e segreti del mestiere. E poi i Vigneti in bottiglia, con le sue degustazioni, i seminari e i con-
fronti con i produttori delle migliori cantine italiane, curato dall’Associazione italiana sommelier. Identità Squisite, in cui Paolo Marchi ha presentato pani, focacce e dolci di altissima qualità. Con Experimenta, invece, si è costruita una vera e propria cucina cantiere. In questo seminario è stato possibile assistere alla “costruzione” di un piatto partendo dall’ideazione, alla scelta degli ingredienti fino ad arrivare alla realizzazione del piatto da cucinare. Insomma, un “atelier del gusto” dedicato a veri e propri intenditori e curiosi sempre in cerca di idee originali da proporre e di tecniche innovative. E per finire la Ricerca del cibo perduto, dove la comunità di San Patrignano ha aperto ai partecipanti le porte dei quattro laboratori di formazione professionale, nei quali i ragazzi ospiti della comunità sono impegnati quotidianamente. Un interessante modo per scoprire come nascono i prodotti creati dai ragazzi di “Sampa”. C’è chi si occupa della cantina, del forno, del caseificio o della norceria. A gruppi di dieci persone, gli
angeli di Muccioli hanno mostrato quale passione, sacrificio e professionalità si nasconde dietro il marchio di San Patrignano. Più che un itinerario enogastronomico questo laboratorio si prospetta come un viaggio all’interno del cuore della comunità, mostrando i ragazzi per quello che sono. Per chi ama la buona cucina, gli antichi sapori e i prodotti genuini del panorama italiano, “Squisito” è sicuramente la manifestazione giusta per deliziare i palati ed è talmente “squisita” che l’attesa dell’edizione 2010 è già cominciata. 103
Eventi
Critical wine:
storie di vigne e di passione
di Michela Lugli cesi alla stazione di Framura, in provincia di La Spezia, inizia il sentiero che, rubando spazio alla macchia verde del parco delle Cinque Terre, “monta ertu”, detto alla genovese, arrampicandosi fin dove carrugi e case dai colori pastello disegnano i profili di Montaretto che proprio al dialetto del capoluogo ligure deve le origini del nome. A 300 metri sul livello del mare, il borgo si incastona, con i suoi 200 abitanti, nel territorio di Bonassola, in provincia di La Spezia, una terra di rocce dure e friabili dalla morfologia compatta. In questa cornice tra mare e montagna, dove gli alberi di limoni rubano luce al sole per generare frutti vividi e succosi, è approdato il free brand “Critical Wine”, portando con sé un selezionato carico di produttori legati dal fil rouge della qualità dei prodotti, ottenuta a partire da una imprescindibile base di eticità, criticità e attenzione ambientale. Dietro al progetto, nato con l’intenzione di far riscoprire ed apprezzare ai consumatori piccole produzio-
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ni vinicole ispirate a una nuova idea di “contadinità”, di produzione e di consumo, si cela niente meno che Luigi Veronelli, enologo, cuoco, giornalista e gastronomo milanese. Ricordato e apprezzato come figura centrale nella valorizzazione e nella diffusione del ricco patrimonio enogastronomico nazionale e per le sue battaglie a favore delle Denominazioni Comunali (De.Co) e del prezzo sorgente che traccia la distribuzione della ricchezza nella filiera di prodotto, Veronelli, in collaborazione con alcune realtà culturali veronesi, ha concepito qualche anno fa il marchio itinerante “Critical Wine Terra e Libertà”. Il brand si ispira ai dodici principi di sensibilità planetaria tra cui, ad esempio, la ripresa della relazione tra saperi e sapori; la revisione dei rapporti di produzione oggi sbilanciato a favore della grande distribuzione e l’accorciamento della distanza tra origine e consumo dei prodotti. È quindi sotto il cappello del free brand ispirato alla criticità nel consumo, che un flusso ininterrotto di
curiosi, intenditori e produttori da ormai tre anni anima, colora e assaggia un angolo di Liguria permeato, oggi più che mai, da una sincera umiltà contadina amalgamata al senso di appartenenza del territorio. A tenere le fila dell’evento è l’associazione Cuochi, Artisti e Visionari, nata nel 2000 per volontà di un gruppo di amici aggregati intorno alla Casa del Popolo, sorta a Montaretto dopo la guerra come luogo per parlare, fare feste e ballare. «Critical Wine è un contenitore che ispirandosi al pensiero di Veronelli», spiega Andrea, detto Buba, uno degli organizzatori «Si riempie di tematiche sociali e ambientali. Qui il vino non è etichetta ma, unico e particolare, racconta la vita di chi lo produce». E in effetti i 34 produttori presenti (erano 26 alla prima edizione e 28 alla seconda) provenienti da tutta Italia, non danno proprio l’idea di essere venuti solo per vendere. Elio Di Pietra, ad esempio, da principio fatica un po’ a concedere confidenza, ma basta toccare le corde giuste, i suoi vini, per strappargli un sorri-
La squadra di Typically Lo stand della Cooperativa Valli Unite
Ivan Chirico della Fattoria Castellina
so e sciogliere la conversazione. Agronomo, enologo e titolare dell’Azienda agricola Baglio Luna, attività famigliare operante sul territorio siciliano nella zona di Marsala da diverse generazioni, produce i suoi vini nel rispetto del territorio. Con Claudio Cinquemani, Elio ha dato vita da pochi anni all’associazione Tipically, da loro stessi definita una “comunione d’intenti” nata con la finalità di commercializzare, al giusto prezzo, prodotti da agricoltura biologica e integrata, genuini e di qualità, utilizzando il canale della vendita diretta. Disposte in bella vista, con il mare a fare da sfondo, arance, formaggi, miele, olio e naturalmente tanto vino proveniente dai circa venti ettari di vigna di Elio che, affacciate sul Mar Mediterraneo di fronte l’isola di Mozia, oggi patrimonio dell’Unesco, regalano vini a produzione quantitativamente limitata. Il vino di punta dell’Azienda Baglio Luna è ottenuto da uve della cultivar Grillo. I vigneti, allevati a controspalliera, hanno una densità di quattromila piante per ettaro e non subiscono alcun trattamento fitoterapico ad eccezione della distribuzione di composti rameici. «Si tratta di un vino sapido, giallo dorato che profuma di frutta esotica ed erbe aromatiche in particolare di salvia» racconta Elio. «Produciamo ogni anno
Lo stand dell'azienda Gianni Cogo
circa cinquemila bottiglie; siamo produttori di vino e non commercianti. Il nostro vino, nasce da un lavoro in simbiosi con la natura e non facciamo uso di trattamenti chimici. Abbiamo la passione che fa la differenza». Proseguendo la passeggiata degustativa tra i carrugi illuminati dal sole, è Ivan a raccontarci che otto anni fa, abbandonata Milano, sua città natale, è approdato alla Fattoria Castellina, un’azienda agricola di 110 ettari sui pendii meridionali del Montalbano, in provincia di Firenze. I vigneti, dieci ettari, si trovano a 250 metri sul livello del mare e rientrano nel territorio del Montalbano, una delle otto sottozone del Chianti Docg. Il terreno è sabbio-limoso con uno scheletro di arenaria e una densità d’impianto piuttosto elevata (8.300 piante per ettaro). Anche in questo caso parliamo di una produzione artigianale, con lavorazioni fatte a mano o con l’aiuto di attrezzi a trazione animale e che, dal 2004, segue i principi dell’agricoltura biodinamica. «Produciamo circa trentamila bottiglie all’anno» spiega Ivan, che scolasticamente formato come grafico ha trovato la sua strada tra le vigne. «Il vino più conosciuto è il Daino Bianco, un Chianti rosso Igt, cento per cento Merlot che raggiunge quasi quindici gradi. In questo caso la produzione è di circa duemila bottiglie all’anno e devono passare tre anni dalla vendemmia prima che venga messo in commercio. Ne risulta un vino di colore rosso rubino con rifles-
si porpora brillante, strutturato e corposo, con note fruttate. Il biodinamico paga sul lungo termine, le patologie ci sono sempre, l’importante è tenerle sotto controllo. Le trentacinque varietà vegetali che crescono tra i filari, vengono trinciate e interrate. Poi si distribuisce il “corno letame” o preparato 500, un prodotto biodinamico che stimola e armonizza i processi di formazione dell’humus nel suolo, costituito da letame freschissimo e corna di vacca». Se non altro per equità geografica, dopo i rossi del Sud e del Centro Italia, leviamo il calice per un bianco ligure, fresco e sapido. Anche qui, il produttore, Gianni Cogo, è un ingegnere milanese pentito che, con la moglie Maria, ha acquistato due ettari di vigna abbandonata per produrre vini bianchi, tra cui il Vigna del Salice, tredici gradi, piuttosto sapido e corposo. La vigna è la stessa, a cambiare è l’altezza sul livello del mare; la produzione è decisamente di nicchia, duemilacinquecento bottiglie che «se ci impegniamo, ce le beviamo tutte noi» scherza. «L’idea è quella di commercializzarlo passando dalla Pro Loco, come vino del territorio di Bonassola, ma si tratta di un progetto ancora tutto in divenire, che forse per la prossima “Critical Wine” prenderà forma».
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Pillole Héctor García, Miglior Sommelier della Repubblica Dominicana, e sullo sfondo Thomas Sartori, relatore Ais, e Antonello Maietta, vicepresidente nazionale
Il gruppo dei finalisti con Gustavo De Hostos, delegato Ais a Santo Domingo (il primo a destra)
A García il titolo di miglior sommelier della Repubblica Dominicana Si chiama Héctor García, si è avvicinato al mondo del vino solo un anno e mezzo fa e, come lui stesso ha affermato, per necessità. Quella di un lavoro. Mai avrebbe immaginato in vita sua che in un tempo così breve sarebbe diventato un esperto di vini e addirittura il “Miglior sommelier della Repubblica Dominicana”. Il sogno è diventato realtà: cinque agguerriti finalistisi si sono confrontati sul palco del Gran Salón dell’Hotel Hilton a Santo Domingo innanzi a una giura di esperti con a capo il vicepresidente Ais Antonello Maietta. Un evento con cui l’Associazione italiana sommelier consolida la propria attività nel Paese caraibico, già da anni sede di corsi didattici e di degustazioni guidate dai sommelier Ais.
Tra i premi che ha ricevuto risulta anche un “tour enologico”: quale Paese le piacerebbe visitare e perché? «Desidererei andare in Napa Valley perché è una regione che produce vino di ottima qualità con cantine di prim’ordine come Joseph Phelps e Robert Mondavi».
Señor García, innanzitutto complimenti per il successo! «Grazie! La vera soddisfazione nella conquista di questo titolo è il fatto di sapere che nel Paese ci sono parecchi personaggi autorevoli che conoscono il vino e con questo successo mi sono avvicinato a questo gruppo. Poi c’è la gratificazione che deriva dal fatto che al concorso abbiano partecipato circa quaranta sommelier dei più prestigiosi ristoranti domenicani».
Come si vede tra qualche anno? «Spero di ritrovarmi ancora tra i migliori sommelier del Paese. Sono soddisfatto di questa professione e vorrei esercitarla a lungo in un ristorante o in un’azienda con cui condividere idee e confrontarmi con persone che abbiamo la mia stessa passione».
Che cosa la attende in futuro? «Proseguirò a lavorare in questo ambito perché mi piace il mestiere che faccio e continuerò soprattutto ad aggiornarmi per arricchire ulteriormente le mie conoscenze del mondo del vino e nel settore turistico-alberghiero».
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Quali sono i suoi vini preferiti? «I vini californiani, evidentemente, poi i francesi, gli italiani e gli spagnoli». Con quale etichetta ha festeggiato la sua vittoria? «Con uno Champagne Perrier Jouet Grand Brut. Mi tratto bene!».
Con questa vittoria avrà l’opportunità di partecipare alle selezioni per il Concorso Miglior Sommelier del Mondo. Un bel trampolino di lancio. «A questo sinceramente non pensavo nemmeno. Di certo continuerò a studiare con il professor Thomas Sartori e rappresenterò l’azienda per cui lavoro, El Catador, nel migliore dei modi. Cercherò di essere, se non il primo, uno tra i sommelier più preparati di questa competizione. E poi, come si dice in questi casi, che vinca il migliore!».
L’Ais va in crociera Doppio varo per la Costa Crociere: Costa Luminosa e Costa Pacifica sono state tenute a battesimo al porto di Genova. Per la prima volta in Italia due navi da crociera sono varate nello stesso luogo, in contemporanea, con un’unica grande cerimonia. Un evento eccezionale che Costa Crociere, il più grande gruppo turistico italiano e la prima compagnia di crociere in Europa, ha voluto rendere speciale con l’intervento dell’Ais. Cento sommelier provenienti da tutta Italia si sono occupati del servizio vini all’interno delle due navi. La squadra nazionale è stata coordinata dalla sommelier professionista Cinzia Mattioli del Ristorante Doc di Borgio Verezzi (Sv), alla sua terza esperienza nell’organizzazione di eventi inaugurali di questa portata. Una cerimonia che ha dato sicuramente visibilità e prestigio anche alla nostra associazione e a cui hanno partecipato 1500 ospiti internazionali sulla Pacifica e 2500 sulla Luminosa, oltre a tutte le rappresentanze politiche e sociali.
I sommelier Ais che hanno tenuto a battesimo la Costa Pacifica e la Costa Luminosa
Zanella presidente del Consorzio per la tutela del Franciacorta «Proseguire nel segno della continuità e lavorare con assiduo impegno per far sì che Franciacorta sia sempre più sinonimo di eccellenza e di un magico territorio». Sono queste le prime parole di Maurizio Zanella poco dopo l’elezione a presidente del Consorzio per la tutela del Franciacorta. Zanella è il sesto presidente della storia quasi ventennale del Consorzio (il 5 Marzo 2010 si celebreranno i vent’anni dalla fondazione) e succede a Ezio Maiolini, che ha presieduto il Consorzio per due mandati, dal 2003 a oggi e che a norma di statuto non è più rieleggibile. «Ringrazio i produttori per la fiducia accordatami – ha dichiarato Maurizio Zanella – e sono convinto che il Consorzio debba prose-
guire e rafforzare il suo lavoro con l’obiettivo di far eccellere sempre più nella qualità il Franciacorta, in maniera coerente con la propria identità e con i valori che comunica. Obiettivi comuni di tutti i produttori, piccoli e grandi, dovranno essere la tutela del nome Franciacorta, del suo territorio e del vigneto, patrimoni e risorse incomparabili. Ricerca e sperimentazione inoltre avranno un ruolo chiave nel percorso futuro del Franciacorta, insieme alla comunicazione. La formazione avrà l’importante compito di far crescere la professionalità di tutti gli operatori e farà anche da collante tra gli associati». Maurizio Zanella inizia nel 1968 come viticoltore in Franciacorta, oggi è il presidente di Ca’ del
Maurizio Zanella, neopresidente del Consorzio per la tutela del Franciacorta
Bosco Srl di Erbusco, società agricola che lavora 160 ettari di vigna ed è concentrata esclusivamente sul Franciacorta. «Sono certo – ha dichiarato il Presidente uscente, Ezio Maiolini – che Maurizio Zanella saprà ricoprire al meglio questo importante ruolo, grazie alla sua lunga esperienza come produttore di successo e al costante, decisivo contributo che ha dato negli anni all’attività del Consorzio per la tutela del Franciacorta e alla Franciacorta stessa». 107
Pillole
In rosa il “Miglior sommelier junior 2009”
Chiara Salvesi dell'Istituto Alberghiero di S. Elpidio a Mare
Una vittoria in rosa. Ad aggiudicarsi la ventunesima edizione del concorso “Miglior Sommelier Junior d’Italia”, l’unico rivolto agli aspiranti sommelier, sono state Chiara Salvesi per la categoria under 18 dell’istituto alberghiero di Sant’Elpidio a Mare e la lombarda Gloria Mainetti per gli over. Venti i concorrenti provenienti da tutt’Italia selezionati in cinquanta istituti. «È una professione – ha detto Roberto Gardini, presidente di giuria e membro della giunta esecutiva dell’Associazione italiana sommelier – che in questi ultimi due anni sta volgendo al femminile.
Gloria Mainetti e Roberto Gardini 108
Gloria Mainetti dell'Istituto Alberghiero di Chiavenna
Quest’anno le affluenze sono raddoppiate e dei venti selezionati ben quindici sono ragazze. È una professione che sta aprendo le frontiere al femminile. Sono tante le richieste dei ristoranti che chiedono ragazze in sala, perché hanno modi gentili e garbati, che non riusciamo a soddisfare». La commissione (Lorenzo Giuliani, Michele De Lisa, Marco Primolevo, Carmen Giuratrabocchetta) ha valutato i ragazzi in tre prove: scritta, orale e di servizio, svoltesi presso l’Ipssar di Potenza. «I ragazzi – ha continuato Gardini – hanno un approccio differente verso la giuria
e la professione adottando una buona comunicazione e, inoltre, hanno una preparazione acuta seguendo buoni percorsi formativi». Per la prima volta il concorso si è svolto a Potenza e in un istituto alberghiero per la caparbietà del presidente regionale dell’Ais, Vito D’Angelo. « È stata una scelta voluta fortemente – ha detto – perché era il modo migliore per favorire lo scambio di esperienze e di preparazione. Generalmente si è sempre svolto in una cantina ma la scuola era il luogo adatto per le interazioni». Nella categoria under (12 i partecipanti) terzo posto per
La commissione esaminatrice
Claudio Bonechi e terzo per Stefano Giacardi. Nella categoria over (8 partecipanti), terzo posto per Michele Bassi Fer, apprezzato per classe e stile, e secondo per Maurizia Pugliese, che si è distinta per le sue qualità commerciali. La cerimonia di premiazione si è svolta nella sala dell’Arco del Comune. Ai vincitori una borsa di studio consistente in un corso da sommelier (i tre livelli). L’anno scorso Mainetti è arrivata seconda, ma quest’anno ha voluto fortemente la vittoria. L’ha cercata con testardaggine e alla fine ha realizzato quello che era il suo sogno. « È stata costante nel servizio, ha rispettato i tempi dati, ha scovato gli errori nella carta dei vini ed è stata la migliore nella degustazione» ha spiegato Gardini. Appassionata di vini, si è messa alla scoperta di quello che c’è dietro questo mondo. «Il vino non è solo una bevanda ma mi piace capire la passione e il lavoro delle aziende agricole» ha dichiarato con piglio deciso. Si iscriverà all’università al corso di enologia e viticoltura per continuare su questa strada. Le piacciono i vini rossi e strutturati e, di recente, ha riscoperto i passiti. Ce l’ha messa tutta per portare a casa la vittoria e la sua preparazione, come ha sostenuto, è dovuta all’esperienza che sta facendo in un ristorante stellato Michelin, dove ha potuto degustare e servire i vini. Un merito del traguardo lo deve anche al professore, Salvatore Tomacci, di origine lucana. La incuriosiscono gli abbinamenti cibo-vino e ha voglia di approfondire i vini poco conosciuti della Gran Bretagna e della Scozia. Per settembre si era già iscritta al corso di primo livello perché la sua aspirazione da grande è fare la sommelier. Rapporto completamente diverso con i vini per la marchigiana Chiara Salvesi che ha colpito la giuria con i suoi modi gentili di presentarsi e accogliere i clienti, oltre alla buona preparazione di base. «Non ho avuto molto tempo per preparami – ha spiegato – perché sto facendo uno stage ma ho sfruttato i momenti liberi per studiare. A gennaio non pensavo di diventare sommelier. Mi sono avvicinata da poco al mondo dei vini e ho partecipato al concorso per non avere rimpianti». La giornata si è conclusa a tavola al Grande Albergo con una cena preparata dallo chef Pasquale Conte, all’insegna della cucina tipica lucana e prodotti del territorio. (Iranna De Meo)
Solidus premia il professionista del 2009 Nel corso di una cena di gala nello splendido Grand Visconti Palace di Milano, sono stati consegnati i prestigiosi riconoscimenti “Il Professionista dell’Anno 2009”, premio assegnato dalle dieci associazioni professionali che fanno parte di “Solidus - I professionisti dell’ospitalità italiana”, forum permanente che raggruppa le più Ivano Antonini, Miglior Sommelier d'Italia 2008, ha importanti associazioni ricevuto anche il premio di professionali del categoria di Solidus settore alberghiero nazionale. Solidus è stata costituita per dare visibilità e forza politica all’intero mondo del turismo italiano che raccoglie due milioni di persone impiegate direttamente o indirettamente nel settore e che in Italia fattura complessivamente oltre cento miliardi di euro ed è tra i primi quattro sistemi turistici al mondo. Non a caso la premiazione è tornata quest’anno nel capoluogo lombardo per rendere onore alla città che ospiterà l’Expo universale del 2015. I VINCITORI DI QUESTA STAGIONE: Ada, Associazione italiana dei direttori d’albergo: Francesco Guidugli Aibes, Associazione italiana dei barman: Domenico Costanzo Aicr, Associazione italiana dei capi ricevimento: Franco Girasoli Aih, Associazione italiana housekeeping: Anna Pensa Aira, Associazione italiana impiegati d’albergo: Sandro Bravin Ais, Associazione italiana sommelier: Ivano Antonini Amira, Associazione maître italiani ristoranti e alberghi: Giacomo Rubini Faipa, Federazione delle associazioni italiane dei portieri d’albergo “Le Chiavi d’Oro”: Giuseppe Caiozzo Fic, Federazione italiana cuochi: Carlo Bresciani Uipa, Associazione delle Chiavi d’Oro: Mario Torta
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Pillole
Emerge: chef creativi promuovono il territorio Metti un tempo che definire clemente è un riduttivo. Metti una cornice suggestiva (Villa Mirabello) immersa in un eden cittadino (il parco di Monza). E soprattutto aggiungi pietanze di livello assoluto accompagnate da vini che non riescono a farsi dimenticare facilmente. “Emerge” ha chiuso la sua prima edizione con la piena consapevolezza che il suo cammino è soltanto agli inizi. A darsi battaglia tra i fornelli per meritarsi il titolo di miglior emergente, si sono succeduti una ventina di giovani chef provenienti da tutte le regioni del Nord che hanno deliziato i numerosi visitatori realizzando prelibatezze strappa-applausi. “Opere d’arte”, s’è lasciato scappare qualcuno affondando la forchetta nel piatto. Certo, perché a tavola l’occhio non vuole essere trascurato e la linea verde del gusto italico si dimostra particolarmente attenta a giocare con forme, accostamenti e colori. Il trionfatore della prima giornata (dedicata a Piemonte, Liguria e Val d’Aosta) è stato Alessandro Boglione del ristorante “Al Castello” di Grinzane Cavour, in provincia di Cuneo che, sul tema “Con frutta ma non dessert”, ha incantato la platea con la sua pancia di vitello a bassa temperatura impreziosita da un’insalatina aromatica e cugnà. Sulla ricetta libera ha invece puntato su una millefoglie di pomodoro confit con salsiccia di Bra. Ad arricchire il tutto, un velo di croccante alle acciughe e una cremina di tuma di Murazzano. Gli altri chef che hanno animato la prima giornata di “Emerge” sono stati Claudio Santin del ristorante “La Cassolette” del Mont Blanc Hotel Village di La Salle in provincia di Aosta. Christian Costardi del ristorante “Risotteria” dell’Hotel Cinzia a Vercelli e Manolo Allochis de “Il Vigneto” di Roddi, vicino a Cuneo. Alla fine il vincitore è stato però Stefano Ciotti, del ristorante “Santa Lucia” di Cattolica, che ha spiazzato tutti con i suoi piatti puliti, quasi scarni ma molto eleganti. I piatti tanto apprezzati sono stati: rana pescatrice di Potacchio, guanciale di mora romagnola e patate” per il tema “Un piatto della tua memoria” e tagliatelle di seppia al limone candito, zuppa d’olio extravergine e vongole, boulgour al nero, per la ricetta libera. «Appuntamenti come “Emerge” contribuiscono a veicolare messaggi importanti sull’identità del nostro territorio». Il vicepresidente della Camera di Commercio di Monza e Brianza, Luigi Nardi, parla di nuove strategie all’orizzonte: «La crisi ha investito in misura massiccia anche e soprattutto una zona come la nostra ad alta densità di piccole e medie imprese. E si consideri che ben il 90 per cento del nostro turismo è di tipo business. La soluzione? Trasformare parte di quel turismo da “business” a “leisure”. La Brianza deve accogliere anche chi decide di viaggiare per svago e piacere, ne ha tutte le potenzialità. E il piacere passa prima di tutto dall’enogastronomia». “Emerge” rientra allora in un percorso che mira a ricollocare il “marchio” Monza. «Pensiamo alla patata di Oreno, all’asparago rosa di Mezzago e potrei citare diversi altri esempi. Abbiamo il dovere di valorizzare e far conoscere questi nostri prodotti unici. Vogliamo andare avanti in questa direzione, promuovendo le qualità e le eccellenze della Brianza e collaborando con tutti i soggetti che operano per lo sviluppo» ha proseguito Nardi. Anche con la neonata Provincia, dunque? Per il vicepresidente della Camera di Commercio di Monza e Brianza non ci sono dubbi e si mostra soddisfatto dall’esito delle urne. «Dario Allevi farà un buon lavoro. Da vicesindaco di Monza ha già avuto modo di occuparsi di questioni legate al settore turistico. La Camera di Commercio cercherà di supportarlo nel modo migliore». 110
Il premio Packaging Topline a Casa Ceci per “Rosé Brut” “VENEZIA SPUMANTI”, LE MIGLIORI BOLLICINE ITALIANE A CONFRONTO Una location blasonata per bollicine al top. Il Grand Hotel Danieli di Venezia ha tenuto a battesimo “Venezia Spumanti” e il premio Packaging Topline del Forum Spumanti d’Italia che assieme ad Ais Veneto ha voluto la manifestazione per proporre a un pubblico di esperti, sommelier operatori, buyer e giornalisti, ma anche di appassionati, alcune grandi aziende italiane produttrici di bollicine metodo classico e charmat. Una quarantina i produttori e 120 le etichette in degustazione. In servizio una ventina di sommelier. Partner istituzionali: il Ministero per Il primo premio al Rosé Brut di Casa Ceci è stato consegnale Politiche agricole alimentari, Unioncamere, to da Franco Oppini e da Moreno Morello Federvini-Confindustria, Unione Italiana Vini. Robino& Galandrino, Icas e Enoplasti, fra i sostenitori dell’evento. Obiettivo del concorso premiare il miglior abbigliamento di una bottiglia di vini spumanti (capsula o capsulone, collarino e/o collarone, gabbietta e cappellotto, etichetta e/o contro etichetta, foggia o forma della bottiglia) e premiare e stimolare lo sforzo delle case spumantistiche al continuo miglioramento della propria immagine, alla qualità di prodotto e a incrementare e riconoscerne il valore aggiunto. 350 le etichette partecipanti, 26 quelle che hanno ottenuto la nomination. Nove le finaliste. Si è aggiudicato il primo premio il “Rosé Brut” di Casa Ceci, (Torrile, Pr). Al secondo posto ex-equo si sono piazzati: D’Antan Rosé di Gavi de La Scolca, 61 Storica Brut della Berlucchi Guido, Riserva Graal Trentodoc di Cavit, Kalibro Prosecco di Valdobbiadene di Astoria Vini, Brolese Franciacorta di Muratori, Brut Rosé Trentodoc di Pojer-Sandri, Franciacorta Brut di Quadra, Extrabrut di Ruggeri Valdobbiadene. La premiazione è stata scoppiettante soprattutto per la presenza di Franco Oppini, ex “Gatti di vicolo Miracoli” e di Moreno Morello. Il vincitore si è aggiudicato un quadro, opera dell’artista trevigiano Alessandro Gatto. Molto seguito hanno avuto anche le due degustazioni guidate. La prima, “Il panorama della spumantistica italiana”, è stata condotta da Gianpaolo Breda, relatore Ais e direttore dei corsi. La seconda metteva a confronto “Le aree dello Spumante classico fra millesimi e riserve”, a cura di Annalisa Barison, delegato di Ferrara e relatrice Ais. Gran pienone nel sontuoso salone del Danieli. Si conferma così il gradimento da parte del pubblico per le bollicine made in Italy che stanno riscuotendo consensi e apprezzamenti anche all’estero. Sono circa 330 milioni le bottiglie di vini spumeggianti italiani prodotte e consumate nel 2008 per un controvalore al consumo di oltre 3,6 miliardi di euro (di cui circa 2,5 miliardi realizzati all’estero). Decisamente soddisfatto il presidente Ais Veneto Dino Marchi che ringrazia anche altri importanti partner come il Salumificio Piovesan di Pederobba (Tv), Valsana di Santa Lucia di Piave (Tv) che con passione da oltre vent’anni, ricerca, seleziona e distribuisce formaggi, salumi e altre ricercate specialità. Preziosa anche la presenza sui banchi di degustazione de “Le foglie di Visnadello”, sottili e leggerissime foglie di pane croccanti prodotte da Figulì, un’azienda con sede a Villorba (Tv). (Laura Tuveri)
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Libri
SULLO SCAFFALE UNA STORIA VENETA. L’AVVENTURA DI DINO BOSCARATO E DELL’AMELIA DI MESTRE Autore: Editore:
Diego e Marco Boscarato Terra Ferma
“L’esperienza non è ciò che accade a un uomo: è ciò che fa un uomo con quello che gli accade”. Con questa citazione di Aldous L. Huxley - scrittore inglese di fantascienza e padre spirituale del movimento hippie - decidono di aprire il volumetto Diego e Marco Boscarato, figli di Dino, che al padre dedicano questo omaggio scritto. Un accorato tributo a un uomo che con ogni evidenza ha saputo lasciare una traccia indelebile tra coloro che lo hanno conosciuto e, ancora più importante, nei suoi eredi. Giovane dagli umili natali, Dino Boscarato negli Anni ’60, a poco più di trent’anni, si fa interprete di un sogno ad occhi aperti, con tutte le sfumature e l’indeterminatezza che mancano a una chiara prospettiva progettuale. Il classico salto nel vuoto da cui possono discendere fortune o delusioni. Nato nel Cadore, figlio di albergatori, uso all’arte dell’accoglienza e del benessere dei villeggianti, nel 1961 Dino decide di abbandonare le Dolomiti per approdare a Mestre, allora semplice nodo ferroviario e stradale nell’orbita dell’assai più popolata Venezia. Qui, animato da una forte propensione alla convivialità, alla tavola che unisce persone e personalità diverse, rileva una trattoria periferica, quasi di campagna, la Trattoria Dall’Amelia, della quale conserva il nome e che trasforma, in quarant’anni di attività, in un ristorante stellato di riferimento per i gourmet di tutta la penisola. Tra i suoi meriti, oltre ben inteso ad aver dato un’impronta di originalità alla ristorazione, l’aver modificato il modo di far cultura in un territorio circoscritto, quello dell’intellighentia chiusa e snobista, aprendo nel perimetro del suo ristorante la “Tavola all’Amelia”, tutt’ora attiva. Un sodalizio, un club senza tessere o regolamenti, fondato su un gentlemen’s agreement, dove 24 esponenti della cultura veneta – poeti, scrittori, giornalisti e professori – discutevano di temi legati alla cultura e alla vita. Dal consesso, nel 1965 nasce un premio, a coronamento di una fusione vera e propria tra gastronomia e arte, tra cucina e alta cucina. Impossibile non cedere alla freschezza del racconto dell’avventura di Dino Boscarato, attraverso le lenti affettuose dei figli, e al fascino delle sue ricette, uscite dal cuore. Quando il sogno diventa realtà.
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di Natalia Franchi
ANNUARIO DELLA FILIERA VITIVINICOLA SICILIANA Autore: Editore:
Salvatore D’Agostino Istituto Regionale della Vite e del Vino – Regione Siciliana
L’annuario muove da una considerazione alla base della salute dei mercati: la necessità di conoscere un prodotto, per governarne e indirizzarne le potenzialità nell’odierna economia globalizzata. Il volume è il risultato di una rilevazione certosina. Una finestra di dati, informazioni, curiosità su quanto in questi anni ha alimentato il made in Sicily del vino. Una guida analitica e un contributo fattivo alla crescita del settore vitivinicolo in una terra, la Sicilia, nei secoli vocata alla vite e ai suoi frutti, definita “continente vitivinicolo” per la variabilità dei terreni, del clima, delle quattro macrozone ideali di possibile suddivisione. Occorre risalire alla preistoria, al 6500 a.C., per collocare l’origine della vite silvestris, poi coltivata dai siculi “ad alberello” con sostegno, secondo la tecnica egeo-micenea-greca. La produzione vinicola subì una battuta d’arresto dal 827 d.C. con la dominazione dell’isola da parte degli Arabi, che privilegiarono la coltivazione dell’uva da tavola e della passa di Zibibbo. L’espansione del vigneto Sicilia riprese dal 1061 con i Normanni, gli Svevi, poi gli Aragonesi e infine, dal 1734, con i Borboni. La vera svolta si ebbe nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia, grazie al Duca Edoardo di Salaparuta. Un excursus dei vini top prodotti in Sicilia nel nostro secolo vede, fino agli anni Sessanta, il Marsala e il rosso di Pachino. A metà degli anni Settanta irrompono sulla scena i bianchi figli della tecnica e del freddo, destinabili alla bottiglia: Colomba Platino, Bouquet di Rapitalà e Chardonnay Tasca, solo per citarne alcuni ormai assurti a classici della produzione siciliana. Data Anni ’80 la realizzazione di vini rossi idonei al medio invecchiamento in barrique e poi in vetro. Nel 2000, è il turno dei vini spumanti in autoclave e metodo classico e, soprattutto, del vero e proprio boom del Nero d’Avola: il vitigno locale principe dell’enologia siciliana che tanti imprenditori del Nord ha fatto sbarcare in questa terra e che tuttora domina le tavole più raffinate e trendy d’Italia. Non c’è vino che sfugga al pettine accurato di questo annuario: rossi, bianchi, rosati, Marsala, Passiti, Moscati e spumanti. Come non manca un preciso elenco dei produttori e un’attenta disamina dei prezzi, quelli onesti che tutti dovremmo poter pagare. La Sicilia in un bicchiere.
FROM VINE TO WINE Autore: Editore: Prezzo:
Kennet Crofutt e Belinda Ellender Edagricole 27,00 euro
Quanti, tra gli amanti del vino, vivono la globalizzazione della cultura, dei mercati e dei gusti, dovranno aggiungere alla propria biblioteca questo glossario bilingue. Strumento necessario per interagire all’estero e “parlare la stessa lingua” con le persone alle quali basta trovarsi davanti a un bicchiere di vino per sentirsi parte di un mondo che ha tutte le carte per essere conosciuto e apprezzato dai più. Tre le sezioni bilingui, inglese-italiano e italiano-inglese. La sezione Viticoltura include la terminologia relativa al vigneto, ai trattamenti contro le malattie, all’esposizione al sole, al metodo di potatura, alla vendemmia, alle condizioni climatiche e meteorologiche. La sezione Vinificazione riguarda tutte le fasi: dalla selezione dei grappoli alla pigiatura e fermentazione, dalle tecniche di macerazione ai diversi tipi di lieviti, fino alla filtrazione, finitura, imbottigliamento e invecchiamento. La sezione Degustazione è dedicata al linguaggio utilizzato nel corso dell’analisi sensoriale, ai pregi e ai difetti del vino, alle tipologie di bottiglie e bicchieri, per finire con le etichette. Di origine anglosassone i due autori: Kenneth Crofutt, californiano con un “Wine Diploma” del Department of Agricolture of the State of California e residente da più di vent’anni nel Monferrato. Belinda Ellender, londinese, insegnante nei seminari di linguaggio dei vini. Il vino parla la lingua del mondo.
CANTINE D’ITALIA GUIDA PER IL TURISTA DEL VINO Ideatore: Curatore: Editore: Prezzo:
Massimo Corrado Massimo Zanichelli Go Wine Editore 15,00 euro
Tra le numerose categorie di turisti – forzati, inconsapevoli, emulatori, improbabili e applauditori (sì, avete capito bene, parlo di quanti chiudono l’atterraggio del proprio volo con uno scrosciante applauso al pilota) – una nota di sincero apprezzamento va a coloro che dedicano il proprio tempo libero all’arricchimento del proprio essere: a quanto pone in primo piano le sensazioni autentiche, i sapori, i profumi e le emozioni di cui la conoscenza di un vino e del suo indotto sono portatori. Si astengano dunque dall’acquisto della Guida per il turista del vino quanti non sanno cogliere la finezza di tale passatempo che, per fortuna, conta nuovi proseliti. Sono ben 520 le cantine che valgono il viaggio selezionate nel volume con 170 Impronte (a indicare il più alto punteggio nelle valutazioni su Sito, Accoglienza e Vini) d’eccellenza per l’enoturismo. Tributo alla grande accoglienza italiana in cantina, la guida esalta l’importante ruolo che uomini e donne del vino hanno assunto negli anni sviluppando una nuova missione: quella di essere promotori del proprio territorio, facendo diventare le grandi etichette veicoli di promozione della terra d’origine. L’accoglienza in cantina è oggi rappresentata da decine e decine di luoghi affascinanti per storie e vicende legate al vino, per il recupero di importanti edifici, per siti naturali di grande bellezza esaltati dalla presenza del vigneto e dal lavoro dell’uomo, per la presenza di attrezzati agriturismi o relais in grado di accogliere il turista “oltre” la degustazione, offrendogli un ventaglio di esperienze candidate a restare indelebilmente fissate nella memoria. Oltre 1.800 i vini segnalati, 1.000 gli indirizzi utili per mangiare e dormire. Oltre a schede regionali di approfondimento su vitigni autoctoni e sui territori del vino e un atlante cartografico a colori con 23 cartine geografiche di consultazione. Per ognuna delle 520 cantine, una pagina ricca di notizie: dall’anagrafica aziendale con tanto di ettari vitati e bottiglie prodotte ai referenti interni da contattare; dai giorni e gli orari di visita alle informazioni stradali; dal racconto delle suggestioni che la cantina e il suo contesto offrono al visitatore a una serie di utili appunti sui vini aziendali con indicazione del vino top, del miglior rapporto qualità-prezzo e degli altri vini da conoscere. In volo con il vino. 113
Io non ci sto
Né provinciale né sciovinista: così sogno l’Italia del vino di Franco Ziliani ono un idealista e credo ancora nelle utopie, lo confesso, e sogno un’Italia del vino che non sia né provinciale né scioccamente sciovinista. Mi spiego. Da quando faccio questo strano mestiere di cronista enoico, e sono 25 anni ormai, non ho mai potuto sopportare la falsa modestia, un certo malcelato e balbettante complesso d’inferiorità che ha spesso portato i produttori di casa nostra a cercare di farsi accettare, a provare a fare il salto di qualità per entrare nel “salotto buono” dei grandi Paesi vinicoli e nel Gotha delle cosiddette top wineries, facendo sfoggio di esterofilia. In altre parole dichiarandosi pronti ad accettare come fossero automaticamente buone, e migliori delle nostre, tutte le soluzioni che arrivavano da fuori Italia. Dalla barrique-mania (oggi per fortuna quasi esaurita) al culto dei “vitigni migliorativi”, dalle consulenze in cantina dei vari winemaker transalpini, californiani, neozelandesi o australiani all’adozione dei trucioli (o chips) e (in forma molto sotterranea) di tecniche e pratiche enologiche collaudate nei Paesi del Nuovo Mondo, dall’approdo a un marketing molto americano, che si traduce anche in forme molto “americane” di turismo del vino alla scelta di costruire “cantine spettacolo” di gusto californianhollywoodiano, è tutta una storia, quella degli ultimi vent’anni, che ha visto l’Italia del vino internazionalizzarsi a dismisura. Se si aggiungono poi l’opzione decisa (che in alcuni casi ha assunto le dimensioni della “resa”) per il gusto internazionale, la “cabernettizzazione” e “merlottizzazione” (precedute dalla “chardonnayizzazione”) di zone vinicole (dalla Toscana alla Sicilia) che pur potevano contare su un buon numero di vitigni autoctoni di qualità, il diffuso prendere per oro colato i giudizi espressi sul vino italiano, con precise indicazioni di quanto andava bene e di quanto invece doveva essere cambiato, e le valutazioni di merito espressi da alcuni wine guru della critica americana, e l’idea che si fosse raggiunto un concetto di qualità solo quando questo concetto coincideva con l’estetica di questi personaggi e si traduceva in punteggi altisonanti da loro attribuiti tutte queste formano altrettante dimostrazioni di un diffuso provincialismo. Come pure la fastidiosa prassi, non ancora dismessa, di emettere comunicati stampa per informare il colto e l’inclita di avere ottenuto 95/100 da Parker o da Wine Spectator, o l’ostinarsi a chiamare “taglio bordolese” un rosso che magari preveda, accanto a Cabernet e Merlot, anche una quota di uve nostrane, oppure scrivere Zinfandel sull’etichetta di un Primitivo di Manduria prodotto in terra pugliese. O infine arrendersi al fascino della magica parola “Super Tuscan”, che era stato coniata non da un italiano, ma da un americano, per definire larga parte di quei vini, con larga presenza di uve alloctone, che di toscano avevano solo la ragione sociale delle aziende dove venivano prodotti e che in ragione del loro stile, californiano o australiano molto più che toscano, avrebbero dovuto più correttamente essere battezzati InternationalTuscan.
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Non ho mai sopportato questo provincialismo un po’ triste, questa carenza di orgoglio per la propria storia e cultura enologica (molto più antica di quella dei nuovi profeti dell’enologicamente corretto), per le radici di una prassi del fare vino che pure, molti anni prima che si parlasse di flying winemaker e di maturazione fenolica, quando si praticava quella che un enologo à la page come Stefano Chioccioli chiama “viticoltura stupida”, aveva espresso (e rimaniamo sempre più basiti quando li incontriamo) grandi vini targati anni Settanta, Sessanta e poi ancora più a ritroso. Altrettanto inconsistenti e provinciali ho però trovato gli eccessi che hanno portato taluni produttori italiani a scrivere e proclamare che i loro vini fossero ormai all’altezza (o addirittura superiori) a vini, soprattutto francesi, che a differenza dei loro vantavano una storia risalente a secoli addietro e una costanza qualitativa consolidata nel tempo. Poco comprensibile la scelta, fatta con lo “spannometro” e con una buona dose di presunzione, di adattare i prezzi di determinati “vini di punta” o “premium wines” per dirla alla maniera anglosassone, magari diventati pseudo-cult grazie ai 95/100 di qualche wine guru d’Oltreoceano, ai prezzi di grandi crus di Bordeaux, della Borgogna o della Champagne, magari sostenendo che, in fondo, a “pari qualità costano ancora meno”, dimenticando che certi prezzi, dei francesi, si giustificano, quando si giustificano, solo con una lunga storia (e non poche vendemmie) alle spalle, o con una capacità di entrare nella leggenda enoica… Non poteva pertanto che indispettirmi la notizia, letta nientemeno sul Corriere della Sera, secondo la quale il vino italiano in questo momento più in “grande spolvero”, il Prosecco (ma stiamo parlando della Doc, futura Docg Conegliano-Valdobbiadene, o della prossima grande Doc inter-regionale?), sarebbe “pronto ad attaccare lo Champagne”. Titolo che non si può certo attribuire a una sorta di forzatura da parte del giornalista addetto alla titolazione, ma che prende lo spunto da una dichiarazione di Gianluca Bisol, il quale riferendosi all’ipotesi di un raddoppio delle bottiglie di Prosecco prodotte, che porterebbe ad avvicinarsi a quanto producono le maison francesi di Reims ed Epernay, aveva detto: “non certo come tipologia di produzione, ma come area. Se lo Champagne è il re, noi potremmo essere considerati il piccolo principe”. Trionfalismo, a mio avviso un po’ pericoloso, che rischia di far perdere la bussola e il senso della realtà e della misura ai prosecchisti. Perché va bene sostenere, magari senza gli eccessi di qualche giornalista che riferendosi al Regno Unito sostiene che “la nuova tendenza di vendita premia in particolare lo stile del Prosecco, prima ancora del prezzo che, tuttavia, ad alto livello non è necessariamente inferiore al costo dello Champagne”, le bollicine della Marca Trevigiana, e auspicarne crescenti successi, ma se per fare questo occorre trasformarsi in enosciovinisti, ancora più campanilisti di com’erano i francesi d’antan, beh, scusatemi se per l’ennesima volta mi tocca dire che “io non ci sto!”.