DeVinis n. 89 Settembre-Ottobre 2009

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Anno XVI - n. 89 - € 3,50 - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 - n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano

DEVinis LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE

Settembre / Ottobre 2009

PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - ais@sommeliersonline.it


Editoriale

La

sfida del nuovo

di Terenzio Medri a crisi economica mondiale ha disegnato scenari inediti e creato situazioni non immaginabili anche nel mondo del vino. Mentre in molti sostengono che il peggio è passato e il tunnel sta per finire, tutti si domandano quando comincerà a vedersi un po’ di luce. Intanto i produttori di champagne si accorgono che l’invenduto è tale da costringerli a un drastico taglio di produzione (260 milioni di bottiglie anziché 325 milioni del 2008), enoteche e ristoranti stappano meno bottiglie (e quelle bevute non sono certamente le più costose), migliaia di italiani scoprono il “vino fai da te”, quello ottenuto direttamente in cantina dall’uva comperata in campagna. È un modo per combattere la moltiplicazione dei prezzi dal campo alla tavola e gustare un prodotto buono e genuino. Parto da questi presupposti per sostenere che i sommelier devono adeguarsi alla realtà, parlare un linguaggio semplice, valorizzare tutte le bottiglie, non solo le cosiddette eccellenze. Ogni anno il sistema vino italiano produce tre miliardi di bottiglie, ma solo cinquanta milioni sono di alta qualità e comunque destinate a un pubblico molto ristretto. L’Ais e i suoi associati, devono riconsegnare alla bottiglia il ruolo di protagonista della convivialità: questo si può fare dando dignità sia al “Vino da tavola” sia alle grandi nobiltà enologiche apprezzate dai pochi appassionati che possono permettersele. Dico questo perché l'Ais deve sì continuare a tutelare i consumatori come ha sempre fatto, ma deve anche essere consapevole dei mutamenti in corso: sui mercati stanno affacciandosi nuovi protagonisti, l’Europa vede restringersi la sua fetta di introiti e quindi anche il sommelier deve rinnovarsi. Questo significa incrementare l’utilizzo di internet per raggiungere i consumatori (soprattutto i più giovani), migliorare ulteriormente la nostra didattica (magari rendendola più semplice), prendere cioè atto della sfida che il nuovo ha lanciato. Il sommelier deve ampliare i suoi orizzonti, proponendosi non solo come comunica-

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tore, ma anche come degustatore ufficiale riconosciuto. È quindi mia intenzione organizzare nell’immediato futuro gli “Stati generali del vino”, un convegno con Federvini, Assoenologi, presidenti dei Consorzi, Istituzioni, stampa agroalimentare e sommelier per parlare del vino a 360 gradi, per non rimanere fermi e passivi a guardare cosa accadrà, domandandosi a crisi finita che mercato del vino avremo. Occorre quindi continuare a mettere in evidenza i profumi della nostra terra, quelli delle uve che sono soltanto nostre, senza dimenticare che comunque ci sono altri Paesi che meritano piena attenzione. Il percorso, già programmato, ci porterà all’Expo 2015. Qui, nel cuore dell’esposizione universale che avrà come tema alimentazione e sviluppo, ci sarà un padiglione dedicato ai vitigni autoctoni, un patrimonio che è esclusivo, unico e che nessuno ci potrà mai copiare.

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AIS Associazione Italiana Sommeliers Presidente | Terenzio Medri Vicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella Romani Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, Lorenzo Giuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.

La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene. Anno XVI settembre-ottobre 2009 Associazione Italiana Sommeliers Editore Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, terenzio.medri@sommeliersonline.it Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, francesca.cantiani@sommeliersonline.it Per la pubblicità | Roberto Pizzi, pubblicita@sommeliersonline.it tel. 02/72095574 – ICE Srl – Corso Garibaldi, 16 – 20121 Milano Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - devinis@sommeliersonline.it Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it Hanno collaborato | Silvia Baratta, Luisa Barbieri, Sandro Camilli, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Alessia Cipolla, Pinuccio Del Menico, Elisa della Barba, Alessandro Franceschini, Natalia Franchi, Angelo Gaja, Salvatore Giannella, Maddalena Giuffrida, Emanuele Lavizzari, Maurizio Maestrelli, Angelo Matteucci, Davide Oltolini, Roberto Piccinelli, Cesare Pillon, Paolo Pirovano, Alessandra Rotondi, Lorenzo Simoncelli, Daniele Urso, Franco Ziliani. Fotografie | Archivio Ais Per l’articolo a firma di Salvatore Giannella si ringrazia per la collaborazione: l’UGIS (Unione giornalisti italiani scientifici, membro co-fondatore dell’europea EUSJA) e la sua presidente Paola De Paoli; la Fondazione Bernadotte e il Council for the Lindau Nobel Laureate Meeting (per saperne di più sulla loro attività: www.lindau-nobel.de). Le fotografie del servizio da Lindau sono di Christian Flemming e Mario A. Rosato Per l’articolo a firma di Alessandra Rotondi foto della stessa autrice Per l'articolo a firma di Alessia Cipolla foto di Vaclav Sedy Per l’articolo a firma di Alessandro Franceschini foto dello stesso autore Per l’articolo a firma di Elisa della Barba foto della stessa autrice Per l’articolo a firma di Sandro Camilli foto di Andrea Boccalini e Massimo Romanelli Per l’articolo a firma di Riccardo Castaldi foto dello stesso autore Si ringrazia Urbano Sintoni per il ritratto fotografico del presidente Terenzio Medri (editoriale) Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001 Associato USPI Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA € 20,00 ESTERO € 35,00 Intestare ad “Associazione Italiana Sommeliers – viale Monza, 9 – 20125 Milano” specificando il motivo del versamento da effettuarsi secondo una delle tre seguenti modalità: - pagamento tramite c/c postale 000058623208 - bonifico su Banco Posta, codice IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX) - bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano, IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) Stampa | Grafiche Parole Nuove Srl - Brugherio Milano Copie di questo numero | 40.000 Errata corrige | Nel numero 88 di luglio-agosto 2009 a pagina 38 è stato indicato erroneamente il prezzo del Lagone 2007 di Aia Vecchia. Il prezzo corretto è di € 5,90 + IVA a bottiglia. Ci scusiamo con gli interessati e con i lettori.

AIS 2009

Rinnovo quota associativa 2009 E’ possibile rinnovare l’iscrizione nei seguenti modi: Internet basta collegarsi al sito www.sommelier.it, cliccare su “Rinnovi Online” e seguire le istruzioni per effettuare il pagamento tramite Carta di Credito (escluso Diners Card).

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c/c postale n. 58623208 intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9, 20125 Milano”, indicare nella causale “Quota associativa 2009”. Bonifico presso Banco Posta intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers” IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX).

Bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano” intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers” codice IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) La quota associativa è di 80 euro e comprende l’abbonamento annuo alla rivista ufficiale AIS e alla Guida Duemilavini edizione 2010.


Sommario

Settembre / Ottobre 2009

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Storia, tradizioni e vino in Basilicata

RIONERO

14 ANCHE

VULTURE

PARERE DI

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ANGELO GAJA

30

SULLA RIFORMA

OCM

Alla conquista del continente IL CONCORSO

“MIGLIOR SOMMELIER D’EUROPA”

“El vin de Milan”

SAN COLOMBANO

AL

LAMBRO

E LA SUA

DOC

I premi Nobel danno l’allarme

CAMBIAMENTI CLIMATICI MINACCIANO ANCHE LA VITE

36 ROSSESE

44

Alla scoperta di una Doc storica DI

DOLCEACQUA

52

DA DEGUSTARE

Insieme ai cuochi della “Grande Mela”

“CHEFS & CHAMPAGNE”

IN SCENA A

NEW YORK

Arrivederci estate!

LOCALI DI SUCCESSO DELLA BELLA STAGIONE

56 IL MONTE VULTURE E RIONERO (PZ), SEDE DEL 43.MO CONGRESSO NAZIONALE

NAZIONALE

L’Europa sulla buona strada

A SAN MARINO

I

43.MO CONGRESSO

IL VINO HA I SUOI CONFLITTI DI INTERESSI

22

I

ACCOGLIE IL

Il rating delle etichette

20 IL

IN

LA

Merito di Caterina de’ Medici!

DEGUSTAZIONE DEI VINI DI

CARMIGNANO


Sommario

Settembre / Ottobre 2009

62 IL

I colori del deserto

TURISMO IN

68 IL

VINO, MEDICINA DEL PASSATO

Le ricchezze dell’Umbria

AMELIADOC

88

RADICI CRISTIANE NEL PANE E NEL VINO

Viticoltura agli antipodi

IL PINOT

48 72 74 76 78 80 98 112 114

DA SORSEGGIARE LENTAMENTE

“Prendete e mangiatene tutti”

94

All’interno

TRA STORIA E PROGRESSO

L’eredità dei faraoni

84 LE

MAROCCO

NERO DELLA

NUOVA ZELANDA

Architettura e vino

CONTINUA

Olio

CHE CREA LE DIFFERENZE

L’OLEOLOGO, L’ESPERTO

Birra

IL

PRIMO BREWPUB DI

Distillati Acqua

C’ERA

LISCIA

IL VIAGGIO NELLE CANTINE INNOVATIVE

MILANO

UNA VOLTA LA VODKA

O GASSATA?

Enopassione

DAL

SOFTWARE ALLA VIGNA

Sicurezza stradale Sullo scaffale Io non ci sto!

LE

IMPARIAMO

A USARE L’ETILOMETRO

NOVITÀ EDITORIALI

ABBASSARE

I PREZZI È NECESSARIO, SBRACARE È SUICIDA!


Congresso nazionale

Nuovo slancio al sistema-vino e ai suoi protagonisti

di Francesca Cantiani a Basilicata è una regione che sprigiona dalle sue strettoie un’intelligenza aspra, asciutta. È una terra intrisa di luce e di fascino ruvido, difficile da dimenticare. Sono gente fiera i Lucani, che hanno saputo mantenere la propria identità culturale basata su solide tradizioni e su un carattere ospitale e orgoglioso, ostinato e determinato, fondamentale per la sopravvivenza di un popolo. Dominazioni e inadempien-

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ze politiche non li hanno sopraffatti e sono riusciti a rimettersi in piedi anche su questa terra difficile, per la quale hanno sempre lottato aspramente e ricordato nel cuore. Oggi la Basilicata è una regione che sta riscoprendo le sue potenzialità, prima tra tutte la vocazione turistica, legata alle tradizioni e al ricco patrimonio artistico, paesaggistico ed enogastronomico. Infatti pur non essendo annoverata

tra le zone enologiche più ricercate, la Basilicata non solo produce buoni vini ma vanta l’origine di uno dei vitigni più apprezzati in tutto il mondo: l’Aglianico del Vulture Doc. Un territorio, dunque, tutto da scoprire e da rilanciare e che vede l’Ais tra i promotori di questa rinascita. È per questo motivo che proprio in questa terra generosa e dura si è deciso di organizzare il 43° Congresso nazionale dell’Associazione italiana sommelier.


L I Sassi di Matera Castelmezzano, uno dei borghi più pittoreschi d'Italia

«Vogliamo far scoprire la nostra regione, in un percorso che emozioni profondamente e che faccia apprezzare anche ai non addetti ai lavori il nostro panorama vitivinicolo, che vanta punte d’eccellenza» tiene a sottolineare Vito Giuseppe D’Angelo, presidente Ais Basilicata. Ma il congresso segna anche un momento importante per fare il punto dell’attività dell’Ais da sempre impegnata nel rilancio del vino italiano di qualità. «Il nostro

obiettivo primario è quello di essere leader in assoluto nel sistema vitivinicolo nostrano e internazionale. Attualmente godiamo la stima dei produttori, l’apprezzamento da parte dei consumatori ma non dobbiamo fermarci qui» spiega con forza il presidente dell’Ais nazionale, Terenzio Medri. «Da anni portiamo avanti un programma volto non solo a promuovere la qualità ma ad aprire questo mondo al grande pubblico. Perché il

vino, la sua cultura, il lavoro che sta dietro, dalla vigna fino al prodotto finito, deve essere patrimonio di tutti gli italiani. Sento con piacere l’orgoglio di chi oggi è sommelier e appartiene alla nostra associazione, che da decenni lavora per il vino a 360 gradi. Questo congresso segna l’occasione per promuovere nuove iniziative e per lanciare progetti che sappiano coinvolgere tutti i protagonisti del sistema-vino». Il programma prevede cinque giorni (30 settembre - 4 ottobre) densi di appuntamenti non solo tecnici ma anche turistici, che offriranno la possibilità di scoprire bellezze paesaggistiche e artistiche meno note al turismo di massa ma ugualmente indimenticabili. Come l’Abbazia di San Michele a Monticchio, che risale al VIII secolo d.C. e venne edificata attorno a una grotta dai monaci Basiliani per passare poi a diversi ordini monastici fino a quello militare costantiniano, che ne fu proprietario fino al 1866. Da non perdere anche i laghi di origine vulcanica immersi nel verde del Monte Vulture o la visita a Venosa, città natale del poeta latino Orazio, o al Castello di

Uno veduta di Melfi, dominata dal castello

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Congresso nazionale L Rionero e il Monte Vulture

Melfi, uno tra i più importanti di epoca medievale del Sud Italia, risalente al IX secolo a opera dei Normanni. Oppure una sosta a Rionero in Vulture, con la casa natale del senatore Giustino Fortunato, padre della questione meridionale, e luogo che vide la nascita del brigante-eroe Carmine Donatelli Crocco, che fu a capo di un vero esercito nel periodo post-unitario. E infine la passeggiata a Matera, nello splendido scenario dei Sassi, iscritti nel 1933

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nella lista dei patrimoni mondiali dell’umanità dell’Unesco, primo sito dell’Italia meridionale, scelti perché rappresentano un ecosistema urbano straordinario, capace di perpetuare il sistema abitativo dalle caverne della preistoria fino alla modernità. A Rionero in Vulture è prevista la cerimonia di apertura presso il Palazzo Giustino Fortunato, il più importante degli edifici signorili, con l’intervento delle autorità cittadine. Un’occasione importante per spiegare anche al mondo della politica la lotta che l’Ais da anni ha intrapreso per diffondere la cultura del bere sano, ora cavallo di battaglia anche dell’attuale governo, per insegnare ai giovani, ma non solo, che bere nel modo giusto significa ritrovarsi, riscoprire i valori della propria cultura. «La bottiglia deve essere al centro della convivialità» osserva il presidente Medri. «Non deve essere identificata con la paura dei prezzi, con la perdita dei punti della patente, con le stragi del sabato sera, non si deve insomma frantumare questo mondo prezioso, che è uno dei fiori all’occhiello del nostro Paese nel mondo. Per questo è essenziale che la nostra associazione, forte dell’esperienza maturata negli anni, si faccia promo-


L Uno dei laghi di Monticchio

L Vito Giuseppe D'Angelo, presidente Ais Basilicata

trice della capacità e della necessità della comunicazione tra tutti i soggetti interessati, dai produttori ai consumatori, rimanendo radicata alla realtà. A tale proposito sta maturando l’intenzione di convocare gli Stati Generali, perché solo dal coinvolgimento di tutti i protagonisti del sistema-vino si può dare nuova energia e trovare contenuti in grado di garantire l’eccellenza del prodotto e l’attenzione verso il consumatore». Un consumatore sempre più attento ed esigente per il quale occorrono esperti del vino preparati e in grado di parlare un linguaggio semplice ed efficace. E venerdì 2 ottobre, a Melfi, al ristorante “Relais La Fattoria” si terranno le selezioni per il concorso “Miglior sommelier d’Italia 2009”. I tre finalisti si disputeranno il titolo, vinto la scorsa edizione da Ivano Antonini, a Matera, all’Auditorium del Conservatorio “Duni”. Al vincitore verrà assegnato anche il Trofeo Guido Berlucchi, accompagnato da un sostanzioso premio. Una sfida sicuramente emozionante che permetterà di apprezzare le qualità dei candidati in degustazioni alla cieca, prove di servizio e correzioni della carta dei vini. Un altro esempio di come l’Ais miri ad ampliare la conoscenza e la cultura enologica e le capacità di chi si dedica

all’attività di sommelier. Una figura professionale ormai indispensabile che, con la sua autorevolezza, è diventata il tramite insostituibile tra il mondo dei produttori e i consumatori. Anche su questo punto il presidente Medri ha le idee chiare: «Il linguaggio deve essere rivisto nel prossimo futuro. Dobbiamo poter essere capiti da tutti, la cultura del vino che noi promuoviamo deve entrare nelle case degli italiani e l’Ais ne deve essere garante, come lo è sempre stata». Il presidente dell’Ais Basilicata D’Angelo mette in rilievo l’importanza e il ruolo che l’Ais è riuscita a conquistare nel panorama vinicolo. «Nella nostra regione abbiamo ormai un’immagine di competenza e di professionalità che ci viene riconosciuta dagli operatori del settore e dagli appassionati che sempre più numerosi ci seguono. La strada che l’Ais ha deciso di intraprendere promuovendo il bere consapevole da contrapporre ai “beveroni”, allo sballo e al consumo sregolato di superalcolici o di vino di scarsa qualità sta premiando i nostri sforzi». Il 43° congresso non è dunque un traguardo ma una tappa da cui rilanciare i grandi temi che contraddistinguono i contenuti e la cultura dell’Ais. 13


Vino e finanza

Rating: è bufera anche sul

vino

di Lorenzo Simoncelli

NEMMENO

LE AGENZIE

DI SCORE DEL VINO SEMBRANO ESSERE PRIVE DI CONFLITTI

E

D’INTERESSI. NELL’ERA DI

INTERNET 2.0

E DEI

SOCIAL NETWORK SONO ANCORA EFFICACI?

IN

ESCLUSIVA ECCO

L’OPINIONE DI

ANTONIO

GALLONI, DELLO STAFF DI ROBERT PARKER

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uando si parla di conflitto d’interessi chi è senza peccato scagli la prima pietra. Dalla politica all’economia, passando per la magistratura, sono pochi i settori in Italia e all’estero che riescono a evitare gli accumuli di incarichi per fini personali. Vino compreso. Lasciando da parte politica e magistratura, in ambito finanziario i soggetti più chiacchierati sono le agenzie di rating, quegli strumenti che soprattutto dopo Basilea 2, avrebbero dovuto suggerire ai risparmiatori, quanto fosse rischioso il loro investimento in titoli obbligazionari. Peccato che a pochi mesi dal crack della Lehman Brothers, le principali agenzie di rating Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch avessero stimato praticamente impossibile (A) il suo rischio di default. Dopo il fallimento di una delle principali banche d’affari americane la comunità finanziaria internazionale ha messo duramente sotto

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accusa le tre sorelle del rating per non aver tempestivamente informato risparmiatori e addetti ai lavori sulla reale solidità finanziaria della Lehman Brothers. Questo, insieme al consueto irrigidimento normativo di un post crisi, ha fatto sì che le agenzie di rating non fossero più considerate come in passato punti di riferimento per chi investe in titoli obbligazionari. Ma com’è potuto succedere? Il problema è strutturale, ed ecco che ritorna il conflitto d’interessi. Le società che commissionano il giudizio dei loro titoli alle agenzie di rating, sono anche quelle che pagano questo servizio, e allora si capisce che mettere un segno più al rating finale potrebbe anche dipendere da qualche biglietto verde in aggiunta da mettere sul tavolo. Anche se il tutto dovrebbe essere supervisionato dalla Sec (Securities and Exchange Commission), che probabilmente ha chiuso non uno, ma due occhi di troppo. Ahimè, anche il nostro amato vino di cui scri-


viamo sempre con passione su queste pagine non è estraneo al conflitto d’interessi. Anzi, forse operando un parallelismo tra vino e finanza, come cerco sempre di fare in questa rubrica, essendo meno regolamentato è proprio il mercato del vino ad essere più a rischio di impeachment. A differenza della finanza, infatti, “i servizi di rating” che danno giudizi, più o meno attendibili, sulla qualità del vino imbottigliato, sono molteplici. Anche qui a pagare, come nelle agenzie di rating tradizionali, è chi richiede la valutazione del prodotto, nel caso specifico le aziende vinicole. Ma a rendere meno limpido il tutto nel mondo del vino è la mancanza di un’autorità super partes, come la Sec nella finanza, che eviti potenziali conflitti d’interessi. Inoltre le agenzie di rating del vino forniscono informazioni limitate agli acquirenti, che nel momento in cui si trovano a comprare una determinata bottiglia vorrebbero conoscere esattamente la morfologia del vino (condizioni climatiche, tipologia di coltivazione d’uva etc…), cosa che spesso viene omessa nelle varie valutazioni. Come ovviare dunque al problema? In Francia, dove la produzione di vino è assai cospicua, esiste un comitato locale, detto il sindacato, che ha il compito di giudicare se il vino riflette accuratamente le indicazioni di uvaggio presenti sull’etichetta, ma anche qui i criteri utilizzati dal comitato non forniscono molte specifiche agli acquirenti finali. A differenza della finanza, esiste anche un ampio numero di servizi di rating finanziati da chi compra il vino. Tra i principali The Wine Advocate di Robert Parker, The Burghound di Allen Meadows e The Wine Spectator Magazine. Questi, i cosiddetti critici del vino, di cui Robert Parker è il più famoso, in cambio di una sottoscrizione annuale vanno ad assaggiare le varie cantine in giro per il mondo, fornendo un giudizio personale. Ma è giusto che la voce di un singolo critico possa influenzare il livello e soprattutto il prezzo di un’etichetta? Se poi pensate che Parker può arrivare a degustare fino a mille vini al giorno, siamo sicuri che la capacità di percezione non muti? Ma soprattutto nell’era di Internet 2.0 e dei

social network dove nascono fan club legati ai vini, su Facebook sono 19.083 i fan del Brunello di Montalcino, è ancora attuale questo metodo di valutazione? Sono passati 31 anni quando nel mondo della critica enologica stava per compiersi una grande rivoluzione: un certo Robert Parker decideva di dare dei voti alle etichette in scala da 1 a 100. Di per sé non una grande innovazione, visto che i vini venivano giudicati in base al sistema dei voti delle High School degli Usa. Fino a 50/100 il vino si può considerare difettoso, tra i 50/100 e gli 80/100 molto probabilmente andrà invenduto e solo superata la soglia dei 90/100 potrà entrare di diritto nell’olimpo dell’enologia. Con il passare degli anni si sono create delle alternative a questo sistema di valutazione: la scuola francese ha inventato la scala in ventesimi, poi è

L Robert Parker, il più noto “eno-critico”

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Vino e finanza L Antonio Galloni, stretto collaboratore di Robert Parker

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nato il sistema delle cinque stelle. Se dunque già in passato si è dubitato non poco sui metodi di assegnazione degli score del vino, negli ultimi anni con la diffusione dell’enofilia anche tra i meno esperti, l’edificio della critica del vino si sta pericolosamente crepando. Soprattutto dopo che l’autorevole Wall Street Journal ha duramente criticato l’imparzialità di Parker e della sua newsletter The Wine Advocate per aver scoperto che una casa vinicola australiana, la Wine Australia, ha finanziato con 25 mila dollari la trasferta in Australia del suo collaboratore Jay Miller. Fenomeno non isolato da quanto si legge nell’articolo del Wsj (http://onli-

ne.wsj.com/article/SB12433018307 4253149.html), visto che anche Mark Squires, un altro collaboratore di Parker, sarebbe andato in Portogallo, Grecia e Israele sempre pagato da enti governativi o aziende agricole. Noi di questo e molto altro ne abbiamo parlato in esclusiva con Antonio Galloni, uno dei nove esponenti del team di Robert Parker, specializzato nell’area italiana e dello Champagne. Molti dicono che il metodo di valutazione di Robert Parker è ormai vecchio, soprattutto nell'era del web 2.0: lei come risponde a queste critiche e perchè è ancora valido e affidabile? «Queste sono solamente delle osservazioni che ognuno è libero di fare. Penso che il nostro metodo di valutare i vini, con tante degustazioni e visite nelle regioni, sia abbastanza unico. Inoltre nelle aree vinicole più importanti al mondo, facciamo in aggiunta a quelle correnti delle degustazioni di annate storiche. Pubblichiamo tra le 12 mila e le 14 mila recensioni all’anno, oltre a tutto il materiale che c’è sul nostro sito www.erobertparker.com, incluso verticali e articoli su ristoranti. Non accettiamo pubblicità di nessun tipo, perciò siamo finanziati al 100% da abbonamenti. Siamo e rimaniamo prima di tutto dei consumatori e degli appassionati di vino. Personalmente in un anno compro molto vino, perciò se una bottiglia al quale ho dato un punteggio alto risulta poi deludente, sarò io tra i primi a non essere soddisfatto. Sicuramente la tecnologia sta cambiando il mondo in tutti gli aspetti. Abbiamo cercato di creare un sito molto interattivo per i nostri abbonati. Oltre al forum pubblico (aperto anche ai non abbonati) io gestisco uno spazio dedicato esclusivamente agli abbonati sulle regioni di mia competenza (Italia e Champagne) che penso sia totalmente unico nel mondo del vino. I lettori sono liberi di chiedermi tutto quello che vogliono, e ovviamente partecipo spesso ai dibattiti per tenere tutti i nostri lettori aggiornati. Questo forum chiamato “In the Cellar” è uno delle parti più seguite del sito. Oltre a questo ho una pagina su Twitter e un'altra su Facebook».


Il WSJ a giugno sulle sue pagine ha criticato il vostro sistema di valutazione dei vini affermando che alcuni membri dello staff di Parker, e quindi suoi colleghi, usufruivano di benefit (anche viaggi pagati) per andare ad assaggiare i vini. Lei non pensa che ci sia un po’ di conflitto d'interessi? «Si tratta di due episodi molto diversi sul quale Parker ha parlato ampiamente. Nel primo caso, uno dei nostri collaboratori, Mark Squires, ha accettato viaggi pagati da enti con il permesso di Parker per vedere regioni emergenti, come Israele e Portogallo, dove normalmente non avremmo potuto mandare uno del nostro staff. Ci sembrava un servizio aggiunto per i nostri lettori poter inviare qualcuno per vedere in prima persona queste aree, ma non avendo il budget per farlo, abbiamo accettato un supporto esterno. Non volendo creare neanche una piccola possibilità di conflitto d’interessi abbiamo deciso di sospendere tutto. Nel secondo caso, il mio collega Jay Miller ha accettato dei viaggi, oltre ad aver condiviso periodi di ferie con un importatore, che è un suo amico personale. Jay ha vissuto una vita nel mondo del vino e dopo decenni di attività diventa difficile sapere come e quando separare la vita professionale da quella privata. Da parte sua Jay si è scusato pubblicamente con i nostri lettori per valutazioni che potevano creare possibili conflitti d’interessi; Parker allora ha analizzato le recensioni di Jay con quelle che aveva fatto lui negli anni passati, naturalmente delle stesse regioni, cioè Spagna e Australia, e ha notato che nella maggioranza dei casi i punteggi erano molto simili tra loro. Parker ha anche dichiarato pubblicamente che licenzierebbe subito chiunque dei suoi collaboratori nel caso di conflitti d’interessi». Come il mondo del vino ha attraversato la crisi economico-finanziaria degli ultimi due anni? I fondi di investimento in vino non sembrano averne risentito troppo, ma la vendita al dettaglio? «Il vino continua a passare un momento estremamente difficile in tutto il mondo. Negli USA la vendita di etichette sopra i 25 dollari è bloccata. Questo vale per tutti i paesi e

L La tabella di riferimento di Robert Parker per valutare i vini

per tutte le categorie, cioè per i vini italiani, francesi, americani, etc. In questo momento il consumatore sta scegliendo di spendere meno o di bere vini che aveva già in cantina. Lo stesso discorso vale per i ristoranti dove comunque si lavora abbastanza bene, ma il prezzo medio delle bottiglie vendute è calato in modo drammatico. I miglioramenti della tecnica in vigna e in cantina, le condizioni climatiche in genere più favorevoli che mai (soprattutto in zone fresche tipo Bordeaux, Borgogna e Piemonte) e l’aumento di qualità nella produzione nei paesi del nuovo mondo hanno creato una situazione dove non è necessario spendere molti soldi per bere bene. Lo stress sul rallentamento delle vendite adesso incomincia a vedersi sulla vulnerabilità degli ope-

ratori (importatori, distributori, enoteche) del mondo del vino. Ovviamente i produttori vendono meno di prima, una condizione che rende difficile gli investimenti futuri e mette a rischio i programmi già presi quando le previsioni erano più rosee. Gli importatori eliminano aziende che hanno nel loro portafoglio, tagliano gli ordini anche ai produttori con i quali lavorano bene, gli importatori e i distributori fanno fatica a pagare la merce e non mi sorprenderà se qualche azienda fallirà». Come stanno andando i vini italiani sia da un punto di vista qualitativo che di distribuzione? «Il vino italiano ha due grandi vantaggi. Il primo è che si abbina molto bene al cibo, e questo fa sì che la cul-

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Vino e finanza tura mediterranea rimanga molto popolare negli Usa e nel resto del mondo. Il secondo punto di forza è la diversità di un Paese con tante regioni e vitigni diversi». I rossi italiani sono da sempre in grande competizione con i rossi francesi. Che cosa ne pensa lei? Può fare il nome di qualche etichetta italiana che le piace particolarmente? «Ovviamente i più grandi vini italiani possono fare concorrenza ai più grandi vini di qualsiasi altra regione del mondo. A questi livelli conta soprattutto la reputazione delle cantine. In questo contesto, è il Piemonte che chiaramente rappresenta la leader-

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ship per i vini da collezione negli Usa, con aziende come Gaja, Bruno Giacosa, Giacomo Conterno e Luciano Sandrone, oltre a molti altri. Il Brunello di Montalcino è anche molto popolare negli Usa, ma è in una categoria dove c’e interesse solo delle annate di rilievo. A questi si aggiungono altri nomi importanti tra cui Romano dal Forno, Quintarelli e le grandi aziende Toscane come Ornellaia, Tua Rita, Antinori e altre. Il sud ha ancora un po’ di strada da fare, ma sono sicuro che riuscirà». Quale Nazione la sta colpendo di più e quali sono gli scenari futuri di crescita per questi Paesi? «C’è una possibilità di crescita enor-

me, ma è importante che questa avvenga in modo graduale e sostenibile, altrimenti si verrà a creare un’altra bolla. Penso che in questi tempi si capisca quanto sia duro attraversare un periodo di correzione. Da quanto mi dice la collega Lisa Perrotti-Brown, che copre l’Asia, c’è molto interesse in questi Paesi, soprattutto per i vini con marchi prestigiosi. Non avendo una propria cultura enologica, hanno dovuto costruire tutto da zero, un po’ come è succeso negli Usa molti anni fa. C’è inoltre grande rispetto per il vino, come mantenerlo, come servirlo, soprattutto nei ristoranti, cosa che secondo la mia opinione rimane uno dei punti deboli della ristorazione italiana».


L’opinione

L’

Unione europea

promossa a pieni voti di Angelo Gaja e norme dettate dalla commissione agricola di Bruxelles venivano spesso accolte da sfottò, ironia, sarcasmo. Quel voler legiferare sulla lunghezza e curvatura dei fagiolini verdi, sul colore del guscio delle uova, su forma e calibro dei pomodori con la pretesa di stabilire quali di questi prodotti fossero commerciabili e quali altri no appariva quanto meno bizzarro. Quella introdotta da Bruxelles il 1° agosto è una riforma vera, che si ispira al buon senso – merce rara al giorno d’oggi – e pone termine a trent’anni di spreco di denaro pubblico. Da soli i Paesi del vino non ce l’avrebbero fatta mai: va reso merito ai Paesi del nord Europa. Certo, si è dovuto pagare il prezzo di una eccessiva liberalizzazione ma di questa è responsabile anche l’Italia per essere stata lungamente latitante al tavolo delle trattative. C’è una buona ragione in più per sentirci europei.

L

III C’È‘ MOLTO DI BUONO NELLA NUOVA OCM VINO Come dirlo? Ci provo con i voti. Il primo agosto 2009, Voto 10 per la puntualità, in barba ai furbetti dei rinvii sono entrate in vigore le nuove norme elaborate dalla commissione agricola di

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Bruxelles che regoleranno il mercato del vino europeo (Ocm vino). Per comprendere la partita che si è giocata a Bruxelles occorre fare qualche passo indietro e seguire la pista dei sussidi agricoli comunitari: quelli ingenti riservati al comparto del vino europeo venivano per oltre il 75 % destinati alla distruzione delle eccedenze, spesso costruite ad arte. A finanziare i sussidi comunitari contribuiscono per quota parte ciascuno degli Stati dell’Europa unita: appena qualche anno fa l’Inghilterra di Blair tuonava contro lo sperpero dei contributi agricoli comunitari e proponeva di dimezzarne l’importo. Bruxelles ha saputo cogliere il momento favorevole e attuare una profonda riforma che passa attraverso una serie di norme atte a riequilibrare il mercato disincentivando la sovra-produzione vinicola; Voto 10 per l’eliminazione dei sussidi destinati alla distruzione delle eccedenze; Voto 8 per i premi all’estirpazione dei vigneti; Voto 8 per il contenimento della pratica dello zuccheraggio dopo averne minacciato la totale eliminazione; Voto 9 per la progressiva riduzione sino alla totale eliminazione dei sussidi al Mosto Concentrato Rettificato (Mcr). I contributi recuperati verranno destinati, Voto 7, alla promozione del vino europeo nei mercati extra-comunitari senza però che siano stati previsti adeguati sistemi di vigilanza. È auspica-


L Angelo Gaja e Terenzio Medri

bile che gli sprechi del passato insegnino qualcosa. Al tavolo delle trattative fecero sentire la loro voce tutti gli Stati europei, anche quelli che non producono vino ma sono invece produttori di spiriti. La nazionale degli spiriti è potentissima nel centro-nord Europa e guarda con crescente interesse a espandere gli investimenti nel settore del vino europeo. L’occasione era buona per allearsi con quelli che più o meno sommessamente già invocavano una liberalizzazione del mercato. Voto 5 allo scioglimento di vincoli e lacci vari e all’ampliamento delle pratiche di cantina riconosciute legali. Accese polemiche hanno accolto in Italia queste ultime norme: alcune di esse però non entrerebbero in vigore prima di una decina di anni mentre per altre, che non sono strettamente vincolanti e dovranno essere accolte dal nostro ordinamento, esistono margini di trattativa che andranno esplorati. Quale fu l’atteggiamento dell’Italia nel corso delle trattative? A gufare contro il vento della riforma fin dal nascere fu la poderosa compagine dei succhiatori perenni di denaro pubblico. Si esultò prematuramente non senza ambiguità per il ripetuto tentativo che Bruxelles fece di abolire lo zuccheraggio come fosse una vittoria nostra in grado di giovare al Mcr italiano; per il resto ogni provvedimento di quelli in discussione veniva liqui-

dato con critiche severe. Al tavolo delle trattative l’Italia si autoescluse, si ridusse a giocare un ruolo marginale senza mai riuscire a incidere sulle questioni di nostro specifico interesse. Dilaniata dalle divisioni delle varie associazioni di categoria, accanite nella difesa dei rispettivi interessi e incapaci di tessere tra di loro uno straccio di accordo da affidare ai negoziatori incaricati di rappresentare il nostro Paese; con scarsa autorità morale per avere in passato beneficiato e fatto largo spreco di contributi comunitari; arroccata in difesa del Mcr per la produzione del quale succhiava sussidi anno dopo anno. Venne sottovalutato il peso che la nazionale degli spiriti avrebbe avuto nel corso delle trattative: ma questa è l’Europa e occorre prendere atto che le questioni del vino in futuro non verranno più discusse soltanto dal nostro Paese, Francia e Spagna. L’Italia perse malamente la partita ma il torneo europeo durerà ancora a lungo e per riprendere a competere bisogna rimediare ai molti errori commessi: rifare la squadra da inviare a Bruxelles, precisare gli obiettivi, ridisegnare la strategia delle alleanze senza scordare che è la Francia la naturale alleata dell’Italia. L’avvio è da Voto 10 per l’avvenuta nomina dell’ex-ministro Paolo De Castro alla presidenza della commissione agricoltura del Parlamento europeo, ma è solo l’inizio.

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Wsa

A San Marino la Champions

League

dei sommelier di Emanuele Lavizzari

migliori sommelier del Vecchio Continente si danno appuntamento nella più antica repubblica del mondo. Dopo il titolo assegnato nella passata edizione a Londra, la prestigiosa competizione internazionale giunge quest’anno a San Marino. Sarà una tre giorni entusiasmate quella che dal 13 al 15 novembre vedrà coinvolti i concorrenti più qualificati in una serie di dure prove per l’assegnazione del titolo di “Miglior Sommelier d’Europa”. Lo straordinario evento è stato organizzato dalla Worldwide sommelier association, dall’Associazione italiana sommeliers e dall’Associazione sommelier della Repubblica di San Marino con il patrocinio delle Segreterie di Stato di “Territorio, Ambiente e Agricoltura”, “Turismo” e “Istruzione e Cultura”, istituzioni corrispondenti ai nostri ministeri. Ai blocchi di partenza saranno presenti tutti i big del settore. Il nostro Paese sarà rappresentato da Luca Gardini. A lui è affidata la responsabilità di portare in alto i colori italiani e siamo certi che il giovane sommelier romagnolo abbia tutte le carte in regola per giocarsi il gradino più alto del podio. Gli altri concorrenti che animeranno la competizione provengono dagli altri Stati membri della Wsa, ma ne vedremo anche di nuovi. Il campionato vuole essere infatti motivo di allargamento verso altre associazioni che al momento non fanno ancora ufficialmente parte della Worldwide sommelier association, ma che hanno già espresso l’intenzione di unirsi e di promuovere corsi e attività all’interno dei propri confini. I candidati provengono da rigorose selezioni nazionali e per questo i contenuti tecnici della competizione saranno elevatissimi.

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L Roger Viusà, campione europeo Wsa nella precedente edizione del concorso

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L’ASSALTO ITALIANO AL TITOLO CONTINENTALE Luca Gardini sarà il portabandiera della sommellerie italiana. Originario di Ravenna, si è formato presso l’Istituto Tecnico Agrario Luigi Perdisia. È diventato sommelier professionista poco più che ventenne dopo anni di gavetta tra hotel e ristoranti della Romagna. Tra le sue esperienze professionali non si può non ricordare quella come chef sommelier presso l’Enoteca Pinchiorri, il famoso Tre Stelle Michelin in pieno centro storico a Firenze. Attualmente ricopre lo stesso ruolo al Cracco Peck di Milano. È difficile tenere il conto dei concorsi in cui si è imposto: Nebbiolo 2003, titolo regionale e Master Sangiovese nello stesso anno, Miglior Sommelier d’Italia 2004, Premio alla Carriera Ais 2005 e altri concorsi che non riportiamo per motivi di spazio! L Luca Gardini

III Alla scoperta di San Marino Il concorso sarà anche motivo per conoscere da vicino una nazione a tutti gli effetti straniera, con il suo patrimonio storico, artistico, culturale e, dulcis in fundo, enogastronomico. L’indipendenza del Paese ha origini antichissime, tanto che San Marino è ritenuta la più antica repubblica esistente. La tradizione fa risalire la sua fondazione al 3 settembre 301 dopo Cristo, quando il Santo che porta lo stesso nome, un tagliapietre dalmata dell’isola di Arbe fuggito dalle persecuzioni contro i cristiani da parte dell’imperatore romano Diocleziano, stabilì una piccola comunità sul Monte Titano, il più alto dei sette colli su cui sorge la Repubblica. La proprietaria dell’area, la benestante Donna Felicissima di Rimini, donò il territorio del Monte Titano al gruppo di cristiani, che lo chiamarono in memoria del fondatore “Terra di San Marino”. Il santo prima di morire avrebbe, secondo la leggenda, salutato i suoi seguaci nel modo seguente: «Relinquo vos liberos ab utroque homine» («Vi lascio liberi dall’uno e dall’altro uomo»). Ovvero liberi dall’Imperatore e dal Papa. Parole che sono il fondamento dell’indipendenza della Repubblica, come testimoniato da un documento di un processo per la mancata riscossione dei tributi svoltosi nel 1296 (circa mille anni dopo la morte del Santo) presso il convento di Valle Sant’Anastasio: «Non pagano perché non hanno mai pagato. È stato il loro Santo a lasciarli liberi». Enclave all’interno dei confini italiani, San Marino ha un’estensione territoriale di soli 61 km², popolati da poco più di 31 mila abitanti. A partire dal 2008 il centro storico della città di San Marino e il Monte Titano sono stati inseriti dall’Unesco fra i patrimoni dell’umanità. La motivazione data dal comitato parla di «testimonianza della continuità di una repubblica libera fin dal Medioevo». 23


Wsa

III La vite e il vino La prima documentazione storica che testimonia l’importanza della vite risale al XIII secolo. Più precisamente, in un contratto di vendita datato 1253, si cita l’esistenza di vigne su terreni agricoli del Castello di Casole, venduti dal Conte Taddeo di Montefeltro al Sindaco Oddone Scarito. Successivamente, come risulta dagli statuti del 1352-53, le vigne vengono protette da specifici articoli che prevedono pene pecuniarie a chiunque le danneggi. Poi, negli statuti del 1600, si indicano i lavori da svolgersi nelle vigne e le pene per i rivenditori di vino “annacquato”. Il 1775 segna la costituzione del primo Catasto Rustico della Repubblica di San Marino, che testimonia un investimento viticolo di 600 ettari. Diversi documenti del periodo attestano che i vitigni più comuni sono il Canino bianco, il Biancale, il Trebbiano, il Moscatello bianco e nero, l’Aleatico, l’Albana, il Sangiovese e che le viti vengono coltivate basse, “all’altezza di due palmi da terra”, oppure “maritate agli aceri”. Nei vigneti sono sempre presenti ulivi e piante da frutto. I vini ottenuti sin da quei tempi sono assai pregiati, come dimostra il commercio giunto fino alla città di Venezia. Sul finire del 1800 Borgo Maggiore diviene il centro commerciale della Repubblica di San Marino e accentra a sé ogni produzione e scambio di merci. Qui sono collocate freschissime cantine e grotte incuneate nelle profondità dei monti, dove i vini sammarinesi possono affinarsi. Si ritrovano, oltre al Sangiovese, vari vini bianchi di particolare pregio. Il famoso “Moscato sammarinese” si afferma in questo periodo, acquistando subito grande notorietà. I turisti che da Rimini salgono a San Marino su carrozze e cavalli sostano lungamente alle “Grotte”, riposandosi e deliziandosi con il caratteristico prodotto locale che costituisce anche l’oggetto di grandi affari nelle giornate di fiera e di mercato. Significativi riconoscimenti vengono conferiti negli anni 1878, 1889 e 1890, all’Exposition Universelle de Paris, in cui vengono premiati alcuni produttori sammarinesi con medaglie d’argento e di bronzo per campioni di vini bianchi e Sangiovese. Nel 1974 si avvia la valorizzazione del patrimonio vitivinicolo sammarinese. Lo Stato inizia un importante lavoro di selezione clonale che porta al recupero del patrimonio autoctono per la sua propagazione nei nuovi vigneti. Di seguito i viticoltori, consapevoli dell’importanza di tale ricchezza, si alleano creando una nuova forma associativa. Nasce così nel 1976 il Consorzio Vini Tipici. Le leggi e i decreti, successivi a questa data, fondano le basi per il riconoscimento ufficiale della viticoltura della Repubblica di San Marino. La Legge del 31 ottobre 1986 n. 127 sulla viticoltura e produzione di vini nasce dopo 12 anni di ricerca e sperimentazione e può essere considerata lo strumento base per la valorizzazione delle produzioni vinicole sammarinesi. Questa legge istituisce il Marchio di Identificazione di Origine

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L Il Castello di San Marino

per i vini ottenuti secondo le norme stabilite nei disciplinari di produzione. Vengono inoltre previsti controlli che coprono l’intero ciclo di lavorazione dei vini, partendo dal vigneto per giungere al prodotto finale. Le verifiche vengono effettuate da organi tecnici e operativi dello Stato a garanzia delle produzioni e a tutela dei consumatori. L’istituzione del Catasto Vigneti, previsto dalla già citata “Legge generale sulla Viticoltura e produzione del vino” del 31/10/86 n. 127, rileva attualmente la presenza di 574 vigneti per una superficie complessiva di circa 200 ettari: il totale della produzione è costituito per il 65% da uve nere (principalmente Sangiovese), il 28% da uve bianche (principalmente Biancale) e il 7% da uve Moscato. La maggior parte di questi terreni, compresi nei territori dei Castelli di Serravalle, Domagnano e Faetano, sono situati sul versante orientale del Monte Titano, lungo superfici che degradano verso l’Adriatico a una distanza media di quindici chilometri dal mare e a un’altitudine compresa tra i 100 e i 400 metri. I vitigni ammessi alla coltivazione nel territorio sammarinese sono Biancale, Moscato, Ribolla, Canino, Cargarello e Sangiovese. Vi è stata anche l’introduzione sperimentale di Chardonnay, Pinot bianco e nero, Pignoletto, Sauvignon, Vermentino, Ancelotta, Syrah e Cabernet Sauvignon. Il Consorzio Vini Tipici vanta attualmente oltre trecento soci, in grado di conferire annualmente 14.000 quintali di uve, mentre la produzione totale è stimata in circa 20.000 quintali. Oltre ai vini a Identificazione d’Origine, si producono anche ottimi vini da tavola, vini frizzanti e spumanti. Tutti prodotti che vengono commercializzati principalmente sul territorio sammarinese e italiano ma anche in Paesi come Germania, Svizzera, Belgio, Giappone, Usa e Brasile. I viticoltori sammarinesi, seppur eterogenei, condividono una matrice comune: la tradizione secolare, la tenacia e la passione che dedicano alla coltivazione della vite. Un rapporto sentimentale ampiamente corrisposto da nobili vini che, grazie a un’ottima qualità, sono capaci di accompagnare ed esaltare ogni tipo di cucina.

IL PROGRAMMA VENERDÌ 13 NOVEMBRE Arrivo dei membri WSA, candidati e ospiti Previsto transfer con bus navetta da Aeroporto e stazione ferroviaria di Rimini Sistemazione in Hotel Ore 17.30 Saluto di benvenuto delle autorità di San Marino presso un castello o un palazzo storico (con l’esibizione degli sbandieratori di San Marino) Ore 19.30 Cena di benvenuto presso Ristorante La Fratta. SABATO 14 NOVEMBRE Ore 9.30 Percorso storico per San Marino Ore 10.00 Prove di Semifinale Miglior Sommelier d’Europa 2009 (per gli addetti ai lavori) Ore 11.30 degustazione di un grande vino storico di San Marino (Moscato Spumante a Identificazione d’Origine) Ore 13.00 Pranzo nei ristoranti di San Marino Ore 17.00 Convegno “Consorzio Vini: 30 Anni di Viticoltura a San Marino”, i vini di San Marino nel panorama enologico internazionale con interventi di autorità, giornalisti, esperti del settore (moderatore Franco Maria Ricci) Presentazione del concorso fotografico/artistico e presentazione bottiglia inedita con l’etichetta vincitore del concorso Ore 19.00 Visita alla mostra

Ore 20.00 Buffet prodotti tipici (serata con cabaret e musica) DOMENICA 15 NOVEMBRE Mattinata libera (percorso enogastronomico) Ore 13.00 Pranzo nei ristoranti di San Marino Ore 15.00 Palazzo dei Congressi: proclamazione dei tre finalisti Ore 15.30 Prove pubbliche: Finale Miglior Sommelier d’Europa Wsa 2009 Ore 20.30 Cena di Gala, proclamazione del vincitore e consegna dei premi LUNEDÌ 16 NOVEMBRE Partenza per le rispettive sedi Transfer con bus navetta per aeroporto e stazione ferroviaria di Rimini

Per informazioni e prenotazioni, segreteria organizzativa: Vip Incentive House Tel. (+378) 0549.906353 – Fax (+378) 0549.875280 concorsowsa.rsm@vip-incentive.com 25


San Colombano

El vin de Milan LA DI

STORIA TRAVAGLIATA MA A LIETO FINE DI UNA CANTINA

SAN COLOMBANO

CHE IL GIORNALISTA

AL

LAMBRO,

BRERA

DOVE SI PRODUCE QUELLO

AVEVA SOPRANNOMINATO IL VINO DI

MILANO

di Cesare Pillon

Q

uando nell’aprile dell’anno scorso il gruppo di degustatori ufficiali dell’Ais Lombardia andò alla scoperta dei vini meno noti della regione, scelse San Colombano al Lambro come prima tappa per capire come mai quello che il giornalista Gianni Brera aveva battezzato “el vin de Milan”, è invece un illustre sconosciuto anche nel capoluogo lombardo. Lo è, aveva spiegato il direttore del Consorzio di tutela, Marco Tonni, perché la zona di produzione è troppo piccola e le risorse per farla conoscere troppo scarse: ci vorrebbe, aveva sostenuto, un’azienda di adeguate dimensioni che ne promuovesse la conoscenza con l’impatto di una produzione di qualità quantitativamente significativa. Proprio quest’anno un’azienda con queste caratteristiche è entrata in scena. Ce la farà? Si chiama Poderi di San Pietro, ma non è nata adesso. Creata nel 1998, la sua crescita ha subito una brusca interruzione un paio d’anni fa: coinvolta nei guai giudiziari del proprietario, finito in tribunale per un complicato dissesto, è stata posta in vendita per sanare i debiti provocati dal crac. L’anno scorso perciò nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul suo futuro, anche perché la società Neuroni Agrari, che aveva vinto l’asta giudiziaria, risultava di proprietà di due personaggi, Modesto Volpe e Giuseppe Apicella Guerra, del tutto estranei al mondo del vino: un imprenditore industriale e un ex-dirigente bancario ch’era facile presumere fossero scesi in campo spinti soltanto da motivazioni speculative. 26

Le cose infatti stavano proprio così, e c’è voluto un miracolo per cambiarle. Il miracolo è avvenuto perché i due nuovi proprietari si sono accorti della fortuna che avevano avuto acquisendo un’azienda dalle straordinarie potenzialità e si sono resi conto che quel colpo di fortuna era stato raddoppiato da un vincolo imposto dal tribunale, quello di non licenziare almeno per un anno neanche uno dei dipendenti, una ventina. Quella che sembrava una condizione capestro non aveva soltanto facilitato il loro successo nella gara all’incanto inducendo molti potenziali acquirenti a disertarla, ma aveva consegnato nelle loro mani un patrimonio umano e professionale di inestimabile valore. “Nei lunghi mesi della vicenda giudiziaria e dell’amministrazione controllata è stata proprio quella squadra di dipendenti a mantenere integro il valore dell’azienda”, raccontano Volpe e Apicella: “hanno continuato tutti a lavorare anche quando sono rimasti senza retribuzione per un anno: per aiutare quelli tra loro maggiormente in difficoltà hanno perfino organizzato delle collette. A questo punto noi due soci ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: no, non possiamo tradire le speranze di chi ha dato una simile prova di generosità e di passione. E ci siamo impegnati a gestire i Poderi di San Pietro mettendo in campo tutte le nostre capacità, per farne un’azienda pilota, un centro di promozione del territorio”. La loro prima mossa, dotare la cantina di un enologo di grande prestigio, l’avevano progettata come opera-


zione d’immagine. Temevano di dover vincere chissà quali resistenze, erano preparati anche a ricevere un rifiuto: non si aspettavano che un personaggio famoso e ricercato come Donato Lanati si entusiasmasse invece scoprendo che quella sconosciuta azienda del microcosmo di San Colombano al Lambro disponesse di una delle cantine tecnologicamente più attrezzate d’Italia per produrre qualità, ma soprattutto possedesse 75 ettari di terreno, di cui 66 vitati, nelle migliori posizioni, che le permettono di produrre 500 mila bottiglie all’anno, e di alto profilo. “Quel che mi ha colpito di più, infatti”, racconta Lanati, “è la potenzialità di questa microzona. Non esagero: è uno dei territori più vocati alla vitivinicoltura che io abbia conosciuto. E a me la collina di San Colombano ricorda Pantelleria: è un’isola verde di vigneti e di boschi nel mare giallo della pianura cerealicola”. Secondo i geologi quella collina è stata creata da un movimento tellurico che l’ha fatta emergere dal mare in epoca preistorica. Forse durante il Miocene, forse in un’era successiva, come fanno pensare conchiglie e coralli ritrovati nel territorio e conservati nel locale Museo paleontologico e archeologico Virginio Caccia. “Qualunque fosse l’epoca”, dice il direttore tecnico dell’azienda, Danilo Gilberti, “l’origine di suolo e sottosuolo è stata sicuramente questa. Lo testimoniano le quattro fontane che sgorgano nel comune: una è sulfurea, l’altra salso-bromo-jodica, sono quattro acque termali diverse, ma tutte di origine marina”.

Insieme al clima, sono quel suolo e quel sottosuolo particolarissimi a determinare la vocazione enoica dei 12 chilometri quadrati del rilievo collinare. La leggenda vuole che a insegnare come si coltiva la vite alle popolazioni stanziate tra il Po e il Lambro sia stato San Colombano, il monaco irlandese che all’inizio del VII secolo evangelizzò il territorio che da lui ha poi preso il nome. Ma parecchi reperti conservati nel Museo Virginio Caccia, anfore vinarie e attrezzi di cantina d’epoca romana, dimostrano invece che la vite veniva coltivata già molto tempo prima, per trarne vino, sui colli banini (si chiama banino tutto ciò che si riferisce a San Colombano, abitanti compresi). In ognuno dei 28 vigneti dei Poderi di San Pietro vengono coltivati i vitigni più adatti per quel determinato terreno e per il suo microclima. In qualche località hanno trovato il loro ambiente ideale le varietà prescritte per la Doc San Colombano, e cioè Barbera, Croatina e Uva rara, in altre maturano meglio le uve nere internazionali, il Cabernet sauvignon, il Merlot, il Pinot Nero. Ma quali sono i vitigni tradizionali e quali gli innovativi? Non è detto che la risposta giusta sia quella dettata dal disciplinare della Doc. ”Lo testimonia uno dei nostri vigneti di più vecchio impianto”, spiega il direttore Gilberti: “Che è di Malbec, non di Barbera. Fino ai primi anni Cinquanta i vigneti di San Colombano si estendevano su mille ettari, mentre oggi arrivano sì e no a 300. Ad abbandonare allora l’agricoltura per andare a lavorare a Milano furono i giovani, ed è comprensibile che gli anziani rimasti sulla terra abbiano preferito coltivare le viti più produttive, che sembravano garantire un maggior reddito, scartando quelle più nobili, che rendevano meno. Come il Malbec”. Sono i vigneti, comunque, e non i vitigni, a dare il nome ai vini dell’azienda. Delle tre versioni del San Colombano rosso a Doc, quella frizzante si chiama Balestra perché le uve che gli danno vita provengono da quella località, e per lo stesso motivo il vino fermo si chiama Collada e la Riserva prende nome dal Monastero di Valbissera. Il rosso più ambizioso della casa è però il Trianon, un taglio bordolese maturato in barrique (60% Cabernet Sauvignon, 40% Merlot) commercializzato come Collina del Milanese Igt (Indicazione geografica tipica). È proprio il Trianon, per ora, a dare le maggiori soddisfazioni: il primo aprile scorso il millesimo 2003 ha ottenuto la menzione d’onore al Concorso enologico internazionale che precede il Vinitaly. “Ed è un vino che non abbiamo fatto noi: ce lo siamo trovato in cantina”, commentano soddisfatti Volpe e Apicella. “Il che significa che disponiamo di una materia prima d’altissimo livello”. L’azienda non produce San Colombano bianco a Doc perché il disciplinare impone di utilizzare il 10% di Pinot nero che va vinificato in assenza delle bucce, ma per quanta cura si ponga in questa operazione è sem27


San Colombano

IL CASTELLO Di origine longobarda, fu distrutto e riedificato da Federico Barbarossa e in seguito ampliato dai Visconti. I possedimenti e il castello furono donati dal monarca al conte Ludovico Belgioioso; rimasero proprietà della casata, con alterne vicende, sino alla prima metà del XX secolo. L'antico borgo agricolo di San Colombano sorse ai piedi dell'omonimo sistema collinare che si eleva inaspettato tra la pianura lodigiana e la bassa pavese a testimonianza del ritirarsi del mare dalla pianura padana e oggi ricco di dolci e suggetivi vigneti. Il piccolo borgo si dispone intorno al Castello che prese il nome dall'ipotetico soggiorno del monaco irlandese che nel 595 fondò il monastero di Bobbio e che secondo la tradizione insegnò agli abitanti la coltivazione della vite. Della fortificazione si hanno notizie fin dall'età longobarda; alle dipendenze della Signoria Milanese, nel 1164 fu distrutta e in seguito riedificata da Federico Barbarossa. Nel 1396 il castello fu assegnato da Gian Galeazzo Visconti alla Certosa di Pavia che lo tenne fino alla sua soppressione nel 1782. La fortificazione diventò in seguito dimora dei Barbiano Belgioioso che compirono diversi interventi di restauro. Il castello fu poi acquistato dalla parrocchia e molte delle sue parti furono demolite.

pre necessario procedere poi alla decolorazione. Rientrano perciò nell’Igt Collina del Milanese sia il bianco frizzante Serafina che il fermo Morosa e il passito Solarò. Solo quest’ultimo è ricavato esclusivamente da uve autoctone (con prevalenza di una varietà locale, la Verdea): negli altri due la presenza dominante è di Chardonnay. E a base di Chardonnay (85%) con un po’ di Trebbiano è anche il Brut metodo Martinotti Ca’ della Signora che completa la gamma. La completa solo attualmente, però, giacché Lanati sta per ampliarla preparando nuovi prodotti. E le novità che ha in serbo per il prossimo futuro sono sorprendenti: sta mettendo a punto due ambiziosi spumanti metodo classico. Uno è rosato e scaturisce dalle uve meno prevedibili, quelle di nebbiolo. La prima cuvée sperimentale manifesta già adesso, con i suoi intensi sentori di ribes, una personalità fuori del comune, che il prolungato soggiorno in bottiglia renderà ancora più affascinante. San Colombano al Lambro dista da Milano una quarantina di chilometri, ma la visita della cantina dei Poderi di San Pietro giustifica il viaggio. Tutta in acciaio inox, è un autentico gioiello di razionalità ed efficienza, articolata con decine di fermentini a temperatura controllata e vasche di stoccaggio saturate con azoto, in modo da vinificare separatamente ogni varietà d’uva d’ogni parcella, e poi di conservarne il vino proteggendolo dall’ossidazione prima di affinarlo in una monumentale barricheria termocondizionata dal pavimento al soffitto. Ma la tecnologia non fa battere il cuore agli appassionati del vino. Volpe e Apicella, che lo sanno benissimo, fanno appello perciò a tutt’altri stimoli per portare la gente in azienda. La loro invenzione più brillante è il Mercato in Cantina: ogni prima domenica del mese mettono gratuitamente a disposizione dei produttori di eccellenze alimentari del territorio alcune bancarelle, nel cortile quando fa bello o in uno spazioso salone quando piove. I visitatori, che giungono numerosi da Milano, hanno così la possibilità di acquistare latte crudo, yogurt, formaggio grana e raspadura, salumi, pane, pizza, focaccia, frutta e verdura. E naturalmente vino. Ma non solo dei Poderi di San Pietro: anche di tutte le altre aziende di San Colombano che aderiscono all’iniziativa. “Lo dicono tutti che bisogna fare sistema”, iro-

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nizzano Volpe e Apicella. “Noi proviamo a farlo sul serio”. Li ispira soprattutto la vendemmia, che quest’anno segnerà una svolta: sarà una vendemmia solare. Merito dei pannelli fotovoltaici che installa una delle aziende di Volpe, la V.T. Energy, con cui sono stati ricoperti i tetti della cantina. “Producono energia sufficiente per far funzionare tutti gli impianti durante la spremitura delle uve e la fermentazione dei mosti”, spiegano i due proprietari. “Da quest’anno, insomma, il sole che ha fatto maturare le uve fornirà anche la corrente elettrica necessaria per vinificarle. I nostri saranno davvero i vini del sole”. Per sottolineare questo evento Volpe e Apicella metteranno in azione tutte le strutture di cui dispongono, a cominciare dal loro Château, il Trianon, un hotel di charme a tre stelle ricavato da una villa d’inizio 900 sulla sommità della collina: 10 camere arredate con gusto, dotate d’ogni comfort. Non sarà difficile coinvolgere gli ospiti nel clima della vendemmia: l’albergo è immerso nei vigneti. E proprio nei vigneti del Trianon i due intraprendenti soci hanno deciso di realizzare, a fine settembre, un’altra loro idea: la Vendemmia degli Amici. È un’iniziativa piuttosto singolare: i vendemmiatori non vengono pagati ma pagano una quota d’iscrizione. Come mai? “È semplice”, spiegano Volpe e Apicella: “la raccolta dell’uva, con grigliata tra i filari e relax ai bordi della piscina dell’hotel Trianon o nel Country Club La Palazzina, è soltanto il primo passo di un percorso che i partecipanti faranno con noi. L’uva che raccoglieremo insieme verrà infatti vinificata a parte e ognuno riceverà periodicamente via e-mail la “curva di crescita” del vino, elaborata da Lanati, potrà andare a degustarlo durante l’affinamento e sarà invitato ad assistere all’imbottigliamento. Infine, a maggio o giugno del 2010, potrà partecipare al primo assaggio del “Vino degli amici”, di cui si porterà a casa 12 bottiglie. È un prodotto esclusivo, non in commercio, con un’etichetta firmata da tutti coloro che hanno vissuto questa esperienza”. Bizzarro? Può darsi, ma il bizzarro è di casa, in territorio banino. Nel 1992, quando fu creata la provincia di Lodi, gli abitanti di San Colombano decisero, con un referendum, di continuare a far parte della provincia di Milano. Anche se il loro territorio è in provincia di Lodi, confina con quella di Pavia, e dalla provincia di Milano è lontano 22 chilometri.

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Vino e scienza

Vino e scienza di Salvatore Giannella

IL

VINO CAMPANELLO D’ALLARME DEI

CAMBIAMENTI CLIMATICI.

L’INCREMENTO

GRADUALE DELLA TEMPERATURA INFLUENZERÀ LA GEOGRAFIA DEL SETTORE VINICOLO NEL

CENTRO-SUD

DELL’EUROPA, ALTERANDO LE

CONDIZIONI DI CRESCITA DELLA VITE E DI

MATURAZIONE DELL’UVA AL PUNTO DA RICHIEDERE CAMBIAMENTI STRUTTURALI DELLE PRODUZIONI

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i è ripetuto a Lindau, sulla costa tedesca del lago di Costanza, un rito immutato da cinquantanove anni: il Lindau Meeting of Nobel Laureates. La famiglia Bernadotte (rappresentata dal padre Lennart, uno dei pionieri della moderna ecologia, e da due anni dalla figlia, la giovane contessa Bettina) ha convocato ventiquattro premi Nobel e oltre seicento giovani ricercatori provenienti da sessantasette Paesi del mondo per favorire la conoscenza e il dialogo tra generazioni sui problemi chiave del pianeta e sulle soluzioni da adottare. Tra i grandi temi affrontati sul palco della Hinselhalle è particolarmente interessante estrapolare e sintetizzare uno dei filoni di stringente attualità, confermato dalla conferenza a Ginevra dell’Organizzazione meteorologica mondiale e dall’allarme lanciato a settembre ai leader mondiali dal Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon («Agite prima che sia troppo tardi, firmate l’accordo alla prossima conferenza di Copenhagen»): l’emergenza surriscaldamento, che è stata al centro degli interventi e delle preoccupazioni di alcuni dei grandi scienziati approdati a Lindau come Peter Agre, Paul J. Crutzen, Sherwood Rowland e Mario J. Molina. Un dato su tutti: negli ultimi cinquant’anni gli eventi disastrosi (alluvioni, inondazioni, uragani) si sono moltiplicati per dieci. Di questi sconvolgimenti si sono accorte anche le grandi compagnie di assicurazione: “La Terra ha la febbre. E le conseguenze possono essere sconvolgenti, come dimostrano le ultime calamità naturali che hanno trasformato il 2008 in uno degli anni più funesti mai registrati”. Sta scritto così nell’ultimo rapporto reso pubblico dal gruppo tedesco Munich Re, un colosso mondiale del ramo assicurativo, sui costi dei disastri naturali nel mondo. Tra gli incendi che devastano in continuazione la California e il ciclone tropicale Nargis che si è abbattuto in Birmania, tra il terremoto in Cina e gli uragani ad Haiti o le colate di fango che hanno sepolto la città di Taoshi nel nord della Cina, sono morte nell’ultimo anno oltre 220 mila persone, mentre i danni sono saliti al livello record di circa 200 miliardi di dollari. E poi ci sono fenomeni drammatici e duraturi: la concentrazione atmosferica del più importante dei gas serra (la CO2) è aumentata del 30 per cento negli ultimi centocinquanta anni e ha toccato un valore mai raggiunto negli ultimi 700 mila anni di storia del pianeta; l’agonia di molti degli ottocento ghiacciai alpini (per citare un esempio: il ghiacciaio dei Forni, del gruppo Ortles-Cevedale tra Lombardia e Trentino, il più grande delle Alpi italiane, è arretrato di 2,6 chilometri dal 1864 a oggi, con un regresso medio annuale di 18 metri) e l’incremento delle aree desertificate in Italia meridionale e in Spagna. Mentre i cambiamenti climatici potrebbero far spostare le zone vinicole sempre più a nord. Uno di questi casi emblema-

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Il porto di Lindau L’accesso al porto di Lindau, sulla riva tedesca del lago di Costanza, e il leone simbolo della Baviera. Città teutonica dal fascino mediterraneo, Lindau ha 24 mila abitanti ed è una tra le più apprezzate mete turistiche della Germania. Nella centrale Inselhalle si riuniscono ogni anno i vincitori del premio Nobel. Nella metà del XIX secolo, alti funzionari e membri della famiglia reale bavarese fecero costruire le loro eleganti ville sulle sponde del lago nel quartiere di Bad Schachen. Alcune di queste ville sono state trasformate in alberghi a 5 stelle (ma anche quelli non di lusso, come l’hotel-ristorante Schachener Hof di Thomas e Brigitte Kraus, si distinguono per un’ospitalità eccelsa in una calda

cornice familiare). Nella villa neoclassica Lindenhof si trova il Friedenmuseum (Museo della pace) aperto dal 1980: vuole documentare attraverso una

L Mario J. Molina, 66 anni, premio Nobel per la chimica nel 1995, insieme alla moglie Guadalupe e a Salvatore Giannella. Insegna all’Università della California e anche nella natìa Città del Messico dove ha creato un centro studi su energie e ambiente.

raccolta di lettere, materiale fotografico e carteggi, come sia difficile da parte dell’uomo trovare soluzioni pacifiche ai conflitti.

tici è la Champagne che forse in futuro troveremo in Oltremanica, in un giorno non lontano perché da tempo è arrivato il primo vino di ispirazione e tradizione champenoise “Made in England” a opera di due coniugi americani trapiantati nel West Sussex, a sud di Londra, che, dopo aver piantato Pinot Noir, Meunier e Chardonnay in circa 14 ettari, hanno visto venire alla luce il primo vino spumante prodotto con il metodo classico. Sono tutti segni del cambiamento del clima, segni avvertibili anche nelle regioni della nostra penisola: da vari decenni le temperature medie annuali in Lombardia, per esempio, tendono ad aumentare a un ritmo di crescita doppia rispetto a quello medio del pianeta Terra: circa 1,5 – 2 gradi centigradi negli ultimi 150-200 anni. Le segnalazioni degli assicuratori si sommano a quelle degli scienziati, che stanno vedendo concretizzarsi molte delle previsioni avanzate già vent’anni fa: era il 23 giugno 1988 quando, davanti ai senatori americani, lo scienziato della Nasa James Hansen denunciava l’effetto serra parlando per la prima volta di una minaccia reale per il pianeta. Oggi la comunità scientifica è sostanzialmente unanime nella valutazione dell’origine e della gravità dell’effetto serra (a Lindau s’è sentita la sola voce scettica del danese Bjorn Lomborg, che ritiene il surriscaldamento grave ma non la priorità del pianeta: “Nella mia classifica metto al primo posto la prevenzione dell’Aids, poi la lotta alla malnutrizione e alla malaria”). I cambiamenti climatici sono reali, provati, sono già in atto e per giunta in fase di accelerazione. Risultano generati in modo preponderante dalle emissioni di gas serra prodotte dal consumo di combustibili fossili, e le previsioni sui possibili effetti a breve appaiono decisamente preoccupanti. Eppure l’allarme non viene ancora percepito da larghi strati della popolazione. La spiegazione? È semplice: le “prove” sono spesso lontane dai nostri occhi. Un esempio, per capirsi: ha impressionato, ma solo pochi e per poco, l’appello lanciato da Anote Tong, presidente di Kiribati, una nazione-isola di 105.400 abitanti costituita da 33 atolli nel Pacifico, a est dell’Australia, che sta scomparendo a causa dell’innalzamento dell’oceano. Non va meglio in paradisi tropicali come le Maldive e le Seychelles, mentre a Tuvalu (sempre nel Pacifico) si coltivano patate nelle tinozze perché lo scarso suolo ora disponibile è diventato troppo salmastro.

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Vino e scienza L Mario J. Molina durante il suo intervento a Lindau. Nel 1995 Molina vinse il premio Nobel per la Chimica, insieme a F. Sherwood Rowland e a Paul J. Crutzen. Motivazione: "Per il loro lavoro in chimica atmosferica, e in particolare sulla formazione e sulla decomposizione dell’ozono".

L La contessa Bettina Bernadotte, 35 anni, presidente del Council for the Lindau Nobel Laureate Meetings. Imprenditrice turistica, amministra l’isola di Mainau, incastonata nel lago di Costanza e conosciuta come “l’isola dei fiori”: uno scrigno di colori e di profumi creato dai suoi genitori, Lennart e Sonja. Conosce, e ne ha fatto un modello di vita, Rita Levi Montalcini.

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Le immagini da satellite che documentano lo scioglimento delle calotte polari e le altre grandi sciagure naturali hanno finito per radicare in Occidente la convinzione che il problema dei cambiamenti climatici non ci riguarderà direttamente, che le nostre vite continueranno come prima, che un po’ di tecnologie amiche saranno sufficienti per contrastare gli effetti dei mutamenti. È sicuramente una grave sottovalutazione e se ne ha conferma anche in un volume fresco di stampa, Progetto Kyoto Lombardia (edito dalla Fondazione Lombardia per l’Ambiente con la Regione Lombardia). I risultati di anni di ricerche di autorevoli scienziati come Giulio De Leo, Stefano Caserini, Maurizio Maugeri, Gunther Seufert, Marzio Galeotti hanno mostrato i possibili impatti su questo territorio chiave dell’Italia: qui sono destinati ad aumentare la frequenza dei fenomeni estremi collegati a temperatura e a piogge, le emergenze sanitarie (soprattutto nella fascia più anziana della popolazione) per le ondate di calore, i danni all’agricoltura dovuti alla siccità, il rischio di frane e alluvioni causate da precipitazioni più violente. Qui (ma il discorso vale ovviamente anche per le altre regioni delle nostre Alpi) potrebbero verificarsi cambiamenti traumatici nel turismo alpino dovuti alla progressiva diminuzione delle precipitazioni nevose. E l’allarme vale anche per l’Italia meridionale: in generale, secondo quello che indicano i modelli dei ricercatori, molte terre del Sud Italia e del Mediterraneo meridionale potrebbero essere a rischio di forte inaridimento, se non di desertificazione nei tempi più lunghi. Insomma, sono prevedibili impatti che saranno tanto più severi quanto meno efficaci si dimostreranno gli interventi mitigatori. Agire, non rinviare più decisioni che sono inevitabili. Anche su questo la comunità scientifica non mostra dubbi. Gli scienziati dell’Ipcc (il Comitato intergovernativo sul cambiamento del clima, istituito dall’Onu, 2.500 esperti, vincitori a pari merito del Nobel per la Pace nel 2007 con Al Gore, passato da ex vicepresidente degli Stati Uniti a “coscienza pubblica”) hanno elaborato documenti molto forti come il Rapporto Bangkok: “I drastici, necessari tagli alle emissioni di gas sono economicamente e tecnicamente fattibili. Tagliare le emissioni significa diminuire il consumo dei combustibili fossili (carbone, petrolio, metano), aumentare l’efficienza e il risparmio energetico e aumentare il ricorso alle energie rinnovabili”. L’obiettivo dichiarato di questo nuovo corso basato su uno sviluppo sostenibile è, per l’Europa, in una formula matematica facile da ricordare: 20-20-20 entro il 2020. Vuol dire, in sostanza: produrre e consumare energia con il 20 per cento di efficienza energetica in più; far dipendere il fabbisogno energetico per almeno il 20 per cento da fonti rinnovabili (sole, vento, geotermico, biomasse, mini-idroelettrico); ridurre, infine, di un ulteriore 20 per cento le emissioni di gas serra. Siamo partiti da una cifra riguardante il portafoglio e torniamo ancora a puntare su questo decisivo argomento. “I Paesi ricchi del mondo devono investire al più presto almeno 500 miliardi di dollari all’anno per mitigare i cambiamenti climatici. Devono avere il coraggio di un nuovo Piano Marshall per aiutare, e non solo a parole, i Paesi in via di sviluppo e affrontare le sfide del riscaldamento globale senza rinunciare alla crescita economica e salvare così il pianeta come nel Dopoguerra fecero gli Stati Uniti per ricostruire l’Europa”. È quanto si legge in un documento delle Nazioni Unite fresco di stampa, Rapporto sulla situazione economica e sociale nel mondo. Promuovere lo sviluppo, Proteggere il pianeta. Le tecnologie che consentirebbero ai Paesi poveri di intraprendere la strada dello sviluppo sostenibile già esistono (edifici a basso consumo energetico, nuovi ceppi di piante resistenti alla siccità, nuove energie), il loro costo è ancora alto e una tale trasformazione richiederebbe “un livello di assistenza e solidarietà internazionale raramente raggiunto al di fuori dei periodi di guerra”. Secondo il rapporto dell’Onu, per orientare le spese di investimento verso la realizzazione di una crescita più pulita, un sostegno internazionale massiccio dovrà manifestarsi sotto forma di un programma di investimento mondiale. Tra i meccanismi ipotizzati per favorire tali investimenti, il rapporto parla ad esempio di un Fondo globale per l’energia


L Il professor Wolfgang Schürer, 62 anni, economista, “motore” operativo della Fondazione che organizza ogni anno i meeting con i premi Nobel e i giovani ricercatori. Tra i suoi idoli, l’italiano Aurelio Peccei.

L Salvatore Giannella davanti alle gigantografie dei Nobel partecipanti al 59° Meeting di Lindau.

pulita, elemento fondamentale di una crescita sostenibile. “Il dato centrale del rapporto è questo: l’uno per cento del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale, circa 500 miliardi di dollari all’anno, pari al sostegno internazionale necessario ai Paesi in via di sviluppo” per affrontare la sfida del clima e dello sviluppo, è la tesi di Richard Kozul-Wright, tra gli autori dello studio. È necessario un nuovo corso, globale e verde. Il rapporto ricorda che i Paesi ricchi hanno contribuito per circa tre quarti all’aumento delle emissioni di CO2 nocive, mentre si prevede che saranno i Paesi più poveri a subirne il maggiore impatto. Il presidente degli Stati Uniti Barak Obama proprio sui temi delle energie e delle politiche ambientali punta per un New Deal americano. L’Unione europea ha invece accettato, nel dicembre scorso, solo un accordo-compromesso che è ben lontano dall’essere un esempio per il mondo (“L’obiettivo del 20 per cento suona bene a parole ma è vuoto nei fatti, perché ai Paesi europei è consentito comprare ‘crediti’, il che significa che le emissioni europee saranno ridotte del solo 4-5 per cento tra oggi e il 2020”, è l’opinione di Mariagrazia Midulla, responsabile del Programma Clima del Wwf). E l’Italia, che si era impegnata a ridurre del 6 per cento le emissioni nell’atmosfera, in realtà le ha aumentate di oltre il 12 per cento rispetto al 2000. E allora? Antonio Ballarin Denti, docente di fisica ambientale all’Università Cattolica di Brescia e coordinatore della fondazione Lombardia per l’Ambiente parla chiaro: “In un brillante fondo l’Economist ricorda che quando una famiglia acquista la casa in cui va ad abitare, valuta certamente come molto remota la possibilità che un incendio la distrugga (e le statistiche le danno ragione). Ciò nonostante, se previdente, preferisce attivare una bella polizza assicurativa, privandosi di una quota di reddito, per proteggersi da un rischio potenziale che potrebbe altrimenti produrre dei costi insostenibili. Così dovrebbero fare i governi: investire cioè una parte del loro Pil (magari attraverso una tassa sul carbonio dei combustibili fossili) per mettersi al riparo di una evenienza (un cambiamento climatico irreversibile) che, quand’anche fosse poco probabile, una volta verificatosi, produrrebbe danni catastrofici e situazioni sociali drammatiche. Ma se poi, ritenendo poco probabili questi eventi, non vogliamo neanche farci un’assicurazione, allora siamo non solo malaccorti ma anche irresponsabili”. E se poi in Europa o in Italia dovesse mancare la volontà politica di questo Nuovo Corso, sappiamo che quella della politica è un’energia rinnovabile. Il vino è stato definito “il canarino nella miniera di carbone dei cambiamenti climatici” (Los Angeles Times). Anche piccole variazioni climatiche hanno influenza diretta sulla produzione del vino, in particolare dei grandi vini di alta qualità che sono i più sensibili, come indica lo scenario disegnato da Giulio De Leo, professore ordinario di Ecologia presso il dipar-

L Martin Chalfie, 61 anni, docente di scienze biologiche alla Columbia University (Nobel nel 2008 per la scoperta della Green Fluorescent Protein, usata come marcatore in medicina) discute insieme a giovani ricercatori arrivati a Lindau dall’India.

L La contessa Bettina Bernadotte con José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, accolto nel comitato d’onore del consiglio d’amministrazione della Fondazione.

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Vino e scienza L Il professor Giulio De Leo

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timento di Scienze ambientali dell’Università di Parma, responsabile di una delle linee di ricerca del “Progetto Kyoto Lombardia” sfociate in un dettagliato volume fresco di stampa, curato dalla Fondazione Lombardia per l’Ambiente con la Regione Lombardia. Al di là degli impatti in agricoltura generati da fenomeni climatici estremi come le onde di calore, le alluvioni e il perdurare di periodi di siccità, un incremento anche lento e graduale della temperatura influenzerà la geografia del settore vinicolo nel centro-sud dell’Europa, alterando le condizioni di crescita della vite e di maturazione dell’uva al punto da richiedere cambiamenti strutturali delle produzioni. La temperatura media, nelle zone di produzione del vino di alta qualità, è aumentata di circa 1,26 gradi nel periodo 1950-1999. Per ora non ci sono impatti che possono essere considerati negativi, anzi l’aumento di temperatura apre nuovi scenari nell’orizzonte dei vini, con la possibilità di realizzare nuove coltivazioni anche nel Sud dell’Inghilterra. Nel Nord della Francia l’aumento della temperatura ha causato un graduale ma costante anticipo della vendemmia: se negli anni Settanta cadeva entro la prima metà di ottobre, nel 2007 è cominciata addirittura il 24 di agosto, un record per tutto il Nord-Est francese. In tutta la Francia i viticoltori stanno abbandonando la pratica di addizionare zuccheri al mosto per renderlo più alcolico e aumentarne i profumi; ormai, infatti, l’aumento delle temperature estive fa tutto il lavoro per loro, rendendo addirittura, in alcuni casi, il vino troppo alcolico, tanto da costringere alcuni viticoltori ad aggiungere composti acidi. Queste e altre prospettive, se pur di medio periodo, possono essere preoccupanti per un settore che in Lombardia nel 2004 poteva contare su 15 mila addetti a fronte di una produzione annuale complessiva di oltre 75 milioni di bottiglie Doc, per un fatturato di 700 milioni di euro. Dall’Oltrepò alla Franciacorta, dalla zona del Garda alle coltivazioni di San Colombano, passando per i vigneti del Mantovano, la vendemmia del 2007 in Lombardia è cominciata in anticipo, rispetto alla norma, di una ventina e più di giorni. Secondo una ricerca condotta nel Trevigiano (Tomasi et al., 2007, Centro di ricerca per la viticoltura), un’eccessiva esposizione dei grappoli a temperature troppo elevate causa un eccessivo aumento degli zuccheri, con conseguente tasso alcolico del vino troppo elevato e una perdita di precursori aromatici, quindi meno sapori e profumi. Dallo stesso studio è emerso che, al momento, sono sufficienti delle tettoie in telo traspirante per proteggere i grappoli dai raggi diretti del sole ed evitare questa situazione. Anche se al momento non sono presenti studi specifici per la Lombardia, si possono prospettare notevoli danni economici e questa certezza ci è data dai numeri espressi dal settore vinicolo: oltre mille chilometri di strade del vino e dei sapori della Lombardia hanno attratto nel 2004 oltre 500 mila presenze da ogni parte d’Italia e d’Europa con un importante indotto nel settore eno-gastronomico. Il 100 per cento della viticoltura lombarda (23 mila ettari di vigneti censiti) ricade in zone Doc e ben l’80 per cento delle bottiglie di vino lombardo sono Doc o Docg. Gli effetti di piccoli cambiamenti di temperatura sulla crescita e maturazione dell’uva e quindi sulla qualità del prodotto finale possono essere corretti con interventi tecnologici durante il processo di lavorazione ma per vitigni che si trovano già ai margini dell’intervallo di temperatura ammissibili per una specifica produzione, un incremento della temperatura potrebbe rendere vana ogni correzione e richiedere quindi un cambiamento di produzione a partire dal vitigno. Sarà quindi necessario approfondire se in quali casi e in che tempi i cambiamenti climatici potranno rendere necessari questi mutamenti, operazione che comporterà comunque costi elevati.


Degustazioni

Aria di rinascimento

Rossese

sul di

Dolceacqua

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di Franco Ziliani l nome suggestivo, Rossese Style. È la degustazione svoltasi a fine luglio nell’incanto di quel paesino sperduto ma splendido che è Baiardo, organizzata meritoriamente da un attivo gruppo di produttori, l’Associazione Vigne Storiche del Rossese, con la collaborazione fattiva del blog VinoGlocal e di un sommelier di formazione Ais, Massimo Sacco, ora attivo a Montecarlo, che costituisce sicuramente un momento fondamentale, di svolta lo definirei, nella vicenda di questa storica Doc ligure (nata nel 1972) che comprende poco meno di un centinaio di ettari nella magnifica zona collinare in provincia di Imperia che ha come capitale l’incantevole borgo di Dolceacqua. Altrove, nello spazio delle news nel sito dell’Ais, riporto il vivacissimo dibattito in atto in questa denominazione, dove le aziende grazie a un ricambio generazionale finalmente sono in grado di dialogare e di confrontarsi e di crescere insieme in un clima di continuo stimolo a fare meglio e a fare crescere l’intera denominazione. Che sia destinato a vini da apprezzare e consumare più giovani, oppure a vini con maggiori ambizioni di durare nel tempo e di proporsi in alcuni casi come vin de garde, il vitigno autoctono locale, il Rossese, è il vero pilastro e punto di riferimento della denominazione, visto che il disciplinare vigente ne prevede l’utilizzo per almeno il 95 per cento. Un’uva difficile ma straordinaria, dotata di un peculiare corredo aromatico e di un patrimonio tannico interessante, che

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esprime tutte le sue grandi potenzialità soprattutto nei vigneti più vecchi, per larga parte coltivati ad alberello, che si trovano in posizioni isolate e scoscese, spesso su vigneti terrazzati, nelle valli: Valle Nervia, Valle Crosia e Val Verbone, comprese nell’area della denominazione. Affidato a vignaioli dotati di grande passione e savoir faire oggi il Rossese (di Dolceacqua, ça va sans dire) sa esprimere vini di sicura personalità (da non dimenticare alcuni vini rosati che non possono riportare in etichetta la Doc perché il disciplinare vigente non contempla la tipologia rosato) che hanno molte frecce al loro arco per potere coinvolgere e affascinare, grazie alla loro innegabile ampelo-diversità, e alla capacità di essere veri e propri vin de terroir specchio di terroir di straordinario fascino viticolo e paesaggistico, gli appassionati più curiosi. Che sono assetati di vini non omologati, autentici, inimitabili, complessi e dialettici, ma che sappiano farsi capire e apprezzare, perché no, per la loro bevibilità. Di questi vini la degustazione di Rossese Style, da cui ho selezionato i vini che mi hanno maggiormente convinto, ne ha messi in evidenza parecchi. Ed è questo, lasciando la parola alle note di degustazione e alle valutazioni, l’elemento più importante. Tira aria nuova per questa che è la più storica e la più importante tra le denominazioni in rosso della Liguria. Di Dolceacqua e del suo Rossese sentiremo sicuramente ancora parlare molto… 37


Degustazioni

LA DEGUSTAZIONE ROSSESE DI DOLCEACQUA 2008 Rossese di Dolceacqua 2008 Galeae Ka Manciné Colore rubino violaceo vivo di bella intensità e luminosità. Il naso inizialmente è cauto, quasi misterioso e poco espressivo poi si apre progressivamente, pur mantenendo una certa tessitura molto salda e ancora piuttosto in sé che denota la giovane età su note di lampone e ribes molto succose e nitide che richiamano il Pinot nero, con sfumature di melograno, macchia mediterranea e un leggero accenno di menta. La bocca, larga, piena, ben polputa, conferma le impressioni di vino molto ricco e pieno che abbisogna ancora di tempo per esprimersi appieno, ma c’è, con ampia struttura, dinamismo, multidimensionalità, materia consistente ma fresca, grande persistenza e nerbo e un bellissimo retrogusto balsamico mentolato di grande freschezza. Eccellente.

Rossese di Dolceacqua 2008 Il Bausco Fratelli Maccario / Colore rubino violaceo di bella intensità e brillantezza si propone subito con un naso ricco, articolato, cremoso, di notevole densità, fragranza e pulizia, dove spicca un fruttato succoso ben polputo e pieno di energia che richiama il ribes, i lamponi, la mora di rovo, il tutto completato da sfumature minerali. La bocca è parimenti ricca, piena, ben strutturata, con una materia prima ricca di polpa di grande soddisfazione e calibrata dolcezza innervata da una fresca acidità che regala piacevolezza, bella persistenza e un finale sapido e nervoso. Vino da coltivazione biologica.

Rossese di Dolceacqua 2008 Beragna Kà Manciné Colore molto intenso, vivo e brillante, naso fitto, selvatico, speziato, con note di pepe nero, ginepro e accenni di cuoio, quasi cremoso. La bocca è viva, sapida, ben bilanciata in tutte le componenti, con bella materia viva e succosa, grande sapidità e acidità e un perfetto bilanciamento che regala grande piacevolezza. Bel retrogusto, giocato tra liquirizia e more di rovo.

Rossese di Dolceacqua 2008 Marco Foresti Colore rubino brillante di grande lucentezza, si propone con un naso caratteristico, molto petroso e minerale, di grande essenzialità e purezza, profumato di ribes e lampone, sapido, nervoso, dal carattere quasi “valtellinese”. La bocca conferma la sensazione di grande purezza e di una nitidezza salata senza fronzoli, quasi appuntita grazie a un’acidità importante, con un palato fresco, vivo, succoso, molto pulito e una grande piacevolezza di beva in un finale verticale e persistente. Molto giovane, con eccellente possibilità di evoluzione.

Rossese di Dolceacqua 2008 Terre Bianche Colore rubino intenso vivace e profondo, si propone con un naso molto consistente, fitto, selvatico, con prevalenza di note salmastre che ricordano l’acciuga, e poi macchia mediterranea, erbe aromatiche, accenni animali. In bocca è largo, pieno, succoso, di grande impegno e bella consistenza, con una struttura imponente che non pregiudica poi, grazie a una fresca acidità, la beva. Ancora molto giovane, con ottimo potenziale d’evoluzione.

Rossese di Dolceacqua 2008 Poggi dell’Elmo Colore rubino squillante molto luminoso, mostra un naso preciso, sapido, minerale, di grande fragranza ed eleganza, giocato su note pinot-nereggianti con ribes e lamponi in evidenza e una bella freschezza essenziale e petrosa. In bocca è vivo, succoso, di grande nerbo ed equilibrio, con buona persistenza e vivacità e una bella nota di liquirizia sul finale. Bella piacevolezza e sapidità.

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Rossese di Dolceacqua 2008 Maccario Dringenberg Colore di notevole intensità e profondità mostra un naso dove il carattere selvatico, note leggermente cavalline e cuoiose e accenni salmastri prevalgono sulla dolcezza del frutto. La bocca è diretta, essenziale, viva, ma un po’ carente di sviluppo e complessità. Piacevole ma un po’ troppo semplice.

Rossese di Dolceacqua 2008 Caldi Luigi Rubino brillante il colore, il vino si propone con profumi molto fruttati (netta la ciliegia) e succosi, con slancio, articolazione e bella pulizia anche se non di particolare complessità. Al palato conferma questa impostazione molto diretta, con un gusto rotondo, equilibrato, piacevole, una bella materia fruttata matura al punto giusto, equilibrio e immediatezza.

ROSSESE DI DOLCEACQUA 2007 Rossese di Dolceacqua 2007 Galeae Ka Manciné Ottimo il 2008, ma ancora meglio, perché più espressivo il 2007 del Galeae, espressione di uno dei grandi cru del Rossese. Magnifica intensità e vivacità di colore, un tono elegante nei profumi che emerge sin dal primo contatto e poi si sviluppa progressivamente nel segno di una compresenza di accenni floreali, fruttati (netto il lampone), leggermente selvatici, con striature di erbe aromatiche, pepe nero, ginepro, e grande sapidità a designare un carattere quasi da Pinot noir. In bocca il vino è sapido, di gran nerbo e personalità, con una dolcezza di frutto calibrata e innervata da un’acidità ben bilanciata e presente, da un saldo corredo tannico e da una notevole freschezza, che innesca un finale lunghissimo, incisivo e nervoso.

Rossese di Dolceacqua 2007 Vigneto Serro de’ Becchi Ramoino / Uno dei vini più convincenti di tutta la degustazione, ben riuscito da ogni punto di vista. Colore rubino squillante di grande brillantezza, si propone con un naso fitto, complesso, profumato di erbe aromatiche e macchia mediterranea, di piccoli frutti rossi, che vira su note dapprima terrose poi petrose e minerali. Al gusto ha bella materia viva e succosa, grande dinamismo e articolazione, saldo sostegno tannico ben rilevato ma non aggressivo e una linearità e un nerbo minerale e petroso che esalta la piacevolezza e la freschezza. Interessante il retrogusto, che richiama il ginepro, la liquirizia e il rabarbaro.

Rossese di Dolceacqua 2007 Vigneto Luvaira Tenuta Anfosso / Altro vino splendidamente riuscito, già godibile ora, ma con grande potenziale d’evoluzione. Rubino di bella intensità e concentrazione propone un bouquet aromatico molto fitto, maturo, caldo, ricco, molto polputo e succoso, di grande concentrazione e quasi cremoso. Un’impostazione del vino, molto diretta, decisamente appealing, che si conferma anche al gusto, ricco, pieno, multistrato, di grande impatto e densità, cui difetta solo un pizzico di freschezza, un’acidità più incisiva per raggiungere la perfezione. Che, come si sa, non è di questo mondo. Rossese di Dolceacqua 2007 Vigneto dei Pini Poggi dell’Elmo / Altro eccellente risultato. Rubino brillante di bella intensità, profumi molto diretti, succosi e di grande immediatezza, che richiamano il lampone e le erbe aromatiche, con polpa ben succosa e freschezza. In bocca è pieno, ben polputo, carnoso nella componente fruttata ben sottolineata, dotato di materia ricca e ben matura, saldo corredo tannico, grande equilibrio e piacevolezza per una beva davvero “contagiosa”.

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Degustazioni Rossese di Dolceacqua 2007 Marco Foresti Ben fatto, vivace, elegante come il 2008 questo Dolceacqua di Foresti. Rubino vivace il colore di bella brillantezza e luminosità, naso fine, incisivo, di grande freschezza, con una componente minerale spiccata. Al gusto il frutto è ben polputo e succoso, maturo al punto giusto, e il vino si propone al palato dinamico, di grande energia, scandito da un’acidità molto bilanciata che regala al vino sapidità, freschezza, grande piacevolezza di beva e un finale lungo. Ancora giovane, con buon potenziale d’evoluzione.

Rossese di Dolceacqua 2007 Vigneto Luvaira Maccario Dringenberg Grande vigneto storico, anche con ceppi di 80-100 anni, e ottimo risultato, che avrebbe potuto essere ancora migliore se il vino avesse avuto un filo di finezza in più. Splendido rubino brillante intenso e luminoso, naso intensamente selvatico e caratteristico, con erbe selvatiche, mora di rovo, rosmarino, accenni salmastri, note di macchia mediterranea e pepe in evidenza, a formare un insieme molto compatto e quasi cremoso. Bocca materica, di grande impatto e potenza, multistrato, molto ricca e piena, succosa, solo leggermente carente in chiave di freschezza, perché il vino riempie e satura il palato, ma difetta un po’ di slancio e dinamismo.

Rossese di Dolceacqua 2007 Cantina del Rossese Fratelli Gajaudo / Colore rubino brillante vivo di grande lucentezza, mostra un naso ricco, ben strutturato, succoso, con note succose di frutta (ciliegia, lampone, ribes) in evidenza e una certa fragranza aromatica. Al palato si propone vivo, con salda struttura, sapidità, nerbo incisivo, una notevole freschezza e una polputa ricchezza di sapore che rende piacevole la beva.

Rossese di Dolceacqua 2007 Vigneto Savoia Danila Pisano / Un vino che colpisce per la sua eleganza e la freschezza in ogni suo aspetto. Colore rubino brillante di bella intensità e vivacità si propone con un naso vivo e minerale, essenziale, incisivo, quasi petroso, con note dolci succose di ribes e lampone, al gusto pur non avendo una grandissima struttura e confermandosi essenziale e vivo convince per il nerbo, la polpa fruttata “croccante”, la bella verticalità e il finale lungo e di carattere. Vino da uve biologiche.

Rossese di Dolceacqua 2007 A Trincea / Colore rubino brillante luminoso, naso molto floreale, con accenni varianti dal ciclamino al geranio alla rosa che poi aprono a note selvatiche, di liquirizia e salmastre. Attacco molto incisivo, nervoso, sapido, con buon sviluppo e con un tannino solo leggermente astringente. Semplice, ma ben fatto.

Rossese di Dolceacqua 2007 Mauro Antonio Zino / Sono l’essenzialità, la freschezza, una vivacità un po’ pungente e “sbarazzina” le armi migliori di questo vino, che si fa bere con piacere. Colore rubino brillante, ha aromi freschi, vivaci, immediati, varianti tra il lampone e il ribes, molto essenziale e minerale nei toni. In bocca è lungo, vivo sapido, di grande essenzialità, con acidità spiccata e nerbo e non grande struttura, ma molto piacevole.

Rossese di Dolceacqua 2007 Vigneto Bricco Arcagna Terre Bianche / Un vino che nella complessità e in un carattere estrattivo ha il suo forte. Rubino intenso di grande vivacità e concentrazione, mostra un naso molto sapido e petroso, con un fruttato succoso e rotondo che richiama il lampone e la mora e note minerali intrecciate ad accenni selvatici, con erbe aromatiche in evidenza. La bocca è ampia, di grande impegno e consistenza, con un tannino che tende a essere un po’ rigido e che necessita di un po’ di tempo per distendersi. Buono ma ancora molto giovane.

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Rossese di Dolceacqua 2007 Terra dei Doria Bella vivacità di colore, naso e palato molto coerenti, di buona ricchezza e fragranza e plasticità d’espressione, con una certa piacevolezza, ma con un tono un po’ calligrafico e con poca complessità. Piacevole ma troppo semplice.

ROSSESE DI DOLCEACQUA 2006 Rossese di Dolceacqua 2006 Vigneto Poggio Pini Tenuta Anfosso Indiscutibilmente il 2006 più convincente e meglio riuscito, espressione di un grande vigneto e di un indubbio savoir faire in cantina. Colore di grande bellezza e smalto, si propone con un naso fitto, denso, cremoso, con bella polpa succosa e cremosa, un frutto maturo al punto giusto, increspata e innervata da toni pepati, selvatici, di sottobosco e macchia mediterranea, da striature balsamiche di grande freschezza. Fresco e vivo il vino si conferma anche al gusto, pieno, ben polputo, avvolgente, ricco e di grande persistenza. Un vino che ti conquista sino in fondo. Rossese di Dolceacqua 2006 Vigneto Arcagna Cantina del Rossese Fratelli Gajaudo / Vino che abbina complessità a freschezza e grande piacevolezza. Rubino intenso profondo, mostra un naso selvatico, affumicato, petroso di grande fascino, con note di melograno, ribes, erbe aromatiche, rabarbaro, china, leggeri accenni salmastri. Al gusto, nonostante la struttura importante e la ricchezza della materia è vivo, nervoso, dinamico, pieno di energia, con persistenza lunga e verticale e sapidità da vendere. Rossese di Dolceacqua 2006 Vigneto Pian del Vescovo Tenuta Giuncheo Un vino ancora tremendamente giovane e difficilmente giudicabile in questa fase, espressione di un cru di primario valore e vino che volutamente punta sulla potenza e sulla ricchezza più che sull’eleganza. Bellissima l’intensità e la concentrazione del colore, naso molto fitto, caldo, pieno, succoso, multistrato, con sfumature di liquirizia e accenni minerali e una bocca di grande estrattività, multistrato, materica, piena, che al momento è un po’ carente di slancio e freschezza e che ha indubbiamente bisogno di tempo, in bottiglia, per trovare pieno equilibrio. Rossese di Dolceacqua 2006 Terre Bianche Bella la vivacità e la brillantezza del colore, ma il naso non riesce a evolvere da una fase iniziale riduttiva, non perfettamente pulita, piuttosto aggressiva. Una certa secchezza e durezza, una carenza di equilibrio e di distensione nel vino, che rimane sempre piuttosto in sé, ricco, compatto, ma non di grande piacevolezza, al gusto. Grande materia ma ancora piuttosto contratta. Rossese di Dolceacqua 2006 Vigneto Luvaira Marco Foresti Grande vigneto ma una prova un po’ sottotono rispetto ai 2008 e 2007 di Foresti. Naso pieno, caldo, fitto, sovramaturo e vino che si conferma potente, ricco, con un tono alcolico in eccesso, anche al gusto, dove la piacevolezza piena è pregiudicata da una carenza di freschezza e di acidità. Rossese di Dolceacqua 2006 Terra dei Doria Anche in questo caso la potenza, l’estrazione e un alcol un po’ eccessivo la fanno da padrone, con colore molto vivo, grande intensità e pienezza sia nella fase olfattiva che al gusto, ma mancano decisamente slancio, vivacità, freschezza ed equilibrio, con un finale inoltre leggermente asciutto, a rendere pienamente riuscito questo 2006.

Per ulteriori dettagli sul Rossese visitate il sito Ais alle pagine web http://www.sommelier.it/archivio.asp?ID_Categoria=8&ID_Articolo=1644 http://www.sommelier.it/archivio.asp?ID_Categoria=8&ID_Articolo=1658 41


Vendemmia

Il

2009

regalerà vini

di

alta qualità

rima di tutto i numeri: la vendemmia 2009 permetterà di produrre, secondo una stima della Coldiretti e della Confederazione italiana agricoltori, 47 milioni di ettolitri, al di sotto della media degli ultimi cinque anni ma con un aumento contenuto (entro il 5 per cento) rispetto al 2008. Meno ottimista è Maurizio Zanella, presidente del consorzio Franciacorta, che prevede invece un calo della produzione "del 7-8% rispetto al 2008". Una vendemmia anticipata di dieci giorni ma ottima anche per la qualità: nella maggior parte delle zone è infatti addirittura migliore di quella eccezionale del 2003. Resta invece un punto di domanda per quanto riguarda l’economia tra effetti della crisi, perdita di competitività delle aziende e calo dei consumi. E a proposito di crisi in Franciacorta, che oltre a produrre eccellenze enologiche è una delle zone più industrializzate d’Italia sono stati moltissimi i cassintegrati che hanno partecipato alla vendemmia per sbarcare il lunario: da quest’anno il governo ha infatti esteso a casalinghe e cassintegrati la possibilità (in precedenza prevista solo per pensionati e studenti) di compiere lavori stagionali agricoli. Il pagamento è avvenuto tramite i famosi voucher da riscuotere in Posta. La paga oraria, stabilita con il datore di lavoro, si aggira tra i sei e i dieci euro, di cui il 25 per cento è destinato ai contributi previdenziali. Ma a coloro i quali hanno partecipato alla raccolta per arrotondare le entrate si sono aggiunti molti enoturisti che hanno preso parte alla vendemmia per curiosità e per “divertimento” tanto che molti produttori hanno parlato di una vera e propria vendemmia-mania. Ma torniamo all’aspetto squisitamente tecnico: l’anda-

P

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mento climatico è stato contraddistinto dalla presenza di un anticiclone subtropicale e da una fase instabile e fresca, con buoni accumuli piovosi, che si sono sommati a quelli invernali e primaverili. Il successivo arrivo dell’ondata di caldo, unito alle elevate percentuali di umidità, ha favorito lo sviluppo di alcune malattie fungine della vite, che, però, stando a quello che dicono enologi e agronomi, non hanno causato danni rilevanti. La vite ha concluso ovunque la fioritura senza particolari problemi. Qualche anticipo sul 2008 nel ciclo fenologico della pianta si è registrato al nord; al centro e al sud la maggior parte dei produttori hanno segnalato una sostanziale analogia con i tempi dello scorso anno. Se i giudizi sulla qualità sono positivi, altrettanto non si può dire sul fronte dell’economia con l’allarme per le aziende vitivinicole italiane per la caduta dei prezzi delle uve ai produttori. A sostenerlo è la Confederazione italiana agricoltori (Cia), che evidenzia “una situazione sempre più difficile per le aziende che devono affrontare una una sensibile crescita dei costi produttivi e contributivi, con riflessi negativi anche sui redditi”. “Al favorevole andamento produttivo, quest’anno si è contrapposto – ha commentato il presidente della Cia, Giuseppe Politi – uno scenario complesso e carico di nubi oscure per le imprese. Sul comparto si riflettono gli effetti della crisi economica. Abbiamo assistito a una perdita di competitività delle aziende accompagnata dal costante calo dei consumi interni (soprattutto per i vini da tavola) che preoccupano e rendono inquieto il settore”. (P. P.)


VENDEMMIA

Il Veneto conferma il primato La vendemmia 2009 sarà quantitativamente sugli stessi livelli dello scorso anno e la qualità si profila più che buona, ma a causa della crisi economica i prezzi del vino subiranno ribassi con punte anche del 15-20 per cento. È quanto emerge dai primi dati ufficiali elaborati dall'Assoenologi che stima una produzione complessiva di uva tra i 63 e i 65 milioni di quintali da cui usciranno circa 46,3 milioni di ettolitri di vini e mosti, in linea con il 2008. Gli incrementi maggiori nella produzione vitivinicola 2009 si sono registrati – sottolinea Assoenologi – in Piemonte, Campania e Sardegna, mentre le regioni più deficitarie risultano le Marche, l'Abruzzo e la Puglia. Il Veneto, con 8,1 milioni di ettolitri, si conferma per il terzo anno consecutivo la regione più produttiva, seguita in classifica da Emilia Romagna (6,6 ettolitri), Puglia (6,2 ettolitri) e Sicilia (6,1 ettolitri). Insieme, queste quattro regioni, producono quasi il 60% di tutto il vino italiano.


Eventi

▼ Insalata di anatra e mango, Le Cirque, New York

La grande kermesse

“Chefs e champagne” di

L Il presidente della JBF Susan Ungaro in un'intervista per la Hamptons TV 44

L Julian Niccolini e Alessandra Rotondi


di Alessandra Rotondi nnanzitutto una premessa: considerate l’articolo che vi state accingendo a leggere come una sorta di “continuazione delle puntate precedenti”. Ancora una volta infatti si parla della James Beard Foundation e delle sue attività a New York (vedi numero 88 di DeVinis). Non è un errore. Il fatto è che la James Beard Foundation, a New York, e negli Stati Uniti in genere, è sinonimo di “tutto quanto fa cultura enogastronomica” e la maggioranza degli eventi che si tengono durante l’anno in città, o in America in genere che abbiano a che fare con il cibo o vino, sono a firma Jbf. Come “Chefs and Champagne” tenutosi questa estate negli Hamptons, meta storica delle vacanze dei newyorkesi dell’alta società. Gli Hamptons sono infatti la spiaggia glamour e chic a un’ora e mezza dalla città, dove i ricchi vanno a trascorrere i week-end o le ferie. “Chefs e Champagne” perché tutto l’evento si è svolto attorno questi due soggetti: i cuochi di circa 30 ristoranti della Big Apple – tra cui alcuni di proprietà italiana come il famoso Le Cirque del toscano Sirio Maccioni – ma anche di Las Vegas, Anguilla, East e Bridge Hamptons; e lo Champagne di tre maison d’Oltralpe che hanno sponsorizzato la serata. L’evento si è svolto nell’azienda vinicola Wölffer Estate Vineyards, dal primo pomeriggio fino a notte inoltrata. Pochi sanno che anche lo Stato di New York è molto vocato per la produzione vinicola, magari non al pari dei più famosi California o Oregon, ma si nota un grande impegno e voglia di perfezionismo che stanno dando grandi risultati. A fare gli onori di casa, oltre alla presidente della Jbf Susan Ungaro, Andrea Wölffer, titolare della tenuta, figlia del patriarca Christian, personaggio di grande fama, vero vignaiolo e un’icona per gli addetti ai lavori, recentemente scomparso, a cui sono stati dedicati momenti di commemorazione e alla cui memoria è stata indetta una borsa di studio di cui possa usufruire uno studente nelle arti culinarie, particolarmente meritevole. La prima beneficiaria è stata la giovane Christina Cassell che ha ricevuto il riconoscimento proprio durante la serata. Ma i veri “Ospiti d’Onore” erano Julian Niccolini e Alex Von Bidder, proprietari dello storico ristorante Four Season di Manhattan. A loro, il tributo più grande. L’edizione 2009 di Chefs and Champagne celebrava i 50 anni del ristorante di loro proprietà che si trova sulla 52 Street e Park Avenue, ovvero in un incrocio ideale tra una Via Montenapoleone meneghina e una Via Condotti romana. È considerato dai newyorkesi come qualcosa di sacro e inviolabile, un patrimonio cittadino o, usando la definizione data da Zagat (la guida più accreditata sulla ristorazione) “una meraviglia gastronomica e architettonica che non passerà mai di moda o di stile”. Il palazzo che lo ospita è il Seagram Building, uno dei primi grattacieli in acciaio inossidabile e vetro comparsi in città. Siamo nel 1959 quando gli allora proprietari si rivolgono a James Beard in per-

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Eventi L Lo chef Eddy Leroux, Daniel New York

L Ostriche del Four Season Restaurant

L Gli chef Alain Allegretti e Kerry Heffernan, NYC

L Lo chef Paul Bartolotta, Las Vegas 46

sona, il fondatore dell’organizzazione, scomparso nel 1985, per chiedergli una consulenza da esperto enogastronomico su come creare un locale tutto incentrato sulle eccellenze culinarie delle 4 stagioni. Comincia una collaborazione che non si è mai interrotta e che ha fatto del Four Season, mezzo secolo dopo, un locale-testamento di tutto quello in cui credeva Beard: “Freschezza degli ingredienti stagionali, creatività americana, apertura verso il mondo, il tutto alimentato dalla convinzione che il sedersi a tavola è molto più che un ‘semplice nutrirsi’: è innanzitutto cultura”. Gli eredi di questa filosofia di lavoro e vita sono gli attuali Niccolini e Von Bidder appunto, vere celebrità a livello nazionale. Vale la pena spendere qualche parola sull’italiano Julian Niccolini, lucchese di origine, poliedrico operatore di tutto ciò che è correlato all’enogastronomia essendo anche apicoltore e produttore vinicolo, titolare di una sua linea di miele e di sauvignon blanc prodotto da uve vendemmiate a Napa Valley con la collaborazione di Michael Mondavi che, a detta di molti e della campagna pubblicitaria che lo promuove, sarebbe in grado di far capitolare tutte le donne. Niccolini è così: simpaticissimo, accento toscano ancora percettibile, una forza della natura, grande esperto e tecnico, ma con grande affabilità e ironia. Ma Julian non era l’unico italiano presente. Spieghiamo il perché con una breve premessa. Chefs and Champagne, come tutti gli eventi a firma Jbf, si proponeva di raccogliere fondi a favore dell’organizzazione City Meals on Wheels e


per le borse di studio future. Oltre alle degustazioni di tutte le prelibatezze culinarie preparati dagli chefs partecipanti, tra cui abbondanza di pesce – con ceviches, ostriche, cocktail di aragosta, frutti di mare in tutte le versioni – si è tenuta un’asta di numerosi prodotti il cui ricavato è andato appunto in beneficienza. Tra i prodotti una linea di vino e olio d’oliva toscani dell’Azienda Diadema, titolare Alberto Giannotti, la quale produce anche vero champagne nell’omonima regione. Ma anche il caviale d’allevamento italiano era presente, proveniente dalla provincia di Brescia, azienda Agroittica, il cui presidente Sandro Cancellieri ha recentemente aperto un Lounge Bar proprio a Manhattan, all’interno del Four Season Hotel. Eventi come Chefs and Champagne hanno il merito aggiunto di aiutare a superare la crisi economica che ha colpito gli Stati Uniti. Afferma infatti Susan Ungaro: “Abbiamo vissuto fino ad ora un buon 2009. Mi sento autorizzata a pensare che la Jbf sia un indicatore visibile che l’economia si stia riprendendo. La gente che ama le arti culinarie non smetterà mai di celebrare il grande cibo e i grandi vini, né di godere di essi”. Con questa convinzione, la Jbf ha creato un nuovo motto che ci caratterizza: “We are going to eat our way out of these tough times.” Che tradotto significa: “Continueremo a mangiare a modo nostro, malgrado i tempi duri”, ma con un secondo significato non troppo nascosto che “l’arte culinaria saprà condurci alla soluzione e a uscire da questi tempi duri”.


Vino e architettura

Le prime emozioni nascono in

cantina

L La barricaia della Cantina La Brunella

di Alessia Cipolla a trasformazione del mondo del vino procede di pari Negli ultimi anni il marketing tradizionale ha infatti lasciapasso con la trasformazione del consumatore che, to sempre più spazio al marketing esperienziale che rivolseppur sempre più interessato e preparato, è però ge la sua attenzione verso il cliente e tenta di rendere ancora troppo distante dalla conoscenza del processo unica l’esperienza di fruizione e di consumo. Ecco alloproduttivo. L’attenzione dei professionisti è giustamen- ra che le aziende vitivinicole potrebbero quindi cogliere te rivolta al prodotto finale, all’abbinamento cibo-vino l’occasione della visita in cantina per trasformare la culmigliore, al territorio di provenienza, ma viene trascu- tura del prodotto in un’esperienza unica, attraverso un rato troppo spesso il fatto che la conoscenza di un pro- progetto globale di intrattenimento, un evento che impedotto è un’esperienza privata e personale che necessita gni tutti i sensi dell’ enoturista. di grandi cure. Le regole delle buona accoglienza in can- Come sostiene il professor Schmitt, autore del libro Expetina, una attrezzata sala da degustazione, un funziona- riental marketing, “le esperienze sono stimolazioni indotte ai sensi, al cuore e alla le spazio vendita, servizi mente. Esse, inoltre, uniigienici e parcheggi per gli scono l’azienda e la marca enoturisti sono elementi allo stile di vita del cliente fondamentali ma non più e collocano sia le azioni del sufficienti per creare una singolo sia l’occasione d’acstretta relazione e fiducia quisto in un contesto sociada parte del fruitore verso le più ampio. In breve, le il prodotto. esperienze forniscono valoChi compra, non paga più ri sensoriali, emotivi, cognisolo una bottiglia di vino o tivi, comportamentali e un buon servizio, ma chierelazionali che sostituiscode di poter trascorre del no quelli funzionali”. Le tempo a gustare un buon esperienze verso il prodotbicchiere, ascoltando il proto vengono suddivise dal duttore, o l’addetto all’acprofessor Schmitt in cincoglienza, sulle storie legaque moduli, che potrebbete al vino, sui vecchi saporo rappresentare la base ri e sentori, sul territorio. L La grande vetrata della sala da degustazione

L

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L L’esterno della cantina

del processo di conoscenza del vino all’interno della visita in cantina. Il sense costruisce esperienze sensoriali utilizzando il gusto, l’olfatto, il tatto, l’udito e la vista. Il percorso all’interno della cantina deve tener conto dell’impatto sensoriale sui clienti o potenziali clienti per aggiungere valore all’identità di marca. Il feel si riferisce alle esperienze affettive e interiori del cliente. Le tappe di conoscenza del vino dovrebbero saper suscitare emozioni, sentimenti, stati d’animo. Il prodotto dovrebbe essere in grado di relazionarsi con il mondo delle emozioni del consumatore. Il think ha l’obiettivo di creare stimoli ed esperienze per la mente. Durante la visita l’ enoturista dovrebbe essere coinvolto nella sua voglia di scoprire, capire e apprendere cose sempre nuove nel suo desiderio di essere sorpreso e provocato. L’act consiste nel proporre azioni fisiche e corporee ai clienti, un invito all’azione: in cantina il cliente potrebbe essere coinvolto fisicamente nella spiegazione di come avviene il processo produttivo del vino. Il relate va oltre l’esperienza personale dell’individuo, perché lo inserisce in un contesto sociale più ampio. In questa fase, l’esperienza è in grado di mettere l’individuo in relazione con gli altri individui e con le altre culture. L’enoturista deve sentirsi parte di un territorio fino ad allora mai esplorato, in pieno contatto con la gente, le tradizioni, la storia del luogo e dell’azienda. Continua con questo numero un percorso all’interno delle nuove cantine italiane realizzate tra il 2001 e il 2009 in tutte le regioni d’Italia scelte secondo la qualità architettonica e funzionale, oltre che al rispetto e alla valorizzazione del paesaggio circostante. III Cantina Azienda Agricola La Brunella (CN) Un progetto fatto in famiglia, Achille responsabile dell’azienda e Guido architetto, autore del progetto del packaging e della cantina per vinificazione,


Vino e architettura

La sala da degustazione

invecchiamento e affinamento di Nebbiolo da Barolo e cru Villero, a Castiglione Falletto, in una delle zone più belle e interessanti d’Italia, le Langhe. Il progetto è del 2004, la realizzazione del 2006. La struttura, circa trecento metri quadri di superficie complessiva, è costituita da un piano interrato con funzione di cantina da invecchiamento e un piano fuori terra dedicato all’imbottigliamento, etichettatura e confezionamento. I percorsi per la visita della cantina sono stati debitamente separati dai percorsi di produzione, ma l’enoturista, attraverso scorci e aperture, può seguire tutto il ciclo del vino. La nuova costruzione è un edificio dalla forma architettonica tradizionale, con tetto a falde e struttura semplice e compatta, costruito di fronte alla cantina pre-esistente, un edificio storico del Seicento all’interno del quale avviene la vinificazione. L’enoturista viene accolto in un piazzale tra i due edifici, il nuovo con una facciata di colore rosso, semplice e pulita, senza aggetti o elementi decorativi, nel tentativo di un primo dialogo con l’edificio storico. I restanti lati sono rivestiti da un innovativo modo di riutilizzare e riciclare le vecchie botti in disuso: si tratta infatti di facciate alte quasi dieci metri rivestite da pannelli fatti con le doghe di circa duecento barrique. In corrispondenza delle luci, è stata inserita una lamina d’acciaio che produce un sistema di riflessi, di giorno grazie alla luce del sole e di notte grazie all’ illuminazione notturna di colore blu, enfatizzando gli effetti e le sfumature del colore del legno e regalando all’edificio un aspetto fiabesco. Entrando, dopo aver attraversato un intimo disimpegno, si procede su una rampa dalla quale, attraverso apposite aperture, si resta in continuo contatto con il paesaggio circostante. Si entra quindi nella sala da degustazione, un locale rettangolare aggettante rispetto al filo della facciata, con circa 60 metri quadrati di vetrate rivolte verso le colline che circondano l’azienda agricola. Le altre 50

pareti sono state colorate con una tinta rossa usata anche per altre parti strutturali dell’edificio, un colore che conferisce alla stanza di degustazione corpo e personalità, percepibile sia verso l’esterno sia verso l’interno. Arredi e dettagli essenziali rendono questa zona un luogo adatto a una seria degustazione. Grazie a piccole feritoie presenti sulle pareti opposte alla vetrata si riescono a intravedere il resto degli ambienti della cantina e la produzione del vino. Una scala, elemento compatto e scultoreo che si insinua nella soletta del piano terra tra la sala di degustazione e la barricaia, permette la discesa verso il luogo di riposo del vino. La scala, rivestita internamente su tutti i lati da pannelli lisci di legno di pino, con luci a terra che segnano il passo verso la discesa, rappresenta un collegamento ovattato tra una realtà più pubblica e un’altra più contemplativa. Qui, oltre alle barriques, riposano anche botti e tonneaux: le une vicine alle altre, presenze in uno spazio dalla intima atmosfera. Le pareti sono colorate di nero, quasi a voler espandere infinitamente i confini di questo luogo. Al lato opposto della scala di accesso vi è un portone, superato il quale, all’esterno dell’edificio, dopo esser risaliti, si arriva al livello della produzione dove troviamo tutta la linea dell’imbottigliamento, l’etichettatrice, e il confezionamento. È questo un enorme spazio dal pavimento in battuto di cemento grigio, liscio e le pareti in resina rossa, un altro involucro contemporaneo per un prodotto così antico in continua trasformazione. Una scala interna in ferro zincato porta a un soppalco dove sono posizionati gli uffici, la zona riunioni e dove grazie a una finestra triangolare si ha l’affaccio sulla parte pre-esistente dell’azienda La Brunella. Un semplice e, nello stesso tempo, ricco oggetto architettonico poggiato delicatamente all’interno di un paesaggio pieno di fascino.


Tendenze

Sogno di una notte di

mezza estate di Roberto Piccinelli estate sta finendo, un anno se ne va…” cantavano i Righeira qualche lustro fa, dimostrando di comprendere bene quanto la fine della bella stagione non rappresenti soltanto uno spartiacque climatico, ma per tanti versi anche la fine di un sogno, il tramonto dei momenti spensierati. Che si trovano, ora, a scontrarsi con la realtà nuda e cruda. Anche se, a ben guardare, l’eterna lotta fra il bene e il male ci ha perseguitato anche nel bel mezzo del solleone. Ripercorriamo insieme gli accadimenti estivi, facendone tesoro per un verso e continuando a sognare per un altro.

“L’

Siete mai arrivati a Panarea, di notte, fendendo un mare liscio come l’olio, 52

ammirando un cielo stellato oltre ogni umana immaginazione, zigzagando fra i panfili in rada e avendo una ragazza dagli occhi di ghiaccio al vostro fianco? Qualora la risposta sia negativa, attrezzatevi, perché ne vale la pena. Avendo cura di scegliere la terrazza del Banacalii per un aperitivo e quella del Raya per balli glamorous. Senza dimenticare una cena Da Pina, ristorante chic&gastroshock, per eccellenza. Quello con la clientela più fashion e l’atmosfera più smart. Quello con il look più curato e la cucina più ricercata. Quello con i tavoli ceramicati dallo sfondo blu oltremare, i porta-tovaglioli artistici di matrice etno, i veli eterei e il nebulizzatore perimetrale. Quello, infine, che propone l’eccezionale Bauletto di Gamberoni di Cala Junco, non-

ché una Tartare di Tonno capace di resuscitare un morto... Ma sull’isola c’è un quarto locale da non perdere, non foss’altro perché le cronache estive lo hanno tirato in ballo abbondantemente. Stiamo parlando di quel Bridge Sushi Bar che ha negato un tavolo da 8 a Roman Abramovich, all’ora dell’aperitivo. Certo, il miliardario russo è ormai abituato, perché l’anno scorso, sempre a causa di tardiva prenotazione, si vide impedire una cena al Bistrot di Forte dei Marmi, ma va peggiorando: un conto è la cena e un conto l’aperitivo… È al tempo stesso piacevole e divertente riscontrare che, per i nostri locali, i soldi non sono tutto, nemmeno in tempo di crisi. Fatto sta che l’ex Circolo del Bridge ha fatto strike. Non solo grazie a una filosofia vita-


le imperniata sul jap-food e ad una deliziosa terrazza con vista panoramica sul porto, ma soprattutto alle cure amorevoli di Angela Mascolo, colei che in tempi non sospetti è stata definita da Carlo Rossella “La ragazza più bella del Mediterraneo”. Ovviamente, per il direttore e l’amico Diego Della Valle il tavolo ci sarebbe stato. Ça va sans dire. Gossip a parte, Panarea è, purtroppo, salita alla ribalta anche per una pessima notizia. Una diciottenne è entrata in coma etilico, a causa della grande quantità di alcol bevuto in una festa in barca, in mare aperto. Cosa e quanto abbia bevuto non è dato sapere, ma le circostanze sono note da anni. Nonostante si sia impropriamente ed inopportunamente parlato di “Rave party sul mare”, perché i rave sono tutt’altro, si tratta di eventi che si sviluppano al largo, a partire dalle 18.00, intorno a una barca dotata di potente impianto audio. La musica va a palla, tutti gli ospiti del natante principale iniziano a ballare sulla chiglia dello scafo e intorno all’ape regina si stabilizza una pletora di altre barche, i cui componenti non esitano ad adeguarsi al ballo, ma anche a socializzare e interscambiarsi. Fermo restando che ciascuna delle barche presenti in loco ha un frigorifero (magari anche due, con supporti di cesti termici, per di più) pieno di bevande che spaziano dal vino bianco allo Champagne, dalla vodka al gin, con il

supporto di energetici vari. Bere e ballare diventa un tutt’uno. Ma un conto era essere sulla dance-boat (con casse da discoteca!) del mitico Tonno o sul Magnum di Andrea Lotti, chez Andrea Camurri, al largo di Porto Cervo (preferibilmente, fronte isola di Mortorio o al largo della spiaggia della Celvia), dove la qualità del beverage era garantita e dove lo champagne ce lo consegnavano le aziende stesse tramite motoscafo, e un conto è bere quello che capita, mischiando schifezze a vanvera. Il problema è sempre lo stesso, in terra, in mare e in cielo: binge drinking, come direbbero gli americani. Il bere per il bere. Pratica che va strenuamente combattuta, facendo in modo che famiglie, istituzioni e media abbiano ben chiaro questo assurdo fenomeno, che coinvolge in modo assai pericoloso fasce sempre più giovani di età. La battaglia contro il binge drinking deve partire e tutti devono fare la loro parte. Ecco perché sono molto lieto di essere stato pesantemente coinvolto nel progetto “Bevi il giusto, basta il gusto”, voluto dall’Associazione tutti più educati e mirato a una campagna di sensibilizzazione, ma soprattutto a un percorso formativo rivolto alla scuole secondarie superiori. La prima pietra è stata la tavola rotonda organizzata nel Salone degli Affreschi del Chiosco dell’Umanitaria di Milano: il punto focale del progetto inizia a svilupparsi fra ottobre e novembre negli istituti scolastici della Lom53


Tendenze

bardia. Avremo quindi modo di riparlarne, a fronte della pronta partnership concessa dall’Ais e a fronte di quanto abbiamo purtroppo dovuto registrare, proprio a Milano: nell’ambito dei controlli post divieto di vendita alcolici ai minori di 16 anni, una ragazzina di 14 anni è stata trovata ubriaca persa di pomeriggio, in centro, in piena estate. Non ho più occhi per piangere. MA, ALLO STESSO TEMPO, PENSO POSITIVO… Ragion per cui non posso fare a meno di celebrare a dovere la riapertura del Covo di Nord Est di Santa Margherita Ligure: storica discoteca, rocciosa, a picco sul mare dove cantarono Frank Sinatra, Liza Minnelli, Sammy Davis jr., Barry White, Grace Jones e John Mc Enroe si scoprì chitarrista, dimostrando però di non essere dotato di talento in quella veste. Il rilancio del mito ha fatto felice anche la vicina Portofino, che, finalmente, non vede tutti i suoi giovani viaggiare di notte fino alla Versilia, pur di trovare qualcosa di divertente da fare. Ma, transumanze o meno, a Forte dei Marmi qualcosa da festeggiare c’è stato, eccome. La Capannina ha compiuto 80 anni! Inaugurata nel 1929 e amata da Italo Balbo che vi ammarava di fronte, ma anche da Emilio Pucci, Guglielmo Marconi ed Edith Piaf, ha saputo celebrarsi a dovere il giorno di Ferragosto. Stesso giorno scelto per i festeggiamenti de La Cicala, pronta a palesarsi a Viareggio dopo anni di assenza dalla piazza dance, ma dopo un ventennio dalla nascita. In questo caso, si tratta di una delle prime discoteche trendy della Versilia che Marco Galeotti&C. hanno voluto rispolverare ad hoc. Rimanendo in Toscana, non posso fare a meno di celebrare i fiumi di Champagne Drappier che hanno fatto da corollario alla mia, magica e frizzante festa di compleanno al Manduca di Firenze, con Selen per la prima volta in veste di dj. Passando, come di dovere, all’altra riviera, va santificata la stagione di Jesolo, The City Beach, che ha potuto contare sul successomonstre del concerto dei Chemical Brothers sulla Terrazza del Faro, ma anche sulla verve vincente di locali quali Il Muretto, Zebù, Terrazza Mare e Marina Club. A scendere, va elogiato il Villa Prati di Bertinoro per il giovedì oceanico crea-

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to da Sauro Moretti, anche se, come al solito, sono Cervia e Milano Marittima a fare strike. Cervia, grazie a un Fantini Club, che compie 50 anni, amplia le sue strutture balneari e organizza un’affollata tavola rotonda sull’evoluzione degli stabilimenti balneari. Milano Marittima, grazie a Pacifico e Pineta Club che tengono ampiamente botta, ma anche a La Frasca che porta la buona cucina in loco, finalmente. Quanto a Fantini, che ha aperto anche un hotel, sperimentato proprio in occasione del convegno Cinquant’anni di vacanze sulle spiagge della Riviera: 1959-2009 cui ho partecipato con piacere, ci sarebbero tanti meriti da elencare, ma nell’occasione mi piace fare il critico, a ragion veduta: nel buffet proposto, post chiacchierata pubblica e costruttiva, il vino privilegiato era un Gewürztraminer. Niente da dire sulla qualità dello stesso ma, visto che a promozionare il tutto c’era l’Apt Emiliano-Romagnola, con il trio Babbi-Gottifredi-Grassi in pole position, perché non dare spazio solo e soltanto al pur presente Aulente Bianco by San Patrignano? Del resto, quando l’ho fatto stappare, facevano a gara per rubarmelo da sotto il naso… Quanto a Milano Marittima, ho per l’ennesima volta potuto toccare con mano l’importanza del Pineta per l’economia cittadina. Nell’ambito del cambio stagionale datato fine luglioinizio agosto, il martedì notte era pieno e vivace grazie all’apertura della famosa discoteca. La controprova si è avuta il giorno dopo, mercoledì, a dancefloor chiuso: poche persone in strada, pochissima gente nei locali pubblici, con un’eccezione, La Frasca. Che aveva tavoli sufficientemente pieni, ai prezzi che la qualità impone. E che mi ha proposto un piacevolissimo, non conosciuto prima, nonostante sui vini siciliani sia particolarmente ferrato, Montalto, collezione di famiglia, sauvignon blanc. Quanto alla cena, beh non posso fare altro che ribadire quanto scritto e affermato in altre occasioni: era proprio necessario che si scomodasse Gianfranco Bolognesi, trasferitosi qui con armi e bagagli e il suo gioiello goloso denso di storia e futuro, per regalare, finalmente, una cucina qualitativa a una località trendy! Fra le chicche golose assaggiate, mi sentirei di consigliare urbi et orbi Calamaretti, sardoncini e funghi porcini fritti, ma


anche Bocconcini di rombo chiodato al salfiore di Cervia profumato alla vaniglia, verdure brasate e tulle al sesamo. Una particolare attenzione la merita il look del locale, attuale, moderno, cosmopolita. Potrebbe essere qua o a New York e si sentirebbe ugualmente a casa, fra i due pini marittimi incastonati, le finestre listellate, le sedie a spirali bicolori, il salottino di pelle nera sovrastato dalla scritta futurista, la statua neoclassica, le maxi lampade a forma di carciofo, legate da fili luminosi ed i mitici quadri pop ricavati su una sorta di scudi circolari. Pare un modo per far capire che Milano Marittima non è solo veline e calciatori, ma anche imprenditori aperti al mondo. Per far capire che siamo entrati nel Terzo Millennio, dove a fare i locali uno uguale all’altro si rischia, seriamente, di lasciarci le penne. Complimenti di cuore, caro Gianfranco, ma ti prego: i prossimi che entrano dicendo “Com’era calda la vecchia Frasca!” e “Non ha niente a che vedere con gli altri ristoranti della zona!”, lasciali fuori. Non ti meritano.

DULCIS IN FUNDO Un resoconto degli accadimenti estivi non può prescindere dal grande afflusso giovanile riscontrato a Gallipoli in particolare e nell’intero Salento, più in generale. Sandro Toffi ha puntato forte sui privè-champagneria tanto nell’Outline quanto nel Praya, entrambe discoteche all’aperto, entrambe baciate da un ottimo successo di pubblico. A Capri dove, nottetempo, continuano a spopolare Anema e Core e Number Two, continuano a sorprendere le vendite di

grandi formati targate Aurora Vino, microenoteca di lusso che, in soli 22 mq, incassa quasi 3.000 bottiglie di vino: potenze della scienza e della tecnica! Eh sì, perché il regno eno-hi-tech

di Mia e Raffaele D’Alessio guarda al futuro con pareti di acciaio, vetrine climatizzate e videofondale. Per finire, un tarlo casalingo, nato nella mia testa durante le giornate spese per la realizzazione della mia Guida al Piacere e al Divertimento, versione 2010: perché i supermercati non si dotano di un sommelier o quanto meno di un direttore agli acquisti che di vino ne mastica, davvero? Proposte insulse e rapporti qualitàprezzo disattesi sono all’ordine del giorno. Ma ditemi cosa ne pensate di Franciacorta Brut Valentinus (8,49 euro), Franciacorta Brut Mirabella (10,00 euro) mentre il Saten ne costa 15,00), Franciacorta Saten Castel Faglia (9,99 euro, ma pagato 7,99, perché in offerta, versione Brut a 8,99, con prezzo ribassato a 6,99 euro) e Bortolin Cartizze (12,50 euro): a me c’è qualcosa che non torna ed a voi?

INDIRIZZI Anema e Core - via Sella Orta 39/e, Capri (NA) Tel. 081/8376461

La Frasca - Rotonda Don Minzoni 3, Milano Marittima (RA) Tel. 0544/995877

Aurora Vino - Via Longano 8, Capri (NA) Tel. 081/8374458

Marina Club - Via Roma Destra 120/b, Jesolo Lido (VE) Tel. 0421/370645

Banacalii - Via San Pietro, Panarea (ME) Tel. 090/983004

Number Two - via Camerelle 1, Capri (NA) Tel. 081/8377078

Bistrot - Viale Della Repubblica 14, Forte Dei Marmi (LU) Tel. 0584/89879

Outline - Via Adriatica Km. 2, Lecce. Tel. 320/2703377; 333/3452042

Bridge Sushi Bar - Via Porto, Panarea (ME) Tel. 339/2172605

Pacifico - Viale Romagna 64, Milano Marittima (RA) Tel. 0544/994727

Covo di Nord Est - Lungomare Rossetti 1, Santa Margherita Ligure (GE) Tel. 0185/290348; 348/5177777

Pineta Club - Viale Romagna 66, Milano Marittima (RA) Tel. 0544/994728

Da Pina - Via San Pietro 3, Panarea (ME) Tel. 090/983032 Fantini - Lungomare Grazia Deledda 182, Cervia (RA) Tel. 0544/72236 Il Muretto - Via Roma Destra 120, Jesolo Lido (VE) Tel. 0421/371310

Praya - Loc. Baia Verde, Litoranea Sud, Gallipoli (LE) Tel. 347/6308687 Raya - Punta Peppe e Maria, Panarea (ME) Tel. 090/983013 Terrazza Mare - Vicolo Faro1, Jesolo Lido (VE) Tel. 0421/370012

La Capannina - Via Repubblica 16, Forte dei Marmi (LU) Tel. 0584/80169

Zebù - Piazza Venezia c/o Laguna Shopping, Jesolo Lido (VE) Tel. 0421/381839

La Cicala - Terrazza Repubblica 2, Viareggio (LU) Tel. 0584/50005

Villa Prati - Loc. Capocolle, via Nuova 2447, Bertinoro (FC) Tel. 0543/445523 55


Degustazioni

I vini piccoli e “diversi” di

Carmignano

di Alessandro Franceschini angiovese in purezza oppure no? “Forse oggi si potrebbe anche provare. Ma qui l’uva francesca è coltivata dai tempi dei Medici”. Questo il problema, o forse, al contrario, la caratteristica distintiva. Dipende dai punti di vista. Chi parla è Giuseppe Rigoli, enologo e proprietario di Fattoria Ambra, piccola realtà tra Comeana e Poggio Caiano, nel cuore di produzione del Carmignano, che curerà anche l’introduzione sulle caratteristiche dell’annata 2008 durante la presentazione alla stampa dei nuovi millesimi il giorno dopo presso le sale di

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degustazione di un altro storico produttore della zona; la Tenuta di Capezzana. La domanda, lecita, nasce durante un piacevole pomeriggio trascorso con questo giovane enologo, che ci ha accompagnato alla scoperta dei vini della più piccola Docg italiana, quella Carmignano, in provincia di Prato, a due passi dalla zona di produzione del Chianti, ma diversa per epoca di vendemmia e conformazione dell’intero territorio. “Carmignano anticipa sempre nel germogliamento e nella vendemmia rispetto al Chianti Classico, circa due

settimane” e in alcuni areali anche un mese, come nel caso della vigna Montefortini, dalla quale Rigoli vinifica separatamente il sangiovese di uno dei quattro cru aziendali. Una scelta coraggiosa quella di presentare quattro Carmignano differenti a seconda di quattro differenti terroir, nata un po’ dalla lucida follia e passione insieme del loro broker e importatore per il mercato statunitense, ma soprattutto perché, effettivamente, i terreni erano diversi: “alberese a Santa Cristina, galestro e arenarie a Montalbiolo, Tufo ed arenarie a Montefortini e infine


galestro e argilla a Elzana”. E l’assaggio da botte dei sangiovese 2008, in alcuni casi già assemblati con piccole quantità di canaiolo, che poi diverranno Carmignano, anche nelle versioni riserva, non tradiscono quelle differenze tanto inseguite in etichetta: molto floreale con una gran dolcezza della componente fruttata l’Elzana, più austero, elegante e vibrante nella sua vena acida il Montalbiolo, lievemente vegetale il Montefortini, già speziato con lievi cenni che rimandano alla macchia mediterranea il Santa Cristina. Con accentuati sentori di mora e lievi, a dire il vero, sfumature vegetali l’assaggio di un campione da una botte di cabernet sauvignon e franc insieme. Sicché? L’uva “francesca”, qui a Carmignano, sente il terroir come il sangiovese o prevale, comunque, il varietale? Quel 10 per cento che si deve, come minimo, aggiungere, a un massimo di 90 per cento di sangiovese consentito, influisce o meno sul prodotto finale? “Difficile rispondere” ci dice ancora Rigoli. Difficile perché per molti, visto l’oramai secolare acclimatamento del cabernet da queste parti, l’influenza sull’assemblaggio finale si sente, ma non stravolge l’identità del sangiovese. Probabilmente è anche inutile porsi il problema. Così, d’altronde, vuole la tradizione da queste parti poiché, come si dice in questi casi, “si narra” che fu Caterina de’ Medici nel sedicesimo secolo a volere che a Carmignano si piantasse anche l’uva “francesca”, chiara storpiatura che indicava la provenienza d’Oltralpe delle uve. Questa “diversità” è sempre stata uno dei tratti distintivi, tanto da far sì che molti definissero il Carmignano quasi un progenitore dei Supertuscans poi andati in voga negli anni Novanta, proprio per quella presenza di uva francese. Ma l’originalità di questo vino non dipende solo dall’antica presenza, certamente significativa, di quest’ultima. Pur vicino al Chianti, tanto da essere inglobato nel suo primo disciplinare del 1932 in una delle sue sette sottodenominazioni, conserva peculiarità che lo rendono indipendente: piovosità concentrata negli ultimi due mesi di maturazione dell’uva, cioè a settembre e ottobre, una grande luminosità, una differenza di altitudine media rispetto al vicino Chianti Montalbano di circa 200 metri in meno e di conseguenza una maggior quantità di calore assorbito dal terreno che porta, come detto

all’inizio, a una vendemmia solitamente anticipata. 40 chilometri quadrati, dunque, con una chiara collocazione pedoclimatica che, nel 1975 riconquistano la loro “indipendenza”, ottenendo la Doc per merito di una congregazione di viticultori locali, dal cui nucleo nel 1999 nascerà poi il Consorzio di Tutela vero e proprio. L’attuale disciplinare, datato 9 luglio 1998, che ha modificato il precedente del 20 ottobre del 1990, anno di conseguimento della Docg, consente quel miscellaneo tipico anche nel vicino Chianti: quindi spazio al sangiovese (minimo 50 per cento), a cabernet franc e sauvignon (tra il 10 per cento e il 20 per cento), al canaiolo nero (usato oramai da pochissimi e, nel caso, per un massimo del 20 per cento), a trebbiano toscano, canaiolo bianco e malvasia del Chianti (da soli o insieme per un massimo del 10 per cento) e infine a un 10 per cento di vitigni a bacca rossa raccomandati o autorizzati nella provincia di Prato. Quali? Spesso merlot e syrah che negli ultimi anni stanno sostituendo progressivamente la triade bianca autoctona. C’è, d’altronde, fermento in questo piccolo comprensorio, che si è tramutato in una crescita quantitativa, a livello di superficie vitata e di ettolitri prodotti, non indifferente, senza stravolgere i connotati di una denominazione che difende con orgoglio e passione la sua piccola originalità. Se agli inizi degli anni Novanta gli ettari vitati erano poco più di 100, praticamente come ai tempi di Cosimo III de’ Medici, oggi superano i 200, dei quali 150 destinati proprio alle produzioni di vini Doc e Docg. Stesso discorso per gli ettolitri: dai 2000 agli attuali 7000 del 2007. Numeri in aumento che si traducono anche in una maggior offerta produttiva: dal 2000 ad oggi sono nate cinque nuove aziende (Tenuta la Borriana, Fattoria Le Ginestre, Podere Le Poggiarelle, Podere Il Sassolo e Colline San Biagio), nonché il numero di produttori aderenti al Consorzio è cresciuto e con il nuovo ingresso previsto nel 2009 (Il Castellaccio), raggiungerà le 16 unità. Il mercato, come per molte altre denominazioni italiane, toscane in particolare, è sbilanciato all’estero: il 60 per cento, prende infatti la via dei paesi della Comunità europea e d’Oltreoceano (Stati Uniti, Canada, Brasile e Messico). Il restante 40 per cento in Italia. 57


Degustazioni

LA DEGUSTAZIONE Le degustazioni alla cieca si sono tenute nella Tenuta di Capezzana all’interno della manifestazione “Di Vini Profumi” giunta alla sua decima edizione. 49 i campioni testati tra Barco Reale Doc, Carmignano Vin Ruspo Doc, Carmignano e Carmignano Riserva Docg, Vin Santo di Carmignano Doc e gli Igt locali. Un doveroso ringraziamento alla locale delegazione Ais di Prato, coordinata da Bruno Caverni, che ha svolto il servizio dei vini in una sala tanto bella quanto di non semplice gestione, visti gli spazi angusti. Vi proponiamo 10 vini, scelti all’interno delle categorie presentate.

Fattoria di Bacchereto – Carmignano Docg 2007 Terre a Mano – Bacchereto (PO) Vitigni: sangiovese 75%, canaiolo nero 10%, cabernet sauvignon 15% L’azienda di Rossella Bencini Tesi, dotata di uno splendido agriturismo, mostra da tempo un vivace interesse nei confronti dall’agricoltura biodinamica. Da vigne di 15 e 25 anni, con rese molto basse (33 quintali per ettaro) ottiene questa convincente versione di Carmignano, fermentata con lieviti indigeni e affinata per 24 mesi in tonneaux da 350 lt. Spezie fini in apertura, con sfumature di cardamomo e un frutto dolce di ciliegia. Fresco, ottimo centro bocca e lunghezza di grande spessore e incisività.

Tenuta di Capezzana – Carmignano Docg 2006 Villa di Capezzana – Seano (PO) Vitigni: sangiovese 80%, cabernet sauvignon 20% Vinificato in acciaio e affinato per 14 mesi in tonneaux da 350 lt, colpisce per la sua mineralità, il centro bocca di grande struttura ed una persistenza lunga, fascinosa, sapida, che richiama i mirtilli e le ciliegie. Un campione di gran razza quello dell’azienda di riferimento quando si parla di Carmignano, vuoi per la qualità della sua produzione, vuoi per la storia della tenuta della famiglia Bonacossi.

Fattoria Ambra – Carmignano Riserva Docg 2006 Elzana – Carmignano (PO) Vitigni: sangiovese 90%, cabernet sauvignon 10% Giuseppe Rigoli conduce i 20 ettari di famiglia suddivisi tra quattro cru, tra i quali l’Elzana, che esce in versione riserva. Ambra, nome scelto dalla mamma nel 1955, trae origine dall’omonimo poema scritto da Lorenzo il Magnifico. 24 i mesi di affinamento, 12 dei quali in tonneaux da 350 lt e 500 lt e il restante periodo in botti di rovere. Un grande connubio, quello tra spezie, balsamicità e ciliegia ben matura, fresca ed elegante. Così come l’impatto in bocca, deciso, snello, con tannino di ottima tessitura e finale lungo e deciso.

Piaggia – Carmignano Riserva Docg 2006 – Poggio a Caiano (PO) Vitigni: Sangiovese 70%, Cabernet Sauvignon 20%, Merlot 10% Mauro Vannucci, ovvero Piaggia; 17 ettari di proprietà sulle colline di Cegoli, Poggetto, Santa Cristina, Mezzana e Carmignano e una riserva che riesce con eleganza a coniugare uso della barrique e grande concentrazione di estratti. Vino dolce all’impatto, nelle sfumature speziate di frutto. Tannini ancora vigorosi, mordenti con PAI di bella lunghezza e un finale che richiama il ribes e le note vegetali.

Tenuta Le Farnete – Carmignano Riserva Docg 2006 – Comeana (PO) Vitigni: Sangiovese 80%, cabernet sauvignon 20% 40 gli ettari totali, 8 quelli dedicati alla vite con proprietà che spaziano anche a Montalbano con la Tenuta Cantagallo e a Greve in Chianti con la tenuta Matrone. Di stile moderno con una buona mano nell’uso del legno, non dimentica freschezza, buona trama sapida, tannini di grana fine e ben integrati e un’ottima lunghezza dai richiami balsamici.

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Marchese Pancrazi – Pinot Nero Villa di Bagnolo Igt 2007 – Bagnolo di Montemurlo (PO) Vitigno: pinot nero 100% Un errore del vivaista, nel 1970, fece sì che venisse piantato pinot nero invece che il tradizionale sangiovese. La fortuna che fosse piantato in un cru dalla bella vocazionalità ha fatto sì che ancora oggi venga vinificato non senza soddisfazioni. Un anno di affinamento in barrique e un bouquet garbato, elegante, selvatico nella sua trama di frutti di bosco e cenni vegetali. Bella la distensione del frutto anche in bocca, con lunghezza di bella fattura, equilibrio e tannini setosi.

Tenuta la Borriana – Barco Reale di Carmignano Doc 2007 – Carmignano (PO) Vitigni: Sangiovese 70%, canaiolo 10%, cabernet sauvignon 15%, merlot 5% 30 gli ettari sui quali si estende la tenuta tra olivi, vigneti e il complesso agrituristico. Piacevolmente dolce l’impatto, con note di viola e ciliegia e un tocco speziato. Semplice quanto snello, di facile lettura e beva, tannini vivi e una lunghezza che richiama sfumature lievemente minerali e agrumate. Un’ottima interpretazione del carmignano “giovane”.

Fattoria Ambra – Barco Reale di Carmignano Doc 2008 – Carmignano (PO) Vitigni: sangiovese 80%, cabernet sauvignon 10%, Canaiolo 5%, Merlot 5% Tannini di bella grana e setosità, maturazione del frutto sempre ben calibrata e fine. I vini di Rigoli hanno un timbro inconfondibile, quello della bevibilità. Anche in questo caso, con un vino meno pretenzioso, slancio e apertura aromatica non mancano, insieme a un tocco floreale di bella fattura.

Tenuta la Borriana – Carmignano Vin Ruspo Doc 2008 – Carmignano (PO) Vitigni: Sangiovese 70%, canaiolo 10%, cabernet sauvignon 15%, merlot 5% È il rosato di Carmignano, antico retaggio, nel nome, dell’usanza del mezzadro di ritardare il trasporto in fattoria dell'ultima tinella di uva ammostata, dalla quale, durante la notte, "ruspava" un certo quantitativo di mosto che finiva nella sua cantina. Fresco, nervoso, di bella tensione acida, è lineare nel suo sviluppo aromatico, con i lamponi in bella evidenza al naso.

Tenuta di Capezzana – Trebbiano di Capezzana Igt 2006 – Seano (PO) Vitigni: trebbiano 100% Un vino nato nel 2000, con l’intenzione di rilanciare il trebbiano in Toscana, operando una selezione massale di questo vitigno in azienda. Un vino di gran classe, perfetto nella coniugazione dei legni piccoli, nei quali affina per 15 mesi, e della freschezza gustativa. Burroso, con note di frutti tropicali appena accennate e zafferano. Morbido e fresco insieme, con un finale di grande persistenza.

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Proverbi

Pillole di di Luisa Barbieri ciuccio porta ‘o vino e veve l’acqua. L’asino porta il vino e beve l’acqua, dicono i napoletani. È solo uno delle centinaia di migliaia di proverbi sul nettare di Bacco. Si tratta della testimonianza diretta di quel che il vino, nell’immaginario collettivo, da sempre rappresenta. “In vino veritas”. Partiamo da qui: quando si beve un po’ più del solito si dice la verità. Mica male unire il piacere di una buona bevuta alla soddisfazione di poter dire quel che si pensa vis-à-vis. Tanto, a prendersi la colpa, sarà lui: il solito e “maledetto” bicchiere di troppo. E poi “Il vino fa buon sangue” recita un altro detto. Perciò, in linea con quel che la saggezza popolare suggella, come dare torto a Vittorio Sgarbi che provocatoriamente invita tutti i giovani milanesi a bere vino a Salemi, di cui ora è primo cittadino? Le nuove generazioni vanno educate a quel che di prezioso produciamo in Italia, dice l’ex assessore della giunta milanese rivolgendosi al sindaco del capoluogo lombardo Letizia Moratti, firmataria dell’ordinanza che giustamente, diciamo noi, vieta la vendita di alcol ai ragazzi. “No ai super alcolici, sì al buon vino”, aggiunge Sgarbi. Per tutti ecco invece una rapida e “proverbiale” rassegna: I A chi non beve il vino, il Signore tolga anche l’acqua. I A chi piace il bere parla sempre di vino. I Amicizia stretta da vino non dura da sera a mattino. I Bellezza senza bontà è come vino svanito. I Bevi del buon vino e lascia andare l’acqua al mulino. I Chi ha buon vino in casa ha sempre i fiaschi alla porta. I Chi ha buona cantina in casa non va pel vino all’osteria. I Chi ha pane e vino sta me’ che il suo vicino. I Del vino il primo, del caffè il secondo, della cioccolata il fondo. I Dir pane al pane e vino al vino. I Dove regna il vino non regna il silenzio. I Il cuore è come il vino: ha il fiore a galla. I Il vino di casa non ubriaca. I Il vino fa ballare i vecchi. I Il vino è buono per chi lo sa bere. I Il vino è mezzo vitto. Perle di saggezza popolare e di vita quotidiana nate dall’esperienza che

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L Vittorio Sgarbi

insegna a dosare il “nettare divino” per poterne godere. Divino, sì; lo conferma la leggenda. Si narra che il vino sia un dono concesso agli uomini dalle divinità, per gli Egiziani Osiride, per i Greci Dioniso, per i Latini Bacco, per gli Italici Saturno e per gli Ebrei Noè. Le leggende sono numerose: tutte narrano di un dio che dona il prezioso frutto dell’uva all’uomo. La più antica di queste leggende dice che Saturno, cacciato da suo figlio Giove dall’Olimpo, si rifugia nel Lazio dove inse-

gna la viticoltura al re Giano che prende il nome di Enotrio. Un’altra leggenda racconta che Bacco in viaggio in Arabia, per riposare un momento, siede vicino a una giovane e rigogliosa vite che, dopo aver deciso di portare con sé, sradica introducendola, per ripararla dal sole, in un osso di uccello. Essendo poi cresciuta, la ripone in un osso di leone e ancora successivamente nel cranio di un asino. Giunto a Nisa, mette il tralcio nella terra e assiste alla sua crescita con produzione di grappoli d’uva meravigliosa dai quali ottiene un dolce vino che dà da bere agli uomini. Questi diventano allora loquaci, forti come leoni, ma bevendo quel nettare così esageratamente diventano simili agli asini. Leggende, dunque, che lasciano intendere come da sempre gli effetti del vino siano noti e che si prodigano per allontanare gli uomini dal vizio. Ma che soprattutto inneggiano alla virtù di saperne apprezzare i benefici con un punto fermo: la moderazione.

Paese che vai, proverbio che trovi CHI VA VIA PERDE IL POSTO ALL’OSTERIA Romagna: Chi ch’va a sant’Anna, perd e’ post a la scranna Emilia: Chi va a sant’Anna, perd al lug e la scrana Piemonte: Chi aossa l’anca, èperd la banca Veneto: Chi alza el culo perde el scagno Lombardia: Chi va n’campagna, perde la scagna Sicilia: Cui si susiu, locu pirdiù; cui s’assitau, locu truvau NON SI PUÒ AVERE LA BOTTE PIENA E LA MOGLIE UBRIACA Marche: En s’pol avè la bott pina e la moj imberiaca Campania: Non è possibbele avere greco e cappucce; la votta chiena e ‘a mogliera ‘mbriaca VINO AMARO TIENILO CARO Piemonte: Vin amar, ten’lo car Veneto: El vino amaro, tientelo caro Calabria: Vinu amaru, tenalu caru QUANDO LA BARBA FA BIANCHINO, LASCIA LA DONNA E TIENI AL VINO Romagna: Quand che la berba la tir a e ‘stupen, lassa la dona e beda a e’ ven Emilia: Quand la berba fa al stupen, lasa el don e tent al ven Veneto: Co ‘lcavelo trà al bianchin, lassa la dona e tiente al vin Lombardia: Quando la bara la trà al bianchì, lassa la dona e ciapa ‘l vì Piemonte: A la barba grisulina a i veul suvens ‘l gius d’la tina Campania: Abbecine a sessantine, llasse i ffèmmene e ppiglie u vine


saggezza popolare L’ANTOLOGIA ENOLOGICA Non potevano mancare alcune citazioni di celebri artisti, poeti e scrittori.

Leonardo Da Vinci: “Et però credo che molta felicità sia agli homini che nascono dove si trovano i vini buoni” Umberto Saba: “Tra un atto e l’altro, alla Cantina, in giro rosseggia parco ai bicchieri l’amico dell’uomo, a cui rimargina ferite, gli chiude solchi dolorosi; alcuno venuto qui da spaventosi esigli si scalda a lui come chi ha freddo al sole” Giosuè Carducci: “…ma per le vie del borgo dal ribollir de’ tini va l’aspro odor de i vini l’anime a rallegrar….” Catullo: “E voi andatevene dove vi pare, acque che rovinate il vino, andatevene dalle persone serie. Qui bacco è schietto” Confratello: “Bevo solo in due occasioni: quando sono assetato e quando non lo sono” Oscar Wilde: “Trovo che l’alcol, assunto in dosi adeguate, provochi tutti i sintomi dell’ubriachezza” Charles Baudelaire: “Chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere…” Ligabue: “Carponi si esce dalla cantina… non si entra”


Turismo

Marocco, la bellezza della varietĂ

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Le Tanneries di Fés, dove si tingono le pelli

di Elisa della Barba

l canto del muezzin è un’onda. Quando arriva investe di passato e presente, di suoni, emozione e polvere. Ne intuisci il vociare che porta il messaggio di moschea in moschea fino a quando si fa sempre più vicina, potente, violenta, fino a raggiungerti rumorosamente il cuore. Del Marocco, al ritorno, ti porti indietro la nostalgia. Dei rumori, dei colori, dei profumi, degli odori, dei sorrisi delle persone. E allora metti insieme i pezzi e comprendi la grandezza delle diversità, il mistero del cercare senza dover necessariamente trovare. Il Marocco, nonostante tra tutti i Paesi Africani sia uno dei più economicamente indipendenti e attrezzati per il turismo, è simbolo di terre sconosciute, esotiche e culturalmente lontane per la maggior parte dell’Occidente. La maggioranza dei turisti del Marocco sono europei, e lo hanno reso una delle mete turistiche più apprezzate del mondo. Dall’ambiziosa strategia ideata nel 1999 chiamata ‘Vision 2010’, che mirava ad attrarre 10 milioni di turisti entro il 2010 e a incassare ricavi turistici pari al 20% del prodotto interno lordo, ad oggi, si può dire che il Marocco abbia raggiunto molti degli obiettivi che si era prefissato: con 8 milioni di turisti nel 2008, il Marocco ha guadagnato 57 miliardi di dirham in incassi turistici. Un ammontare, appunto, pari al 20% del suo prodotto interno lordo (127 miliardi di dollari nel 2007). Nei primi cinque mesi del 2008 il paese ha calcolato un incremento del turismo dell’11% rispetto agli stessi mesi del precedente anno, con 927.000 turisti francesi in cima alla lista, seguiti da 587.000 spagnoli e 141.000 inglesi. È pur vero che questi stessi turisti hanno diminuito la durata della loro permanenza, visto che il livello dei pernottamenti è sceso del 3%, ma si può comunque parlare di risultati più che soddisfacenti vista l’aria di crisi che pare avere solo sfiorato il Paese. Ulteriore strategia volta al turismo è il ‘Plan Azur’, che mira a internazionalizzare il paese. Ideato e iniziato da Mohammed VI, re del Marocco, il programma prevede la costruzione di 6 Resort distribuiti lungo la costa – 5 sulla costa atlantica e uno sul Mediterraneo – adibiti a seconde case e per affitti temporanei a uso dei turisti. Il Paese prevede anche un perfezionamento degli aeroporti regionali (in parte già avvenuto per Fès e Marrakech) e la costruzione di nuovi treni e strade. Il Marocco in realtà è già molto ben collegato rispetto ai suoi “cugini” africani: dispone di eccellenti collegamenti ferroviari e stradali che mettono in comunicazione le città principali e le regioni più turistiche sia con porti che con aeroporti internazionali. Un quadro positivo per un Paese che non rientra nei ‘rivali diretti’ dell’Italia ma che comunque va tenuto d’occhio, capito e analizzato, soprattutto per quanto riguarda le problematiche in comune. Così come per l’Italia, anche per il Marocco la stagionalità è un problema: agosto rimane il mese più gettonato, con un totale di 2.027.942 pernottamenti (2008), seguito da luglio con 1.640.518 e aprile con 1.516.864. I mesi difficili però restano, con dicembre e gennaio in coda per il 2008 con un 3% e un tasso d’occupazione delle camere del 45%. In calo anche in Italia il numero dei pernottamenti dei turisti con un ammontare di – 5,4% del 2008 rispetto al 2007. L’Italia soffre anche di un mercato fruito principalmente dai Paesi dell’Unione Europea (in testa la Germania) per quanto riguarda la nazionalità dei turisti. Questo vale anche per il Marocco, che sta lanciando diverse modifiche per richiamare a sé un più ampio spettro di provenienza dei turisti, oggi in prevalenza Europei (Francia, Spagna, Inghilterra, Italia, Belgio). Non solo: si cerca di recuperare le nazionalità “in fuga”, come i turisti tedeschi, la cui

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Turismo

L Tangeri, storico crocevia di popoli e di culture Le strade strette della Medina di Fès, riparate dalle grate per difendersi dal calore

affluenza è diminuita di quasi il 10% dal 2001 al 2008. Per invertire questa tendenza, il Marocco ha messo in atto nuove strategie come la riapertura del Resort Spa a Taghazoute (che vanta l’argan terapia, dal prezioso olio d’argan che si può estrarre esclusivamente in Marocco) o il Resort Spa in Saidia (apertura 2009) e Magazan (ottobre 2009), concepiti per soddisfare la domanda tedesca. Il Marocco sta investendo in maniera significativa anche per una migliore distribuzione del turismo all’interno del paese (problema che per l’Italia riguarda il Sud e le Isole, con un deficit nel 2008 dell’11,9% rispetto al 2007). Marrakech continua a essere la città più visitata del paese (ha, infatti, a disposizione quasi il 30% dei posti letto totali), con il 34% di pernottamenti in albergo. Fès però ha riportato già nel 2004 un incremento del 20% di turisti, dimostrando che una diversificazione del settore è possibile. Fès ha migliorato la capacità dei suoi hotel e ha ristrutturato la città vecchia, che vanta la Medina più grande del mondo. Con i suoi muri stretti stretti fra loro, uniti da grate per creare un poco d’ombra, la Medina è un labirinto che conduce a luoghi appartenenti a un passato lontano, come le Tanneries, dove si tingono le pelli. Molti turisti si recano a Fès anche solo per assistere a questo bellissimo “acquerello gigante”, che provoca commozione per chi vi lavora così aspramente e stupore per la bellezza degli spazi. Va ricordato che la svolta positiva della situazione turistica di Fès è dovuta soprattutto ai trasporti: varie linee low cost da tutta Europa hanno inaugurato tratte dirette per la città senza dover fare scalo a Casablanca. Per un quadro d’insieme, le attrazioni turistiche del Paese possono essere riassunte in 7 aree: Tangeri e le aree adiacenti, Agadir e i suoi resort sulla spiaggia, Casablanca, le città Imperiali, Ouarzazate, Tarfaya e i suoi resort. L’industria del turismo si avvale di un marketing vincente per pubblicizzare i siti storici e i monumenti: il 60% dei turisti visita il Marocco per ragioni culturali. 64

Nel 2006 inoltre le montagne del Rif (la parte della catena montuosa al confine col Mediterraneo) sono cresciute esponenzialmente come meta turistica, visto che offrono eccellenti opportunità di camminate e trekking da marzo a novembre. Ampia l’offerta per attrarre i turisti, dunque, per un Paese in cui il turismo è al secondo posto per entrate provenienti dall’estero dopo l’industria dei fosfati. Il Marocco è infatti il terzo produttore al mondo di fosfati (dopo Stati Uniti e Cina), ma parte rilevante l’ha anche l’agricoltura. Con un territorio di 446.550 km quadrati, il Marocco è il cinquantasettesimo paese del mondo e possiede ben 85.000 km quadrati di terra arabile. Il clima temperato fa il resto, creando un potenziale per l’agricoltura eguagliato solo da pochi altri paesi arabi o africani: il Marocco è uno dei pochi Paesi che ha la possibilità di raggiungere l’autosufficienza nella produzione di cibo. In un anno il Marocco produce 2/3 dei cereali (principalmente grano, orzo, mais) necessari per il consumo domestico e il Paese esporta anche agrumi e verdure nel mercato Europeo.


L La vita frenetica della Medina di Fès, tra lo svolazzare degli abiti colorati

Anche l’industria vinicola è sviluppata e ha dato un grande stimolo al settore del turismo, creando 10.000 posti di lavoro per i locali. Il Marocco vende oltre 40 milioni di bottiglie nel Paese e all’estero: il 75% della produzione è di vini rossi, il 20% di rosé e il restante 5% è rappresentato da vini bianchi. Nonostante il consumo di alcolici sia proibito dalla religione, il vino è infatti ampiamente apprezzato dagli stranieri. Così tanto che nel 2007 i più grandi produttori di vino del Marocco, i Celliers de Meknès, hanno riportato in vita il “Festival della vite” proprio a Meknès per celebrare il loro successo. Lo scopo

L Agadir, una tra le più importanti mete turistiche sull'Oceano Atlantico

è incrementare il turismo nella regione e in Marocco in generale. Anche la produzione di tessuti è uno dei settori più importanti dell’economia del Marocco e impiega circa il 40% delle forze lavorative. Impossibile dimenticare per chi ha camminato in una delle Medine del Marocco lo svolazzare colorato e veloce degli abiti marocchini, lunghi e colorati, i jilbab. Abiti e stoffe sono la punta di diamante dei mercati, dove vengono posizionati abilmente per creare l’imbarazzo della scelta nei turisti. L’Unione Europea è il cliente più importante per tessili e vestiario, con la Francia in testa, che importa il 46% della maglieria, il 28,5% dei tessuti e il 27% del prêt-àporter dal Marocco: nel 2007 il Marocco ha esportato l’equivalente di 3,7 miliardi di dollari. Importantissimo anche l’artigianato, che porta 1/6 del Pil ed è un settore in crescita. Ma il Marocco ha molte carte da giocare. Prima fra tutti la cucina, molto varia visto le interazioni storiche del Marocco con diverse civiltà come i Berberi, i Mori, gli Arabi e gli Africani. Gli ingredienti freschi non mancano, abbondano frutta e verdura spesso cucinate insieme alle carni. Procedura tradizionale utilizzata ancora oggi nei ristoranti è la tajine, metodo di cottura attraverso un cono di terracotta utilizzato come coperchio del piatto in cui la carne viene servita. Questo mantiene l’umidità all’interno, rendendo quindi la carne, spesso d’agnello o pollo, morbidissima. La razza delle pecore allevate nel Nord Africa accumula il grasso principalmente nella coda, il che fa sì che l’agnello non abbia il sapore pungente di quello Occidentale a cui siamo abituati noi. Anche i legumi sono serviti in abbondanza, cotti al vapore e insaporiti con le spezie. Pesce e frutti di mare sono presenti in quantità lungo la costa, mentre i datteri sono il regalo delle oasi del deserto. Famoso almeno quanto la tajine è il couscous, farina di semola color crema, cotto al vapore e condito con carne 65


Turismo

Casablanca, la Moschea di Hassan II con il pù́ alto minareto esistente (210 m)

L La Medina di Fès, la parte più antica della città

e brodo in cui è stata cotta. Anche la Pastilla, cotta al forno o fritta, composta da ripieno di carne di piccione con spezie e sfoglia dolce e zucchero, è considerata una prelibatezza per le occasioni speciali. Tocco onnipresente sono le spezie: importate da migliaia di anni, alcune sono coltivate localmente. Lo zafferano a Tiliouine, la menta e le olive da Meknès, arance e limoni da Fès. Le spezie più comuni sono la karfa (cannella), kamoun (il cumino), skingbir (zenzero), libzar (il pepe), tahmira (paprika), semi di anice, di sesamo, kasbour (coriandolo), maadnous (prezzemolo). Il loro odore e il loro colore pervade le strade delle città principali e la memoria di chiunque sia stato in Marocco. Anche le olive sono essenziali, conservate in succo di limone e sale. A fine pasto viene servito tè alla menta zuccherato. Di importanza almeno eguale alla qualità del tè è il rituale con cui si serve, velocemente e dall’alto. Anche la posizione strategica del Paese gioca la sua parte, molto prossima all’Europa e in particolar modo alla Spa-

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gna del Sud. È da qui che si intraprendono gite di 3-5 giorni in Marocco compiute non solo dagli spagnoli ma anche dagli altri turisti, che tendono sempre di più a spostarsi verso il Marocco visto l’aumento del costo degli hotel in Spagna. Da quando poi i confini tra Algeria e Marocco sono stati riaperti nel 2008 (chiusi nel 1994 in seguito alle tensioni dei due Paesi per la contesa dei territori del Sahara Occidentale), molti Algerini si sono recati in Marocco per fare visita a parenti e amici o anche solo per fare shopping. Ciliegina sulla torta, la svalutazione della moneta locale, il dirham, che lo ha reso un Paese economico in cui viaggiare, al contrario della nostra sempre più cara Italia. Al di là del mero calcolo matematico dei turisti in arrivo e delle economie, il Marocco resta un paese unico per spiritualità dei luoghi e incredibile bellezza dei paesaggi. Poco importa quindi se esiste la reale possibilità che diventi concorrente diretto dell’Italia. In fondo, in gara, correre con un degno rivale significa già avere vinto.


Vino e medicina

vino terapeutico arriva dagli egizi

Il

di Francesca Cantiani consigli della medicina preventiva arrivano sulle nostre tavole, anzi dentro il bicchiere di vino. E non certo per condannarlo. A sostenere la tesi che il vino possiede numerose virtù che agiscono in modo benefico su diversi organi sono sempre più medici e scienziati. A partire dal professor Renaud dell’Istituto Superiore di Ricerche di Parigi che ha potuto accertare l’azione protettiva del vino rosso sull’apparato cardiovascolare. Recente è anche un protocollo del dottor David Kritchevsky del Winstar Institute di Filadelfia, in cui si dichiara che un bicchiere di vino può contribuire alla riduzione del colesterolo e al corrispondente aumen-

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to delle alfa-proteine, indispensabili elementi anti-arteriosclerosi. Analoga opinione arriva dal più famoso dietologo del mondo, Ancel Keys, dell’Università del Minnesota. Dopo esperimenti in collaborazione con il grande cardiologo Paul Dudley, Keys è giunto ad una conclusione: il succo della vite è dotato di una considerevole capacità antibatterica e antivirale. Insomma, autorevoli studiosi sono concordi nel ritenere che il vino, in quantità controllate, abbia un positivo impatto sull’organismo umano. E questo anzitutto per la presenza di glicerina e di tannino (che blocca fenomeni tossici) e dell’acido succinico, che stimola la respirazione muscolare. Senza contare la notevole quantità di sostanze presenti, ben duecentocinquanta, tra carboidrati, fosfati, solfati, proteine, vitamine e vari enzimi che, in alcuni casi, possono sostituirsi agli ingredienti dei farmaci. Insomma un bicchiere di vino fa bene alla salute e giova all’organismo tanto più se deriva da particolari vitigni e da un’attenta stagionatura. Qualche esempio? È stato accertato come Barolo, Barbaresco, Freisa e altre tipologie piemontesi siano efficaci contro l’anemia e gli stati di ipertensione arteriosa. I vini dell’Oltrepò Pavese, invece, per la loro equilibrata alcolicità, danno benefici in alcune forme di colite e in stati di depressione. I rosati e i chiaretti del Garda aiuterebbero la peristalsi intestinale, combattendo stipsi e difficoltà digestive. Il Bardolino sarebbe in grado di intervenire nelle bronchiti e bronco-polmoniti. I bianchi dei Colli Euganei, di San Severo, di Valdobbiadene e di Conegliano Veneto, Portogruaro e San Donà del Piave, grazie allo scarso contenuto di sali, sarebbero ottimi per contrastare i calcoli renali, biliari e l’eccesso di colesterolo nel sangue. Infine, perfetto nelle malattie febbrili il Chianti, mentre l’Etna rosso siciliano negli stati di dimagrimento, l’Orvieto nelle astenie, come il Frascati, il Garigliano del Sulcis, il Cannonau di Ogliastra e il Cirò classico. E l’elenco potrebbe continuare. Anche perché i vini italiani di qualità sono oltre mille e numerosi possiedono doti organolettiche superiori, tanto da farli considerare alimentimedicinali. Un concetto che, nonostante gli studi recenti ne abbiano sottolineato l’importanza e indicato con chiarezza gli organi e le patologie sui quali influisca, arriva da molto lontano nel tempo. Un gruppo di ricercatori statunitensi ha scoperto, infatti, tracce di quella che era stata una medicina a base alcolica in antiche anfore egizie, risa-

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Vino e medicina

lenti a cinquemila anni fa. Gli scienziati hanno estratto residui di vino e di ingredienti medicinali ricavati da piante da anfore trovate nella tomba di uno dei primi faraoni d’Egitto, Scorpion I. Gli archeologi del Museum Applied Science Center for Archaeology dell’University of Pennsylvania, guidati dal professor Patrick McGovern, hanno esaminato con tecniche di biologia molecolare il vasellame rinvenuto nella tomba risalente a un periodo che va dal VI al IV secolo a.C., scoprendo la presenza di numerosi composti organici assorbiti dalle giare e dalle anfore. Sono risaliti in questo modo a identificare tracce di alcol mescolate a erbe aromatiche, quali salvia, rosmarino, coriandolo, menta e resina di pino. Per cui l’ipotesi più accreditata è che in antico Egitto, già nel 3150 a.C., veniva prodotto vino aromatizzato a scopi terapeutici. «Questi risultati forniscono una prova diretta di natura chimica che gli antichi Egizi utilizzavano rimedi medicinali che avevano alla base bevande alcoliche, scelte perché considerate le più idonee a diluire le sostanze di origine vegetale» ha sottolineato il professor McGovern. Che il vino fosse considerato alla stregua di un medicinale nel mondo antico lo si ricava anche da studiosi del passato remoto, quali Plinio il Vecchio, Galeno e Ippocrate, tutti devoti estimatori dei poteri terapeutici del nettare di Bacco, fino ad arrivare ad illustri cervelli: da Leonardo da Vinci a Paracelso, da Bacone ad Erasmo da Rotterdam, da Nostradamus a san Tommaso d’Aquino. Il che sta ad indicare come da centinaia di anni il vino legato alla medicina sia una materia che ha saputo coinvolgere non soltanto gli addetti ai lavori (vinificatori e distillatori) ma anche santi, scienziati, artisti, pensatori e profeti. Tra le ipotesi che possono spiegare un tale interesse da parte di tali e illustri ingegni, al di là delle esigenze del palato, quella secondo cui il vino e i suoi derivati erano appunto considerati alla pari di medicinali, in epoche in cui le farmacie non potevano avvalersi dei medicinali che si trovano oggi sul mercato. Lo dimostra, ad esempio, nel XIV secolo il cardinale Vitalis de Furno, vescovo di Albano, il quale affermava che “lo spirito de lo vino è una vera panacea” o altri esperti che lo definivano “aqua de oro”, “cielo dei filosofi”, “elisir di vita pro conservanda sanitate e pro conservanda juventute”. Anche il fisico padovano Michele Savonarola (1384-1468), nonno del famoso Girolamo, prescriveva ai pazienti, per certi malanni, “vino e miele con essenza di rose”, da cui il rosolio. Prescrizioni legate al vino ci arrivano anche dai Frati Camaldolesi che ordinavano una sorta di acquavite calda contro la malaria e il raffreddore. Ricetta confermata dal botanico Pierandrea Mattioli (1500-1577) nel suo “Pedanii Discoridis de materia medica, libri sex” fino ad Alessandro Tadino nel suo “Ragguaglio della peste di Milano” (1684), da cui poi Manzoni trasse L Erasmo da Rotterdam, filosofo e teologo, padre dell'Umanesimo cristiano, documentazione per il capitolo de apprezzava i principi curativi del “nettare di Bacco” “I Promessi Sposi”, in cui ricorda

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come nei lazzaretti venisse adottata la “dieta spiritosa”. Naturalmente oggi non sono più santi e filosofi ad occuparsi dei poteri terapeutici del vino ma gli studi hanno dimostrato ampiamente come da sempre il vino sia considerato più di una semplice bevanda. Per tornare ai nostri giorni, negli Usa è possibile indicare in etichetta il contenuto di “resveratrolo”, un antiossidante con effetti benefici sull’apparato cardiovascolare, presente soprattutto nel vino rosso. Inoltre oggi si sa che il consumo prolungato di vino modifica le componenti del sangue nei soggetti considerati bevitori occasionali, che presentano una resistenza superiore nei confronti di stimoli ossidativi rispetto alle cellule sanguigne degli astemi. In sostanza un bicchiere di vino durante il pasto può considerasi un sorso di salute a eccezione che si escludano gli eccessi e lo slittamento dall’uso all’abuso.

L Leonardo, il grande genio, era un estimatore delle qualità terapeutiche del vino

Amarone d e l l a Va l p o l i c e l l a

Famiglia, Tradizione, Territorio, Sapienza, Amore.

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Oli d’Italia

L’oleologo,

l’esperto che crea le differenze di Luigi Caricato l presidente nazionale dell’Ais Terenzio Medri si è soffermato, nell’editoriale del numero scorso, sulla possibile istituzione di un albo sommelier, non condividendo il disegno di legge presentato al Senato. Non entro nel merito della questione, anche perché intendo concentrarmi sulla nuova figura professionale da me ideata alcuni anni fa e che oggi, dopo averla oramai storicizzata nel frequente uso del nome, è già ben avviata e pronta a essere recepita in via ufficiale dai vari soggetti coinvolti nel mondo dell’olio. Mi riferisco alla figura professionale dell’oleologo, una figura in verità che ha poco a che vedere con i sommelier e, in generale, con il mondo dei degustatori professionali. L’oleologo si avvicina infatti per natura e compiti a un’altra figura centrale nell’ambito del vino: quella dell’enologo. Colgo dunque l’occasione del dibattito che si è aperto su questo fronte sia per chiarire la mia intenzione di connotare professionalmente tale figura professionale, sia per scrivere nello stesso tempo, del mio tentativo – per nulla facile e scontato come sembrerebbe – di ufficializzarne un ruolo professionale non ancora definito in tutte le sue dinamiche. L’oleologo ha un compito difficile. In quanto esperto di una materia prima come le olive, deve giungere a un prodotto, l’olio extra vergine di oliva, consapevole che non è facile come per il vino. Infatti, mentre l’enologo in cantina può “fare miracoli”, l’oleologo non può procedere a trasformazioni di prodotto. Per ottenere l’olio non si trasforma alcuna materia prima, come nel caso del vino, ma si effettua una pura e semplice estrazione: dall’oliva, d’altra parte, si ricava l’olio attraverso una operazione di natura meccanica che consiste appunto nella esclusiva spremitura del frutto. Un’operazione che può apparire semplice ma che non lo è affatto. E se finora della figura dell’oleologo non si era sentita l’esigenza, oggi, con gli studi così accurati che si hanno sul prodotto, l’extra vergine non è più qualcosa confinabile nel novero dei condimenti, ma è un “alimento funzionale”, quindi con un ruolo nutrizionalmente decisivo nell’ambito della dieta. La differenza tra olio e olio ha dunque un senso evidenziarla: l’extra vergine non è soltanto materia grassa, c’è qualcosa di più del grasso liquido quale appare a prima vista. E

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per ottenere quel “di più” c’è bisogno di ricorrere all’oleologo, un professionista capace di far emergere, attraverso il suo lavoro in campo e in frantoio, le differenze. Mentre in passato mancava una professionalità specifica, ora è diverso: il ricorso all’oleologo è possibile, perché a partire dagli ultimi dieci anni le conoscenze in materia si sono particolarmente perfezionate. Non si tratta più di spremere le olive per ottenere l’olio, ci sono oggi approcci che segnano una sostanziale differenza tra i vari oli prodotti, e tutto ciò indipendentemente dalle cultivar e dai territori di produzione. Oggi si può per l’esattezza giungere a definire uno specifico profilo sensoriale, ma anche un altrettanto peculiare profilo chimico-fisico e nutrizionale. In altri termini si può “costruire” un extra vergine che risponda non solo al criteri della massima qualità, ma anche alle mutevoli tendenze di gusto del consumatore. Gli strumenti e gli studi ci sono, le professionalità pure: si può dunque procedere con maggiore scientificità e non più in maniera approssimativa come nel passato. È evidente che si richieda proprio per questo motivo una figura professionale all’altezza dei compiti: da qui – ripeto – l’oleologo, nome che ho in prima persona coniato per dare dignità professionale a una figura ancora inedita, e che sarebbe da attribuire, a pieno titolo, a quell’esperto in grado di elaborare un prodotto realmente d’eccellenza: nei fatti e non solo con le parole. In tutti questi anni ho fatto sì che tale figura professionale potesse emergere, ma non ho mai pensato di ricorrere a un albo, giacché gli albi sottraggono vita e senso alla realtà. Meglio insistere sulla formazione ed essere più esigenti. Proteggere il nome, questo sì. Non tutti potranno chiamarsi “oleologo”, altrimenti si banalizza un ruolo professionale importante e delicato, centrale nel nuovo corso dell’oleicoltura nazionale. Allo stesso modo i sommelier, devono avere cura di non svilire il proprio nome, ma di esigere da se stessi una sempre maggiore professionalità. Senza per questo ricorrere a inutili albi con l’effetto di ingessare una professione che deve invece risultare dinamica e sempre orientata al futuro.


GLI ASSAGGI SCIAURO DI SICILIA “Magarìa”, Dop Valle del Belice, da olive Nocellara del Belice in purezza . Nel bicchiere. Giallo oro dai riflessi verdi, ha profumi vegetali di media intensità, con chiari sentori di pomodoro fresco. Morbido, e dalle note amare e piccanti contenute e in ottimo equilibrio, al palato esprime buona fluidità e finezza. In chiusura una lieve punta di piccante e toni mandorlati. L’abbinamento. Nella preparazione della salsa di olive; con crocchette di patate alle erbe e mandorle; con carni bianche e pesci alla griglia. Azienda agricola Sciauro di Sicilia di Calcedonio Calcara: via G. Gentile 28, Castelvetrano (Trapani), cell. 339.1154001, fax 0331.975296, sciaurodisicilia@tiscali.it, www.sciaurodisicilia.it FRANTOIO STATTI “Carolea”, da olive Carolea in purezza. Nel bicchiere. È giallo oro dai riflessi verdi, limpido. Al naso ha profumi fruttati verdi di media intensità, dai chiari sentori di mandorla e carciofo. Equilibrato nelle note amare e piccanti, presenta una sensazione iniziale dolce al palato e una fluidità medio-elevata. Morbido, chiude con toni mandorlati. L’abbinamento. Insalate verdi e di mare; frittelle con carote e germogli di soia; filetti di San Pietro con olive verdi, arancia e olio. Statti Cantine e Frantoio: contrada Lenti, 88046 Lamezia Terme (Catanzaro), tel. 0968.456138, statti@statti.com, www.statti.com GRADASSI “Lo sgocciolato naturale” è ottenuto con metodo Sinolea da olive Moraiolo in purezza. Nel bicchiere. Verde smeraldo dai riflessi dorati, al naso si apre con profumi fruttati verdi intensi, dalle nette connotazioni erbacee. Al gusto è sapido, con chiari rimandi al carciofo che ritornano anche in chiusura. Al palato ha buona fluidità e armonia delle note amare e piccanti. In chiusura, la mandorla e l’elegante punta piccante. L’abbinamento. Zuppa di legumi; crostoni di pane integrale con salsa di porri e tartufo; spalla di vitello al vapore aromatico con olive. Azienda agraria con frantoio Gradassi: via Virgilio 2, 06042 Campello sul Clitunno (Perugia), cufrol@cufrol.com, www.cufrol.com FRANTOIO SANT’AGATA D’ONEGLIA “Cru Primo Fiore”, Dop Riviera Ligure-Riviera dei Fiori, da olive Taggiasca in purezza raccolte nella campagne Martine Fascei. Nel bicchiere. Giallo oro e limpido, al naso ha profumi vegetali tenui che rimandano al carciofo e alla mandorla. Fine e di buona fluidità e armonia, presenta una sensazione dolce iniziale e toni mandorlati che si percepiscono eleganti anche in chiusura, unitamente a dei freschi sentori erbacei. L’abbinamento. Nella preparazione del pesto; su insalate di verdure a foglia tenera; nei frittini di gamberi e zucchine alla maggiorana; su sogliole con salsa di olive. Frantoio Sant’Agata d’Oneglia: strada dei Francesi 48, 18100 Imperia, tel. 0183.293472, frantoio@frantoiosantagata.com, www.frantoiosantagata.com

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Birra di qualità

birra che milanese

La parla IL

PRIMO BREWPUB DI

MILANO

HA

INCREMENTATO LA PRODUZIONE E AMPLIATO LA GAMMA

DI BIRRE: FRESCHE E LUPPOLATE COME LA

LIGERA

E L’ORTIGA,

BEVERINE COME LA

DRAGO VERDE

I prodotti del Birrificio Lambrate

di Maurizio Maestrelli da un po’ che non scriviamo del Birrificio Lambrate (www.birrificiolambrate.com), il primo di Milano. Aperto nel 1996, è costantemente preso “d’assalto” da torme di amanti della buona birra. I motivi per farlo indubbiamente non mancano: i “ragazzi” di quello che ancora qualcuno si ostina a chiamare Skunky Pub hanno dimostrato di saper crescere in termini sia di varietà di birre proposte, sia di costanza qualitativa. Il nuovo e più moderno impianto, la più precisa e azzeccata suddivisione dei ruoli, l’affinamento delle capacità e l’ingresso nella produzione di figure di sicura esperienza come Maurizio Cancelli, già birraio affermato del bresciano Babb, hanno decisamente innalzato la caratura del microbirrificio che era già comunque di tutto rispetto. In produzione il volante è nelle mani di Fabio Brocca: a lui, ma anche a Cancelli e a Stefano Di Stefano, va il merito di aver recentemente inanellato una serie di ottime birre che si sono affiancate a classici come la chiara luppolata Montestella, la birra di frumento Domm, l’affumicata Ghisa, l’ambrata Lambrate. La tradizione dei nomi meneghini non è comunque venuta meno, ormai è quasi un marchio “di fabbrica”: così ecco l’Ortiga, che prende il nome da un quartiere di Milano (l’Ortica), la Ligera, a sua volta battezzata dal nomignolo che aveva la malavita locale attorno agli anni Venti, e infine, ultima nata al momento in cui scriviamo queste righe, la Drago Verde, pure in questo caso “nickname” con il quale si definivano le tipiche fontane verdi che ancora si vedono in città. Ma, al di là dell’origine dei nomi, azzeccati indubbiamente, è la qualità di queste birre l’aspetto che maggiormente ci inte-

È

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ressa e, proprio perché non ci sembra una mera coincidenza, il fatto che tutte e tre abbiano una basso o moderato tenore alcolico e una straordinaria bevibilità dissetante. L’Ortiga, in primis, ricorda un po’ le classiche bitter inglesi forse solo con una maggiore presenza del luppolo, è decisamente aromatica con un bel finale secco e pulito, una birra sicuramente da pub, ma anche da aperitivo con 5% vol. La Drago Verde, ultima nata, scende ulteriormente a livello alcolico, appena 3,7% vol, è ispirata alle lager leggere americane, nel palato scorre facilmente ma non senza lasciare traccia: l’impronta dei luppoli americani rimane a lungo infatti. Tra tutte, a nostro modo di vedere è ovvio, impressiona comunque la Ligera, American pale ale da 4,5% vol. Ambrata, intrigante nei profumi leggermente agrumati e floreali, un discreto corpo che si chiude in un lungo finale secco ed erbaceo dei luppoli impiegati. Non stanca praticamente mai ed è la birra che vorremmo suggerire di avere sempre a portata di mano quando si organizza una grigliata in giardino. Ovvero da bere rilassati mentre si lavora sulle braci ardenti. Stimola l’appetito più di uno spritz o di un cocktail Martini. O, per lo meno, ne rappresenta una validissima alternativa. Del resto la si può trovare anche in bottiglia. Già perché una delle tante belle novità del Lambrate riguarda proprio la possibilità di avere queste birre in bottiglia. Ormai quasi tutta la gamma viaggia anche secondo questa linea e se proprio non si riesce ad andare in via Adelchi, sede del brewpub, e nemmeno a ordinare


un impianto di spillatura “su ruote”, al Lambrate adesso hanno pure quello, la bottiglia rimane l’unica alternativa praticabile. Con le sue due “sorelle” Ortiga e Drago Verde, la Ligera rappresenta la conferma, importante in questo momento in cui si fa un gran parlare dell’originalità dei birrai italiani, che si possono produrre delle ottime birre “semplici”: semplici nel senso del tenore alcolico ma anche per l’assenza di speziature particolari o di territorio. La Ligera utilizza luppoli quasi sconosciuti al grande pubblico, come il Chinook, l’Amarillo o il Willamette, ma di luppolo, malto d’orzo, lievito e acqua è fatta e la si può bere andando alla ricerca dell’aroma particolare del tal luppolo o semplicemente perché è una birra che tonifica e toglie la sete. È insomma una birra “didattica” che ci permette di sottolineare che il valore della birra artigianale italiana non si misura solo nella straordinaria capacità che hanno i nostri birrai di fare birre “strane”, passando dagli ingredienti del territorio, miele, tabacco, zafferano, spezie e chi più ne ha più ne metta, alle metodologie più disparate e “all’avanguardia”, ma anche dalla tecnica giocata “semplicemente” sugli ingredienti base che determinano alla fine un prodotto di grande qualità. Insomma, la storia recente del Lambrate mi porta a trarre alcune riflessioni sullo stato dell’arte nel mondo della birra artigianale italiana, che mai come in questo ultimo periodo sembra essere santificata sui media con un indiscutibile ritorno d’immagine per la birra tout court. Il che, tutto sommato, è positivo, ma qualche rischio lo si corre. Quello ad esempio di scambiare i birrai artigiani come una sorta di setta di creativi strampalati con il gusto della provocazione, il che per qualche giornalista generico può essere un’autentica manna. La notizia che si possa fare una birra con petali di rosa o con sale nero delle Hawaii, esisto-

no davvero, rischia però di finire nelle notizie di costume più che in quelle dedicate ai piaceri della tavola. E questo sarebbe un errore perché una birra non la si dovrebbe giudicare per la “stranezza” ma, come per qualsiasi altra cosa destinata a entrare nel nostro organismo, per la qualità, per gli aromi e il gusto, per l’equilibrio e la struttura, insomma per tutte le sue caratteristiche organolettiche. Ovviamente non credo proprio che i lettori di DeVinis, in gran parte sommelier professionisti, abbiano la necessità di sentirsi questa mia specie di “paternale”: li considero tutti abbastanza navigati da poter scegliere, giudicare e decidere. Ma, a volte, la tentazione dello scoop è forte anche al di fuori della mia categoria, quella dei giornalisti, per cui mi pare possa valere la pena richiamare, per quello che mi compete, l’attenzione e invitare tutti a tenere i piedi per terra. Tutto questo non significa affatto che le birre “strane” siano solo quello. Uno dei grandi vanti del movimento artigianale è proprio quello di aver saputo esplorare nuove strade del gusto e aver contribuito a erodere il luogo comune per cui la birra debba essere solo frizzante, con la schiuma e leggermente amarognola. Esistono cioè fantastiche birre con ingredienti del territorio e tecniche di produzione inusuali, ma sono fantastiche per il loro gusto, non per gli ingredienti impiegati. Per concludere dunque e come per i vini o i cibi, le birre vanno lette ma soprattutto vanno assaggiate con la consapevolezza che questa bevanda si declina in svariate tipologie e che ogni birra ha una sua ragion d’essere anche se fosse solo frutto della fantasia del singolo birraio. Ma soprattutto le birre si dividono tra quelle buone e quelle che non lo sono: è in fondo la suddivisione più semplice, ma è anche quella però che richiede maggiore dedizione.

SCHEDE DI DEGUSTAZIONE L’Intrigante

Westmalle Tripel

Chocarrubica

Produttore: Birrificio Amiata – Arcidosso (GR) Distributore: Turatello Italia (www.turatelloitalia.it)

Produttore: Abbazia trappista di Westmalle Belgio Distributore: Dibevit Italia Tel. 02.9039251

Produttore: Birrificio Grado Plato – Chieri (TO) (www.gradoplato.it)

Weizen artigianale toscana, interessante per l’aroma particolarmente fresco e agrumato. Si presenta di colore giallo paglierino, velata per la presenza dei lieviti, con schiuma abbondante e candida. Al gusto la notevole componente citrica la rende molto dissetante, ma non mancano note frutttate e, leggere, sfumature speziate. Da abbinare a piatti particolarmente grassi, come salsicce di maiale, arrosti di coppa o con tomini piemontesi avvolti nello speck.

Birra trappista eccellente, da più parti considerata tra le migliori del mondo. Grado alcolico importante, 9,5% vol, ma equilibrata nella sua imponenza. Il colore è dorato con riflessi arancioni, al naso emergono subito le note fresche del luppolo, il fruttato di agrumi e una leggera speziatura. In bocca il corpo si sente ma non penalizza affatto la bevibilità straordinaria. Va servita a non meno di 10° C e si può abbinare bene ad arrosti e grigliate, ma è splendida su formaggi a crosta lavata o a pasta semi-dura.

Sergio Ormea, birraio torinese di provata esperienza e capacità, ha realizzato qualche anno fa questa birra originale con fave di cacao, avena e carrube siciliane dal bel colore del mogano e una schiuma abbondante e fine. Al naso rivela note di tostatura, caffè, cioccolato e frutta tropicale. In bocca è morbida, quasi setosa, per niente stucchevole, anzi molto fresca e pulita. Da provare con dolci al cioccolato o con la classica torta “sbrisolona” di Sabbioneta. 75


Distillati

C’era una volta

la P ER

vodka

RINNOVARE L ’ IMMAGINE E CONQUISTARE NUOVI MERCATI SONO STATI

INTRODOTTI NUOVI PRODOTTI, DEFINITI

“ULTRA

SUPER PREMIUM”

di Angelo Matteucci l mondo della distillazione è particolarmente attento per trovare e rafforzare vie di sviluppo laddove nascono mercati importanti e relativamente nuovi come India, Cina e Russia che sono molto ricettivi soprattutto per prodotti definiti “de-luxe” di qualità, immagine e prestigio. Il Vecchio Continente in generale risulta un mercato stabile con flessioni in alcuni Paesi. Questo porta i produttori a ricercare un’immagine rinnovata dei prodotti consolidati che vengono presentati spesso con nuova, moderna veste, sovente di qualità superiore. E’ il caso della vodka che, senza rinnegare la tradizione che continua ad avere in importantissimi mercati nell’Est e nel Nord Europa e nel Nord America, ha introdotto nuovi prodotti definiti “ultra super premium”. La vodka di fatto può essere prodotta in ogni parte del mondo (oltre 3.000 marchi) utilizzando qualsiasi alcol commestibile. Russia e Polonia sono i principali produttori di vodka: oltre al largo consumo interno, la esportano in grandi quantità a livello mondiale. L’elenco è particolarmente lungo e ci limitiamo a cita-

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re tra le qualità tradizionali mondiali le russe Moskovskaya e Stolichnaya, le polacche Wyborowa, Zubrowka e Zytnia. La Svezia produce Absolut mentre Finlandia è la vodka dell’omonimo Paese. Indichiamo anche Smirnoff prodotto in vari Paesi inclusa la Russia e la statunitense Skyy. Verso la fine del secolo scorso nacquero nuove qualità prodotte sia con cereali tradizionali quali frumento e segale, sia con orzo, mais e, grande novità, uva. La particolare cura in ogni fase, la ricerca delle materie prime, le prestigiose bottiglie e l’alto costo di questo tipo di vodka (alcune superano sessanta euro la bottiglia) hanno trovato, prima negli Stati Uniti e quindi negli altri Paesi, una richiesta da parte del mondo della moda, del cinema e teatro, delle persone più in vista con un crescente numero di seguaci imitatori. L’ondata di nuove bottiglie ha creato stimoli anche per la vodka tradizionale che sulla scia sopra citata sta ottenendo una distribuzione incrementale a tutto campo. Le qualità ultra super premium si caratterizzano per la scelta della materia prima, generalmente frumento defi-


nito “invernale” (si semina in autunno, è dormiente nei mesi freddi, si risveglia in primavera e si raccoglie ad inizio estate). La scelta dell’acqua purissima è altrettanto importante. La distillazione è effettuata con diversi passaggi, spesso sensibilmente superiori alla duplice distillazione tradizionale e il filtraggio avviene in diverse fasi. Nascono così distillati puri ed eleganti presentati in splendide bottiglie create da designer a completare l’opera di marketing nell’offrire prodotti di grande appeal. Scopriamo quindi la vodka Beluga prodotta a Mariinsk in Siberia in una delle più antiche distillerie dell’ex Unione Sovietica. Per questo distillato è usato l’orzo biologico, al posto dei più comuni frumento e segale, coltivato in Siberia. La produzione avviene con l’utilizzo di lieviti naturali per una lenta fermentazione dell’orzo che rende il prodotto finale particolarmente morbido. L’acqua purificata naturalmente da sabbia silicea è prelevata da un pozzo artesiano. Nella preparazione vengono immessi nel distillato le erbe siberiane Rhodiola rosea e Silybum naranium oltre a lattosio naturale e miele. Prima dell’imbottigliamento riposa fino a 180 giorni in recipienti di acciaio inossidabile. Beluga è disponibile nelle qualità Export e Gold Line. Sempre in Russia troviamo Kauffman lanciata nel 2002. Anche in questo caso lo scopo è di offrire una vodka ultra super premium atta ad un consumo elitario. Per raggiungere elevati risultati si utilizza esclusivamente frumento di una singola mietitura che abbia raggiunto risultati qualitativi ottimali. Nasce così la vodka di annata. Il frumento è selezionato di volta in volta in una delle sette regioni produttrici russe prescelte per poter ottenere sempre la migliore qualità sia hard selected sia soft selected. La produzione è limitata a circa 32.000 bottiglie litro per la qualità Kauffman Luxury Vintage e 60.000 bottiglie da 0,70 cl. per la vodka Kauffman Special Selected Vintage. Data la limitata quantità prodotta l’imbottigliamento, in speciali bottiglie create in Francia, avviene ciascun anno in un’unica soluzione per dare maggiore garanzia di autenticità di annata. La vodka polacca Belvedere, che prende il nome dalla residenza presidenziale, utilizza la speciale segale dankowskie gold rye. L’acqua prelevata dai pozzi artesiani è filtrata undici volte mentre quattro sono i passaggi di distillazione per ottenere una vodka eccezionalmente morbida. Nelle 33 fasi di produzione il distillato viene sottoposto ad altrettanti controlli qualità. E’ disponibile nelle qua-

lità Belvedere vodka con macerazione di frutti e fiori che donano una particolare fragranza oltre a Belvedere Intense 50° alcolici con duplice passaggio in filtri di carbone di betulla. E’ presentata in bottiglia decorata con alberi argentei e disponibile nei migliori duty free. L’ultima creazione è Belvedere New IX Vodka, ispirata al mondo della notte. E’ indicata come “new super premium vodka” dove IX sta per il numero di ingredienti come ginseng, guarana, bacca di acai, ginger, mandorla dolce, gelsomino, eucalipto, cannella, ciliegia nera. Gli ingredienti sono distillati individualmente in piccole quantità che vengono uniti a vodka Belvedere 50° alcolici e ad acqua artesiana. Nel 1995 fu annunciata la produzione canadese di una Ultra Super Premium Vodka utilizzando l’acqua ricavata da blocchi di ghiaccio provenienti da iceberg e trasportati dal mare artico e dall’oceano nord atlantico fino alle coste del Newfoundland. Il cereale utilizzato è mais e la distillazione avviene con triplice passaggio. Il suo nome è Iceberg Canada Vodka che ha vinto la medaglia d’oro al World Spirits Championship del 1998 e la medaglia d’argento all’International Wine & Spirit Competition di Londra nel 2000. Xellent Vodka è prodotta dal 2004 in Svizzera interamente con ingredienti locali. E’ utilizzata l’acqua ottenuta da anni di lento auto filtraggio attraverso i ghiacciai della catena montagnosa del Titlis nel cuore della Svizzera. Anche il cereale, la migliore segale, è coltivata esclusivamente nel territorio elvetico con attenti controlli qualità. Riteniamo che il successo della vodka “moderna” aprirà nuovi spiragli ai produttori di altri distillati che in futuro, dopo varie sperimentazioni, lanceranno prodotti innovativi. Un esempio è già sul mercato: la creazione di un rhum agricole delle Antille denominato “Rhum Rhum” fortemente voluto da Luca e Paolo Gargano. E’ prodotto sull’isola Marie Galante, con fresco succo integrale di canna (senza essere preventivamente lavorato) e lieviti naturali in alambicchi progettati dal grande maestro distillatore Gianni Vittorio Capovilla che al momento della raccolta della canna si reca a Marie Galante per provvedere lui stesso alla distillazione. L’interessantissimo rhum è disponibile dallo scorso anno.

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Acqua

Liscia o gassata? Semplicemente di Davide Oltolini ino ad oggi nel corso del nostro viaggio “virtuale” nel mondo dell’acqua, o meglio delle acque, abbiamo affrontato numerose tematiche, tra le quali la tecnica di degustazione, le modalità di abbinamento con i cibi e, in particolare, con gli antipasti, con i primi piatti, con i secondi di carne e con quelli di pesce, la classificazione e la tipologia delle varie acque, i criteri di scelta delle stesse, la relativa normativa, le nanotecnologie, le tecniche di servizio, i luoghi comuni e il ciclo di mineralizzazione. Prima di proseguire verso nuove tappe di questo percorso, affrontiamo alcuni dei quesiti che sorgono più frequentemente a proposito dell’argomento acqua. Uno di questi riguarda il gas presente nelle acque e, in particolare, i suoi presunti effetti negativi sulla salute dello stomaco. A questo proposito ricordiamo che già dall’anno 2003, con due decreti ministeriali, in Italia sono state recepite le norme comunitarie sulle acque minerali le quali prevedono la presenza in etichetta di diverse menzioni obbligatorie, tra le quali la denominazione legale di acqua minerale naturale, eventualmente integrata da indicazioni sulla presenza di CO2. Le acque minerali naturali possono, infatti, essere sottoposte a trattamenti di modifica del contenuto di anidride carbonica e, in riferimento a quest’ultimo, essere denominate acque minerali naturali totalmente degassate, acque minerali naturali rinforzate con il gas della sorgente e acque minerali naturali con aggiunta di anidride carbonica. La carbonatura presenta alcuni innegabili vantaggi, come quello di aumentare la sensazione dissetante offerta dall’acqua stessa, nonché quello di donare una maggiore capacità “detergente” che consente, così, l’ottimale abbinamento con cibi grassi ed, eventualmente, anche untuosi. Una leggera effervescenza, inoltre, aiuta il processo digestivo, anche se, in effetti, un eccesso di bollicine potrebbe alimentare la gastrite, ovvero un’infiammazione della mucosa gastrica. Un’altra delle domande che vengono spesso poste agli esperti riguarda il supposto effetto positivo delle acque povere di sodio nei confronti della cellulite: l’azione benefica effettivamente sembra esistere, ma va anche sottolineato che quasi tutte le acque attualmente presenti sul mercato risultano essere povere di sodio. Il sodio ha tra le sue principali funzioni fisiologiche, quel-

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la di regolatore della pressione osmotica e di conduzione nervosa e muscolare. Anche nel trattamento dell’ipertensione arteriosa sono consigliate acque con basso contenuto di sodio, ovvero inferiore a 20 mg/l. Tra i quesiti più comuni figura anche quello sulla possibilità della bottiglia, ovvero del contenitore, di plastica di “inquinare” l’acqua in esso contenuta. La risposta degli esperti è negativa: a tal fine vengono, infatti, svolti appositi e accurati test che consistono nel sottoporre le bottiglie, per un periodo di una decina di giorni, ad una temperatura di circa quaranta gradi, per poi verificarne attentamente gli effetti.

L Forse non ci abbiamo mai pensato, ma le fasi di coltivazione per ottenere una mela richiedono circa 70 litri d'acqua!


acqua È, comunque, buona norma non lasciare mai le bottiglie d’acqua esposte al sole. Occorre tuttavia riconoscere che il vetro risulta maggiormente protettivo in quanto, come è ovvio, alcune sostanze dannose potrebbero, almeno potenzialmente, penetrare nel Pet. Un altro degli usuali interrogativi sull’acqua è riferibile alla convinzione che bere molto faccia bene alla salute dell’individuo. Si tratta di un’informazione corretta, anche se, come già evidenziato in un nostro precedente articolo, la teoria dell’assunzione quotidiana di almeno otto bicchieri d’acqua sarebbe, secondo molti ricercatori, ormai, supe-

rata e da considerarsi alla stregua dei tanti altri luoghi comuni sulla salute, nonostante la sua autorevolezza, anche in funzione della sua presenza nientemeno che in una raccomandazione del 1945 del Nutrition council statunitense. In ogni caso si ritiene sia, comunque, meglio bere poco durante i pasti e continuare a farlo, a piccoli sorsi, durante l’intero arco della giornata. Un ultimo ricorrente quesito riguardarla il reale consumo umano di acqua, e i connessi sprechi, commessi da parte di ognuno di noi, e il loro conseguente impatto ecologico. Ogni italiano consuma mediamente, nel corso dell’intero anno, ben 215 litri circa di acqua al giorno per dissetarsi e per la propria igiene personale, ma in realtà il consumo risulta molto più imponente. Si stima, indicativamente, che la cifra corretta sia superiore di circa 30 volte ai 215 litri, un risultato al quale si arriva prendendo in considerazione non solo l’acqua realmente impiegata, ma inserendo nel conteggio anche la cosiddetta acqua virtuale. Con questo termine viene indicata anche l’acqua necessaria all’alimentazione, al vestiario e a tutte le altre esigenze proprie della moderna vita quotidiana. Indicativamente necessitano, almeno con un sistema di allevamento industriale, oltre 15.000 litri d’acqua per l’ottenimento di un unico chilo di carne di manzo. Sono, infatti, necessari tre anni prima che sia possibile la macellazione di un capo dal quale si ottengono due quintali di carne. Decisamente inferiore, anche se, comunque, rilevante, il fabbisogno necessario per la produzione di un chilo di carne di maiale che si attesta attorno a poco meno di 5.000 litri e quello per la produzione di un chilo di carne di pollo che sfiora i 4.000 litri. Una tonnellata di zucchero da barbabietola richiede, a seconda di alcune complesse variabili, dai 7 fino ai 12.000 litri, mentre un solo chilo di caffè abbisogna, invece, per la propria produzione di oltre 20.000 litri. Una sola singola mela “costa”, nel tempo, una settantina di litri d’acqua. Per una tonnellata di fibre sintetiche vengono impiegati in tutto 800.000 litri, mentre per una tonnellata di lana i litri risultano 10.000. 150.000, infine, quelli necessari per una tonnellata di acciaio e poco meno di tale cifra quelli impiegati per l’ottenimento di una tonnellata di carta.

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Vino che passione!

Vado a vivere in

campagna di Pinuccio Del Menico

DAI SOFTWARE AI VIGNETI, DAI COMPUTER ALLE BOTTI. E’ LA STORIA DI VITTORIO FERRARIO, TECNICO INFORMATICO MILANESE, CHE CON LA LIQUIDAZIONE ACQUISTA UNA FATTORIA E IMPARA UNA NUOVA

PROFESSIONE.

CON

OTTIMI RISULTATI

a milanese a mariese il passo è breve. Quasi un anagramma. E anche in termini chilometrici si tratta di poco più di un centinaio di chilometri, quelli che separano Milano da Santa Maria alla Versa i cui abitanti si chiamano, appunto, mariesi. Un paese che fino al 1300 non esisteva e che sorse intorno ad una cappelletta contenente la Madonna Val Versa, un dipinto su tavola che ancor oggi è esposta sull’altare della chiesa parrocchiale. Un comune di 2.600 abitanti suddivisi in ventidue frazioni, alcune adagiate sulle rive del torrente Versa, quello che nasce a Canevino per gettarsi nel Po a Portalbera, e non l’al-

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L La fattoria ''Il Gambero'' immersa nel verde di Santa Maria della Versa 80

tro che scorre nella Val Versa astigiana da Cocconato fino ad Asti. Una di queste frazioni di chiama Ca’ del Fosso e fino a pochi anni fa vi si poteva vedere l’ultimo “puntù” ovvero colui che aiutava nel guado del torrente stendendo assi in legno. E’ un’ altra però la frazione che ci interessa e si chiama Case Nuove, quella che ha cambiato la vita di Vittorio Ferrario, di sua moglie Camilla, della piccola Bianca e dei gemelli Vittoria, Giorgio e Caterina. Un salto dalla grande metropoli, Milano, alla campagna, abbandonando un lavoro di grande soddisfazione, ma anche di impegno full time. “La mia vita precedente era da informatico. Lavoravo infatti per Investnet, una società che si proponeva come partner per le banche e le Sim per realizzare una piattaforma per il trading on line. In pratica offrivamo una piattaforma che permetteva ai clienti delle banche e delle Sim di utilizzare un software professionale per comperare e vendere titoli sulle maggiori borse mondiali (Milano, Londra, New York). È stata un’avventura elettrizzante e molto stimolante, ma anche molto impegnativa: sono arrivato a essere responsabile tecnico per l’Italia e si lavorava anche 14 ore al giorno e quando tornavo a casa mi collegavo col computer per verificare che tutte le operazioni di back office fossero andate a buon fine. Non avevo quasi più una vita privata, vedevo poco i miei figli e dovevo sempre essere reperibile. Quando mi sono accorto che la mia testa era


sempre e comunque dedicata al lavoro ho deciso che non potevo continuare così… e mi sono rimesso in gioco”. Come ha scoperto la fattoria “Il Gambero” a Santa Maria della Versa? “Ha avuto un ruolo decisivo mia moglie Camilla. Anche lei iniziava a non sopportare più la vita routinaria e caotica della città, resa ancora più difficile dal fatto di dover crescere tre gemelli. Così, insieme, abbiamo deciso che avremmo voluto vivere in campagna. Nell’estate 2002 abbiamo viaggiato tra Umbria, Marche e Toscana visitando diversi agriturismi con i nostri figli per cercare di avere l’ispirazione. Ma, come succede spesso, le cose belle nascono da una serie di coincidenze positive. Tornati a Milano senza esserci chiariti le idee, abbiamo deciso di incominciare a guardare gli annunci immobiliari per trovare una casa in campagna vicino alla città per viverci temporaneamente. Durante la ricerca ci siamo imbattuti diverse volte nell’annuncio di vendita di una tenuta agricola con abitazione nell’Oltrepò Pavese. Non pensavamo facesse al caso nostro, ma quando ci è capitato per le mani per la quarta volta in pochi mesi abbiamo pensato fosse un segno del destino e siamo andati a vedere scoprendo che i venditori erano vecchi conoscenti di Camilla. Era una splendida giornata, leggermente ventosa, del febbraio 2003, il cielo era terso e dal portico di casa,

guardando verso nord-ovest, si poteva vedere una collina con una piccola chiesetta sulla sommità e dietro, in lontananza, il Monte Rosa: è stato amore a prima vista. Una sera di fine febbraio decidemmo di fare la nostra offerta e dopo pochi giorni l’accordo era fatto. Un caro amico, titolare di una grossa azienda agricola, ci presentò Roberto Miravalle, il suo agronomo, il quale ci confermò che la fattoria aveva i vigneti in ordine, che la posizione era eccellente e che si sarebbero potuti fare ottimi vini. Cosa fondamentale, avevamo la disponibilità economica per fare l’investimento vendendo la nostra casa di Milano e utilizzando la mia liquidazione dall’azienda”. Neppure un mese dopo, ai primi di marzo 2003, Vittorio Ferrario si trasferisce nella sua fattoria, “Il Gambero” e comincia la sua trasformazione da informatico in imprenditore vitivinicolo. E’ stata maggiore la soddisfazione o i classici problemi del neofita ? “Io mi sono subito trasferito perché cominciavano i lavori in campagna e volevo subito buttarmi nella nuova realtà e imparare il più possibile e in fretta. La casa era in perfetto stato e quindi anche il trasloco non è stato drammatico. Il resto della famiglia è arrivato definitivamente a luglio, alla fine della scuola. Problemi reali e gravi non ce ne sono stati, se non quello di dover imparare un nuovo mestiere. Roberto Miravalle mi ha presentato un amico enologo, Enzo Galetti, col quale ci

L Vittorio Ferrario insieme alla moglie Camilla e ai suoi quattro figli

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Vino che passione! L Oltrepò Metodo Classico Brut “Principe d’Onore” M Bonarda “Alborada”

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siamo messi subito al lavoro per cercare di trasformare al meglio quello che la campagna ci poteva dare. Ho la fortuna di avere una sorella, Laura, che di mestiere fa la grafica e quindi il merito della riuscita e molto apprezzata immagine aziendale è tutto suo. Per la parte marketing, comunicazione e vendite mi sono affidato allo Studio Rocchelli per impostare una strategia di ingresso sul mercato che si sta rivelando vincente. Piccoli problemi pratici ci sono stati, come la prima grandinata che ti porta via il 40 per cento dell’uva, che però svaniscono di fronte all’immensa soddisfazione di quando, al ristorante, senti il vicino di tavolo che ordina il tuo vino e lo esalta agli amici commensali. Inoltre la vita in mezzo alla natura ti dà una forza incredibile. Io sono sempre stato in città e mai avrei pensato di potere avere un feeling così forte con la terra”. Qual è il bilancio dopo questi primi sei anni di attività ? “Diciamo che tutti siamo pienamente soddisfatti della nostra scelta e non torneremmo mai indietro. I bambini si sono integrati bene e Bianca, l’ultima arrivata, è nata qui e non andrebbe mai a vivere in una grande città. L’azienda sta crescendo, forse un po’ più lentamente di quanto ci aspettavamo all’inizio, ma nessuno poteva prevedere né il sensibile e costante calo dei consumi, né questa ultima crisi economicofinanziaria che ha colpito un po’ tutti. Noi però siamo già pronti per nuove sfide e, d’accordo con moglie e figli, stiamo pensando a un progetto di riqualificazione dell’azienda sul fronte della sostenibilità ambientale sia dell’azienda sia della nostra abitazione che porti a un sensibile abbattimento dei consumi energetici attraverso la riqualificazione edilizia e anche al miglioramento delle tecniche colturali e alle pratiche in cantina.” Tutti i vini prodotti dalla fattoria “Il Gambero” hanno nomi di cavalli. Come mai? “Quando acquistammo l’azienda non era avviata commercialmente e nel creare la sua immagine abbiamo deciso che dovevamo puntare alla massima qualità del prodotto e anche non differenziare i vini solo con il nome del vitigno ma con qual-

cosa in più. Così mi è venuto in mente di dare ai nostri prodotti i nomi di alcuni cavalli da corsa della scuderia di mio papà, la scuderia Fert, fondata da mio nonno Vittorio con gli amici Falck e Tanzi nel 1949. Ha avuto ottimi cavalli che hanno vinto premi prestigiosi sia in Italia sia all’estero. Ora mio papà Paolo continua con una passione che, a 82 anni, lo tiene ancora incollato alla scuderia che visita spesso la mattina presto per vedere i cavalli in allenamento. Mi sono detto che magari questi purosangue del passato e del presente avrebbero potuto portare fortuna ai nostri vini ed abbiamo scelto i nomi che meglio si adattavano”. Ed eccoli i nomi dei vini “purosangue”: Mercuzio (chardonnay vivace), Bobino (chardonnay), Alborada (bonarda), Teston (cabernet sauvignon e merlot), Tinterosse (pinot nero), Kafir (Riesling), Bacuco (barbera 50 per cento, croatina 40 per cento e 10 per cento uva rara) e Principe d’Onore (pinot nero spumante metodo classico). Una preferenza ? “Impossibile. Chiedere a un produttore quale sia il suo vino preferito è come domandare a un padre quale sia il figlio prediletto. Noi abbiamo razionalizzato la gamma dei nostri vini puntando esclusivamente su quelli del territorio. Diciamo che Alborada, con la sua freschezza, il suo aroma vinoso e quell’invitante effervescenza, è il migliore per un consumo quotidiano. Anche se forse, in termini di sfida enologica, il più affascinante è il Tinterosse. Il pinot nero è un vitigno difficile e la sua vinificazione in rosso è una vera e propria sfida. E a me le sfide piacciono. Penso che i risultati ci stiano dando ragione e quindi continueremo a focalizzarci sui vini del territorio cercando di dare il meglio in termini di qualità e soprattutto personalità del vino”. Non rimane che passare alla degustazione che si può fare direttamente alla fattoria “Il Gambero” di Santa Maria alla Versa (PV) a seguito di prenotazione. Per voi la famiglia Ferrario ha allestito una sala da 35 posti per degustare i vini accompagnati con salumi e formaggi del territorio e visite ai vigneti e alla cantina.


Degustazioni

Amelia Doc, la rassegna dei

vini preziosi Il borgo medievale di Amelia

di Sandro Camilli econdo quando riferiscono gli antichi studiosi, tra i quali si inserisce anche Plinio, le viti di Ameria meritano di essere lodate, in virtù della natura amenissima del sito che, trovandosi sul fianco sinistro dell’Appennino, riceve il sole da oriente e l’aria che spira da mezzogiorno, atta a rendere feconde le viti e a maturare i loro umori… Abbonda di uve di ogni specie, bianche, nere, di moscatelle, ne ha pure di alcuni tipi particolari, come le propaggini di Malvasia fatta venire da Candia, un’uva con l’acino non molto grande, bianca e dolce… I vini di Ameria hanno quindi le qualità proprie di queste uve, per cui alcuni sono biondi e dorati, molti sono robusti, tali che riproposti in vasi ottimamente apprestati e in cantine ben disposte invecchiano anche in più di 10 anni…” È uno stralcio sulla viticultura praticata dagli antichi nel territorio amerino. Tratto da un’opera formidabile, il “De Naturalis Vinorum Historia” Libro V (Bacci, 1956) ci aiuta a precisare che ci troviamo in un luogo dove la tradizione e le radici storico-culturali di questa pratica agricola affondano nella memoria dei secoli. Andando avanti nel tempo e superando anche il flagello della fillossera che alla fine dell’Ottocento distrusse quasi tutti i vigneti del comprensorio (del resto così come

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in quasi tutta l’Italia), è solo alla metà degli anni Settanta che i produttori cambiano radicalmente tutti i metodi, sostituendo la classica alberata (vite maritata all’olmo) con il sostegno secco, sperimentando nuovi sistemi di allevamento e nuove selezioni clonali, cercando di adattare i singoli vitigni ai terreni. Infatti, le terre vocatissime, il clima ideale e l’infaticabile lavoro dell’uomo hanno contribuito a creare uno stretto legame tra produzione di vini bianchi e rossi per arrivare ai rosati ai passiti ed eccezionalmente agli spumanti. Vini che, prodotti con vitigni autoctoni o internazionali, oltre a custodire gelosamente quella precisa identità territoriale sono sempre più complessi ed eleganti grazie alla ricerca della qualità sempre più elevata perché con il mutare delle abitudini sociali dei consumatori il vino si à trasformato da alimento, sempre più, in bene voluttuario. Il territorio amerino, a sud ovest della regione Umbria rivolto verso la valle del Tevere, partendo dal Comune di Terni e andando verso Orvieto, fino a Baschi, comprende cantine grandi e medie, tutte prestigiose e affermate nel panorama enologico nazionale e internazionale, e altre di piccole dimensioni con la volontà di fare della qualità l’elemento trainante. Oggi tutti questi vigneti, incastonati come pietre prezio-


LA RICETTA

Piccioni selvatici all’uso di Amelia “Palombe alla leccarda” Dopo aver spiumato i piccioni si mettono allo spiedo senza togliere nulla dall’interno, né il gozzo, né gli intestini. Si fanno dapprima girare sul girarrosto per una decina di minuti in modo da liberarli da ogni traccia di umidità. Intanto, per ogni piccione, si mette in una casseruola sul fuoco un quarto di litro di vino rosso asciutto, cinque grani di pepe, un chiodo di garofano, uno spicchio d’aglio e un pezzo di buccia di limone ritagliata sottilmente e senza parte bianca. Quando il vino leverà il bollore vi si dà fuoco e si lascia bruciare l’alcool contenuto nel vino fino a che la fiamma si spegnerà. Si raccoglie questo vino nella leccarda posta sotto i piccioni che girano. Si deve poi calcolare un decilitro d’olio per ogni piccione. Trascorsi i dieci minuti di arrostitura a secco si incominciano ad ungere i piccioni coll’olio, il quale andrà a sgocciolare nella leccarda dove è già il vino, e si salano. Esaurita la quantità d’olio prescritta si continuano ad ungere i piccioni con olio e vino insieme, i quali avranno formato nella leccarda un unico liquido. La cottura va protratta a fuoco lento per un’ora e anche un’ora e mezzo, poi si tolgono dallo spiedo e si mettono in un piatto. Allora si toglie loro il gozzo, si aprono e si ritagliano in pezzi regolari, raccogliendo da una parte tutti gli intestini. Si tolgono i grecili, si aprono e si getta via la borsetta interna. I grecili aperti e ben puliti si aggiungono nuovamente al resto degli intestini e si tritano finemente sul tagliere, facendone una poltiglia che si raccoglie in una scodella. A questa si aggiunge il liquido della leccarda passato da un colino. In un piatto concavo si accomodano i piccioni spezzati, si ricoprono con la salsa preparata e si mescolano un poco affinchè si intradano bene con il loro condimento. Da “Il Talismano della Felicità”, Carla Boni, 1920

DOC “COLLI AMERINI”, IL DISCIPLINARE DI PRODUZIONE “COLLI AMERINI BIANCO” TREBBIANO TOSCANO: DAL 70% ALL’85%; GRECHETTO,VERDELLO, GARGANEGA, MALVASIA TOSCANA, da soli o congiuntamente sino a un massimo del 30% di cui la MALVASIA TOSCANA, ove presente, non superiore al 10%.

I vigneti di Amelia

se sulle dolci colline, quasi tutti rivolti a mezzogiorno, tra borghi medievali (Amelia di questo comprensorio ne è il cuore), offrono allo sguardo del turista, dal punto di vista paesaggistico, quanto di più affascinante ci possa essere. Ormai da quattro anni l’Associazione italiana sommeliers organizza un evento chiamato “AmeliaDoc”, legato alla comunicazione e alla promozione vinicola, riunendo tutte le cantine del territorio con una kermesse di tre giorni di assoluto valore, all’interno della quale si alternano conferenze, degustazioni guidate, banchi d’assaggio, degustazioni di prodotti tipici e brevi seminari di abbinamento cibo-vino. Il titolo della manifestazione, volutamente ambizioso, sottolinea il fatto che un piccolo territorio riesce a produrre eccellenze enologiche poco conosciute al grande pubblico. Ogni anno “AmeliaDoc” ospita una cantina extra-regionale di assoluto riferimento. Il successo della kermesse è anche un riconoscimento tangibile alla professionalità della nostra associazione.

“COLLI AMERINI MALVASIA” MALVASIA TOSCANA: MINIMO 85%; possono concorrere alla produzione di detto vino anche il vitigno TREBBIANO TOSCANO e altri vitigni raccomandati e/o autorizzati per la provincia di Terni, da soli o congiuntamente, nella misura massima del 15%. “COLLI AMERINI” ROSSO, ROSSO SIUPERIORE, ROSATO, NOVELLO SANGIOVESE: DAL 65% AL 80%; MONTEPULCIANO, CILIEGIOLO, CANAIOLO, MERLOT, BARBERA, congiuntamente o disgiuntamente nella misura massima del 35%, di cui MERLOT, ove presente, non superiore al 10%. “COLLI AMERINI” MERLOT E “COLLI AMERNINI” MERLOT RISERVA MERLOT: MINIMO 85%; possono concorrere alla produzione di detti vini altri vitigni raccomandati e/o autorizzati per la provincia di Terni, da soli o congiuntamente, nella misura massima del 15%.

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Degustazioni

LA DEGUSTAZIONE * * Le valutazioni si riferiscono ai singoli campioni degustati

Agraria Ponteggia – San Gemini (TR) – Lorenzo - Igt Umbria 2005 Cabernet Sauvignon 100% Dal colore rubino con accenni granato, mediamente trasparente percorso da vivida luminosità. Dall’olfatto lineare ma non banale evoca ricordi di prugna, amarena, liquirizia, carbone, incenso a caratterizzare un ventaglio molto fresco e piacevole. L’assaggio è vigoroso, la carica tannica sottolinea l’espressione gustativa dove comunque trovano spazio un frutto succoso e una buona persistenza gusto-olfattiva.

Agricola Vallantica – Loc. Valle Antica - San Gemini (TR) - Igt Umbria 2007 Grechetto 100% Paglierino luminoso, sentori di frutta a polpa bianca, erbe fresche e sottile mineralità, ne delineano l’espressione olfattiva. Un vino che in bocca si presenta agile di sufficiente persistenza, non di grande impegno con alcolicità e sapidità che ne determinano un buon equilibrio.

Azienda Agricola Zanchi – Amelia (TR) - Lu Igt Umbria 2007 Aleatico 100% Si presenta con un colore rubino dove si evidenziano tracce di gioventù, limpido non di spiccata luminosità. Dall’olfatto intenso e piacevole si percepiscono note floreali di rosa rossa, fruttate di piccoli frutti di bosco, appena erbaceo dai ricordi di lavande ed erbe aromatiche. Entra in bocca con moderata dolcezza perfettamente bilanciata dalla componente acido-sapida, ne risulta un quadro in equilibrio, snello con le componenti floreale e fruttata in bella evidenza, di media persistenza e ottima bevibilità.

Cantina Colli Amerini – Z. I. Fornole di Amelia (TR) - Ciliegiolo 30 anni - Igt Umbria 2006 Ciliegiolo 100% Rubino di media trasparenza, ventaglio ricco di profumi di sottobosco, piccole bacche rosse, ricordi di geranio ben integrati con la note di legni aromatici che ne arricchiscono il naso. Corpo deciso dove la morbidezza principalmente alcolica fatica a equilibrare una verve acido-tannica che porta ad una chiusura su toni vegetali.

Castello delle Regine – Amelia (TR) - Igt Umbria 2003 – Selezione del Fondatore Sangiovese 100% Livrea delle grandi occasioni, rubino con riflessi granato di stupefacente luminosità. Suntuoso l’olfatto, sentori di visciole e amarene, erbe aromatiche poi radice di liquirizia e macis ancora grafite e polvere pirica, nobilitato da soffi balsamici. In bocca si presenta vigoroso ma non massiccio, rivela una grande morbidezza retta da tannini incisivi ma serici perfettamente sciolti nella carica sapido-tartarica. Ritorni di frutta e spezie portano con dinamismo ed energia a un lungo ed appagante finale.

FALESCO – Montecchio (TR) - MARCILIANO - IGT UMBRIA 2005 Cabernet Sauvignon 70%, Cabernet Franc 30% Lento e coeso nel roteare nel bicchiere, dal colore rubino compatto ed impenetrabile, esprime accattivanti note di piccoli frutti rossi, radice di liquirizia, legno di cedro, accenni di peperone, mineralità ferrosa, spunti balsamici e mentolati. Il gusto di grande morbidezza con giusta verve acida e struttura tannica vellutata, entra quasi grasso e si sviluppa con delicatezza riproponendo precise sensazioni fruttate, speziate e vegetali in perfetta rispondenza.

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Fattoria Le Poggette – Montecastrilli (TR) – Torre Maggiore - Igt Umbria 2004 Montepulciano 100% Veste di colore rubino con netti riflessi di evoluzione, presenta un ventaglio olfattivo di bella evoluzione impostato su note di frutta rossa in confettura, speziatura dolce, soffi minerali di terra asciutta e incipiente etereità. Entra in bocca robusto con netta sensazione pseudo-calorica sostenuta da grande morbidezza, piena sapidità e uno smussato tannino conducono a un finale non di grande dinamismo su ricordi di frutta essiccata e ritorni minerali.

La Palazzola – Terni – Brut Grand Cuvee 2005 Pinot Nero 80%, Chardonnay 20% Brillante veste, paglierino con riflessi oro antico e bollicine minute che risalgono il calice. Al naso è fruttato con note di ananas e pera, erbe aromatiche, lieviti con un accenno di etereità. L’assaggio palesa grande morbidezza, perfettamente bilanciata da una cremosa effervescenza e sostenuta sapidità. Puntuale e corrispondente all’olfatto la persistenza su toni dolci e minerali.

Azienda Agricola Le Crete - Giove (TR) - Cima del Giglio - Doc Colli Amerini 2008 Malvasia 100% Bellissima luminosità di un giallo paglierino con leggeri riflessi oro-verde. Cattura l’olfatto con sentori di camomilla, salvia, melone bianco, nespola ed è netta la nota minerale in un quadro di tipicità varietale ben espresso. Bocca impegnata da grande morbidezza con gentile ed impercettibile contributo zuccherino, torna in chiusura il rilievo minerale a caratterizzarne la buona persistenza.

Sandonna Azienda Vitivinicola – Giove (TR) - Doc Colli Amerini 2007 Merlot 100% Di un bel rubino luminoso, si concede all’olfatto con frutti neri sospinti dall’alcol, speziatura dolce e un minerale ferruginoso anticipano un tappeto erbaceo. Il sorso è pieno e appagante, con trama tannica sottile di buona sapidità, i richiami alla frutta e alle sensazioni speziate ne sottolineano l’ottima rispondenza gusto-olfattiva.

Tenuta Agricola Dei Marchesi Fezia - Narni Scalo (TR) - Santrema - Doc Colli Amerini Superiore Sangiovese, Ciliegiolo, Merlot Vino dal colore rubino con riflessi di evoluzione di media trasparenza. Spettro olfattivo da iniziali note di frutta rossa, visciola, mora a note scure di china rabarbaro e liquirizia, in mezzo una folata vegetale. Bocca di buona complessità, con gusto caldo, tannini mediamente sottili, con buon dinamismo termina con ritorni vegetali.

Tenuta Pizzogallo – Amelia (TR) – Igt Umbria Bianco 2007 Malvasia, Trebbiano Dall’aspetto mediterraneo, colore paglierino con riflessi dorati, di ottima consistenza. Lascia sfilare al naso dolci note di albicocca, fico bianco, fieno asciutto, a completare il quadro accenni di grafite e yogurt. Assaggio vibrante per la decisa freschezza e saporita mineralità, non proprio equilibrato ma di piacevole beva.

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Enogastronomia e culto

pane vino

Nel e nel c’è la nostra storia di Maddalena Giuffrida

“DA

SEMPRE, DAI TEMPI DI

NOÈ

APPUNTO,

ACCANTO AL PANE DEL

BISOGNO, AL PANE CHE SFAMA, AL PANE

QUOTIDIANO NECESSARIO PER

VIVERE, L'UOMO HA AVUTO IL VINO DELLA GRATUITÀ E DELLA

FESTA: UNA BEVANDA NON NECESSARIA ALLA

SOPRAVVIVENZA, MA PREZIOSA PER LA

CONSOLAZIONE, LA

GIOIA CONDIVISA, L'AMICIZIA

RITROVATA...”

(ENZO BIANCHI, IL PANE DI IERI)

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ccanto al pane, necessario per vivere, c'è sempre il vino, che, pur non essendo indispensabile per la sopravvivenza, permette di concedersi una pausa gioiosa dalle incombenze terrene. E' quanto afferma Enzo Bianchi, l'autore del godibilissimo libro “Il pane di ieri”1. Non si può parlare infatti di pane senza accostarlo a un bicchiere di vino. E' il vino quello che realmente scalda i cuori e che riscatta l'uomo dalle fatiche quotidiane. Ma il vino non è solo un break gioioso nel “logorio della vita moderna”, esso è anche una delle più felici espressioni della sapienza umana, il luogo dove il binomio cultura – natura trova una perfetta esaltazione. Natura, in quanto il vino è il frutto della terra, e cultura, perchè il vino è il prodotto di un lungo e faticoso processo di lavorazione, fatto di sapienza, tecnica e ingegno. Sin dall'antichità il vino ha fatto da spartiacque tra i popoli civilizzati e i cosiddetti “barbari”. Nel mondo greco la coltivazione della vite, ma soprattutto il saper bere vino, è il contrassegno della cultura e della civiltà. Secondo la tradizione, fu Dioniso a far conoscere il vino agli uomini. Egli fu il dio da cui nacque la civiltà e con il suo culto il vino divenne il “nettare degli dei”2.

A

Questa sorta di “umanesimo” del vino permea e caratterizza profondamente anche la “civiltà cristiana”, che, a differenza del mondo greco, investe il vino di un profondo significato simbolico, connesso alla salvezza e alla vita. E non solo. Se la storia dell'umanità narrata dalla Bibbia inizia con la “trasgressione alimentare” di Adamo e Eva, la nuova alleanza tra Dio e l'uomo di cui parla il Vangelo è sancita da due alimenti, il pane e il vino, che diventano i simboli stessi del Cristianesimo. “La celebrazione della “Cena del Signore”, ovvero la ripetizione degli atti fondanti dell’Ultima Cena (spezzare e mangiare del pane, bere del vino), è l’atto centrale del culto che i cristiani rivolgono a Dio ogni domenica, giorno della risurrezione di Gesù, primo giorno della settimana” - commenta il professor Valerio Marchi, cultore di Storia della Chiesa, attualmente assegnista di ricerca presso l'Università di Udine e da oltre vent'anni evangelista della Chiesa di Cristo udinese, una piccola comunità di cristiani il cui anelito è il recupero della purezza del cristianesimo delle origini. “Lo scopo è quello di immedesimarsi appieno nella ‘comunione’, ossia unione con il Signore e fra i fratelli in fede – prosegue il professor Marchi


– ‘Fate questo in memoria di me’3 ha comandato Gesù, e il vino è parte integrante di questa memoria che non è nostalgia di un passato morto o indefinito, bensì esperienza spirituale costantemente e profondamente vissuta: la presenza in ispirito del Signore nel “banchetto” cristiano. Gesù rende il vino rappresentativo della donazione totale di sé sulla croce, della spremitura del proprio intero essere che ha come effetti la vita e la gioia eterne per chi partecipa all’opera di Redenzione diventando cristiano, cioè convertendosi a

Cristo ed entrando a far parte del Nuovo Patto - continua il professor Marchi - : ecco allora che il ‘calice della benedizione’, nel culto cristiano, simboleggia la comunione col sangue di Cristo. D’altronde, condividere il frutto del faticoso lavoro nella vigna, simbolo del Regno di Dio4, indica l’unione nell’amicizia, nella fratellanza, nella felicità per i doni di Dio che sostengono e allietano l’esistenza. ‘Il tuo amore è migliore del vino’, dice l’amata al suo amato nel Cantico dei Cantici5. Anche l’amore di Gesù è migliore, immensamente migliore del vino, ma come l’amata del Cantico ha scelto il paragone del vino, così ha fatto Gesù: il simbolo non è la realtà, ma ha quelle caratteristiche che la possono evocare, rappresentare, attualizzare”. A proposito del significato simbolico del vino e del pane nella Eucare stia/Cena del Signore, sono profonde le differenze teologiche nel cosiddetto “mondo cristiano”. Con le dovute cautele derivanti dalle semplificazioni, per la Chiesa cattolica vale il principio della “transustan ziazione”, ovvero della presenza reale di Cristo nel vino (e nel pane), mentre, più genericamente, le Chie-

se nate con la Riforma, in particolare i Luterani, sostengono la “consustanziazione”, ovvero la compresenza del vino (e del pane) con il sangue e con il corpo di Gesù. Ma, al di là delle divergenze teologiche, c'è da dire che si deve in gran parte alla Chiesa la salvezza della viticoltura, soprattutto nei secoli delle invasioni barbariche, quando anche i vigneti non furono risparmiati dalle incursioni e dalla distruzione. Fu proprio l'uso sacramentale del vino a rendere necessaria la coltivazione della vite e furono in gran parte i monaci, custodi delle tecniche di viticoltura e della vinificazione, a mettere in salvo la coltura (e cultura!) della vite in Europa. Se in Francia dobbiamo ringraziare i cistercensi per il Clos de Vougeot e lo Chablis, in Italia ai monaci di Grottaferrata dobbiamo il Frascati, ai Benedettini il Santa-Magdalena e ai Templari il Locorotondo di Puglia. La lista del contributo di questi “Padri della Vigna” all'enologia è molto lunga: dall'Austria alle rive del Duero, dalla Svizzera all'Ungheria, l'Europa del vino ha un enorme debito di riconoscenza nei confronti di monaci, benedettini e frati, il cui ruolo in campo enologico resterà dominante fino al XVIII secolo6. Ai nostri giorni un interessante seg89


Enogastronomia e culto

mento di mercato è rappresentato dal cosiddetto “vino da messa”, prodotto non solo da monaci e suore, ma anche da laici. Nell'astigiano esiste persino un autorevole Gruppo di studio internazionale, denominato “Vino sull'altare” che, nato nel 1987 ad opera di un gruppo di professori, sacerdoti, tecnici, ecc, si propone l'approfondimento e la documentazione storica, liturgica e scientifica del “vino da messa”, organizzando da diversi anni seminari internazionali. Il suo fondatore, Roberto Bava, è uno dei fornitori del Vaticano con il suo moscato liquoroso “Alleluja”, frutto delle ricerche

L Numerosi sono i riferimenti nel Vangelo alla simbologia della vigna e della vite

90

del Gruppo di studio e prodotto in esclusiva per l'uso sacramentale. Destinato al clero è anche il “Malvaxia sincerum”, un passito di Malvasia di Schierano in purezza con tanto di etichetta in latino e autorizzazione della curia vescovile di Casale Monferrato. “I dati su questo mercato non esistono ufficialmente - spiega Roberto Bava – perchè si tratta di un universo ristretto e non soggetto a statistiche. Teoricamente il consumo minimo si aggira intorno al milione di litri annuo. La produzione è frazionatissima, regionale e con poche etichette”. Ma quali sono le caratteristiche di questo “vino divino”? Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, dato il simbolismo con il sangue di Cristo, il vino da messa non è sempre rosso. Anzi, nella maggior parte delle volte, i preti celebrano la messa con il vino bianco e questo per una ragione di ordine pratico. Il bian-

co, infatti, sporca meno del rosso gli arredi sacri. Per il rito ortodosso, invece, il vino è rigorosamente rosso. Secondo il Codice di Diritto Canonico, il vino della celebrazione eucaristica deve essere “naturale, del frutto della vite e non alterato”7 e deve essere temperato con un po' d'acqua. L'aggiunta d'acqua al calice dell'Eucarestia ha avuto nella tradizione cristiana diverse interpretazioni simboliche. Secondo San Cipriano l'acqua aggiunta al vino rappresenta il simbolo dell'unione di Cristo con la Chiesa, mentre per Sant'Ambrogio essa è l'immagine del sangue e dell'acqua che sgorgarono dal costato di Gesù durante la sua crocifissione8. E di vino si parla molto anche nei Vangeli. Uno dei primi miracoli di Gesù ha per protagonista proprio il vino e si svolge durante un banchetto di nozze, dove, malauguratamente a metà della festa, il vino finisce. Gesù, salvando invitati e sposi da un triste epilogo della loro festa, trasforma l'acqua in un vino, giudicato migliore rispetto a quello che era stato servito poco prima9. Un piccolo saggio della farmacopea del tempo è contenuto in una delle più note Parabole di Gesù, quella del buon samaritano. Questi, di fronte ad un uomo ferito, mette in atto una vera e propria azione di pronto soccorso adoperando olio e vino10. Un accenno al potere terapeutico del vino ci proviene dall'apostolo Paolo, quando consiglia al giovane predicatore Timoteo di bere anche un po' di vino (e non solo acqua!) per alleviare i problemi di stomaco e le frequenti infermità di cui l'uomo soffriva11. I vescovi e i diaconi della Chiesa, tra le altre virtù, non devono “essere dediti a molto vino”12. Numerosi sono anche nel Vangelo i riferimenti alla simbologia della vite e della vigna. Gesù definiva se stesso “la vera vite”, i suoi seguaci “i tralci”, per significare l'unione e la comunione di Cristo con i suoi fedeli13. Gesù paragona il suo Vangelo al “vino nuovo”14 che squarcia i vecchi otri, instaurando un nuovo rapporto tra l'uomo e Dio, privo dalle catene di una religiosità che gli “scribi e farisei” ai tempi del Messia avevano ridotto a un atto vuoto e formale di osservanze di regole, anche alimentari. Al pari dell'ebraismo, il cristianesimo condanna l'ubriachezza e, in generale, l'uso smodato di cibo e vino. Se il


L Gesù́ trasforma l'acqua in vino alle ''Nozze di Cana'' in un affresco di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, Padova

vino è fonte di gioia e di piacere, l'uso eccessivo e improprio, al contrario, nuoce alla vita spirituale15. Ma al di là della condanna dell’eccesso e dell’ubriachezza, il vino, nel suo significato traslato, è non soltanto simbolo di vita e di salvezza, ma anche di gioia, di allegria e d’amore. Se i castighi divini sono preannunciati con la privazione del vino16, per contro la felicità promessa da Dio è spesso espressa con abbondanza di vino17. Per i cristiani, dunque, il vino è una bevanda che racchiude in sé una polisemia di significati che attraversano profondamente tutta la Sacra Scrittura. Per quanto riguarda particolari restrizioni alimentari, il cristianesimo, a differenza dell'islamismo ed ebraismo, non possiede una regola alimentare che proibisca la carne di un animale o l'uso di bevande alcoliche. Al credente è chiesto di accostarsi al cibo rendendo grazie a Dio attraverso la preghiera18 e di assumerne con sobria moderazione e senza eccessi Per ebrei e musulmani, invece, l'identificazione religiosa passa molto più

profondamente anche attraverso il cibo ed è regolata da un rigido codice alimentare. Al contrario il cristiano, esente da interdizioni alimentari, attribuendo un ruolo preminente al vino, segna proprio attraverso questo importante elemento simbolico la sua appartenenza religiosa e, quindi, anche la propria identità. Pur con le dovute differenze, cristianesimo, islamismo e ebraismo trovano proprio nel vino un denominatore comune importante, per il forte ruolo simbolico che esso riveste nell'ambito di tutte e tre le religioni, come abbiamo visto nei precedenti numeri di DeVinis. E torniamo, così, al punto da cui siamo partiti, ovvero al vino come elemento culturale irrinunciabile per comprendere l'uomo e la sua storia. Per dirla con Enzo Bianchi, se il vino non garantisce la sopravvivenza, certamente i suoi ”effetti collaterali” non solo aiutano a vivere meglio, ma rappresentano una tappa importante in un cammino che parla di amicizia, dialogo, confronto, diversità, condivisione e gioia.

NOTE 1 Enzo Bianchi, Il pane di ieri, Einaudi, 2008, pag.50 2 Massimo Donà, Filosofia del vino, Tascabili Bompiani, 2003 3 Vangelo di Luca, 22:19 4 Vangelo di Matteo, 20:1 5 Cantico dei Cantici, 1:2 6 Raimond Oursel, Leo Moulin, Reginald Gregoire, La civiltà

dei monasteri, Jaca Book, 1998 7 Canone 924 ,Codice di Diritto Canonico,1993 http://www.vatican.va 8 Alfredo Luciani, L'Angelo della Temperanza. Il bere moderato, Biblioteca Carità Politica, 2003

9 Vangelo di Giovanni, 2:10 10 Vangelo di Luca, 10:25-37 11 I Lettera a Timoteo, 5:23 12 I Lettera a Timoteo, 3:2-8 13 Vangelo di Giovanni, 15:1-10 14 Vangelo di Luca, 5:37-39 15 Lettera agli Efesini, 5:18 16 Deuteronomio, 28:39 17 Isaia, 25:6 18 I Corinzi, 10:31

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Forum dei Presidenti

Cervia

A gli Stati generali

Ais

dell’ erifica, confronto e programmazione. Sono stati i temi centrali affrontati nel corso del Forum dei presidenti svoltosi a Cervia, in provincia di Ravenna. Tutti i numeri uno delle sezioni regionali Ais si sono incontrati con la Giunta esecutiva per fare il punto della situazione delle attività sviluppate sull’intero territorio nazionale e per uno scambio di idee e proposte per il futuro. Al centro del dibattito si è posto innanzi tutto il Disegno di legge 720/09 per la disciplina della professione di sommelier. La materia è già stata ampia-

V

mente approfondita negli ultimi mesi e l’Ais ha espresso la propria opinione al riguardo attraverso la voce del presidente Terenzio Medri proprio sulle pagine di questa rivista e sul sito web ufficiale. L’associazione tramite le sue sedi locali ha creato forti legami con le strutture territoriali di tutto il Paese, ricevendo collaborazione e riconoscimenti per l’impegno dedicato all’organizzazione di manifestazioni culturali, ponendo professionalità e competenza al servizio della diffusione e della valorizzazione dei prodotti tipici ita-

Un brindisi speciale I presidenti, per “rinfrescarsi” le idee, hanno partecipato a una cena in cui è stato accolto come gradito ospite André Beaufort con i suoi incredibili vini. Il produttore francese ha lasciato per pochi giorni la sua cantina di Ambonnay per far degustare ai vertici dell’Ais alcune delle sue eccellenze, realizzate proprio nel cuore della regione che ha dato il nome al protagonista per antonomasia dei brindisi: lo Champagne. L’attività di André e Jacques Beaufort va citata non solo per la straordinarietà delle loro bottiglie. Ormai da anni l’azienda non utilizza più diserbanti e procede a una sarchiatura superficiale per limitare la diffusione delle erbacce senza intaccare le radici della vite. I concimi chimici sono sostituiti da un compost vegetale. Ripartito su tutta la superficie del suolo, trattiene la quantità di humus necessario alla vite e costituisce una sorta di schermo che mantiene più a lungo l’umidità in caso di siccità. Un modo esemplare di imporsi sul mercato, puntando non solo al fatturato ma orientandosi anche al rispetto della natura e alla salvaguardia della salute dei consumatori.

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liani. Il parere dei presidenti regionali è stato perciò unanime: il Ddl così come è stato strutturato, tra l’altro senza consultare i diretti interessati, andrebbe a discapito di tutto quel patrimonio che si è creato in decenni di attività didattica con la realizzazione di corsi e testi divulgativi, nonché con la valorizzazione di eventi che hanno portato i vini e le peculiarità gastronomiche della nostra splendida penisola in ogni angolo d’Italia e in giro per il mondo. La discussione dei presidenti ha valutato poi anche l’intervento dell’Associa-zione a sostegno dei terremotati dell’Aquila nel periodo che ha seguito il sisma. Attraverso la sezione regionale dell’Abruzzo era stata predisposta infatti una raccolta di fondi a partire dai giorni immediatamente successivi al disastro. L’iniziativa, oltre a fornire naturalmente un aiuto concreto e immediato alle popolazioni senza dimora, ha avuto una forte valenza simbolica per l’agricoltura e l’economia rurale dell’aquilano: la fiducia per ripartire subito più determinati che mai e per non perdere quelle antiche tradizioni e quei sapori locali di aree montane che rappresentano un’enorme risorsa per questa terra. Le sezioni regionali si sono proposte inoltre di consolidare sempre più quella serie di concorsi, spesso denominati “master”, che in tutto il territorio italiano portano i sommelier Ais a confrontarsi, a competere e, in un certo senso, a dare spettacolo: oltre a favorire l’innalzamento della professionalità e della preparazione dei parteci-


L Il forum dei Presidenti

panti (tutti sommelier usciti dai corsi ufficiali), promuovono la diffusione della cultura del vino e del “bere bene e consapevole” negli strati più variegati della popolazione in tutte le regioni. In particolare, si è riscontrato che queste manifestazioni, spesso vere e proprie sfide tra sommelier a “colpi di sorsi”, costituisco un vero e proprio traino per rendere note le altre attività dell’Ais. Non c’è niente di più efficace per convincere la gente a frequentare i corsi e le iniziative associative che il mostrare, anche in maniera originale e coinvolgente, la competenza, la passione e la preparazione dei nostri sommelier. A tal proposito, la figura del “Miglior Sommelier d’Italia”, l’annuale vincitore del prestigioso “Trofeo Guido Berlucchi”, sarà valorizzata ancor di più nelle stagioni a venire come vero e proprio portavoce dell’Associazione con la sua partecipazione a degustazioni, fiere, tavole rotonde e concorsi. Sono stati infine affrontati i metodi di divulgazione e promozione delle attività Ais per i mesi futuri. Le immense potenzialità della rete e la diffusione sempre più capillare dei nuovi media tra i giovanissimi sono elementi che non saranno trascurati. L’opera dell’Ais infatti si svilupperà in maniera sempre più intensa proprio attraverso Internet, diventato ormai veicolo di informazioni in tempo reale su scala mondiale. Tutto ciò che potrà essere materia di discussione e approfondimento viaggerà nel web. L’unica azione, però, che la rete non potrà mai compiere sarà quella di divulgare ciò che è racchiuso in un buon bicchiere di vino. A questo, ancora per tanto tempo, penserà l’Ais. (E. L.)

L André Beaufort e la first lady dell’Ais Luciana Medri


Mappamondo

La

Nuova Zelanda ringrazia

il

Pinot nero

di Riccardo Castaldi

COL SAUVIGNON QUESTO VITIGNO HA CONTRIBUITO ALLO SVILUPPO DEL SETTORE VITIVINICOLO DEL

PAESE

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e difficoltĂ che comporta in fase di coltivazione, sommate alla non facile gestione enologica, hanno contribuito a far acquisire al Pinot nero uno status nobiliare internazionalmente riconosciuto, tanto che gli agronomi e gli enologi in grado di ottenere buoni risultati con questo vitigno sono tenuti in alta considerazione. Il Pinot nero, preceduto come importanza solo dal Sauvignon, ha giocato un ruolo di primo piano per lo svi-

L

luppo del settore vitivinicolo neozelandese, il quale è stato trainato e fatto conoscere in tutto il mondo grazie proprio ai risultati ottenuti da questi due vitigni. Una progetto di collaborazione con la New Zealand Winegrowers Association di Auckland, con il Consolato della Nuova Zelanda di Milano e la New Zealand Trade and Enterprise, mi ha portato nel maggio 2008 nelle regioni neozelandesi di riferimento per la produzione di questo vitigno.


Pinot nero nella regione di Central Otago

Vigneti di Pinot Nero presso l'azienda Mt Difficulty, Central Otago

UN VITIGNO IN ESPANSIONE Il Pinot nero è presente sul suolo neozelandese dal 1897, anche se i primi risultati enologici di rilievo vengono fatti risalire alla metà degli anni Ottanta, quando la sua coltivazione si è diffusa nel distretto di Martinborough, all’interno della Wairarapa region, situata nei dintorni di Wellington, nella porzione meridionale della North Island. Nel corso del decennio successivo il Pinot nero è stato messo a dimora in tutte le regioni della South Island,

ovvero Marlborough, Nelson, Canterbury/Waipara e Central Otago, nonché in alcuni siti particolari della North Island rientranti nelle regioni Hawkes Bay, Gisborne e Auckland, dando vita a una impressionante crescita che, sull’onda del successo riscosso soprattutto nei mercati esteri, non si è ancora fermata. Nell’arco del periodo 1996-2006 il Pinot nero è difatti passato da 431 a 4.063 ettari, divenendo il secondo vitigno più coltivato dopo il Sauvignon a spese dello Chardonnay, mentre nel 2008, secondo i dati forniti dalla New Zealand Winegrowers Association, ha raggiunto 4.638 ettari. La maggior superficie di Pinot nero è concentrata nella Marlborough region, nella quale è stato inizialmente messo a dimora per la produzione di spumante metodo classico, che detiene il 44 per cento del totale, la quale è seguita dalla Central Otago region con il 23 per cento, Wellington region con il 14 per cento, Canterbury/Waipara region con il 9 per cento e Nelson region con il 4 per cento. Nel corso della vendemmia 2008, che è stata la più abbondante in assoluto nella storia vitivinicola del Paese, sono state prodotte 32.878 tonnellate di uva Pinot nero, corrispondenti a una resa media di 7,09 tonnellate per ettaro. Negli ultimi le esportazioni di Pinot nero sono aumentate vertiginosamente, passando dai 0,3 milioni di litri del

2000 ai 4,9 milioni di litri del gennaio 2007, facendo registrare una crescita del 1534%; i mercati di riferimento sono rappresentati da Regno Unito, Stati Uniti e Australia, che congiuntamente assorbono l’85% del Pinot nero prodotto. Le esportazioni di Pinot nero in Italia, come per tutti i vini neozelandesi, sono al momento ancora esigue ma non manca l’interesse verso il nostro Paese, confermato dal fatto che nel 2009 la Nuova Zelanda sarà presente per la prima volta al Vinitaly. UN AMBIENTE DI COLTIVAZIONE IDEALE In Nuova Zelanda il Pinot nero ha trovato condizioni pedoclimatiche ottimali per lo sviluppo e la maturazione, che assieme alle pratiche agronomiche di gestione del vigneto e alle tecniche adottate in cantina, messe a punto grazie anche a una ricerca concreta e mirata, ne hanno consentito un’espressione ad alti livelli per gran parte della sua produzione. Senza dubbio dalla Nuova Zelanda provengono la maggior parte dei migliori Pinot nero prodotti nel Nuovo Mondo, sicuramente in grado di confrontarsi alla pari con quelli prodotti nel Vecchio Continente, visti i risultati conseguiti nei principali concorsi enologici internazionali e soprattutto il gradimento espresso dal mercato. Tra le caratteristiche che rendono l’ambiente di coltivazione neo95


Mappamondo Wine Shop a Martinborough

zelandese particolarmente adatto alla produzione di Pinot nero di elevata qualità, deve essere considerato il clima, caratterizzato da temperature tendenzialmente fresche durante tutta la stagione vegetativa, che favoriscono una lenta e graduale maturazione delle uve, e da un elevato numero di ore di sole. L’elevata escursione termica che si verifica tra il giorno e la notte, che non di rado si avvicina a 20° C, risulta essere di fondamentale importanza per il raggiungimento della maturazione fenolica ottimale e per lo sviluppo della complessità aromatica. Da non sottovalutare anche l’importanza della bassa umidità e della scarsa piovosità che caratterizzano l’autunno, che consentono di evitare gli attacchi di muffa grigia, a cui il vitigno è molto sensibile, e di vendemmiare nel momento ritenuto più opportuno. I suoli delle aree in cui si coltiva il Pinot nero sono caratterizzati da una elevata frazione di argilla, quindi tendenzialmente pesanti, arricchiti da una componente di frammenti rocciosi grossolani che garantiscono un buon drenaggio ed evitano il ristagno idrico. QUALITÀ DAL VIGNETO ALLA CANTINA Gli impianti di Pinot nero presentano una densità compresa tra 1300 e oltre 6000 piante per ettaro, con una media

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Marlborough, vigneti

nazionale di 2733 piante per ettaro, a cui ha corrisposto nel corso della vendemmia 2008 una produzione media di 2,6 chilogrammi di uva per pianta. Molta importanza viene riservata alla gestione della chioma, per cui si eseguono normalmente il diradamento dei germogli, la defogliazione – finalizzata a favorire la diffusione della luce e a impedire lo sviluppo delle malattie fungine – nonché il diradamento dei grappoli, qualora il loro numero sia in eccesso rispetto alle potenzialità produttive della pianta. L’epoca di vendemmia viene decisa oltre che con le analisi chimiche su campioni di uva, anche con il controllo dell’evoluzione del grado di maturazione degli acini tramite l’assaggio; le visite in vigneto degli agronomi si fanno via via più frequenti quanto più ci si avvicina al momento della raccolta. L’uva viene vendemmiata sia manualmente che meccanicamente, cercando di mantenere il più possibile integri gli acini, e rapidamente condotta in cantina. Dopo la pigiatura e la diraspatura - nel caso della raccolta manuale – viene eseguita generalmente una macerazione pre fermentativa a freddo, al fine di iniziare ad estrarre dalle bucce le sostanze aromatiche e gli antociani. La fermentazione, che avviene in cisterne d’acciaio, è in genere sostenuta dai

lieviti selezionati inoculati e solo in alcuni casi dai lieviti selvatici naturalmente presenti sull’uva e negli ambienti di cantina; questa seconda opzione, almeno per parte della produzione, è comunque in espansione, dato che consente di ottenere un’espressione organolettica con picchi aromatici meno intensi ma decisamente più ampia. Nel corso del processo fermentativo, che dura mediamente 7-8 giorni e raggiunge 30-32°C, vengono eseguiti 34 rimontaggi o follature giornaliere; al termine della fermentazione si esegue una macerazione post fermentativa al fine di aumentare l’estrazione di polifenoli. Come tutti i rossi neozelandesi, anche il Pinot nero soggiace alla fermentazione malolattica, che può partire spontaneamente oppure a seguito dell’inoculo dei batteri lattici, la quale rende il prodotto più morbido. L’invecchiamento avviene prevalentemente in barrique francesi ed ha una durata compresa tra 9 e 18 mesi, dopo di che si procede all’imbottigliamento; dopo un affinamento in bottiglia variabile da 3 a 6 mesi il vino viene immesso in commercio. UN VITIGNO, MOLTI TERROIR Il Pinot nero della Nuova Zelanda si distingue da quelli prodotti nelle altre aree viticole del mondo per intensità e pienezza delle sensazioni organolet-


sentori di “dark fruits” e speziati; quelli della Gibbston Valley si presentano morbidi e fruttati, con sentori di lampone, fragola, erba fresca e speziati mentre le zone di Bannockburn e Loburn, che presentano i microclimi più caldi della regione, danno un Pinot nero più corposo e tannico, con sentori di ciliegia e una leggera nota di timo essiccato.

Pinot Nero in degustazione presso la sede della NZ Winegrowers di Auckland

tiche che riesce a esprimere; al momento della degustazione il Pinot nero neozelandese solitamente inizia a stupire già dal colore, sorprendentemente intenso per questo vitigno. Da qualche anno è in atto uno sforzo, sia da parte dei produttori che dei ricercatori, finalizzato a mettere in risalto e a valorizzare le differenti espressioni che questo vitigno consente di ottenere nelle varie regioni di produzione. MARLBOROUGH REGION Nella Marlborough region, dove si individuano la Wairau Valley, l’Awatere Valley e le Southern Valleys (Omaka, Brancott e Waihopai), il clima è in generale marittimo, caratterizzato però da una marcata variabilità della temperatura da un giorno all’altro. Il Pinot nero proveniente da questa regione ha un profilo aromatico che rientra prevalentemente nello spettro dei frutti rossi, con sensazioni gustative che richiamano intensamente il lampone ma anche la prugna; la struttura è lineare, sorretta da un tannino fine e garbato. Risponde a queste caratteristiche il Pinot nero prodotto nella Wairau Valley, la quale si caratterizza per il microclima moderatamente secco e più caldo della regione nonché per i terreni di neo formazione scarsamente fertili. Nelle Southern Valleys inve-

ce, il microclima fresco e secco, associato a suoli di antica formazione e mediamente fertili, porta a un Pinot nero che si distingue per sensazioni olfattive che rientrano nello spettro di quelli che sono definiti “dark fruits”, tra cui rientrano more, ribes nero, amarene e prugne, nonché per l’intensità e la pienezza delle sensazioni gustative. L’Awatere Valley, che ha il microclima più fresco e più secco della regione e suoli di recente formazione, mediamente fertili, consente di produrre un Pinot nero le cui caratteristiche organolettiche sono intermedie tra quelle della Wairau Valley e delle Southern Valleys. CENTRAL OTAGO REGION E’ la regione viticola più a sud del Mondo, caratterizzata da clima continentale poco piovoso, con bassa umidità relativa, reso particolare da un elevato numero di ore di sole e da giorni molto lunghi. I suoli sono di origine morenica, eolica – Loess – nonché alluvionali, generalmente comunque ricchi in rocce che li rendono non soggetti al ristagno idrico. Nell’ambito di questa regione si individuano diverse sottoregioni ovvero Gibbston, Bendigo, Alexandra, Bannockburn e Loburn. Per quanto concerne lo stile, i Pinot nero della Central Otago region sono intensamente profumati, corposi, con

WAIRARAPA/MARTINBOROUGH Il clima si presenta simile a quello della Marlborough region, anche se con una primavera leggermente più fresca e umida, temperature diurne leggermente superiori durante l’estate e notti più fresche in autunno; i terreni sono alluvionali, anche in questo caso ricchi di scheletro. Il Pinot nero di questa regione richiama frutti dolci, con sentori che rientrano nello spettro della prugna matura e del cioccolato particolarmente intensi. Sotto il profilo gustativo si caratterizzano per il tannino rotondo, importante per controbilanciare le sensazioni gustative morbide. CANTERBURY/WAIPARA Questa regione si caratterizza per un clima con bassa piovosità, moderata insolazione e autunni secchi e lunghi, confacenti a una lenta e buona maturazione. I suoli sono depositi di rocce grossolane del fiume Waipara nei fondovalle e argillo-limosi alle pendici delle colline. La combinazione pedoclimatica porta all’ottenimento di un Pinot nero molto intenso sotto il profilo gustativo che si distingue per i sentori di frutti rossi e di prugna, con una leggera nota speziata e di pepe. Ai sentori fruttati si contrappongono una buona freschezza e una buona acidità. NELSON Grazie alla protezione offerta dalle montagne a sud, ovest ed est, il clima si presenta temperato e soleggiato, tanto che Nelson è la regione più calda in cui sia coltivato il Pinot nero. I suoli sono in prevalenza limosi e ricchi di scheletro, con una frazione variabile di argilla. Il Pinot nero di questa regione risulta essere fragrante, caratterizzato da una buona complessità e da una tessitura morbida, con sentori intensi sia di ciliegia sia di prugna.

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Sicurezza stradale

L’etilometro uno strumento per autogestirsi

Associazione italiana sommelier metterà a disposizione dei soci e di coloro che parteciperanno alle degustazioni organizzate dall’Ais etilometri omologati. La decisione fa parte del programma varato da tempo dal presidente nazionale Terenzio Medri e dalla Giunta esecutiva nazionale per sensibilizzare tutti gli enoappassionati sul tema del bere consapevole. “Gli etilometri saranno utilizzati al termine delle degustazioni – ha detto Medri – prima di mettersi al volante per testare il proprio tasso alcolico, per non provocare incidenti e per non incorrere così nella decurtazione dei punti della patente e in multe assai salate. E’ insomma uno strumento che l’Ais mette a disposizione per autogestirsi e valutare se si può guidare oppure no. L’associazione è d’accordo con chi intende combattere le stragi del sabato sera con misure rigorose, che non deve punire chi beve un bicchiere di vino a pasto ed è sobrio, ma deve fronteggiare chi mette a repentaglio la sua vita e quella degli altri assumendo in maniera

L’

sconsiderata ed indiscriminata alcolici e superalcolici”. Su questa linea si è schierato anche il ministro delle Politiche agricole Luca Zaia: «Bisogna finirla di considerare ubriaco chi beve due bicchieri: è in atto una criminalizzazione del vino che non ha senso alcuno e che sta uccidendo uno dei comparti più pregiati del made in Italy». In un'intervista a Quattroruote il ministro entra nel merito del dibattito sui limiti di tasso alcolemico per chi guida, attaccando i sostenitori della tolleranza zero: «Non credo nella cultura del proibizionismo – commenta il ministro – il limite attuale, 0,5 grammi di alcol per litro di sangue è ragionevole e stradigerito dall'opinione pubblica, entro questi livelli si è sobri e perfettamente in grado di guidare. Corrisponde a due bicchieri di un vino che abbia non più di 11 gradi, diciamo uno spumante o un rosso non strutturato». Zaia invita a guardare con attenzione le statistiche sugli incidenti: solo il 2,09 per cento è causato da guidatori in stato d'ebbrezza, cioè ben al di sopra dello 0,5: «Non vedo perché dovrei rinunciare a bere con intelligenza e moderazione, solo perché ci sono irresponsabili che si ubriacano», osserva Zaia. «E perché non si guarda con altrettanta severità – conclude il ministro – alle altre cause degli incidenti? Vogliamo parlare del fumo o dei farmaci che danno sonnolenza? Degli antistaminici che migliaia di italiani prendono in primavera per combattere le allergie? O dei tranquillanti? Temo siano più pericolosi dei fatidici due bicchieri, ma nessuno se ne occupa». (P.P.) Il ministro delle Politiche agricole Luca Zaia si oppone al proibizionismo a sostegno della cultura del “bere consapevole”

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Nuove denominazioni

La rivoluzione del

Prosecco

di Silvia Baratta

rosecco uguale vino spumante italiano. Negli ultimi anni, nel mercato internazionale, si è diffusa questa equazione. Dalla prossima vendemmia, però, cambierà il mondo del Prosecco che assumerà una chiara identità. Si prepara, infatti, una vera rivoluzione per uno dei vini che in questi anni ha registrato i maggiori consensi. Il 17 luglio 2009 è stato pubblicato il Decreto ministeriale che sancisce il riconoscimento della Doc Prosecco e della Docg per Conegliano Valdobbiadene e Colli Asolani. Dalla prossima vendemmia, dunque, il panorama dei migliori vini d’Italia, rappresentati dalle Docg, si arricchirà di due nuove “bollicine” e il Prosecco Igt diventerà Doc. Con la nuova normativa, dunque, il nome Prosecco diverrà sinonimo di vino a Denominazione di origine prodotto esclusivamente nel nord est d’Italia. Un risultato non da poco, se si pensa a fenomeni che in questi anni hanno scosso il mercato come la lattina pubblicizzata da Paris Hilton o i blend improbabili come il Prosecco rosé o il Prosecco Moscato, proposti in alcuni mercati. Ecco cosa accadrà.

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L’area storica presenta la nuova identità Dalla prossima vendemmia il Prosecco di Conegliano Valdobbiadene, area storica di produzione, diverrà Conegliano Valdobbiadene Docg e il prodotto sarà commercializzato dall’aprile 2010. Anche la confinante zona dei Colli Asolani, oggi Doc, diverrà Docg. I produttori di Conegliano Val99


Nuove denominazioni

dobbiadene potranno scegliere se usare il solo nome di territorio o associarlo anche alla parola Prosecco per le tipologie frizzante e tranquillo, Prosecco Superiore per lo spumante. Per aiutare il mercato a riconoscerlo, ogni bottiglia dovrà riportare il logo identificativo della denominazione. Il passaggio a Docg per l’area storica di produzione, che comprende 15 comuni fra le cittadine di Conegliano e Valdobbiadene, è stato complesso. Grazie anzitutto all’impegno del Mipaaf e al lavoro del Consorzio di tutela, delle istituzioni e delle associazioni di categoria, si è creato però un dialogo con tutto il comparto, rappresentato da 2.913 viticoltori, 454 vinificatori e da 166 case spumantistiche, che produce ogni anno oltre 57 milioni di bottiglie. Ma quali sono le novità? Per il Conegliano Valdobbiadene Docg si manterranno le regole applicate oggi alla Doc. Per i più virtuosi vi sarà però l’introduzione delle Rive, ovvero le selezioni di singolo vigneto, che le aziende potranno decidere di produr100

re. In questo caso, le rese saranno di 130 q.li/ha e l’origine delle uve dovrà essere esclusivamente di quella vigna. In etichetta sarà riportato il nome del territorio, ad esempio “ Conegliano Valdobbiadene Docg – Rive di Solighetto”. Con le Rive si potrà evidenziare in etichetta il nome del comune o della frazione di origine delle uve, per mettere in luce le località, che nel tempo hanno dimostrato particolare vocazione o pregio. Il toponimo verrà preceduto dal termine tradizionale “Rive”, che sta a indicare i vigneti posti in collina nel gergo locale. “Le Rive sono i vigneti che tutti vogliono vedere e nessuno vuole coltivare” afferma il Presidente del Consorzio di tutela Franco Adami. Si tratta, infatti, delle vigne più virtuose, poste in alta collina, dove è difficile anche stare in piedi senza cadere. Al vertice della piramide qualitativa si manterrà il Cartizze, spumante della storica sottozona del “Superiore di Cartizze”, un’unica


collina di circa 100 ettari di vigneto fra le località di Santo Stefano, Saccol e San Pietro di Barbozza, in comune di Valdobbiadene. “Comunicare la Docg sarà una nuova sfida e dovremo quindi rinnovare la nostra strategia – afferma il Direttore del Consorzio di Tutela Giancarlo Vettorello – E’ stato quindi avviato uno studio di comunicazione con la Robilant & Associati di Milano. Obiettivo del lavoro sarà valorizzare gli elementi di identità che accomunano i produttori, lasciando poi ai singoli l’espressione delle differenze che rendono così interessante e ricca la denominazione”. Oltre a individuare il messaggio da dare, sarà importante mettere in campo azioni di promozione mirate, anche avviando sinergie con le altre Docg. La prima attività sarà un evento a inizio anno, a New York e Chicago, dove il Conegliano Valdobbiadene si presenterà con Nobile di Montepulciano, Brunello di Montalcino e Chianti Classico, vino simbolo dell’enologia italiana. LE REGOLE DI PRODUZIONE DELLA DOCG ! Come al momento dell’ottenimento della Doc, nel 1969, la zona di produzione sarà limitata ai 15 comuni collinari tra Conegliano e Valdobbiadene. ! Il vino viene prodotto con il taglio di uve del vitigno Glera (nuovo nome del Prosecco) al minimo dell’85% e per un massimo del 15% di uve Verdiso, Bianchetta, Boschera, Glera lunga varietà presenti da secoli nelle colline di Conegliano-Valdobbiadene. ! La produzione è di 135 q.li/ha, come l’attuale Doc. ! I produttori potranno evidenziare in etichetta il nome del comune o della frazione di origine delle uve, per mettere in luce le località di particolare vocazione o pregio. In questo caso il toponimo verrà preceduto dal termine tradizionale “Rive. La produzione è di 130 q.li/ha, con l’obbligo della raccolta manuale delle uve e dell’indicazione del millesimo. Per le “Rive” è prevista la sola tipologia spumante. ! Al vertice qualitativo della Deno-

L Il Prosecco in lattina pubblicizzato da Paris Hilton. No comment!

minazione Garantita rimane il “Superiore di Cartizze”, con resa di 120 q.li/ha e la produzione della sola tipologia spumante. Al lavoro per l’ottenimento della Docg si è affiancato quello per la protezione internazionale del Prosecco, resa possibile grazie al tavolo di concertazione, creato dalla filiera vitivinicola trevigiana presso la Camera di Commercio di Treviso, con il supporto della Regione Veneto. Il progetto ha avuto proporzioni eccezionali, coinvolgendo nella sola provincia di Treviso più di 10.000 produttori. Ecco nel dettaglio cosa accadrà. Prosecco proprietà intellettuale dell’Italia Con l’ottenimento della Doc Prosecco, ogni bottiglia che porterà in etichetta il nome Prosecco dovrà sottostare a regole precise come la provenienza delle uve, il rispetto della resa/ettaro, il controllo di filiera e l’analisi organolettica prima dell’immissione sul mercato. La Doc Prosecco riguarderà nove province di Veneto e Friuli Venezia Giulia e il vino qui prodotto si chiamerà Prosecco Doc. Solo la provincia di Treviso e quella di Trieste potranno indicare in etichetta “Prosecco di Treviso” e “Prosecco di Trieste”. Questo perché Treviso è l’area più antica e importante per la produzione (oltre il 90%) e in essa si trova la denominazione storica di Conegliano-Valdobbiade-

ne. Trieste è invece importante perché rappresenta la provincia in cui si trova la località di Prosecco, luogo storicamente collegato all’origine del vitigno. Treviso e Trieste, nell’ottenimento della Doc, hanno dunque avuto un ruolo fondamentale, grazie all’unione della tradizione produttiva di Treviso con l’origine toponomastica della località di Prosecco. La nuova Doc imporrà che le uve provengano dalle sole province autorizzate. Anche l’imbottigliamento dovrà avvenire nelle 9 province appartenenti alla Denominazione, ad eccezione dei produttori fuori dalla zona di coltivazione che dimostrino di avere già prodotto questo vino per un numero congruo di anni. Nella nuova Doc si avranno le tipologie: Prosecco Tranquillo, Prosecco Frizzante, Prosecco Spumante. La nuova denominazione sarà sottoposta ai parametri previsti dalle Doc tra cui il controllo di filiera in vigneto e in cantina, l’analisi chimica e organolettica necessaria prima dell’entrata in commercio del prodotto imbottigliato. LE REGOLE DI PRODUZIONE DELLA DOC ! Provenienza delle uve e imbottigliamento nelle nove province autorizzate. ! Il vino viene prodotto con il taglio di uve del vitigno Glera (nuovo nome del Prosecco) al minimo dell’85% e per un massimo del 15% di Pinot Chardonnay. ! La produzione passa da 250 q.li /ha previsti attualmente dall’Igt a 180 q.li/ha. Ecco, quindi, quali novità aspettano il mercato. “Prosecco” dalla vendemmia 2009 diverrà dunque Denominazione riferita a un vino e proprietà intellettuale di uno Stato Membro della UE, l’Italia. La sua protezione sarà garantita dalla normativa dei prodotti di qualità della Comunità Europea e questo tutelerà l’immagine non solo in Italia ma anche in tutto il mondo, eliminando così produzioni in altri paesi o in altre regioni d’Italia. La sfida, ora, sarà comunicare al consumatore questo nuovo assetto e i sommelier avranno un ruolo fondamentale. 101


Anniversari

I 120 petali della di Daniele Urso era una volta una storia di usurpatori e regine, di misteri e furti, di barbari e Paesi lontani. Di abbinamenti più o meno azzeccati. C’era una volta… (ma per fortuna c’è ancora) la pizza Margherita. Perché al centro di un intrigo che ha tutti gli ingredienti di una spy story c’è proprio il più conosciuto e diffuso dei piatti italiani, che quest’anno compie 120 anni. Questo secondo alcuni perché se pasta, mozzarella, pomodoro, olio e basilico mettono d’accordo tutti a tavola, altrettanto non si può dire sul “test di paternità”. Andiamo però con ordine. L’11 giugno a Napoli si è festeggiato il compleanno della pizza Margherita. Rievocazioni storiche, figuranti in abiti ottocenteschi e una sfilata che ha accompagnato in giro per il capoluogo campano una bella modella dagli occhi azzurri in candido vestito bianco su una carrozza d’epoca. Ruolo della ragazza, interpretare una novella Margherita di Savoia. Giunto in piazza del Plebiscito il corteo, condotto dall’assessore provinciale all’Agricoltura uscente Francesco Emilio Borrelli, si è diretto verso la “Pizzeria Brandi”. Dove, leggenda vuole, c’è esposto “l’atto di nascita” della madre, per fama, di tutte le pizze. Su un documento ingiallito firmato dal Gran capo dei servizi di tavola di casa Savoia si legge l’apprezzamento della regina per l’alimento inventato dal popolo napoletano. Fu allo storico indirizzo che nel 1889 due “marinai” offrirono la pie-

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La Regina Margherita al 120° compleanno della pizza 102

tanza alla sovrana che, dopo averla piegata a “portafoglio”, la mangiò rigorosamente con le mani. E questo è il mito. III LA STORIA DIETRO AL MITO Poi c’è anche la storia, o almeno una delle molte cronache tramandate nel tempo. Nel 1889 Umberto I e la consorte Margherita di Savoia si recarono in Campania. Un viaggio diplomatico nell’ex Regno delle Due Sicilie, annesso nel 1860, ma anche un tour gastronomico per assaggiare la decantata cucina partenopea. Fin dal 1800 le pizze più famose di Napoli erano tre: la pizza alla mastunicola (più o meno l'odierna pizza bianca), la pizza alla marinara (olio, pomodoro, origano, aglio e cecenielli e cioè alici) e la pizza pomodoro e mozzarella (con l’aggiunta di olio) . I sovrani in viaggio si fermarono a Palazzo reale, dove vennero convocati due dei pizzaioli più conosciuti della città, Raffaele Esposito e sua moglie Rosina Brandi. Dopo aver fatto assaggiare mastunicola e marinara ai nobili, i due cuochi offrirono anche il terzo “must”, la pomodoro e mozzarella, ma con l’aggiunta di basilico, in onore del tricolore della neonata Italia. Alla regina Margherita il piatto piacque così tanto che si complimentò con Esposito, il quale diede alla pizza il nome della sovrana. Tutti felici e contenti? III LA POLEMICA Mentre da “Brandi” assessore, figuranti e turisti festeggiavano leccan-


Margherita dosi le dita dopo un trancio di pizza, a Napoli l’11 giugno è scesa in piazza anche una contromanifestazione. A organizzarla il movimento neoborbonico che mal sopporta l’accostamento di uno dei simboli di Napoli a una “usurpatrice” sabauda. La pizza pomodoro e mozzarella per loro è nata sotto la dinastia Borbonica e quello della regina Margherita sarebbe solo un “falso storico”. Emmanuele Rocco, infatti, autore di “Usi e costumi di Napoli e contorni” (1866, 23 anni prima della datazione del documento esposto da Brandi), presenta gli ingredienti, basilico compreso, del piatto che da quasi un secolo si mangiava in città: “le pizze più ordinarie, dette con l'aglio e l'olio”, fermo restando il pomodoro, “vi si sparge, oltre il sale, l'origano e spicchi d'aglio trinciati minutamente”, recita il filologo. Altre invece “sono coperte di formaggio grattugiato e condite con lo strutto e vi si pone di sopra qualche foglia di basilico” con “delle sottili fette di mozzarella”. Apriti cielo. Secondo il Movimento in questo testo, “è descritta chiaramente la Margherita perché le liste di mozzarella sono disposte appunto come nel fiore”. Da ciò si dedurrebbe che il piatto sia “storicamente antecedente alla conquista piemontese” e non debba “essere collegata alla moglie di un re usurpatore”. Ma non basta. I neoborbonici nel loro comunicato hanno anche invitano le “pizzerie napoletane a creare la Margherita borbonica per soppiantare quella filosabauda e far sparire un'altra favola risorgimentale”. Magnifiche contraddizioni del Belpaese, dove la divisione non è più tra Nord e Sud, ma tra Savoia e Borbone… Per rimescolare ancora un po’ le carte basta girare indietro di qualche altro secolo le lancette della macchina del tempo. La parola pizza, infatti, deriverebbe secondo alcuni dal termine di origine greca “pitta”, evolutasi poi in

“pinza” e finalmente nella moderna pizza. Una focaccia piatta (su modello della “maza” egizia) originariamente diffusa nel Balcani, in Turchia e sparsa per tutto il Mediterraneo. La parola “pizza” si sentiva già pronunciare nell’undicesimo secolo nelle Marche e in Campania. E ce ne sarebbe una trascrizione scritta nel Codice diplomatico gaetano, già nel 997 dopo Cristo. Secondo il professore Francesco Sabatini a portarla nel Paese potrebbero essere stati i Longobardi che conobbero la pitta greca nella Pannonia (regione che oggi comprende Ungheria, una parte dell’Austria, nord della Croazia e qualche chilometro di Slovenia), la loro terra prima della calata in Italia. Se lo sapesse la Lega nord… Napoli, comunque, non fu mai conquistata dai Longobardi ma il buon cibo varca più facilmente le frontiere di un’armata. Certo, non avevano pomodoro, mozzarella e basilico, ma questa è un’altra storia. III LA VERA PIZZA MARGHERITA Falsi storici e manifestazioni a parte, il centoventesimo compleanno della regina delle pizze è stato tribolato anche per l’allarme lanciato da Coldiretti, che ha denunciato le troppe pizze tarocche piene di ingredienti di dubbia provenienza. Imitazioni alle quali Napoli ha cercato di mettere un freno con un lungo percorso iniziato con gli studi della II Università di Napoli, Cattedra di Fisiologia della Nutrizione, che ha tracciato il primo disciplinare scientifico di produzione della pizza napoletana. Su questa base nel 1998 l’amministrazione del capoluogo campano ha registrato il marchio di possesso, seguito dalla norma Uni 10791, in cui è sancito il carattere artigianale della pizza, con lavorazione a mano (ma il disciplinare non boccia l’impastatrice) e utilizzo del forno a mattoni refrattari alimentato a legna.

Per i puristi su una Margherita deve esserci esclusivamente olio extra vergine d'oliva, pomodoro tipo San Marzano e mozzarella di bufala Dop campana e basilico italiano. Il disciplinare del 2004 è di manica un po’ più larga. La “pizza Napoletana” Stg (Specialità tradizionale garantita) riconosce la Margherita extra e la Margherita. Non sono obbligatori i San Marzano, ma il pomodoro fresco sì. La extra si fa solo con mozzarella di bufala campana, mentre per la “normale” basta il fior di latte dell’Appennino meridionale. III COSA BEVO? Finalmente la Margherita arriva in tavola, ma qui si apre un nuovo discorso. Meglio accompagnarla con il vino o con la birra? La disquisizione assomiglia pericolosamente a quella sulla sesso degli angeli, quindi meglio accantonarla in fretta. Basti notare che in pizzeria è decisamente più facile vedere una pinta, che un calice. Questo però non esclude la possibilità di berci del vino. Basta che sia quello giusto. Ci hanno provato ripetutamente con il Prosecco di Valdobbiadene, ma i napoletani si sono rivoltati: “Se proprio volete le bollicine l’abbinamento ideale è con un Asprinio d’Aversa spumante”, si è sentito urlare ai piedi del Vesuvio. Meglio quindi muoversi con cautela, perché in ogni regione c’è chi è convinto di produrre il perfetto vino da abbinare alla pizza Margherita. Per non far torto a nessuno, si può individuare il prodotto ideale in un bianco fresco, sapido e profumato. Restando in Campania magari un Falerno del Massico bianco. Qualcuno ci potrebbe veder bene anche un rosso poco strutturato e poco alcolico, magari quel Gragnano che già Totò decantava in “Miseria e Nobiltà”. Un po’ Lambrusco e molto partenopeo. Difficile però mettere tutti d’accordo: se non c’è riuscita una regina…

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Eventi

Tai rosso

chiama Mondo e i territori del

Grenache rispondono hi abbia portato il Tai Rosso sui Colli Berici rimane ancora un mistero. Potrebbero essere stati i monaci Cistercensi, nel quattordicesimo secolo, di ritorno da un viaggio ad Avignone, allora sede del papato. Oppure, molto più tardi, qualche migrante in Francia potrebbe aver viaggiato con alcune barbatelle. Quel che è certo è che il Tai (ma molti in loco lo chiamano ancora Tocai, con buona pace degli amici ungheresi che ne hanno vietato l'uso) altro non è che Grenache. Ovvero la quarta varietà più coltivata al mondo, l'uva più diffusa nel bacino mediterraneo. La stessa che in Spagna viene chiamata Guarnacha o Alicante, in Sardegna Cannonau, in Umbria Gamay Trasimeno, nelle Marche Vernaccia di Serrapetrona, in Campania Guarnaccia. E l'elenco potrebbe proseguire con decine di altre denominazioni legate ciascuna ad una zona di produzione. Nel sud della Francia, dove è alla base dell'uvaggio del prestigioso Châteauneuf-du-Pape, è semplicemente Grenache. Di questa “famiglia allargata” si è parlato a “Tai Rosso chiama mondo, primo simposio dei terroir del Grenache” organizzato a Vicenza su iniziativa di Qualithos, associazione che riunisce tre produttori di Tai Rosso (le aziende agricole Le Pignole, Piovene Porto Godi e Dal Maso) e una distilleria che ne produce la grappa (la distilleria Brunello). Un'iniziativa resa possibile grazie al patrocinio di Ais Veneto. E proprio il pre-

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sidente di Ais Veneto, Dino Marchi, ha introdotto il tema dell'incontro, sottolineando l'importanza di attingere a nuove argomentazioni per sostenere la funzione di comunicatore del sommelier. “Oggi il vino –

L Grappa e Tai Rosso Qualithos

ha spiegato – è criminalizzato: alla televisione si parla ormai solo di abuso e di incidenti d'auto. Dobbiamo riappropriarci di argomentazioni costruttive, che parlano di tradizioni, di cultura, di rapporti tra


sio – ha concluso Paolo Padrin, dell'Azienda Le Pignole – rappresentano un momento di confronto con altri territori che permette a tutti di crescere. Oggi si deve ragionare per il mercato globale, soprattutto per vini legati a un territorio locale”. Il simposio si è chiuso con la promessa di costituire un tavolo permanente di riflessione e confronto sul Grenache.

VINI E GRAPPE PER CONOSCERE UN “VITIGNO COLLETTIVO”

L Vigneti dei Colli Berici

popoli e che hanno nel vino un protagonista”. In questo senso la ricerca di parentele tra vitigni con un forte radicamento culturale nel proprio territorio permette di aprire nuove prospettive per la loro comunicazione. Per confrontare tradizioni, approcci alla coltivazione e alla vinificazione. Da chiarire quindi i termini della parentela tra questi vitigni. Si tratta semplicemente della stessa varietà che assume nomi diversi a seconda del luogo? Per alcuni anni questa è stata la spiegazione prevalente, inducendo molti vivaisti a confondere l'uno con l'altro. I più recenti studi di genetica però hanno accertato il contrario: Attilio Scienza, ordinario di Viticoltura all'Università di Milano, ha precisato che "oggi più che di sinonimi è preferibile parlare di un vitigno collettivo, cioè di varietà simili che hanno attraversato una storia di ben 500 anni di diversificazione genetica". In altre parole, siamo di fronte a un vitigno che è migrato di regione in regione: dall'Aragona al Rodano, dalla Catalogna alla Sardegna, dalla Linguadoca ai Colli Berici. Nel suo perigrinare si è adattato ai diversi climi, modificando la propria genetica. Ne consegue che sarebbe quanto mai un errore considerare l'uno per l'altro questi vitigni e piantare Cannonau per Alicante o Grenache per Tai Rosso. “Il rigore – ha spiegato Scienza – deve animare vivaisti e viticoltori”. Un legame con il territorio non solo dovuto alla genetica. Ne ha parlato

Roberto Cipresso, winemaker di successo, prima di diventare anche scrittore, secondo il quale ci troviamo di fronte a una delle varietà vinicole più plastiche, assieme al Pinot Nero. Significa che per il Grenache l'influenza del terroir è centrale; molto più che nel Cabernet o nel Merlot, nei quali l'aspetto varietale conserva una centralità maggiore. “Il terroir – ha spiegato Cipresso – è l'insieme dei fattori di suolo, vento, luce, temperatura, altitudine. La scelta dell'uomo deve tendere a darne un'interpretazione insolita, unica, geniale. Come diceva Madame Le Roy, titolare del Domaine Romanée Conti, Il miglior Pinot Nero è quello che non sa di Pinot Nero”. Un tema, quello del terroir, che sta molto caro ai padroni di casa, i produttori del gruppo Qualithos. “Il Tai Rosso – ha spiegato Tomaso Piovene, dell'azienda Piovene Porto Godi – rappresenta per i Colli Berici il vitigno della tradizione. Oggi noi siamo alla ricerca di nuove strade per dare espressione alla vocazione di questo territorio che costituisce un microambiente con caratteri originali e unici”. La scelta dei tre produttori è quella di ottenere un vino strutturato e longevo, che prevede un periodo di affinamento in legno. “Con Qualithos – ha proseguito Nicola Dal Maso, dell'azienda agricola Dal Maso - non solo abbiamo creato un marchio di garanzia per il consumatore, ma ci siamo dati anche un codice di autodiscplina”. “Occasioni come quella del simpo-

La ricerca di somiglianze e differenze nei vini prodotti con il Grenache dei diversi territori ha mosso la degustazione di otto vini e due grappe. A introdurla e guidarla sono stati i rispettivi produttori. Si è partiti con i tre Tai Rosso Colli Berici Doc, ovvero: Torengo 2007 Le Pignole presentato dall'enologo Domenico Frigo; Colpizzarda 2007 Dal Maso proposto da Nicola Dal Maso; Thovara 2007 Piovene Porto Godi, introdotto da Tomaso Piovene. Quindi Viniola Riserva 2006 Cannonau di Sardegna Doc della Cantina di Dorgali, introdotto da Leone Braggio; Châteauneuf-du-Pape Aoc Domaine du Banneret, spiegato da Audry Vidal; Finca la Cinta Socarrats 2008 Doc Priorat Bodega Alvaro Palacios e Propiedad 2007 Alfaro Doc Rioja Bodega Palacios Remondo, presentati da Ricardo Perez Palacios. Ha chiuso la serie dei vini un Maury Aoc Vin Doux Naturel del Domaine Arguti, vino fortificato della regione del Roussillon prodotto con il 100% di Grenache, proposto dal vigneron Ugo Arguti. Un ultimo capitolo è quindi stato dedicato alla grappa. Giovanni Brunello, titolare della distilleria che produce la grappa di Tai Rosso Qualithos, ha presentato i risultati di una ricerca condotta da “Veneto agricoltura” comparando la grappa di Tai a quella di Cannonau per scoprire se alcune delle caratteristiche attribuite normalmente ai vini fossero presenti nel distillato. Il panel-test ha dato una risposta positiva, individuando in tutte e due sensazioni di piccoli frutti rossi e floreali. Quindi sensazioni più vegetali nella grappa di Tai e più balsamiche nella grappa di Cannonau. Similmente a quanto era stato riscontrato nei rispettivi vini.

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Pillole

Doc Tullum, il simbolo della rinascita abruzzese Una delle prime buone notizie per l’Abruzzo viene proprio dal vino. Mentre la regione sta vivendo la fase di ricostruzione dopo il terremoto del 6 aprile non mancano i segnali positivi. La Doc Tullum ne è la dimostrazione. Presentata ufficialmente a inizio estate, Tullum sarà una delle Doc più piccole d’Italia: insiste, infatti, esclusivamente sul comune di Tollo, in provincia di Chieti, 4.200 abitanti, quasi tutti viticoltori. La denominazione nasce per valorizzare, certo, un territorio, ma anche per dimostrare il valore dimostrato dal vino nel risollevare il paese, distrutto completamente dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Tullum è quindi il simbolo della rinascita e, perché no, un segno di speranza per tutte le aziende abruzzesi colpite dal terremoto. Tullum avrà poi l’obiettivo di inaugurare un nuovo percorso per l’enologia regionale, che per quaranta anni ha comunicato quasi esclusivamente Trebbiano d’Abruzzo e Montepulciano d’Abruzzo. Volutamente Tullum non comunicherà questi vitigni. Attualmente sono in commercio le tipologie Tullum Bianco, Tullum Pecorino, Tullum Passerina. Per il Tullum Rosso e Tullum Riserva bisognerà attendere l’inizio del prossimo anno. La particolarità è che le singole tipologie dovranno provenire dalle specifiche zone del mappale. Quest’ultima è una scelta estremamente rigorosa, frutto di un lungo studio, che non solo individua i confini della Doc ma anche i fogli mappali dove è autorizzato l’uno o l’altro vitigno. Proprio le varietà sono una novità perché, per la prima volta, Tullum rende doc gli autoctoni Pecorino e Passerina. La resa per ettaro per Pecorino e Passerina sarà al massimo di 90 quintali per ettaro e la densità di impianto sarà di almeno 3.300 ceppi per ettaro. Sono esclusi i vigneti di fondovalle al di sotto degli 80 m slm. La vinificazione potrà essere effettuata esclusivamente in zona. Regole rigide, per fare capire la vocazione di un territorio già noto in epoca romana.

L I vip intervenuti alla presentazione ufficiale della Doc 106


COL SAN MARTINO

ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS CONVOCAZIONE ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA L’Assemblea Generale Ordinaria è convocata in conformità all’Art. 6 dello Statuto Sociale, in prima convocazione alle ore 6.00 del giorno giovedì 1 Ottobre 2009 e in seconda convocazione alle ore 15.30 del giorno venerdì 2 Ottobre 2009 presso la Sala del Trono, Castello di Melfi, Melfi (PZ)

per la trattazione del seguente ORDINE DEL GIORNO Relazione del Presidente Dibattito e interventi degli Associati Conclusioni del Presidente

Giunta Esecutiva Nazionale

Il Presidente Terenzio Medri

www.merotto.it Merotto Spumanti - Via Scandolera 21, 31010 Col San Martino Treviso - Italia. Tel. +39 0438 989000 - Fax +39 0438 989800 Email merotto@merotto.it


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La qualità ad alta quota di VinoVip Nell’anno del suo ufficiale riconoscimento da parte dell’Unesco quale “patrimonio mondiale dell’umanità”, Cortina ha ospitato quest’anno, il 3 e 4 settembre, la settima edizione di VinoVip Cortina, l’evento biennale che per trenta ore richiama nella splendida conca ampezzana gran parte del Gotha del vino italiano di pregio e della filiera politica, scientifica, mediatica e commerciale del suo affascinante mondo. Due giornate particolarmente vivaci di incontro e di discussione. A confrontarsi con il palato di 1.500 operatori italiani e stranieri, soprattutto centroeuropei, sono stati i vini dei 58 produttori e distillatori invitati all’evento che hanno presentato ciascuno quattro vini del loro splendido carnet, più un quinto se è una novità in senso assoluto o come anticipazione del “millesimo” di prossima immissione sul mercato. Tutto questo nel pomeriggio di venerdì 4 settembre nella frizzante atmosfera dei 2.100 metri di cima Faloria per l’ormai celebratissimo “Wine-Tasting delle Aquile”. Questo evento clou è stato preceduto, nella mattinata dello stesso giorno, da due degustazioni tematiche di grande attualità, organizzate rispettivamente in collaborazione con la Regione Friuli Venezia Giulia e con l’Istituto della Vite e del Vino di Palermo. La prima, “E adesso… si parla Friulano”, ha permesso di degustare, guidati dai singoli produttori, undici esemplari selezionati del nuovo vino che, rivisitato dagli esperti enologi di queste prestigiose aziende, hanno rivelato quelle sfumature che danno identità a ogni singolo prodotto; la seconda – “I love you, Sicily: terra vocata alle lingue del mondo” – ha testimoniato, con il competente, personale coinvolgimento di altri undici produttori siciliani, il convincimento isolano, confortato dal parere scientifico di insigni studiosi e dal parere tecnico dei professionisti della vigna e del vino, non solo isolani, che la Sicilia vinicola non è un’isola ma un Continente proprio per le condizioni ambientali e pedoclimatiche che assicurano un habitat naturale privilegiato ai vitigni di tutto il mondo. A monte di queste eccezionali opportunità per preziose scoperte enoiche, il WineTasting delle Aquile e i due Siparietti tematici, si è discusso del mercato e dei suoi problemi nel corso di un seminario organizzato dalla Fiera di Verona che da quest’anno gestisce la complessa tematica dell’evento cortinese, una partnership molto significativa perché conferma la crescita dell’evento stesso fino a meritarsi l’avallo prestigioso della struttura che da quarant’anni, con il suo Vinitaly, “comunica” ai cinque Continenti il ruolo del vino italiano nel mondo. 108


A Villa Sandi premiati gli ambasciatori del vino Creatività, professionalità e spirito di iniziativa sono le peculiarità che la giuria del Premio Internazionale “Innovazione nella professione” ha tenuto in considerazione nella scelta dei vincitori del prestigioso riconoscimento, promosso da Villa Sandi in collaborazione con l’Ais. Giunto alla nona edizione, il concorso dalla passata stagione è stato esteso a tutti i giovani sommelier che lavorano all’estero. Due dei tre vincitori di quest’anno sono infatti attivi oltre i nostri confini: Daniel Marzotto è assistant manager head sommelier presso l’Osteria dell’Angolo a Londra; Diego Meraviglia ricopre il ruolo di vice presidente e direttore del portfolio presso la Fourcade & Hecht Wine Selections, azienda di distribuzione e importazione di vino negli Stati Uniti con sede a Los Angels; Riccardo Sgarra è chef sommelier alla Locanda del Borgo Antico a Barolo (CN). Il premio è stato consegnato nel corso di una

serata di gala nella sede dell’azienda di Crocetta di Montello (TV) lo scorso 7 settembre in presenza della giuria, composta da Terenzio Medri, presidente AIS, Giancarlo Moretti Polegato, presidente di Villa Sandi, e dai giornalisti Nicola Dante Basile, Mauro Remondino, Paolo Pirovano e Alberto Schieppati. “Coinvolgere i sommelier che lavorano fuori dall’Italia – ha sottolineato il presidente Medri – è stata un’idea brillante, accolta con entusiasmo dai nostri giovani associati che vivono e lavorano all’estero. Abbiamo ricevuto parecchi curricula e mai come quest’anno la scelta è stata difficile, perché la maggior parte dei concorrenti presentava requisiti ed esperienza ad altissimo livello”. Il concorso, come consuetudine, è stato rivolto ai sommelier professionisti di età inferiore ai ventinove anni che si sono particolarmente distinti per spirito d’iniziativa e originalità nell’esercizio della loro professione.

L’equilibrio Perfetto L’equilibrio perfetto non esiste, ma noi ce la mettiamo tutta ed i risultati stanno arrivando. I nostri vini sono stati premiati OSCAR QUALITÀ PREZZO GAMBERO ROSSO Filieri Rosato 2006

per l’ottimo equilibrio qualità prezzo.

CANTINA

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“Le Loro Maestà” di scena a La Morra È IL TITOLO DEL CONVEGNO NEBBIOLO E PINOT NERO IN PROGRAMMA NELLE LANGHE A METÀ NOVEMBRE Che cosa hanno in comune il Nebbiolo di Langa e il Pinot nero di Borgogna? L’intimo rapporto tra territorio, vitigno e lavoro dell’uomo, che dà origine a vini straordinari espressione del terroir. Se ne parlerà a “Le Loro Maestà – Il Nebbiolo e Le Pinot Noir”, in programma il 21 e 22 novembre a La Morra, nel cuore delle Langhe. L’evento, ideato da Artevino, riunirà per la prima volta venti tra i migliori produttori di Borgogna e venti tra le più significative aziende delle Langhe. L’evento, che offrirà la possibilità di degustare i vini di due aree mito dell’enologia, nasce in modo originale. Nel 2006, infatti, l’équipe di Artevino decide di immergersi per due mesi nella Borgogna. Obiettivo: scrivere un libro su questa regione affascinante con un taglio personale, creando una raccolta di storie di uomini ed emozioni, quasi un diario di viaggio. Da qui nascono i rapporti con i più importanti Domaines e l’idea dell’evento. Il 21 e 22 novembre “Le Loro Maestà” non vedrà la competizione tra le due aree ma, al contrario, risponderà al desiderio di entrambe di conoscersi meglio e fare squadra. In un mondo sempre più globale e competitivo, aziende che lavorano con la stessa filosofia, unendosi pur mantenendo le proprie identità, non possono che uscirne rafforzate. La manifestazione vedrà come momento più importante le degustazioni, dove sarà possibile incontrare personalmente grandi produttori. Non mancheranno però i momenti di confronto. “Le Loro Maestà” si aprirà sabato 21 alle ore 14 ad Alba, presso la sede del Consorzio Tutela Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Roero con il convegno “Cru: parola sintesi di valori”, organizzato in collaborazione con il Consorzio di Tutela. Non si tratterà di un convegno ma di un dialogo Italia Francia aperto a tutti, produttori, sommelier, appassionati, istituzioni e giornalisti. Obiettivo? Capire meglio il valore della parola “cru”, divenuta oggi sinonimo della migliore espressione enologica di un territorio. Una direzione che le Langhe stanno seguendo con decisione. In questa occasione, infatti, il Consorzio di tutela presenterà la cartografia delle menzioni geografiche aggiuntive del Barbaresco e del Barolo e farà il punto sull’iter per l’approvazione del testo del nuovo disciplinare. Dopo anni di studi e discussioni tra i produttori, infatti, recentemente in Langa si è legiferato in termini di cru. Il Consorzio tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero ha definito ufficialmente le menzioni geografiche aggiuntive del Barbaresco, entrate a fare parte del Disciplinare di produzione nel febbraio 2007 e quelle del Barolo, che saranno inserite nel Disciplinare non appena riceveranno l’ approvazione del Ministero. Dopo il convegno, l’evento si sposterà alla Sala Polifunzionale di La Morra per il banco d’assaggio. Sabato dalle 17 alle 19 sarà riservato alla stampa mentre domenica dalle 10 alle 17 sarà aperto anche al pubblico con l’acquisto del biglietto in prevendita al sito www.leloromaesta.it. 110


La delegazione di Trieste alla Barcolana, la festa del mare Duemila imbarcazioni ogni anno, quasi undicimila persone, 41 anni di storia: sono i numeri della Barcolana, la regata che si svolge nel Golfo di Trieste rigorosamente nella seconda settimana di ottobre. Per Trieste è la festa del mare, la regata dove si danno appuntamento velisti di professioni e non, imbarcazioni grandi e piccole, grandi campioni e appassionati: per una intera settimana le Rive di Trieste diventano un grande villaggio del mare, dove stand, animazione, enogastronomia si uniscono alla città per celebrare la più attesa festa della vela. La delegazione triestina dell'Associazione italiana sommelier del Friuli Venezia Giulia non poteva certamente mancare a uno degli appuntamenti clou della città: la “regata di tutti”, quella dove la parola chiave è, “c'ero anch'io”. Quest'anno la delegazione sarà infatti presente dal'8 all11 ottobre con uno “Stand-Enoteca” nel Villaggio Barcolana sulle rive di Trieste. Sarà l'occasione per la delegazione triestina di offrire, non solo i vini di punta del territorio, con l'affiatatissimo “gruppo servizi sommelier”, ma anche di fornire informazioni sul ricco e ghiotto calendario delle attività programmate dall'Ais provinciale e regionale e sui i nuovi corsi che prenderanno il via in autunno. Una festa, dunque, anche per la delegazione triestina dell'AIS, che da qualche mese si fregia di un nuovo delegato, Federico Trost. “Essere presenti alla Barcolana – commenta il nuovo delegato – è sicuramente una di quelle occasioni da non perdere sia in mare sia da terra per lo spettacolo unico che la regata offre. Infatti, è più una festa del mare che una regata, dove i velisti della domenica possono veleggiare a fianco dei professionisti dell'America's Cup. Invito, pertanto, tutti i colleghi sommelier e i loro amici a venire in visita nella nostra splendida città e al nostro "Stand - Enoteca" sul fronte mare di Trieste, le Rive, dove saranno ormeggiate le barche più belle. Potranno così assaporare il gusto di un'esperienza senza eguali assistendo alla regata più affollata del Mediterraneo, e avranno pure l'occasione di degustare i grandi vini della nostra regione”. Arrivederci, dunque, in autunno a Trieste, tra mare, vele e vino!

Federico Trost, delegato Ais di Trieste

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Libri

SULLO SCAFFALE TAPAS, LA DELIZIOSA CUCINA SPAGNOLA IN MINIATURA Autore: Editore: Prezzo:

Paco Roncero Calderini 39,00 euro

L’accorata prefazione al volume è di uno dei cuochi più discussi del secolo: quel Ferran Adrià a cui si deve l’invenzione della cucina molecolare che ha negli ultimi mesi ha provocato roventi polemiche per i suoi presunti effetti nocivi. A parlare, oltre alle ricette, sono infatti le fotografie (alcune scattate dallo stesso Roncero) di questi piatti, definiti parte di una “cucina in miniatura”, evoluzione delle tradizionali Tapas spagnole. Diverse le scuole di pensiero circa l’origine delle Tapas: da Alfonso X di Castiglia, detto il Saggio (1221-1284), costretto per ragioni di salute a mangiare solo piccole porzioni; alla fetta di salume che veniva appoggiata sul bicchiere o sulla caraffa perché non vi cadessero dentro degli insetti; alla più semplice necessità di “tappare” la fame fino all’ora del pasto principale. Quale che sia l’origine dell’andare a prendere una tapa, è indubbio che in tutte le regioni spagnole sia usanza comune, radicata a tal punto da giustificare vere e proprie gare di tapas come quella che si tiene a Valladolid e fino a diventare un simbolo di identità della cucina spagnola a livello mondiale. Ed è con lo spirito dell’entusiasta che Paco Roncero raccoglie in questo libro, frutto del contributo di vari colleghi, la tradizione delle origini per declinarla lungo i più recenti sentieri della cucina dei “sensi”, che attribuisce alle tapas non già e non più dignità di solo aperitivo, ma di cibo vero e proprio: cibo della “cucina in miniatura”. Perché, afferma lo chef “oggi, gusti e tendenze percorrono un cammino di ricerca per conoscere e accostare nuove e diverse consistenze, sensazioni e materie prime”. Il tutto coadiuvato dalle nuove tecniche culinarie e dall’influsso di altre culture, prima tra tutte, quella orientale. I piaceri della vita vanno assaporati in piccole dosi.

di Natalia Franchi

CATALOGO DEI CLONI Autore: Editore: Prezzo:

Giulia Tamai Edagricole Il Sole 24 Ore Business Media 10,00 euro

Il termine clone rievoca di primo acchito altri temi di ben altra valenza morale e religiosa: la possibile clonazione umana e tutte le implicazioni etiche a essa connesse contribuiscono a conferire al termine un appannaggio di “mistero” che, nel caso della vite, oltre a mancare, è alla base dell’eccellenza qualitativa e sanitaria dei vini serviti sulle nostre tavole. Ad accompagnare la viticoltura per migliaia di anni, era all’inizio la selezione massale, che consentiva l’origine di nuove piante utilizzando parti di sarmenti prelevati da una o più viti (propagazione per via agamica), arrivando così a un lento miglioramento genetico delle produzioni. Ciò era reso possibile dalla connaturata dote della vite che consente di trasmettere, inalterate alla discendenza, le caratteristiche genetiche della pianta madre dalla quale viene prelevato il materiale di moltiplicazione (sarmento) e, quindi, di conservarne gli aspetti positivi per i quali è stata selezionata. Aspetti positivi che, nei secoli, privilegiavano le potenzialità produttive, mentre le caratteristiche qualitative delle uve erano lasciate in secondo piano, in linea con un mercato che premiava la produttività e non la qualità dei prodotti. La selezione massale presentava dunque dei limiti intrinseci, primo tra tutti, l’assenza di una valutazione dello stato sanitario della vite, delle malattie da virus cui i sarmenti potevano essere portatori. Ecco dunque fare il suo ingresso, tra le più recenti esigenze produttive e qualitative del settore vitivinicolo, la selezione clonale che, pur mantenendo le basi fisiologiche e genetiche del miglioramento genetico per via vegetativa, ha risposto in modo efficace al fortunato futuro di centinaia di vitigni. La sua introduzione, regolata dalla direttiva CEE 68/193, compie quest’anno 40 anni. Da allora, accurati protocolli di selezione clonale cui i Costitutori (Università, Enti ragionali, aziende vivaistiche private) devono attenersi per arrivare all’omologazione di un candidato clone, garantiscono la sicurezza e la valorizzazione di uve che andranno a deliziare palati sempre più esigenti di ogni parte del pianeta. La gamma di materiale clonale presentato nel volume supera il centinaio di tipologie, tra vitigni a diffusione internazionale, nazionale, regionale e locale. Per ognuno, una accurata scheda descrittiva completa di zona d’origine, anno di omologazione, peso del grappolo, contenuto zuccherino, attitudine enologica. La scienza al servizio della natura.

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VITOVSKA. I VIGNETI DAL MARE AL CARSO VINO AMORE MIO Autore: Editore: Prezzo:

Enzo Biondo S.VI.SA. editrice 48,00 euro

Tutto l’orgoglio e la tradizionale “spigolosità” di un’isola è racchiusa in questo ampio volume. L’isola in questione è la bella Sardegna. L’autore, un uomo che del vino ha fatto la sua ragione di vita, per trentacinque anni direttore tecnico della Cantina sociale della Marmilla, poi accademico Nazionale della vite e del vino, infine insignito nel 2001 della Medaglia di Cangrande (il prestigioso premio che l’Ente fiere di Verona assegna ai benemeriti della vitivinicoltura) e attualmente consulente di numerose aziende vinicole. Punto di forza attorno al quale ruota tutto il volume è il riconoscimento e la valorizzazione della ricchezza varietale del territorio, con 70 diversi vitigni (biotipi) autoctoni; una risorsa dal valore unico per la Sardegna, nonché un’importante difesa contro l’omologazione del gusto. E’ infatti legando la maggior parte della produzione vinicola, ma anche agricola, al territorio, creando un sistema di tipicità – che rifugge le produzioni di massa – che il vino sardo ha tracciato la via delle produzioni di qualità. Una specificità che vede un predominio quasi assoluto dei vitigni autoctoni (90% circa). Un fattore di sviluppo, quello della tipicità, che potrà essere rafforzato e divenire elemento di competitività cominciando a stabilire connessioni sempre più strette tra produzione e territorio. Il consumatore deve consumare territorio, e per consumarlo deve conoscerlo, ed essere informato. Quale miglior strumento di conoscenza, allora, di questo libro? Un immenso lavoro di ricerca che si snoda lungo una attenta descrizione dei vitigni sardi a bacca bianca, a bacca nera, dei vitigni nobili, fino ad arrivare a un vero e proprio censimento – con relativi commenti, grafici e analisi – dei produttori vinicoli dell’isola, circa 120, divisi tra le otto province. Una citazione a parte merita il capitolo “Curiosità vinicole”, dove, dietro a un titolo accattivante, si celano le risposte che tutti vorremmo avere riguardo all’effetto afrodisiaco del vino (se in grandi quantità assunto, nefasto per l’uomo) e alle virtù antisbornia del cavolo.

Autore: Editore: Prezzo:

Stefano Cosma Vinibuoni d’Italia 40,00 euro

Un libro dedicato alla storia di Trieste e del Carso, con un’attenzione particolare alle produzioni locali di una terra unica, tra le rocce calcaree e il mare, spazzata dalla frustate di bora. Un tributo d’amore da parte dell’autore, Stefano Cosma, triestino doc e affascinato dal nonno, agronomo, enologo e appassionato cultore della flora carsica. Un raro esempio di analisi – bilingue – su Trieste e il Carso, al centro di innumerevoli pubblicazioni storico-economiche, che di questa terra svela i segreti agroalimentari. Protagonista del volume, la Vitovska, un vitigno a bacca bianca diffuso nella provincia di Trieste e nella vicina Slovenia sul territorio del Carso. Slovene le origini del nome, dove è chiamato Vitovska Grganja. La Vitovska può essere ritenuta varietà autoctona: non esistono infatti in tutta l’area mediterranea varietà assimilabili ad essa, capace di passare indenne, nelle terre rosse del Carso, bora, freddi inverni e siccità nella stagione calda. Che il vino fosse di primaria importanza per il territorio triestino lo si comprende da molti documenti storici, tra cui quello del 1253 con cui il vescovo Volrico cedeva per denaro al Comune di Trieste il diritto di esigere la collettura del vino. Anche gli Asburgo colsero la valenza del vino per l’economia dei Triestini, il cui sostentamento dipendeva per la maggior parte dalla coltivazione delle vigne: nel 1551 l’imperatore Ferdinando ordinava che i mercanti potessero condurre vini forestieri per terra ma non per mare, e comunque al solo scopo di venderli fuori Trieste. I secoli a seguire fanno registrare analoga fortuna per il vino di questo territorio, fino ad arrivare al 1985, con l’istituzione della denominazione di origine controllata “Carso-Kras”. Da allora, un cammino non propriamente in salita, ma apprezzato dai veri estimatori. Il microcosmo carsico svelato.

“Un uomo che beve solo acqua ha un segreto da nascondere ai suoi simili” Charles Baudelaire 113


Io non ci sto

Con la crisi abbassare i prezzi è necessario, sbracare è suicida! di Franco Ziliani è un rischio molto evidente in questa grande crisi, economico-finanziaria, ma non solo, che sembra mettere in discussione tutte le basi su cui si è svolto il discorso sul vino da oltre vent’anni a questa parte. E’ il rischio che volendo cambiare tutto si finisca con il gettare via anche il bambino… con l’acqua sporca… Intendiamoci, non sarò certo io, che all’esagerata crescita dei prezzi del vino, dovuta anche ai ricarichi allucinanti di una certa ristorazione e di una parte, con scarsa aderenza alla realtà, del mondo degli amici enotecari, ma anche a prezzi esageratamente elevati in partenza franco cantina, non ho mai creduto, a biasimare il fatto che, in tempi di crisi, i prezzi assurdi di molti vini tendano a essere vigorosamente abbassati. Soprattutto i prezzi dei vini senza storia, fatti con lo “spannometro”, ovvero con un calcolo approssimativo, per cui se il vino simbolo di una certa zona costa dieci, io che sono nato l’altro ieri, posso tranquillamente provare a venderlo a 7-8. E’ la legge del mercato, la stessa legge che in epoca di vacche grasse ha portato molti se non ad arricchirsi a portare parecchio fieno in cascina, e ha “giustificato” che taluni vini venissero commercializzati a prezzi inverosimili (non lo aveva prescritto il medico di comprarli ma se si vendevano vuol dire che avevano una richiesta e un acquirente disponibile), che oggi, quando la Borsa non è più Toro, ma Orso, rende ineluttabile un ridimensionamento, un ritorno a dimensioni più umane del fenomeno vino. Mi va benissimo pertanto che, giustificato più da un drammatico calo della domanda, che da un’improvvisa loro maturazione e “presa di coscienza”, molti produttori, sollecitati a farlo dai loro clienti e dall’invenduto che si ammassa in cantina, mentre un’altra vendemmia, pare abbondante, si annuncia, rivedano in basso i loro listini. O meglio, ufficialmente non tocchino nulla, salvo poi lavorare su una robusta “scontistica” (compri 10 paghi 6 o 7…) e provino a rendere di fatto più commercialmente appealing i loro vini. Non mi va bene invece, e concordo in pieno con la definizione che il direttore del Corriere Vinicolo Marco Mancini, in un editoriale pubblicato il 27 luglio ha bollato come “folle battaglia al centesimo”, che questa giusta, sacrosanta e doverosa revisione dei listini, si traduca in una gara a chi, perdonate l’espressione un po’ cruda, “cala di più le brache”. Dice bene il presidente dell’Unione italiana vini Andrea Sartori, citato nello stesso editoriale, che “le aziende rischiano seriamente di farsi del male. Quando si scende al di sotto di certi prezzi – e si riferisce a “importanti denominazioni svendute sotto i 60 centesimi al litro e fino a 0,20 euro” – non solo diventa impossibile pensare di recuperare in prospettiva certe posizioni, ma soprattutto sorge una questione di carattere etico. La rincorsa al ribasso potrà nell’immediato far vendere qualche ettolitro di prodotto in più ma alla lunga cause-

C’

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rà danni irreparabili”. Crisi terribile, ma siamo davvero sicuri che con un simile sbracamento commerciale il mondo del vino italiano possa risultare credibile e degno di essere preso in considerazione dai propri interlocutori, siano essi importatori e distributori esteri, oppure operatori del canale Horeca e dagli stessi consumatori? Non lo credo proprio. So bene che quanto sto per scrivere rischia di apparire stravagante e impopolare, ma sono persuaso che proprio in momenti come questi non si possa fare di tutta un’erba un fascio. E che non si possano buttare nello stesso calderone dei “cattivi” da mettere in castigo dietro la lavagna, il calderone, secondo una generalizzazione becera ed eno-qualunquista, dei “produttori che comunque fregano la gente”, sia le molte piccole e medie aziende che virtuosamente non si sono mai lasciate prendere dalla spirale del rialzo, del prezzo da eno-boutique e hanno sempre mantenuto fede a un correttissimo rapporto prezzo-qualità che appare super corretto ancora più oggi, sia un universo composito, dove entrano sia grandi aziende sia boutique winery nate per moda e per posa, perché faceva “fino” fare vino o c’erano dei miliardi da investire. Anche in tempi di crisi, dove le difficoltà sono numerose e difficili da superare, occorre ribadire che una certa qualità, quando è reale, quando si traduce in vini che hanno storia e costanza qualitativa e capacità di esprimere l’unicità dei loro terroir d’origine, che danno lustro, non a parole ma nei fatti, al vino italiano, oppure in vini – si prenda il caso delle Cinque Terre, dove qualcuno potrebbe giudicare cari venduti franco cantina a dieci euro più Iva gli ottimi bianchi che lì vengono prodotti, ma camminate un po’ i vigneti e fatevi un’idea di in quali oggettive difficoltà e con che lavoro e fatica enorme nascano! – che sono espressioni di aree eroiche di viticoltura di montagna, non può essere svenduta e che sotto determinati prezzi, se i vini sono veri, è impossibile scendere. Impensabile accettare che possano circolare, come circolano, e non è eno-gossip, ma realtà, Barolo, Barbaresco, Brunello di Montalcino, ma anche molti vini figli di Doc meno mediatiche, svenduti, in Italia e all’estero, a pochi euro. Non è serio fare così: la conclusione inevitabile è che molti prezzi ante crisi rappresentassero una mera speculazione che ha preso per il “naso” il consumatore negli anni dell’eno-euforia. Per cui sono d’accordo sul ribassare i prezzi, sull’eliminare le spese inutili di contorno (dalle bottiglie griffate o pesanti alle consulenze dei winemaker Re Mida, alle barrique nuove a ogni vendemmia, alle cantine stile hollywoodiano) che hanno inutilmente fatto lievitare le quotazioni. Ma se devo dire che il vino italiano, anche quello più serio, per restare a galla, per avere un futuro, per fare in modo che coltivare vigneti sia ancora remunerativo, deve sbracare e ridursi a praticare prezzi da eno-discount, allora è automatico che io, ad alta voce, pronunci il mio consueto e super convinto “io non ci sto”…


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