DeVinis n. 90 Novembre-Dicembre 2009

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Anno XVI - n. 90 - € 3,50 - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 - n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano

DEVinis LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE

Novembre / Dicembre 2009

PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - ais@sommeliersonline.it


Editoriale

2010,

l’anno del rilancio di Terenzio Medri a più parti sentiamo dire che il 2010 sarà l’anno del rilancio dell’economia. I timidi segnali di ripresa registrati negli ultimi mesi (non ultime le previsioni dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) fanno sperare che il tunnel in cui ci ha cacciato la congiuntura economica mondiale sta per concludersi. Secondo i dati diffusi dall’Ocse l’Italia oltre a mostrare forti segnali di crescita, ha ormai sorpassato la Gran Bretagna per prodotto interno lordo ed è la sesta nazione più ricca tra i paesi industrializzati del mondo. Questo significa che anche i comparti enologico e agroalimentare torneranno a sorridere. Ma vuol dire anche che non bisognerà dimenticare la lezione che questa crisi ci ha insegnato. Molte cantine hanno ancora le botti piene, numerosi ristoratori ed enotecari conservano, invendute, bottiglie pregiate molto costose. Tutto questo è figlio del boom incontrollato (e forse incontrollabile) di qualche anno fa, quando cioè il prezzo non condizionava in modo determinante le vendite. Oggi il consumatore è molto più accorto (ed esperto) e guarda con maggiore attenzione al rapporto qualità prezzo. In questo processo di crescita culturale la nostra associazione ha avuto un ruolo fondamentale, che continua a svolgere non solo in Italia con i corsi di formazione e le degustazioni organizzate dalle nostre delegazioni, ma anche all’estero dove accompagniamo le aziende italiane del vino di qualità affiancandole come comunicatori del prodotto di eccellenza e del loro territorio di provenienza. Ecco, per uscire dalla crisi occorrerà puntare proprio sull’importanza della cultura e della comunicazione. La nostra associazione, dopo anni di studio e applicazione pratica, in questo senso non teme confronti: da tutto il mondo alle nostre sedi giungono infatti inviti per partecipare in qualità di relatori a convegni, tavole rotonde, degustazioni; arrivano richieste di articoli pubblicati da riviste inglesi, francesi, tedesche, spagnole, russe, giapponesi e cinesi. Non siamo alla ricerca di primati autoreferenziali e

D

propagandistici (non lo siamo mai stati) anche perché sono sterili e fine a se stessi. La nostra forza è nella cultura perché ovunque la cultura è necessaria: nella fase di promozione, di commercializzazione, ma ancora di più nel mantenimento delle posizioni di mercato già acquisite. Fare questo richiede una grande professionalità e una capacità di innovazione permanente, come quelle che hanno dimostrato i concorrenti del Campionato europeo che si è appena svolto a San Marino. Le chiacchiere di chi ha messo in discussione la qualità e il prestigio del concorso scivolano sul piano inclinato della nostra indifferenza. Fortunatamente per dimostrare di esistere la nostra associazione non ha bisogno di urlare, c’è e si vede per tutto ciò che ha fatto e sta continuando a fare non al servizio di se stessa, ma al servizio del prezioso frutto dell’arte enologica. Per i chiacchieroni l’augurio è quello di potere, in futuro, fare altrettanto. A tutti gli altri buon Natale e un felicissimo 2010. Ne abbiamo veramente bisogno! 3


AIS Associazione Italiana Sommeliers Presidente | Terenzio Medri Vicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella Romani Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, Lorenzo Giuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.

La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene. Anno XVI novembre-dicembre 2009 Associazione Italiana Sommeliers Editore Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, terenzio.medri@sommeliersonline.it Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, francesca.cantiani@sommeliersonline.it Per la pubblicità | Roberto Pizzi, pubblicita@sommeliersonline.it tel. 02/72095574 – ICE Srl – Corso Garibaldi, 16 – 20121 Milano Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - devinis@sommeliersonline.it Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it Hanno collaborato | Silvia Baratta, Luisa Barbieri, Roberto Bellini, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Alessia Cipolla, Elisa della Barba, Alessandro Franceschini, Natalia Franchi, Katia Giarrusso, Michela Guadagno, Yuki Kumagawa, Emanuele Lavizzari, Michela Lugli, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Angelo Matteucci, Gian Carlo Mondini, Davide Oltolini, Roberto Piccinelli, Cesare Pillon, Paolo Pirovano, Annalisa Raduano, Alessandra Rotondi, Isabella Sardo, Thomas Sartori, Lorenzo Simoncelli, Daniele Urso, Franco Ziliani. Fotografie | Archivio Ais Per l’articolo a firma di Gian Carlo Mondini foto di Giorgio Salvatori Per l’articolo a firma di Alessandra Rotondi foto della stessa autrice Per l’articolo a firma di Alessandro Franceschini foto dello stesso autore Per l’articolo a firma di Daniele Urso foto dello stesso autore Per l'articolo a firma Letizia Magnani la foto centrale è di Jeremy Keith Per l’articolo a firma di Elisa della Barba foto della stessa autrice Per l’articolo a firma di Thomas Sartori la foto centrale alle pagg. 84-85 è di .and Per l’articolo a firma di Riccardo Castaldi foto dello stesso autore Per l’articolo a firma di Michela Guadagno foto di Gianni Lamberti Si ringrazia la professoressa Ester Acquati per la consulenza nella scelta dell’immagine di copertina. Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001 Associato USPI Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA € 20,00 ESTERO € 45,00 Intestare ad “Associazione Italiana Sommeliers – viale Monza, 9 – 20125 Milano” specificando il motivo del versamento da effettuarsi secondo una delle tre seguenti modalità: - pagamento tramite c/c postale 000058623208 - bonifico su Banco Posta, codice IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX) - bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano, IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) Chiuso in redazione il 16-11-2009 Stampa | Grafiche Parole Nuove Srl - Brugherio Milano Copie di questo numero | 40.000

AIS 2010

Rinnovo quota associativa 2010 E’ possibile rinnovare l’iscrizione nei seguenti modi: Internet basta collegarsi al sito www.sommelier.it, cliccare su “Rinnovi Online” e seguire le istruzioni per effettuare il pagamento tramite Carta di Credito (escluso Diners Card).

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c/c postale n. 58623208 intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9, 20125 Milano”, indicare nella causale “Quota associativa 2010”. Bonifico presso Banco Posta intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers” IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX).

Bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano” intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers” codice IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) La quota associativa è di 80 euro e comprende l’abbonamento annuo alla rivista ufficiale AIS e alla Guida Duemilavini edizione 2011.


Sommario

Novembre / Dicembre 2009

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Sul tetto d’Europa

LUCA GARDINI

15

CONQUISTA IL TITOLO CONTINENTALE DEI SOMMELIER

I grappoli del Titano

DEGUSTAZIONE

DELLE ETICHETTE DI

SAN MARINO

19 Aspettando il 2010… LOCALI

E PROPOSTE PER IL

24 IL

Champagne per tutti!

FASCINO DELLE BOLLICINE FRANCESI

32 LA

Un’altra strada per l’eno-shopping

VENDITA DEI VINI ALLE ASTE

36

La bottiglia al centro della convivialità

LA BASILICATA

40 LE

HA OSPITATO IL

VULTURE

BACCO, (1629) DIEGO VELÁZQUEZ, OLIO SU TELA, CM 165,5 X 227,5 MADRID, MUSEO DEL PRADO DI

PARTICOLARE

VIAGGIO

E

MATERA

NELLA METROPOLI AMERICANA

Dall’Etna al Carso

VITICOLTURA

56

NAZIONALE

New York imbandisce la tavola

“WINE & FOOD FESTIVAL”

51

43.MO CONGRESSO

Enogastronomia a sostegno del turismo

RICCHEZZE TRA IL

44

TRIONFO

CAPODANNO

AD ALBERELLO IN ITALIA

I segreti dell’isola IN

SARDEGNA

TRA MARE E VIGNETI


Sommario

Novembre / Dicembre 2009

62

Dal Mar Rosso al Mediterraneo

METE

E PERCORSI ALLA SCOPERTA DELL’EGITTO

67 UNA

Olio, nobile e prezioso MASSERIA CHE ACCOGLIE UN MUSEO

76

Il distillato degli Incas

IL PISCO,

83 I

PARI

48 60 70 72 74 80 102 112 114

PERÙ

Sulla rotta dei conquistadores

SAPORI DI

90

All’interno

ORGOGLIO DEL

SANTO DOMINGO

Sommelier al femminile OPPORTUNITÀ ANCHE NEL MONDO DEL VINO

Architettura e vino Vino e scuola

UN

CONTINUA IL VIAGGIO NELLE CANTINE INNOVATIVE

MASTER IN SOMMELLERIE

Olio CONTRO IL LOGORIO DELLA VITA MODERNA Birra NATALE, TEMPO DI BIRRE… SPECIALI Distillati GRAPPA, IL DISTILLATO LEGATO AL TERRITORIO Acqua L’AMICA DEL FORMAGGIO Vino e letteratura

IL

NETTARE DEGLI DEI

Sullo scaffale LE NOVITÀ EDITORIALI Io non ci sto!

MACCHÉ 0,5:

IL

CORSERA

CHIEDE ZERO VINO PER CHI GUIDA


Campionato europeo

Italia regina d’Europa NELLA

FINALISSIMA DI

SAN MARINO LUCA GARDINI

SI È LAUREATO MIGLIOR

SOMMELIER CONTINENTALE DOPO UNA SFIDA MOLTO EQUILIBRATA TRA SEDICI PROFESSIONISTI PROVENIENTI DA ALTRETTANTE NAZIONI

di Paolo Pirovano targato Italia il gradino più alto del podio al Campionato europeo dei sommelier. Luca Gardini si è infatti aggiudicato il concorso “Miglior sommelier d'Europa” svoltosi nella Repubblica di San Marino il 14 e 15 novembre. Il ventottenne romagnolo, milanese di adozione, lavora al ristorante Cracco, nel cuore del capoluogo lombardo. Gardini ha preceduto Milan Krejci della Repubblica Ceca e il rappresentante della Scozia Virgilio Gennaro. La competizione ha messo a confronto le qualificate professionalità di sedici sommelier provenienti da altrettanti Paesi del Vecchio Continente. Il concorso, tenutosi al Palazzo dei Congressi della Repubblica sammarinese, si è diviso in due puntate. Nella semifinale, il primo giorno, i candidati hanno affrontato diversi

È

test, tra cui un questionario scritto che, a detta di tutti, è stato molto selettivo. La finalissima si è svolta il giorno successivo, con prove pratiche di servizio, la correzione di una carta dei vini, sessioni di degustazione con identificazione di due vini, l’abbinamento cibo-vino e il riconoscimento di cinque distillati. «Questa competizione dimostra che il sommelier è diventato una figura polivalente, un valido promotore e un grande comunicatore del patrimonio vitivinicolo mondiale. La nostra soddisfazione è quella di vedere che molti giovani professionisti provenienti da tutta Europa sanno interpretare al meglio questo ruolo», ha affermato Terenzio Medri, presidente della Worldwide sommelier association che con l'Associazione som-

L Il gruppo dei concorrenti insieme ai membri del Comitato Tecnico del concorso 10

melier della Repubblica di San Marino ha organizzato il concorso. «Penso che questa manifestazione sarà ricordata per gli elevati contenuti tecnici: la finalissima ha emozionato e stupito gli spettatori accorsi al Palazzo dei Congressi – ha dichiarato il segretario della Wsa Moreno Rossin – e la competizione è stata una vetrina rivolta a quelle numerose associazioni che ancora non fanno parte della Worldwide sommelier association, ma che hanno già espresso l’intenzione di unirsi a noi per organizzare corsi e promuovere attività all’interno dei loro confini». E mentre su questa competizione scorrevano i titoli di coda, dopo la premiazione avvenuta durante la cena di gala, Medri ha ricordato agli ospiti il prossimo appuntamento, il Mondiale che nel 2010 radunerà i

L Luca Gardini, Milan Krejci e Virgilio Gennaro, i tre finalisti


A COLLOQUIO CON IL CAMPIONE Luca Gardini non è certo nuovo a partecipazioni e successi in concorsi di livello nazionale e internazionale. Ma la vittoria alla competizione europea è sicuramente il titolo più prestigioso che si aggiunge al suo già ricchissimo palmarès. Originario di Ravenna, si forma presso l’Istituto Tecnico Agrario Luigi Perdisia. Diventa Sommelier Professionista poco più che ventenne dopo anni di gavetta tra hotel e ristoranti della Romagna. Tra le sue esperienze professionali non si può non citare quella come chef sommelier presso l’Enoteca Pinchiorri, il famoso Tre Stelle Michelin in pieno centro storico a Firenze. Attualmente ricopre lo stesso ruolo al ristorante Cracco di Milano. È difficile tenere il conto dei concorsi in cui si è imposto: Nebbiolo 2003, titolo regionale e Master Sangiovese nello stesso anno, Miglior Sommelier d’Italia 2004, Premio alla Carriera Ais 2005 e molti altri ancora. Abbiamo scambiato qualche battuta con lui il giorno dopo la finalissima. Miglior Sommelier d’Europa, una grande soddisfazione, non c’è dubbio. Ma quale è stato il momento più difficile del concorso? Il momento più complicato è stato poco prima che chiamassero i tre finalisti: avevo un grandissima tensione! È proprio questo l’aspetto che mi ha messo più in difficoltà. A volte soffro molto questo mio nervosismo. Chi tra i concorrenti “temevi” di più? I sommelier più accreditati erano il ceco, anche lui poi finalista, e il rappresentante della Turchia. Quanto hai studiato per prepararti a questo appuntamento? Sarebbe riduttivo definire la durata del mio studio. Certo, negli ultimi mesi mi sono dato parecchio da fare, ma le mie conoscenze sono frutto di una lunga preparazione iniziata da diversi di anni... Quando hai capito che il trofeo poteva essere tuo? Quando sono state lette le risposte mi sono reso conto di aver offerto sul palco una prestazione importante e le possibilità di vittoria erano reali. Tra l’altro, essendomi esibito per primo, ho avuto poi la possibilità di sentire quanto detto dagli altri due finalisti. L’atmosfera tra i partecipanti ha messo in evidenza una grande amicizia tra voi sommelier europei. Confermi questa nostra impressione? Sì, certo! Oltre alla competizione, è stata un bella esperienza di amicizia, di stima e di confronto tra giovani di culture differenti, ma accomunati dalla passione per il vino. C’è una dedica a qualcuno in particolare per questo successo? Come ho già fatto subito dopo la premiazione, dedico il trofeo a mio padre Roberto e a colui che più di tutti mi ha ispirato e appassionato al mio lavoro, Giorgio Pinchiorri. Un ringraziamento speciale va poi al ristorante Cracco, in modo particolare allo chef Carlo Cracco e ai miei collaboratori Giacomo Babini e Diego Piergiovanni. Sono loro che mi hanno “allenato” e sostenuto fino all’ultimo momento prima di salire sul palco! A cosa hai pensato quando hai sentito che il campione continentale eri proprio tu? Troppe emozioni per poterne citare solo una... Progetti per il futuro? In quale Paese straniero ti piacerebbe lavorare? Tanti!!! Al momento sto bene a Milano. All'estero ci andrò di certo per confrontarmi con le altre culture e approfondire la mia esperienza! (E.L)

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Campionato europeo

migliori sommelier del pianeta nella Repubblica Dominicana. Sarà senz’altro una esperienza unica, come quella vissuta in quel lembo di terra arroccato sul Monte Titano nella più antica Repubblica del mondo, terra di istituzioni arcaiche e di apprezzati prodotti tipici. Produzioni limitate ma senz’altro uniche, come hanno ricordato i relatori del convegno “1979-2009, 30 anni di viticoltura a San Marino”, moderato da Franco Maria Ricci, general manager della Wsa, una tavola rotonda organizzata per celebrare il compleanno del Consorzio Vini tipici di San Marino. «Il trentennale è un anniversario veramente speciale – ha detto il segretario di Stato al Territorio, ambiente e agricoltura Gian Carlo Venturini – per tutti gli operatori del settore che hanno saputo unire la passione per la terra alla professionalità. La scelta compiuta nel 1979 è stata così lungimirante che oggi possiamo tranquillamente affermare che il Consorzio è parte del patrimonio storico e culturale di San Marino». Leo Veronesi, vicepresidente del Consorzio ha invece sottolineato che da diversi anni il fatturato supera i due milioni di euro. Il comparto vitivinicolo occupa il 5 per cento (pari a 117 ettari) della superficie agricola sammarinese: il Sangiovese la fa da padrone, con 63 ettari, seguito dal Biancale con 22 e dal Moscato con 8,63. Ad altri vitigni come Ribolla, Chardonnay, Montepulciano e Cabernet

L Luca Gardini e Carlo Cracco

sauvignon sono riservate aree coltivate più ristrette. Il vino sammarinese ha cominciato ad affermarsi negli anni Cinquanta, con un mercato squisitamente turistico che ha però confermato quanto fossero apprezzati dai visitatori i prodotti di questa terra. Con il trascorrere del tempo la consapevolezza di avere delle potenzialità inespresse in campo enologico ha spinto gli operatori a migliorare il prodotto, fino ad arrivare nel 1986 al marchio della Identificazione di origine e ai disciplinari di produzione che, come ha affermato Leonardo Seghetti, componente del Comitato tecnico scientifico, «devono essere ancora più rigidi, per caratterizzare ulteriormente il vino sammarinese». «Identificazione di origine – spiega Leonardo Lonfermini, direttore dell’Ufficio Ugraa – significa identificare il vino col territorio in modo tale da farne un tutt’uno. Una simbiosi ine-

L La foto di Marta Penserini, prima classificata al concorso “ Vite Vissute”

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quivocabile, chiara e indivisibile». «Questo marchio è insomma la massima espressione del legame con il territorio, della tracciabilità, dell’eccellenza e della tradizione», sostiene il presidente dell’Associazione sommelier sammarinese Stefano Serra. «I costanti e capillari controlli condotti dalla Commissione tutela vini del Comitato tecnico scientifico, messi in atto sulla filiera vinicola per la produzione dei vini ad identificazione di origine, sono la garanzia di vigilanza su qualità e tipicità delle produzioni», gli fa eco il responsabile delle relazioni esterne e internazionali dello stesso sodalizio Paul Andolina. Il Consorzio Vini tipici conta oltre 300 soci, in grado di produrre annualmente 14.000 quintali di uve, mentre la produzione totale è stimata in circa 20.000 quintali. Il primo documento d’epoca che attesta la cessione di vigne sammarinesi è datato 1253: si tratta di un vero e proprio contratto di vendita delle vigne presenti sui terreni agricoli del Castello di Casole, firmato dal Conte Taddeo di Montefeltro a favore del sindaco Oddone Scarito, ma come ha ricordato scavando nel tempo e nella storia Remigio Bordini, componente del Comitato tecnico scientifico, non mancano altri esempi, come un atto di mezzadria del 1253. Tutto questo non per ricercare sterili primati che si perdono nella notte dei tempi ma per “certificare” che la viticoltura e l’agricoltura qui hanno radici antichissime. E la tradizione prosegue, come testimoniano gli scatti e i dipinti del concorso fotografico-pittorico “Vite vissute, tradizione, cultura e passione nei vigneti di San Marino”, organizzato in occasione dell’Europeo dei sommelier per festeggiare il trentesimo anniversario di fondazione del Consorzio. Vite di uomini e donne aggrappate ai filari, vite di viti, di foglie, di uve e di vino. Di lavoro e di sacrificio. Vite che, catturate nell’attimo di un magico “clic”, diventano immortali o attraverso il pennello e la leggiadra fantasia di un artista si trasformano in una sinfonia di colori. Vite da incorniciare e da ricordare. Perché la memoria è un paradiso da cui è impossibile essere scacciati.


I CONCORRENTI RUDINA ARAPI

MILAN KREJCI

DONALD SINCLAIR EDWARDS

GLORIA VIERO

FABRIZIO PANCHETTI

CONNOR MCCLAY

YAEL SANDLER

LUCA GARDINI

Ristorante Paolo Teverini, Bagno di Romagna (FC) – Italia Precedenti esperienze come barista presso l’Enoteca Vacchetta a Santa Croce sull’Arno (PI) e come sommelier al Ristorante Girarrosto di Pontassieve (FI).

Bouchon Group, Breton Restaurant – Londra – UK Precedenti esperienze presso l’Ashdown Park Hotel, Forest Row, e al Brighton Hotel du Vin, UK.

Baglioni Hotel, Londra – UK Precedenti esperienze come sommelier presso il Ritz Carlton e come barista al Caffé Alba, Londra, UK.

Gordon Ramsay at Claridge's, Londra – UK Precedenti esperienze presso l’Hamaym Restaurant in Sharon Beach Promenade, Herzeliya, e il Tavola Restaurant in Hanassy St. Herzeliya Pituach, Israele.

Merlot d´Or, Praga – Rep. Ceca Precedenti esperienze presso il Ristorante Magic Garden e il Ristorante Lions Court a Praga, Rep. Ceca. Nel 2007 e 2008 vincitore del Concorso Internazionale dei vini spumanti, Rep. Ceca.

Hindenburg Klassik, Hannover – Germania Precedenti esperienze presso il Ristorante Madrigal di Ibiza, Spagna.

James Nicholson Wine Merchant, Downpatrick – UK Precedenti esperienze presso Selfridges di Oxford Street e Threshers Wine Shop, Londra, UK.

Ristorante Cracco, Milano – Italia Precedenti esperienze presso l’Enoteca Pinchiorri, Firenze, e il Ristorante The Fat Duck, Londra, UK. Miglior Sommelier d’Italia 2004.

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Campionato europeo

I CONCORRENTI MAKSIMS MERKULOVS

Galvin Windows Restaurant Hilton on Park Lane, Londra – UK Precedenti esperienze presso il Latium Restaurant, Londra, UK, e il Room Restaurant at Clarence Hotel, Dublino, Irlanda.

Selfridges Wines&Spirits, Londra – UK Precedenti esperienze con il Decanter Magazine e presso il Roussillon Restaurant, Londra, UK.

IRIS DELLA VECCHIA

VIRGILIO GENNARO

IGOR SOTRIC

ANGUS MACNAB

ANGELO DE RAIMONDO

ALESSANDRO MARCHESAN

Restaurant San Lorenzo, Glinde – Germania Precedenti esperienze in diversi ristoranti di Amburgo, Germania.

China Tang, Dorchester Hotel, Londra – UK Precedenti esperienze presso il Cocoon Restaurant, il Drones Restaurant e il Tamangang Restaurant, Londra, UK.

Grand Hotel du Golf et Palace, Valais – Svizzera Precedenti esperienze presso l’Hotel Romazzino, Porto Cervo (OT), l’Hotel Baglioni e il Lucio's Restaurant, Londra, UK.

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MARCIN ANDRZEJ SCHILLING

Locanda Locatelli Restaurant, Londra – UK È Freelance Consultant per il Fine Dining Restaurant, Scozia. Precedenti esperienze presso il Magnolia Restaurant e Bejerano Brasserie at Sopwell House Hotel St. Albans, Hertfordshire, UK.

The Lanesborough Hotel, Londra – UK Precedenti esperienze presso il Clos Maggiore, il The Plough, l’Hush Restaurant e la Butlers Warf Chophouse, Londra, UK.

Zuma Restaurant, Londra – UK Sommelier e Wine Buyer, dal 2003 lavora presso il ristorante del gruppo turco.


Degustazioni

I grandi vini di un piccolo Stato di Gian Carlo Mondini

na visita a San Marino, che con i suoi 60,57 chilometri quadrati è uno dei più piccoli (e più antichi) Stati d’Europa, si può fare per varie ragioni: per conoscere le tradizioni e la storia di questo paese, incastonato sulle pendici del monte Titano al confine delle regioni Emilia Romagna e Marche; per l’incantevole panorama che spazia sull’Adriatico da Ravenna ad Ancona, fino alle pendici del Montefeltro; oppure per seguire le numerose proposte culturali, per fare shopping, mentre una motivazione innovativa è senz’altro la scoperta della gastronomia locale, dei prodotti tipici e dei vini. La capitale è San Marino (circa 4500 abitanti), cittadina dall’aspetto medievale e ricca di monumenti. Gli altri centri principali sono Borgo Maggiore, ai piedi del Titano, che da qui s’innalza quasi a picco, mostrando la vetta tricuspidale coronata da tre torri e collegato con una funivia a San Marino, Serravalle e Dogana, il maggior centro agricolo-industriale del minuscolo Stato che si trova sull’arteria stradale che porta a Rimini. Tutto questo è stato possibile ammirare e toccare con mano durante il Concorso Miglior Sommelier Europeo Wsa organizzato dalla neonata Associazione sommelier

U

della Repubblica di San Marino in collaborazione con la Worldwide sommelier association. Terra ricca e industriosa, vive di turismo (oltre 3 milioni di visitatori all’anno prevalentemente in primaveraestate) anche se sono assai fiorenti diverse altre attività artigianali e industriali come metalmeccaniche, tessili, elettroniche, ceramiche, mobili, lavorazione della carta. Altro introito è infine dato dall’emissione di monete e francobolli, molto ricercati dai collezionisti. Probabilmente proprio per questo fino a poco tempo fa si era ridotto l’interesse verso l’agricoltura, attività tradizionalmente povera e faticosa. Da un po’ di anni si registra un cambiamento di tendenza, grazie alle opportunità offerte da un turismo sempre più attento alle tipicità, in particolare verso l’enogastronomia, portando benefici economici e valorizzando le peculiarità locali. Alcune delle proposte gastronomiche tipiche di San Marino, sono la piadina, il pane nazionale, i pregiati salumi e il prosciutto del Montefeltro, per passare poi ai classici passatelli in brodo e strozzapreti gratinati, agli stringhetti al prosciutto e tartufo, alle lasagnette al ragù d’agnello e fonduta di formaggio (una reinterpre-

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Degustazioni tazione moderna della tradizionale lasagna). Per i secondi piatti a base di carne, la tagliata di manzo al tartufo e il petto d’oca al ginepro, sono particolarmente gustosi e saporiti. Tra i dolci, da non lasciarsi sfuggire, il casatello, una preparazione a base di crema, il bustrengo, tradizionale dolce invernale e il dessert di mascarpone. Particolarmente interessante sia la produzione di olio extra vergine di oliva sia quella del miele vergine integrale. Quest’ultimo, ottenuto con le tecniche più antiche e nel pieno rispetto della natura e delle tradizioni artigianali, è presente sul mercato nelle tipologie millefiori, acacia, castagno, di bosco, girasole, eucalipto e tiglio. Ma San Marino è anche terra di vini. Non è certo una affermazione nota ai più, eppure è così. La repubblica più antica del mondo ha da sempre una passione per la vitivinicoltura e da qualche tempo l’interesse per questo settore è ulteriormente accresciuto. I vini sono prodotti esclusivamente dal Consorzio Vini Tipici di San Marino, nello stabilimento enologico di Valdragone. Il Consorzio, nato nel 1979, conta oggi 180 soci ed è, in pratica, l’unica cantina di vinificazione e imbottigliamento del territorio. La produzione di vini è piuttosto varia: i bianchi vanno dai prodotti beverini, a quelli più complessi, agli spumanti, al moscato dolce, al passito; anche tra i rossi si trovano sia quelli di pronto consumo sia quelli affinati a lungo. Il consistente flusso turistico fa sì che buona parte della produzione sia assorbita dal mercato interno, ma è in continuo

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aumento la percentuale che raggiunge i consumatori di Giappone, Svizzera, Inghilterra, Germania Stati Uniti e ovviamente Italia. I soci conferiscono annualmente una media di 1.500 tonnellate d’uva, che rappresenta oltre il 70 per cento della produzione dell’intera Repubblica. Con la Legge 31/10/1986 n. 127 si è intrapresa la strada della valorizzazione delle produzioni vitivinicole e con l’istituzione del marchio d’identificazione d’origine sono state gettate le basi per la qualificazione dei vini di San Marino, ottenuti secondo le norme stabilite nei disciplinari di produzione, dando così, al consumatore, certezze e garanzie di qualità. La parte del leone, nella base ampelografica, la fanno le uve rosse (70 per cento) rappresentate in gran parte dal sangiovese. In ogni modo, il panorama varietale comprende per i vitigni a bacca rossa sangiovese, pinot nero, ancellotta, syrah, cabernet sauvignon, mentre i vitigni a bacca bianca sono moscato, ribolla, chardonnay, pinot bianco, biancale, canino, cargarello, pignoletto, sauvignon, vermentino. Importante e basilare il lavoro compiuto in questi anni nel vigneto per ottenere vini di assoluta qualità, in grado di affrontare i mercati internazionali pur conservando alcuni caratteri classici, ovvero una propria identità, lontani dalle mode, dove la finezza e l’eleganza prevalgono sulla possanza, vini senza timori reverenziali, convinti di potersi confrontare con il resto del mondo enologico. Vini pieni di sorprese e pronti a stupirci.


LA DEGUSTAZIONE I VINI DI SAN MARINO Spumante Brut Riserva del Titano Uve: Chardonnay 60%, Ribolla 35%, Sangiovese vinificato in bianco 5%. Alcol 12% Ottenuto con metodo Charmat lungo, si presenta di un colore giallo paglierino intenso con riflessi dorati e brillanti, perlage fine e delicato. Naso complesso e fragrante nei profumi di banana, ananas, fiori di pesco, acacia, tiglio, il tutto elevato da note di lieviti, fine. Al gusto è cremoso e di piacevole morbidezza, adeguata la struttura, equilibrata da freschezza e marcata sapidità. Di riguardo la persistenza con chiusura di nocciola tostata e frutta esotica. Da servire a 8° C . Bene come aperitivo, ottimo anche da tutto pasto con menù di pesce. Prezzo indicativo in enoteca 7,50 euro. Bottiglie prodotte 20.000

Biancale di San Marino I. O. 2008 Uve: Biancale 100%. Alcol 13% Giallo paglierino intenso con riflessi brillanti, denota ottima consistenza. Intenso nei profumi floreali e fruttati, si riconoscono mimosa, gelsomino, biancospino, fruttato di susina gialla, pesca, con note di erbe aromatiche, intenso e fine. Al gusto conferma da subito un buon equilibrio tracciato da ottima mineralita, caldo e morbido con freschezza che si prolunga nel finale di corrispondenza gusto olfattiva. Servire a 10 ° C. Abbinare a crostacei, molluschi, risotto con gamberi, strozzapreti con salse bianche. Prezzo in enoteca 6,50 euro. Bottiglie prodotte 20.000

Roncale di San Marino I.O. 2008 Uve: Chardonnay 50%, Ribolla 50%. Alcol 13% Giallo paglierino con riflessi verdi, cristallino con consistenza in evidenza. Naso che si protrae in profondità, fruttato di ananas, mela golden, frutta tropicale, susina , banana, con finale che vira al burro di arachidi. Ingresso al palato pieno, caldo e morbido, struttura che si regge su un apprezzabile equilibrio con sapidità e freschezza, persistente e chiusura su toni di frutta matura e di macedonia tropicale. Servire a 10/11° C. Proporre con passatelli in brodo , zuppa di pesce, fritto misto, baccalà con patate. Prezzo indicativo in enoteca 8,00 euro. Bottiglie prodotte 20.000

Caldese vino bianco elaborato in barrique Uve: Chardonnay 70%, Ribolla 30%. Alcol 13,8% Fermentato in tonneau di rovere francese e lasciato ad affinare sui lieviti, presenta un colore giallo dorato e brillante, aderisce al calice formando lacrimazione lenta e stretta. Naso di notevole complessità con profumi di albicocca, pesca sciroppata, miele, vaniglia, scorze candite, cenni floreali di ginestra e camomilla e chiusura di nocciola e mandorla tostata. Ingresso al palato avvolgente, morbido ed equilibrato con sapidità in buona evidenza. Vino pieno e persistente, e di corrispondenza gusto olfattiva, armonico. Servire a 12° C. Abbinare a risotto di pesce, grigliate di mare, zuppe, coniglio al tegame. Prezzo indicativo in enoteca 16,00 euro. Bottiglie prodotte 6.000

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Degustazioni Sangiovese di San Marino I.O. 2007 Uve: Sangiovese 100%. Alcol 13,5% Colore rosso rubino con riflessi violacei, limpido, archetti che denotano struttura. All’olfatto è intenso e tipico nei profumi del vitigno: si riconoscono ciliegia, prugna,viola, rosa canina, mandorla amara, floreale di geranio e note mentolate e di sottobosco. Al palato a ingresso pieno, caldo e di buona morbidezza, tannini eleganti in equilibrio a freschezza e sapidità, persistente e piacevolmente ammandorlata la chiusura gustativa. Pronto, per un ulteriore evoluzione di 2/3 anni. Servire a 16° C. Servire con lasagnetta al ragu d’agnello, trippa in umido, costine, grigliate di carni. Prezzo indicativo in enoteca 7,50 euro. Bottiglie prodotte 32.000

Brugneto di San Marino I.O. 2007 Uve: Sangiovese 90%, altre uve 10%. Alcol 13,5% Il 50% viene affinato in barrique per almeno un anno, colore rosso rubino cupo, limpido, di consistenza importante. Corredo olfattivo complesso e fine, con sentori di frutta matura, confetture e gelatine di mora, prugna, ciliegia, note speziate di chiodi di garofano, pepe nero, peonia, rosa appassita e un finale minerale di graffite e china. Servire a 18° C. Abbinamenti con tagliatelle al castrato, polenta con cacciagione, arrosti, formaggi di media stagionatura. Prezzo indicativo in enoteca 9 euro. Bottiglie prodotte: 50.000

Tessano di San Marino I.O. riserva 2005 Uve: Sangiovese 80%, altre uve 20%. Alcol 14% Affinamento del 70 per cento in barrique per almeno un anno, ha colore rosso granato poco trasparente, limpido e di ottima estrazione. Al naso subito complesso e profondo, intensa coesione di aromi di confettura di prugna, ciliegia sottospirito, spezie dolci, vaniglia, cannella, seguite da note balsamiche di eucalipto e una chiusura di radice di liquirizia e caffè. Al gusto si propone con forza e potenza, esprime un equilibrio ancora di gioventù con tannini vellutati e morbidi integrati nella importante struttura. Il lungo finale ci conduce a note di tabacco e cacao in polvere. Servire a 18°C. Abbinamento carni rosse, stinco di maiale, brasato, intingoli, faraona farcita al tartufo. Prezzo indicativo in enoteca 18 euro. Bottiglie prodotte 12.000

Oro dei Goti Vino passito 2006 Uve: Moscato bianco 100%. Alcol 16% Appassimento fatto esclusivamente in vigna con vendemmia a inizio ottobre, viene fermentato e affinato totalmente in barrique e tonneau. Splendido colore giallo dorato con riflessi oro verde, brillante, consistente. Naso complesso, si evidenziano le note aromatiche di agrumi, cedro candito, muschio, salvia, fiori d’arancio supportate da un ventaglio di note speziate e mielate di cera d’api , cannella e cardamomo. Palato dolce e avvolgente, si confermano le note agrumate, freschezza e sapidità gli conferiscono un buon equilibrio, persistente, il finale è lungo con chiusura su note di burro di cacao e di pasticceria. Servire a 12° C. Abbinamento a strudel di pere, latteruolo, bustrengo, crostate. Prezzo indicativo in enoteca 20 euro. Bottiglie prodotte da 0,375 l. 4.000

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Tendenze

Capodanno “grandi attese” di Roberto Piccinelli lzi la mano chi ha un rapporto idilliaco con la notte di San Silvestro. Chi, ormai, non la guarda con una sorta di timore reverenziale, quasi fosse una montagna da scalare, un esame da superare, una divinità da ossequiare… Il fatto è che la voglia di divertirsi, di festeggiare in allegria ed evadere dal solito tran tran sono talmente forti da comportare grandi aspettative, spesso e volentieri disilluse da serate ai limiti dell’imbarazzante. Per di più, quest’anno interviene anche la speranza di veder coincidere lo scoccare della mezzanotte con la definitiva fine di una crisi economica che ha attanagliato il mondo intero. L’attesa è ancora più grande del solito. Ragion per cui, il prossimo Capodanno va affrontato con un pizzico di scaramanzia e molta attenzione in più, al fine di rompere con il recente passato, esorcizzare il futuro ed eliminare rischi inutili. Urgono consigli mirati ed emozioni garantite.

A

Non è vero ma ci credo “Non hai vinto. Ritenta, sarai più fortunato!”. Chi ha qualche anno sulle spalle non può non ricordare la mitica frase che negli Anni ’70 ci inseguiva ovunque, dal retro dei tappi dell’aranciata alle cartine dei bubble gum, per ricordarci che vincere non è mai semplice e farci anzi tramutare in tanti, arrabbiatissimi Paperino, in perenne lotta con il fortunello, Gastone. Che, per contro, faceva incetta di premi, dal semplice lecca lecca al motorino ultimo 19


Tendenze tipo. Così, rivedersela sulla sorta di Gratta e Vinci ideato dalla pasticceria Scaringi, al fine di omaggiare la sua clientela con qualche tazza di cappuccino in più, fa un certo effetto. Sì, quella frase innesca un effetto di déjà vu, che ci spalanca le porte dell’emisfero vintage, in versione portafortuna. Del resto, ricerca della fortuna e voglia di scaramanzia sono fra i pochi punti fermi di un “divertimentificio” in fase di turbinosa mutazione: a dare un’occhiata ai prossimi veglioni di Capodanno pare proprio che regni tuttora sovrano il “Non è vero, ma ci credo” coniato da Peppino De Filippo agli albori degli Anni ’50. Il rifugio La Maison Vieille organizza uno scanzonato transfer dal fondo valle con motoslitta e/o gatto delle nevi, un aperitivo con ostriche e vino bianco, un cenone e un dance party ma non si sogna minimamente di tralasciare l’happy end a base di lenticchie e zampone porta fortuna! Alle lenticchie, ipotetiche portatrici di benessere fin dall’antichità, quando erano considerate un bene di lusso e avevano pure un valore monetario, pensano anche La Lampara e Triestina, i cui menù del 31 dicembre si ritrovano a non poterne fare senza, anzi, a essere totalmente asserviti, nel nome di una serie infinita di benefici presunti. Stessa storia per slip, culottes, boxer, mutande o perizoma di colore rosso, che il privè del Villa Prati, ben diretto dal bravo Sauro Moretti, prevede come indispensabile e beneaugurante dress code. Sembra incredibile ma in un mondo che ormai viaggia a tecnologia avanzata, a cavallo degli ultimi giorni dell’anno tutti gli abitanti si ritrovano nei negozi di intimo e a indossare praticamente gli stessi indumenti, solo perché pare porti bene avere qualcosa di rosso a contatto con la pelle… Ma non finisce qua, perché sulla scia del Cafè Witch di Bilbao, intrigante pub a base di musica alternativa e look esterno imperniato sul colore viola e su murales stregati, da noi fa furore l’Oies, panoramicissimo show food alpino, che in una stube colleziona orsacchiotti di peluche ma nell’altra si lascia caratterizzare da una miriade di streghette benefiche: hai visto mai? E che dire del St. Patrick's 20

di Tallinn o dell’Irish Pub di Philadelphia, dotato di una clientela femminile da urlo, il primo ispirato a un look anglo-fashion, il secondo, ma entrambi votati al quadrifoglio come nume tutelare, al pari dell’italico Celtic Druid? Per non parlare del Billabong, australian pub che piazza sopra il bancone un grande boomerang bianco, simbolo di good luck, del ristorante Ragno d’Oro, che sceglie il nome pensando al detto “ragno porta guadagno” e di un locale che, tanto per non perdere tempo, si regala un’insegna eloquente quale Fortuna Pub. Non si può, però, parlare di fortuna e derivati senza tirare in ballo cornetti e peperoncini, i quali ultimi sono stati sfoderati come centrotavola dal ristorante Aurora in occasione di una recente festa di compleanno di Antonio D’Amato, imprenditore ed ex presidente di Confindustria. «Una maniera originale per tenere lontano il malocchio da ospiti importanti», ha sempre tenuto a precisare Lucia, la titolare. Quanto ai cornetti, una sorpresa: chi ha detto che Napoli è la patria dei cornetti rossi anti-jella? Con un’infinità di pezzi prodotti in un anno, è incredibilmente Predan, azienda dell’interland milanese, la vera culla del più ambito degli amuleti contro la sfortuna! Il giovane imprenditore Claudio Predan ha capito l’antifona e, preso a cuore il prodotto, lo ha realizzato in sette differenti formati, con un mix segreto di sette resine plastiche. Il formato più vendu-

to è quello da sette virgola sette centimetri, anche se per le maxi-jatture è consigliabile quello gigante, lungo trentatrè centimetri e pesante circa nove etti. Attenzione però, per funzionare appieno il cornetto deve essere regalato, altrimenti il risultato potrebbe essere esattamente il contrario… III Emozioniamoci! Alla ricerca di emozioni e brividi sulla pelle. È questa l’ultima, vera mission dell’anno. Una mission che punta diretta verso locali in grado di far sognare, inebriare, intrigare, stupire, affascinare e deliziare. Che ne dite di iniziare con un american bar che propone un cocktail con le perle? Si chiama Nottingham Forest e non solo offre un drink a base di polvere di perla ma presenta sul fondo una perla naturale di circa 7 mm e lancia perfino una promozione natalizia, grazie alla quale un cliente che arriva a raccogliere 63 perle può cambiarle con una collana vera e propria, dotata di garanzia di qualità e completa di elegante confezione regalo! Da una chicca preziosa a un locale fascinoso, un ristorante celato all’interno di un faro, sito oltretutto sull’isola dell’Amore, una minuscola lingua di sabbia lasciata libera dalle acque nel bel mezzo del delta del Po. Ma la magia de La Lanterna non si esaurisce nella location, perché il viaggio in barca a remi, magari in mezzo alla bruma, regala attimi di romanticismo crepuscolare… Stupore


con tanto di affreschi, suppellettili e urne cinerarie… Consigli ad hoc Per finire, ecco qualche suggerimento mirato, evidenziato dalla caratteristica intrinseca dell’evento. Programmare il prossimo 31 dicembre in base a gusti e carattere non solo è possibile ma anche auspicabile…

superstar, invece, al Caffé Turrisi, pub dedicato all’organo genitale maschile. Si dice che nella mitologia greco-romana il membro virile stesse a rappresentare le divine energie, la creazione e la fecondità umana, animale e agricola: detto fatto, in un delizioso borgo sopra Taormina c’è un locale che ha pensato bene di celebrare il prezioso elemento maschile. Intendiamoci bene, non di locale a luci rosse si tratta, bensì di ritrovo per famiglie e comitive di amici, in vena di ridere di fronte a falli di forme, dimensioni e materiali inconsueti. Un pene di oltre un metro di lunghezza per 20 centimetri di diametro appoggiato sul tavolo principale, pupi siciliani alti 30 centimetri con improbabili protuberanze da 25 centimetri appesi al muro e simboli fallici a go go rendono l’ambientazione particolare e divertente, allo stesso tempo. D’altro canto, chi non riderebbe, trovandosi di fronte a salviette di carta che riproducono le caricature degli ipotetici membri di Hitler, De Gaulle, Churchill e un menù a base di specialità denominate “Ammosciato Freddo” ed “Eccitato Caldo”? Per di più, tutte le nuove clienti devono sottostare a una piccante cerimonia d’iniziazione, che vede come protagonista assoluto e reattivo un puttino di terracotta… Un viaggio indietro nel tempo consente, invece, il pub Bam Bam, dotato di un suffisso illuminante, “Ristosauro”. Varcandone la soglia, si ritorna all’età della pietra con ironia e alle-

gria. Intorno al grande braciere centrale impazzano un banco bar a zanne di mammuth, sgabelli maculati e colonne a forma di ossa di dinosauro, che paiono usciti dalla matita di Hanna&Barbera, quelli di “Wilma, dammi la clava”! A ispirare la filosofia vitale sono gli ambienti paleolitici lanciati dal geniale interior designer Andy Martin, artefice del gettonatissimo Opal. Bere una birra o mangiare una pizza fra stalattiti e stalagmiti accende la fantasia, garantito. Come pure la permanenza in un fascinoso casale di campagna risalente al 1300 che, dotato di un vero e proprio osservatorio astronomico, offre la possibilità di passare la notte a guardare le stelle, mano nella mano. Stiamo parlando dell’agriturismo L’Uva e le Stelle, che di giorno propone corsi mirati a garantire una corretta interpretazione delle mappe astrali, mentre di sera si fa intrigante, invitando a una dolcissima visione del cielo stellato. Non mancano i brividi di piacere e paura. Piacere, per l’esibizione dell’unica pizzaiola-stripper del mondo al Son Amar. Oriana Tirabassi è una campionessa di pizza acrobatica ma visto che è bionda e alta un metro e ottanta centimetri, ha messo a punto uno spettacolo che prevede evoluzioni a tempo di musica con pasta, pomodori e mozzarella, accompagnate dal suo strip tease. Paura, per la cena al Re Tarquinio, ristorante scavato nella roccia, ma soprattutto ricavato in una sorta di tomba etrusca

III Pazzesco In una piccola torre, costruita nel 1150 come fortilizio di difesa prende vita una cena davvero folle: l’aperitivo viene servito direttamente in bocca, tramite uno spruzzatore a spalla solitamente utilizzato dai contadini per cospargere i campi di anticrittogamici. Il primo intermezzo è garantito da un trattorino con motore a scoppio, cavalcato da due animatori con sombrero, in vena d’impennate. I primi e i secondi arrivano in tavola dentro carriole da muratore e vengono serviti nei piatti con le cazzuole, per non parlare dei dessert che, neri, cremosi e conservati dentro vasi da notte, sono spiaccicati nelle mani dei clienti, previa fasciatura con carta igienica. Il tutto, accompagnato da un crescendo musicale live, che porta i commensali a cantare e ballare all’impazzata. Dulcis in fundo, la serata del Ciabot (Strada Cappelletta 2, Rivanazzano-PV. Tel. 0383/91313; 0383/93157) si chiude con l’apertura della vetrata che dà sul cortile e l’entrata in sala di tre somari in carne e ossa, pronti a girare fra i tavoli, solidarizzare con i presenti e perfino mangiarne gli avanzi… III Rilassante Aperto da Miriam Maltagliati, Knit (307 E 14th New York 212/3870707) è un innovativo locale dove si lavora a maglia, con pareti caratterizzate da montagne di gomitoli di lana di tutti i colori. Lo sferruzzare, non è però inteso come lavoro della nonna, perché da più parti, anche autorevoli, se ne parla come una nuova forma di joga e, quindi, di relax totale. A disposizione della clientela, latte e caffé bio ma anche bicchieri di vino e cocktail alla moda, che fanno da contraltare a talk show a sorpresa, che prendono le mosse 21


Tendenze

Al locale Knit di New York il lavoro a maglia è diventato una nuova forma di yoga

da quello, di gran successo, incentrato sul sesso e su Howard Stern, autore del libro She comes first: The thinking man’s guide to pleasuring a woman. Quanto a presenze previste per il 31 dicembre, basti dire che tante sono le attrici e le indossatrici che hanno sposato la filosofia dello spazio: Cameron Diaz, Julia Roberts e Sarah Jessica Parker, per esempio… III Bifronte Come ben lascia presagire il nome stesso, Il Sorpasso (via Giustiniani 2, Genova. Tel. 010/8686568) è un locale, peraltro di recentissima inaugurazione, che si ispira all’omonimo

film di Dino Risi e, di conseguenza, agli Anni ‘60 in generale. Ma ciò che ne caratterizza davvero l’atmosfera e il party è il fatto che le due sale in cui si suddivide seguono i nomi e l’essenza vitale dei due protagonisti, Bruno e Roberto, magistralmente interpretati da Vittorio Gassman e da Jean-Louis Trintignant. Ovvio, quindi, che tutti voi possiate scegliere la zona e le modalità di festeggiamento in base al vostro essere: in definitiva, vi sentite più esuberanti e guasconi o timidi e introversi? III Panoramico In Italia, fortunatamente, ci sono tanti locali dotati di vista magnifi-

ca e che quindi possono promettere una notte magica, eppure c’è un albergo che non teme confronti. Perché? Presto detto, si affaccia sul carcere più famoso d’Italia, l’Ucciardone… Lo slogan recita testualmente “Prigionieri del relax a Palermo”. Il logo gioca su una grata stilizzata. Il nome, Ucciardhome (Via Enrico Albanese 34/36, Palermo. Tel. 8488/36766; 091/7302738), fa di necessità virtù e ironizza su una vicinanza, che diventa spettacolo essa stessa. Questo sì che vuol dire saperci fare! III Tecnologico Sculture luminose, pareti scherma-

INDIRIZZI Aurora Via Fuorlovado 18/22, Capri. Tel. 081/8370181 Bam Bam Strada Trasimeno Ovest 159/z, Perugia. Tel. 075/5173315 Billabong Via Monte Grappa 70, Costabissara (VI). Tel. 0444/557550 Café Witch Cosme Echevarrieta 4, Bilbao (Spagna). Tel. 0034 424 10 23 Caffé Turrisi Via Pio IX 16, Castelmola (ME). Tel. 0942/28181 Celtic Druid Via Caduti di Cefalonia 5/c, Bologna. Tel. 051 227518 Fortuna Pub Via Spiaggia del Lago 1, Castelgandolfo (Roma). Tel. 06/93020891 Irish Pub 2007 Walnut Street, 22

Philadephia (USA). Tel. (215) 568-5603 L’Uva e le Stelle Loc. Boccetta, Porano di Orvieto (TR). Tel. 0763/374781; 335/8384294 La Lampara Via De Gemmis 1, Trani (BA). Tel. 0883/488385 La Lanterna Loc. Faro, Gorino Ferrarese (FE). Tel. 336/363322 La Maison Vieille Col Checrouit, Courmayeur (AO). Tel. 337/230979; 0165/809399 Nottingham Forest Viale Piave 1, Milano. Tel. 02/798311 Oies Loc. San Leonardo, via Oies 17, Pedraces (BZ). Tel. 0471/839671 Opal 36 Gloucester Road, Londra. Tel. 0044/02075849

Predan Via Caldara 17, Trezzano sul Naviglio (MI). Tel. 02/4451788 Ragno d’Oro Via Trieste 18, Villa Vicentina (UD). Tel. 0431/96058 Re Tarquinio Via Alberata Dante Alighieri 12, Tarquinia (VT). Tel. 0766/842125 Scaringi Viale Monza 32, Milano. Tel. 02/2840445 Son Amar Via C. Ulpiani 5, Spinetoli (AP). Tel. 0736/898021 St. Patrick’s Suur-Karja 8, Tallinn (Estonia). Tel 6418 173 Triestina Piazza della Libertà 1, ang. via Roma, Gaeta (LT). Tel. 0771/460043 Villa Prati Loc. Capocolle, via Nuova 2447, Bertinoro (FC). Tel. 0543/445523


L Terapie ayurvediche per iniziare il nuovo anno

te ed effetti laser di ultima generazione fanno comprendere di primo acchito che il Kabaret’s Prophecy (16-18 Beak Street, Londra. Tel. 020/74392229), discoteca di recente inaugurazione e magnificamente posizionata nel cuore pulsante di Soho, punta molto su giochi di luce e tecnologie a essa connesse. Ma non solo, perché il dance floor in resina, l’atmosfera elitaria e la musica all’avanguardia ne fanno una disco bella e impossibile. Bella come la clientela, anche blasonata, che l’affolla, impossibile come le file, sempre molto lunghe, che ne caratterizzeranno l’ingresso… Meglio prenotare! III Trascendentale La new-age fa proseliti e le aziende agrituristiche si adeguano. Strutture che prima proponevano solo trekking o passeggiate a cavallo adesso vanno dietro all’ultima moda in fatto di scelte di vita. Karma (via Palatina 7, MontagnosoMS. Tel. 0585/821237) ad esempio, punta a far raggiungere l’armonia interiore ai propri clienti offrendo cibi ayurvedici, massaggi shiatsu e un pacchetto di corsi che parte dalla cucina spirituale per toccare la dietetica, la meditazione e le terapie antifumo: natura e filosofia orientale dimostrano ancora una volta di essere fatti l’una per l’altra. Ma le vere chicche di questo agriturismo trendy sono rappresentate dai corsi sul massaggio di coppia e, soprattutto, da quello eloquentemente intitolato “Introduzione

alla reincarnazione”. Mica male l’idea di trascorrere i giorni a cavallo del nuovo anno, garantendosi un futuro a oltranza, non vi pare? III Orientale L’India misteriosa conquista Nino Puglia & co. che trasformano il loro Ma (via Vela 6/8, Catania. Tel. 095/341153) in un tempio magico, dove l’acre odore dell’incenso regna sovrano. Gruppi di finti Hare Krishna convivono con splendidi modelli americani e dolcissime animatrici inglesi ballano coperte da pochi trasparenti veli sulle orientaleggianti musiche di dj fatti arrivare dalla terra di Indira Gandhi. Nonostante un’atmosfera impostata sulla spiritualità, il colpo d’occhio sarà di quelli speciali come pure il ritmo. III Intrigante Struttura e festa dedicate a una mitica pin up degli Anni ‘50, il cui nome è peraltro trascritto come riportato nel libro-icona di Richard Foster, The Real Bettie Page! Detto del look rosso e nero, delle scarpe con tacchi a spillo collocate su boiserie total white, della gigantografia della regina del locale e di un bel menù illustrato, alle coppie per metà frou frou e per metà romantiche consigliamo una visita al piccolo terrazzino affacciato sul mare e sui bastioni cittadini: semplicemente delizioso. Il Bettie Page (Piazza Municipio 6, Molfetta-BA. Tel. 347/5156933) vince e convince. 23


Speciale Bollicine

Lo Champagne declinato al femminile

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di Roberto Bellini apparizione della parola Champagne e la sua simbiosi con la Francia ha una storiografia segnata dal sesso femminile, investendone non solo l’aspetto enologico ma anche quello territoriale e del consumo. L’ex contea carolingia dello Champagne fu definitivamente unita al dominio reale di Francia dalla volontà (forse non del tutto condivisa) di due donne, Giovanna I di Navarra che sposò nel 1284 Filippo il bello e, successivamente, di Giovanna II a cui occorse l’obbligo di cedere al dominio reale le Contee dello Champagne e di Brie, per salvare parte dei possedimenti su cui aveva diritto di reclamo come discendente diretta. In questi secoli non si può ancora parlare di Champagne effervescente, ma queste due donne, pur involontariamente, hanno innescato una diatriba e un dualismo enologico tra due territori enologici per il predominio della vendita del vino alla corte di Francia: Champagne e Borgogna. I vignaioli dello Champagne aspettavano i mercanti di ritorno dalla Borgogna, in viaggio verso le fiandre, e vendevano loro del vino rosso chiaro, aciduleggiante, ma dal prezzo molto concorrenziale. Il commercio andò avanti per qualche secolo, ma la qualità invece di migliorare regrediva, tanto che i medici alla corte di Parigi ne sconsigliavano l’uso; come porre rimedio a tutto cio? Semplice, si cambò stile di vino! Arrivarono così i primi abiti lunghi a interessarsi di vino, applicandovi un empirismo scientifico e una provvidenziale preghiera per innalzare al cielo un’indulgenza per una scostante e nervosa qualità. I primi abiti lunghi dello Champagne non furono indossati da donne, ma da monaci, a cui va l’iniziale merito di aver aperto un passaggio enologico al vino frizzante dello Champagne, senza però avere avuto la possibilità di incrementare la gradevolezza complessiva del vino. Le donne in quel periodo erano destinate ad altri lavori, meno concettuali e più pratici, come la vendemmia, la cernita dei grappoli, la pulizia delle bottiglie, la scelta dei tappi di sughero, la pulizia del vigneto coltivato “en foule” (in massa). Quando lo Champagne concretizzò la propria indole a dover mussare, furono le donne ad appropriarsi di questa novità non del tutto approvata dai conservatori dell’epoca.

L’

Guillaume de Chaulei fu poeta sopraffino, amante di Champagne e di donne, a lui si deve, nel 1700, l’abbinamento Champagne-donna. E che donna, la Duchessa di Bouillon. Da questo momento lo Champagne si fa donna e la contessa di Parabère ne faceva scorrere a fiumi a Versailles, alle feste organizzate per Filippo di Orleans: “beviamo flute su flute, fino a quando il grande calore non ci abbraccerà”, si cantava al Palais-Royal. L’uso dello Champagne riesce ad accomunare la parte regale e raffinata della società a quella villana e grezza. Alla Contessa di Parabére fa contrasto Madame de Tencin che a Château Saint-Claud dirigeva un lupercale con Champagne. Il comune denominatore era comunque l’idea di uno stile di donna e di un sex-appeal la cui griffe era siglata Champagne. Lorette e grisette prima, mondaines e demi-mondaines poi, furono dispensatrici di avventure erotiche condite con coppe di Champagne. Di serate e nottate ne ha vissute e viste molte lo Champagne, dispensando frivolezze e inquietudini nei paradisi artificiali parigini di Montparnasse, di Notre-Dame de Lorette e degli Champs-Élysées. Furono soprattutto le “filles”, come le classificò Alexandre Dumas, a far progredire il consumo delle champagne nella ricca borghesia, nell’aristocrazia e tra gli artisti tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900. Nelle maison-close come Le One-Two-Two oppure a Le Sphinx, in Boulevard E.Quinet, le “filles” riuscivano in certe serate a far consumare ai loro clienti fino a mille bottiglie di champagne, evitando addirittura di salire ai piani superiori. La Bella Epoque consacrò il mariage Champagne e femmine, con una espansione del consumo nelle grandi serate mondane in cui brillavano le gioie della duchessa di Gramont, di Boni de Castellane e della principessa di Broglie. Sempre in questo periodo le cronache raccontano che le “filles” che svolazzavano nelle maison-close vendevano più bottiglie di champagne di tutti i ristoranti parigini messi insieme. Da una parte c’era quindi una componente femminile che metteva in concorrenza la propria bellezza con la grazia e la piacevolezza dello Champagne, sfoggiando appariscenti scollature nei templi della mondanità parigina, dall’altra quelle signore che vivevano il territorio. Il contributo al consumo e l’innalzamento dello Champagne a status-symbol del savoir-vivre è d’indubbio merito femminile, ma a ciò va aggiunta la strategica opera di quelle donne

Poster della Belle Époque 25


Speciale Bollicine che invece di vivere nei salotti dell’aristocrazia e dell’effimero abitavano le campagne della Marne, camminavano le vigne e odoravano le crayéres delle proprie Maison. Una delle prime presenze è del 1740 ad Avenay, dove una diciottenne, Maria Gabriella, dirigeva la sua piccola proprietà, occupandosi delle vigne e della vendita, prestando attenzione al vino con la mousse e a quello senza. La prima donna ad apportare una significativa spinta al miglioramento del vino, in termini di commercio e di produzione, fu Nicole-Barbe Ponsardin, che alla morte del marito, a soli 27 anni, si trovò a dirigere l’azienda. Nicole-Barbe era donna risoluta, dalla forte ed energica personalità, ma soprattutto amava bere lo Champagne, solo quello da lei prodotto, e si imbestialiva per l’assenza di limpidezza. A lei si deve l’invenzione del remuage prima del dégorgement, a lei sembra imputabile la creazione dello Champagne rosè. Al coraggio dei suoi venditori si deve l’implemento delle vendite in Russia. La sua immagine commerciale si è così saldata nella storia del vino che quando gli anglosassoni chiedono il prodotto base della Maison VeuveClicquot-Ponsardin lo chiamano “widow” e noi italiani “vedova”. Altre seguirono il suo esempio. Apolline Godinot in Henriot apportò all’azienda del marito, una volta dipartito, l’antica competenza del canonico Godinot, a cui va il merito di aver 26

parlato di Champagne con un libro del 1718: “Manière de cultiver la vigne et de faire le vin en Champagne”. Claude-Joseph Devaux, nata Ducray, divenne vedova a 39 anni nel 1843 e la Maison A. Devaux è stata diretta per molti anni da donne, fino all’acquisizione del marchio da parte di una cantina dell’Aube. Nel 1840 ecco apparire un’altra grande gentildonna dello Champagne: Jeanne-Alexandrine Mélin, che succedette al marito nella conduzione della Maison Pommery-Greno e procurò un grande salto qualitativo alla lavorazione del vino. Comprese l’importanza di far affinare il vino nelle “crayéres”, modernizzò il trasporto dei panieri delle bottiglie in cantina. Mostrò grande attenzione anche al gusto dello Champagne che inviava in Inghilterra; si deve a lei il decremento del sapore dolce e l’immissione sul mercato del brut (1874) che procurò grandissima fama alla Maison. Mathilde-Emilie Perrier, a cui si deve la Maison Laurent-Perrier, riuscì a comprendere l’importanza di un rapporto più stretto con i vigneron fornitori delle uve per ritirare sempre frutti migliori. Mathilde-Emilie Perrier comprese anche l’importanza di cambiare il gusto dolce dominante nello Champagne, ne diminuì la presenza e creò il «Grand Vin Sans-Sucre». Una delle ultime signore dell’epopea è Madame Bolly: al secolo Elisabeth Law de Lauriston-Boubers. E’ suo il merito di aver mantenuto la tradizione eno-

logica della Maison Bollinger, con uso di legno e allevamento di una parte dei vin de réserve in vetro. Infine anche un’intuizione che inciderà profondamente nella cultura enologica dello Champagne; nel 1952 decise di lasciare a lungo il vino sui lieviti dopo lo presa di spuma, creò l’RD che presentò a Londra nel 1961. Il lancio della cuvée RD “Récemment Dégorgé” sconvolse certi stili enologici e si cominciò con più frequenza a pensare a Champagne più complessi, con un’armonia gusto olfattiva meno graffiante in acidità. Sempre a Madame Bolly si deve la creazione della cuvée “Vielles Vignes Francaises”; era il 1969 quando decise di usare solo uve proveniente da vigne a piede franco e coltivate “en foule” a pinot nero, nelle parcelle Chaudes Terres e Clos St. Jacques ad Aÿ e alla Croix Rouge a Bouzy. La presenza femminile all’interno dei meccanismi Champenoise è proseguita anche negli anni Duemila con eccellenti esempi dirigenziali e di responsabilità, due su tutti: Monique Charpentier alla Maison Mercier, la prima chef de cave e Carol Duval, a capo della Duval-Leroy. Lo Champagne ha trovato il modo di ricompensare le signore che l’hanno aiutato ad affermarsi, sia che abbiano operato alla luce dei riflettori, sia nell’intimità delle Maison, a loro sono state dedicate eccellenti cuvée de prestige che rappresentano un riconoscimento del valore del loro lavoro.


Le Bollicine “in rosa” La Grande Dame della Maison Veuve Clicquot Ponsardin è la chiara testimonianza del valore femminile nello Champagne. Creata nel 1972 per celebrare il bicentenario della fondazione, è composta di norma dal 62% di pinot noir e 38% di chardonnay; è un millesimato di originale eleganza, ampio nei raffinati profumi di cioccolato bianco e nocciola. E’ creato per offrire un gusto cremoso, setoso, burroso e briochè; un’opulenza fruttata con le note minerali dei vigneti di Mesnil e Oger. Nel 1988 uscì La Grande Dame Rosé. In questa cuvée millesimata si fondono tutte le armonie del femminile: ha il colore di morbide guance sfumate di arancio/sangue, ha profumi che possono odorare solo le vellutate pelli delle donne, ha il sapore di un bacio sbocciato improvviso su soffici labbra imburrate di rossetto Lançon. E’ un vino per estive serate romantiche. Elisabeth Salmon fu meno in vista della “vedova”, però fu co-fondatrice della Maison Billecarte-Salmon; a lei è stato dedicato, nel 1988, uno Champagne rosé: Rosé Cuvée Elisabeth. E’ un rosé di straordinaria tempra. 45% pinot noir e 55% chardonnay, abbina alla sua gioventù un’impressionante eleganza fruttata e un florealità intrisa di solarità primaverile. E’ nel gusto che si mette a nudo l’essenza, sapore di fico bianco, sofisticatamente cremoso e speziato, con finale di gusto seducente e sexy. Nell’evolversi la sua fragranza si modella, come il corpo delle donne prende forma e sostanza, diventa sinuoso e crea il famosissimo tastingappeal. Femme de Champagne di Duval-Leroy è un omaggio al mondo femminile moderno, dall’espressività gustativa smussata e addolcita, dal profumo di frutta tostata e dalla fragranza caramellata, dal finale di gusto elegante grazie all’89% di chardonnay presente nella cuvée. Joséphine di Joseph Perrier è una cuvée ispirata alla Belle Époque, non nel gusto ma nell’etichetta; è un omaggio all’intramontabile voglia d’eleganza femminile. Ha profumi ricercati, di pesca, d’albicocca, di mandorla bianca, il suo equilibrio gustativo è costruito per rendere sensuali i sapori di miele, di sciroppo di zucchero e di menta dolce. L’omaggio al femminile della Maison Vranken è sfociato addirittura nella creazione di una linea: Champagne Demoiselle. E’ un prodotto che esalta l’aspetto giovanile della femminilità, con colori brillanti, sfumati profumi di fiori primaverili, un gusto brioso che attira il sorriso. Creata nel 1985, si presenta con una bottiglia dalla forma inusuale e con una etichetta la cui sagoma sembra un taglio di culotte. La Goutte d’Or con il marchio Paul Goerg ha invece reso omaggio alle dame dello Champagne con la Cuvée Lady. La grazia e la leggiadria dello chardonnay (85%) incontrano la potenza, ma anche il fair play, del pinot noir per creare un’assonanza gusto olfattiva di pura classe, come una dark lady. Altre Maison hanno intitolato le loro cuvée alle donne, altre lo faranno, altre donne si interesseranno alla produzione e alla commercializzazione dello Champagne, ciò potrà rendere perpetuo questo vino il cui consumo e la cui degustazione è sempre ottimale in compagnia di una donna.

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Speciale Bollicine

Champagne, cadoles e case a graticcio:

tre“C” dell’Aube le

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di Roberto Bellini Aube deve il suo nome a uno dei principali fiumi to di un’attività che consente ancora di mantenerle in da cui è attraversato il dipartimento: fu creato vita. Ma com’è lo Champagne dell’Aube? Di sicuro è nel 1790 sottraendo del territorio alla Borgogna uno Champagne che non ha avuto un agevole viaggio e allo Champagne. Il paesaggio ha un’ondulazione molto per affermarsi, ha una storia turbolenta, fatta di rivolparticolare, con situazioni collinari di basso profilo. La te e canti inneggianti all’internazionale, specialmente massima altezza è di 366 metri sul livello del mare a quando assegnarono al territorio dell’Aube l’appellatile Bois-du-Mont. Queste colline vanno a confondersi vo di Champagne deuxieme zone (Champagne seconcon l’altopiano di Langres e con la Côte d’Or e marca- da zona), confinando i vignaioli in un limbo enologico no la linea dello spartiacque tra i corsi d’acqua che sci- da cui sembrava non ci fossero vie d’uscita. “E’ lotta volano verso l’Oceano, o in direzione Mediterraneo con- nella Champagne/ su, lottiamo e domani/un confine normale/ ci restituirà i nostri pani”, fu il canto che fluendo nella Saône e nel Rodano. Il territorio dell’Aube vive anche un’altra situazione par- accompagnò i rivoltosi negli anni di lotta per rivenditicolare, d’origina climatica: trovandosi di fatto a metà care il nome Champagne, una battaglia durata dal 10 strada tra il polo nord e l’equatore ha un clima stra- febbraio 1911 al 22 luglio 1927. no. E’ assai lontano dal mare per non avere accenni L’Aube dovette in quegli anni abbandonare tutti i vitigni marittimi, ma è altrettanto vero che le sue colline non invisi dai vigneron della Marne, gamay in testa, e allarlo separano completamente cosicché non ha un vero gare la coltivazione al pinot nero a Bar-sur-Seine e Bare proprio clima continensur -Aube e allo chartale: clima séquanien lo donnay a Montgueux. definiscono gli abitanti, E’ in questo terreno non derivante dal nome latino gessoso, ma argillosodella Senna, Sequana. calcareo, che il pinot Il freddo però non manca, nero sta trovando una mediamente un grado in dimensione enologica meno rispetto alla Valle propria, diversa da della Marne, situata 130 quella della Montagna km più a nord. Ed è per di Reims e ha iniziato ripararsi dal freddo du in questi ultimi anni un rante il lavoro nei vigneti tentativo per uscire che furono costruite le dalle cuvée delle afferCadoles, capanne in piemate Maison della tra a secco, una specie di Marne per ritagliarsi tenda indiana di media un’identità organolettialtezza, a forma di cono, ca attraverso il lavoro con un buco alla sommità dei vigneron del luogo. per far uscire il fumo. Il vino da pinot nero L Aube, Maison à pans de bois dell’Aube manca di Il territorio ne presentava molte prima della fillossera. Il reimpianto dei vigneti quella irruenza acidula e tagliente che troviamo nella che ne seguì ne fece abbandonare molte in quegli appez- Marne. Anziché un’espressione fresca carica di piccozamenti in cui non furono reintrodotte, e oggi sono li frutti selvatici (ribes bianco, uva spina) è più efficadiventate degli oggetti ricercati e sottoposti a salva- ce nella acidità fruttata che ricorda il gusto delle pera, della mela, della pesca bianca; ha minore connotazioguardia. Fresche d’estate, calde d’inverno, le cadoles sono com- ni di sottobosco e un vegetale meno selvatico, si potrebposte da quasi 2 tonnellate di pietre, tolte dalle vigne, be definire un pinot nero più mansueto, più incline a e hanno strette similitudini con la cabotte di Borgogna raggiungere un equilibrio nel medio periodo. e il ciabot del Piemonte. Dalle “microcase” delle vigne Anche lo chardonnay ha diverse affinità con quello della alle “macrocase” dei villaggi il passo e breve, ma l’ar- Côte de Blanc e di Sezanne; è mediamente meno esuchitettura cambia, passando dal primordiale al sofisti- berante nel fruttato e con più effluvio nel tono floreacato, con le case a graticcio, ovvero maisons à pan de le. Infine il pinot meunier. In questo territorio rapprebois. Queste case fanno parte della tradizione dell’Aube, senta poco più dell’8% della coltivazione e non ha un e a Troyes, a Celles s/Ource, a Bar sur Aube e in molti peso significativo nella composizione delle cuvée. altri villaggi ne troviamo degli splendidi esemplari. Le Diversa è anche la costante minerale: la Marne ha un facciate sono cesellate da assi di legno (bois), mentre denominatore di gesso, l’Aube di pietra focaia e di legl’interno è giocato su travi e travicelli a formare l’inte- gero idrocarburo. Lo Champagne dell’Aube è reallaiatura di sostegno; i giochi finali di colore di ogni fac- mente diverso da quello prodotto più a nord. Già l’asciata edificano un corredo architettonicamente vario- senza o la minima presenza del pinot meunier crea una pinto e graziosissimo. Cadoles e maisons à pan de bois situazione gusto-olfattiva molto particolare, in cui il entrano a pieno titolo nella vita e nella storia dello dualismo pinot nero – chardonnay sgretola certe conChampagne dell’Aube, le prime come utile struttura venzioni organolettiche e fonde nuove versioni di proper il lavoro del tempo che fu, le seconde come risulta- fumi, con intrecci saporiferi molto particolari.

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Speciale Bollicine

LA DEGUSTAZIONE: CHAMPAGNE DELL’AUBE BRUNO LEROY, BRUT Pinot nero e Chardonnay Il colore giallo paglierino si ravviva con bollicine finissime. L’impatto fruttato è intenso nei sentori di mela e pera ben mature, fiori gialli e miele siglano il finale odoroso. Il gusto è semplice, pungenza non aggressiva, un po’ troppo afflosciata l’acidità e sufficientemente espressiva la sapidità. Il finale di gusto ricorda il sapore del distillato di prugne.

NATHALIE FALMET, BRUT LE VAL CORNET Pinot nero Uva da un solo vigneto per un colore paglierino rossiccio. Intensamente profumato di fruttato, sorba, mirabelle, frutta esotica e un raffinato boisè. Nel finale il miele dà una dolcezza che lascia un’interpretazione agrumata tanto vicina al cedro. Sapidità e acidità s’equilibrano al palato, la CO² si fonde con le sostanze morbide, il finale ha il sapore della mora bianca di gelso e della pasta di mandorle.

MOUTARD PÉRE ET FILS, CUVÉE DE SIX CEPAGE Arbanne, Petit meslier, Pinot blanc, Chardonnay, Pinot noir, Pinot meunier Sei uve per un colore paglierino. Al profumo la famiglia fruttata offre sensazioni di pera William, di pesca noce e pesca gialla. Decisamente singolare il tono vegetale, paglia secca, sottobosco, champignon e un tocco di tartufo. La trama olfattiva chiude con il dolce profumo del fiore di camomilla. Al gusto l’acidità ha il sapore della susina gialla quasi matura, la sapidità è molto minerale, la persistenza del gusto lascia spazio a un morbido e fragrante retrogusto.

R. DUMONT ET FILS, SOLERA RÉSERVE BRUT Chardonnay Vivace paglierino con riflessi verdolino. Il profumo dei fiori di acacia domina la parte iniziale, poi si raccolgono sentori di frutta a pasta gialla (ananas) e mela; chiude con un soffio di pietra focaia. Ben fresco al gusto, come un morso di mela appena matura; ha buona sapidità e discreta lunghezza di gusto con finale di pesca bianca.

R. DUMONT ET FILS, BRUT TRADITION Pinot nero 85%, Chardonnay 15% Colore paglierino con riflessi sabbia chiara. All’olfatto s’impone un profumo di forno, di farina e di lieviti. Le note di sottobosco ricordano la felce e il fruttato, ha il sapore degli agrumi. Il gusto ha un’impronta di freschezza elegante, con succosa sapidità e un sorprendente equilibrio con le partite morbide.

DAVID LEBOUCHER, BRUT Pinot nero e Chardonnay Limpidezza cristallina, spuma finissima, sabbia chiara il colore. Acute sensazioni olfattive che richiamano i piccoli frutti, gli agrumi e le foglie secche danno un’impronta complessa. Altre espressioni odorose navigano su sentori di tarte tatin e di albicocca. Un solco sapido lascia una rinfrescante sensazione di aspic di frutta e chiude con un dolce ricordo di agrumi canditi.

MOREL PÉRE ET FILS, BRUT Pinot nero e Chardonnay Tre annate compongono la cuvée dal colore paglierino brillante. Fiori e frutta salgono al naso supportate da note tostate di biscotti al miele e caramelle al burro. La freschezza del gusto offre un sapore di susina e di ananas, l’impronta sapida è ben marcata e il finale di gusto ha aromi di granaglie.

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NATHALIE FALMET, BRUT Pinot nero e Chardonnay Vignaiola ed enologa di nuova generazione, crea un colore giallo paglierino caldo, dorato. L’olfatto ha sfumate sensazioni di frutta dolce, di fiori gialli, di popcorn, di amido; il tutto crea un bouquet complesso, rafforzato da uno spunto di calvados. Il gusto è cremoso, l’acidità si fonde con la CO² e lascia spazio a una sapidità addolcita da ricordi di biscotti all’uva.

RICHARD CHEURLIN, CUVÉE JEANNE Pinot nero 100% Vivacissimo colore paglierino limone, la spuma crea raffinati merletti. Le note agrumate danno un’intensa impressione odorosa, abbinate a finissime sfumature di foglie di tabacco dolce, di distillato di prugne e di nespole. E’ cremosamente sapida la sensazione che si crea sulla parte iniziale del palato, segue una fresca vivacità nell’acidità per chiudere con una vellutata morbidezza, che ricorda la gelatina di limone.

MOREL PÈRE ET FILS, CUVÉE GABRIEL Chardonnay 100% Giallo paglierino con nuances giallo limone. L’impatto minerale è imperioso e copre il floreale e il fruttato. Pietra focaia e un leggero spunto di zolfo impattano non del tutto positivamente. Il gusto si scioglie in un’acidità un po’ aggressiva, la persistenza gusto olfattiva lascia una scia di funghi champignon freschi.

PIERRE BRIGANDAT ET FILS, BRUT TRADITION Pinot nero 100% E’ una cuvée di tre annate dal colore paglierino limone. L’intensità minerale, pietra focaia e zolfo non si fonde con le altre sensazioni olfattive e fa soffrire l’agrumato e il fruttato. Il gusto è un po’ barcollante nella qualità acida, lascia un residuo finale di fieno umido.

BREUZON, GRANDE RESERVE Pinot nero 90%, 10% Chardonnay Brillante la limpidezza, giallo limone chiaro il colore. Finissime note agrumate creano un effetto olfattivo rinfrescante e fragrante, ai sentori di mela verde e di fiore d’acacia; silex e pietra focaia rifiniscono il tono minerale. Struttura gusto olfattiva fresco/sapida intensa e prolungata, la persistenza aromatica chiude con un finale al sapore di uva spina.

LS CHEURLIN, BRUT Pinot nero 70%, Chardonnay 30%% Paglierino con bordi verdolino. I sentori vegetali si miscelano con i profumi dei fiori bianchi primaverili, con la buccia di pompelmo e la pesca. Il gusto si delinea con una semplicità fresca e sapida, con un finale fruttato e chiusura al gusto di ribes.

PETIT-CAMUSAT, BLANC DE BLANC Pinot bianco 100% Una vera curiosità enologica. Colore verdolino giallastro di media intensità. La nota olfattiva è molto burrosa, ricorda il roux. Nel fruttato domina la sfumata sensazione di albicocca, di mela e pera. Sensazione molto cremosa al palato, con percezioni a tendenza acido/sapida a comporre un finale di gusto al sapore di fico bianco e di biscotti al burro.

R. DUMONT ET FILS, BRUT 2002 Pinot nero 60%, Chardonnay 40% Paglierino luminoso al colore. Complessa sensazione olfattiva dimensionata nel minerale, nel fruttato e floreale, con chiusura fragrante e traccia di lievito di birra. Ancora la costante del terroir (zolfo e silice) dà una sapidità esuberante al palato, un’acidità carica di un vivace effetto fruttato e un finale lungamente segnato dall’agrumato. 31


Vino e finanza

Aste, lo shopping è solo agli inizi di Lorenzo Simoncelli

LA

CRISI FINANZIARIA SEMBRA AVERE AGEVOLATO LA VENDITA ALL'ASTA DEI VINI. LA QUALITÀ È INVARIATA MA A PREZZI PIÙ BASSI. VANNO SEMPRE FORTE BORDEAUX E BORGOGNA, BENE ANCHE I ROSSI PIEMONTESI E I SUPERTUSCANS. L’OPINIONE DI DAVID ELSWOOD, DIRETTORE INTERNAZIONALE DEL DIPARTIMENTO VINI DI CHRISTIE'S

L David Elswood, direttore internazionale del dipartimento vini di Christie's 32

ome è andata la vendita all'asta del vino durante il credit crunch? I collezionisti si sono messi paura o hanno continuato a investire su quello che ormai si può definire un bene rifugio? E i prezzi hanno subito la stessa flessione della vendita al dettaglio oppure hanno resistito alla recessione? A guardare dai risultati delle principali case d'asta internazionali l'impressione è che gli amanti del vino non si siano messi paura. Anzi sembrano approfittare della congiuntura favorevole. Se, infatti, produttori e distributori piangono, per i collezionisti è il momento di comprare. Secondo le stime di Christie's e Sotheby's le flessioni dei prezzi in sede d'asta si attestano tra il 20 per cento e il 40 per cento. Questo non significa che si acquistano etichette esclusive (Borgogna e Bordeaux) a prezzi stracciati, ma a buon mercato sicuramente. Una cassa di Château Haut-Brion del 1989, che nel 2007 si poteva acquistare per 20 mila dollari, ora è venduta a circa 9.500 dollari. Prezzo ancora elevato rispetto alle quotazioni più realistiche degli anni 2004-2005, quando la stessa cassa si portava via con 5 mila dollari. Identico discorso per un'altra etichetta nobile come il Romanée-Conti annata 1990, che nel 2007 è arrivata a raggiungere quota 22 mila dollari, valore più che triplicato rispetto al 2005 quando con 6.500 dollari la si portava a casa. Ora il suo valore si aggira sugli 8.000 dollari a bottiglia. Come nella finanza, dunque, back to basic: anche nel vino si torna ai fondamentali, ai corretti prezzi di mercato, perché le bolle tanto prima o poi scoppiano, che si tratti di prodotti finanziari o di vino il risultato non cambia.

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L Un'asta della Pandolfini

III LE ECCEZIONI DEL CASO C'è tuttavia da dire che i Paperon de’ Paperoni non mancano neanche in tempi di crisi. Ad Hong Kong, principale piazza internazionale per la vendita all'asta di etichette pregiate dopo la detassazione del vino, succede che un compratore anonimo, nel giorno dopo la dichiarazione ufficiale secondo cui Hong Kong è in recessione, acquisti tre Jeroboams di un rosso La Tache Vintage 1990 per un totale di 118.628 dollari. Durante la stessa asta dell’Acker Merrall & Condit presso l’Island Shangri-La Hotel di Hong Kong, un altro acquirente ha pagato 274.718 dollari per una collezione di 144 bottiglie Domaine de la Romanée-Conti, cioè circa 2.000 dollari a bottiglia. Esempi di come le mine vaganti che alterano il mercato sono sempre presenti, crisi o non crisi. Ma come mai gli indicatori classici del vino sono tutti negativi e invece le vendite all'asta fanno registrare il tutto esaurito in ogni parte del mondo? E perché molti dei collezionisti possono fare qualche rinuncia, ma non riescono a dire di no al vino? DeVinis, in esclusiva, ne ha parlato con David Elswood, direttore internazionale del dipartimento vini di Christie's. “Quello dei vini continua a essere uno dei mercati più vivaci nel mondo perché genera un forte interesse su due fronti”, spiega Elswood. “Innanzitutto ci sono le etichette rare, prodotte in quantità limitate, capaci di attrarre gli appassionati dei vini migliori e introvabili. Poi c'è, naturalmente, il fatto che i grandi vini costituiscono un

bene dal valore concreto e stabile”. Ma quali sono le piazze dove la vendita all'asta sembra sentire meno i morsi della recessione e perché? “Attualmente la piazza più forte e dinamica è senza dubbio Hong Kong”, commenta il direttore internazionale del dipartimento vini di Christie's, “infatti, non solo abbiamo assistito a un interesse sempre crescente da parte dei collezionisti orientali, ma il fatto che, dal 2008, ad Hong Kong il vino sia esente da tasse rende le vendite dedicate alla categoria più vantaggiose. Per questa ragione tutte le principali case d'asta, Christie's in testa, e anche altre minori, vi offrono regolarmente aste di vino. Molti dei nuovi compratori di Christie's a Hong Kong provengono dalla Cina, ma non mancano clienti ormai abituali da Singapore, Taiwan, Corea del Sud e Giappone”. III ANCHE I RICCHI PIANGONO Se le aste dunque sembrano beneficiare della crisi finanziaria, c'è chi però proprio a causa di quest'ultima è costretto a vendere le etichette più prestigiose per fare cassa. Sono in aumento, infatti, le partite provenienti dalle cantine private di persone in crisi che sono costrette a impegnarle per ricevere in cambio contanti, ma che poi non sono più in grado di riscattarle. A Parigi, un’importante agenzia di pegni nazionale, Le Crédit Municipal, ha indetto la prima asta di vini di pregio. Si tratta di nobili disperati, collezionisti di vino, ma anche semplici appassionati, che hanno dovuto a malincuore rinunciare a bottiglie di un certo valore. Nel catalogo dell’asta

LE TOP 10 ETICHETTE VENDUTE ALL'ASTA DEL 10/10/09 DI GELARDINI & ROMANI 1 Ornellaia, Tenuta dell’Ornellaia 2006, 1 bottiglia Salmanazar (9lt), 17 mila euro 2 Ch. La Mission Haut Brion, Pessac Leognan 1975, 1 bottiglia Imperiale, 10.782 euro 3 Ch. Mouton Rothschild, Pauillac 2000, 3 bottiglie, 1.916,80 euro 4 Ch. Cheval Blanc, St. Emilion 1990, 3 bottiglie, 1.797 euro 4 Masseto, Tenuta dell’Ornellaia 2006, 3 bottiglie, 1.797 euro

5 Petrus, Pomerol 1987, 3 bottiglie, 1.677,20 euro 5 Masseto, Tenuta dell’Ornellaia 2001, 3 bottiglie, 1.677,20 euro 6 Ch. La Mission Haut Brion, Pessac Leognan 2000, 3 bottiglie, 1.557,40 euro 7 Ch. Lafite Rothschild, Pauillac1990, 3 bottiglie, 1.497,50 euro 8 Ch. Latour, Pauillac 1990, 3 bottiglie, 1.437,60 euro Le aggiudicazioni riportate sono inclusive di diritti d'asta e iva.

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Vino e finanza L Un'asta di Christie's

si trovano Champagne d’annata, vecchie bottiglie di Chateau Lafite e prestigiosi Armagnac risalenti a fine Ottocento. Secondo il direttore generale del Crédit Municipal è più facile andare in cantina e prelevare qualche buona bottiglia di vino piuttosto che tirare giù i quadri dal soggiorno o togliere la collana dal collo della moglie. III LE ASTE IN ITALIA Visti i numeri, 1.58 miliardi di euro di fatturato per l'esportazione nei primi sei mesi del 2009 e 9 milioni di ettolitri di produzione, e vista la qualità, verrebbe da pensare che le aste dei vini in Italia siano delle vere e proprie bagarre per accaparrarsi il lotto migliore. E invece se si va ad analizzare il panorama delle case d'asta internazionali ci si accorgerà che nessuno dei prestigiosi brand ha deciso di puntare sul nostro Paese. “I migliori vini rossi italiani sono presenti in tutte le nostre principali sale d'asta internazionali, da Hong Kong a New York a Londra”, spiega Elswood, “tuttavia solo una piccola percentuale dei compratori italiani che frequentano le nostre vendite risiede effettivamente in Italia. È per questo che noi di Christie's crediamo sia più importante offrire le nostre aste nei luoghi presso i quali sono più attivi i nostri clienti”. “Malgrado ciò”, conclude Elswood, “tramite le nostre consolidate relazioni con i produttori e con i collezionisti, siamo da sempre molto ben connessi con il mercato italiano dei grandi vini”. Ma allora come possono, collezionisti e non, comprare vini all'asta in Italia? Sono due le realtà leader nel settore: Pandolfini, casa d'asta fiorentina con oltre settant'anni di storia e Wine Auction di Gelardini & Romani, nata nel 2004 a Roma. III NUMERI A CONFRONTO Per avere una corretta visione del giro d'affari che ruota in Italia intorno alla vendita del vino all'asta bisogna partire dal presupposto che i risultati realizzati all'estero non sono un termine di paragone. Ricavati superiori al milione di euro non si sono mai realizzati in Italia, dove invece la soglia media si attesta sui 100 mila euro. Questo notevole disavanzo tra le aste italiane e quelle estere è uno dei principali motivi per cui le grandi case d'asta internazionali sono state sempre scettiche sulle 34

potenzialità del nostro Paese. “Il mercato italiano è carente di capitali e ha una recezione inferiore rispetto all'estero”, commenta Francesco Tanzi, responsabile dipartimento vino della Pandolfini, “anche a seguito della difficoltà di reperire etichette importanti come Romanèe Conti o Leroy. I Supertuscans e i grandi rossi piemontesi, infatti, non riescono a raggiungere cifre elevate come i rossi francesi”. Che sia il momento giusto di comprare ne sono la dimostrazione gli ottimi risultati riscontrati dalle recentissime aste realizzate a Firenze e a Roma nei primi d'ottobre e a cui DeVinis era presente. “Abbiamo avuto un venduto pari al 90% dei lotti presenti in catalogo con un ricavato che ha sfiorato i 160mila euro”, analizza il responsabile del dipartimento vino della casa d'asta fiorentina Pandolfini, “i lotti italiani sono stati praticamente tutti venduti con incremento sui prezzi di stima pari a un 510 per cento”. Tra i lotti degni di nota vanno segnalati una bottiglia da sei litri di Lupicaia Castello del Terriccio 2005 aggiudicata a 1.180 euro, sei bottiglie de I Sodi di San Niccolò Castellare di Castellina 1990 vendute a 2.206 euro e sei bottiglie di Barolo Monfortino Giacomo Conterno 1990 battute a 2.360 euro. Per quanto riguarda la sessione francese, da segnalare che i vini vintage sono stati i più richiesti con incremento anche del 100 per cento sul prezzo di stima. Da evidenziare in particolare le tredici bottiglie selezione Grand Cru Domaine de la Romanée Conti 2006 aggiudicate a 12.980 euro. Esito altrettanto positivo ha avuto l'asta realizzata da Gelardini & Romani Wine Auction a Roma dove è stato aggiudicato il 102 per cento del valore di base d'asta con incrementi medi per lotto del 34 per cento. “La scelta di presentare un catalogo incentrato sui Grand Cru di Bordeaux e d’Italia ha incontrato il favore del mercato (vedi tabella con graduatoria delle top 10 etichette vendute)”, spiega Raimondo Romani, cofondatore Gelardini & Romani Wine Auction, “dal nostro punto di osservazione del mercato la domanda è in crescita e lo è innanzitutto per i Supertuscan, con il Masseto in testa, quindi Le Pergole Torte, Oreno, Messorio, Desiderio, Tiganello, Solaia, Ornellaia, Sassicaia Giramonte, sempre più protagonisti del mercato internazionale dei vini “Collectibles”.


Congresso nazionale 2009

bottiglia

La al centro della convivialità di Emanuele Lavizzari n viaggio alla scoperta di un territorio ricco di storia, tradizioni e sapori. Dal 30 settembre al 4 ottobre un Congresso nazionale, il 43.mo, è stato ospitato per la prima volta in Basilicata. Tra il Vulture e Matera circa trecento congressisti si sono dati appuntamento per vivere insieme intense giornate di lavoro e di approfondimento, di ricerca e di degustazioni. «Per cinque giorni – ha sottolineato Vito D’Angelo, presidente dell’Ais Basilicata – la nostra regione è stata al centro del panorama enologico italiano. La risposta che abbiamo avuto dai soci, dagli appassionati e dai rappresentanti del mondo politico e l’attenzione rivoltaci dai mass media dimostrano che attraverso la cultura del vino e delle tipicità enogastronomiche locali si può svolgere una reale ed efficace azione di marketing territoriale a vantaggio dell’intero comparto turistico». A Vito D’Angelo e alla sua formidabile squadra di sommelier va l’applauso e il ringraziamento di tutta l’associazione per l’ospitalità, l’organizzazione e, aspetto rilevante, per aver saputo presentare in così poco tempo le innumerevoli bellezze della regione e per aver coinvolto i principali produttori del posto. Sono state parecchie infatti le cantine che hanno aperto i cancelli ai sommelier e offerto le eccellenze vitivinicole locali: Eubea, Cantine del Notaio, Paternoster, Terre degli Svevi, Terra dei Re e Feudi di San Gregorio hanno imbandito le tavole con le proprie etichette per banchi d’assaggio e cene a base dei prodotti tipici del territorio. Oltre ai tour nelle aziende vitivinicole, gli ospiti sono stati coinvolti nelle visite delle principali attrazioni culturali e paesaggistiche: dai suggestivi laghi di Monticchio al castello di Pirro del Balzo, dall’abitazione del poeta latino Orazio a Venosa alla casa di Giustino Fortunato a Rionero in Vulture, fino al fascino dei Sassi di Matera e all’austerità del castello di Melfi.

U

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L Apertura in prima pagina per il presidente Medri!


L Il tavolo dei relatori all'assemblea generale presso il Castello di Melfi

Proprio nella roccaforte in cui soggiornò anche Federico II di Svevia si è svolta l’Assemblea nazionale, il cuore pulsante del congresso in cui si tracciano le linee guida per l’anno a venire. «Il mondo del vino sta attraversando un profondo cambiamento – ha sottolineato il presidente nazionale Terenzio Medri – determinato da molteplici fattori». La sovrapproduzione mondiale, il dilagante appiattimento del gusto sui vini internazionali, il calo delle vendite, l’orientamento verso prodotti di basso prezzo e, non da ultimo, la rigida campagna contro l’alcol e le severe sanzioni ai trasgressori sono tutti elementi a discapito del messaggio di cui da sempre l’associazione si fa portatrice: “Il bere poco ma bene”, “il bere consapevole”. «In questo contesto – ha proseguito il presidente Medri – l’Ais riveste un ruolo di grande autorevolezza, esito di un investimento costante e approfondito sulla dimensione culturale. La cultura, ovvero il patrimonio di conoscenze e competenze, tradizioni e innovazioni, passione e creatività, che fanno del mondo del vino italiano, del “vigneto Italia”, una realtà unica e irripetibile, senza eguali al mondo». La figura del sommelier in questo senso può farsi portatore di valori positivi a salvaguardia della qualità dei prodotti italiani e a contrasto di quegli aspetti già elencati che sembrano invece danneggiare il comparto vitivinicolo del nostro Paese.

“La bottiglia di vino al centro della tavola e della convivialità”: è questo lo slogan che il presidente ha utilizzato per riassumere la funzione che i sommelier sono chiamati ad assolvere. Il compito è quello di allargare i confini della propria azione culturale, di rivolgersi al vasto pubblico dei consumatori che, sempre più spesso, si muove senza conoscenze, senza riferimenti e dunque senza certezze. Numerosi sono poi gli elementi indicati dal presidente per tracciare percorsi futuri che presto l’Ais intraprenderà. Innanzitutto la creazione di una grande “banca dati nazionale” per monitorare lo stato di salute dei prodotti nostrani e dei vitigni autoctoni, per studiare tendenze e orientamenti del mercato. Investire poi su comunicazione e cultura, attraverso collaborazioni con istituti, università e riviste specializzate, per giungere anche all’offerta di prodotti didattici multimediali e alla diffusione di sapere on-line. Una sfida importante sarà anche quelle di convocare gli “Stati generali” del mondo del vino, un Forum nazionale di cui l’Ais sarà promotrice e coordinatrice. Fondamentale sarà anche l’attenzione e l’impegno su tre progetti strategici per il futuro dell’intero settore agroalimentare: il Vinitaly Tour, la campagna promozionale Magic Italy del Ministro del turismo Michela Vittoria Brambilla e la tanto attesa Expo 2015 di Milano.

L Una canzone romantica anche per Franco Ricci Una serenata dedicata al presidente Medri e alla sua consorte 37


Congresso nazionale 2009 L Terenzio Medri e Vito D'Angelo alla consegna del diploma di Sommelier onorario a Vito De Filippo, presidente della Regione Basilicata

I progetti dell’Ais avranno naturalmente sempre l’occhio puntato su quel già avviato processo di internazionalizzazione che fa della Worldwide Sommelier Association uno straordinario canale per il rilancio del vino italiano e che porterà il prossimo anno un nostro rappresentante al concorso “Miglior Sommelier del mondo” a Santo Domingo. Tanti quindi i contenuti emersi nell’assemblea che ora andranno portati all’attenzione della società e del

L Luca Martini, Miglior Sommelier d'Italia 2009

mondo politico. E, a proposito di politica, è da segnalare che nel corso del congresso il presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo, è stato insignito dallo stesso presidente Medri del titolo di Sommelier Onorario per il suo impegno in passato come assessore regionale all’Agricoltura e per la sua attuale attività a sostegno del settore agroalimentare lucano. Dopo il soggiorno nel Vulture e l’assemblea di Melfi i congressisti, come previsto, si sono spostati a Matera

IL TROFEO BERLUCCHI VA IN TOSCANA È Luca Martini il Miglior Sommelier d’Italia 2009. Ventinove anni, nato ad Arezzo, ha vinto il Trofeo Guido Berlucchi, aggiudicandosi la competizione svoltasi a Matera nell’auditorium del Conservatorio Duni. Maître sommelier presso l’Osteria da Giovanna di Arezzo, Miglior Sommelier della Toscana 2007, semifinalista nello stesso anno e finalista nel 2008, Martini raggiunge così il gradino più alto della sommellerie italiana. Nel corso della gara ha preceduto Davide Staffa e Andrea Balleri, i due professionisti che insieme a lui hanno dato vita a una finale intensa e appassionante. Da sottolineare il clima di collaborazione e stima tra i partecipanti emerso durante e dopo il concorso, come dimostrato dal gesto sincero e spontaneo di Martini che, subito dopo la premiazione, ha voluto chiamare e ringraziare di fronte al pubblico l’amico, maestro e compagno di studio Cristiano Cini. L’edizione 2009 del concorso ha visto la partecipazione alle semifinali di ben 18 sommelier, mai così numerosi negli ultimi anni. Tutto a dimostrazione degli ottimi risultati che l’Ais sta raccogliendo con i corsi didattici diffusi su tutto il territorio nazionale. «Il livello medio di preparazione dei candidati – ha dichiarato il presidente Terenzio Medri – è stato molto elevato, come dimostrano i punteggi ottenuti nel corso delle semifinali. Il vincitore, come in tutte le competizioni, è uno solo, ma ci tengo a sottolineare la professionalità dei numerosi concorrenti, a dimostrazione che il lavoro dell’Ais di questi ultimi anni sta portando i suoi frutti. La nostra grande soddisfazione è quella di vedere sommelier giovani e preparati che interpretano alla perfezione il ruolo di comunicatori e divulgatori delle eccellenze del grande vigneto italiano». Il prestigioso trofeo è stato consegnato da Paolo Ziliani della Guido Berlucchi & C. in occasione della cena di gala organizzata dall’Ais Basilicata negli splendidi saloni di Palazzo L Da sinistra, Paolo Ziliani della Berlucchi, il presidente nazionale Ais Terenzio Venusio a Matera. Medri, Luca Martini, Davide Staffa e Andrea Balleri 38


L Davide Staffa serve Gabriele Ricci Alunni, presidente Ais Umbria, e Carmen Giuratrabocchetta, responsabile dei servizi Ais Basilicata

L Il passaggio di consegne tra Vito D'Angelo e Gabriele Ricci Alunni, presidente Ais Umbria. Il prossimo congresso, infatti, si svolgerà a Perugia

per assaporare il fascino di una passeggiata notturna tra i celebri e già citati Sassi e per assistere alla finale del Trofeo Guido Berlucchi. Al termine di un’intensa competizione durata più di tre ore, l’aretino Luca Martini si è aggiudicato il titolo di il Miglior Sommelier d’Italia 2009, precedendo i colleghi Davide Staffa e Andrea Balleri in un confronto davvero appassionante. Anche in questa edizione, dopo la positiva esperienza di un anno fa a Catania, le fasi congressuali sono state

raccontate in tempo reale sul blog ufficiale dell’evento curato dall’instancabile Franco Ziliani. Se non l’avete ancora fatto, potete consultarlo all’indirizzo web http://blog.sommelier.it. Un simbolico passaggio di testimone in chiusura dei lavori tra Vito D’Angelo e Gabriele Ricci Alunni, presidente dell’Ais Umbria, ha ufficializzato la sede della prossima assise: sarà Perugia a ospitare il 44.mo Congresso nazionale dal primo al 4 ottobre 2010.

“LA RICERCA DELL’ECCELLENZA” DELLA BONAVENTURA MASCHIO Per il sesto anno consecutivo la Distilleria Bonaventura Maschio di Gaiarine (Tv) in collaborazione con l’Ais si è fatta promotrice di una iniziativa di rilievo allo scopo di incentivare i giovani sommelier ad approfondire le tematiche legate al mondo della distillazione. Come nel campo dei vini, anche in questo particolare settore l’Italia vanta nel mondo una riconosciuta competenza e un indiscusso primato di tipicità, che anche le nuove generazioni sono chiamate a conoscere e apprezzare. E ciò soprattutto in un momento nel quale da più parti si invoca la moderazione nell’uso delle bevande alcoliche che in buona sostanza è un invito, da parte delle aziende più qualificate, a bere poco e a bere bene, privilegiando i prodotti migliori. La Bonaventura Maschio ha messo a disposizione tre borse di studio assegnate ai tre sommelier (Nord, Centro, Sud) risultati primi nei rispettivi master di specializzazione sulle acquaviti dal titolo “La ricerca dell’Eccellenza”. Lezioni pratiche e teoriche tenute da esperti del settore riguardo la conoscenza dei distillati italiani e stranieri, le tecniche di distillazione in uso, le sperimentazioni che vengono attuate all’interno delle aziende, per finire con l’arricchimento delle competenze professionali nel campo delle degustazioni, alle quali i sommelier sono chiamati. Maria Teresa Bertocco di Mestre (Ve), Carlo Pagano di Isernia e Donato Malacarne di San Mauro Forte (Mt) sono stati i tre vincitori e hanno ricevuto le borse di studio da Andrea Maschio venerdì 2 ottobre durante la cena di gala tenutasi presso l’azienL Donato Malacarne, Vito D'Angelo. Terenzio Medri, Andrea Maschio, Maria da vitivinicola “Terra dei Re” di Rionero in Vulture. Teresa Bertocco e Carlo Pagano 39


Congresso nazionale 2009

Quando

l’enogastronomia traina il di Cesare Pillon

Q

turismo

uesta è la cronaca di un evento annunciato ma non avvenuto e che pure si è realizzato lo stesso, giorno per giorno, silenziosamente, senza proclami, per così dire sotto traccia, durante il 43.mo Congresso nazionale dell’Ais. Si tratta del workshop ch’era in programma alle 16,30 di venerdì 2 ottobre, subito dopo l’assemblea nazionale, nella Sala del Trono del Castello di Melfi, sul tema “Agricoltura, turismo e prodotti eno-gastronomici, leve efficaci di promozione e marketing”. La contemporanea presenza in Basilicata del Presidente della Repubblica, che proprio quel pomeriggio era nelle vicinissima Rionero in Vulture, aveva determinato l’assenza giustificata di vari personaggi che avrebbero dovuto animare il dibattito. Ma anche se fossero stati presenti difficilmente avrebbero avuto il tempo per affrontare a fondo il tema: il dibattito congressuale si era infatti protratto ben oltre il previsto. C’è stato quindi solo il tempo perché Giuseppe Dagrosa, funzionario del Dipartimento Agricoltura della Regione, e Gerardo Ferretti, presidente della Comunità montana Alto Basento, porgessero il benvenuto ai congressisti accennando brevemente alle iniziative sperimentate dai loro enti. L’intervento di Ferretti, tuttavia, ha 40

riservato una sorpresa: nessuno si aspettava che esordisse, come ha fatto, esprimendo con spontaneità un inatteso apprezzamento per il modo in cui s’era svolto il congresso. “Venendo qui”, ha detto, “mi aspettavo di ascoltare una relazione sui risultati conseguiti dall’Ais, anche perché immagino che con 43 anni di storia il materiale a cui attingere non manchi. E invece ho trovato tutto il contrario: non un’associazione chiusa in se stessa a celebrare il proprio passato, ma un’associazione aperta al mondo che sa guardare al futuro, anzi addirittura innovativa, capace di lanciare sfide coraggiose e impegnative”. Visto dall’esterno, effettivamente, più che il 43.mo congresso, il dibattito che s’era appena svolto poteva sembrare l’assemblea costituente di una nuova Ais. Un’Ais che si è data come compito la diffusione della cultura del bere non più limitandosi a presidiare l’alta qualità, come ha fatto finora, ma aprendosi “al vasto pubblico dei consumatori che si muove senza conoscenze e dunque senza certezze”, come aveva esortato a fare il presidente Terenzio Medri nella sua relazione. Una relazione, ha sostenuto Ferretti nel suo intervento, da prendere come esempio. “E lo dico”, ha sottolineato, “come amministratore di un organismo pubblico”.


L Vigneti nel Vulture

Per quanto stringati, gli interventi di Dagrosa e Ferretti sono serviti ai congressisti Ais per rendersi conto che puntando su agricoltura, turismo e prodotti eno-gastronomici la Basilicata non fa altro che realizzare la propria vocazione più autentica: intende così esprimere tutto il suo potenziale valorizzando nel contempo le straordinarie risorse storiche, culturali e artistiche di cui dispone. E in questo modo conta di spezzare l’isolamento che ne ha fatto finora una piccola regione lambita dalle autostrade ma priva di aeroporti, dove si passa ma non ci si ferma, difficile da raggiungere dalle altre zone della penisola, come hanno personalmente sperimentato tutti i delegati Ais che provenivano da altri territori. Il workshop doveva essere un momento di riflessione nel corso di un’esperienza molto articolata, perché l’intero congresso era stato organizzato all’insegna delle sue tematiche: gli edifici scelti per ambientare gli eventi, i paesaggi da contemplare durante i trasferimenti

Il presidente Terenzio Medri durante l'assemblea generale

in pullman, i menu messi a punto per i pasti, il contenuto delle visite programmate, tutto era stato studiato non soltanto per illustrare in che modo agricoltura, turismo e prodotti eno-gastronomici possono diventare leve di promozione e marketing per la regione, ma anche per sollecitare il contributo che i sommelier possono dare affinché questo obiettivo venga raggiunto. La Basilicata, come ha ricordato nel suo intervento Giuseppe Dagrosa, per incrementare il turismo dispone sia di ambienti marini sia di ambienti montani. Fino a ieri però sono stati solo i primi (Maratea innanzitutto) a fornire risultati promettenti. Ma nel girovagare tra Rionero e Barile, Venosa e Melfi, i congressisti hanno potuto rendersi conto fin dal primo giorno che l’Aglianico del Vulture, con il suo attuale successo, può rappresentare un’alternativa concreta, perché può svolgere un ruolo decisivo nell’attirare turisti e quindi contribuire allo sviluppo del territorio da cui scaturisce. Che è un territorio di straordinaria suggestione: con le sue 41


Congresso nazionale 2009

L L'Abbazia di San Michele domina i Laghi di Monticchio Peperoncino lucano tra i vicoli dei Sassi di Matera

sette cime disposte a semicerchio intorno a due piccoli laghi craterici, il Massiccio vulcanico del Vulture offre scenari di struggente bellezza, ancora incontaminati, che gli itinerari turistici convenzionali ignorano. Quando si dice che ogni vino esprime i valori del luogo che gli ha dato vita non si fa della retorica. I congressisti hanno potuto verificarlo di persona: nell’Aglianico del Vulture si percepisce il misticismo dell’Abbazia di San Michele, costruita da monaci italo-greci intorno a una grotta scavata nel tufo alle falde del vulcano, che i membri della Giunta esecutiva Ais hanno visitato mercoledì 30 settembre; si avverte la cultura che aleggia a Rionero nelle sale del palazzo di Giustino Fortunato, scrittore, politico, storico, dove s’è riunito il Consiglio nazionale il giorno successivo; si rivive l’appassionante storia del Castello di Melfi, caro a Federico II di Svevia, dove nel 1089 fu bandita la prima Crociata e 920 anni dopo s’è tenuta l’Assemblea generale dell’Ais. Vini di questo tipo, capaci di evocare memorie e suggestioni, offrono straordinarie opportunità per mettere in moto l’economia del territorio di cui sono espressione, entrano in sinergia con il turismo già in atto e stimolano l’arrivo di un nuovo tipo di visitatore, l’enoturista. I lucani se ne sono resi conto e perciò negli ultimi anni hanno quadruplicato la loro offerta di vini di qualità: accanto all’Aglianico del Vulture, che resta ovviamente il loro fiore all’occhiello, hanno ottenuto il riconoscimento per tre nuove Doc, Terre dell’Alta Val d’Agri (merlot, cabernet, aglianico), Matera (aglianico, sangiovese, primitivo per i rossi, greco e malvasia per i bianchi) e Grottino di Roccanova (sangiovese, ciliegiolo, barbera per i rossi, malvasia, moscato, trebbiano per i bianchi). Sono vini tutti da scoprire ma con cui i delegati Ais hanno avuto modo di entrare in contatto sia a tavola sia mediante degustazioni appositamente organizzate. L’impressione che ne hanno riportato è di vini che stanno magari ancora cercando un’identità più nitida ma che vale la pena di far conoscere non soltanto per la loro qualità intrinseca, che ne fa delle novità interessanti, ma anche perché sono contrassegnati da un favo42

revole rapporto qualità/prezzo, caratteristica che nell’attuale periodo di crisi li rende particolarmente appetibili. Se il sommelier è importante per diffondere la conoscenza dei vini, è addirittura indispensabile per suggerire l’abbinamento con i cibi con cui essi entrano in simbiosi. Ecco perché durante gli intensi cinque giorni del congresso, ai delegati Ais sono stati fatti conoscere non soltanto i piatti più importanti della saporita cucina lucana ma anche le più significative specialità agro-alimentari che la Basilicata è in grado di offrire, e con cui l’Aglianico del Vulture e i suoi fratelli hanno ovviamente un rapporto privilegiato. Si tratta di una gamma di prodotti tipici della dieta mediterranea, a cominciare dall’olio extravergine d’oliva, che si produce in tre zone di particolare vocazione: nel Materano, in bassa Val d’Agri e sulle Colline del Vulture. Delicatamente fruttato, quest’ultimo ha il vantaggio di nascere nella stessa zona dell’Aglianico e di godere indirettamente del prestigio che circonda il vino. Di particolare interesse anche i formaggi: il caciocavallo podolico di Viggiano, il pecorino canestrato e il cacioricotta di Moliterno con la variante, per quest’ultimo, del casieddu. Nella regione in cui è nato il più antico insaccato della storia, che proprio per questo si chiama lucanica (o luganega), non possono mancare tra i prodotti tipici i salumi: la soppressata di filetto suino, specialità di Tricarico, e la salsiccia pezzenta, di cui va orgogliosa Rionero in Vulture. Un ruolo insolitamente importante, tra le eccellenze della Basilicata, se lo sono conquistati però anche due prodotti dell’orto: i fagioli di Sarconi e i peperoni di Senise. Particolarmente intriganti questi ultimi, rossi e di piccola dimensione, molto diversi però dai peperoncini calabresi (e abruzzesi) perché sono di sapore piuttosto dolce. Possono essere di tre tipi, appuntiti, a tronco o a uncino, ma hanno in comune un pericarpo sottile e un basso contenuto di acqua, tali da consentire una rapida essiccazione senza che il gambo si distacchi dal frutto. Hanno avuto grande successo tra


i congressisti Ais preparati secondo un uso tipicamente lucano, cioè passati in olio bollente e salati. In questa versione sono chiamati “cruschi”, cioè croccanti, e vengono proposti, freddi, per accompagnare formaggi e verdure fresche, come fave o insalate, ma i sommelier li hanno particolarmente apprezzati perché durante le degustazioni sono serviti a pulire la bocca quando si passava da un tipo di vino a un altro. Il modello di sviluppo che persegue oggi la Basilicata ha l’obiettivo di replicare una, due, cento volte la positiva esperienza di Matera, che a partire dal 1993, quando l’Unesco ha iscritto nella lista dei patrimoni dell’umanità lo storico quartiere dei Sassi, con le sue abitazioni scavate nella roccia, è diventata una città che vive, e vive bene, di turismo. E poiché è proprio a Matera che s’è svolta durante il congresso la finale del Trofeo Berlucchi ed è stato proclamato il miglior sommelier d’Italia 2009, i delegati Ais hanno avuto modo di verificare di persona che si tratta di un turismo colto e consapevole, affascinato in egual misura dalle Chiese rupestri sparse lungo i pendii delle gravine e dal pane di Matera, un’autentica specialità alimentare che si produce con farina di grano duro e viene cotta in forno a legna. Matera ha una straordinaria capacità di attrazione perché offre al turista un “paesaggio culturale”, come l’ha definito l’Unesco, in cui è condensata una storia millenaria iniziata addirittura nel Neolitico: qualcosa di unico al mondo, insomma. Ma qualcosa di unico al mondo lo si può creare anche oggi: basta avere l’idea giusta. E c’è chi l’ha avuta, in Basilicata. L’idea è quella del Volo dell’Angelo e consiste in due semplici cavi d’acciaio, sospesi tra le vette delle Dolomiti Lucane, che collegano in modo insolito due borghi, Castelmezzano e Pietrapertosa. Legato in tutta sicurezza a un’imbracatura agganciata a uno dei cavi, il turista può trasferirsi da un paese all’altro provando l’ebbrezza del volo: partendo da un’altitudine di circa mille metri e arrivando 130 metri più in basso, percorre i 1450 metri che separano un borgo dall’altro a una velocità che lungo il percorso arriva ai 120 chilometri all’ora. Se non soffre di horror vacui sorvolando uno strapiombo di 450 metri, può godere di un panorama indimenticabile provando un’emozione irripetibile. Nel suo intervento ai congressisti Ais, Gerardo Ferretti ha raccontato la sua personale esperienza, confessando di aver affrontato con una certa apprensione il Volo dell’angelo, che essendo presidente della comunità montana non poteva esimersi dallo sperimentare di persona, il giorno in cui l’impianto fu inaugurato. Ma i suoi timori erano infondati: dopo 250 mila lanci non si è mai verificato un solo incidente. Evidentemente, l’angelo del volo sa compiere miracoli. Ne ha fatto un altro ancora più sensazionale, ha raccontato Ferretti: gli abitanti dei due piccoli comuni montani, Castelmezzano e Pietrapertosa, che prima di essere collegati dai cavi si detestavano, anzi non si rivolgevano neppure la parola, oggi vanno d’amore e d’accordo. Se la Basilicata ha trovato perfino gli angeli disposti a darle una mano, perché non dovrebbero dargliela anche i sommelier dell’Ais?


Eventi

La

Grande Mela celebra

le

eccellenze italiane di Alessandra Rotondi New York i brindisi di fine anno si cominciano a fare almeno due mesi prima. Per il secondo anno consecutivo la Big Apple ha ospitato il Wine & Food Festival, una quattro giorni di eventi tipo Vinitaly e Salone del Gusto uniti insieme, dove certamente non sono mancati calici innalzati e cin-cin augurali. L’area che ha ospitato il W&F Festival è quella del Meat Packing District e Chelsea Village che i fans di Manhattan sanno essere i quartieri della vita notturna, delle nuove tendenze, un tempo sede dei mercati generali e ora crocevia di atelier e locali cool. L’organizzatore è stato Food Network, il canale televisivo che trasmette in chiaro 24 ore su 24 programmi di enogastronomia facendo share di ascolto pari a quelli registrati dalle nostre reti pubbliche e private per dirette sportive o fiction. Basti dire che i reality show che vanno per la maggiore sono quelli basati su competizioni tra cuochi come

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L La Regione Veneto alla Grand Central 44


Iron Chef America che la domenica sera tiene incollati tutti, molto più delle varie isole, grandi fratelli o fattori x. Forte di questi successi, Food Network – che ha devoluto tutti gli incassi a Food Bank for NYC e a Share Our Strength, organizzazioni benefiche per la soluzione di situazioni di indigenza e malnutrizione – ha organizzato questo festival pieno di tutto: seminari, dimostrazioni culinarie, incontri con gli chef, wine maker, giornalisti, cene, concerti e balli e infine un Grand Tasting di vini di tutto il mondo, bevande alcoliche in genere e cibo a volontà. Ogni sessione del Tasting, mattutina o pomeridiana, costava 150 dollari a persona; tutti gli altri eventi del festival si pagavano a parte, con biglietti ad analoghe tre cifre. Ma gli appassionati hanno riempito i padiglioni, sottoponendosi a file interminabili per accedere all’evento prenotato. Nel caso del Grand Tasting, la gratifica è arrivata dalla grande abbondanza di aziende presenti, tra cui le firme italiane di Antinori, Zonin, Mionetto, Ruffino, Folonari, più tutte quelle importate e distribuite da Palm Bay International tra cui Planeta, Bertani, Mazzei, Cinzano. C’erano anche i vini “Italian Sound”, come i “Directors” di Francis Ford Coppola (e come avrebbero potuto chiamarsi?) o i “Traviata” sloveni. In ambito cibo, lo stand Barilla con i suoi assaggi di pasta è stato tra i più visitati. Il Grand Tasting ha permesso anche conoscere prodotti appena lanciati sul mercato caratterizzati da packaging stravaganti per attirare l’attenzione dei consumatori, tra cui la “Crystal Head Vodka” dalla bottiglia a forma di teschio; quelli insoliti come il saké frizzante infuso con birra o la bevanda alcolica fatta con un basilico viola africano e le infinite varietà di vodka tra cui quella rosa shocking o azzurro cielo entrambe nate da misteriosi blend oppure i vini ammiccanti come i californiani “Ménage à Trois”, in cui comunque il tre riguarda le contee che forniscono le uve: S. Barbara, Mendocino e Monterrey o i “Sogno” firmati dalla “ingambissima” Savanna, presente anche in etichetta. La festa inaugurale si è svolta al Chelsea Market, il quartiere generale di Food Network: un’antica struttura al chiuso che


Eventi L Giada De Laurentiis e Paula Deen, famose esperte di cucina della tv americana

L Gli chef Alain Ducasse e Pierre Schaedelin

L Il salotto Illy all'aria aperta

L Una prova culinaria di Martha Stewart 46

ospita, oltre alla sede dell’emittente, anche negozi enoalimentari in un percorso di pietra, acciaio e giochi d’acqua, evocando ambientazioni da Blade Runner. Degustazioni di tutto, musica dal vivo e possibilità di cominciare a incontrare le stars del festival, cioè gli intrattenitori degli show enogastronomici che il pubblico venera più di quanto si riesca a immaginare: Guy Fieri, Paula Deen, Rachael Ray, Bobby Flay, Martha Stewart – la regina degli americani – o la nostra Gaia de Laurentiis, nipote di Dino, molto apprezzata perché brava, bella e italiana d’origine, e quindi sinonimo di buona cucina. La loro popolarità deriva dal fatto che propongono in televisione, e poi nei libri, ricette alla portata di tutti e che l’abilità in cucina sia considerata una dote straordinaria concessa a pochi. Nel corso del festival, molti sono stati gli eventi all’aperto come “Un Caffè con…”, organizzato da Illy: un vero salotto allestito nella piazzetta del Meatpacking antistante la Brasserie Pastis, con divanetti e persino un letto, in cui si sono seduti a rotazione chef blasonati come Daniel Boulud, Jean George Vongerichten e Alain Ducasse che, molto alla mano, si sono sottoposti alle domande di media e di appassionati. Con Ducasse – titolare di circa venti ristoranti tra Parigi, Londra, Giappone e New York, quasi tutti Tre Stelle Michelin – si è tirato un sospiro di sollievo: infatti, pur essendo stato il primo a introdurre, due anni fa, nel suo Adour di Manhattan, una carta dei vini computerizzata e proiettata su un bancone bar futuristico in cui ogni vino è spiegato e selezionabile tramite il touch screen (ora imitato da molti) ha dichiarato che il sommelier in sala rimarrà una figura irrinunciabile: cambia il modo di proporre la wine list – su schermo invece che su carta – ma il responsabile di cantina e il comunicatore dei vini in sala sarà sempre un professionista colto ed elegante, dotato soprattutto di qualcosa che è insostituibile rispetto al computer: occhi, naso e palato. Le manifestazioni che hanno fatto il pienone sono state la Gara degli Hamburger e “Meatball Madness” – Pazzi per le Polpette – in cui si


L Albero di Natale italoamericano

sono contraddistinte le creazioni dello chef toscano Cesare Casella, amatissimo dai newyorkesi. Per capirne il successo, vale la pena ricordare che le svizzere e le polpette – nonché la carne in barbecue in genere – stanno agli americani come la pasta e la pizza stanno agli italiani. Infine, presso City Winery – grande winebar di Tribeca dove si fa concretamente il vino, dalla pigiatura all’imbottigliamento – il sold out si è avuto con “Vini e Bob Dylan” a cura del sommelier e ristoratore italiano Joe Bastianich, che si è esibito nell’insolita veste di chitarrista e suggeritore degli abbinamenti ideali per Blowing in the Wind e altre. Ma il Wine & Food Festival è stato solo uno degli eventi conviviali di grande coinvolgimento di papille gustative, dell’inizio inverno newyorkese. Si è svolto infatti in concomitanza delle seguitissime celebrazioni per la commemorazione della scoperta dell’America alle quale ha partecipato massicciamente anche la Regione Veneto organizzando, per oltre dieci giorni, Wine Tasting presso la Stazione Centrale sulla 42ª Street. Grande affluenza di pubblico che ha conosciuto, in una Piazza San Marco ricreata per l’occasione, il patrimonio culturale e imprenditoriale veneto, assaggiando stuzzichini di saor, fegato, polenta veneziana, scaglie di Grana Padano e selezioni di Prosecco, Ripasso della Valpolicella, Pinot Grigio e tanti Spritz, ancora sconosciuti ai palati americani. E, per ricordare che le feste si avvicinano, un enorme albero di Natale decorato con vetri di Murano ha accolto i visitatori all’ingresso della Vanderbilt Hall. O era forse un “Albero della Cuccagna”, visto che a New York tra un Wine & Food Festival e l’altro, si mangia e si beve sempre? Comunque sia: cheers… anzi, salute e auguri a tutti!


Vino e architettura

Quando

cantina

la unisce

esperienza e cultura di Alessia Cipolla ttraversare la bellezza dei nostri paesaggi costituisce già un enorme piacere ma conoscere da vicino un prodotto enogastronomico, vedere chi lo produce e capire come nasce rappresenta un’esperienza importante nella costruzione della relazione personale tra il prodotto e l’appassionato enocultore. La nostra percezione della realtà dipende dai sensi ma restiamo molto più “impressionati” dalle cose che ci emozionano. La visita in azienda rappresenta non solo una gita fuori porta ma anche un’esperienza privata che lega il consumatore al vino. Le cantine non sono più solo un luogo di produzione ma anche l’occa-

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sione per presentare e comunicare al meglio il prodotto e l’impresa che lo produce, un luogo di scambio di culture ed esperienze. Molte aziende hanno inserito all’interno del loro percorso in cantina anche dei piccoli locali di vendita diretta, spazi che necessitano di esperienza e cura progettuale spesso trascurata, in quanto non rappresentano soltanto un luogo di esposizione e distribuzione ma identificano il punto di incontro tra il prodotto, l’azienda e il consumatore. Nuovi luoghi familiari ed emotivamente coinvolgenti, dove accogliere piacevolmente i clienti, spazi relazionali e di svago in grado di


attirare l’attenzione per la forte personalità, organizzati per emozionare e intrattenere, aree dove introdurre un nuovo sistema progettuale di vendita creativa attraverso il marketing sensoriale, che mira a stimolare il pubblico, e il Visual merchandising, “visualizzazione della merce” : assieme alla vista, il canale principale verso il quale indirizzare le informazioni, si può comunicare un prodotto anche coinvolgendo nel progetto l’udito, l’olfatto, il tatto e il gusto. Il Visual merchandising, un modo di pensare a come valorizzare al meglio il prodotto e il punto vendita, è un insieme di metodi che concorrono a dare al prodotto un ruolo nuovo utilizzando i sensi come la vista, dove le immagini non sono quelle che percepisce la retina ma l’elaborazione fatta dal nostro cervello; l’udito con la musica come via di comunicazione ad alto contenuto emotivo; l’olfatto dove la miscelazione di trentuno odori primari può dare origine a migliaia di odori diversi ; il tatto dove il contatto fisico suscita emozioni che perdurano nella mente più delle emozioni date dalle immagini e dalle parole e infine il gusto, in tutte le sue sfaccettature. Oggi il consumatore desidera interagire con tutto ciò che lo circonda e vuole scegliere, sperimentare, creare, capire. Un’immagine, un suono, un profumo, una sensazione tattile, un sapore bastano ad attivare il naturale percorso di analisi e a ogni stimolo sensoriale deriva una serie di conseguenze di acquisto. Gli spazi vendita dovrebbero quindi arricchirsi di funzionalità e diventare delle vere e proprie vetrine, creando una particolare atmosfera identificativa dell’azienda attraverso elementi progettuali fondamentali, quali la razionale gestione degli spazi, il corretto posizionamento delle strutture espositive, l’adeguata suddivisione delle merci per destinazione e stile e un’appropriata scelta dei colori, dell’illuminazione, della temperatura, delle immagini, della musica e della comunicazione. Continua il percorso all’interno delle nuove cantine italiane realizzate tra il 2001 e il 2009 nelle diverse regioni d’Italia scelte secondo la qualità architettonica e funzionale, oltre che al rispetto e alla valorizzazione del paesaggio circostante. Azienda Agricola Petra – Suvereto (LI) Un architetto svizzero di fama internazionale e un grande imprenditore, non nuovo al mondo del vino, legati da lunga amicizia: l’architettto Mario Botta e Mario Moretti, già figura importante dei vini di Franciacorta, oltre che costruttore. La cantina Petra, come pietra in latino, è stata progettata a Suvereto, nel cuore della maremma toscana, in uno dei paesaggi più affascinanti d’Italia, in località San Lorenzo Alto, e si estende per 300 ettari, composti da vigneti, boschi e ulivi. Mario Botta ha dato forma e vita alle idee iniziali del proprietario, insistendo sulla realizzazione di un complesso architettonico equilibrato sia negli


Vino e architettura

La barricaia

aspetti pragmatici e funzionali della cantina con tutte le sue lavorazioni, sia negli elementi costruttivi, inserendo i brevetti del gruppo Moretti-Industria delle Costruzioni, sia in quelli compositivi attraverso le scelte formali di un elemento architettonico forte inserito in un paesaggio pieno di fascino. Il progetto è stato realizzato sul pendio di una zona collinare, con il fronte principale che accoglie il visitatore a valle, l’accesso dei trattori e dell’uva a monte a un livello superiore. Quasi un logo, perfettamente visibile da lontano, un elemento compositivo immediatamente riconoscibile con una identità comunicativa precisa. L’edificio, interrato su tre lati, viene quasi accolto e abbracciato dalla collina. Il complesso fuori terra si presenta con una figura centrale cilindrica, alta 25 metri con un diametro di 42 metri, dove si svolge il processo di vinificazione e sono stati ubicati anche gli uffici e il laboratorio, e due ali laterali, perfettamente simmetriche, all’interno delle quali si trova nell’ala destra uno spazio per mostre temporanee e una sala meeting, oltre alla zona di invecchiamento del secondo anno e, a sinistra, l’area per l’invecchiamento in bottiglia con una capienza di circa 200mila bottiglie, lo spazio per il ciclo dell’etichettatura, il magazzino e lo stoccaggio. Il corpo centrale si presenta come una figura pura, un cilindro in pietra, un anello, sezionato con un piano inclinato decrescente verso l’accesso principale, una scalinata esterna al termine della quale si può avere una visione dall’alto di tutto il territorio. Il corpo cilindrico è un luogo austero, con muri prefabbricati esternamente ricoperti in pietra e con pilastri

Gli interni L La suggestiva galleria lunga 70 metri 50

interni che sorreggono grandi travi lamellari e i setti in calcestruzzo armato della corona circolare sui quali poggiano le travi secondarie in legno lamellare decrescenti verso l’acceso principale. Tra una trave e l’altra filtra la luce naturale zenitale, conferendo a questo spazio una certa solennità. L’uva viene convogliata nel piazzale retrostante il corpo centrale, al piano primo, da dove, attraverso nastri trasportatori, è trasportata verso la sala di diraspatura dalla quale le uve vengono fatte cadere, attraverso dei chiusini, direttamente nella zona di vinificazione al piano terra dentro le vasche in acciaio. Al secondo piano con accesso visivo verso la cantina e il piazzale esterno si trovano anche gli uffici amministrativi e il laboratorio. Al piano terra, nel retro dell’area di vinificazione è collocata la barricaia che contiene fino a 1000 barriques utilizzate per la fase di invecchiamento del primo anno. Il locale è costituito da un’unica volta prefabbricata di 18 metri, appositamente brevettata dal gruppo MorettiIndustria delle Costruzioni. I pavimenti sono lastre in calcestruzzo armato nelle quali, in fase di prefabbricazione, sono stati inseriti elementi di calpestio in cotto. Da questo locale si accede verso la scenografica galleria lunga 70 metri, scavata nella roccia, in cui sono state disposte circa 500 barriques da invecchiamento. Nell’ala destra, l’area invecchiamento di un anno, è stato utilizzato un altro brevetto costruttivo del gruppo Moretti, una copertura a crociera prefabbricata con maglia regolare di 6 per 6 metri. Un progetto dalla forma immediatamente identificativa e riconoscibile, che comunica e si esprime all’interno di un paesaggio meraviglioso dalla forte personalità.


Degustazioni

La coltivazione ad alberello,

Etna al resto d’Italia dall’

di Alessandro Franceschini econdo Giovanna Morganti “forma e sostanza nell’alberello vanno insieme”. Paolo Vodopivec è convinto che attraverso l’allevamento ad alberello ci sia più “continuità vegetativa della pianta” e insieme si attui un mantenimento, quasi romantico, di un patrimonio culturale e storico insieme. Cristina Geminiani ha creduto così tanto nell’alberello da aver convertito, dopo 5 anni di sperimentazione su 40 ettari, l’85 per cento delle viti della sua azienda con questa forma, perché “è un sistema selettivo che non consente errori”. Chianti classico, Carso e pendici dell’Appennino toscoemiliano: tre territori diversi per storia ampelografica, tre testimoni innamorati di un sistema di allevamento che se ci è più familiare pensare di trovare altrove, magari nel comprensorio tra Manduria e Sava, piuttosto che sulle pendici dell’Etna, appare strano ai più immaginare di vederlo invece così ben radicato nella filosofia produttiva di tre aziende come Podere Le Boncie, Vodopevic e Fattoria Zerbina. Eppure era proprio questo l’obiettivo di chi ha organizzato (Tiziana Gallo ed il Comune di Milo) il convegno dal titolo “Passato e futuro della viticoltura ad alberello. Il marketing e l’esperienza dei produttori” all’interno del ricco programma che ha animato la 29.ma edizione di ViniMilo nel piccolo comune ai piedi dell’Etna: unire le storie di produttori diversi, italiani piuttosto che francesi, accomunati non solo dall’esperienza della coltivazione ad alberello nelle proprie vigne, ma anche da un sentire comune, non privo di incognite e rischi. “Perché questa peculiarità sembra non essere percepita? Perché lavoro in Emilia?” si chiede ancora Cristina Geminiani. Difficile rispondere così come pensare che il convegno abbia potuto offrire soluzioni di facile rea-

S

lizzazione, come spesso capita, d’altronde, in questi casi. Per Silvio Cardinali, docente di Marketing all’Università Politecnica delle Marche e Michela Pallonari, esperta in wine Marketing presso l’Università di Macerata, relatori del convegno, il tema della comunicazione è sicuramente uno dei punti di debolezza, non solo di tutta la filiera vitivinicola italiana, ma soprattutto di quelle piccole e medie aziende italiane che rappresentano poi la vera ossatura di tutto il comparto nostrano. Da un’indagine empirica, eseguita attraverso interviste telefoniche e questionari sottoposti a 22 produttori specializzati in parte o integralmente nella coltivazione ad alberello emerge un panorama tanto vitale quanto disgregato al suo interno: “Esiste la volontà di fare alleanze, ma poi al lato pratico non esiste nulla di realmente operativo”. Le stesse Strade del Vino (organismi territoriali nati nel 1999 e regolamentati da una legge nazionale con l’intento di valorizzare i territori italiani a particolare vocazione vinicola), secondo i due docenti, non sembrano venire in aiuto per comunicare efficacemente tratti distintivi e peculiarità di chi ha sposato l’alberello per motivi prettamente tecnici piuttosto che per recuperare e valorizzare antichi retaggi culturali che rischiavano l’estinzione, anche in considerazione del fatto che circa “il 50 per cento di queste non sono operative affatto”. Salvo Foti, enologo di riferimento della viticoltura etnea, non ha dubbi circa il grande lavoro di recupero di questa tradizionale forma di allevamento, specie sulle pendici del vulcano siciliano: “Con l’alberello ricostruisci le terrazze, riscopri antiche maestranze e salvi dall’abbandono un intero paesaggio dimostrando come la meccanizzazione non sia sempre necessaria a tutti i costi”. Nonostante questo, continua l’enologo 51


Degustazioni

Vigneti ad alberello L

siciliano, “questa forma specifica di allevamento della vite non assicura automaticamente la qualità”. Una sottolineatura tanto scontata se vogliamo, quanto necessaria, immersi come siamo in un mondo, quello vitivinicolo, che pensa troppo spesso che siano singoli e distaccati elementi a determinare il successo o meno di una denominazione piuttosto che di uno specifico vino, quanto invece non quel saper fare complessivo che unisce esperienza e storia, territorio e vitigni. Spiazzante, a questo riguardo, la risposta di un rappresentante dell’azienda francese Cave de Pyrenne alla domanda se in Francia ci si interroghi o meno sul tema dell’alberello: “In Francia il tema dell’alberello non è un tema, semplicemente perché non è un‘eccezione come in Italia”. L’Etna, da questo punto di vista, rappresenta un’eccezione a tutto tondo, oramai consapevole non solo della sua forza e delle sue future potenzialità, quanto del ruolo determinante nel recupero dell’alberello per fare qualità: “Oggi 65 aziende imbottigliano vino sull’Etna, contro le 12 di qualche anno fa” afferma Giuseppe Spina, direttore del Parco dell’Etna, “Si è sbagliato, tempo

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fa, quando abbiamo puntato alla meccanizzazione dei vigneti e quindi all’allevamento a spalliera”. Oggi c’è, invece, da queste parti, una sorta di ritorno al passato, a coltivazioni tanto “antiche” quanto con chiara evidenza più conformi al desiderio di salvaguardare un paesaggio unico e un recupero della qualità piuttosto che della quantità. L’alberello etneo tra passato e presente “Esiste un metodo scientifico per prevedere che un’eventuale colata lavica non distruggerà il mio vigneto?”. “Certo, non lo pianti sull’Etna!”. La risposta diretta e tranchant che Salvo Foti diede a un imprenditore non locale che stava comprando vigneti sull’Etna riassume bene quello che è lo spirito di chi si trova nell’incredibile situazione di dover lavorare le vigne su un terreno vulcanico, con alle spalle un gigante in continuo movimento, che a cadenze più o meno regolari fa sentire la propria presenza con sbuffi, ceneri e colate che possono provenire dalle bocche principali poste a più di tremila metri di altezza, così come da feritoie laterali e a bassa altitudine che hanno

la forza di attraversare un paese in due senza che nessuno possa opporre grande resistenza, come successe nel 1981 quando una colata nel versante nord dell’Etna tagliò il comune di Randazzo e si fermò, cambiando improvvisamente direzione, davanti a un vigneto, attualmente in produzione, circondato da montagne di pietra lavica. Sfida e al tempo stesso rispetto: la presenza del vulcano, che segna indelebilmente la vita di moltissimi comuni adagiati tra gli ottocento e i mille metri, non ha mai frenato non solo la coltivazione della vite, quanto quelle di tante altre specie che qui hanno trovato un habitat unico in grado di formare una biodiversità sorprendente per varietà e bontà. Meli, castagni, ciliegi, noccioleti (quest’ultimi ben presenti specie nelle zone dove la vite non trova la miglior dimora) segnano il territorio e si alternano alle viti, circumnavigando il vulcano da sud a nord, passando dal versante orientale. “Nel 1800 l’Etna produceva cento milioni di litri di vino” ci dice sempre Salvo Foti. “I vini poi finivano nei cosiddetti riposti, cioè porti sul mare dai quali poi venivano spediti”. Dove? Un po’ ovunque: erano ricchi di tan-


nino e acido malico e si erano guadagnati col tempo l’appellativo di “vini navigabili”, proprio per la loro propensione a reggere i lunghi spostamenti specie sulle flotte inglesi, che li prediligevano proprio per queste caratteristiche. La coltivazione della vite in questo territorio, con tipici terrazzamenti e vigne ad alberello maritate a pali di castagno, era talmente diffusa che ancora tra le due guerre mondiali sovente si usava la dinamite per rompere la roccia lavica sì da recuperare terreno utile. Un terreno, quello etneo, che ovviamente, sebbene abbia caratteristiche simili, quindi sabbia e lava un po’ ovunque, è lungi dall’essere omogeneo e facilmente classificabile: colate diverse in epoche diverse con affioramenti distinti, anche a pochi metri di distanza, fanno si che ci si trovi nel regno della diversità: “a volte la pietra pomice crea come una granellina di pietra, altre volte sabbia”. Non c’è calcare e l’acqua è subito dilavata “quindi non ci si infanga dopo la pioggia” racconta Foti. Dopo la fine della prima metà dello scorso millennio arriva il decadimento e l’abbandono della vite, come in molte altre parti d’Italia d’altronde. Tuttora, nonostante la vivacità e il dinamismo attuale, è facile imbattersi in vigneti abbandonati. La meccanizzazione portò al decadimento della qualità media, specie in vitigni unici come quelli presenti da queste parti: nerello mascalese e cappuccio per i vini rossi e carricante per i bianchi. “Sull’Etna non c’è mai stato storicamente il nero d’avola, anche se è pur vero che prima della fillossera, che comunque da queste parti non si è mai mossa e propagata agevolmente, esistevano almeno 35 varietà diverse di vite”. Il vitigno nel cuore dei produttori etnei, ma non solo (si pensi alla non lontana denominazione di Faro in provincia di Messina), è indiscutibilmente il nerello mascalese (che trae il nome dal comune di Mascali): speziato e ricco di tannino sa evolvere nel tempo. L’altro nerello, il cappuccio o mentellato (prende il nome dal suo portamento, cioè dalla sua forma a mantello) è sì ricco di frutto al naso, ma povero di tannini e non dà grandi soddisfazioni se vinificato in purezza. Ecco perché il blend tra i due è

L Vigneti ad alberello a 1.300 m di altitudine

da sempre tradizionale qui. Oggi il 50 per cento del vigneto etneo è stato recuperato all’antica coltivazione ad alberello, anche se un tempo non solo qui, ma praticamente in tutta Europa, era di casa questa particolare forma di allevamento, che trova la sua massima espressione, anche estetica, secondo Salvo Foti, nella disposizione a quinconce (dal latino quincunx) che consiste nel disporre cinque piante, quattro delle quali come ai lati di un immaginario quadrato, e una al centro, esattamente come è raffigurato il numero cinque sulla faccia di un dado. “La piantagione di un vigneto ad alberello a quinconce costituisce una sorta di griglia che ci dà un'immediata e al tempo stesso piacevole lettu-

ra del paesaggio” sostiene il nostro, e in effetti, nel caso etneo si riscontra un’ulteriore armonia dovuta al fatto che la simmetria delle quinconce tende ad annullare il dislivello dovuto ai terrazzamenti. Perché l’alberello non è più così diffuso? Sostanzialmente per due motivi, sia di ordine economico sia umano: poiché non meccanizzabile, la gestione risulta più costosa e in più richiede professionalità e specializzazione locale, spesso difficile da recuperare e tramandare. “Il viticoltore deve avere una conoscenza molto approfondita, acquisita di generazione in generazione”. Ecco, quindi, il risvolto se vogliamo culturale, di recupero di antiche maestranze, tema da sempre caro a Salvo Foti.

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Degustazioni

LA DEGUSTAZIONE Il banco d’assaggio organizzato a latere del convegno è stato occasione per testare, fianco a fianco, vini accomunati dal comun denominatore dell’alberello, indipendentemente dalla loro provenienza, non solo etnea. Ne abbiamo scelti 10.

Tenuta di Castellaro - Bianco Pomice Igt Sicilia 2008 Quattropani Lipari (Me) Vitigni: 90% Malvasia di Lipari, 10% altri vitigni autoctoni Situata sull’isola di Lipari, l’azienda prende il nome dal primo insediamento, Castellaro per l’appunto. Fedeli all’alberello, con la consulenza di Salvo Foti allevano malvasia, nero d’avola e corinto. Il Bianco Pomice fermenta in acciaio inox e barriques usate e, come richiama il nome stesso, ha nella spiccata mineralità il suo tratto distintivo, insieme ad eleganti note floreali. Sapido, di gran bella chiusura e lunghezza, convince per aromaticità e complessità.

Vodopivec – Vitovska anfora 2005 Colludrozza Sgonico (Ts) Vitigno: 100% vitovska Il carattere del giovane Paolo Vodopivec trova piena rispondenza in questa vitovska di grande personalità, suadenza e incisività. Note di anice, ananas, bergamotto e buccia di mandarino e un centro bocca ricco, sapido e dal finale di gran razza. Questa versione fermenta lentamente per sei mesi in anfore interrate a contatto con le bucce senza il controllo della temperatura, per poi affinare due anni in botte.

Cooperativa Riviera dei Fiori - Rossese di Dolceacqua Superiore Doc 2007 Maixei Dolceacqua (Im) Vitigno: 100% rossese Maixei, cioè la forma dialettale locale con la quale si indicano i muretti a secco che sostengono i terreni. Lievemente scarico con tonalità tra il rubino e il granato, questo rossese ha nella sobrietà e nella delicata finezza i suoi tratti caratteristici. Spezie, un’accennata vinosità e poi la prorompente mineralità insieme ai frutti di lampone e ciliegia maturi di bella definizione. Grande slancio anche in bocca, chiusura fresca e ritorni floreali. Dodici mesi di affinamento in botte come vuole il disciplinare da uve interamente allevate ad alberello.

Podere Le Boncie – Chianti Classico Docg 2006 Le Trame Castelnuovo Berardenga (Si) Vitigni: sangiovese 90%, 10% foglia tonda, colorino e mammolo Tattile, sapido con un tannino da sangiovese di razza, ruspante ora, ma di gran bella tessitura in grado di sorreggere una materia prima di bella stoffa. Bella la distensione aromatica, con note di ciliegia mature ricche e ben definite. Un vino ancora scalpitante e in fieri, ma già ora godibilissimo.

Fattoria Zerbina – Sangiovese di Romagna Superiore Doc 2005 Torre di Ceparano Marzeno Brisighella (Ra) Vitigni: sangiovese (85-90%), syrah 5-10%, merlot (5-10%), cabernet sauvignon (massimo 5%), ancellotta (massimo 2-3%) E’ il secondo vino di casa Zerbina, ottenuto da alcune partite provenienti dalle selezioni utlizzate per la produzione del Pietramora e del Marzieno. Ottima la definizione del frutto, dolce e maturo con delicate note speziate. Tannino potente, a tratti ancora asciugoso, ma di buona tessitura.

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Morella – Primitivo di Manduria Doc 2006 Old Vines Manduria (Ta) Vitigno: 100% primitivo Potenza e controllo. Da alberelli di 75 anni, Lisa Gilbee, enologa australiana innamorata di Manduria e del suo compagno Gaetano Morella, ne ricava un primitivo di rara eleganza, poderoso quanto equilibrato. Note di carruba, mandorle e mallo di noce, così come tabacco e prugne sotto spirito. Avvolgenza e freschezza per un campione di oltre 15% di alcol, affinato per 12 mesi in barrique.

Gulfi – Nero D’Avola Nerosanlorè Igt Sicilia 2005 Chiaramonte Gulfi (Rg) Vitigno: 100% nero d’Avola Come tutti i cru di Gulfi, anche questo esemplare, proveniente da vigne che sentono maggiormente l’influenza del mare vista la vicinanza, non manca di carattere e grande incisività. Note di acciuga, di salmastro e iodio irrompono olfattivamente in modo deciso, insieme a un quadro di frutti rossi maturi di ciliegia. Potente e minerale in bocca, nasce da viti di più di 40 anni con rese inferiori ai 40 quintali per ettaro dalla vigna San Lorenzo.

Fattorie Romeo del Castello – Etna Rosso Doc Vigo 2007 Randazzo (Ct) Vitigni: nerello mascalese e cappuccio La vista del vigneto lambito e graziato dalla colata lavica del 1981 impressiona e oramai lo contorna quasi a protezione. Il Vigo, da vigne allevate a 700 metri di altitudine, colpisce per complessità e forza espressiva. Note di tabacco e prugna, piacevoli quanto eleganti. Vigoroso nella sua bella trama tannica, chiude sapido con un centro bocca fitto e di bella potenza.

Biondi – Etna Rosso Doc Outis 2007 Trecastagni (Ct) Vitigni: nerello mascalese e cappuccio Da vigne di più di 40 anni allevate sul versante est dell’Etna a circa 600 metri di altitudine, Ciro Biondi ricava questo classico blend di nerello mascalase e cappuccio, fitto e ricco di sfumature: macchia mediterranea, note di cuoio e rabarbaro e una bocca di grande tessitura, terrosa, con un tannino di ottima grana e un finale deciso e fresco.

Ferrandes – Passito di Pantelleria Doc 2005 Contrada Tracino Kamma Pantelleria (Tp) Vitigno: 100% zibibbo Dalle contrade di Mueggen e Acque Dolci, da zibibbo appassito tradizionalmente al sole per 15 giorni e fermentato senza lieviti selezionati, uno straordinario passito di Pantelleria, cha rasenta la perfezione quanto a equilibrio e fresca dolcezza. Al naso è un’esplosione di fichi, datteri e uva passa. Sapido, fresco e con un’avvolgenza zuccherina di grande precisione. Persistenza quasi interminabile.

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Viticoltura

La

passione

per i vini “radicata� nel

cuore

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Paolo Dettori, patron dell'azienda

di Daniele Urso l viaggio comincia dove tutto finisce. In Romangia, da uno dei produttori più controversi dell’isola. Chilometri lungo le strade della Sardegna, in cerca dei suoi vini e dei suoi profumi. Seguendo la costa che guarda verso la Spagna, fatta di sali-scendi e di un paesaggio mutevole, affascinante, talvolta inospitale, dove però nascono grandi bottiglie. Un viaggio che vale la pena fare, prendendosi il tempo di vivere anche da semplici turisti. Ruolo facile da recitare su strade come quella meravigliosa che unisce Bosa e Alghero: una sequenza di rocce rosse a picco sul mare che al tramonto si trasformano in un paesaggio mozzafiato. Lo sguardo segue l’andamento delle colline. Sembrano sovrapporsi, come le onde del mare che si vede in lontananza, a cinque chilometri di distanza. Si scorge un bel tratto di costa, che sale verso i bassi rilievi collinari ricoperti di vigne. Qui si coltivano Vermentino di Sardegna e Moscato di Sorso per i bianchi, Cannonau e Monica per i rossi. Siamo intorno ai trecento metri di altitudine, forse qualcosa di più. Spira il maestrale ma è insolitamente quieto. Giusto un refolo per cacciare via il caldo e godersi un bicchiere fresco di bianco. Sull’etichetta, che ricorda quelle di alcuni rossi di Bolgheri, c’è scritto “Dettori”. Siamo in Romangia, spicchio di Sardegna nordoccidentale, incastrato tra Sassari, Porto Torres e Castelsardo. Al tavolo c’è anche Paolo Dettori, patron dell’omonima azienda. Nei calici il 2004 del suo Vermentino di Sardegna in purezza. Fa 14 gradi, quasi non ci si vede attraverso. È come chi lo ha fatto. Paolo non è un uomo facile e non lo sono nemmeno i suoi vini, che però raggiungono valutazioni d’assoluta eccellenza. Senza troppi convenevoli, Dettori comincia a parlare e mostra la sua azienda. All’appello manca il figlio Alessandro, che divide con il genitore oneri e onori della gestione aziendale. Il padre spiega che si è appena sposato e si sta godendo qualche giorno di relax in santa pace. Prima che la sua terra lo richiami all’ordine. Prima che la vite, che non aspetta, lo riporti in cantina. Il suo pensiero però lo si può leggere a chiare lettere sulla home-

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page del suo sito: «Io non seguo il mercato, produco vini che piacciono a me, vini del mio territorio, vini di Sennori. Sono ciò che sono e non ciò che vuoi che siano». Una “dichiarazione di guerra” così contraria alle mode del vino, da essere quasi… di moda. Di scelte comode però non ce ne sono, a partire da quelle fatte proprio in vigna e in cantina. Paolo Dettori la pensa come il figlio: «Uno si deve distinguere». Nessun compromesso. Alla fine degli anni ‘90, l’uva dei loro terreni finiva al consorzio ma i risultati non erano soddisfacenti. Padre e figlio allora decidono di provarci da soli. «E ora l’azienda produce 60.000 bottiglie l’anno», spiega Paolo, «il quaranta per cento va all’estero, il resto in Italia, da Palermo a Trieste». Un risultato frutto di un sistema che affonda le radici nella tradizione. Sulle colline l’uva si raccoglie rigorosamente a mano. Ovunque la vite è coltivata ad alberello e le rese sono bassissime. Il produttore snocciola qualche dato: «Per il Vermentino (da cui nasce il Dettori Bianco) 35 quintali per ettaro; il Cannonau tra i 20-30 quintali per ettaro; per Tenores e Dettori Rosso e tra i 45 e i 50 per il Tuderi». Poi l’uva finisce sul camioncino frigo e arriva in cantina. Lì si studia al “microscopio” ogni singolo grappolo. «La soddisfazione è non delegare a nessuno, sempre in prima linea, durante la vendemmia e al banco di selezione, dove non passa nemmeno un acino che io o Alessandro non abbiamo approvato di persona» spiega orgoglioso Paolo Dettori. L’uva viene solo diraspata e fatta macerare a temperatura controllata. «Tra i 7 e i 10 giorni per i rossi», continua il patron, «e un paio per i bianchi a temperatura controllata in vasche d’acciaio». Decantazione e maturazione avvengono sempre in vasche d’acciaio per i bianchi. I rossi, invece, la fanno in piccole vasche di cemento. «I vini non vengono né chiarificati, né filtrati, né stabilizzati». Niente legno, né quello grande, né la barrique. L’ultimo e unico enologo che ha provato a imporlo è stato licenziato. In cantina fanno bella mostra delle botti ma in cemento. Sono sessantaquattro e Paolo le ha prese nel Bresciano. Secondo lui sono perfette e servono allo scopo. Che è poi produrre Vermentini da 14 gradi e Cannonau da almeno 16. «Basta avere una buona materia prima, perché se non c’è il vino non

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Viticoltura

Tramonto dal gazebo dell'agriturismo di Dettori

si fa. Anzi, mi devono spiegare quelli che lo fanno, come si può produrre un Cannonau da soli 12 gradi» sbotta il produttore. Anche l’imbottigliamento è artigianale: «È una grande festa. Si lavora tutti insieme, dieci persone in linea, tra parenti e collaboratori, che preparano 4.000 bottiglie al giorno». I vini poi riposano e maturano per anni (in commercio ora c’è il 2004) nei magazzini, prima di essere pronti a finire sugli scaffali delle enoteche. A prezzi importanti. Perché i vini Dettori sono tra i più cari di tutta l’isola. Paolo lo sa e non lo nasconde: «Quando abbiamo iniziato, siamo usciti con una bottiglia diversa rispetto ai costi medi del mercato sardo. Con un prezzo importante, perché la resa dei nostri vitigni è volutamente bassa e va pagata. Se potevano farlo piemontesi e toscani, allora potevamo farlo anche noi. L’idea fu di mio figlio». Quando racconta la scelta di marketing, è già tornato sotto il gazebo di fronte al nuovo agriturismo appena terminato. A pochi metri ci sono le vigne e l’imprenditore indica orgoglioso l’erba alta tra le viti. «Qui non si usa diserbante, guardatela, è alta un metro. Non c’è ancora stato tempo di tagliarla. Siamo una famiglia di pastori e contadini, che usa ancora la zappa». Scelte che possono sembrare d’altri tempi, almeno per molti, ma che, per certi versi, sono anche la chiave del successo di questa picco-

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la azienda. Una medaglia però ha anche il suo rovescio. L’annata dell’anno scorso infatti è stata un disastro. «La peronospora ha mandato in malora l’intero raccolto» spiega Dettori. Il fungo ha attaccato le viti e non c’è stato nulla da fare, «anche perché non usiamo “sistemini”. Diamo solo lo zolfo tre volte l’anno. Di solito, grazie al maestrale che tira sempre non c’è problema. Spazza via l’umidità ed evita che si formino funghi. Tranne l’anno scorso». Si sono salvati 2.200 litri di vino ma il produttore non ne fa un dramma: «Coltivando così, da un anno all’altro ci sono differenze. E queste si presentano anche in bottiglia». Differenze che, malattie della vite a parte, si registrano anche nei vini. Tra Dettori Bianco e Rosso, Tuderi, Tenores e Muscadeddu è difficile trovare un’annata identica all’altra. E anche Chimbata, creato da Alessandro per festeggiare i cinquant’ anni del padre, e Ottomarzo (Pascale in purezza) sembrano avere la stessa caratteristica. Così quando si chiede a Paolo Dettori se non sarebbe più semplice produrre vini più “facili”, la risposta è figlia di una saggezza contadina intrisa di marketing: «Facciamo vini che piacciono a noi. Nel mondo siamo in tanti a bere vino. Secondo me 60mila persone che la pensano come noi ci sono». Anche affidandosi alla sola statistica, difficile dargli torto.


Viaggio tra i vini della Sardegna Con un occhio sempre a Ponente, da sud a nord, dal Sulcis fino alla Gallura, si può disegnare la mappa dei vini di questa regione. Partendo dal Carignano, vitigno introdotto dai Fenici, che sull’Isola di Sant’Antioco è ancora coltivato a piede franco. Grazie infatti ai terreni sabbiosi la filossera non è riuscita ad allungare i suoi minacciosi artigli, visto che il temibile afide in queste condizioni non riesce a completare il proprio ciclo. Un vitigno, il Carignano del Sulcis, che l’enologo Giacomo Tachis, grande amante della Sardegna, indicava come una delle perle più preziose dell’isola. I vigneti ad alberello sono ben visibili lungo le strade della zona e i rossi che vi nascono sono diventati di più di una semplice comparsa nella terra del Cannonau. Salendo lungo la Statale 126, dopo una breve tappa per conoscere il Campidano di Terralba, la seconda tappa del viaggio è Oristano, terra della Vernaccia. Uno dei vini più suggestivi della Sardegna. Nato dall’omonima uva a bacca bianca (forse autoctona), la vinificazione, la maturazione e il lungo affinamento seguono un processo antico. Il prodotto finale può ricordare vagamente lo Sherry spagnolo: bianco secco, leggermente profumato e con evidenti note ossidative, dalla tipica nota pungente. Con gli anni perde i suoi spigoli e fa emergere sentori più dolci, che sfumano nella mandorla. Lasciandosi alle spalle Oristano e seguendo la costa frastagliata e ricca di scogliere, si arriva a Bosa, dove la Malvasia è tornata a far parlare di sé. Vino dolce prodotto in piccole quantità e che migliora con il tempo, cresce sui terreni calcarei e ricchi di potassio nelle valli orientate verso il mare. Dopo una tappa ad Alghero, dove il fascino della rocca sul mare si sposa con la spumeggiante vita notturna, si entra in Romangia e poi nella terra del Vermentino, la Gallura. Il bianco più famoso della Sardegna ormai ha conquistato fortuna e gloria anche al di fuori dei suoi confini. Merito sia dei produttori storici, come Argiolas e Capichera, sia di quelli emergenti come Giovanni Cherchi. Discorso a parte meriterebbe il Cannonau, il vitigno più coltivato e conosciuto della regione e rosso principe dell’isola. I riflessi rubino e i profumi intensi di frutti di bosco (spesso mora e mirtillo), liquirizia, spezie, hanno fatto del vino prodotto da quest’uva di origine, pare, spagnola, uno dei rossi italiani con maggiori potenzialità. Un compagno ideale per la cucina di terra della perla del Mediterraneo. Ma soltanto una delle tante gemme nascoste, che un viaggio in Sardegna può offrire.


Vino e scuola

Un master in sommellerie di Letizia Magnani

“Q

uesto matrimonio s’ha da fare”. L’Associazione italiana sommeliers e Alma, la scuola internazionale di cucina italiana, organizzano insieme e per la prima volta il master di sommelier, quarto livello del corso Ais, indirizzato a tutti i professionisti che hanno voglia di pensare che il proprio futuro sia veramente nel mondo del vino. L’accordo è stato fortemente voluto dal presidente Ais, Terenzio Medri, e dal presidente di Alma, Albino Ganapini, sulla base di un progetto didattico ideato dal sommelier Ais, Luigi Bortolotti, che è già insegnante di Alma e che dirigerà il master. «La sfida», dice il presidente di Alma, Ganapini, « è quella di unire il nostro modello didattico, con i contenuti professionali dell’Ais a un livello superiore. Abbiamo infatti ideato un master, il primo nel suo genere, che vuole essere il quarto livello per l’Ais». In altri termini ci si può iscrivere solo

L Albino Ganapini, Presidente di Alma 60

al termine di un percorso di studio e di conoscenza del mondo del vino che i sommelier professionisti conoscono bene e che garantirà ai venti iscritti di trovare occupazione nei migliori ristoranti internazionali ma anche nelle cantine e non solo. Nelle intenzioni sia di Alma sia dell’Ais, infatti, il master dovrà formare persone che “masticano” di enogastronomia e di turismo, cioè che sappiano sapientemente de streggiarsi sia nella gestione, che nella comunicazione del vino e dei suoi abbinamenti. «Tutti elementi», aggiunge il presidente dell’Ais, Terenzio Medri, «sui quali noi sommelier lavoriamo da tempo. Esiste già una cultura della qualità e del vino. L’Ais vi insiste da tempo e cerchiamo di insegnarlo e di spiegarlo da anni in dibattiti e convegni a livello nazionale e internazionale. Questo incontro con Alma è quindi quanto di meglio si possa auspicare per il mondo dell’enogastronomia in generale». Ed è proprio questa capacità professionale che ha convinto l’amministratore delegato di Alma, Riccardo Carelli, ad aprire le porte della grande scuola di Colorno, a due passi da Parma (e vicinissima a Milano) ai sommelier Ais. «Esiste già», spiega Carelli, «un livello di preparazione costruito nel tempo con i tre livelli Ais ma noi andiamo a completarlo, proponendo un master che sia in grado di dare ai corsisti le chiavi sia della comunicazione sia della gestione. Il vino va conosciuto prima di tutto e poi comunicato, ai clienti di un ristorante, ai visitatori di una cantina, a chiunque voglia conoscere la storia e la cultura di una bottiglia ma anche di un abbinamento».

È questo il “plus” sul quale Ais e Alma si sono accordate e che ha fatto pensare a entrambe che sia questo il momento di investire in figure altamente professionali. La formazione superiore è ormai una risorsa per il nostro Paese in molti settori, ma in quello del turismo e dell’enogastronomia le università forse latitano. Sono nati nel tempo molti master di comunicazione e di gestione, di economia e di marketing del territorio, ma nessuno si è spinto a formare davvero top manager del vino. Il sommelier professio-


nista invece ha la cultura e le conoscenze giuste, in termini di prodotti, cantine, produttori, etichette e abbinamenti per rispondere alla sfida con il futuro. Per il presidente Albino Ganapini infatti «c’è un grande bisogno di alte professionalità nel mondo del vino. Per comunicare occorre conoscere approfonditamente storia, cultura, territorio e prodotti. Venendo ad Alma Angelo Gaia ha detto che è sempre più un bene comunicare l’identità del prodotto enogastronomico. Ecco, questo è il modello formativo che proporremo nel master». L’inizio delle lezioni sarà a febbraio e la durata del master, che avrà un costo indicativo di quattro mila euro più Iva, sarà di un anno. Oltre alle ore di lezione frontale, 500 in tutto, che si svolgeranno il lunedì, sono previsti anche momenti laboratoriali, stage, ore di formazione a distanza e di visita ad aziende, cantine e strade dei vini e dei sapori. L’Ais inoltre garantirà ai corsisti anche uno stage altamente qualificato e qualificante. Internet e la conoscenza della lingua inglese saranno fondamentali per la nuova figura professionale prevista dal master. È nel web e in inglese infatti che si muove il mercato internazionale del vino.

«Ogni anno», spiega Riccardo Carelli, «formiamo ad Alma un migliaio di studenti che vogliono approfondire i temi della cucina e della gastronomia. Non formiamo solo cuochi ma esperti e conoscitori dei prodotti, delle tradizioni culinarie, dell’accoglienza e della ristorazione. Grazie

a questo modello formativo che si è consolidato negli anni e ai contenuti dell’Ais siamo certi di poter colmare un vuoto». Non c’è niente di più bello quando si è tavola di avere qualcuno che sia in grado di raccontarci ciò che c’è dietro quello che mangiamo e beviamo. Si tratta spesso di una storia che racchiude in sé numerose altre storie interessanti e appassionanti. Il professionista che hanno in mente Ais e Alma sarà in grado di comunicare tutto ciò che è racchiuso nella scelta dell’abbinamento fra un piatto e un vino ma anche quello che va oltre l’etichetta e che è dentro la bottiglia. Tecnica, linguaggio, capacità gestionali e sensibilità nell’accoglienza faranno del nuovo professionista una persona realmente ricercata nel mondo della sommellerie internazionale e dell’alta ristorazione. Una cosa viene insegnata ad Alma da sempre, che il buono è anche bello. E queste due qualità faranno da cornice anche ai corsi dell’Ais, da oggi con il master sommelier quarto livello, che unirà il bello e il buono per fare della professionalità un valore esportabile e sul quale puntare davvero. A novembre si svolgerà presso l’Alma il consiglio nazionale dell’Ais, a dimostrazione che la collaborazione fra la scuola internazionale di cucina italiana e l’Associazione italiana sommelier è tutt’altro che formale. Info sul master: 0521-525211 (Alma) e 02-2846237 (Ais). 61


Turismo

Egitto:

turismo per rilanciare il

mito

Il Tempio di Horus, particolare L

di Elisa della Barba hiedete a un bambino attorno agli otto anni quale periodo storico è il più affascinante, domandate a un adulto di menzionare una delle sette meraviglie del mondo. Sollecitate un amico che odia l’inverno a dirvi dove andrà per le vacanze di Natale. Nel 90 per cento dei casi, vi sentirete rispondere in quest’ordine: il periodo egizio, la Piramide di Cheope, Sharm El Sheikh. L’Egitto ha pervaso la nostra memoria, specie quella degli Italiani, perché molto di quello che rende magico il paese del nord-est africano appartiene in fondo anche alla storia e alla bellezza della nostra civiltà ed è rimasto oggi prepotente a ergersi – quasi immortale in tutto il suo splendore – sulla caducità della vita umana ma anche sulle opere architettoniche contemporanee che durano un battito di ciglia in confronto alle migliaia di anni delle pira-

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midi. Secondo nella classifica delle migliori destinazioni turistiche del Medio Oriente, grazie all’organizzazione di conferenze e festival all’interno della Gulf Incentive Business - Travel & Meeting Exhibition in Egitto (2007), non sorprende che l’Egitto sia meta turistica rilevante specialmente per l’Europa e quindi competitor dell’Italia. Pur avendo registrato una forte crescita economica negli ultimi anni, va detto che, nonostante questo sviluppo indubbiamente positivo, il Paese mostra ancora un estremo divario fra ricchi e poveri, che rappresentano la stragrande maggioranza. Questa condizione è dovuta al sovrappopolamento, problema non affrontato adeguatamente dalle autorità governative. L’Egitto dipende moltissimo dagli aiuti stranieri (oggi principalmente forniti dagli Stati Uniti, dopo che i

ricchi Paesi arabi hanno tagliato ogni collaborazione in seguito al trattato di pace dell’Egitto con Israele del 1979) e dagli egiziani che lavorano all’estero, in particolare nei paesi arabi produttori di petrolio. Nota positiva è il turismo che rappresenta attualmente l’11,3 per cento del prodotto interno lordo del paese, il 40 per cento delle esportazioni totali dei beni di consumo e il 19,3 per cento dei ricavi da valuta estera dell’Egitto (7,6 miliardi di dollari nel 2007). Data l’importanza del ruolo di questo settore per l’economia dell’intero Paese, il ministero del Turismo ha ideato un piano per incrementare la qualità del turismo egiziano e fare sì che diventi competitivo a livello globale e attragga più turisti. La scadenza è vicina: entro il 2010 l’obiettivo è riuscire ad attrarre 14 milioni di turisti, raggiungere 140 milioni di pernottamenti, mettere a


L Il tempio di Abu Simbel

disposizione altre 24.000 stanze d’hotel, guadagnare 12 miliardi di dollari di ricavi turistici e fornire 1,2 milioni di posti di lavoro. Naturalmente per raggiungere questi traguardi si dovranno creare rapporti di collaborazione con i principali tour operator del Paese per incrementare le vendite dirette al cliente e migliorare le relazioni pubbliche internazionali attraverso uffici esteri, procurando servizi turistici di eccellente qualità. Un passo avanti si potrebbe fare partendo dalle infrastrutture, sviluppando le aree della costa e le zone desertiche localizzate al di fuori delle grandi città, cercando di appoggiarsi il più possibile, nel processo di pianificazione e realizzazione dei progetti, ai settori privati, che oggi investono in strade, elettricità, acqua, strutture sanitarie e aeroporti ben 3,3 miliardi di lire egiziane. Impossibile menzionare l’economia

senza ricordare l’attuale crisi finanziaria globale, che sicuramente non ha aiutato l’Egitto ma ha spinto il Paese a riforme politiche ed economiche importanti. Questo ha permesso di reagire discretamente bene e in tempi rapidi al momento difficile. L’Egitto rimane comunque un paese con una popolazione di circa 77 milioni di persone, su cui grava un tasso di disoccupazione del 9,1 per cento (2007) rispetto al 7 per cento dell’Italia (2007). È migliorato il tasso di disoccupazione per i non laureati, diminuito notevolmente negli ultimi anni. La maggioranza della popolazione è impiegata nel settore dei servizi, come il turismo, seguito dall’agricoltura e dalla produzione industriale. Un terzo della manodopera è impiegata direttamente nell’allevamento. Il presidente Mubarak si è più volte

espresso sulla necessità di raggiungere un equilibrio fra stipendi e costo della vita – equilibrio cui dovrebbe aspirare anche l’Italia – ma resta il fatto che a oggi il 40 per cento degli egiziani si trova nelle fasce da estremamente povera (3,8 per cento) a quasi povera (21 per cento). Diversificata l’offerta turistica per settore, si potrebbero creare nuovi posti si lavoro. L’Egitto ha dalla sua anche una grande forza: il clima moderato tutto l’anno. Possiamo paragonarlo alla situazione del Sud Italia e delle isole: le possibilità per un turismo a 360 gradi ci sarebbero, sono i mezzi economici che mancano. Inoltre il paese dispone di un patrimonio archeologico e culturale inestimabile e unico: possiede un terzo dei monumenti più importanti conosciuti al mondo. Ecco che allora il ventaglio di alternative sulle quali l’Egitto investe,

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Turismo L Una delle numerose spiagge di Sharm El Sheikh, perfette per le immersioni o lo snorkeling

anche se per ora non abbastanza, è piuttosto ampio: turismo ricreativo, culturale, balneare, religioso, terapeutico, ecologico, da golf, safari, desertico, da yacht e marittimo. C’è però un tipo di turismo su cui l’Egitto ha puntato moltissimo negli ultimi anni, perché sa di rappresentarne l’eccellenza: il diving ovvero le immersioni subacquee. Sharm El Sheikh è uno dei più famosi centri di immersione del mondo ed è stata premiata come

L La bandiera egiziana 64

migliore destinazione per immersione subacquea del globo nel 2007. Per il suo particolare ambiente naturale e marino, infatti, attrae turisti egiziani e internazionali. La rinomata località turistica non offre solo fondali di barriera corallina ma anche temperature molto più calde e prezzi decisamente più abbordabili dell’Italia, ragione per cui molti europei hanno deciso di investire in proprietà sul Mar Rosso o di trascorrere comunque lunghe vacanze invernali nel territorio, a costo davvero contenuto. Chi è giovane e non si può permettere di investire molto tempo e denaro può puntare sulla multi-proprietà, tornata in voga a Sharm El Sheikh, cioè l’usufrutto di uno stesso appartamento organizzato tra diverse famiglie che lo occuperanno a rotazione in periodi differenti. Opzione interessante che non è molto in uso in Italia e che invece il nostro paese dovrebbe considerare maggiormente, visto che uno dei motivi addotti dai turisti nazionali e stranieri che rifuggono il nostro Paese è quello che il pernottamento è molto più caro rispetto ad altri paesi che non hanno il nostro patrimonio artistico ma possiedono forse più senso degli affari. Anche il turismo congressuale ha

riscosso successo negli ultimi anni, contando solo al Cairo 665 eventi, incluse 132 conferenze anche internazionali, 235 mostre e 298 cerimonie; i festival rivestono una parte importante: il Cairo International Song Festival, il rinomato International Film Festival (la città del Cairo è chiamata la Hollywood del Medio Oriente) e il Festival del Turismo e dello Shopping hanno dato un buon ritorno in termini di frequenza. Per l’Egitto siamo dunque a metà strada: non si tratta di reinventare un sistema ma di potenziare settori già esistenti che promettono bene e, se possibile, da questi creare nicchie ancora più specializzate, in modo da accontentare la più vasta domanda possibile. Per ora il turismo egiziano copre il 23 per cento del turismo nel Medio Oriente: 11,1 milioni di turisti hanno raggiunto il paese nel 2007. Nella classifica dei Paesi che visitano l’Egitto al primo posto c’è la Russia, seguita dalla Germania, dall’Inghilterra, dall’Italia e dalla Francia. Sesta la Libia, prima nell’elenco fra i Paesi arabi. Segno che l’Egitto ha qualcosa da insegnare anche ai Paesi limitrofi che riconoscono la grandezza del suo patrimonio storico. E non sbagliano: nel 2008 l’Organizzazione del


L Le spezie sono un souvenir perfetto

Uno dei tipici supermarket egiziani M

Turismo mondiale ha premiato le Piramidi di Giza come migliore attrazione turistica del mondo. Oltre alle piramidi, i siti storici più famosi sono Saqqara, complesso funerario dell’antica capitale egiziana Menfi; Luxor, l’antica Tebe, che è stato spesso chiamato “il più grande museo a cielo aperto”, con il gruppo monumentale di Karnak; il tempio di Abu Simbel, sito archeologico risalente al XIII secolo a.C. Ovviamente da non perdere è la capitale, il Cairo, caotica ma affascinante e con essa il Museo egizio, il più importante del mondo nel settore. E poi il deserto (Siwa, Bahariya, Farafra, Dakhla, Kharga e Fayum le principali oasi d’Egitto), la valle del Nilo, da esplorare magari con una mini-crociera, e le spiagge. Tutto questo senza trascurare la gastronomia. La cucina egiziana è prettamente mediterranea e fa largo uso di verdure, di legumi (ful) e di prodotti locali. Le spezie sono parte integrante delle pietanze come in tutto il Medio Oriente, in particolare il cumino e il coriandolo, che rendono i piatti molto saporiti ma non piccanti, e il sesamo: l’ingrediente principale di una salsa tipica, la tahina. Il pasto inizia dagli antipasti, chiamati mezze, serviti con un pane spe65


Turismo

Tramonto sul Nilo L

ciale (shami) molto simile alla pita greca, che sostituisce l’uso delle posate. Vengono serviti ravioli fritti ripieni di carne o formaggio (sambousek), involtini di pasta sfoglia infarciti di carne o formaggio (fila); polpettine di pasta di fave e spezie fritte (felafel), rape e cetrioli sotto aceto (turaci) e una crema di melanzane al forno mischiata alla thaina e condita con limone, aglio e olio d'oliva (baba ghannouj). Agli antipasti si accompagna l’arak, un liquore d’anice molto rinfrescante. Per quanto riguarda il pesce, quello del Nilo non è commestibile, mentre quello delle zone costiere è ottimo. Si trovano facilmente calamari, scampi, acciughe, sogliole, che vengono cucinati sia fritti sia alla brace. La carne è sicuramente l’alimento più utilizzato nelle cucine dei ristoranti ma per gli abitanti è molto costosa e viene accompagnata da riso e verdure. Le carni più comuni sono quelle di montone e agnello, cucinate alla griglia. L’agnello è usato così spesso perché in passato, quando non era possibile l’utilizzo dei congelatori, la sua carne era l’unica a non fare male anche 66

una volta deteriorata. La carne di maiale è bandita poiché è proibita dalla religione ufficiale dell’Egitto, l’Islamismo. Tra i piatti più saporiti, gli spiedini di agnello macinato (kofta meshweya), fettine sottili di carne speziata con prezzemolo, grigliata su uno spiedo verticale (kebab), fegatini fritti o cotti alla griglia e contornati da verdure (kalauwi). Nei dolci, come nel tè, è smisurato l’uso dello zucchero. Da provare le

L Tè egiziano

sfoglie di finissima pasta fillo con ripieno di pistacchi, condito da sciroppo zuccherino (baklava). Tornando alle bevande, gli alcolici sono proibiti dalla religione. Si beve caffè turco (ahwua) servito già zuccherato e il tè è la bevanda ufficiale. Per quanto riguarda l’enologia, il vino ha fatto parte della cultura egiziana dall’inizio dei tempi: veniva offerto insieme alle vivande ai sacerdoti. I vini prodotti erano soprattutto rossi, come dimostrano le raffigurazioni antiche che mostrano uva dal colore scuro, tipica dei climi temperati. L’Egitto oggi produce circa 20.000 ettolitri di vino all’anno, più o meno la produzione dell’Inghilterra (bassissima in confronto a quella dell’Italia). Ma si trovano vini di alta qualità: per i bianchi, ottimo è lo Shaharazade (12,5 per cento), dall’aroma delicato e fruttato, da provare rosè. Per i rossi, un vino molto giovane ma meritevole è il Giannaclis “Omar el Khayam”. Numerose dunque le facce dell’Egitto da esplorare, senza dimenticare però che di storia, enogastronomia e cultura, anche se forse le facciamo pagare un po’ care, ne ha da vendere anche il nostro Paese!


Oli d’Italia

La

nobiltà dell’olio

di Francesca Cantiani opo il grano e il vino, è l’olio il prodotto più strettamente legato al nostro Paese. Su una media produttiva nazionale di 6,5-7 milioni di quintali, le regioni del Sud

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L Il museo dell'olio

Italia, Puglia, Calabria e Sicilia, hanno un’incidenza sulla produzione italiana di circa il 90 per cento di tutto l’olio di oliva che si produce ogni anno. Il resto con una certa rilevanza se lo dividono la Toscana, la Liguria, l’Umbria e l’Abruzzo. Quasi un terzo degli uliveti italiani risulta dislocato in Puglia, dove intere aree sono punteggiate dalle chiome argentee degli ulivi che, come monumenti naturali, dai fusti millenari, contorti e nodosi, sfidano lo scorrere del tempo. Attorno alla coltura dell’extravergine pugliese sono nate, nei secoli, realtà straordinarie, di cui un segno tangibile sono le masserie, quasi antiche fattorie fortificate, che hanno fatto dell’olio d’oliva la loro stessa ragione di vita. Una di queste si trova ad Andria, nel cuore delle Murge, struggenti colline affacciate sul mare. A pochi passi da Castel del Monte, lungo la via Appia Traiana, nella contrada Torre di Bocca, sorge la masseria Terre di Traiano.

L’imponente struttura si staglia netta nella pianura dei campi di grano, circondata da distese immense di uliveti. Con il suo corpo completamente bianco domina i poderi e il paesaggio dell’Adriatico fino ai contrafforti dell’Appennino. È un vero pezzo di storia, un passato che traspare dal quel suo essere insieme raffinato palazzo nobiliare e casa colonica. L’architettura massiccia conserva qualche lieve tratto moresco che con il tempo si è addolcito, senza farle perdere però il suo fascino struggente e solitario. Il patron dell’azienda è il conte Ascanio Spagnoletti Zeuli, che con la sua terra ha uno stretto legame, consolidatosi negli anni. «L’olio per la Puglia rappresenta da una parte una storia millenaria e dall’altra il 40 per cento dell’extravergine prodotto in Italia», dichiara. Ma per chi è figlio di questa terra arida eppure generosa ha anche un altro significato. «Per me rappresenta un pae-

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Oli d’Italia L Il museo dell'olio

saggio dal quale non mi so più privare, perché pur essendo cresciuto a Roma e avendo vissuto tra questi uliveti da sempre, oggi mi sento a disagio se, dopo una settimana, non vedo il verde davanti agli occhi e non sento il terreno morbido sotto i piedi. Forse è l’età» scherza. «Gli anni portano a riscoprire emozioni che da giovani non si apprezzano. Sono sensazioni che maturano con il tempo». E proprio il tentativo di salvaguardare oggetti e strumenti del lavoro contadino che il tempo ha risparmiato, ha portato il conte a creare un vero e proprio museo dell’olio, con i pezzi di una tradizione rinnovata, legata alla coltura locale per eccellenza. Le vecchie mole nel cortile già segnalano al visitatore che l’olio è di casa e tuttora l’azienda si distingue per la sua produzione. «Girando la Penisola», spiega Spagnoletti Zeuli, «avevo visto musei bellissimi in Ligura, in Umbria, nel Lazio, in Sicilia e in Abruzzo e mi stupivo che la Puglia non coltivasse con la debita attenzione quella che era la storia dell’ulivo e delle tradizioni delle generazioni passate. Forse anche suggestionato dal fatto che mia moglie è storica dell’arte e ha diretto la Galleria Borghese a Roma, ho pensato che il museo fosse uno strumento indispensabile per le future generazioni, per capire la fatica dei padri nel portare innovazioni di volta in volta. Ho scoperto poi, con mia stessa sorpresa, che quello che è partito come un sapiente restauro di archeologia industriale in realtà si è risolto in un’operazione che ha salvato l’ultimo dei frantoi meccanici degli anni Trenta presenti in questo territorio. Era come se avendo trovato in garage una vecchia Balilla invece di rottamarla, avessi deciso di restaurarla e di 68

Ascanio Spagnoletti Zeuli, titolare L dell'azienda, a destra, con il nipote Tommaso Meschini

costruirvi intorno la storia della tradizione della lavorazione e della sua cultura». Il museo è collocato in tre ampie sale, in quelle che alla fine dell’Ottocento erano le scuderie e la rimessa delle carrozze, e ospita circa settecento pezzi, messi insieme dal 2001 dallo stesso proprietario, che ha raccolto ciò che esisteva nella masseria, tirando via la polvere del tempo e aggiungendo gli oggetti che spesso i visitatori facevano arrivare dalle zone limitrofe, affascinati dall’idea che nulla andasse perduto e che il museo potesse testimoniare un passato importante per la storia della regione. «Negli anni Trenta» aggiunge il patron dell’azienda, «la meccanizzazione aveva fatto molti progressi, per cui si è ritenuto opportuno dedicare questi spazi a qualcosa che rappresentasse quel

periodo. L’occasione di una nave in disarmo nel porto di Bari ha offerto il motore, costruito a Darmstadt in Germania nel 1920, che è stato trasportato qui e ha consentito, attraverso il suo funzionamento, di muovere tutti gli ingranaggi: le pompe, le pesanti macine di granito, le presse e la dinamo, quest’ultima utile a generare, per la prima volta in un frantoio, energia elettrica per l’illuminazione». Il museo non è un semplice “contenitore” di oggetti ma esso stesso è testimonianza del passato. Si possono osservare le presse utilizzate per la prima spremitura. Il funzionamento avveniva mediante carrelli su cui erano impilati i fiscoli carichi di pasta di olive macinata, che spinti su rotaie e attraverso un sistema di ingranaggi inseriti nel pavimento bianco di


L Alcune anfore conservate nel museo dell'olio

tufo calcareo, tipico della zona, venivano sistemati sotto le presse. L’olio misto all’acqua di vegetazione si raccoglieva poi in canalette che lo convogliavano all’apposita vasca di raccolta e decantazione. L’olio si separava per semplice affioramento. «Quel sistema di lavorazione dell’olio è un esempio della prima fase dell’industrializzazione dell’agricoltura pugliese» spiega il creatore del museo. «La mia sensazione è stata che il frantoio meccanizzato con la vecchia macchina doveva essere restaurato e salvaguardato. Aveva lavorato fino al 1980, poi era rimasto fermo per vent’anni, a quel punto la macchina era già storica e andava salvaguardata. La scelta è stata saggia. Oggi non esiste più nessuno di questi frantoi, perché sono stati tutti smantellati; alcu-

ni dopo la caduta del Muro di Berlino sono finiti oltre cortina, venduti ad albanesi o ad altre popolazioni oltre Adriatico. Da noi ormai erano macchine obsolete, lì invece sono state usate per diversi anni». Ma lo spazio espositivo, oltre a mostrare la lavorazione dell’olio in tutte le sue fasi, con le enormi macine, le presse e i macchinari, traccia una vera e propria storia del territorio. L’occhio si perde tra le centinaia di lucerne, lampade, contenitori, ferri, oliere di vari tipi, oggetti di uso comune, misure per l’olio. E ancora ceramiche, ampolle, giare, immagini, saponi, unguenti e profumi all’olio di oliva, che provengono anche da paesi lontani. In gran parte sono oggetti del secolo scorso ma numerosi sono i frammenti di anfore romane ed etrusche. «Sono con-

Il museo dell'olio L

servate antiche lucerne e vasi unguentali recuperati nelle tombe di Ruvo e anfore olearie romane che si trovavano lungo le coste dell’Adriatico. Una collezione che si è arricchita con donazioni ad hoc. Dalla nostra passione di collezionisti il risultato è stato questo museo». Tutto ciò permette un fantastico viaggio nel tempo dove un filo d’olio rappresenta il filo di Arianna che conduce tra miti greci, usi e tradizioni pagane e cristiane. Ma c’è sempre un oggetto al quale si è più legati. «Sì» confessa Spagnoletti Zeuli. «Mi ha colpito molto un quadretto di una Madonna con il Bambino che regge in mano un rametto di ulivo. È dell’Ottocento e non è altro che la riproduzione della Madonna dell’Oliveira, venerata nella chiesa di Santa Maria del Mar a Barcellona, nel centro storico. Mi sono reso conto di quanto fossero vicine queste due culture: quella pugliese (la Puglia è stata vicereame della Spagna) e quella spagnola, con la città di Barcellona. Inoltre da qualche anno uno dei miei figli lavora proprio a Barcellona e forse non avrei scoperto questo legame se non fosse stato per il motivo affettivo». Ma in fondo l’amore per la terra è una grande passione o anche un pizzico di business? «Credo che per fare diventare business l’agricoltura oggi ci voglia coraggio perché è un periodo in cui si preferisce vendere le aziende. Ricordo mio padre che diceva: “Badate bene che la terra non ha mai dato calci”. Oggi capisco che è così, che bisogna amarla e attraversare i momenti di alti e bassi, come in qualsiasi altro ciclo economico, ma che tutto sommato questi momenti non sono mai né troppo alti né troppo bassi. Esattamente come la terra». 69


Oli d’Italia

Contro il logorio della vita moderna,

l’olio di qualità di Luigi Caricato

Q

uando si dice spiazzare la gente. A me capita spesso di mettere in difficoltà le persone nel momento in cui esprimo un pensiero in pubblico. Amo stupire, mettendo in crisi coloro che vanno avanti per la propria strada convinti di avere la verità dalla propria parte, fatta di certezze inespugnabili. E così accade che al minimo tentennamento, alcuni di questi signori dalla verità preconfezionata su misura, si irrigidiscano in maniera perfino comica, entrando subito in crisi, e dimostrando di non avere risposte razionali e credibili per sostenere le proprie tesi. Vi spiego subito cosa intendo dire con ciò. Di questi tempi in cui va molto di moda la pubblica denuncia, alcuni signori entrano volentieri a far parte di quella neo categoria di persone che io definisco “talebane”, che tendono ad accusare volentieri quelle aziende che per meriti guadagnati direttamente sul campo, e cioè sui mercati, diventano via via sempre più grandi, crescono e si affermano diventando realtà produttive importanti, quanto però incomprese. Incomprese, visto che per alcuni detrattori tali aziende di successo sarebbero colpevoli di essere proprio per questo “disoneste”, solo perché acquistano l’olio da terzi e lo rivendono, diventando “industriali” (che brutto e infelice termine). Ma è evidente che diventando grandi, queste aziende non sono più aziende produttrici in senso stretto, poiché si trasformano in realtà commerciali. Andranno dunque a cercare olio in giro, da poter imbottigliare, e talvolta si renderà necessario ricorrere anche a oli esteri, pur di soddisfare l’offerta. Dov’è dunque il problema? È che vi sono soggetti che pur di avere visibilità pubblica, si trasformano in moralizzatori e in detrattori di queste grandi aziende, tendendo così ad attribuire loro tutte le anomalie del comparto olio di oliva. E così si addossa ai grandi marchi, tutto ciò che di torbido esiste all’interno del comparto, fino ad attribuire loro un profilo di prodotto di scarsa qualità, se non rivolgere addirittura l’accusa di immettere in commercio dei finti extra vergini. Non è così. Per mia natura faccio il possibile per smontare punto per punto alcune di queste stupide e inutili dicerie che si ascoltano in giro. Purtroppo, ciò che non si comprende è il motivo per cui per tutti gli alimenti le grandi aziende non spaventano, per l’olio invece sì. È strano, o no? Si va a comperare la pasta, il riso, il tonno, i sott’oli e quant’altro serva per nutrirci, senza stare tanto a sottilizzare se l’azienda sia di tipo indutriale o meno ma 70

sull’olio è guerra aperta. È un conflitto che dura da decenni, che non riguarda certo i consumatori ma un gruppo ristretto di soggetti dediti per vocazione a comportarsi da talebani, sostenendo che piccolo sia bello e sano e che ciò che è grande sia cattivo e corrotto. Non è così, non cadete nelle trappole di chi getta fango sul comparto. C’è spazio per tutti, per il piccolo, per il medio e per il grande. È un falso problema quello sollevato da chi denigra le grandi aziende. La questione delle frodi e delle sofisticazioni dei prodotti agroalimentari può riguardare chiunque. Per nostra fortuna esistono organismi di controllo efficienti e capaci, che svolgono un lavoro egregio e non facile. C’è da essere sicuri, l’importante è non scegliere solo in funzione del prezzo. La qualità ha più volti e i prezzi di conseguenza oscillano in base al prodotto verso cui ci si orienta: c’è quello di alta gamma, quello di qualità media e quello che si attesta invece su livelli minimi che rientrano però nei parametri previsti dal legislatore. Anche quest’ultimi oli hanno una loro dignità: sono gli oli destinati al consumo di massa e non possono essere vituperati. Ciò che si deve pretendere da un olio extra vergine di oliva è che sia genuino, verace, non frutto di cialtronerie. È su questi termini che ci si deve confrontare, non su meschinerie che sfociano in accuse assurde e meschine. In ragione del mio ruolo super partes, difendo perciò a spada tratta tutti gli attori della filiera, dai piccoli ai giganti, senza distinzioni né preferenze. Ai piccoli dedico spazi significativi. Grande è la sfida condotta, ad esempio, da un uomo spettacolare che risponde al nome di Josephus Mayr. A Bolzano – proprio così: in Alto Adige! – il vignaiolo Mayr produce da qualche anno a questa parte un ottimo extra vergine, seppure con la paura di perdere tutto da un momento all’altro per qualche possibile gelata. Noi gli auguriamo grande fortuna, visto che aiuta sempre gli audaci. Non per questo si devono denigrare gli oli delle grandi aziende di marca. Occorre onestà intellettuale e riconoscere la pluralità di espressione. Ciò che conta è che sulle tavole vi siano oli puri e genuini. Non lasciatevi ingannare da chi getta fango sul comparto, separando i vari protagonisti. Ritorneremo sull’argomento, per fare maggiore chiarezza. Per intanto, sull’onda di uno spot televisivo, vi invito ad apprendere l’arte di distinguere e apprezzare le differenti qualità dell’olio: contro il logorìo della vita moderna, affidatevi a extra vergini dalla qualità certa.


GLI ASSAGGI “Unterganzner” è un blend ottenuto dalla molitura di oltre venti varietà differenti di olive, tra cui Cima di Melfi, Leccino e Pendolino. Nel bicchiere. Giallo, è limpido alla vista. Al naso ha note fruttate di media intensità, che si aprono pulite e fresche, con netti sentori erbacei. In bocca ha buona fluidità e morbidezza, gusto vegetale di carciofo e richiami di frutta bianca e mandorla, nelle sensazioni retrolfattive. Nel complesso è armonico, con una sensazione di dolce al palato. In chiusura punta di piccante e rimandi al limone. L’abbinamento. Tagliatelle di zucca, insalata di chioggia con mela verde e finocchi, trote al cartoccio con cavolfiore alle noci.

ALTO ADIGE

ERBHOF UNTERGANZNER MAYR

Erbhof Unterganzner di Josephus Mayr: 39053 Bolzano, frazione Cardano, via Campiglio 15, tel. 0471. 365582, mayr.unterganzner@dnet.it GUERRIERI RIZZARDI

Nel bicchiere. È giallo oro dalle lievi sfumature verdoline, limpido alla vista. Al naso ha profumi che rimandano alla frutta bianca e note erbacee marcate e persistenti. Al palato è morbido e rotondo, equilibrato nelle sensazioni amare e piccanti. In chiusura una lieve punta di piccante e chiari rimandi alla mela e alla mandorla. L’abbinamento. Spaghetti al pesto di olive, frittata di cipolle, involtini di fesa di tacchino con cremolata di verdure.

VENETO

“Guerrieri Rizzardi”, Dop Garda Orientale, da olive Casaliva, Leccino e Pendolino.

Azienda agricola Guerrieri Rizzardi, 37011 Bardolino (Verona), via Verdi 4, tel. 045.7210028, mail@guerrieri-rizzardi.com, www.guerrieri-rizzardi.com FRANTOIO GALANTINO

Nel bicchiere. Giallo oro e limpido alla vista, al naso ha profumi fruttati di media intensità, con rimandi netti all’erba di campo. Al gusto è armonico e morbido, pulito, con note amare e piccanti in ottimo equilibrio. Sapido e dal gusto vegetale, ha buona fluidità e potere condente. In chiusura una punta piccante e una nota di mandorla.

PUGLIA

“L’Affiorato” è ottenuto dalla molitura di olive Ogliarola, Coratina e altre.

L’abbinamento. Orecchiette al pomodoro, purea di fave e cicorie, orzotto con fiori di zucca e mozzarella. Frantoio Galantino, 70052 Bisceglie (Bari), via Vecchia Corato 2, tel. 080.3921320, oliogalantino@oliodioliva.net, www.galantino.it

“Rocca de’ Rossi” è un blend da olive prodotte in Sicilia (Nocellara e Biancolilla) e in Abruzzo (Dritta). Nel bicchiere. Giallo dai riflessi verdolini, è limpido all’aspetto. Al naso ha profumi fruttati intensi con chiari sentori vegetali e netti rimandi al pomodoro. Al palato è morbido e tendenzialmente dolce al primo impatto, ha gusto mandorlato e note amare e piccanti ben dosate. In chiusura il ritorno dei toni vegetali, unitamente a una lieve e persistente punta di piccante. L’abbinamento. Couscous alle carote con maggiorana e olive, insalata di farro con asparagi e zucchine, tagliata alla rucola. Coppini Arte Olearia-L’Albero d’Argento, 43017 San Secondo Parmense (Parma), strada Al Grugno 3-4, tel. 0521.8776, info@lalberodargento.it

SICILIA E ABRUZZO

L’ALBERO D’ARGENTO

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Birra di qualità

Natale, tempo di birre…

speciali di Maurizio Maestrelli

PRODUZIONI PARTICOLARI PER UN PERIODO

DELL’ANNO SPECIALE.

UNA

TRADIZIONE,

QUELLA DELLE BIRRE

DI NATALE, TIPICA DEI

PAESI NORD-EUROPEI, CHE HA PERÒ INCONTRATO

L’INTERESSE ANCHE

DEI NOSTRI BIRRAI.

ECCO

ALLORA

QUALCHE ETICHETTA

DA NON PERDERE…

L Divina, versione natalizia 72

Q

uando inizia il Natale? È una domanda che mi faccio tutti gli anni assistendo al posizionamento sugli scaffali di panettoni, pandori, torroni e panforti già alla metà di ottobre. La legge dei supermercati è, a mio avviso, ansiogena. Sei appena rientrato dalle vacanze estive ed ecco le castagne autunnali, con il moderno corredo di zucche per Halloween. Non fai nemmeno in tempo ad accendere il fuoco, per le castagne ovviamente, che arriva il simpatico vecchietto con relativa barba bianca e sacco sulle spalle. E il giorno dopo l’Epifania è già Carnevale. Mastichi rapidamente un paio di frittelle e già pensi alla colomba e all’uovo di Pasqua. Alla fine fai solo in tempo ad acquistare una piscina gonfiabile, prima di andare in ferie e ricominciare questo sincopato ottovolante del consumismo di inizio del Terzo Millennio. Forse è necessario rallentare un po’. E proprio il Natale mi sembra il periodo ideale. I parenti, il calore della casa, il freddo fuori, un paio di giorni almeno di riposo assoluto con l’unico assillo di fare tombola. Il momento perfetto per assaggiare con la dovuta calma produzioni un po’ speciali quali sono le cosiddette “birre di Natale”. La calma è quello che ci vuole perché, pur non essendo qualificabili come un vero e proprio stile, le birre di Natale hanno molto spesso un’alta gradazione alcolica. La tradizione vuole che siano caratteristiche dei paesi del Nord Europa, sicuramente hanno avuto e hanno tuttora molto successo in Belgio e da lì si sono poi “allargate” alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti e, finalmente, anche all’Italia. Alta gradazione alcolica, spesso anche alta fermentazione, non raro utilizzo di spezie per una netta intensità di profumi e aromi, un gusto tendenzialmente dominato dalla dolcezza, un corpo notevole con la vena alcolica che “riscalda”: questo potrebbe essere, a grandi linee, il ritratto di una birra di Natale. Perché in realtà, prima di andare avanti, si deve fare una premessa sull’argomento. Ovvero le birre di Natale non sono quelle birre che riportano sull’etichetta il Babbo del Polo Nord, renne volanti, agrifoglio e spruzzate luccicanti di neve, piuttosto quelle che in primo luogo sono stagionali ossia si fanno in un determinato periodo dell’anno e corrispondono suppergiù all’identikit che avete letto qualche riga sopra. Una precisazione doverosa perché altrimenti si rischia di far passare per “ricetta speciale” quello che invece è abile soluzione di marketing. Perché, in effetti, le birre di Natale piacciono anche dalle nostre parti. Piacciono tanto agli stessi birrai artigiani che si sono messi di buzzo buono a inventarne alcune di molto pregevoli. Ci sono tuttavia certamente delle birre commerciali che ci sentiamo di consigliare: la notevole Samichlaus Bier, ad esempio, svizzera di nascita e austriaca di adozione da ben 14% vol. prodotta nel giorno dedicato a San Nicola, il 6 dicembre, e capace di stagionare in cantina per anni. Oppure la Bush de Noël, 12% vol. di colore ambrato e splendido equilibrio. E ancora la Affligem Nöel, con la quale si scende un po’ di gradazione (9% vol.), o la Gordon Christmas, 8.8% vol. Per quanto poi non siano propriamen-


te considerate delle birre di Natale, l’idea di poterle sorseggiare seduti comodi sul divano o mettendo a rischio i propri molari su del torrone tradizionale, ci fa pensare e suggerire un barley wine, tradotto “vino d’orzo”, come la Thomas Hardy’s Ale, 12% vol. “ideali prima di coricarsi” come suggeriva lo stesso Michael Jackson. Oppure, sempre di barley wine si tratta, la Anchor Old Foghorn, californiana di grande carattere. Infine, magari anche solo per stupire i parenti, cercate la canadese Quelque Chose, birra da 8% vol. e speziata alla ciliegia che la tradizione vuole servita calda se non addirittura bollente come un buon vin brulé. Citiamo etichette facilmente reperibili nel nostro Paese, nei tanti beershop aperti nella Penisola perlomeno ma che non esauriscono certamente le possibilità di sperimentare birre “natalizie”. Mancano infatti le birre artigianali italiane che abbiamo menzionato e che rappresentano uno dei tanti sintomi della creatività di questi piccoli ma effervescenti produttori. In Piemonte, ad esempio, i fratelli Borio, Enrico e Alessandro, con il loro Beba (www.birrabeba.it) producono la Birra di Natale e la Re Magi; sempre in Piemonte il birrificio omonimo (www.birrificiopiemonte.com) realizza per le feste invernali comandate la Natalina, aromatizzata con miele di castagno, il Le Baladin (vedi scheda di degustazione) la Noel, il Birrificio Torino (www.birrificiotorino.com) fa la sua Birra di Natale aromatizzandola con cannella e altre spezie e il Troll di Vernante, in provincia di Cuneo (www.birratroll.it), risponde con la Stella di Natale, scura ad alta fermentazione di 10.5% vol. In Lombardia il Bi-Du di Rodero, Como (www.bi-du.it), produce in stagione uno straordinario barley wine chiamato Xtrem, il Doppio Malto (www.doppiomalto.it) sempre nel comasco fa la sua Little Bells con scorze d’arancia e miele, il Lambrate (vedi scheda di degustazione) la Brighella, la Manerba Brewery (www.maner-

babrewery.it) la Bon Noel, una belgian strong ale scura. E, ancora, il Birrificio Menaresta (www.birrificiomenaresta.com) di Carate Brianza (Milano) propone la Figueira, una triple rifermentata con fichi secchi, l’Orso Verde di Busto Arsizio (www.birraorsoverde.com) una Birra di Natale da 8% vol. Infine altre birre natalizie sono riconducibili al ligure Maltus Faber (www.maltusfaber.com), al bolognese Beltaine (www.beltaine.com), ai parmigiani Panil (www.panilbeer.com) e Birrificio del Ducato (www.birrificiodelducato.it), al grossetano Birra Amiata (www.birraamiata.it) e al senese Birrificio L’Olmaia (www.birrificioolmaia.com), fino ai laziali Birra del Borgo (www.birradelborgo.it), Birrificio Turbacci (www.birraturbacci.it) e Birrificio Ostiense Artigianale (www.boabirra.it), all’abruzzese Almond ‘22 (www.birraalmond.com), al siciliano La Terra e il Sole (www.laterraeilsole.it) e al sardo Barley (www.barley.it). Insomma, un elenco quasi interminabile e sicuramente non completo ma anche un compendio molto intrigante per spingersi nell’avventura dell’assaggio delle specialità birrarie natalizie o invernali volendo un po’ allargare la definizione. L’importante, come sempre, è trovare la qualità e incontrare il proprio gusto. Ma, soprattutto, concedersi e concedere alla birra scelta il tempo necessario per poterne apprezzare il profilo aromatico o, magari, l’azzeccata combinazione con qualche dolce: certe birre natalizie si sposano bene anche con il panettone tradizionale a base di uvetta e canditi o con qualche formaggio stagionato. Il tutto con la dovuta calma che si ottiene, o si dovrebbe ottenere, nei giorni clou delle feste. Poi, una volta conquistati come speriamo, la vostra migliore birra di Natale vi sarà di conforto per altri giorni ancora, aiutandovi magari a superare leggeri gli acquisti per l’Epifania e quelli per la Pasqua. In merito alla piscina gonfiabile però, non possiamo davvero assicurare nulla.

SCHEDE DI DEGUSTAZIONE Brighella

Nöel Baladin

Produttore: Birrificio Lambrate - Milano (www.birrificiolambrate.com)

Produttore: Birrificio Le Baladin (www.baladin.it)

Birra natalizia del noto brewpub milanese, disponibile anche in bottiglia. Si presenta di bel colore dorato, con riflessi aranciati e una bella schiuma compatta. Intensa e fruttata, con evidenti note di miele al naso, ha una bella struttura supportata dagli 8.2% vol. e un finale assai lungo, ancora dominato da dolci note fruttate. Si può sperimentare abbinandola a un tagliere di formaggi stagionati o con delle penne al gorgonzola dolce e noci.

La birra di Natale firmata da Teo Musso ha avuto un tale successo da trasformarsi in produzione annuale e perciò sempre reperibile sul mercato. Malto d’orzo, da filiera moralmente controllata, luppolo, lievito e zucchero di canna grezzo, da commercio Equo e solidale, per una birra di alta fermentazione e di 9% vol. davvero sontuosa e godibile, speziata e caratterizzata da note di tostatura e di caffè. Ottima come dopocena, si sposa bene con brasati e cacciagione. Da provare anche la Nöel Café, aromatizzata proprio con una miscela di caffè.

Mönchshof Weihnachtsbier Produttore: Kulmbacher Brauerei Distributore: Kulmbacher Italia (www.kulmbacher.de) Disponibile sul mercato solo da ottobre a dicembre, la Weihnachtsbier è uno dei gioiellini di questa birreria bavarese nota per una costante produzione di qualità e per l’attaccamento alle tradizioni brassicole della zona. Poco alcolica, 5.6% vol., per essere una birra di Natale la Weihnachtsbier compensa con il suo aroma finemente luppolato e un corpo piacevole ed equilibrato. Una scura che si beve bene anche come aperitivo precenone o, in versione informale, con una bistecca alla valdostana. 73


Distillati

Grappa,

il distillato legato al

territorio

di Angelo Matteucci origine della grappa, come per molti altri distillati, è sconosciuta anche se c’è ragione di credere che nacque tra la povera gente probabilmente nel Medioevo quando il vino era bevanda dei nobili e dei proprietari terrieri mentre ai braccianti e ai contadini rimaneva lo scarto del mosto per ricavarne un vinello e per essere distillato, producendo così uno spirito atto a compensare la propria dieta limitata e povera. La principale produzione avviene tuttora nel Settentrione e spazia dal Piemonte al Friuli. La Sardegna, con “Filu ‘e Ferru”, è nota da tempo per il suo distillato di vinaccia. Negli ultimi decenni, comunque, la distillazione di grappa si è estesa ad altre regioni del territorio italiano. Per potersi definire grappa, termine destinato esclusivamente all’Italia (e al Canton Ticino) il distillato deve essere prodotto da vinacce provenienti da uve coltivate in Italia e distillate nel nostro paese in alambicchi discontinui per la produzione artigianale o continui prevalentemente utilizzati dall’industria, seguendo regole dettate dal regolamento ministeriale. È per gli italiani il simbolo del distillato legato al territorio, al nostro retaggio, al freddo, alla nebbia, al tabarro. Prodotta come specificato quasi esclusivamente nell’Italia settentrionale, raggiunse una notorietà tra i soldati durante il Primo conflitto mondiale con la concentrazione nel Triveneto di giovani italiani. Sono

L’

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Le distillerie artigianali Nonino a L Ronchi di Percoto (UD)

proprio i soldati che, al loro ritorno a casa, furono i primi “ambasciatori” del nostro distillato nelle varie provincie. Occorre attendere, comunque, la fine del Secondo conflitto mondiale per trovare una distribuzione nazionale della grappa con fasi alterne di grande sviluppo e di recessione. In auge durante il boom economico italiano, subì una notevole flessione negli anni Ottanta. In quel periodo vi erano molte grappe in commercio di qualità non idonea al buon nome del nostro distillato. Oggi, per fortuna, la produzione è notevolmente migliorata grazie all’impegno iniziale di un numero ristretto di grandi maestri distillatori che, con la loro tenacia lungimiranza, adottarono alcune regole fondamentali, utilizzando esclusivamente vinaccia fresca, non ammuffita (è impossibile nascondere l’odore e il gusto di muffa che giunge fino al prodotto finito). In passato la raccolta delle vinacce avveniva alla rinfusa senza distinzione tra uva bianca e rossa con tempi di consegna alla distilleria particolarmente lunghi rispetto alla pressatura delle uve bianche e alla vinificazione delle uve rosse. Alla distilleria le vinacce venivano inserite in grandi vasche di cemento attendendo anche qualche mese prima di essere distillate. Malgrado l’abilità dei distillatori e l’elevata tecnologia degli alambicchi, il risultato non era sempre soddisfacente. Occorre ricordare che a partire dagli anni Cinquanta cominciarono i viaggi per un sempre più ampio strato della popolazione che


Cristina Nonino in una fase della distillazione

venne a contatto con altre culture. Si venne a conoscenza, in quel periodo, che in altri Paesi certe distillazioni avvenivano con tecniche più attente allo scopo di raggiungere il miglior risultato. Ci si accorse, ad esempio, che nell’area della produzione dello Champagne, le vinacce venivano lavorate praticamente poche ore dopo aver effettuato la soffice spremitura per la vinificazione in bianco. Il prodotto distillato in questa regione è conosciuto come “Marc de Champagne”. Alcuni distillatori italiani decisero di rivolgersi ai vicini viticoltori per avere disponibili le vinacce di uva bianca appena terminata la spremitura soffice e la vinificazione in bianco. Ciò significa che le vinacce a quel punto freschissime, contengono praticamente solo mosto e le bucce sono ancora ricche dei freschi aromi tanto utili per ottenere un prodotto finito con un’ampia gamma olfattiva e tretrolfattiva. I mastri distillatori iniziarono quindi a vinificare le vinacce di uve bianche, riducendo al minimo il pericolo di ossidazione e di deperimento della materia prima. La distillazione di queste vinacce generalmente avviene oggi separatamente dalle altre a uva rossa. Quest’ultime, che contengono alcol, essendo rimaste con il mosto durante la vinificazione, normalmente sono poste in silos o compresse in sacchi ermetici per essere distillati al più presto. In alcuni casi troviamo ancora le vasche di cemento indicate sopra. L’industria utilizza in genere esclusivamente distillatori continui a colonna mentre le più piccole aziende artigianali usufruiscono di alambicchi a vapore o a bagnomaria e, in casi ormai rari, a fuoco diretto. Se le vinacce non possono essere conservate nelle migliori condizioni e soprattutto se la distillazione si protrae nel tempo può crearsi una concentrazione di alcol metilico eccessiva che è eliminata con un ulteriore passaggio in colonne di demetilazione o rettificazione. In questo caso, oltre all’alcol metilico, sono eliminati anche esteri e altre sostanze con il conseguente maggiore appiattimento del prodotto finito dal punto di vista olfattivo. Questo nuovo distillato, in alcuni casi, è miscelato con grappa proveniente da alambicco tradizionale. Si è accennato al fatto che alcuni distillatori, con il loro impegno, hanno modificato in meglio la nostra grappa. È doveroso citare la famiglia Nonino che per prima, nel 1973, distillò la grappa monovitigno (la prima fu con il

famoso vitigno Picolit), creando un nuovo metodo di concepire la grappa, sempre contadina ma allo stesso tempo rinnovata e innalzata all’attenzione del più sofisticato consumatore. La grappa così prodotta da un unico vitigno ha tracciato un nuovo sentiero che in questi trentacinque anni è diventato un’autostrada. L’idea iniziale è stata quella di vinificare separatamente vinacce di uva aromatica (vedi moscato) ma oggi purtroppo si è allargata a molteplici uve senza peraltro avere un vero e proprio significato dal punto di vista olfattivo e gustativo. Anche se in passato alcune marche di grappa erano notevoli, possiamo asserire che le migliorie effettuate in questi lustri hanno portato un maggior numero di marchi a livello apprezzabile. Resta tuttavia ancora molta strada da percorrere. Le grappe disponibili sul nostro mercato sono: N grappa giovane o grappa bianca che riposa in recipienti di acciaio inox per almeno sei mesi N grappa affinata in legno che riposa da 6 a 12 mesi in botti o barili N grappa invecchiata che matura oltre 12 mesi in botti o barili. Dal legno riceve il colore N grappa riserva o stravecchia che matura almeno 18 mesi in botti o barili N grappa monovitigno, univitigno, di vitigno prodotta con almeno l’85 per cento di vinaccia da uva di singolo vitigno indicato in etichetta N grappa aromatica prodotta da vinacce di uva aromatica quali moscato, gerwurtztramminer o semi aromatica quali muller-thurgau, prosecco, sauvignon blanc N grappa aromatizzata con aggiunta di erbe, radici, ecc. che donano al prodotto specifiche caratteristiche N È consentita l’aggiunta di caramello come colorante naturale N È consentita l’aggiunta di massimo il 2 per cento di zucchero per ammorbidire il prodotto, rendendolo meno secco. Quando troviamo la dicitura “Acquavite di vinaccia” il prodotto potrebbe essere distillato all’estero o comunque con vinacce da uva non prodotta in Italia. Le definizioni per aree di produzioni riconosciute sono le seguenti: N grappa del Piemonte o piemontese N grappa di Barolo N grappa della Lombardia o lombarda N grappa del Trentino o trentina N grappa dell’Alto Adige o Sudtiroler Grappa N grappa del Veneto o veneta N grappa del Friuli o friulana N grappa di Sicilia o siciliana N A queste tipologie si aggiungono grappe distillate in altre regioni, non specificate in etichetta.

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Distillati

Pisco,

tradizione e orgoglio del

Perù

di Riccardo Castaldi l Pisco è un distillato di mosto d’uva fermentato, prodotto sul versante occidentale del Sudamerica, la cui origine è motivo di un’annosa disputa tra Perù e Cile. I numerosi documenti storici non danno però adito a dubbi, assegnando la paternità di questa acquavite al Perù. Per delineare la storia del Pisco si deve partire dall’arrivo della vite sul suolo peruviano, avvenuta attorno al 1550 non direttamente dalla Spagna ma dalle Isole Canarie. Secondo quanto riportato dallo storico Garcilaso de la Vega, il primo vino venne prodotto nel 1555 a Cusco, capitale dell’Impero Incas situata sulla Cordigliera delle Ande a 3.400 metri sul livello del mare, nei tenimenti di Bartolomé de Terrazas. La nascita del distillato viene invece verosimilmente collocata verso la fine del XVI secolo mentre, anche se il primo documento ufficiale in cui viene menzionato è il testamento di un cittadino di Ica, Pedro Manuel “el Griego”, datato 30 aprile 1613, nel quale si fa riferimento a un lascito comprendente sia Pisco sia una serie di attrezzature per la sua produzione. La produzione di Pisco, iniziata in sordina e per un consumo poco più che familiare, conobbe un repentino aumento a partire dalla metà del XVII secolo ovvero dopo che la corona spagnola, sotto la forte pressione

I

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dei produttori della madrepatria, impose misure protezionistiche che di fatto impedivano l’importazione di vino dal Perù, divenuto in pochi decenni il principale produttore di vino sudamericano e un temibile competitore, per via dei più bassi costi di produzione. A seguito di questa azione, i produttori di vino peruviani si trovarono improvvisamente a dover gestire un significativo surplus produttivo per cui, oltre a cercare nuovi sbocchi di mercato nelle altre colonie, diedero impulso alla distillazione. Il Pisco divenne ben presto l’acquavite prediletta dai lavoratori e dai marinai che facevano la spola tra il Perù e la Spagna o tra il Perù e le altre colonie, soprattutto in virtù del prezzo contenuto rispetto a quello di altri distillati ritenuti a quei tempi più pregiati. Grazie proprio ai marinai, la sua popolarità e il suo consumo crebbero enormemente anche in altri paesi, tanto che le esportazioni arrivarono in breve tempo a eguagliare quelle del vino. III Un nome preispanico Come ampiamente documentato, il nome “Pisco” è indiscutibilmente peruviano in quanto non appartiene alla lingua spagnola ma bensì alla lingua quechua, anticamente diffusa in Perù assieme all’aymara, e significa “piccolo uccello”. Gli Incas utilizzarono la parola “Pisco”


L Il Pisco Un alambicco

per indicare l’area costiera che si estende a circa 200 chilometri a sud di Lima, nella quale si diffuse la coltivazione della vite dopo l’arrivo dei conquistadores, in quanto particolarmente ricca di avifauna. Non è da escludere però che il nome possa derivare dalle bottiglie di argilla nelle quali il distillato veniva inizialmente commercializzato dagli spagnoli ovvero i piskos, manufatti tradizionali che venivano prodotti già oltre duemila anni fa dall’omonima comunità indios che popolava la regione. Il legame del nome al territorio peruviano è sancito definitivamente dal fatto che “Pisco”, oltre ad essere il nome di un fiume, è il nome della cittadina costiera situata vicino a Ica e alle famose linee di Nazca, dal cui porto il distillato veniva imbarcato, tanto che originariamente era conosciuto come “aguardiente de Pisco”. III A sud di Lima ma non solo L’area di produzione a denominazione d’origine, che ricalca la zona viticola peruviana, si estende a sud di Lima e comprende, oltre al dipartimento della capita-

le, anche quelli di Ica, Arequipa Moquegua e Tacna; circa l’80 per cento dei distillatori si concentrano nel dipartimento di Ica, nel quale rientrano i distretti di Pisco e Chincha. Esistono tuttavia alcune località di produzione anche al nord della capitale, quali Moro, Ancash e La Libertad, che rivendicano l’allargamento dell’area a denominazione d’origine al loro territorio. In Perù si contano circa 180 distillatori che producono un milione e mezzo di litri di Pisco, anche se la produzione è di fatto in mano a una decina di aziende, spesso produttrici anche di vino, che hanno la capacità di commercializzare il loro prodotto su tutto il territorio nazionale e soprattutto di esportarlo; tra queste aziende si ricordano Bodegas Vista Alegre, Bodegas de Viñedos Tebernero, Viña Tacama e Santiago Queirolo. La maggioranza delle aziende produttrici hanno carattere artigianale e in molti casi commercializzano il loro prodotto sfuso o con un confezionamento approssimativo, sul mercato locale. Il livello qualitativo proposto da molti di questi piccoli produttori è comunque eccellente, per cui può essere interessante lasciarsi condurre - da viaggi organizzati o da taxi 77


Distillati L Una pressa peruviana

non abusivi - alla scoperta del Pisco, in uno scenario caratteristico, fatto di piccole distillerie ubicate in molti casi in vecchie costruzioni dall’aspetto pittoresco; il migliore periodo per visitare la zona è febbraio - marzo ovvero quello concomitante con la vendemmia. III Otto vitigni per quattro tipologie La quasi totalità dei produttori ha vigneti in proprietà, anche se è piuttosto diffuso l’acquisto di uva sul mercato nelle annate in cui vi è forte richiesta del prodotto. Le varietà di uva contemplate dalla norma tecnica che regolamenta la produzione del Pisco, menzionate come uvas pisqueras, sono rappresentate da Quebranta, originatasi sul suolo peruviano per mutazione, da Negra corriente, diffusa anche in Cile e in California e ritenuta il primo vitigno introdotto dagli Spagnoli, e da Mollar, Italia, Moscatel, Albilla, Torontel e Uvina. Il Pisco viene classificato in quattro categorie, riportate in etichetta; la tipologia “Pisco Puro” viene ottenuto da uva non aromatica ovvero Quebranta, Uvina, Mollar e Negra corriente, mentre la tipologia “Pisco Aromático” si elabora a partire da Albilla, Italia, Moscatel e Torontel e prende il nome direttamente dal vitigno, ad esempio “Pisco Italia”. Vi sono poi il “Pisco Mosto Verde”, che ha la particolarità di derivare dalla distillazione di mosti non completamente fermentati, e il “Pisco Acholado”, che si distingue per il fatto di essere ottenuto a partire da un uvaggio o dal taglio di mosti di varietà aromatiche e non aromatiche. Il Pisco viene commercializzato con una gradazione che può essere compresa tra 38° e 48° alcol. La gradazione alcolica raggiunta con la distillazione è quella definitiva di commercializzazione, dato che il disciplinare di produzione, a differenza di quello di altri distillati prodotti in Sudamerica, non consente di raggiungere gradazioni superiori e di abbassarle tramite l’aggiunta di acqua. Questo distillato è l’ingrediente base del cocktail nazio78

nale peruviano, il Pisco Sour, inventato nel suo bar di Lima dall’americano Victor Morris. La ricetta prevede che siano shakerati energicamente 2 parti di Pisco, 1 di succo di lime, 1 di sciroppo, 1 di albume d’uovo e ghiaccio; dopo aver versato il contenuto dello shaker in un bicchiere ghiacciato, vi si aggiungono alcune gocce di Angostura. III Dai lagares alle tinajas Anche se i produttori di più grandi dimensioni si sono dotati di attrezzature moderne per la lavorazione dell’uva, come ad esempio diraspatrici, presse pneumatiche e cisterne in acciaio, buona parte del Pisco continua ad essere prodotto secondo la caratteristica metodica tradizionale. L’uva vendemmiata viene riposta in casse e trasportata fino alla cantina, la bodega, dove è distribuita all’interno di una platea in cemento delimitata da un muretto in pietra, chiamata lagare, nella quale viene pigiata con i piedi da una squadra composta in genere da sei pisadores o trilladores, che operano dall’imbrunire fino all’alba, per evitare le alte temperature giornaliere. Nel corso della pigiatura gli addetti, tra canti e scherzi, si dissetano con il chinguerito, un cocktail ottenuto con mosto fresco, Pisco, limone, chiodi di garofano e cannella. Terminata la pigiatura si procede alla pressatura con la cosiddetta prensa de palo, un torchio di legno di guarango che sormonta il lagare stesso. Il mosto ottenuto, tramite una serie di canalette giunge all’interno della cantina e viene raccolto nella puntaya, un contenitore dove sosta brevemente al fine di consentire il deposito delle fecce più grossolane prima di essere smistato verso le tinajas, contenitori di terracotta della capienza variabile tra 300 e 400 litri, nei quali avviene la fermentazione alcolica. III Tra alambicchi e falcas Appena terminata la fermentazione, il vino ottenuto è avviato alla distillazione, in modo che il processo abbia


L Tinajas, contenitori di terracotta in cui avviene la fermentazione alcolica

inizio prima che possa raffreddarsi. La distillazione avviene utilizzando tre tipi di alambicchi ovvero alambique simple, alambique con calientavinos e falca. La prima tipologia è l’alambicco classico, costituito da una caldaia di rame, riscaldata a gas o a gasolio, dove viene collocato il vino, la quale è sormontata da un capitello da cui si diparte un collo d’oca che raccoglie i vapori e li convoglia in una serpentina refrigerata, dove si ha la condensazione e l’ottenimento del distillato; la seconda tipologia si compone dei medesimi elementi, con l’aggiunta di una seconda serpentina che si diparte direttamente dalla caldaia, la quale viene refrigerata con vino, che è così immesso in distillazione già preriscaldato. Il distillatore tradizionale è la falca, inizialmente concepita per far fronte alla difficoltà di reperire alambicchi. La particolarità delle falcas è infatti quella di avere una camera di ebollizione costruita con mattoni e cemento, chiusa inferiormente da un paiolo di rame e superiormente da una volta in muratura; nella volta è presente un’apertura, chiusa ermeticamente durante la distillazione, dalla quale viene immesso il vino da distillare. Sotto al paiolo si trova invece il forno a legna, nel quale si brucia generalmente legna di algarrobo, un’essenza molto diffusa nell’area costiera del Perù. Dalla parte superiore della camera di ebollizione si diparte il cañón, una condotta conica di rame, leggermente inclinata verso il basso, che raccoglie i vapori e, attraversando una vasca di acqua fredda detta alberca, ne consente la condensazione. Nella parte inferiore del paiolo è presente una seconda condotta, che viene utilizzata per lo sgrondo delle fecce a fine distillazione e delle acque di lavaggio. Le falcas, in uso presso i produttori più piccoli, consentono di ottenere le produzioni considerate più fini, ricercate dagli amanti del Pisco. Prima di essere imbottigliato e avviato al mercato, il Pisco soggiace a un periodo di affinamento di almeno tre mesi in contenitori di vetro o di acciaio, come previsto dalla norma tecnica.

III Un nome per due prodotti La controversia tra Perù e Cile si basa sul fatto che il governo peruviano considera il nome “Pisco” una denominazione d’origine legata al proprio territorio, rivendicandone di conseguenza l’esclusività di utilizzo, mentre il governo cileno lo considera un nome generico di distillato, al pari ad esempio di brandy, ritenendosi in diritto di utilizzarlo liberamente. Il Cile ha dalla sua parte il fatto di utilizzare il nome già da lungo tempo e di avere ottenuto il riconoscimento ufficiale del suo distillato da parte di molte nazioni, grazie al proprio peso a livello internazionale. In realtà il Pisco prodotto in Cile, pur provenendo sempre dalla distillazione del vino, presenta un profilo organolettico estremamente differente da quello peruviano, come conseguenza sia dei vitigni impiegati sia della tecnica produttiva adottata. Il Pisco cileno viene prodotto nella III e IV regione, nelle aree di Atacama e Coquimbo, partendo dalla distillazione di vini ottenuti da Moscato giallo, Moscato bianco precoce, Moscato d’Alessandria, Moscato d’Austria, Moscato di Canelli, Moscato di Frontignan, Moscato d’Amburgo, Moscato nero, Moscato rosa, Moscato arancio, Pedro Jiménez e Torontel. La produzione è di tipo industriale e avviene utilizzando alambicchi di rame, con i quali si ottiene un distillato grezzo con una gradazione generalmente compresa tra 55° e 60° alcol ma che può spingersi fino a 70° alcol. Dopo un invecchiamento in botte di alcuni mesi, che può protrarsi più a lungo per i prodotti di maggior pregio, il distillato viene eventualmente tagliato per migliorarne le caratteristiche, diluito con acqua demineralizzata al fine di ottenere una gradazione compresa tra 30° e 50° alcol, quindi filtrato e imbottigliato. Il Pisco cileno viene classificato in quattro categorie in funzione esclusivamente del contenuto alcolico; troviamo così il “Pisco Corriente o Tradicional” con 30° alcol, il “Pisco Especial” con 35° alcol, il “Pisco Reservado” con 40° alcol e il “Gran Pisco” con 43° alcol. 79


Acqua

L’acqua amica

del

formaggio

di Davide Oltolini abbinamento cibo-acqua è, senza dubbio, uno dei temi oggi maggiormente innovativi a livello enogastronomico. Estremamente affascinante è l’abbinamento con i prodotti caseari. Ricordiamo che acque che appaiono gradevoli da bere da sole acquisiscono un particolare interesse se correttamente abbinate, aumentando, in questo modo, il piacere offerto al palato. Una corretta analisi delle caratteristiche organolettiche del cibo, che vengono evidenziate tramite un esame visivo, olfattivo e gustativo, unitamente a un giudizio sull’equilibrio tra queste diverse sensazioni è, chiaramente, indispensabile ai fini della realizzazione di un opportuno abbinamento, proprio come avviene per i prodotti della viticoltura. Per quanto riguarda le acque, proprio come per il vino, lo sviluppo delle attitudini percettive, appare assolutamente indispensabile. La conoscenza da parte del sommelier delle corrette tecniche dell’accostamento cibo-acque, oltre a essere sinonimo di preparazione professionale, permette una maggior sicurezza nell’approccio con il cliente. Nel corso della degustazione del cibo vengono percepiti vari, diversi, sentori che, con il seguente assaggio dell’acqua, possono equilibrarsi con essa o, in alternativa, a seconda della correttezza o meno dell’abbinamento, evidenziarsi con una maggiore intensità. Ai fini dell’accostamento con le acque, in merito alle caratteristiche degli alimenti, all’aspetto gustativo verrà assegnato un rilievo superiore rispetto agli aspetti visivi, olfattivi e retrolfattivi.

L’

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Come più volte rammentato, per quanto concerne l’aspetto visivo si dovranno, ovviamente, prendere in considerazione gli stimoli meccanici, quali ad esempio la succulenza, quelli chimici e quelli gustativi propriamente detti, cioè i quattro sapori primari, ovvero dolce, salato, acido, amaro, ma anche, in particolare per i prodotti caseari, l’umami, il cosiddetto “quinto gusto”. Anche per le acque, come per i prodotti enologici, la presenza di una certa freschezza, cioè di una sensazione di acidità, equilibrerà la tendenza dolce presente nel formaggio, offrendo un ottimale bilanciamento di tale sensazione organolettica. La “grassezza” tipica del formaggio, come pure di molti altri alimenti, crea una sorta di sottilissima patina, la cui entità varia a seconda del cibo preso in considerazione, che va a ricoprire le papille gustative. Tale particolare fenomeno può essere mitigato dall’acidità della bevanda ma anche dalla pungenza dell’acqua stessa, dovuta, nelle acque effervescenti, alla presenza di CO2. Per queste ultime, ai fini dell’abbinamento, deve essere presa in considerazione, oltre alla percentuale di anidride carbonica disciolta nella bevanda, anche il cosiddetto “perlage”, ovvero l’aspetto e le dimensioni delle bollicine presenti. Queste possono essere minute, cioè appena percettibili alla vista, di media grandezza oppure grossolane e particolarmente evidenti. Un’altra peculiarità, che riveste un’enorme importanza per la scelta fra le diverse acque, è quella dei sali in esse contenute oltre, naturalmente, alla loro quantità. Proprio come accade per il vino sarebbe, perciò, utile,


nonché necessario da parte del sommelier, osservare sempre le etichette delle differenti acque, verificandone il contenuto e le caratteristiche. Per quanto riguarda i formaggi, come per gran parte degli altri alimenti, è impossibile pensare a un unico abbinamento che risulti idoneo per le numerosissime, diverse, tipologie presenti sul mercato. Volendo generalizzare, con tutte le evidenti controindicazioni che tale modalità di operare comporta, non conoscendo in anticipo quale prodotto caseario ci verrà sottoposto, potremmo ipotizzare un accostamento con un’acqua di collina, lievemente salina, dal fine perlage, che potrebbe rappresentare un buon compromesso per l’accostamento a molti, differenti formaggi. Volendo addentrarci maggiormente nelle tematiche dell’abbinamento “idrico” potremmo ipotizzare l’abbinamento di prodotti caseari freschi con acque oligominerali ovvero con un tenore in sali minerali compreso tra 50 e 500 mg/l (anche se ci orienteremo, preferibilmente, verso acque dal residuo fisso non superiore a 250 - 300 mg/l), che siano piatte (cioè lisce) o solo leggermente effervescenti. Per prodotti caseari stagionati opteremo, invece, sempre per acque oligominerali (ma con un tenore in sali a partire da 250 – 300 mg/l) o per acque cosiddette mediominerali, cioè con un residuo fisso intermedio tra quello delle acque oligominerali e quello delle acque ricche di sali minerali, e che risulterà, pertanto, essere tra i 500 ed i 1.500 mg/l. Il numero dei diversi formaggi presenti sul mercato è, però, elevatissimo, tanto da consentire o meglio da

richiedere necessariamente, ulteriori livelli di approfondimento. Prodotti freschi o prodotti usualmente poco stagionati, quali Burrata, Robiola, Quartirolo lombardo, Crescenza o Salva cremasco preferiranno acque morbide, dalla ridotta acidità e dalle caratteristiche gustative che non evidenzino una particolare persistenza. Prodotti dalle caratteristiche gusto – olfattive più intense, quali Bitto, Asiago d’allevo, Emmental ed Emmentaler, Fontina, Gruyere o Castelmagno apprezzeranno acque di buona struttura, dalle note gustative maggiormente marcate e, in taluni casi, dalla maggiore acidità. Peculiarità queste ultime che, in linea di massima, ben si adattano anche a formaggi erborinati quali il Roquefort, lo Stilton o il Gorgonzola, tipologia casearia per la quale la corretta scelta dell’acqua risulta, comunque, di una certa difficoltà e richiederebbe una valutazione maggiormente ponderata caso per caso. Formaggi a lenta maturazione come il Pecorino Romano, il Montasio, il Grana Padano o il Parmigiano Reggiano amano, invece, acque con una certa sapidità e persistenza, oltre a un “importante” residuo fisso. Un discorso a parte meritano, infine, i prodotti caseari approntati con latte diverso da quello vaccino come, ad esempio, i formaggi di capra. Questi, in particolare, si caratterizzano per le classiche sensazioni olfattive e gusto – olfattive di particolare intensità, le quali possono, però, essere validamente equilibrate da acque che evidenzino una buona corposità dovuta a un residuo fisso di una certa rilevanza il quale doni, nel contempo, un’ottimale complessità alla bevanda stessa. 81


Novità editoriali

Duemilavini, il libro guida ai vini d’Italia

stata presentata a Roma l’edizione 2010 di Duemilavini, il testo guida allo straordinario momento che il vino italiano sta attraversando. La pubblicazione, che si riconferma a livelli di assoluto prestigio, si propone a un pubblico di amatori, di appassionati e di professionisti. Un testo eccellente che si distingue dalle altre guide perché è senza pubblicità e vede la sua realizzazione grazie al lavoro di oltre sessanta degustatori dell’Associazione italiana sommelier e di una redazione composta da docenti dell’Ais. Duemilavini, Il Libro Guida ai Vini d’Italia è suddiviso in tre sezioni. La prima illustra la tecnica della degustazione e dell’abbinamento cibo-vino. Segue una parte storica e di ricerca sul territorio in cui, regione per regione, vengono indicate le Doc e le Docg, i prodotti Dop e Igp. La terza parte, fulcro della pubblicazione, presenta le aziende e i vini prodotti: circa 1.600 le aziende

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recensite, oltre 16.000 i vini descritti. Una pagina per ogni azienda completa di logo, descrizione, scheda con tutte le informazioni utili al lettore: dalla data di fondazione a come arrivarci, la degustazione di tutti i vini prodotti, le relative valutazioni, gli abbinamenti con i cibi e infine le etichette dei vini premiati con i 5 Grappoli. E dopo il grande successo dell’esordio dello scorso anno, ritorna la nuova edizione de I Ristoranti di Bibenda. Questa pubblicazione si pone l’obiettivo di fornire notizie utili su luoghi deputati a far vivere il vino in armonia con il colore, il profumo e il gusto dei piatti che rappresentano il patrimonio del nostro Paese. Sono 1.800 i ristoranti recensiti in tutta Italia, con l’indicazione di indirizzo, telefono, sito internet, numero di coperti e di etichette in carta, giorni di chiusura, prezzo medio e, ovviamente, la valutazione espressa in Baci, da 2 a 5.


Sommelier nel mondo

Paese che vai, usanze che trovi! di Thomas Sartori idea dei Caraibi, per coloro che non hanno avuto la possibilità di verificare di persona, è associata a spiagge meravigliose e vita spensierata. Perlomeno è così che li descrivono tutti i cataloghi dei tour operator. In realtà, quando si abbandona l’aspetto turistico, ci si accorge presto che si tratta di luoghi in cui la quotidianità è simile, per molti aspetti, a quella di altri Paesi. Come nella maggior parte delle economie di queste aree esiste un forte divario tra le fasce sociali, con enormi differenze tra ricchi e meno abbienti; il numero di persone facoltose è assai ridotto rispetto alla massa, però detiene un potere d’acquisto enorme che, in termini di vino, si traduce in cifre inimmaginabili e terribilmente attrattive, soprattutto in un momento di difficoltà e di crisi nelle vendite a livello internazionale. L’Ais Caribe, per la realizzazione

L’

dei corsi ufficiali, si è appoggiata, ad esempio, alla principale compagnia, El Catador, che, con un portafoglio di circa cento cantine da tutto il mondo e un fatturato di varie decine di milioni di dollari, detiene più del 60 per cento del mercato della Repubblica Dominicana. Questi numeri sono ridicoli se paragonati al più grande importatore di vino e bevande di Puerto Rico che con le sue seicento cantine e un fatturato di circa 600 milioni di dollari rappresenta la “follia pura” se si considerano gli appena 4 milioni di abitanti dell’isola. L’Ais Caribe ha intrapreso una relazione con questa compagnia per iniziare a operare anche a Puerto Rico con corsi ufficiali in spagnolo. La scelta di queste collaborazioni si deve a un motivo fondamentale: l’importanza delle pubbliche relazioni per il conseguimento dei risultati. Si tratta di Paesi dove senza il potere di 83


Sommelier nel mondo

Thomas Sartori, relatore dei corsi Ais a Santo Domingo

“leva” dei leader non si ottiene alcun risultato. Ripensando all’inizio di quest’avventura, che si è trasformata ben presto nella mia vita, ricordo come se fosse oggi, nonostante siano passati già tre anni, che quando pensavo alla carta dei vini del ristorante che dovevo gestire a Cap Cana in Repubblica Dominicana, l’Amarcord, per quella parte di cuore e spirito legati alla Romagna, (uno dei progetti turistici più importanti, fagocitato anch’esso dalla crisi internazionale), immaginavo diverse pagine dedicate ai vini bianchi più importanti e interessanti del mondo, visto che, secondo logica, dovevano rappresentare il connubio ideale con la grande quantità di pesce che può regalare il mare attorno all’isola. Proprio la logica rappresenta la parola chiave di questo mondo... perché di un mondo differente si tratta. Come mi hanno insegnato appena sbarcato dall’aereo: dove finisce la logica, inizia la Repubblica Dominicana, con i lati positivi e quelli negativi. Il vino bianco, se includiamo anche i vini spumanti, forse arriva a rappresentare il 20 per cento del consumo. Il gusto del dominicano è fortemente sbilanciato verso il vino rosso e, in particolare, verso quei vini che rappresentano l’opulenza, molto spesso senza il supporto dell’eleganza. Un palato educato a suon di Jack Daniels e Brugal è difficile da convertire, in poco tempo, alle sensazioni che regalano un grande vino di Cȏte de Beaune, un aromatico altoatesino o un Riesling della Rheingau. L’Ais Caribe ha accettato la sfida. Da circa un anno abbiamo dato una svolta alla delegazione caraibica con importanti cambi gestionali e abbiamo iniziato a dedicarci alla diffusione della cultura del vino con corsi di tutti i tipi, attività, degustazioni, conferenze, fiere e manifestazioni. I risultati sono sorprendenti, nei primi mesi del 2010 arriveremo, se tutti i candidati supereranno l’esame finale, ad avere quasi un centinaio di sommelier Ais in più nei nostri tabulati; siamo riusciti a realizzare il primo concorso miglior sommelier della Repubblica Dominicana e il vincitore parteciperà al prossimo concorso miglior sommelier del mondo 2010.

L Una Casa de Colón 84

L’altro lato del mondo enogastronomico è la cucina, assai diversa e lontana dalla nostra, anche se, sotto alcuni aspetti, molto interessante, soprattutto per l’interessante uso della frutta come accompagnamento (ananas, aguacate, mango). La gastronomia dominicana è abbastanza semplice, con ingredienti poveri che non possono mancare durante i pasti principali. Uno dei piatti tipici si chiama proprio la “Bandera dominicana”: si tratta di riso bianco alla “criolla”, fagioli rossi e carne (principalmente manzo o maiale). Impossibile che un dominicano non mangi almeno una volta al giorno questi alimenti. Sempre pensando alla famosa logica, l’ultima cosa che, ad esempio, un italiano vorrebbe mangiare, in un Paese dove la temperatura media è di 35 gradi, è una zuppa. E non parliamo di un brodo vegetale ma di una vera bomba calorica: il “Sancocho”. È realizzato con carne mista (maiale, manzo, pollo), patate, platano, zucca, yuca (mandioca), legumi, mais e, a volte, anche pesce. Si serve bollente e accompagnata con il tradizionale riso bianco. Abbinamento? Cerveza e solo della marca nazionale Presidente, una pilsner gradevole e fresca che si lascia bere con estrema facilità... anche troppa! Temperatura di servizio, un paio di gradi sopra lo zero, tanto che quando si stappa, lo sviluppo di CO2 all’in-


L I Tostones

terno ne provoca il congelamento con immediata sostituzione. Esiste poi un ingrediente che rappresenta un importante elemento nella dieta del dominicano: il platano. Nella versione verde, si prepara in ricette differenti. Tra le più popolari ci sono i deliziosi e dietetici “Tostones”, in cui viene tagliato a rondelle, fritto, schiacciato e fritto una seconda volta, e il famoso “Mangu”, un puré che rappresenta la colazione tipica dominicana, accompagnato da uova fritte, cipolla fresca passata in aceto, formaggio fritto e salchicha (una interpretazione criolla di grano molto più sottile della salsiccia tradizionale). Nella versione “maduro” si prepara in fettine sottili e fritte, molto interessante come accompagnamento quando si ha bisogno di sensazioni più dolci da abbinare al piatto principale. Esiste una credenza popolare sul platano secondo la quale questo frutto inibisce o addirittu-

La Bandera Dominicana L

ra danneggia le cellule celebrali. Non ho mai approfondito l’argomento però, considerando che risulta molto appetitoso, preferisco gustarmelo e morire un po’ più stupido... D’altronde non è pur vero che le cose che fanno male sono quelle più gustose? Una cosa i dominicani non sanno fare: rispettare gli alimenti in relazione alle cotture, soprattutto delle carni. Se si chiede un filetto di manzo “termino medio” ci si troverà di fronte a una carne che risulta stracotta. Per non sbagliare, se si desidera che la carne rimanga succulenta, si deve usare il “termino vuelta–vuelta”, che significa praticamente scottata, e arriverà una carne che avrà superato il tempo di cottura ideale e risulterà abbastanza succosa. Ciò chiaramente non succede in alcune steak house di stile americano dove le cotture sono quasi sempre corrette. I dominicani non sono amanti del pesce e se lo mangiano il sapore deve essere coperto con salse e condimenti. È molto facile che un cliente che si trovi a mangiare pesce fresco, si lamenti perché “sa di pesce”, un aroma di mare che qualsiasi chef vorrebbe salvaguardare. La mancanza di cultura in tema di pesce viene dal fatto che non esiste nella Repubblica Dominicana una flotta di pescatori che offra al mercato prodotti di qualità. I pescatori sono improvvisati e la famosa catena del freddo per garantire la qualità del prodotto non esiste. Il pesce, prima di entrare in un frigorifero, può anche passare un paio di giorni in un camion con ghiaccio che, chiaramente, si scioglie dopo alcune ore. Nella cucina popolare esiste l’abitudine di marinare con spezie, erbe e aceto le carni, trasformandone e alterandone il sapore; questa pratica si rende necessaria poiché le “macellerie” o “pescaderie” delle fasce meno abbienti sono, in realtà, chioschi lungo la strada, senza frigorifero o ghiaccio per la conservazione... La carne si appende al sole in attesa dei clienti. Pur essendo estremamente legati al riso e ai fagioli, i dominicani adorano la cucina italiana, con una predilezione per la pasta e in particolare la lasagna. Apprezzano la pizza che non vedono come un pasto principale ma come uno snack o un accompagnamento durante la cena. L’emozione di girare il mondo non è data solamente dalla possibilità di scoprire luoghi diversi: la crescita più importante è riuscire a integrarsi con una cultura differente senza dimenticare le proprie origini e, soprattutto, senza pretendere che la cultura e le tradizioni di un popolo si adeguino alle nostre, poiché siamo lì in veste di ospiti.

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Vino che passione!

Sangiovese, sintesi della Romagna e del buon vivere di Annalisa Raduano a tendenza lo stile di vita sano, il lifestyle e anche il vino si adegua alle tendenze salutiste. Negli ultimi tempi infatti è un fiorire di buone abitudini che investono i consumatori sempre più attenti alla qualità. Si predilige la spesa nei mercati contadini o l’acquisto direttamente in azienda, la tracciabilità delle produzioni, i marchi di tutela, va alla grande l’orto dietro casa e i prodotti genuini: abitudini queste che riflettono il mutamento sociale in atto, tutto a favore di una filosofia di vita ispirata al benessere. E la Romagna, terra cele-

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L Nerio Alessandri, Fondatore e Presidente di Technogym e socio di Altavita 86

bre per l’ospitalità e il buon vivere, può essere la sintesi di questa nuova filosofia, dove anche le cantine si adeguano, coniugando produzioni d’eccellenza e marketing mirato. Ne è un esempio la cantina Altavita, che si trova a Cesena, nel cuore della Romagna. La cantina nasce nel 2006, acquisita dagli attuali proprietari che hanno dato vita a un progetto ispirato proprio al lifestyle, all’alta qualità della vita. Ne sono soci l’imprenditore Nerio Alessandri, patron di Technogym (azienda celebre nel mondo per la produzione di attrezzature per il wellness) e l’agri-


Enrico e Alessandro Giunchi L

coltore Enrico Giunchi. Il marchio Altavita deriva dallo spunto iniziale “Alla Vita”, ellissi di “Io brindo alla vita”. In questo caso il significato è legato all’anima aziendale, che vuole essere portatrice di valori come il benessere, la cura dell’anima e del corpo, in quanto filosofia di vita diffusa nel territorio dell’azienda. I vigneti di Altavita si estendono per circa 20 ettari sulle prime colline cesenati, tutti ordinatamente sparsi in un lembo di territorio che termina sotto l’ombra del suggestivo castello di Sorrivoli. Una fascia altimetrica compresa tra 100 e 300 metri, fatta di terreni calcarei attraversati in alcuni casi dalla vena del gesso, che si riflette con caratteristiche davvero particolari sulle uve. Allevati a cordone speronato con una densità di impianti compresa tra 3.500 e 5.500 ceppi per ettaro, i vigneti di Altavita sono di diverse età. La conduzione dell’azienda è biologica, le rese bassissime, proporzionate alle piccole produzioni previste di vino, di olio, di grappa e altre tipicità. Questa è infatti la valle delle eccellenze, un giardino fiorito di alberi da frutta che colorano le campagne come uno dei migliori dipinti impressionisti dove sull’orizzonte non manca un richiamo alla costa festaiola, la riviera dista solo 12 chilometri da qui. La cantina Altavita è volu-

tamente sobria nello stile architettonico degli ambienti e nella produzione di vino, così come lo è la Romagna, che cela gelosamente forti tradizioni rurali. Essa è collocata in una suggestiva vallata, proprio all’ombra dell’abbazia del Monte di Cesena, antica, austera e affascinante emblema religioso e sociale di una città ricca di storia. L’Abbazia di S. Maria del Monte si trova sul Colle Spaziano, a dieci minuti dal centro di Cesena. La struttura è prevalentemente rinascimentale, anche se le origini del complesso risalgono all’anno 1000. Spicca la raccolta di tavolette votive (ex-voto), con esemplari

che vanno dal XV secolo ai giorni nostri. Altavita si trova nel mezzo di un percorso naturale, frequentatissimo (i Gessi) ed è a solo due minuti dal centro della città. Una città storica che vede testimonianze importanti come la Malatestiana, la più antica biblioteca al mondo voluta da Malatesta Novello, signore della città. La “libraria Domini” viene portata a termine nel 1452 ed è rimasta l’unico esempio di biblioteca a tre navate, conservata integralmente nell’architettura. I volumi custoditi sono circa 300.000. Un patrimonio al quale si aggiunge il corpus malatestiano con 341 codi87


Vino che passione! ci manoscritti dei secoli IX-XV e 48 volumi a stampa dei secoli XV-XVIII. Visitando il centro storico (la Cattedrale, il Palazzo del Ridotto, la Piazza del Popolo, il Palazzo Albornoz, la Loggetta veneziana) non può mancare una visita alla Rocca Malatestiana, possente struttura difensiva che domina la città e la pianura. All’interno della Rocca si può cogliere lo stretto legame tra agricoltura, tradizioni e territorio visitando il Museo di Storia dell’agricoltura. Così come la storia di Cesena anche la cantina Altavita è bella e impregnata di tradizioni, riviste con la rimodernizzazione degli ambienti, seguita alla nuova società tra i Giunchi e la famiglia Alessandri. Una cantina in chiave moderna che sposa la filosofia del buon vivere e che racconta di amore per la propria terra, proporzionata alle piccole produzioni previste. «La conduzione della nostra azienda è biologica», spiega Enrico, che di professione fa l'agricoltore, accogliendomi sulla veranda ventilata, dove si vinifica il passito. Quella del passito è una bella storia rurale ed Enrico la racconta con poesia: «La strana corrente che caratterizza il pergolato della cantina ha un potere nascosto che rende, in termini vinicoli, più qualità di ogni teoria enologica. Il vento infatti porta consiglio e chi ascolta i ritmi della natura non può ignorare i venti, così insieme con mio fratello abbiamo messo al bando la teoria e applicato 88

la tradizione: facendo l’appassimento delle uve sotto il nostro pergolato, poi scelto il giorno di San Martino per la pigiatura (l’estate di San Martino è l’11 novembre) con un risultato eccezionale che ha sorpreso anche il nostro enologo. Il vino battezzato Solesia viene, non a caso, dedicato al sole, elemento essenziale per la qualità delle uve. La poesia “San Martino” del Carducci non poteva descrivere meglio la nascita di Solesia: colline spesso velate dalla nebbia, il maestrale che soffia sotto il pergolato e... tra mito e realtà si genera un miele liquido che diverrà poi vino dalle intense sensazioni». Le uve derivano da un vecchio vigneto dall’eccezionale esposizione. Si tratta di 100 per cento Albana. L’appassimento è su graticci all’aria per due mesi, la schiacciatura è manuale e la pressatura soffice, la fermentazione in rovere francese così come l’affinamento che sigilla il nettare per 18 mesi e poi la passa in bottiglia. Sugli abbinamenti con Solesia, ci si può sbizzarrire, accostandolo alla pasticceria tradizionale, da queste parti la ciambella romagnola la fa da padrone, ma è piacevole anche con formaggi erboinati, con il formaggio di Fossa Dop, caratteristico di questo territorio. Come già detto l’espressione più tipica della Romagna è il Sangiovese, se riuscirà ad affermarsi definitivamente nei mercati internazionali, potrà essere il prodotto più rappresentativo

di questa terra: il Sangiovese come sintesi liquida della Romagna. Non a caso il primo vino prodotto da Altavita è Evoca, un Sangiovese di Romagna Doc Superiore 2007 presentato al Vinitaly 2008 in degustazione e in commercio da maggio, con 9.999 bottiglie prodotte (più 1, in casa Alessandri) e 900 Magnum. Il vitigno è 100 per cento Sangiovese, la fermentazione e l’affinamento avvengono in vasche di acciaio inox, passa poi in bottiglia per non snaturane i sentori. A tavola è ottimo con il pollo romagnolo alla cacciatora, i formaggi, gli affettati, perfetto con le tante varianti gastronomiche che si richiamano alle tradizioni che si incontrano nei numerosi ristori lungo la via Emilia, celebre strada impregnata di sapori. Sempre Sangiovese, ma Doc Superiore Riserva, è Tempora che nasce da un’attenta selezione delle uve raccolte nelle aree più vocate e soleggiate. «Anche per questo vino, il nome gioca con significati etimologici. Per scegliere i nomi dei vini infatti, c’è stato un ragionamento aziendale ispiratosi alla descrizione del vino stesso, in una logica di positività: Tempora fa una sosta in barrique – spiega Alessandro Giunchi, fratello di Enrico – ha un procedimento più complesso, è un Sangiovese più strutturato che come dice il nome stesso, ha bisogno di tempo. È fitto al colore e al profumo, trova buona morbidezza da contrapporre alla sua struttura tannica». Tempora


lega con piatti forti: il cinghiale in salmì, la polenta e l’agnello farcito. Riguardo ai bianchi, in azienda si produce Diapente, un IGT: «Particolarissimo» dice Enrico, che durante la visita in cantina si alterna nel ruolo di cicerone al fratello. «Si tratta di tre diversi vitigni (Sauvignon blanc, Albana, Trebbiano), poi il rovere francese e la particolare cura che dedichiamo alle uve danno origine a quello che etimologicamente significa “per 5” (diàpènte) che si caratterizza per la componente aromatica carica di frutti e i sentori tipici del Sauvignon Blanc. Anche in questo caso la fermentazione avviene in barriques di rovere francese. Rimane in botte per altri tre mesi su fecce nobili dove si svolge anche la fermentazione malolattica. Poi l’affinamento in acciaio e in bottiglia». Un matrimonio eccellente nel piatto passa con abbinamenti di pesce azzurro e la brezza di mare quando soffia forte arriva sin qua su! Enrico fa l’agricoltore da quando aveva 16 anni mentre il fratello Alessandro, laureato in Scienze dell’alimentazione, sposa la vitivinicoltura al sapere della qualità. «Abbiamo ribaltato il concetto della frutta di qualità sull’uva» sottolinea Alessandro indicando gli alberi da frutto che vestono la vallata, poi mette in risalto l’esperta manualità che serve nella raccolta della frutta e nella cura con cui anche l’uva deve essere vendemmiata. La Romagna infatti, e Cesena soprattutto, è tra le più importanti produttrici di frutta, anche biologica e, quindi, alta è l’attenzione alla filosofia del buon vivere così come la stessa cantina Altavita promuove. Dunque è coniugando la dinamicità imprenditoriale di questi due giovani eredi agricoltori e quella manageriale di Mister Technogym, che Altavita si affaccia al mondo del vino da protagonista e lo fa con il suo stile, perché uno come Mister Technogym non poteva certo cadere nella trappola della banalità.


Curiosità

gusto

Il dolce-amaro della

sommelière di Isabella Sardo a società di oggi ha accettato molte novità nel corso degli ultimi anni, però nel mondo del vino c’è ancora qualcuno che si stupisce che una donna possa essere sommelier. Non che ci si scandalizzi sul serio ma spesso ci si meraviglia, ponendo domande del genere: «Tu che sei donna non ti ubriachi subito?». Interrogativo che si aggiunge ad altri non meno curiosi del tipo: «Come mai a una donna può passare per la testa di fare il sommelier? Ma ce ne sono davvero?». In realtà le donne sommelier in Italia sono numerosissime (attenzione: molte di più che in Francia ma di meno rispetto all’Inghilterra, agli Stati Uniti o al Canada) e risultano altrettanto competenti dei colleghi uomini. Per chi ama i numeri, si può sottolineare che su 2.424 sommelier professionisti Ais, 505 sono donne, con una loro prevedibile e netta rimonta nei prossimi anni: tra i 13.133 aspiranti sommelier ci sono ben 4.212 future donne sommelier (o sommelières, alla francese, che è più chic e più sintetico). Ma qual è la marcia in più, l’arma segreta sfoderata dalle donne professioniste quando si trovano a dover degustare un vino?

L

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A livello sensoriale le donne possiedono una più acuta capacità di percepire gli odori. Laura Tonatto (celeberrimo “naso”, creatrice di profumi artistici di fama mondiale) nel suo libro Storia di un naso (edito da Einaudi) afferma: «Già a livello fisiologico, le donne possono vantare un olfatto migliore di quello maschile, tanto che individuano gli odori a concentrazioni molto più basse dei maschi». Una teoria antropologica accreditata asserisce che questo “primato olfattivo femminile” serviva alla donna per individuare e scegliere il “suo” maschio. Inoltre e più semplicemente, le sommelières sono agevolate dai ricordi sensoriali legati alla crema da notte agli estratti di iris e malva, alla maschera antirughe alla mandorla dolce e alla ricetta segreta super veloce del pesto alle erbe aromatiche e pomodori secchi. Non si deve trascurare, inoltre, il fatto che l’arte dell’abbinamento è da sempre un gioco: fin da bambine imparano a esercitare l’occhio, per esempio per catturare le nuances di colori, per accostarle, per scegliere il miglior abbinamento vestito-golfino, borsetta-stivale. Sin da piccole sono spinte dai genitori a comportarsi con gentilezza, grazia ed eleganza. Doti particolarmente apprezzate, se non essenziali, in un sommelier. E, come se non bastasse, l’arte della comunicazione è donna e quindi le sommelières riescono a svolgere un ruolo essenziale di svecchiamento e semplificazione nella presentazione di quel prodotto talvolta di difficile approccio qual è il vino. A voler essere onesti fino in fondo, l’essere donna è un grosso vantaggio, in molte occasioni della vita di un sommelier. Perché? In primo luogo per quanto le degustatrici possano essere numerose , resta il fatto che sono comunque di meno rispetto ai colleghi maschi e quindi la professionista-donna è più “rara”, più “esotica”, in grado di dare un tocco originale allo staff di un grande ristorante o di un’enoteca prestigiosa. A riprova del fatto che, come spesso accade, l’essere una minoranza non è per forza di cose penalizzante, poche professioni al mondo sono

intrinsecamente legate ai cinque sensi quanto quella del sommelier… più un “sesto senso”: la sensibilità che fa rima ed è etimologicamente legata alla sensualità. E la donna in fatto di sensualità non ha eguali e la presenza di una sommelière in un ristorante o in una sala degustazione trasmette un diffuso senso di benessere. Fa chic, punto e basta. Non a caso il più alto numero di sommelières si concentra nelle due capitali del “trendy” per eccellenza: New York e Londra. Tutto questo può giocare a suo favore ma anche a sfavore, a seconda della sobrietà della singola professionista. Perché come può risultare gradevole la sua presenza, al contrario, può essere decisamente sgradevole la consapevolezza o il dubbio che il suggerimento su un accordo o sulla qualità di una degustazione passino in secondo piano rispetto al fatto che la sommelière porti una gonna più o meno attillata. Irrigidite dal timore (spesso infondato) di non essere prese abbastanza sul serio, proprio perché donne o, ancora peggio, perché giovani e carine, talvolta le sommelières danno il meglio di sé comunicando con le altre donne. Ciò ha portato a uno splendido circolo virtuoso destinato a creare equilibri nuovi in un mondo in cui è l’uomo a occuparsi della scelta del vino,

L Adua Villa, sommelier Ais e volto noto del programma tv ''La Prova del Cuoco''

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Curiosità L Nicoletta Gargiulo, Miglior Sommelier d'Italia 2007

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dimenticando di interpellare e di coinvolgere la commensale. In realtà il ruolo della sommelière è pari a quello di qualsiasi donna che lavori in contesti da sempre retaggio degli uomini. Esistono però delle peculiarità proprie soltanto di questo ambito lavorativo: caricare casse di vino per trasportarle lungo scale ripide in cantine semibuie non è, obiettivamente, una delle attività che si accordano con il gentil sesso. Anche se l’etimologia della parola sommelier riporta a questi gravosi doveri professionali, come dimostra la radice stessa di bestia da “soma”, in francese antico “somme”. Nel servizio la sommelière accusa qualche altra difficoltà ignota ai colleghi. Per esempio quando si trova alle prese con bottiglie di grande o di grandissimo formato e con tappi particolarmente tenaci, in particolare con i famigerati tappi a fungo. Per questi ultimi esiste naturalmente l’ausilio della pinza, difficile tuttavia da estrarre dalla tasca della divisa perché troppo voluminosa (e a tale proposito l’appello che si inventi al più presto una super -

mini-pinza universale, modello ultra piatto e ultra leggero). L’impossibilità di ricorrere all’amica pinza o l’impaccio nel maneggiare una jéroboam potrebbero risultare di cruciale importanza durante un concorso. Fortunatamente questi possibili inconvenienti non stanno impedendo una plateale riscossa delle concorrenti ai grandi concorsi nazionali e internazionali. Ne sono una prova sommelières come Nicoletta Gargiulo, miglior sommelier d’Italia 2007, Veronique Rivest, miglior sommelier del Canada 2006, Aurelie Degaul, miglior sommelier del Belgio 2007, Claire Thevenot, miglior sommelier del Regno Unito 2006, Elyse Lambert, miglior sommelier d’America 2009, Agustina de Alba, miglior sommelier d’Argentina 2008 e Pascaline Lepeltier, che, pur non avendo vinto, nel 2008 è stata la prima donna finalista in un concorso francese, raggiungendo un traguardo che la stampa d’Oltralpe ha addirittura definito “epocale” (il che la dice lunga sull’ancora saldissimo maschilismo della sommellerie transalpina).


COL SAN MARTINO

L Isabella Sardo, Miglior Sommelier del Lussemburgo 2008

Non solo, ma nell’edizione 2007 del premio come migliore sommelier del mondo, le candidate donne erano sette (affiancate, però, da trentotto concorrenti uomini). Sorvolando sul fatto che la professione del sommelier, come tutte quelle legate alla ristorazione, non incoraggia chi vorrebbe riuscire a salvaguardare uno standard decoroso della propria vita familiare (il che rende più ricorrente la figura della sommelière-docente, piuttosto che quella della sommelière che fa servizio in sala), più che in ogni altro lavoro, pesa sulle spalle delle sommelières una pesante spada di Damocle: la gravidanza. Non molte categorie sono così poco tutelate per le controindicazioni. Infatti, in linea generale, in gravidanza bisognerebbe astenersi dal vino. Non tutti gli esperti sono d’accordo sull’eventualità che un solo bicchiere di vino rosso possa nuocere al feto ma per le sommelières il rischio è diverso. La neonatologa Lina Catalano dell’ospedale pediatrico Santo Bambino di Catania afferma: «In realtà nel caso della gestante sommelière, il problema è legato non al bicchiere occasionale ma alla continuità nell’assunzione di alcol anche se non in grande quantità. Dal momento che il pericolo maggiore si ha nei primi mesi di gravidanza ed è legato alla sindrome fetoalcolica (con rischio di aborto, ritardo fisico e intellettivo nel bambino, parto prematuro, nascita sottopeso, disturbi alcolici del feto), è più che opportuno, durante la gestazione, astenersi del tutto dal bere vino». Le altre donne possono dunque lavorare fino all’ottavo mese ma questa opportunità non vale per le sommelières. E se decidessero di allattare il neonato, dovrebbero rinunciare a bere ancora per mesi. Comunque nonostante queste “limitazioni” le sommelières aumentano in misura esponenziale, pronte a portare la propria professionalità in giro per il mondo con la grazia, la determinazione e la femminilità che le contraddistingue.

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Mappamondo

Koshu, vitigno autoctono del

Sol Levante

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di Yuki Kumagawa al cuore di Tokyo si prende il treno sulla linea Chuo e si viaggia verso ovest per due ore circa. Si giunge così a Katsunuma, località vitivinicola principale nella regione Yamanashi, il territorio nativo e unico del vitigno autoctono giapponese Koshu. L’inizio dell’anno scorso, finalmente, il vino bianco nipponico ha ottenuto l’autorizzazione per essere esportato nel mercato europeo.

D

Un po’ di storia Katsunuma è situata all’estremo est della Conca Koshu, a nord del Monte Fuji. Ma da quando si coltiva l’uva a Katsunuma e nei suoi dintorni? La leggenda vuole che nell’VIII secolo d.C. un monaco buddista di alto rango, di passaggio nella zona, stava facendo meditazione su una roccia lungo il fiume Hi. Raggiunto il nirvana vide apparire il Yakushinyorai (il Budda guaritore) con un grappolo di uva nella mano destra. Commosso, il monaco insegnò ai paesani come coltivare l’uva, considerata all’epoca solo come medicinale. Da allora Katsunuma si è sviluppato come paese dedito alla viticoltura. Qui esiste un antico tempio buddista dedicato al Yakushinyorai, chiamato Daizenji, che ancora oggi conserva la scultura in legno del budda creata dal monaco. Da allora il vitigno Koshu è presente a Yamanashi ma bisogna precisare che fino a poco più di un secolo fa l’uva in Giappone veniva prodotta esclusivamente per il consumo a tavola. Infatti nel diario di un missionario portoghese giunto nel Sol Levante, troviamo le sue la mentele per la mancanza di vino e lo scarso entusiasmo per il sa ké. Nell’epoca Edo (1600-1867) Katsunuma era già famosa per la produzione di uva da tavola di alta qualità e Koshu era l’uva scelta dalla famiglia imperiale. La cultura della vinificazione è stata introdotta in Giappone nella seconda metà dell’Ottocento, quando il Paese finalmente si era aperto di nuovo al mondo occidentale dopo circa 200 anni di auto isolamento

internazionale, trasformandosi in una nazione moderna (la fine del tempo dei samurai e l’inizio della società capitalistica). Alcune persone vennero mandate all’estero per apprendere la tecnica e la cultura vinicola e in diverse zone del Paese si cominciò a produrre vino sia con l’uva da tavola di cui già disponevano, sia con quella importata dall’estero. Tuttavia i primi produttori giapponesi ebbero non poche difficoltà, a partire dal fatto che il vino non si diffondeva tanto facilmente tra le abitudini del popolo nipponico. Consideriamo che i giapponesi fino ad allora mangiavano principalmente pesce, verdura, riso e vari prodotti derivanti dalla soia, per nulla abituati ai cibi grassi come formaggi o carne, ai quali si abbina bene il vino. Inoltre avevano l’abitudine di bere il saké, una bevanda con leggera tendenza dolce assunta soprattutto come aperitivo insieme a qualche spuntino, piuttosto che in accompagnamento al pasto. Quindi c’era una totale inadeguatezza della cultura enogastronomica nei confronti del vino secco. In effetti il vino giapponese prodotto nei primi tempi era in maggior parte amabile o dolce, ottenuto con l’aggiunta di zucchero o di altre sostanze dolci. Tra l’altro i vitigni europei introdotti in Giappone a quel tempo, oltre che aver subìto l’attacco della filossera, non riuscirono ad attecchire molto bene, mentre quelli americani si erano ambientati in modo soddisfacente. Durante la Seconda guerra mondiale, il governo giapponese costrinse a trasformare numerosi frutteti del Paese in altre coltivazioni agricole per affrontare la carenza di viveri ma i vigneti di Yamanashi non furono oggetto di tale tragedia: dicono che per le componenti elettroniche delle armi segrete dei militari giapponesi, ci fosse bisogno di acido tartarico, contenuto nell’uva. Insomma, la vera cultura della vinificazione in Giappone cominciò a svilupparsi dopo la Seconda guerra mondiale, quando la società si occidentalizza in senso vero e proprio. 95


Mappamondo Koshu vitigno da vinificazione Da oltre mille anni, quindi, Koshu è stato coltivato e consumato in Giappone come uva da tavola ma in realtà, per nostra sorpresa, Koshu è di specie “vitis vinifera”: unico tra i vitigni autoctoni giapponesi. Non è ancora chiaro come possa aver raggiunto Yamanashi dall’Europa nel corso dei secoli. Si presume che abbia attraversato la Strada della Seta in Cina ma fino ad oggi non si conosce nessun vitigno parente di Koshu in Cina. I suoi acini sono piuttosto grossi e quando matura il grappolo prende un colore rosa grigio, proprio come il Pinot grigio. Koshu è un vitigno di maturazione tardiva: si vendemmia verso l’inizio di ottobre. Oggi il vitigno Koshu è principalmente utilizzato per la vinificazione. Tuttavia, la produzione del vino Koshu è ancora fortemente condizionato dall’abitudine di coltivare l’uva per il consumo da tavola. A Katsunuma, una cittadina di circa 90.000 abitanti, ci sono una trentina di produttori di vino ma la maggior parte di queste aziende non possiede vigneti propri sufficienti per poter sostenere tutta la produzione (fino al 1988 la legge giapponese vietava il possesso di campi per uso agricolo a una persona giuridica): hanno quindi bisogno di comprare le uve dai contadini locali. Ciò vuol dire che il novantanove per cento dei vigneti di Koshu è ancora a tendone, così come si utilizzavano nella coltivazione dell’uva da tavola. Sebbene le aziende invitino i contadini a diradare la resa, ancora

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oggi una pianta di Koshu distende mediamente i propri rami per un raggio di 5-10 metri e produce circa 800 grappoli! Naturalmente nel corso del tempo alcune aziende hanno cominciato a rinnovare i propri vigneti con la coltivazione guyot o a cordone speronato, mentre molti contadini non si sentono di fare questo cambiamento anche a causa del grande investimento iniziale che richiede. Basti pensare al fatto che in un ettaro di vigna coltivata a tendone si trovano circa ottanta piante, mentre il guyot o il cordone speronato ne richiedono circa 4.150. Per di più il prezzo all’ingrosso dell’uva da tavola è almeno tre volte più alto (per certe specie anche dieci volte) di quello dell’uva da vinificazione. Non pochi contadini scelgono di tagliare le piante di Koshu per coltivare uve più proficue. La coesistenza tra le aziende vitivinicole e i contadini locali è un tema cruciale per il futuro del Koshu in particolare a Katsunuma, proprio a causa della tradizione millenaria della produzione dell’uva da tavola. Koshu è un vitigno che fatica a sviluppare abbondanti zuccheri (il grado zuccherino arriva in media ai 1618 per cento) perciò i produttori hanno avuto sempre difficoltà nel creare un vino secco di qualità. In passato la tipologia più diffusa era abboccato e amabile. Il cambiamento è avvenuto nel 1983, quando una delle aziende vitivinicole principali a Katusnuma, la Mercian, ha introdotto il metodo “sur lie” per la vinificazione del Koshu, migliorandone notevolmente la qualità.


Per di più lo hanno reso pubblico in modo che anche altri produttori locali potessero utilizzarlo. È stato un gesto coraggioso e solidale: i dirigenti della Mercian erano consapevoli dell’esigenza di miglioramento collettivo del vino Koshu per la sopravvivenza dell’intero territorio. Nel calice il Koshu si presenta di colore giallo paglierino molto tenue con profumi fruttati (pompelmo, lime, pesca bianca), floreale (gelsomino), minerali (sfumatura di ghiaia) e una leggera nota di spezie (pepe bianco); mentre in bocca offre una piacevole freschezza in giusto equilibrio con la morbidezza, anche se la persistenza non è molto elevata. Grace Winery: «Siate pronti a fare kamikaze insieme a Koshu» Insieme alla Mercian, un’azienda dalle dimensioni di grande industria, a Katsunuma c’è un’altra cantina storica a gestione famigliare che ha un altrettanto importante ruolo di forza trainante per la crescita del vino Koshu: la Grace Winery. L’attuale titolare, Shigekazu Misawa (60 anni) ha rilevato la gestione dell’azienda da suo padre nel 1982. Ricordandosi dell’epoca, racconta: «Vent’anni fa la situazione era completamente diversa... Il mercato giapponese era schiacciato dai vini stranieri dal prezzo molto competitivo e a Katsunuma c’era una certa atmosfera di tristezza: molti si avvicinavano all’idea di abbandonare Koshu per passare ai vitigni internazionali come

Cabernet Sauvignon, Merlot e Chardonnay. Ma se si pensa al patrimonio del territorio e all’originalità, non ci rimaneva che il Koshu». Misawa, che allora faceva anche il presidente della Commissione della tutela del vino a Katsunuma, ha osato chiedere agli altri membri di essere pronti a «fare kamikaze insieme a Koshu». Da allora la lunga sfida per ridare dignità e vitalità a Katsunuma non si è mai fermata. «Con il boom internazionale della cucina giapponese e la tendenza culinaria sempre più leggera e sana, negli ultimi cinque anni finalmente la caratteristica piuttosto delicata e fine del Koshu comincia a essere riconosciuta e apprezzata». Una svolta particolare per la Grace Winery fu, nel 2004, la collaborazione con il professor Denis Dubourdieu dell’Università di Bordeaux, autorità mondiale del vino bianco. Misawa spiega: «La tendenza del mercato giapponese, che preferisce un vino strutturato, spingeva i produttori di Koshu a fare un vino di titolo alcolometrico volumico rinforzato (13-14 per cento) mediante l’aggiunta di zucchero e acido durante la vinificazione. Ma Dubourdieu ha creato un Koshu senza aggiunte, rivolgendo tutta l’attenzione a una prima materia di qualità. Siamo rimasti colpiti dal gusto opulento del suo vino naturale col titolo alcolometrico volumico di 9,9 per cento. Ci siamo resi conto che per produrre un vino ricco non basta aggiungere lo zucchero per alzare il grado alcolico». Oggi la Grace Winery produce circa 250.000 bottiglie all’anno, di cui due terzi sono le linee Koshu. Hanno

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Mappamondo

un vigneto di 0,6 ettari a Toriibira, cosiddetto “gran cru” di Katsunuma: 450 metri sul livello del mare, esposto a sud-ovest, terreno argilloso ciottoloso, con buon drenaggio, forte escursione termica, in cui il Koshu è coltivato a tendone con l’originale potatura di resa bassa ichimojitansho. La parola giapponese ichimojitansho contiene i concetti “uno” (più precisamente la forma grafica del numero “1”) e “ramo corto” e sta a indicare una potatura vicina al tradizionale “tendone” adattata alle esigenze di una migliore resa. In particolare vengono mantenuti due rami principali contrapposti (180º) che formano una linea retta (come un “1”) da cui partono rami secondari corti. Di recente la Grace Winery ha acquistato altri vigneti da dedicare alla coltivazione del Koshu per un totale di 3,6 ettari nella zona ovest di Yamanashi, Akeno: a 700 metri sul livello del mare, è la zona più soleggiata della regione. Qui hanno voluto, dopo qualche anno di prova, intraprendere seriamente la coltivazione del Koshu a cordone speronato (a partire da quest’anno). I contadini in contratto che forniscono l’uva alla Grace Winery sono circa 40, di cui 6 sono in stretta collaborazione di fiducia. Lo scorso aprile il vino Koshu di bandiera della Grace Winery, il “Grace Koshu”, è stato selezionato come vino ufficiale per la cerimonia del terzo anniversario di papato di Benedetto XVI presso l’ambasciata vaticana a Tokyo e successivamente è stato consegnato alla Santa Sede in onore del papa. 98

Una particolarità del lavoro instancabile dei giapponesi nei vigneti è che durante l’anno, per evitare che i grappoli si ammalino a causa della pioggia, verso l’inizio di luglio viene posta una sorta di ombrellino di carta cerata sopra ogni grappolo di uva. Verso il futuro Il Koshu, nato dalla collaborazione con il professor Dubourdieu, viene ora esportato in Inghilterra, anche se ancora in piccolissima quantità (480 bottiglie). Misawa auspica nel breve futuro una maggiore visibilità del Koshu nel mercato europeo: «Stiamo sviluppando un approfondito studio di mercato per identificare la migliore strategia di vendita. In tre anni vogliamo cominciare a sbarcare seriamente nel mercato europeo, a partire da quello britannico. Il Koshu è un vino bianco che si abbinerebbe molto bene alla cucina giapponese. Conquistare il riconoscimento all’estero servirebbe anche ai consumatori giapponesi per rivalorizzare i prodotti domestici». Il prezzo di una bottiglia del Koshu in Giappone varia da 10 a 20 euro circa, a seconda delle aziende e delle tipologie; non si può ancora sapere che prezzo assumerebbe questo vino, una volta importato in Europa. Possiamo ben sperare che il vino bianco autoctono nipponico sappia incuriosire e stupire piacevolmente i consumatori europei e che riesca a seguire il successo che il cibo giapponese sta godendo nei ultimi anni a livello mondiale.


Vernaccia di Serrapetrona

Il

vino

che piaceva

al

mercenario L Botti di Robbione con ''lu cantarì''

di Michela Lugli erre fertili, ricche di storia e tradizioni quelle delle colline marchigiane che hanno lasciato tracce antiche e profonde come i solchi che nei secoli hanno portato alla luce la loro fertilità. Si narra infatti, che già nel Medioevo un soldato mercenario originario della Polonia, esaltasse le straordinarie doti di un vino prodotto nella terra allora chiamata Borgiano. Trattavasi della Vernaccia di Serrapetrona, oggi legata indissolubilmente all’omonimo comune in provincia di Macerata. Poco più di mille abitanti, una Doc e una Docg sono la carta d’identità di un territorio collinare o montuoso racchiuso in trentasette chilometri quadrati, dove l’ulivo trova le sue migliori condizioni di sviluppo e la vite prospera. A Serrapetrona vanno cercate le ori-

T

gini del vitigno Vernaccia Nera, di cui nell’Annuario generale per la viticoltura e l’enologia del 1893, si legge essere «uno dei vitigni caratteristici della regione marchigiana, troppo disconosciuto dai nostri viticultori». Gli anni, più di cento, non hanno lavorato per diffondere questa produzione che continua, fortunatamente, a essere di nicchia ma lo studio e la dedizione dei produttori locali hanno sicuramente sortito l’effetto di aumentarne la fama, portando la conoscenza di questo vino su tutto il territorio nazionale e in parte anche estero. Unico spumante rosso a fregiarsi di una Docg, la Vernaccia di Serrapetrona serba innumerevoli sorprese a quanti, per la prima volta, rivolgano la propria attenzione a un vino ottenuto con lunghe procedure di fermentazione e appassimento

delle uve. Tra le sue particolarità, oltre a quella più evidente di essere uno spumante rosso, vi è quella relativa alle modalità di vinificazione. Il disciplinare Docg prevede infatti, che debbano essere utilizzate minimo l’85 per cento di uve Vernaccia Nera (il restante 15 può provenire da vitigni a bacca rossa ammessi alla coltivazione nella provincia di Macerata) e che almeno il 40 per cento del vino base da sottoporre a spumantizzazione provenga dalla fermentazione del mosto di uve appassite su graticci con grappoli legati a due a due (così almeno vuole la tradizione). A mosto e vinacce di uve passe raccolte a fine dicembre, verrà aggiunta la quota di vino ottenuta dalla normale vendemmia di ottobre; ripartirà quindi una seconda, lenta fermentazione che proseguirà per circa due 99


Vernaccia di Serrapetrona

mesi. A questo punto, dopo la fermentazione malolattica e la filtrazione, ha inizio il processo di spumantizzazione in autoclave secondo il metodo Charmat con fermentazione naturale. Tre quindi le fermentazioni necessarie affinché questo vino rosso spumantizzato acquisti il carattere morbido, sapido, caldo e il caratteristico retrogusto amarognolo associati a un colore rosso rubino più o meno intenso. Poco più di cinquanta gli ettari iscritti alla Docg, per altro ottenuta grazie alla tenacia dei produttori con che non si sono accontentati del riconoscimenti Doc avuto nel 1971, ricadenti in parte dei comuni di Belforte del

L Botti di Robbione con ''lu cantarì ''

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Chienti, San Severino Marche e, naturalmente, Serrapetrona. I produttori sono sette in tutto, tra loro, il giovane Paris Rocchi che con il padre Orlando e la sorella Silvia porta avanti l’omonima azienda di famiglia nata alla fine degli anni ‘70. «Siamo partiti con tre ettari di cui circa la metà di Vernaccia ma, trovandosi il vigneto nella zona di Caldarola, quindi fuori dalla Docg Serrapetrona, solo recentemente siamo riusciti a partire con la produzione Docg Vernaccia di Serrapetrona» racconta Paris, che oltre ad essere titolare è anche l’enologo dell’azienda. «Il vigneto è aumentato lentamente e oggi abbiamo 15 ettari di cui la

metà si trova a Caldarola, dove produciamo la Doc rossa Sòdére San Ginesio, la Vernaccia Nera San Ginesio dolce e ferma e Bréccètti, un Igt bianco. I restanti ettari, ricadenti nella zona della Vernaccia di Serra Petrona, impiantati nel 2003, sono la porzione di vigna più recente. Nel 2005 inoltre, abbiamo dovuto costruire una nuova cantina» spiega Paris, infatti, il disciplinare prevede che la vinificazione della Vernaccia avvenga nella zona di pertinenza. «L’anno scorso abbiamo fatto in totale circa mille quintali di uve, suddivise in 40mila bottiglie di Vernaccia di Serrapetrona Docg e 50mila di San Ginesio Doc». La fase cruciale dell’appassimento, l’azienda vitivinicola Rocchi, la fa in cassettine tipo amarone; circa 100 i quintali di produzione per ettaro di cui il 40 per cento minimo va in appassimento, il restante 60 per cento, come da disciplinare, va subito vinificato e, quando l’uva raggiunge i 13 gradi di alcol si può togliere e ammostare. «La vinificazione della porzione appassita avviene separatamente», prosegue Paris, «solo alla fine, prima di mettere tutto in autoclave, assembliamo le due masse». Qui il vino rimane per almeno otto mesi a temperatura controllata quindi, viene imbottigliato a seguito di microfiltrazione. «La pastorizzazione», aggiunge, «ne annullerebbe la freschezza». Affinato in bottiglia per un paio di mesi (a seguito del processo di microfiltrazione il vino subisce una sorta di stress), «viene commercializzato nel minor tempo possibile, così da mantenere la fragranza e gli aromi primari dell’uva e del vino» puntualizza Paris. «Si tratta di un vino difficile da produrre in quanto il disciplinare è complicato soprattutto per quanto riguarda la fase di appassimento. Il residuo zuccherino è di circa 60 grammi litro, quindi risulta abbastanza dolce con il tipico retrogusto leggermente amarognolo; la gradazione oscilla tra i 12,5 e i 13 gradi». In quanto al mercato, la Vernaccia di Serrapetrona dell’azienda Rocchi, ha una diffusione prevalentemente nazionale, «ma», dice Paris, «siamo sul mercato con questo vino da un anno e mezzo, quindi non siamo ancora a regime; il San Ginesio Doc, al contrario, lo produciamo da 30 anni e oltre alla


commercializzazione nazionale, lo esportiamo anche in Germania». Tra i principali rischi per il vigneto, Paris che tra l’altro è agronomo, annovera l’insorgenza di botrite nella fase di appassimento; si tratta di un vitigno tardivo con buona resistenza all’oidio e alla peronospora che però, per via del grappolo serrato, quindi poco arieggiato, soprattutto in caso di piogge a fine estate è molto sensibile alla botrite. Alla versione dolce (contenuto minimo di zucchero residuo 10 grammi litro), si affianca una versione secca non spumantizzata che si fregia del titolo di Doc e che va a pescare nella tradizione del vino un tempo prodotto dai contadini della zona con uve di Vernaccia Nera di Serrapetrona e che non prevedeva il processo di spumantizzazione, introdotto solo verso la metà del secolo scorso. Negli scritti storici, si parla della Vernaccia Nera di Serrapetrona come del miglior vitigno a bacca scura delle Marche adatto alla produzione di vini fermi. Federico Giotto, enologo della cantina Colli di Serrapetrona, la tradizione l’ha lungamente studiata e, aggiungendo iniziativa alle tecniche moderne, ha dato vita alla produzione di un vino molto vicino a quello originario. Cinque i figli del suo lavoro: il Robbione Doc, 100 per cento uve Vernaccia Nera di Serrapetrona, affinato per diciotto mesi in botti di rovere da 25 litri; il Collequanto Doc, 95 per cento Vernaccia Nera di Serrapetrona e 5 per cento Merlot; il Sommo Igt, 100 per cento Vernaccia Nera di Serrapetrona affinato otto mesi in barriques e due in bottiglia e due rosati, uno Igt, 100 per cento Vernaccia Nera di Serrapetrona, e uno spumante, metodo Charmat, 100 per cento Vernaccia Nera di Serrapetrona. Tra i vini della cantina, nata nel 2003 su iniziativa di Armando De Angelis e Alfiero Sabbatini, presidente il primo e vicepresidente il secondo, particolare menzione meritano i rossi Robbione e Sommo che, come per la Vernaccia Docg, prevedono l’impiego di uvaggi passiti. «Si tratta di una viticoltura piuttosto estrema in quanto siamo attaccati alle montagne e c’è una forte escursione termica tra giorno e notte. Si arriva fino a un’altitudine di 600 metri

L Silvia e Paris Rocchi nel punto vendita aziendale di Caldarola

sul livello del mare» dice Andrea Marchionni che qui lavora come cantiniere. «Robbione e Sommo sono i due vini ottenuti da uve passite e da uvaggi freschi. Il Robbione», spiega scrupolosamente Andrea, «subisce un appassimento di due mesi: raccogliamo ad ottobre e vinifichiamo a fine dicembre o primi di gennaio, a seconda del livello di appassimento dell’uva». L’appassimento è computerizzato e quando possibile sfrutta le condizioni di temperatura, umidità e vento naturali, quando queste non fossero ideali, deumidificatori e ventole entrano in funzione per un appassimento continuo dell’uva. Quindi, si effettua una vinificazione con macerazione delle bucce per circa dieci-quindici giorni. Padre del Robbione, tanto vicino all’amarone per procedimento di vinificazione (l’appassimento avviene in cassettine dal fondo coperto e non attaccando due grappoli a un tralcio come vuole la tradizione), è l’enologo Giotto, che ha importato nelle Marche l’esperienza fatta nelle cantine di Treviso e Verona. Si tratta di un vino secco con residuo zucche-

rino nullo, dotato di grande struttura e intensità, morbido ma con un’elevata componente tannica cui deve il nome: il Robbione è infatti una pianta molto presente in questa zona, un tempo utilizzata per estrarre il tannino con cui venivano tinte di rosso le pelli. L’invecchiamento (da 12 a 18 mesi) avviene in botti di rovere francesi grandi da venticinque ettolitri. Qui, dove il Robbione riposa, la temperatura e l’umidità sono ben controllate e “lu cantarì”, come viene chiamato in dialetto marchigiano, canta e borbotta come un anziano signore, a dirci che, appollaiato sopra la sua botte, sta prendendosi cura del prezioso nettare. Ma c’è un pegno da pagare per il gravoso lavoro e anche la botte vuole la sua parte: ogni settimana, a seconda che si tratti di botti nuove o usate, il tributo da pagare per dissetarla è di circa un litro nel primo caso e mezzo nel secondo. Perché, come si suol dire, la botte beve e allora non resta che imitarla e lasciarsi incantare dai sapori di queste terre marchigiane che tanto piacciono anche a botti e soldati mercenari.

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Vino e letteratura

Ode al di Katia Giarrusso

vino

er riuscire ad apprezzare correttamente un buon vino è necessario fare un passo indietro e conoscerne la provenienza, le origini e tutto ciò che vi ruota attorno, il territorio e l’annata, insomma la sua storia. Una storia che affonda le sue radici nel passato, in tempi in cui era addirittura considerato un dono divino fatto agli uomini e celebrato con feste, banchetti e poesie. E in effetti la poesia si è trovata a confrontarsi fin dai suoi albori con il vino, a partire dall’Epopea di Gilgamesh, poema scritto nel XII secolo a.C., durante il regno di Nabucodonosor I. Qui il vino ricopre un ruolo essenzialmente liturgico e fa la sua comparsa durante riti e cerimonie importanti. Ancora nei versi dell’Iliade e dell’Odissea il vino resta un “personaggio” fondamentale. Ma è tra il VII e il VI secolo che il prezioso nettare trova la sua sede d’elezione in Grecia. Il dio greco Dioniso da sempre rispecchia il protettore della vite e a lui furono dedicate diverse feste religiose, tra cui le Oscoforie, che si tenevano ad Atene il 7 ottobre come ringraziamento per il buon raccolto dell’uva e delle olive. Si narra che mentre cercava riposo nella grotta delle Ninfe ricoperta di vite, il dio cominciò a giocare con i grappoli d’uva e, spremendone alcuni in un calice, scoprì il gusto unico di quel liquido rossastro e così tutti intorno a lui, ninfe e satiri, cominciarono a bere quella delizia. Consapevole della straordinarietà della sua scoperta, si recò dagli dei e dagli umani per offrirne loro un assaggio. Dioniso divenne così dio del vino a tal punto che i greci spesso indicarono la bevanda con il suo nome e venerarono entrambi come essenze divine, in un’unione indissolubile. Nacque così il simposio, un appuntamento in cui era possibile bere in compagnia, condividere momenti gioviali, scambiare considerazioni e pensieri tra com-

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mensali su argomenti di vario genere. Un vero e proprio rituale, dove il cibo era bandito, insomma, una ubriacatura autorizzata, dove i poeti facevano fluire pensieri e componevano, con entusiasmo dionisiaco, i loro famosi versi. Lo stesso Platone (427 a.C.-347 a.C.), che al simposio ha dedicato uno dei suoi dialoghi, si esprime sostenendo che in quella circostanza era possibile conoscere realmente i pensieri altrui; in questo modo egli attribuisce al simposio un valore pedagogico poiché le imperfezioni della natura intellettuale e morale dei partecipanti venivano messe in luce e vi era così la possibilità di correggerle. Questa visione platonica del simposio coincide con quella che sarà poi anche di Orazio (65 a.C.-8 a.C.), espressa in sintesi con la sua celebre citazione “In vino veritas”, che vede il vino e la verità come uno parte imprescindibile dall’altra. Con il tempo il simposio divenne un momento impor-

Il cratere di Euphronios, vaso attico a figure rosse, datato intorno al 510 a.C.


Dioniso, raffigurato su un vaso greco, con una brocca (kantharos) colma di vino e simbolo dell'ebbrezza

M Dioniso

tante nella vita collettiva greca poiché univa la dimensione sacra a quella sociale, grazie anche ai riti sacrificali che avevano luogo prima che il banchetto avesse inizio. Durante le guerre e le conquiste, il vino rappresentava inoltre il legame con la madrepatria e il segno della propria civiltà sul territorio invaso. “Chi usa vino è civile, chi non ne beve è barbaro” erano infatti soliti sostenere i greci, riferendosi ai popoli non colonizzati e per tanto non ritenuti civilizzati che facevano invece uso di birra. Essendo un dono divino però il suo consumo era soggetto ad alcune regole. Sappiamo che il bere in compagnia era una di queste ma un’altra buona norma era quella di diluirlo con acqua perché puro era ritenuto distruttivo per il corpo. Nelle Leggi (773 C-D) Platone dichiara: “La popolazione di uno stato deve essere mescolata come il vino nella coppa, il quale appena versato ferve e spumeggia ma se viene temperato da un altro dio sobrio… dà corpo a una bevanda salutare e moderata”. Sulla tavola venivano disposte perciò brocche, misurini e un grande recipiente, il cratere, per la mistura. Le proporzioni predilette dai greci erano di tre porzioni di acqua e una di vino oppure di due porzioni di acqua e una di vino, come ci ricorda Alceo (630 a.C.) in uno dei suoi Frammenti. “Beviamo, perché aspettare le lucerne? Breve il tempo. / O amato fanciullo, prendi le grandi coppe variopinte, / perché il figlio di Zeus e di Sèmele / diede agli uomini il vino / per dimenticare i dolori. / Versa due parti d’acqua e una di vino; / e colma le coppe fino all’orlo: / e l’una segua subito l’altra”. Pratica poco apprezzata invece dal poeta latino Catullo (84-54 a.C.) che nelle sue liriche scriveva: “Coppiere che viene col vecchio Falerno versami calici più amari… E tu, via, dove vuoi vattene, acqua rovina del vino; con gli astemi va a stare. Questo è puro Bacco”. Le decisioni di come diluire e di come organizzare l’intero rito erano affidate al simposiarca, una figura scelta di volta in volta dagli stessi commensali.

La più dettagliata descrizione del simposio è certamente quella rappresentata da Senofane (570 a.C.- 475 a.C.) in una delle sue Elegie: “Il pavimento lustra: mani, tazze pulite. / Uno ci pone in capo le ghirlande, / un altro tende fiale di balsamo. / Il cratere troneggia, pieno di serenità. / Altro vino promette di non tradirci mai: / è in serbo nei boccali, sa di fiore. / L’incenso spira tutt’intorno una fragranza / di tempio, è chiara, fresca e dolce l’acqua. / Ha ciascuno il suo pane biondo: / la salda mensa è carica di cacio e miele denso. / C’è nel mezzo l’altare coperto di fiori, / la casa è avvolta di festa e di musica”. Nonostante l’invito alla moderazione, erano frequenti gli eccessi che portavano poi a sbornie e a zuffe; lo stesso Dioniso, come riportato in una commedia di Eubolo, poeta ateniese del IV secolo a.C., raccomandava: “Tre coppe di vino e non di più, miscelo per i bevitori assennati. La prima ad essere svuotata è per la salute, la seconda risveglia l’amore e il piacere, la terza invita al sonno. Bevuta questa, chi vuol essere saggio, se ne torna a casa. La quarta non è più per me, ma per l’eccesso, la quinta urla, sei significa ormai schiamazzi, sette occhi pesti, otto arriva lo sbirro, nove sale la bile, dieci si è perso il senno, si cade a terra privi di sensi. Il vino versato troppo spesso in una piccola coppa taglia le gambe al bevitore”. Gli effetti violenti e rissosi che erano soliti manifestarsi in queste riunioni collettive, ci fanno supporre che il vino di un tempo contenesse una forte gradazione alcolica. Il poeta latino Catone nel suo De agri cultura (160 a.C.) racconta che il vino greco spesso era ottenuto mescolando al mosto una quantità di acqua marina: si diceva che questa ricetta producesse benefici fisici quali l’attivazione dei succhi gastrici e l’aiuto alla digestione. Dunque ogni qualvolta si degusta un vino, è bene ricordare che stiamo per rendere omaggio alla tradizione e assaporiamo un pezzo di storia ed è forse proprio questo il retrogusto amabile che rimane in bocca. Perché il vino è poesia e la poesia è vino. 103


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G&G Gattinara e Ghemme: degustazioni Docg La delegazione provinciale dell’Associazione italiana sommelier del Verbano-Cusio-Ossola (http://www.aisvco.it/homepage.htm) organizza, in collaborazione con il Consorzio Tutela Nebbioli Alto Piemonte, per la giornata del 28 febbraio 2010, la prima manifestazione a carattere nazionale dedicata alla presentazione e degustazione dei vini delle due Docg Gattinara e Ghemme, due perle della produzione agricola dell’Alto Piemonte, che si affaccia sull’area dei laghi Maggiore e Orta, sinonimo di un turismo di alta qualità. Un incontro tra vino e turismo per la promozione di un territorio da sempre conosciuto nel mondo per la sua accoglienza e di due vini di antica produzione, altrettanto apprezzati in tutto il mondo. Per questo incontro tra due vini di eccellenza, che si terrà dalle 15 alle 20,30, è stata scelta la

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sede prestigiosa del Grand Hotel Des Iles Borromées, a Stresa, dove un folto gruppo di produttori avrà il piacere di offrire in degustazione ai visitatori una selezione delle due Docg dell’Alto Piemonte. Tre esperti moderati dal vicepresidente Ais Piemonte affronteranno, in un incontro aperto al pubblico, un tema da tempo dibattuto: “Gattinara e Ghemme unicità del territorio, con una produzione di vini lontani da mode e tendenze: un’occasione persa o un’opportunità?”. Un enologo e un noto giornalista del settore, condurranno inoltre una degustazione orizzontale per far conoscere un’annata speciale a un numero ristretto di esperti e appassionati. In uno spazio apposito una delegazione di produttori del Verbano-Cusio-Ossola permetterà ai visitatori di assaggiare una selezione di salumi, formaggi e prodotti tipici di alta qualità. (F. Z.)


IL PROGRAMMA DETTAGLIATO Area espositiva produttori G&G – sala Camelie – con la presenza delle aziende 14,00 - 15,00 registrazione e apertura riservata alla stampa 15,00 - 20,30 registrazione e apertura al pubblico Area espositiva aziende agricole del VerbanoCusio-Ossola – sala Gritti 14,30 - 20,30 apertura al pubblico Area Incontri e dibattiti – sala Banchetti 15,00 - 16,00 dibattito sui Nebbiolo dell’Alto Piemonte. Tema: “L’Unicità del territorio, l’integrità dei suoi vini, lontani da mode e tendenze: un’occasione persa o un’opportunità? G&G (Gattinara e Ghemme) antidoto all’omologazione?”. Conduttori: Emilio Bellossi, delegato Ais del VCO; Otello Facchini, vicepresidente Ais Piemonte; Filippo Parmigiani, enologo e produttore; Franco Ziliani, giornalista e degustatore. 16,30 - 17,30 degustazione guidata di Gattinara e Ghemme Docg 1999. Costo ingresso, comprensivo di bicchiere e tasca porta bicchiere € 10,00 soci Ais, € 12,00 non soci Posti disponibili 40. Costo degustazione guidata € 30,00 soci Ais, € 35,00 non soci. All’ingresso verrà consegnata la guida della manifestazione con l’elenco delle aziende e dei vini presenti in esposizione oltre a una scheda di registrazione che permetterà di eleggere il vino G&G 2010. Nei giorni successivi alla manifestazione, verrà proclamato il vino G&G 2010 e sarà estratta tra tutti i votanti una scheda di registrazione che si aggiudicherà un doppio magnum del vino vincitore. Il premio al vino G&G 2010 e il doppio magnum verranno consegnati lunedì 29 marzo, in occasione della cena del G&G, durante la quale saranno esposti i risultati della manifestazione 2010 e presentata l’edizione del 2011. Per informazioni e prenotazioni: Emilio 340.7191650 – Paolo 348.3135827 – segreteria@aisvco.it


Pillole Davide Staffa premiato del presidente Ais Umbria Gabriele Ricci Alunni

A Montefalco il Gran Premio del Sagrantino 2009 Emozionante la terza edizione del Gran Premio del Sagrantino, appuntamento enologico annuale realizzato in collaborazione tra il Consorzio Tutela Vini Montefalco e l’Associazione italiana sommelier. A sfidarsi quindici professionisti Ais provenienti da tutta Italia. I sommelier candidati hanno affrontato due prove consistenti in una degustazione descrittiva di tre vini con riconoscimento e punteggio, seguita dalla correzione di una carta di vini composta da etichette del comprensorio. A esibirsi sul palco del Teatro San Filippo Neri sono stati i tre finalisti, che hanno concluso con la terza e ultima prova di decantazione e servizio. La giuria del Gran Premio del Sagrantino, formata dal presidente Ais Umbria, Gabriele Ricci Alunni, dai consiglieri nazionali Romeo Mancini e Roberto Gardini e da Patrizia Crociani, presidente del Consorzio di Tutela Vini Montefalco, ha premiato i primi tre classificati con un riconoscimento rispettivamente di 2000 euro al primo, 1000 al secondo e 500 al terzo classificato. Davide Staffa, Maurizio Zanolla e Roberto Anesi sono saliti sul podio di questa edizione e sono stati dichiarati “Esperti sommelier del Sagrantino di Montefalco�.


Una vita per lo Champagne Un libro sullo Champagne. “Ancora!” verrebbe da esclamare. Poi una sorpresa: è un libro diverso. È un racconto che si snoda attorno alla personalità e all’esperienza dell’autore, narra il suo viaggio emozionale, culturale e professionale dentro il mondo dello Champagne: un’odissea enologica lunga trenta anni. I capitoli scorrono e si alternano tra la narrazione della storia dello Champagne, piuttosto che dell’evoluzione del gusto di questo vino attraverso 350 anni di vita. Nel capitolo dedicato alle uve usate per comporre le cuvée, ben evidente è lo sforzo colturale dei vignerons per forgiare una qualità aristocratica. Molto efficace è il capitolo dell’assemblage champenoise, dove il lettore può acquisire informazioni decisive per comprendere quale qualità attendersi dalle oltre 45mila tipologie di Champagne annualmente prodotte. Il capitolo della tecnica della degustazione mette in evidenza il differente criterio descrittivo e di indagine da impiegare per raccontarsi e raccontare un vino, in cui la presenza e la sostanza delle bollicine ne determina il livello di gradevolezza, disegnando arabescate eccellenze oppure offuscanti mediocrità. Infine l’abbinamento cibo-Champagne. Scopriamo ancora una volta – ammesso che ce ne fosse bisogno, e quindi diventa un’ulteriore conferma – la versatilità d’uso di questo vino. Si passa dalle alleanze privilegiate e di tradizione come fegato d’oca e Champagne demi-sec, all’impiego con la pizza, con la pasta, con la carne bianca e rossa, con i formaggi e i dessert. La lettura produrrà un cambiamento nell’uso dello Champagne, certi dettagli prima tralasciati diventeranno cardini di qualità, alcune consolidate certezze saranno tralasciate ma alla fine varrà sempre l’incancellabile motto: lo Champagne che più vi piace è sicuramente il migliore. Autore di Champagne e Champagnes (Bibenda Editore – Roma) è Roberto Bellini, che mette a frutto un’esperienza trentennale nel modo del vino e dello Champagne, passando attraverso i corsi per sommelier Ais in Italia e all’estero, e si concretizza con il titolo di “ambassadeur du Champagne” nel 2005 e nella creazione della École de Champagne. Il brindisi al libro è doveroso, gli auguri all’autore una ritualità, l’invito alla lettura un caldeggiato suggerimento. 107


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Il vino è salute Al Med Centro Congressi di Capri si è tenuto il convegno “Vino e Salute, Vino è Salute, Vino? Salute!” sugli aspetti patologici, benefici e ludico del vino, un incontro fortemente voluto dal presidente Ais Campania, Antonio Del Franco, e dal presidente nazionale Ais, Terenzio Medri, per dimostrare quanto un giusto e consapevole consumo di vino non arrechi danno alla salute, propria e di terzi. In un momento in cui parlare di tassi alcolemici e di etilometri è sempre più di attualità, in un mercato invaso dal consumo di mix di bevande alcoliche e di superalcolici, illustri ospiti del mondo del vino e delle istituzioni hanno ragionato su quanto un moderato consumo di vino sia importante e ne apporti anzi beneficio. Dagli interventi di Adriana Monzo, psicoterapeuta e componente gruppo lavoro Dieta Mediterranea della Fondazione “Alberto Fidanza” di Roma e referente dell’associazione “Farmagourmet” di Salerno, di Roberto Sgalla, direttore del Servizio di polizia stradale, di Lucio Mastroberardino, vicepresidente Unione Italiana Vini, e dalle conclusioni di Terenzio Medri, moderati da Luciano Pignataro, giornalista de «Il Mattino» ed esperto enogastronomo, autore di guide di settore, emerge che il vino fa bene, non

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solo, ma che aiuta alla socialità e alla cultura. Ma cosa incide sulla salute psicofisica e sull’andamento regolare alla guida di un’automobile dopo i consentiti due bicchieri per non superare la soglia dello 0,5 ammesso dalla legge? Bisogna distinguere anzitutto che il vino è un alimento che dà il giusto complemento a un pasto equilibrato e viene assorbito dall’organismo in misura fisiologica, mentre alcolici e superalcolici incidono sullo stato di ebbrezza alla guida di un autoveicolo e il test dell’etilometro effettuato in sala, poi risultato negativo, ha ottenuto la concentrazione dei presenti. Un adulto responsabile sa moderare e gestire la quantità di alcol e anche smettere, se è il caso, prima di mettersi su strada. Ma per i giovani è diverso. Da qui, dunque, un’educazione e la diffusione di una cultura che sappia sensibilizzare e coinvolgere anche il mondo giovanile. Un progetto da attuare in collaborazione con la pubblica sicurezza è quanto è emerso a chiusura della giornata di lavori. Inoltre un’attenzione particolare va data al mercato di un comparto trainante per l’economia italiana, quale quello del vino, e la figura del professionista di settore nella divulgazione e nella conoscenza del sistema vino assume una centralità fondamentale. Non demonizzare, quindi, una bevanda che fin dall’antichità ha la sua letteratura ma capovolgere la questione e formare una ragionata consapevolezza. Nel pomeriggio, al Capri Palace Hotel di Anacapri, un laboratorio di degustazione sui vini delle isole di Capri, Ponza, Ischia e Pantelleria, e incentrato sulla viticultura delle piccole isole mediterranee, spesso eroica per le sue difficoltà di coltivazione, è stato guidato dalla campionessa nazionale Nicoletta Gargiulo e dai campioni regionali Angelo Di Costanzo e Salvatore Correale, fiore all’occhiello di una Campania felix che sa bere e promuovere le eccellenze del proprio territorio. (Michela Guadagno)


Il premio Villa Sandi punta sui giovani Si confermano creatività, professionalità e spirito di iniziativa i requisiti per selezionare i giovani sommelier che da nove anni il premio internazionale “Innovazione nella professione”, voluto da Villa Sandi di Crocetta del Montello, nel Trevigiano, insieme all’Associazione italiana sommelier, riconosce, innalzandoli nell’Olimpo dei professionisti del settore. Anche quest’anno il prestigioso appuntamento è andato in scena nella villa seicentesca, sede della casa vinicola di Giancarlo Moretti Polegato. Un’edizione dal sapore decisamente internazionale: dallo scorso anno, infatti, il premio va oltre confine e viene esteso ai sommelier under 29 che lavorano all’estero e sono quindi i portavoce per eccellenza del vino italiano nel mondo. Tre le borse di studio assegnate a Riccardo Sgarra, capo sommelier alla “Locanda nel Borgo Antico” a Barolo, nel Cuneese, al padovano Daniel Marzotto, assistant manager head sommelier all’ “Osteria dell’Angolo” di Londra e a Diego Meraviglia, assistant wine director del ristorante “Il Moro” di Los Angeles. Londra e Los Angeles, dunque, emblema di due fra i più importanti mercati per l’export dei vini italiani, assieme a Inghilterra e Stati Uniti. Preziose le indicazioni fornite dai sommelier sulla loro esperienza in queste due grandi metropoli: sia Marzotto che Meraviglia hanno confermato il momento felice per il prosecco che continua a crescere e a riscuotere consensi da un mercato sempre più ampio. Su giovani come loro occorre dunque puntare, a parere della giuria che li ha voluti premiare. Ne hanno fatto parte Giancarlo Moretti Polegato, presidente di Villa Sandi; Terenzio Medri, presidente dell’Associazione italiana sommelier; Nicola Dante Basile, giornalista de «Il Sole 24 ore», esperto di agroalimentare; Alberto Schieppati, direttore di «Food and Beverage»; Paolo Pirovano, giornalista televisivo, collaboratore della rivista dell’Ais «DeVinis»; Mauro Remondino, giornalista del «Corriere della Sera»; Bruno Gambacorta di «Eat Parade-Rai 2». I giurati si sono espressi in una serata di grande atmosfera, impreziosita dall’esecuzione delle più importanti arie di Maria Callas e dalla degustazione di un menù con piatti ispirati ai sapori della Grecia, curato dall’Hotel Terme di Vittorio Veneto e accompagnato da ottimi vini. Protagonista della serata, Opere Trevigiane, lo spumante metodo classico di Villa Sandi, insieme al Cartizze Vigna La Rivetta, nastro d’oro al concorso nazionale spumanti d’Italia del forum spumanti. (Luisa Barbieri)

Diego Meraviglia, Daniel Marzotto e Riccardo Sgarra premiati da Terenzio Medri e da Giancarlo Moretti Polegato

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Cento cantine per riscoprire la Mitteleuropa Un’unica location, tre manifestazioni. Dall’1 al 3 marzo 2010, presso il Molino Stucky Hilton Venice a Venezia si terrà Gusto in Scena, appuntamento ideato da Marcello Coronini per proporre tre eventi in uno: “Chef in Concerto”, congresso gastronomico, “Seduzioni di Gola”, selezione di prodotti gastronomici di tutta Italia, e “I Magnifici Vini”, rassegna di cento cantine italiane, austriache e slovene. Proprio “I Magnifici Vini” si rivolgerà anzitutto ai sommelier di tutta Italia. In degustazione vi saranno circa 400 vini presentati dalle aziende, disposte secondo la classificazione mare, montagna, pianura e collina. Studiato da Marcello Coronini con il contributo scientifico del professor Attilio Scienza, tale ordine permetterà di capire, durante la degustazione, come un diverso ambiente influenzi il vino e quanto le differenze derivino dalla storia e dalla tradizione di quel luogo. Un aspetto che assume quindi una valenza culturale oltre che geografica. L’Italia, infatti, non presenta un solo mare o una sola montagna ma molti ambienti diversi, frutto di secoli di lavoro e della fatica degli abitanti del posto. Seguendo questa disposizione, si potranno degustare i vini di Italia, Austria e Slovenia, Paesi che, idealmente, faranno rivivere lo spirito della Mitteleuropa. Si terranno poi le degustazioni “speciali”. Fra tutte, segnaliamo due spettacolari verticali: una di Grüner Veltliner e Riesling austriaci dagli Anni ‘50 ad oggi, la seconda “dedicata all’Italia”, che vedrà protagonista il Pinot Bianco della Cantina di Terlano a partire dall’annata 1954. Con esse si dimostrerà che i grandi bianchi hanno una longevità pari ai grandi rossi. La presenza dei vini non sarà però limitata al banco d’assaggio. L’evento Gusto in Scena, infatti, è stato ideato per creare un dialogo fra due mondi strettamente dipendenti fra loro, che difficilmente si incontrano: quello dei produttori di vino e quello dei ristoratori. Nell’edizione 2010 ci sarà quindi una stretta relazione fra il congresso gastronomico “Chef in Concerto”, cui prenderanno parte chef stellati di tutta Europa, e “I Magnifici Vini”. Durante il congresso, ogni intervento degli chef relatori sarà affiancato alla presentazione di due vini delle aziende presenti al banco d’assaggio. Ognuno potrà poi valutare se l’abbinamento è centrato. Non mancherà il dibattito, anche perché “Chef in Concerto” farà confrontare chef relatori e platea su un tema originale: trovare una definizione alla cucina italiana, che ancora manca. Se la francese è la cucina che ha codificato le basi delle cucine europee, la spagnola è creatività e sostanze innovative, quella italiana come può essere definita? Questo sarà il quesito. A Gusto in Scena tutti i grandi cuochi presenti saranno invitati a dare la propria risposta. Obiettivo? Uscire dal congresso con una definizione della nostra identità in cucina. Per informazioni: www.gustoinscena.it - segreteria@gustoinscena.it - Tel. 02. 29404086 110


Libri

SULLO SCAFFALE AUTOCTONO SI NASCE A cura di: Francesco Falcone Editore: Go Wine Editore Prezzo: 12,00 euro

di Natalia Franchi

I PROFILI DEL VINO Alla scoperta dell’analisi sensoriale Autore: Mario Ubigli Editore: Edagricole Il Sole 24 Ore Business Media Prezzo: 23,00 euro

Un viaggio dal nord al sud dell’Italia con 100 vitigni segnalati e oltre 270 vini offerti alla conoscenza di appassionati e aspiranti tali. Strumento prezioso, questa guida, per quanti vogliano stupire i commensali citando terroir poco noti ma di pregio (inclusi nella guida al pari dei più rinomati) o, più semplicemente, desiderino addentrarsi con il piede giusto nell’universo generoso del vino, le cui radici affondano nelle origini della civiltà dell’uomo. Un assunto molto chiaro all’autore del volume, Francesco Falcone, giovane degustatore e giornalista il cui cognome e le cui origini pugliesi evocano la fiamma indomita di un certo sud: orgoglioso e votato con puntiglio alle grandi cause. La guida muove dall’intento fondante l’Associazione Go Wine, che la edita: valorizzare il patrimonio ampelografico del Paese, rispettare i vini di terroir, celebrare il tema/valore del viaggio e favorire la conoscenza di piccoli coraggiosi produttori estranei alle logiche del business massificato. Falcone specifica che la selezione dei vitigni e dei vini è stata subordinata a tre fondamentali condizioni. La prima, che la varietà fosse vinificata in purezza. In secondo luogo che il vitigno/vino in questione fosse facilmente reperibile sul mercato, per evitare di disorientare il consumatore e consentirgli una prova sul campo. In ultimo, l’assaggio diretto, che ha precluso l’inserimento nella guida di vini meritevoli ma non “testati” e dunque comprensibilmente esclusi. Ad ogni vitigno sono dedicate due pagine, con una grafica pulita che facilita la lettura: un completo repertorio delle sue caratteristiche con una ampia serie di dati di carattere divulgativo e conoscitivo (i sinonimi presunti e le altre grafie, la principale area di coltivazione e le principali denominazioni in cui è protagonista, il suo profilo in campagna, nel bicchiere e al ristorante) e, a fianco, una selezione di vini, accompagnati dall’immagine dell’etichetta, che maggiormente esprimono, secondo l’autore, le qualità e le caratteristiche del vitigno medesimo (il primo anno di produzione, l’altitudine del vigneto e la tipologia del terreno, la forma di allevamento e il tipo di viticoltura, il periodo di raccolta e la maturazione, le bottiglie prodotte e il prezzo in enoteca).

A dieci anni dalla prima edizione del volume, eccone la terza, arricchita di due interessanti capitoli. Ne scrive nella prefazione, non senza orgoglio (dovuto anche all’assegnazione alla prima edizione del Prix OIV – Organisation Internazional de la Vigne et du Vin di Parigi), l’autore Mario Ubigli, enologo di lungo corso e, dal 2003, direttore incaricato del Cra (Centro di ricerca per l’enologia) di Asti. Alla scientifica e precisa trattazione di come, dove, quando e addirittura con chi debba avvenire l’assaggio del vino e la relativa analisi sensoriale, Ubigli aggiunge a questa edizione, comunque aggiornata nei capitoli già esistenti, il doveroso inserimento di quanto, ormai alla base di un vivace dibattito internazionale ricco di risvolti tecnici, è diventato un problema – quello che noi Italiani chiamiamo gusto di tappo – assurto ad aspetto da valutarsi e da includersi a pieno titolo nell’analisi sensoriale del vino. Seconda new entry, l’assaggio dell’uva di vino, prassi empirica ormai divenuta metodo ma attorno alla cui imperfezione ancora resta molto da fare. Colori, odori, gusti e sapori del vino vengono passati in rassegna con una puntigliosità e un trasporto che solo una grande passione rendono possibile, quella per l’universo del vino, condivisa dai lettori di DeVinis. Il capitolo dedicato ai gusti del tappo esordisce con il chiarimento di un’inesattezza: quello di tappo non è un odore, bensì un sapore. Quello della muffa che trova nel tappo il substrato preferito. Un sapore che possiamo trovare anche in vini che il tappo non l’hanno mai visto. Sottoposto a numerosi controlli di qualità, il tappo sano differisce da vino a vino e non è inerte, contribuendo all’insieme delle caratteristiche di un vino imbottigliato, conferendo allo stesso sostanze volatili che partecipano alla complessità aromatica del prodotto. In buona sostanza, il sapore di tappo, non è un difetto nell’economia della bontà di un vino, ma una caratteristica da analizzare e “gestire”. Il capitolo dedicato all’assaggio dell’uva pone in rilievo le difficoltà di una identificazione standardizzata di uve sane, idonee a conseguire buone produzioni di vino. Appare infatti difficile evidenziare i complessi meccanismi che mettono in relazione alcune caratteristiche fisiche dell’uva con la qualità del vino ottenuto. Al lettore del volume, la scoperta dei metodi più efficaci per affinare la tecnica.

Vernaccia e Schioppettino senza veli.

Anche per le volpi, l’uva ha smesso di essere verde.

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SCENARI DI MARKETING DEL VINO Una prospettiva al femminile A cura di: Andrea Rea Editore: Franco Angeli Prezzo: 25,00 euro

Non è un caso se la collana Fine Food & Beverage di cui il presente volume fa parte, assegni all’universo femminile quella prospettiva di cambiamento che i più recenti studi sociologici vedono nell’operato delle donne. Una capacità che emerge sempre più chiaramente nel contesto globalizzato dell’economia mondiale: affollamento dei mercati, continuo progresso delle tecnologie e delle opportunità di comunicazione, richiedono non solo abilità competitive, ma la creatività e il senso pratico che le donne hanno saputo dimostrare nei secoli. E dal momento che globalizzazione – come potrebbe sembrare – non è sinonimo di omologazione, bensì di confronto tra saperi diversi e complessità, ecco emergere il reale valore aggiunto del sesso femminile, che lungi dal reclamare a gran voce una uguaglianza di genere (ci accontenteremmo di una uguaglianza di diritti) fa della tutela e dello sviluppo della propria diversità la chiave per promuovere interazioni costruttive e innovative. Anche i mercati del vino sono entrati in una fase nuova ad alta competitività, che prelude a una maggiore esigenza e professionalità di marketing. Un marketing che diviene protagonista nel ricercare e realizzare l’intesa tra impresa e consumatore. Le “Donne del Vino”, questo il nome dell’associazione che le raggruppa, nonché protagoniste dell’indagine di queste pagine, offrono un osservatorio privilegiato per le esperienze e le sfide di cui si racconta e di cui si sono rese protagoniste. Offrono anche un grande esempio di come professionalità diverse – imprenditrici, enotecarie, sommelier, giornaliste – trovino in una insopprimibile passione la base comune per portare avanti quanto sta loro a cuore.

GIANNI MASCIARELLI Un vignaiolo a modo suo Autore: Andrea Gabbrielli Editore: Veronelli Editore Prezzo: 17,00 euro Non poteva immaginare l’autore, scrivendo questo libro, quale tragedia si sarebbe abbattuta nell’aprile 2009 su quella terra – l’Abruzzo – che ha dati i natali al protagonista della presente biografia: il vignaiolo Gianni Masciarelli di San Martino sulla Marrucina, piccolo borgo di un migliaio di anime, incastonato tra i monti della Majella e il mare Adriatico, a venti chilometri da Chieti. Un terremoto devastante che ha tristemente consentito agli Italiani di conoscere il sentimento di dignità insito nelle genti d’Abruzzo. Un sentimento che nel 1963 fa scrivere all’abruzzese Raffaele Mattioli, allora Presidente della Banca Commerciale Italiana, in una lettera all’ingegner Longo (allora Presidente della Banca Nazionale del Lavoro): “Conosco troppo bene la gente della mia terra, e so quanto è ritrosa di fronte alle manifestazioni ufficiali, quanto scettica dei complimenti di maniera (…) Anche la serenità di fronte agli eventi, anche la riduzione dei sommi problemi all’apologo, è un tratto distintivo della fisionomia della mia terra”. Lo stesso spirito di Gianni Masciarelli, classe 1956, che ha saputo inventare il mondo vinicolo abruzzese, riscattando trebbiano e montepulciano d’Abruzzo, vissuti dai più con sufficienza, per diventare a pieno titolo tra i pochi e noti viticultori (insieme a Caprai) a varcare i confini nazionali. Il volume è una raccolta godibilissima di contributi e tributi alla pervicacia di Masciarelli che, in poche righe, spiega con disarmante semplicità: “Io faccio sempre l’esempio di chi ama veramente i cavalli, cioè di chi ama iniziare un rapporto con l’animale quando non è ancora abituato alla sella. Per me con il vino è la stessa cosa e anch’io voglio partire dall’inizio perché provo le stesse emozioni: voglio partire dal chicco d’uva che poi si trasforma e diventa mosto per poi proseguire sino ai vinificatori in legno di rovere e poi alla barrique”. Passione come polvere da sparo.

Il marketing si tinge di rosa.

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Io non ci sto

Macché 0,5: il Corsera chiede zero vino per chi guida di Franco Ziliani ormai diventato un assalto alla diligenza, un po’ scomposto, spesso manicheo, anche se dettato da nobili intenti, ovvero cercare di ridurre il numero di vittime, soprattutto giovani, di incidenti stradali, le cosiddette “stragi del sabato sera”, che a dire il vero si verificano purtroppo anche in altri giorni della settimana, quello che il vino, in Italia, come pure in un altro Paese storico produttore come la Francia, sta subendo. Veicolato non solo da uomini politici consapevoli di contare su un tema sentito e popolare (come si fa a opporsi a chi dice di voler ridurre il numero dei morti sulle strade?) e che non esitano a cavalcare la tigre della demagogia a un tanto al chilo, ma anche da medici che dimenticano come tonnellate di studi realizzati da loro colleghi in tutto il mondo attestino come un moderato e consapevole consumo di vino faccia innegabilmente del bene alla salute delle persone adulte, passa insidiosamente il pensiero che, insomma, il vino sia pericoloso. Che siano anche Barbera, Bardolino, Lambrusco, Chianti, Frascati, Montepulciano d’Abruzzo, Nero d’Avola, il loro consumo, anzi, un uso e abuso, alla base degli incidenti stradali che rendono i notiziari dei telegiornali altrettanti bollettini di guerra. Questo anche se resta totalmente da dimostrare che il prodotto caro a Bacco sia effettivamente causa dello stato di ebbrezza in cui versano le persone sottoposte ad analisi dopo incidenti stradali che le hanno viste protagoniste. Sono invece spesso i superalcolici, che sono cosa ben diversa dal vino, o un mix malefico di beveroni vari e droghe, a causare l’assenza di riflessi, l’appannamento, lo stordimento, in altre parole una condizione fisica del tutto inadatta alla guida di un’autovettura o di una moto, che rendono pericolosissimi, delle vere bombe in movimento, gli incoscienti che si mettono alla guida. E il mondo del vino, che almeno su questioni di basilare importanza come questa potrebbe trovare un’operosa unità d’intenti, dovrebbe pretendere che venissero rese note notizie in grado di distinguere il grano dal loglio e che non mettano il vino in un confuso calderone in compagnia di bevande che sono totalmente diverse. Questo consentirebbe di proporre al lettore-consumatore un’informazione più corretta. In questo modo, ad esempio, “costringendo” il Ministero degli Interni e chi elabora i dati statistici relativi alle cause degli incidenti stradali a chiarire come il consumo eccessivo di vino possa essere rarissimamente definita la causa scatenante di incidenti della strada, non si sarebbe creato il “brodo di cultura” che ha reso possibile e direi quasi “naturale” la pubblicazione di un articolo incredibile apparso sul Corriere della Sera domenica 4 ottobre, dal titolo, ancora più incredibile, di «Quanto vino può bere chi guida? Zero alcol». Articolo pubblicato nello spazio “Pensa la Salute” affidato al curatore del supplemento Salute

È

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Riccardo Renzi. Rispondendo alla seguente lettura di un lettore, “Ho seguito in Tv un dibattito sulla quantità di vino che si può bere prima di guidare. Ho capito che è molto difficile regolare la quantità: mi sembra che la legge sia davvero troppo «cervellotica»”, l’articolista ha risposto: “(…) Argomento in settimana rilanciato da una puntata di Porta a porta, in cui si è disquisito a lungo di grammi di alcol e relativi effetti, su chi “regge” meglio e sulle qualità del vino. Ora forse varrebbe la pena chiarire il senso delle norme che regolano l’assunzione di alcol da parte degli automobilisti: lo “spirito” (è il caso di dirlo) della legge, così come di tutte le analoghe normative in vigore nei principali Paesi, è che non bisognerebbe bere proprio niente prima di mettersi al volante. Questa imposizione è suffragata da un mare di ricerche e studi in tutto il mondo. Se la normativa ammette un “cicchetto” dipende dal fatto che non si vuole essere eccessivamente persecutori, punendo anche i peccati veniali. Ma in realtà non è questione di grammi, di sesso del guidatore o di peso corporeo, il messaggio vero, secondo me, è “zero alcol” per chi guida, visto che comunque è difficile calibrare i reali effetti e la sensibilità dell’etilometro. Quello che invece non riesco a capire è perché il prestigio del vino e il destino dell’industria vinicola sembrano dipendere da questa legge, spesso criticata perché “danneggia l’immagine” di questo importante prodotto italiano. È verissimo che c’è anche la birra e che i superalcolici e i cocktail sono molto peggio, ma nessuno può negare che anche il vino ha un contenuto alcolico. Il buon vino ha cento argomenti per difendere il proprio prestigio, può persino sostenere che in dosi moderate fa bene alla salute. Perché accanirsi contro norme che, in fondo, sono di semplice buon senso?”. Non bastava l’applicazione iperciliosa, rigorosa sin quasi alla persecuzione (ad un caro amico sommelier che si era limitato a condurre in pubblico una degustazione e non aveva certo “bevuto”, è stata ritirata la patente perché i limiti alcolici riscontrati in un controllo erano di 0,6, ovvero di un niente superiore al limite di 0,5 consentito), ora, nel nome di un improbabile rigore contro il “cicchetto”, e perché “è difficile calibrare i reali effetti e la sensibilità dell’etilometro” si vorrebbe chiedere a chi guida di astenersi completamente dal bere. Obietti pure, il purista responsabile delle pagine Salute del Corriere della Sera, che la mia è una difesa corporativa da cronista del vino, ma di fronte a posizioni come la sua, contrarie al buon senso, del tutto indifferenti ai valori economici e culturali del vino, e oggettivamente dannose verso il mondo del vino e della ristorazione e lesive dei diritti di noi moderati consumatori, non posso che ripetere, con tenacia e forza, eh no, io non ci sto proprio!


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